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SENTIERI

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SENTIERI

I SENTIERI DELLA RICERCA

rivista di storia contemporanea

EDIZIONI CENTRO STUDI“Piero Ginocchi”, Crodo

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Infiniti i sentieri della ricerca

Infiniti i sentieri della ricerca

di Angelo Del Boca

«I sentieri della ricerca», la rivista di cui oggi pubblichiamo il primonumero, raccoglie l’eredità di «Studi piacentini», che fondammo diciannoveanni fa. Salvo qualche arricchimento, la nuova rivista conserva la stessastruttura del semestrale pubblicato a Piacenza, le stesse finalità, le stesseambizioni, persino lo stesso progetto grafico, semplice ed essenziale. Nonpotendo più proseguire, per le ragioni che abbiamo esposto nel numero 36di «Studi piacentini» (l’ultimo che reca la nostra firma), la lunga e bellissimaesperienza culturale nel Piacentino, abbiamo trasferito la rivista inPiemonte, tra le montagne dell’Ossola, in un clima sereno, non turbato dainfelici e immotivati contrasti. Qui, fra le montagne che hanno visto nascerela Repubblica partigiana dell’Ossola, forse il più nobile e avanzato progettodemocratico realizzato nell’Italia ancora occupata dai nazisti, giàanticipatore della Costituzione repubblicana del 1946, proseguiremo quellaricerca storica che abbiamo sempre cercato di condurre con metodo,passione, coerenza e senso di responsabilità. Ci conforta pensare che inquesta nuova avventura intellettuale ci hanno seguito tutti i nostri antichicollaboratori mentre altri, nuovi, ci hanno fornito la loro adesione.

La rivista si apre con una sezione dal titolo Vivere la Resistenza. Abbiamoinfatti stretto un accordo con la direzione dell’Istituto Storico dellaResistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano-Cusio-Ossola Piero Fornara con l’intento di dotare ogni numero dellapubblicazione di uno o più saggi che rievochino episodi o figure della lottadi liberazione nella provincia di Novara prima che venisse suddivisa. Nonsiamo infatti d’accordo con il presidente del Senato, Marcello Pera, che il 13dicembre 2003 ha sostenuto che, a sessant’anni dalla liberazione dell’Italiadal nazi-fascismo, è giunto il momento di «abbandonare il mito dellaresistenza per consegnarlo definitivamente agli storici». Ha inoltredichiarato che «non abbiamo più bisogno della vulgata tolemaicaresistenziale: non dobbiamo più dire che la Repubblica e la Costituzione

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Angelo Del Boca

sono antifasciste, ma che la Repubblica e la Costituzione sonodemocratiche».

No, professor Pera, la Resistenza non è un mito e non è affatto venutoil momento di relegarla in soffitta. Se lei dedicasse un po’ del suo tempo astudiare il movimento di liberazione in Italia si accorgerebbe, ad esempio,che la Costituzione - come ha giustamente precisato lo storico Angelo d’Orsi- «è nata proprio dall’antifascismo, cioè da un accordo tra le forze politicheche si erano battute contro il fascismo». Le consigliamo inoltre di leggere itredici, splendidi verbali redatti dal segretario della Giunta provvisoria dellaRepubblica partigiana dell’Ossola, Umberto Terracini. Quello stessoTerracini che tre anni dopo avrebbe presieduto a Roma l’AssembleaCostituente. In quei tredici verbali ci sono alcune norme, alcuni principi,che sono stati adottati dalla nostra Costituzione. Una Costituzione ancoraviva, garantista, efficiente, ma che si vorrebbe distruggere, così come il«mito» della Resistenza.

Il secondo settore della rivista ospita i saggi di Storia locale, tanto delnovarese che della nuova provincia del Verbano-Cusio-Ossola. Nostrointento è di fornire le caratteristiche salienti di questi settori, analizzando letrasformazioni che si sono verificate negli ultimi centocinquant’anni, sottoil profilo sociale, economico, politico, religioso e culturale. Edgardo Ferrari,ad esempio, affronta in questo primo numero della rivista un episodio assaipoco indagato, quello dell’appoggio dei cattolici ossolani al candidatoliberale, on. Alfredo Falcioni, alle elezioni politiche del 1909. Era la primavolta che ciò accadeva ed avrebbe portato, nel periodo giolittiano, al processodi integrazione tra la borghesia laica e quella cattolica.

Più sostanziosa la parte centrale della rivista, dedicata ai saggi di Storianazionale. In questo numero presentiamo un saggio di Riccardo Cappelli sul«Centro Raccolta Profughi» di Marina di Carrara, che fu attivo, incondizioni di estremo degrado, dal 1946 al 1976. Umberto Chiaramonte,che alla classe politica e al movimento operaio in val d’Ossola ha dedicatodue eccellenti volumi, e che negli ultimi anni ha studiato a fondol’autonomismo nella storia d’Italia, ricostruisce in questo numero le vicendelegate al decentramento amministrativo durante il fascismo e allacostituzione di ventisei nuove province.

Gian Mario Bravo, dal canto suo, affronta la figura di Arturo Labriola,massimo esponente della corrente socialista del sindacato rivoluzionario, ene evidenzia le notevoli incoerenze. Nel 1911, infatti, solo fra i leadersocialisti, appoggerà la guerra contro la Turchia per la conquista della Libia.

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Infiniti i sentieri della ricerca

Sarà anche recidivo. Esule in Francia e poi negli Stati Uniti, perché avversoal fascismo, nel 1935 farà ritorno in patria per sostenere la guerra d’Etiopia.

La sezione successiva ha per titolo Africa e dintorni ed è un po’ il nostrofiore all’occhiello. Allo studio dell’Africa, infatti, abbiamo a volte dedicatoil 60/70 per cento delle pagine della rivista, tanto che «Studi Piacentini» siè con il tempo validamente inserita fra le poche riviste di africanisticastampate in Italia. La decisione di dare molto spazio all’Africa è maturatanegli anni ottanta quando la carenza di studi in questo settore era più che maimanifesta e addirittura inspiegabile se si pensa al livello della ricerca in altriPaesi europei. Da più di tre lustri, dunque, abbiamo metodicamenteanalizzato gli avvenimenti africani, sia del periodo coloniale che post-coloniale, dando vita anche a due convegni, il primo sulle guerre colonialidel fascismo, il secondo sulla disfatta di Adua, i cui atti sono stati raccolti epubblicati dall’Editore Laterza. Il nostro impegno, dunque, è a tutto campoe ha fornito risultati di enorme rilevanza come, ad esempio, le tremenderivelazioni sulle stragi compiute nel 1937, dai generali di Graziani, nella cittàconventuale di Debrà Libanòs, in Etiopia.

In questo numero pubblichiamo tre saggi, di Nicola Labanca, MarcoLenci e Felice Pozzo. Labanca commenta due lunghe lettere, inedite,scambiate nel settembre del 1937 tra l’ispettore Davide Fossa, all’epoca lapiù alta autorità del Partito nazionale fascista in Etiopia, e il ministrodell’Africa Italiana, Alessandro Lessona. Dal carteggio emerge chiaramenteche, a diciassette mesi dall’occupazione italiana dell’Etiopia, nell’imperonon funziona nulla, la corruzione dilaga negli organismi governativi, laribellione dei partigiani etiopici si aggrava giorno per giorno nonostante lecontinue repressioni. La replica di Lessona, che sta per essere licenziato daMussolini, è assolutamente sconcertante. Pur apprezzando la sincerità diFossa e ammettendo la lunga serie di errori e di fallimenti nella costruzionedell’impero, respinge ogni addebito, riversando sugli altri ogniresponsabilità. Ma anche con l’allontanamento di Lessona e il rientro inpatria di Fossa le cose non cambieranno in meglio. Il destino dell’impero èormai segnato. Marco Lenci, dal canto suo, riporta e commenta latestimonianza del sergente Luigi Canali sull’impiego, in Etiopia, dell’armachimica. Un impiego tante volte, anche di recente, smentito, e che invece èstato quasi una norma nel corso della guerra dei sette mesi ed in seguito neicinque anni della controguerriglia. Nella lettera alla famiglia, il sergenteCanali scrive testualmente: «Le zone attraversate recentemente sono stateabbondantemente bombardate e cosparse di “iprite”. Alcune tracce sono

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Angelo Del Boca

visibili». Si tratta della regione montuosa fra l’Amba Aradam e l’Amba Alagi,teatro di furiosi combattimenti tra le truppe italiane d’invasione e l’armatadi ras Mulughietà. Felice Pozzo pone invece in rilievo il ruolo determinantedell’Africa nella copiosa produzione di Emilio Salgari. Il Continente Nero,con i suoi misteri, non è soltanto presente nei libri di avventure delromanziere morto suicida, ma anche nel suo lavoro giornalistico giovanilequando, con lo pseudonimo di «Ammiragliador», chiedeva un posto al soleper l’Italia.

Del tutto nuova, invece, la quinta ed ultima sezione, che riguardal’Europa e le sue trasformazioni a partire dalla fine della seconda guerramondiale e, in modo particolare, dalla caduta del muro di Berlino. Il lento,ma si spera inarrestabile, processo di formazione dell’Unione Europea, cosìcome il percorso faticoso e confuso degli ex paesi dell’Unione Sovietica, sonodue avvenimenti di fondamentale importanza che meritano una costanteattenzione. Cristian Collina, ad esempio, esamina l’attuale politica diRestructurizacija dell’industria della difesa russa e giunge alla conclusioneche il nuovo corso di trasformazioni rilancia le capacità militari,economiche, scientifico-tecnologiche di Mosca, tanto da riproporre laRussia, che si pensava fuori gioco, tra le grandi potenze. Giorgio Novello,dal canto suo, analizza il processo di reintegrazione della Mitteleuropeanell’Unione Europea e si sofferma sul dramma storico dell’espulsione didodici milioni di tedeschi dall’Europa Centro-Orientale.

Completano la rivista la consueta Rassegna bibliografica, alcune Schede dilibri e le notizie sugli Autori che hanno collaborato al numero.

Come i lettori avranno potuto osservare, nel passaggio da «Studipiacentini» a «I sentieri della ricerca», il Comitato scientifico è statoampiamente rimaneggiato ed arricchito. Entrano a far parte del Comitato:Aldo Agosti, Mauro Begozzi, Marco Buttino, Angelo d’Orsi, EdgardoFerrari, Mimmo Franzinelli, Sandro Gerbi, Mario Giovana, ClaudioGorlier, Mario Isnenghi, Lutz Klinkhammer, Marco Lenci, Aram Mattioli,Gilbert Meynier, Marco Mozzati, Massimo Romandini, Francesco Surdich,Nicola Tranfaglia. A questi illustri storici, che hanno accolto con simpatiae calore il nostro invito a partecipare a questa nuova iniziativa, rivolgiamoil nostro grazie e il nostro affettuoso saluto. Per finire, Nicola Labancaaffiancherà Giorgio Rochat nella condirezione della rivista.

Nel chiudere questo editoriale vorremmo riprodurre il capoverso postoalla fine della nostra lettera di congedo dalla direzione di «Studi piacentini»,che definisce le ambizioni e i traguardi della nuova rivista: «I sentieri della

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Infiniti i sentieri della ricerca

ricerca» sono infiniti, come sono infiniti i sentieri delle nostre montagne, allacui nobiltà ci ispiriamo. E come i tratturi portano sempre in alto, spesso allacima, noi vorremmo che i nostri sentieri della ricerca e della memoria cifacessero approdare ad un numero sempre più cospicuo di scoperte, dicertezze, di verità». È con questo auspicio che diamo alle stampe il primonumero de «I sentieri della ricerca».

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DirettoreAngelo Del Boca

CondirettoriGiorgio Rochat, Nicola Labanca

RedattriceSeverina Fontana

Comitato scientificoAldo Agosti, Mauro Begozzi, Shiferaw Bekele, Gian Mario Bravo, MarcoButtino, Giampaolo Calchi Novati, Vanni Clodomiro, Basil Davidson,Jacques Delarue, Angelo d’Orsi, Nuruddin Farah, Edgardo Ferrari, MimmoFranzinelli, Sandro Gerbi, Mario Giovana, Claudio Gorlier, Mario Insenghi,Lutz Klinkhammer, Nicola Labanca, Vittorio Lanternari, Marco Lenci, AramMattioli, Gilbert Meynier, Pierre Milza, Renato Monteleone, Marco Mozza-ti, Richard Pankhurst, Giorgio Rochat, Massimo Romandini, Alain Rouaud,Alberto Sbacchi, Gerhard Schreiber, Enrico Serra, Christopher Seton-Watson, Francesco Surdich, Nicola Tranfaglia, Bahru Zewde

I Sentieri della Ricercaè una pubblicazione del Centro Studi Piero Ginocchi, Crodo.

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La rivista esce in fascicoli semestrali

Direttore Angelo Del Boca

Redazione:

Autorizzazione del Tribunale di xxxxxx n. xxxxxxxxxx

Sped. in a.p., 45% art. 2, comma 20b, legge 662/96 -Dir. Comm. Business Piacenza

I Sem. 2005Prezzo di copertina euro 12,00

La pubblicazione di questa rivistaè stata possibile grazie al generoso contributo di:

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Sommario

editoriale

7 Infiniti i sentieri della ricercadi Angelo Del Boca

vivere la resistenza

13 Mario Bonfantini e l’irripetibile stagione di libertàdella Repubblica dell’Ossoladi Massimo Bonfantini

17 Riprodurre o interpretare?Modelli narrativi e valoriali del fare storia in televisione:in caso Quaranta giorni di libertàdi Renzo Fiammetti

saggi di storia locale

31 Le elezioni politiche del 1909 in Ossoladi Edgardo Ferrari

saggi di storia nazionale

45 Centro Raccolta Profughi per gli italiani in fugadi Riccardo Cappelli

61 Autonomie locali e decentramento durante il fascismo:l’istituzione si ventisei provinciedi Umberto Chiaramonte

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119 Antionio Labriola e la questione colonialedi Gian Mario Bravo

africa e dintorni

145 «Un fatto sugli altri domina: la sicurezza».Uno scambio di relazioni sull’Etiopia del settembre 1937di Nicola Labanca

163 L'uso dei gas da parte italiana nella guerra d'EtiopaLa testimonianza del sergente Luigi Canalidi Marco Lenci

169 L'Africa di Emilio SalgariL’eurocentrismo e il problema delle fontidi Felice Pozzo

189 Gli ebrei della Libia, il nazionalismo arabo e la questione palestinese.Note dai documenti del Political Intelligence Service britannico (1945-1949)di Federico Crespi

studi sull'europa

213 Oltre la Konversija: l'industria della difesa nella Federazione Russadi Cristian Collina

241 I tedeschi scomparsi della Mitteleuropadi Giorgio Novello

le schede

259 Massimo Romandini - Severina Fontana

267 Notizie sugli autori di questo numero

xxx Il centro studi “Piero Ginocchi” di Crodo

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Mario Bonfantini e l’irripetibile stagione di libertà della Repubblica dell’Ossola

vivere la resistenza

Mario Bonfantini e l’irripetibile stagione di libertà dellaRepubblica dell’Ossola

di Massimo Bonfantini

Il pomeriggio del 20 novembre 2004 eravamo a Novara, presso l’Istitutostorico della Resistenza, sito in corso Cavour 15 e intitolato a Piero Fornara,in occasione dell’annuale giornata di studio dedicata a Mario Bonfantini.

Quest’anno la ricorrenza era doppiamente solenne.Per me, anzitutto, perché il 2004 è stato l’anno centenario della nascita

di mio padre. Mio padre, Mario Bonfantini, è nato infatti a Novara il 15maggio 1904, ed è morto a Torino il 23 novembre 1978.

Ma per gli amici, i partigiani, i cittadini, la ricorrenza era soprattuttosolenne, perché cadeva nel 60° anniversario della Repubblica dell’Ossola,per la quale e nella quale Mario Bonfantini ha operato in modo cosìeminente e incisivo.

Con Mauro Begozzi, e con la preziosa assistenza tecnica di Marco Fontana,abbiamo predisposto una sintesi di tre quarti d’ora, tratta dalle tre puntate delfilm tv Quaranta giorni di libertà, programmato nel trentennale dellaRepubblica dell’Ossola, nell’autunno del 1974, sul primo canale della Rai.

Il film è ampiamente trattato qui avanti nel saggio di Renzo Fiammetti.Voglio ora soltanto sottolineare che, anche nella forma sommaria in cuil’abbiamo proiettato quel sabato pomeriggio, nella sala-biblioteca «MarioBonfantini», il film è riuscito a commuovere e a coinvolgere il fitto gruppodi amici e cittadini presenti.

Il film è riuscito a rendere il senso di una grande storica prova didemocrazia, nella lotta e nell’autogoverno di popolo, provocandoun’appassionata rete di interventi, domande, problemi, discussioni.

Hanno partecipato per lettera anche Pier Antonio Ragozza, sulla«fortuna» e ricezione nelle valli ossolane di Quaranta giorni di libertà e

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Massimo Bonfantini

l’amico editore Roberto Cicala, che ha comunicato la prossima uscita, per«Interlinea», di una nuova edizione del Salto nel buio, il romanzoautobiografico di mio padre (pubblicato la prima volta da Feltrinelli nel1959), che racconta del suo «salto», appunto, del suo gettarsi, il 22 giugno1944, dal treno in corsa, dal vagone piombato che lo deportava in Germania.

Il momento culminante del Salto l’avevo letto al mattino di questagiornata, dico del 20 novembre 2004, ai ragazzi dell’Istituto tecnicoMossotti.

«Così, è deciso. La mano destra ben tesa in fuori: il corpo ed il bustoall’indietro; il piede destro lì, steso in avanti, come su un punto di mira.Adesso, basta aprire le dita della sinistra mollando la presa, e dandosi alcontempo una piccola spinta sul predellino col piede sinistro, ma nontroppo forte. Uno, due, tre. E m’abbandonai».

La mattinata era infatti dedicata, secondo quanto recitava il programma-invito, alla «Lettura e commenti dei racconti sull’Ossola e sulla Resistenzadi Mario Bonfantini».

Naturalmente, in queste letture, affiancato dai commenti e dallespiegazioni, chiare e sapienti, di carattere storico generale di Mauro Begozzi,ero partito dallo scritto che mi piace di più di mio padre sull’Ossola,l’articolo pubblicato da «Milano Sera», di cui mio padre era direttore, il 10settembre 1945 e intitolato: L’epopea dell’Ossola nel ricordo di un testimone.L’occhiello spiega: «10 settembre 1944: Domo liberata».

