tempio, spazio, diaspora. l'emigrazione tamil dello srilanka a parigi

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INTRODUZIONE Quando, ormai due anni fa, ho conosciuto per caso alcuni membri della comunità tamil srilankese di Parigi, non avevo assolutamente idea che avrei dedicato ai templi da essi fondati la mia tesi di laurea. Il contatto con la comunità è stato innanzitutto umano: con l’amicizia e il dialogo, pian piano, senza chiedere, senza quella sensazione di intrusione nell’altrui che spesso accompagna la ricerca, essi mi hanno fatto conoscere le loro famiglie, la loro cucina, ciò che li diverte e ciò che li inquieta, i loro sogni per il futuro e, qualche volta, le loro vicende passate; è grazie a queste persone che ho conosciuto l’esistenza della comunità e sono loro che hanno acceso in me il fuoco della curiosità. Questi incontri mi hanno indotto a cambiare il soggetto della mia ricerca e a buttarmi a capofitto in questo nuovo mondo. Associando vecchie e nuove passioni ho quindi deciso di concentrarmi sui templi della comunità. A Parigi sono presenti molti templi hindū. La scelta di prendere in considerazione solo quelli fondati e frequentati da tamil dello Sri Lanka deriva da un lato da considerazioni di natura storica, dall’altro dalla stessa ricerca sul campo, che ha evidenziato la presenza di confini identitari piuttosto netti tra la comunità, gli altri tamil (indiani, mauriziani o provenienti da territori francesi oltremare 1

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Page 1: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

INTRODUZIONE

Quando, ormai due anni fa, ho conosciuto per caso alcuni membri della comunità

tamil srilankese di Parigi, non avevo assolutamente idea che avrei dedicato ai templi da

essi fondati la mia tesi di laurea. Il contatto con la comunità è stato innanzitutto umano:

con l’amicizia e il dialogo, pian piano, senza chiedere, senza quella sensazione di

intrusione nell’altrui che spesso accompagna la ricerca, essi mi hanno fatto conoscere le

loro famiglie, la loro cucina, ciò che li diverte e ciò che li inquieta, i loro sogni per il

futuro e, qualche volta, le loro vicende passate; è grazie a queste persone che ho

conosciuto l’esistenza della comunità e sono loro che hanno acceso in me il fuoco della

curiosità. Questi incontri mi hanno indotto a cambiare il soggetto della mia ricerca e a

buttarmi a capofitto in questo nuovo mondo. Associando vecchie e nuove passioni ho

quindi deciso di concentrarmi sui templi della comunità.

A Parigi sono presenti molti templi hindū. La scelta di prendere in considerazione

solo quelli fondati e frequentati da tamil dello Sri Lanka deriva da un lato da

considerazioni di natura storica, dall’altro dalla stessa ricerca sul campo, che ha

evidenziato la presenza di confini identitari piuttosto netti tra la comunità, gli altri tamil

(indiani, mauriziani o provenienti da territori francesi oltremare come la Réunion, la

Guadalupe e la Martinica) e gli altri hindū presenti a Parigi. Come si cercherà di mostrare

nel primo capitolo, le ragioni che hanno fatto del popolo tamil dello Sri Lanka una

comunità diasporica distinguono nettamente il loro vissuto da quello dei gruppi

menzionati, influenzando la percezione che la comunità ha di sé stessa come di un gruppo

a parte.

Se quanto detto può considerarsi valido in termini generali, la realtà si rivela però

sempre più complessa di quanto le necessità della ricerca facciano apparire. I confini con i

quali delimitiamo il nostro campo di indagine non riescono talvolta ad essere fluidi come

quelli che delimitano l’essere umano e le molteplici comunità di cui esso è partecipe.

Sebbene infatti i tamil srilankesi costituiscano a Parigi, come altrove nel mondo, un

gruppo comunitario, alcuni eventi collettivi mostrano una volontà di trascenderne i

confini, mettendo in valore alcune componenti della propria identità condivisibili con

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altre comunità. Essendo entità sociali basate sulla costruzione che di esse fanno i propri

membri, le comunità possono anche sovrapporsi, allargarsi o restringersi, risultando in un

gioco effimero di inclusioni ed esclusioni. Per quanto riguarda il caso parigino mi

riferisco qui ad un evento in particolare, in cui è l’identità ‘tamil’ ad essere messa in

risalto, unendo nell’esaltazione di una lingua, letteratura e cultura millenarie tamil di

diversa origine: la festa di Pongal, avvenimento annuale spiccatamente culturale, secolare

e non politico, etichettato dai suoi stessi organizzatori come “festa della diaspora tamil”,

si presenta chiaramente come volto a trascendere le differenze comunitarie per

riconoscere “l’identité culturelle tamoule” e “unir tous les Tamouls dans un ésprit laïque

et universaliste au delà des barrières religieuses, culturelles et geographiques” (dalla

brochure della festa). Le associazioni che contribuiscono all’evento rispondono anch’esse

a queste caratteristiche e molte personalità del mondo accademico parigino vi prendono

parte: spettacoli culturali, stands di varia natura e l’iniziazione dei bambini alla scrittura

sono le attività principali.

L’altro importante evento inter-comunitario è la processione organizzata in onore

del dio Gayeśa in occasione del Gayeśa Caturthī (agosto-settembre): come si spiegherà

nel capitolo IV si tratta di un evento in cui si delinea, per il tempo necessario alla sua

preparazione, una effimera comunità hindū parigina.

Escluse alcune occasioni sportive, gli esempi (collettivi) finiscono qui. La comunità

si presenta quindi molto compatta e i templi si costituiscono entro i suoi confini. Parigi, a

differenza di altri luoghi della diaspora come la Gran Bretagna o gli USA, non ospita

esempi di ‘joint temple’, templi cioè fondati da hindū di diversa provenienza.

La ricerca etnografica di cui quest’elaborato si vuole riformulazione concettuale si è

svolta dall’ottobre 2007 al maggio 2008. Naturalmente ho condotto la ricerca

prevalentemente nei templi, di cui ho osservato le attività e in cui ho intessuto quei

rapporti umani a cui devo il materiale raccolto, ma ho anche partecipato ad eventi di varia

natura organizzati dalla comunità tamil srilankese, la quale, nonostante sia di recente

formazione, ha dato vita ad una rete di circa sessanta associazioni di varia natura

(politiche, culturali, studentesche, assistenziali). Questo mi ha permesso di situare il

religioso in un più ampio contesto socio-culturale comunitario.

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La tesi prende le mosse dal concetto di diaspora al fine di applicarlo al caso dei

rifugiati tamil di origine srilankese: in un ottica introduttiva, ho indagato le motivazioni

alla partenza, le modalità e le problematiche dell’arrivo e dell’installazione in Francia,

nonché lo svilupparsi, rapido, della vita comunitaria a Parigi. A tale riguardo mi sono

avvalsa di una letteratura internazionale sull’argomento e di una serie di ricerche condotte

a partire dagli anni ‘90 sul caso parigino. Questo percorso è volto a fornire un più ampio

quadro nel quale inserire il cuore della ricerca, ossia la descrizione e analisi di una

geografia del sacro che si rivela molto più frammentata di quanto la relativa omogeneità

riscontrata all’interno della comunità faccia supporre. Se tale panorama può spiegarsi in

parte come una conseguenza della distribuzione residenziale e commerciale della

comunità, la ricerca ha portato a considerare tale fattore come marginale nella scelta degli

individui di frequentare un tempio piuttosto che un altro. Ciascuno di essi si caratterizza

infatti per una specifica visione del religioso e del tempio, una particolare gestione

(collegabile alle diverse origini dei suoi fondatori, alle loro esperienze di vita e di

diaspora), rapporti differenti col contesto francese e con il paese d’origine (e le sue

vicende politiche). La fondazione di molti templi rivela quindi la necessità di dare

espressione ad una molteplicità di visioni ed approcci. In questa estrema varietà le scelte

di frequentazione non possono essere neutrali: esse rispondono piuttosto ad una

coincidenza di orientamenti che il confronto tra i racconti dei fedeli e le visioni dei

gestori-fondatori dei vari templi ha permesso di mettere in luce.

Il cuore dell’elaborato si concentra quindi sull’analisi minuziosa delle caratteristiche

che fanno la specificità di ciascun tempio, prendendo le mosse dal più “tradizionalista”: il

Shri Muthukumaraswamy Alayam1 (tempio di Murugan) viene esplorato attraverso la

descrizione degli elaborati rituali che vi si svolgono ogni giorno. Essi infatti rispecchiano

una precisa visione del ruolo del tempio, visto come strumento di trasmissione culturale e

sede in cui portare avanti la lotta contro la “contaminazione” di valori che il contesto

francese e una predominante commercializzazione del religioso stanno causando.

1 Nel corso dell’elaborato utilizzerò segni diacritici per i termini sanscriti utilizzati, anche nella trascrizione delle interviste. I nomi dei templi e, eventualmente, i nomi propri saranno invece riportati come scritti nelle insegne, affissioni o documenti del tempio stesso. Allo stesso modo per quanto riguarda le divinità si riporteranno nomi differenti in funzione del loro utilizzo da parte degli intervistati.

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In seguito si prenderà in considerazione il più “celebre” tra i templi parigini, il Sri

Manicka Vinayakar Alayam (tempio di Gayeśa). Anch’esso presenta le sue attività come

volte a contrastare il disconoscimento dell’Induismo in Francia, ma le sue modalità

d’azione sono diametralmente differenti: si può dire infatti che esso si situi proprio tra

quegli esempi di commercializzazione del religioso criticati al tempio di Murugan.

Organizzatore della già citata processione in onore del dio Gayeśa, si analizzeranno la sua

politica di “marketing religioso”, il suo rapporto (privilegiato) con la città di Parigi e i

processi di “messa in mostra del sé” che esso promuove: il pubblico e l’accoglienza al

tempio, il sito internet e la processione saranno gli elementi chiave dell’analisi.

Il quinto capitolo è dedicato al Sri Sabareesan Manchamatha Ayappan Temple, il

quale ha necessitato una trattazione molto approfondita poiché presenta un originale

discostamento dalla pratica rituale, la cui creatività è legittimata da una precisa visione del

religioso: la storia del suo fondatore e della nascita del tempio, la descrizione del rituale e

del pubblico (che si presenta come una comunità costruitasi attorno alla figura del

fondatore) saranno gli strumenti attraverso cui si cercherà di rendere conto di tale

originalità.

Nonostante Ayyappan sia una divinità poco conosciuta in Sri Lanka, a Parigi

esistono ben due templi ad esso dedicati. Il capitolo successivo è consacrato al secondo di

essi, il Sri Ayyappan temple di Saint Denis. In questo caso l’analisi non si concentrerà sul

rituale, quanto piuttosto sulla figura del suo fondatore. La descrizione della sua vita,

parallela a quella del tempio, riveleranno infatti un forte processo di identificazione

devoto-divinità di cui il tempio è espressione: esso si presenta, più che altrove, come

l’opera di un solo uomo ed è per questo che è cosi importante soffermarsi sulla retorica e

sulle vicende personali del suo fondatore. Il confronto, in più punti della trattazione, con il

Sri Sabareesan Manchamatha Ayappan Temple sarà un utile mezzo per mettere in luce le

specificità di ognuno.

Nel settimo capitolo ho deciso di trattare congiuntamente l’Arulmihu

Mutthumaariamman Aalayam e il Sivan-Parvathi Temple (La Courneuve). Le ragioni

sono due: innanzitutto essi presentano molte caratteristiche in comune, di cui si renderà

conto; in secondo luogo la ricerca sul campo si è scontrata in entrambi i casi con una

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notevole opposizione al dialogo da parte dei gestori-fondatori dei due templi. Il tentativo

di darne una spiegazione concluderà questa sezione dell’elaborato.

La necessità di disegnare un quadro particolareggiato, dedicando ad ogni tempio

una trattazione approfondita, deriva non solo dalle notevoli differenze che li distinguono

ma anche dalla mancanza di lavori precedenti. Nessuno studio infatti è stato condotto sui

templi parigini e se in qualcuno dei saggi che il mondo accademico francese ha dedicato

alla comunità si ritrova qualche accenno ai templi di Mutthumāriamman e di Gayeśa,

entrambi localizzati nel quartiere tamil di Parigi (La Chapelle), essi sono piuttosto

sbrigativi e superficiali. La comparazione, a questo livello della ricerca, si è dovuta quindi

compiere con studi condotti sulla diaspora tamil in altri paesi europei: in particolare gli

studi di M. Baumann e B. Luchesi (specialisti della vita religiosa della comunità tamil

srilankese in Germania), K. Jacobsen (per la Norvegia) e P. Schalk (che ha dedicato una

monografia al tempio di Stoccolma, in Svezia) sono stati particolarmente utili; a questi si

sono aggiunti altri studi dedicati più generalmente alla “hindū diaspora”.

Solo a questo punto, una volta analizzato ogni tempio in funzione delle sue

specificità, ho proceduto a indagare i punti in comune, al fine di fornire un’immagine

d’insieme dei ruoli (vecchi e nuovi) che assume il tempio, congiuntamente alle visioni su

di esso. Esso si presenta infatti non solo come luogo di culto, ma anche come importante

sede di socialità comunitaria e di trasmissione culturale. In diaspora questi ruoli, già

presenti al paese d’origine, vengono rafforzati e il tempio diviene espressione di un Sé

cosciente della propria cultura proprio perché portato a confrontarsi con una molteplicità

di Altri. Oasi di cultura in un mare alieno, il tempio non è solo “luogo per la comunità”

ma anche “luogo della comunità”: in quanto tale esso diviene strumento di espressione e

messa in mostra della sua compattezza, solidarietà e prestigio. Di queste tematiche tratterò

nel capitolo conclusivo.

Nonostante l’aspettativa riposta nella ricerca sia inevitabilmente quella di disegnare

un quadro il più possibile completo ed esaustivo di quel frammento di reale che abbiamo

estrapolato dal fluire degli eventi e dei soggetti (individuali e sociali) per farne il nostro

oggetto di studio, il presente lavoro non può che ammettere la propria parzialità e

incompletezza. All’estrema frammentarietà del panorama hindū parigino si sono

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sovrapposte da un lato l’assenza di un’adeguata competenza linguistica da parte mia,

dall’altro la mancanza di studi precedenti, alla quale l’utilizzo della letteratura

internazionale disponibile non ha potuto completamente ovviare. Esso si presenta quindi

come un’introduzione al tema, poiché ogni tempio avrebbe necessitato una ricerca a sé: la

frequentazione assidua delle sue attività è infatti il modo migliore per capirne il

funzionamento e le dinamiche interne e soprattutto è la principale porta d’accesso alla

comunicazione interpersonale. Essa, per essere proficua, non può a mio parere che basarsi

su una condivisione di esperienze, tramite cui instaurare la fiducia che ne è la base. La

necessità di frequentare contemporaneamente più templi ha naturalmente reso

impossibile, a parte qualche caso, una simile profondità.

La complessità del panorama della vita religiosa della comunità, in cui la ricerca si

muove per piccoli passi, ha reso inoltre necessario escludere dalla trattazione questioni

importanti come la religiosità domestica, i saxskāra e i due grandi pellegrinaggi annuali,

ai quali si accennerà soltanto in termini molto generali.

Nonostante i suoi limiti, i risultati di questo lavoro di ricerca sono molti, come

variegate sono le problematiche affrontate. Limiti e meriti, spero rappresentino entrambi

uno stimolo ed un avvio per ricerche future poiché le potenzialità di sviluppo sono infinite

e i mondi che si aprirebbero meravigliosi.

Prima di lasciare spazio all’elaborato vorrei spendere qualche riga per ringraziare le

moltissime persone che vi hanno contribuito. Innanzitutto i cosiddetti ‘informatori’, che

mi hanno dedicato il loro tempo, la loro pazienza e tanta gentilezza: senza di loro questa

ricerca non sarebbe stata possibile. Vorrei poi ringraziare il professor P.G. Solinas per

avermi sostenuto e accompagnato in questo progetto e la professoressa C. Natali per

l’aiuto e i preziosi consigli. Ringrazio anche Giacomo per aver percorso con me parte di

questo viaggio e Luca per i consigli “letterari”. Alla mia famiglia, con cui ho potuto

condividere la passione e le fatiche che hanno segnato la ricerca, spetta naturalmente un

ringraziamento speciale.

A mia madre, che mi ha insegnato ad essere curiosa, dedico questo lavoro.

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Capitolo I

I TAMIL SRILANKESI A PARIGI: UNA COMUNITÀ DIASPORICA

Nonostante la presente ricerca intenda concentrarsi principalmente sui templi hindū

della comunità tamil srilankese di Parigi, è necessario, in un’ottica introduttiva,

soffermarsi su alcune questioni, innanzitutto terminologiche. In questo senso si prenderà

in considerazione il termine diaspora, al fine di comprendere la sua applicazione al caso

dei tamil dello Sri Lanka, i quali costituiscono, in Francia come altrove, una comunità a sé

stante.

Tale necessità prende le mosse dalla considerazione che il tempio, in quanto luogo

della e per la comunità, si inscrive in un più ampio contesto comunitario, da cui partire e a

cui tornare, nella coscienza che solo attraverso un simile movimento di feed-back si può

ovviare alla frammentazione del reale causata dall’atto analitico.

Naturalmente in questa sezione dell’elaborato mi rifarò principalmente a fonti

bibliografiche. Sebbene le tematiche del viaggio, il rapporto con la Francia, la

trasmissione di valori e l’educazione, le relazioni con il paese d’origine e tante altre

questioni “diasporiche” siano state affrontate in moltissime conversazioni informali, non

ho compiuto un lavoro etnografico sistematico a tale riguardo. Malgrado questa mancanza

di sistematicità, anch’esse hanno contribuito a modellare la mia visione della comunità e

della sua storia, e saranno quindi implicitamente o esplicitamente presenti nelle pagine

che seguono.

1.1 Tre significati per il termine ‘diaspora’

In maniera generale la diaspora può essere definita come “the maintenance of group

consciousness defined by continued relationship with an original homeland within a

population dispersed between several different location” (Fuglerud 1999: 4). In questo

caso gli aspetti sottolineati sono la multipolarità della dispersione e l’interpolarità delle

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relazioni (con il paese d’origine da un lato e tra i diversi poli della migrazione dall’altro),

le quali risultano in una coscienza di gruppo. Tale definizione, seppur valida, non fornisce

però, a mio parere, un quadro completo delle problematiche che il termine ‘diaspora’

sottende.

Nel suo The hindu diaspora: comparative patterns, Steven Vertovec propone una

superba opera di sintesi concettuale costruita attorno ad una definizione tripartita del

termine ‘diaspora’. Nella mia trattazione della comunità tamil srilankese di Parigi mi

rifarò principalmente ad essa e non alle definizione riportate in apertura di tanti studi

dedicati alla diaspora tamil (Étiemble 2003, McDowell 1996, Fuglerud 1999): ritengo

infatti che Vertovec affronti la questione in maniera più organica, integrando punti di

vista “strutturali” e punti di vista più interni.

Egli individua, attraverso un’analisi degli studi sull’argomento, tre significati

principali del termine ‘diaspora’:

Within a variety of academic disciplines, recent writing on the subject conveys at

least three meanings of the concept ‘diaspora’. These meanings refer to what we

might call ‘diaspora’ as social form, ‘diaspora’ as type of consciousness, and

‘diaspora’ as mode of cultural production (Vertovec 2000: 142).

Questi tre significati non vanno visti come elementi discreti, ma piuttosto come

strumenti concettuali la cui utilità risiede nell’essere visioni complementari e integrabili.

Innanzitutto Vertovec esplora il significato di ‘diaspora’ in quanto forma sociale.

Esso implica:

un processo di dispersione (volontario o forzato) verso una pluralità di

destinazioni;

la costruzione e il mantenimento cosciente di un’identità collettiva comune, basata

sul rapporto con la terra d’origine e spesso sostenuta da un “mito del ritorno”;

un senso di differenza rispetto al nuovo contesto, che può essere di gradi diversi:

alienazione, esclusione, confronto, superiorità;

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lo sviluppo di una varietà di relazioni che si esplicitano nel mantenimento di

legami con la terra d’origine e nello sviluppo di reti transnazionali di varia natura:

economiche, politiche, di solidarietà.

Nello studio della diaspora come forma sociale bisogna quindi tenere in

considerazione tre elementi in relazione: la collettività autodefinitasi e costruitasi come

comunità nonostante la dispersione geografica; gli stati e i contesti in cui essa risiede; la

terra d’origine.

Nella sua seconda accezione, il termine ‘diaspora’ indica poi un particolare tipo di

consapevolezza che caratterizzerebbe le comunità transnazionali contemporanee e

deriverebbe da un senso di dualità sperimentato negativamente, attraverso discriminazione

ed esclusione, e positivamente, attraverso l’identificazione con un’eredità culturale1 (o

storico-politica). A tale proposito si può dire che “diaspora consciousness lives loss and

hope as a defining tension” (James Clifford citato in Vertovec 2000: 147).

La coscienza diasporica si definisce quindi come la consapevolezza dell’essere

contemporaneamente “qui e lì”, la consapevolezza cioè della multilocalità della propria

condizione. Essa deriva dall’autoanalisi che il Sé è portato a compiere dal confronto con il

nuovo contesto in cui si trova, il quale lo mette in relazione profonda con una varietà di

alterità. V. Daniel (1997: 328) descrive superbamente questo processo di inferenza

compiuto dal Sé:

Self-awareness is not the product of intuition but of inference. Consciousness is a

process in which “the self becomes aware of it-self on becoming aware of what it is

not, of the non-self, of the external other”. Without the precipitation of self against

the Other, there is nothing to infer and therefore no reason for self-awareness or self-

consciousness to be; and, conversely, without self-consciousness, the self remains

unrealized, as a mere potential, a pre-self, if you will. It is this triadically correlative

relationship - among the Self, the Other, and the awareness of the relationship of

identity/difference that bring the two together - in process that constitutes a self.

1 Il rapporto con la pluralità di alterità con cui l’individuo è costretto a relazionarsi genera una auto-riflessione sulla propria eredità culturale e religiosa.

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La coscienza diasporica, che origina da questa relazione triadica, dà origine non

solo a particolari legami sociali, come si diceva poc’anzi, ma anche all’elaborazione di

memorie collettive ed immaginari, i quali non necessariamente contribuiscono a

consolidare un’identità monolitica. In una complessa rete di relazioni sociali, memorie

frammentate e comunità immaginate l’individuo diasporico può fare delle sue identità

fluide e molteplici una fonte di orgoglio e di adattamento.

Il termine ‘diaspora’ può infine indicare una modalità di produzione culturale. In

questo terzo approccio si pone l’accento sulla fluidità e creatività che caratterizza in

particolare l’esperienza dei giovani nati e cresciuti in diaspora. Le nuove generazioni

sarebbero in questo senso impegnate, attraverso la padronanza dei mezzi di

comunicazione globale, in un processo di produzione e riproduzione di culture locali a

partire da elementi transnazionali: gli elementi culturali della molteplicità di poli in cui

essi si inseriscono vengono combinati e rielaborati in un processo di costruzione creativa

di identità.

Questi tre significati del termine ‘diaspora’ sono, come si diceva, complementari e

la loro utilità in quanto strumenti analitici tranculturali (Baumann 2000) è innegabile,

poiché consentono la visione simultanea di più prospettive.

Nelle pagine che seguono verrà analizzata la diaspora tamil srilankese in Francia:

nella misura dei dati disponibili cercherò di sviluppare la tematica rifacendomi a questo

modello analitico, la cui applicabilità risiede anche nel suo essere stato concepito in

un’ottica comparativa.

1.2 La diaspora tamil in Francia

1.2.1 Storia e dinamiche migratorie: la dispersione del popolo tamil

L’arrivo e l’attuale consistente presenza dei tamil srilankesi in Francia sono

strettamente legati alle vicende politiche e alla situazione di crisi che, a partire dagli anni

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‘70, caratterizza il loro paese d’origine; in particolare è il 1979 a vedere l’arrivo della

prima ondata di immigrati srilankesi in Francia (Robuchon 1995).

Detto questo ritengo, con McDowell (1996), che l’esodo massiccio della minoranza

tamil caratterizzante gli ultimi 25 anni di storia dello Sri Lanka, vada compreso non solo

alla luce dei drammatici avvenimenti storici che ne sono la causa, ma anche dei

movimenti migratori precedenti. Infatti, nonostante le motivazioni alla partenza, le

modalità e la mole del flusso rivelino le specificità di ciascun movimento migratorio,

“tamil asylum-migration in the 1980s did not occur in a vacuum; rather there were

continuities and connections between the two migratory movements. Those continuities

could be categorised as practical and cultural” (McDowell 1996: 91).

È in quest’ottica che procederò a fornire un quadro approssimativo dell’emigrazione

tamil nel XIX° e XX° secolo, anche se questi flussi non hanno interessato la Francia. Esso

infatti risulterà utile all’inquadramento delle esperienze migratorie contemporanee, le

quali, lungi dall’uniformarsi ad un unico modello, rivelano vissuti ed interpretazioni

diverse, che a loro volta si rispecchiano nelle modalità di interazione col contesto

francese.

In Sri Lanka i primi impulsi all’emigrazione si riscontrano nel periodo della

colonizzazione inglese dell’isola. L’ingresso nell’economia coloniale, associato allo

sviluppo di una scolarizzazione di alto livello (portata avanti dagli inglesi nelle regioni a

maggioranza tamil), aprono la via ad un’emigrazione di elite verso i paesi del

Commonwealth. L’emigrazione aveva fini lavorativi o di formazione e inizialmente era

concepita come temporanea. Il diploma o l’esperienza lavorativa all’estero erano motivi di

prestigio una volta tornati in Sri Lanka:

Many came to Britain to obtain professional degrees that would ease them into the

faculties of the universities and the civil service at home. (…) Few had any intention

of staying on in Britain, for too many were the comforts of home that they would

thereby relinquish (Daniel 1997: 312).

L’emigrare diviene quindi, nel periodo coloniale, un modello di successo sociale

che, attraverso la cultura delle classi dominanti, si diffonde in tutti gli strati sociali. Già in

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questo periodo alcuni dei migranti decidono di stabilirsi oltremare, dando vita alle prime

comunità. Naturalmente questo fenomeno interessa soltanto i paesi del Commonwealth,

Gran Bretagna in testa (Guilmoto 1991, McDowell 1996, Robuchon 1995).

Con l’indipendenza, l’emigrazione resta un privilegio delle classi medio alte, che

approfittano dell’apertura delle frontiere inglesi. D’altronde il peggiorare della situazione

economica e politica del paese, con l’introduzione progressiva di misure volte a sfavorire

la minoranza tamil, stimolano l’installazione all’estero di questi gruppi sociali privilegiati.

Gli anni ’70 vedono la nascita di un nuovo movimento migratorio: nel 1977, dopo

decenni di protezionismo, il neoeletto primo ministro J.R.Jayawardana (UNP) promuove

il liberalismo economico (con la conseguente attrazione di capitale straniero, creazione di

zone franche e sviluppo del turismo) in modo da creare nuovi posti di lavoro, ma il

problema della disoccupazione viene risolto principalmente attraverso la promozione

dell’emigrazione nei Paesi del Golfo. Nella storia dello Sri Lanka post-indipendenza è

questo il primo grande fenomeno di emigrazione che non si inserisce nelle dinamiche

coloniali e post-coloniali. Uomini e donne, colpiti dalla crescente inflazione, dalla crisi

delle nascenti industrie e della più antica industria di lavorazione del tè, fanno ricorso ad

agenzie di reclutamento specializzate, attraverso le quali partono, contratto alla mano,

verso i paesi del Golfo bisognosi di manodopera.

La fine degli anni ‘70 e i primi anni ’80 vedono una svolta nella storia del paese. Il

conflitto tra i due principali gruppi etnici, linguistici e religiosi dell’isola (tamil-hindū vs

cingalesi-buddhisti), cominciato alla fine degli anni ‘50 ed inaspritosi nei due decenni

successivi, diviene infatti a partire dal 1983 una vera e propria guerra civile. L’evento

drammatico che segna il passaggio ad una nuova sanguinosa fase del conflitto è lo

scoppio di pogrom anti-tamil, che prendono avvio nella capitale Colombo1 per poi

diffondersi nelle zone sud-occidentali, centrali e orientali del paese: utilizzando le liste

elettorali che riportavano l’indirizzo esatto dei tamil, gruppi organizzati cingalesi

distruggono o bruciano case, negozi, fabbriche e uccidono in pochi giorni tra 450 e 1000

persone (Natali 2004: 25). Gli atti rivelano una natura sistematica, organizzata, e

avvengono con la connivenza o la partecipazione delle forze dell’ordine. La maggioranza

1 in seguito al successo di un’azione dell’LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam, principale e oggi unico movimento indipendentista armato tamil, che lotta per l’indipendenza delle regioni a maggioranza tamil) nella quale vengono uccisi 13 soldati cingalesi.

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della popolazione tamil della capitale e delle altre zone colpite lascia la propria abitazione

e trova rifugio in centri di accoglienza improvvisati nei templi, che vengono a loro volta

attaccati, e nei campi profughi. Molti poi vengono accolti da amici e vicini cingalesi e

musulmani.

Il 1983 rappresenta quindi l’anno di inizio della guerra civile. I 25 anni che sono

passati da allora, hanno visto il conflitto evolvere, le parti in lotta modificarsi, nuovi

soggetti intervenire. In questa escalation di violenza la popolazione civile è stata “vittima

di bombardamenti, attentati, rappresaglie, incarcerazione, esodi forzati” (Natali 2004: 35).

Accanto ai rifugiati interni si calcola che dall’inizio del conflitto circa un terzo dei tamil

dello Sri Lanka abbia lasciato il Paese (Étiemble 2003), per approdare in Australia, Stati

Uniti, Canada ed Europa, dove hanno sollecitato l’asilo politico.

La storia della diaspora tamil srilankese corre quindi parallela all’andamento della

guerra civile, ma le direzioni dei flussi migratori sono influenzate da molte altre variabili:

innanzitutto l’apertura o chiusura delle frontiere e le politiche di accoglienza agli

immigrati; secondariamente, e torniamo con questo a McDowell, la presenza di nicchie

migratorie pre-esistenti ha giocato un ruolo molto importante2, soprattutto nelle prime fasi

dell’esodo:

In the early of the movement of Tamils after the outbreak of war, established

overseas communities played an important role. At first they were prepared to offer

assistance, both financial and professional, in arranging the passage of relatives,

friends and professional acquaintances from both the north and the south of Sri Lanka

to the west (McDowell 1996: 91-92).

Anche la migrazione degli anni ‘70 verso i paesi del Golfo ha giocato un ruolo

importante in quanto ha permesso, con lo scoppio della guerra, un passaggio “più facile”

in occidente:

2 Jacobsen (2004) fornisce a tale proposito un interessante esempio. Negli anni ‘50 giunge in Norvegia il primo tamil srilankese. Arrivato per ragioni di formazione professionale, questi dà avvio ad una rete di rapporti economici tra i due paesi, che portano all’arrivo di altri tamil anch’essi nell’ambito di programmi di formazione. “Rajendram’s activities had opened up channels for Sri Lankan Tamils to come to Norway. He had made Norway known to the Tamils in Sri Lanka so that during the war Norway became a favoured choice for seeking asylum” (Jacobsen 2004: 137).

13

Page 14: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

There is also considerable evidence that Tamils who had remained in employment in

the Middle East were in a strong position either to move on to Europe themselves in

pursuit of asylum, or to provide funds and a staging post for family or friends who

wished to make the journey. These were important factors in influencing the rate and

incidence of post-1980 asylum migration (McDowell 1996: 92-93).

Va considerato inoltre un ultimo gruppo di variabili che, oltre all’evolversi del

conflitto, concorrono a determinare in varia misura la densità e la composizione sociale

del flusso migratorio:

Le risorse: fino agli anni ‘80 solo le classi medie e alte avevano i mezzi per

emigrare.

Il tempo: permette di accumulare risorse e informazioni.

Le politiche pro o anti emigrazione delle parti in lotta: in alcune fasi del conflitto

la migrazione viene facilitata dal governo e dall’LTTE. Entrambi traggono vantaggio

da migrazioni massicce.

I nuovi mezzi di comunicazione: permettono un movimento rapidissimo delle

informazioni, tramite cui sfruttare eventuali “falle” del sistema.

Tutte queste variabili concorrono a rendere conto delle molte, talvolta inaspettate,

direzioni che ha preso l’esodo dei tamil dello Sri Lanka: tra le “nuove” mete troviamo

anche la Francia, in cui l’assenza di migrazioni precedenti il 1979 si spiega soprattutto

con l’assenza storica di legami con lo Sri Lanka, durante e dopo il periodo coloniale.

Non si può escludere che alcuni tamil srilankesi abbiano risieduto in Francia per

periodi più o meno lunghi durante questa fase, ma non vi sono molte fonti al riguardo. Si

può solo dire che prima del 1979 “il y avait quelques dizaines de Sri-Lankais seulement,

dont certains avaient dejà demandé l’asile. En fait les Sri-Lankais ont commencé à quitter

leur pays suite aux émeutes anti-tamoules de la période post-électorale de 1977”

(Robuchon 1995: 25). Questo primo esodo, condotto via terra, si conclude per molti in

Iran3, paese che offriva all’epoca ottime possibilità di reclutamento in società americane o

3 A compiere questo percorso erano gli oppositori politici (cingalesi e tamil). L’ingresso nei paesi del Golfo prevedeva infatti il passaggio per l’amministrazione ufficiale.

14

Page 15: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

inglesi. È con la rivoluzione di Khomeini che questi lavoratori tamil, associati agli

americani, vengono indotti a lasciare il paese e riprendono la loro rotta verso la Gran

Bretagna, luogo storico del “Making it overseas” tamil (McDowell 1996: 91) in cui

sarebbe stato possibile sfruttare la propria formazione professionale. Ma la Gran Bretagna

impone a partire dal 1980 nuove misure restrittive in materia d’immigrazione,

modificando la legislazione in vigore per i membri dei paesi del subcontinente indiano

(che fino a quel momento non avevano bisogno di un visa d’entrata)4: negli studi sul caso

francese l’arrivo delle prime ondate migratorie dallo Sri Lanka viene spiegato proprio

come una conseguenza della chiusura delle frontiere inglesi. Partiti dallo Sri Lanka o

double migrants dall’Iran, i primi tamil che rimangono “bloccati” in Francia e in

Germania vi sollecitano l’asilo politico, con l’idea di ripartire per la Gran Bretagna

qualche anno dopo (Étiemble 2003, Robuchon 1995).

Nonostante la maggior parte di queste prime domande vengano respinte5, molti

tamil possono approfittare della regolarizzazione eccezionale del 1981 (con cui assumono

lo statuto di travailleurs immigrés) e uscire dalla clandestinità. Si costituisce cosi in pochi

anni il primo nucleo della comunità tamil srilankese.

In conseguenza alla degenerazione del conflitto, è soprattutto dopo il 1983 e durante

tutti gli anni ‘80 che la Francia viene investita da una massiccia ondata migratoria tamil,

la quale rivela con gli anni una crescente diversificazione interna: inizialmente infatti le

donne migranti erano molto poche, mentre cominciano a questo punto ad arrivare mogli e

bambini; esse raggiungono mariti che spesso non hanno ancora ricevuto risposta alle

domande di asilo politico (le pratiche richiedono in questo periodo da due a cinque anni).

Il peggiorare della situazione in Sri Lanka e in particolare l’intervento dell’esercito

indiano nell’87 portano l’OFPRA6 a rivedere la propria posizione: a partire da questa data

lo statuto di rifugiato viene concesso ai tamil srilankesi quasi d’ufficio e nel ‘91 una

regolarizzazione concede lo statuto a tutti i tamil i cui dossiers erano in attesa. Inoltre

4 Solo i cittadini del Commmonwealth appartenenti a categorie specifiche (ricercatori, studenti, personale medico, ecc.) vengono lasciati entrare: “les membres des professions libérales tamouls (medicin, droit) ou les fonctionnaires de haut niveau émigrent de préférence vers des pays anglophones (Grande-Bretagne, Canada, Australie), pouvant faire valoir leurs qualifications, hors de toutes considération relative à l’urgence de l’exil” (Robuchon 1995: 35).5 “Le confit au pays n’a pas ancore été vraiment reconnu par l’administration française et presque tous sont deboutés dans leur demande d’asile” (Robuchon 1995: 26).6 Office Français de Protection des Réfugés et Apatrides.

15

Page 16: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

coloro che avevano visto la loro domanda respinta negli anni precedenti, approfittano di

altre regolarizzazioni eccezionali.

La presenza di una comunità e l’atteggiamento di apertura e accoglienza delle

istituzioni francesi si traduce in breve tempo in un aumento degli arrivi: è cosi che la

Francia diviene una meta in sé stessa e non più uno scalo verso la Gran Bretagna.

Nonostante questo cambiamento di prospettiva, il Regno Unito rimane ancora oggi

nell’immaginario collettivo come una terra di facile ascesa sociale e successo economico.

Le considerazioni fatte a tale proposito non si limitano alla vita migliore che si potrebbe

avere in questo paese, ma sono legate soprattutto alla formazione dei figli in un’ottica di

“mito del ritorno”: la lingua inglese e i diplomi ottenuti in Gran Bretagna sarebbero più

utili di quelli francesi una volta tornati in Sri Lanka alla fine della guerra (Étiemble 2003).

M. è in Francia dal 19907. Proviene da una famiglia benestante di casta Vellala di Jaffna e

ha gran parte della sua famiglia in Francia (una sorella, un fratello e le rispettive

famiglie). È molto ben integrato: parla piuttosto bene francese, ha un buon lavoro e vive

in un pavillon acquistato con un mutuo nell’immediata banlieu parigina. Intrattiene

rapporti di vario tipo, lavorativi, di vicinato, amicali, con molti francesi e allo stesso

tempo frequenta attivamente la comunità tamil srilankese (soprattutto la cerchia

famigliare ma anche molti amici d’infanzia ritrovati a Parigi). Nonostante questo ha più

volte espresso il desiderio di partire per l’Inghilterra, dove ha una sorella:

Ne ho abbastanza della Francia. Perché qui anche se guadagni bene i padroni

rimangono sempre loro [i francesi], non è che puoi andare tanto lontano. Stavo

pensando che … te l’ho detto no, ho una sorella in Inghilterra, vive vicino Londra.

Potrei affittare la mia casa qui, è una casa grande, e prendere là un appartamento per

A. e S. [moglie e figlia], vicino a mia sorella, e io resto ancora qualche anno a

lavorare qui. Non è che posso lasciare tutto cosi, però intanto S. ha già tre anni,

almeno comincia a studiare lì, sennò dopo è più difficile per lei. E poi se torniamo in

Sri Lanka, vuoi mettere aver fatto la scuola a Londra? È tutta un’altra cosa. Se

comincia a studiare qui poi è troppo tardi. Quindi pensavo, intanto loro vanno, poi io

7 Gli itinerari di arrivo in Europa si sono modificati nel corso del tempio: i primissimi (‘77-‘79) compivano un viaggio via terra passando per l’India, l’Afghanistan, l’Iran e la Turchia. Poi fino ai primi anni ‘90, quando era soprattutto la classe media ad emigrare, il viaggio si compiva via aerea attraverso l’Italia o la Grecia, come nel caso di M. In seguito gli scali principali erano la Jugoslavia (nel periodo precedente la guerra), Mosca o la Romania.

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Page 17: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

le raggiungo. Il marito di mia sorella ha un buon lavoro, guadagna bene e mi ha detto

che ci sono delle possibilità lì. Anche la banca, i prestiti sono migliori.

Il desiderio di partire per la Gran Bretagna, dove vi sarebbero migliori opportunità,

è rivelatore del perpetuarsi di un modello ereditato dal passato coloniale, in cui la

migrazione all’estero non solo era compatibile con un eventuale ritorno, ma era anche

motivo di prestigio. Vivere in Francia significa in questo senso rinunciare non solo alla

propria patria (ora e per sempre) ma anche alle possibilità di una vita migliore in un paese

dove la sofferenza dell’esilio sarebbe almeno compensata dal successo economico.

Le parole di M. rivelano poi un altro elemento: la multilocalità della dispersione che

caratterizza la diaspora fa sì che la maggior parte di coloro che vivono in Francia abbia

parenti e amici sparsi in tutta Europa, con cui vengono mantenuti rapporti molto stretti.

Contatti telefonici e visite regolari generano uno scambio fittissimo di informazioni di

varia natura, tra cui le possibilità di successo economico e ascesa sociale che i diversi

paesi offrono: si discute delle politiche del lavoro, dell’assistenza sociale, delle possibilità

di acquisto immobiliare, del trattamento dei datori di lavoro, con la creazione di una sorta

di “geografia del possibile” transnazionale. La mobilità viene valorizzata e non è motivo

di paure particolari, mancando il legame e l’identificazione con la terra in cui si è costretti

a vivere.

Questo scambio di informazioni coinvolge naturalmente anche il paese d’origine,

dove molti conservano gran parte della famiglia e con cui sono mantenuti legami molto

stretti. Anche negli anni ‘80 e primi anni ‘90, quando la tecnologia non permetteva ancora

la rapidità comunicativa attuale, stretti contatti venivano mantenuti telefonicamente.

Come si diceva, questo aspetto ha contribuito largamente a determinare le direzioni prese

dal flusso migratorio. Per la Francia le informazioni dell’accettazione quasi automatica

delle domande d’asilo alla fine degli anni ‘80 si sono tradotte in un aumento del flusso

migratorio nei primi anni ‘90.

La densità del flusso si scontra però a partire dal 1992 con le nuove misure europee

in materia di asilo politico: a partire da quest’anno le domande d’asilo dei tamil srilankesi

vengono nuovamente sottoposte a rigidi e lunghi controlli, per poi diminuire

progressivamente nel corso degli anni ’90. Nonostante questo alla fine del secolo la

17

Page 18: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Francia è il secondo paese nel mondo per numero di réfugiés statutaires dopo l’India

(14%) e continua fino ad oggi a concedere l’asilo politico ai tamil srilankesi in

percentuale decisamente superiore alla media delle altre domande (Étiemble 2004).

1.2.2 La comunità tamil srilankese di Parigi

In Francia i tamil srilankesi si concentrano fin dal principio nella regione parigina.

Una comunità si costituisce anche a Lyon (Codandamourty 1997), per grandezza la

seconda città di Francia, e qualche famiglia si sposta per ragioni lavorative in altre zone

del paese (Nice, Strasbourg, Toulouse), dando vita a piccole comunità. Questo fenomeno

dipende largamente dalla peculiare distribuzione demografica francese, che vede

un’altissima concentrazione nella regione parigina8. Essa si rispecchia in una maggiore

disponibilità lavorativa e quindi in una tendenziale concentrazione della popolazione

immigrata: d’altronde secondo le statistiche dell’APUR9 il tasso di disoccupazione e

precarietà degli immigrati è, nella regione parigina, nettamente inferiore a quello della

media nazionale (APUR 2003).

A Parigi i primi tamil srilankesi si stabiliscono nelle chambres de bonnes del XV° e

XVI° arrondissement, dove trovano lavoro come domestici presso famiglie francesi

dell’alta borghesia; progressivamente affittano dei piccoli studios nei “sobborghi”

dell’area nord-est della città (XX°, XIX°, XVIII° e X° arrondissement) e in qualche

comune di provincia (soprattutto nel dipartimento Seine-Saint-Denis, a nord di Parigi),

dove gli affitti sono meno cari. Essendo la popolazione quasi esclusivamente maschile, le

camere vengono condivise inizialmente da diversi uomini, per poi riorganizzarsi attorno al

nucleo familiare nel corso degli anni: col tempo infatti l’immigrazione si diversifica, molti

uomini fanno arrivare mogli e figli dallo Sri Lanka e altri si sposano. A partire da metà

degli anni ’90 poi, quando la comunità tamil srilankese è già consistente (si parla di 35000

srilankesi nel 1995), si delinea un fenomeno ancora presente: il quartiere de La Chapelle10

8 È infatti a Parigi e nei quattro dipartimenti limitrofi che si registra la più alta densità abitativa in Francia.9 Atelier Parisien d’Urbanisme.10 Il quartiere de La Chapelle viene chiamato “la piccola Jaffna” di Parigi. Questo dipende non tanto dal fenomeno sopra citato, che non ne fa un quartiere residenziale tamil, ma piuttosto dalla significativa concentrazione di commerci, scuole, servizi e luoghi di culto che lo caratterizza. Dequirez (2002) vi ha

18

Page 19: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

nel XVIII° arrondissement diventa teatro di un turn-over residenziale che interessa gli

ultimi arrivati, in una dinamica in cui è la comunità stessa a farsi carico dell’accoglienza.

Contemporaneamente si delineano le zone di provincia che si caratterizzano oggi per

un’alta densità residenziale della comunità: La Courneuve, Saint Denis, Pantin, Bobigny,

Garge-Sarcelle.

È stato notato come la scelta residenziale attuale segua quattro “direttive” principali:

Prossimità alle zone a concentrazione residenziale tamil.

Prossimità dei trasporti.

Collegamento con le zone commerciali tamil (quartiere de La Chapelle, compreso

tra la Gare du Nord e la Gare de l’Est).

Esclusione di quartieri dove risiedono troppi stranieri, in particolare Arabi e

Africani.

Negli studi sulla popolazione tamil srilankese in Francia si sottolinea spesso la

tendenza di questa comunità all’acquisto immobiliare, il quale, entrate permettendo, si

delinea come una scelta di investimento conseguente la fondazione della famiglia:

l’importanza data al luogo di residenza e ad una buona abitazione si traduce in un accesso

alla proprietà diffuso e particolarmente rapido, soprattutto se si pensa alla stagnazione

occupazionale che caratterizza il panorama lavorativo della maggioranza dei membri della

comunità. Nel corso degli ultimi 25 anni si sono infatti definite due nicchie lavorative

nelle quali si inseriscono la maggior parte dei tamil srilankesi: ristorazione e pulizie. Al

momento dell’arrivo trovare un lavoro è stato fin dall’inizio una priorità (bisogna

rimborsare i debiti contratti per il viaggio, le spese relative al primo soggiorno e ai

documenti necessari per la domanda di asilo) e in entrambi i casi si tratta di

un’occupazione che permette di posticipare il problema della lingua. Questo problema

irrisolto è però causa di soprusi e grosse frustrazioni: il fatto di non parlare francese li

priva della possibilità “de défendre des droits parfois bafoués (les heures travaillées ne

sont pas toutes declarées ou rémunérées, par example). Présentés comme peu

“revendicateurs” par les professionels, la langue française est perçue par les hommes sri-

dedicato uno studio approfondito.

19

Page 20: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

lankais eux-mêmes comme l’obstacle d’où découle leur situation professionelle: ils ne

peuvent faire autre chose que la restauration et ne peuvent se défendre ou se faire

respecter parce qu’ils ne parlent pas français” (Étiemble 2000: 6).

Questo tipo di occupazioni risultano frustranti per un altro motivo: rappresentano

spesso una degradazione notevole rispetto alla posizione occupata (o che si sarebbe potuti

occupare per formazione e appartenenza castale) in Sri Lanka:

Quando ho finito gli studi ho iniziato a lavorare come contabile. Vedi abitavo qui

con la mia famiglia [mi mostra una foto della villa in Sri Lanka]. Vedi com’è grande.

Poi qui non si vede ma avevamo anche un grande giardino con palme e fiori. Mio

padre era nell’amministrazione. Eravamo molto rispettati. Qui è diverso. Ma le mie

figlie sono molto studiose: M. vuole fare economia all’università. Almeno loro

avranno un buon lavoro. [C. di casta Vellala, in Francia dal 1983. È impiegato come

lavapiatti in un ristorante francese e come cuoco in un ristorante giapponese di

Parigi].

Le parole di C. mettono in luce una serie di incubi e di sogni della popolazione

tamil srilankese di Parigi. Innanzitutto rivelano la frustrazione derivante dal condurre un

lavoro non adeguato alla propria formazione e posizione sociale (-castale):

Ce type d’emplois est, a priori, particulièrement dévalorisant pour ceux qui

proviennent de la classe moyenne sri-lankaise du fait qu’ils restent très attachés à la

symbolique du statut social. Ces travaux sont, au pays, en effet réservés aux très

basses castes ou aux Intouchables. La situation professionelle en France est donc

ressentie comme un très net déclassement (Robuchon, Percot, Tribess 1995: 3).

Secondariamente rivelano l’importanza, già sottolineata, dell’abitazione, che

diviene in diaspora come in patria marcatore della posizione sociale occupata. Ma

esprimono anche un sogno: nel panorama desolante di una vita di duro lavoro in un paese

straniero, la speranza è rappresentata dalle nuove generazioni. Il sogno è che i propri figli

non debbano vivere le medesime sofferenze dei loro genitori. Nelle famiglie tamil in

diaspora i bambini sono oggetto di grandi aspettative e grandi investimenti, in termini di

20

Page 21: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

tempo e denaro. Se una buona educazione era fortemente valorizzata anche in patria, in

diaspora essa assume una connotazione quasi rivendicativa: una buona riuscita scolastica

è la porta per un lavoro prestigioso e un modo, per la famiglia, di recuperare la posizione

sociale perduta.

I bambini sono quindi molto seguiti nel loro percorso scolastico: fin dalla scuola

materna si fa attenzione che si inseriscano bene, che siano attenti e disciplinati e che

imparino bene il francese, il quale per altro è poco parlato in famiglia; quando parlano di

loro i genitori sottolineano aspetti legati alla riuscita scolastica e ad una buona

educazione. L’investimento nella formazione dei propri figli passa anche attraverso

grandi sacrifici: la valorizzazione delle scuole private, dove i bambini sarebbero più

seguiti e meno soggetti a cattive compagnie, comporta l’aggiunta di un peso economico

notevole, che spesso si traduce per il padre di famiglia nell’accumulazione di più lavori.

Se l’integrazione passa attraverso la formazione scolastica, essa è vissuta come un

mezzo più che come un fine: il valore dell’educazione “alla francese” risiede cioè nel suo

essere mezzo di riuscita economica. Integrarsi non significa in altre parole perdere la

propria cultura e i propri valori, come comunica bene il titolo di un articolo apparso su

Naan, giornale franco-tamil mensile, edito dal Comité de Coordination Tamoul-France

(CCT), di cui riporto un estratto:

La communauté tamoule de France.

«L’identité tamoul est un héritage auquel les jeunes franco-tamoul issus de

l’immigration ont droit».

(…) Au sein des familles tamoules sri lankaises, le tamoul reste de façon dominante

la langue de communication entre parents et enfants. Pour les enfants nés en France,

l’immersion en milieu francophone correspond au moment de l’entrée à l’école

maternelle. L’enfant ne quitte pas alors seulement sa langue maternelle, mais aussi

ses repères culturels, sa culture familiale et ses habitudes alimentaires.

S’adapter à la societé française n’est possibile que par le travail, par l’école, bref par

l’éducation à travers les normes et les valeurs françaises. Ce facteur est d’ailleurs le

plus important dans la réussite de l’intégration sociale des immigrants. Et cela, les

Tamouls l’ont bien compris.

