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UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN TECNICHE ARTISTICHE E DELLO SPETTACOLO UN SILENZIO MOLTO RUMOROSO IL TEATRO NELLA LINGUA DEI SEGNI Relatrice: Ch.ma Prof.ssa Elisabetta Brusa Correlatrice: Ch.ma Prof.ssa Carmela Bertone Tesi di laurea di: Raffaella Faccioli Matricola: 799650 Anno Accademico 2009 – 2010

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UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN TECNICHE ARTISTICHE E DELLO SPETTACOLO

UN SILENZIO MOLTO RUMOROSO IL TEATRO NELLA LINGUA DEI SEGNI

Relatrice: Ch.ma Prof.ssa Elisabetta Brusa Correlatrice: Ch.ma Prof.ssa Carmela Bertone Tesi di laurea di: Raffaella Faccioli Matricola: 799650

Anno Accademico 2009 – 2010

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A Francesco e Isabella,

i miei genitori.

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INDICE

Introduzione 1

1. SVILUPPO STORICO E LINGUISTICO 5

1.1 Breve storia dei Sordi ……………………………………........... 5

1.2 Il congresso di Milano del 1880 ...……………………..………… 9

1.3 La nascita dell’identità Sorda .……..…………………..………… 13

1.4 La lingua dei segni ..……………..………………………………. 19 2. RICERCA DI ESPRESSIONI ARTISTICHE IN LINGUA DEI

SEGNI E DISABILITÀ 25

2.1 Alla ricerca di un nuovo linguaggio ….………...…………........... 25

2.2 Due modi di vedere il teatro in lingua dei segni …………………. 29

2.3 Esempi cross-modali e cross-sensoriali in lingua dei segni...…….. 33

2.3.1 Una video-installazione in lingua dei segni …...…………….. 34

2.3.2 Justaucorps: lingua dei segni e mudra ...…...………………... 36

2.3.3 La musica in lingua dei segni …..……...........………..……... 41

2.4 Disabilità: alla ricerca di una nuova estetica tra vecchi e nuovi modelli ……...................................................................................... 46

Conclusioni 55

Ringraziamenti 57

Bibliografia 59

Siti consultati 61

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Un silenzio molto rumoroso. Il teatro nella lingua dei segni

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INTRODUZIONE

La fine del mio percorso scolastico coincide con l’inizio di una ricerca introspettiva,

storica e culturale che interessa la lingua dei segni e il suo utilizzo in ambito teatrale.

Questa ricerca è legata alla mia esperienza di vita. Essendo figlia di genitori Sordi, educati

con il metodo oralista in Istituti religiosi a Verona, mi sono sempre chiesta perché

esistessero due modi di comunicazione tra Sordi e tra Sordi e udenti? Perché alcuni

parlassero ed altri utilizzassero la lingua dei segni? Perché i miei genitori non l’avessero

imparata? Perché ritenevano che questo fosse un bene? E tante tante altre domande

ancora. Il bisogno di scoprire le “origini” dei miei genitori e le mie, la necessità di

lavorare su me stessa, per oltrepassare la barriera della comunicazione che più volte si è

frapposta tra me e i miei genitori e la comunità Sorda, ha fatto si che mi avventurassi in

un mondo che credevo di conoscere e di cui pensavo essere, almeno in parte, membro. La

presunzione di conoscenza che avevo si è sgretolata strada facendo, attraverso la lettura di

testi, l’incontro con persone Sorde, assistendo a rappresentazioni teatrali, con il risultato

di rivelare in tutta la sua violenza la mia completa ignoranza dell’aspetto storico,

dell’evoluzione e dell’acquisizione di una identità Sorda, delle problematiche relative

all’educazione della lingua dei segni, della produzione artistica (poesia, teatro) in lingua

dei segni, della rivendicazione di un riconoscimento ufficiale di quest’ultima. D’un tratto

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il bisogno che avevo di mettere ordine in quella moltitudine di informazioni ha lasciato

posto al caos più totale, come se una sorta di ebrezza culturale ed emozionale fosse

necessaria a far sedimentare e riorganizzare il mio pensiero. Con grande difficoltà,

soprattutto per reperire una documentazione relativa al teatro in lingua dei segni, e con

uno sforzo personale, che mi ha proiettato in ricordi e riflessioni che, chissà per quale

freudiana ragione, avevo confinato in una parte del mio sentire, ho iniziato a riorganizzare

e a ricostruire tutto il mio non sapere.

Per questo il presente lavoro si propone di affrontare tre tematiche: quella storica, quella

relativa alla produzione del teatro in lingua dei segni, in prospettiva “Sorda” e in

prospettiva “udente”, e la disabilità in relazione al corpo.

La prima tematica analizza l’evoluzione storica della comunità Sorda. La sordità ha

ricevuto un’attenzione particolare a causa del complesso rapporto tra linguaggio e

capacità cognitiva, che ha giocato un ruolo determinante nell’educazione dei Sordi. Da

emarginati, i Sordi diventano protagonisti, soprattutto durante l’Illuminismo, di due

metodi di educazione, manualista ed oralista, che avranno diverse ripercussioni sulla

formazione e la diffusione della lingua dei segni. In questa prospettiva storica una data è

fondamentale, quella del 1880 anno in cui il Congresso di Milano sancisce la supremazia

del metodo oralista, a discapito della lingua dei segni che viene completamente bandita.

Quest’anno è importante anche perché contribuisce alla nascita di un’identità Sorda,

sentita come una necessità per differenziarsi dalla comunità udente. La lingua dei segni, in

questo contesto, evolve e continua la sua proliferazione, anche se in clima di clandestinità.

Fino a quando nel 1960 William Stockoe, grazie al suo studio della lingua dei segni, le

attribuisce uno status linguistico al pari delle lingue vocali.

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La seconda tematica tratta del teatro in lingua. Questo prevede due modi di produzione

che presentano finalità diverse. Il primo è quello prodotto dalla comunità Sorda, inteso

come momento di diffusione della cultura Sorda, come mezzo di riconoscimento politico

e sociale rispetto alla comunità udente. Il secondo è quello in cui la lingua dei segni viene

usata come altro linguaggio teatrale, quello tanto caro ad Artaud, teorizzato e descritto in

Il teatro e il suo doppio. Esso si compone di gesti, grida, mimo, danza, un linguaggio del

corpo capace di stimolare i sensi, anziché lo spirito che viene stimolato dalla parola.

L’uso della lingua dei segni consente di stimolare una modalità visivo-gestuale, e non più

acustico-verbale, che si traduce in un nuovo modo di interpretare il silenzio attraverso

modalità cross- sensoriali e cross-modali, attraverso un ascolto definito da Kanta

Kochhar-Lindgren “terzo orecchio”. Verrano, in quest’ottica, analizzati tre modi di

utilizzare la lingua dei segni: una video-installazione, uno spettacolo che associa la danza,

la lingua dei segni e le mudra del kathakali, e una canzone in lingua dei segni.

La terza e ultima parte tocca il problema della disabilità, dove l’oggetto non è più il

disabile, ma il processo che ha determinato l’attuale visione della disabilità. Si cercherà di

dimostrare come esso sia il frutto di un modello convenzionale, legato a fattori politici,

storici, culturali ed economici. Allontanadosi dalla classica visione, si prospetta un nuovo

modello di bellezza.

In questo clima di scambio culturale, tra Comunità Sorda e udente, si richiamano delle

riflessioni di antropologia teatrale, nella quale il rapporto indissolubile dell’attore e della

danza è la forza dell’unione, la combinazione di opposti che fa vibrare l’energia, dove

l’interculturalismo è fonte di scambio, di arricchimento, di riflessione, proprio come deve

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essere fra questi due mondi, che per molto tempo hanno vissuto di rapporti conflittuali, e

poco produttivi.

Nel rispetto della letteratura Sorda si userà la S maiscula per indicare i Sordi intesi come

comunità dotata di una lingua e cultura propria, mentre la s minuscola sarà utilizzata per i

non appartenenti e in riferimento ad un modello medico.

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1. SVILUPPO STORICO E LINGUISTICO

1.1 BREVE STORIA DEI SORDI

La storia dei Sordi è fatta di tanti protagonisti: filosofi, linguisti, storici, medici, religiosi,

educatori. È lo specchio di un complesso rapporto tra Sordi e udenti, di come lo sguardo

sulla sordità abbia generato delle interpretazioni sul rapporto tra udito e linguaggio

articolato. L’impossibilità per i Sordi di produrre suoni, per molto tempo, è equivalsa

all’incapacità di esprimere i propri pensieri. In questo modo i Sordi vengono catalogati

come handicappati, ritardati mentali, messi ai margini della società, perchè esseri privi di

intelligenza. L’incapacità di sentire e parlare è un vincolo. L’inserimento nella società

diventa cosa difficile, possibile, per alcuni, solo ed esclusivamente attraverso

l’insegnamento della parola, a discapito dei segni, mero residuo selvaggio dell’uomo.

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Della sordità e dei Sordi si parla nell’antichità, Platone, nel Cratilo, fa parlare Socrate con

Ermogene:

SOCRATE Rispondi a questa domanda: se non avessimo voce né lingua e volessimo a vicenda manifestarci

le cose, non cercheremmo forse, come ora i muti, di significarle con le mani, con la testa e con le altre

membra del corpo?

ERMOGENE E come si potrebbe diversamente, o Socrate?

SOCRATE Se poniamo volessimo indicare l’in su e il leggero leveremmo, credo, le mani verso il cielo

cercando di imitare la natura medesima dell’oggetto; e se, al contrario, l’in giù e il grave, le abbasseremmo

verso la terra. E se volessimo indicare o un cavallo nell’atto di correre o un altro animale qualsiasi, sai bene

che cercheremmo, di raffigurarli il meglio possibile col nostro corpo e con i nostri gesti (Cratilo, 422eı-

423bıο)1.

Aristotele fa una considerazione molto importante, si accorge che le persone sorde dalla

nascita sono anche mute, a causa del fatto che non sentono le parole, e quindi non

riescono a riprodurle. La mal interpretazione di quanto detto da Aristotele fa nascere la

convinzione che ai Sordi sia preclusa la possibilità di formulare i propri pensieri.

I Sordi sono esclusi dalla capacità di fare testamento, di stipulare contratti, di rendere

testimonianza. Il diritto romano prevede, nel Corpus Iuris Iustinianus (531 d.C.), il

godimento di questi diritti solo se capaci di scrivere, cosa impossibile, all’epoca, per la

quasi totalità dei Sordi.

1 RUSSO CADORNA TOMMASO, VIRGINIA VOLTERRA, Le lingue dei segni. Storia e semiotica,

Carocci Editore, Roma, 2007, p. 18.

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Nel Medioevo i Sordi sono tacciati di mancanza di fede: la voce e l’orecchio restano i soli

canali attraverso i quali l’uomo e Dio possono entrare in relazione (“In principio era il

verbo”).

Dal ‘500 inizia a diffondersi il cosidetto metodo oralista, si crede nella possibilità di

insegnare la parola ai Sordi. Si diffondono diversi metodi ed illustri personaggi acquistano

fama e prestigio. Il più importante all’epoca fu un religioso, Ponce de León (1573-1633),

che adottò un metodo basato sull’uso di un alfabeto particolare, che veniva

rappresentato su delle tavole e legato a speciali configurazioni delle mani. Sono

soprattutto le famiglie aristocratiche che si rivolgono ai nuovi maestri, visto che gli eredi

Sordi per poter beneficiare del loro patrimonio sono ancora sottoposti alla condizione del

Corpus Iuris Iustinianus.

La risposta al metodo oralista arriva nel ‘700. L’Illuminismo è l’epoca in cui ci si accorge

che i segni costituiscono il mezzo naturale e fondamentale per far uscire dall’isolamento e

l’emarginazione i Sordi. Condillac si interessa al rapporto tra sensi e linguaggio mentre

Diderot vede la lingua dei segni non soltanto come mezzo di espressione dei pensieri, ma

la valuta anche nel suo aspetto estetico. La sequenzialità della lingua dei segni permette di

spiegare il legame tra i sensi e le altre forme di rappresentazione come poesia, pittura,

scultura2.

Ma il Settecento è legato soprattutto alla figura dell’abate de l’Epée (1712-1789) e alla

nascita del primo Istituto per Sordi, l’Institut National des Sourds-muets di Parigi (1760).

L’incontro casuale con due sorelle gemelle sorde, le quali comunicavano tra loro con un

2 RUSSO CADORNA TOMMASO, VIRGINIA VOLTERRA (2007), Le lingue dei segni. Storia e

semiotica, Carocci Editore, Roma, p. 24.