«Nella stanchezza della luce grigia, mi attraversano la mente vaghi ricordigaribaldini: la lettura infantile dell’Abba, quella più recente di una lettera diNievo sulla sua entrata in Palermo; i racconti che a me fanciullo dipanavapaziente mio nonno, che era stato alla presa di Milazzo. Non bisognaesagerare, va bene, siamo modesti; ma c’è pure un’analogia, dopo tutto...

Il controllo è finito. Entriamo finalmente in città. GuardoDomodossola. Sono come stordito, incredulo, e mi accorgo dalla faccia deimiei ragazzi che deve essere così anche per loro. Anche gli abitanti, che cibuttano i fiori sacramentali e che ci si stringono addosso, sono felici, sì,commossi, ma sembrano attoniti. Ma pian piano si svegliano: la loro gioiaerompe, e arriva il momento del vero tripudio. Sono stanco, e mi ricordo cheho subito altro da fare. Ma non riesco a tirarmi via di lì, a staccarmi da questiragazzi, compagni di queste poche giornate. Soltanto un’ora dopo mi decidoa infilarmi sotto il portico, in un caffè. Ordino un bitter, appoggio il gomitoal banco, e mi volto a guardar fuori la squadra allineata: non ci ritroveremomai più così».

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Mario Bonfantini e l’irripetibile stagione di libertà della Repubblica dell’Ossola

«Un’irripetibile stagione di libertà», come suonava il titolo della nostragiornata di studio, un’irripetibile stagione di libertà che fu ancheun’irripetibile stagione di felicità, si cristallizza, per usare l’espressione diBaudelaire, il poeta più amato, studiato, tradotto da mio padre sin dalla suaprima giovinezza, si cristallizza nel vissuto e nella rievocazione di un’ora einfine di uno sguardo e di un sentimento comune di utopia realizzata. Laliberazione realizzata.

Questo stesso sentimento, esteso coralmente al «tripudio» della cittàabbiamo trovato rappresentato anche nel film Quaranta giorni di libertà.

Merito certamente della forza dei fatti raccontati. Ma merito anche delracconto dei fatti. E quindi di tutti quelli che hanno «fatto» il film. Fra i quali,come testimoniato dai titoli di testa e come ricordato bene dai miei colloquidi allora con lui, si può riconoscere la presenza o l’influenza costante di miopadre.

Nella rappresentazione filmica sembrano quasi preponderanti i discorsidegli attori, le discussioni, i dialoghi, i dibattiti, rispetto alle ricostruzioni,peraltro fedeli e scrupolose, degli eventi. Così i discorsi annodano fra loroi propositi e gli eventi e fanno del film un film, più che storico, storiografico.Per la riuscita dimensione interpretativa e nitidamente didascalica eraziocinante che lo pervade.

Credo che le testimonianze scritte, dico i racconti autobiografici diMario Bonfantini letti e commentati, e il racconto corale di un pezzo distoria collettiva nel film Quaranta giorni di libertà abbiano costituito, cosìdialetticamente uniti, una base originale e nutriente per le riflessioni dellanostra giornata di studio.

Ma credo anche che questo modulo, della lettura ad alta voce ditestimonianze, combinate con ricostruzioni narrative e/o documentariefilmiche, sia un modello interessante, per la comunicazione sociale dellastoria contemporanea, come base di lezioni, ricerche, seminari in variambiti.

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Riprodurre o interpretare?

Riprodurre o interpretare?Modelli narrativi e valoriali del fare storia in televisione:il caso Quaranta giorni di libertà

di Renzo Fiammetti

La tv negli anni settanta, e dopo. Il rapporto fra tv e storia

Se lo spunto scaturito da ricorrenze e anniversari è la spinta perprogrammi celebrativi, il trentennale della Repubblica partigianadell’Ossola dà origine a un programma televisivo importante e benrappresentativo del modo di fare storia in televisione nel periodo e, più ingenerale, del contesto culturale e politico in cui viene avviata taleproduzione.

Si tratta di Quaranta giorni di libertà, di Luciano Codignola e con la regiadi Leandro Castellani, che viene programmato nell’autunno 1974 sul primocanale della Rai.

Seppur inserito nel novero delle cosiddette «spettacolarizzazioni» dellastoria1, il film tv di Castellani ha peculiarità tali che lo rendono chiaroesempio del cosiddetto cinema democratico in voga in quegli anni.

I primi anni settanta sono anni in cui la televisione italiana mette inproduzione diversi esempi importanti di fiction storica, veri film a temastorico, sì di ricostruzione sceneggiata di avvenimenti ma basati su un rigidoe scientificamente fondato apparato critico che legittima la veridicità dellerealizzazioni.

Nello stesso anno in cui va in onda il film sulla Repubblica partigianadell’Ossola, infatti, sono realizzati e trasmessi il film di Florestano Vancini,Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato2 e ilfilm sulle ultime ore dei fratelli Rosselli, Carlo e Nello, assassinati daineofascisti francesi della Cagoule, in Normandia, il 9 giugno 19373.

Nel periodo la Rai sta per affrontare il delicato passaggio dellaristrutturazione del servizio pubblico e la concorrenza nascente delleemittenti locali e delle tv estere: nell’agosto Telemontecarlo comincia atrasmettere anche in Italia e iniziano le trasmissioni di Telemilano, cioè glialbori della futura Mediaset4. Nel palinsesto Rai di quell’anno colpisce la

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Renzo Fiammetti

presenza significativa, in senso quantitativo e qualitativo, di programmistorici e culturali in genere. Nella sua opera sulla storia della televisione,Aldo Grasso giustamente segnala come programma dell’anno Cartesius, conla regia e la collaborazione alla sceneggiatura di Roberto Rossellini. Si trattadi un’opera storica-fiume, che il maestro, che ha abbandonato il cinemaormai da un decennio, tesse per la televisione nel tentativo di «convincere»e «persuadere», una trama di personaggi e situazioni della storia, ricercandoproprio nella storia, nel passato, le ragioni del presente5.

Ma non mancano altri, significativi esempi. In occasione del centenariodella nascita, Sandro Bolchi realizza uno sceneggiato sulla vita di GuglielmoMarconi, la storia europea dei primi anni venti è lo scenario di Accade aLisbona di Daniele D’Anza, Franco Rossi dirige uno sceneggiato sul GiovaneGaribaldi che lancia come attore popolare un allora abbastanza sconosciutoMaurizio Merli, mentre vanno segnalate anche due trasmissioni diapprofondimento culturale e d’attualità, quali la rubrica Settimo giorno, allacui conduzione si alternano Cesare Garboli, Lorenzo Mondo, FrancescoSavio ed Enzo Siciliano, mentre Mario Soldati confeziona A carte scoperte,cinque puntate dedicate ad altrettanti incontri con personalità di rilievodella politica, dell’economia, della cultura.

Non mancano, naturalmente, i programmi di intrattenimento e ilvarietà, Milleluci e Tante scuse, affidati - nel tradizionale appuntamento delsabato sera - il primo alle primedonne Mina e Raffaella Carrà, il secondo allacollaudata coppia Mondaini-Vianello.

È la tv di Ettore Bernabei, più istituzione quasi paternalistica cheazienda6, dilaniata dalle lottizzazioni e resa meno salda dalla riforma che siannuncia, ma che sa aprirsi - seppur con ritardi, timori ed omissioni - allecomponenti progressiste dello schieramento politico e della società e chetenta - senza successo, venendone travolta negli anni successivi - di arginarela deriva edonistica e fintamente libertaria delle emittenti televisive locali;una tv che è strumento pedagogico-formativo e che, dagli anni ottanta,diviene preda della guerra dell’audience, alla ricerca non più di unaeducazione del suo pubblico ma in caccia di consensi presso un pubblicoframmentato e che viene inseguito e sedotto con forti elementi dispettacolarità7.

Qui è lo snodo degli anni ottanta, in cui, come scrive Francesca Anania,si adottano «strutture narrative di largo successo, con forti elementi dispettacolarità, immediatezza, episodicità che non possono essere tralasciati.Ozio, svago, gioco ne divengono i tre principi ispiratori». Anche la storia in

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Riprodurre o interpretare?

tv si frammenta, si decompone al livello primordiale del documento, cheperde ogni sua funzione di fonte della storia da analizzare con gli strumentidella critica. Lo storico da garanzia della veridicità dei programmi divienequasi un orpello ingombrante rispetto agli autori- ideatori delprogramma8; nella programmazione si passa - ad esempio - dall’uso deifilm come innesco per dibattiti e confronti (il modello del film-dossierlungamente praticato dalle reti Rai) alla visione diretta di film dipropaganda e riprese di guerra, anche amatoriali, che escono dagli archivieuropei e dell’italiano Luce (è il caso di trasmissioni quali Combat film oLa grande storia in prima serata e dei dibattiti che ne seguono, non frastorici ma fra politici e con uso esclusivamente politico e polemico dellastoria). Nell’agone televisivo siamo al mercato della storia, denunciato daMassimo Legnani, in cui ognuno accede direttamente ai documenti e siserve di questi in modo strumentale e acritico - modalità spessocontrabbandata per scientifica - per i propri fini. Un cortocircuitometodologico, ma - soprattutto - etico e valoriale, in cui tutto sidecontestualizza e si relativizza, perdendo spessore e rilevanza9.

Quaranta giorni di libertà:la comunità ossolana si rispecchia nella propria storia

Quaranta giorni di libertà, di Luciano Codignola e con la regia di LeandroCastellani viene programmato nell’autunno 1974 in tre puntate settimanali,la prima in onda martedì 26 novembre, in prima serata sul Primo canale dellaRai. Girato sui luoghi stessi delle vicende narrate, impiegando come comparseo anche in alcuni ruoli protagonisti, persone di Domodossola e attori moltopopolari all’epoca, quali Raoul Grassilli, Stefano Satta Flores e AndreaGiordana, il film ottiene un successo straordinario, oltre sedici milioni ditelespettatori e un gradimento pari a 7010.

Realizzato avvalendosi di storici e testimoni delle vicende narrate,soprattutto Mario Bonfantini, il film ha stilemi propri del film storico eprofonde peculiarità innovative. Nella più consolidata tradizione del filmstorico, viene introdotto da una voce off narrante e contestualizzante le vicendericostruite, mentre in video scorrono immagini d’epoca della seconda guerramondiale. Il film si presenta con gli stilemi del vero, contestualizza la vicenda,informa lo spettatore che quello che sta vedendo è realmente accaduto e nefornisce le coordinate non solo geografiche, ma storiche ed etiche.

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Renzo Fiammetti

Due sono gli elementi peculiari del film di Castellani, uno narrativo e unsecondo tecnico. Castellani realizza un film corale. Nella vicenda non emergonoindividualità, non c’è una vicenda trainante cui l’intreccio storico fa da sfondo.Emerge una storia corale, fortemente compatta e omogenea, che illustra levicende della Repubblica partigiana dell’Ossola. Una scelta che si evince anchenelle tecniche di ripresa, ad esempio le lunghe carrellate a riprendere la giuntadi governo nel suo complesso nel corso delle sue sedute, riprese corali e non primipiani, e ancora le riprese festose in piazza Mercato in campo lungo, cherestituiscono composite scene di gruppo, non di individui.

Poi la parola. Quaranta giorni di libertà è un film fortemente parlato,ricco di una carica eversiva e rivoluzionaria della parola. Per questo richiedeun grande sforzo di attenzione al pubblico televisivo. La parola sopravanzala comoda spettacolarità delle azioni. Luca del Fabbro (interprete del ruoloimmaginario di Andrea) e Stefano Satta Flores (nel ruolo di Aldo, ispiratoalla figura di Albe Steiner) discutono spesso e lungamente, comeriappropriandosi del gusto della parola e della libertà di confronto soffocatadal fascismo. Si affrontano temi cardine. Concetto Marchesi ammoniscedue avventori in un locale, ricordando che il fascismo non è causa ma uneffetto e che si trova annidato dentro ciascuno, e ci vorranno decenni perestirparlo, forse. Oppure il carattere innovativo della guerra che si stacombattendo, affidato alle riflessioni di Stefano Satta Flores: una guerradiversa dalle precedenti in cui vi erano eroi e nessun ideale; nella guerrapartigiana vi sono grandi ideali e nessun eroe11.

Ideali che sono le discussioni che danno origine al programma e all’azionedel governo della Repubblica. Le discussioni sulla storia, sul fascismo che siannida anche - e forse soprattutto - negli atteggiamenti e nelle menti, nelleparole con cui si insegna ai bambini a scuola, una scuola da rinnovare insenso democratico 12, nella retorica nazionalista di cui sono imbevuti i libridi testo. Tutto questo viene reso con la parola, parola italiana ma anche ildialetto, che compare in alcune scene del film.

Sotto il profilo tecnico, c’è un uso della camera a mano. Questa sceltacoincide con alcuni orientamenti stilistici del periodo. Si indaga la realtà,molti registi si dedicano al documentario, si cerca di fare un cinema e unatelevisione che si liberi dalle rigidità produttive e tecniche, quindiattrezzature leggere, uso della camera a mano e inquadrature anche nonstrettamente «cinematografiche» 13. Così è nelle scene iniziali, riprese neltreno, con la camera in movimento e le inquadrature - incerte e traballanti- delle montagne viste dal finestrino dei vagoni.

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Riprodurre o interpretare?

Titolo: Quaranta giorni di libertàdi: Luciano CodignolaRegia: Leandro CastellaniProduzione: Rai TvRealizzazione: maggio - giugno 1974Messa in onda: tre puntate su Rai uno, 26 novembre, 3 dicembre e 10 dicembre 1974Giorno di emissione: martedìAscolto: 16 milioni di personeIndice di gradimento: 70

Interpreti:Raoul Grassilli Ettore TibaldiAndrea Giordana Alfredo Di DioStefano Satta Flores Aldo (Albe Steiner)Luciano Virgilio Cino MoscatelliPietro Biondi Bandini (Mario Bonfantini)Corrado Gaja avvocato VigorelliCarlo Sabatini Dionigi SupertiGigi Casellato Umberto TerraciniGiovanni Petrucci Alberto (Eugenio Cefis)Bob Marchese commissario giunta RobertiClaudio Trionfi Albertino (Giovanni Marcora)Gianni Franzoi colonnello FedericiVittorio Battara Corrado BonfantiniSilvio Anselmo don Severino BaldoniSilvio Spaccesi VezzaliniRoger Browne Mc CafferyGiorgio Russo colonnello emissario del governo di RomaWilma d’Eusebio moglie commissario RobertiSandro Sandri sacerdote rosminianoAnna Identici Gisella FloreaniniSandro Corradino don CabalàLuca del Fabbro Andrea

Attori ossolani:segretario comunale Pietro Brusati avvocato Nobilivigile urbano Rosano Brustia ingegner Cristoforivigile urbano Mario Scaltritti ingegner Ballarinivigile urbano Dionigi Guglielmetti don Zoppettivigile urbano scelto Elvio Avere villeggiantecaporipartizione polizia urbanaBruno Testore Augusto De Gaspericonsigliere comunale Luigi Boghi Oreste Filopantigiornalista Giorgio Quaglia Livio (Licino Oddicini)Rita Barberis Elsa Olivamesso comunale Ettore Azzoni messo comunalecapostazione Duccio Durione capostazione

Altri ruoli furono interpretati dai pittori Franco Busca e Mario Bartolotti, dal tecnico calcisticoTellini, Fausto Del Ponte (nel ruolo del colonnello Moneta); la stessa Elsa Oliva - comandantepartigiano - interpreta una allieva della scuola serale della Repubblica, il consigliere comunaleSgrena, di Masera, interpreta la guida che accompagna Andrea nel passaggio in Svizzera; numerosicomponenti della famiglia La Creta lavorano nel film, al padre tocca il ruolo di Concetto Marchesi,con la dura battuta sul fascismo. Musiche: tema «Verde» di Guido e Maurizio De Angelis.La canzone «Quaranta giorni di libertà» è cantata da Anna Identici‘41.

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Quale storia nel film?

Inserito nel programma delle celebrazioni per il trentennale dellaRepubblica dell’Ossola, il film di Castellani si annuncia subito con unvistoso equivoco: quando - in Municipio a Domodossola - viene convocatala conferenza stampa di presentazione, all’avvio delle riprese, il comunicatoemesso dal Comune dice che sarà presente il regista Renato Castellani,invece i giornalisti accorsi trovano Leandro Castellani, «giovanemarchigiano simpatico e paziente»14.

Il lavoro di Castellani si può considerare un film televisivo, con presenzaprioritaria di primi piani, carattere analitico della ripresa ma con precisistilemi di sceneggiato, soprattutto per l’attenzione posta sugli elementi deldialogo e della parola15.

La dimensione di fiction - e quindi di drammatizzazione - del lavoro portada un lato a trasfigurare i personaggi narrati, ma anche a ritagliare una certaimmagine e un preciso messaggio dell’esperienza della repubblica ossolana.Un intento che viene dichiarato fin da subito dall’autore e dal regista;Codignola e Castellani annunciano in avvio di lavorazione che non sarà, illoro, un film celebrativo, ma un film che rappresenti «la Resistenza italianaper i giovani d’oggi [...] deve uscire una tematica che si riassuma così: le cosedi allora valgono ancora oggi perché la repubblica dell’Ossola ha prefiguratol’Italia di oggi come l’abbiamo voluta»16. In linea anche la motivazione idealedi Raoul Grassilli, chiamato ad impersonare Ettore Tibaldi: «Devo dunquerappresentare il personaggio con una sensibilità moderna, il mio Tibalditelevisivo deve essere un uomo di oggi, capace di essere capito dai giovani,da quelli che sin qui non l’avevano mai sentito nominare e deve essere capitoda chi lo vedrà tra un anno o tra cinque. Se crediamo nei valori dellarepubblica ossolana, dobbiamo offrire al pubblico un personaggio ancoracapace di dare il suo messaggio, altrimenti non serve a niente, avremo soloriprodotto un museo delle cere»17. E se ancora non fosse chiaro l’intentodegli autori, polemicamente Codignola precisa: «Visto che la nostra scuolasi rifiuta di farlo cerchiamo noi di spiegare alla gente cosa sia stata laResistenza italiana, per questo abbiamo cercato di non nascondere niente;chi si attende di vedere una cosa consolante, priva di problematica, non girinemmeno il bottone del televisore. Se non facciamo così i nostri figli nonsapranno mai il punto da cui siamo partiti»18. Un impegno fortemente eticoe politico, quindi, non pura celebrazione (e in Italia, dirà sempre Codignolaa Domodossola, di celebrazioni si è spesso abusato19) cioè un tentativo di fare

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didattica storica e forse molto di più: infatti Codignola evidenzia comeintenda mettere in evidenza il processo di maturazione e di educazione delgiovane protagonista, simbolo di tutti coloro che - provenienti da unaeducazione illiberale, autoritaria fatta di credi assoluti - hanno imparatoqualcosa assistendo ai drammi che non erano solo quelli del combattente»20.Un impegno per il quale Luciano Codignola si è preparato, lavorando perdue anni «intervistando di persona ex comandanti, partigiani, consultandoarchivi intonsi»21.