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Page 22: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Même s’ils ne s’adaptent pas aussi bien, ils remercient la France de les avoir

accueillis et connaissent la chance qu’ils ont. Le droit à l’instruction gratuite et

obligatoire est un droit fondamental en France et il s’applique à tous les enfants. Il

s’agit là de principes nobles de ce pays. De nombreux parents poussent ainsi leurs

enfants à travailler dur pour leurs réussite professionelle.

Les jeunes tamouls de la seconde génération dialoguent davantage avec les Français,

et parfois ils ont le sentiment de mener une double vie, tiraillés entre deux culture,

deux identités. C’est ainsi que la jeunesse tente de se forger une nouvelle vie,

affrontant avec vaillance les conséquences de l’immigration. De ce point de vue, les

problèmes rencontrés par la jeunesse sont les mêmes que ceux du reste de la

diaspora. Cette seconde génération s’en sort plutôt bien. On trouve en France de

nombreux étudiants tamouls dans le domaine technologique, médical…L’avenir de

ces jeunes est plein d’espoirs. Cependant, dans la fonction publique, ils sont très peu

représentés.

L’identité est un héritage auquel les jeunes franco-tamouls issus de l’immigration ont

droit. La promotion de la langue tamoule et de la culture tamoule, à travers les

nombreuses associations, est une priorité pour cette communauté, qui considère que

connaître sa culture permet une meilleure intégration dans cette societé.

Sachons toujours rappeler que la communauté tamouls recale des potentialités

énormes et constitue une formidabile richesse pour la France (Naan, gennaio 2008).

Questo lungo estratto riassume una grossa quantità di “questioni diasporiche”. Il

fatto che sia apparso su un giornale edito dal CCT, il quale è legato al movimento delle

Tigri tamil, non ne inficia a mio parere la validità generale. Gli elementi contenuti

rispondono largamente da un lato alla mia esperienza diretta, dall’altro trovano riscontro

negli studi che in ambito francese sono stati dedicati all’argomento. La visione della “vita

in diaspora” che l’articolo rispecchia è infatti una visione condivisa, al di là delle

convinzioni politiche: la difesa della cultura tamil è una priorità in diaspora, sia che la si

veda come il dovere di preservare un patrimonio letterario e culturale millenario11, sia che

essa rappresenti un mezzo per valorizzare una nazione etnicizzata (una lingua, un popolo,

un territorio).

11 In quest’ottica l’incendio della grande biblioteca tamil di Jaffna è un atto di grande gravità.

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L’articolo mette in luce molti degli aspetti elencati a inizio capitolo come

caratterizzanti la condizione diasporica:

Il senso di differenza rispetto al contesto francese, il quale se è causa di traumi da

un lato (ad esempio nell’inserimento del bambino nel mondo scolastico) è anche

motivo di orgoglio (“è una ricchezza potenziale per la Francia”).

La necessità di un adattamento alla società d’accoglienza, il quale passa attraverso

l’educazione e il lavoro.

La consapevolezza della dualità della propria condizione esistenziale, che è

chiaramente espressa quando si dice che i giovani hanno la sensazione di condurre

una doppia vita (due mondi, due identità).

L’importanza del mantenimento della propria cultura, concepita e costruita come

comune attraverso una rete di associazioni di varia natura. Essa rappresenta una

priorità per la comunità nel suo complesso e una responsabilità verso le generazioni

future, oltre ad essere il miglior mezzo di integrazione.

Quest’ultimo elemento merita una trattazione un po’ più approfondita. La comunità

tamil srilankese di Parigi ha infatti dato vita, in un periodo di tempo relativamente breve,

ad una rete commerciale e associativa di notevoli dimensioni, attraverso la quale vengono

mantenuti contatti (economici, politici, culturali) con lo Sri Lanka e con gli altri luoghi

della diaspora.

Questa rete si concentra nel quartiere de La Chapelle, il quale si presenta come un

quartiere “etnicizzato”: lungo un asse principale rappresentato dalla rue du Faubourg

Saint Denis si estende una piccola area caratterizzata da una concentrazione di commerci

di varia natura (alimentari, parrucchieri, macellerie, negozi di abbigliamento, gioiellerie,

videoteche), servizi (uffici di traduzione, scuole) e associazioni tamil. La rete associativa

tamil rivela una complessità notevole, dovuta principalmente ai legami stretti (ma non

sempre chiaramente definibili) che essa intrattiene con il politico (Étiemble 2002b). Non

mi sono tuttavia interessata alla questione, che, seppur di grande interesse, esula

ampiamente dal mio soggetto d’indagine. Ciò che mi preme sottolineare in questa sede

23

Page 24: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

sono invece gli aspetti “diasporici” di questa rete associativa, i quali rendono in parte

conto della costruzione identitaria della comunità.

Accanto ai rapporti economici con il paese d’origine, stabiliti attraverso la rete

commerciale, e alla rete transnazionale di conoscenze che ciascuna famiglia intrattiene e

coltiva, la comunità infatti si forgia e si manifesta attraverso una serie di eventi e attività

promosse da circa sessanta associazioni. Il panorama è molto vario: troviamo club

sportivi, scuole di tamil (che propongono anche corsi di francese e inglese per adulti e

sostegno scolastico), scuole di Bharata Natyam e musica, associazioni culturali e ong.

Queste associazioni intrattengono rapporti tra di loro, con il resto della diaspora e con il

paese d’origine12, rilevabili ad esempio all’occasione dei grandi avvenimenti culturali o

sportivi organizzati mensilmente: si tratta infatti di eventi spiccatamente comunitari

organizzati dalle scuole o dalle associazioni sportive della regione parigina, ad occasione

dei quali vengono invitati i corrispettivi di altri paesi europei meta della diaspora

(soprattutto tedeschi) e i cui proventi servono a finanziare attività in Sri Lanka.

Le associazioni quindi (e naturalmente, seppur in modo diverso, i commerci)

rappresentano una risorsa notevole nella costruzione della comunità intesa come

collettività dall’identità comune: tale identità si basa sulla coscienza della differenza con

il contesto francese, i cui valori vengono accettati solo nella misura in cui permettono

un’integrazione economica e lavorativa, e sul mantenimento cosciente di una cultura

tamil che si sa transnazionale, ma che si riporta sempre alla terra mitica del Tamil Eelam.

Anche quando non passa attraverso la rete associativa, la trasmissione della lingua,

dei valori e della cultura tamil rappresenta una priorità per le famiglie e i bambini

vengono inquadrati in un serie di attività extrascolastiche (corsi di tamil, canto, danza) a

domicilio. In questo caso la presenza della famiglia allargata rappresenta spesso

l’occasione per formare piccole classi di cugini e abbassare i costi dei corsi.

12 Principalmente attraverso l’ORT (Organisation Réhabilitation Tamoul) branca umanitaria del CCT, organizzazione transnazionale legata alla lotta delle Tigri tamil. Si rinvia agli studi di A.Étiemble e si segnala che G. Dequirez (Université de Lille2) sta conducendo un dottorato di ricerca sulla rete associativa della comunità tamil srilankese, di cui si potranno leggere le conclusioni tra circa un anno.

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Sulla base degli elementi delineati si può quindi dire che i tamil srilankesi di Parigi

costituiscano una comunità diasporica. Tale affermazione non si basa soltanto

sull’osservazione di caratteristiche strutturali (multipolarità della dispersione e

interpolarità delle relazioni, attraverso commerci, associazioni e rapporti personali) e

sull’osservazione di una volontà di mantenimento dell’identità comunitaria, ma

sull’elaborazione che la comunità stessa fà della propria condizione esistenziale, la quale

rivela una chiara coscienza diasporica. L’ultimo elemento della definizione tripartita di

Vertovec, la diaspora come creatività culturale, necessità a mio parere ancora qualche

tempo per potere essere indagata: i primi figli della diaspora hanno oggi 20-25 anni ed è

quindi solo tra qualche tempo che si vedranno i frutti di quell’interazione di identità

multiple di cui parla lo studioso; inoltre per il caso francese non sono stati condotti studi

in questa prospettiva. Da parte mia sono a conoscenza di un solo interessante fenomeno,

facilmente visibile passeggiando nel quartiere de la Chapelle: gruppi di ragazzi si

aggirano per il quartiere con piccole telecamere e in quest’ambientazione ripropongono,

riadattandole al contesto e alla vita parigina, le storie viste nei film tamil13 ambientati in

India o in Sri Lanka. I cortometraggi finiscono poi sulle pagine di youtube o di altri siti di

condivisione video.

1.2.3 L’evoluzione della vita religiosa

Se in diaspora, come si è dimostrato, la comunità investe una gran quantità di

tempo, energie e denaro nel mantenimento del patrimonio culturale che fonda l’identità

collettiva, la religione, in quanto fetta importante di questo patrimonio, non può che

rivestire un ruolo fondamentale. È attraverso di essa, infatti, che si trasmettono valori e

norme culturali ed è su di essa che si basa la costruzione dell’individuo.

13 L’importanza dei media nel mantenimento e nella costruzione della cultura comunitaria è un altro importante elemento. Anch’essi si sono adeguati alle esigenze della diaspora e canali satellitari tamil sono sorti a Londra, Parigi e Berlino (Étiemble 2002b): essi trasmettono notizie del paese e i più importanti eventi della comunità nei vari paesi della diaspora (ad esempio i festeggiamenti per la festa di Pongal, celebrazioni religiose e avvenimenti politici, come le commemorazioni del Maaveerar Naal il 27 novembre), oltre a proporre film, programmi culturali, e telenovelas. Un interessante fenomeno è la nascita di serie tv che raccontano la vita delle comunità tamil disperse nel mondo.

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La comunità tamil srilankese di Parigi è per la stragrande maggioranza hindū, ma

sono rappresentate anche varie confessioni cristiane (cattolici, protestanti, testimoni di

Geova) ed è presente una piccola percentuale di musulmani. Mentre questi ultimi

costituiscono un gruppo a parte (Robuchon 1995), tra hindū e cristiani (escludendo

probabilmente i testimoni di Geova14) c’è una notevole compenetrazione, che si esprime

in una sorta di “sincretismo leggero”, spiegabile in parte come eredità storica e in parte

come conseguenza della condizione diasporica.

Se già in Sri Lanka cristianesimo e induismo convivono largamente (in particolare

vi sono alcuni luoghi di pellegrinaggio che possono essere definiti ecumenici, Robuchon

1995), al momento poi dell’arrivo in Francia, l’assenza di luoghi di culto hindū costringe i

primi tamil a frequentare alcune chiese cattoliche: la Basilique du Sacré Cœur a

Montmartre e la Chapelle de la Médaille Miraculeuse della Rue du Bac. Secondo

Robuchon (1986 e 1995) la scelta non è casuale, ma risponde a dei rimandi visivi che

renderebbero i due luoghi più familiari: nella Cappella della rue du Bac si tratterebbe in

particolare della “Madonna nera” e nella Basilica del Sacré Cœur di una struttura

architettonica che rende possibile la deambulazione rituale intorno alle statue. Dalle

descrizioni fornite da Robuchon pare che in questi luoghi cristiani i tamil hindū

compissero i medesimi gesti che caratterizzavano le visite al tempio in Sri Lanka15: il

compiere pradaksiyā, la sosta di preghiera di fronte alla statua, la genuflessione, il

toccare i piedi della statua per poi portare le mani agli occhi o alla testa. Robuchon (1986)

documenta inoltre che le visite alla Basilica rappresentavano un importante momento di

socializzazione della comunità ed erano occasione di incontri, scambi e riunioni che si

svolgevano lungo la scalinata che porta alla chiesa.

A questa sorta di pellegrinaggio settimanale si aggiungono rapidamente due mete di

pellegrinaggio annuali: Lourdes e Chartres.

14 Ho conosciuto alcuni tamil srilankesi appartenenti al movimento dei testimoni di Geova. Essi si dissociano assolutamente dalla comunità, di cui non si sentono parte: “io non ci vado a La Chapelle, non frequento la comunità, perché sai loro fanno un sacco di risse, come in Sri Lanka, anche in Sri Lanka tutti si ammazzano. Io ho perso mia sorella e non voglio più avere a che fare con loro, e neanche coi buddhisti. Io frequento gli altri del gruppo [i testimoni di Geova], sono tutte brave persone, francesi, africani, a me non interessa: se credi in Geova non puoi non essere una brava persona. Capisci no? Anche mio marito è cambiato. All’inizio lui non voleva venire…ma poi l’ho convinto e ora è una persona migliore. Non frequenta più gli altri tamil, solo la famiglia.” [S. tamil srilankese arrivata nel 1991, vive a Parigi col marito e il figlio di 8 anni]15 e che naturalmente si osservano oggi nei templi hindū di Parigi.

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Page 27: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Lourdes è una destinazione ampiamente conosciuta già in Sri Lanka:

Jeunes hommes et femmes hindous, à partir de leurs souvenirs du pays, de ce qu’en

un temps leur dirent leurs camarades chrétiens à l’école à Sri Lanka, ils se

rappelèrent que Lourdes était en France. Et ils visitèrent. Hindous, ils firent leur

miracle de la grotte (Robuchon 1991: 2).

La Madonna di Lourdes “déesse locale, déesse d’ici et déesse de l’ici” (Robuchon

1991: 2) viene subito integrata nel pantheon hindū e il pellegrinaggio a Lourdes diviene

una pratica comune tra i tamil srilankesi.

Questi luoghi e questi culti “locali” sono praticati ancora oggi. In tutte le case che

ho visitato, accanto a Gayeśa, Murugan, Śiva e Pārvatī, era sempre presente una delle

tipiche bottigliette col tappo azzurro contenenti l’acqua di Lourdes, o altri souvenirs della

Vergine. Lungi dal rappresentare un allontanamento dalla propria cultura o un tradimento

della propria religione, queste nuove pratiche rappresentano un arricchimento dovuto:

ogni terra ha i suoi dèi e, in questo senso, si può dire che la Vergine venga a rappresentare

per gli hindū la divinità locale, colei che veglia sulla terra di Francia. In quanto tale Essa

merita la devozione di coloro che ha accolto.

Il pellegrinaggio a Chartres rappresenta anch’esso un momento ecumenico della

comunità tamil srilankese, ma rivela una grossa differenza rispetto alle visite a Lourdes:

queste sono organizzate intorno al nucleo famigliare, mentre il pellegrinaggio a Chartres

(dove per l’occasione viene recitata una messa in tamil) è organizzato dalla comunità

stessa; in particolare degli autobus sono affittati per l’occasione, seguendo le zone

residenziali.

Sono soprattutto i tamil hindū a partecipare, ma vi si trovano anche tamil

musulmani e naturalmente cattolici. Il pellegrinaggio si presenta quindi come uno dei più

importanti eventi annuali della comunità nel suo complesso. Nonostante la meta sia una

cattedrale cattolica ciascuno vive l’evento secondo la propria appartenenza religiosa:

Bien sûr les Tamouls catholiques sont présents et chantent les cantiques (…) Lors de

la messe, pendant que la cathédrale résonne des prières en tamoul, les Hindouistes,

c’est-à-dire la plus grande partie de l’assistance, font une queue de plusieurs heures,

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Page 28: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

dans le plus grand silence, devant Notre-Dame-du-Pilier, Vierge Noire qui est

devenue leur sainte (…) Chacun, tour à tour, vient faire un vœu et baiser le pilier de

la Vierge, ou y apposer les mains. Les parents soulèvent leurs plus jeunes enfants

jusqu’au pied de la statue (Robuchon 1995: 106).

Mentre i cattolici partecipano alla messa, gli induisti partecipano del luogo: come a

Lourdes e come al Sacré Cœur, è la sacralità del sito a renderlo fruibile. I santi cui ci si

rivolge sono quelli cristiani, ma la gestualità e le modalità di preghiera rivelano la

traslazione che li ha resi membri a pieno titolo del pantheon hindū.

Come la partecipazione alla vita economica e lavorativa francese non si traduce

necessariamente in una perdita della propria cultura, allo stesso modo la fruizione di

luoghi di culto “altri” non comporta il sentimento di tradire la propria religione.

Nonostante la pratica dei pellegrinaggi a Lourdes e a Chartres si sia consolidata e

sia molto viva ancora oggi non si può dire lo stesso della frequentazione delle chiese

cattoliche, la quale si è progressivamente interrotta con il sorgere dei primi templi hindū a

metà degli anni ‘80. La nascita di luoghi di culto16 si inscrive in un più ampio quadro di

progressiva strutturazione della vita comunitaria: risolti i problemi del primo arrivo, la

comunità può occuparsi di dirigere le sue energie verso la messa in atto di tutta una serie

di strutture tramite cui rendere possibile quel mantenimento culturale di cui si è parlato

fin’ora. I templi sono una di queste strutture e come le altre rivelano una netta

caratterizzazione in senso comunitario. In particolare, se è vero che i templi della

comunità tamil srilankese sono frequentati, in piccola parte, anche da hindū di diversa

provenienza, non è ugualmente vero il contrario: difficilmente i tamil srilankesi

frequenteranno un tempio “altrui”.

Come si vedrà il tempio assume in diaspora molti ruoli: alcuni sono legati alla sua

natura di luogo “della e per la comunità”, altri, più “tradizionali”, derivano dal suo essere

luogo di culto; altri ancora sono il frutto della creatività che caratterizza la cultura umana.

Il percorso effettuato in queste pagine non vuole essere soltanto introduttivo: molti degli

elementi analizzati saranno presenti nella trattazione dei templi hindū e soprattutto, in

16 È sottointeso luoghi di culto hindu.

28

Page 29: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

un’ottica di sintesi, verranno ripresi nel capitolo conclusivo. In questo senso il religioso e

le sue strutture diverranno la chiave di lettura della comunità tamil srilankese (hindū) nel

suo complesso.

29

Page 30: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Capitolo II

NUOVI COSMI, NUOVI TEMPLI:

UN’INTRODUZIONE AL PANORAMA HINDŪ PARIGINO

Come già è stato detto in molti studi (Kramrisch 1976, Reiniche 1985, Shulman

1980, Eck 1996) il tempio hindū rappresenta il cosmo inteso come totalità ontologica:

esso vede dispiegare la catena di esseri che costituisce questa totalità in una rete di

rapporti spaziali, norme rituali, contatti e diritti di prossimità. Il tempio rispecchia,

afferma o trasforma non solo il cosmo nella sua totalità ma anche i microcosmi che, in un

gioco di inclusioni multiple e rimandi reciproci, in esso trovano dimora e analogia.

L’organizzazione sociale del mondo degli uomini1 e il pantheon hindū, il manifesto e

l’immanifesto, valori mondani e valori trascendenti trovano eco e si combinano in questo

luogo-simbolo.

L’importanza del tempio risiede quindi nel suo essere centro non solo in senso

geografico (il villaggio si costruisce intorno al tempio e in relazione spaziale ad esso) ma

soprattutto in senso ontologico, poiché è in esso che si incontrano la linea verticale che

attraversa i diversi mondi e la linea orizzontale che percorre il mondo umano. Il tempio

rappresenta quindi il luogo in cui si riassumono le potenzialità relazionali dell’individuo

(in quanto microcosmo) col macrocosmo di cui è parte. Tali possibilità però non sono date

e il tempio, come la mūrti2, non trae la sua sacralità da caratteristiche intrinseche: essa è il

risultato, sempre temporaneo, di determinati atti rituali. Attraverso di essi l’uomo

interpreta e forgia il proprio universo.

L’importanza del tempio non può quindi essere sottovalutata. Ma in che misura

quanto appena detto è applicabile ai templi di cui si occupa il presente studio, i quali sono

sorti, silenziosamente, in un contesto dove Dio è stato escluso dalla sfera pubblica e dal

sociale nel suo complesso e in cui i valori rispecchiano un’altra, differente, concezione del

1 Come suggerisce J.C.Galey “l’organisation social et la religion ne sont pas choses distinctes, et (…) ce sont les rites plutôt que les traités qui en assurent le lien” (Galey 1985:11).2 Fanno eccezione il bāya-linga, una pietra bianca trovata nel fiume Narmada, le śālagrāma, pietra del fiume Gandaki in Nepal e le pietre del monte Govardhana nel Vraj, considerate svarūpa, ossia forme naturali rispettivamente di Śiva, Visyu e Krsya.

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Page 31: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

reale? Una volta deconstruita, questa domanda, rivela tutta la sua complessità e

nell’intento introduttivo di queste pagine non ci si propone di fornire una risposta

esauriente: si avanzeranno piuttosto alcuni spunti di riflessione e si definiranno alcune

problematiche, volte ad inquadrare i casi etnografici che seguono.

Innanzitutto diamo uno sguardo al contesto in cui il tempio si inserisce. La città di

Parigi, come suggerisce un celebre testo di sociologia urbana ad essa dedicato (Pinçon

2001), si presenta come un mosaico composto da tasselli variegati e in movimento

perpetuo. La città si trasforma così come le sue componenti, le quali si sovrappongono più

che altrove, risultando in un’altissima densità urbana ed abitativa. Gli elementi in gioco

sono da un lato la struttura urbana in cui il tempio si inserisce (che non è costruita intorno

ad esso!), dall’altro la società che lo circonda: entrambi generano conseguenze, il primo

sul piano della fruizione, il secondo su quello della percezione del tempio3.

2.1 Il tempio nella città

A differenza di quanto avvenuto in altri paesi meta della diaspora tamil (e hindū in

generale), i quali hanno visto sorgere veri e propri templi4, costruiti nella loro interezza

seguendo le norme dell’architettura sacra, a Parigi essi sono stati allestiti in sale, di

diversa grandezza, all’interno di edifici preesistenti. Essendo l’architettura del tempio

importante nella sua interezza, i compromessi derivanti da queste locazioni inusuali sono

evidenti, soprattutto se si pensa alla complessità del tempio hindū, śivaita in particolare, il

quale è composto da molteplici spazi, ordinatisi in rapporti simbolici reciproci. Non è

questa la sede di una trattazione approfondita dell’architettura sacra hindū. Basti qui

ricordare un nugolo di caratteristiche la cui assenza comporta due importanti modifiche

nell’utilizzazione dello spazio del tempio.

Il tempio forma tradizionalmente un quadrilatero orientato, il cui centro è costituito

dall’inner sanctum. Attorno ad esso si costruiscono spazi successivi, separati da cinte

3 Più generalmente il nuovo contesto influisce sulla visione di sé.4 Ad esempio il sri Kamadchi Temple di Hamm, in Germania; il Richmond Hill Hindu Temple in Canada e il Sri Swaminarayan Mandir di Londra (finanziato però dalla ricca comunità gujarati).

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Page 32: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

interne ed esterne, le quali permettono la fruizione del tempio secondo due movimenti,

quello lineare di entrata-uscita e quello circolare, il quale può essere centripeto o

centrifugo a seconda del soggetto che lo compie:

Le dévot qui vient de l’extérieur va procéder par encerclements successifs, en faisant

le tour éventuel de la seconde enceinte, puis de la première, pour arriver au centre

face à la divinité. Inversement, la divinité, après un rituel approprié, va (…) quitter le

centre par une suite de déploiements concentriques de plus en plus large, pour sortir

du temple et l’encercler avec une partie de la ville en faisant le tour des quatre rues

extérieures; (…). Ainsi, au mouvement centripète de l’homme pour rejoindre le divin

répond le mouvement centrifuge du divin pour se manifester dans la societé

(Reiniche 1985: 80).

Il movimento circolare che prepara il pellegrino alla visione suprema, facendogli

percorrere simbolicamente la totalità del cosmo, può compiersi a Parigi (e non in tutti i

templi) solo attorno al nucleo più interno, il garbhagrha in cui dimora la divinità. Il

movimento centripeto non può esprimersi nella sua completezza, mancando la struttura

architettonica che lo rendeva possibile: l’inner sanctum è ospitato in una sala unica e

anche esternamente il tempio non è percorribile essendo incastonato in un susseguirsi

ininterrotto di edifici.

Tali limiti si ripercuotono anche sullo svolgersi del movimento centrifugo che

compie regolarmente la divinità, la quale viene portata in processione intorno al tempio

secondo un movimento inverso a quello del devoto. L’unica processione che si svolge a

Parigi è quella in onore del dio Gayeśa: anche in questo caso tuttavia, a causa dei limiti

sopra enunciati, il tempio non rappresenta più il centro del percorso quanto piuttosto il suo

punto d’avvio e di conclusione. Gli altri templi non hanno invece ottenuto

l’autorizzazione necessaria allo svolgersi della processione e in alcuni casi, quando non si

voglia rinunciare a questo momento fondamentale del calendario rituale, essa si svolge

all’interno del tempio stesso, in un suo surrogato cinetico: in esso il senso di espansione

implicito nell’atto stesso della processione risulta vanificato5.

5 Riprenderò più dettagliatamente la questione quando tratterò, nel capitolo dedicato al Sri Manicka Vinayakar Alayam, del Gayeśa Caturthī.

32

Page 33: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

2.2 Il tempio nella società francese

Oltre ai cambiamenti architettonici che si riflettono nella fruizione del tempio, esso

si inserisce in un contesto culturalmente nuovo, differente, il quale modifica la percezione

del tempio e il rapporto che esso ha con la società.

La Francia è un paese laico, forse il paese laico per eccellenza e in esso la religione

e il religioso non hanno più spazio nella sfera pubblica. La laicità diviene strumento

dell’egalité e la costruzione dell’identità pubblica fa propri tali principi rispecchiandosi e

venendo sostenuta dalla legge, che vieta in vari modi l’espressione pubblica

dell’appartenenza religiosa. L’identità religiosa, come quella etnica, diviene questione

privata, vissuta all’interno della famiglia o della comunità ristretta cui si decide di far

parte6. Tale comunità non è più rappresentata dalla maggioranza degli individui con cui

quotidianamente ci si trova a contatto, come avveniva al paese d’origine, ma da un

ristretto (seppur relativamente numeroso) gruppo di persone che costruiscono attivamente

la comunità, la cui realtà si fonda su un senso di appartenenza condiviso:

The reality of community lies in its members’ perception(s) of the vitality of its

culture. People construct community symbolically, making it a resource and

repository of meaning. (Cohen 1985: 118)

Come è stato sottolineato in molti studi riguardanti la diaspora hindū (Knott 1987,

Vertovec e Van der Veer 1991, Vertovec 2000, Baumann 2000 e 2001b, Mazumdar 2006)

o più specificatamente la diaspora tamil in paesi occidentali (Jacobsen 2004, Luchesi

2004, Baumann 2001a), la percezione delle altre confessioni religiose (in particolare del

cristianesimo, religione dominante) e della cultura secolare europea ha generato un

processo di auto osservazione che si è tradotto in una diversa coscienza del Sé e di

rimando in una diversa percezione del tempio. Il pericolo, di fronte all’alterità

rappresentata dalla maggioranza, di una perdita identitaria e culturale in senso largo,

6 L’individuo, nonostante sia immesso, per nascita ed educazione, in un contesto in cui elementi disparati forgeranno la sua identità, è anche attivo reinteprete della sua cultura d’appartenenza, la quale può anche essere in parte rigettata.

33

Page 34: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

genera un maggior interesse nei propri costumi e tradizioni, nelle modalità educative7 e

nelle pratiche e valori religiosi:

When one religion comes into contact with another, and its beliefs, practices, and

values become open to question in the new social context, the adherents of that

religion become increasingly aware of its content. This is not without consequence

for the persistance of a religion in an alien milieu. (Knott 1987: 160)

La visione del tempio come il suo ruolo vengono influenzati da questa “sharpening

of awareness [that] seems to be a prominent development, in one form or another,

throughout many hindu communities overseas” (Vertovec 2000: 34).

2.3 La comunità nella società e l’analogia sociale-rituale

Se la percezione del tempio come quella del Sé risultano modificate dal nuovo

contesto in cui si situano, l’inserimento nella società francese (occidentale in generale)

genera conseguenze profonde anche nella struttura sociale, le quali a loro volta

influenzano l’applicabilità di alcuni modelli conoscitivi validi nel contesto d’origine.

Se negli studi di tempio in India o in Sri Lanka esso diviene “espace de distinction

sociologique” (Galey 1985) e nel rituale che in esso ha luogo si rispecchia

l’organizzazione sociale (Fuller 1992), per i templi parigini questa equazione non è più

applicabile.

La società in cui il tempio si inserisce non si è modellata sulla medesima visione del

reale: risponde a leggi differenti, che esso non può rispecchiare. I devoti che si recano al

tempio non fanno più parte di un insieme gerarchicamente ordinato secondo regole

castali, ma di una società dove gran parte delle regole e delle concezioni su cui si basava il

vecchio mondo non sono mai esistite. Questo non significa che le caste siano assenti:

7 Joahanna Vögeli si è interessata per il caso tedesco al ruolo della donna tamil. La studiosa sostiene che l’ideale della donna cosciente della tradizione e della morale è rafforzata in diaspora. Le donne assumono il ruolo di preservatrici della cultura tamil e di guardiane dell’onore della comunità e della famiglia come compenso della perdita di cultura che avviene in esilio, mentre il modello di donna e di famiglia occidentale è valutato negativamente.

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Page 35: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

nonostante esse non siano un facile argomento di discussione e se ne taccia spesso

l’esistenza, regolano ancora molti dei rapporti sociali intra-comunitari continuando ad

essere marcatori d’identità, status e ruoli sociali all’interno della comunità.

L’individuo tuttavia, oltre ad essere parte di una comunità, in questo caso tamil

srilankese, è anche parte della società in cui tale comunità si inserisce. La condizione

diasporica fa del Sé un frammento di un mosaico diversamente costituito e nel nuovo

contesto il Sé vede i suoi confini continuamente attraversati, talvolta silenziosamente, per

osmosi, talvolta violentemente, per cambiamenti imposti: l’Alterità prende il controllo di

alcune “nicchie”, entra nel quotidiano, modifica le gerarchie, i significati, l’immaginario.

Questo rapporto imprescindibile con l’Altro8 genera non solo paure ma anche, nel lungo

periodo, modifiche nelle abitudini culturali: si pensi ad esempio alla soppressione di

alcune norme di purezza relativa, rispettate in Sri Lanka e abbandonate in Francia. Un

evento tra tanti mi servirà a spiegare tale fenomeno.

Il ristorante in cui ho lavorato per qualche tempo a Parigi ha due cuochi, entrambi

tamil di origine srilankese. Una mattina di marzo ricevo la telefonata di uno dei due

uomini, che mi chiede se posso arrivare al lavoro con un ora di anticipo: aveva appena

ricevuto la notizia della morte della figlia dodicenne di un suo caro amico e voleva andare

a vedere la salma della piccola prima che la portassero all’ospedale. Naturalmente ho

acconsentito a sostituirlo per il tempo necessario. Dopo la visita, M. è rientrato al lavoro,

senza poter ripassare da casa: si è recato in bagno a lavarsi le mani ed è sceso in cucina

senza dirmi granché. Appena la mia collega è arrivata, un paio d’ore più tardi, ne ho

approfittato per scendere in cucina a vedere come stava. Naturalmente era scosso

dall’evento ma ciò che mi ha fatto notare prima di tutto è che in Sri Lanka non sarebbe

stato possibile tornare a lavorare dopo una visita simile: se si è entrati a contatto con la

morte, mi spiegava, bisogna stare lontani dagli altri per un certo periodo e sottoporsi ad

alcune pratiche purificatorie. Ma in Francia non è cosi e “a loro [i clienti francesi] non

interessa cosa ho fatto e dove sono stato prima di preparargli da mangiare”.

Il fatto che alcuni valori, pratiche o regole non abbiano importanza nella nuova

società, associato in alcuni casi, come quello appena descritto, alla loro inapplicabilità (se

M. non fosse tornato al lavoro sarebbe stata considerata un’assenza non giustificata),

8 La validità di tali concetti risiede, a mio parere, in un utilizzo relazionale e non assoluto degli stessi: essi si definiscono solo reciprocamente.

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Page 36: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

comporta il loro abbandono o la loro applicazione solo all’interno di alcune sfere,

familiari o comunitarie, della vita dell’individuo. Allo stesso modo se le caste non sono

vivibili nella società francese, mostrano ancora la loro forza in alcuni ambiti del sociale

intra comunitario, come ad esempio nelle scelte matrimoniali.

Nello studio del tempio tutto ciò significa, a mio parere, l’impossibilità, nei casi

della diaspora, di un’equazione rituale-sociale, proprio perché il sociale non rispecchia più

il medesimo cosmo di cui il tempio è simbolo. I microcosmi individuali di coloro che si

recano al tempio non rispecchiano più, essi stessi, quel cosmo: il nuovo individuo si

costituisce ormai di pezzi di mondi e le sue identità sono numerose quanto i cosmi di cui

si nutre.

Anche nel tempio, come negli individui che lo frequentano, questi cosmi si

combinano, in modi diversi e in fieri. L’immagine del tempio come rappresentazione di

un cosmo ordinato ne risulta compromessa, ma può fungere da utile modello cui riportare

la mente durante l’osservazione degli esempi che compongono il panorama hindū

parigino. Esplorarli è lo scopo che mi prefiggo nei capitoli che seguono in cui ogni tempio

viene analizzato in funzione delle sue specificità.

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Page 37: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

LA DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA DEI TEMPLI

Fig. 1 - La cartina mostra la distribuzione geografica dei templi fondati dalla comunità

tamil srilankese a Parigi e nei comuni della petite couronne. Come si può notare, essi si

concentrano nell’area nord-ovest di Parigi (XVIII° e XIX° arrondissement) e nei due

comuni de La Courneuve e Saint-Denis. La numerazione dei templi è funzionale

all’ordine di trattazione degli stessi:

1. Shri Muthukumaraswamy Alayam

2. Sri Manicka Vinayakar Alayam

3. Sri Sabareesan Manchamatha Ayappan Temple

4. Sri Ayyappan Temple

5. Arulmihu Mutthumaariamman Aalayam

6. Sivan-Parvathi Temple

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Page 38: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Capitolo III

IL SHRI MUTHUKUMARASWAMY ALAYAM

3.1 Il tempio: storia e gestione

Murugan è una delle divinità più conosciute e adorate in Sri Lanka, cosi come suo

fratello Gayeśa, il dio a testa d’elefante. È conosciuto anche col nome di Skanda

(sanscrito) o Kārttikeya ed è il secondo figlio della coppia divina Śiva-Pārvatī. Ha un

carattere marziale, è un dio guerriero il cui oggetto-simbolo (oggetto esso stesso di

venerazione) è la lancia (vel). Il tempio Shri Muthukumaraswamy Alayam ne ha fatto la

sua divinità principale.

Il tempio si trova in un quartiere benestante del XIX° arrondissement, a due passi

dal metro Jourdain. Si tratta di una sorta di “villaggetto” che, con le sue botteghe,

negozietti di nicchia, bistrot e associazioni culturali, ritaglia un’isola “borghese” tra i due

quartieri popolari di Place des Fêtes e Belleville. La presenza di un tempio hindū è quindi

piuttosto sorprendente, soprattutto se si considera che la zona non è collegata

particolarmente bene né alle zone a concentrazione residenziale tamil né alla zona

commerciale tamil de La Chapelle. Nella stragrande maggioranza gli abitanti del quartiere

ignorano l’esistenza del tempio, il quale si situa d’altronde in posizione un po’ nascosta.

Per trovarlo mi sono rivolta all’unico alimentari indiano9 del quartiere.

L’ingresso del tempio passa facilmente inosservato, se si escludono i momenti

d’inizio e fine delle cerimonie, quando donne in sari colorati, uomini e bambini entrano

ed escono numerosi. Nessuna insegna rivela la presenza del tempio, il cui nome è scritto a

piccoli caratteri solo sulla cassetta delle lettere, mentre un piccolo foglio, affisso sulla

vetrina della sala, riporta in tamil e in francese gli orari delle cerimonie accompagnati da

9 Uso qui il termine ‘indiano’ nell’accezione comune: pakistani, bangladeshi, srilankesi, nepalesi e indiani vengono inclusi in questa categoria. Nel caso in questione si trattava di commercianti pakistani. Il fatto che conoscessero il tempio pur non frequentandolo rivela una serie di contatti tra comunità. Robuchon (1995: 94) cita gli incontri di cricket come eventi di incontro degli immigrati provenienti dal sub-continente indiano.

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Page 39: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

un’immagine di Krsya bambino. L’impressione è che tutto sia fatto con la massima

discrezione e nel rispetto del vicinato.

Fig.2 - L’ingresso del tempio

Il tempio Shri Muthukumaraswamy Alayam è stato fondato nel 1994 da un gruppo

di persone costituitesi in associazione: si tratta prevalentemente di famiglie i cui membri

sono arrivati progressivamente in Francia nel corso degli anni ‘80. Alla base della

fondazione del tempio c’è stata probabilmente la volontà di costituire un luogo di culto

per sé e quella ristretta cerchia di persone con cui si condivide una certa visione del

religioso. Come si vedrà, in effetti, il tempio rivela caratteri a lui specifici, che ne fanno

un luogo “più tradizionale”. Questi elementi, per altro, sono quelli sottolineati dal

pubblico come determinanti la scelta di frequentarlo.

Attualmente l’associazione conta 200 membri, tutti tamil srilankesi devoti di

Murugan per tradizione di famiglia, i quali sostengono le attività del tempio attraverso

donazioni volontarie. L’associazione elegge un consiglio direttivo di nove persone, tra cui

vengono designati il Presidente del tempio, il Segretario, il Tesoriere e i loro vice. Pare

che il consiglio, sebbene elettivo, sia costituito di anno in anno più o meno dalle

medesime persone; si tratta prevalentemente di commercianti, qualche professionista o

persone che hanno fatto carriera nelle due nicchie lavorative occupate dalla comunità,

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Page 40: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

ristorazione e pulizie. Il sesso femminile non trova rappresentanti all’interno del

consiglio.

I consiglieri si occupano degli aspetti gestionali del tempio (pagamenti, rifornimenti

di materiale rituale) e sono presenti a turno il venerdì e il weekend per dare una mano al

brāhmaya durante la pūjā. Soprattutto il venerdì infatti c’è un maggior afflusso, spiegato

come una conseguenza del fatto che, essendo il giorno della settimana in cui non si

mangia carne, tutti ne approfittano per andare al tempio.

L’afflusso è comunque piuttosto contenuto in confronto ad altri kovil: sono

principalmente i membri dell’associazione a frequentare il tempio, spesso con frequenza

settimanale e in funzione del lavoro.

Il tempio è aperto tutti i giorni della settimana e offre due cerimonie giornaliere,

tranne il venerdì in cui si svolgono tre pūjā. Balakrishna, il brāhmaya che si occupa del

rituale, è arrivato in Francia con la famiglia nel 1990. Proviene da Jaffna, la città più

importante della zona a maggioranza tamil nel nord dell’isola, dove officiava in un tempio

di Śiva. Nell’ottica di una partenza in Occidente, egli decide a metà degli anni ‘80 di

lasciare la città per recarsi nella capitale Colombo, dove sarebbe stato più facile

organizzare il viaggio e dove aveva delle conoscenze. Per qualche anno officia in un

tempio di Visyu, finché finalmente, grazie a dei contatti, riesce a partire per la Francia.

Qui trova ad aspettarlo qualche parente lontano, ma soprattutto diversi amici che lo

aiutano nei primi anni. Sono questi stessi amici a chiedergli di partecipare alla fondazione

del tempio. Fin dall’inizio è stato lui ad occuparsi del rituale ed è quindi parte integrante

della storia del tempio.

Parlare con lui è stato molto istruttivo: oltre a spiegarmi minuziosamente e con

notevole pazienza le diverse fasi del rituale e la storia del tempio, mi ha infatti reso

partecipe di una serie di motivi di inquietudine che condivide con altri membri

dell’associazione. Essi sono legati all’impossibilità di vivere con completezza la propria

religione e rispondono a quella sensazione di disconoscimento e svalorizzazione della

propria cultura che, come vedremo, caratterizza la retorica di molti templi (soprattutto il

Sri Manicka Vinayakar Alayam). L’associazione sostiene la sua visione e l’esistenza del

tempio si presenta come volta a contrastare questa tendenza: esso è per Balakrishna, come

per gli altri membri dell’associazione, un luogo dove ritrovare e trasmettere la propria

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cultura. Il tempio è pensato e costruito intorno ad una porzione della comunità che si

riconosce in determinati valori e che vuole lottare per essi. In quest’ottica il rituale assume

un’importanza fondamentale, in quanto espressione di conservazione della tradizione:

Qui la cerimonia la fanno bene. Negli altri templi dura venti minuti e poi basta, dai i

soldi e via. Qui la fanno come va fatta, come la fanno in Sri Lanka. È per questo che

la gente viene, perché sa che qui ritrova le sue tradizioni. Non è che visto che siamo

qui bisogna fare le cose male. È questo che pensa chi viene qui. E poi qui non

chiedono soldi come negli altri posti, non c’è neanche un posto per raccoglierli.

Perché l’importante non è questo, non sono i soldi. L’importante è un buona

preghiera. [K. 28 anni, arrivato in Francia nel 1984. La sua famiglia fa parte

dell’Associazione dal 1997]

Le persone che frequentano il tempio hanno in molte occasioni espresso questo tipo

di considerazioni. Chi viene non lo fa insomma solo perché è particolarmente devoto di

Murugan, ma anche perché sceglie di sostenere la posizione del tempio. Il fatto che esso

non si trovi in una zona tamil e neanche lungo una delle “rotte” della comunità, rende la

scelta ancora più significativa.

La condivisione di una medesima visione della religione e del suo ruolo non porta

però a mio parere alla costituzione di una comunità di fedeli nel senso che vedremo per il

tempio di Ayyappan a La Courneuve. La grossa differenza sta qui nella natura “più

tradizionale” della figura di Balakrishna, il quale riveste molto bene il proprio ruolo di

servitore della comunità, senza però assumere quel complesso di funzioni (ascolto, guida,

consiglio, ammonimento) che invece caratterizzano Guruswāmī, fondatore del suddetto

tempio. Nelle parole di Michell:

The absence of a congregation reveals the fundamental role of the temple priests,

who represent the community they serve and who are responsible for its satisfactory

relationship with the divine. Upon this depends the happiness, welfare and success of

the members of the community (1977: 63)

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Page 42: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Balakrishna soddisfa quindi, nel rispetto della tradizione, le necessità religiose dei

membri dell’associazione, e la comunità trova non in lui, ma in un ideale condiviso, la sua

compattezza.

Nelle pagine che seguono esplorerò inizialmente il rituale della pūjā, il quale è

effettivamente molto più elaborato in questo che in altri templi, per poi dilungarmi

sull’attaccamento alla tradizione che in esso si esprime. Come vedremo, le strategie

adottate da questo tempio in risposta alla “violenza culturale” del contesto francese non

sono le medesime del tempio di Gayeśa a cui è dedicato il capitolo seguente.

3.2 Un’esperienza conoscitiva

In un soleggiato pomeriggio di marzo mi sono recata al tempio di Murugan per un

appuntamento speciale con Balakrishna. La settimana precedente gli avevo espresso il

desiderio di conoscere più approfonditamente il complesso rituale che compie ogni

giorno, ed egli mi aveva proposto di raggiungerlo al tempio dopo la pūjā delle 13: partiti

tutti i fedeli avremmo avuto il tempo di parlare.

Al Shri Muthukumaraswamy Alayam l’ambiente è molto accogliente: si tratta di

una piccola sala divisa in due da tre scalini degradanti. Le tre cappelle ospitanti le mūrti di

Gayeśa, Murugan e Ambal si trovano sul fondo della stanza, la quale è sovrastata in parte

da una struttura a vetrate. La decorazione della sala, affidata a sthapati srilankesi residenti

a Parigi, è sobria ma molto curata.

Quando sono arrivata al tempio egli mi stava già aspettando, attaccato al

termosifone che riscalda la piccola sala in cui è stato allestito il tempio. Dopo aver

lasciato le scarpe negli appositi ripiani che affiancano la porta di ingresso, ho raggiunto

Balakrishna, il quale nel frattempo si era seduto, schiena al muro, sul bordo degli scalini.

Prima di cominciare, avendo espresso il desiderio di registrare la conversazione, mi

ha chiesto di conoscere la lista di domande che intendevo porgli. Concentrandosi sul

rituale non rappresentavano naturalmente un problema per lui: piuttosto, come mi ha

confessato lui stesso, conoscerle in anticipo gli serviva a preparare meglio le risposte e,

per mia immensa gioia, il materiale “didattico” necessario. Una volta a conoscenza delle

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domande, infatti, Balakrishna ha proceduto a raccogliere tutti gli strumenti e le sostanze

necessari alla pūjā: in circa dieci minuti aveva riempito lo spazio intono a me di lampade

di ogni foggia e dimensione, polveri colorate, frutti, ciotole, ventagli e fiori.

Quel pomeriggio Balakrishna mi ha aperto un mondo: superando qualsiasi mia

aspettativa, mi ha raccontato la sua religione, ma non come la si legge sui libri, fatta di

parole. Egli me l’ha raccontata attraverso il gusto, l’olfatto, la vista e il tatto: mentre

scorreva, come in un elenco, le fasi della pūjā, si allungava a cercare, in quel mare di

oggetti che ci circondava, quello necessario in quel determinato momento del rituale. Di

ogni oggetto mi spiegava l’uso e di ogni sostanza mi invitava a toccare la consistenza,

sentire l’odore, sperimentare il gusto.

In un simile panorama ogni oggetto non è solo espressione della sua funzione: esso

riassume simboli e miti, e implica una gestualità, una parola e uno stato della mente. La

conoscenza di questi oggetti è una porta d’acceso alla complessità di un universo di

significati e la capacità di manipolarli implica una possibilità di costruzione del reale.

Naturalmente nella mia piccola esperienza non posso dire di aver varcato questa porta, ma

la disponibilità di Balakrishna mi ha permesso almeno di percepirne l’esistenza.

Tenendo a mente le teorie che descrivono l’Induismo essenzialmente come

ortoprassi, anche l’esperienza della sua didattica, eminentemente pratica e visiva, è stata

foriera di informazioni: la conoscenza, come la pratica religiosa, passa innanzitutto

dall’esperienza gestuale e in quest’ottica la conoscenza del materiale rituale è il primo

passo verso la comprensione del rito, il quale è eminentemente linguaggio di gesti

simbolici.

3.3 La pūjā al tempio di Murugan: un triplice atto religioso

La pūjā è un atto di adorazione della divinità: essa viene invitata a risiedere nel

supporto fisico rappresentato dalla mūrti, e poi accolta e intrattenuta come “un ospite di

rango regale” (Stutley 1980).

Il rituale della pūjā rappresenta “the core ritual of popular theistic Hinduism”

(Fuller 1992: 57) e può essere condotto da categorie di persone differenti in modi, luoghi

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e occasioni diverse. Al tempio di Murugan il rituale è condotto quotidianamente e si rivela

nella complessa performance di 16 upacāra 10, termine che significa letteralmente “atto di

servizio” (Piano 2001: 223). Con esso si indicano i gesti attraverso cui si onora la divinità.

Ad ogni gesto corrisponde un suono e spesso un oggetto o un gruppo di oggetti.

La cerimonia inizia con la purificazione dello spazio del tempio. L’impurità

presente nell’ambiente viene eliminata attraverso i fumi dell’incenso, il quale viene

acceso gettandolo, sotto forma di polvere, su della carbonella accesa. Questo upacāra

prende il nome di dhūpaka e non necessariamente è compiuto dal brāhmaya.

Purificato lo spazio rituale si procede ai riti preparatori: il brāhmaya rimuove i fiori,

i gioielli e i tessuti che adornano Murugan, in vista dell’abluzione rituale conosciuta con il

nome di abhiseka. Si tratta di un bagno rituale durante il quale la mūrti viene lavata con

una serie di sostanze: latte, yogurt, acqua di rose, succo spremuto di arance e limoni, un

mix di banane, mango, miele, cocco e melograno chiamato pañcamrita, latte di cocco, e

ancora curcuma, farina di riso, vibhūti, pasta di sandalo e kumkum mescolati ad acqua.

Tra una sostanza e l’altra la mūrti viene risciacquata e una lampada accesa gli viene

passata davanti. Significativamente la prima zona da cui vengono rimosse le sostanze

dell’abluzione sono gli occhi. Alcuni dei prodotti utilizzati, in particolare il latte e il

pañcamrita, verranno donati ai fedeli come prasād.

A questa fase segue la vestizione e decorazione della mūrti che prende il nome di

alankāra. Successivamente vengono presentate alla divinità delle offerte di cibo. Queste

come tutto il resto, sono preparate esclusivamente dal brāhmaya:

Il prasād si deve fare al tempio perché se viene da fuori non è bene. Qui lo preparo

io, perché è un’offerta alla divinità e non può farlo qualcuno che non è brāhmaya

[Balakrishna].

10 Di 16 momenti-upacāra è costruita la pūjā descritta negli Agama. La sequenza del rituale tuttavia può essere semplificata, senza che questo implichi un’insufficienza, una mancanza o imperfezione: abbreviazioni e semplificazioni rituali sono previste dai testi stessi, ma in alcun caso sono ritenute anticonvenzionali. Fuller (1992) parla di sineddoche nel descrivere la pūjā. Essa infatti, nonostante sia composta di molti momenti e di atti successivi di offerta e onorazione, può essere rappresentata da rituali semplici e abbreviati, i quali, in quanto parti ordinate del complesso rituale, ne riproducono la struttura e il significato. Il fatto che la completezza della pūjā sia riassumibile in un nucleo rituale semplificato rende lo svolgimento della sua forma completa ancora più ricco di valore.

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A questo punto comincia la pūjā propriamente detta. Mentre l’abhiseka è destinato

solo alla divinità principale, Murugan, il resto della cerimonia coinvolge anche Ambal e

Gayeśa, con il quale si inizia tradizionalmente il rituale. Egli è colui che rimuove gli

ostacoli e in quanto tale va onorato prima di cominciare qualsiasi impresa, rituale

compreso. La prima offerta consiste nella presentazione di una lampada ad olio alle

divinità: si tratta di una lampada ad una fiamma (dhipakal) che viene passata di fronte alle

tre divinità con un movimento circolare. Posata questa prima fiamma, il brāhmaya

procede a compiere lo stesso gesto con una lampada a canfora (karpūra āratī). A questo

segue l’offerta di acqua, purificata attraverso la recitazione di mantra e contenuta in

cinque coppette, aventi ciascuna uno dei nomi dei volti di Śiva. Altre lampade a olio

vengono accese e presentate alle divinità (mayura dīpa, bilba dīpa, alankara dīpa, sarpa

dīpa) e a questo segue un omaggio speciale rivolto a Murugan: vengono usati uno

specchio, un ombrello (chattra) un ventaglio fatto con una criniera bianca di yak

(chamara), due altri tipi di ventagli e una bandiera. Tutti gli strumenti sono costituiti dal

pañcaloha, la lega di cinque metalli con cui vengono costruite anche le mūrti. Questo tipo

di onori ripropongono gesti abitualmente destinati al sovrano:

Puja is originally and esentially an invocation, reception and entertainment of God as

a royal guest (Gonda 1970: 77).