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sistema gestuale molto complesso, spinge l’abate de l’Epée ad elaborare un metodo di

insegnamento basato sui cosidetti segni metodici composti da gesti naturali, che aveva

imparato osservando i Sordi, e da segni grammaticali che indicavano il tempo, le persone,

i generi, le funzioni. Questi segni non erano la vera e propria lingua dei segni, che già era

presente e circolava tra i Sordi dell’epoca. Erano piuttusto la traduzione segnata della

lingua francese e risultava assai complessa. Per esprimere una frase con i segni metodici

si impiegavano più segni che con la lingua parlata dai Sordi. Per fare un esempio, la

parola “inintelliggibile” era composta da cinque segni con il metodo di de l’Epée, mentre i

Sordi ne usavano solo due3. Ciò nonostante, la rilevanza di questo insegnamento,

consacrò la fama dell’abate de l’Epée e dei suoi successori (Sicard, Bebin, Massieu,

Bertier, Clerc). Per la prima volta i Sordi potevano ricevere una forma di educazione.

Accanto ai segni metodici i Sordi utilizzavano dei segni che avevano sintassi e

grammatica più vicini alla vera lingua dei segni attuale. Numerosi educatori provenienti

da tutto il mondo vennero a Parigi ad imparare il metodo, che arrivò in America grazie a

Laurent Clerc, il quale insieme a Thomas Gallaudet fondò un Istituto per Sordi, che ora è

la prima e unica Università per Sordi, la Gallaudet University. Questo favorì una rapida

ed importante espansione del metodo manualista. Comunque, la contrapposizione con il

metodo oralista restò. Jacob Rodrigue Pereire (1715-1780), l’antagonista dell’abate de

l’Epée, era a sua volta molto famoso. Anch’egli, come del resto accadeva all’Institut

National des Sourds-muets di Parigi, non mancava di esibire i propri allievi per

dimostrare l’efficacità del proprio metodo. Ma a differenza dell’abate dell’Epée, Pereire

3 LANE HARLAN, When the mind hears. A history of the Deaf, trad.fr. Quand l’esprit entend. Histoire des

Sourds-muets, Édition Odile Jacob, Paris, 1984, pp. 77-78, traduzione personale.

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non solo non seppe trasmettere il proprio metodo, che era considerato come un segreto di

famiglia da costudire gelosamente. Ma, soprattutto, non ebbe quel riconoscimento

politico, che ebbe invece l’abate dell’Epée da parte del Re di Francia Luigi XVI.

L’espansione del metodo manualista dell’abate de l’Epée fu enorme e proliferò in Europa

fino alla fatidica data del Congresso di Milano.

1.2 IL CONGRESSO DI MILANO DEL 1880

La gloria del sistema manualista trova la sua battuta d’arresto con il Congresso di Milano.

Esso rappresenta un momento estremamente importante per capire l’evoluzione storica

della lingua dei segni e la conseguente nascita di un’identità Sorda. Si tenne dal 6 all’11

settembre 1880. Nel Regio Istituto tecnico di Santa Marta si trovavano diversi educatori

provenienti da varie parti del mondo (Italia, Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti)

per discutere quale metodo utilizzare nell’educazione dei Sordi. Le modalità proposte

erano l’insegnamento della lingua dei segni, l’insegnamento orale o l’insegnamento

misto.

Il dibattito fu molto animato, anche perché il Congresso di Milano partiva già con un

orientamento preferenziale per il metodo oralista, in linea con il precedente Congresso di

Parigi del 1878.

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L’anticipazione divenne scelta, e al termine del Congresso di Milano, le otto risoluzioni

sancirono l’imposizione del metodo oralista negli Istituti:

1. Il Congresso, considerando la non dubbia superiorità della parola sui gesti per restituire il sordomuto alla

società e dargli una perfetta conoscenza della lingua, dichiara che il metodo orale deve essere preferito a

quello mimico per l’educazione e l’istruzione dei sordomuti.

2. Il Congresso, considerando che l’uso simultaneo della parola e dei gesti mimici ha lo svantaggio di

nuocere alla parola, alla lettura sopra la labbra ed alla precisione delle idee, dichiara che il metodo orale deve

essere preferito.

3. Il Congresso, considerato che un gran numero di sordomuti non riceve il beneficio dell’istruzione, e che

questo fatto proviene dall’impotenza delle famiglie e degli istituti, fa voti che i Governi prendano le

necessarie disposizioni, affinché tutti i sordomuti possano essere istruiti.

4. Il Congresso, considerando che l’insegnamento dei sordi parlanti, per mezzo del metodo orale puro, si

deve avvicinare, più che è possibile, a quello degli udenti parlanti, dichiara:

a) che il mezzo più naturale e più efficace per quale il sordo parlante acquisterà la conoscenza della lingua è

il metodo oggettivo, quello cioè che consiste ad indicare prima colla parola, poi colla scrittura, gli oggetti e i

fatti presenti agli allievi;

b) che nel primo periodo detto materno devesi avviare l’allievo alla osservazione delle forme grammaticali

per mezzo di esempi e di esercizi pratici coordinati, e che nell’altro periodo si vuol aiutarlo a dedurre da tali

esempi i precetti grammaticali espressi con la più grande semplicità e chiarezza possibile;

c) che i libri scritti con parole e forme linguistiche conosciute dall’allievo possono esser messe in ogni

tempo fra le mani di lui.

5. Il Congresso, considerando la mancanza di libri elementari per favorire lo sviluppo graduato e progressivo

della lingua, fa voti che i maestri dell’insegnamento orale attendano alla pubblicazione di libri speciali.

6. Il Congresso, considerando i risultati avuti per mezzo di molti esperimenti fatti sopra sordomuti di tutte le

età e di tutte le condizioni, i quali benché avessero lasciato i loro istituti da lungo tempo, interrogati sulle più

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diverse materie, risposero con esattezza e con bastevole chiarezza d’articolazione, e lessero sulle labbra dei

loro interlocutori colla più grande facilità, dichiara:

a) che i sordomuti istruiti col metodo orale puro non dimenticano, dopo essere licenziati dalla scuola, le

cognizioni che essi vi hanno acquistate, ma anzi le svolgono per mezzo della conversazione e della lettura

che sono rese più facili;

b) che nelle loro conversazioni coi parlanti essi si servono della parola esclusivamente;

c) che la parola e la lettura sulla labbra, non che perdersi, si svolgono coll’esercizio;

7. Il Congresso, considerando che l’insegnamento dei sordomuti per mezzo della parola ha particolari

esigenze; considerato i dati dell’esperienza delle quasi unanimità degli istruttori dei sordomuti; dichiara:

a) che l’età più adatta perché il sordomuto sia ammesso in una scuola, è quella dagli 8 ai 10 anni;

b) che la durata degli studi deve essere di 7 anni almeno o meglio, di 8 anni;

c) che un professore non può insegnare efficacemente col metodo orale puro a più di 10 allievi;

8. Il Congresso, considerando che l’applicazione del metodo orale puro negli istituti dove esso non è ancora

in vigore deve essere prudente, graduata e progressiva, se no si corre pericolo di farvi danno. È d’avviso:

a) che gli allievi venuti di recente nelle scuole formino una classe a parte, nella quale l’insegnamento sia

dato per mezzo della parola;

b) che questi allievi siano assolutamente separati dagli altri sordomuti, che per essere troppo innanzi non

possono essere più istruiti col mezzo della parola, e la cui educazione si vuol terminare col mezzo dei gesti;

c) che ogni anno sia istituita nella scuola una nuova classe di parola, fino a tanto che tutti gli allievi di prima

istruiti colla mimica, abbiano terminato la loro educazione4.

Tutti gli educatori Sordi vennero licenziati e la lingua dei segni venne bandita. La ripresa

testuale delle otto risoluzioni del Congresso mette in luce come il presupposto che voleva

una miglior educazione e sviluppo psico-linguistico del Sordo ebbe, nel tempo, l’effetto

inverso. Aver sostituito la lingua “naturale” con una “contro natura” come l’insegnamento

4 http://www.storiadeisordi.it/articolo.asp?ENTRY_ID=137, ZATINI FRANCO, La “storica” sentenza del

Congresso Internazionale degli Educatori dei Sordi in Milano 1880, consulato il 15 gennaio 2010.

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della parola, ha avuto drammatiche conseguenze tanto sul piano dell’educazione dei

Sordi, tanto su quello della loro alfabetizzazione. Uno studio eseguito nel 1972

dall’Università Gallaudet, negli Stati Uniti, dimostra come i Sordi americani, che avevano

conseguito un diploma di scuola media superiore, avessero un livello di lettura che

corrispondeva a quello di un alunno delle elementari5. La rieducazione orale è un lungo e

complesso lavoro che prevede un investimento di molti anni, senza garanzia di successo.

Invece, l’apprendimento della lingua dei segni avviene in modo rapido e naturale come in

tutte le lingue materne e soprattutto senza traumi.

Alcuni estratti del libro di Emmanuelle Laborit sottolineano queste ultime affermazioni,

che costituiscono solo uno dei tanti esempi di quanto detto finora, anche a distanza di più

di cent’anni:

A scuola mi hanno insegnato il mio nome. Emmanuelle. Ma Emmanuelle è un’altra persona. Un doppione.

Quando parlo di me dico “Emmanuelle non sente”, “Emmanuelle ha fatto questo, o ha fatto quello”.

Convivo con l’Emmanuelle sorda, e cerco di parlare per lei, come se fossimo due. So dire qualche parola,

alcune le pronuncio bene, altre no. Appoggio la mano sulla gola dell’ortofonista per sentire le vibrazioni

della pronuncia (...) Ripetiamo la stessa parola per delle ore. Imito quello che vedo sulle sue labbra (...) È

faticoso, ripetiamo una parola dietro l’altra, senza che capisca niente. Un esercizio di gola. Un metodo da

pappagallo. I sordi non riescono ad articolare, è una bugia affermare il contrario. E quando ci riescono,

l’espressione resta limitata.

5 SACK OLIVER, Seeing Voices. A journey into the World of the Deaf, University of California Press, trad.

fr. Des yeux pour entendre. Voyage au pays des sourds, Editions du Seuil, Paris, 1990, p. 64, traduzione personale.

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Un silenzio molto rumoroso. Il teatro nella lingua dei segni

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Fino a quel momento parlavo di me come di qualcun altro, una persona che non ero “io”. Dicevo sempre:

“Emmanuelle è sorda”. Era: “Non ti sente, non ti sente”. Non c’era la parola “io”. Ero “lei” (...) Ma

Emmanuelle sorda non sapeva che era “io”(...) L’ha scoperto con la lingua dei segni, e adesso lo sa.

Emmauelle può dire: “Mi chiamo Emmanuelle”. Questa scoperta è la felicità. Emmanuelle non è più quel

doppione a cui dovevo spiegare con fatica i bisogni, le voglie, i rifiuti, le angosce. Scopro il mondo che mi

circonda, e ne sono parte6.

1.3 LA NASCITA DELL’IDENTITÀ SORDA

Il clima di clandestinità in cui la lingua dei segni continua ad essere utilizzata dai Sordi,

contribuisce alla nascita e al consolidamento dell’identità Sorda. La lingua dei segni

rappresenta il primo elemento di identificazione delle persone Sorde, inteso nel duplice

senso: come mezzo di riconoscimento tra Sordi e come mezzo di riconoscimento tra Sordi

e udenti. Il processo di affermazione dell’identità sorda si inserisce in un momento storico

particolare, favorevole ai principi dell’individualismo, dell’autodeterminazione dei

popoli, del mito della nazione:

Parlare del concetto di identità significa affrontare una serie di paradossi. Un primo paradosso consiste nel

fatto che l'identità indica ciò che ci distingue dagli altri, e nello stesso tempo, ciò che ci rende simili a loro o 6 LABORIT EMMANUELLE, Le crie de la mouette, Editions Robert Laffont, Paris, 1994, pp. 49-50.

Traduzione personale. Emmanuelle Laborit è un’attrice sorda, attualmente anche direttrice del teatro IVT (International Visual Theatre) a Parigi.

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a taluni tra loro. L'identità rinvia tanto allo specifico quanto all'identico, tanto al simile quanto al dissimile,

tanto alla differenza quanto alla somiglianza. Da un lato, essa risponde a una logica di definizione del

soggetto («chi sono?»), dall'altro a una logica di appartenenza («su cosa si fonda la mia socievolezza?»). Nel

primo caso, dice in che cosa differisco da ognuno che non sia me. Nel secondo, fonda il legame sociale che

mi unisce a tutti coloro che condividono gli stessi valori simbolici, le stesse pratiche sociali, le stesse forme

di linguaggio. Il concetto di identità si articola in modo dialettico con l'interfaccia dell'appartenenza e della

singolarità7.