Dichiarazioni di intenti e di programma che incidono su una societàsegnata dallo stragismo e in una situazione internazionale di fortepreoccupazione per le sorti della stessa democrazia. L’antifascismo militantein quegli anni si misura - non dimentichiamolo - con la strage di piazza dellaLoggia a Brescia, la bomba sul treno Italicus tra Roma e il Brennero, il recentegolpe in Cile, la dittatura dei colonnelli in Grecia, il governo salazarista inPortogallo (travolto proprio nell’aprile 1974 dalla rivoluzione dei garofani), ilFranchismo al tramonto ma sempre ferocemente pericoloso in Spagna, gliultimi echi del conflitto in Vietnam, i rigurgiti golpisti di Borghese e della Rosadei venti. È una società che si interroga, in cui i valori dell’antifascismo sonoprassi evidente, sono valori da difendere e promuovere, sono valori chequalcuno vuole distruggere22. Lo scenario politico nazionale e internazionaledi quegli anni, le passioni politiche, non devono certo essere tenute in disparte,ma anzi aiutano a comprendere meglio il senso di una operazione storico-politica quale quella di Quaranta giorni di libertà: il terrorismo dilagante portaa un confronto politico sul concetto stesso di libertà, attraverso la polemica sul«fermo di polizia», per approdare, nel 1975, alla cosiddetta Legge Reale23, ilfascismo non è una vuota categoria ma un pericolo evidente per la democrazia:in ottobre si tiene il processo per il golpe tentato da Junio Valerio Borghese,ex comandante della Decima Mas, nel novembre 1974 a Romaventicinquemila persone sfilano in corteo contro le violenze fasciste, checontano settecento aggressioni in cinque anni24.

La messa in onda televisiva viene preceduta, nel pomeriggio di sabato 23novembre, da una proiezione in un cinema di Domodossola - il Corso - cheneppure riesce a contenere le migliaia di persone che si accalcano per entrare.La gente è in piedi, «come ai tempi del Padrino»25, ansiosa di riconoscersinelle scene del film. Dopo l’introduzione di Paolo Bologna e l’avvio dellaproiezione, a gran voce si urla «Tel lì ’l to cugnaà»; «Varda al La Creta ’mel’è distint»; «Ma gh’era anca i partigian da dudass an?»26. C’è una grandeansia di rivedersi, scoprirsi e riconoscersi protagonisti. Infatti il film ha un

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impatto fortissimo sulla comunità ossolana, un impatto che vede il cinemaCorso traboccante di gente per la prima del film, feroci polemiche per laveridicità storica del film stesso ma anche altrettanto accese polemichequando il tema del film - Verde, composto dai fratelli Guido e Maurizio DeAngelis - diviene jingle per uno spot di una nota casa alimentare, ritenendo- gli Ossolani - ormai il tema legato indissolubilmente al film di Castellanie alla Resistenza27!

Ma il film raggiunge i suoi obiettivi di «documento storico»?Appena viene pubblicato, no. Piace alla gente ma riceve durissime critiche dai

partigiani. Questi rimproverano sostanzialmente a Castellani di non aversufficientemente inquadrato l’evento della Repubblica dell’Ossola nella storiadella Resistenza novarese e alcune imprecisioni sui personaggi. Il comandanteArca si lamenta che Castellani lo ha incontrato ma non ha tenuto inconsiderazione i suoi ricordi, altri contestano la figura di Tibaldi, «che avevasempre il cappello a tesa molto ampia e la cravatta a farfalla»28. Polemiche anchesulla figura di Marco, Alfredo Di Dio, reso sullo schermo da Andrea Giordana:Di Dio era «calmo, misurato, non nevrotico, di poche pochissime parole»29, e poiaveva sempre la barba, insomma il contrario del personaggio sullo schermo.

Sulla ricostruzione del contesto storico, si rimprovera a Castellani unasostanziale superficialità e approssimazione, che non lascia trasparire lacomplessa dinamica delle operazioni militari che portarono alla liberazionedell’Ossola, l’esatta situazione militare nelle settimane della Repubblica e lacomposita presenza - di tutte le formazioni di ogni indirizzo politico - deipartigiani nell’Ossola30. Molti, moltissimi gli episodi criticati o stigmatizzatiin quanto assenti nella ricostruzione del regista: sembra quasi emergere lasensazione che il mondo della Resistenza avesse preferito un film su tutta laResistenza nel Novarese31, cosa che Castellani non poteva realizzare. Questonon toglie che una più articolata precisazione e contestualizzazione sarebbestata certamente positiva.

Fra le critiche, molte hanno come bersaglio il comportamento delsacerdote che accoglie il giovane Andrea, protagonista immaginario del film,al collegio Rosmini: non lo fa entrare e lo invita ad andare in un albergo. Unaricostruzione giudicata «penosa»32.

Essendo troppo recenti gli avvenimenti, si sarebbe auspicata unaricostruzione giornalistica con i diretti testimoni, una soluzione che nonsarebbe dispiaciuta neppure a Ugo Buzzolan33, che dedica al film diCastellani una recensione nella sua rubrica televisiva, nella quale comunquericonosce che «nelle grandi linee [...] il film sia stato giudicato onesto»34.

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Conclusioni

Quaranta giorni di libertà fu un film di grande seguito35, non immune daerrori e criticabili semplificazioni.

Ma l’ampio riscontro che ebbe, e che travalicò l’ambito ossolano, ciconforta nel ritenere che il successo non fu solo dovuto all’ansia di rivedersiin tv da parte di chi vi partecipò come comparsa o vide girare il film36,un’audience di sedici milioni di persone vuol dire avere fatto un film che gliItaliani videro.

Un film che non fece - perché non lo volle fare - una ricostruzione deifatti, ma offrì - forse per la prima volta - il senso e il messaggio politico dellaResistenza, un film che fece conoscere a molti, e a molti giovani, larepubblica dell’Ossola e la Resistenza37. Un film a tema, politico ma nonfazioso, che più che considerare la televisione (e il cinema) come unostrumento di riproduzione del mondo, salva del mondo e dell’esperienzadella Repubblica dell’Ossola l’essenza attraverso l’apparenza, la fiction38.

Un messaggio che - non va dimenticato - nacque nelle valli ossolane mavenne sentito e riconosciuto ben al di fuori di esse. Accanto alle critiche,comunque, non mancarono i giudizi positivi proprio per il messaggiopolitico del film39, giudizi ben sintetizzati nella valutazione che fece, conlucidità, il comandante Moscatelli: «Finalmente si esce dalla retorica dellaresistenza fatta di battaglie, di sacrifici, di piagnistei e viene fuori per meritodi Codignola e Castellani il discorso sugli ideali della Resistenza; il suocontenuto politico, la gestione del potere democratico. Avere presentato intv una Resistenza che parla di libertà di stampa, di organizzazioni sindacali,di riforma della scuola, di collegamenti e rapporti tra potere e popolazioneè una grande cosa»40.

Note al testo

1 Cfr. ALBERTO FARASSINO, Mediologia della resistenza, radio e televisione, in GUIDO CRAINZ,ALBERTO FARASSINO, ENZO FORCELLA, NICOLA GALLERANO, La resistenza italiana neiprogrammi della Rai, Rai ERI, Roma 1996, p. 106.

2 Cfr. PASQUALE IACCIO, Bronte, Liguori, Napoli 1992. Il film di Vancini è ispirato dai tragicifatti di Bronte, in cui, per sedare una rivolta popolare, vera e propria jacquerie, i garibaldini diNino Bixio non lesinarono l’uso della forza, procedendo a giudizi sommari e a fucilazioni dicivili. Fonte letteraria del lavoro di Vancini è la novella La libertà di Giovanni Verga. In ondail 19 settembre.

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3 In onda dal 19 maggio, con la regia di Silvio Maestranzi.

4 Cfr. ALDO GRASSO, Storia della televisione italiana. I cinquant’anni della televisione, Garzanti,Milano 2004, p. 261.

5 Cfr. Ivi, op. cit., p. 267. GIANNI RONDOLINO, Roberto Rossellini, Il Castoro, Milano 1995, p. 109.

6 Da ricordare il ritardo dell’introduzione del colore nella programmazione televisiva, dovutaalla ferma opposizione del partito repubblicano e del partito comunista, contrari a questo«vezzo» nel 1974, anno di gravissima crisi economica, a seguito alla crisi petrolifera.

7 Cfr. FRANCESCA ANANIA, Immagini di storia. La televisione racconta il Novecento, Rai ERI,Roma 2003, p. 45.

8 Cfr. G. CRAINZ, Il punto di vista dello storico, in La storia in televisione. Storici e registi aconfronto, a cura di Luisa Cicognetti, Lorenza Servetti, Pierre Sorlin, Istituto regionaleFerruccio Parri, Marsilio, Venezia 2001, p. 47.

9 Cfr. MASSIMO LEGNANI, Al mercato della storia. Il mestiere di storico fra scienza e consumo, acura di Luca Baldissara, Stefano Battilossi, Paolo Ferrari, Carocci, Roma 2000.

10 Cfr. A. FARASSINO, Mediologia della resistenza, radio e televisione cit., p. 106.

11 Il termine «eroe» apparteneva all’enfasi nazionalistica di cui si era imbevuta la cultura fascista.Non quindi eroi-superuomini, ma eroici non-eroi, se ci è concesso il bisticcio.

12 Importante sottolineare il tema della scuola e dell’educazione, trattato nello sceneggiato, inonda in un anno - il 1974 - di forti contrasti sul tema dei Decreti delegati per la scuola, ilprovvedimento che - istituendo organi quali i Consigli di circolo e i Consigli di istituto ampliavala partecipazione democratica alla vita della scuola ai genitori, agli studenti, al corpo nondocente.

13 Cfr. ADRIANO APRÀ, Itinerario personale nel documentario italiano, in Studi su dodici sguardid’autore in cortometraggio, a cura di Lino Micciché, Associazione Philip Morris - ProgettoCinema/Lindau, Torino 1995, pp. 281-295.

14 Cfr. «Eco Risveglio», 6 giugno 1974.

15 Cfr. F. ANANIA, La storia sfuggente. Una analisi dei programmi televisivi, ERI Rai, Torino1986, p. 31.

16 Cfr. «Eco Risveglio», 6 giugno 1974.

17 Cfr. «Eco Risveglio», 6 giugno 1974.

18 Cfr. «Eco Risveglio», 6 giugno 1974.

19 Cfr. «Il Popolo dell’Ossola», 30 maggio 1974.

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20 Cfr. «Il Popolo dell’Ossola», 30 maggio 1974.

21 Cfr. «Eco Risveglio», 6 giugno 1974.

22 Cfr. PAUL GINSBORG, Storia d’Italia 1943 - 1999. Famiglia, società, stato, Einaudi, Torino1998, pp. 358 - 482.

23 Cfr. GIUSEPPE MAMMARELLA, L’Italia dalla caduta del fascismo ad oggi, Il Mulino, Bologna1978, p. 538.

24 Cfr. «La Stampa», 28 novembre 1974. Scorrendo i titoli del giornale di Torino di quei giorni, nonsi può che rafforzare il senso di una società in preda a una violenza politica praticamente quotidiana.Ecco alcuni esempi, tutti tratti da «La Stampa» del 24 novembre 1974: «Savona altri due attentatifascisti»; «Roma: pestaggio fascista uno studente in fin di vita»; «Bologna agente ferito da un licealefascista». Una violenza che vede presente anche i primi nuclei delle Brigate rosse e del terrorismo disinistra. Una bomba viene addirittura ritrovata su un treno in transito alla stazione di Domodossola.

25 L’espressione colorita è del direttore del periodico ossolano «Eco Risveglio», che dedica allaproiezione una interessante cronaca. Cfr. G.R. (Gianni Reami), Ossola in coda per il suo film,«Eco Risveglio», 28 novembre 1974. È chiaro il riferimento al celebre film di Francis FordCoppola, Il padrino, con Marlon Brando, che ebbe notevole successo al cinema in quegli stessianni. La proiezione del film si accompagna anche a una piccola polemica. Ad assistere allaproiezione viene invitata anche una delegazione sovietica, in quei giorni in Ossola. Ladelegazione viene fatta accomodare sul palco d’onore. Questo provoca il commento risentitodi un anonimo «Commis» che, sulle pagine dell’«Eco Risveglio» si domanda se «visto che lospettacolo era una festa alla libertà» la delegazione «fosse venuta ad imparare». Gli risponde nellastessa pagina «Condon» che ricorda come «l’ordinamento costituzionale della Repubblicadell’Ossola fu improntato [...] proprio a un modello strutturale, politico e sociale democraticoe socialista. Quanto ad imparare, c’è da dire che dopo il Vietnam, la Grecia e da ultimo,dolorosamente, il Cile abbiamo veramente un po’ tutti, Amerikani in testa, da impararequalcosa dai quaranta giorni di libertà». Cfr. «Eco Risveglio», 28 novembre 1974.

26 Cfr. G.R., Ossola in coda per il suo film cit. I riferimenti all’età dei partigiani sono dovuti alfatto che, per i ruoli di comparsa, Castellani prese molti ragazzi, anche giovanissimi; tanto chenell’articolo citato, il direttore dell’«Eco Risveglio» commenta acidamente: «o che mancasseroventenni atti alla bisogna o che Castellani ritenesse che la liberazione di Domodossola fosseopera di infanti in età prepuberale». La Creta era invece una famiglia ossolana che compare indiversi ruoli nel film, al padre fu infatti affidato il ruolo di Concetto Marchesi che sentenzia ilsuo giudizio sul fascismo e sugli italiani, di cui sopra.

27 Questo episodio spiega molto bene come la funzione extradiegetica del commento musicaledei fratelli De Angelis centri qui il proprio scopo: il motivo veicola un messaggio che il pubblicoaccoglie e riconosce, e questo fuori da una semplicistica e riduttiva componente esteticadell’immedesimarsi in modo limitante con un film girato in Ossola. Ci si immedesima con unaesperienza che il film racconta.

28 Cfr. A.C., I partigiani superstiti contestano il film televisivo. Racconteremo noi nelle scuoleossolane quello che abbiamo vissuto 30 anni fa, «La Stampa», 6 dicembre 1974.

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29 Cfr. ITALO SETTEMBRI, partigiano della I Valtoce, Lettera a Castellani & C: Marco non eracosì, «Il Popolo dell’Ossola», 12 dicembre 1974.

30 Diversi e tutti abbastanza omogenei nei giudizi sono gli articoli e le interviste apparse neigiorni di messa in onda del film. Di errori gravissimi parla il vicecomandante della Valtoce,Enrico Massara (cfr. PIERO BARBÉ, Non per un miracolo ma soffrendo riuscimmo a liberareDomodossola, «La Stampa», 13 dicembre 1974), di omissioni - non aver citato come prodromila battaglia di Gravellona, la liberazione di Cannobio-Cannero-Oggebbio, aver dimenticato lapresenza dei partigiani garibaldini - parla apertamente Giorgio Togni, un comandante delladivisione Mario Flaim (Cfr. A.C., Dimenticati Muneghina, Caletti, Coppo, assalti ai treniblindati ed imboscate, «La Stampa», 6 dicembre 1974) mentre «perplessità» per aver trascuratoalcuni antefatti importanti, come l’insurrezione di Villadossola, commenta «La Stampa», giàall’indomani della prima puntata (Cfr. A.V. I quaranta giorni della libertà, «La Stampa», 27novembre 1974.

31 È questa l’impressione che si ricava rileggendo oggi le cronache giornalistiche di quellesettimane, note in cui i vari comandanti e uomini della Resistenza puntano il dito controCastellani. Un vero stillicidio di critiche, molte fondate.

32 Cfr. TERESIO VALSESIA, La «Repubblica dell’Ossola» in tv: pochi pregi e moltissime lacune, Il«Popolo dell’Ossola», 28 novembre 1974. Nell’articolo viene ricordato padre Zoppetti,superiore della congregazione rosminiana, arrestato e malmenato da Vezzalini con imputazionedi aver aperto il collegio a tutti. Dure le critiche che a Castellani rivolge l’avvocato NataleMenotti: «Don Zoppetti che non era rosminiano ma sacerdote secolare che insegnava alCollegio Rosmini [...] se fosse ancora in vita sarebbe addolorato come lo sono io perché i padrirosminiani, che ricordo come grandi educatori alla libera vita civile, non potevano e nondovevano essere presentati attraverso quell’intruso reticente e direi disfattista loro confratello,che li mette in scena». Cfr. Un biglietto aperto al regista Castellani, «Il Popolo dell’Ossola», 12dicembre 1974.

33 Cfr. A.V. L’indice puntato contro la televisione per i Quaranta giorni della libertà, «La Stampa»,5 dicembre 1974. Nella sua nota, Buzzolan fa una interessante riflessione: «Qui siamo di frontea un film. Assistiamo a una rappresentazione con pretese di affresco documentaristico. Nonvorremmo che il pubblico abituato dalla tv a vedere ormai tutto trasformato in spettacolo avessevisto anche Quaranta giorni di libertà non diversamente da un qualsiasi sceneggiato a puntatee quindi avesse recepito più la funzione drammatica che il tentativo di rinnovare una realtà».Nel citato articolo di Teresio Valsesia (vedi supra), vera summa delle critiche che l’Ossola rivolseal film di Castellani, si giudica negativamente anche le scene della liberazione di Domodossola:«La gente per le strade che saluta i cameramen e la Identici che canta la sua nenia. Prettaartificiosità pseudocabarettistica». Giudicando quindi inadatto il medium scelto, cioè laricostruzione.

34 Cfr. UGO BUZZOLAN, «Trent’anni fa in Val d’Ossola», «La Stampa», 11 dicembre 1974.

35 Nella serata di martedì 3 dicembre 1974, mentre va in onda la seconda puntata del film, inuna sala cittadina di Domodossola viene proiettato L’esorcista, «ma la gente preferisce guardarela tv», scrive «La Stampa» il giorno dopo. Cfr. A.V., L’indice puntato contro la televisione per iQuaranta giorni della libertà, cit.

