to in questo scavo lungo e stretto come «casa» del … · te, il terrazziere, il portatore, ecc....

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In tutta l’Europa i combattenti, mi- lioni di giovani, vennero sottoposti alla crudele scuola di vita della trin- cea, senza distinzione di Esercito. Il soldato, infatti, viveva sprofonda- to in questo scavo lungo e stretto che era la trincea, dalle pareti così alte da consentirgli solo la vista di uno spicchio di cielo, anche perché alzare la testa oltre il ciglio dello sca- vo voleva spesso dire rischiare di es- sere ferito o, peggio ancora, morire. Solo la feritoia consentiva un rapido sguardo a quella terra di nessuno compresa tra le due linee e lo spet- tacolo, il più delle volte, era un ter- reno tetro, brullo, rotto solo dai tiri d’artiglieria e cosparso degli oggetti più vari. Dalla vicenda della feritoia 14 del racconto del Capitano Emilio Lussu (1): «...La vista era consentita solo per pochi attimi, infatti, non appe- na il cecchino avversario si accorgeva che qualcuno utilizzava la feritoia par- tiva un preciso colpo di fucile contro il coraggioso che stava osservando il cam- po di battaglia...». Padre Agostino Gemelli (2), Cappellano militare e psicologo, così descrive la vita di trincea: «...il cannone ha distrutto ogni germe di vegetazione; tra la propria trincea e quella nemica non vi è che un tratto di terreno sconvolto, più o meno ampio, di là e di qua i reticolati, paletti contorti, qualche straccio che il vento agita goffamente. È un deserto. Non un movimento. Gli osservatori, le vedette, conoscono il terreno punto a punto, in ogni minuzia. Un ramo d’albero smos- so, una palata di terra fresca, un sasso cambiato di posto sono avvertiti come novità...» (3). L’indifferenza e la depressione furo- no le reazioni più comuni alla situa- zione contingente. Per tutta la lunghezza e la profondi- tà della linea, in qualsivoglia mo- mento del giorno e della notte, la presenza costante della morte era una sensazione viva e palpabile che 96 Rivista Militare LA TRINCEA COME «CASA» DEL SOLDATO ASPETTI DI VITA QUOTIDIANA PRIMA GUERRA MONDIALE La Prima guerra mondiale fu una guerra tecnologica e di posizione che vide impegnato un numero elevatissimo di persone costrette a una pro- miscua, stretta convivenza e alla forzata condivisione di una terribile esperienza di vita all’interno dell’angusto spazio delle trincee. La vita di trincea fu elemento comune a tutti gli Eserciti impegnati e se- gnò profondamente i combattenti e i territori in essa coinvolti, lasciando in tutti ricordi indelebili. Una moderna legislazione, nella quale l’Italia è all’avanguardia, intende ora tutelare e conservare questi luoghi della memoria, ritenuti patrimo- nio comune a tutti i popoli europei. Una trincea del basso Piave con un fante di vedetta mentre i suoi commilitoni chiacchie- rano seduti sulla banchina tiratori, appoggiati allo spalto rinforzato con sacchetti a terra.

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In tutta l’Europa i combattenti, mi-lioni di giovani, vennero sottopostialla crudele scuola di vita della trin-cea, senza distinzione di Esercito.Il soldato, infatti, viveva sprofonda-to in questo scavo lungo e strettoche era la trincea, dalle pareti cosìalte da consentirgli solo la vista diuno spicchio di cielo, anche perchéalzare la testa oltre il ciglio dello sca-vo voleva spesso dire rischiare di es-sere ferito o, peggio ancora, morire.Solo la feritoia consentiva un rapidosguardo a quella terra di nessunocompresa tra le due linee e lo spet-tacolo, il più delle volte, era un ter-reno tetro, brullo, rotto solo dai tirid’artiglieria e cosparso degli oggettipiù vari. Dalla vicenda della feritoia14 del racconto del Capitano EmilioLussu (1): «...La vista era consentitasolo per pochi attimi, infatti, non appe-na il cecchino avversario si accorgevache qualcuno utilizzava la feritoia par-tiva un preciso colpo di fucile contro ilcoraggioso che stava osservando il cam-po di battaglia...». Padre AgostinoGemelli (2), Cappellano militare epsicologo, così descrive la vita ditrincea: «...il cannone ha distrutto ognigerme di vegetazione; tra la propriatrincea e quella nemica non vi è che untratto di terreno sconvolto, più o menoampio, di là e di qua i reticolati, paletticontorti, qualche straccio che il ventoagita goffamente. È un deserto. Non unmovimento. Gli osservatori, le vedette,conoscono il terreno punto a punto, inogni minuzia. Un ramo d’albero smos-so, una palata di terra fresca, un sassocambiato di posto sono avvertiti comenovità...» (3).L’indifferenza e la depressione furo-no le reazioni più comuni alla situa-zione contingente.Per tutta la lunghezza e la profondi-tà della linea, in qualsivoglia mo-mento del giorno e della notte, lapresenza costante della morte erauna sensazione viva e palpabile che

96 Rivista Militare

LA TRINCEACOME «CASA»DEL SOLDATO

ASPETTI DI VITA QUOTIDIANA

PRIMA GUERRA MONDIALE

La Prima guerra mondiale fu una guerra tecnologica e di posizione chevide impegnato un numero elevatissimo di persone costrette a una pro-miscua, stretta convivenza e alla forzata condivisione di una terribileesperienza di vita all’interno dell’angusto spazio delle trincee.La vita di trincea fu elemento comune a tutti gli Eserciti impegnati e se-gnò profondamente i combattenti e i territori in essa coinvolti, lasciandoin tutti ricordi indelebili.Una moderna legislazione, nella quale l’Italia è all’avanguardia, intendeora tutelare e conservare questi luoghi della memoria, ritenuti patrimo-nio comune a tutti i popoli europei.

Una trincea del basso Piave con un fante divedetta mentre i suoi commilitoni chiacchie-rano seduti sulla banchina tiratori, appoggiatiallo spalto rinforzato con sacchetti a terra.

si manifestava improvvisamentecon la perdita di un compagno opiù semplicemente osservando ilcampo di battaglia, costantementecosparso di caduti insepolti, rimastilà dove la morte li aveva colti, che siputrefacevano lentamente.Nemmeno la notte, il riposo recavaristoro, seppur transitorio, al com-battente poiché era questo il mo-mento in cui aumentava la possibi-lità di un attacco di sorpresa equindi la possibilità di non trovarescampo. Pertanto anche di nottel’attività del soldato continuava in-cessante così come la costante sor-veglianza del terreno e l’attenzionea qualsiasi rumore.Quasi sempre di notte i reparti di-staccavano pattuglie che avevano ilcompito di riconoscere l’andamentodelle linee nemiche, studiarne losviluppo, le postazioni delle armiautomatiche, gli effetti del tiro suireticolati e quant’altro.Durante il giorno, invece, venivanoeseguiti i lavori di rafforzamentodelle linee che dovevano servire alladifesa della postazione.Scriveva il Generale Capello che«...da noi nelle prime linee il soldato do-veva fare tutti i mestieri, il combatten-te, il terrazziere, il portatore, ecc. Il no-stro fante in trincea non aveva requiené di giorno né di notte e nella moltepli-ce e pesante attività che senza treguagli veniva imposta si esauriva e rendevapoco...» (4).Una condizione così pesante porta-va il soldato a uno stato di depres-sione che si manifestava prima ditutto con la scarsa cura della pro-pria persona, l’indifferenza e il bloc-co dell’attività intellettuale.Questa situazione tendeva a colletti-vizzarsi. Si arrivò al punto che i fan-ti accettarono passivamente di vive-re promiscuamente in mezzo ai ca-daveri dei compagni deceduti. Latrincea, dunque, era recepita comeun «...involucro di indifferenza...» (5) evissuta da molti Comandanti comepiù importante rispetto alle vicendeumane che si creavano all’interno diquello scavo fortificato.