Uno degli aspetti più significativi della società del XIX è la percezione dell’alterità.

L’inizio del secolo offre uno sguardo nuovo sull’Altro. Ci si accorge dell’esistenza

dell’Altro, della sua differenza. Nuove discipline nascono e studiano l’uomo come

individuo, slegato dal gruppo, non sempre con benefici risultati. La medicina, per

esempio, vede e tratta i Sordi come degli individui a cui manca qualcosa e che bisogna

assolumente curare. Si cerca di assimilarli agli udenti, di guarire quello che si considera

una malattia, cercando ogni mezzo per farli sentire. Un esempio emblematico fu il Dott.

Itard, divenuto celebre non soltanto per essersi occupato del bambino selvaggio dell’

Aveyron, presso l’Istituto dei Sordi di Parigi, ma anche per tutta la serie di esperimenti a

cui i Sordi furono sottoposti: perforazione del cranio, apertura dei timpani con olio

bollente, utilizzo della tristemente famosa sonda Itard. Tutto questo per cercare di

cancellare la loro differenza. Nel fermento scientifico dell’epoca i Sordi non sono esclusi

dall’opera di classificazione. Se, ad esempio, la donna viene considerata come essere

naturale per il fatto di generare la vita attraverso la maternità, così i Sordi vengono visti e

7 http://www.opifice.it/content/view/40/50/, de Benoist Alain, Libertà, eguaglianza, identità, Osservatorio

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Un silenzio molto rumoroso. Il teatro nella lingua dei segni

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catalogati come appartenenti alla categoria delle persone particolari. L’alterità si crea

osservando, classificando, confrontando.

Inoltre, a partire dal 1880 in Italia, Francia e Germania si rafforza l’idea di nazione, tanto

che da un “primo nazionalismo”, inteso nel periodo del Risorgimento come sentimento di

nazionalità volto alla liberazione dall'oppressione dello straniero, si auspica il passaggio

ad un “secondo nazionalismo”, in cui emergono le pretese imperialistiche nei confronti

delle altre potenze. In questo clima la visione dell’Altro diventa un non senso, non ha più

ragione d’essere. Ma questa unità non è forse rinforzata dalla necessità di eliminare le

differenze attraverso la coesione nazionale? Questo costituisce un secondo paradosso,

l’individualismo e il nazionalismo come possono coesistere?

Il "grande disagio" della modernità ha a che vedere con la cancellazione o con la messa al bando delle

differenze, e quindi delle identità. Nel contempo, però, il problema dell'identità si pone soltanto a partire dal

momento in cui l'individuo può costituirsi in fonte sufficiente di determinazione di sé. Ciò significa che

l'interrogativo attinente l'identità nasce sia dalla cancellazione delle differenze, sia dallo sboccio dell'ideale

dell'espressione del sé. La domanda di identità è una domanda antimoderna, nella misura in cui la modernità

continua incessantemente ad estendere l'indistinzione, ma si esprime nelle categorie - irreversibili - della

modernità: la preoccupazione per il sé8.

L’Altro, la persona diversa, non deve essere visibile. La lingua dei segni, che per sua

natura è visivo-gestuale, designa o stigmatizza la persona che la utilizza. Segnare in

pubblico è affermare chiaramente la propria diversità, rivendicarla. Da qui il rifiuto di

questa lingua così particolare. 8 http://www.opifice.it/content/view/40/50/, de Benoist Alain, Libertà, eguaglianza, identità, Osservatorio –

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In questo contesto di scoperta dell’Altro e di volontà di accumunare le persone diverse

nell’unità nazionale, l’esistenza della lingua dei segni può essere un pericolo per l’unità

stessa. La lingua dei segni è una lingua autonoma, che non si basa sull’italiano, ha una sua

sintassi, grammatica e vocaboli propri. È esistita da sempre e rappresenta la lingua

naturale dei Sordi.

Come osserva il filosofo tedesco Herder (1744-1803) nella lingua di un popolo “risiede

tutto il suo pensiero, la sua tradizione, la sua storia, la sua religione e il suo modo di

imparare la vita, tutto il suo cuore e la sua anima”9. Per i Sordi è chiaro che la comunità si

riconosce dall’uso della lingua dei segni. In questo modo la costruzione della loro identità

avviene nello sguardo che hanno su di sé, riconoscendosi uguali grazie all’uso della

propria lingua. Ma anche, in modo complementare, con lo sguardo che la comunità ha sui

suoi membri. La lingua dei segni fortifica la comunità dei Sordi. Per questo nasce

l’esigenza di nascondere questa lingua così chiaramente diversa, simbolo essa stessa di

un’alterità.

La questione della sordità trattata da Bell, lo stesso Bell inventore del telefono, lo stesso

Bell che aveva madre e moglie sorde, è un’altra insidia nell’accettazione della diversità.

Bell è un sostenitore della teoria eugenetica. Il termine eugenetica deriva dal greco eu, che

significa buono, e genos, ossia razza. Venne coniato nel 1883 da uno scienziato inglese di

nome Francis Galton, profondo conoscitore delle teorie darwiniane. Secondo Galton la

società umana era resa impura da componenti irrimediabilmente imperfetti, come i

9 SACK OLIVER, Seeing Voices. A journey into the World of the Deaf, University of California Press, trad.

fr. Des yeux pour entendre. Voyage au pays des sourds, Editions du Seuil, Paris, 1990, p. 207, traduzione personale.

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ritardati mentali, gli handicappati, i sordi, i ciechi, ma anche coloro che avevano regole

morali discutibili, come gli alcolizzati. Il compito della società era di intervenire, anche

con la forza, per eliminare questi individui ed evitarne la riproduzione. Nello scritto

Memoir upon the Formation of a Deaf Variety of the Human Race, presentato

all’Accademia Nazionale delle Scienze nel 1883, Bell afferma che l’uso della lingua dei

segni crea una comunità, e in questa comunità i Sordi si sposano e si riproducono tra di

loro, costituendo un problema per la società. Bell sostiene che la proliferazione dei

matrimoni tra sordi congeniti fa aumentare, di generazione in generazione, il numero dei

bambini sordi, fino a che la quasi totalità dei bambini nascerà sorda. Queste famiglie

sarebbero parte di una specie della razza umana nella quale la sordità sarebbe una regola e

non un’eccezione. Per eliminare questa “razza” si aggiunge la pratica della sterilizzazione

dei Sordi in diversi Stati americani. Il vero motivo, che spinge Bell a usare questi mezzi

drastici, risiede nella volontà di cancellare l’uso della lingua dei segni e tutte le

implicazioni legate all’accettazione di una diversità. Non sorprende, quindi, che la teoria

eugenetica costituì il modello delle leggi naziste in Germania, con tutte le conoseguenze

tristemente conosciute.

Ma la fine dell’Ottocento è rappresentata anche dal colonialismo. Le motivazioni che

leggittimano il bisogno di “civilizzare i selvaggi” nascondono un paradosso. I colonizzati

non sono considerati come diversi, non sono accettati per loro differenze culturali o

religiose:

Già la decolonizzazione, dopo il 1945, aveva avuto quale motore essenziale la negazione del riconoscimento

della personalità specifica dei colonizzati, e di conseguenza la loro volontà di affermare un'identità collettiva

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minacciata non solo da un potere politico-economico dominante ma da un'eterocultura imposta. Contro la

negazione o l'oblio di un proprio passato, essa è pertanto andata di pari passo con la riappropriazione di una

memoria10.

Nello stesso tempo, un altro paradosso si cela nel giustificare la proibizione dell’uso della

lingua dei segni. L’idea di permettere ai Sordi di essere liberi, perché non più

stigmatizzati dalla lingua dei segni, integrati nella società grazie alla pratica dell’italiano

orale, o liberi nell’identità perché in relazione con gli altri, ha come conseguenza la

negazione della loro specificità, la non accettazione della loro diversità. In quest’ottica i

Sordi scelgono di identificarsi come società specifica, rivendicano la loro differenza,

quella di non sentire, e quindi di non essere identitici agli udenti. Rivendicano l’uso della

lingua dei segni e non l’italiano orale. Auspicano che l’educazione dei Sordi sia in lingua

dei segni. Rivendicano dei diritti civili, come quello di potersi sposare tra di loro senza

l’assenso di un udente. Per tutto il XIX secolo cercano di far riconoscere le loro differenze

attraverso degli atti concreti di vita sociale. I Sordi si mettono in alterità e reclamano il

rispetto della differenza, dell’Altro.

La rivendicazione dell'identità appare così come il terzo elemento di un trittico storico: prima si è chiesta la

libertà, poi l'eguaglianza e infine l'identità. Le società contemporanee evolvono verso un pluralismo

crescente, che si traduce nell'emergere di una pluralità di identità. Le rivendicazioni legate all'identità

(linguistiche, etnoculturali, religiose, sessuali e così via) fioriscono da ogni parte, alimentando dibattiti

appassionati. Queste rivendicazioni non aspirano soltanto alla dignità nell'eguaglianza, ma prima di tutto ad

10 http://www.opifice.it/content/view/40/50/, de Benoist Alain, Libertà, eguaglianza, identità, Osservatorio –

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un riconoscimento che ormai non si può più confinare nello spazio privato. L’ingiustizia per eccellenza non

risiede più soltanto nelle "ineguaglianze", ma anche nel rifiuto di riconoscere le identità, reali o postulate11.

1.4 LA LINGUA DEI SEGNI

La lingua dei segni è una lingua visivo-gestuale e costituisce la lingua naturale dei Sordi.

Parlando di lingua dei segni è necessario fin da subito fare una distinzione tra segno e

gesto. Il gesto è l’espressione fisica di un concetto, spontaneo, universale e copre una

ristretta gamma di significati molto semplici: mangiare, bere, dormire, io, tu, ecc. I gesti

sono intelligibili e patrimonio naturale dell’essere umano. Per dare l’idea di cosa sia un

gesto pensiamo, ad esempio, a quando ci troviamo in un Paese straniero e non

conosciamo la lingua del posto. In quel caso che fare per chiedere un’informazione o, più

semplicemente, comperare un panino o bersi un caffè? Si cercherà di mimare con dei

gesti, appunto, il fatto di voler mangiare, o di bere un caffè. Ci si porterà un invisibile

panino alla bocca, oppure, nel caso del caffè, un’ipotetica tazzina.

Il segno, invece, è una realtà grammaticale e concettuale complessa che si compone,

nelll’accezione di Ferdinand de Saussure -padre della linguistica del Novecento- di due

componenti indissolubili: significante e significato. Proprio come un foglio è formato da 11 http://www.opifice.it/content/view/40/50/, de Benoist Alain, Libertà, eguaglianza, identità, Osservatorio –

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un fronte e un retro, e l'uno non può esistere senza l'altro, così un segno è ciò che risulta

dalla combinazione del significante, la parte del segno che si percepisce con i sensi, e del

significato, il concetto che viene richiamato. Egli parla di "immagine acustica" per il

significante e di "concetto" per il significato. La più importante caratteristica del segno

individuata da de Saussure è l'arbitrarietà. Un segno è arbitrario in quanto non esiste

nessuna ragione particolare per cui un determinato significante debba richiamare alla

mente un determinato significato: la loro correlazione è una convenzione.

L’individuazione del rapporto tra significante e significato permette di distinguerlo da

altri modi di comunicazione non linguistici come la pantomima, i gesti o i cartelli stradali

e di spiegare le differenze fra le varie lingue, ad esempio la differenza tra cane, chien e

dog, significanti rispettivamente in italiano, francese e inglese di un medesimo significato,

il concetto di "cane".

Fu William Stokoe in The sign language structure (1960) ad interessarsi allo studio della

lingua dei segni. Prima di allora essa non era considerata da un punto di vista linguistico e

semiotico come una lingua vera e propria. Stokoe era convinto che i segni non erano delle

immagini ma dei simboli astratti con una complessa struttura interna. Analizzandoli,

scomponendoli e ricomponendoli per cercare gli elementi costitutivi, egli riesce a

dimostrare che la lingua dei segni si compone delle stesse proprietà delle lingue vocali,

attribuendole così uno vero e proprio status linguistico.