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36 Nelle polemiche che si scatenarono dopo l’uscita del film, si rimproverò chi applaudì allaprima del cinema Corso, rei di essere soltanto delle comparse, nulla più di una claque per un filmche di ossolano - si pensava - avesse poco o niente. Cfr. T. Valsesia, La Repubblica dell’Ossolain tv cit.; FRANCO FORNARA, Troppe critiche, «Il Popolo dell’Ossola», 12 dicembre 1974; T.VALSESIA, Eppur son giuste, «Il Popolo dell’Ossola», 12 dicembre 1974.

37 Va debitamente ricordato che il film e il dibattito che ne scaturì, andarono anche a incideresu un confronto in quelle settimane molto acceso sulle pagine del giornale «Eco Risveglio» ,sultema dei giovani. Alcuni giovani attraverso quel dibattito e quel film, riscoprirono i propripadri, coloro che avevano fatto la Resistenza. «I giovani fanno “politica gratuita”» scrive unaragazza di Villadossola in una lettera al giornale dopo aver assistito alla proiezione del film alcinema Corso «e contestano tutto e tutti [...] ma sbagliamo quando arriviamo al punto dirinnegare e quasi distruggere quello che i molti caduti della resistenza hanno preparato per noi.Occorre pensare un poco di più ai nostri padri non passare oltre con una alzata di spalle. Occorreinvece intrattenere un dialogo con chi personalmente ha vissuto giorno per giorno la resistenza».Cfr. Una giovane sui 40 giorni, «Eco Risveglio», 5 dicembre 1974.

38 Cfr. FRANCESCO CASETTI, Teorie del cinema. Dal dopoguerra agli anni sessanta, in Storia delcinema mondiale, a cura di Gian Piero Brunetta vol. 5: Teorie, strumenti, memorie, Einaudi,Torino 2001, p. 525. Assistiamo qui a un diretto rovesciamento del classico giudizio diFeuerbach, secondo cui l’uomo moderno sopperisce alla mancanza di una essenza realeattraverso una essenza ideale, e contrabbanda le proprie rappresentazioni per l’essenza effettivadi un realtà perduta o abbandonata. Cfr. LUDWIG FEUERBACH, Scritti filosofici, Laterza,Roma-Bari 1976, p. 245. Ma anche a una delimitazione del timore espresso da Jean Baudrillard,secondo cui l’uomo contemporaneo ha sostituito al reale il segno del reale. Cfr. JEANBAUDRILLARD, Simulacri e impostura, Cappelli, Bologna 1980, p. 47.

39 Cfr. F. FORNARA, Troppe critiche cit.

40 Cfr. PERO BARBÉ, Ci sono voluti 30 anni per dire la verità sulla Resistenza, «La Stampa», 6dicembre 1974. Nell’intervista rilasciata al giornalista, Moscatelli dice altre cose importanti:«Un film così dieci anni fa era una cosa impensabile» e ricorda la realizzazione, nel 1964, di undocumentario televisivo, proprio per i vent’anni della Repubblica dell’Ossola, in cui non eracitato, anzi: «Non dovevo essere citato». Moscatelli si riferisce al programma tv La Repubblicadell’Ossola, del 1964, di Domenico Zucaro ed Enzo Forcella, messo in onda il 25 aprile diquell’anno. Da sottolineare che il database elettronico dei programmi Rai dedicati allaresistenza (in allegato a Guido Crainz, Alberto Farassino, Enzo Focella, Nicola Gallerano, Laresistenza italiana nei programmi della Rai cit.) classifica questo programma come di genere«militare», mentre il film di Castellani viene ritenuto di genere «politico». Nell’intervista alcomandante garibaldino non mancano, comunque, riferimenti polemici: «La Repubblicadell’Ossola» afferma Moscatelli «più che il prodotto di una azione partigiana (anche se lo è stato)fu il risultato della paura che facevano i comunisti. Mi spiego meglio: a far correre i comandantidella Valtoce dai tedeschi per convincerli alla resa non è stata tanto la consapevolezza di liquidarele formazioni nazifasciste ma il desiderio di anticipare una ormai prossima azione dei reparticomunisti».

41 Al riguardo va annotato che la partecipazione al ruolo di Gisella Floreanini e l’interpretazionedel tema del film, coincisero per Anna Identici ad una precisa svolta di carriera. Da cantante

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familiare e rassicurante, ex valletta di Mike Bongiorno alla «Fiera dei sogni» nel 1964, AnnaIdentici divenne interprete impegnata. Già dal 1971, anno della sua apparizione a Sanremo incoppia con il cantante francese Antoine, si dedica alle canzoni di lotta e di protesta. Nello stessoanno pubblica l’album «Alla mia gente», costituito per lo più da canzoni popolari di lotta, el’anno dopo - ancora a Sanremo - porta una canzone sul tema delle morti bianche, «Era belloil mio ragazzo». Ancora impegnata è la sua partecipazione a Sanremo 1973 con «Mi sono chiestatante volte». Si accosta anche al repertorio delle mondine e si esibisce, dal vivo, fuori dai circuititradizionali, una scelta di grande valore artistico e civile, ma commercialmente perdente.

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Le elezioni politiche del 1909 in Ossola

Lunedì 8 febbraio 1909 il re firma il decreto di scioglimento dellaCamera dei deputati; i collegi elettorali sono convocati il 7 marzo, «pereleggere ciascuno un deputato», e per il 14, se occorre una secondavotazione; poi il 24 marzo si riuniranno il Senato del regno e la Camera deideputati. Un numero di elettori assai ridotto spiega e giustifica la rapidità diquesto processo elettorale.

«L’Indipendente», «gazzetta dell’Alta e Bassa Ossola», ne dà notizia il 10febbraio e non tralascia le dotte considerazioni:

Finalmente! Ogni incertezza è finita: la Camera è sciolta dopo 4 anni e 3 mesi. Nessunalegislatura durò così a lungo: eppure allorquando fu inaugurata si diceva che nonavrebbe potuto durare a lungo perché era composta di elementi eterogenei nessuno deiquali costituiva una maggioranza. Questa condizione di fatto fu invece quella chedeterminò la sua durata perché si era formata a Montecitorio una maggioranzaorganizzata non in virtù di principii, ma dall’unione di interessi diversi che trovaronoil loro tornaconto nell’ibrida lega1.

La legislatura si era inaugurata il 30 novembre 1904 ed aveva visto,sempre secondo «L’Indipendente», «i clericali entrare ufficialmente comepartito»2: per l’unione dei clericali con i trasformisti «si è compiuta nellaCamera un’azione deleteria che ha soffocato e spento ogni idealità». Seguel’auspicio che la nuova Camera, quella per cui si vota, proponga che la vitadi ogni legislatura non debba «sorpassare i tre anni: è necessario che il paeseeserciti più spesso la sua sovranità».

Le valutazioni espresse sono chiaramente di parte: la nostra «gazzetta»,voce dal profondo di una provincia periferica, sconta pregiudizi ideologici

storia locale

Le elezioni politiche del 1909 in Ossola

di Edgardo Ferrari

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Edgardo Ferrari

e luoghi comuni diffusi, ma superficiali. Croce, per esempio, vent’anni dopoavrebbe scritto: «La vita italiana dopo il 1900 scorse per oltre un decenniofeconda di opere e di speranze. [...] E furono quelli, in Italia, anche gli anniin cui meglio si attuò l’idea di un governo liberale; del quale neppure bisognacoltivare un’idea astratta, cioè di così sublime perfezione da disconoscerlopoi nella sua concreta esistenza»3.

È il tempo di Giovanni Giolitti, che guida il suo più lungo ministero (29maggio 1906 - 10 dicembre 1909): secondo Perticone «è un lungo e,comparativamente, un grande Ministero» e dà atto di un miglioramento nellecondizioni delle classi popolari e di un miglioramento «non radicale, ma pursempre sensibile [...] nella istruzione popolare»4. Denis Mack Smith preferisceprecisare: «Cinquant’anni dopo l’unificazione l’Italia settentrionale e centrale(sta) diventando prospera sotto il paterno governo di Giolitti»5.

Dopo il riscatto delle concessioni ferroviarie, nel 1906 è stato possibileconvertire la rendita pubblica dal 5 al 3,50 per cento e durante il 1907-1908la crisi dell’economia mondiale per l’Italia, in sostanza, ha come conseguenzadi aumentare il peso del capitale pubblico nei confronti di quello privato e diconfermare «la funzione centrale svolta dallo stato, tramite la Banca di Italia,per immettere liquidità nel sistema»6. Anche il trauma economico e sociale peri soccorsi e le nuove spese rese necessarie dai cataclismi, che colpiscono ilMezzogiorno e la Sicilia (il terremoto delle Calabrie del 1905, l’eruzione delVesuvio nel 1906, il nuovo e tremendo terremoto del 1908, che ha per centroMessina, interamente abbattuta, e si stende nella prossima Calabria) si affrontae supera con interventi tempestivi, frutto di un’ormai collaudataorganizzazione, unita a una diffusa solidarietà popolare. Ad evitare poi che leelezioni del 1909 diventino «una lotta partigiana sui cadaveri», a Messina siporta candidato (e viene eletto) lo stesso Giolitti e la mossa la dice lungasull’accortezza politica del Presidente del consiglio e ministro degli Interni.

Con il «rigoglio» economico giolittiano, pure l’Ossola vive un periodo direlativo benessere, che coincide con la sua prima industrializzazione ecomporta una crescita globale della valle. Lo sviluppo si svolge con ritmidiversi: a momenti di accentuato dinamismo e di novità si alternano altri disclerotizzazione e di ritardo7.

La rete delle ferrovie ed il traforo del Sempione hanno creato sufficientiaperture verso le aree mercantilmente forti in Italia ed in Europa; l’inizio deilavori per lo sfruttamento idroelettrico dell’intero bacino della Toce promette,a breve, la disponibilità di una fonte energetica di grande interesse strategicoanche per il progresso locale. Ora, insieme con la forza lavoro, dall’esterno

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Le elezioni politiche del 1909 in Ossola

vengono in valle i capitali, che suppliscono alla mancata accumulazioneprimitiva ed alle preferenze del risparmio verso gli investimenti terrieri.

In Ossola la politica di Giolitti è interpretata da Alfredo Falcioni, elettodeputato per la prima volta, appena trentenne, nel 1900 e riconfermato nel1904, il quale si è particolarmente distinto nel sostenere gli interessi ossolanidurante l’iter parlamentare dei provvedimenti relativi al traforo delSempione ed alle linee di collegamento. Falcioni è sostenuto dalla classe deipiccoli proprietari, cui si aggiungono i favori del clero locale e della diocesi8.E «L’Ossola», nel numero del 13 febbraio, che annuncia il decreto reale peri comizi generali, non esita a definire subito il dovere degli elettori in«quest’illibato collegio politico così degnamente rappresentato per duelegislature dal nostro carissimo concittadino avv. comm. Alfredo Falcioni».

Eccolo esposto, con finta ritrosia, il dovere: «A noi in questo momentonon si affaccia neppure il dubbio che l’on. Falcioni non sia rieletto conmeritata larghezza di suffragi»9. La settimana successiva il giornale vuolricordare «senza commenti» i momenti e le circostanze più interessantidell’attività del parlamentare, anche se Falcioni avrebbe chiesto il silenzio,e cioè lasciare agli elettori di giudicare «se à fatto il proprio dovere comerappresentante politico». Nell’articolo di fondo del 27 febbraio il Direttoretraccia, con sufficiente genericità, le linee del «passato politico» dell’on.leFalcioni e conclude concretamente:

Se non temessimo di offender la modestia dell’uomo onorando cui, né le alteonorificenze né la sua autorevole situazione politica, hanno potuto mai neanchemomentaneamente, far velo alla sua grande bontà, noi potremmo qui descrivere alungo le sue benemerenze parlamentari.Ma noi da tutto ciò ci asteniamo, sapendo che facendo diversamente, arrecheremmooffesa all’animo retto dell’On. Falcioni alieno da qualsiasi incensatura e solo desiderosodi meritare sempre più la benevolenza dei suoi elettori.Sia dunque la votazione del giorno 7 marzo un plebiscito imponente e cordiale in onoredi Alfredo Falcioni.

Secondo «L’Avvenire dell’Ossola», già l’11 febbraio, «incontra maggiorefiducia l’informazione che l’uscente deputato Falcioni non avrà competitori,come non ne ebbe nell’ultima elezione»; quindi il 25 febbraio nelle Note dicronaca rivela il rifiuto alla candidatura da parte di alcuni domesi eminenti esu un altro nome possibile, l’illustre prof. Giuseppe Chiovenda, di Premosello,«un vero valore intellettuale», fa sapere che non si è potuto mettere insieme uncomitato di sostegno. Quindi rimane solo l’uscente on. Falcioni10.

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On. Alfredo Falcioni, senatore del Regno

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«L’Indipendente», il 3 marzo, elencando «color che son sospesi», insisteche a Domodossola «Falcioni è senza competitori. È uno dei tre collegid’Italia ove non esiste lotta, come Trapani e Jesi»11.

Ma «L’Ossola» del 6 marzo pubblica un’anonima corrispondenza daPremosello, Stonature elettorali, in cui ricompare il nome di GiuseppeChiovenda (sembra quasi che si voglia esorcizzare un fastidioso fantasma):

Produce qui un vivo senso di disgusto la lotta altrettanto accanita quanto inesplicabileche il nostro Parroco sta combattendo, ben inteso all’ombra, contro l’uscente deputatoFalcioni. Sembra che il dissidente reverendo, «Orazio sol contro Toscana tutta» vogliaad ogni costo la candidatura dell’Avv. Chiovenda, che questi medesimo ebbe il sennodi non porre, e che nessun altro fu così imprudente di proclamare non certo per lapersona del Candidato in pectore (stimabilissima persona sott’ogni rapporto) ma peraltre ragioni che qui non è il caso di esporre come altri, prima di noi, à credutoopportuno di sottacere.È tuttavia strano quest’odio alla macchia del... piissimo nostro Prevosto contro l’Avv.Falcioni, di cui il paese ricorda con riconoscenza il generoso intervento in occasionedelle memorabili alluvioni del 1900 e l’opera efficacissima, dappoi prestata in pro delComune, quando si trattò di riattare il nostro riale12.

Bisogna ora non dimenticare che i cattolici son tornati ad affacciarsi alla vitapolitica nazionale: formalmente il non expedit vale ancora, non è statoabrogato, ma il suo illanguidire è consacrato dalla partecipazione del clero,pronto a salvare «l’ordine sociale». Ciò è avvenuto nel 1904. Poi il PonteficePio X, con l’enciclica Il fermo proposito dell’11 giugno 1905, afferma «il doveredei cattolici a prepararsi prudentemente e serenamente alla vita politica,quando vi fossero chiamati» e rimette la sospensione del divieto alla prudentevalutazione dei Vescovi, quando ne riconoscano «la stretta necessità pel benedelle anime e dei supremi interessi delle [proprie] chiese»13.

«A questo spontaneo avvicinamento – “dei cattolici allo stato”, comescrive Nino Valeri, – sempre più aperto (per quanto sempre ammantato diriserve), Giolitti aprì la strada con altrettanto cauta finzione politica, lafinzione delle “parallele” che mirava ad evitare i contatti e gli urti diretti,come se ognuno, Stato e Chiesa, dovesse procedere per la propria stradasenza incontrarsi mai»14.

A Novara, dall’agosto 1906, è vescovo mons. Giuseppe Gamba,favorevole, per le elezioni, ad un accordo clerico-moderato in funzioneantisocialista;15 arciprete di Domodossola è don Pietro Tettoni, immesso inparrocchia nel 1904 dopo una lunga impaziente attesa16.

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Subito, in naturale accordo con il suo vescovo ed a nome dei parroci delcircondario ossolano, già l’11 febbraio don Tettoni scrive a Falcioni sulladisponibilità del clero (e quindi dei fedeli cattolici) ad «appoggiare col votoquegli uomini che liberi da imposizioni settarie dessero garanzie di difenderee favorire due principii che sono insieme due alti sentimenti indiscutibili: ilmassimo rispetto alla religione ed il più sincero favore allo sviluppo di unabenintesa legislazione economica e sociale a favore del popolo senza odiosepartigianerie»17. La risposta del candidato è dello stesso giorno e su cartaintestata della Camera dei deputati; vale la pena di leggerla per intero18:

Domodossola 11febbraio 1909Ill.o e Rev.do ArcipreteGiunto quando e come potei da Novara ò trovato la preg.ma che Ella si compiacquerimettermi, a nome anche dei Rev.di Vicari, Parroci e Sacerdoti del Circondario.Mentre apprezzo il sentimento di schiettezza ed ad un tempo di benevola deferenza cheà suggerita la domanda rivoltami in vista delle prossime elezioni politiche, non solo nonò difficoltà di sottoscrivere l’impegno cui da parte di V.S.R.ma e Suoi rappresentantisi subordina l’appoggio alla mia candidatura, ma, con pari lealtà, mi rammarico quasiche siasi potuto dubitare del mio personale rispetto alla religione, sia per i principi cheò sempre professato, sia per le tradizioni di mia famiglia.A questi principi ed a queste tradizioni credo di aver inspirato ed intendo inspirare lavita mia e la mia opera di Deputato conscio che la mia fede politica di monarchicoliberale sicuramente democratico non solo sia conciliabile, ma senz’altro inconcepibilesenza il rispetto a quella che, per proclamazione statutaria è la religione dello Stato.Ricambio di cuore a Lei ed ai Reverendi Colleghi suoi l’espressione dei miei ossequi.D.mo A. Falcioni

La lettera deve essere giudicata sufficiente pur nella sua studiata sfuggenteelasticità, se «L’Azione Novarese», periodico ufficiale della Curia, in piùnumeri tra il 26 febbraio e il 2 marzo, fra le candidature raccomandate dallaDirezione Diocesana Cattolica, pone sempre quella di Alfredo Falcioni per ilcollegio di Domodossola e nel numero del 5 marzo incalza: «L’Avv. Falcioniè l’unico candidato della provincia che non si vede di fronte competitori;quindi la sua riuscita non è dubbia. Anch’egli ha fatto dichiarazioni sì esplicitein nostro favore che non è lecito dubitare della sua sincerità»19.Alla vigilia del voto, il 6 marzo, «L’Ossola» scende sul patetico congedandosidai lettori con questo caldo invito, che è quasi una supplica: «Elettoridell’Ossola, votiamo il nome caro di Alfredo Falcioni»20.Ed ora leggiamo la Cronaca Elettorale del 7 marzo come la racconta«L’Indipendente»: la giornata non è trascorsa tranquilla a Domodossola,contrariamente a tutte le attese21.