Le ispezioni che le gerarchie effet-tuavano alle trincee erano finalizza-te soprattutto a verificarne la solidi-tà, la funzionalità e l’efficienza com-plessiva del sistema difesa mentrein scarso conto venivano tenute lecondizioni psico-fisiche di coloroche avevano la responsabilità di di-fenderle.Poiché il giudizio emesso durante leispezioni dai Comandanti sovraor-dinati era quasi sempre negativo,esso aveva ripercussioni sui Co-mandanti subordinati sino ai minorilivelli ordinativi. In questo modo leattività di rafforzamento della linea

divennero permanenti anche a cau-sa delle continue indispensabiliopere di riattamento della lineaquasi quotidianamente danneggiatadal tiro nemico.Ogni decisione riguardante man-sioni, postazioni, turni di servizio eperfino quantità e qualità del ran-cio erano prese da altri per il com-battente. Come in qualunque comunità, e amaggior ragione in caso di guerra,la vita della truppa era regolata dauna rigida gerarchia. Ciò non impe-diva l’insorgere di malcontento difronte a limitazioni talora conside-rate eccessive. Non era del restopossibile per i militari in trinceasviare la propria attenzione su coseche esulassero dalla situazione con-tingente. La stretta convivenza crea-va peraltro un forte senso di came-

ratismo legato anche alla condivi-sione di confidenze riguardanti lapropria vita privata come famiglia,figli e lavoro.Vi era una continua condivisione diesperienze e opinioni che cementa-va i rapporti tra commilitoni per-mettendo, inoltre, a tutti i soldati diampliare la propria visione riguar-do ai propri diritti e doveri. Di soli-to i soldati ricercavano contatti conquanti parlavano il proprio dialettoper ottenerne informazioni circa lavita e la situazione del paese d’ori-gine. Queste brevi pause permette-vano al soldato, lontano dagli affet-

ti, di ricreare un legame con le cosecare, la casa e la famiglia anche seper un breve momento.Ogni più piccolo insignificante ar-gomento veniva sviscerato a trecen-tosessanta gradi: la quotidianità, ipiù significativi avvenimenti acca-duti in qualsivoglia imprecisatopunto della linea, le voci su «possi-bili» futuri sviluppi della guerra, lesperanze di pace un giorno più vici-ne e il giorno dopo più lontane, lenovità portate al fronte dai giovanicomplementi o da qualche soldatorientrato dalla convalescenza, il sen-so di qualche articolo pubblicato su

97n. 3 - 2012

Il Tenente Generale Luigi Cadorna, Capo diStato Maggiore dell’Esercito Italiano, ispe-ziona con un gruppo di alti Ufficiali i lavoriper la costruzione di un tratto di reticolatodi una linea difensiva secondaria.

qualche quotidiano letto di nasco-sto, in retrovia, su qualche foglio«clandestino» (6). Era usanza tra icommilitoni condividere viveri epacchi dono ricevuti da casa. Neltempo libero si usava raccogliere re-siduati bellici che venivano trasfor-mati in manufatti da portare a casao da utilizzare nella stessa trincea.Era in uso recuperare materiale me-tallico e schegge ferrose necessariall’industria bellica che li adoperavaquale materia prima per la costru-zione di nuove armi.Tutto quanto poteva essere oppor-tunamente adoperato era oggetto di

recupero e tale attività era incenti-vata dalla corresponsione collettivadi denaro (7).Gli avvenimenti che rompevano leattività di routine erano costituiti daidue eventi più temuti dai combat-tenti: il tiro dell’artiglieria nemica el’assalto. Per solito l’azione di fuocodell’artiglieria era usata allo scopodi neutralizzare i sistemi difensiviavversari e veniva prima dell’attac-co. All’azione così detta di neutra-lizzazione eseguita da una delle dueparti veniva contrapposta da parteavversa l’azione di artiglieria a git-tata maggiore (il cosiddetto fuoco di«contro batteria») che doveva con-trastare e possibilmente distruggerele fonti del fuoco nemico.Tale azione di fuoco era in generemolto violenta e aveva anche la fi-

nalità di neutralizzare gli ostacolipassivi e di demolire la linea ogget-to dell’assalto.Durante i tiri di demolizione cheprecedevano l’assalto delle fanterienemiche, tutto il personale in lineaveniva fatto retrocedere su posizio-ni di seconda linea per sottrarlo da-gli effetti del tiro. Quando poi l’arti-glieria allungava il tiro sugli obietti-vi di secondo piano e le fanterieuscivano dalle loro postazioni permuovere all’assalto, i difensori dellatrincea tornavano sulla trincea diprima linea mettendo in postazionele armi automatiche con le qualitentare di arrestare l’avanzata.L’obiettivo finale di difensori e at-taccanti era quindi la trincea avver-saria di prima linea.Per solito si cercava di sfruttare l’ef-fetto sorpresa in modo da costringerei combattenti in linea a schiacciarsi(appiattirsi) sul fondo della trincea.Ciò comportava però il rischio diperdite umane di proporzioni enor-mi nel caso fossero centrati un trattodi trincea o di camminamento. Inogni caso, se il tiro dell’artiglieria ne-mica non veniva reso inefficace dalfuoco di controbatteria bisognava ne-cessariamente aspettarsi, alla fine delbombardamento, un assalto dallefanterie nemiche.Il tiro dell’artiglieria era temuto so-prattutto per la tipologia di lesioniche provocava a causa delle schegge.Vi era un indubbio impatto psicolo-gico dei bombardamenti che faceva-no sentire i fanti impotenti perché siriducevano le protezioni.Scrive il Marpicati: «...se le facoltà in-dividuali intorpidiscono nella monoto-na trincea e il campo della conoscenzasi riduce a un cerchio minimo, duranteil bombardamento il fenomeno più ge-nerale nella massa è addirittura d’arre-sto nel lavorio mentale: si sta lì, si ac-compagna con tutto il nostro essere ilsibilo e lo schianto dei proiettili, ma nonsi pensa a nulla.... Quando la furia delleartiglierie culmina nel parossismo deltamburellamento (fuoco tambureg-giante N.d.A.) non c’è più nulla cheinteressa: né gli affetti lontani, né gli

98 Rivista Militare

Una sezione mitragliatrici del reggimento«Cavalleggeri di Roma» (20°) sul Carsonel 1915.

amici vicini, né la vita né la morte.Morti ci si sente anzi di già.... Il sensodella fatalità ha influito e regna su tuttigli organi. Occorre qualche tempo per-ché, cessato il bombardamento, i nerviscossi tornino a posto e le facoltà ri-prendano i loro esercizi normali...» (8).L’assalto! «...Gli occhi dei soldati, spa-lancati, cercavano i nostri occhi. Il Ca-pitano era sempre chino sull’orologio e isoldati trovarono solo i miei occhi. ...Misforzai di sorridere e dissi qualche paro-la a fior di labbra; ma quegli occhi, pienid’angoscia e di interrogazione, mi sgo-mentarono - pronti per l’assalto! - ripe-té ancora il Capitano. Di tutti i mo-menti della guerra, quello precedentel’assalto era il più terribile. L’assalto!Dove si andava? Si abbandonavano i ri-pari e si usciva. Dove? Le mitragliatri-ci, tutte, sdraiate sul ventre imbottito dicartucce, ci aspettavano. Chi non ha co-nosciuto quegli istanti, non ha cono-sciuto la guerra...» (9).«...Nei reparti Arditi, formati cioè dasoldati in possesso di particolari dotipsico-fisiche, educati al culto per latradizione del reparto, il momento del-l’assalto era percepito da questi soldaticome il momento della verità, quasiuna festa...» (10).

I fanti erano per lo più giovani diorigine contadina che, in qualchemodo, modificarono la loro perso-nalità a causa della guerra.Per la maggior parte di essi, privi dimotivazioni eroico-culturali, l’assaltoera la parte della vita di trincea piùterribile e a nulla valeva il pensierodi poter vendicare l’amico o il fratel-lo caduto in un precedente combatti-mento. Il giorno fissato per un nuo-vo assalto era considerato un giornoinfausto. «Generalmente la fanteria ita-liana riscosse giudizi lusinghieri da par-te dell’avversario soprattutto durante icombattimenti più duri, contro posizionigiudicate imprendibili e durante i quali ireggimenti perdevano la metà degli effet-tivi e per avanzare era necessario cam-minare fra i caduti e i feriti delle prece-denti ondate e, spesso, molto spesso, sicorreva verso la trincea nemica con gli

occhi velati di pianto...» (11).I fanti andavano all’assalto perchégli avevano detto che era il loro do-vere, perché l’Ufficiale, in testa alreparto, andava all’assalto e perchétutti gli uomini del reparto andava-no all’assalto. Si ritenevano più for-tunati i soldati destinati alla primaondata d’assalto che, comunque,erano rassegnati all’inevitabile e lanotte riuscivano a riposare (12).La classe contadina portò nell’Eser-cito i sentimenti propri delle classirurali quali ad esempio la solidarietànei confronti dei commilitoni, senti-mento in parte legato alla tradizionedi buon vicinato che vigeva nelle co-munità rurali e che si trasformava inun legame profondo verso chi vive-va e operava nella squadra, nel plo-tone o nella compagnia.Il coraggio o la vigliaccheria di unosi diffondeva tra i vicini diventan-do, in positivo o in negativo, patri-monio comune di tutti, come pure iproblemi familiari di uno diveniva-no problema di tutto il reparto.La vita del fante in trincea «...era giàdi per sé stessa, pur nell’osservanza del-l’episodio cruento, una mutazione distati d’animo violenti, tanto più inten-sivi quanto sulla coscienza del singolosi rifletteva l’irrequietezza dei millesuoi vicini, dei mille suoi lontani i qualivivevano nell’ansia della prova, nell’in-cubo del momento terribile...» (13).La provenienza dalla realtà contadi-na della maggioranza dei fanti e, co-munque, l’appartenenza della gran

99n. 3 - 2012

Consumazione del rancio in prima linea.