La formazione di un segno, nella lingua dei segni, si compone di quattro parametri,

chiamati cheremi, contrapposti ai fonemi delle lingue vocali:

• luogo, ovvero lo spazio dove si esegue il movimento delle mani (spazio segnico);

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• configurazione, ovvero la forma che la mano assume nell’eseguire il segno;

• orientamento, ovvero la posizione del palmo della mano rispetto a colui che

segna;

• movimento, ovvero come si muovono nello spazio la mano, il braccio, il polso e le

dita

Tutte le lingue dei segni presentano una lista finita di questi elementi appartenenti ai

quattro parametri. In LIS (Lingua Italiana Segni) per esempio, abbiamo 16 luoghi, 56

configurazioni, 6 orientamenti e 40 movimenti.

La formazione di un segno si accompagna, inoltre, di componenti non manuali: quali ad

esempio la posizione del busto, delle spalle, l’espressione facciale, l’articolazione con la

bocca di componenti orali e lo sguardo dei segnanti12.

Dal punto di vista sintattico, la lingua dei segni segue una costruzione diversa rispetto alle

lingue vocali. Il classico ordine soggetto, verbo, oggetto (SVO) è sostituito dalla

costruzione soggetto, oggetto, verbo (SOV), oppure costruzioni dove l’oggetto, ovvero il

topic, tende ad essere messo in primo piano. Per fare un esempio, la frase: IO MANGIO

LA PIZZA, in lingua dei segni sarà: IO PIZZA MANGIO, oppure PIZZA IO

MANGIO13.

Un’altra caratteristica importante della lingua dei segni è la simultaneità rispetto alle

lingue vocali. L’espressione di un concetto avviene grazie alla partecipazione simultanea 12RUSSO CADORNA TOMMASO, VIRGINIA VOLTERRA, Le lingue dei segni. Storia e semiotica,

Carocci Editore, Roma, 2007, p. 61 13RUSSO CADORNA TOMMASO, VIRGINIA VOLTERRA, Le lingue dei segni. Storia e semiotica,

Carocci Editore, Roma, 2007, p. 76

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di tutti questi elementi, contrariamente a quanto accade con una lingua vocale che per

esprimere un concetto usa piuttosto una connotazione sequenziale. Il diverso utilizzo dello

spazio e la diversa importanza attribuitagli è uno degli elementi più importanti della

lingua dei segni. Infatti possiamo dire che in tutti i suoi livelli, lessicale, grammaticale o

sintattico, si può parlare di un uso linguistico dello spazio. L’apparente semplicità dei

segni, riconducibili al mimo o ai gesti, svela la complessità delle configurazioni spaziali.

Stokoe afferma, a tal proposito, che la lingua dei segni è una lingua quadrimensionale:

La lingua vocale ha una sola dimensione, il suono esteso nel tempo; la scrittura ha due dimensioni; i modelli

ne hanno tre; ma solo le lingue gestuali dispongono di quattro dimensioni, le tre dimensioni spaziali

accessibili al corpo del segnante, ma anche la dimensione temporale. E i segni sfruttano pienamente le

possibilità sintattiche nel loro modo di espressione quadrimensionale14.

Questo assume una rilevanza particolare per coloro che utilizzano la lingua dei segni in

ambito teatrale o poetico, in quanto la lingua dei segni assume una connotazione

“cinematografica”. Infatti, in particolari momenti del discorso, dove è necessario illustrare

con maggior forza visiva una situzione, oppure in particolari momenti narrativi,

l’impersonamento del segnante si avvicina ai principi del montaggio cinematografico:

Nella lingua dei segni (...) il racconto non è più lineare e prosaico. La lingua è essenzialmente tagliata, passa

continuamente da un punto di vista normale ad un primo piano, poi da un piano sequenza ad un primo piano,

includendo delle scene con zoom in avanti o indietro, esattamente come avviene nel montaggio dei film (...)

14STOKOE WILLIAM, Syntactic Dimensionality: Language in Four Dimension presentato all’Accademia

delle Scienze a New York, 1979, in SACKS OLIVER, Seeing Voices. A journey into the World of the Deaf, Univeristy of California Press, trad. fr. Des yeux pour entendre. Voyage au pays des Sourds, Editions du Seuil, Paris, 1990, p. 155, traduzione personale.

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Non soltanto la disposizione dei segni rimanda al film più che ad una narrazione scritta, infatti ogni segnante

è posto come una telecamera: il campo di vista e l’angolo sono diretti ma variabili 15.

La lingua dei segni non è una lingua universale come crede la più parte della gente. Ogni

Paese possiede la propria: si parla, per esempio, di LIS (Lingua Italiana Segni), di LSF

(Langue des Signes Française), di ASL (American Sign Language) e così via. Nonostante

le differenze la comprensione e l’apprendimento delle altre lingue dei segni è più

semplice rispetto alle lingue vocali, essendo molto simili tra loro. Un esempio di

dattilologia nelle tre lingue dei segni sopra citate è riportato nella figura 1.

Infine, è importante sottolineare come in alcuni Paesi la lingua dei segni non abbia ancora

ricevuto un riconoscimento ufficiale. In Italia, per esempio, si sta ancora lottando per

ottenerlo. È notizia di qualche settimana fa dell’ulteriore battuta d’arresto

dell’approvazione del disegno di legge n. 37 che ne chiedeva il riconoscimento.

15 STOKOE WILLIAM, Syntactic Dimensionality: Language in Four Dimension presentato all’Accademia

delle Scienze a New York, 1979, in SACKS OLIVER, Seeing Voices. A journey into the World of the Deaf, Univeristy of California Press, trad. fr. Des yeux pour entendre. Voyage au pays des Sourds, Editions du Seuil, Paris, 1990, p. 155, traduzione personale.

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Figura 1: in alto a sinistra dattilologia in LIS (Lingua Italiana Segni) , in alto a destra dattilologia in ASL

(American Sign Language), in basso dattilologia in LSF (Langue des Signes Française).

Fonte:http://www.google.fr/images?q=dattilologia&oe=utf-8&rls=org.mozilla:fr:official&client=firefox- a&um=1&ie=UTF-8&source=og&sa=N&hl=en&tab=wi

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2. RICERCA DI ESPRESSIONI ARTISTICHE IN

LINGUA DEI SEGNI E DIASABILITÀ

2.1 ALLA RICERCA DI UN NUOVO LINGUAGGIO

L’ossimoro del titolo di questa tesi di primo acchito potrebbe sembrare un semplice

contrasto stilistico, una figura retorica, un bel titolo per impressionare il lettore. Letto in

chiave teatrale, invece, esso traduce semplicemente quello che i maggiori esponenti del

XX secolo riportano nei loro scritti. Barba lo definisce il principio dell’opposizione16,

quella ricerca di tensioni di forze contrapposte che il corpo dell’attore deve offrire allo

spettatore. Il teatro, in questo senso, è la rappresentazione di due polarità: il teatro

occidentale e il teatro orientale, il sats: l’impulso e controimpulso, l’animus e l’anima, il

16 BARBA EUGENIO, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Il Mulino, Bologna, 1993, p.

43.

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gesto e la parola, il sordo e l’udente, il silenzio e il rumore. La contrapposizione costante.

Nel bisogno di rompere con gli schemi del passato, con un classicismo che non ha più

ragione d’essere, “di finirla con les chefs d’œuvre che non rispondono più ai bisogni del

tempo”, per dirla all’ Artaud, si cercano nuovi mezzi espressivi capaci di offrire delle

percezioni che stimolino tutti i sensi, modalità di rappresentazione che usino altre forme

di linguaggio. Il corpo diventa il vero campo di osservazione. Ogni singolo movimento è

studiato, analizzato, scomposto e ricomposto, per cercare la tensione, la giusta energia da

trasmettere allo spettore. “L’attore non rivive l’azione; ricrea il vivente nell’azione”17.

Egli diventa una sorta di atleta, si esercita prima con la biomeccanica per arrivare al

traning. Attraverso gli esercizi fisici l’attore sperimenta dei movimenti in grado di

veicolare la forza, il ritmo, l’energia anche nell’immobilità. Si innesca, così, un nuovo

rapporto tra l’attore e lo spettatore.

La ricerca di un linguaggio teatrale, un linguaggio proprio, diverso da quello verbale,

basato sulle azioni fisiche degli attori appare già nel primo scritto de Il teatro e il suo

doppio di Artaud. Dopo aver assistito ad uno spettacolo di danzatori di Bali

all’Esposizione Coloniale di Parigi del 1931, egli scrive:

In tutti questi gesti, in questi attegiamenti angolosi e brutalmente interrotti, in queste modulazioni sincopate

dal fondo della gola, in queste frasi musicali che d’un tratto cambiano direzione, in questi voli d’elitre, nello

stormire di rami, nel rimbombo di casse vuote, nel cigolio da automi, nelle danze da fantocci animati, c’è un

fatto curioso: ed è che dal dedalo dei gesti, di atteggiamenti, di grida lanciate nell’aria, dalle giravolte e dalle

17BARBA EUGENIO, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 55.

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evoluzioni che non lasciano inutilizzata nessuna parte dello spazio scenico, si sprigiona il senso di un nuovo

linguaggio fisico basato sui segni e non più sulle parole.18

Per Artaud il testo e la poesia scritta non sono più importanti, anzi, è necessario prenderne

le distanze. Affinché l’efficacità poetica del teatro possa compiersi, e restituire il teatro

all’arte e alla vita, “la vera vita”, citando Rimbaud, è necessario andare oltre le parole,

rompere con il linguaggio. La rivoluzione del teatro risiede nell’oltrepassare i limiti

dell’espressione verbale, aprendosi a qualsiasi forma di linguaggio possibile: gesti, parole,

suoni, grida, danza, pantomima. Il tentativo di Artaud si basa sulla critica di un linguaggio

e nelle stesso tempo della ricerca per liberarlo, restituendogli movimento e vita.

In risposta a questo nuovo bisogno, Artaud trova che il teatro orientale ha saputo

conservare, attraverso il linguaggio dei gesti, la capacità di stimolare i sensi, toccando le

sfere remote della percezione. I sensi sono i principali destinatari di questo modo di

intendere il teatro, anzichè lo spirito, che viene stimolato dalla parola.

L’esplorazione della sinestesia in campo artistico (dal greco sin = attraverso, estesia =

sensazione), ossia la contaminazione dei cinque sensi nella percezione del percepibile

resta cosa cara agli artisti del tempo. La sinestesia consiste nel fatto che una stimolazione

pertinente ad una data modalità sensoriale provoca risposte in canali sensoriali diversi da

quello proprio dello stimolo di partenza. Detta più semplicemente: guardare un cestino di

frutta, per esempio, stimola la percezione del gusto, piuttosto che quello della vista.

In questo contesto, le sperimentazioni artistiche della sinestesia toccano tutte le arti:

musica, pittura, poesia, teatro. Prendiamo come esempio la poesia di Rimbaud, Vocali:

18SAVARESE NICOLA, Il teatro eurasiano, Editori Laterza, Roma, 2002, p. 81.

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A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,

Io dirò un giorno le vostre nascite latenti:

A, nero corsetto villoso di mosche splendenti

Che ronzano intorno a crudeli fetori,

Golfi d'ombra; E, candori di vapori e tende,

Lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi d'umbelle;

I, porpora, sangue sputato, risata di belle labbra

Nella collera o nelle ubriachezze penitenti;

U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari,

Pace di pascoli seminati d'animali, pace di rughe

Che l'alchimia imprime nelle ampie fronti studiose;

O, suprema Tromba piena di strani stridori,

Silenzi attraversati da Angeli e Mondi:

- O l'Omega, raggio viola dei suoi Occhi!

La rappresentazione del testo associato ai colori stimola una percezione diversa, il testo

suggerisce un sentimento di smarrimento sensoriale, rappresenta una nuova forma di

linguaggio definito ascolto colorato19.

19 KOCHHAR-LINDGREN KANTA, Hearing difference. The third ear in experimental, Deaf and

multiculural theater, Gallaudet University Press, Washington D.C., 2006, p. 39, traduzione personale.

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Quello che seduce Artaud nel teatro balinese non è l’immagine di un attore

spersonzalizzato e maestro della propria tecnica. Egli intravvede piuttosto la possibilità di

una scrittura nello spazio, che permette di comunicare metafisicamente con il mondo.

Per arrivare a toccare lo spettatore il corpo è considerato il primo geroglifico del

linguaggio teatrale. La lingua dei segni può essere una risposta.