Si confrontino a questo proposito le parole di Balakrishna:

Nella famiglia del maharaja, quando il maharaja arriva lo accolgono con il chamara e

quest’altro ventaglio. Allo stesso modo onoriamo Murugan: come il sovrano è

anch’egli un guerriero. Ma in quanto Dio è il Re dei re.

A questi onori regali segue l’offerta di fiori accompagnata dalla recitazione dei

nomi della divinità. A questo punto il brāhmaya raccoglie una serie di foglietti sui quali i

fedeli hanno scritto il loro nome e la loro naksatra (stella) di nascita, al fine di compiere

arcanā, una preghiera in cui questi due elementi vengono inseriti nella recitazione. La

cerimonia si conclude con la presentazione di una lampada a sette fiamme in cui viene

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Page 46: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

fatta bruciare della canfora. A questo punto i fedeli si prostrano davanti alla divinità e

compiono pradaksiyā intorno alle tre cappelle.

Gli elementi fondamentali del rituale sono principalmente tre: gesto, parola e oggetti

rituali. Si è già menzionato il rapporto tra gesti ed oggetti. Un legame dello stesso tipo

mette in relazione parola e gesti e ad ogni atto corrisponde una precisa successione

sonora. Parlando dei mantra, termine con cui si designano i versi utilizzati durante i

rituali e tratti dai Veda, L. Patton dice:

As I suggested throughout, in this mode of “ritual commentary”, a part of an oral text

is associatively linked to the whole of an action, thus confirming and imagining that

action as it is being performed. In this sense commentary is not simply a discursive

act, but rather a deeply formative one, ritually constructing of persons, of actors who

comment (2005: 183).

Nel rituale hindū il suono è agente, crea e trasforma il reale:

Speech is agentive. Mantra is its earlier form, beginning as a kind of vehicle for

insight and (…) developing a power as a pronounced form (Patton 2005: 126).

Il mantra non è quindi semplicemente un sostegno mnemonico del gesto o un’ode a Dio,

esso è un elemento necessario al rituale in quanto concorre alle sue finalità trasformative:

The matching of word and act are powerful ways of augmenting the power of ritual

(Patton 2005: 184).

In questo senso la pūjā non è solo un atto di adorazione della divinità, ma

innanzitutto un atto di trasformazione del reale. Per una visione d’insieme del suo

significato è a mio parere necessario volgersi agli attori che vi prendono parte: la divinità,

il brāhmaya e il pubblico dei fedeli.

La divinità viene innanzitutto invocata a risiedere nella mūrti: è il brāhmaya che

rende possibile questa discesa del divino nel suo supporto materiale, attraverso la prima

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Page 47: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

fase del rituale. Una prima trasformazione ha quindi luogo e mette in contatto due mondi

altrimenti separati.

Dopo essere stata invocata, la divinità è oggetto di una serie elaborata di

onorificenze. È sempre il brāhmaya a conoscere le formule rituali adatte, nonostante i

medesimi atti vengano compiuti in forma semplificata anche dai fedeli in altre occasioni

(Fuller 1992).

La divinità è quindi a questo punto presente e ben disposta e il brāhmaya può

procedere al rituale di arcanā, la pūjā individuale. Attraverso di esso egli agisce da

mediatore tra mondi e in questo senso il rituale va inteso come atto comunicativo: le

richieste dei fedeli vengono “tradotte” in linguaggio rituale (cino-sonoro) e trasmesse alla

divinità. L’importanza del brāhmaya sta qui nel suo essere uno specialista della

comunicazione col divino: a tal fine egli non può che usare il sanscrito, poiché esso è

Deva Bhāsā, lingua di Dio, e non può che conoscere alla perfezione il susseguirsi di

oggetti e gesti rituali. In quest’ottica, proprio perchè ognuno degli elementi è necessario

ma non sufficiente alla riuscita dell’atto comunicativo, solo colui che ha studiato ed è

stato formato a questo scopo può compiere il rituale.

Nelle parole di Balakrishna si riassume quanto detto:

La gente viene qui e chiede tante cose. È gente semplice ed è per questo che siamo

qui, perché loro si rivolgono a noi. Noi siamo necessari per parlare con Dio. Noi

studiamo il sanscrito per questo, perché è Deva bhāsā. È per la pūjā. Puoi pregare in

tamil, si, ma non fare la pūjā. Dio capisce tutte le lingue, non è che non le capisce.

Puoi pregare in tamil. Ma per pregare solo hai bisogno di bhakti. Puoi fare la pūjā

con il cuore o con le mani. Noi la facciamo con le mani. È per questo che si deve fare

in sanscrito perché non puoi pronunciare un mantra in tamil, non sono gli stessi

suoni. (…) Noi siamo qui per la gente. Perché loro vengono per avere śānti, la pace

della mente. Śānti, è per questo che si prega, per la pace della mente. Puoi pregare

con le mani o pregare con il cuore, noi preghiamo con le mani.

Nella visione di Balakrishna il brāhmaya è un servitore: la sua funzione è quella di

parlare con Dio e per farlo egli usa le sue conoscenze, la sua formazione al rito e alle

formule sanskrite (mantra). Solo colui che ha studiato può usarle poichè la loro agency

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risiede nel suono: una pronuncia sbagliata cioè non inficia solo il significato della parola

ma anche la sua capacità di agire sul reale.

Detto questo però è anche vero che “Dio conosce tutte le lingue”.

Quest’affermazione è a mio parere particolarmente significativa poiché in essa si riassume

uno dei caratteri fondamentali dell’Induismo: essa sentenzia cioè che il divino può essere

raggiunto secondo modalità differenti, dipendenti dalla natura del devoto. In particolare

Balakrishna si riferisce alla possibilità di comunicare col divino attraverso il cuore: il

fedele può stabilire un contatto diretto con Dio, senza bisogno della sua mediazione,

facendo la pūjā dentro di sè. Tale possibilità però non è data a tutti poiché necessita tanta

bhakti (devozione). In questo senso il brāhmaya offre i suoi servizi alla “gente semplice”,

che non ha il tempo e le capacità di pregare in solitario. Nelle parole di Balakrishna si

inverte quella visione “classica” che fa del bhakti margā una via “democratica” al divino,

in quanto potenzialmente accessibile a tutti: la via della pratica rituale è accessibile a

chiunque poiché il brāhmaya mette i suoi servizi a disposizione della collettività, mentre

il sentiero dell’amore risulta più difficile in quanto necessita una maggiore dedizione,

difficile da ottenere nella frenesia del mondo moderno.

Arriviamo qui all’ultima questione menzionata da Balakrishna: riferendosi ai fedeli

egli parla di śānti, la pace della mente. Il fine delle loro visite al tempio sarebbe

l’ottenimento di uno stato di soddisfazione e quiete interiore. In questo senso la pūjā è un

atto finalizzato ad ottenere śānti. Questo è possibile perché la pūjā, in quanto preghiera,

permette la focalizzazione della mente sul divino. Se essa venga fatta “con le mani”

oppure “con il cuore” dipende dalle capacità e tendenze individuali ma in entrambi i casi

la divinità, nella forma fisica della mūrti, si presenta agli occhi dei fedeli e attraverso il

medium visivo stimola dhārana, la concentrazione, strumento indispensabile

all’identificazione fedele-divinità.

Se la vista è, in questa relazione col divino, il senso di riferimento, il fine dell’atto

meditativo è trascendere la percezione stessa, annullando la distanza tra l’osservatore e

l’oggetto osservato. In questo senso la pūjā è una complessa meditazione rituale

attraverso cui la distanza tra umano e divino viene trascesa nella loro identità:

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Fundamental to puja is the ideal achievement of identity between deity and

worshipper; it is inherent in the ritual’s sequential logic (…) this movement toward

identity is worship’s most distinctively Hindu aspect and it must be given due

significance in understanding the ritual. Through worship, an inferior, less powerful

mortal here on earth potentially transcends the human condition to become one with a

deity present in its image form (Fuller 1992: 82)

Nelle parole di Balakrishna sono quindi riassunte tre visioni complementari della

pūjā, le quali si costruiscono su ognuno dei soggetti che rientrano nella relazione tripartita

che ne è il fondamento: la divinità, il brāhmaya e i fedeli. Centrando l’attenzione sulla

divinità la pūjā è un atto di adorazione; concentrandosi sul brāhmaya essa è un atto di

comunicazione che mette in relazione umano e divino; nell’interiorità dei fedeli essa è una

modalità di meditazione sul divino attraverso cui ottenere la pace della mente.

3.4 La pūjā al tempio di Murugan: tradizione e identità in pericolo

Come si è accennato a inizio capitolo la performance della pūjā al tempio di

Murugan è particolarmente apprezzata dai partecipanti, i quali sottolineano il fatto che

essa è fatta nel rispetto della tradizione, da un brāhmaya qualificato e senza fini di lucro.

La visione dei membri dell’Associazione è rispecchiata dalla visione che Balakrishna ha

del suo ruolo: egli si vede principalmente come un servitore della comunità e vede il

tempio come un luogo in cui vivere e trasmettere alle generazioni future la propria

cultura.

Le affermazioni dei fedeli e quelle del brāhmaya non comunicano però soltanto una

valorizzazione del tempio e delle sue attività. Nelle loro parole è presente anche un

profondo senso di pericolo e di disagio per la propria condizione esistenziale, la propria

cultura e le generazioni future. Si confrontino ad esempio le parole di un membro

dell’Associazione e quelle di Balakrishna:

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Page 50: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

In Francia è difficile. Tutto è difficile. Ti faccio un esempio: quando esci dal tempio

non è che puoi tenere questo [la vibhūti], te lo devi levare. Cioè io non lo levo, ma lo

vedo come mi guarda la gente. Tutti ti guardano come per chiederti “ma cos’è?” E

quindi è difficile, non puoi vivere come in Sri Lanka. I miei figli vanno a scuola e

non è facile: perché loro non possono parlare coi loro compagni del tempio o di altre

cose che facciamo noi tamil e allora a volte secondo me, diventano quello che non

sono. [G. in Francia dal 1990, padre di due bambini di 10 e 12 anni]

Eh, le prossime generazioni….è una buona domanda. Sarà molto difficile… è già

difficile. Per questo gli fanno fare corsi di danza, musica, tamil perché se no…i

ragazzi guardano un po’ da tutte le parti, non è che hanno una direzione. Ma è

difficile perché loro amano la cultura degli altri, la cultura francese, la cultura

americana, la cultura di tutti gli altri. E in Francia ci sono tutti, tutti sono immigrati

qui, perché qui c’è ricchezza, ma poi le conseguenze quali sono? I genitori ci

provano, ma non è facile, perché poi loro [i francesi] non ci permettono di fare quello

che andrebbe fatto. Io voglio costruire un grande tempio! Per stabilire la nostra

religione qui. Per la nostra gente, non per i francesi. Ecco cosa andrebbe fatto, ma

loro non ce lo permetteranno, l’amministrazione francese non vuole altre religioni.

Infatti i cartelli per le chiese ci sono, ma per i templi no…non puoi mica mettere

indicazioni per un tempio hindū [Balakrishna].

Questi due estratti riassumono tante altre conversazioni simili ruotanti sui medesimi

temi. Come tanti tamil srilankesi, i frequentatori del tempio di Murugan esprimono un

forte senso di disagio per una condizione di vita in cui è difficile “rimanere sé stessi”. Il

contesto francese, con i suoi disvalori e le sue regole laiche, frustra la possibilità di vivere

appieno la propria cultura e la propria religione. Questa condizione di disagio, tipica delle

comunità diasporiche, è aggravata da considerazioni sulla trasmissione generazionale. I

figli della diaspora comincerebbero infatti a rivelare un pericoloso distaccamento dalle

proprie radici, sostenuto dalla volontà di integrarsi alla cultura dominante.

Il confronto con le chiese cristiane è significativo a questo riguardo poiché rivela

l’idea di essere oggetto di un trattamento di sfavore: il tempio e la sua comunità

reagiscono ad esso rinforzando il proprio attaccamento alle tradizioni. In questo senso il

rituale, fatto con cura e attenzione da un brāhmaya esperto, diviene uno strumento

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attraverso cui affermare la propria “non-contaminazione” e un modo per fare del tempio

un’isola di cultura tamil .

Il confronto con gli altri templi rinforza questo sentimento di isolamento. Essi infatti

sarebbero venuti meno alla loro funzione di protettori della religione e avrebbero fatto di

essa un business:

[avete legami con altri templi della regione parigina?]

No, no! Non c’è nessun collegamento tra il nostro tempio e gli altri. Ti dico una

ragione. Non mi piace dirlo ma voglio dirlo. Non mi piace dirlo ma voglio dirlo! Le

persone, gli hindū costruiscono i templi. Perché? Per le entrate. Non è una cosa

buona, non è bene. Si, per il denaro. E le entrate non vanno per il tempio, vanno fuori

dal tempio. Vanno in Sri Lanka. E infatti prova, prova ad andare a La Chapelle a

chiedere del tempio di Murugan. Ti diranno: “non lo so, non lo so”. Perché è una

questione di soldi: c’è competizione, c’è gelosia.

E loro li usano [i soldi] per combattersi l’uno con l’altro. Noi vogliamo denaro, si,

non è che dico di no, ma il giusto per il tempio, non per business. Non è bene farlo

per i soldi. Vogliamo proteggere la nostra religione non vendere la nostra religione.

In questo passaggio Balakrishna esprime la sua critica nei confronti degli altri

templi hindū: essi infatti utilizzerebbero il denaro raccolto attraverso le loro attività

religiose per fare del business o per finanziare attività extra-religiose in Sri Lanka. È per

questo che tra i templi di Parigi non c’è collaborazione, perché ognuno cerca di

conquistare più pubblico e quindi entrate possibili. Nessun tempio in particolare viene

menzionato “perché non è bene parlare male degli altri”. Nonostante quindi tante cose

restino implice, è chiaro che egli considera il proprio tempio, per purezza d’intenti e per

qualità rituale, come l’unico vero tempio di Parigi, poiché è l’unico dove la religione è

veramente protetta.

Il tempio di Murugan è quindi agli occhi dei suoi frequentatori, dei membri

dell’Associazione e del suo brāhmaya un baluardo attraverso cui combattere la grande

sfida che la condizione diasporica pone alla conservazione della propria identità. Il

confronto con altre zone della diaspora tamil srilankese è costante: in particolare la nascita

di un grande tempio ad Hamm in Germania è oggetto di ammirazione, ma anche fonte di

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grandi frustrazioni poiché “qui non ci permetteranno mai di fare una cosa del genere”. Il

sogno rimane vivido nella mente, ma in questa battaglia i nemici da affrontare sono due:

la società francese da un lato, con le sue regole e i suoi valori “contaminanti”, e quella

porzione degenerata della comunità per cui la religione non è altro che business. La lotta

si prevede quindi dura ma la speranza è forte poiché è sul tempio che si basa il futuro

delle prossime generazioni: “alle generazioni future insegneremo la religione attraverso il

tempio”.

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Capitolo IV

IL SRI MANICKA VINAYAKAR ALAYAM

4.1 La fondazione del tempio

A Parigi il tempio hindū più conosciuto al di fuori della comunità tamil srilankese è

il tempio di Gayeśa. La sua fama si deve soprattutto alla processione11 annuale che

organizza da ormai 12 anni in occasione del Gayeśa Caturthī (ribattezzata ‘fête de

Ganesh’), ma anche ad una precisa politica di comunicazione del religioso portata avanti

dal suo fondatore, il signor Sanderasekaram.

Il Sri Manicka Vinayakar Alayam non è il più antico tempio hindū di Parigi12, ma

sicuramente il primo ad essere stato fondato da un membro della comunità tamil

srilankese. Il signor Sanderasekaram è arrivato in Europa nel 1975, per condurre i suoi

studi di ingegneria a Londra. Come il fondatore del Sri Ayyappan Temple (di cui si

tratterà nel capitolo VI) anch’egli proviene dall’elite tamil di Jaffna e fa parte della casta

dominante, i Vellala. Il suo arrivo in Europa è da ricondursi ad una pratica comune tra i

figli delle ricche famiglie tamil in Sri Lanka, il completamento della propria formazione

universitaria all’estero:

Les étudiants sri-lankais qui en avaient les moyens ont toujours fait en sorte de

compléter leur formation à Londres (…) Les tamouls sri-lankais, qui avaient profité

du développement particulier de l’enseignement dans leurs régions par la

colonisation anglaise, ont récouru à cette émigration (Robuchon 1995: 21).

11 Baumann (2001c: 4) nota a proposito della comunità tamil srilankese in Germania che “a move into the public and a growing recognition by the neighbourhood and local authorities occured as temple started to carry out procession during their annual temple festivals”.12 Pare che il primo tempio hindū sia stato fondato dalla ISKON, più precisamente da un francese induista membro dell’Organizzazione per la Coscienza di Krsya.

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Egli fa parte forse dell’ultima generazione partita dallo Sri Lanka in un’ottica di

“émigration de prestige” (Robuchon 1995: 24) e per cui emigrare era una scelta e non un

modo di sopravvivere al conflitto.

Il signor Sanderasekaram mi ha raccontato le motivazioni che lo hanno indotto a

fondare il tempio in più di un’occasione, a distanza di qualche tempo l’una dall’altra: in

cerca di maggiori dettagli sulla questione ho tentato infatti di affrontare l’argomento

molte volte. In ogni occasione egli mi ha riproposto, seguendo il medesimo schema

narrativo, una storia sempre identica, in cui nessun nuovo particolare veniva ad arricchire

o contraddire il quadro precedentemente fornito. Navigando su internet13 alla ricerca di

informazioni sui templi hindū di Parigi, sono poi capitata su alcuni siti contenenti dei

riferimenti al tempio di Gayeśa. La storia della sua fondazione, i problemi con le autorità,

la forza e il coraggio del suo fondatore, vengono narrati ovunque allo stesso modo, come

fosse la versione ormai convalidata di una storia che si è raccontata centinaia di volte, una

storia in cui i particolari e la cronaca si sfuocano per far posto a personaggi quasi mitici, a

tradizioni tramandate, a miracoli.

Sanderasekaram giunge a Parigi nel 1983, una volta conclusi i suoi studi a Londra.

Non trovando alcun luogo di culto hindū decide di continuare la tradizione di famiglia

fondando, due anni dopo, un tempio dedicato a Gayeśa. Il Sri Manicka Vinayakar

Alayam sarebbe il quinto tempio a Vināyaka14 che viene fondato dalla sua famiglia, tra cui

se ne annoverano uno a Melbourne, di cui è fondatore un nipote e uno a Londra, fondato

dal fratello di Sanderasekaram.

Inizialmente il tempio viene allestito in un piccolo locale in rue Oberkampf,

nell’XI° arrondissement: la mūrti di Gayeśa che ancora oggi occupa la posizione centrale

al Sri Manicka Vinayakar Alayam fu la prima ad essere installata. In questa piccola sala i

primissimi membri della comunità tamil srilankese, prevalentemente giovani maschi,

trovavano finalmente un luogo appropriato in cui praticare la propria religione. Fino a

quel momento infatti il culto era praticato in sale temporanee, nelle chiese cristiane e,

naturalmente, a casa.

13 Si vedano ad esempio: www.hinduismtoday.com o www.india-forum.com.14 ‘Colui che asporta, che rimuove’ e dunque ‘rimovitore di ostacoli’, poiché ottenne da Brahmā la facoltà di abbattere gli ostacoli che si presentavano sul cammino degli uomini (Stutley 1980).

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Questa fase transitoria, in cui non esisteva ancora un vero e proprio luogo di culto

hindū, è documentata, per la Francia, da un unico, brevissimo saggio (Robuchon 1993).

Mi rifarò quindi ad esso in questa breve descrizione della religiosità dei primi tamil

srilankesi giunti in Francia. Essa riveste qui una particolare importanza, poiché

l’evoluzione nell’espressione della vita religiosa della comunità, di cui il Sri Manicka

Vinayakar Alayam rappresenta a mio parere l’esempio più completo, parte proprio da

qui: tale processo si delinea come “a development away from initial invisibility towards a

public demonstration of hindu beliefs and practices” (Luchesi 2004: 123).

I primi rifugiati tamil che, respinti alle frontiere inglesi, cominciarono ad arrivare in

Francia a partire dalla fine degli anni ’70, trovarono in gran numero lavoro come

domestici presso famiglie dell’alta borghesia parigina: nelle chambre de bonne in cui

alloggiavano poterono finalmente tirar fuori e appendere al muro l’immagine sacra che

ciascuno di loro aveva portato con sé durante il viaggio, condotto spesso via terra, verso

l’Europa. L’incenso fu il primo strumento di preghiera ritrovato in questa terra in cui ci si

trovava per forza, infranto il sogno di giungere in Gran Bretagna. Poco per volta nelle

camere, spesso sovraffollate, in cui i primi uomini alloggiavano tra connazionali, venne

ricreato uno spazio per le divinità: su una piccola mensola le vecchie immagini, ormai

consunte, trovavano dimora accanto alle nuove, inviate per posta dalla famiglia in Sri

Lanka assieme a un po’ di vibhūti e un filo sacro.

Come si sa, la storia dei flussi migratori dallo Sri Lanka ha seguito e segue tuttora

quella della guerra civile. Il primo grande esodo di massa ha fatto seguito agli eventi del

1983 (pogrom anti-tamil): con esso si sono cominciati a delineare in Francia quadri di

ricongiungimento familiare, con l’arrivo delle prime donne e bambini . La formazione di

nuclei familiari ha reso necessarie modificazioni residenziali e lavorative, ma non solo:

anche le necessità religiose sono cambiate. Le variabili di questo cambiamento sono

principalmente due: i soggetti interessati (uomini in un primo tempo, altri membri della

famiglia successivamente) e le pratiche da compiere (necessitanti o meno specialisti del

religioso: nascite, matrimoni, cerimonie di pubertà, anch’esse legate a particolari soggetti

o gruppi di soggetti).

Nuove necessità si sono tradotte in qualche tempo in nuove espressioni della vita

religiosa: alle mensole ospitanti gli dei (che si erano in alcuni casi trasformate in vere e

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proprie pūjā rooms) si sono presto affiancate sale di culto affittate all’occasione di eventi

di particolare importanza. L’estensione della comunità e delle sue possibilità finanziarie

congiuntamente alla perdita, col perdurare del conflitto, della speranza di tornare in Sri

Lanka (Baumann 2000, Luchesi 2004) hanno stimolato poi la creazione di luoghi di culto

permanenti: il Sri Manicka Vinayakar Alayam fondato nel 1985, nel momento in cui

l’arrivo di tamil dallo Sri Lanka cominciava a rivelare drammaticamente la sua portata, è

il primo esempio di questo processo.

La locazione attuale del tempio risale al 1990: in seguito ad una lunga ricerca,

affidata ad un’agenzia immobiliare, il tempio si trasferisce infatti dalla rue Oberkampf al

limite nord del quartier tamil di Parigi, il quale stava prendendo forma proprio in quegli

anni. La sala, che ospitava precedentemente una falegnameria, pare abbia necessitato

molti lavori di ristrutturazione prima di poter essere utilizzata, la spesa dei quali è stata

sostenuta interamente da Sanderasekaram.

Il presidente descrive la fondazione del tempio come una battaglia, innanzitutto con

le autorità francesi:

È stata dura con le autorità francesi, una vera battaglia! E ancora oggi ci sono tante

limitazioni. La sensazione è che non vogliano che altre religioni prosperino in questo

paese. E poi, perché? Non capisco il perché. Non siamo mica una setta. L’Induismo è

una religione millenaria, con una grande tradizione, i francesi dovrebbero saperlo. E

non facciamo niente di male qui, siamo aperti a tutti, chiunque può venire qui e

pregare, noi non chiediamo niente in cambio. Infatti ci sono molti francesi e anche

arabi e africani che vengono qui. Noi non chiediamo mica la religione, il nome e il

numero di telefono. Tu vieni, preghi e poi…Goodbye!

L’attitudine delle autorità francesi non solo ha fatto della fondazione del tempio

un’opera coraggiosa, ma viene interpretata da Sanderasekaram come volta espressamente

a limitare la possibile diffusione di religioni altre.

Come per i fondatori del tempio di Murugan, la sensazione di vedere la propria

religione, e quindi la propria cultura, sminuita attraverso la limitazione delle possibilità di

espressione pubblica della stessa, permea tutto il suo parlare. Come si vedrà, sono

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collegabili a tale sensazione l’attuale gestione del tempio, il lavoro portato avanti dal

presidente nello svilupparne la visibilità e, in generale, le relazioni con la società francese.

Tutto ciò è a mio parere volto a contrastare il “trattamento di sfavore” cui sarebbe

soggetto l’Induismo in Francia e la costruzione di una precisa immagine del tempio ne

sarebbe lo strumento: come cercherò di mostrare, infatti, il tempio e le sue attività sono

costruite interamente attorno ad una particolare politica di “marketing religioso” volta ad

estendere il più possibile, ben oltre i confini della comunità tamil srilankese, il pubblico

che lo frequenta o lo conosce. La medesima paura ha portato quindi nei due templi a

reazioni molto diverse: attaccamento alla tradizione da un lato e “mercificazione”

dell’Induismo dall’altro.

La ricerca costante di visibilità, inoltre, contrasta con l’attitudine prevalente negli

altri templi, in cui essa o non viene cercata o viene coscientemente evitata. È su questa

specificità che mi concentrerò nella trattazione del Sri Manicka Vinayakar Alayam: essa

verrà indagata attraverso un’analisi dell’accoglienza al tempio, del sito internet ad esso

dedicato e dei festeggiamenti per il Gayeśa Caturthī cui ho partecipato nel settembre

2007.

4.2 Il tempio: accoglienza, pubblico ideale e frequentazione effettiva

Il tempio Sri Manicka Vinayakar Alayam si trova al 72, rue Philippe de Girard, nel

XVIII° arrondissement, poco lontano dalla fermata ‘La Chapelle’. L’ingresso del tempio è

indicato da una piccola insegna riportante la dicitura ‘Temple Ganesh’. Tramite un

portone si accede ad un cortile piuttosto vasto: esso viene utilizzato soprattutto in

occasione della processione, ma anche ogni venerdì, sabato e domenica, quando un pasto

collettivo viene offerto dopo la pūjā.

Dal cortile si accede al tempio vero e proprio: varcato l’ingresso, ci si ritrova in un

corridoio di 5 o 6 metri occupato, su un lato, da un lavabo, una superficie di appoggio in

metallo e una specie di “reception”. Una persona è sempre seduta alla piccola scrivania

che la compone, per dirigere o informare i nuovi venuti, distribuire volantini, brochure o

fotocopie degli ultimi articoli della stampa francese in cui si parla del tempio o della ‘fête

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de Ganesh’, o ancora per vendere i biglietti che danno diritto alla pūjā individuale. Spesso

vi si trova il fondatore del tempio, altre volte vi saranno i suoi aiutanti, tra cui uno dei suoi

cognati (un double migrant tamil proveniente dalla Malaysia ) che lo aiuta da quando è in

pensione15. Durante le cerimonie più importanti il piccolo corridoio è stracolmo di gente:

questo perché la sala su cui sbocca può ospitare al massimo una quarantina di persone. Il

tempio vero e proprio, infatti, è di ridottissime dimensioni: si tratta di una sala

rettangolare di circa trenta metri quadri; le mūrti, numerosissime, sono ammassate in una

metà della sala, nella quale sono presenti anche gli strumenti rituali (conservati in un

vecchio armadio a vetrina), un grosso tavolo in metallo e un’urna per le offerte. Tra le

divinità rappresentate troviamo Laksmī, Śiva (Natarāja ossia ‘danzante’ e nella forma del

Linga), Murugan accompagnato dalle sue due spose, Durgā, Visyu disteso sul serpente

cosmico dalle mille teste Ananta, Hanumān, i 9 pianeti. La divinità principale è

naturalmente Gayeśa, di cui il tempio possiede due mūrti, una fissa, posta al centro delle

altre, e una mobile (un Gayeśa a cinque teste) utilizzata durante lo yātrā, la processione.

La struttura della sala fa sì che il visitatore sia costretto a passare davanti alla

“reception” per accedere al tempio propriamente detto. L’accoglienza del pubblico, in

particolare di coloro con fattezze “non indiane”, è oggetto di un’attenzione particolare:

come si diceva, una persona è presente all’ingresso per invitare i nuovi venuti a farsi

avanti e fornire spiegazioni sulle attività del tempio, a cui segue sempre la consegna di

brochure, calendari delle maggiori festività, e fotocopie di articoli della stampa francese.

È stato molto interessante notare come il pubblico “occidentale” venga invitato a

partecipare alle cerimonie attraverso una pubblicità mirata, in cui l’Induismo e le sue

pratiche vengono spiegati tramite formule non solo semplificate, ma che rivelano un ché

di esotico. Ricordo di aver ad esempio assistito ad una conversazione del presidente con

due donne francesi, per la prima volta in visita al tempio, poco prima della festa di

Dīpāvali (Divālī): egli le invitava a ritornare il giovedì successivo (7 novembre) per

assistere all’interessante festa delle donne hindū. Se lo desideravano, avrebbero anche

potuto compiere (proprio come le donne hindū) i rituali ad esse propizi, sotto la guida dei

suoi esperti brāhmayi. Questo esempio mi pare particolarmente interessante poiché rivela

15 Fino a qualche anno fa il tempio era co-gestito, a quanto sembra molto attivamente e secondo alcuni “con maggior devozione”, dalla sorella del fondatore. Alla sua morte, il marito è subentrato in aiuto del cognato, pur non assumendo un ruolo di grande importanza.

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un’elaborazione della propria cultura fatta a fini precisi, quelli cioè di attirare un pubblico

specifico: interpretando la maggior parte delle visite di uomini e donne occidentali come

“la ricerca di un mondo esotico a due passi da casa” ed essendo interessato alla presenza

di tale pubblico nel proprio tempio, ha fornito della festa di Dīpāvali quella che riteneva la

migliore rilettura possibile.

L’interesse di Sanderasekaram per un allargamento del pubblico è immediatamente

visibile. Io stessa ho sperimentato durante la frequentazione del tempio un cambiamento

di atteggiamento nei miei confronti, funzionale ad una mia presunta capacità di

contribuire a questo scopo. Inizialmente mi recavo al tempio da sola e, in maniera molto

discreta (erano i primi passi della ricerca sul campo) partecipavo alla pūjā, scambiavo

quattro chiacchiere quando possibile e ponevo qualche domanda molto generale sul

tempio e le sue attività al presidente o ai suoi aiutanti. Escludendo la prima visita, in cui

avevo approfittato anch’io dell’accoglienza “speciale” di cui parlavo poc’anzi,

l’atteggiamento del fondatore nei miei confronti era sempre piuttosto freddo, diciamo di

indifferenza. Una mattina di fine ottobre, contravvenendo alle mie abitudini, mi sono

recata al tempio in compagnia, portando inoltre con me un cd contenente alcune foto che

avevo scattato durante la ‘fête de Ganesh’, da regalare a Sanderasekaram. Da quel giorno

la sua attitudine nei miei confronti è cambiata notevolmente, passando dall’indifferenza a

una notevole disponibilità. Appena giunta al tempio avevo consegnato immediatamente il

cd al signor Sanderasekaram, il quale lo aveva accettato con entusiasmo: pensavo quindi

che il cambiamento fosse una conseguenza di quel gesto, che provava un interesse

particolare da parte mia. Ho capito che non si trattava di quello solo alla fine della visita

quando, accomiatandosi, mi ha detto “e porti altri amici la prossima volta!”: la nuova

attitudine, forse, dipendeva quindi più dalla potenziale porta verso un nuovo pubblico

(giovani e studenti universitari francesi ed europei) che venivo a rappresentare ai suoi

occhi, piuttosto che a presunte espressioni di interesse per la sua religione.

Questo “fattore pubblico” permea non solo l’agire di Sanderasekaram, ma anche il

suo parlare. Egli ha spesso approfittato delle nostre conversazioni per sottolineare quanto

fosse variegata la frequentazione del tempio, e dimostrare attraverso di essa la sua

apertura: al Sri Manicka Vinayakar Alayam infatti non ci sono “limitazioni di alcun tipo,

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Page 60: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

etnico, linguistico o religioso” e “l’entrée du Temple est entièrment libre”, come si legge

su una delle brochure distribuite al tempio.

Il fatto che i tre brāhmayi che officiano il culto parlino quasi esclusivamente tamil,

non costituirebbe in questo caso un limite. Ciò che conta infatti è la “qualità” del luogo e

dei riti che vi si svolgono16: è da questo che dipenderebbe la fama internazionale del

tempio. Sanderasekaran mi ha spesso citato una lunga serie di “prove”: visite speciali,

gruppi che vengono dagli USA, personalità importanti che, di passaggio a Parigi, non

mancano mai di passare al tempio, anche solo per qualche minuto; donne e uomini che

sono disposti a pagare alte somme per una pūjā o che, sebbene di altre religioni, vengono

a pregare e meditare al tempio, luogo santo.

Se questa varietà nella provenienza, lingua e religione del pubblico può essere vera

per quanto riguarda il Gayeśa Caturthī, nelle mie visite al tempio ho notato un grosso

scarto tra l’immagine che fornisce il fondatore e la realtà delle persone che lo frequentano:

si tratta di hindū (come prevedibile), in forte maggioranza tamil dello Sri Lanka, qualche

famiglia di tamil dell’India e tre francesi convertiti all’Induismo. Naturalmente mi è

capitato di conoscere anche hindū della Réunion, della Martinica e dell’Ile Maurice e

anche qualche “turista” francese, ma queste visite sono rare e si concentrano soprattutto in

occasione delle festività maggiori. Nonostante questo scarto, è pur sempre vero che il

tempio di Gayeśa si distingue dagli altri per la varietà del suo pubblico e per la sua

politica comunicativa e relazionale, la quale si traduce in un’attitudine favorevole al

dialogo interreligioso: solo per fare un esempio, l’associazione del tempio fa parte in

qualità di partner esterno del collettivo Morts de la rue17, il quale si occupa di assicurare

un funerale degno a tutti i senza tetto che muoiono nella regione Ile-de-France. È in oltre

16 Tale successo internazionale dipende, secondo Sanderasekaran, dall’eccellente formazione dei brāmani. Essi vengono reclutati in Tamil Nadu, tramite annunci informali e attraverso una rete di conoscenze consolidata nei decenni. Tale pratica non è estranea ad altri templi fondati dai figli della diaspora tamil nel mondo e sicuramente è una pratica comune per i membri della famiglia Sanderasekaram. Egli stesso si reca in India ogni anno al fine di selezionare personalmente il proprio “personale”. Grande rilievo è dato alla preparazione (dalla quale dipende la buona esecuzione, e quindi l’efficacia, del rito) e alla serietà sul lavoro. I brāmani possono anche essere licenziati, se non si comportano adeguatamente alle loro funzioni, come è accaduto qualche hanno fa, quando uno di essi è stato rimandato in India in quanto troppo pigro (“dormiva tutto il giorno”, secondo un informatore). Essi vengono assunti per due o tre anni, ricevono uno stipendio mensile e alloggiano in un locale adiacente al tempio.17 www.mortsderue.org

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l’unico tempio riportato nel sito della Mairie de Paris, dove lo ritroviamo nella categoria

delle associazioni socio-culturali.

4.3 Il sito internet del tempio: una politica di comunicazione mirata

Il tempio di Gayeśa è l’unico, nella regione parigina, ad avere aperto uno spazio su

internet, all’indirizzo www.templeganesh.fr . Il sito si presenta nella pagina iniziale e

nella sua interezza in francese. È questo un dato da non sottovalutare, se si considera il

fatto che al tempio di Gayeśa, come in tutti i templi fondati e frequentati dalla comunità

tamil srilankese a Parigi, tutto, dalle informazioni agli orari della pūjā, è scritto in tamil.

In alcuni casi gli stessi responsabili del tempio non parlano francese.

Dalla home page del sito si può accedere a versioni molto ridotte dello stesso in

inglese, tedesco e tamil. La versione inglese si presenta nella struttura come identica a

quella francese. Tuttavia i link realmente tradotti sono solo quelli riguardanti il ‘chariot

festival’, l’accesso al tempio, i servizi rituali offerti (pūjā e cerimonie domestiche) e il

miracolo del 23 settembre 199518, il quale è ampiamente pubblicizzato. In tedesco sono

invece riportate alcune informazioni sulla fondazione del tempio, le cerimonie e la

processione, cui viene dedicata una lunga descrizione accompagnata da immagini. Il link

‘tamoul’ è quasi insignificante, conducendo solamente ad una pagina con due immagini

della ‘fête de Ganesh’ accompagnate da piccole didascalie.

Si può quindi dedurre che il sito sia stato pensato per un pubblico prevalentemente

francese e internazionale: la processione di Gayeśa viene in particolare pubblicizzata

come un evento che riunisce ogni anno fedeli da tutta Europa, in un’atmosfera di

cordialità e convivialità interculturale. Nella versione inglese si legge:

All are welcome to participate in this happy event, thus fostering and creating an

atmosphere of cordiality and friendship among the various communities.

Il sito francese, oltre a proporre tutto ciò, si presenta anche come un compendio

della vita del tempio e dell’Induismo in generale. Per quanto riguarda le attività del 18 Di esso si parlerà più ampiamente all’inizio del paragrafo successivo.

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Page 62: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

tempio, viene fornito il calendario completo delle feste hindū per le quali si organizzano

celebrazioni speciali: di quelle più importanti (tra cui Navarātri, Dīpāvali, Mahā Śivarātrī,

Thai Pongal e il Gayeśa Caturthī) si descrivono le origini, i miti correlati, il significato, la

loro diffusione nel mondo, i rituali condotti al tempio e i loro benefici. Vengono

ovviamente fornite anche informazioni precise sugli orari di apertura del tempio e della

pūjā che si svolge tre volte al giorno. Il Sri Manicka Vinayakar Alayam offre anche

servizi personalizzati al tempio, come rituali di matrimonio o altri saxskāra (il termine

non è usato nel sito), benedizioni, homam e pūjā finalizzate, e servizi a domicilio. A tale

riguardo vengono specificati l’ottima qualificazione dei brāhmayi e, naturalmente, i

benefici dei rituali:

Le Temple de Ganesha à Paris organise des services religieux traditionnels à

domicile faits en langue Sanskrite par des prêtres indiens qualifiés et compétents.

L'hindouisme connaît les secrets qui unissent les actions de l'Homme, la nature et les

dieux. Les cérémonies védiques puissantes et efficaces sont les clés qui vous

apporteront l'aide et la bénédiction des divinités pour le bien-être et l'équilibre de

tous. [grassetto nel testo]

Tra le attività extra-religiose dell’associazione sono invece oggetto d’attenzione gli

aiuti umanitari nello Sri Lanka colpito dallo tsunami e la partecipazione ad una cerimonia

organizzata nel dicembre 2005 dall’ambasciata dello Sri Lanka in onore delle vittime1

(accessibili dal link ‘tsunami’); la mostra fotografica organizzata nel 2006 sul tema della

‘fête de Ganesh’, l’incontro tra Sanderasekaram e David Lynch e la partecipazione ad un

evento culturale organizzato da un’associazione di danza bollywood di Lille sono invece

raggruppati sotto la categoria ‘Évenements speciaux’. Quest’ultimo gruppo eterogeneo di

eventi rappresentano da un lato la volontà di mostrarsi aperti ad iniziative anche culturali

e dall’altro sottolineano la centralità di Sanderasekaram, presente in molte delle foto.

Come si diceva, il sito offre anche un compendio dell’Induismo. Esso è esplorato

secondo modalità diverse: da un lato attraverso una descrizione di stampo storico-

filosofico dei Veda, della Bhagavad-Gītā, dei Purāya e dei testi agamici; dall’altro tramite

un glossario che riunisce termini religiosi e rituali, divinità e sillabe sacre. Ovviamente

1 Come si noterà più avanti la partecipazione a questo evento si inscrive in una politica di dissociazione dalla lotta armata del movimento indipendentista delle Tigri tamil (LTTE).

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uno spazio particolare è riservato al dio Gayeśa: ne vengono raccontati i miti, descritti gli

attributi, motivata l’importanza; la descrizione di una pūjā domestica in suo onore è

scaricabile dal sito e una galleria fotografica gli è interamente dedicata.

Per quanto riguarda la ‘fête de Ganesh’ la presentazione è prevalentemente per

immagini: piccole didascalie accompagnano foto del percorso (il quale è indicato da una

cartina) e una galleria di foto della processione è disponibile per ogni anno a partire dal

2000.

Il sito contiene anche una boutique on line (in cui si propongono oggetti sacri e il

dvd della processione) e una lista delle testate francesi e internazionali in cui sono

comparsi articoli sul tempio, la maggior parte dei quali, naturalmente, si concentra sulla

‘fête de Ganesh’ : leggerli è un interessante modo di indagare l’immagine che la stampa

francese ha dell’Induismo (e quindi farsi un’idea dell’immagine che giunge al cittadino

medio)2 e di prendere coscienza di quanto, effettivamente, la realtà dei templi hindū di

Parigi sia misconosciuta.

Il sito si presenta quindi, a mio parere molto chiaramente, come diretto ad un

pubblico occidentale medio, francese innanzitutto, al quale si spiega, semplificandolo,

l’universo de “l'Hindouisme, génie intellectuel et spirituel de l'Inde”, le sue pratiche e i

benefici che chiunque può trarne. Il lato esotico e festoso è assicurato dalla ‘fête de

Ganesh’, ad occasione della quale il tempio distribuisce migliaia di brochure nelle quali si

legge:

Les rues sont lavées à l’eau de rose additionnée de safran. Les chars de Ganesh et de

Murugan sont tirés par des fidèles piès nus. Les hommes portent le vesti, long pagne

blanc, les femmes le sari, longue pièce de tissu coloré. Les musiciens et les porteurs

de cavadis ouvrent le cortège, suivis par des femmes portant des offrandes de

camphre enflammé. Tout au long du parcours sont disposés des tas de noix de coco

que l’on brise lorque les chars arrivent à leur hauteur. Les commerçants offrent des

boissons et des repas aux partecipants.

2 Essendo uno dei pochi rappresentanti dell’Induismo in Francia ad essere intervistato dai media (poiché spesso il suo è l’unico tempio conosciuto) sarebbe interessante chiedersi in che misura egli sia, attraverso le dichiarazioni che rilascia, responsabile di tale immagine.

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Acqua di rosa, fedeli scalzi, donne vestite di sari colorati, echi di musica orientale,

sentori di canfora bruciata e migliaia di noci di cocco spaccate al passaggio di carri

riccamente decorati: un perfetto quadro esotico, ma a due passi da casa.

Dall’analisi del sito come delle brochure distribuite al tempio si possono estrapolare

tre elementi principali, caratterizzanti l’immagine del tempio comunicata attraverso di

essi:

Il tempio è aperto a tutti ed offre un ambiente simpatico e conviviale, come si

legge su una brochure: “accueil sympathique garanti”. D’altronde “de nombreux

visiteurs sont accueillis toute l’année: groupes scolaires, étudiants, chercheurs”.

Il tempio è il luogo per eccellenza in cui è possibile conoscere l’Induismo,

religione millenaria che mette l’uomo in contatto col divino.

Chiunque può trarre beneficio dai rituali hindū condotti al tempio o a domicilio,

poiché essi sono praticati “exactement de la même manière qu’en Inde” da brāhmayi

originari dell’India del Sud.

Il tempio si pone quindi come porta di accesso ad un mondo di spiritualità,

benessere, comunione col divino che rispecchia, a mio parere, un’immagine esotica e un

po “new-age” dell’India. Tale immagine è costruita in base alle aspettative di gradimento

del pubblico che si vuole conquistare e non dipende da una reale volontà di condivisione:

l’Induismo, cosi come le attività del tempio, non vengono rappresentate in modo da essere

più facilmente comprensibili, ma in modo da risultare più attiranti3. La politica di

comunicazione del religioso portata avanti dal tempio è volta a diffondere un’immagine

rassicurante, basata su una retorica le cui parole chiave sono apertura e accessibilità. In un

certo senso l’Induismo viene reso “commerciabile”: la creazione di un’opininone pubblica

positivamente disposta è in quest’ottica il primo passo verso un’estensione delle attività

del tempio e lo sviluppo della religione hindū in Francia. Il paragrafo successivo

completerà il quadro attraverso una trattazione approfondita della processione in onore di

Gayeśa e della sua storia.

4.4 La ‘fête de Ganesh’3 Questo non toglie che molte delle informazioni contenute nel sito, come ad esempio quelle del glossario, siano effettivamente interessanti e utili alla comprensione.

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La mattina del 23 settembre 1995 nei piccoli locali del Sri Manicka Vinayakar

Alayam avviene qualcosa di inatteso e di meraviglioso: Gayeśa, nella forma di una

piccola mūrti, comincia a bere il latte che gli viene offerto. La notizia del miracolo si

diffonde rapidamente all’interno della comunità tamil e tra gli altri hindū di Parigi, e in

poche ore il tempio si riempie di devoti e visitatori desiderosi di constatarne la veridicità

con i propri occhi. Ma il miracolo non è isolato: in altre città del mondo, in India come in

molti dei paesi raggiunti dalla diaspora hindū, Gayeśa manifesta la sua presenza nel

medesimo modo, accettando cucchiaio dopo cucchiaio il latte che folle di fedeli gli

offrono. Il miracolo, in quanto segno, viene interpretato in modi diversi. Per alcuni è un

modo per consolidare la fede negli uomini: intervenendo e sconvolgendo le regole

“naturali”, Dio riafferma la propria esistenza, rinforzando la sua presenza nel cuore degli

uomini. Per altri la manifestazione divina sta ad indicare la fine dell’attuale era di

degenerazione -il Kali Yuga- e l’inizio di un nuovo ciclo cosmico, come si legge nel sito

del tempio di Gayeśa di Parigi:

Cette manifestation annonce la fin d'un cycle (plusieurs milliers d'années), et

l'entrée dans une ère nouvelle inscrite dans les écritures sacrées du Véda [grassetto

e sottolineato nel testo].

Il miracolo suscita, proprio per la sua diffusione “throughout the Hindu global

village” (Davis 1998: 2), una grande attenzione della stampa indiana e mondiale. Anche

in Francia l’evento è oggetto di servizi televisivi e articoli di giornale, attraverso i quali,

per la prima volta, il tempio di Gayeśa assume una visibilità extra-comunitaria.

Esso rappresenta anche l’inizio della storia del défilé che organizza ogni anno il

tempio: il miracolo, infatti, avviene proprio in concomitanza del Gayeśa Caturthī, il

“compleanno” del dio Gayeśa, durante il quale in India e in molte parti del mondo

vengono organizzate delle processioni in suo onore. A partire dall’anno seguente quindi il

tempio decide di riprendere quest’importantissima pratica devozionale e organizza una

processione per le strade del quartiere de La Chapelle.

Ho assistito alla processione solo una volta, nel settembre del 2007: il percorso compiuto pare sia sempre lo

stesso da diversi anni (Dequirez 2002), se si esclude il biennio 1999-2000 in cui il tempio non ha ottenuto

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dal sindaco Tony Dreyfus l’autorizzazione al passaggio in rue du Faubourg Saint Denis, via che rappresenta

l’asse centrale attorno a cui

si costruisce “la piccola Jaffna” di Parigi.

Come si può vedere dalla cartina qui a fianco

(versione “ritoccata” di quella che si trova sul

sito del tempio), il percorso della processione

attraversa, percorrendone in parte i limiti

esterni, quest’area “etnicizzata” della città

(evidenziata in rosso). Il punto di partenza è

il tempio di Gayeśa (indicato con la lettera

‘G’) e le frecce indicano il percorso del

défilé. Con la lettera ‘M’ si indica invece il

tempio di Mutthumariamman. Fig. 3 - Il percorso della processione

La scelta del percorso naturalmente non è casuale né priva di conseguenze a livello

di affermazione identitaria e appropriazione dello spazio pubblico, come si spiegherà in

seguito.

La preparazione della processione richiede diversi mesi e il contributo di centinaia

di persone. Il presidente del tempio di Gayeśa è naturalmente colui che si occupa di

dirigere l’organizzazione dell’evento, il quale raccoglie però la partecipazione della

comunità hindū nel suo complesso: ad essa partecipano srilankesi, indiani, hindū della

Guadalupe, della Martinica, della Réunion, e anche un francese convertito all’Induismo,

che frequenta attivamente il tempio da una decina d’anni. A questo riguardo, è

interessante notare il fatto che nessuno degli altri templi presenti sul territorio parigino

collabora all’evento, da nessun punto di vista: per quanto ho potuto vedere e a quanto ho

sentito, i loro responsabili-presidenti non vi partecipano neanche in qualità di devoti. In

più di un’occasione, anzi, essi hanno manifestato il loro risentimento nei confronti delle

autorità francesi, le quali hanno concesso l’autorizzazione alla processione solo al tempio

di Gayeśa e a nessun altro.

Ogni tempio in Sri Lanka fa, una volta l’anno, una grande processione. È molto

importante per noi, ma al comune non ci danno l’autorizzazione. Solo a La Chapelle

la fanno, sai il tempio di Gayeśa, loro hanno avuto l’autorizzazione perché sono stati

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i primi a chiederlo. E noi invece siamo costretti a farlo qui dentro. Capisci? Noi lo

facciamo lo stesso, ma non è la stessa cosa. [Il brāhmaya del Sivan-Parvathi Temple]

Tale differenza di trattamento è fonte di gelosie e fomenta le critiche contro il

tempio. Nonostante l’avversione dei responsabili degli altri templi, non si notano però

atteggiamenti “faziosi” né tra coloro che partecipano alla processione in qualità di

spettatori, né tra coloro che vi prendono parte attivamente o che contribuiscono alla sua

preparazione: ho conosciuto molte persone che, pur non frequentando abitualmente il

tempio durante l’anno, partecipano con entusiasmo alla processione in onore

dell’amatissimo dio Gayeśa. Esso è un evento unico ed eccezionale, a cui nessun hindū,

praticante o meno, può mancare.

A., per esempio, frequenta con assiduità quasi quotidiana il tempio

dell’Associazione Dharma Sangh (di cui il presente studio non si occupa in quanto

guidato da un brāhmaya di Benares e frequentato dalla ristretta comunità di hindū

provenienti dal Nord India), non ha alcun legame con la comunità tamil srilankese, né

frequenta gli altri templi hindū di Parigi, di cui in molti casi non conosce nemmeno

l’esistenza. Nonostante questo da ormai quattro anni partecipa alla processione di Gayeśa,

con un ruolo di primo piano, essendo tra coloro che tirano il suo carro.

Fig. 4 - Uno dei cumuli di noci di cocco

G. invece partecipa da sei anni

alla ‘fête de Ganesh’

finanziando l’acquisto di uno dei

tanti cumuli di noci di cocco che

punteggiano il percorso della

processione e di cui qua a fianco

si può vedere la preparazione

(vengono cosparse di pasta di

sandalo diluita). A parte

quest’occasione tuttavia egli non

frequenta il Sri Manicka Vinayakar Alayam. Piuttosto, essendo un grande devoto di

Ayyappan, si reca settimanalmente con tutta la sua famiglia al tempio de La Courneuve e

ogni anno parte per il Kerala con Guruswāmī. Il suo rapporto privilegiato con questo

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tempio, in cui ha anche un ruolo di una certa importanza, non gli impedisce di prendere

parte all’unico grande evento pubblico della comunità nel suo complesso:

È un’occasione unica. Siamo in Francia ma per una giornata è come essere in Sri

Lanka. Le mie figlie sono ancora troppo piccole, hai visto le porto solo al tempio, ma

tra qualche anno farò venire anche loro.(…) È una grande festa e io contribuisco

come posso.