Una trincea di collegamento sul Carso. Ilmateriale di riporto è stato utilizzato perla costruzione del parapetto.

parte di questi alle classi proletariefacilitavano i rapporti interpersona-li, favoriti anche dalle medesimecondizioni di vita. Tutto ciò facevain modo che la guerra e la vita ditrincea fossero similmente percepitee vissute e lo stesso accadeva con igiudizi circa le vicende vissute cheerano similmente espressi.Sui rapporti interpersonali e gerar-chici, va detto che la classe contadi-na, predominante nella Grande

Guerra, tendeva a cementarsi facil-mente con i commilitoni del proprioreparto grazie anche a una naturalepredisposizione a mantenere buonii rapporti con coloro che, come lorostessi, subivano gli stessi disagi e lestesse vicende, proprio come, in pa-ce, avrebbero fatto con il vicino dipodere.Il conflitto non aveva fatto altro chetrasformare questo rapporto di«buon vicinato» in una vera e pro-pria solidarietà, quasi una fraternitàspirituale.Fu questo particolare tipo di rap-porto di stretta condivisione di

esperienze di guerra e vicende per-sonali che cementò i rapporti tracommilitoni portando a considerarlinon più come soggetti a sé stanti,ma come elementi indispensabili al-la condotta della guerra.Da questa considerazione deriveràquel particolare affiatamento tra isoldati dello stesso reparto che pre-se il nome di cameratismo.Era diffuso il sentimento di necessa-ria cooperazione e la consapevolez-

za che dalla reciproca disponibilitàdipendesse il destino dell’interogruppo. Ne è un esempio il serviziodi pattuglia notturna effettuato nel-la terra di nessuno dove pure simuovevano le pattuglie nemiche.Questo non poteva essere considera-to solo come fine a sé stesso ma era,nel contempo, una protezione, ancor-ché indiretta, che il fante eseguiva neiconfronti dei commilitoni per evitareche fossero colti di sorpresa dalle pat-tuglie nemiche.Più in generale, possiamo dire chenel momento del bisogno ognunoaiutava il vicino e da questi riceve-va aiuto, prescindendo dai rischiche ciò avrebbe comportato. Que-sto cameratismo era elemento indi-spensabile alla coesione dei repar-ti, alla loro saldezza in trincea e

serviva a formare quell’unità d’in-tenti anche tra Ufficiali e gregari,necessaria per ottenere l’indispen-sabile amalgama nell’ambito del-l’unità (14).La condivisione o meglio la com-prensione dei motivi della guerrapotevano anche mancare al fanteche, anzi, poteva non condividerli,ma, nonostante tutto, non facevanovenir meno il rafforzarsi e l’esten-dersi dei vincoli di fratellanza e soli-darietà tra i combattenti.Il fante contadino, storicamente in-dividualista «...comincia allora a sen-tirsi un raggio dell’immane ruota che logira.... Stabilisce, per bisogno naturale,vincoli di amicizia e di fratellanza, con-frontandosi alla vista di molti compagnipartecipi della sua stessa sorte. Le suefacoltà più acute si smussano, la sua ri-flessione restringe il campo ... la massalo ha già così, insensibilmente, domato,trasformato e fatto suo.... La perditadella personalità, gli istanti di imitazio-ne e d’amor proprio, il senso della soli-darietà, agiscono ben più fortementesulla massa e favoriscono l’opera dei ca-pi coscienti e illuminati...» (15).Tra i combattenti si instaurò unasorta di processo di identificazioneche portò tra i vari gradi dell’Eserci-to una forte coesione malgrado vifossero enormi diversità di funzionie distanze sociali a quei tempi forte-mente sentite. Si creò una empatiatra i componenti della truppa cheportò i commilitoni a una sollecitu-dine nell’accorrere sulle trincee diprima linea al momento dell’attacco.Ha scritto Mario Puccini: «...anche imiei fanti raccontano. Chi ha un figlio echi ne ha di più: e tutti questi bimbi, ilmio e il loro, pare che ormai si conosca-no, che giochino insieme. Così, alla che-tichella, dietro le schiene dei papà, ra-dunati quassù in armi per fare la guer-ra all’Austria...» (16).Prova del cameratismo creatosi du-rante il conflitto fu il fiorire tra gliex commilitoni di sezioni di ex com-battenti che continuarono nel cultodei caduti a rinnovare quei senti-menti di solidarietà e di comunioneideale che erano nati in trincea.

100 Rivista Militare

Fanti italiani osservano la linea avversariaattraverso feritoie predisposte lungo il pa-rapetto della trincea.

ESTRAZIONE SOCIALEDELLA FORZA COMBATTENTE

Vale la pena ricordare che con l’au-mentare delle possibilità di un no-stro ingresso nel conflitto, il Coman-do Supremo Italiano iniziò a studia-re più approfonditamente la guerraeuropea che si andava combattendosia a Oriente che a Occidente.Le risultanze portarono a richiama-re una quantità di coscritti superio-re a quanto, in realtà, prevedevanole disposizioni per la mobilitazione,calibrate su una possibile guerraconvenzionale rispettosa di rigidicriteri di economia.Mancando però tempo e possibilitàper addestrare più compiutamenteil personale, gli incarichi venneroattribuiti seguendo il criterio del«precedente di mestiere».Fu necessario, pertanto, fronteggia-re un duplice ordine di necessità:se infatti da un canto era indispen-sabile mantenere un elevato livelloproduttivo dell’industria naziona-le, ancora agli albori, era altresì in-dispensabile portare al fronte unadeguato contingente di manodo-pera specializzata che fosse in gra-do di eseguire tutte le attività logi-stiche di rifornimento e riparazioniche si sarebbero verificate durantelo svolgimento della guerra. In pa-tria, pertanto, la manodopera spe-cializzata venne sostituita da unaforza lavoro non specializzata e co-stituita da donne, minori e contadi-ni che entrarono così a far partedell’industria.Si è già detto che la Prima guerramondiale fu una guerra tecnologicache vide l’utilizzo di un complessomateriale di armamento e di delica-te attrezzature.Fu quindi logico impiegare nell’ar-ma del genio e nella motorizzazionepersonale addestrato allo svolgi-mento di mansioni analoghe nel-l’ambito dell’industria nazionale.È anche vero che questa classe opera-ia cominciava allora a formarsi e adassumere una propria coscienza chela portò a riunirsi in organizzazioni

sindacali: iniziava allora la conduzio-ne di una aspra lotta di classe con larivendicazione di diritti a tutela deilavoratori (17). Malgrado ciò gli ope-rai portati in trincea si dedicaronocompletamente all’addestramentomilitare e vennero assorbiti e integra-ti nell’ingranaggio militare.I mobilitati privi di esperienze pro-fessionali, ma che potevano rive-larsi utili alle attività militari, ven-nero generalmente incorporati inarmi, specialità, servizi e attivitàlogistiche allo scopo di integrarel’organico dei reparti. Inoltre, essiconcorsero anche a integrare i re-parti di fanteria. Tra gli impiegatie gli studenti, di solito di estrazio-ne borghese, era elevato il numerodi volontari.Le unità di fanteria, utilizzate perfronteggiare il combattimento clas-sico, vennero create per lo più im-piegando soggetti scelti tra la popo-lazione rurale.Le attività agricole furono così de-mandate agli agricoltori non richia-mati, anziani, molto giovani e ma-nodopera femminile, tradizional-mente impegnati come manovalan-za nella società contadina.Le classi rurali fornirono alla fante-ria 2 milioni e 600 mila uomini.