2.2 DUE MODI DI VEDERE IL TEATRO IN LINGUA DEI SEGNI

Il teatro in lingua dei segni può essere analizzato sotto due punti di vista. Il primo, inteso

in una prospettiva Sorda, rappresenta la modalità espressiva del teatro fatto da Sordi e per

i Sordi, un fatto puramente naturale di produzione culturale di questa comunità. La lingua

dei segni costituisce il primo fattore di identificazione dei Sordi, e come tale, la

produzione artistica che ne deriva, teatro e poesia, risponde al bisogno di preservare e

trasmettere la propria identità e la propria lingua, anche perché essa non conosce ancora

una forma scritta. Il teatro diventa un mezzo di rivendicazione sociale e politico della

differenza rispetto alla comunità udente. Lucia Daniele, attrice della compagnia

MASCHERA VIVA di Torino, traduce in poche parole quanto detto. Alla domanda

“Perché avete chiamato la vostra compagnia con questo nome?” segue la risposta:

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ll nome MASCHERA VIVA l'abbiamo scelto per un motivo valido, immaginando una maschera, quella

semplice e bianca, appesa alla parete. La gente gira, facendo la vita di tutti i giorni, vede che la maschera

appesa è muta e priva di emozioni. La maschera per noi è simbolo del Sordo, i Sordi sono invisibili. La

gente guarda la maschera ma non sa che è come i Sordi, oppure lo sa ma pensa che i Sordi non possono fare

tante cose. VIVA, per dimostrare che esiste una personalità, anche se sembra muta e inesistente. Con ciò

vogliamo dire che i Sordi possono svolgere e dimostrare diverse attività, come fanno gli udenti. L'unica

differenza è che ai Sordi manca l'udito.

La sordità è molto spesso legata ad una visione medica, vista come “condizione” o un

deficit che nessita un trattamento, piuttosto di considerare i Sordi in termini culturali,

come una comunità dotata di una propria lingua e quindi capace di trasmettere la propria

cultura20. Per gli artisti Sordi la produzione artistica, sia essa teatrale o poetica, è un

momento importante perché consente di trattare le tematiche legate alla sordità, come la

discriminazione, il rapporto con gli udenti, o più semplicemente permette di raccontare

storie legate ad esperienze personali o di fantasia.

La lingua dei segni opera come la parola per gli udenti, quindi il suo uso in ambito

teatrale o poetico è diverso dall’uso quotidiano. Come dimostrato nello studio di Edward

Klima e Ursula Bellugi in The signs of language (1979), parlando dell’utilizzo della

lingua dei segni nella poesia, i due autori, osservano che: “ci sono diversi livelli formali

che entrano in gioco nel creare le regolarità tipiche della struttura di un testo poetico in

segni. Le caratteristiche articolatorie, la disposizone dei segni, le scelte lessicali, possono

tutte essere utilizzate in poesia per creare pattern simmetrici e per costruire rimandi

20 SACK OLIVER, Seeing Voices. A journey into the World of the Deaf, University of California Press, trad.

fr. Des yeux pour entendre. Voyage au pays des sourds, Editions du Seuil, Paris, 1990, p. 215, traduzione personale.

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regolari tra le forme e i significati dei segni”21. La ricerca di queste simmetrie intereressa

la formazione dei segni nello spazio. Lo spazio segnico non è più rigidamente fissato tra

la testa e il busto del segnante, ma permette di essere sfruttato in tutta la sua ampiezza.

La poesia in lingua dei segni presenta le stesse componenti della poesia vocale: rima,

ritmo, alliterazione, ridondanza. I segni vengono più o meno enfatizzati per produrre un

effetto stilistico, ad esempio attraverso il bilanciamanto inusuale della mano destra con

quella sinistra per ridurre i momenti di pausa tra un segno ed un altro22. I componenti non

manuali, inoltre, possono essere usati in modo più flessibile in rapporto a quelli manuali,

in funzione dell’effetto che si vuole ottenere. Per esempio, l’espressione del viso può

accompagnare o meno i segni, può essere esageratamente marcata, oppure completamente

inespressiva.

La caratteristica cinematografica della lingua dei segni, di cui si era parlato nelle pagine

precedenti, diventa una tecnica rappresentativa, definita da Bernard Bragg, come visual

vernacular (VV)23. Questo aspetto della lingua dei segni aiuta a spiegare il ritmo dei

cambiamenti scenici e la logica dell’organizzazione spaziale di ogni racconto come tagli

cinematografici.

Il secondo modo di usare la lingua dei segni è legato alla ricerca di modelli espressivi in

grado di stimolare una diversa percezione sensoriale, in un contesto interculturale e

interdisciplinare che consente di rappresentare diversamente il corpo, di comunicare con

una lingua che stimola la sfera visivo-gestuale e che “avvolge” lo spazio. In questo senso 21 RUSSO CADORNA TOMMASO, VOLTERRA VIRGINIA, Le lingue dei segni. Storia e semiotica,

Carocci Editore, Roma, 2007, p. 101. 22 Ibidem, p. 101. 23 DIRKSEN H., BAUMAN L., NELSON JENNIFER L., ROSE HEIDI M., Signing the body poetic.

Essays on American Sign Language literature, University of California Press, Berkley and Los Angeles, California, p. 110, 2006, traduzione personale.

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la lingua dei segni permette di passare da “un modello «testuale», ossia una narrazione

basata sul rapporto tra lo scritto e il parlato, ad un modello di «performance»”24. L’uso dei

gesti, dei segni, del movimento del corpo e di altre modalità sensoriali hanno lo scopo di

spostare la percezione sugli altri sensi per non enfatizzare l’ascolto25.

In questo modo di utilizzare la lingua dei segni, la sordità riduce la dimensione orale e

favorisce un uso della parola che proviene da altre parti del corpo. L’uso dei segni rende

difficile localizzare la voce come suono, ma amplifica la voce che proviene dal corpo.

Spostando l’attenzione sull’aspetto visivo, la sordità diventa il presupposto per esercitare

modelli cross-sensoriali nei quali si cerca un nuovo modo di ascoltare. La percezione non

è più acustica, ma attraverso quello che viene definito l’«occhio acustico» possiamo

vedere le voci e capirle attraverso l’articolazione del corpo26.

Quello che Kanta Kochhar-Lindgren definisce in Hearing Difference come “terzo

orecchio” è questo aspetto di poter comprendere un modo di fare teatro attraverso la

diversa percezione del suono, del silenzio e del movimento del corpo. La definizione di

“terzo orecchio” deriva da una esperienza di vita personale. All’età di sei anni Kanta

Kochhar-Lindgren inizia ad accusare i segni di una diminuzione dell’udito. All’età di sette

anni le viene dato un apparecchio acustico da indossare durante le ore di scuola. Questo le

permetteva di decidere quando essere “sorda” oppure “udente”. A quel tempo seguiva un

24 MITCHELL W.J.T., Gesture, Sign, and Play: ASL Poetry and the Deaf Community, MLA Newsletter

21.2, 1989, p. 14 in KOCHHAR-LINDGREN KANTA, Hearing difference. The third ear in experimental, Deaf and multiculural theater, Gallaudet University Press, Washington D.C., 2006, p. 14, traduzione personale.

25 Ibidem, p. 14, traduzione personale. 26 KOCHHAR-LINDGREN KANTA, Hearing difference. The third ear in experimental, Deaf and

multiculural theater, Gallaudet University Press, Washington D.C., 2006, p. 15, traduzione personale.

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programma televisivo americano Sing along with Mitch, una sorta di karaoke, con delle

cuffie da pilota che il padre le aveva adattato per la televisione. Cantava seguendo le

parole che si illuminavano su ogni singola lettera sul fondo dello schermo. Questi

momenti, la combinazione di diversi sistemi sensoriali, le cuffie, il movimento del testo e

la visione del cantante, crea in lei il concetto di “terzo orecchio”, che si traduce in una

forma ibrida di udito. Ascoltare come mescolanza sconosciuta di suoni e immagini,

oppure nel realizzare che non possiamo sentire, azioniamo questo “terzo orecchio”, per

sviluppare un tipo di ascolto che mescola l’improvvisazione e che sollecita tutti i sensi.

I momenti in cui la sordità e l’udito si incontrano sono parte della vita quotidiana e del

teatro. Considerare in questo modo il legame tra sordità e udito consente di modificare la

percezione del silenzio, ma anche, ad esempio, dei salti tra immagine e suono, delle

incongruenze tra movimento e testo, delle dissonanze tra rumore e gesto.

2.3 ESEMPI CROSS-MODALI E CROSS-SENSORIALI IN LINGUA DEI SEGNI

Nell’idea comune la sordità e la lingua dei segni sono legate al silenzio, inteso come

mancaza di rumori, parole, suoni. Invece, il silenzio ci parla in molti modi, tra di loro

diversi. Esso non rappresenta soltano la mancanza di produzione sonora.

Il silenzio può significare molte cose, e non essendo espresso con i suoni può provocare in

noi delle sensazioni particolari, anche sgradevoli e angoscianti. Per esempio il silenzio

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può esprimere la notte, la calma, la tranquillità. Ma quando il silenzio è associato all’idea

della morte, fa crescere l’angoscia e la paura. Il silenzio può essere legato alla violenza,

alla repressione politca, all’aspetto religioso. In qualunque modo lo vediamo il silenzio

parla e diventa molto rumoroso.

La lingua dei segni è un’espressione del silenzio, non è fatta nel silenzio, è un altro modo

di comunicare, in modo visivo, fisico. Al di là della sua comprensione, non possiamo

rimanere indifferenti.

Seguono tre esempi di impiego cross-modale e cross-sensoriale della lingua dei segni.

2.3.1 UNA VIDEO-INSTALLAZIONE IN LINGUA DEI SEGNI

La Biennale di Venezia del 2005 presenta nel padiglione danese una video-installazione

che si interroga sull’interazione tra immagine visiva e immagine acustica,

nell’interpretazione di Eva Koch, dei primi tredici versi del 1° Canto del Paradiso della

Divina Commedia di Dante, dal titolo Approach.

Il tema dell’installazione è la comunicazione, il ruolo che essa gioca nel veicolare un

identico messaggio, che può essere interpretato in modi diversi, come avviene quando si

usano delle lingue straniere, ad esempio.

In questi versi Dante evoca la memoria, la difficoltà di ricordare e di trasmettere: “Nel ciel

che più de la sua luce prende fu’io, e vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù

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discende”. Una parte significante delI’esistenza umana risiede nella memoria. Ognuno di

noi, nel corso della vita, fissa nella mente dei ricordi. Con il passar del tempo la memoria

può degradarsi lentamente, lasciando in noi il desiderio di fermare il tempo per dargli

risonanza. Nella mente le immagini, allora, saltano, e in questi intervalli lasciano dei

vuoti, delle pause, dei silenzi che interpretano i nostri ricordi.

Nel trasmettere questi ricordi le parole sono unidemensionali ed attivano nella persona di

chi le ascolta delle sensazioni che non sono percepite nella loro sincronicità.

L’interpretazione della comunicazione verbale attraverso un’altra forma d’arte, come

l’arte visiva, sollecita una modalità cross-sensoriale, perché l’installazione d’arte opera

come un tutto di immagini, suoni, parole e percezioni spaziali, creando una complessa

esperienza multisensoriale.

L’udito, per chi sente, è il primo senso che viene stimolato in questa installazione. Il

suono è la prima cosa che si percepisce attraversando il buio corridoio che porta al video.

Le voci parlano in coro, molte delle quali in modo debole, tranne una che è perfettamente

chiara. La lingua usata è l’inglese, che può essere una lingua conosciuta o meno. Immersi

nella sua musicalità, nel suo ritmo si cerca di carpirne il significato. Questo corridoio

costituisce la fase introduttiva, funge da importante fase di transizione e può essere

interpretato come una pausa, un “silenzio”, una connessione, tra momento sonoro e

momento visivo.

Entrati nel cuore dell’installazione un altro senso viene stimolato: la vista. Il video mostra

delle persone in cerchio che parlano attraverso la lingua dei segni. Non tutti la capiscono,

e solo pochi possono percepirne il vero significato. Ma è chiaro fin da subito che quelle

persone stanno esprimendo qualcosa e che quei segni disegnati nello spazio non sono

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vuoti e privi di significato. Traspare il desiderio e il fervore di esprimere qualcosa, per il

fatto stesso che i segnanti e lo spettatore sono faccia a faccia, nella stessa dimensione,

occupando così il medesimo spazio. I segnanti guardano lo spettatore, quello che vogliono

è collegarlo alle parole emesse. Si ha quasi voglia di toccarli per fermarli, per chiedere

cosa stanno dicendo, ed ecco che un altro senso viene stimolato.