La festa in onore del dio Gayeśa inizia intorno alle otto con una cerimonia al

tempio, durante la quale le utsava mūrti (forme mobili della divinità utilizzate durante le

processioni) di Gayeśa e Murugan vengono sottoposte a rituali preparatori dai tre

Brāhmayi del tempio. Nel frattempo nel cortile annesso alcuni uomini finiscono di

decorare i carri che le trasporteranno. Verso le nove i suonatori di thavil (percussione

doppia) e nadaswaran (strumento a fiato, simile ad un oboe) che accompagneranno tutta

la processione, si ammassano nel ristretto corridoio del tempio e danno inizio alla musica:

essa annuncia l’uscita delle mūrti che verranno installate nei rispettivi carri.

Fig. 5-6 I musicisti all’interno del tempio annunciano l’uscita delle mūrti

I musicisti escono e si distribuiscono nel cortile, su due file parallele che lasciano

spazio al passaggio delle divinità: installate su due portantine, le mūrti vengono

trasportate dal tempio al loro carro da due gruppi di uomini. Il breve tragitto viene

percorso quasi danzando, con movimenti ritmati di avanzamento-arretramento parziale.

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Page 69: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Le mūrti vengono installate e i carri “riposano” ancora per qualche tempo nel cortile.

Coloro che non possono assistere all’intera processione potranno compiere pradaksiyā

intorno ad essi e chiunque lo desideri potrà

fare un’offerta individuale, come mostra

l’immagine sottostante: le donne attendono

il loro turno per l’arcanā, compiuto dal

brāhmaya nel carro di Gayeśa.

Fig.7 - In attesa per l’arcanā Fig. 8 - Il carro di Gayeśa

La processione parte dal tempio intorno alle undici. Il corteo è piuttosto lungo e si

compone di diversi elementi: è aperto da un grande elefante di resina artificiale a

dimensioni reali; ad esso seguono il carro processionale di Gayeśa (tirato dagli uomini) e

quello di Murugan (tirato dalle donne), ciascuno dei quali ospita un brāhmaya; tra e

dietro i due carri, si immettono i musicisti e coloro che hanno fatto un voto 4. Esso si

esprime in due modalità principali: le donne portano in testa dei vasi contenenti della

canfora infiammata5, gli uomini invece portano sulle spalle delle strutture di legno ornate

di piume di pavone chiamate kavadi, attraverso cui si esprime la devozione per Murugan6.

4 Baumann (2001c: 10) propone un’interessante analisi delle pratiche votive al Sri Kamadchi Temple a Hamm, in Germania, un tempio della comunità tamil srilankese, in cui mostra come se da un lato “Tamil refugees succeded to recreate known social, cultural and religious customs in the new environment” e quindi anche “the opportunities to choose among the vow activities available expanded (…)”, “ the new socio-cultural context sets limits to the methods esteemed appropriate and feasible”.5 Rappresenta “l’ego che brucia per lasciare che l’anima si unisca con Dio” [una delle donne del gruppo].6Si tratta di una pratica molto diffusa tra i tamil e rappresenta la principale modalità di adempiere un voto per Murugan. A Parigi esso si manifesta nella sua forma più semplice e fisicamente meno mortificante: i portatori di kavadi danzano durante tutto il percorso della processione (che significa per minimo quattro ore) con una pesante struttura ad arco fatta di legno e piume di pavone tenuta sulle spalle. Essi sono a piedi

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Page 70: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Fig.9 - La danza dei portatori di kavadi

Fig. 10 - Donne portano i vasi con la canfora infiammata

I portatori di kavadi danzano al suono

della musica che li precede, cosi come

alcune donne. Tutti coloro che hanno

fatto il voto si sottopongono, nei giorni

che precedono la processione, ad una

purificazione preliminare. Essa non è

però definita in maniera uguale per tutti,

è più “una questione tra te e Dio”. Per alcuni significa astenersi dal consumo di carne per

un numero determinato di giorni, accompagnato da una frequentazione più assidua del

tempio; per altri si tratta invece di un digiuno completo, associato all’astinenza sessuale e

ad un “pensiero sempre concentrato su Dio”, come mi è stato raccontato da A. “Ognuno

sa cosa è giusto per sé”.

In chiusura del corteo si trova un coro che canta le lodi di Gayeśa.

4.4.1 I sensi della festa. Appropriazione spaziale, affermazione identitaria e messa in

mostra di sé

scalzi e spesso hanno osservato uno stretto digiuno la settimana che precede il défilé. La mortificazione del corpo e il dolore sono modalità attraverso cui esprimere l’amore per il divino e attraverso cui giungere all’unione spirituale con Esso. “The greater the pain the more god-earned merit” (www.aryabhatt.com).

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Page 71: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

La processione, organizzata in India come in Sri Lanka ad occasione delle maggiori

festività, è un evento che riveste una grande importanza nell’Induismo, in quanto è

attraverso di essa che si stabilisce il legame della divinità con il territorio che la circonda

(Reiniche 1985, Eck 1998, Dempsey 2006): il percorso compiuto dalla divinità estende

oltre i confini del tempio lo spazio della sua azione e attraverso di esso il sacro si diffonde

nel mondo degli uomini. Come suggerisce C. Dempsey riferendosi alla medesima pratica

in un tempio negli USA:

As they circled and blessed the barn temple and its grounds, these traveling deities

helped link and sanctify terrain and traditions old and new, far and near. As such,

they tempered apparently insurmountable barrier -not least, the perceived abyss

between divinity and humanity (Dempsey 2006: 168).

Nel suo passaggio Gayeśa (e, dietro di lui, suo fratello minore Murugan) stabilisce

un contatto col territorio che lo circonda e riafferma la propria autorità su di esso.7

Contemporaneamente egli diffonde la propria benedizione attraverso il darśan, in cerca

del quale vengono migliaia di fedeli e del quale gioiscono i proprietari dei commerci di

fronte ai quali passa il carro divino. Le loro attività ne saranno avvantaggiate poiché egli è

‘Colui che rimuove gli ostacoli’.

Se il défilé di Gayeśa è un evento di cui gioiscono e a cui partecipano tutti gli hindū

di Parigi, esso riveste per i tamil srilankesi un’importanza particolare. Come si è

accennato a inizio paragrafo, Gayeśa percorre un tragitto che si snoda dal tempio

attraverso il quartiere de la Chapelle. Tale percorso non delimita un territorio neutro: non

si tratta semplicemente di occupare lo spazio pubblico, poiché ad essere percorso e

limitato è uno spazio manipolato, trasformato negli anni in una specie di concentrato del

Sé. Il quartiere de La Chapelle infatti è il luogo per eccellenza della comunità tamil

srilankese: vi si concentrano commerci, scuole, associazioni, servizi, templi. È qui che gli

srilankesi vengono a fare la spesa, prendere lezioni di scuola guida, tagliarsi i capelli,

7 Come sottolinea Mc Gilvray (1998: 61) “Gods are periodically carried in procession from the temple to survey their domain and to transmit their protective blessings to individual households”. Il quartiere de La Chapelle è centro di commerci e servizi tamil, più che residenziale, ma il principio vale ugualmente: saranno quindi il negozio o la scuola (comunque luoghi della comunità) ad esser posti sotto la protezione della divinità.

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Page 72: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

mangiar fuori. Ed è qui che gli ultimi arrivati vengono a cercare lavoro o un alloggio,

prima ancora di avviare le pratiche per l’ottenimento dello statuto di rifugiati. Pur non

essendo definibile “ghetto”, mancando l’aspetto di concentrazione residenziale, il

quartiere rappresenta il luogo in cui l’identità della comunità tamil srilankese viene

vissuta, rinforzata e messa in mostra.

La processione, in quanto appropriazione (temporanea) dello spazio collettivo non è

priva di conseguenze, poiché esso non solo viene occupato fisicamente, ma soprattutto

viene allestito e decorato risultando in un’alta saturazione simbolica. Nella scelta del

percorso, che è lo stesso di anno in anno, è presente una volontà di delimitazione di un

territorio preciso, quello della “piccola Jaffna”: Gayeśa, percorrendolo, riafferma

simbolicamente l’appropriazione comunitaria dello stesso.

Oltre a questo aspetto, il défilé riveste molti altri significati per la comunità tamil

srilankese di Parigi:

In quanto pratica religiosa pubblica di grande importanza, essa rappresenta la

conquista della possibilità di esprimere la propria religiosità in ambiti da cui essa è

normalmente esclusa.

In quanto evento pubblico (potremmo dire evento “della comunità”) è

un’affermazione della propria presenza in seno alla società francese e

contemporaneamente un’importante risorsa di auto-rappresentazione. A tale proposito

da un lato bisogna pensare a quanto l’immagine dei tamil srilankesi sia influenzata dal

conflitto in Sri Lanka, (per cui vengono automaticamente associati alle Tigri tamil)

dall’altro ricordare che la maggior parte delle manifestazione pubbliche tamil (cortei,

conferenze, ma anche spettacoli culturali) sono di stampo o derivazione politica. Il

défilé invece rappresenta una risorsa di auto-rappresentazione “positiva”, è

un’occasione (ricercata) per portare l’attenzione sulla propria cultura. Per una volta la

comunità tamil srilankese viene alla ribalta della cronaca non per gli eventi sanguinosi

del paese d’origine o per l’arresto di giovani accusati di terrorismo ed estorsione, ma

per un evento pacifico e gioioso, che valorizza la comunità, è motivo di orgoglio e

mezzo effettivo di interazione interculturale.

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Page 73: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

In quanto evento “per la comunità” è una fonte di coesione e rafforzamento

dell’identità comunitaria.

In fine, da un punto di vista interno, la processione rappresenta per i membri

illustri della comunità un’occasione di giocare un ruolo di primo piano8 e riaffermare

le gerarchie sociali.

4.4.2 Il tempio e la processione

Naturalmente la processione ha anche importantissimi effetti sul tempio che la

finanzia e organizza. Esso rappresenta, come ovvio, un’enorme pubblicità per il Sri

Manicka Vinayakar Alayam e per il suo fondatore. Ma non solo: l’immagine del tempio

che ne risulta corrisponde ad una precisa politica comunicativa del suo fondatore.

Come si diceva l’organizzazione della processione inizia verso il mese di giugno.

Lo stesso Sanderasekaram mi ha spiegato che una parte importante di tale organizzazione

è costituita dalle relazioni con le autorità e la stampa francese. Innanzitutto si procede agli

inviti ufficiali: le autorità di quartiere, il sindaco di Parigi, addirittura il presidente della

Repubblica, vengono invitati per lettera a presenziare al défilé; contemporaneamente si

sollecita la stampa a partecipare all’evento e a pubblicizzarlo nelle settimane che lo

precedono, in modo che “ci sia più gente”. I rapporti con la società francese naturalmente

passano anche attraverso le necessarie relazioni con la Prefecture de Police e la Mairie. In

entrambi i casi si può parlare di collaborazione: l’autorizzazione per il défilé è ormai

concessa quasi d’ufficio e la Mairie fornisce addirittura al tempio uno dei suoi camion per

la pulizia stradale. Esso viene utilizzato per purificare con centinaia di litri di acqua di

rose e zafferano le strade su cui passera la processione.

Per quanto riguarda il corteo, il dato più importante è, come si diceva, l’assenza dei

rappresentanti degli altri templi parigini. Il signor Sanderasekaram è significativamente

l’unico elemento “istituzionale” hindū: tutte le altre personalità religiose di rilievo che

partecipano alla processione non risiedono né hanno attività a Parigi, oppure

8 Finanziariamente il tempio è affiancato da molti commercianti tamil del quartiere de La Chapelle: sono soprattutto loro ad offrire gratuitamente cibi e bevande a coloro che partecipano al corteo.

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Page 74: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

rappresentano altre confessioni religiose. Questo contribuisce a dare l’impressione che il

tempio di Gayeśa sia l’unico tempio hindū della città, come si legge d’altronde nella

stampa locale. Unita ai buoni rapporti che con gli anni Sanderasekaram ha intessuto con le

autorità francesi, soprattutto nel locale e micro-locale, quest’ultima caratteristica

contribuisce a farne una sorta di porta-parola privilegiato della comunità srilankese e

hindū di Parigi. Tutta la politica di comunicazione del tempio, dal sito internet, alle

brochure, all’accoglienza dei visitatori al tempio, è pensata in questo senso.

La processione è per il tempio non solo un’occasione per farsi conoscere, ma

soprattutto un modo per far passare ad un pubblico vastissimo un’immagine precisa di sé,

costruita con attenzione. Attraverso il défilé Sanderasekaram mostra un’immagine

pacifica, quasi bonacciona, dell’Induismo e dimostra di essere l’unico rappresentante

degli hindū a Parigi. Il fatto di condurre una politica di dialogo interreligioso è un altro

elemento del quadro.

Se, come si diceva a inizio capitolo, la politica gestionale e comunicativa del tempio

è guidata da un senso di disconoscimento della religione hindū in Francia,

Sanderasekaram non solo è riuscito nel suo scopo di portare l’attenzione su di essa, ma si

è anche fatto eleggere dalla stampa e dalle autorità francesi a porta-parola della comunità

in materia religiosa. A dimostrazione di quanto detto si pensi che “le personel politique

qui cherche à toucher les Tamouls commence d’ailléur en général systématiquement par

joindre le temple, qui se prête de bon gré à ce rôle de porte-parole, comme en témoigne le

fait qu’il se dénomme lui même “Temple hindou de Paris”, comme si il n’y en avait pas

d’autre.” (Dequirez 2002: 30).

Questo ruolo di “rappresentante istituzionalizzato” della comunità, passa

naturalmente per una negazione di qualsiasi legame con la lotta di liberazione delle Tigri,

con i suoi scopi e le sue modalità d’azione, in Sri Lanka come nella diaspora. Da questo

punto di vista Sanderasekaram si pone criticamente verso altri templi (in particolare il

tempio di Mutthumariyamman), che vengono accusati di fare politica:

Loro sono come una setta. Noi qui non siamo una setta, siamo aperti a tutti, perché la

politica è qualcosa che non mi interessa. E anche se qui viene meno gente, a me non

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Page 75: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

interessa. L’importante è non avere problemi. Sai, con le autorità se no ci sono dei

problemi.

Effettivamente il successo della politica comunicativa di Sanderasekaram non si è

tradotto, come rivelano le sue stesse parole, in uno sviluppo del tempio, il quale rimane

relativamente poco frequentato durante l’anno. È questo un dato su cui riflettere. Ogni

settimana (soprattutto prima e dopo la processione) egli viene contattato da giornalisti,

studenti, operatori dell’accoglienza agli immigrati, politici: il ruolo di mediatore tra mondi

e rappresentante della comunità che si è costruito è carico di grosse responsabilità.

Nonostante il trattamento di “riferimento obbligato” che gli viene riservato però,

l’impressione è che, all’interno della comunità, egli sia piuttosto emarginato. La scarsa

frequentazione del tempio, le critiche di commercializzazione della religione che gli

vengono mosse da un po’ tutte le direzioni e il suo atteggiamento “sulla difensiva”

quando si parla di altri templi portano a pensare che questo ruolo di portavoce che la

società francese vede in lui, non abbia in realtà un sostrato nella comunità stessa.

L’impressione è che la sua politica comunicativa abbia un gran successo sui francesi ma

non sui membri della sua stessa comunità. Probabilmente, al contrario, essi non

apprezzano l’immagine che egli fornisce dell’Induismo né tanto meno la sua gestione del

religioso.

Il successo della processione in onore di Gayeśa inoltre supera ampiamente il

successo del tempio che lo organizza e questo non può essere sottovalutato. Questo scarto

dipende a mio parere dal fatto che la valenza che i tamil srilankesi ripongono nel défilé è

assolutamente indipendente dalla loro considerazione del tempio. Se la festa di Gayeśa è

diventato un evento interculturale è sicuramente merito di Sanderasekaram ed è grazie a

questo evento che egli si è eretto a ponte tra mondi; tuttavia bisognerebbe chiedersi cosa

passi attraverso questo ponte e soprattutto se sulla sponda della comunità tamil srilankese

qualcuno sia disposto ad attraversarlo.

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Capitolo V

IL SRI SABAREESAN MANCHAMATHA AYAPPAN TEMPLE

5.1 Le prime esperienze

Uno dei templi de La Courneuve, comune dell’immediata periferia parigina

ospitante una grande comunità srilankese, è dedicato ad Ayyappan. La prima volta che

sono andata al tempio era un giovedì. Sono arrivata poco prima della pūjā delle 13, ho

assistito alla cerimonia che si svolge tutti i giorni, due volte al giorno, e successivamente

ci è stato servito da mangiare. Eravamo solo in 4 ad assistere alla pūjā, oltre i due

officianti e due donne che sono arrivate quasi al suo termine e che poi ho scoperto essere

co-fondatrici del tempio. Il pasto collettivo, che si svolge immancabilmente dopo ogni

cerimonia e che è tra le peculiarità di questo tempio, è un momento di convivialità molto

importante ed ha rappresentato, a parte qualche fortunata eccezione, la principale

occasione in cui avvicinare e conoscere i devoti e i responsabili del tempio. Nonostante i

limiti linguistici infatti, ho incontrato in generale una grande apertura e una volontà,

superata l’iniziale timidezza, di comunicare e spiegare la propria cultura.

In occasione di questa prima visita, le due donne dell’associazione mi avevano

brevemente spiegato che il tempio è stato fondato poco più di 4 anni fa da 6 persone, tutte

di origine srilankese, legate tra loro da rapporti di parentela o di amicizia. Una di loro

aveva sottolineato il fatto che l’associazione è formalmente registrata alla Prefecture de

Police, e che quindi tutto si svolge nella più assoluta legalità. La cosa mi aveva stupito,

ma ad ora, non sono riuscita a dare una spiegazione a questa precisazione spontanea; può

darsi che in tal modo facesse tacitamente riferimento all’esistenza di sale illegalmente

adibite a tempio, probabilmente vera ma di cui non ho esperienza. La nostra

conversazione si era poi soffermata sul culto di Ayyappan: con l’aiuto di alcune immagini

presenti al tempio una delle due donne mi aveva spiegato la sua leggenda, dalla nascita,

frutto dell’unione di Śiva e Visyu (nella forma femminile di Mohinī), alla fondazione del

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tempio di Sabarimala, in Kerala, che si vuole essere il primo tempio a lui dedicato,

costruito e gestito secondo i dettami dello stesso Ayyappan.

Già in questa prima visita, l’accoglienza, il calore e l’apertura che caratterizzano

questo tempio erano stati palpabili. È stato però nelle mie visite successive che ho potuto

conoscere coloro ai quali devo la maggior parte delle informazioni riportate nelle pagine

che seguono, e ai quali devo tanta riconoscenza: per la fiducia accordatami fin dal primo

incontro, per la disponibilità e il tempo dedicatomi, per la gentilezza, sincera, con cui sono

stata invitata a partecipare e con cui sono stata accolta, guidata, ascoltata.

Un venerdì, qualche tempo dopo la mia prima visita, sono tornata al tempio per la

pūjā delle 13: la sala era stracolma di gente, c’erano almeno un centinaio di persone, tra

cui moltissime donne. Alcune delle persone che avevo incontrato la volta precedente

erano presenti: uno dei fedeli, un signore sulla sessantina che frequenta quotidianamente il

tempio, e i due uomini che avevano condotto la pūjā. Questa volta però era un altro uomo,

visivamente molto più esperto del rituale e molto carismatico, a condurre la cerimonia. È

a lui che, su suggerimento di una delle fondatrici del tempio, la terza con cui facevo

conoscenza, mi sono rivolta alla fine della pūjā, in cerca di informazioni. Nessuno tra

coloro con cui avevo parlato fino a quel momento mi aveva spiegato il suo ruolo e la sua

importanza all’interno del tempio, mi era solo stato indicato come colui che avrebbe

saputo spiegarmi bene le cose. Rinnovati con lui i miei propositi di condurre una ricerca

antropologica sui templi hindū di Parigi, mi aveva esortato a tornare l’indomani: ci

sarebbe stato suo figlio, perfettamente bilingue, a farci da interprete. È cosi che

l’indomani ho conosciuto S., il figlio maggiore1 di Guruswāmī 2 e di sua moglie, co-

fondatrice e, sulla carta, presidentessa dell’associazione.

S. ha 19 anni, è nato e cresciuto a Parigi e, pur partecipando attivamente e con

notevoli responsabilità alla vita religiosa della sua comunità, si sente innanzitutto

francese:

Mi sento più francese che srilankese. Sono fiero della mia religione. Sono fiero di

essere francese anche. È il mio paese. Ci sono persone che mi criticano per questo.

Ma io rispondo ‘è il paese che ti ha accolto, ora sta a te servirlo’. E sono fiero della

1 Il fratello minore, pur frequentando il tempio con la stessa frequenza, non riveste un ruolo importante. 2 I fedeli del tempio si rivolgono a lui con questo appellativo.

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mia religione, per questo sono ancora qui, se no avrei potuto andarmene a 18 anni,

come fanno molti. Invece no, perché la famiglia è importante.

Il suo rapporto con la comunità srilankese è a dir poco complesso: ne condivide

alcuni valori, innanzitutto l’importanza della famiglia e ovviamente vi vede le sue radici.

Ma conosce poco o nulla dello Sri Lanka, dove peraltro non è mai stato. Nessuna visione

idealizzata del paese d’origine caratterizza né il suo narrare né quello dei suoi genitori,

così come sono assenti tematiche politiche: S. ha conosciuto la guerra civile in Sri Lanka

più attraverso conoscenti tamil che attraverso la sua famiglia, e ne ha infatti un’immagine

molto vaga, conoscendo appena le parti in lotta. La sua appartenenza alla comunità tamil

srilankese è basata esclusivamente sulla frequentazione e gestione del tempio, unico luogo

e occasione in cui incontra membri della comunità: a parte i suoi cugini, infatti, non

frequenta altri giovani srilankesi, di cui dice di non condividere i modi (per esempio il

fatto di osservare fissamente le persone).

La maggior parte delle informazioni che ho raccolto sul tempio le devo a lui 2. Con

suo padre ho avuto occasione di parlare diverse volte, al tempio, ma le nostre

conversazioni si sono concentrate soprattutto su aspetti più strettamente religiosi, o sulle

regole di condotta, sulla devozione, sui canti dei fedeli. Con S., che ho incontrato anche al

di fuori del tempio, ho potuto abbordare i temi più disparati, da questioni direttamente

legate al soggetto della mia tesi, a temi personali circa la sua educazione, la sua visione

della trasmissione culturale tra generazioni, le relazioni all’interno della comunità, le

caste. Per molte delle informazioni che mi ha dato sul tempio, ho avuto l’occasione di fare

delle “verifiche” con i devoti, attraverso brevi conversazioni che si sono svolte quasi

interamente nel momento del pasto comune che si svolge dopo la pūjā. Come in altri casi

(vedi ad esempio la storia della fondazione del tempio Sri Manicka Vinayakar Alayam), i

racconti e le modalità di racconto si sono quasi sempre rivelati coincidenti, in un modo

davvero sorprendente.

La ricchezza delle informazioni che ho potuto raccogliere su questo tempio è dovuta

non solo alla maggiore assiduità con cui, devo ammettere, l’ho frequentato3 rispetto ad

2 Naturalmente questo ha influenzato la mia visione del tempio e delle sue attività.3 Le ragioni di questa preferenza sono dovute innanzitutto all’accoglienza e alla maggiore apertura nei miei confronti, che hanno reso le mie permanenze al tempio particolarmente piacevoli e mi hanno permesso di instaurare rapporti meno volatili. Inoltre l’originalità del tempio, nella figura del fondatore e guru e nelle

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altri ma soprattutto alla maggiore semplicità dei rapporti che vi ho potuto instaurare e alla

maggiore risposta ai miei “stimoli conoscitivi”. Le modalità di acculturazione che ho

sperimentato in questo tempio in particolare, sono state sicuramente più variegate che

negli altri: mi riferisco qui ad un’esperienza conoscitiva pragmatica che, inattesa, ha più

volte aperto le mie visite al tempio e che è stata resa possibile proprio dal mio statuto di

“straniera”, palesemente riconoscibile, e alla mia non comprensione del tamil. Infatti, se

in molte occasioni il fatto di non conoscere la lingua mi ha posto degli enormi problemi,

soprattutto nell’osservazione partecipante, in altre mi ha permesso di vivere uno speciale

rapporto di apprendimento-comunicazione con le persone che incontravo.

I devoti attendono l’inizio della pūjā seduti o in piedi di fronte alle mūrti, divisi, le

donne e i bambini a sinistra, gli uomini a destra. Tale divisione è rispettata con più o

meno rigore nei diversi templi e secondo le occasioni, ma è in ogni caso sempre presente.

Ogni volta che andavo al tempio cercavo di arrivare sempre un po’ in anticipo rispetto

all’orario d’inizio della pūjā, un po’ per rispetto, un po’ per vedere i preparativi, un po’

per approfittare dell’attesa per conoscere qualcuno. Levate le scarpe e le calze entravo al

tempio e mi sedevo in mezzo al gruppo delle donne. In molte occasioni una di loro, sola o

con la famiglia non importa ma sempre senza figli, si prendeva il compito di spiegarmi

ciò che dovevo fare, spesso a gesti o in un inglese/francese elementare: dal levarmi e

appendere il cappotto, a dove sedermi, quando alzarmi e cosi via per tutta la cerimonia.

Alla fine, nel momento della benedizione, in cui bisogna mettersi in fila e a turno ricevere

la vibhūti dal guru, mi indicavano il da farsi, e questo si è ripetuto in ogni occasione: mi

facevano mettere in fila dietro di loro, e poi, o mi indicavano di imitare i gesti di chi era

davanti a noi, o mi spiegavano che dovevo avanzare, ricevere la vibhūti, e abbassarmi a

toccare i piedi del guru. Compiuti questi gesti, mi guidavano verso colui che distribuiva

l’acqua zuccherina che, essendo stata offerto alla divinità è considerata prasād, in modo

che avessi anch’io la mia parte. Talvolta questi non veniva a trovarsi immediatamente

dopo il guru: in questo caso, una volta terminata la loro deambulazione intorno alle

cappelle ospitanti le mūrti, durante la quale non si occupavano più di me, tornavano a

sincerarsi che fossi andata a riceverne. Ogni volta una piccola lezione di prassi religiosa,

impartita tramite l’esempio, l’osservazione e la ripetizione di gesti. Ciò che mi veniva

attività svolte, ha stimolato la mia curiosità, richiedendo approfondimenti in tali direzioni. Terza e non ultima motivazione, lo sviluppo nel corso della ricerca di un personale attaccamento al luogo.

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comunicato e insegnato, con evidente sforzo, non poteva essere certamente qualcosa di

superfluo o di poco importante. A parte la cortesia di indicarmi dove sedermi o dove

lavarmi le mani, tutto ciò che del rituale mi invitavano a seguire o che omettevano di

spiegare e di farmi emulare, mi ha permesso di estrapolare nella complessità del

cerimoniale alcuni momenti chiave e da questi trarre delle conclusioni, che in definitiva

hanno reso più chiara la peculiarità di questo tempio. Il fatto di non poter comunicare con

facilità ha favorito in momenti in cui è la prassi rituale ad avere il ruolo più importante,

l’utilizzo di modalità di apprendimento differenti, in armonia con la specificità

dell’occasione. Come una bambina, sono stata guidata a ripetere gesti che è più

importante fare che analizzare. Gesti che condensano tutta una concezione dell’uomo, del

divino e del loro rapporto.

La portata conoscitiva di queste esperienze, significative in quanto reiteratesi in

molte occasioni, è molteplice: da un lato illuminano, nella loro unicità, la specificità che

assume in questo tempio la figura del guru, di cui mi si esortava a ricevere la benedizione;

dall’altro permettono una sorta di estrazione dell’essenziale. Della parte attivo-

partecipativa di tutta la cerimonia mi si invitava spontaneamente, e con decisione, a

seguire alcuni passaggi, i quali vanno quindi interpretati come fondamentali.

Tuttavia la portata di quanto detto va limitata da una considerazione: se è vero che

la presenza dell’Altro stimola una riflessione del Sé sulla propria cultura (in cui includo la

religione), che viene quindi rielaborata e comunicata in modo diverso, tale comunicazione

risente e viene limitata dalla visione che il Sé ha dell’Altro: ciò che viene comunicato in

definitiva può dipendere non solo dalla sua importanza relativa ma anche dall’importanza

che si pensa possa rivestire per l’Altro, nonché dalle sue, presunte, capacità di

comprensione. Detto questo però, il valore di tale esperienza non è da sottovalutare: le

impressioni scaturite da queste lezioni di prassi religiosa hanno svolto un importante ruolo

di conferma supplementare di quanto visto, sentito e letto successivamente.

5.2 Fondare il tempio

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La fondazione di un tempio dedicato ad Ayyappan nel comune de La Courneuve,

nella cosiddetta petite couronne, l’immediata periferia parigina, risale a poco più di 4 anni

fa. Nonostante formalmente il tempio sia gestito da un’associazione4, la storia della sua

fondazione, come il volto che ha oggi il tempio, è indissociabile dalla storia personale del

più importante dei suoi membri. Guruswāmī, come viene chiamato dai devoti, è il cardine

e il traino di tutte le attività che si svolgono o sono organizzate al tempio: è la sua mano

ad aver dipinto a vivi colori l’atmosfera che vi si respira, è la sua esperienza e visione di

Dio a permeare il rituale, sono i fiori profumati della sua devozione e il fuoco ardente

della sua danza ad attirare sempre nuovi fedeli.

Guruswāmī è arrivato in Francia nella prima grande ondata migratoria che, alla

metà degli anni ‘80, ha fatto seguito agli eventi che hanno insanguinato lo Sri Lanka nel

1983. Come la maggior parte dei tamil giunti nel corso del decennio ha ottenuto subito lo

statuto di rifugiato politico dall’OFPRA, l’Ufficio Francese per la Protezione dei Rifugiati

e degli Apolidi e successivamente è stato naturalisé, ha cioè ottenuto la cittadinanza

francese. Dopo qualche tempo è entrato nel mondo del commercio, fino ad aprirsi una

propria attività. A quell’epoca non era neanche lontanamente l’uomo di oggi: soprattutto

beveva molto e si era allontanato dalla religione. Come per il signor Muthukumarasamy,

del tempio di Saint Denis (di cui parlerò nel prossimo capitolo) il racconto di come abbia

ritrovato “la sua via” è molto vago. Pare che la nascita del suo primo figlio lo abbia

scosso profondamente e che in seguito ad una crisi abbia riscoperto le proprie radici e

l’Induismo. Il suo primo pellegrinaggio in Kerala risale al 1996.

Tornato molto cambiato da questa prima esperienza, porta con sé una piccola mūrti

di Ayyappan, che prende immediatamente il posto d’onore all’interno della stanza

riservata alla preghiera dove egli compie quotidianamente i riti appresi attraverso

l’osservazione e l’insegnamento di altri guru. Col passare degli anni la forza della sua

devozione, la sua esperienza del rituale e conseguentemente l’energia divina sprigionante

dalla mūrti sono andate crescendo e Guruswāmī “ha cominciato a sentire che c’era

qualcosa di forte che poteva e che voleva condividere”. Dopo un periodo “preparatorio” in

4 L’associazione è composta da 6 membri, Guruswāmī, sua moglie e altre 4 donne, legate tra loro da rapporti di amicizia. Una solo di loro lavora, in un ristorante indiano nel quartiere de La Chapelle, le altre sono femme au foyer, casalinghe. Si occupano del tempio a turno, soprattutto gestiscono e preparano le offerte.

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cui si recava in abitazioni private, portando con sé il suo Ayyappan, per svolgere la pūjā

per un ristretto, ma crescente, pubblico di devoti, viene creata l’associazione e il tempio

da essa gestito.

Quest’idea, forte, della necessità di condividere la crescente potenza divina che

albergava nella piccola mūrti, fondando un tempio dove la divinità potesse essere onorata,

nutrita e cresciuta con i migliori mezzi possibili è l’origine di ciò che oggi si è

concretizzato.

La ricerca del luogo è stata affidata ad un’agenzia immobiliare. I locali dovevano

soddisfare molteplici caratteristiche e la ricerca ha richiesto molto tempo. Dopo diversi

mesi sono riusciti a trovare, al terzo piano di un palazzo ospitante un maglificio cinese e

nessuna abitazione privata, a pochi passi dalla stazione della metropolitana, la grande

stanza quadrata nella quale si trova attualmente il tempio.

Fig.11 - L’ingresso del tempio

La posizione è ottimale: facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici e in auto, in

una zona molto frequentata, anche di sera, il tempio è stato fondato nel bel mezzo di un

comune in cui i tamil rappresentano la seconda comunità straniera. La scelta è stata ben

calcolata e la grandezza e magnificenza del posto è stata messa in secondo piano rispetto

alla sicurezza e facilità nel raggiungerlo: riguardo alla possibilità di costruire un vero

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tempio, al di là dei problemi con l’amministrazione francese per ottenere i permessi di

costruzione, “bisogna pensare ai trasporti, se la gente può venire. Si, certo, si potrebbe

comprare un pezzo di terra in periferia e costruirlo, ma se poi le persone non possono

venire…un tempio è fatto per le persone”. Il fattore logistico è sicuramente tra i più

importanti nella determinazione della frequentazione o meno di un tempio: la maggior

parte di coloro che li frequenta utilizza i mezzi pubblici per spostarsi; inoltre la visita al

tempio rappresenta una delle occasioni principali di uscita per molte donne che non

lavorano: il luogo in cui si trova il tempio deve quindi essere raggiungibile e in una zona

sufficientemente sicura per una donna e per i suoi figli, in modo che possa recarvisi senza

il marito.

L’assenza di vicini è un altro aspetto importante nella scelta dei locali, in quanto

permette una maggiore libertà nelle attività del tempio, che sono spesso piuttosto

rumorose.

Inizialmente il tempio era semplicemente una sala con la piccola statua di

Ayyappan, non c’era decorazione. Le prime persone che venivano erano i conoscenti della

famiglia e degli altri membri dell’Associazione. Ma presto molte altre persone hanno

cominciato a frequentare le cerimonie, in poco tempo e senza alcuna pubblicità il tempio

si è fatto conoscere nella comunità, innanzitutto tra i devoti di Ayyappan. La risposta

positiva della gente ha spinto Guruswāmī e gli altri membri dell’associazione a portare

avanti il progetto, finanziando l’acquisto di nuove mūrti, la costruzione da parte di

specialisti (sthapati) delle cappelle dove installarle, nonché la decorazione del soffitto. Ci

sono voluti un paio di anni affinché il tempio assumesse il volto che ha oggi. Il momento

più importante in questo periodo di sviluppo è stata l’installazione5 della seconda mūrti di

Ayyappan all’interno di una grande struttura che è la copia esatta del grande tempio di

Sabarimala, in Kerala, meta di un importantissimo pellegrinaggio annuale che attira fedeli

da tutte le parti del mondo. Questo secondo Ayyappan è molto diverso dall’altro per varie

ragioni, che spiegherò più dettagliatamente nel paragrafo seguente. Per ora basti sapere

che la sua costruzione è stata interamente finanziata dai fedeli: “è quasi completamente in

5 Si è trattato di un lungo Abhiseka di acqua santificata da Guruswāmī attraverso il canto, a cui ha fatto seguito una lunga sessione di bhajana durante la quale egli ha gettato centinaia di fiori sulla mūrti.

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oro, ed è l’oro donato dalla gente, dalle persone che venivano a chiedere qualcosa” e per

questo, molto più del primo, è considerato il loro Ayyappan.

Oggi quindi il tempio può dirsi concluso. Ci sono continuamente piccoli lavori (ho

potuto assistere ad esempio allo smantellamento del contro-soffitto, riccamente decorato,

per ragioni di sicurezza) ma non intaccano la struttura generale. Come già detto il tempio

è costituito da una grande sala quadrata, illuminata da una serie di finestre che occupano

la parte superiore di tutto un lato6. Come in altri templi della regione parigina, la zona

sacra, sede delle cappelle contenenti le mūrti, si concentra in una metà della sala ed è

tenuta separata da due grandi tende: su una è rappresentata un’immagine classica, il

grande Ayyappan di Sabarimala con il tempio sullo sfondo, ed è posta in corrispondenza

della grande mūrti di Ayyappan ospitata da un garbhagrha che è una copia esatta del

tempio in Kerala; sull’altro, l’immagine del tempio è incorniciata da una serie di disegni

che raccontano la storia mitica di Ayyappan: tali disegni rivestono un evidente ruolo

pedagogico e forniscono un importante supporto visivo nel racconto e nella trasmissione

del mito, attraverso il quale passano valori e virtù, visioni del mondo, concezioni del bene

e del male, dell’umano e del divino.

Tali tende vengono alzate al cominciare della pūjā: durante la preparazione, quando

le mūrti vengono ornate con mazzi e ghirlande di fiori, collane di limoni, gioielli, e

truccate con magnificenza, i devoti intonano canti devozionali. Di fronte a loro sono

schierati, su diversi piani, ma in modo da ottimizzare la possibilità di relazione visiva, le

mūrti di Gayeśa, onnipresente nel suo ruolo di rimozione degli ostacoli; Devī, divinità

femminile cui si rivolgono con nomi diversi, Pārvatī, Durgā, Laksmī, espressione della

multiforme energia femminile; e i due Ayyappan, entrambi introdotti dalla scalinata a

diciotto gradini, simbolo della sua vittoria sull’ego. Sulla destra una piccola mūrti di

Hanumān è appoggiata di fianco alla porta d’ingresso. La visione delle mūrti è facilitata

per le divinià minori dall’apertura su tre lati della struttura che le sovrasta, attraverso il

sollevamento delle tendine che ne costituiscono le effimere pareti. Su di esse

rappresentazioni a vivi colori della divinità insegnano ai devoti il proprio contenuto sacro.

Tra i due Ayyappan, il più antico (quello appartenente a Guruswāmī) è posto in fondo alla

6 Non mi è stato possibile scattare fotografie all’interno del tempio: il divieto è chiaramente indicato sulla porta d’ingresso e mi è stato confermato dai responsabili. Tale regola è comune a tutti i templi indagati con l’unica eccezione del Sri Manicka Vanayakar Alayam.

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Page 85: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

sala, in mezzo e posteriormente a Gayeśa e alla Dea. Essendo adiacente il muro e

sovrastato da una piccola struttura viene nascosto da un pannello raffigurante i diciotto

scalini. Il secondo Ayyappan è invece ospitato in un sontuoso garbhagrha, dalle spesse

pareti e attorno al quale si può compiere la deambulazione. Come già detto, esso

ripropone in miniatura l’architettura del tempio di Sabarimala. La somiglianza è davvero

sorprendente e molti devoti ne hanno sottolineato l’importanza: sia per coloro che si

preparano al loro primo pellegrinaggio che per coloro che sono già stati in Kerala, esso

rappresenta un supporto visivo che scatena forti reazioni emotive, prepara alla visione del

più sacro dei luoghi o ne rinforza nella memoria il ricordo. A differenza di altri templi,

dove l’illuminazione è artificiale, in questo caso il garbhagrha è illuminato internamente

solo da una serie di lampade di varie foggie e dimensioni, poggiate al suolo o appese, che

vengono accese durante la preparazione della pūjā da Guruswāmī o da suo figlio S., gli

unici ad avere accesso al più sacro degli spazi del tempio. Esso è quindi unico da questo

punto di vista ed è il solo che mi ha fatto tornare alla mente la descrizione che Stella

Kramrisch, nel suo celebre studio del tempio hindū, fa del garbhagrha:

Una piccola camera, quadrata nella maggior parte dei templi rimasti, e oscura come

una caverna nella montagna. È il santuario più interno del Vimāna e di tutto il

tempio.

All’interno ha quattro muri lisci. Sono massicci e la loro continuità è interrotta solo

dall’entrata nel muro frontale. Non vi è altra fonte di luce. Se la porta è chiusa

l’interno è buio. (…) questo nucleo rimane, benché spoglio e indistinto eppure celato,

il luogo in cui dimora il Principio Supremo, come Dio, Īśvara, nell’immagine o

simbolo consacrati.

(…) Nel nome e nella forma il Garbhagrha è un luogo di significato primario; è

atemporale, antico come il tempio indù ne costituisce la sua parte essenziale oggi

come allora. Il nome del Garbhagrha non è però legato in modo intrinseco alla sua

forma. Entrambi sono simboli e ciascuno rappresenta un aspetto della stessa realtà. Il

nome e la forma del Garbhagrha non coincidono sul piano delle cose visibili.

Coincidono nella destinazione. Il Garbhagrha è non solo la casa del Germe o

embrione del Tempio come Purusa; si riferisce all’uomo che giunge al Centro e

ottiene una nuova nascita nell’oscurità (1976: 172-3).

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e continua poco dopo:

l’oscurità nel Garbhagrha è una condizione necessaria per la trasformazione che si

compie nel devoto. Nell’oscurità si effettua il cambiamento e si ottiene nuova vita

(1976: 175).

Cosi come descritto dalla Kramrisch, il garbhagrha nel quale è installata la

maggiore delle mūrti di Ayyappan, è illuminato esclusivamente dalla luce penetrante

dall’apertura frontale e dalle numerose lampade a olio che rimangono accese durante tutta

la pūjā: in quest’oscurità l’immagine della mūrti, risplendente e dorata, simboleggia con

maggior vigore il Germe d’Oro (Hirayyagarbha), “la luce che brilla dall’oscurità

primordiale” (1976: 175). La luce delle lampade, infatti, non fa che aumentare il contrasto

tra l’oscurità di una dimora, che è grembo, e la luminosità del divino che vi risiede. La

luce, soprattutto nella forma di fiamma, rappresenta un momento e un simbolo

fondamentale nel rituale hindū e nella concezione del divino. Se essa è veicolo e

manifestazione dell’energia divina, ed è in questo senso che i presenti appongono le mani

su di essa per poi portarle agli occhi e alla testa, riveste anche un’altra funzione, basata su

una concezione della continuità e fluidità del reale. Ha la funzione di risvegliare per

simpatia l’energia divina che è in ognuno di noi o, in una versione più razionale, di

stimolare la focalizzazione dell’individuo sul divino, rappresentato dalla fiamma,

innescando quindi in lui un processo di crescita spirituale. Tutte queste interpretazioni mi

sono state fornite nei templi dai presenti, quando chiedevo spiegazioni a riguardo.

Nessuna delle versioni ha prevalso sulle altre e talvolta la stessa persona mi ha fornito

diverse spiegazioni in occasioni diverse. Questo perché, credo, esse non si contraddicono

a vicenda, ma anzi si completano, in quanto inquadrature diverse della medesima visione.

In questo senso anche la luce che, per effetto delle lampade accese tutt’intorno,

sembra sprigionare dalla mūrti, è non solo manifestazione della presenza del sacro, ma

anche specchio della luce divina che alberga in colui che la guarda. Nelle parole di Fuller:

Light (…) is thus an extraordinary potent condensed symbol of the quintessentially

idea, implied by its politheism, that divinity and humanity can mutually become one

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another, despite the relative separation between them that normally prevails in this

world where men and women live and must die (Fuller 1992: 73).

Come in India o in Sri-Lanka anche a Parigi la luce, nelle sue varie espressioni

fisiche, continua ad essere simbolo fondamentale, multiforme e fortemente valorizzato.

5.3 Dove regna l’amore non c’è bisogno di regole: la creatività legittimata

Il tempio di Ayyappan de La Courneuve può dirsi unico nella frammentata realtà

hindū parigina per più di un aspetto. I devoti spiegano tale unicità come il frutto del

coraggio e della forza della devozione di un uomo, al quale si deve la fondazione del

tempio e alle cui decisioni è legata la sua storia futura7.

Guruswāmī è un uomo dalla forte personalità: ambizioso e fortemente carismatico,

deciso e severo quando necessario, è molto rispettato da coloro che frequentano il tempio.

Essi ne parlano come di un uomo saggio, giusto, un maestro, un benefattore, talvolta

come un uomo che ha realizzato in terra l’unione col divino. Egli è una guida per coloro

che si recano al tempio ed è un esempio per tutti, la prova vivente della forza della

devozione, grazie alla quale Ayyappan risolleva dalla miseria fino all’ultimo dei disperati.

È questo un aspetto fondamentale, dal quale si deve necessariamente partire nell’analisi

delle peculiarità di questo tempio, in quanto rappresenta il centro di una giostra di

caratteristiche.

Nelle mie visite al tempio, come già detto, ho spesso approfittato del pasto comune

per discutere con qualcuno dei presenti di alcune questioni riguardanti il tempio. In molti

casi chiedevo ai miei interlocutori di parlarmi di Guruswāmī. A parte le virtù sopra

menzionate, nessuno di coloro con i quali ho parlato ha mai menzionato con me, neanche

in seguito a sottili “provocazioni”, ciò che salta immediatamente agli occhi anche

all’osservatore più inesperto: la mancanza, sulla sua spalla sinistra, del cordone sacro,

segno distintivo della casta dei Brāhmayi e simbolo della loro formazione.

7 Mi riferisco qui all’intenzione dichiarata da Guruswāmī in diverse occasione, di chiudere il tempio entro cinque anni, per trasferire le mūrti in una nuova e “più adatta” dimora in India meridionale.

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Guruswāmī non appartiene infatti alla casta dei Brāhmayi, ma il fatto che offici

ugualmente il rito non rappresenta di per sé un modificazione della norma. Come nota

Sivathamby (1995) in Sri Lanka molti officianti non sono Brāhmayi ma provengono da

famiglie di casta Vellala per cui la funzione sacerdotale è prerogativa da generazioni.

Questi seguono le medesimo regole di purezza del primo varna e compiono una lunga

formazione che li porta a raggiungere lo stato di ‘kurukkal’, parola tamil costituita da

‘kuru’ (guru in sanscrito) e ‘kal’, suffisso del plurale onorifico. In alcuni templi inoltre i

kurukkal provengono da generazioni da famiglie Karaiyar (casta di pescatori).

Nonostante questo aspetto quindi non sia di per sé rilevante né tanto meno sia

oggetto di osservazioni, la sua importanza è tutt’altro che trascurabile, per le seguenti

ragioni:

l’assenza di una formazione “tradizionale”, lascia alla creatività individuale grande

spazio nelle forme del rituale e nella decorazione delle mūrti;

nelle rappresentazioni del guru è un elemento che ne esalta il valore, in quanto

egli deve non alla nascita in una famiglia di kurukkal ma alle sue capacità e virtù

personali la realizzazione di un rapporto diretto col divino;

in quanto elemento di rottura con la tradizione, è fonte di diffidenza da un lato, ma

anche di maggior attaccamento se questa viene superata.

Gli ultimi due elementi sono legati ad una precisa interpretazione della fede e del

rapporto con Dio: ciò che viene valorizzato è la sincerità con cui è compiuto ogni atto e

non l’appropriatezza del rituale che è, in fondo, una questione da brāhmayi, da specialisti.

Tutti gli altri non hanno gli strumenti conoscitivi per giudicare lo svolgimento del rituale

o la correttezza nella recitazione dei mantra. Nonostante questo, uno dei criteri con cui

vengono giudicati i templi, a maggior ragione nei vari contesti della diaspora, è proprio la

correttezza del rituale e la presenza di brāhmayi che lo “conducono come in India”;

spesso la prova è data dalla loro origine, formazione e dall’esperienza precedentemente

acquisita in templi in India o in Sri Lanka8.

8 Cfr www.murugantemple.com . Sul sito del tempio di Murugan a Lanham in Maryland (Usa) una pagina è dedicata ai ‘temple priests’: dopo una breve descrizione della famiglia di origine, vengono riportati il paramparā (catena maestro-allievo) di appartenenza, il guru e la scuola dove si sono formati, gli studi

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Nel caso in questione invece i gesti si emancipano dalla ferrea legge dell’ortoprassi,

per trovare legittimità nella sincerità dell’amore che ne guida il volo. Essi sono gesti

causali, innescanti conseguenze, in virtù non più della loro esecuzione secondo formule

stabilite e trasmesse dai testi, ma di una forza che sprigiona dal cuore di un uomo. La

differenza sta nella fonte e nella forma ma il metro di giudizio che viene applicato in

fondo rimane lo stesso: la capacità o meno di provocare una discesa del divino

nell’umano. Questa permeabilità tra umano e divino, che si basa in definitiva su una

differenza che è di ordine quantitativo più che qualitativo, è la chiave di volta

dell’Induismo, e si inserisce in una concezione del reale che trova, come spiega Valentine

Daniel nel suo Fluid Signs. Being a Person the tamil way, nella categoria di sostanza il

suo seme concettuale. È secondo tale chiave che va interpretata a mio avviso

l’indifferenza dimostrata dai devoti riguardo la provenienza castale di Guruswāmī e il suo

rituale “speciale”: egli riesce, in virtù di una maggiore “coscienza” 9 a rendere effettiva

tale permeabilità, dimostrando al tempo stesso l’accessibilità di tale “coscienza”.

Questi due elementi, “coscienza” e permeabilità, utilizzati nella frase precedente

rispettivamente come causa il primo ed effetto il secondo, sono in realtà legati tra loro in

un rapporto complesso in cui la direzione causale non è definita in maniera assoluta, ma

contestuale. Da un lato la “coscienza” è essa stessa espressione della permeabilità: essa è

la fiamma divina che alberga in ogni uomo e di cui una buona pratica rappresenta il

combustibile. Dall’altro un’analisi dei racconti forniti dai più devoti tra i fedeli di

Ayyappan, mostra come l’immissione del divino nell’umano non risponda sempre alla

medesima legge, anzi come talvolta non abbia leggi. Ognuno di questi racconti, come

spiegherò con più precisione nel capitolo successivo, si apre con la descrizione di una

situazione di miseria esistenziale, dalla quale il protagonista esce in seguito ad un evento

descritto come fortuito, inatteso, sorprendente: un sogno, un incontro o un evento

eccezionale, che lo porta sulla strada dell’unione con il divino. In questo senso il

miracolo, inteso come modificazione del reale e del corso degli eventi in seguito ad una

specialistici condotti e le lingue parlate.9 Questo è il termine usato dal figlio di Guruswāmī e da molti fedeli. Essa è superiore in virtù di una maggiore esperienza e di una pratica assidua: “mio padre è un ‘veterano’ della cosa, è molto tempo che pratica, è questa la differenza”.

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“intromissione” del divino nell’umano, è ad un tempo, continuando sulla scia della

metafora della luce, barbaglio epifanico e scintilla del proprio acciarino.