«...del contadino combattente non sipuò fare, in generale, che il più alto elo-gio. Esso fu docile, ubbidiente strumen-to nelle mani degli Ufficiali che sepperocomandarlo e guidarlo» (18).Fu proprio questa classe rurale, av-vezza a un tipo di lavoro estenuantee dotata di forti doti morali, che favo-rì il cementarsi delle relazioni tra icombattenti a vantaggio della com-pattezza dei reparti e in virtù dellemodeste aspirazioni e della tradizio-ne di coltivare le relazioni di buon vi-cinato e delle scarse esigenze di vita.Si è già detto come non furono solole armi a mietere un elevato numerodi vittime durate la Prima guerramondiale, ma anche l’insorgenza divere e proprie epidemie, che costi-tuì una autentica emergenza per lasanità militare di tutti i Paesi impe-gnati nel conflitto. Le condizioni disovraffollamento, la scarsità di igie-ne personale e la stessa carenza diacqua, spesso contaminata dallestesse deiezioni dei combattenti co-stretti a soddisfare in trincea ognibisogno fisiologico, crearono il ter-reno adatto al diffondersi di infezio-ni e contagi. La prima, in ordine ditempo, tra le epidemie verificatesinei campi di battaglia fu il colera,già nel luglio del 1915, insorto tra letrincee carsiche del Monte Sei Busi.L’epidemia si diffuse in breve tem-po a tutti i reggimenti carsici inte-

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Fanti italiani in trincea.

ressando in meno di un mese l’inte-ra linea della Terza Armata e partedella Seconda (sino al Monte Saboti-no). L’epidemia ebbe un andamentobifasico e, nel suo picco di virulen-za, la mortalità toccò i sessanta indi-vidui al giorno, attorno alla metà diagosto. Si ebbe poi una sua recrude-scenza dalla fine del mese di ottobrefino alla metà di novembre.Furono soprattutto i fanti a essernecolpiti, in parte a causa delle duris-sime condizioni di vita cui eranosottoposti, ma anche per la scarsitàdi cure disponibili.La patologia era giustamente rite-nuta altamente mortale e quinditemuta fortemente dai soldati, mavi furono anche militari che nonebbero, nei confronti del colera,più paura di altre cause di morte.Scrive, a questo proposito, EmilioLussu: «La vita di trincea, anche sedura, è un’inezia di fronte a un assal-to. Il dramma della guerra è l’assalto.La morte è un avvenimento normale esi muore senza spavento. Ma la co-scienza della morte, la certezza dellamorte inevitabile, rende tragiche le oreche la precedono.... Lo stesso colerache cosa è? Niente. Lo avemmo fra la1a e la 2a Armata, con molti morti e isoldati ridevano del colera. Che cosa èil colera di fronte al fuoco di infilata diuna mitragliatrice?» (19).

TRINCEE DA TUTELARE

Come si è detto, la Grande Guerrafu una guerra di trincea. Fu unevento di portata epocale intima-mente connesso con la fisicità delterreno. Centinaia di chilometri difronte, dallo Stelvio all’Adriatico,integrati da reticolati, mitragliatricie cannoni avevano costretto gliEserciti a sprofondarsi nel fango, frale rocce. La Grande Guerra ha la-sciato resti imponenti quanto diffu-si: trincee, caverne, strade, ponti,edifici di ogni tipo e sentieri vertigi-nosi, che hanno segnato il cuore e ilvolto di tante valli alpine e tantepianure friulane. Eventi, paesaggio,

memorie locali, storia d’Italia e sto-ria d’Europa si fusero in un’unicapiega nel terreno.Già un Regio Decreto del 1922 vollecelebrare gli «immortali fatti di glo-ria» della guerra appena conclusa,proclamando «musei nazionali» lequattro montagne più segnate daicombattimenti: il Pasubio, il Grap-pa, il Sabotino e il San Michele.Poi il resto del fronte rimase per lopiù abbandonato al lavoro dei «re-cuperanti», alla lenta opera livella-trice della natura e, talvolta, a qual-

che atto di più o meno consapevolevandalismo.Malgrado fossero oggetto di curiosi-tà in un’ininterrotta produzione distudi, le trincee furono per un po’ ditempo considerate immeritevoli diconservazione. Solo negli anni ’80 e’90 vennero eseguiti i primi saltuariinterventi di restauro e conservazio-ne a opera di associazioni di volon-tariato, italiane e straniere, e conl’aiuto determinante dei militari.Attualmente l’interesse per la Gran-de Guerra e le sue vestigia si è am-plificato e si sono moltiplicate le ini-ziative volte al loro recupero e allaloro valorizzazione. Tali opere sonoindubbiamente state favorite da unafitta rete di collaborazione sorta tracentri studi, comunità locali, asso-ciazioni storiche e Università e talo-ra di singoli nei vari Paesi. Sulla scia

di tale interesse è intervenuta l’azio-ne legislativa. A partire dal 1997, laRegione Veneto ha approvato unalegge che impone il censimento, ilrecupero e la valorizzazione dei be-ni storici, architettonici e culturalidella Grande Guerra.Poi è stato il turno della RegioneFriuli Venezia Giulia e della Provin-cia autonoma di Trento. Nel 2001 ilParlamento italiano, primo in Euro-pa, ha varato la Legge n. 78 di cuiriporto alcuni stralci (20) «(Art. 1Principi generali):

• la Repubblica riconosce il valorestorico e culturale delle vestigiadella Prima guerra mondiale;

• lo Stato e le Regioni, nell’ambitodelle rispettive competenze, pro-muovono la ricognizione, la cata-logazione, la manutenzione, il re-stauro, la gestione e la valorizza-zione delle vestigia relative a en-trambe le parti del conflitto e inparticolare di:•• forti, fortificazioni permanenti e

altri edifici e manufatti militari;•• fortificazioni campali, trincee,

gallerie, camminamenti, stradee sentieri militari;

•• cippi, monumenti, stemmi,graffiti, lapidi, iscrizioni e ta-

102 Rivista Militare

Un ferito viene allontanato dalla prima li-nea dopo essere stato soccorso e medicato.

bernacoli;•• reperti mobili e cimeli;•• archivi documentali e fotogra-

fici pubblici e privati;•• ogni altro residuato avente di-

retta relazione con le operazio-ni belliche;

• per le finalità di cui al comma 2 loStato e le Regioni possono avva-lersi di associazioni di volontaria-to, combattentistiche o d’arma;

• la Repubblica promuove, partico-larmente nella ricorrenza del 4 no-vembre, la riflessione storica sullaPrima guerra mondiale e sul suosignificato per il raggiungimentodell’unità nazionale;

• gli interventi di alterazione dellecaratteristiche materiali e storichedelle cose di cui al comma 2 sonovietati;

• alle cose di cui al comma 2, letterac), si applica l’articolo 51 del TestoUnico delle disposizioni legislati-ve in materia di beni culturali eambientali, approvato con Decre-to legislativo 29 ottobre 1999, n.490, di seguito denominato ”TestoUnico“...».

Tale Legge disciplina in manieramirata e organica le opere di tutelae valorizzazione del patrimonio sto-rico della Grande Guerra.La legge ha sancito che queste vesti-gia siano - nel loro complesso - unbene culturale, seppur di genereparticolare, e per questo siano meri-tevoli di tutela e valorizzazione. Si-curamente non si può considerareuna trincea alla stessa stregua diun’opera d’arte, né di un reperto ar-cheologico; dunque la Legge ha im-posto una tutela «leggera», non co-ercitiva, affidata in primo luogo - se-condo il principio di sussidiarietà -alle iniziative del volontariato, delleassociazioni e delle comunità locali.

CONCLUSIONI

In risposta al rinnovato interesse neiconfronti delle vestigia della Primaguerra mondiale, è fiorita da pocopiù di un decennio una legislazione

mirata, culminante nella già nomina-ta Legge n. 78 del 2001. Il principioguida che ha ispirato tale promulga-zione è quello del riconoscimentodelle trincee quali «vestigia» e «docu-menti storici» di un’epoca.In esse sono racchiuse testimonian-ze di una storia non esclusivamentedi natura militare ma anche sociale,economica, scientifica e delle tecni-che dall’ingegneria all’alpinismo fi-no alla medicina, alla cartografia eallo sviluppo industriale.Questa memoria storica è patrimo-nio non solo delle comunità localima anche delle Regioni e degli Statidi tutta Europa.È per questo che, come cita il legisla-tore nella Legge n. 78 del 2001, quellevestigia vengono oggi ritenute meri-tevoli di opere di conservazione esalvaguardia oggettiva che prescin-dano da ricostruzioni di parte o daeventuali strumentalizzazioni spessodettate da interessi economici.Fortunatamente l’Italia, nel ricono-scere il valore storico di tali vestigia,ha fatto da «battipista» per questanuova tendenza alla conservazionee valorizzazione di un patrimoniodella memoria che va giustamentecondiviso a livello europeo special-mente da quando sempre più mar-cata è divenuta l’influenza delle di-rettive comunitarie nella gestioneinterna dei singoli Stati appartenen-ti all’Unione Europea, quasi in ri-sposta a uno degli indirizzi costitu-tivi che ne hanno ispirato la fonda-zione, e cioè quello che assicura la«libera circolazione di beni, popoli eanche idee tra gli Stati membri».In questo l’Italia appare all’avan-guardia e ritengo che di ciò si possaessere giustamente orgogliosi.