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Se dicessimo che nel nostro collegio vi fu lotta, affermeremmo cosa errata. Comeannunciavamo nello scorso numero, l’avv. Alfredo Falcioni si ripresentava senzacompetitori; il che esclude di per sé l’idea della lotta. A suffragare la nostra affermazionesta d’altra parte lo stesso manifesto elettorale pubblicato dall’anonimo ComitatoPermanente, nel quale si invitavano gli elettori ad affermarsi sul nome dell’uscenteFalcioni, onde tributargli una dimostrazione di stima ed affetto.Invece domenica mentre le urne languivano nelle due sezioni di Palazzo Mellerio perlo scarso accorrere degli elettori, forse anche a causa della neve che fitta fitta cadevasenza tregua, improvvisamente si sparse la novella che i clericali lavorando sott’acqua,minacciavano la sconfitta del deputato liberale uscente, ed a prova affermavasi che iRosminiani votavano compatti per l’avv. Giuseppe Chiovenda. Aggiungevasi cheipotetiche notizie precipitosamente giunte da fuori, assicuravano che i preti facevanoun’incalzante propaganda per il presunto candidato clericale, sì che la posizionedell’avv. Falcioni era alquanto scossa e pericolante.Questo bastò perché con ogni mezzo di locomozione si slanciassero genti d’ogni colorepolitico in giro pel collegio a scongiurare il pericolo nero!! La mossa fu abile e tale dascuotere l’apatia degli elettori che, sia per la mancanza di lotta, sia per il cattivo tempopreferivano restare comodi a casa loro. Così fu anche che gli anticlericali, ed i socialisticonversero i loro voti unanimi sul nome dell’avv. Falcioni.Questa la prima parte della cronaca elettorale svoltasi domenica. Ed ora diciamo dellaseconda che è quella che maggiormente interessa la nostra città.I frati Rosminiani ebbero una ben triste sorpresa, allorquando recandosi alle urnefurono fatti segno delle più triviali insolenze indegne di paesi civili. Affermano che ilpaladino degli insulti fosse un prezzolato individuo che non è né nostro concittadinoné elettore del nostro collegio. E questo ci consola! Sta però il fatto che sul portone delPalazzo Municipale, dove si svolgevano le operazioni elettorali, i Rosminiani ed ingenerale i preti, erano accolti con ogni sorta di beffe e dileggi. I pupazzettisti delmomento sfoggiarono la loro anonima abilità ed in un batter d’occhio nel peristilio delpalazzo comunale comparvero grottesche figure allusive.La riprovevole commedia si protrasse per tutta la giornata, ed ebbe la sua apoteosi lasera, quando un’accozaglia dei più disparati elementi, sotto ordini precisi, si recòfiacoleggiante a fare un’indegna dimostrazione sotto le finestre del Collegio Rosminiemettendo grida di abbasso e di morte al suono di latte da petrolio, fischietti e cornette.E quasi non bastasse una prima dimostrazione, dopo altrettanta gazzarra fatta alla casaparrocchiale, rafforzati gli spiriti già eccitati con nuovo beveraggio elettorale, ritornòuna seconda volta a dare novello saggio di educazione civile e politica in via Matterella!!!Tale la fine della giornata elettorale. Poche parole bastano a bollare quest’atto. Chi hasenso comune, chi è cittadino domese, deve vergognarsi di questi fatti indegni dellacittà nostra: e noi senza paura, amanti sopra ogni cosa della verità, li stigmatizziamo contutta la nostra forza, persuasi di avere con noi tutti i cittadini ben pensanti a qualunquepartito essi appartengano.

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La gazzarra domese, senza volerne esagerare la portata e, soprattutto, quel«paladino degli insulti», «prezzolato individuo che non è né nostroconcittadino né elettore del nostro collegio», riportano l’eco delle accuse dibrogli elettorali rivolte a Giolitti in più occasioni e quindi possono benricordarci che proprio queste elezioni del marzo 1909 «gli valsero il nome di«ministro della malavita» dal titolo di un piccolo libro, pubblicato dalla“Voce”, in cui Gaetano Salvemini raccontava le sue disavventure dicandidato della sinistra nel collegio di Gioia del Colle»22.

I risultati elettorali per il collegio di Domodossola provocano unoscomposto contegno da parte dei falcioniani e del loro organo di stampa,«L’Ossola». Che cos’è dunque capitato? È capitato che si sono presi tutti ungrande spavento, forte e ingiustificato: il loro candidato ha raccolto 2369voti (quasi cinque punti percentuali in più delle elezioni precedenti), ma unesorcizzato Giuseppe Chiovenda ha riunito ben 191 preferenze (96 solo aPremosello, qui battendo sonoramente Falcioni, fermo a 25).

La reazione nasce subito violenta. È Falcioni stesso che supera la misura:ringraziando «gli elettori carissimi», non divaga: «a voi in specie, che di fronteall’assalto dell’ultima ora insorgeste colla civile protesta del voto, facendo ilmio nome simbolo di idealità liberale, la mia gratitudine indelebile»23.

Non si capisce quale sia quest’assalto dell’ultima ora, né perché i voti dalui raccolti debbano considerarsi una «civile protesta»; piuttosto può essere«civile protesta» quella di una minoranza che, dopo la rumorosa campagnaelettorale, ostinata sul nome del candidato ufficiale, sceglie di votare perun’altra persona.

Giuseppe Chiovenda per parte sua chiarisce di non poter essereconsiderato il candidato cattolico nel collegio ossolano in un telegramma al«Corriere della Sera», spedito l’8 marzo da Domodossola, ed il giornale,correttamente, pubblica un trafiletto, che dà sui nervi a «L’Ossola»:24

Il prof. Giuseppe Chiovenda dell’Università di Roma, sul cui nome si sono raccolti varivoti cattolici del collegio di Domodossola, ci telegrafa affermando di aver ivi rifiutatorecisamente di porre la sua candidatura. Perciò i voti dati a suo nome non possonoattribuirsi al colore politico di cattolico accennato dal «Corriere», «essendo noto che ilcostituzionale Falcioni uscente era il solo candidato, dopo le dichiarazioni fatte, evenne raccomandato agli elettori dalla direzione diocesana di Novara a mezzo dellastampa.

E «L’Ossola» nega: non è stato Falcioni il candidato dei cattolici, santaingenuità, prof. Chiovenda! e torna fuori l’anticlericalismo antico e vigoroso

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ancora, spiegato e giustificato addirittura con il richiamo «al martirio di unBruno e di Savonarola». Poi il giornale ricostruisce e banalizza i rapporti conil mondo cattolico, dal quale Falcioni non si è mai sognato di provocaredichiarazioni in suo favore; con doverosa cortesia, ad «una letteraprivatissima» dell’arciprete di Domodossola ha risposto quello che«qualunque uomo di coscienza non avrebbe esitato a rispondere». Ilpubblico «che ha buon senso sa distinguere tra il rispetto alla religione, el’antipatriottismo clericale, tra il Re e Sua Santità... libera chiesa in liberostato... la religione non è una setta... la maschera talare che nasconde animedi ipocriti e di corruttori... i preti, che raccomandano, non cercati» e viasmaniando. Ora che le elezioni sono passate, la nomea o anche solo ilsospetto di cattolico (=clericale) danno un prurito insopportabile ai laici de«L’Ossola», a Falcioni, a tutti i falcioniani.

Ma «L’Indipendente», candido, ripete che «unico candidato clericale delCollegio di Domodossola era e fu l’avvocato Alfredo Falcioni»26 ed ancheChiovenda, pur riconoscendo «le menti turbate dall’ingiustificatospavento», insiste:

Come può dunque sul serio l’onorevole Falcioni, nella prosa ufficiale diretta aglielettori, gloriarsi d’aver respinto l’assalto dell’ultima ora? E nella prosa ufficiosa chesegue, parlare di lavoro nell’ombra, di colpi nella schiena, di pericolo nero rivelatosiall’ultima ora? Non vi fu lavoro alcuno (come risulta dalla stessa irrisoria quantità deivoti), né alcuna sorpresa: vi fu il voto di pochi indipendenti, già annunciato o prevedutodai giornali, come nel «Sempione» del 5 marzo e nella stessa «Ossola» del 6 marzo. Eperché parla di clericalume e di pericolo nero questo vittorioso trionfatore di inesistentiavversari?.

Completa il professore, che la polemica ha distolto dai suoi studi romani(e se ne duole):

«Se l’«Ossola» avesse pubblicato (non dopo le elezioni, ma prima) che il Falcioni avevarilasciato tali e tali dichiarazioni al rappresentante ufficiale del clero, molti di quelli chehanno votato pel Falcioni si sarebbero (a torto o a ragione) astenuti. Dunque,nascondendo quel fatto, si sono ottenuti voti che altrimenti sarebbero mancati. Altroche lavoro nell’ombra!27

«L’Ossola» non demorde; rincara la dose titolando in prima paginal’articolo di fondo La vittoria di Falcioni e l’imboscata dei Padri Rosminianie denunciando in cronaca l’esistenza di un «blocco clerico farmaceutico»28,ma alla fine, ad evitare annunciati infortuni giudiziari, il Direttore deve

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riconoscere che il giornale è «caduto in fallo» con apprezzamenti ingiuriosi,lesivi dell’onorabilità di cittadini e di professionisti, e quindi esprimere il piùvivo rammarico per l’accaduto, dopo che è «trascorsa l’ebrezza della vittoriaed accertata la falsità delle informazioni pervenute»29.

«L’Avvenire dell’Ossola» si è divertito un mondo assistendo, nonpartecipe, alle diatribe ed ora, con educata ironia, tira la somma:

Quindici giorni di animata discussione e poi, diceva taluno, chi se ne ricorda? C’è peraltro una domanda che parecchi si sono fatta ragionando così: per l’appoggio avuto dalGoverno l’On. Falcioni dovrebbe sedere al centro, le dichiarazioni esplicite al comitatodiocesano lo porterebbero alla destra di opposizione, ma i voti dei socialisti ed il loroaffacendarsi lo mandano alla sinistra, e allora... dove siederà?Certo è che l’ultima polemica troppo personale e mal diretta, finita con una prudenteritirata non à giovato al nostro Deputato, à inasprito gli animi, aizzato i partiti, epreparato il terreno alla lotta nelle prossime elezioni.Sempre a titolo di semplice cronaca, come ci siamo imposti il compito fin da principio,riferiamo che per le future elezioni da tutti ritenute poco lontane, si prevede ilpresentarsi di uno o fors’anche di due competitori.Pensiamo che l’On. Falcioni vorrà degnamente corrispondere alla fiducia in lui riposta,e coll’opera assidua cancellando la triste impressione delle ultime polemiche, sapràcircondare il suo nome di stima e benevolenza30.

Le competizioni elettorali sono, nonostante le previsioni, ancora lontane;l’on. Falcioni supera e cancella l’impressione negativa delle ultime polemiche.Nel 1911 è sottosegretario agli interni nel nuovo ministero Giolitti; per leelezioni del 1913, le prime a suffragio universale, sarà candidato, sempre nelcollegio di Domodossola, su proposta unanime dell’assemblea di tutti i sindaciossolani, compresi quelli di fede socialista. Con 6.282 voti su 7.169 votanti glielettori premieranno, senza riserve questa volta, la sua presenza politica31.

Note al testo

1 «L’Indipendente», 10 febbraio 1909, n. 6. In questo periodo si pubblicano in Ossola, conregolarità, tre settimanali: «L’Ossola», fondato nel 1895, esce il sabato, liberale-conservatore,laico; «L’Indipendente» si pubblica il mercoledì dal maggio 1900, progressista, antagonista de«L’Ossola», e «L’Avvenire dell’Ossola», nato nel dicembre 1908, di tendenza anticlericale,socialista, radicale quanto basta, è in edicola il giovedì. Tutti sottolineano nella cronaca la vitadella valle, ma non mancano, con maggiore o minore frequenza a seconda dei momenti,aperture su temi di politica nazionale. Svolgono in sostanza, un ruolo importante nellaformazione di uno spirito di corpo: l’ossolanità.

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2 L’attenuazione del non expedit per le elezioni politiche nel 1904 aveva portato alcuni cattolicialla Camera, non certo un partito cattolico, inesistente. Ancora il 15 febbraio 1909«L’Osservatore Romano» avverte: «cattolici deputati sì, deputati cattolici no». Si tenga inoltrepresente l’osservazione del Carocci: «Nei confronti dei cattolici Giolitti seguì una politicaanaloga a quella seguita nei confronti dei socialisti: lasciò che conquistassero fette sostanziosedi potere a livello della società civile, ma ebbe la massima cura che, nella direzione dello stato,il potere restasse saldamente in mano ai liberali.» (GIAMPIERO CAROCCI, Storia d’Italiadall’Unità ad oggi. Feltrinelli, Milano 1975, p. 161).

3 BENEDETTO CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1962, p. 233.

4 GIACOMO PERTICONE, L’Italia contemporanea dal 1871 al 1948, Mondatori, Milano 1962,p. 515 e pag. 467.

5 DENIS MACK SMITH, Storia d’Italia dal 1861 al 1958, Laterza, Bari 1959, p. 388.

6 G. CAROCCI, Storia d’Italia cit., p. 177.

7 Si veda: UMBERTO CHIARAMONTE, Industrializzazione e movimento operaio in Val d’Ossoladall’Unità alla prima guerra mondiale, Franco Angeli, Milano 1985.

8 «Falcioni seppe magistralmente coltivare il suo collegio, curandone gli interessi e dispensando favoria piene mani a tutti indistintamente, a cominciare dal clero per finire all’umile gente di montagna.»(RENZO MORTAROTTI, L’Ossola nell’età moderna, Grossi, Domodossola 1985, p. 585).

9 «L’Ossola», 13 febbraio 1909, n. 7; 20 febbraio, n. 8 e 27 febbraio, n. 9. Il collegio elettoraledi Domodossola è formato da tutti i comuni tradizionalmente considerati ossolani, daFormazza al nord, fino a Mergozzo al sud. Conta poco meno di 7.500 iscritti nelle liste elettorali.

10 «L’Avvenire dell’Ossola», 11 febbraio 1909, n. 6 e 25 febbraio, n. 8. Nel 1904 Falcioni haottenuto 2629 voti su 3186 votanti; il suo avversario, Vittorio Buttis, sindacalista, solo 437.Giuseppe Chiovenda (Premosello 1872-1937) è titolare della cattedra di diritto processualecivile all’Università di Roma dal gennaio 1907. Sarà tra i primi firmatari del manifesto scrittoda Benedetto Croce in risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti e pubblicato sul quotidianoromano «Il Mondo» del 1° maggio 1925 (cfr. NINO VALERI, La lotta politica in Italia dall’Unitàal 1925, Le Monnier, Firenze 1958, p. 596). Per onorarlo Premosello ha assunto il suo cognomedal 1959.

11 «L’Indipendente», 3 marzo 1909, n. 9.

12 «L’Ossola», 6 marzo 1909, n. 10.

13 L’enciclica Il fermo proposito si può leggere in Tutte le encicliche dei Sommi Pontefici, a curadi Eucardio Momigliano. dall’Oglio, Milano 1959, pp. 543-555.

14 N. VALERI, La lotta politica in Italia, cit., p. 278. Giolitti aveva dichiarato alla Camera il 28maggio 1904: «Il principio nostro è questo, che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che nondevono incontrarsi mai.» E Croce aggiunge: «cosa che non escludeva che potessero

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bonariamente intendersi per smussare punti e togliere attriti» ed indica alcuni esempi avvenuti(B. CROCE, Storia d’Italia cit., p. 246).

15 Nella lettera al Procuratore del Re, volta ad ottenere l’Exequatur, il prefetto di Novara, il 17settembre 1906, scrive: «Sono d’avviso che mons. Gamba sia prelato da non destarepreoccupazione di sorta» (citato da: PIER LUIGI LONGO, Il cattolicesimo novarese dai «liberi fedelionesti» ai «cattolici integrali», in «Ieri Novara Oggi», 3/1980, pag. 3).

16 La bolla pontificia con la quale è concesso a don Pietro Tettoni il possesso del beneficioparrocchiale arcipreturale sotto il titolo dei S.S. Gervasio e Protaso di Domodossola, è in data6 settembre 1899; il decreto reale per l’Exequatur è del 27 marzo 1904 (in archivio dellaparrocchia dei Santi Gervaso e Protaso di Domodossola(d’ora innanzi APD), b. 132, 27a, 4.

17 Conosciamo il testo della lettera di don Tettoni solo per quel che ne pubblica «L’Ossola», 10marzo 1909, supplemento, n.11.

18 APD, b. 98, 3/1.

19 Citato in «L’Indipendente», 10 marzo 1909, n. 10.

20 «L’Ossola», 6 marzo 1909, n. 10.

21 «L’Indipendente», 10 marzo 1909, n. 10. A proposito delle «chiassate piazzaiole» compiuteda «un gruppo di giovinotti, ai quali forse eransi uniti alcuni dei soliti teppisti», «L’Avveniredell’Ossola» (11 marzo 1909, n. 10) fa notare che «giunti nelle vicinanze della chiesaparrocchiale vi trovarono i carabinieri, il perché lo sanno tutti».

22 SERGIO ROMANO, Giolitti lo stile del potere, Bompiani, Milano 1989, p. 207. Romanocompleta l’informazione con questa postilla: «E quanto ai brogli elettorali si limitava a replicareironicamente, come fece alla Camera il 31 marzo 1909: “Io ho osservato, come fenomenocostante, che da quando si fanno elezioni è sempre successo, che i candidati respinti nonvogliono essere respinti dalla volontà degli elettori, ma dalle violenze del Governo”».

23 «L’Ossola», 10 marzo 1909, supplemento, n. 11.

24 Riportato in «L’Avvenire dell’Ossola», 11 marzo 1909, n. 10. Alla scelta del «Corriere dellaSera», effettuata da Giuseppe Chiovenda per il chiarimento, che tanto gli sta a cuore, potrebbeaver contribuito, oltre alla diffusione del quotidiano, la campagna elettorale condotta dallostesso in appoggio del Sonnino e dei suoi: il «Corriere» «era allarmato dalla presenza deiclericali». Si veda al proposito: GABRIELE DE ROSA, L’Azione Cattolica, vol. II, Laterza, Bari1954, p. 228.

25 «L’Ossola», 10 marzo 1909, supplemento, n. 11.

26 «L’Indipendente», 10 marzo 1909, n. 10.

27 «L’Indipendente», 17 marzo 1909, n. 11.