Come dicevo, prima di questa dovuta precisazione, Guruswāmī viene giudicato in

base agli effetti del suo agire: essi sono positivi, al tempio avvengono miracoli10, e quindi

il suo agire è appropriato in quanto appaga la divinità.

La creatività che caratterizza tutte le fasi del rituale, dalla decorazione delle mūrti

all’apposizione della vibhūti, è legittimata dal rapporto personale che egli ha instaurato

con la divinità. Tale rapporto è basato sulla bhakti, sull’amore personale: è un amore di

padre, che lava, veste e nutre la sua creatura, le offre cascate di fiori e tessuti pregiati; e ne

canta le lodi, la sgrida e parla con lei; la vede crescere e la esorta.

Il rapporto del bhakta con la sua divinità è basato su un’affinità che non è scelta ma

sentita. L’aspetto affettivo di tale rapporto è sottolineato da diversi elementi: il pianto

innanzitutto, manifestazione prediletta delle sofferenze dell’amore; l’unicità del

sentimento del bhakta; la sua spontaneità e sincerità. Questo è tutto ciò che conta e

soprattutto è ciò che appaga la divinità.

Per riassumere quanto detto nelle parole di S. (il figlio di Guruswāmī):

Per questo Dio non ci sono regole. O sei fatto per lui o non sei fatto per lui. Ci sono

anche stati dei brāhmayi che sono venuti e che non sono rimasti a lungo, perché

all’inizio mio padre, vedi, lui era stanco e ha chiesto a dei brāhmayi di sostituirlo, e i

brāhmayi hanno detto ‘non è possibile’ perché, vedi, è un Dio del Sud dell’India, ed

è una cosa piuttosto potente e ci sono dei brāhmayi che sono venuti e che mentre

facevano la pūjā hanno cominciato ad avere dei giramenti di testa e … perché la

prendevano alla leggera, come se fosse un Dio semplice come quelli con cui hanno a

che fare normalmente, come Śiva o…ci sono anche dei brāhmayi ai quali il dhotī ha

cominciato a bruciare (…) e poi mio padre ha detto ‘no, non è fatto per loro’ e ha

10 È grazie alla diffusione, per passaparola dei primi miracoli, che il tempio si è fatto conoscere nella comunità. A quanto mi è stato riferito ogni settimana arrivano nuove persone, attirate da questi racconti.Se ogni volta che Ayyappan si manifesta attraverso il linguaggio dei fiori può essere considerato un piccolo miracolo, il tempio è stato teatro di eventi ben più stupefacenti. Mi sono stati raccontati diversi esempi. Un cantante francese aveva perso completamente la voce: dopo aver visto molti medici e tentato varie cure, viene consigliato da un amico tamil di recarsi al tempio, dove, a suo modo, prega Ayyappan durante tutta una giornata. La mattina dopo aveva recuperato la voce. Una donna dice di aver visto un ragazzo seduto come Ayyappan aleggiare sopra la cesta dei fiori durante una cerimonia. Una giovane paraplegica è stata portata al tempio per diverse settimane, dopo le quali, per la prima volta, le sue condizioni sono migliorate.

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cominciato a piangere davanti a Dio dicendo ‘non è colpa mia, sono stanco, ho

provato’.

I brāhmayi che hanno provato ad avere a che fare con Ayyappan non solo hanno

fallito nel loro compito ma, prendendo la cosa alla leggera, che può essere interpretato

come ‘facendo il rituale come sono abituati a farlo in altri templi, formalmente, senza

sentire nulla’, hanno scatenato l’ira della divinità, che ha provocato i loro giramenti di

capo e ha fatto prendere fuoco al dhotī. Il loro fallimento deriva dal fatto che la divinità

con cui si trovavano a che fare è abituata a tutt’altro trattamento, a ricevere cioè prove di

sincera devozione. La sua potenza, la forza della sua presenza, deriva dal nutrimento

d’amore che Guruswāmī le destina ogni singolo giorno. Solo lui è in grado di soddisfare

le sue esigenze, le quali sono proporzionali alla sua potenza e crescono con essa. In

quest’ottica i brāhmayi, visti come assenti esecutori di rituali ormai svuotati di

significato, non possono che fallire. Con tutta la loro conoscenza non vengono accettati,

proprio perché mancano di amore e sincero abbandono. Quale prova migliore della

legittimità dell’agire di Guruswāmī?

5.4 La bhakti come cibo impalpabile della divinità

L’originalità di alcune componenti del rituale, la quale non solo è legittimata ma

anche valorizzata, credo possa essere interpretata come conseguenza di una speciale

applicazione della bhakti: la devozione, oltre ad essere espressa personalmente e

collettivamente nella forma di canti (bhajana), assume una valenza pubblica11. Il rapporto

personale del bhakta con la divinità viene traslato sul piano del rituale attraverso

l’introduzione, entro uno schema “classico”, di modifiche sostanziali nello svolgimento

della pūjā. È il rapporto personale tra Guruswāmī e il suo Ayyappan il fulcro del rituale e

la fonte della sua potenza. La condivisione assume qui un significato ben più profondo e,

in un senso esclusivamente religioso, rivoluzionario: ciò che i presenti condividono non è

solo il sentimento d’amore espresso attraverso il pianto, il canto e le offerte. Attraverso la

11 “Lui ci mette tutto sé stesso. Il punto è che ciò che ha in lui, ha voglia di condividerlo” [S.].

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mediazione di colui che è ad un tempo figlio e padre della divinità si compie ogni giorno

il miracolo della sua manifestazione, che è prova della sua presenza. Ciò che egli

condivide è il frutto della sua bhakti, del suo rapporto personale con la divinità, rapporto

che egli coltiva da anni e nel quale, a partire dalla fondazione del tempio, può investire

tutto sé stesso.

Il piccolo Ayyappan che apparteneva, prima di essere installato al tempio, a

Guruswāmī, viene non solo descritto, ma anche trattato e, in definitiva, vissuto da lui

come un figlio. Come già detto, al tempio sono presenti due Ayyappan, i quali sono molto

diversi tra loro: tale diversità, esperita e sentita più che spiegata (dai fedeli come da

Guruswāmī e da suo figlio), viene giustificata da una differenza nelle modalità con cui

essi sono stati allevati:

Ci sono due Ayyappan e sono diversi uno dall’altro. È questo che tutti ammirano.

Normalmente in un tempio ci sono solo 18 scalini, sai i 18 scalini? Una volta sola.

Qui ce n’è due. Uno qui e uno li. Quello serve per l’Urushta che facciamo alla fine

del mese. Ti ricordi te ne ho parlato...l’Om con le candele, alla fine del mese siamo

obbligati a farlo per Lui [l’Ayyappan grande, quello comprato col denaro dei fedeli,

in seguito indicato con la lettera a] da quando era piccolo. E Lui [ l’Ayyappan di

famiglia in seguito indicato con la lettera b] senza i 18 scalini non può stare. È

abituato alla Upadhi pūjā [cerimonia in cui su ognuno dei 18 scalini si mette un

pezzo di canfora: incendiato il primo in basso, progressivamente il fuoco si propaga

agli altri. Rappresenta la distruzione dei 18 limiti dell’ego] che gli facciamo fin da

quando era piccolo. Un giorno mio padre ha provato a chiedergli se potevamo

smettere di farla o no e lui ha detto di no, ha fatto cadere qualcosa e ha detto di no.

Quindi c’era l’idea di fare delle due una sola, ma non abbiamo potuto. Ma

normalmente nei templi ce ne deve essere una sola di scalinata e i due [Ayyappan]

devono essere insieme. Ma loro… sono diversi.

[cioè?]

Uno [b] l’abbiamo allevato a modo nostro. L’altro [a] è stato allevato in maniera

neutra, nelle norme. Lui [b] ha un carattere piuttosto…sostenuto. Decide a suo

piacimento, ad esempio può non dargli i fiori quando li chiede. Ha un suo carattere.

Tu non puoi capirlo, ma a volte quando gli parla glielo dice: ‘Sono io che ti ho

cresciuto dammi i fiori, sei mio figlio, dammi!’. È dopo questo che Lui dà.

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L’altro [a] invece dà sempre. È veramente la persona che dà sempre. Perché quello

[b], vedi, è stato allevato nella nostra famiglia. L’altro [a] è fatto dall’oro dato dalle

persone, che avevano bisogno di qualcosa. Per questo cresce in maniera differente.

Se hai notato è sempre sorridente, mentre l’Altro [b]….eh no! Può farti dei brutti

scherzi e tu vai fuori di testa…Vedi, non posso spiegarti, io sento cose diverse con

l’Uno e con l’Altro, perché hanno due personalità differenti. Lui [b] ti fa piangere

prima di tutto, ti testa emotivamente. L’altro [a] sorride, niente di più. Lui [b] ha

qualcosa in più. Ma vuole qualcosa in cambio. Prima fai qualcosa per lui e poi avrai.

I due Ayyappan vengono descritti come persone con il proprio carattere, il quale

dipende dal modo in cui sono stati allevati. Quello che è stato allevato nelle norme si

dimostra sempre sorridente, una divinità bonacciona sempre disposta ad ascoltare e

soddisfare le richieste degli uomini. L’altro è più caratteriale, ha dei colpi di testa,

richiede maggiori attenzioni e cure, insomma non si può prenderlo alla leggera. Sa ciò che

vuole e se non lo ottiene ci saranno sicuramente delle conseguenze.

La crescita della divinità viene descritta attraverso l’utilizzo di termini che

rimandano all’allevamento di un bambino: come l’educazione parentale forgia il carattere

del bambino, allo stesso modo le modalità con cui si adora la divinità ne determinano il

carattere e la bhakti diviene qui il nutrimento che sostiene tale crescita. “Da quando è al

tempio cresce, cresce, cresce” mi ha detto Guruswāmī un giorno al termine della pūjā.

Alle mie richieste di spiegazioni ha risposto che la crescita sorprendente dipendeva dal

compimento quotidiano dei rituali che lo appagano. Egli si sazia solo delle espressioni

dell’amore che Suo padre gli fornisce quotidianamente. Quando questi non c’è non è la

stessa cosa: tutti se ne accorgono e c’è molta meno gente.

La crescita di cui parla Guruswāmī significa in definitiva l’aumento dell’energia

divina albergante nella mūrti. Tanto più forte è la potenza divina tanto più essa è difficile

da gestire, pericolosa, rischiosa per chi non la conosce o scherza con essa. È per questo

motivo che la presenza di Guruswāmī è fondamentale, direi addirittura essenziale:

attraverso di lui essa viene gestita correttamente, incanalata e resa fruibile.

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Page 94: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

5.5 Il rituale

Al tempio vengono condotte due pūjā giornaliere, alle 13 e alle 19. La mattina

invece le mūrti vengono svestite e lavate con sostanze diverse, tra cui latte, yogurt, succo

di agrumi, miele, acqua di rose e tante altre (Abhiseka). Nella sua struttura generale la

pūjā ripercorre le medesime tappe che negli altri templi: le mūrti vengono ornate,

l’incenso viene acceso, gli strumenti del rituale e il cibo offerto purificati, lampade di

diversa foggia e dimensione vengono presentate alla divinità, i suoi nomi vengono

recitati, fiori multicolori, ghirlande, frutti e dolcetti gli vengono offerti. Ci sono tuttavia

alcune tappe di questo percorso rituale in cui si immette un’originalità che, nonostante

alcune critiche, viene valorizzata dai fedeli del tempio come positiva, fresca e attirante.

Volendo procedere per ordine la prima modifica alla norma è introdotta durante la

preparazione delle mūrti. La decorazione delle statue, che include la vestizione e il trucco,

viene fatta da S. o da Guruswāmī in persona:

Quando ho cominciato avevo 13 anni e in pratica non ho imparato da nessuno, facevo

ciò che dovevo fare. Arrivavo al tempio e lo facevo e ci sono state delle persone, dei

brāhmayi che erano stupiti perché facevamo tutto questo senza essere brāhmayi (…)

tempo fa sono venuti dei brāhmayi e vedendo tutto ciò hanno cominciato ad avere

dei giramenti di testa e allora mi hanno sfidato. C’erano delle persone che ornavano

Gayeśa e gli altri e non aveva niente a che vedere con quello che facevo io, e questo

li innervosiva. E a un certo punto hanno cominciato a dirmi che ‘questo non si fa, non

hai il diritto di farlo così’. È pesante. Ma io ho continuato a fare come facevo e anche

loro alla fine mi dicono ‘mi dispiace, ti faccio le mie scuse, non avevo il diritto di

dirti quelle cose, eccetera, fate quello che volete, la decorazione è pur sempre

decorazione’. Di solito non si ha il diritto di disegnare dei baffi su una divinità, ma io

fin da quando sono piccolo, tutto quello che mi succede, lo riproduco. Prima avevo

questo (il pizzetto) e facevo questo, ora faccio i baffi e la barba (ride). E ci sono delle

persone che dicono ‘beh, ma le statue non sono mica li per giocarci’ e io : ‘faccio

quello che mi pare, ce l’ho da quando sono piccolo, quindi è come me’. Il fatto è che

non sono abituati a cose del genere, ma è anche questo che fa l’originalità.[S.]

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Page 95: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Il contatto che implicano questa serie di atti (la mūrti viene vestita, adornata,

ingioiellata) e la contaminazione conseguente richiede ovviamente che a compierli sia

qualcuno di puro: in questo caso soltanto Guruswāmī e suo figlio S. sono autorizzati a

farlo, nessun altro può avvicinarsi ad esse o toccarle. La decorazione della divinità assume

però qui una valenza nuova, non solo perché a compierla, come per il rituale nel suo

complesso, è un non-brāhmaya12 ma perché essa viene fatta senza seguire le norme, le

quali regolano la decorazione come la costruzione delle mūrti, poiché “only an image

made in accordance with the canon can be called beautiful” (Eck 1996: 51).

Nonostante ciò l’atto è visto come legittimo, in quanto scaturisce da un rapporto

diretto con la divinità. Il fatto, a maggior ragione per S., di non aver ricevuto alcuna

formazione, permette di lasciare spazio alla creatività in un atto che sarebbe altrimenti

guidato da canoni estetici precisi.

Secondo elemento di novità, la pūjā viene condotta interamente in tamil e non in

sanscrito. La gente sembra apprezzare questa modifica, in quanto rende il rituale

comprensibile e condivisibile. Essa non viene vissuta come una deformazione, un

allontanamento dalla norma, quanto piuttosto come un mezzo di coinvolgimento

maggiore dei presenti. Anche questa modifica ritengo vada interpretata alla luce della

specifica provenienza e formazione di Guruswāmī, la quale diviene motivo di modifiche

sostanziali: la non conoscenza del sanscrito e dei complessi mantra la cui recitazione

accompagna lo svolgimento del rituale non esclude la possibilità di rivolgere complesse e

raffinate odi alla divinità. Se si dice che il sanscrito sia la lingua degli dèi, è anche vero

che “Dio capisce tutte le lingue”. Purtroppo tra i grandi limiti della mia ricerca, come ho

sottolineato nell’introduzione, devo includere la non conoscenza del tamil: non mi è stato

quindi possibile analizzare adeguatamente la portata di questa innovazione, la quale

sarebbe però un interessante e prolifico ambito di indagine. Tra le originalità di questo

tempio infatti essa è, assieme alla caratteristica di cui tra breve, quella maggiormente

valorizzata dai devoti: la componente comunicativa verbale della cerimonia viene

anch’essa condivisa in quanto comprensibile, a differenza delle formule sanscrite il cui

significato rimane un mistero per i più.

12 In senso largo, come spiegato a inizio capitolo: qualcuno che non abbia una formazione tale da farne un officiante.

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La terza caratteristica si immette in un momento fondamentale del rituale: l’offerta

di fiori o di petali di fiori, che è una pratica abituale e osservabile in tutti i templi di

Parigi. Essa è associata alla recitazione dei nomi della divinità: il gesto ritma la

recitazione, in una corrispondenza cino-sonora. Fin qui quindi niente di particolare. Ciò

che è speciale è l’abbondanza che caratterizza qui tale atto. Mentre negli altri templi i fiori

vengono apposti uno alla volta, talvolta petalo per petalo, qui essi vengono offerti a

manciate. Durante questa fase della pūjā essi vengono passati ripetutamente a Guruswāmī

su un grande piatto da uno dei suoi aiutanti. Capitando al tempio il sabato mattina ci si

può render conto delle quantità di fiori che vengono utilizzati ogni settimana: una metà

della sala è occupata da grandi recipienti nei quali vengono smistati, dopo essere stati

ripuliti, e nei quali vengono conservati nei giorni successivi. Alcune donne preparano le

ghirlande che orneranno il collo delle divinità. Queste vengono circondate ogni giorno da

un nuovo giardino profumato e multicolore, del quale “gioiscono”.

Il fiore funge quindi da decorazione e da offerta oltre a rivestire un ultimo e

importante ruolo: esso è mezzo di espressione del divino. Durante la pūjā infatti,

terminata l’offerta dei fiori, che ricoprono in abbondanza la mūrti, Guruswāmī tende la

mano destra in avanti, verso Ayyappan. Attende, in silenzio, che Egli si riveli, facendo

cadere dei fiori, proprio nella sua mano. Se questo non avviene, se Egli rifiuta di darsi, lo

esorta fino a gridare e piangere. Il momento in cui i fiori cadono rappresenta un nuovo

climax del rituale. L’attenzione dei presenti è assoluta in questa fase della pūjā, gli

sguardi sono tutti concentrati sulla mano tesa ad attendere il miracolo. Un leggero grido si

leva quando questo avviene. Questo momento concentra in sé tutto il senso della

specificità di questo tempio: solo Guruswāmī può compierlo poiché è il suo rapporto con

Ayyappan, i cui frutti egli condivide, a renderlo possibile. Esso è prova di questo rapporto

padre-figlio che li unisce e manifestazione “a comando” del divino.

L’ultima specificità del tempio, che ne fa un caso unico a Parigi, è il fatto che

durante la parte finale della pūjā, prima dell’āratī conclusivo, i fedeli vengono invitati a

cantare. È questo un momento molto forte della cerimonia. Alcune donne, le quali a

differenza degli uomini rimangono spesso sedute durante la cerimonia, si alzano e, a

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memoria o seguendo un testo, si uniscono a Guruswāmī e ai suoi aiutanti nel canto delle

lodi di Ayyappan. La partecipazione è forte e sentita, la voce diviene mezzo di

espressione collettiva della propria devozione. Guruswāmī, che guida e ritma il canto, si

gira spesso verso i presenti per esortarli con gesti delle mani e la scansione delle sillabe

del canto. La partecipazione dei presenti è quindi non solo auspicata ma stimolata,

naturalmente entro modalità definite culturalmente. La loro presenza è quindi essenziale

al rituale, il quale non solo è fatto a loro beneficio ma da essi dipende nel suo buon

svolgimento.

Tutte le specificità elencate, al di là del loro valore intrinseco, svolgono anche

un’importante funzione pratica. Se durante la pūjā si concentra lo sguardo sui fedeli, si

noterà subitamente un’importante differenza nell’atteggiamento dei devoti in questo

tempio rispetto agli altri: l’attenzione verso il rituale è quasi totale, in ogni caso

sicuramente e palesemente maggiore che negli altri templi. Le originalità, come le chiama

S., di questo tempio, la decorazione delle mūrti, l’offerta dei fiori, l’uso del tamil al posto

del sanscrito, cosi come i canti, stimolano l’attenzione dei presenti, i quali sono visti non

come spettatori ma come attori in questo grande cerimoniale offerto alla divinità: tutti i

loro sensi sono appagati e al tempo stesso stimolati all’attenzione sul divino. In un certo

senso sono proprio le novità a permettere di raggiungere ciò che è lo scopo ed il senso

dell’intero rituale, magnificamente espresso nel commento di Ramanuja alla Bhagavad

Gītā:

they may enjoy me [il divino, in questo caso Krsya] by every one of their sense

faculties and in all diverse ways (Eck 1996: 49).

Le varie componenti della pūjā sono quindi volte a focalizzare i sensi dei devoti

nella loro interezza sul divino, così come la mūrti “is a support for meditation”(Eck 1996:

49): attraverso i sensi si aiuta la mente a focalizzarsi sul più puro dei pensieri, Dio.

Ai canti segue l’apposizione della vibhūti da parte di Guruswāmī. Questo atto

consiste nell’apposizione da parte di colui che ha condotto la pūjā della sacra cenere (che

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Page 98: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

è simbolo e sineddoche di Śiva in quanto asceta primigenio e distruttore dell’universo)

sulla fronte dei presenti. Essa è utilizzata in tutti i templi di Parigi, i quali si possono

definire come appartenenti alla corrente Śaiva dell’Induismo. Tuttavia quest’atto,

compiuto con disinvoltura e spesso disattenzione negli altri templi dove, forse, è

puramente simbolico, assume qui una funzione duplice: benedizione del guru, che

diviene egli stesso, durante la pūjā, ricettacolo del divino, e mezzo, attraverso

l’imposizione della mano destra, di un’indagine sensitiva. Attraverso questo gesto infatti

egli testa coloro che si recano al tempio. Al termine della cerimonia i presenti, uomini in

testa, formano una lunga fila: i primi a ricevere la vibhūti sono coloro che, in virtù della

loro particolare devozione, hanno accesso alla zona sacra durante la pūjā, in qualità di

aiutanti. Tra di essi figurano i due figli maschi di Guruswāmī, i figli (dall’età puberale in

poi) dei membri dell’associazione, e alcuni tra i più “competenti” dei devoti. Una sorta di

gerarchia informale e non dichiarata regola i compiti assegnati a ciascuno: essa è basata

sull’esperienza (in testa coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio, e quante volte

l’hanno compiuto), la frequentazione assidua e l’aiuto fornito al tempio, l’età e la famiglia

di appartenenza. Nessuno degli elementi, tranne naturalmente l’età, è necessario né

sufficiente: la prima e l’ultima parola è sempre quella di Guruswāmī.

Come dicevo essi sono i primi a ricevere la vibhūti, seguiti dagli uomini presenti e

dalle donne, le quali superano sempre di gran lunga gli uomini13. I fedeli si avvicinano a

Guruswāmī uno a uno, talvolta la mano destra a coprire la bocca in segno di rispetto, in

quanto il fiato è portatore dell’impurità relativa di ciascuno. Per lo stesso motivo non si

spengono le lampade (nella cui fiamma risiede il divino) col soffio ma con un movimento

della mano o con un fiore. Gli occhi si chiudono o lo sguardo si abbassa, la fronte viene

offerta alla mano che è divenuta mano divina. Guruswāmī assume progressivamente nel

corso del rituale uno stato che è extra-normale: “non è più qui” mi è stato detto diverse

volte. Progressivamente egli supera la sua natura umana, limitata, trascende sé stesso:

diviene Dio e Dio viene in lui. La vibhūti è qui non solo simbolo, ma veicolo concreto del

sacro, apposto da colui che è, seppur temporaneamente, il divino. Inoltre l’onniscenza che

caratterizzerebbe questo stato è prova concreta della sua realtà. Pare che coloro che si

recano al tempio avendo trasgredito le regole di purezza richieste per accedervi (è

13 Il venerdi e nel weekend il tempio può contenere fino a 150 persone circa. In settimana i fedeli sono decisamente meno. In ogni caso le donne sono sempre il doppio o il triplo degli uomini.

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importante notare che la trasgressione è meno grave se a compierla è qualcuno che non

conosce le regole), in particolare avendo mangiato carne o bevuto dell’alcool, vengano

individuati e cacciati in malo modo da Guruswāmī nel momento dell’apposizione della

cenere sacra14. È importante notare anche che tale stato è temporaneo: “dopo si dimentica

tutto”, mi ha detto una signora sulla sessantina, srilankese come quasi tutti i presenti, e

giunta in Francia recentemente, dopo aver vissuto 15 anni in Tamil Nadu. Egli non agisce

quindi in sé: la sua voce e i suoi gesti sono guidati dà Ayyappan. Il fatto che le regole,

spiegate come regole di igiene da un lato, e rispetto dall’altro, siano le medesime che

negli altri templi, e siano regole di purezza relativa culturalmente definite, non è oggetto

di osservazione. Ciò che è speciale qui è la presenza di un vero guru il quale oltre a

guidare i suoi allievi, individua i potenziali pericoli: in tal modo è vissuta la presenza di

“cuori non sinceri”, di persone cioè che vengono al tempio per fini diversi da quelli

religiosi e che non rispettano le regole di condotta, provocando danno all’intera comunità.

L’idea di un’influenza negativa forte esercitata da parte di individui di questo genere,

attraverso non solo l’impurità fisica, ma soprattutto attraverso i cattivi pensieri e l’invidia,

che vengono “inviati” attraverso il medium visivo, è al centro delle preoccupazioni di

Guruswāmī: il ruolo di spicco che egli riveste nella comunità espone lui e la sua famiglia

al malocchio e la santità e potenza del tempio è messa in pericolo da tali presenze. È in

tale senso che va interpretata la particolare importanza dell’apposizione della cenere

sacra.

Quest’atto è compiuto con grande sacralità: la cenere viene apposta con il pollice

della mano destra, il quale percorre verticalmente tutta la fronte, nel suo centro, con un

certo vigore. Ciò su cui posso pronunciarmi con sicurezza è l’importanza fondamentale

dell’apposizione della vibhūti, in quanto atto trasformativo: esso non solo è auspicato,

ricercato, in quanto benedizione ma è al contempo necessario atto di purificazione. Non a

caso, per i fedeli, l’ingresso nella zona sacra del tempio è ad esso immediatamente

successivo. Essi non hanno accesso in nessun altro momento (a differenza di altri templi

in cui, per ragioni diverse, le mūrti sono sempre o quasi sempre disponibili al visitatore),

e il compimento della pradaksiyā, la circumambulazione rituale in senso orario, durante

la quale è possibile toccare le pareti del garbhagrha o la base del suo ingresso, è

14 Nonostante molte persone mi abbiano parlato di casi simili, non vi ho personalmente mai assistito.

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sottoposto alla previa purificazione che l’applicazione della cenere sacra implica. Ogni

contatto infatti comporta una trasmissione-mescolamento di sostanze ed è per questo che

la purezza, intesa come concetto relativo e come stato temporaneo, è così valorizzata.

L’apposizione della vibhūti rappresenta il completamento di un percorso trasformativo

che porta all’identificazione temporanea dell’adorante con la divinità.

Tutte le specificità del tempio di Ayyappan sopra riportate rappresentano quindi

non solo la conseguenza dell’origine ed esperienza di Guruswāmī ma sono anche

funzionali e dipendenti da una specifica visione del sacro, che, in definitiva, è quella della

bhakti: il rapporto personale del bhakta con la sua divinità (la quale è sentita più che

scelta), la componente emozionale di tale rapporto e l’accento posto sulla condivisione ne

sono il focus. Entrambe le cose si combinano poi con le possibilità contestuali e con ciò

che chiamiamo “eredità culturale”, con quelle concezioni antropologiche, cosmologiche,

ontologiche che riuniamo sotto la grande etichetta di ‘cultura’.

5.6 Il cibo: legame e simbolo

Per concludere la trattazione relativa al tempio di Ayyappan, la quale richiederebbe

una ricerca a sé stante, mi soffermerò su un elemento che non solo è fondamentale per il

caso etnografico in questione, ma è di un’importanza ampiamente sottolineata per il

rituale hindū nella sua generalità.

Come già detto alla base della fondazione del tempio di Ayyappan a La Courneuve

sta un desiderio di condivisione. Con-dividere: il termine implica la divisione con altri di

un bene che è sentito o che si vuole comune. Tra gli atti sociali che una certa antropologia

ha definito universali troviamo sicuramente il consumo di cibo:

che il cibo sia un fatto culturale e sociale è assodato, anzi è un fatto sociale totale, per

prendere le mosse da Marcel Mauss o, citando Roland Barthes, esso «è in ogni luogo

e in ogni epoca un atto sociale» (Guigoni 2004: 13).

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Al tempio di Ayyappan grande importanza viene data al cibo, più che in altri templi.

La cosa più importante per i suoi devoti è dare, soprattutto nutrire. Per questo ogni

giorno, per pranzo e cena viene offerto un pasto, abbondante, a tutti i presenti, senza

distinzioni. La qualità del cibo, che viene offerto ad Ayyappan come ai presenti, è molto

importante. Per questo solo i membri dell’associazione possono prepararlo, mentre alcune

persone particolarmente devote, che si recano al tempio quasi tutti i giorni, possono

aiutare a distribuirlo o a pulire la sala dopo il pasto. Inoltre alcune regole che si richiede di

rispettare al tempio, come, per le donne, tenere i capelli legati, sono volte soprattutto a

evitare rischi di contaminazione e inquinamento del cibo.

Credo che il cibo (nel caso in questione) racchiuda in sé il senso del tempio come

luogo comunitario: è mezzo di trasmissione e affermazione identitaria da un lato, in

quanto preparato e consumato “come in Sri Lanka”15; è pasto comune, consumato

contemporaneamente e indistintamente da tutti, e in questo senso esprime la peculiarità di

questo tempio dove, proprio in quanto luogo del religioso, le gerarchie sociali vengono

lasciate da parte16; ed è l’unica modalità “non-spirituale” di aiuto che viene data. Molti

sans papiers, letteralmente ‘senza documenti’, immigrati srilankesi tamil senza permesso

di soggiorno, vengono al tempio per ricevere un pasto caldo e del cibo al quale sono

abituati. “Le persone lo sanno che in questo tempio trovano un sostegno”.

L’idea che sta alla base della creazione di questo tempio è la condivisione e il cibo è

a un tempo mezzo e simbolo di questa visione.

L’importanza del cibo è non solo sottolineata dai responsabili del tempio e da

Guruswāmī in particolare, ma è anche facilmente osservabile, soprattutto se si mette a

confronto l’attitudine verso di esso riscontrabile negli altri templi.

15 Il cibo è anche strumento di differenziazione tra gruppi sociali, etnici e culturali. Come ha sostenuto Mary Douglas, il cibo rappresenta un importante mezzo comunicativo, attraverso il quale l’individuo esprime sé stesso e si differenzia dagli altri: l’analogia tra cibo e codice comunicativo implica una visione del cibo come veicolo di informazioni circa ruolo, status, età, genere e in definitiva di rapporti e gerarchie sociali. Attraverso il cibo cioè vengono veicolati messaggi “utili”, al farsi e rifarsi del sé e delle sue strutture interne, e al suo rapporto di differenziazione con l’altro. I gusti nell’alimentazione sono tra i principali oggetti di stereotipi e ad oggi l’identificazione dell’altro attraverso “i suoi ristoranti” è un dato di fatto. Inoltre il gusto dell’esotico si può dire passi oggi principalmente attraverso l’alimentazione.16 È importante sottolineare qui quanto tale posizione sia limitata agli affari religiosi e alla vita entro le mura del tempio: siamo tutti uguali di fonte a Dio, ma (all’interno della comunità) nella vita quotidiana la gerarchia castale è sempre presente e senza che questo crei alcuna contraddizione.

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Tenendo in considerazione che l’offerta di cibo è uno degli atti fondamentali con

cui si onorano le divinità e che l’atto del donare non è unidirezionale, ma implica una

reciprocità di dare e ricevere, la quale è espressa nel consumo del prasād, si capirà come

la condivisione di questo atto finale rappresenti simbolicamente e fisicamente (da un

punto di vista “interno”) il legame tra tutti gli elementi, umani e divini, che prendono

parte alla pūjā. Non solo quindi il legame tra umano e divino, espresso nel consumo dei

resti del pasto che è stato offerto a Dio, ma anche il legame tra umano e umano, qui (e

solo qui) considerati nella loro componente non-sociale: l’irrilevanza dei ruoli e delle

gerarchie sociali espresse nell’appartenenza castale, sta alla base della fondazione del

tempio e ne rappresenta l’unicità nel panorama parigino. Il fatto che Guruswāmī

condivida con i devoti anche il pasto, sedendo tra loro, a contatto con loro, sottolinea

l’uguaglianza (di fronte a Dio!) di tutti i presenti.

Il fatto che egli non provenga dalla casta dei Brāhmayi è ovviamente molto

rilevante, ma, a mio parere, non è sufficiente a rendere conto delle specificità del tempio e

della sua gestione: queste rivelano piuttosto una precisa visione del mondo. Egli,

nonostante la sua provenienza castale, possiede uno statuto diverso e superiore agli altri, e

ciò è fuori discussione: si pensi ad esempio al fatto che tutti i presenti, nessuno escluso, si

piegano, dopo aver ricevuto la vibhūti, a toccare i suoi piedi con le mani. È questo un atto

di rispetto e una dichiarazione di minorità relativa e raramente l’ho visto compiere negli

altri templi. Se egli, in virtù di tale superiorità, sedesse a parte nel consumare il suo pasto

o addirittura non prendesse per niente parte ad esso, come fanno i Brāhmayi negli altri

templi, non credo che la cosa susciterebbe reazioni particolari da parte dei presenti.

Nonostante tale statuto, il quale egli non deve alla nascita ma al suo rapporto diretto e

personale col divino e alla sua conseguente santità, egli si siede in mezzo ai presenti per

nutrirsi con loro del prasād, esprimendo, ancora una volta, l’importanza del condividere

l’amore e la devozione per Dio e il rapporto diretto con esso, di cui il cibo diviene qui

strumento e simbolo17.

17 Naturalmente è vero anche il contrario: tra i devoti del tempio molto probabilmente alcuni sono di casta superiore a Guruswāmī. Anche per loro questa convivialità rappresenta un importante trascesi delle norme di purezza che regolano le relazioni intercastali. Questi cambiamenti inoltre sono sicuramente influenzati dal nuovo contesto di vita, come si è spiegato nel capitolo II.

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Tradizionalmente il compito di preparare il cibo che viene offerto alla divinità e poi

come prasād ai devoti, spetta ad un brāhmaya. Al tempio di Ayyappan esso è affidato

alle donne dell’associazione. Una simili modifica della prassi viene documentata da J.

Waghorne che riferendosi al tempio di Śiva e Visyu di Lanham, Maryland (USA) dice:

When women now make this prashad, sanctified meals eaten by devotees as a

sacrament, they are assuming a priestly role; ther domestic task has expanded (1999:

123).

Tale riflessione può essere applicata anche al caso in questione: nonostante il loro

ruolo sia sempre molto limitato, il nuovo contesto permette di rinnovare i compiti che

vengono affidati alle donne della comunità: l’importanza del cibo richiede che a preparalo

sia una mano non più pura per nascita e “formazione” ma per sincera devozione e

profondità di cuore (e regole di condotta, naturalmente, le quali sono richieste a tutti

coloro che si recano al tempio). In questo caso, essendo l’associazione composta da

cinque donne e un solo uomo, Guruswāmī, sono le donne ad occuparsi di questo

importantissimo atto quotidiano, investendo un compito che normalmente è privato,

domestico, di un nuovo valore.

Il caso riportato dalla Waghorne, nonostante tale punto in comune, rivela però un

carattere diametralmente opposto nel momento della fruizione del cibo. Nel Shri Shiva-

Vishnu Temple infatti il momento chiave rappresentato dalla condivisione del prasād è

stato desacralizzato e ridotto ad un semplice pasto: la separazione di quest’atto dal suo

significato e dal suo “scopo” originario è reso ancor più fortemente dalla divisione

spaziale dei locali del tempio, in cui la cucina e l’annessa “sala ristorante” si trovano non

solo separati ma al piano inferiore rispetto al tempio. Ciò che viene servito alla grande

famiglia dei devoti e che viene mangiato con posate di plastica, è solo l’ombra diafana del

prasād, molto più simile a un pranzo profano che ai resti, carichi di divino, del pasto di

Dio.

Al tempio di Ayyappan a La Courneuve invece la consumazione del pasto si svolge

di fronte alla magnificenza delle mūrti, circondati dal profumo dell’incenso, incantati dai

canti devozionali riprodotti senza sosta da un piccolo stereo. Al termine della pūjā, i

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presenti si siedono a gambe incrociate in file ordinate, pronti a ricevere il prasād. Nelle

occasioni speciali il pasto viene servite su foglie di banano, altrimenti in piatti di carta e si

mangia rigorosamente con le mani. La fruizione del pasto quindi avviene

temporaneamente e spazialmente a contatto col divino e con l’atto dell’onorarlo appena

conclusosi. Esso non è solo momento di socialità, occasione di mangiare come e ciò che si

mangiava au pays, ma conserva tutta la sua valenza sacra, la quale viene espressa e

valorizzata da Guruswāmī stesso il quale considera come irrispettoso colui che partecipa

alla cerimonia ma parte senza aver mangiato.

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Capitolo VI

IL SRI AYYAPPAN TEMPLE DI SAINT DENIS

6.1 La scoperta del tempio

Il Sri Ayyappan Temple di Saint Denis si trova in un grande locale precedentemente

adibito a magazzino, in una zona non residenziale della periferia nord di Parigi1, sede

principalmente di grandi aziende, e a 15 minuti a piedi dalla stazione della RER, la rete di

treni che collega Parigi all’Ile-de-France. A meno di non possedere una macchina quindi,

arrivare al tempio è lungo e faticoso, soprattutto nelle fredde e buie giornate invernali.

Sono venuta a conoscenza dell’esistenza del tempio casualmente, tramite una locandina

affissa vicino al Temple de Mutthumariamman a La Chapelle2, in cui figurava

fortunatamente l’indirizzo scritto in francese. La settimana seguente, armata di cartina,

sono andata a cercarlo, ma non è stato facile, poiché non c’è alcun cartello che indichi la

presenza del tempio, solo sul portone d’ingresso e sulla casella delle lettere è riportato in

tamil il suo nome. Dopo aver suonato ripetutamente il campanello, un signore, che

successivamente ho scoperto essere il fondatore, è venuto ad aprirmi, dicendomi che il

tempio era chiuso e di tornare il giorno dopo, nel pomeriggio. E così ho fatto. Da allora

mi sono recata al tempio soprattutto di venerdì per la pūjā serale. Dei tre giorni di apertura

infatti il venerdì è quello meno frenetico e in cui c’è meno gente: spesso questo

rappresentava per me un vantaggio, in quanto significava più tempo dedicabile alle

conversazioni. Solitamente arrivavo al tempio molto in anticipo rispetto all’inizio della

pūjā, quasi contemporaneamente agli uomini che si occupano delle mansioni di routine

come pulire e preparare il cibo. Di fronte ad una calda tazza di zuccheratissimo chai,

passavo una o due ore a conversare col fondatore e presidente del tempio, prima di

partecipare alla cerimonia.

1 Al 285-287 della lunghissima Avenue du President Wilson, 93210 La Plaine Saint Denis-France.2 Nonostante questo i due templi non hanno alcun tipo di collaborazione o legame.

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6.2 Il koyil e la concentrazione spaziale del sacro: l’importanza del visivo

Il tempio è composto da una grande sala principale, dal soffitto molto alto, e da

quattro piccole stanzette: l’ufficio del fondatore (che è anche la sua camera da letto), una

piccola cucina, un bagno e uno sgabuzzino dove sono stipati tutti gli strumenti rituali.

Corrispondente alla zona “profana” del tempio, e sormontante tutte queste stanzette, è

stato creato un soppalco, che funge da “camerino” per coloro che necessitano cambiarsi

d’abito e indossare i vestiti tradizionali, segno di pulizia e rispetto, in quanto usati

esclusivamente al tempio. Come in quasi tutti i templi di Parigi, eccetto il Sivan-Parvathi

Temple a La Courneuve e il Temple de Mutthumariyamman a La Chapelle, la grande sala

principale è divisa in due zone: l’area delle divinità e l’area profana ad essa speculare. Al

Sri Ayyappan temple esse sono separabili da una lunga tenda che però non ho mai visto

utilizzare. La separazione di questi due spazi è comunque percepibile grazie alle

proiezioni architettoniche della linea lungo la quale corre la tenda, nello spazio

verticalmente corrispondente: lo scarto cromatico nel pavimento e la chiusura del

soppalco soprastante rendono fortemente percepibile la contigua diversità di due mondi,

l’umano e il divino, che trovano uguale dimora nel tempio e ne rappresentano la ragion

d’essere. Ne consegue una concentrazione spaziale del sacro in una porzione della sala, il

che rende possibile la fruizione visiva simultanea di quasi tutte le mūrti. La disposizione

di queste ultime segue una logica di organizzazione gerarchica dello spazio:

immediatamente visibili al visitatore si trovano sul fondo della sala le tre mūrti principali,

Ayyappan al centro, Gayeśa a sinistra e Laksmī-Nārāyaya a destra, ciascuna nella propria

cappella. Al tempio vi si riferiscono col termine tamil koyil (tempio). L’uso di tale

termine, utilizzato normalmente per il tempio nella sua interezza penso sia dovuto alle

modificazioni architettoniche che il contesto francese ha reso necessarie. Di tutti i templi

presenti a Parigi nessuno è stato costruito ex-novo, secondo i dettami della scienza

architettonica (vāstuśastra). Sono tutti ospitati in sale, più o meno grandi,

precedentemente adibite ad attività profane: spesso si tratta di ex-magazzini, atelier

d’artigiani, piccole fabbriche, garages3. Nessuno di essi, tranne il tempio di Śiva e Pārvatī

3 Le difficoltà legate alla costruzione di un “vero” tempio sono principalmente economiche e logistiche: i prezzi elevatissimi dei terreni e la necessità di restare in zone ben servite dai trasporti.

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(sulla cui facciata sono state applicate piccole statue, a formare una specie di gopuram

bidimensionale) mostra esternamente elementi architettonici che facciano presumere la

presenza di un tempio. Ciò a cui ci si riferisce col termine di ‘koyil’ o ‘kovil’ non è più

quindi il tempio nel suo complesso ma “il grembo della divinità”, il quale viene

sormontato da una struttura che ne fa un tempio in miniatura, all’interno di un luogo privo

di elementi che lo rendano riconoscibile in quanto tale.

La sovrapposizione di due elementi architettonici altrimenti distinti, il tempio e il

suo santuario più interno, grembo della mūrti, è funzionale ad una traslazione, o meglio,

ad una concentrazione, di significati ed esperienze visive. Parlando del tempio hindū S.

Kramrisch dice:

Un tempio indù, diversamente dall’Altare vedico, non esaurisce il suo scopo

nell’essere costruito; deve necessariamente essere visto. Darśana, il guardare il tempio,

sede, dimora e corpo della divinità, e il suo culto (pūjā) sono il fine della visita al

tempio (1976: 162).

La concentrazione in un unico elemento del santuario interno, sede della divinità, e

della sovrastruttura, porta alla sovrapposizione dei due fondamentali atti visivi che

caratterizzano la visita al tempio: la vista della sua forma esterna, in quanto dimora della

divinità stessa e la vista della mūrti. Infatti “la casa di Dio (devālaya) è la manifestazione

concreta (mūrti) di Śiva o di qualsiasi altro nome nel quale sia contemplato il Principio

Supremo, nello stesso grado della sua immagine corrispondente (mūrti)” (Kramrisch

1976: 158)

Come dicevo, quindi, tre kovil, contenenti rispettivamente Gayeśa, Ayyappan e

Laksmī-Nārāyaya, occupano il fondo della stanza. Alla destra del visitatore altre due

piccole cappelle, ospitano la prima Ayyappan nella sua forma mobile (utilizzata per

compiere un défilé interno al tempio, non avendo i permessi per farlo in strada) e l’altro

tre piccole mūrti di suoi relativi avatāra: Dharmaśasta al centro accompagnato dalle due

mogli, Pūna e Puskala, Ayyappan nella sua forma infantile e nella sua forma che uccide

Mahisi.

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Le mūrti del tempio sono state tutte fabbricate in India, in “giorni di buon auspicio”,

sottolinea il fondatore. È per questo, sostiene lui, che risplendono come se fossero fatte in

oro, mentre sono costituite dal Pañcaloha, una lega di cinque metalli, con la quale

vengono tradizionalmente fatte le mūrti. Sottolineare la loro luminosità è un modo per

comunicare in termini visivi la presenza della divinità, il suo risiedere nella concretezza

del metallo trasfigurandone le caratteristiche fisiche.

6.3 Divino e umano come identità reciprocamente costruite

Il Sri Ayyappan Temple è stato fondato dieci anni fa dal signor Muthukumarasamy,

un ex-giornalista srilankese di 69 anni, ormai in pensione. Il signor Muthukumarasamy è

un uomo cosmopolita, che grazie al suo lavoro ha potuto viaggiare moltissimo: a quanto

mi ha riferito lui stesso, ha scritto non solo per i più importanti giornali srilankesi, ma

anche per testate americane e russe, ha partecipato a convegni in tutto il mondo, ha

incontrato e intervistato grandi personalità e ha lavorato anche per le Nazioni Unite.

Ovviamente parla perfettamente inglese e anche il suo francese è piuttosto fluente.

Muthukumarasamy è arrivato in Francia trent’anni fa, ma non sono riuscita a scoprire le

ragioni che hanno motivato la scelta di stabilirvisi, qualsiasi questione diretta in tal senso

è stata bypassata con eleganza. In ogni caso non credo siano legate a motivazioni

politiche, né all’aumentare delle tensioni interetniche in Sri Lanka4: proveniente dall’elite

4 Muthukumarasamy è molto più legato all’India, dove si reca spesso e dove conosce molte persone, che al suo paese d’origine. Tale legame è rintracciabile chiaramente nei suoi discorsi: in tutte le nostre conversazioni solo due o tre volte ha menzionato lo Sri Lanka e i problemi della minoranza tamil, da cui peraltro proviene. Non credo sia forte in lui il senso di appartenenza alla comunità tamil di Parigi, con cui ha rapporti solo grazie al tempio. Egli è invece particolarmente legato all’immagine della “spiritual India”, dove lui e i suoi figli si recano appena possibile per viaggi devozionali e dove viene mantenuta una rete di contatti, amicizie e legami dalle connotazioni spiccatamente religiose. Grazie a queste conoscenze riesce a praticare “a distanza” in alcuni importanti templi. Questi amici fanno celebrare con regolarità delle arcanā per lui e tramite il loro aiuto fa offerte di vario tipo nei principali templi del Sud India: per un tempio dedicato a Krsya ha acquistato una mucca, in modo che dal suo latte possa essere preparato il ghī utilizzato giornalmente per l’abhiseka; regolarmente finanzia degli abhiseka nel tempio di Tirumanavali, per Śiva. Questo legame con l’India, terra sacra dell’Induismo, risponde, con palese chiarezza nel caso di Muthukumarasamy come di altri fedeli di origine non indiana che ho potuto incontrare soprattutto al tempio di Saint Denis e al tempio di Gayeśa, ad un immaginario condiviso che fa dell’India la madre e degli induisti i figli sparsi per il mondo: il legame che si istituisce è principalmente a livello di immaginario e il mito del viaggio verso questa terra sacra rappresenta un tentativo di concretizzazione. Tale visione dell’India non mi è però sembrata presente o forte in molti templi fondati da srilankesi: sono in particolare il

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tamil cosmopolita e anglofona, e appartenente alla casta dominante, i Vellala, ha condotto

i suoi studi in Inghilterra e in Germania. Successivamente è tornato in Sri Lanka, per poi

spostarsi nelle Filippine, a Singapore e infine in Francia. Installatosi a Parigi, dopo pochi

anni ha perso la sua giovane moglie, ed è rimasto solo a crescere i loro due figli, ancora

piccoli. La morte della moglie, poco più che trentenne, pare lo abbia gettato nel più

grande sconforto. È qui che entra nel racconto uno dei topoi classici delle storie di vita

che ho ascoltato nei due templi di Ayyappan: Muthukumarasamy comincia a bere, ma

l’uso di alcool non fa che abbatterlo ancora di più. È solo qualche tempo dopo (il racconto

è molto vago) che riesce a risollevarsi da questo periodo buio, proprio grazie alla scoperta

di Ayyappan, di cui viene a conoscenza grazie ad un amico incontrato casualmente nel

periodo di preparazione al pellegrinaggio in Kerala. Nella sua memoria la durata di tutti

questi periodi è piuttosto vaga: avendo fondato il tempio già dieci anni fa deduce aver

ritrovato la giusta via almeno vent’anni fa. Ma in fondo i particolari cronologici non

hanno una grande importanza. Ciò che è interessante notare è la somiglianza delle

esperienze raccontate dai fedeli di Ayyappan, la ripetizione variata della medesima storia.

Essa comincia sempre con la descrizione di una condizione di disgrazia, morale

innanzitutto e talvolta economica: il protagonista è portato, per cause diverse, a condurre

una vita disdicevole, si allontana dalla religione, per altro insegnatagli dai suoi genitori, e

si avvicina all’alcool. Poi un giorno, il miracolo: un segno, un incontro, una visione, lo

conduce verso Ayyappan e da allora, compiuta la metamorfosi in pio devoto, egli vede la

sua vita trasformarsi radicalmente, le sue pene scomparire, le sue richieste ascoltate e il

passato allontanarsi. La storia del signor Muthukumarasamy, seppur scarsa nei particolari,

risponde al medesimo schema narrativo.

Ascoltando Muthukumarasamy nel racconto della sua vita ci si rende facilmente

conto di come il tempio rappresenti per lui una specie di sintesi, il culmine di un percorso

spirituale e affettivo ad un tempo. I tre koyil principali presenti al tempio uno di fianco

all’altro rappresentano tre fasi importanti della sua vita, nella quale i cambiamenti dell’in-

dividuo (Solinas 2006) corrono paralleli alle trasformazioni del devoto. Gayapati, alla

Sri Manicka Vinayakar Alayam, dove i Brāhmaya vengono reclutati in India, e il tempio di Saint Denis, con la sua visione spiccatamente neo-advaita ad aver manifestato tale legame.

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sinistra del visitatore, è legato alla sua infanzia, allo Sri Lanka, ai ricordi della sua

famiglia e alla piccola stanza della pūjā dove per la prima volta è stato miracolato:

Avevo dieci anni, ero solo a casa, in Sri Lanka. E uno scorpione mi ha morso, ma io

ero solo, mio padre era al lavoro e mia madre era lontana. Sai, quando ti morde uno

scorpione devi andare subito all’ospedale per avere l’antidoto. Ma non era possibile,

ero solo a casa. E allora sono andato nella stanza della pūjā, mi sono inginocchiato

davanti a Gayeśa e l’ho pregato, l’ho pregato di aiutarmi. Ho pregato, ho pregato, ho

pregato. E allora mi sono addormentato. E quando ti morde uno scorpione non

bisogna assolutamente addormentarsi, bisogna restare svegli e andare all’ospedale

per l’antidoto. Ma io mi sono addormentato davanti a Lui e l’indomani stavo bene 5.

Laksmī-Nārāyaya alla destra del visitatore è stata invece la coppia divina a cui ha

rivolto maggiormente la sua devozione durante il periodo mondano della sua vita, quando

viaggiava in qualità di giornalista in tutto il mondo. Egli ricorda questo periodo con

evidente emozione: era giovane, ricco, sempre circondato da personalità importanti,

intellettuali e colleghi giornalisti provenienti da tutti i paesi, alloggiava in alberghi

sontuosi e conosceva donne bellissime. Veniva trattato, mi ha detto una volta, “come un

maharaja”. La coppia formata da Nārāyaya (Visyu) e dalla sua consorte Laksmī, dea della

prosperità e della ricchezza, rappresenta il prototipo della vita coniugale, cosi come

Laksmī “personifies the ideal of conjugal trust and forbearance” (Smith 1997: 139). Nella

mitologia hindū essa rappresenta la necessaria controparte femminile del dio Visyu al

quale fornisce, come agli uomini, prosperità e ricchezza per il mantenimento e la

preservazione del creato.