Stefano EliseoMaggiore,

Capo Sezione PI - PRdel CME Friuli Venezia Giulia

NOTE

(1) Lussu E.: «Un anno sull’Altipiano»,

Einaudi, Torino, 1999, pp. 91-92.(2) Gemelli Agostino (Milano 1878 -Milano 1959), Frate francescano psico-logo. Creò all’Università Cattolica diMilano, di cui fu fondatore e rettoredal 1919 sino alla sua morte, un Istitu-to di psicologia sperimentale. Ha scrit-to «Introduzione alla psicologia» uni-tamente a G. Zunini.(3) Gemelli A.: «Il Nostro Soldato Oggi.Saggi di psicologia militare», Treves,Milano, 1917, p. 49.(4) Capello L.: «Note di guerra», Treves,Milano, 1920, vol. 1, pp. 206-207.(5) Marpicati A.: Saggi di psicologia dellemasse combattenti, «La proletaria», Bem-porad, Firenze, p. 16.(6) Focella - Monticone: «Plotoned’esecuzione», Laterza, Bari, 1968, Pre-fazione p. IV.(7) M. G.: «I rifornimenti dell’Esercitomobil i tato durante la guerra al lafronte italiana», IPS, Roma, 1924, pp.213, 214.(8) Marpicati A.: Saggi di psicologia dellemasse combattenti, «La proletaria», cit. p. 23.(9) Lussu E.: «Un anno sull’Altipiano»,Einaudi, Torino, 1999, pp. 104-105.(10) Mussolini B.: «Il mio diario di guer-ra», La Fenice, Opera Omnia, Vol. 24,1961, p. 28.(11) Gatti A.: «Caporetto», Il Mulino,Bologna, 1964, pp. 60-61.(12) Monelli P.: «Le scarpe al sole», Gar-zanti, Milano, 1944, p. 131.(13) Migliore B.: «Le convulsioni dell’ar-ditismo», Treves, Milano, 1921, p. 38.(14) De Bono E.: «La guerra come e do-ve l’ho vista e combattuta io», Monda-dori, Milano, 1935, p. 121.(15) Marpicati A.: «La proletaria», cit.pp. 13-14.(16) Puccini M.: «Davanti a Trieste»,Sonzogno, Milano, s.d., p. 36.(17) Rochat G.: «L’Italia nella Primaguerra mondiale», Feltrinelli, 1976,pp. 60-61.(18) Serpieri A.: «La guerra e le clas-s i rural i i ta l iane» , Laterza , Bar i ,1930, p. 55.(19) Lussu E.: «Un anno sull’Altipiano»,Einaudi, Torino, 1999, pp. 111-112.(20) Ravenna - Severini: «Il patrimoniostorico della Grande Guerra», Gaspari,Udine, 2001, pp. 171-184.

103n. 3 - 2012

L’offensiva in profondità è una ma-novra che si attaglia a unità di cam-pagna in grado di operare veloce-mente su ampi spazi, mantenere ilcollegamento e sostenere il combat-timento dinamico: di contro essenon sono di norma idonee alla pro-lungata difesa di posizioni statiche.All’offensiva in profondità, portatada reparti con queste caratteristiche,si affida generalmente un Esercito lecui forze già abbiano sopraffatto inbattaglia le principali difese dell’av-versario: il fine è conseguire un ri-

sultato di carattere strategico, qualeil collasso di un ampio settore difronte o il suo crollo. Alla fine del-l’ottobre 1918, pochi giorni dopol’inizio della battaglia di VittorioVeneto, il Generale Armando Diaz,

Capo di Stato Maggiore del RegioEsercito Italiano, in seguito agli svi-luppi favorevoli della battaglia, de-cise di utilizzare il Corpo di cavalle-ria per tagliare in profondità la riti-rata al nemico e non consentirgli diriorganizzarsi. Le unità di cavalle-ria, all’epoca, erano senza dubbio lepiù idonee a svolgere questo tipo dimanovra offensiva e assolsero conpieno successo il compito loro affi-dato. L’offensiva del Corpo di ca-valleria (Divisioni 2a, 3a, 4a) trassealimento e motivazione dal ricordodei ripetuti scontri dell’anno prece-dente, quando, in conseguenza del-la ritirata di Caporetto, la 1a e la 2a

Divisione di cavalleria si erano bat-tute per rallentare l’avanzata au-striaca e consentire a un numeroconsistente di truppe della 2a e 3a

Armata italiana di passare i pontisul Tagliamento.Questa trattazione è focalizzata sul-l’importante contributo fornito dalCorpo di cavalleria nella battagliadi Vittorio Veneto, nel corso dellaquale la capacità di manovra e lavelocità di progressione delle sueunità risultarono determinanti. Nelmomento in cui il fronte nemicos’infranse sotto l’urto offensivo del-le fanterie, il Comando SupremoItaliano, lanciando in pronfondità ireggimenti di cavalleria, seppe co-struire un successo strategico. Que-ste unità, riorganizzate su cinque

104 Rivista Militare

«L’ULTIMASPALLATA»

VITTORIO VENETO 1918

LA MANOVRA IN PROFONDITÀDEL CORPO DI CAVALLERIA

Questo articolo tratta della fase dinamica della battaglia di Vittorio Ve-neto, evidenziando il ruolo svolto dal Corpo di cavalleria, le cui Divisio-ni, grazie a velocità di progressione e capacità di manovra, riuscirono asopravanzare le colonne nemiche in ritirata, occupando posizioni fonda-mentali. Cavalleggeri, Dragoni e Lancieri tornarono vittoriosamente inquei territori veneti e friulani dove pochi mesi prima si erano battuti peraiutare le nostre fanterie a raggiungere il Piave. A distanza di un anno ilconflitto volse a favore dell’Italia: scardinato il fronte austro-ungarico, laguerra di posizione si trasformò in guerra di movimento e ciò consentì alRegio Esercito Italiano di sviluppare le operazioni in profondità. Questaparticolare fase esaltò le caratteristiche dinamiche del Corpo di cavalle-ria, ponendo altresì in risalto il contributo alla vittoria dei reparti celeri«di formazione» e delle piccole unità dotate di autoblindo.

Nel Bollettino della Vittoria del 4novembre 1918 il Generale Diaz, tral’altro, proclamò: «...l’irresistibileslancio ... delle Divisioni di cavalle-ria ricaccia sempre più indietro il ne-mico fuggente...».

Una pattuglia di cavalleria.

squadroni montati e uno mitraglieriper reggimento, grazie alla veloceprogressione sul terreno e al loro ar-dimento, precedettero infatti le co-lonne austriache ai ponti sull’Isonzoe li difesero, chiudendo la stradaverso l’Austria. Nel corso dell’offen-siva di Vittorio Veneto, la cavalleriaitaliana assolse egregiamente gli or-dini ricevuti, manovrando e com-battendo con determinazione sinoall’ultimo istante di guerra e offren-do con generosità il suo contributoalla vittoria finale. Per meglio com-prendere il significato di quella bat-taglia, riportiamoci a quel tempo,riepilogando le ultime fasi dellaGrande Guerra.