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Le elezioni politiche del 1909 in Ossola

28 «L’Ossola», 13 marzo 1909, n. 11.

29 «L’Ossola», 10 aprile 1909, n. 15.

30 «L’Avvenire dell’Ossola», 25 marzo 1909, n. 12.

31 Eletto deputato ancora nel 1919 e nel 1921, Falcioni è ministro, prima dell’agricoltura e poidi grazia e giustizia, nei governi Nitti del 1920. Non partecipa alle elezioni nel 1924 e vienenominato senatore con il marzo 1929.

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Antonio Labriola e la questione coloniale

storia nazionale

Antonio Labriola e la questione coloniale

di Gian Mario Bravo

Premessa

L’attenzione italiana per la Libia, o meglio, per la Tripolitania e laCirenaica, cominciò dopo la crisi di Tunisi negli anni ottantadell’Ottocento; restò sopita nel corso dei lustri seguenti, anche e soprattuttoa causa delle sciagure e del blocco dell’espansione nel Corno d’Africa: esplosea partire dall’avvio del Novecento. Già Giuseppe Mazzini, altri democraticie azionisti nel corso del Risorgimento s’erano posti il problemadell’espansione italiana in Africa, concentrando la riflessione, oltre che sullastrategica Tunisia, sulla Libia. Anche nel mondo socialista ci fu un dibattito,sebbene ridotto e spesso confuso; più volte i socialisti, in Parlamento,sull’«Avanti!» e sui giornali locali presero posizione contro la «fregola diavventure», che aveva animato la classe dirigente post-risorgimentale, tantola destra che la sinistra parlamentare.

«Tripoli - terra promessa» fu parola d’ordine e d’incitamento che siaffermò lentamente1; ma, nonostante il confusionismo del socialismo, perqualche tempo non sollevò interessamento particolare nel paese. È daimputare invece ad Antonio Labriola, il più coerente, l’unico vero ericonosciuto marxista «teorico» italiano prima di Gramsci, ortodosso,sapiente e capace, cosmopolita e a contatto con la cultura socialista emarxista internazionale, un’originaria responsabilità per aver spalancato leporte e le aspettative del movimento operaio e socialista per l’impresa diLibia, che sarebbe stata realizzata, con enormi sacrifici, costi e drammi, e constraordinarie contraddizioni interne nella sinistra, a partire dal secondodecennio del secolo2.

1. Il socialismo, tramite i principali esponenti e dirigenti della SecondaInternazionale, fin dai suoi inizi organizzativi discusse del problema coloniale,

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che, nei primordi del Novecento, divenne poi oggetto di vigile considerazione,congiuntamente alle questioni della «pace e della guerra» e delle «riforme orivoluzione», almeno fino alla débacle rappresentata nel 1914 dall’esplosionedel conflitto. Due anni più tardi, nel 1916, trasse le sue conclusioni negativeLenin nell’Imperialismo, fase suprema del capitalismo. Il saggio faceva seguitoa quanto aveva sostenuto, fin da 1902 nella sua «fondamentale operasull’imperialismo» (così lo stesso Lenin) l’inglese John Atkinson Hobson, cheritenne di interpretare la politica imperialista del Regno Unito con la ricercadi sbocchi esterni per l’accumulazione del capitale, tema ulteriormenteaffrontato da Rudolf Hilferding nel Capitale finanziario, avente al suo centrol’analisi del ruolo delle potenze finanziarie e dalle grandi banche3. Il partitosocialista e le varie tendenze che a esso fecero capo, fino allo scorcio del nuovosecolo, elaborarono una sorta di «ideologia anticoloniale», che mirava ascindere la responsabilità dei popoli dal passato coloniale dei più importantiStati europei e intendeva proporre una linea d’azione internazionalista, conconnotati immediatamente politici4. Marx, nel Capitale e negli studi sulleeconomie precapitaliste, aveva affrontato le tematiche del colonialismoinglese, specie in India, e più in generale dell’arretratezza economica,correlandole allo sfruttamento capitalistico. Karl Kautsky quindi, sollecitatoda Engels, aveva introdotto l’assunto dell’autoemancipazione del proletariato- o sottoproletariato - coloniale, quindi il problema della relazioneintercorrente fra le aspettative di indipendenza dei popoli coloniali in rapportoda un lato con l’egemonia dei paesi europei e degli Stati Uniti d’America e daun altro con l’allargamento dei processi rivoluzionari sul continente.Seguendo tale descrizione, la «vittoria» del proletariato in Inghilterra avrebbeanche apportato la libertà e l’indipendenza al popolo indiano. Non si trattavadi novità, per quanto concerneva il pensiero di Marx e di Engels. Essi avevanosempre tenute separate le rappresentazioni delle trasformazioni delle societàcapitalistiche rispetto a quelle delle formazioni economico-socialiprecapitaliste. D’altra parte Engels, discutendo sia con Kautsky sia con EduardBernstein negli anni della scomparsa di Marx sulla «questione egiziana»(mentre numerosi socialisti francesi avevano solidarizzato con i movimentinazionalisti egiziani), sulla base di un solido realismo aveva messo in guardiasul «sentimentalismo politico» della pubblicistica francese (a essa era associataquella italiana) per i pericoli costituiti dall’arretratezza economica e sociale edal «tradizionalismo dello sfruttamento esercitato da satrapi o pascià». Solo il«proletariato vittorioso», riorganizzando le società civili, avrebbe trascinatocon sé i paesi «semicivili»5:

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Quali fasi sociali e politiche, tuttavia, questi paesi devono trascorrere per giungereanch’essi all’organizzazione socialista, è una domanda alla quale credo si possa oggirispondere solo con ipotesi oziose. Sono una cosa è certa: il proletariato vittorioso nonpuò imporre la felicità a nessun popolo senza perciò minare la sua stessa vittoria.

La socialdemocrazia internazionale, nell’epoca che precedette gli studi diHobson, mostrò di interessarsi della questione coloniale precipuamente peril suo collegamento con gli sviluppi del capitalismo; le nefandezze di questoerano già state studiate da Marx e da Engels, e le socialdemocrazie ledenunciavano, come faceva ad esempio quella tedesca attraverso il suogiornale, riassumendo il pensiero marxiano6:

Colonizzare significa accumulazione di capitale: accumulazione del capitale significaaccumulazione della miseria. È questo, riassunto in breve, il punto di vista di Marx, cheè anche quello della socialdemocrazia sulla questione coloniale. È l’unico punto di vistache può assumere il proletariato cosciente.

A fine secolo, nella sua condizione di partito guida la socialdemocraziatedesca valutò l’espansionismo nelle colonie un aspetto secondario rispetto aitemi della crescita capitalistica. Peraltro, più per motivi etici e passionali chenon per meditata scelta politica, il socialismo europeo a cavallo dei due secolie nel quadro della Seconda Internazionale fu - con molte eccezioni: si pensi alcaso di Leonida Bissolati e al dibattito intorno alla Libia nel secondo decenniodel Novecento - «strenuo oppositore» della politica coloniale, come benedimostrò un celebrato dirigente tedesco e corrispondente di Labriola, AugustBebel7. Ma la violenza dei nazionalismi, non solo europei, avrebbe presto fattomodificare gli atteggiamenti precostituiti. Nella sostanza, l’evento deldominio coloniale non trovò soluzioni nella sinistra europea.

Nella Seconda Internazionale furono frequenti le manifestazioni disolidarietà per i popoli oppressi. L’organizzazione recepì il lascito dellaPrima Internazionale, con posizioni che appartennero a Marx e a Engelssulla guerra civile americana e, quindi, sul sostegno del lungo e complessoprocesso di liberazione degli schiavi e dei neri d’America. In seguito, alcongresso internazionalista di Londra del 1896 - che sancì anche la rotturadefinitiva fra marxisti, socialisti e anarchici - fu votata una risoluzionesull’integrale «autodeterminazione di tutte le nazioni»:

Il congresso si dichiara per il pieno diritto di autodecisione di tutte le nazioni edesprime la propria simpatia agli operai di ogni paese oppresso attualmente dal giogo

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militare, nazionale o di un altro assolutismo; il congresso invita gli operai di tutti i paesia schierarsi nelle file degli operai coscienti di tutto il mondo, al fine di lottare insiemecon essi per abbattere il capitalismo internazionale e per realizzare gli obiettivi dellasocialdemocrazia internazionale.

Il colonialismo venne denunciato nello stesso tempo come una delle«forme di apparizione» del capitalismo, dello «sfruttamento capitalisticonell’esclusivo interesse dei capitalisti»: la condanna della «politica colonialedella borghesia» costituì la tendenza dominante, mentre, negli anniseguenti, numerosi socialisti, fra i quali anche Bernstein e Jean Jaurès, noncessarono di contestare la «barbarie coloniale» senza però mettere indiscussione il sistema coloniale8. In realtà, divisioni non marginalinell’universo socialista internazionale si ebbero a partire dal 1899 inoccasione della guerra anglo-boera in Sudafrica; la grande maggioranza deipartiti socialisti (lo stesso Independent Labour Party) protestarono controil governo inglese per la «guerra coloniale e capitalistica» delle classidominanti, richiamando le deliberazioni di Londra. Tuttavia, la SocietàFabiana - anche grazie a un intervento combattivo di Bernard Shaw -rivendicò la legittimità della guerra e chiese l’annessione della repubblicaboera al Regno Unito, denunciando la necessità del ristabilimento dei dirittoper tutti e lo «schiavismo», di cui gli eredi degli antichi coloni olandesi eranofautori. Benché queste opinioni venissero presto percepite come untradimento, la questione sollevò un sofferto dibattito nel movimentosocialista internazionale e lo stesso Bernstein se ne fece interprete neiPresupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899). Pur nelquadro della condanna di ogni forma di colonialismo, erano reclamati unmaggior «realismo politico» e una più precisa considerazione dellecondizioni geopolitiche dei paesi oggetto di analisi o di espansione. Si giunseinfine al V congresso dell’Internazionale (Parigi, settembre 1900), chedeliberò di affrontare il problema del colonialismo congiuntamente ai puntidella pace fra i popoli e del militarismo9. Ma ormai incombeva lacontroversia sulla transizione dal colonialismo all’imperialismo, che ebbemodalità e interlocutori assai diversi. Ha scritto una nota studiosa che solocon tale dibattito il movimento socialista internazionale cercò di elaborarelinee di azione indipendente10:

Dall’inizio del Novecento la Seconda Internazionale discusse, marginalmente, a piùriprese il tema, affrontandolo da un punto di vista etico-paternalistico (gli olandesi),o scientista-illuministico (i francesi), oppure esponendo il timore che l’espansione

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coloniale rafforzasse nella madrepatria i gruppi reazionari o sottraesse risorse ai bisognidei ceti poveri (gli italiani).

2. Con la sconfitta di Adua del 1° marzo 1896 si concluse la prima fasedell’espansionismo coloniale italiano e, nel paese, continuarono a esserevivaci le discussioni e i movimenti rivendicazionisti, che anticipavano tesi epunti di vista che sarebbero poi state propri del nazionalismo e collegavanoil colonialismo a necessità «demografiche», come avrebbe fatto in modoabbastanza organico alcuni lustri più tardi l’«imperialismo nazionale»11. Leargomentazioni politiche partivano da lontano, in particolare da PasqualeTuriello e, passate attraverso Crispi e Giolitti, giunsero a tanti intellettualie letterati (si pensi al Giovanni Pascoli della «grande proletaria» che «si èmossa) e sarebbero confluite pressoché immutate nel fascismo.

Anche Antonio Labriola - definito da Michels nella sua precoce Storia delmarxismo (1909) l’«Engels del socialismo italiano»12 (ma già Engels lo avevaqualificato un «marxista rigoroso») - si espresse in diverse occasioni nei suoianni d’impegno, all’incirca dal 1989-1990, in un primo tempo in sintoniacon gli ambienti socialisti, in epoche successive in radicale contrasto con latradizione della sinistra «di classe», nella quale egli malgrado ciò siriconobbe.

Con un intervento, ortodosso e in linea con le opzioni politichedell’Internazionale e dell’ancora imberbe socialismo nazionale, Labriolafece già nel 1890 alcune proposte di taglio positivista13 sull’«impresa nel MarRosso» e sull’Eritrea, in una lettera inviata il 24 febbraio al deputato AlfredoBaccarini e pubblicata su un giornale di Firenze indi sul «Messaggero»qualche settimana dopo, su un «esperimento di socialismo pratico»14. Sidoveva discutere alla Camera dei Deputati la legge sull’«Ordinamento dellaColonia Eritrea» ed era stata proposto, dal Baccarini, di concedere a societàe a privati, fossero essi italiani, indigeni o stranieri, terreni demaniali di variaqualità e composizione.

Per Labriola - nelle prime fasi della sua militanza marxista, dopo che daqualche anno ormai era ascritto al pianeta del socialismo - il problema deisocialisti non era di opporsi alla politica coloniale del governo, perché,ormai, la colonia Eritrea esisteva:

In Africa tanto ci siamo e ci rimarremo. La opposizione che radicali e socialisti ecittadini d’ogni parte fecero un pezzo a tutta l’impresa del Mar Rosso, come non valse

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a impedire che laggiù ci si andasse, non è stata poi in seguito, né così forte, né cosìrisoluta e precisa, da fare che quando si poteva se ne tornasse in tempo. Ormai tutti irimpianti sono vani.

Bisognava invece valutare la possibilità che in Eritrea non crescesse «sututto un nuovo sistema d’inverecondo sfruttamento» e non ne uscisse «unalinea della peggior tradizione della politica coloniale». Il dilemma era unaltro. Si trattava di individuare

seriamente e fortemente il modo di ordinare la colonia: la qual cosa è, e sarà più gravenegli effetti, che non l’essere andati e il non essere tornati. Il problema è vasto escabroso. [...] Non è lecito proprio ora, in mezzo a questo gran moto e questa gran lottadella giovine Europa contro tutta la corrente del liberalismo economico, di piantare lìnell’Eritrea un sistema di proprietà nuova, con la sola scorta di qualche minuzzolo didiritto romano stantìo, e di due dozzine d’articoli di codice civile?

Discuteva in termini giuridici sul fatto che in Eritrea non esisteva laproprietà in senso tradizionale: «Teniamo la terra a titolo di proprietà diStato, ed aspettiamo, studiando. Si faccia di creare un sistema dicoltivazione, o diretta o sussidiata. Proviamo le forme della partecipazioneo della cooperativa». Richiamava all’uopo il socialismo tedesco e la datacruciale del 1889, con la fondazione a Parigi dell’Internazionale Socialista;aveva battute ironiche e canzonatorie nei confronti dell’economistadisprezzato da sempre, Achille Loria (detestato e deriso congiuntamenteanche da Engels, da Benedetto Croce e da una miriade di altri censori pergiungere fino a Gramsci):

Si prepari, l’ottimo mio collega Loria, ad aggiungere in una futura edizione del suoeccellente libro sul capitale15, ai tanti che ha scritti, un nuovissimo capitolo, documentodi esperienza paesana, sulla storia antisociale, antiumana, e anzi dirò cinica dell’iniquosfruttamento che gli europei cristiani e civilizzatori praticano da secoli sulla terra liberad’Africa, d’America o d’Australia.

L’intento di Labriola andava nella direzione - di cui a lungo si era discussonei congressi della Prima Internazionale e che si affacciava nei recentidibattiti della Seconda, ma che occupava cospicuo spazio nelle culturesociali mitteleuropee e anglosassoni - della soluzione cooperativistica, qualeproposta di attuazione di una politica coloniale rispettosa dei princìpi delsocialismo, opposta allo sfruttamento capitalistico e parimenti consapevoledei validi interessi delle popolazioni assoggettate. Il discorso di Labriola era

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in qualche modo assimilabile a quello che, da Budapest e Vienna, venivanegli stessi mesi avanzato dal socialista ungherese Theodor Hertzka. Questinel suo Freiland (Terra libera), con una sorta di utopismo concreto,rispettoso delle popolazioni locali, ipotizzava di costruire in Africa coloniecomunitarie che organizzassero con concordia e sistematicità i lavoratori -europei immigrati e locali - sia nella vita produttiva (eliminando losfruttamento e il profitto capitalistico) sia nella società civile, tramite unegualitarismo equo ma non esasperato. Lo spirito di Hertzka, umanistico elibertario, sollecitò in Europa molte adesioni, perché, in anni di accesecontese colonialiste, sembrava prospettare una strada etica e solidale,compatibile con l’ottica socialista. L’opera di Hertzka godette di ampia econell’associazionismo socialista internazionale, fu più volte tradotta eristampata16; lo stesso Labriola ebbe a tornare su di essa - con accenti critici,però - cinque anni più tardi nella Memoria sul Manifesto comunista17.

Alle argomentazioni di Labriola rispose Filippo Turati sulla sua nuovarivista milanese, «Cuore e Critica»; tacciò il filosofo napoletano diindeterminatezza e di utopismo, negando - con qualche ragione politica -ogni possibilità di sviluppo al «socialismo sperimentale»18:

La vostra idea mi pare geniale, ma essa è - o parmi - terribilmente indeterminata. Io nonsono africanista, neppure mediocremente intinto di cose africane. Ma così, a occhio ecroce, mi pare che, o codesta idea deve essere un disegno concreto, o non sarà nulla.E a farla concreta non potreste essere che voi, che ne siete il padre.

Seguì la replica di Labriola, il quale dichiarò di non credere che lo «Statoborghese» fosse in grado di risolvere in alcun modo le necessità sociali delleclassi subalterne; nondimeno, un intervento sulla politica coloniale inEritrea avrebbe potuto fornire un mezzo potente alla «propagandasocialista», soprattutto nei confronti dei velleitarismi dei democratici e deiradicali. Più specificamente, osservò:

Credo poco alla fecondità, al valore economico, insomma, della Eritrea, fatta eccezionedi alcuni punti. E gli esperimenti socialistici li ritengo in genere cosa difficile, chiunqueli faccia: ma ciò non toglie che si dica nettamente: delle due una; o l’Africa non puòrender nulla, e questa politica è iniqua affatto; o può rendere qualche cosa, e allora nonvi affrettate a trasformare in legalmente commerciabile la terra libera, non aprite la viaal salariato; il meno che possiamo chiedervi è di favorire una cooperativa di lavoratori.[...] Convengo interamente con Voi [Turati], che la base del socialismo deve essere ilproletariato, non credo per nulla ai socialisti semiliberali, ma ritengo imprescindibili

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due cose: che il proletariato deve essere diretto da chi capisce, e che per capire bisognaaver piena coscienza delle forze politiche della storia.