In association with Vishnu, Lakshmi provides a picture of marital contentment, domestic

order, satisfying cooperation and beneficial interdependence between male and female.

In most iconographic representations of the pair, they are pictured as smiling, happy

couple (Kinsley 1995: 65).

5 Le nostre conversazioni si sono svolte, a parte la prima, quasi interamente in inglese. Nonostante parli piuttosto correttamente anche il francese, la comunicazione in inglese è risultata più fluida e, in definitiva, più ricca di possibili nuances.

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La coppia Laksmī-Nārāyaya è quindi strettamente legata alla realizzazione

dell’uomo e della donna in quanto uniti nella formazione di una famiglia, per la quale si

auspica e si chiede prosperità e benessere. Baciato dalla fortuna, ricco e con un’ottima

posizione sociale, affiancato da una donna “molto intelligente e sensibile” che era anche

“un’ottima madre e una moglie perfetta”, si può dire avesse realizzato l’ideale hindū

dell’“uomo-nel-mondo”.

Tale periodo viene bruscamente interrotto dalla morte della giovane moglie a cui,

come si è detto, fa seguito la depressione, la solitudine e l’alcolismo. Ma si tratta solo di

una parentesi da cui egli riesce ad uscire grazie ad Ayyappan e al ritrovato interesse per la

vita, questa volta in una prospettiva diversa, di ricerca spirituale. La fondazione del

tempio in Suo onore gli viene suggerita in sogno dallo stesso Ayyappan qualche anno

dopo: dovrà farlo al massimo delle sue possibilità e dovrà farne un “luogo di pace e

raccoglimento; un luogo dove coltivare e da dove emanare amore per tutta l’umanità”.

In mezzo a Gayapati e a Laksmī-Nārāyaya si trova quindi Ayyappan, divinità

principale del tempio. Nonostante Egli sia presente, marginalmente, in altre forme, tra cui

quella con due mogli, le due mūrti principali lo rappresentano nella sua forma celibe, di

brahmacarya, la medesima che si trova al tempio di Sabarimala, in Kerala.

Ciò su cui ho concentrato la mia attenzione durante il terreno condotto in questo

tempio, il quale si è sviluppato parallelamente alla frequentazione del tempio de La

Courneuve, è la modalità in cui il fondatore e suo figlio vivono il rapporto con questa

divinità, la quale può essere giustamente definita come un “hyper-male acetic renouncer”

(Osella 2003). I punti in questione nell’analisi di tale rapporto sono due: da un lato la

preferenza accordata ad una divinità e il rapporto che s’instaura con essa, dall’altro le

modalità d’identificazione con l’alterità divina.

Per sviluppare la problematica appena accennata e, a mio parere, fornire un’analisi

adeguata del tempio cui è dedicato il presente capitolo, mi permetto qui di aprire una

breve parentesi di stampo comparativo, sperando che non crei irriducibili fratture nel

flusso descrittivo da poco cominciato. I due templi di Ayyappan di Parigi infatti mostrano

caratteristiche molto differenti che il loro confronto potrebbe chiarire: il rapporto e

l’identificazione col divino di cui sopra sono non solo di natura qualitativamente diversa,

ma si sviluppano anche in direzioni dissimili.

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Page 112: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

In un interessante e denso articolo Filippo e Caroline Osella, grandi specialistici del

Kerala, prendono in considerazione il pellegrinaggio a Sabarimala, sede del primo e più

importante tempio di Ayyappan e meta, ogni anno, di milioni di fedeli. Tale

pellegrinaggio è ristretto ad un pubblico maschile mentre le donne sono escluse nella

misura in cui siano potenzialmente contaminanti: questo significa che solo le bambine in

età pre-puberale e le donne in menopausa hanno accesso al pellegrinaggio e al tempio che

ne è la meta. Il pellegrinaggio è quindi quasi interamente maschile come iper-mascolina è

la divinità cui si rende visita e con la quale si instaura una stretta identificazione durante

l’intero percorso e il periodo preparatorio che lo precede. Secondo i due studiosi esso

rappresenta “a gender-specific ritual activity involving two separate forms of union. On

the one hand it merges individual men with a hyper-masculine deity –himself born from

Shiva and Vishnu, two male deities. On the other it merges each mate partecipant with a

lager community of men: other male pilgrims with whom one goes to Sabarimala; the

mass of pilgrims one encounters en route to, and at, the shrine; and, ultimately, the

category of men as a whole” (Osella 2003: 730). Tale comunità è da un lato spiccatamente

egualitaria, nella sua componente devozionale (essi si rivolgono reciprocamente con il

termine swāmī, termine generalmente usato per rivolgersi ad un guru, un maestro

spirituale), dall’altro l’aspetto gerarchico è presente nella misura in cui i devoti si

abbandonano alla guida del proprio guruswāmī (ogni gruppo di pellegrini ha il proprio

leader) e ad Ayyappan. Quest’ultimo, in quanto eterno asceta, funge da modello e oggetto

di identificazione per i devoti, i quali sperimentano nei 41 giorni che precedono il

pellegrinaggio e durante lo stesso la vita del rinunciante. “Pilgrimage preparation acts

unequivocally as a rite of passage. (…) they lose their social identity and become

sannyasis (renouncers) incorporated into a wider undifferentiated community of men,

while at the same time ‘becoming like’Ayyappan himself” (Osella 2003: 736). Durante la

pūjā che dà inizio al periodo di astinenze in molti momenti si manifesta un chiaro

simbolismo funerario, funzionale all’avvio di un processo di separazione, trasformazione

e incorporazione in un nuovo “universo esistenziale”: ritualmente è “l’uomo-nel-mondo”,

il marito e padre di famiglia, a morire e a rinascere a immagine e somiglianza

dell’ascetico Ayyappan. Ciò che risulta significativo è che le motivazioni che spingono al

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pellegrinaggio sono legate proprio alla realizzazione dell’ideale “uomo-nel-mondo”, il

padre di famiglia: le richieste che i devoti portano nella loro mente sono quelle dell’uomo

desideroso di realizzare questo modello di maturità maschile socialmente condiviso.

La diade in gioco è quindi costituita da elementi in opposizione, il rinunciante e

“l’uomo-nel mondo”, opposizione che rivela però tutta la sua fluidità nel momento in cui i

due elementi che la compongono si situano in un rapporto di complementarietà:

l’esperienza del pellegrinaggio che trasforma gli uomini in saxnāysin è non solo

un’esperienza temporanea ma è funzionale alla pienezza esistenziale dell’“uomo-nel-

mondo”; quest’ultimo ha bisogno del potere del rinunciante per essere un uomo di

famiglia realizzato, così come, significativamente, il saxnāysin Ayyappan ha bisogno del

supporto degli “uomini-nel-mondo” per mantenere il proprio statuto di rinunciante e il

proprio potere.

Quanto detto è ovviamente confinato all’esperienza del pellegrinaggio. Tuttavia gli

elementi dell’analisi condotta da Filippo e Caroline Osella risultano utili alla necessità

comparativa sopra menzionata. I due templi dedicati ad Ayyappan, infatti, pur includendo

entrambi nella loro retorica pubblica l’importanza del pellegrinaggio, il quale è

pubblicizzato ed esposto chiaramente attraverso il supporto visivo di immagini

canonizzate rappresentanti la storia mitologica di Ayyappan e delle foto del

pellegrinaggio stesso, non sono ad esso legati nella medesima maniera. Il tempio de La

Courneuve si situa maggiormente entro il modello di Sabarimala, per diverse ragioni:

Guruswāmī ha passato lunghi periodi di “apprendistato” a Sabarimala e il suo guru vi

risiede stabilmente; ogni anno organizza il pellegrinaggio, inizia i kanniswāmī (i

‘novizi’), oltre a condurre al tempio il periodo di astinenze chiamato Vrata e i rituali ad

esso associati; arrivati in Kerala guida il proprio gruppo lungo il percorso che attraverso la

foresta conduce al tempio. Anche per quanto riguarda i fedeli lo schema interpretativo

degli Osella può a mio parere essere applicato: i racconti di coloro che hanno fatto il

pellegrinaggio rivelano le medesime caratteristiche sottolineate dagli studiosi, dalla

pericolosità del percorso nella foresta, all’importanza del periodo preparatorio condotto a

Parigi, in cui:

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Non si mangia carne, né si beve, non ci si può tagliare la barba né i capelli, non puoi

toccare tua moglie, io non ho dormito con mia moglie per tutto il periodo, dormivo

per terra senza niente. Si deve rinunciare a tante cose. Ma è un bene. È per

Ayyappan, bisogna essere pronti per Lui

E di cui vengono sottolineate le conseguenze positive:

Da quando sono stato laggiù la mia vita è cambiata, in meglio voglio dire. Non che

prima, cioè da quando vengo al tempio, ma dopo il pellegrinaggio tutto va bene, la

mia vita è migliore. [R. 38 anni, in Francia dal 1992, frequenta il tempio di

Ayyappan a La Courneuve da circa 3 anni e ha compiuto una volta il pellegrinaggio]

Nonostante queste affinità il tempio de La Courneuve è non solo aperto alle donne,

ma esse costituiscono la maggioranza dei frequentatori, oltre a rivestire un ruolo

importante nella gestione del tempio e nelle attività devozionali che vi si svolgono.

L’apertura al femminile, la sua massiccia presenza, non è però motivo di contraddizione:

nonostante le evidenti affinità, il tempio si propone come unico e originale, non come

copia del tempio di Sabarimala. Inoltre le attività legate al pellegrinaggio, ovviamente

aperte solo agli uomini e alle categorie del femminile già menzionate, si svolgono

parallelamente alle attività abituali del tempio e, peraltro, in un locale separato, (una

grande sala posta al piano terra del medesimo immobile, utilizzata altrimenti per attività

varie non necessariamente religiose). Durante il periodo del Vrata, contemporaneamente

alla gestione del tempio, Guruswāmī si occupa della formazione dei pellegrini, in

particolare dei novizi. Il Vrata di 41 giorni è aperto da una cerimonia simile a quella

descritta da Osella (2003) durante la quale Guruswāmī consegna a ciascuno un

rudrāksamālā santificato al tempio: esso oltre a proteggere il pellegrino durante il

viaggio, simboleggia il suo impegno a condurre il Vrata al meglio delle proprie capacità.

Il mālā viene portato dai pellegrini fino al loro ritorno: è solo durante la cerimonia

conclusiva con cui si spezza il periodo delle austerità che esso potrà essere levato. Al

tempio di Ayyappan Guruswāmī dirige un’altra cerimonia molto importante: il

“riempimento” dell’Irumudi. Si tratta di una specie di sacco che viene portato sulla testa

durante il pellegrinaggio e senza il quale non si ha accesso al Tempio di Sabarimala. Esso

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contiene tutti i materiali di culto necessari (in particolare una noce di cocco riempita di

ghī che verrà spaccata nel momento in cui si percorrono i 18 scalini del tempio) e generi

di prima necessità.

Il tempio di Saint Denis invece ha molte meno affinità col modello di Sabarimala,

nonostante, come già detto, il legame con esso sia ampiamente sottolineato: foto del

tempio e dei pellegrini in vari momenti del percorso affiancano le immagini che

rappresentano il racconto mitico del celibe Ayyappan. Anche il signor Muthukumarasamy

e suo figlio mi hanno spesso parlato del pellegrinaggio, cosi come i più assidui

frequentatori del tempio. Una grossa differenza risiede nel fatto che il pellegrinaggio non

è condotto sotto la guida di un guruswāmī, né alcun “viaggio devozionale” è organizzato

dal tempio. Il figlio di Muthukumaraswamy (e finché ne aveva le forze lui stesso) si reca

in Kerala in solitario, o accompagnato da conoscenti e frequentatori del tempio, ma senza

rivestire il ruolo di guida spirituale. Il periodo di preparazione inoltre è condotto

singolarmente e ciò crea evidentemente un diverso approccio, meno comunitario,

all’esperienza stessa.

Credo, in definitiva, che ciò che della figura di Ayyappan viene trattenuto e

valorizzato è la sua natura ascetica, ma senza che questo implichi un processo di

costruzione d’identità di genere, come invece penso avvenga, marginalmente, al tempio

de La Courneuve. Non è un caso che Ayyappan è qui presente anche in altre forme (tra

cui quella che lo vede accompagnato da due mogli). La portata della sua natura iper-

mascolina è quindi fortemente smorzata, risultando in definitiva riassorbita e bilanciata.

La repulsione del femminile è qui totalmente assente ed Egli viene a rappresentare meno

conflittualmente il sereno distaccamento dal mondo che conclude tradizionalmente la vita

dell’uomo hindū.

L’identificazione, come si diceva, è quindi presente in entrambi i casi, ma in modo

diverso. Il loro confronto permette, a mio parere, di giungere alla conclusione che, in

questo gioco di specchi, l’ordine degli elementi, dell’identificante e dell’identificato, non

è unico: è la multiforme divinità che si fa (e si rifà) a immagine e somiglianza del proprio

devoto, così come il devoto agisce e trasforma sé stesso seguendo il modello divino.

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Multiformi e complesse, le divinità vengono raccontate dai loro fedeli in modi

diversi: le immagini che ne risultano (cosi come le modalità di culto e le trasformazioni

esistenziali che esso provoca) sono il risultato di questo rispecchiarsi di identità

eternamente trasformabili e eternamente in trasformazione. Nei due templi messi a

confronto vengono sottolineati aspetti diversi del culto di Ayyappan: l’accento posto sulla

sua natura egalitaria, anticastale, sul carattere onnicomprensivo del suo culto caratterizza

il discorso di Muthukumarasamy: il fatto che Ayyappan sia nato da Śiva e Visyu (nella

forma femminile di Mohinī) viene citato a conferma della natura “democratica” di questa

divinità che accetta tutti e che mette d’accordo, a suo parere, due delle grandi correnti

dell’induismo, Śaiva e Vaisyava. A La Courneuve è la potenza della divinità a costituire

il focus dei discorsi su di Esso; la crescita della popolarità di questa divinità viene

collegata alla percezione del suo forte potere, il quale è indubbiamente superiore a quello

delle divinità “classiche” ma anche potenzialmente più pericoloso.

Tornando al tempio di Saint Denis e alle divinità che vi trovano dimora, risulta ora

chiaro come la corrispondenza, ricercata, coltivata ed elaborata, tra devoto e oggetto della

devozione porti ad una sovrapposizione di identità (la divina e l’umana), la quale è

espressione del percorso personale e interiore del fondatore del tempio e ad un tempo

funzionale al rifarsi incessante delle identità stesse. Le descrizioni che Muthukumarasamy

fa di sé e di Ayyappan vedono sviluppare le medesime tematiche: egli descrive la sua vita

attuale come una vita semplice entro le mura del tempio, una vita dedicata allo sviluppo

delle sue attività e alla meditazione, a beneficio dell’intera umanità. L’apertura e la

generosità cui fa riferimento parlando di sé si rispecchiano nell’immagine di Ayyappan, il

cui culto permette di trascendere le barriere che la società crea:

Già oggi quando due fedeli s’incontrano si salutano con rispetto indipendentemente

dalla loro differenza castale, perché siamo tutti esseri umani.

E:

Non ci sono caste, razze, differenze dottrinali per Lui. Ognuno è uguale. Di fronte a

Dio siamo tutti uguali.

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Le tre divinità principali (che, come si diceva, si propongono immediatamente agli

occhi del visitatore) vengono quindi a rappresentare tre fasi della vita di

Muthukumarasamy così come la sua evoluzione spirituale: l’infanzia, la vita mondana e

sociale e l’ultima, il ritiro per condurre una vita di meditazione.

6.4 Il tempio

6.4.1 Gli aspetti gestionali

La gestione del tempio è familiare: se ne occupano il signor Muthukumarasamy e

suo figlio minore, celibe e impiegato come contabile. Il figlio maggiore invece è sposato

ed è presente esclusivamente in occasione delle festività maggiori, pur contribuendo

economicamente al mantenimento del tempio e delle sue attività.

Il minore dei due figli è quindi quello maggiormente coinvolto. Se il padre gestisce

dal suo ufficio tutti i rapporti con i visitatori del tempio, egli entra maggiormente nelle

questioni più spiccatamente religiose e rituali. È presente al tempio il weekend, mentre il

venerdì arriva tardi, dopo il lavoro, alla conclusione della pūjā, appena in tempo per

ricevere i prasād e mangiare con il padre. Gli altri due giorni di apertura invece partecipa

attivamente alle cerimonie, in qualità di organizzatore, aiutante o officiante. A quanto mi

è stato riferito da qualche devoto è anche colui che, praticamente, si occupa di attuare le

buone azioni di cui parla spesso suo padre: nato e cresciuto in Francia, celibe e con un

buon impiego, rappresenta il braccio attivo del paterno donare. Molte delle persone che

frequentano settimanalmente il tempio hanno beneficiato, in un modo o nell’altro di tale

aiuto. Spesso si tratta di piccole cose, come accompagnare la moglie di un fedele

all’ospedale o aiutare un devoto a compilare la dichiarazione dei redditi: piccole cose, che

però diventano grandi ostacoli per coloro che non conoscono la lingua o, appena arrivati,

sono in attesa dei propri documenti di soggiorno.

Attualmente il tempio è aperto solo tre giorni la settimana, due dei quali la pūjā

viene condotta da un brāhmaya: i suoi servizi vengono pagati dal fondatore e dai suoi

figli i quali non possono permettersi di assumerlo a tempo pieno; la domenica è il figlio

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minore a occuparsi della cerimonia, avendone acquisito le competenze attraverso lo studio

dei testi e il pellegrinaggio annuale in Kerala, dove è stato già dieci volte. Egli porta

avanti un percorso di formazione religiosa che ha come fine ideale l’indipendenza rituale

del tempio dai brāhmaya, i quali talvolta “prendono i loro soldi e se ne vanno. E noi

dobbiamo trovare qualcun altro”.

6.4.2 Generosità, amore ed accoglienza: il tempio nella retorica del suo fondatore

A differenza di altri templi, dove abbordare la questione finanziaria è stato difficile

e, credo, un po’ mal visto, in questo caso è stato il signor Muthukumarasamy ad

introdurre in più occasioni il discorso. Il fine era quello di dimostrarmi quanto fosse

irrilevante per lui il denaro. Il tempio è stato fondato “non per fare soldi”, e i fedeli che vi

si recano non sono né obbligati né esortati a fare un’offerta monetaria. È questa una

caratteristica particolarmente apprezzata dai fedeli, i quali la interpretano come prova di

purezza d’intenti6. Le entrate del tempio, sotto forma di offerta libera, sono evidentemente

scarsissime, neanche lontanamente sufficienti a coprire le spese di gestione che si

aggirano sui 4-5 mila euro al mese. Al tempio di Ayyappan non esistono, come negli altri

templi, i classici cestini o le lampade a ghī, acquistabili per cifre che si aggirano

rispettivamente sugli otto e cinque euro. Coloro che vogliono far fare al brāhmaya una

pūjā personale (arcanā), familiare, o che, nelle occasioni previste, finanzino un homam,

contribuiscono per quello che possono e vogliono. La mancanza di un “listino prezzi” e la

generale disattenzione all’offerta monetaria, favorita dalla segretezza del dono (le offerte

vengono inserite in una specie di urna), disincentiva evidentemente le persone dall’offrire

le medesime somme che si sentirebbero in dovere di dare in altri contesti, dove lo sguardo

collettivo sanziona o esalta le diverse “generosità” individuali.

Muthukumarasamy, nonostante la dichiarata non venalità delle sue intenzioni, mi ha

spesso fatto notare la pochezza delle offerte, contando di fronte a me le poche monete

raccolte. Conseguenza di una precisa “politica” (oltre che di una scarsa frequentazione del

tempio dovuta alla sua posizione) la scarsezza delle offerte diviene quindi un mezzo, una

6 Tra quelli analizzati nel presente studio solo il tempio di Murugan condivide questa posizione vis à vis delle offerte e degli arcanā.

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prova ulteriore del merito di Muthukumarasamy e dei suoi figli, i quali, soli, lavorano per

mantenere attivo un luogo sacro di cui può potenzialmente beneficiare l’intera comunità.

Di tali meriti mi ha parlato ogni volta che ne ha avuto l’occasione, come anche

dell’importanza del saper accogliere le persone che arrivano al tempio. Spesso questo

rappresentava l’inizio delle nostre conversazioni, di cui l’offerta di una tazza di tè caldo,

che accettavo con piacere appena arrivata, era lo spunto. Il saper offrire una buona

accoglienza a coloro che, come pellegrini, affrontano il freddo e i disagi dei trasporti per

venire a rendere omaggio alla divinità, era qualità costantemente rimarcata e

contemporaneamente metro di paragone con gli altri templi: “negli altri templi non è così”

mi ha ripetuto più volte, “non danno come noi”. La generosità, il dare senza richiedere

niente in cambio, la gentilezza, erano queste le caratteristiche messe maggiormente in

risalto dal signor Muthukumarasamy nella descrizione del proprio tempio e di sé stesso:

“ognuno deve essere gentile e generoso con il prossimo”. Molte delle persone che vanno

al tempio hanno problemi di vario tipo, economici, di salute, familiari, personali, e vi si

recano con la speranza di trovarvi un aiuto: una buona accoglienza, l’assenza di richieste

venali e la generosità di un pasto offerto vogliono fare del tempio un luogo di pace,

meditazione e abbandono alla devozione, un luogo familiare in cui trovare sostegno e

forza.

La gente ha bisogno di simpatia, ha bisogno di compassione, ha bisogno di

gentilezza, ha bisogno di affetto, ha bisogno di amore, ha bisogno di così tante cose.

È per questo che bisogna dare.

Muthukumarasamy parla di sé come di un benefattore: il fatto di non avere più

alcun bisogno, causa e conseguenza di una vita ritirata e dedita alla meditazione,

unitamente al fatto di possedere una pensione e del denaro messo da parte negli anni,

duranti i quali “guadagnavo molti soldi”, gli hanno permesso e gli permettono di aiutare

indirettamente moltissime persone attraverso la fondazione e il mantenimento del tempio:

Ho sempre avuto un buon cuore. Io penso solo ad aiutare gli altri. La legge del

Signore è che se vuoi aiutare qualcuno, se senti sinceramente che devi aiutarlo, Egli

verrà a te, ti aiuterà a farlo.

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Page 120: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

O ancora:

Il mio principio, la mia teoria è che se si possiede molto, bisogna distrubuirlo agli

altri, non bisogna mangiare soli nella vita. Se si ha qualcosa bisogna condividerlo con

gli altri.

Muthukumarasamy è un uomo molto positivo e serba un gran sentimento di

gratitudine per la Francia dove dice di aver trovato tantissime persone gentili e generose,

che l’hanno aiutato nei momenti di sofferenza e difficoltà, soprattutto dopo la morte della

moglie, ed è anche per questo che ora “se qualcuno mi chiede qualcosa non dico mai di

no”.

Egli si descrive come un uomo che, pur avendo conosciuto e visto tante cose, grazie

al suo lavoro di giornalista che l’ha portato a viaggiare in quasi tutti i paesi del mondo, ha

rinunciato oggi a vizi e piaceri. A quasi 69 anni, i luccichii della vita mondana non hanno

più per lui la medesima attrattiva: “non ho bisogno di nulla” dice, riferendosi alla sua

condizione attuale. Da quando ha fondato il tempio 10 anni fa, ne ha fatto anche la sua

dimora e oggi la sua vita si svolge quasi esclusivamente entro le sue mura: “sto qui e

medito” mi risponde quando gli chiedo delle sue giornate. Descrive sé stesso come una

sorta di rinunciante moderno, dedito alla meditazione e alla preghiera. Ogni mattina, dopo

essersi lavato, recita i mantra e le canzoni per la divinità, offre latte e acqua, accende le

lampade, compie 3 giri intorno ad ogni koyil e poi unite le mani nel namaskāra mudrā

(gesto del saluto-prostrazione), gli occhi levati verso il volto della mūrti, in un atto che è

compiuto e ricevuto ad un tempo, formula la sua richiesta: “che tutti possano stare bene.

Questo è cio che chiedo”. Poi passa alla meditazione.

Spesso, nelle descrizioni che mi faceva di sé stesso, sottolineava la sua condotta

esemplare: “non bevo, non fumo, non mangio carne”. Tuttavia, soprattutto vivendo nel

tempio, una tale condotta è quanto di più normale possa esserci: a parte l’alcool e il fumo,

il cui uso, indipendentemente dal contesto e dall’occasione, è culturalmente stigmatizzato,

l’assunzione di carne è vietata prima di recarsi al tempio per chiunque. Inoltre il cibo che

viene preparato e offerto in qualsiasi tempio è strettamente vegetariano. È probabile che

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Page 121: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

egli pensi che ai miei occhi, in quanto occidentale, tali rinunce siano particolarmente

significative, e per questo ne abbia sottolineato la portata.

Per quanto ho potuto notare nei giorni di apertura del tempio, egli passa la maggior

parte del tempo seduto nel suo piccolo ufficio, che condensa in pochi metri quadri le sue

passioni e i suoi gesti quotidiani: si tratta di una piccola camera di circa 10 metri quadri

occupata da un letto, un armadio in legno, una piccola cassettiera di plastica, una scrivania

e due sedie. I muri sono tappezzati di immagini sacre, soprattutto calendari degli anni

passati raffiguranti Krsya bambino, Laksmī, Ayyappan, Murugan, Rādhā e Krsya e

Gayeśa. La scrivania, cosi come ogni superficie disponibile, è interamente occupata da

riviste di ogni sorta, in inglese e in tamil, da India Today a riviste di danza, religione,

numerologia o gemmologia, la grande passione di Muthukumarasamy. In questo piccolo

ufficio egli si dedica alle sue letture e alla redazione in inglese di un libro su Ayyappan, di

cui il figlio minore dovrebbe curare l’edizione francese. A quanto pare sono diversi anni

che porta avanti questo progetto: destinato al pubblico occidentale tale testo dovrebbe

fornire una visione globale di una divinità “poco conosciuta” e che “non riceve sufficiente

attenzione”7. Per il momento egli ha curato la pubblicazione di una raccolta di bhajana in

tamil, disponibile al tempio, e utilizzato al termine della pūjā dai devoti e dal brāhmaya.

Se la gentilezza, la calorosità e la generosità sono le caratteristiche maggiormente

valorizzate nella descrizione di sé, dei propri figli e della gestione del tempio, dal punto di

vista delle cerimonie ciò che viene messo in risalto è la bellezza e la forza dei canti che i

devoti innalzano durante e dopo la pūjā.

(…) hai sentito i canti? Sono una suprema forma di espressione: esprimono l’amore

per Dio, Dio nelle sue diverse manifestazioni.(…) le persone vengono qui anche per

sentire i canti, perché qui sono speciali. C’è persino una signora francese, Isabel: lei

viene e canta, ha imparato i nostri canti in tamil. Perché cantare innalza lo spirito, ti

porta all’unione con Dio.

7 Muthukumarasamy sostiene che il culto di Ayyappan non sia molto conosciuto in Sri Lanka, in quanto nato e sviluppatosi in Kerala, dove è presente il più importante tempio di Ayyappan, quello di Sabarimala cui si è già fatto riferimento.

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Come per l’importanza accordata al cibo, è questa una effettiva specificità che

accomuna i due templi di Ayyappan e li differenzia dagli altri. Prima di trattare di questi

due temi ritengo però necessario procedere ad un ulteriore comparazione tra di essi, che

riveli ancora una volta come queste somiglianze siano in realtà solo superficiali.

6.4.3 Due fondatori, due templi

Come si è detto, in entrambi i templi l’accento è posto sulla necessità e l’importanza

di dare, condividere ciò che si ha. Tuttavia ciò che viene offerto è a mio parere di natura

molto diversa, come diverse sono le due persone che hanno fondato i templi e ne hanno

forgiato l’immagine. Muthukumarasamy non ha il medesimo ruolo che Guruswāmī

riveste nel suo tempio: egli è semplicemente colui che l’ha fondato e che ne finanzia le

attività, mette cioè a disposizione del prossimo gli averi accumulati durante una vita di

lavoro. Nel suo caso l’aiuto è più di natura materiale che spirituale: egli offre un luogo di

preghiera e meditazione dove rifugiarsi e trovare la pace dello spirito. Il suo ruolo nelle

attività del tempio si riduce al lato economico, al rapporto col pubblico e alla supervisione

delle attività religiose. Egli inoltre non prende parte personalmente ad alcuna delle

attività, dalla preparazione di cibo alla pūjā, che guarda seduto dal proprio ufficio.

La seconda grande differenza riguarda il gruppo dei fedeli: se nel caso de La

Courneuve siamo di fronte ad una comunità numerosa e fortemente unita, con la propria

guida spirituale carismatica e fortemente presente, a Saint Denis, nonostante l’aspetto

devozionale sia valorizzato e sia un importante momento di condivisione, non esiste una

simile coesione interna. Le motivazioni di tale differenza sono, a mio parere,

principalmente due:

1. la mancanza, a Saint Denis, di una figura di riferimento unica e soprattutto di un

leader carismatico: tre diverse persone incarnano ruoli condensati a La Courneuve

nella figura di Guruswāmī. Il presidente e fondatore del tempio ha un ruolo

direzionale e di “public relations”; il brāhmaya svolge a pagamento un lavoro da

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specialista rituale, disinteressandosi completamente di qualsiasi altro aspetto della vita

del tempio; il figlio di Muthukumarasamy si occupa di aspetti pratici, quali le forniture

o il pagamento dell’affitto, oltre a compiere egli stesso alcuni rituali e a portare avanti

la sua formazione religiosa. Anche se il fine di tale formazione, come mi è stato

riferito da lui stesso, è l’assunzione da parte sua dei compiti attualmente assegnati al

brāhmaya, egli manca di quel carisma che è il collante principale della comunità di

fedeli del tempio de La Courneuve: timido e non molto comunicativo, anche nel caso

assumesse effettivamente tale ruolo, non credo che la cosa porterebbe a modificazioni

sostanziali nell’atmosfera del tempio.

2. La frequentazione del tempio è quantitativamente e qualitativamente differente: il

tempio di Saint Denis è frequentato in maniera più sporadica, difficilmente si

incontreranno le stesse persone da una settimana all’altra, a parte evidentemente i

volontari che aiutano Muthukumarasamy. Il pubblico è costituito principalmente da

famiglie, le quali si recano al tempio in occasioni speciali o perché qualcuno gliene ha

parlato. Per quanto ho potuto osservare anche i visitatori più assidui hanno magari un

rapporto con il presidente del tempio ma non tra di loro. Comprensibilmente questo

crea delle conseguenze sull’attività devozionale comunitaria per eccellenza, cioè il

canto dei bhajana, di cui parlerò tra breve, e sul principale momento di

socializzazione, ossia il consumo del prasād. Come si è visto per il caso del tempio di

Ayyappan a La Courneuve, essi rappresentano potenzialmente momenti di

compattamento del gruppo nonché di rafforzamento del senso di appartenenza ad esso.

6.5 Le attività del tempio: bhajana e prasād

6.5.1 I bhajana

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Come già menzionato, il Sri Ayyappan Temple è aperto al pubblico tre giorni la

settimana: il venerdi si svolge una sola pūjā, verso le 19h; il sabato e la domenica la

giornata viene aperta da un lungo abhiseka, durante il quale litri e litri di latte vengono

riversati sulle mūrti in un bagno rituale la cui abbondanza è oggetto di giudizi molto

positivi8 e a cui segue la pūjā delle 13. Alle 19 un’altra pūjā chiude la giornata.

Come dicevo il rituale viene officiato da un brāhmaya il venerdì e il sabato, mentre

la domenica è il figlio minore di Muthukumarasamy a occuparsene. Egli, oltre a compiere

annualmente il pellegrinaggio al tempio di Sabarimala e a recarsi appena può in India per

visite devozionali, conosce il sanscrito, che ha studiato da autodidatta, e si può dire

dedichi la sua vita extra-lavorativa allo sviluppo delle proprie conoscenze religiose.

Quando è al tempio il brāhmaya non si occupa di altro che di preparare il

necessario e svolgere il rituale. La sua presenza è limitata a questo momento: arriva poco

prima della pūjā e parte subito dopo, rivestiti gli abiti profani. Egli è essenziale solo in

quanto conosce il modo corretto di eseguire il rituale, quindi per ciò che fa e non per chi è.

Facilmente può essere rimpiazzato da un altro brāhmaya senza che questo provochi un

cambiamento sostanziale9. Nessun rapporto particolare lega Muthukumarasamy ai

brāhmayi che officiano nel suo tempio, né si creano (per quanto ho potuto osservare)

particolari legami con i devoti. Il brāhmaya è una sorta di impiegato part-time, con un

salario e delle mansioni specifiche.

La cerimonia non evidenzia particolari originalità, a parte la lunga sessione di

bhajana che conclude la pūjā. I bhajana sono canti devozionali, attraverso i quali si

esprime amore, abbandono e devozione per il divino o per le sue forme particolari. Spesso

il testo riporta le caratteristiche della divinità cui è dedicato il canto, le forme che essa

assume e i suoi nomi. Il devoto esprime non solo il suo amore, ma formula anche delle

richieste e domanda perdono per i propri peccati. Si dice che il canto di bhajana e kirtan

(un altro tipo di canto devozionale), cosi come la ripetizione di mantra, porti, quando

fatto con devozione, all’accumulo di meriti immensi, paragonabili agli effetti di un

8 Oltre alle parole dei fedeli, ho trovato una conferma di quanto detto all’indirizzo internet www.saranamayyappa.org/List_of_Ayyappan_Temples_in_India_and_Abroad, dove si trova una lista incompleta dei templi di Ayyappan in India e nel mondo e dove riguardo al tempio di Saint Denis si dice “this temple is famous for its milk’s abhishekam”.9 Nei 6 mesi in cui ho frequentato il tempio si sono susseguiti due brāhmayi.

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Page 125: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

complesso e lungo rituale e che sia quindi uno dei mezzi più appropriati all’era attuale e al

suo stile di vita.

Il tempio è teatro di lunghe sessioni di canto, accompagnato, nelle occasioni più

importanti, da alcuni musicisti. Solitamente si tratta di uno o due suonatori di thavil

(percussione doppia) e uno di nadaswaram (strumento a fiato, simile ad un oboe): questi

due strumenti della musica carnatica sono fondamentali e sempre presenti nei matrimoni,

nei templi e all’occasione delle grandi festività in tutta l’India del Sud e in Sri Lanka. Qui

i templi più importanti hanno all’interno del loro personale fisso anche un certo numero di

musicisti e la musica che accompagna le diverse attività del tempio prende il nome di

maygalavādya, musica di buon augurio. A Parigi nessun tempio può permettersi un tale

lusso e i musicisti, che formano un gruppo molto ristretto, forniscono solo

occasionalmente i loro servizi senza essere legati a nessun tempio in particolare.

Al di là quindi di occasioni veramente speciali, i canti non sono accompagnati da

alcuno strumento, a differenza di quanto avviene al tempio de La Courneuve dove

l’accompagnamento delle percussioni è sempre presente. Al termine della pūjā, durante la

quale le divinità sono state risvegliate, onorate e nutrite, il brāhmaya inforca i suoi

occhiali da vista e, libretto10 alla mano, si siede in mezzo ai devoti, in prima fila.

Affiancato dai due uomini che si occupano del tempio, uno dei quali aiuta anche il

brāhmaya nella performance della pūjā, dà il via ai canti devozionali. Il tempio è

frequentato abitualmente da due donne francesi, le quali vi si recano principalmente per

partecipare alla sessione di bhajana che conclude la pūjā: per esse il presidente del

tempio ha trascritto alcuni bhajana in caratteri latini e le due donne cantano, in veste di

leader, alcuni di essi. Altrimenti sono il brāhmaya e, a turno, i due uomini a condurre il

canto: i bhajana sono canti individuali o corali e nel caso sia un gruppo di devoti ad

eseguirli spesso c’è un cantante che guida il gruppo intonando la prima strofa, a cui fa

seguito il coro. La sessione di bhajana dura circa una mezz’or,a durante la quale le

maggiori divinità vengono onorate: come nella pūjā, la prima divinità cui ci si rivolge è

Gayeśa cui seguono Visyu, Krsya, Murugan, Mariyamman, Ayyappan (cui vengono

10 Come già ricordato il signor Muthukumarasamy ha curato e finanziato l’edizione di una raccolta di bhajana in tamil e sanscrito: tale raccolta è disponibile esclusivamente in caratteri tamil Se questo è facilmente spiegabile a partire da ovvie considerazioni sul pubblico cui è rivolta la raccolta, quasi esclusivamente tamil, risulta più sorprendente il fatto che tutte le informazioni al tempio siano scritte esclusivamente in tamil, soprattutto alla luce di quanto detto su Muthukumarasamy e i suoi figli.

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Page 126: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

dedicati diversi bhajana) e per finire Hanumān. La partecipazione al canto è minore

rispetto al tempio di Ayyappan de La Courneuve. Come dicevo sono principalmente i due

aiutanti del tempio e il brāhmaya a cantare, talvolta accompagnati dalle due donne

francesi e dai fedeli che seguono i testi loro distribuiti. In generale comunque la

partecipazione è scarsa e il coinvolgimento è sicuramente minore.

6.5.2 Il ruolo del cibo al tempio: condivisione o filantropia?

L’altro elemento rilevante è il consumo del prasād, che conclude la visita al tempio.

Al termine della lunga sessione di bhajana i fedeli si recano ordinatamente a ricevere la

benedizione del brāhmaya attraverso l’apposizione della vibhūti, compiono una

deambulazione in senso orario11 (pradaksiyā) attorno ai tre santuari principali e si

prostrano a terra in segno di rispetto e sottomissione: le donne compiono quella che viene

chiamata Pañcānga Namaskāra, “adorazione-salutazione su cinque arti” che consiste

nell’inginocchiarsi a toccare terra con la testa restando appoggiati con le mani. Gli uomini

invece si stendono completamente, la faccia a terra e le braccia allungate in avanti in

modo alternato per 3, 5, 7, 9, o 12 volte; anche il viso viene girato da una parte all’altra e

il suolo sacro del tempio viene toccato con la fronte o talvolta la bocca. Questa

“adorazione-salutazione su 8 arti” prende il nome di Sastānga Namaskāra. A questo

punto la cerimonia può dirsi conclusa e i fedeli ritornano poco per volta nella zona

anteriore del tempio, quella profana, su cui si aprono la cucina, il bagno e l’ufficio del

fondatore: si siedono senza rispettare più di tanto separazioni di genere, le quali peraltro,

seppur seguite, non sono oggetto di una particolare attenzione neanche durante la pūjā o i

bhajana. L’unica accortezza è quella di non dare le spalle alle mūrti, le quali “continuano

a guardarti finché sei davanti a loro”. A questo punto il cibo viene distribuito in piatti di

plastica: si tratta solitamente di riso accompagnato da verdure al curry, mentre nelle

occasioni speciali vengono preparate anche diverse qualità di dolci, in funzione

ovviamente ai gusti divini.

11 Essa si compie 3, 5, 7, 9, 15 o 21 volte e assume significati opposti secondo il senso in cui la si compie: in senso orario rappresenta la speranza nella gioia mondana mentre in senso antiorario rappresenta la volontà di abbandonarla.

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Anche qui, come altrove, il momento del pasto comune è un momento di

socializzazione ma non particolarmente rilevante. Per quanto ho potuto osservare infatti,

non siamo qui di fronte ad una comunità di fedeli, quanto piuttosto ad un gruppo

eterogeneo di persone che frequentano occasionalmente il tempio senza essere legati da

un particolare senso di appartenenza o affiliazione. Il cibo viene a rivestire quindi un

significato molto diverso da quello che assume in altri templi: l’importanza del cibo è qui

collegata non tanto al concetto di prasād, o al ruolo sociale e socializzante del pasto

collettivo quanto al significato che esso assume per Muthukumarasamy. Nutrire è uno dei

tanti modi di dare, è forse il più materno e semplice modo di esprimere un amore

disinteressato. Credo che sia questo il suo senso nel contesto in questione: il cibo diviene

qui simbolo del dare, concetto che, come si è visto, permea in profondità il pensiero di

Muthukumarasamy. La generosità, la volontà di donare ciò che si possiede, poiché “è Dio

che mi ha donato tutto ciò e io lo ridò a Lui”, è il fondamento concettuale del tempio,

delle attività che vi si svolgono, della visione che il suo fondatore ha della sua vita futura

e del suo ruolo nella comunità. L’uso di metafore alimentari che caratterizza spesso il

parlare di Muthukumarasamy è significativo dell’importanza simbolica del cibo ed esso è

mezzo ed espressione di quella generosità di cui si fa portavoce:

Non bisogna inghiottire (avaler) da soli nella vita.

Chi ha deve donare: a quanto dichiara lui stesso, è questo il principio che muove il

suo agire, ma questo non genera, a mio parere, un reale senso di condivisione.

Significativamente Muthukumarasamy non consuma il suo pasto insieme ai presenti,

come non lo fa suo figlio né tanto meno il brāhmaya, il quale, con poca sorpresa, ho visto

talvolta mangiare, in disparte, il cibo che si era portato da casa. Più che ad una forma di

condivisione siamo di fronte ad una filantropica distribuzione di cibo, la quale, nonostante

tutto, è un modo come tanti altri di acquisire meriti spirituali, cosi come i costosi

abhiseka finanziati nei più importanti templi del sud India e la fondazione del tempio

stesso: sono tutte modalità culturalmente definite di giungere allo stesso scopo, la

salvezza personale. Nel suo La religion de Shiva, Bhatt riporta a tale proposito la seguente

affermazione:

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Tout d’abord, la construction de nouveaux temples comme la rénovation d’anciens,

sont des actes pieux, hautement recommandés dans les textes religieux. Les

immenses mérites promis en récompense de tels actes sont un attrait suffisant pour

que des personnes ayant un penchant pour la religion s’y engages. Cela explique la

création de temples de la façon la plus disséminée, jusque dans les villages les plus

reculés (2000: 278-279).

6.5.3 La preparazione del cibo: nuove opportunità

Cosi come la sua consumazione, anche la preparazione del cibo fornisce interessanti

spunti di riflessione nonché conferme di quanto già detto. Esso viene preparato da due

uomini, gli stessi che si occupano della pulizia del tempio e che accompagnano con vigore

il brāhmaya nel canto dei bhajana. Uno dei due funge anche da assistente durante la pūjā

mentre l’altro si occupa talvolta di suonare la campana sacra di cui si è recentemente

dotato il tempio. Provenienti dallo Sri Lanka, vivono entrambi a Parigi, nel quartiere de

La Chapelle, dove lavorano. Uno dei due è sposato, ma entrambi vengono quasi sempre

soli al tempio.

I due uomini frequentano il tempio ormai da diversi anni e con estrema regolarità: il

venerdì arrivano dopo il lavoro verso le cinque, il weekend vi passano spesso l’intera

giornata. È così che hanno progressivamente appreso a svolgere funzioni che sarebbero

tradizionalmente riservate ai brāhmayi. Entrambi invece provengono da caste basse, ma

non mi è stato possibile scoprire quali: il riferimento alla casta di appartenenza non è un

argomento facilmente abbordabile, soprattutto con chi non appartiene alle caste alte. È

stato Muthukumarasamy a farvi indirettamente riferimento in più di un’occasione:

parlando della sua posizione anti-castale, portava a sua dimostrazione il fatto di aver

accolto i due uomini come aiutanti, senza preoccuparsi della loro provenienza castale

inferiore e inadatta a certi compiti.

Il ruolo che hanno nel tempio è molto valorizzante a livello non solo personale e

religioso, ma anche sociale, ed essi vi dedicano tutto il loro tempo libero. Al tempio sono

ad un tempo i più devoti tra i fedeli, i più appassionati durante il canto, e

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contemporaneamente dei veri factotum: preparano il cibo offerto alla divinità, lo

distribuiscono ai presenti e affiancano il brāhmaya nella pūjā, preparando e passandogli

gli strumenti rituali. Sono quindi le loro mani, in molti altri luoghi non considerate

abbastanza pure neanche per accendere una candela, a compiere atti non solo importanti

ma direi fondamentali allo svolgersi della vita del e nel tempio. Entrambi sono coinvolti

nelle sue attività dall’inizio alla fine e sono sicura che, a parte la recitazione dei testi in

sanscrito, conoscono ogni più piccolo particolare rituale. Il loro coinvolgimento nelle

attività del tempio è stato progressivo ed è cresciuto nel tempo cosi come la devozione per

Ayyappan: entrambi hanno trovato in esso un rifugio e la cura ad una situazione di

disagio e miseria esistenziale, causata dall’esperienza dell’esilio. Il servizio resovi ha un

duplice scopo: le espressioni devozionali e il “volontariato” svolto al tempio sono infatti

da un lato fonte di meriti spirituali culturalmente definiti e quindi congiuntamente di

rispetto e valorizzazione sociale, ma dall’altro, più globalmente, hanno contribuito per

entrambi a dare un senso alla propria esistenza, senso che l’esperienza della guerra e

dell’esilio aveva alienato.

6.6 I miracoli

Nell’India del Nord una donna, sposata e con un bambino, fu investita da una serie

di terribili disgrazie che le fecero perdere progressivamente tutti i membri della sua

famiglia. La morte ravvicinata di tutti i suoi cari, compresi il figlio e il marito, la resero

pazza. Un giorno la donna si recò al Gange, per il bagno mattutino e qualcuno le regalò

una statua di Krsya intagliata nel legno. La donna la portò a casa, la lavò, la vestì, le offrì

del cibo e la mise a dormire: ogni giorno ripeteva quei primi gesti con amore e devozione.

Una mattina arrivò in ritardo al ghāt e qualcuno le chiese il perché. Lei rispose che aveva

dovuto occuparsi di suo figlio e che per questo era in ritardo. “Allora un giorno verremo a

vedere tuo figlio”, le dissero e così fu: qualche giorno dopo le medesime persone si

recarono a casa sua e scoprirono che non c’era nessun bambino, ma solo una statua del

divino Krsya trattata come tale. Alla vista della statua, che la donna aveva messo a

riposare in una piccola culla, cominciarono a ridere e a prendere in giro la donna: “è una

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statua, non è il tuo bambino!”. Ma la donna rispose con tranquillità che si sbagliavano e

che si trattava proprio del suo bambino. Esortandoli a guardare, svegliò la statua e le offrì

del cibo. Fu allora che il miracolo avvenne: la statua si trasformò in un essere umano, in

un bambino vero, e accettò grato il cibo dalle mani della madre. I presenti si

inginocchiarono di fronte al miracolo e cominciarono a pregare il divino Krsya.

Questa storia mi è stata raccontata al Sri Ayyappan Temple dal suo fondatore in

risposta ad una mia domanda: se fosse, secondo lui, più importante la correttezza ed

appropriatezza del rituale o la pura devozione. Egli mi ha risposto: “Dio ascolterà la tua

devozione, in ogni forma tu Gliela offra, poiché Egli conosce tutti i linguaggi e legge nel

cuore degli uomini”. Subito dopo mi ha raccontato il miracolo appena riportato.

La storia, con la sua morale positiva, rivela chiaramente la sua posizione: anche se è

pur sempre vero che “Dio gioisce di un buon rituale”, ognuno fa quello che può e che sa

fare e questo, se fatto con sincera devozione e sincero abbandono, è compensato dal più

alto dono: una relazione personale col proprio dio. Una madre e moglie esemplare è per

definizione piena d’amore e di devozione per i propri figli e il proprio marito. Ma nella

storia sopra riportata la madre in questione vive la peggiore delle disgrazie, la perdita

della propria famiglia e quindi degli oggetti del proprio amore. Non solo quindi

un’enorme, indicibile sofferenza, ma anche la perdita della possibilità di realizzarsi in

quanto moglie e soprattutto madre. La svolta positiva della storia è rappresentata dal dono

che viene fatto alla donna: la mūrti diviene il nuovo destinatario di quell’amore materno

che essa porta in sé, e la cui espressione era stata impedita da un infausto destino. Tuttavia

non si tratta di un semplice oggetto ma, in quanto mūrti, del ricettacolo della potenza

divina. E il divino non ha bisogno per manifestarsi di complessi rituali: se fatti con

devozione, semplici gesti di madre, manifestazione e simbolo dell’amore più

disinteressato, soddisfano a tal punto la divinità che questa assume forma umana per

meglio gioire di tale amore.

Questo è solo uno dei miracoli che mi sono stati raccontati al tempio. Con il signor

Muthukumarasamy c’è voluto molto tempo per affrontare l’argomento. Tale reticenza da

parte sua deriva dalla considerazione che, essendo il fondatore del tempio, il fatto di

parlare di miracoli poteva essere scambiato per propaganda. Solo una volta instaurato un

rapporto di maggiore fiducia si è sentito libero di parlarne con me. Durante un colloquio,

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Page 131: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

riferendosi a questa sua reticenza, mi ha detto una cosa molto interessante sulla quale ho

riflettuto solo tempo dopo:

(…) e poi vedi per parlare di queste cose, non è che se ne può parlare così con

chiunque. Bisogna essere pronti ad ascoltare. Bisogna fare un percorso personale, e

non sono cose che si insegnano. Tu devi saper ascoltare e saper vedere se no non

vedrai nulla e non capirai nulla di quello che ti dicono.

Quello che mi stava dicendo era cioè che sarebbe stato inutile parlare con me di

miracoli finché io stessa non fossi stata pronta ad accettarne l’esistenza, poiché li avrei

interpretati come propaganda per il tempio, pubblicità per menti desiderose di “soluzioni

divine” ai problemi di questo mondo. Quest’affermazione mi ha messo di fronte a

qualcosa cui fino a quel momento avevo riflettuto solo in maniera altamente astratta, al

fatto cioè che coloro che costituiscono il cuore della nostra ricerca, i cosiddetti

informatori, ci osservano, ci sentono, ci analizzano e ci giudicano; rispondono alle nostre

curiosità non solo seguendo degli schemi di interpretazione dell’altro culturalmente

stabiliti, ma anche seguendo il proprio istinto e la propria esperienza, e secondo l’idea che

si sono fatti di noi. Per questo è a mio parere non solo ingenuo ma anche fallace l’ideale

del ricercatore non coinvolto: questo perché i frutti della ricerca sono la traduzione in

forma leggibile di un groviglio di emozioni, sensazioni, visioni, dialoghi, in definitiva dei

rapporti che il tempo ha permesso di instaurare con alcune delle persone cui ci si è rivolti.