IL CONTESTO STORICO

Sebbene le Armate tedesche e au-stro-ungariche al momento del tra-collo ancora occupassero ampieporzioni di suolo straniero, la resi-stenza militare, l’embargo economi-co e l’ingresso nel conflitto degliStati Uniti (contro la Germania nel-l’aprile e l’Austria-Ungheria nel di-cembre 1917), causarono agli ImperiCentrali crescenti difficoltà: negliultimi due anni di guerra, in parti-colare, la superiorità marittima del-la Triplice Intesa aveva inciso inmaniera determinante sui riforni-menti di generi alimentari e materieprime, obbligando austriaci e tede-schi a cercare di conseguire il suc-cesso sferrando poderose offensive,alimentate, già prima della vittoriasu di una Russia in piena crisi (ar-

mistizio del dicembre 1917, Trattatodi Brest-Litovsk del 3 marzo 1918),dalla disponibilità delle forze prece-dentemente impegnate su quell’am-pio fronte. Nell’ottobre 1917 questastrategia portò gli Imperi Centrali,una volta contenute le offensiveestive sferrate ad Occidente daglianglo-francesi (battaglia di Pas-schendae o Terza di Ypres, 29 lu-glio-6 novembre 1917) e sul frontemeridionale dagli italiani (undicesi-ma battaglia dell’Isonzo o dellaBainsizza, 18 agosto-12 settembre1918), a concentrare preponderantiforze proprio contro l’Italia, nellaconvinzione di poterne determinarel’uscita dal conflitto. Il nostro fronte - anche in conseguen-za di errate valutazioni tattiche e

operative - fu scardinato a Caporetto(24 ottobre-2 novembre 1917) e ciòobbligò l’Alto Comando a un affan-noso arretramento delle difese lungol’allineamento Monte Grappa-corsodel Piave. I risultati conseguiti intrenta mesi di guerra, al prezzo diundici sanguinosissime offensive sul-l’Isonzo, furono vanificati. Le perditein uomini e mezzi risultarono enor-mi, ma il nemico, grazie anche all’ar-rivo, entro l’8 dicembre 1917, di 6 Di-visioni inglesi e 5 francesi, fu conte-nuto sulla nuova linea d’irrigidimen-to. Queste unità, assegnate alla riser-va, permisero al Regio Esercito di di-

stogliere le proprie truppe da questocompito e arrestare gli austro-ungari-ci con le proprie unità. Anche inFrancia le ultime offensive tedeschein direzione della Marna furono con-tenute tra la fine di luglio e i primid’agosto, mentre sul nostro suolo labattaglia del Solstizio, a metà giu-gno, rese vano l’ultimo grande sfor-zo austriaco per irrompere nellapianura Padana. Le forze dell’Inte-sa, con un intenso sforzo diplomati-co, avevano a questo punto isolatol’Austria, la Germania e i loro alleatianche in campo internazionale, fa-cendo sì che un numero crescente diNazioni (dalla Cina al Brasile, dal

Siam alla Grecia, e ancora il Giap-pone, gli Stati Uniti, il Nicaragua,Haiti,...) dichiarasse guerra, tra il1917 e il 1918, ad almeno uno degliImperi Centrali. Nell’autunno del1918 gli austro-ungarici e i tedeschipersero invece i loro più fidi alleati.Sotto l’incalzare dell’offensiva degliAlleati dalla Macedonia, la Bulgariae la Turchia, esauste, firmarono in-fatti l’armistizio: la prima il 29 set-tembre e la seconda il 30 ottobre1918. Sul fronte occidentale, divenu-to sempre più il punto focale delconflitto, esauritasi l’ultima grandeoffensiva tedesca (Seconda battaglia

105n. 3 - 2012

Nel corso della Prima guerra mondia-le le teorie offensive degli Eserciti al-leati non prevedevano la possibilitàche le Divisioni di fanteria potesserooperare velocemente e in profondità.Il Generale francese Édouard de Ca-stelnau (1851-1944), per esempio, so-steneva che: «Il massimo sforzo che sipuò esigere dalle Divisioni di primalinea è di conquistare la prima posi-zione nemica in tutta la sua profondi-tà, l’attacco della seconda linea non sipuò fare che con unità fresche e dopouna preparazione d’artiglieria».

Elementi di cavalleria in sosta.

della Marna, 15 luglio-6 agosto1918), le forze anglo-francesi e sta-tunitensi assunsero l’iniziativa, lan-ciando reiterate offensive. Fu inquesto contesto che, dal 23 ottobre al3 novembre 1918, si sviluppò sul no-stro fronte quella poderosa offensivache portò alla riconquista del Grappa(31 ottobre 1918) e al superamentodel Piave, sulla cui riva sinistra il 23ottobre gli italiani costituirono le pri-me tre teste di ponte. Il 28 ottobrel’Esercito imperiale, in piena crisi, or-dinò la ritirata generale e chiese l’ar-mistizio inviando una commissione aVilla Giusti. I delegati austriaci chie-sero però che le condizioni fosseroapprovate dalle loro autorità. Solol’ultimatum del Generale Diaz, che il3 novembre minacciò di annullare letrattative per l’armistizio, sbloccò lasituazione. La fine delle ostilità fu fis-sata alle 15.00 del 4 novembre e pochigiorni dopo, l’11, anche la Germaniauscì, sconfitta, dal conflitto.

LA BATTAGLIA DIVITTORIO VENETO

Una volta arrestata la progressioneaustriaca sul Piave e contenute lesuccessive offensive grazie anche alcontributo delle unità di cavalleria(meritano menzione le azioni deireggimenti «Lancieri di Milano»(7º), «Lancieri di Firenze» (9º), «Lan-cieri Vittorio Emanuele II» (10º), edel reggimento «Cavalleggeri di Ca-serta» (17º), tutte nel trevigiano) il23 ottobre 1918, un anno dopo Ca-poretto, aveva inizio la battaglia diVittorio Veneto i cui esiti determi-narono, nel volgere di pochi giorni,il crollo dell’Esercito austriaco. Loschieramento iniziale vedeva spie-gate 55 Divisioni italiane, 2 francesi,1 britannica e 1 cecoslovacca, contro60 austro-ungariche, non affiancateda nessuna delle 7 Divisioni tede-sche che avevano partecipato all’of-fensiva l’anno precedente, ritirateper rafforzare altri fronti. L’offensi-va fu condotta da 41 Divisioni ita-liane, una francese (la 24a) e 1 bri-

tannica (la 48a), sostenute da 600bombarde e 4 100 cannoni. La 4a Ar-mata (del Grappa) del GeneraleGaetano Giardino, duramente con-trastata dai 3 Corpi d’Armata del«Gruppo Belluno» (11 Divisioni dicui 3 ungheresi), attaccò per primasul Grappa, dove lo Stato Maggioreasburgico ritenne si concentrassel’offensiva italiana. L’8a Armata (delMontello) del Generale Enrico Cavi-glia (5 Corpi d’Armata compren-denti 19 Divisioni - 2 di cavalleria,1a e 4a su 4 Brigate - affiancati dalla12a Armata mista italo-francese edalla 10a Armata mista italo-britan-nica, per un totale di 27 Divisioni)agì invece sul Piave e una volta for-zato il corso del fiume, il 27 ottobre,grazie anche al miglioramento dellecondizioni atmosferiche, investì lazona critica dell’avversario (20 kmtra il Montello e le Grave di Papa-dopoli) difesa da 15 Divisioni, sup-portate da un minor numero di pez-zi d’artiglieria. Il giorno seguentel’offensiva investì il punto di giun-tura tra la 5a e la 6a Armata avversa-

106 Rivista Militare

Cavalleria italiana avanza in Friuli.

ria, imponendo l’arretramento a unnemico in crescente difficoltà, anchea causa del progressivo ammutinar-si delle unità croate e ungheresi, fe-nomeno che sugli Altipiani intaccòprofondamente la capacità di resi-stenza, per esempio, del XIII Corpod’Armata. Dal 2 novembre, l’attaccoitaliano costrinse poi al ripiegamen-to verso la Val Pusteria anche le for-ze austro-ungariche del Trentino,palesando il cedimento dell’interofronte asburgico.La battaglia di Vittorio Veneto fuuna battaglia di movimento, consfondamento al centro e penetrazio-ne in profondità anche sulle ali, dac-chè il 3 novembre fu occupata Trentoe lo stesso giorno, via mare, alcunireparti italiani sbarcarono a Trieste.