Queste due lingue esprimono lo stesso concetto, ma il significato può essere percepito in

modi diversi dallo spettatore. L’installazione è un potente insieme di immagini poetiche

che si interroga sulla percezione cognitiva dell’uomo, di come questa possa essere attivata

diversamente in ognuno di noi. Per usare il titolo di Sofia Coppola, ci troviamo nella

condizione di essere Lost in translation. La sensazione è quella di essere in un mondo

incomprensibile nel quale non si capisce cosa sta succedendo. Questa sensazione di

smarrimento sensoriale e cognitivo si scontra con quella di altre persone. Lo spettatore è

lasciato in questa confusione percettiva, nell’alternanza del suono e dell’immagine ricerca

il proprio significato.

2.3.2 JUSTAUCORPS: LINGUA DEI SEGNI E MUDRA

Dopo l’esplorazione nella stagione teatrale 2006-2007 della marionetta e della canzone,

Emmanuelle Laborit, direttrice del teatro IVT (International Visual Theatre) decide di

approfondire, nel suo laboratorio, la ricerca sulla danza e il linguaggio coreografico.

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In questo contesto l’invito rivolto a Pascal Houbin e alla sua compagnia, la Cie Non de

Nom, produce una collaborazione particolare che mescola attori Sordi e non, ballerini

contemporanei e di kathakali, marionettisti, interpretando il linguaggio del corpo come

gesto singolare, attraverso diversi linguaggi possibili, svincolati dalle semplici parole.

La regista e coreografa, Pascal Houbin, si è ispirata a cinque balletti classici: Giselle,

Cenerentola, la Silfide, Il lago dei cigni, Romeo e Giulietta, interpretandoli in forma di

duetto. La tematica è la rappresentazione dell’unione, del numero due inteso come

numero che definisce il presupposto per essere insieme: un uomo e una donna, due donne,

due uomini. La coreografia immaginata si compone di gesti singolari, e il suo legame con

il balletto classico dona a questi duetti la narrazione, il gusto, la brillantezza. L’intenzione

è quella di sensibilizzare il corpo rispetto al testo, di trovare un’ossatura nella quale ogni

artista potrà muoversi, esprimendo la propria arte, fondendola con quella dell’altro. In

questo senso, il gioco in questo binomio, acquista completezza.

Pascale Houbin nella sua formazione artistica e personale si interessa a due mondi, oltre

alla danza, quello dello yoga e della lingua dei segni. La lingua dei segni ha influenzato il

suo percorso teatrale, diventando un modo per scrivere nello spazio scenico, per inserire

una poesia visiva grazie alla danza. La pratica e l’insegnamento dello yoga sono

l’espressione della ricerca specifica del corpo, un’apertura verso l’altro, un nuovo modo

di percepire il silenzio. La lingua dei segni, lo yoga e la danza hanno in comune una

relazione molto forte con il gesto, la postura, il senso, il simbolo, il silenzio, il pensiero.

Il richiamo con il teatro orientale è una costante. Non a caso in questo spettacolo gli attori

Sordi si confrontano con un’altra forma linguistica gestuale, le mudra del kathakali.

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Il kathakali è una danza-dramma, altamente stilizzata, tipica della regione del Kerala in

India. La sua origine deriva da un insieme di diversi rituali classici e folkloristici espressi

nell’unità della recitazione, della danza, della musica vocale e strumentale. In Oriente

l’attore è attore-danzatore, non esiste una distinzione tra le due discipline:

La rigida distinzione fra il teatro e la danza rivela una ferita profonda, un vuoto di tradizione che rischia

continuamente di attrarre l’attore verso il mutismo del corpo, e il danzatore verso il virtuosismo. Questa

distinzione apparirebbe assurda agli artisti delle tradizioni classiche asiatiche, così come sarebbe apparsa

assurda ad artisti europei di altre epoche storiche, ad un giullare, ad un attore della Commedia dell’Arte o

del Teatro elisabettiano. Possiamo chiedere ad un attore Nô o ad un attore Kabuki come tradurrebbe, nella

sua lingua di lavoro, la parola “energia”, ma egli scuoterebbe la testa se gli chiedessimo di tradurre la rigida

distinzione fra danza e teatro27.

L’attore-danzatore recita il testo attraverso l’uso di un linguaggio altamente complesso

rappresentato dalle mudra. Hasta (mano) e mudra (segno) indicano in sanscrito i gesti

delle mani, il cui uso risale alle rappresentazioni sacre dell’epoca dei Veda (1500 a.C.). Le

mudra sono gesti simbolici usati in varie religioni per ottenere benefici sul piano fisico,

energetico e/o spirituale.

L’introduzione delle mudra nella danza a partire dal periodo classico dell’arte indiana è

descritto e codificato in numerosi trattati sui quali si fondano i diversi generi della danza

indiana, dal Bharata Natyam al kathakali, alla danza odissi, senza dimenticare altre forme

meno conosciute ma diffuse in quasi tutte le regioni dell’India. Ritroviamo le stesse

posizioni in tutte le forme di danza, ma con nomi diversi. Il kathakali è quello che usa il 27 BARBA EUGENIO, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale. Il Mulino, Bologna, 2003, p.

42.

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numero più elevato di mudra, dividendole secondo tre possibilità. Sanyukta: la stessa

mudra per le due mani, misra: una mudra diverso per ciascuna mano, e asanyukta: una

mudra per una sola mano. A seconda di come le mudra entrano in relazione con lo spazio,

l’espressione del corpo e la lingua, il kathakali dispone di un vocabolario di circa

novecento parole. Se usati nella danza interpretativa (nrytia) le mudra costituiscono una

vera e propria lingua, rappresentano letteralmente e raccontano. Usati nella danza pura

(nritta), sempre inseriti in un racconto, al contrario hanno un valore puramente

decorativo, e sono utilizzati come “semplice sonorità”28. Nella figura 2 sono riportate le

mudra del kathakali e della danza odissi.

Figura 2: a sinistra le mudra del kathakali, a destra le mudra della danza odissi. Fonte: Barba, Savarese (2008).

28BARBA EUGENIO, SAVARESE NICOLA, L’énergie qui danse. Un dictionnaire d’anthropologie

théâtrale, Éditon L’Entretemps, Montpellier, 2008, p. 140, traduzione personale.

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Come per la lingua dei segni nel kathakali il movimento del corpo e l’espressione del

viso, in particolare gli occhi, sono molto importanti. Questa espressività viene messa in

evidenza anche dal trucco, decisamente marcato, che enfatizza l’intensità dei movimenti

prodotti attraverso gli occhi. Un esempio è riportato nella figura 3.

Figura 3: Diverse espressioni facciali e uso delle mudra. Fonte: Barba, Savarese (2008).

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A livello musicale i caratteri del kathakali sono spiegati in cinque ritmi diversi e quattro

tempi, i quali aiutano ad interpretare il testo e il contenuto della rappresentazione. Due

cantanti, uno principale e uno di supporto, stanno dietro l’attore e cantano il testo. Il primo

marca il ritmo attraverso il suono del gong, mentre l’altro attraverso i cimbali. La musica

è composta da percussioni: Chenda, Maddalam e Edaykka sono gli strumenti utilizzati.

Gli strumenti musciali sono collegati in modo funzionale alla recitazione dell’attore, che

interpreta il testo con le mudra.

2.3.3 LA MUSICA IN LINGUA DEI SEGNI

Nella sfera musicale italiana il progetto Zerovolume propone di “far vedere” la musica,

grazie alla traduzione in immagini della canzone Disco Labirinto, che vede coinvolti due

gruppi musicali molto conosciuti: I Subsonica e i Bluvertigo. Per la creazione del loro

videoclip, i suoni degli strumenti musicali sono stati trasformati in impulsi luminosi e le

parole sono state tradotte in lingua dei segni. Così la cassa e il rullante diventano luci

intermittenti, il basso un enorme pannello luminoso, la chitarra una luce verde, la tastiera

una lavagna luminosa sulla quale scrivere la musica. Il testo è stato tradotto in lingua dei

segni, quindi risulta leggeremente diverso da quello originale. Questo è normale perchè

come si è visto nei paragrafi precedenti, la costruzione grammaticale e sintattica è diversa

nelle due lingue. Il video si apre con un prologo, nel quale una persona, parlando in lingua

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dei segni, introduce il progetto presentando le intenzioni, i musicisti e gli strumenti. Il

video rappresentato come un sogno, un incubo, un gioco, è la metafora del superamento

della barriera comunicativa, il tentativo di esprimere le difficoltà che legano il mondo

Sordo a quello udente. Tutti sono impegnati a costruire un’enorme macchina “traduttrice

di suono”, in luce e movimento, simbolo della comunicazione. Per inserire una difficoltà

di comprensione per il pubblico udente il progetto è spiegato in inglese.

È un video interessante perché sottende una serie di problematiche, alle quali non avevo

pensato ai tempi della sua uscita. Oggi lo interpreto diversamente. Senza voler

polemizzare sulle intenzioni del progetto, mi preme fare alcune considerazioni. Occorre

innanzitutto segnalare l’uso inappropriato del termine “linguaggio dei segni” al posto di

lingua dei segni. È un errore corrente degli udenti definire la lingua dei segni in questo

modo. Mentre il linguaggio è una componente della lingua, che si riferisce all’uso

particolare della comunicazione, una specificazione del modo di esprimersi (per esempio

si parla di linguaggio giuridico, medico, scientifico, tecnico, popolare), la lingua è

l’insieme di convenzioni fonetiche, morfologiche, sintattiche e lessicali. Quest’uso

inesatto del termine mi ha lasciata perplessa, perché questo progetto vedeva la

partecipazione dell’Istituto dei Sordi di Torino (all’epoca Istituto dei Sordomuti di

Torino-Pianezza), che patrocinava l’evento. Per tale ragione ho scritto alla direzione

dell’Istituto per porre la mia domanda a riguardo. Nella risposta del sig. Dolcia Enrico ho

trovato la conferma del mio presentimento: “ll fatto è che gli artisti sono artisti e anche

piuttosto concentrati su se stessi e sul prodotto finale: non hanno ascoltato gran parte dei

suggerimenti che demmo a suo tempo e il risultato è quello che appare sotto gli occhi di

tutti: gradevole dal punto di vista estetico, forse anche stimolante ed emotivo per chi non

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Un silenzio molto rumoroso. Il teatro nella lingua dei segni

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conosce i Sordi, ma con molti problemi irrisolti (non solo quello da lei indicato)”. Ma

allora c'è un problema più profondo. E non è forse legato ad una sorta di

strumentalizzazione della lingua dei segni, che diventa bella ed interessante solo quando

artisticamente può portare ad un altro risultato, commerciale ad esempio? L’impressione è

quella di utilizzare un progetto sociale per svegliare una forma di pietismo nei confronti

dei Sordi, la classica buona azione di cui vantarsi. La grande difficoltà di ottenere un

riconoscimento legislativo della LIS impone, a mio avviso, un’esatta utilizzazione del

termine, soprattutto per la risonanza del progetto. Non soltanto, se questo ha l’ambizione

di abbattere le barriere della comunicazione, come può avvenire quando una lingua parte

già svantaggiata? Una lingua acquista più o meno rilevanza nella società per il peso e il

prestigio che porta. Questa cosa la vivo quotidianamente. I miei figli sono bilingui e tanti

sono sorpresi e si congratulano con me perché parlano perfettamente l’italiano e il

francese. Non si congratulano allo stesso modo con i genitori di figli bilingui che parlano

il francese e l’indi o una lingua africana. Lo sforzo di comunicare lo si fa anche attraverso

l’acquisizione di una nuova lingua. Ma quando ci si trova nel momento di scegliere,

normalmente si preferiscono le classiche lingue straniere, o altre come il giapponese, il

cinese, il russo, il turco, l’arabo. Quanti hanno mai pensato di imparare la lingua dei

segni? Quanti corsi sono fruibili al di fuori degli Enti o delle Associazioni Sorde?

In secondo luogo l’uso dell’inglese come “piccola difficoltà” per l’udente, a detta del

regista del video Luca Pastore, mi fa sorridere. L’inglese non è certo una lingua

sconosciuta e non praticata. Al contrario, tra i giovani – i principali destinatari del video-

l’inglese penso sia conosciuto dalla quasi totalità, a maggir ragione in ambito musicale

dove siamo costantemente bombardati da canzoni in inglese. Non solo, i sottotitoli in

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italiano aiutano l’udente a capire il significato, quindi questo “piccolo impedimento” mi

sembra del tutto inesistente.