Queste persone hanno risposto positivamente alla nostra curiosità non perché fossero lì ad

aspettare che qualcuno gli ponesse le giuste domande, ma perché hanno visto in noi

qualcosa: la possibilità di rendere pubbliche certe problematiche, qualcuno con cui

condividere certe passioni o con cui vantarsi, un orecchio pronto ad ascoltare

accompagnato da due occhi pronti a guardare. Il fatto che il giudizio di chi ci sta di fronte

sia positivo o negativo, che rispecchi o meno l’immagine che abbiamo di noi stessi, non

importa in sé, ma condiziona in modo profondo e soprattutto irrintracciabile il nostro

lavoro, dalla direzione che esso prende a tutto il suo sviluppo. La “confessione” di

Muthukumarasamy è qualcosa di raro poiché mi ha permesso di rintracciare il percorso

mentale e relazionale che ha portato ad affrontare un certo discorso in un certo momento.

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Page 132: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Anch’essa deriva dal rapporto sopra menzionato e chissà, forse, se egli non me ne avesse

mai parlato, sarei giunta alla conclusione che i miracoli non erano per lui qualcosa di

importante. Molto più spesso invece non conosciamo il motivo per cui una persona ci

parla di alcune e non di altre cose, talvolta non immaginiamo neanche l’esistenza di

queste altre.

Tutto questo per dire quanto sia importante a mio parere riflettere nello stile e nel

contenuto di quanto scriviamo il fatto che ciò che si dice non è ciò che è ma ciò che noi

abbiamo sperimentato e visto in relazione ad altri esseri umani, complessi e in fieri quanto

noi.

Torniamo ora al tema centrale di questo paragrafo conclusivo, il miracolo divino, il

quale, nonostante le apparenze iniziali, riveste un ruolo molto importante nel tempio di

Ayyappan di Saint Denis.

Il miracolo può essere definito come la discesa del divino nel mondo degli uomini

attraverso un avvenimento non spiegabile e non sottostante alle leggi naturali. Tale

concetto è parte integrante e fondamentale dell’Induismo, in diretta relazione a quella

fluidità tra umano e divino cui si è già fatto riferimento. Tuttavia tale fluidità non è

sufficiente a rendere la specificità del miracolo: la presenza del divino nel suo idolo,

espressione ad esempio di tale fluidità, non è considerata un miracolo ma piuttosto la

conseguenza di determinati rituali. Non è quindi la stretta relazione tra divino e umano ad

essere considerato un miracolo in sè, quanto piuttosto alcune modalità, non “naturali”, in

cui essa si attua: quando per esempio Gayeśa (la sua mūrti) non solo consuma “la

componente sottile” del cibo che gli viene presentato, come d’abitudine, ma comincia a

bere il latte che gli viene offerto (come è successo nel settembre del 1995 in diverse parti

del mondo, tra cui a Parigi), allora le leggi della natura, del mondo umano e di quello

divino vengono sconvolte, generando quella meraviglia che caratterizza il miracolo.

La meraviglia è solo uno degli elementi, ma non il più importante. Il fulcro infatti è

costituito dall’anormale intervento del divino nel mondo umano, ossia dalla causa di uno

specifico sentimento di meraviglia, il quale peraltro può essere provocato da molte altre

cause tra cui la magia o la finzione teatrale.

Come suggerisce R.Davis (1998), i miracoli sono atti sociali secondo diversi punti

di vista. Innanzitutto richiedono la presenza di un pubblico che risponda con meraviglia,

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Page 133: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

sorpresa e gioia all’evento. Richiedono inoltre una visione condivisa di ciò che è normale,

naturale in quanto è rispetto ad esso che il miracolo si definisce come deviazione: ad

esempio non è “normale” che una mūrti si trasformi in un bambino in carne ed ossa ed è

proprio questo a causare stupore, meraviglia e reverenza. Dal punto di vista del credente

poi essi rappresentano una modalità di comunicazione tra il divino e l’umano, una

modalità in cui il divino si manifesta, rinforzando la fede negli uomini attraverso la

meraviglia che le manifestazioni del suo potere generano. Riprendendo quanto accennato

da Muthukumarasamy sulla propaganda, il miracolo è anche un mezzo di affermazione

indiscutibile di autorità religiosa: questo perché i miracoli sono interpretati come atti

retorici intenzionali di Dio, il quale manifesta la propria volontà attraverso di essi.

Se i primi tre elementi possono essere generalmente applicati, l’ultimo non è a mio

parere sempre presente. Sono le differenti relazioni di potere, interne ed esterne

all’universo considerato, a generare la necessità o meno di una simile “conferma divina”.

Al Sri Ayyappan temple pare siano avvenuti molti miracoli nei dieci anni che sono passati

dalla sua fondazione: una donna che non riusciva ad avere figli è rimasta incinta dopo

aver osservato un periodo di austerità durante il quale ha finanziato un abhiseka da 1008

litri di latte; un’altra donna in attesa di un figlio maschio si è recata al tempio per 9

settimane durante le quali ha acceso decine di lampade a ghī chiedendo ad Ayyappan di

dargli una femmina: alla nascita il sesso del bambino era cambiato; un uomo che non

riusciva a trovare lavoro è andato al tempio per pregare Ayyappan di aiutarlo: all’uscita

ha incontrato un amico di infanzia che non vedeva da più di vent’anni che gli ha offerto

subito un lavoro. La lista naturalmente è molto più lunga. Tuttavia nessuno dei miracoli

che mi sono stati raccontati avrebbe potuto (anche non intenzionalmente) accrescere

l’autorità religiosa del tempio. Questo perché un’autorità religiosa non c’è: se la si volesse

identificare non potrebbe essere che Ayyappan stesso. Come già accennato, infatti, al

tempio non esiste una figura che racchiuda in sé poteri e funzioni, autorità e carisma,

come invece succede al tempio di Ayyappan de La Courneuve dove infatti avvengono con

regolarità “prove di legittimità”, legate peraltro allo statuto non convenzionale di

Guruswāmī.

A Saint Denis i miracoli vengono spiegati come una conseguenza di lunghi e costosi

abhiseka o altri rituali ma soprattutto come la risposta alla sincera devozione di un’anima

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“che coltiva da molte vite un buon karma”, comunicata a Dio attraverso il linguaggio del

cuore. In questo caso essi non accrescono alcuna autorità se non quella di Ayyappan, la

cui popolarità dipende da essi, poichè Egli “has the sure power to grant boons, to heal

wounds, to cure weakness, to restore potency, to save lives!” (Smith 1997: 223).

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Page 135: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Capitolo VII

IL SIVAN-PARVATHI TEMPLE E L’ARULMIHU MUTTHUMAARIAMMAN

AALAYAM: QUALCHE DIFFERENZA, MOLTE SOMIGLIANZE

In questo capitolo prenderò in esame due luoghi di culto: il Temple de

Mutthumariamman a La Chapelle e il Sivan-Parvathi Temple a La Courneve. La scelta di

affiancarli in una trattazione comune ha una duplice motivazione: se infatti da un lato i

due templi rivelano molti tratti simili (nell’organizzazione spaziale, nella gestione, nel

pubblico), dall’altro in entrambi i casi la ricerca sul campo si è scontrata con una forte

resistenza e un generale disinteresse alla comunicazione. Da parte mia ho tentato in molti

modi di infrangere questo muro, senza però ottenere grandi risultati.

La trattazione che qui prende il suo avvio sarà quindi molto diversa da quelle che

l’hanno preceduta, poiché ad averla forgiata è stata più l’osservazione che il dialogo.

D’altronde alla varietà delle interazioni umane non può che fare eco una varietà di forme

narrative, corrispondenti al loro contenuto.

La continuità con gli altri capitoli sarà comunque presente, nella misura in cui anche

qui si prenderanno in considerazione le caratteristiche che distinguono i due templi dal

resto del panorama hindū considerato, anche attraverso confronti mirati. La struttura del

tempio, la frequentazione, la gestione, le finalità dichiarate e i grandi festeggiamenti

saranno gli elementi principali di questo quadro.

La parte finale del capitolo sarà destinata alla trattazione dei problemi riscontrati

durante la ricerca.

7.1 Struttura, fruizione e pubblico: due templi simili

Il primo elemento che salta agli occhi entrando nei due templi è la magnificenza

degli spazi: le sale in cui sono stati creati non solo sono molto ampie, soprattutto se

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Page 136: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

confrontate agli altri templi, ma sono anche riccamente decorate e popolate da una

molteplicità di mūrti di grandi dimensioni.

Il tempio di Mutthumariamman si trova a La Chapelle1 in una piccola via di scarso

passaggio, a poche decine di metri dal Sri Manicka Vinayakar Alayam. Dalla strada esso è

individuabile attraverso una piccola insegna che riporta la dicitura “Temple de

Mutthumariamman. Association des hindouistes de France”. Varcato l’ingresso un

cartello indica la direzione del camerino dove lasciare scarpe e oggetti ingombranti, come

le carrozzine dei bambini o la spesa appena fatta nei negozi tamil del quartiere, e un altro

comunica il divieto di fotografare e filmare all’interno del tempio, il quale si trova al

piano superiore. Al suo interno esso si sviluppa in lunghezza: si tratta di una sala di circa

150 metri quadri a cui si aggiungono le cucine, un ufficio e una stanza per i brāhmayi in

cui sono stipati gli oggetti rituali. Dalla cucina si accede, tramite una scala, ad un’altra

grande sala utilizzata per i matrimoni ed altri saxskāra. Le tre mūrti principali

“alloggiano” in una grande cappella tripartita posta nella parte anteriore della sala, vicino

alla porta d’ingresso. Mutthumariamman al centro è la regina del tempio, affiancata da

Gayapati (il quale si trova alla sua destra, come in tutti gli altri templi, tranne quello di

Ayyappan a La Courneuve) e Murugan, suoi figli. Essa è infatti associata alla dea Pārvatī,

di cui sarebbe una manifestazione2. Le altre mūrti sono invece ospitate in nicchie ricavate

lungo il lato lungo della sala: sono rappresentati Śiva, Pārvatī, Krsya, Hanumān e Visyu.

Sul fondo della sala, superati tre scalini, troviamo i nove pianeti e Bhairava, forma

terrifica di Śiva.

Mutthumariamman significa Mariamman “come perla” ed è una delle infinite

forme di Amman (madre in tamil). È una dea locale, di villaggio, associata alla fertilità,

ma anche al vaiolo e in quanto tale conosciuta in tutto il Sud India e in Sri Lanka, dove le

sono dedicati molti luoghi di culto. La presenza di templi dedicati a dee locali in contesto

di diaspora viene spiegato in termini sociali come la conseguenza di una diversificazione

nella composizione castale (e di classe) dei recenti flussi migratori. In particolare

Waghorne (2004) si riferisce a tale fenomeno con la formula ‘globalized localism’:

1 Al 26, rue du Departement.2 Fuller (1992) parla di “politesismo fluido” per riferirsi al fatto che una divinità possa diventarne tante e tante una. Al tempio di Mutthumariamman, come negli altri templi le divinità femminili sono un esempio particolarmente evidente di questa sovrapposizione: Amman è il termine con cui ci si riferisce alle varie forme iconografiche che possono assumere le divinità femminili.

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Page 137: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

attraverso la diaspora culti locali trovano un’estensione globale. Importanti templi di

Mariamman si trovano infatti in tutti i luoghi raggiunti storicamente dalla diaspora tamil:

tra i più antichi e famosi si possono elencare il Sri Mariamman Temple a Singapore e il

Sri Mariamman Temple a Penang in Malaysia. Fin dal XIX° secolo quindi questa madre

multiforme ha seguito i suoi figli per proteggerli nel loro soggiorno in terre straniere.

Le cappelle e le mūrti di cui è dotato il tempio sono riccamente decorate. Un

giovane brāhmaya che officia ogni tanto al kovil mi ha riferito che esso è stato allestito

secondo le regole dell’architettura sacra. La disposizione delle mūrti, il loro orientamento,

cosi come la ricca decorazione, sono stati stabiliti da brāhmayi esperti ed eseguiti da

sthapati srilankesi residenti a Parigi3.

Il tempio di Śiva e Pārvatī a La

Courneuve è in assoluto il più grande

tempio di Parigi ed anche il più

riccamente decorato. Si trova nelle

vicinanze del tempio di Ayyappan, in

una zona residenziale della comunità

molto ben collegata (tramite la metro e la

periferica esterna della città). È l’unico

tempio ad esibire una decorazione

esterna, che, come si può vedere dalla

foto a destra, si presenta come una sorta

di gopuram bidimensionale nel quale

sono rappresentate le principali divinità

del pantheon hindū: Śiva, Hanumān,

Gayeśa, Pārvatī, etc Fig. 12 - L’ingresso del tempio

Lo spazio del tempio si presenta diviso in due zone: anteriormente, varcata la porta

d’ingresso, si accede ad un corridoio le cui pareti sono state adibite a scarpiera e che dà

accesso da un lato al kovil dall’altro al negozio del tempio, nel quale si possono trovare

articoli di culto di vario genere: raffigurazioni sacre di diverse dimensioni, raccolte di

3 Sarebbe interessante scoprire se sono gli stessi che hanno allestito gli altri templi. Vista la preparazione specifica necessaria e la dimensione piuttosto ristretta della comunità la cosa è altamente probabile.

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Page 138: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

bhajana, calendari, statue, abiti, lampade. Il negozio è collegato ad una zona leggermente

rialzata rispetto al resto della struttura, dove si trovano degli uffici e da cui si ha

ugualmente accesso alla sala del tempio. Esso è costituito da una grande sala rettangolare,

sulle cui pareti sono dipinte rappresentazioni divine e mondi celesti, in particolare il

monte Kailasa, dimora himalayana della sacra famiglia costituita da Śiva, Pārvatī, Gayeśa

e Murugan, ma anche Gayeśa che prega Śiva, lo Śiva linga e Hanumān. L’iconografia e

il decoro (ad esempio le strisce bianche e rosse) sono quelli tipici dell’arte tamil.

Il garbhagrha si trova nella parte posteriore della sala, in posizione centrale. Esso

ospita lo Śiva linga ed è fronteggiato dal toro bianco Nandi, vāhana di Śiva: le sue 4

zampe rappresentano la rettitudine, la verità, la pace e l’amore. La parola linga significa

innanzitutto segno, emblema, evidenza. Il linga di Shiva è innanzitutto simbolo della sua

presenza espressa in termini aniconici. Raramente lo si trova dissociato dal suo ricettacolo

e piedistallo, la yoni (vagina, matrice, luogo d’origine), ed è in questa forma che lo si

trova al Sivan-Parvathi Temple. Esso rappresenta Śiva nella sua potenzialità generatrice.

Ai lati del garbhagrha troviamo, in due piccole cappelle poste sul fondo della sala,

Gayeśa e Murugan a sei facce4, rispettivamente a destra e a sinistra del linga. Il resto del

tempio ospita le altre divinità, rappresentate da mūrti di grandi dimensioni, spesso

circondate da divinità minori. Troviamo Hanumān, Krsya, due mūrti di Dūrga, Laksmī,

due mūrti di Pārvatī e altre forme di Śiva: Śiva con Pārvatī, Śiva Natarāja e Bhairava.

Una grande struttura ospita poi i nove pianeti (nava-graha) rappresentati

antropomorficamente.

La grandezza delle mūrti distingue nettamente questo tempio da tutti gli altri. Esso è

inoltre l’unico a possedere un kotittampam5, bandiera-pilastro che indica la divinità

principale e che nei templi Śaiva si pone tradizionalmente in linea con il toro Nandi e lo

Śiva linga.

4 Nelle sei facce si rappresenta il mito secondo cui Murugan sarebbe stato generato dal seme di Śiva il quale, dopo molti passaggi, viene trasportato dalla Ganga (il fiume Gange) fino alle sei krittikā (personificazione delle Pleiadi) che danno origine a sei bambini, successivamente uniti in uno solo a sei facce da Pārvatī. Egli è infatti chiamato anche Kārttikeya ossia ‘figlio delle Pleiadi’.5 È l’ultima acquisizione del tempio e nonostante sia già stato posto nella posizione appena descritta è ancora impacchettato. Il 20 giugno si svolgerà una cerimonia d’inaugurazione.

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Page 139: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

I due templi presentano quindi nella struttura e nell’organizzazione spaziale del

sacro delle forti somiglianze, che li pongono in netta distinzione rispetto agli altri templi,

dove, come abbiamo visto, la ristrettezza della sala o il numero ridotto di mūrti determina

una diversa strutturazione interna, la quale a sua volta implica una diversa fruizione dello

spazio sacro.

Entrambi i templi sono aperti tutti i giorni: a differenza del Temple de

Mutthumariamman che fa “orario continuato”, al Sivan-Parvathi Temple gli orari di

apertura e chiusura si costruiscono sulle tre pūjā giornaliere e il tempio rimane chiuso per

qualche ora durante il pomeriggio. Nonostante questo in entrambi i fedeli hanno accesso

alla sala prima e dopo la cerimonia, e in effetti molte persone si recano negli orari di

minor afflusso per un momento di raccoglimento o per svolgere un po’ di karma yoga al

tempio. Nel primo caso si tratterà soprattutto di uomini, nel secondo di donne che, in

gruppo o sole, preparano una collana di limoni o una ghirlanda di fiori da offrire alla

divinità, oppure puliscono la frutta che andrà a riempire i cestini in vendita per l’arcanā.

Queste attività non hanno una natura organizzata, né coinvolgono necessariamente le

stesse persone di settimana in settimana. Si tratta piuttosto di abitudini portate con sé dallo

Sri Lanka: il contributo volontario alle attività del tempio dà diritto a meriti spirituali, ma

può essere anche un modo per attuare un voto, partecipando contemporaneamente ad un

progetto comunitario.

Coma si diceva, quindi, il tempio è aperto al pubblico anche al di fuori degli orari

della pūjā. Le visite extracerimoniali seguono tendenzialmente sempre lo stesso schema e

il percorso compiuto dal devoto ricalca quello tracciato dal brāhmaya quando officia il

rituale. Questo non deve stupire: la conoscenza della gerarchia divina è un dato culturale

acquisito fin dall’infanzia attraverso la pratica al tempio. Se tale gerarchia è comunicata

anche dall’organizzazione spaziale delle mūrti, essa non è sufficiente, poiché, in quanto

comunicazione simbolica, necessita comunque di un alfabeto culturale per essere

decifrata. E, d’altronde, chiunque non sia avvezzo al particolare “consumo” che si fa del

tempio, sperimenta immediatamente le conseguenze di questa ignoranza.

Il percorso del devoto quindi non è affidato al caso, ma segue regole ben precise,

imparate con la pratica e l’osservazione. All’entrata del tempio egli appone innanzitutto

con le proprie mani della vibhūti sulla fronte. Tale atto non riveste qui il medesimo senso

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Page 140: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

che si è riscontrato in altri contesti, come al tempio di Ayyappan de La Courneuve: qui

esso rappresenta piuttosto una forma di rispetto e un’abitudine. Dopo questo gesto

“introduttivo”, il devoto si dirige verso la divinità tutelare del tempio, lo Śiva linga al

Sivan-Parvathi Temple e Mutthumariamman a La Chapelle, per un saluto silenzioso in

cui, ancora una volta, mani e occhi fanno da tramite. La preghiera inizia con Gayeśa,

immancabile preludio di ogni atto intenzionale: dirigendosi verso di lui il devoto compie

parte della deambulazione rituale in senso orario attorno al garbhagrha. La sosta è breve,

la pradaksiyā continua e il devoto si ritrova di nuovo di fronte al garbhagrha.6 La

preghiera segue a questo punto un ordine lineare: in entrambi i templi infatti le divinità

ausiliarie sono sistemate lungo uno dei lati della sala. Le soste si susseguono mūrti dopo

mūrti, in uno scorrere di volti, simboli, gesti e oggetti divini in cui la durata della

preghiera è affidata alle preferenze individuali. Ultima tappa, i nove pianeti sono

anch’essi oggetto di una triplice deambulazione in senso orario, dopo la quale il grande

cerchio si richiude nel suo punto di partenza: il garbhagrha.

La disposizione spaziale delle mūrti permette in un certo senso una fruizione più

tradizionale del tempio, pur entro i limiti imposti dalla mancanza di quella molteplicità di

spazi concentrici che caratterizza i grandi templi in India e in Sri Lanka, e di cui si è già

parlato nel capitolo II. Questo è un fatto. D’altro canto la possibilità di compiere

pradaksiyā senza aver partecipato alla pūjā è un elemento che distingue nettamente

questi due templi dagli altri. Come abbiamo visto, in molti templi la deambulazione

rituale attorno alle cappelle ospitanti le mūrti avviene solo dopo l’apposizione da parte

dell’officiante della vibhūti, attraverso la quale si completa la trasformazione temporanea

che il fedele compie durante la cerimonia (ai due templi di Ayyappan e a quello di

Murugan). In alcuni casi la zona rituale o le cappelle non solo non sono accessibili al di

fuori di questi momenti, ma vengono anche nascoste agli sguardi attraverso tende o

pannelli tra una cerimonia e l’altra (tempio di Murugan e Ayyappan a La Courneuve). In

questi templi l’attenzione è diretta ad evitare una contaminazione del luogo e soprattutto

della divinità. Quando compiono pradaksiyā infatti, i fedeli si fermano a toccare con le

mani o con la testa i limiti esterni del garbhagrha: attraverso il contatto passa la loro

6 Talvolta i giri intorno ad esso sono tre. Tra le molteplici valenze di questo numero sacro e magico, nel caso specifico della circumambulazione esso rimanda ai tre passi “che racchiusero il mondo” compiuti dal Visyu solare (Stutley 1980).

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impurità relativa ed è per questo che è necessaria una purificazione rituale, la quale si

compie durante la pūjā ed è suggellata dall’apposizione della vibhūti. L’impurità può

passare anche attraverso lo sguardo naturalmente: il malocchio è una vera e propria

ossessione dentro e fuori dal tempio. Durante la pūjā anche questo pericolo viene limitato:

Durante la pūjā non puoi fare cattivi pensieri, perché la tua mente è concentrata su

Lui. Mentre lo onori la tua mente non vaga. Perché tu ripeti nella tua mente: Śiva!

Śiva! Śiva! Om namah Śivaya! E cosi tu diventi Śiva! Tu puoi essere Śiva! Capisci?

La mente è difficile da controllare. Per questo l’immanifesto diviene manifesto, per

aiutarci ad avvicinarsi a Lui. L’uomo è fatto di sensi. Attraverso la pūjā i sensi non

sono più…cioè non si concentrano più sulle cose, no,…il materiale. Ma i sensi sono

uno strumento! Per raggiungere l’immateriale, ciò che trascende le differenze, l’Uno!

Che è Dio! Che è Śiva! [conversazione con un devoto durante i festeggiamenti per

Mahā-Śivarātrī al Sivan-Parvathi Temple]

Lo sguardo e il tocco quindi, in quanto medium d’impurità solo temporaneamente

controllabili, sono da evitare al di fuori della pūjā. Il fatto che nei due templi qui

considerati la fruizione complessiva dello spazio sacro sia possibile in ogni momento,

senza che venga effettuata al tempio una purificazione preliminare, lascia alla “buona

coscienza” individuale la responsabilità di compierla. Teoricamente questo è possibile

nella misura in cui ogni buon fedele rispetta delle regole di condotta: le donne mestruate

non possono in assoluto recarsi al tempio e cosi l’uomo se ne è entrato in contatto; per

compiere la visita bisogna essersi lavati, indossare abiti puliti, non aver mangiato carne o

bevuto alcool. Queste regole sono molto interiorizzate, ma come abbiamo visto, spesso

non sono considerate sufficienti, poiché ognuno porta, indipendentemente dal rispetto di

queste regole, una certa dosa di impurità, relativa alla sua posizione castale e alla sua

attività lavorativa. È il rituale stesso che elimina questa impurità, poiché attraverso di esso

si compie l’identificazione tra adorante e adorato e il fedele diviene egli stesso divino: il

contatto può avvenire insomma solo tra simili.

Nel momento in cui la deambulazione è, come nei due templi considerati,

indipendente dal resto del rituale e non suo suggello, tutte le considerazioni appena fatte

perdono di valore. Questo perché ciò comporta necessariamente la mancanza di quella

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trasformazione implicita nella partecipazione ad esso. Ognuno, nel suo stato di “normale

umanità”, può avvicinarsi alle mūrti, toccarne la dimora, rivolgervi lo sguardo. Questa

differenza può essere dovuta alla diversa importanza che si dà alle differenze castali e

all’impurità relativa, o semplicemente a considerazioni di tipo pratico: non permettere una

simile fruizione dello spazio significherebbe dover chiudere il tempio al di fuori dei

momenti cerimoniali e quindi rendere impossibile la visita a molti fedeli.

In questa seconda prospettiva bisogna tenere presenti altre caratteristiche che

accomunano i due templi e contemporaneamente li distinguono dagli altri. Per la loro

grandezza, ricchezza nelle decorazioni e varietà di divinità rappresentate i due templi si

presentano come i templi della comunità per eccellenza: essi sono frequentati ogni giorno

(e in particolare martedì e venerdì) da centinaia di persone. Durante la pūjā le due sale

sono quasi sempre colme di gente, per non parlare dei grandi festeggiamenti, quando

l’affollamento è tale che è quasi impossibile muoversi. Inoltre, mentre nei templi con cui

si ponevano a confronto, per ragioni diverse e in modalità diverse, esiste un rapporto

stretto tra fedeli e gestori-presidenti del tempio, qui tale rapporto è necessariamente

assente, per ovvie ragioni numeriche. Ciò comporta tra le altre cose l’impossibilità di

esercitare un controllo sul pubblico del tempio, il quale risulterebbe non solo impossibile

ma anche controproducente. Bisogna tenere a mente anche un ultimo particolare: i due

templi non nascono come espressione di una ristretta comunità (come nel caso del tempio

di Murugan) o di spinte devozionali individuali (come i due templi di Ayyappan e quello

di Gayeśa): sono templi della comunità, retti da associazioni che contano centinaia di

iscritti e gestiti da un consiglio amministrativo elettivo.

Se i templi di Gayeśa e di Ayyappan a Saint Denis rappresentano dei casi limite in

quanto non solo è assente una comunità di fedeli, ma la direzione del tempio è definita

esclusivamente dai loro fondatori, i quali per ragioni socio-economiche possono

permettersi di sostenere il tempio solo con le loro forze, il tempio di Ayyappan a La

Courneuve e quello di Murugan si presentano uniti intorno ad un ideale condiviso dai

fedeli e dai gestori-fondatori-officianti del tempio: questo è possibile perché la comunità

del tempio, in entrambi i casi relativamente ristretta, si è andata costruendo proprio

intorno a questo ideale. Sebbene anche il Temple de Mutthumariamman e il Sivan-

Parvathi Temple siano retti da un’associazione e gestiti da un consiglio elettivo, non vi si

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ritrova il medesimo spirito comunitario. Essi sono piuttosto templi “di massa”: moltissimi

visitatori, grandi festeggiamenti, ricche decorazioni, rituali che si svolgono nel rispetto

della tradizione ma anche meno regole. Questo perché le regole spesso rispondono

proprio ad una visione precisa del ruolo del tempio.

L’impressione in questi templi è invece quella che si voglia accontentare un po’ tutti

per attirare un pubblico maggiore. Naturalmente un pubblico hindū, e ciò li distingue

nettamente dal tempio di Gayeśa. Essi inoltre non presentano caratteri “speciali” nelle

attività rituali, le quali si svolgono nel rispetto della tradizione. Le motivazioni alla

frequentazione dei fedeli, come in molti altri casi, sono legate proprio ai caratteri che

distinguono i due templi dagli altri:

Si si conosco anche altri templi, ce n’è tanti.

[Viene qui perché abita nel quartiere?]

No io abito a Saint-Denis. Ma qui è grande, questo è il più grande tempio che noi

tamil abbiamo a Parigi. Vengo qui perché è bello e poi c’è molta gente, come al

nostro paese.

Lei è devoto particolarmente a Śiva e Pārvatī?

Si si Siva, Pārvatī, Kanapathi, Murukan, tutti, tutti, qui ci sono tutti.

[devoto all’uscita dal tempio di Śiva e Pārvatī]

Si beh, io non è che vada spesso al tempio, perché sai già l’associazione mi prende

molto tempo, più c’è l’università, però quando vado, vado sempre al tempio di Śiva

perché li fanno dei grandi festeggiamenti. Per esempio per Śivarātrī, ti ho vista, eri li

anche tu, hai visto, no, cos’hanno organizzato? È importante partecipare perché è un

concentrato della nostra cultura: c’è la religione, la danza, i racconti, la musica. È

molto bello. Se no, andare al tempio, boh, io credo, però andare solo per la pūjā non è

che mi interessa. La pūjā tanto la faccio a casa con mia madre… tutti i giorni.

[conversazione con K. nata in Francia e membro di un’associazione femminile

franco-tamil]

[Viene spesso qui al tempio? ]

Si spesso…abito qui vicino e non è che cammino tanto facilmente e allora vengo qui

la mattina, a volte ci sto tutto il giorno [ride], tanto sono vecchia, loro [i nipoti] fanno

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Page 144: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

le loro cose francesi e allora cosa devo stare a casa a fare? Almeno vengo qui e

prego, e poi c’è sempre qualcuno, mi fa piacere.

[Al tempio di Gayeśa ci va, è qui vicino? ]

Beh, insomma, si, capita, quando fanno la festa ci vado ma se no è piccolo.

[conversazione al tempio di Mutthumariamman con una donna anziana]

Io vengo qui perché questo è il nostro tempio, là invece è il tempio di una persona

sola e lui…comanda! Qui vieni e preghi senza tanta pubblicità o altro. Questo è un

tempio fatto da noi per noi, non è che c’è bisogno della pubblicità, tutti lo sanno che

qui c’è un tempio hindū e gli hindū vengono, infatti, a centinaia. I giornalisti vanno

di là ma la gente viene qui, perché qui è per loro.

[devoto all’uscita del Tempio de Mutthumariamman]

Le motivazioni alla frequentazione sono quindi, in contrasto con altri templi:

grandezza e magnificenza del luogo, accesso facile, alta frequentazione e il fatto che sia

un tempio della comunità. Un’ulteriore motivazione è l’organizzazione di grandi

festeggiamenti, che rendono il tempio più “divertente” e attirano effettivamente una

grande fetta della gioventù tamil srilankese di Parigi, la quale, come lamenta Balakrishna,

tendenzialmente si disinteressa della religione.

7.2 Mahā-Śivarātrī: una festa per tutti

Le grandi ricorrenze religiose sono un ottimo momento per indagare gli aspetti

comunitari del tempio: se infatti nella quotidianità ognuno di essi si presenta come un

mondo a sé, i festeggiamenti organizzati in occasioni speciali richiamano un pubblico

sempre più vasto di quello abituale. L’organizzazione e la partecipazione a questi eventi,

soprattutto se messi a confronto con l’osservazione delle medesime variabili in momenti

di vita ordinaria del tempio, forniscono molte informazioni utili all’analisi della vita

religiosa della comunità nel suo complesso. Si scoprirà soprattutto che essi sono

occasione di accostamenti imprevedibili e di addolcimento delle fratture che si sono viste

caratterizzare i rapporti tra templi.

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Page 145: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

La prima settimana di marzo è stata un’occasione unica da questo punto di vista: ho

infatti potuto assistere alla medesima festa, Mahā Śivarātrī, in tre templi diversi: al Sivan-

Parvathi Temple, al Sri Manicka Vinayakar Alayam e al tempio dell’Associazione

Dharma Sangh, il quale però non verrà menzionato poiché esula dal campo d’indagine

della presente ricerca.

Mahā Śivarātrī è una grande festa panindiana dedicata al dio Śiva. Come per altre

ricorrenze importanti (Navarātri, Dīpāvali o Pongal ad esempio) ogni tempio sceglie se

rifarsi al calendario rituale, oppure posticipare (o avanzare) la data dei festeggiamenti in

funzione dei giorni di maggior afflusso. Al Sivan-Parvathi Temple cosi come al Temple

de Mutthumariamman viene seguito strettamente il Pañcānga, il quale può essere definito

nel modo seguente:

[It’s the] “almanac of the five things”, which are the lunar days, solar days, periods of

the asterisks, junction of the planets and the zodiac, [it’s] an important source for the

study of the socio-religio-cultural life of the Hindu Tamils. Literally the word means

“five limbs-units”; they are varam, “day”, titi, “lunar phase”, karanam, “division”,

nakshatram, “asterisk” and yokam, “junction”- all these are divisione of time. (…)

the Pancankam provides the astrological almanac for the Tamil year (April 14/15 to

March 13/14) on the basis of the Tamil months. (…) the Pancankam gives the

auspicious and inauspicious days for all the social educational and economic

activities ranging from wedding to admitting children to school, to harvesting and to

the dates of all the important annual seasonal festivals, days of fasting etc, along with

the dates of the annual festivals of the different temples. [Sivathamby 1995: 36-37,

grassetto nel testo]

In questa speciale occasione quindi, mi è stato impossibile partecipare ai medesimi

festeggiamenti nei due templi. Ho invece approfittato della posticipazione della festa al

tempio di Gayeśa: in realtà, anche qui sostengono di rifarsi al calendario rituale,

modificandolo però in funzione alla locazione del tempio, per cui la festa è risultata

sfasata di un giorno.

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Page 146: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Come si diceva la festa di Mahā Śivarātrī è dedicata al dio Śiva. Si dice che nella

medesima notte, all’inizio dei tempi, si sia svolto il matrimonio di Śiva e Pārvatī e che

egli abbia effettuato la danza creatrice del cosmo: in quest’occasione quindi egli viene

adorato come il creatore dell’universo. Essa può essere descritta come segue:

All night vigil during which all efforts by devotees are made to concentrate on Śiva’s

mystery to the exclusion of all other thoughts, preceded by a period of fasting, and

followed by an elaborate cycle of liturgies directed to the Śiva Linga. It is believed

that great merit accrues to one who observes the fast, and that the merit of one who

keeps vigil thoughout the night without doping is sure to result in moksa or liberation

from rebirth (Smith 1997: 21).

Al Sivan-Parvathi Temple la festa di Śivarātrī è uno dei principali festeggiamenti

annuali. I fedeli cominciano ad arrivare numerosi al tempio fin dal pomeriggio e il flusso

in entrata ed uscita non si interrompe per tutta la notte, durante la quale si succedono

quattro pūjā e diversi spettacoli.

Alle sette comincia la prima cerimonia: un abhiseka a base di acqua di rose e latte è

compiuto da quattro brāhmayi sullo Śiva linga, dopo il quale segue una lunga fase “a

porte chiuse”: durante la vestizione e l’adornamento infatti le porte del garbhagrha

nascondono ai fedeli la mūrti per una buona mezz’ora. Nel frattempo una donna prende la

parola per raccontare le storie mitologiche che fondano i festeggiamenti, il significato

della festa e i benefici legati ad una partecipazione vigile per tutta la notte. La sua voce,

attraverso un sistema di altoparlanti, è diffusa in tutto il tempio. Intanto ha luogo anche un

disciplinato andirivieni di fedeli che portano presso l’altare i loro cesti delle offerte,

comprati per 8 euro all’ingresso del tempio, e che consistono in una noce di cocco, 2 o tre

banane, foglie di betel, incensi e un bigliettino con scritti i nomi degli offerenti. I prodotti

vengono divisi, gli incensi gettati in una scatola, le noci di cocco raccolte in un lavatoio in

cui verranno spaccate, sulle foglie di betel vengono messi della vibhūti, della pasta di

sandalo e del kumkum.

Tutto è pronto, la gente si alza, le porte si aprono, il pubblico si affolla verso il

garbhagrha, ciascuno tenta di conquistarsi il suo personale darśan. Le mani unite si

levano al di sopra della testa, per essere poi riaperte, i palmi rivolti leggermente verso il

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viso, nel gesto dell’offerta: offerta di sé e abbandono si uniscono in questo gesto con la

disponibilità ad accettare ciò che il divino ha da offrirci. “Om namah Śivaya!”, ripete la

folla. Il linga è stato riccamente decorato con ghirlande di fiori e tessuti di seta colorata e

su di esso veglia ora un grande cobra dorato. Il complesso è inserito in una cornice

mobile, la quale verrà, come il resto della decorazione, rimossa alla fine del rituale. La

pūjā si svolge come d’abitudine7, concludendosi con l’arcanā. I bigliettini contenuti nei

cestini delle offerte, in cui sono segnati nome e naksatra degli offerenti, vengono passati

al brāhmaya da un suo giovane assistente, anch’egli dotato di yajñopavīta. La cerimonia

si conclude e sebbene qualcuno compia singolarmente il giro della sala, la maggior parte

dei presenti si siede: molti di loro resteranno al tempio fino alla mattina successiva.

Nel frattempo i volontari, riconoscibili da una benda rossa cinta attorno al braccio,

fanno avanti e indietro per il tempio, dirigono i nuovi arrivati, creano corridoi di

passaggio in mezzo alla folla, che è sempre più numerosa. Il tempio ha organizzato infatti

tra una pūjā e l’altra una distribuzione di cibo e caffé, “per non rischiare di

addormentarsi!”, e numerosi spettacoli artistici. Tra la prima e la seconda pūjā è uno

spettacolo di danza Bharata Natyam ad allietare i presenti. Si tratta di una danza

tradizionalmente associata al tempio e infatti essa ha avuto origine proprio nei templi del

Tamil Nadu, dove veniva eseguita dalle danzatrici sacre (Devadasī). “Basata su ritmi

tradizionali (tāla) espressi anche vocalmente, attraverso sequenze di sillabe prive di

significato, ha una funzione narrativa” (Piano 2001: 43). Attraverso di essa vengono

raccontate storie mitologiche e racconti religiosi. Il fatto quindi che il tempio abbia

inserito uno spettacolo di danza risponde ad una pratica comune in India come in Sri

Lanka, e diffusa in molti dei maggiori templi fondati dalle varie comunità hindū nel

mondo8.

La seconda pūjā, alla quale partecipa ancora più gente, è più lunga e complessa:

dopo un altro abhiseka in cui viene utilizzata una maggior varietà di prodotti, il linga

viene nuovamente decorato. Questa volta però esso si presenta come mukha-linga: su di

esso infatti i brāhmayi hanno rappresentato un volto, che è quello di Śiva stesso. Il

7 Si tratta della Pañca Upacāra pūjā, la quale include l’offerta di cinque elementi, come dice il nome stesso: fiori, luce, pasta di sandalo, incenso e cibo, i quali rappresentano spazio, fuoco, terra, aria e acqua.8 Spesso questi eventi eccezionali vengono fortemente pubblicizzati come si può facilmente verificare nei siti internet dei maggiori templi.

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Page 148: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

momento centrale del rituale, in cui fiori, foglie e lampade vengono offerte alla divinità, si

prolunga per molto tempo, in una complessa adorazione in cui sono coinvolti 8 brāhmayi:

4 di loro circondano il linga nel sancta sanctorum, alzano e abbassano le lampade

ripetendo il mahā mrutunjaya mantra, mentre gli altri, fuori dal garbhagrha ne recitano

altri.

“Om trayambakam yajamahe suganahim pushtivardanam urvarukamiva bandhanan

mrityor mukshiya mamritat”: anche i fedeli ripetono il mantra, leggendolo su un foglietto

distribuito durante l’abhiseka, nel quale esso è trascritto in tamil e in caratteri occidentali.

Una signora, seduta accanto a me, mi dice che va ripetuto tutta la notte.

Un concerto di musica carnatica è il secondo spettacolo organizzato dal tempio, che

alle tre di notte si presenta ancora pullulante di fedeli. Fuori dal tempio è un gran viavai di

famiglie, coppie e gruppi di giovani. La festa è infatti, come accennato, un momento

particolarmente atteso e di grande partecipazione anche giovanile. Mentre le ragazze

partecipano rimanendo disciplinatamente a fianco delle loro famiglie, i ragazzi arrivano e

restano spesso tra loro, tenendosi sul fondo della sala9. Il pubblico è quindi molto più

composito che durante le cerimonie quotidiane. Esso si mostra diviso, come vuole

l’abitudine: le donne, come sempre più numerose degli uomini, si concentrano nella parte

posteriore della sala, più vicine al garbhagrha; gli uomini invece tendono maggiormente

a restare in disparte, verso l’entrata del tempio, e a muoversi maggiormente. Anche per

questa categoria credo si possa affermare che il coinvolgimento nel rituale è minore.

I festeggiamenti si protraggono per tutta la notte, un altro spettacolo di musica

intercala le ultime due pūjā, l’ultima delle quali si svolge alle sei del mattino. Nel corso

della nottata il pubblico, già maggioritariamente femminile, si caratterizza ulteriormente

in questo senso. Essendo in un giorno infrasettimanale, molti uomini avrebbero lavorato

l’indomani e questo ha sicuramente influito sulla scelta di prendere o meno parte ai

festeggiamenti.

Alle 9, in un ritrovato silenzio, i volontari cominciano a pulire la sala: si apre infatti

un nuovo giorno in cui, nonostante la notte in bianco e anche se l’afflusso sarò basso,

bisogna assicurare le tre pūjā quotidiane.

9 Alcuni di essi accendono il loro ipod tra uno spettacolo e l’altro. L’attenzione al rituale è quasi nulla.

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La notte seguente partecipo invece ai festeggiamenti per Śivarātrī organizzati al Sri

Manicka Vinayaka Alayam. Iniziati alle 8h si protraggono anche qui fino alla mattina

dopo, con 4 pūjā consecutive. Appena arrivata incontro V., una signora tamil srilankese di

38 anni che era lì con la figlia adolescente e un’amica. Il marito C. e le due figlie più

piccole erano rimaste a casa, lui perché la mattina va a lavorare alle 5 e le bambine per via

della scuola. V. mi mostra, senza darmi troppe spiegazioni, ciò che va fatto: con un euro

compro un litro di latte e lo metto da parte, e con un altro euro ho diritto a versare

dell’acqua su un piccolo linga posto all’inizio della sala. Ci risediamo e dopo pochi

minuti la cerimonia inizia: a turno ognuno porta il suo latte ai brāhmayi che lo travasano

in un grande recipiente. Uno dei due si pone poi al lato dello Śiva linga del tempio, e,

aiutato dall’altro, dà il via ad un lungo abhiseka, che in questo caso non vuole essere il

preludio della pūjā, ma viene a costituire il cuore del rituale. Una volta versato tutto il

latte, il linga viene lavato con acqua purificata e il fuoco, nella forma di una fiammella

alimentata da purissimo ghī, gli è offerto secondo il tradizionale movimento circolare.

L’abluzione viene poi ripetuta con altri prodotti: yogurt, miele, pañcamrita, succo di

agrumi spremuti sul linga, latte di cocco, pasta di sandalo diluita, acqua di rose, cenere

sacra e kumkum puri e diluiti in acqua. Ad ogni passaggio il brāhmaya appone un po’ di

kumkum sulla parte superiore del linga.

Il resto della pūjā si svolge in forma abbreviata, nelle modalità prescritte dai testi.

Anche Gayeśa viene onorato attraverso l’offerta di fiori e dolcetti. La medesima

cerimonia viene ripetuta per quattro volte senza variazioni e nei momenti tra una e l’altra

viene distribuito del cibo e del tè.

La sala del tempio che, come si è detto, è molto piccola, è piena di gente fin verso

mezzanotte, andando progressivamente svuotandosi nel corso della nottata: solo una

quindicina di persone restano fino all’indomani mattina. Anche qui il pubblico è

prevalentemente femminile, ma al contrario di quanto osservato la notte precedente, sono

pochi i giovani che partecipano ai festeggiamenti, tutti accompagnati dalla famiglia.

I festeggiamenti per la “notte di Śiva” si sono quindi svolti in modalità diverse nei

due templi. Queste differenze sono in parte riconducibili al fatto che al Sri Manicka

Vinayakar Alayam, Śiva non è la divinità principale mentre al Sivan-Parvathi Temple sì:

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Page 150: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

questo influenza naturalmente la quantità di risorse che vengono ad esso destinate e

quindi la grandiosità dei festeggiamenti.

A questo si aggiunge il fatto che i due templi non hanno la stessa scala di grandezza:

nella piccola sala del tempio di Gayeśa non è possibile organizzare alcun grande evento,

tanto meno degli spettacoli.

I due templi inoltre non hanno sicuramente le stesse possibilità finanziarie: pur

ignorando la consistenza del patrimonio di Sanderasekaram e le entrate rispettive dei due

templi, dubito fortemente che esse siano anche lontanamente comparabili. Il Sivan-

Parvathi Temple è frequentato quotidianamente da centinaia di fedeli, per non parlare

delle donazioni fatte dai membri dell’associazione. Da questo risulta che mentre il primo

può permettersi di organizzare un unico grande festeggiamento, il secondo può finanziare

ogni anno diversi eventi della medesima portata.

Detto questo l’osservazione della festa di Śivarātrī, soprattutto se confrontata con il

défilé di Gayeśa, permette di giungere a qualche conclusione sulle “scelte di consumo”

della comunità tamil srilankese in materia religiosa. Il pubblico dei fedeli, a parte quelle

comunità di abitués che si creano in ogni tempio (e includo qui quanto detto nel paragrafo

precedente sulle ragioni dell’alta frequentazione dei due templi su cui si concentra il

presente capitolo), segue i grandi avvenimenti: il défilé di Gayeśa, evento unico nel suo

genere, vede la partecipazione massiccia di tutta la comunità; allo stesso modo quando i

due più grandi e ricchi templi di Parigi organizzano dei festeggiamenti, l’afflusso è

assicurato. Come rivelano le parole di K. sopra riportate e la presenza giovanile al Sivan-

Parvathi Temple, molti frequentano il tempio solo in occasioni speciali, quando il rituale

diventa l’occasione per grandi feste in cui anche altri elementi culturali della comunità

vengono messi in mostra. In questo senso Śivarātrī e così la processione di Gayeśa vanno

interpretati non solo come avvenimenti religiosi, ma più ampiamente come eventi

culturali della comunità. Essi basano il loro successo anche sul fatto che la comunità

stessa può e deve partecipare alla loro organizzazione: sono eventi gioiosi che rinforzano

il senso di appartenenza a questa entità sociale, la quale fonda la sua esistenza sul

sentimento di attaccamento ad essa dei propri membri.

A questo proposito sono interessanti le parole di uno dei membri del comitato

direttivo del tempio di Murugan. In una breve discussione, avevo abbordato con lui il

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Page 151: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

tema della “frammentarietà” che caratterizza il panorama hindū parigino. Egli mi aveva

fornito più o meno la stessa spiegazione di Balakrishna: gli altri fanno della religione un

business, ciascuno vuole fare il suo e cosi i templi sono in competizione l’uno con l’altro.

Avendo notato la sua presenza ai festeggiamenti per la notte di Śiva a La Courneuve, gli

ho chiesto se frequentasse altri templi. Mi ha risposto di no. Ho riformulato la domanda

nello specifico:

[non va neanche alle grandi feste, come quella di Gayeśa?]

Si si questo si…quando posso…il mese scorso sono andato a vedere Śivarātrī, sa

cos’è? È un po’ come per Gayeśa, ma per Śiva, il padre di Murugan… ma lo fanno al

tempio. Si, in queste occasioni vado, non tutti gli anni, ma quando posso si, porto

anche i bambini. Beh ma che c’entra non è come frequentare un tempio cosi,

normalmente. Vai perché c’è la festa. La fanno lì e vai lì, non è che vuol dire che sei

d’accordo con loro e le cose che fanno. Poi i bambini sono contenti e anche mia

moglie, perché ci sono tante cose da vedere e tanta gente. È una festa per tutti.

Accanto agli aspetti più propriamente religiosi (salvezza, accumulo di meriti

spirituali, completamento di un voto) e a quelli ludici (festa e spettacoli), il

coinvolgimento di un’ampia fetta della comunità a questi eventi si rivela essere uno dei

motivi scatenanti della scelta di parteciparvi. Questa stessa motivazione, unitamente

all’oggettiva magnificenza dei posti e alla conduzione tradizionale del religioso che nella

sua neutralità mette tutti d’accordo, spiega la frequentazione numerosa dei due templi qui

presi in esame.

È possibile che un’ulteriore motivazione, di stampo politico, stia alla base di tale

successo. Come dicevo, l’impossibilità in cui mi sono trovata, di compiere un’indagine

approfondita, non mi permette di inferire niente di sostanzioso a tale riguardo: alla

trattazione dei problemi connessi a tale tematica è dedicato il paragrafo seguente.

151

Page 152: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

7.3 Chiusura e diffidenza nei due templi

Come si è cercato di mostrare nel percorso effettuato negli ultimi capitoli, ciascun

tempio presenta dei caratteri che lo distinguono dagli altri. Molto spesso queste specificità

vengono sottolineate da fondatori e fedeli e determinano in gran parte la scelta di

frequentarli.

Affianco alla partecipazione e all’osservazione delle attività del tempio, il dialogo

incrociato con queste due categorie di attori sociali è stato naturalmente fondamentale,

non solo per le informazioni raccolte, ma anche per la loro ristrutturazione successiva: è

stata l’esperienza sul campo e le reazioni, positive o negative, seguite ai miei stimoli

conoscitivi, ad aver definito le direzioni che ha preso la ricerca e di conseguenza la

strutturazione del presente elaborato.

In generale mi è stata riservata un’ottima accoglienza: in modalità e per ragioni

diverse la disponibilità al dialogo ha caratterizzato quasi tutte le mie visite. In alcuni casi

questo ha portato all’instaurarsi di relazioni durature, basate sulla condivisione di

esperienze e interessi comuni. Spesso ho potuto mettere a confronto visioni molteplici di

una medesima questione mentre la varietà degli incontri e dei dialoghi ha reso possibile la

raccolta di punti di vista disparati. Tornando alle due principali categorie di attori sociali

cui mi sono rivolta, ascoltare da un lato le visioni dei fondatori-gestori e dall’altro quelle

dei fedeli si è rivelata particolarmente utile. La retorica dei fondatori ha rivelato l’idea o

l’ideale che sta alla base della fondazione del tempio, la considerazione che essi hanno del

proprio ruolo al suo interno e di quello del tempio nella comunità; ugualmente importanti

sono state le parole dei fedeli, in quanto, combinandosi con quelle dei fondatori-

responsabili, hanno messo in luce l’esistenza o meno di una comunità costruita intorno al

tempio, la presenza di visioni discordanti o conflitti interni e in termini più generali hanno

rivelato le differenti modalità di consumo del religioso della comunità tamil srilankese nel

suo complesso. L’osservazione, spesso partecipante, delle attività del tempio e delle

relazioni sociali che vi si instaurano ha fornito altri elementi importanti. Anch’essa si è

modificata nel corso della ricerca andando da un lato a sostenere e approfondire questioni

già discusse, dall’altro a colmare lacune informative.

152

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Gli unici due templi in cui l’esperienza della ricerca non si è svolta nelle modalità

appena descritte sono il Temple de Mutthumariamman e il Sivan-Parvathi Temple. In

gradi leggermente diversi ho riscontrato in entrambi una generale indifferenza al dialogo e

talvolta una vera e propria indisposizione nei miei confronti da parte dei responsabili del

tempio.