IL RUOLO DELLA CAVALLERIANELLA BATTAGLIA DIVITTORIO VENETO

Di fondamentale importanza, nellefasi dinamiche che caratterizzaronoquei giorni, fu l’azione della caval-leria, che, una volta forzato il corsodel Piave, fu spinta in profondità alfine di occupare i ponti sui fiumiTagliamento e Isonzo, con il compi-to di tagliare la ritirata al nemico inripiegamento e assicurare in pro-fondità l’attività di esplorazione. Sinoti poi che durante la battaglia diVittorio Veneto, l’Aeronautica, so-praffatti al secondo-terzo giorno gliaviatori nemici, operò anche con il«servizio degli aeroplani da caval-leria» incaricati di esplorare a largoraggio il terreno d’avanzata per in-formare la cavalleria, impiegata amassa, circa ostacoli o forze nemi-che che si opponessero al suo movi-mento. È poi doveroso rammentaretanto il contributo dei reparti di ca-valleria alla guerra di posizione al-lorchè fu necessario contenere ilmassimo dello sforzo esercitato dal-

l’avversario, quanto il ruolo d’ap-poggio svolto dalle batterie a caval-lo. I gruppi che inquadravano que-ste batterie, dopo avere fornito il lo-ro contributo alla difesa del Mon-tello e sull’Altipiano, furono nuo-vamente assegnati alle Divisioni dicavalleria prima dell’offensiva fina-le: le varie colonne chiamate ad in-calzare il nemico comprendevanoinfatti anche le batterie a cavallo,che si distinsero in più occasioni: ri-cordiamo qui gli scontri di Flagno-na, Pasian di Prato, Torre di Zuino,Tauriano e ponte Fiaschetti. Ram-mentiamo poi che le Brigate inglesiXXII, XXIV, CII, CIII disponevanodi una batteria a cavallo ciascuna.Tra il 29 e il 30 ottobre i reggimentidel Corpo di cavalleria, comandatoda Vittorio Emanuele di Savoia Ao-sta e facenti parte della riserva delComando Supremo, furono lanciati

all’inseguimento del nemico. Vi fu-rono anche delle unità di cavalleriache, pur non essendo inquadratenelle Divisioni agli ordini di Vitto-rio Emanuele di Savoia Aosta, par-teciparono all’offensiva. Alle 06.30del 30 ottobre, ad esempio, il IIgruppo del reggimento «Lancieri diFirenze» (9°) (due squadroni di ca-valleria e uno di bersaglieri ciclisti)entrò da sud, per primo, a VittorioVeneto, mentre un gruppo misto al-le dipendenze del XXIV Corpodell’8a Armata, comprendentesquadroni provenienti dai reggi-menti «Lancieri di Firenze» (9º),«Cavalleggeri di Caserta» (17º) e«Cavalleggeri di Piacenza» (18º)(più i bersaglieri ciclisti), la mattinadel 30 ottobre entrò a Pieve di Soli-go e Ceneda, raggiungendo alle09.30 Vittorio Veneto da ovest. La1a Divisione di cavalleria - I Briga-

107n. 3 - 2012

Guardia allo Stendardo, custodito nel fodero,del reggimento «Cavalleggeri di Roma» (20°).

ta, reggimenti «Cavalleggeri delMonferrato» (13º) e «Cavalleggeridi Roma» (20º) - agì inizialmentenel triangolo Conegliano-Vittorio-Sacile, intasato da colonne nemichein ritirata verso il Cadore e l’udine-se. Non meno affollate erano peròle linee utilizzate dagli italiani peravanzare. Al ponte di Fiaschetti,sulla Livenza, la 2a Brigata di caval-leria - reggimenti «Dragoni di Ge-nova» (4º) e «Lancieri di Novara»(5º) - prima di muovere in direzio-ne di Cervignano, Vittorio e Lestasdovette attendere che transitasse la3a Divisione di cavalleria, che pro-cedeva nella stessa direzione.Il 31 ottobre le unità nemiche tra ilLivenza e il Tagliamento erano or-mai in rotta. Il 31 ottobre 1918, ilCapo di Stato Maggiore dell’Eserci-to, Generale Armando Diaz, impartìla direttiva (n. 14 619 G.M.) per l’in-seguimento del nemico, che fu in-viata alla 1a, 3a, 4a, 6a, 7a, 8a, 10a e12a Armata e per conoscenza alla 9a

Armata, al Comando del Corpo dicavalleria e all’Intendenza Generale:

«... Il Corpo di cavalleria (Divisioni 2a,3a, 4a) lasciati convenienti distaccamen-ti a guardia dei ponti del Tagliamento,inseguirà il nemico nella pianura friula-na cercando di precederlo ai ponti del-l’Isonzo», precisando che «Allorché la10a e la 3a Armata avranno raggiunto ilTagliamento, i distaccamenti di cavalle-ria ai ponti del fiume stesso si riuniran-no alle rispettive Divisioni.... Ai riforni-menti del Corpo di cavalleria provvede-rà l’intendenza della 3a Armata». Alle 18.30 del 2 novembre il Gene-rale Diaz impartì un nuovo ordine(n. 1 417) nel quale, data per certal’affrettata ritirata del nemico oltreil Tagliamento, si chiedeva al Corpodi cavalleria di spingere le proprieDivisioni in profondità con la mag-giore risolutezza possibile, specifi-cando inoltre come in tale situazio-ne ogni ardimento fosse non soloconsigliabile, ma doveroso. Il passo

successivo del Comando Supremofu di ordinare a tutte le Armate, dal-lo Stelvio al mare, d’inseguire il ne-mico e disporre che la 3a e la 10a Ar-mata avanzassero fino al Taglia-mento: il Corpo di cavalleria (sup-portato dall’Intendenza dell’8a Ar-mata), con la 1a Divisione di caval-leria «Friuli» (riserva d’Armata, I eII Brigata, 2 batterie del I gruppodel reggimento artiglieria a cavallo)doveva interrompere le comunica-zioni del nemico facenti capo allavalle del Ferro e con le altre 3, dopoaver lasciato convenienti distacca-menti a guardia dei ponti del Ta-gliamento, era chiamato a inseguireil nemico nella pianura friulana,

cercando di precederlo ai ponti del-l’Isonzo. Dalla Stazione per la Car-nia doveva inoltre spingere i propridistaccamenti verso il nodo stradaledi Tarvisio. La 2a Divisione di ca-valleria «Veneto» (III e IV Brigata, 2batterie del II gruppo del reggimen-to artiglieria a cavallo) dalla frontePonti della Delizia - Latisana dove-va effettuare l’inseguimento sulladirettrice Palmanova-Gradisca-Monfalcone, occupando i ponti sul-l’Isonzo, da Peteano al mare. La 3a

Divisione di cavalleria «Lombardia»(V e VI Brigata, 2 batterie del IIIgruppo del reggimento artiglieria acavallo), dalla fronte Pinzano-Bon-zicco, doveva invece inseguire il ne-mico puntando su Udine-Cividaleper intercettare le strade che da SanQuirino (Monte Purgessimo) risali-vano le vallate del Natisone e deisuoi confluenti, inviando esplorato-

108 Rivista Militare

Sopra.Motta di Livenza: la cavalleria italiana at-traversa il fiume.

A destra.Un reparto di cavalleria oltrepassa il fiumeTagliamento.

ri lungo l’Isonzo e fra Tolmino ePlezzo. La 4a Divisione di cavalleria«Piemonte» (VII e VIII Brigata, 2batterie del IV gruppo del reggi-mento artiglieria a cavallo), dallafronte Bonzicco-ponti della Delizia,doveva effettuare l’inseguimento,puntando su Pozzuolo-Percotto-Cormons-Gorizia, e occupare i pon-ti sull’Isonzo da Salcano (incluso) fi-no a Peteano (incluso), spingendol’esplorazione su Schonpass e Dor-nberg, nella valle del Vipacco. I di-staccamenti di cavalleria lasciati aiponti del Tagliamento ricevetterol’ordine di raggiungere le rispettiveDivisioni una volta raggiunti dalla3a e dalla 10a Armata. Il Comandan-te del Corpo di cavalleria pose infi-ne in riserva la sua 3a Brigata e asse-gnò all’Intendenza della 3a Armatail compito di provvedere ai riforni-menti della 2a, 3a e 4a Divisione. La manovra in profondità prevede-va che si dovessero impegnare com-battimenti con le retroguardie nemi-che solo se assolutamente necessa-rio per proseguire l’avanzata, inquanto lo scopo principale, oltre aquello di raggiungere prima del ne-mico i ponti sull’Isonzo, consistevanell’impedire la ritirata delle colon-ne nemiche composte da truppe, ar-tiglierie e carriaggi, piombando sulloro fianco e sulle teste delle colon-ne. In caso di resistenza, le Divisioniavrebbero dovuto aprirsi il varco at-traverso le resistenze nemiche uti-lizzando le numerose bocche dafuoco di cui disponevano e, conazioni rapide e intense, aprirsi lastrada. Un aspetto importante del-l’inseguimento consisteva nel man-tenimento elastico dei collegamentitra la 2a, 3a e 4a Divisione, in quantobisognava evitare d’irrigidirel’avanzata delle singole Divisioni ri-spetto alle laterali. Le unità di caval-leria svolsero egregiamente i compi-ti assegnati, grazie anche alla lorocapacità di progredire esternamenteai principali assi stradali, intasati

dalle truppe asburgiche in ritirata.Nel ricordare che al momento de-l’offensiva di Vittorio Veneto alcuneunità di cavalleria si trovavano fuo-ri dal territorio nazionale (in Alba-nia) citeremo ora alcuni reparti che,talora frazionati in colonne compo-ste da più unità, parteciparono al-l’offensiva di Vittorio Veneto. Nellapianura veneta e friulana operarono