In ultima analisi, il regista nel presentare il progetto afferma: “da una parte abbiamo

cercato di rendere fruibile alle persone sorde il senso della musica, che è fatta di suoni e di

segnali; dall'altra parte (e per me non è meno importante) abbiamo voluto ricordare al

pubblico "normale", quello che ascolta i dischi e guarda i videoclip, che pur esistendo un

mondo senza suoni, non esiste nessuno con cui non sia possibile cercare di comunicare,

non fosse altro che per il divertimento e la soddisfazione che si prova nel tentativo”29.

Definire “normale” una parte di pubblico, presuppone che un’altra non lo sia. Quando le

collaborazioni tra artisti si fanno nelle diverse lingue vocali non c’è differenza nei

destinatari. Il pubblico è pubblico e basta. Lo stesso dovrebbe accadere in questo caso. La

visione medica della sordità prevale e quindi emerge la disabilità piuttosto che la

personalità. In effetti qualcosa di diverso c’è, e si riferisce all’attivazione di una modalità

sensoriale che non è più acustico-verbale, ma visivo-gestuale. Dire che i Sordi vivono in

un mondo senza suoni è vero nella misura in cui consideriamo prevalente l’udito agli altri

sensi. Un Sordo non conosce il suono in senso acustico, conosce un suono in senso visivo,

fatto di luci, un suono fatto di vibrazoni che si amplificano nel corpo. Affermare che solo

il pubblico “normale” guarda i videoclip è riconoscere una parte per il tutto. Non tutti i

programmi televisivi sono sottotitolati o in lingua dei segni, e questo non impedisce ai

Sordi di guardare la televisione. Visto così, il problema della comunicazione tra i due

mondi è lontano dall'essere risolto, e il messaggio che ne consegue è completamente

distorto. 29 http://www.subsonica.it/accessibile/zerovolume.html, consultato il 10 aprile 2010

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Per avere un’idea di come i Sordi vedono e sentono realmente la musica, cito un passo

del libro di Emmanuelle Laborit :

Quando [mio padre] ha saputo che ero sorda si è subito chiesto come facevo a sentire la musica. Da piccola

andavamo insieme ai concerti, voleva trasmettermi la sua passione. Lo trovavo formidabile. E ancora adesso

lo è, non ha messo ostacoli tra me e la musica (...) Sentivo la musica non attraverso le orecchie, ma

attraverso il corpo (...).

Una sera, mio zio Fifou, che era musicista, suonava la chitarra. Lo vedo, l’immagine è netta nella mia testa

(...) Vuole farmi ascoltare la chitarra. Mi dice allora di mordere il manico. Io mordo, e lui si mette a suonare.

Resto delle ore a mordere. Sento tutte le vibrazioni nel corpo, le note acute e quelle basse. La musica entra

nel mio corpo, si installa, e suona nel mio interno. Mia mamma mi guarda, completamente stupefatta. Cerca

di fare la stessa cosa, ma non lo sopporta. Dice che le risuona nella testa. Ci sono ancora i segni dei miei

denti sulla chitarra di mio zio.

Sono stata fortunata ad avere la musica nella mia via. Certi genitori di bambini Sordi si dicono che non vale

la pena, e privano i bambini della musica (...) I concerti mi stimolano. Gli effetti luce, l’ambiente, la gente in

sala, anche queste sono vibrazioni (...) Il saxofono che brilla con i suoi riflessi dorati, è formidabile. I

trombettisti che gonfiano le loro guance. I bassi. Sento con i piedi, con tutto il corpo. Sono sdraiata per terra.

E immagino il suono, l’ho sempre immaginato. E’ attraverso il mio corpo che percepisco la musica. I piedi

nudi sul pavimento, ancorati alle vibrazioni, è così che la vedo, a colori. Il piano ha dei colori, la chitarra

elettrica, i tamburi africani (...)

La musica è un linguaggio che va oltre le parole, è universale (...) Sono delle note che si mettono a danzare

nel mio corpo (...) Vibrazione, emozione, colori in un ritmo magico (...) Quando guardo i vidoclip alla

televisione sento molta violenza, molti immagini si susseguono, non capisco più niente. Non arrivo

nemmeno ad immaginare la musica, che può esserci sui cantanti, va così veloce (...) Ma ci sono certi

cantanti (...) che mi emozionano con le loro parole.

E Michael Jackson! Quando lo vedo ballare, è un corpo elettrico, il ritmo della musica è elettrico, lo associo

all’immagine elettrica, al senso elettrico.

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Un silenzio molto rumoroso. Il teatro nella lingua dei segni

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La danza è nel corpo. Quando ero adolescente adoravo andare in discoteca con i miei amici Sordi. E’ l’unico

posto dove la musica è a tutto volume, senza che disturbi gli altri. Ballavo tutta la notte, con il corpo

incollato alle casse, il corpo vibrava con il ritmo. Gli altri, gli udenti, mi guardavano stupiti. Dovevano

pensare che ero matta30.

Emmanuelle Laborit ha dato un significativo apporto alla mediazione culturale tra la

comunità Sorda e udente. Attrice e direttrice dell’International Visual Theatre (IVT) di

Parigi, unico teatro fatto e gestito da Sordi, ha creato un laboratorio di ricerca

sperimentale di utilizzo della lingua dei segni, non soltanto come lingua dei Sordi, ma

come strumento comunicativo capace di mescolarsi con altre discipline ed altre culture.

2.4 DISABILITÀ: ALLA RICERCA DI UNA NUOVA ESTETICA DEL CORPO TRA

VECCHI E NUOVI MODELLI

Fino ad ora non si è parlato di disabilità in relazione alla sordità. La nostra società

considera i Sordi come disabili: i “normali” sono gli udenti e i “diversi” sono i Sordi. I

Sordi, a loro volta, non si considerano affatto disabili, e cercano in tutti i modi di disfarsi

di questa etichetta che li discrimina nei confronti della società. Allora chi è il normale e

30 LABORIT EMMANUELLE, Le crie de la mouette, Édition Robert Laffont, Paris, 1994, pp. 29-32,

traduzione personale.

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chi non lo è? Chi definisce che uno lo sia e l’altro no? Perché un corpo normale è bello e

uno disabile è brutto?

La presente riflessione prende spunto dal libro di Lennard J. Davis, Enforcing Normalcy.

Disability, Deafness and the body (1995). Nell’affermare che la normalità e la disabilità

sono parte dello stesso sistema, Davis asserisce che la dicotomia normale/diverso è legata

all’idea che abbiamo del corpo, che deriva da un processo sociale, storico, politico,

economico e culturale. L’oggetto della disabilità non è più il Sordo, o il disabile in

generale, ma il processo che ci ha portato a pensare in questo modo. Come afferma Davis:

“la disabilità non è un oggetto ma è un processo sociale che coinvolge ognuno di noi che

ha un corpo e vive in un mondo di sensi”31.

In questo modo di vedere le cose il corpo ha un ruolo assolutamente dominante. Il corpo è

rivelatore dell’handicap, attraverso lo sguardo di chi osserva, la disabilità emerge

provocando una serie di reazioni: compassione, pietà, disgusto. Nei confronti della società

il corpo partecipa ai processi formativi della società stessa, contribuendo a corroborare il

potere politico, sociale, economico e culturale.

Il corpo è politico, nella misura in cui la sua integrità e perfezione è funzionale

all’affermazione del potere. Per far parte di una divisione militare è necessario passare

una serie di esami medici che confermino la completa attitudine al mestiere di soldato.

Vista perfetta, udito perfetto, corpo perfetto. Ma i migliori testimonial sono gli stessi capi

di Stato, fotografati o ripresi mentre fanno la loro corsetta mattutina per tenersi in forma.

In alcuni casi, anche un banale problema di calvizie diventa un affare di Stato,

31 DAVIS LENNARD J., Enforcing normalcy. Disability, deafness and the body, Verso, New York, 1995, p.

2, traduzione personale.

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un’imperfezione che necessita un rimedio. Uno Stato richiede corpi ben mantenuti e

performanti come specchio del potere. Chi li ha è il cittadino modello, chi non li ha è

l’escluso.

Al potere politico si unisce la società che alimenta l’idea del corpo perfetto, tanto da

idealizzarlo. Moda, spettacolo, televisione, medicina, dettano i canoni della bellezza da

rispettare. Il corpo non può e non deve avere traccia del tempo che passa, si dichiara

guerra alle rughe a colpi di botox, all’adipe, al sovrappeso, alla cellulite, ai peli superflui.

ll corpo deve essere il simbolo del piacere, del godimento, dell’attrazione sessuale. I seni

si gonfiano a dismisura, le labbra lievitano come brioches impazzite, trasformando

l’immagine della donna felliniana in un surrugato considerevolmente costoso. A questi

“mostri” di bellezza si contrappongono i corpi di sordi, ciechi, deformi, amputati, nei

quali si cela l’insidia dell’imperfezione, che provoca disgusto o compassione, nei casi più

estremi rabbia e violenza.

A livello economico il concetto di produttività non può sposarsi con quello di disabilità.

Un corpo imperfetto è segno di scarso rendimento, quindi incompatibile con i processi

produttivi. Nei casi più estremi: “Arbeit macht frei” diceva qualcuno!

Questa è l’idea del corpo normale, quello assunto dalla nostra società. Ma se questa

visione è legata ad un processo, qual è, dunque, la miccia che lo ha innescato?

Per capire il corpo disabile Davis si sofferma sul concetto di norma, stabilendo che il

processo che ci ha indotto a pensare ad un corpo normale è il risultato di un attento lavoro

di interpretazione, codificazione, idealizzazione. In sintesi, il risultato di una

convenzionalità funzionale al potere politico, economico, sociale e culturale, che ha avuto

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un peso importante soprattutto a partire dal XIX secolo, epoca della rivoluzione

industriale e dell’affermazione progressiva dell’idea di razza, classe, genere.

L’idea di norma ha stimolato le mie reminiscenze di filosofia del diritto dei tempi di

Giurisprudenza. Riprendendo in modo molto sintetico il Contratto sociale di Rousseau

(1762) possiamo riflettere sul concetto di convenzionalità. Rousseau afferma che l’uomo

è selvaggio e che vive in uno stato di natura. È libero, non ha bisogni perché basta a se

stesso. Tutto è regolato dall’istinto, che può nuocere alla sua integrità. Per questo i tanti

“io” che sono nello stato di natura, aderiscono ad un patto che li fa entrare nella società.

La società garantisce l’ordine sociale, che è un diritto sacro, ma basato su delle regole,

ovvero delle convenzioni. Il ritorno allo stato di natura è possibile solo se si rinuncia al

patto, e quindi alle norme.

In effetti la società risulta regolata dalla norma, tutto si basa su delle regole che

determinano il nostro agire. E come si è stabilito che la normalità, ovvero la

convenzionalità, è nel corpo integro, nell’ideale di un corpo senza imperfezioni, ne

consegue che il corpo disabile è quello che contraddice alla norma, quindi escluso,

emarginato dalla società.

Di conseguenza si stabiliscono altre convenzioni: per esempio, che la norma del genere è

maschio, la norma di razza è bianco, la norma di classe è borghese32 e così via.

Anche la bellezza è una convenzione, ed Artaud ce ne dà una chiara immagine:

Bisogna ammettere che tutto nella destinazione di un oggetto, nel significato o nell’utilizzazione di una

forma naturale, tutto è un affare di convenzione.

32 DAVIS LENNARD J., Enforcing normalcy. Disability, deafness and the body, Verso, New York, 1995,

p. 15, traduzione personale.

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La natura quando dà ad un albero la forma d’albero, avrebbe potuto dargli una forma di animale o di una

collina, avremmo pensato albero davanti l’animale o la collina, e il gioco sarebbe stato fatto.

Si dice che una bella donna abbia una voce armoniosa, ma se avessimo sempre sentito delle belle donne

chiamarci a colpi di proboscide e salutarci con dei barriti, avremmo associato per sempre l’idea di barrito

all’idea di bella donna, e una parte della nostra visione interna del mondo ne sarebbe stata radicalmente

trasformata33.

È evidente che, per il fatto stesso di definire questa convenzionalità attraverso un processo

di esclusione, questa trasformi gli esclusi in emarginati, discriminati, ghettizzati.