Il beneventano Pasquale Martignetti informò Engels sulla diatriba, inparticolare sulla questione, che stava soprattutto a cuore a Labriola, della«terra libera», e gli richiese di formulare un giudizio. Engels il 30 marzorispose in tedesco da Londra al corrispondente, traduttore in italiano dinumerosi suoi scritti19, il quale a sua volta trasmise il testo della missiva aTurati, in una versione non letterale ma nella sostanza accettata dall’autore.Turati la pubblicò, in calce agli interventi di Labriola e suo, con il titoloL’opinione di Engels. Questi assunse una via intermedia e, nella sostanza,ravvisò nelle ipotesi di Labriola delle proposte serie, ma di assai arduarealizzazione. Scrisse Engels20:

La più elevata domanda che si possa fare all’odierno governo italiano è che essodistribuisca la proprietà fondiaria nelle colonie a poveri contadini perché coltivino essistessi, e non a monopolisti, individui o compagnie. La piccola coltura è lo stato naturalee migliore delle colonie fondate oggi dai governi borghesi, e noi socialisti possiamoquindi appoggiare con buona coscienza la introduzione della piccola coltura nellecolonie già fondate. Se la proposta del prof. Labriola sarà eseguita è un’altra questione.Tutt’i governi attuali sono troppo venduti e sottomessi ai finanzieri e alla borsa, perchégli speculatori della finanza non si debbano impossessare anche delle colonie pel lorosfruttamento, e questo avverrà pur troppo anche con l’Eritrea. Si può nondimenolottare contro di ciò in questa forma: chiedere al governo che esso debba assicurare aicontadini italiani, che emigrino colà, i medesimi vantaggi che essi cercano e trovanoin gran parte per Buenos Aires; chiedere cioè credito dello Stato, per gli emigrantinell’Eritrea, per la fondazione di società, cooperative, ecc.

Engels non affrontò i temi inerenti propriamente la questione colonialené quelli dei rapporti fra le popolazioni indigene e i colonizzatori, anche diparte «proletaria»: fu questo un atteggiamento piuttosto consueto agli esordidella riflessione della Seconda Internazionale, che mutò nel tempo e con lapercezione della consapevolezza dell’iniquità del colonialismo e perciò dellanecessità di scendere in campo con politiche anticolonialiste21.

3. Dopo Adua, la questione coloniale assunse una dimensione piùdrammatica, e anche uomini «miti» (Del Boca menziona ad esempioPascoli), vicini al socialismo umanitario e «dei professori» - per ricordare la

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definizione ben nota di Paolo Spriano22 - divennero in vario modo nuovicultori di un nuovo colonialismo nazionale. Fra essi ci fu nel 1897 ancheLabriola, quando egli era unanimemente considerato l’unico marxista esocialista italiano in grado di confrontarsi con la dirigenza marxista erivoluzionaria del socialismo internazionale, insomma, con gli epigoni e gliesecutori testamentari del lascito ideale di Marx e di Engels. Ciò avvenne, perdi più, nel medesimo tempo in cui egli pubblicò i Saggi sul Materialismostorico, su Discorrendo di socialismo e di filosofia, mentre si apprestava acontrobattere, di lì a poco, revisionismo e revisionisti italiani e stranieri,quali Benedetto Croce, Georges Sorel, Thomas Masaryk, il sempre da luibistrattato Francesco Saverio Merlino e in particolare, dopo il 1899, perfinol’antico amico Bernstein.

L’occasione per una nuova esternazione fu, per Labriola, un dialogopubblico svoltosi a Roma il 21 febbraio 1897 - insieme a lui parlò LeonidaBissolati - nella sala dei Lavoratori del Libro, in una manifestazione perl’indipendenza della Grecia; il testo venne stampato sul «Mattino» di Napoli23.

Evviva il Risorgimento ellenico, affermò Labriola nel meeting, ricollegandouno schietto nazionalismo al socialismo pacifista, cosmopolita edemancipatore dell’Internazionale:

Un gruppo di studenti mi pregava, giorni fa, di tenere una conferenza su Candia. Mirifiutai. Cotesto sport letterario mal s’addice alla presente agitazione. È dover nostro distabilire con risoluzioni esplicite quale sia la volontà precisa della nazione in questomomento. Noi siamo per la Grecia, contro la barbarie turca e contro le insidie delladiplomazia ad un tempo.

Continuò il discorso prendendo atto della «catastrofe dell’Oriente»,mettendo in guardia il governo italiano dall’adeguarsi ai giochi diplomaticidelle grandi potenze, in particolare della Germania; constatò che, neiBalcani, gli Stati nazionali esercitavano una funzione contraria alla Turchiae «per noi» (socialisti e italiani) rappresentavano «il progresso». Nella fogaretorica andò oltre ai valori della nazionalità e accennò alla Tripolitania,rivendicando la «legittimità» di una sua conquista, a detrimento dellaTurchia. Si accodò perciò a quelle visioni di colonialismo e poi diimperialismo demografico, che sarebbero divenute egemoni di lì a qualcheanno anche in Italia e avrebbero aperto profonde brecce nel movimentosocialista24. Dopo aver difeso con forza ed eloquenza negli anni precedenti(1893) sia l’emigrazione italiana sia l’internazionalismo socialista inoccasione dei tragici fatti di Aigues-Mortes25, pervenne ora a sostenere26:

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Liquidiamo per ora la Turchia europea. Quella d’Asia, da Brussa e Bagdad,sopravviverà ancora un pezzo. In quei territori, fatta eccezione degli armeni, non v’èpopoli che sian capaci di vera e propria autonomia politica. Su quel campo dellaTurchia asiatica continuerà a esercitarsi l’influenza del capitale, del commercio edell’industria europea, come a modo di conquista. In questa gara conquistatrice, che èsempre legittima là dove non sono nazionalità vitali, la parte che tocca all’Italia è indicatada tutte le ragioni della opportunità e della difesa: intendo dire di ciò che alla Turchiarimane in Africa, ossia la Tripolitania. Non brontolino i socialisti: anzi mettano sicuroil piede sulla terra ferma della politica. Noi abbiamo bisogno di terreno coloniale, e laTripolitania è a ciò indicatissima. Pensino che duecentomila proletari all’annoemigrano dall’Italia, senza indirizzo e senza difese, e ricordino che non ci può essereprogresso nel proletariato, là dove la borghesia è incapace di progredire. Come lafortuna d’Italia decadde nel secolo XVI, da che il bacino orientale del Mediterraneovenne nelle mani dei turchi, e Portogallo e Spagna dischiusero la vie dell’Oceano, cosìora la Turchia si sfascia e l’Oceano ci si è fatto vicino per la linea del Canale di Suez,noi ripigliamo nuovamente posto nella storia.

L’argomentazione di Labriola risentiva, sicuramente, delle antiche esuperate tesi di Engels (1849-1850), ma non approvate da Marx, sui «popolisenza storia» e non aventi la possibilità di costituirsi in «nazione»: tesi cheLabriola recepiva strumentalmente, perché i movimenti di unità nazionaledi Germania e d’Italia, per quanto manchevoli, avevano avuto successo, inazionalismi d’Irlanda e di Polonia erano pur sempre vitali, e quindi altrinazionalismi erano immaginabili e verificabili27.

La visione di Labriola fu connessa alla situazione dell’emigrazione delproletariato italiano. Egli non rinnegò il marxismo di appartenenza;piuttosto, lo sminuì perché lo applicò solo ai popoli sviluppati ed evolutieconomicamente. Furono invero analisi largamente diffusenell’Internazionale Socialista; vennero superate attraverso tensioni, tragedieed eccezionali antinomie soltanto nei dibattiti che prelusero alla rottureplanetarie della sinistra negli anni venti ed ebbero una svolta decisivanell’anticolonialismo, nei movimenti di liberazione nazionale dei popoli,nella successiva elaborazione del terzomondismo. Per questo, a titolomeramente indicativo, sono ricordati soltanto il nome di Frantz Fanon e ilsuo appello ai «dannati della terra» (quegli stessi Dannati della terradell’inno, diventato presto celeberrimo, L’Internationale, di Eugène Pottier,tradotto in italiano da Turati), per non indicare le scelte politiche,economiche e di governo, che caratterizzarono l’intera seconda metà delsecolo XX28.

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La questione di Candia e della forza nazionale della Grecia (nel 1897, nelcorso di una guerra dall’esito disastroso con la Turchia, il paese non riuscìa liberare Creta e rischiò di perdere l’intera Tessaglia) fu fra gli argomenti dimaggior preoccupazione per Labriola, come risulta anche dai suoi carteggiprivati. A fine febbraio disse brevemente all’amico e allievo Croce: «Non tiho più scritto, perché di questi giorni fui sempre candiota»29. Fu giustamentepreoccupato, perché la «Critica Sociale», in un articolo editoriale, quindi diAnna Kuliscioff e di Turati, subito intervenne con precisazioni sulleposizioni del Partito socialista: l’insurrezione cretese «meritava» tutte «lenostre simpatie», tuttavia il movimento socialista non doveva intervenire -né con finanziamenti né con altri supporti («sangue», era detto con enfasi)nel conflitto armato, perché «il principio di nazionalità» avrebbe potuto«attizzare la guerra civile in ogni Stato d’Europa». Senza mezzi termini erachiamato in causa Labriola, però non citato, che nella conferenza del 21febbraio, «in nome di un ipotetico diritto di conquista sui paesi dove nonsono “nazionalità vitali”, additava all’Italia Tripoli». Gli autori dichiararonoin conclusione: «Noi non crediamo che il Partito socialista possa esserenotato d’ignoranza né di viltà se, di fronte agli attuali governi, non sarà altradivisa che questa, categorica e breve: abbasso le mani!»30.

Labriola reagì non bene all’attacco e alle accuse degli ambienti socialisti.Nello scambio epistolare con Croce, pregò il giovane amico di informarsisulla faccenda e di leggere la rivista turatiana, con l’aspro commento: «Contali mascalzoni non ci si può aver da fare»31. Con un intellettuale greco-italiano, docente all’Istituto Orientale di Napoli, Costantino Triantafillis(1831-1913), egli continuò il dialogo sulla «causa ellenica». In una suamissiva del 5 marzo ribadì quanto già detto, esaltò il «rinascimento ellenico»,lamentò che le potenze europee fossero indifferenti al dramma della Grecia,richiamò la «libertà» e la «democrazia» che animavano l’«iniziativapopolare», col «diritto alla rivoluzione» contrapposto alle esitazioni della«decadente Europa borghese». Concluse con parole forti, cheimplicitamente celavano lo spirito colonialistico e civilizzatore che avevacaratterizzato le sue ultime decisioni. Fu del tutto chiaro32:

Candia non sarà più del Turco: e a breve andare, il Turco non sarà più signore inEuropa. Voi, Elleni, avete dato il segnale. Slavi ed Armeni vi seguiranno. Il bacinoorientale del Mediterraneo sarà per sempre riacquistato all’azione progressiva dellaciviltà. Senza rivoluzione, nessun progresso!

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La discussione sulla libertà e sulla lotta contro l’Impero Ottomanocoinvolse a fondo le diplomazie europee e i partiti socialisti. Soprattutto inGermania il dibattito fu vivace e Kautsky stesso intervenne sul «Vorwärts!»,organo ufficiale della Spd, con un articolo su La questione orientale e lasocialdemocrazia, osservando che la lotta contro i due sistemi imperiali eautocratici della Russia e della Turchia poteva avvenire attraverso ilrafforzamento degli «Stati balcanici cristiani» e che la «democrazia europea»doveva «contrapporsi in modo compatto». Labriola, ricevuto dall’amicoaustriaco il testo, subito gli fece conoscere la sua opinione33:

Bravo! Era tempo che i socialdemocratici sapessero finalmente come devono pensarla!L’Italia arde PER la Grecia, e il governo è prigioniero dell’opinione pubblica. Io homolto contribuito a ciò - senza il permesso dei socialisti ufficiali. Qui in Italia l’istintopolitico è una forza reale.

Procedette oltre nella sua discussione polemica con i socialisti italiani etedeschi (non con Kautsky); lo attestò una nuova lettera a Croce, in cui parlòdel «calcolo» dei politici sconfitto dall’«altruismo»34:

La peggior figura l’hanno fatta i socialisti tedeschi - e in capite il «Vorwärts!». Che cisiano in mezzo a loro molti piccoli borghesi Inhaber [possessori] di azioni delle banchecreditrici della Turchia si sa - ma che un grande partito si dia l’aria di non capire unasituazione nuova perché Marx ed Engels 20 anni fa credevano utile la conservazionedella Turchia contro l’invasione russa, è - via - cosa che rasenta il cretinismo.

La faccenda continuò e Labriola perseverò nella propensione passionalefiloellenica, con molte concessioni anche ideali non allo spirito nazionale maalle più viete forme di nazionalismo che, in Italia, parallelamenteemergevano nelle cerchie intellettuali, nella sinistra democratica e in alcunefrange del socialismo. Presentò un lungo resoconto delle vicende e delle sueultime opinioni alla fidata amica Luise, compagna di Kautsky. Quivi,accanto ai nuovi sentimenti che lo stavano animando, erano anche inclusele antiche critiche sull’organizzativismo esasperato, sulla scarsa lucidità e suipiccoli opportunismi e accomodamenti, che connotavano il socialismo dellapenisola. Scrisse in quello che fu un effettivo rapporto privato35:

È vero che i socialisti italiani (come dice il «Vorwärts!») sono stati discordi sullaquestione greca: ma la discordia era su la carta. La massa dei socialisti si è mescolataall’agitazione senza riserve. Il giornale l’«Avanti!» ha accettata l’agitazione con molte

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riserve e circonlocuzioni, perché in una riunione tenuta qui, il Bissolati, che voleva unordine del giorno schiettamente socialista, fu battuto. Mentre la maggior parte deivolontari partiti, o che vogliono partire, sono socialisti, la commissione centrale del partito(Milano) dichiara «che il partito in quanto partito (la settima grande potenza di Europa!)si dichiara neutrale». E in pari tempo la «Critica [Sociale]» ha scritto un articolo cinico-scettico-maligno nell’ultimo n.°: articolo che porta, come nelle occasioni solenni, la firmaintera della ditta isterico-letteraria t.k. (ossia Turati-Kuliscioff). Queste riserve, questegesuiterie, questo cinismo vogliono dire una cosa sola: pensiamo a FARE le elezioni.Perché ogni socialista che si rispetta deve essere in Italia per lo meno candidato. Di fattiil nostro Ferri è candidato in sedici (dico 16) collegi.

Dopo lo sfogo, Labriola passò ad alcune valutazioni di ordine ideale sulsocialismo e sull’internazionalismo: qui invero abbandonò ognimanifestazione di pro- o pre-colonialismo e tornò a essere il teoricoortodosso del marxismo, in grado di confrontarsi col marxismointernazionale. Continuò con una serie di domande non retoriche maconcrete, e offrì di per sé risposte molto chiare, senza comunque percepirel’inconciliabilità esistente con quanto aveva appena asserito sui problemidella civiltà e della civilizzazione:

Per conchiudere. Oggi, come 24 anni fa, quando cadde la Internazionale, possiamofarci queste domande: 1) È possibile di stabilire le basi e le condizioni di una politicainternazionale del proletariato? 2) È possibile di trovare in ciascuna nazione degliuomini tanto orientati su le condizioni generali della politica, che i loro consiglipossano formare i criteri della condotta internazionale? 3) Non è forse vero che ledifficoltà di una politica internazionale consistono non soltanto nelle diverse condizionidel proletariato, ma nella difettosa intelligenza e nei pregiudizi dei suoi direttori? 4) Osiamo entrati in un periodo di pausa nello sviluppo del socialismo? (io credo di sì).

In queste sintetiche domande, Labriola rientrava appieno nellatradizione del socialismo internazionalista ed era in sintonia anche conl’ultimo Engels. Tuttavia, nello scritto traspariva con evidenza la suaconcezione pessimista dell’evoluzione del socialismo, che sarebbe statavieppiù accentuata dalle imprevedibili e inaccettabili - per lui - divisioniverificatesi nel dibattito sulla revisione del marxismo nella democraziasociale tedesca e mitteleuropea.

Sulla questione della politica estera della nuova Italia, da questeincertezze e ambivalenze egli trasse la conclusione non tanto della sceltacoloniale, ma del fatto che le terre d’Africa asservite alla Porta fossero liberee restassero alla mercé di chi volesse occuparle, perciò nella piena

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disponibilità dello spirito «civilizzatore» dell’Europa e in particolare deimovimenti socialisti.

4. Piuttosto estranee al resto della basilare produzione teorica e politicadi Labriola, le idee sopra sintetizzate funsero praticamente da premessa peril testo della primavera del 1902 sulla «questione di Tripoli», che fecescandalo: eppure esso, tenuto conto dei suoi contenuti, non sembròimpressionare troppo l’opinione pubblica delle sinistre italiana ed europea.Labriola, già gravemente ammalato di cancro, con difficoltà dicomunicazione orale, continuò a essere attento alla politica e a preservare leantiche amicizie socialiste e marxiste, restando a esse fedele. Come accaddeanche ad altre componenti del socialismo italiano, egli viceversa partecipòcon foga al confronto - anzi, quasi lo avviò - sulla legittimità, per l’Italia, dioccupare la «quarta sponda». Il 13 aprile 1902 un importante foglio di Romapubblicò l’intervista da lui concessa ad Andrea Torre, edita, con la didascalia«giudizi di un socialista», sotto il titolo Tripoli, il socialismo e l’espansionecoloniale36. L’intervista fu ampia e a tutto campo. Il giornalista posedomande precise, cui Labriola rispose in modo articolato.

Il primo quesito di Torre concerneva l’opportunità e l’utilità diun’«azione italiana a Tripoli, dal punto di vista nazionale», alla quale ilsocialismo non avrebbe potuto «essere estraneo»37. La sezione iniziale dellarisposta di Labriola fu di per sé chiara e senza infingimenti:

Gli interessi dei socialisti non possono essere opposti agli interessi nazionali, anzi lidebbono promuovere sotto tutte le forme. Gli Stati d’Europa [...] sono in continuo ecomplicato divenire, in ciò che ambiscono, conquistano, assoggettano e sfruttano intutto il resto del mondo. L’Italia non può sottrarsi a questo svolgimento degli Stati cheporta con sé uno svolgimento dei popoli. Se lo facesse, e potesse farlo, in realtà sisottrarrebbe alla circolazione universale della vita moderna; e rimarrebbe arretrata inEuropa. Il movimento espansionista delle nazioni ha le sue ragioni profonde nellaconcorrenza economica.