4 Divisioni di cavalleria e, come giàvisto, aliquote di unità montate condifferente dipendenza. La 2a Divi-sione del Tenente Generale LittaModignani inquadrava la III e la IVBrigata: della prima facevano parteil reggimento «Lancieri di VittorioEmanuele II» (10º), che inseguì il ne-mico verso Palmanova e Cervigna-no, e il reggimento «Lancieri di Mi-

109n. 3 - 2012

Un lanciere a Udine liberata.

lano» (7º), che diresse verso Palma-nova e Gradisca d’Isonzo, sopraffa-cendo a Morsano una tenace difesa.Erano inquadrati nell’altra Brigataparte del reggimento «Lancierid’Aosta» (6º), che dopo una serie discontri minori raggiunse Morsano,Latisana e l’Isonzo e il reggimento«Lancieri di Mantova» (25°), chepuntò su Castiglione Strada, doveebbe luogo un combattimento. Il Te-nente Generale Paolo Guicciardi diCervarolo comandava la 3a Divisio-ne, composta dalle Brigate V e VI: laV aveva in forza il reggimento «Ca-

valleggeri di Saluzzo» (12º), che, di-retto verso Spilimbergo, combattè aTauriano, e il reggimento «Caval-leggeri di Vicenza» (24º), che affron-tò più volte il combattimento, por-tandosi verso Cividale del Friuli. LaVI Brigata della 3a Divisione di ca-valleria aveva in forza il reggimento«Lancieri di Savoia» (3º), che, passa-ta la Livenza a Polcenigo, mosseverso San Martino, Sedrano e Udi-ne, e il reggimento «Lancieri diMontebello» (8º), che guadò il Ta-gliamento a Bonzicco e proseguìl’inseguimento verso Tauriano eGradisca, dove ricevette la resa del-

la guarnigione austriaca. Si noti poicome, con la 3a Divisione di cavalle-ria, operasse anche una squadrigliadi autoblindo, che, unitamente aun’avanguardia dei «Lancieri diMontebello», combattè a Nogaredo,giungendo il 3 novembre a Udine.Nella battaglia di Vittorio Veneto leblindo vennero infatti impiegate,con buoni risultati, per sfruttare inprofondità i successi della fanteria.Delle due Brigate che componevanola 4a Divisione, la VII era formatadal reggimento «Nizza cavalleria»(1º), che, passato il Piave il 29 otto-

bre, mosse verso Fontanelle, Porde-none e Risano, e dal reggimento«Lancieri di Vercelli» (26º), che vin-se le resistenze nemiche a San Odo-rico e Lumignacco. L’VIII Brigatainquadrava invece il reggimento«Cavalleggeri di Treviso» (28º), cheraggiunse il Tagliamento dirigendoverso Ponte della Priula e Pordeno-ne, e il reggimento «CavalleggeriGuide» (19º), che si aprì la strada si-no a Sacile. Operarono poi in Vald’Adige il reggimento «Cavallegge-ri di Alessandria» (14º), che si scon-trò con il nemico a Volano e fu tra iprimi reparti italiani a entrare aTrento, i «Cavalleggeri di Padova»,che oltrepassata Trento raggiunseroOra, e il reggimento «Cavalleggeri

di Udine» (29º), che puntò su Bolza-no e Mezzolombardo.Alle ore 15.00 del 4 novembre cessa-rono le ostilità (ma ancora alle ore18.30 del 3 novembre il GeneraleDiaz chiedeva venisse intensificatal’avanzata); le truppe italiane rice-vevano l’ordine di arrestarsi sulla li-nea raggiunta, ma in conseguenzadelle previsioni dell’armistizio quel-le austriache dovettero ulteriormen-te ripiegare di tre chilometri rispettoa tale linea.

LEZIONI APPRESE

Se nelle operazioni difensive assu-me particolare valore la tenacia e ladeterminazione, in quelle offensiveil morale e lo spirito offensivo delletruppe risulta sempre determinan-te; per risultare vincente, l’applica-zione di piani d’attacco validamen-te pianificati e in grado di essereben condotti sul terreno dai Co-mandanti presuppone che i soldatisiano motivati e in possesso di unelevato spirito combattivo. Nel1918 il Generale Armando Diaz, su-bentrato come Capo di Stato Mag-giore Generale al freddo e determi-nato Generale Luigi Cadorna dopola disfatta di Caporetto, aveva sa-puto infondere negli italiani alle ar-mi la consapevolezza di vivere elottare per un destino comune eaveva fornito loro una nuova chia-ve di lettura del conflitto, supporta-to da una Nazione finalmente mo-bilitata a fondo, in ogni suo settore,per il conseguimento della vittoria.L’immissione di nuove classi di le-va, ed è giusto sottolineare quantol’Italia debba a quella del 1899, ave-va fornito nuova linfa e giovanileslancio ai reparti combattenti. L’uo-mo-soldato tornava a combattereper obiettivi chiari e condivisi: la li-berazione delle città e dei villaggi edelle fertili campagne d’Italia occu-pati dal nemico, non più l’intermi-nabile sanguinosissima conquistadelle pietraie del Carso.Dalla sconfitta dell’anno preceden-

110 Rivista Militare

Cavalleria italiana guada il fiume Meduna.

te (Caporetto) i militari maturaro-no maggior consapevolezza delproprio ruolo al servizio della Na-zione e una crescente volontà di ri-valsa. Un fronte meno esteso (circa380 km prima di Caporetto, menodella metà prima di Vittorio Vene-to) e con linee di rifornimento piùcorte di quelle austro-ungaricheconsentì di raccogliere le forze,riorganizzarle, motivarle, e al mo-mento propizio, dopo un’attenta emeticolosa preparazione, atterrarelo storico avversario con un’unica,risolutiva, spallata. Dallo studio della bibliografia e deidocumenti originali custoditi pres-so l’Archivio Storico dello StatoMaggiore dell’Esercito, dei qualisolo una parte è stata qui menzio-nata, è apparso decisivo, ai fini del-lo sfruttamento del successo, il fat-tore della rapidità nella conduzionedella manovra offensiva. In un’epo-ca in cui il carro armato era da pocoapparso sui campi di battaglia e lesue potenzialità di manovra ancoranon erano state studiate in ambitodottrinale, furono i reparti di caval-leria a inseguire il nemico e a cerca-re di sopravanzarlo per precluder-gli le vie di fuga. La cavalleria, ma-novrando in velocità su ampi spazi,cercò di superare le colonne sban-date dell’arretrante avversario,puntando a penetrare in profonditàil territorio e ad assicurasi il posses-so di ponti, guadi, e in genere deipunti di obbligato passaggio, al finedi cercare di tagliare la ritirata alnemico e avvolgerne il dispositivo.Ciò non fu sempre possibile: acca-nite sacche di resistenza (si pensi aSerravalle, a nord-est di VittorioVeneto) dimostrarono che vi eranounità austriache che ancora si di-fendevano con valore, ma resero al-tresì evidente lo spirito combattivodelle unità di cavalleria. Se durantele undici sanguinose battaglie del-l’Isonzo e nel corso della battagliadel Solstizio il ruolo della cavalleriarisultò meno evidente, fu nelle fasidinamiche della lotta - la manovrain ritirata del 1917 e l’offensiva in

profondità del 1918 - che essaespresse pienamente il suo nobilecontributo alla vittoria finale.

Alessio GiganteCapitano,

in servizio pressoil 4° reggimento artiglieria controaerei

BIBLIOGRAFIA

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giore dell’Esercito (AUSSME). Comandodel Corpo di cavalleria. Documento n. 3472 di prot. Op. del 2 novembre 1918.«L’Esercito Italiano nella Grande guerra(1915-1918)», Le operazioni nel 1918, Vol.V - Tomo 2° bis - La conclusione del con-flitto, Ed. Stato Maggiore dell’Esercito -Ufficio Storico, Roma, 1988.In http://www.museobattaglia.it/docu-menti/battaglia.pdf (consultato il 10 febbra-io 2011), Mario A. Moroselli: La Battaglia diVittorio Veneto.Mario Isnenghi, Giorgio Rochat: «LaGrande guerra: 1914-1918», Il Mulino,Bologna, 2008.

111n. 3 - 2012

Lo Stendardo del reggimento «Cavalleggeridi Alessandria» (14°) a Trento liberata.