Il confronto con la diversità e con le differenze è sempre un’angoscia. La disabilità è in

relazione al nostro modo di vederci, come corpo completo e normale. La prima forma di

immagine che il bambino ha è quella di un corpo “spezzettato” (morcelé) come viene

definito da Lacan. Il bambino non ha la percezione del corpo come un insieme. Solo in un

momento successivo, ovvero nella fase dello specchio, egli riesce ad “assemblare” le

varie componenti del proprio corpo come unità. Davis analizzando questo processo,

sostiene che il corpo disabile è un’immagine diretta del corpo “spezzettato”. Il corpo

disabile causa una sorta di allucinazione della fase dello specchio andata male. La persona

guarda il corpo del disabile come un momento di dissonanza cognitiva, o meglio, come

momento di risonanza cognitiva, con il primo stato di “spezzettamento”34.

33 ARTAUD ANTONIN, Le théâtre et son Double, 1935, in GROSSMAN EVELYNE, Artaud Œvres,

Éditions Gallimard, 2004, p. 528, traduzione personale. 34 DAVIS LENNARD J., Enforcing normalcy. Disability, deafness and the body, Verso, New York, 1995,

pp. 138-139, traduzione personale.

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Abbandono per un momento la riflessione sul corpo, spostando l’osservazione sulla

convenzionalità del sistema di comunicazione basato sulla parola. Utilizzando il concetto

di norma formatosi con il Contratto sociale, lo si può parafrasare nel rapporto tra la lingua

gestuale e la parola. L’uomo nello stato di natura è selvaggio e parla con i gesti. Per

perdere la condizione di selvaggio entra in società e impara a parlare. La parola, essendo

una norma, quindi una convenzione, agisce come l’ordine sociale. Chi ritorna allo stato di

natura ritorna ai gesti.

Può sembrare un discorso semplicistico, ma un esempio può essere il bambino selvaggio

dell’Aveyron, forzato ad abbandonare lo stato selvaggio, nel quale parlava a gesti, ed

inserito nella società attraverso l’insegnamento della parola. Non solo, diverse teorie

affermano un’origine gestuale del linguaggio. “L’ipotesi sostenuta da Gordon Hewes

(1973) e da altri era infatti che probabilmente i progenitori dell’Homo sapiens fossero già

in grado di utilizzare una forma di linguaggio piuttosto sofisticata che, però, non poteva

essere vocale perché dai resti disponibili risultava evidente che questo nostro progenitore

non aveva ancora sviluppato organi fonoarticolatori tali da permettergli la produzione di

una lingua parlata”35. Un’altra teoria sulle origini gestuali del linguaggio è quella di

Michael Corballis. “Secondo Corballis, la prima forma di comunicazione, il

protolinguaggio, era sostanzialmente costitita da componenti manuali accompagnati da

espressioni facciali. Nel corso del tempo si sono aggiunti progressivamente i suoni e

l’articolazione vocale è stata usata per rinforzare i gesti manuali, non sostituirli (...)

Corballis sostiene in particolare che la transizione da una all’altra modalità non è

35 RUSSO CADORNA TOMMASO, VIRGINIA VOLTERRA, Le lingue dei segni. Storia e semiotica,

Carocci Editore, Roma, 2007, p. 118.

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avvenuta in maniera improvvisa ma c’è stato un passaggio molto graduale dal dominio

della gestualità manuale al dominio vocale: il gesto non è stato semplicemente sostituito

dal parlato, ma piuttosto gesto e parola sono co-evoluti in una interrelazione

filogeneticamente lunga e complessa”36.

Perché questo discorso? Per riaffermare ancora una volta che tutto è una convenzione. Per

affermare il peso del corpo nella comunicazione. Il discorso prende senso se pensiamo

alla necessità avvertita da Artaud di un nuovo linguaggio, un linguaggio teatrale fatto non

solo di parole, ma di un insieme di manifestazioni che usino l’intero corpo come mezzo

espressivo.

Ma questo corpo è ancora un corpo perfetto. Il paradosso della sordità è che il corpo del

sordo è un corpo normale, la sordità è una disabilità invisibile, che si percepisce solo nel

momento in cui sentiamo una voce gutturale oppure vediamo la lingua dei segni.

In quest’ottica le parole di Pippo Delbono, confermano la sete di nuove modalità di

comunicazione, e non solo, aprono la strada ad uno nuovo concetto di estetica, una

bellezza rivalutata in corpi che normalmente sono modelli di disabilità :

Quando sono arrivato all’ospedale psichiatrico di Bobò anch’io avevo perso la testa (...) Allora ho visto

Bobò, ho visto in questo piccolo corpo, con le ginocchia fragili, una bellezza inedita, d’una forza intensa,

che si è inserita nel mio lavoro.

Prima recitavo, così, intuitivamente, riflettevo dopo, oggi capisco, il corpo di Bobò ha ridato un senso alla

danza. Condivividevo questa idea comune che la danza è estetica e fisica, un parossismo di bellezza. Ormai,

per me la danza è semplicemente un altro modo di utilizzare se stessi, per parlare.

36 Ibidem, pp. 118-119.

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La danza è un linguaggio che delle tribù antiche avevano trovato per essere in armonia con la natura. Con il

mondo. E` una necessità di parlare. Un altro modo di parlare.

Quando ho incontrato Bobò, sordomuto, c’era in ogni suo gesto una necessità di comunicazione. Quando

Bobò fa un gesto è perché c’è qualcosa da dire. I suoi gesti non sono mai estetici. Ognuno trasmette un

sentimento, dell’amore, della violenza, della necessità, dell’indifferenza, la disperazione, la solitudine, il

gioco. Ho trovato grazie a Bobò quello che cercavo da molto tempo nel mio lavoro. (...)

Non so cosa pensa Bobò. Non conosco la sua logica. E` analfabeta, la sua logica è diversa, non c’è della

“testa”. Non conosce la razionalità. Certi dicono che faccio del “teatro-handicap”. Come se ci fosse da un

lato il teatro e dall’altro i disabili. Non desidero lavorare con i disabili, cerco un altro modo di far parlare il

teatro. Cerco di offrirgli degli altri linguaggi e delle altre mediazioni culturali.

Quando abbiamo rappresentato i nostri spettacoli in America del Sud, la gente chiamava Bobò: uccellino!

Era venerato come una persona speciale. Nella nostra società occidentale, le persone come Bobò sono state

emarginate. Che se ne dica, il teatro occidentale, anche quello nelle sue forme più innovatrici è molto

borghese. Ha sacrificato il sacro al confort. Parlare di teatro-handicap è una visione molto borghese del

teatro37.

In questo nuovo modo di pensare, di vedere il corpo con le sue imperfezioni, nella

contraddizione di credere che il solo modello possibile sia quello comunemente assunto,

sta un nuovo modo di interpretare la bellezza. È una nuova estetica che risiede in un corpo

non più idealizzato, non più catalogato come perfetto. Il corpo ancora una volta risponde

al bisogno di ricercare nuovi linguaggi divenendo non più lo strumento ma il luogo stesso

della creazione, il luogo in cui si produce e si trasmette un’energia, che non si traduce solo

con la parola ma che prende forma in tante altre forme.

37 DELBONO PIPPO, Le corps de l’acteur. Ou la nécessité de trouver un autre langage. Édition Les

solitaires intempestifs, Besançon, 2004, pp. 48-50, traduzione personale.

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CONCLUSIONI

Tutto è regolato da una complessa tela di rapporti. Il rapporto tra Sordi e udenti, tra attore

e spettatore, tra parola e gesto, tra corpo normale e corpo anormale.

Il principio dell’opposizione definito da Barba allora non è un semplice affare teatrale, è

un principio della vita. Come un parte della vita è la comunicazione.

In quello che è stato detto emerge senza dubbio il bisogno di comunicare. Del resto fare

teatro significa instauare una relazione tra l’attore e lo spettatore, trasmettergli un’energia,

una forza, un messaggio. Una lingua opera nello stesso modo, che sia fatta di parole o di

segni. In questo senso nella diversità dei modi di produzione, di utilizzo e delle finalità

della lingua dei segni in ambito teatrale, si inserisce un momento di contatto.

Per i Sordi la comunicazione è la necessità di poter utilizzare una lingua naturale, non

imposta dalla comunità udente, che li schiaccia sotto il peso di una uniformazione

politicizzata. È il bisogno di esprimere la propria cultura, di rivendicare una diversità

attraverso la propria identità. Il mondo Sordo è lontano dall’essere una realtà semplice,

non solo per la complessità dei rapporti con gli udenti, ma anche per i legami che si

instaurano tra gli stessi Sordi. L’appartenenza alla comunità Sorda è a momenti un

processo di esclusione (per chi non conosce la lingua dei segni, per chi ha avuto un

insegnamento oralista, per chi ha delle protesi, per chi ha un impianto cocleare), in altri un

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processo di inclusione, come quello prospettato da Paddy Ladd, che con il concetto di

Deafhood, include nella comunità Sorda tutti i “simpatizzanti” della lingua e della cultura

Sorda.

Dall’altro il teatro cerca l’affrancamento dalla parola, per ritrovare nel corpo

un’espressività diversa, frutto della fisicità delle persone che lo praticano. Il corpo parla,

parla con tutta la sua forza e la sua energia. Per rompere la barriera della comunicazione,

grazie al modello del “terzo orecchio” prospettato da Kanta Kochhar- Lindgren.

In questo modello la comunicazione non è fatta solo a livello uditivo. L’ascolto si

materializza, prende forma in immagini attraverso modalità espressive che si mescolano

tra loro per rispondere ad esigenze interculturali e interdisciplinari. Un modo diverso di

interpretare il silenzio, il suono, il movimento del corpo, sulla linea di frontiera tra sordità

e udito.

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RINGRAZIAMENTI

Per tutti questi anni di Università non credo che una pagina di ringraziamenti possa

bastare. Ma dal momento che la sintesi s’impone inizio con il ringraziare, contravvenendo

ad Umberto Eco, la Prof.ssa Elisabetta Brusa, che ha avuto la costanza, la pazienza e

l’immensa disponibilità di seguirmi, incoraggiarmi e credere in me.

Ringrazio la Prof.ssa Carmela Bertone per i preziosissimi suggerimenti e per avermi

permesso di sostenere l’esame di Lingua e Cultura dei Sordi, che è stato un bel trampolino

per iniziare l’indagine nel mondo Sordo.

Un grazie enorme a mia mamma per tutto quello che ha sempre fatto per me, per avermi

insegnato la genuinità di un pensiero libero, critico e costruttivo. Un grazie a mio padre,

che anche se non c’è più, è una presenza quotidiana nei miei ricordi, pensieri, azioni.

Sono sicura sarebbe stato orgoglioso di dire a tutti che sua figlia si sta per laureare.

Scusami papà ma solo a posteriori ho capito tante cose.

Ringrazio i miei nonni per la loro umiltà e per aver sempre difeso la nostra famiglia dai

giudizi critici di chi agiva nell’ignoranza.

Ringrazio mia sorella Stefania per avermi permesso di riflettere diversamente su alcune

problematiche.

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Grazie a Tigrane che ha sopportato tutti i miei sbalzi d’umore, tutti i libri sparsi per casa,

per avermi consigliata e criticata e per essersi occupato dei nostri bimbi.

Ringrazio i miei bimbi, Mattia e Agata, per avermi regalato un sorriso e una parola gentile

proprio quando ero al massimo dell’esasperazione. Questo lavoro è anche per voi, perché

possiate capire un pezzo della nostra storia.

Ringrazio Samantha per avermi dato l’idea di Disco Labirinto e per avermi aiutata ad

impaginare direttamente da New York City!!! Per fortuna esiste internet!!!

Un grazie affettuosissimo a Rosaria Giuranna per la sua disponibilià e gentilezza, Lucia

Daniele per aver risposto alle mie domande. Bernard Bragg per il suo aiuto. Un grazie di

cuore a Giusi Cataldo per l’affetto e la cortesia.

Grazie a Lennard J. Davis per essere stato tempestivo nelle risposte alla mie domande e

per avermi fatto scoprire i CODA (Children Of Deaf Adults).

Grazie a Kanta Kochar- Lindgren per le sue parole carine e piene di incoraggiamento.

Grazie ad Alexandra e Olivia, per essersi sorbite i miei monologhi “Sordi”.

Grazie a Sabrina Signoretto.

Grazie a Martine e Gillian.

Grazie a Madame Michelle Balle Stinckwich dell’Institut des Sourds di Parigi e al Sig.

Dolcia Enrico dell’Istituto dei Sordi di Torino.

Grazie al Sig. Boaretti Tino, presidente della sezione provinciale ENS di Verona per

avermi ricevuta e per la fruttuosa chiaccherata che ne è seguita.

Un grazie alle “Agate” per il sostegno.

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