Non che non abbia sperimentato una certa dose di “perplessità” alle mie visite anche

negli altri templi, ma in un modo o nell’altro sono poi sempre riuscita a conquistarmi la

fiducia dei miei interlocutori: involontariamente come al tempio di Gayeśa, attraverso una

spiegazione dettagliata del mio lavoro di ricerca o recandomi al tempio con membri della

comunità. Spesso è stato sufficiente prendere parte alle cerimonie e in un certo senso

affidarmi a loro perché le sottili barriere della diffidenza cadessero.

Nei templi in questione invece le barriere sono rimaste, e molto alte. Pur rispettando

tale posizione, la quale ha una propria intrinseca legittimità, la domanda ‘perché?’ sorge

spontanea. Dal confronto con gli altri templi si possono dedurre alcune motivazioni:

I due templi considerati sono i più grandi e più frequentati templi hindū di Parigi.

Le loro risorse finanziarie superano di gran lunga quelle degli altri templi e tutti li

conoscono. Essi non hanno bisogno di pubblicità né vogliono aprirsi ad un pubblico

extra-comunitario (come il tempio di Gayeśa).

Sono templi “di massa”, che non riposano su alcun ideale condiviso, se non quello

di essere un luogo della e per la comunità. I fedeli non sono legati particolarmente ad

essi se non per il fatto che sono grandi, riccamente decorati, facili da raggiungere e

organizzano spettacoli grandiosi. La profondità devozionale di altri templi, come

quelli di Ayyappan, è assente e cosi la passione religiosa che stimola in questi templi

la condivisione e il dialogo.

Sebbene possano essere valide, queste due motivazioni non riescono a dare ragione

della chiusura che ho sperimentato al tempio. Per quanto riguarda la prima il fatto di

essermi recata al tempio con delle famiglie che lo frequentano regolarmente avrebbe

dovuto in qualche modo smorzare le posizioni: in un’occasione una di queste persone ha

anche proceduto a delle presentazioni ufficiali, spiegando lui stesso di cosa mi occupavo e

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che ci conoscevamo da molto tempo. Tuttavia alla disponibilità dichiarata sul momento

non ha fatto seguito una sua concretizzazione.

Nel secondo caso l’esperienza negli altri templi mi ha dimostrato che la

disponibilità alla comunicazione non si spiega solo come volontà di condivisione. Spesso

infatti il modo migliore per avviare una conversazione è stato notare alcune caratteristiche

del tempio (i canti, la bellezza del luogo, il rituale, la partecipazione dei fedeli) e quindi in

un certo senso lodare i fondatori o responsabili per ciò che avevano costruito. Nessuna di

queste tecniche ha invece funzionato nei due grandi templi in esame: al Temple de

Mutthumariamman sono riuscita solo ad ottenere una brevissima intervista col più

giovane dei brāhmayi che officia al tempio saltuariamente; allo stesso modo al tempio di

Śiva e Pārvatī ho potuto parlare, tramite un interprete, solo con uno dei brāhmayi. Nessun

membro dei comitati che amministrano i templi si è invece fatto avvicinare: mi hanno

dato appuntamenti non rispettati, poi posticipati e ancora non rispettati. Troppo presi

nell’organizzazione del tempio, la scusa era sempre quella: “adesso non ho tempo, torni

tra qualche settimana”.

Alcune ‘voci’10 e la lettura di un saggio di Angelina Étiemble, che si è a lungo

occupata della rete associativa tamil di Parigi, mi hanno poi spinto a formulare un’altra

ipotesi. La chiusura riscontrata potrebbe essere una conseguenza di un legame tra i due

templi e le Tigri tamil: seguendo questa tesi, i recenti arresti (aprile 2007) di alcuni

responsabili del CCT11, accusati di estorsione a fini terroristici12, avrebbe creato una

diffusa diffidenza da parte di tutti coloro che sono direttamente o indirettamente legati al

movimento. Le parole dell’ Étiemble serviranno ad inquadrare la questione:

Le Comité de Coordination Tamouls, affilié aux Tigres, esiste depuis 1980. Il

recueille des fonds pour aider les indépendantistes au Sri-Lanka ou les civils

Tamouls, par le démarchage au domicile des Sri-lankais et par les recettes obtenues

10 Tali testimonianze non provengono dal milieu dei due templi considerati, per questo le etichetto come ‘voci’.11 Tra di essi due dei principali rappresentanti del CCT e un vecchio presidente dell’ORT, di cui si parlerà tra poco.12 Le modalità di raccolta fondi “porta a porta” sono documentati per tutti i paesi della diaspora. “By the mid-1990s, some experts believed that 80 to 90 percent of the LTTE’s military budget came from overseas sources, includine both diaspora contributions and income from international investments and business” Rapporto di Human Rights Watch 2006, disponibile in linea al sito www.hrw.org, col titolo ‘Funding the “Final War”. LTTE intimidation and extortion in the Taimil diaspora’.

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en organisant des spectacles. Son action auprès des réfugiés a évolué au fur et à

mesure que la population srilankaise s’est installée dans la ragion parisienne. Au

cours d’une première période en effet, les membres du CCT ont aidé les demandeurs

d’asile sri-lankais à effectuer leurs démarches administratives, puis peu à peu les

anciens sri-lankais ont pris en charge le nouveaux venus.(…) Le CCT a ainsi mis en

place des activités pour assurer le contrôle politico-culturel de la communauté

tamoule en exil, s’assurant ainsi de sa participation financière dans le mouvement

indépendantiste, voire de son retour au Sri-Lanka. Le CCT a, par exemple, créé un

temple dans le quartier de la Chapelle, rue du Département, afin de rester en contact

avec la population tamoule et de lui donner un lieu de «ressourcement culturel» pour

qu’elle ne perde pas ses «racines». Le temple est un lieu de culte, mais les enfants

peuvent aussi venir suivre des cours de tamoul ou de dance traditionelle. (2000: 8)

In quest’ottica quindi il tempio verrebbe a rappresentare una delle tante modalità

(vita associativa, scuole di lingua, musica e danza, eventi sportivi, spettacoli culturali)

attraverso cui il CCT tenterebbe di “empêcher la dislocation de la culture tamoule en exil”

(Étiemble 2004: 153) monopolizzando e politicizzando la vita associativa13 della comunità

e assicurandosi al tempo stesso le entrate di queste attività.

La studiosa cita soltanto il Temple de Mutthumariamman a La Chapelle. E qui in

effetti un elemento porterebbe a sostenere la sua tesi: il tempio è infatti sede dell’ORT,

un’organizzazione legata al CCT, che si occupa di raccogliere fondi da inviare in Sri

Lanka per azioni umanitarie. L’ORT, Organisation de Réhabilitation Tamoule è l’antenna

francese della ong TRO (Tamil Rehabilitation Organisation) fondata nel 1985 come

organizzazione di auto-assistenza per i tamil srilankesi rifugiati nel sud dell’India.

Attualmente questa Ong, ufficialmente riconosciuta in Sri Lanka, ha sedi un po’ in tutto il

mondo e, secondo quanto si legge sui libretti informativi da loro distribuiti, collabora con

l’UNICEF e altre Ong. A Parigi l’organizzazione ha sede negli uffici del tempio e da qui

organizza tre grandi eventi annuali dichiaratamente finalizzati alla raccolta di fondi: uno

13 Tutta la rete associativa sarebbe in qualche modo legata al CCT: “Le schéma associatif suit le modèle des poupées gigognes avec en élément central, le Comité. Cet emboîtement permet sans doute de ne pas être étiqueté trop ouvertement «Tigres» tant par les Tamouls que par les institutions françaises. L’appellation «franco-tamoule», assez commune aux associations, témoigne de cette volonté de discrétion” (Étiemble 2004: 151)

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sportivo, uno di danza e uno di musica, a cui partecipano quasi tutte le associazioni tamil

srilankesi.

Le stesse attività sono organizzate dall’ORT anche in altri luoghi della diaspora. In

Canada, numerose inchieste, tra cui quelle dell’intelligence canadese, “have found that a

significant amount of the funds raised were channeled to the LTTE for its military

operations” (HRW Report 2006).

Tutti questi elementi sostengono l’ipotesi che vede il tempio controllato, se non

espressamente creato, dal CCT per raccogliere fondi a finanziamento della guerriglia. Il

tempio non presenta però altri legami visibili con il CCT o le Tigri di Liberazione. Sono

assenti ritratti di Prabhakaran, la bandiera dell’LTTE o altri riferimenti al movimento,

largamente usati in molti templi controllati dal LTTE in Occidente.14 Personalmente non

ho potuto quindi né confermare né smentire le dichiarazioni dell’Étiemble.

Ancora meno chiaro è il rapporto che legherebbe il tempio di Śiva e Pārvatī al

Comité. In questo caso nessuno studio supporta o smentisce le voci (piuttosto numerose

per altro) sul loro legame15. L’unico elemento che li collega è la raccolta di fondi che il

CCT organizza al tempio durante le grandi feste.

Nonostante il tema della mia ricerca non toccasse il politico, nella frequentazione

della comunità e soprattutto in seguito ai problemi della ricerca, mi sono trovata a dover

affrontare la questione. Una comunità che da 25 anni deve fuggire dalla propria terra a

causa di una guerra civile, non può non avere anche in diaspora stretti legami col politico.

Questo è un fatto e la portata delle sue conseguenze va tenuta bene in mente. Ma questo è

anche un diritto, il diritto alla memoria: la storia dello Sri Lanka e la lotta del popolo tamil

sono parte integrante della sua identità, al di là di qualsiasi affiliazione politica. A questo

proposito è interessante riportare ciò che dice Peter Shalk nel suo studio sul tempio di

Gayeśa a Stoccolma:

14 Ci si riferisci qui al già citato rapporto del HRW dove una sezione è dedicata al “LTTE control of Hindu temples in the West”.15 Queste voci vanno dalla denuncia di un uso politico del tempio, nell’organizzazione di cerimonie per il Maaveerar Naal o all’occasione di altri eventi politicamente rilevanti, fino a sostenere che i due templi siano stati creati per avere il controllo sulla maggioranza della comunità e i suoi soldi. Il fatto che i brāhmayi non vengano pagati, cosa che ho potuto verificare, sarebbe una prova del fatto che tutti sono implicati e che “il loro è volontariato per la causa, non per la gente” [fedele al tempio di Murugan].

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In Stockholm, he [Gayeśa] is related to the sufferings of the refugees. This also

implies a political dimension, as most refugees are political refugees and their

sufferings are due to political activism, but as mentioned bifore, their aim is to endure

in Sweden with the Remover’s help. The aim is not to change and take up arms

against the Lankan governement (…) the armed resistance is supported if regarded

necessary not by the koyil, but by the LTTE, that also has its national centre in

Stockholm. There is a proper division of labour promoted by both the koyil and the

LTTE. The division is, as we shall see, not complete. Many of the worshippers in the

koyil are also supporters of the LTTE, and supplication and resistance are not

regarded as incompatibile activities, but as complementare one. (2004: 31)

È una complementarietà di prospettive che deve guidare gli studi sulla diaspora

tamil, che non può e non deve essere vista solo in funzione della sua storia recente:

sebbene la pervasività del controllo ideologico e della propaganda delle Tigri, cosi come

la pratica dell’estorsione di denaro e il controllo delle reti associative sia documentato in

tutti i paesi della diaspora16, la comunità tamil srilankese non si riduce ad una propaggine

del LTTE.

Il pericolo infatti è quello di una stigmatizzazione. Nei media, ma anche negli studi

che in Francia sono stati dedicati a questa comunità17 si nota infatti lo stesso fenomeno

che documenta Jacobsen per la Norvegia:

The Sri Lankan Tamils are often considered by Norwegian as a political group (2004:

139)

Sicuramente legati al politico, in buona parte sostenitori del movimento delle Tigri,

i tamil srilankesi non si riducono però solo a questo e la ricerca dovrebbe tenerne conto.

16 Fuglerud (1999: 76) sottolinea il fatto che all’interno della comunità, avendo a che fare con connazionali c’è sempre la possibilità che parole od eventi abbiano delle ripercussioni in Sri Lanka. Il controllo sui rifugiati all’estero e in particolare sulle informazioni o notizie che potrebbero diffondere, danneggiando il movimento, viene esercitato attraverso un controllo sui familiari rimasti al paese. A partire dagli anni 90 questo controllo è stato istituzionalizzato e l’uscita dai territori controllati dall’LTTE dipende dalla firma di un “contratto” da parte di un garante che resta sul territorio, il quale risponderà degli atti “anti-nazionalisti” del suo “protetto” all’estero.17 Per un’analisi del problema si veda Dequirez (2002) la quale nota come negli studi ad essi dedicati i tamil siano legati invariabilmente a sostantivi come guerra, conflitto, crisi.

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Page 158: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Capitolo VIII

IL TEMPIO IN DIASPORA: UN NUOVO CENTRO

I templi della comunità tamil srilankese sono stati fin qui analizzati focalizzandosi

sulle loro specificità: ciascuno ha rivelato infatti caratteri a lui propri, la cui importanza è

stata sottolineata da un lato dalle parole dei suoi fondatori e dei fedeli che lo frequentano,

dall’altro attraverso il confronto con gli altri templi. Nonostante questa frammentazione,

sostenuta dal fatto che i templi non intrattengono rapporti tra loro, una visione d’insieme è

non solo possibile ma anche necessaria. Al di là delle sue caratteristiche “interne” infatti,

il tempio è innanzitutto un luogo comunitario: la sua fondazione rivela in molti casi una

comunione di intenti e nelle sue finalità esso si presenta come destinato alla comunità nel

suo complesso. Questo capitolo è quindi consacrato all’indagine del tempio in quanto

luogo della e per la comunità: l’analisi dei ruoli, religiosi e sociali, che esso assume,

metterà in luce molte questioni.

Una caratteristica comune delle comunità in diaspora è la messa in atto di modalità

di conservazione della propria cultura. Se il contatto, spesso traumatico, con il nuovo

contesto comporta una riflessione cosciente dell’individuo sulla propria identità, messa in

discussione dal confronto con l’Altro, spesso questo conduce (nel momento in cui i

bisogni di sopravvivenza siano stati soddisfatti) ad una finalizzazione cosciente delle

energie e risorse in surplus verso la conservazione di questa identità minacciata. I figli

della diaspora diverrebbero insomma più consci e attaccati alla loro tradizione poiché il

nuovo contesto in cui vivono non fornisce automaticamente le modalità di viverla: per

essere sé stessi bisogna lottare, investire energie e denaro, giungere a compromessi,

collaborare con altri membri della comunità.

Una delle prime conseguenza della diaspora , in particolare quando la comunità è in

via di formazione, è proprio l’abbattimento di quelle barriere sociali, castali e talvolta

religiose che caratterizzano la strutturazione della società nel paese d’origine. Un esempio

a questo proposito è riportato da Robuchon per la diaspora tamil srilankese in Germania:

egli, osservatore privilegiato dei primi arrivi nei primissimi anni ’80, descrive la

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Page 159: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

convivenza di tamil srilankesi appartenenti a caste e religioni diverse (hindū e cristiani).

Le nuove, penose, condizioni di vita portano a trascendere molte differenze e a modificare

le proprie abitudini di vita:

En Allemagne, dans une petite ville de la banlieu de Dusseldorf, une douzaine de

Tamouls partagent un quatre-pièce, ancien logement de fonction dans une école, où

ils ont été placés par les services sociaux d’accueil aux réfugiés. Trois pièces sont des

chambres. Deux lieux rappellent la collectivité obligée: la quatrième pièce qui est

aménagée en salon, avec divans et television; et l’étagère unique, installée dans l’une

des chambres, où se côtoient les représentations des dieux des occupants qui, tous

tamouls, sont les uns hindous, les autre chrétiens. Chacun est amené à accepter la

conviction de l’autre dans un même espace, comme chacun doit accepter de manger

la nourriture préparée par l’autre, au-delà des préjujés de castes: hindous de hautes et

de basses castes, chrétiens de basse caste, tous partagent la même nourriture comme

tous doivent la préparer à tour de rôle pour tous, en rupture pour cela avec les tabous

alimentaires du pays. L’immigration crée une nouvelle convivialité, par une volonté

de dépassement de la promiscuité et des risques de celle-ci pour la survie: la

commensalité est la règle commune, et l’étagère en est le reflet. (1993: 8)

Col costituirsi della comunità, la sua installazione e il conseguimento di una relativa

sicurezza economica, alcuni di questi “compromessi” forzati vengono abbandonati ed altri

si manifestano in modalità diverse. La comunità si differenzia e l’accesso a nuove risorse

permette una diversificazione delle modalità di mantenimento della propria cultura.

In quanto componente fondamentale dell’identità individuale e collettiva anche la

religione è oggetto di simili nuove attenzioni:

Living in the diaspora often challenges people to rethink their cultural identity

leading to increased awareness of religious identity. The religious identity may

become an important cultural marker and the minority situation leads to a new

interest in religion as preserver of culture. The minority situation creates increased

awareness of religious difference. (Jacobsen: 134)

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Page 160: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Inoltre, come gli altri aspetti della vita sociale della comunità, anche la vita religiosa

segue un percorso di “compromessi-adeguamento-diversificazione” che vede le sue

espressioni moltiplicarsi e diversificarsi rapidamente col passare degli anni (Baumann

2000, Luchesi 2004).

In questo sforzo collettivo per il mantenimento della propria identità, su cui la

comunità fonda in parte la propria compattezza, il tempio riveste un ruolo fondamentale.

In questo senso esso è simbolo, mezzo e risultato di un processo di (ri)costruzione di

riferimenti identitari e della creazione di spazi di espressione ed emancipazione del Sé. Se

da un lato esso è segno della rassegnazione di fronte all’impossibilità di tornare al proprio

paese, il tempio rappresenta soprattutto l’energia creativa che scaturisce dall’esperienza

della diaspora e dalla perdita di riferimenti che la caratterizza. La sacralità dello spazio del

tempio, che trova un suo corrispettivo nella sacralità, differente ma parallela, della casa, fa

di esso non solo un luogo adatto a ospitare gli dèi e le preghiere degli uomini, ma

permette di estendere, oltre i limiti geografici, la terra sacra del proprio paese d’origine.

Essere al tempio è come essere a casa, in Sri Lanka: tutto riporta a questa madre dilaniata

dal conflitto. Darle vita altrove significa anche, in un senso non necessariamente politico,

combattere per essa.

Quanto detto si esprime in una varietà di ruoli, vecchi e nuovi, che il tempio viene

ad assumere in diaspora. Le pagine che seguono vogliono esserne un compendio.

8.1 Il tempio come centro religioso

Il tempio, in diaspora come in Sri Lanka, è innanzitutto un luogo di buon auspicio e

di contatto tra il mondo umano e il mondo divino: questo contatto viene stabilito

attraverso i primissimi rituali che si svolgono al tempio, tramite cui si induce la divinità a

“prendere dimora” nel supporto fisico rappresentato dalla mūrti1. Esso viene inoltre

rinnovato quotidianamente attraverso rituali appropriati che rendono la presenza del

1 Sono 4 i momenti principali di questo processo: la statua viene installata, secondo precise regole definite da brāhmayi e sthapati; gli occhi della divinità vengono completati attraverso la perforatura con un ago d’oro; il prāya (soffio vitale) viene installato nella divinità con una cerimonia che prende il nome di Prāya-pratistha; infine viene eseguito un abhiseka speciale chiamato mahā kumbha abhiseka.

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Page 161: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

divino sempre più potente. Il tempio è quindi una dimora terrena della divinità2 e farvi

visita si presenta innanzitutto come la ricerca di un contatto forte, potente, con il divino, il

quale si stabilisce soprattutto attraverso il medium della vista: è il darśan che i fedeli

ricercano innanzitutto.

Se è vero che questo contatto ha un suo valore intrinseco, i fedeli si rivolgono però

al divino soprattutto in momenti di crisi, ansia, malattia o prima di momenti caratterizzati

da incertezza (ad esempio prima di un esame o di un importante colloquio di lavoro). In

questi casi il pronunciamento di un voto è pratica comune. Il corrispondente termine

sanscrito ‘vrata’ significa innanzitutto desiderio, ordine, regola, condotta, maniera e solo

in un secondo momento ha assunto la connotazione religiosa implicita nella parola ‘voto’.

Bhatt lo descrive nel modo seguente:

Du point de vue religieux c’est avant tout un acte méritoire de dévotion avec

austérité. C’est un vœu solennel de se livrer à telle pratique sacrée qui comprend

souvent le jeûne et la continence. Les textes traitant du vrata l’expliquent comme rite

religieux caractérisé par une discipline physique et spirituelle. Comme tous les rites il

y en a de deux sortes: nitya obligatoires, kamya dépendants d’un désir particulier et

accomplis avec un but personnel. Les dates régulières d’observance des premiers sont

fixées et indiquées dans des almanachs publiés chaque année. (2000: 300)

Il voto si rivela prevalentemente nella pratica di austerità fisiche e spirituali, ma non

solo. Esso può anche manifestarsi nella promessa di compiere un determinato rituale nel

caso il desiderio espresso venga ascoltato. Spesso le due cose sono associate e in entrambi

i casi il tempio è fondamentale: dichiarazione e attuazione del voto si svolgono entrambi

agli occhi e per la divinità. Inoltre il tempio informa i fedeli sul calendario rituale, di cui

spesso su richiesta si può ottenere una copia.

Restando sempre nell’ambito della pratica individuale, il tempio è anche un luogo di

meditazione e raccoglimento, in cui è possibile sperimentare Śānti, la pace della mente: in

questo senso esso diventa una casa spirituale per tutti i figli della diaspora:

2 Come comunicano i termini tamil con cui esso viene designato: kovil e alayam stanno infatti sia per tempio che per dimora del re.

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Page 162: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Sai non è che noi siamo obbligati a venire al tempio…è come se, cioè ti faccio un

esempio: non è che il prete viene a cercarci a casa come fanno i cattolici. Io ho un

amico che se non va alla messa la domenica il prete lo chiama e gli chiede perché.

Qui non è cosi. Tu vieni quando vuoi. Puoi anche pregare a casa nella pūjā room ma

non è che è la stessa cosa, perché qui è meglio…è più spirituale, capisci? È un luogo

fatto per questo, è più spirituale. Vieni per non pensare più ai problemi della vita, al

lavoro…[devoto al Temple de Mutthummariamman]

Nella formulazione di richieste e voti e nella pratica meditativa il tempio viene

quindi a rappresentare per i fedeli un importante luogo di conforto3 e la pratica religiosa

un importante mezzo di interpretazione e gestione del reale, in continuità con la propria

tradizione.

I cambiamenti strutturali che il tempio ha dovuto subire nell’adeguamento al nuovo

contesto, i quali, come abbiamo visto, si sono tradotti in una diversa fruizione spaziale del

sacro, non hanno inficiato la sua caratteristica fondamentale (che è anche la sua ragion

d’essere) che è quella di rendere possibile la discesa in terra del divino. Il tempio, anche in

diaspora è un luogo sacro e gli dèi vi trovano dimora: come i loro fedeli, essi si adeguano

alle nuove condizioni di vita e accettano di vivere in luoghi dove le vecchie regole non

possono più essere completamente rispettate.

Nonostante questo la percezione dell’inadeguatezza del luogo si manifesta spesso:

tutti i fondatori con cui ho parlato hanno espresso il desiderio di costruire un grande

tempio, nel rispetto delle regole dell’architettura sacra. In questo ambito il sentimento di

essere oggetto di un’ingiustizia e di rappresentare una minorità misconosciuta è espresso

con molta forza.

I tempio è anche un luogo importantissimo per la trasmissione culturale:

Religions often function as preservers of tradition inherited from the past especially

because their rituals are repetitive and their norms considered eternal or trascendent.

Temples often become the central institution for the preservation of cultural heritage

in the diaspora (Jacobsen 2004: 137).

3 Il fatto che le persone “vengono al tempio per dimenticare i loro problemi” è una delle maggiori costanti nelle interviste.

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Page 163: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Questo ruolo si manifesta però non tanto nella preservazione di rituali e pratiche

religiose, che, come si è visto, non rappresenta sempre la norma: spesso il nuovo contesto

richiede degli adeguamenti4, e talvolta la creatività si manifesta in tutta la sua forza.

Inoltre l’impossibilità di trasmettere la cultura rituale mi è stata chiaramente manifestata

in tutti i templi, innanzitutto in quelli maggiormente legati alla tradizione. Questo è

facilmente comprensibile se si pensa che i brāhmayi compiono un lunghissimo percorso

di studi prima di poter officiare. In diaspora una simile formazione è impossibile: tutti i

brāhmayi dei templi parigini hanno compiuto la loro preparazione in Sri Lanka (o in India

del Sud) e se i loro figli ricevono una formazione al rituale, essa è sufficiente soltanto a

fargli svolgere il ruolo di aiutanti. Anche al tempio di Ayyappan a La Courneuve il

passaggio della gestione nelle mani del figlio di Guruswāmī non è considerato un’ipotesi

plausibile, almeno fino a che egli non si dedichi completamente, come suo padre, alla

pratica spirituale5.

Se la trasmissione della cultura rituale è impossibile, il tempio è sede di un altro tipo

di trasmissione culturale basata sulla partecipazione al rito. Attraverso di esso infatti è

tutto un complesso di espressioni vocali e attitudini corporali ad essere messo in atto, ad

essere vissuto e mostrato, innanzitutto ai bambini. È stupefacente vedere la dimestichezza

dei bambini, anche molto piccoli, con la pratica religiosa: i gesti, le invocazioni, le posture

vengono padroneggiate fin dalla più tenera età. Ricordo un episodio divertente, che mette

in luce quanto detto: ad occasione del terzo compleanno di sua figlia, M. (38 anni, in

Francia dal 1990) ha organizzato una festa a casa, a cui è stata invitata la famiglia,

qualche amico e la sottoscritta. È pratica comune in queste occasioni speciali allestire una

sala per farvi le foto: il tavolo della sala da pranzo, addobbato con una ghirlanda di fiori

finti, era stato in questo caso spostato sul fondo della parete, e su di esso erano state messe

la torta di compleanno al centro e due bottiglie di finto champagne (non alcolico) agli

angoli. Dopo le prime pose, la piccola è stata messa in piedi su uno sgabello davanti alla

4 Un’importante conseguenza del nuovo contesto in cui il tempio si inserisce è la variazione parziale del calendario rituale: secondo una valutazione dei giorni di maggiore afflusso (venerdì e weekend) alcune importanti celebrazioni vengono anticipate o posticipate per seguire le nuove necessità dei fedeli. Questo fenomeno si riscontra principalmente nei templi minori, mentre, come già osservato, il Sivan-Parvati temple e il Temple de Muthumariamman sottolineano la loro stretta osservanza del Pañcānga.5 S. ha espresso più volte con me il desiderio di dedicarsi alla fondazione di un tempio, sulle orme di suo padre, dopo i 50 anni.

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Page 164: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

sua magnifica torta: sorridente si faceva fotografare dimostrando una notevole

dimestichezza davanti all’obbiettivo. Nel momento però in cui hanno acceso la candelina

sulla sua torta, invece di soffiare, vi ha passato sopra le mani, portandosele poi agli occhi.

In mezzo all’ilarità generale, sua padre mi ha detto: “Poverina, lei che ne sa, lo vede

sempre fare al tempio”.

Come mostra quest’esempio, la partecipazione alla vita del tempio è molto

importante, in quanto l’apprendimento della religione passa innanzitutto attraverso

l’osservazione e la pratica. Da questo punto di vista i bambini mostrano di padroneggiare

molto presto la complessità del rituale. Farsi raccontare da un bambino una cerimonia a

cui ha assistito è un’esperienza unica: mi è capitato poche volte ma è sempre stato molto

istruttivo (e anche molto divertente). Oltre a conoscere le fasi del rituale i bambini sono in

grado di mimare i gesti degli officianti e dei fedeli con incredibile precisione, ma la

risposta a domande come “e perché fa cosi?” sarà immancabilmente “boh, si fa cosi e

basta”, oppure “non lo so, mia mamma fa cosi”. Come sottolinea Logan (1988) citato in

Vertovec (2000: 95):

The children’s knowledge of myths, the reason for celebrating particolar festivals and

theological concepts is weaker than their command of ritual practice (…) Moreover,

their greater knowledge of practice merely reflects the nature of much of popular

Hinduism

L’osservazione non è tuttavia l’unica forma di trasmissione culturale che si attua al

tempio. In alcuni casi infatti vengono tenuti dei discorsi alla fine della pūjā (tempio di

Ayyappan a La Courneuve) o durante i grandi festeggiamenti: in queste occasioni un

membro della comunità prende la parola per raccontare storie leggendarie, spiegare

l’importanza di partecipare a determinati rituali o il significato di concetti quali dharma o

karma. Attraverso questi discorsi la comunità condivide, ricorda o apprende un complesso

di norme, valori, concetti religio-esistenziali, ma anche la propria letteratura sacra e la

mitologia, il significato delle feste religiose e delle pratiche devozionali.

In quanto luogo di trasmissione culturale il tempio ripropone una funzione assunta

anche al paese d’origine. Tuttavia in diaspora esso vede accentuare la sua importanza:

ruolo non nuovo quindi ma reso vitale dalla mancanza di altre occasioni di

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Page 165: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

apprendimento. In particolare bisogna notare qui come la dispersione residenziale che

caratterizza le famiglie allargate6 nel contesto parigino, rende più difficile, talvolta

impossibile, riproporre i modelli educativi sperimentati al paese d’origine, dove

l’educazione religiosa dei bambini, cosi come la loro educazione in generale, non è

affidata solo alla madre, ma alle diverse figure femminili della famiglia. Sebbene quindi le

madri insegnino la pratica religiosa ai propri figli, nel nuovo contesto le visite frequenti al

tempio risultano fondamentali per il suo apprendimento.

Un altro elemento importante da tenere in considerazione sono i saxskāra, rituali di

consacrazione o di passaggio che marcano le tappe fondamentali della crescita

dell’individuo. Essi vengono in gran parte eseguiti al tempio: tra questi abbiamo la

cerimonia della nascita, l’imposizione del nome, la prima assunzione di cibo solido, la

prima tonsura, la foratura delle orecchie, la cerimonia di pubertà e il matrimonio. In alcuni

casi i templi possiedono delle sale espressamente destinate alla celebrazione dei due

saxskāra più importanti, la cerimonia di pubertà e il matrimonio, per i quali vengono

investite enormi risorse.7 Alcuni di questi riti si svolgono anche a domicilio.

Da tutti questi elementi risulta chiaro che il tempio è innanzitutto centro religioso

della comunità, punto di riferimento in importanti fasi o momenti della vita, luogo in cui

vivere appieno la propria cultura religiosa. Il moltiplicarsi dei templi che ha caratterizzato

gli ultimi dieci anni di storia della comunità è un segno chiaro dell’importanza che questi

luoghi rappresentano per i suoi membri, importanza accentuata dal fatto di trovarsi in una

società laica, in cui i valori e la morale non sono basati sulla religione. Questo aspetto

della società francese è fortemente criticato ed è spesso stato oggetto di commenti durante

le interviste. In molte conversazioni i miei interlocutori mi chiedevano se fossi francese:

la mia risposta di essere italiana spesso induceva da parte loro un confronto della libertà di

6 Spesso inoltre essa non riesce a riformarsi in diaspora e si ristruttura sul modello occidentale della famiglia nucleare.7 Una cerimonia di pubertà “ben fatta”, ad esempio, costa circa 3000 euro: bisogna infatti pagare un brāhmaya per svolgere i riti a casa e alla sala del tempio, la quale va affittata e addobbata riccamente (spesso vengono pagate delle donne specializzate in questo); inoltre bisogna pensare ad offrire almeno due pasti agli invitati, che sono nell’ordine del centinaio, e pagare fotografi e cameraman; la ragazza inoltre dovrà cambiarsi d’abito e gioielli quattro volte nel corso della cerimonia. In generale è un momento fortemente atteso e oggetto di infinite discussioni tra amiche.

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espressione religiosa nei due paesi. L’idea diffusa è che in un paese fortemente religioso

come l’Italia (“perché c’è il Papa”) anche loro potrebbero godere di una maggiore libertà

di espressione perché “almeno lì la gente capisce cosa vuol dire credere in un Dio”

[devoto al tempio di Murugan].

8.2 Il tempio come centro socio-culturale: socialità, aiuto, costruzione

identitaria e messa in mostra del Sé

Il tempio è un luogo saturo di riferimenti culturali e tutto in esso rimanda al paese

d’origine: la musica, gli oggetti, la decorazione, la frutta offerta alle divinità, l’estetica. In

questo senso lo spazio del tempio è uno spazio addomesticato, un frammento di terra

straniera che è stato trasformato in un luogo sacro e ospitale. È su questo

addomesticamento, sulla capacità del tempio di essere “qui è li” ad un tempo, che si basa

la sua rafforzata importanza come centro di vita sociale della comunità.

Oltre ad essere sede della vita religiosa i templi sono infatti, a Parigi cosi come in

Sri Lanka, dei luoghi di socialità fondamentali. In particolare sono visti come luoghi di

socialità “appropriata”8, soprattutto per le donne, per le quali la visita al tempio

rappresenta un’importante, talvolta l’unica, occasione di uscita e incontro al di fuori della

famiglia: molte donne infatti non lavorano e, soprattutto per loro, il tempio rappresenta tra

le altre cose, anche un momento di svago in cui incontrare amiche e conoscenti, discutere

le notizie del paese, conoscere nuovi membri della comunità, esprimersi (attraverso il

canto o l’aiuto al tempio), avviare proposte matrimoniali. Spesso le donne sono meno

integrate degli uomini, i quali, attraverso il lavoro, si trovano in contatto quotidianamente

con la società francese, di cui imparano le norme e le leggi, comprendono i valori, e

soprattutto, apprendono la lingua. Le donne, in particolare quando arrivano per

raggiungere i propri mariti o già con dei figli, spesso rimangono a casa, non sono

stimolate all’apprendimento della lingua e restano escluse da tutta una gamma di

occasioni sociali e di uscita: anche portare i bambini dal medico o parlare con le maestre

8 e in questo senso si oppone a luoghi dove “non è bene farsi vedere gironzolare”: in particolare pare sia molto mal visto ritrovarsi nei bar de La Chapelle, come fanno molti giovani, in quanto la cosa è associata all’uso di alcool.

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Page 167: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

diventa molto difficile. In una simile situazione il tempio rappresenta un’oasi di cultura

tamil in cui ritrovare punti di riferimento e in cui poter vivere una socialità simile a quella

che si viveva al paese.

Lo stesso discorso vale per i tamil appena arrivati in Francia. Soprattutto per chi non

trova ad accoglierlo una famiglia, l’arrivo può essere particolarmente traumatico. Per

queste persone il tempio rappresenta un importante luogo in cui trovare sostegno e un

pasto caldo, preparato proprio come in Sri Lanka. Abbiamo visto come il tempio di

Ayyappan a La Courneuve (che fornisce ai suoi fedeli due pasti giornalieri) accolga da

tempo dei sans papiers, alcuni dei quali frequentano il tempio quotidianamente,

ricambiando l’aiuto con piccoli lavoretti di manutenzione e pulizia. Il fatto di nutrire i

bisognosi, i quali, nonostante la comunità sia ben integrata economicamente, sono ancora

molti, è uno dei ruoli del tempio maggiormente sottolineato dai fondatori o brāhmayi con

cui ho potuto parlare, anche quando questo non avvenga quotidianamente.

Il tempio è un luogo sociale anche perchè permette importanti occasioni di

espressione di status, innanzitutto e in maniera ovvia per il fondatore o i membri

dell’associazione, sulle cui donazioni si basa l’esistenza stessa del tempio. Ma esso è

teatro anche di altre modalità, più sporadiche ma diffuse, di messa in mostra di sé.

Nel novembre 2007, all’inizio della mia ricerca, ricevo una telefonata inaspettata:

M. originario di Jaffna, arrivato a Parigi nel 1987, mi invita ad una cerimonia familiare. È

la prima volta che prendo parte ad un’occasione simile. La cerimonia si svolge nel tempio

di Mutthumariamman, nel quartiere de la Chapelle. L’ora convenuta per l’appuntamento

sono le 5. Al mio arrivo il tempio è stracolmo di gente: le donne a sinistra e gli uomini a

destra, ci saranno almeno 200 persone. La grande cerimonia viene fatta in onore di

Murugan. La sua mūrti è stata preparata diversamente dal solito: spostata dalla sua

locazione, è stata messa su un tavolo in metallo sul quale verranno successivamente poste

le offerte. La famiglia allargata è riunita e tre brāhmayii officiano la cerimonia, al termine

della quale un ricco pasto viene offerto a tutti i presenti. La cerimonia è anche occasione

per una breve esibizione di canto da parte delle bambine della famiglia, le quali seguono

tutte da anni un corso a domicilio. Prima e dopo la cerimonia non ho occasione di parlare

con M. Lo rivedo solo qualche giorno dopo e la prima cosa che mi chiede è se mi era

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piaciuta la cerimonia, aggiungendo “Hai visto? Erano tutti contenti. Ma ci vogliono molti

soldi per tutto questo”.

Nelle sue parole si riassumevano così i vari sensi della cerimonia: essa era stata da

un lato un’occasione importante di convivialità e un modo di esprimere la propria

appartenenza alla comunità, dall’altro, proprio perché tutti sanno che “ci vogliono molti

soldi per tutto questo”, un’affermazione del proprio status sociale. L’organizzare una

cerimonia del genere, aperta a tutta la comunità, significa innanzitutto assumere un ruolo

di spicco, far conoscere il nome della propria famiglia, far mostra di sé, delle proprie

possibilità finanziarie come della buona educazione dei propri figli.

Il ruolo del tempio in quanto marcatore sociale non è assolutamente una novità (per

lo Sri Lanka cfr Sivathamby 1995) ma esso subisce in diaspora una modifica sostanziale,

assumendo al contempo una rinnovata importanza. Abbiamo già menzionato

l’impossibilità di un’analogia rituale-sociale: in diaspora le differenze di casta e

provenienza sociale vengono stravolte dal nuovo contesto e dalle diverse possibilità di

ascesa sociale che la nuova società offre. Le caste assumono una diversa importanza, non

strutturano più né la società né la comunità, ma rimangono importanti marcatori di status

influenti soprattutto sulle politiche matrimoniali. In questo senso il tempio riflette e

sostiene questi cambiamenti sociali. L’esperienza stessa della diaspora porta a trasformare

vecchie promiscuità in nuove convivialità e il tempio riflette questo cambiamento: le

differenze castali e il concetto di “intoccabilità” non hanno più diritto di cittadinanza al

suo interno. Nonostante quindi il kovil non rifletta più le divisioni castali della comunità,

esso resta teatro di espressioni di status: la sua importanza in questo senso è accentuata

dalle nuove condizioni di vita e soprattutto dalla dispersione urbana che caratterizza la

comunità. Nella quotidianità è impossibile affermare agli occhi della comunità la propria

posizione sociale-castale, la quale per altro ha spesso subito una traslazione notevole a

causa dei lavori che si è costretti a svolgere. Una famiglia di casta Vellala, come quella di

M. non solo punterà sull’educazione dei propri figli, ma utilizzerà il tempio come teatro di

messa in scena delle proprie capacità finanziarie, in una sorta di compensazione

simbolica. Inoltre, come si è già notato (in particolare nel capitolo VI) l’investire denaro

ed energie nel tempio, attraverso donazioni o il finanziamento di cerimonie, è anche

(naturalmente) motivo di meriti spirituali, il cui valore non è determinato solo dalla,

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Page 169: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

presunta, approvazione divina: ciò che il fedele ricerca è anche la valorizzazione della sua

figura agli occhi della comunità, a cui egli mostra non solo la propria ricchezza9 ma anche

la propria devozione.

La comunità cui ci si rivolge, cui ci si mostra, cui si dimostra qualcosa, la comunità

di riferimento nel farsi e rifarsi sociale dell’individuo, è quella dei propri connazionali

tamil, poiché in questo mostrarsi sono implicite norme, valori e strutture sociali che solo

essi possono comprendere. Il tempio rappresenta quindi un importante spazio di messa in

scena di sé e di costruzione dell’individuo come membro integrante della sua comunità.

Il tempio è anche un luogo in cui forze diverse collaborano per uno scopo comune.

In questo senso la sua fondazione, cosi come le sue più complesse ed importanti attività,

rappresentano un’occasione molto importante di partecipazione creativa e costruzione

identitaria. Quest’unione di forze è spinta innanzitutto dalla necessità e, come si è visto,

chi può fonda il proprio tempio senza ricercare la collaborazione di nessuno (tempio di

Gayeśa e Ayyappan di Saint Denis); questi casi rappresentano però una minoranza. Su sei

templi quattro sono nati dall’associazione di decine, talvolta centinaia di persone. Nella

loro fondazione si è messo in atto un percorso di elaborazione collettiva di paure ed

intenti, visioni del reale, della società e del divino e un processo di definizione delle

modalità di azione, organizzazione e divisione di ruoli in cui sono implicate decine di

famiglie. In questo senso la fondazione di un tempio implica la creazione di una comunità

come suggerisce Diana Eck: “For hindu immigrants (…) the process of building a temple

is simultaneously the process of building a community” (citato in Reddy 2006: 13).

Anche i grandi festeggiamenti implicano la collaborazione di centinaia di persone:

l’organizzazione dell’evento (dall’accoglienza, alla decorazione, all’offerta di generi

alimentari), i rituali lunghi e complessi (che implicano la presenza di un numero maggiore

di brāhmayi), gli spettacoli culturali, tutto ciò coinvolge moltissime persone, in ruoli e

funzioni diverse ma interdipendenti. È dalla collaborazione e partecipazione di tutti che

dipende la grandiosità e riuscita dell’evento. Come mostrano il défilé di Gayeśa o la festa

di Śivarātrī descritte nei capitoli precedenti, in questi momenti si uniscono aspetti ludici,

sociali e spirituali: la processione di Gayeśa ad esempio, è innanzitutto una grande festa

9 Tra le tante modalità di esprimere il proprio status e la propria ricchezza infatti il finanziamento di luoghi o attività religiose è sicuramente quello meglio considerato.

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Page 170: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

della comunità nel suo complesso, ma anche un’occasione per attuare un voto in modalità

normalmente indisponibili (il kavadi, per gli uomini e il vaso con la canfora incendiata

per le donne), un momento ludico per i giovani e un’occasione in cui partecipare ad un

grandioso progetto comunitario.

Questi grandi eventi collettivi mostrano non solo una comunità nella creazione di un

evento culturale, ma anche una comunità che costruisce sé stessa e rivestono quindi un

ruolo fondamentale in diaspora. Essi mostrano da un lato l’importanza fondamentale della

comunità nella costruzione della propria religione, dall’altro l’importanza della religione

per la comunità.

In quanto luogo della comunità il tempio, cosi come i grandi festeggiamenti da esso

organizzati (soprattutto quando prevedono manifestazioni pubbliche), è anche un

importante mezzo che la comunità possiede per mostrare alla società, all’Altro (agli Altri),

la propria compattezza, le proprie capacità e, non ultimo, l’orgoglio e l’attaccamento alla

propria religione. Tale comunicazione implica un importante processo di riflessione della

comunità su sé stessa e sulla propria cultura: il mostrarsi implica una scelta di elementi e

forme, è condizionato dall’immagine che si vuol dare di sé, dalla presunta reazione del

proprio interlocutore e dalle regole della nuova società. Tutto ciò rappresenta

un’importantissima nuova funzione del tempio che si riflette nel fatto che anche per la

società che lo circonda esso diventa un luogo privilegiato per avvicinare la comunità. Esso

è un punto di contatto, un ponte tra identità in costruzione.

8.3 Il tempio: un nuovo centro

Le funzioni che il tempio assume in diaspora sono quindi molteplici: luogo religioso

e luogo di socialità per la comunità, esso diviene inoltre “istituzione” di riferimento per la

società in cui si inserisce e interlocutore privilegiato in un dialogo tra culture.

Dopo aver esplorato i casi etnografici e aver tratto delle conclusioni generali sul

ruolo del tempio sarà forse a questo punto possibile rispondere alla domanda che aveva

aperto la trattazione: esso è ancora, nonostante tutte le modifiche che si trova ad affrontare

170

Page 171: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

in diaspora (nella struttura, nelle attività, nei ruoli), centro ontologico in cui si riassumono

le potenzialità relazionali dell’uomo col macrocosmo di cui è parte? Credo che la risposta

a questa domanda sia ‘si’, ma in un senso nuovo.

In diaspora, come al paese di origine, il tempio è un centro. Se non è più

geograficamente il nucleo attorno a cui si costruisce il villaggio, esso continua a

rappresentare, almeno per i membri della comunità, il centro ontologico in cui si uniscono

la linea verticale che unisce il mondo divino e il mondo umano e la linea orizzontale che

unisce il mondo degli uomini: quest’ultimo tuttavia non è quello che si conosceva, è un

mondo nuovo, costituito da frammenti del vecchio sparsi in nuovi cosmi, con cui

interagiscono e da cui vengono modificati. Ma la frammentarietà è solo una delle

prospettive: guardato dall’interno questo nuovo mondo si presenta unito, poiché ad

abitarlo è una comunità, e tale unione trova nel tempio un sostegno. Esso è infatti centro

di un’altra linea, quella che unisce il passato e il futuro, la tradizione e la creatività.

Il tempio quindi è ancora il centro in cui si riassumono le potenzialità relazionali

dell’individuo con il macrocosmo di cui è parte: qui egli entra in contatto con il passato e

le sue eredità, la sua storia personale e la terra da cui proviene, una comunità di uomini in

cui si riflette e che si riflette in lui; entra in contatto con il divino, che è conforto, modello

e specchio; entra in contatto con le regole di mondi diversi, che deve imparare a far

convivere e quindi, per finire (e reiniziare), entra in contatto con le potenzialità del futuro.

Il tempio non rappresenta più il cosmo nella sua totalità, perché questo cosmo è

ormai composto di frammenti in movimento. Ma rappresenta ancora gli individui che lo

popolano. Essi, nutrendosi dei suoi frammenti, li ricompongono in una digestione

collettiva in cui l’unione di risorse e creatività forgia le realtà del futuro.

In questo senso lo studio del tempio in diaspora contiene enormi potenzialità: esso

può infatti rappresentare un’importante chiave di lettura di queste realtà in formazione.

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Page 172: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

GLOSSARIO

Abhiseka

Alankāra

Añjali-mudrā

Āratī

Arcanā

Avatāra

Bhajana

Bhakti margā

Bhakta

Brāhmaya

Darśan

Devadasī

Dhārana

Garbhagrha

Ghī

Gopuram

Guru

Homam

Kovil o koyil

Kumkum

Linga

Abluzione rituale della mūrti con sostanze diverse.

Decorazione

Gesto dell’offerta: le mani sono accostate con i palmi rivolti verso

l’alto a formare una specie di coppa. È il gesto con cui si dona e con

cui si riceve. Attraverso di esso ci si relaziona alla divinità.

Offerta di luce (fiamma) ad una divinità.

Omaggio individuale alla divinità, compiuto dal brāhmaya in nome

del devoto.

Incarnazione o discesa di una divinità sulla terra per ristabilire il

dharma.

Canto devozionale.

Via dell’amore devozionale. Implica un rapporto personale con la

divinità.

Colui che pratica la bhakti.

Bramino, sacerdote, cui spetta per appartenenza castale lo studio dei

testi sacri e l’esecuzione dei riti. Nella scala ontologica sono i più puri

tra gli uomini.

Visione diretta del sacro dimorante in una persona o una mūrti.

Implica uno scambio, un contatto tra adorante e adorato attraverso il

medium degli occhi.

Letteralmente ‘schiave del Dio’, danzatrici sacre dei templi.

Concentrazione

‘Casa dell’embrione’, il santuario più interno del tempio, nel quale è

contenuta la mūrti della divinità principale.

Burro chiarificato, utilizzato nel rituale ma anche nella cucina

indiana.

Torre d’ingresso riccamente decorata tipica dei templi del Sud India.

Mestro spirituale, la cui guida è indispensabile al percorso spirituale

del discepolo.

Oblazione di sostanze e materiali diversi nel fuoco sacrificale.

Termine tamil per indicare il tempio.

Polvere rossa, utilizzata per decorare le divinità.

Letteralmente ‘segno’, ‘emblema’, è la forma aniconica di Śiva.

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Page 173: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Mālā

Mangalavady

a

Mantra

Mudrā

Mūrti

Naksatra

Pañcaloha

Pañcamrita

Prasād

Pradaks iyā

Pūjā

Saxskāra

Saxnāysin

Śānti

‘Rosario’, composto solitamente di 108 grani.

Letteralmente ‘musica di buon augurio’, è la musica suonata nei

templi.

Ciascuno dei versetti dei Veda. Più in generale formula sacra in

sanscrito, utilizzata per la preghiera e la meditazione. La loro corretta

recitazione è ritenuta fondamentale, poiché al di là del significato, il

loro potere è legato al suono.

Gesto o atteggiamento delle mani e del corpo dal valore simbolico e

narrativo. È usato nell’iconografia sacra e nella danza.

Letteralmente 'forma’. Supporto fisico della divinità, che prende

dimora nella statua dopo determinati rituali. È attraverso di essa che

si attua il rapporto devoto-divinità mediato dallo sguardo (darśan). La

mūrti può essere ricavata da legno, metallo, pietra o costruita di

materiali effimeri.

Stella di nascita.

Lega di cinque metalli (oro, argento, ferro, rame e ottone) con cui

vengono costruite le mūrti.

Da pañca (cinque) e amrita (nettare degli dei). Mix di banane,

mango, cocco, melograno e miele, offerto alla divinità durante la

pūjā.

Indica uno stabilirsi, la sede di ciò che vi si è stabilito e che in essa ha

preso forma concreta. È un termine polisemico: utilizzato in molti

testi per riferirsi al tempio è oggi più comunemente e diffusamente

utilizzato per riferirsi all’offerta che, donata alla divinità durante il

rituale, viene recuperata dal devoto al suo termine: essa, in quanto

resto del pasto della divinità (che ne ha consumato la componente

sottile) è considerata intrisa di energia divina.

Indica la circumambulazione rituale intorno alla mūrti. È un atto di

venerazione della divinità che vi risiede e si esegue in senso orario.

Rito di venerazione ed ossequio della divinità, che prende dimora nel

supporto fisico della mūrti e viene onorata come un ospite attraverso

16 atti di servizio (upacāra).

Rito di consacrazione o di passaggio che segna le tappe della

crescita dell’individuo hindū.

Rinunciante.

Pace interiore.

Artigiano che affianca l’architetto nella costruzione del tempio

173

Page 174: Tempio, Spazio, Diaspora. L'emigrazione tamil dello SriLanka a Parigi

Sthapati

Swāmī

Upacāra

Vibhūti

Vrata

Yajñopavīta

Yātrā

secondo le regole dell’architettura sacra.

Letteralmente ‘maestro di sé stesso’. Appellativo rivolto al guru, in

segno di rispetto e venerazione.

Letteralmente ‘atto di servizio’, indica le fasi della pūjā.

Cenere sacra ottenuta dallo sterco di vacca.

Voto.

Cordoncino sacro consegnato ai membri dei tre dvija varna (nati due

volte) durante un’importante cerimonia d’iniziazione.

Processione.

174

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