Labriola sollevò motivi legati al socialismo nel suo rapporto con lenazionalità e connessi allo svolgersi dei socialismi europei negli ultimi lustridel secolo e nel primo decennio-quindicennio di vita della SecondaInternazionale. La discussione seguiva alcune linee precise.

1) Socialismo e questione nazionale. Il dibattito, dalla fine della PrimaInternazionale alle scelte della Seconda, era stato ampio38. Se il socialismo si

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poneva il problema concreto dell’organizzazione nazionale, non avrebbesuperato l’internazionalismo ma avrebbe collocato questo come secondoobiettivo. Di fatto, tesi analoghe potevano venir espunte da tutti gli scrittipolitici di Labriola ed erano conformi all’insegnamento di Engels e agliatteggiamenti dei dirigenti dell’Internazionale. Si trattava di comporta-menti indotti da realismo politico, non ancora consapevoli degli andamentisuccessivi della trasformazione del colonialismo in imperialismo, quali siebbero nelle correnti della sinistra della socialdemocrazia, a partire da RosaLuxemburg per arrivare, in anni molto più avanzati, a Lenin, a Nikolaj I.Bucharin e a numerosi partecipi del dibattito novecentesco. Comunque, ilpresupposto di ogni ragionamento, a partire dal 1871-72 e dalla Criticamarxiana del 1875 al Programma di Gotha della socialdemocrazia tedesca(resa pubblica solo a partire dal 1891), era che la nazione non solo esisteva,era un dato di fatto, ma costituiva anche il terreno primo su cuiintraprendere la costruzione del socialismo.

2) La formazione economica italiana, sebbene ancora attardata, era partedel contesto europeo degli Stati nazionali, quindi doveva fare i conti con ildinamismo degli altri paesi più maturi, non poteva restare arretrata,rischiando perciò di essere emarginata. Da queste riflessioni e da tali dibattitiera scaturito l’interesse di Labriola per la questione coloniale.

3) Questi elementi non contrastavano, quando non venivano esasperati,con le dinamiche del socialismo coevo. Labriola cercò ripetutamente diconciliare il Marx del Capitale con lo sviluppo del capitalismo e della classeoperaia e con le necessità di un’estensione di questa anche al di là dei confinidelle regioni evolute del pianeta. In seguito - soprattutto dopo i pericolimessi in luce dal mondo liberale più aperto, ad esempio, da Hobson -,all’interno del socialismo internazionale si levarono correnti che si poseroobiettivi più avanzati. Fin dall’inizio del Novecento, Lenin, ad esempio,anche sbagliando nelle sue interpretazioni (ma gli errori furono rilevati solodecenni più tardi), anticipò le argomentazioni, oggetto degli studisull’Autodecisione delle nazioni (1914) e, due anni dopo, sull’Imperialismo,in cui richiedeva l’autodeterminazione per i popoli coloniali e dipendenti,perché essa corrispondeva sia agli interessi di classe dei lavoratori degli Statimetropolitani sia a quelli dei popoli coloniali39.

A questo punto, in Labriola fu determinante il fattore biografico. Nellaprimavera del 1902, a causa della malattia, cioè non solo per motivi politicio teorici, egli viveva chiuso in se stesso e non seguiva più con la precedentecostanza il dibattito politico. Si manifestò invece in lui con forza la

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componente illuministica e positivista. Cioè, il positivismo e lo scientismo,ai quali egli pur si era opposto con rigido vigore, emersero ora nel suoragionamento, in cui faceva capolino la visione della missione civilizzatricee costruttiva dell’Europa, giustificatrice nei confronti dell’intervento neiconfronti di popoli inferiori, tali perché erano rimasti estranei ai movimentieconomici e materiali e alla crescita della civiltà.

L’intervista di Torre proseguiva. Labriola articolò ancora la sua risposta,introducendo le argomentazioni, a lui più congeniali, del rapporto tra laforza e lo Stato, della guerra tradotta anche in guerra civile e soprattutto dello«sfruttamento» capitalistico e globale posto in essere nelle società borghesi40:

Non è possibile, nelle condizioni odierne effettive degli Stati, che la concorrenza cedail posto a una giustizia inerme e senza mezzi di coazione [...] e questo dico oggi a coloroche, per avversione a certe forme coattive di cui sono costretti a far uso gli Stati,preferiscono rinunziare a quel relativo progresso che nasce dal prender parte fattivaall’impetuosa concorrenza propria del nostro tempo [...]. Da noi è frequente ladeclamazione contro la guerra, mentre abbiamo continuo il fermento della guerracivile a casa nostra: da noi si protesta sempre contro le espansioni, mentre mandiamoin tutto il mondo le forze vive dei nostri lavoratori in servizio del capitale straniero.

La visione di Labriola collimò in realtà con quella dei Presuppostibernsteiniani, che appena due-tre anni prima egli aveva criticato conveemenza e meticolosità (ma senza entusiasmo, perché Bernstein era pursempre il curatore del lascito testamentario di Marx). Inoltre, egli fu vicino- talora anticipandole - a posizioni presenti in correnti del socialismo italianoe soprattutto nel riformismo liberale e aperto, einaudiano più che nongiolittiano, sostenuto ad esempio dalla torinese Rivista d’avanguardia, «LaRiforma Sociale»41. Avanzò perfino opinioni che, una manciata d’annidopo, sarebbero state enunciate dal nazionalismo italiano42:

E dico dalla papale, che invalida i titoli della nostra unità; dalla capitalistica, che asportadall’Italia i profitti commerciali e industriali; e dall’operaia, che riduce in condizionidi inferiorità all’estero i nostri emigranti.

Il giornalista Torre ricordava a Labriola alcune sue parole del passato, chel’Italia «non può volontariamente sequestrarsi dalla storia». La conseguenzaera dunque che il governo Giolitti, che godeva del supporto del partito,dovesse avere una politica dinamica specie con riferimento a Tripoli.Labriola, che nell’ambito del movimento socialista restava contrario a

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Giolitti a causa dell’eccessiva cautela in tema di legislazione sociale (ed eraper questo criticato tanto da Bissolati che da Turati)43, altro atteggiamentoebbe per quanto concerneva l’eventualità di una campagna coloniale.

All’interno di un suo ragionamento piuttosto paradossale, notò che, sel’unità nazionale italiana si fosse compiuta all’inizio dell’Ottocento, anchel’Italia, come la Francia e l’Inghilterra, sarebbe entrata nel novero dellepotenze coloniali nel Mediterraneo e, dopo l’ apertura del canale di Suez,avrebbe potuto competere con le altre potenze per il predominio dell’Africae anche per resistere all’«avanzarsi minaccioso della Russia»44.

Labriola formulò ipotesi in termini di politica di potenza e di ragion diStato, alla pari del teorico tedesco Leopold von Ranke, che egli conoscevabene, al quale - correttamente sul piano dell’interpretazione - appena unanno prima aveva guardato come a un efficace reazionario45:

Ranke sta con un piede nell’ancien [régime] e con l’altro nel mondo borghese. Fu unprotestante aulico-concistoriale, e insaputamente estese ai periodi della storia quelconcetto di Beruf (un che di medio, vuole dire la parola, fra vocazione e missione), chesarebbe, per chi ci crede, la insegna etico-politica degli Hohenzollern.

Il concetto di supremazia - di egemonia, si sarebbe detto in seguito - stavaal di sopra di ogni cosa e decisione nella politica estera, necessariamente dipotenza, di uno Stato: in questo caso gli vennero a mancare l’analisi delmarxista conseguente e l’umanesimo del socialista emotivo e solidaleitaliano. Fu di nuovo invece spiccatamente marcato da realismo positivista,che, nel suo caso, assunse toni impressionanti. Concluse questa sezione delragionamento con ulteriori argomentazioni che nel futuro della politicacoloniale e imperiale - ma da operetta - dell’Italia avrebbero avuto unsignificato funesto sul cosciente possibile ingresso del paese nel contesto dellegrandi potenze46:

Ebbene noi siamo arrivati troppo tardi [all’unità nazionale] per prendere posizione dipredominio, e toccherà alla politica italiana di rassegnarsi a Tripoli, che certo non cicompensa né di Tunisi né dell’Egitto perduti per noi. Nel trentennio corso dal 1870in qua nemmeno la Triplice è valsa a darci carattere di potenza decisiva, e come la nostrapolitica africana non fu in fondo che un incidente della politica inglese, così tutto ilnostro atteggiamento nel mondo è dipeso dalla Triplice, e ossia dalla necessità disubirla prima, e dalla paura di perderla dopo. Affermarsi come potenza capace di unapropria iniziativa, sarebbe per l’Italia - dirò in linguaggio un po’ filosofico - come uncessare dall’essere un incidente e cominciare dall’essere un efficiente. Perciò la

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questione di Tripoli va giudicata per noi come il primo saggio della nostra libera ecosciente apparizione nella politica mondiale.

Il commento del giornalista fu che il ministero Giolitti non avevamostrato d’essere consapevole della complessità di tale azione e aveva vissutoin modo «empirico» e «ristretto» la politica coloniale, con le sue molte e tristipagine. La risposta di Labriola fu allarmante47:

Vi dirò solo che io ho molta fiducia che l’attuale ministero agirà bene nella questionetripolina, e un’ancora maggiore fiducia l’ho nelle circostanze. La politica liberale nonci ha alienata la Germania e pure ha ispirato maggior fiducia della Francia verso di noi.

Il fatto sorprendente era che, mentre faceva le sue asserzioni, Labriola,nonostante gli impedimenti fisici, continuava a restare addentro alle vicendedel dibattito marxista. Per questo, il suo distacco risultava essere più evidente.D’altra parte, il suo era un atteggiamento spesso condiviso e qualche voltaripreso in parte nel dibattito nella Seconda Internazionale, in cui, comeaccadde dopo il 1896 e il congresso di Londra, il «sistema coloniale» venne inqualche modo accettato perché, introducendo il capitalismo in regioni e paesiarretrati se non selvaggi, esso costituiva pur sempre - secondo una letturaletterale e grossolana di Marx - un «fattore di progresso».

Labriola proseguì nel suo ragionamento, notando che la politica dialleanza con la Germania rappresentava un vantaggio per l’Italia, anche seessa sembrava aprire al Reich la via del Mediterraneo; ciò nonostante, lasituazione era migliore che ai tempi della nascita della Triplice Alleanza edera arrivato «il momento buono per una politica d’iniziativa». L’Italiadoveva accettare i presupposti dell’utilità e dell’attuabilità dell’impresa inLibia, doveva «rassegnarsi», dichiarò con qualche cinismo48.

Quanto all’utilità, bisogna spiegarsi: certo che militarmente non ci compensa dellaminaccia che per l’Italia e sopra tutto per la Sicilia rappresenta la Tunisia armata daifrancesi. La Tripolitania con tutta la Cirenaica è troppo in giù dalle grandi linee delMediterraneo. Ma siccome non è ormai in poter nostro di togliere queste grandi lineené all’Inghilterra, né alla Germania, né alla Francia, non ci resta che accomodarci aTripoli. [...] Ci rassegneremo presto o tardi a pigliare quella parte della costa africanache rimane disponibile.

In quanto politico, Labriola, al contrario del pragmatico Turati, non funé lungimirante né particolarmente originale, e tese piuttosto ad assestarsi

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sulle posizioni prevalenti nell’Italia giolittiana, senza andar oltre il comunepensare superficiale della maggior parte dell’opinione pubblica edell’informazione.

Ammise addirittura che sarebbe sorta probabilmente sulle piazze e nelParlamento l’opposizione dei democratici e di parte dei socialisti, e la sinistrasarebbe scesa in campo, perché non era coinvolta la difesa del paese e i costiavrebbero potuto essere alti. Ma l’opposizione sarebbe stata più formale chenon sostanziale. «In fondo», ribadì con presunzione (almeno per il suo esseresocialista) e con reiterato cinismo, «con un po’ di garbo il governo troveràmodo di far capire che la Tripolitania economicamente non è poi l’Eritrea»49.

Ripetutamente, Labriola palesò scetticismo e indifferenza, sfiducia nellasinistra, approvando nondimeno le scelte - nel dibattito del 1902 - delgoverno giolittiano. Insomma, notevoli furono le incoerenze in cui egli agì.Che si dilatarono quando egli, nelle ultime risposte alle domande delgiornalista, si soffermò sull’utilità dell’impresa e sui suoi vantaggieconomici. Il progetto costituiva un lavoro da completare per le generazionifuture: un «compito nuovo da assolvere, che sarebbe quello di conquistareper colonizzare». Qui intervenne di nuovo il coefficiente demografico,rapportato all’eccezionale emigrazione italiana. La Tripolitania veniva vistacome «terreno d’azione per il capitale e il lavoro italiano, data la nostracolossale emigrazione, che negli ultimi tempi è enormemente cresciuta». Perquesto, insistette, «non sarebbe poi tanto antidemocratico, che lo Stato oraimpiegasse le forze militari e finanziarie pubbliche in un’impresa che potessepoi incanalare per secoli le forze demografiche della nazione italiana»50.

Il giornalista commentò la proposta definendola «vitale». Labriolasottolineò che egli intendeva parlare propriamente di colonizzazione, non diacquisizione di un semplice sbocco commerciale51. La sua visione delcolonialismo, più forse di quella dei nazionalisti democratici, fu affattotradizionalista: anticipò le valutazioni sull’impresa di Libia posteriori diqualche anno e le giustificazioni della politica coloniale del fascismo52.

La sezione più sconvolgente fu quella di chiusura, avente comesottotitolo Gli interessi nazionali della nuova Italia53. Quali sono questiinteressi nazionali, chiese il Torre. La risposta fu ampia.

Non bisogna trascurare questo aspetto complessivo e razionale. Il che importaparecchie cose. E prima di tutto il prestigio che viene all’Italia come nazione [...]. E poi,in secondo luogo, bisogna guardare al fatto di assicurarci dalla costa opposta delMediterraneo quello che c’è di disponibile e che pure essendo il men buono di tuttoil resto, ci garantisce di tutti i danni di una inevitabile occupazione da parte di altra

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potenza. Ma sopra tutto poi bisogna iniziare un’opera continuativa di politicaeconomica e di politica della popolazione, per cui l’Italia, anziché vedere disperse le sueenergie demografiche in tutte le parti del mondo, il che costituisce l’aspetto più tristodella nostra inferiorità nel mondo [...], possa invece stabilmente trasferirle in unaregione non lontana come la Tripolitania, dove [...] ci sarebbe certo da sviluppare lanuova Italia. [...] Qui sta il punto capitale: il che vorrà dire che la nostra impresa saràvera, se oltre a portare in Tripolitania soldati e funzionari, appaltatori e monopolisti,noi troveremo la via e il modo di trasportarci i lavoratori. [...] Certo ci vorrà moltaabilità, molto saper fare, molti aiuti, molti incoraggiamenti, molte concessioni perspingere in massa i nostri emigranti a rivolgersi verso la Tripolitania: il che vorrà direche essi non sarebbero più emigranti, una volta che andrebbero a popolare una nuovapatria.

Apparvero in queste parole finali tutti i motivi più vieti della storia delcolonialismo dei «popoli poveri» dell’Europa, apportatori non solo diCivilisation e di Kultur come quelle dei paesi ricchi, ma anche di emigrazionee di ricerca di una nuova patria. L’immagine di Labriola, dunque, non fu soloquella consueta del colonialismo nelle sue manifestazioni più superficialima, daccapo, egli richiamò i princìpi della politica dello Stato-potenza,costretto a intervenire, perché in caso contrario ci sarebbe stato un terzo ente- ad esempio, la Germania - a trarre dei vantaggi.

Il Labriola teorico attuò nel suo Io una sorta di scissione intellettuale. LaGermania e la cultura tedesca erano state e restavano al centro in modosicuro della sua attenzione di socialista e marxista. La medesima Germania- alleata dell’Italia - suscitava i suoi timori, quando egli pensava alla necessitàdell’espansionismo coloniale nazionale, che, ove non fosse stato realizzato,sarebbe stato invece affrontato con successo dal governo di Berlino sia nelladimensione coloniale sia come politica di intervento nel Mediterraneo inaccordo con la Porta. Cioè, egli, volendo contrastare le potenze imperiali piùchiuse dell’Europa, auspicò per l’Italia una politica estera ed espansionisticaparimenti aggressiva.

Un’altra questione complementare. La discussione sull’insediamento dicomunità europee in regioni africane o asiatiche non preluse soltanto asbocchi colonialistici. Si abbia presente la parallela discussione, tra la fineOttocento e l’avvio del nuovo secolo, del e sul sionismo, per cui il ritornoalla patria eletta - Eretz Israel - tenne in genere in scarsa considerazione lapresenza di un popolo diverso, radicato da secoli, insediato sulle terrepalestinesi: rappresentarono delle eccezioni il sionista socialista e marxistaMoses Hess e una minoranza di pochi altri militanti e pensatori israeliti. Da

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un altro lato, si riaffacciò in Labriola la discussione sulle colonie comunitariedel socialismo utopista di fine Ottocento, che - si è accennato a proposito diHertzka - vedevano nell’occupazione soltanto pacifica e concordata di terreafricane disabitate da parte di lavoratori il modo per avviare una societàvivibile e comunista. Il modello, già richiamato dal Labriola «marxista»,degenerò in lui, nel 1902 e nel calare doloroso della sua esistenza, e lo indussea sbocchi divergenti, ultranazionalistici e patriottardi.

5. Il socialismo italiano, così contraddittorio nelle sue diverse tendenze, sidivise poi apertamente sulla questione libica, ma al momento fu piuttostocritico, anche se con rispetto, nei confronti di Labriola; la spaccatura nelriformismo la si ebbe dieci anni più tardi, di fronte all’occupazione di Tripolie alla guerra libica. Nell’immediato, prevalse la concretezza di Turati. Lavisione di Labriola rientrava nella prospettiva di attribuire all’Italia una politicaestera attiva e invero venne così intesa da molti assertori del suo tempo: attivaper la dimensione di «potenza» dell’Italia, ma anche per sovvenire alle difficoltàe al dramma dell’emigrazione. Inoltre, Labriola - a parte i molti e importanticollegamenti internazionali - fu un «isolato», che rispose sempre solo a se stessodelle proprie idee54. Infatti, il suo contributo al dibattito nel marxismointernazionale continuò a essere riconosciuto, come risultò anche dal tributooffertogli, nel necrologio del 1904, da un esponente di spicco della sinistrasocialista tedesca, quale Franz Mehring55. Ciò nonostante, le carenze della suavisione sulla politica espansionistica italiana restano, e furono sempre messe inluce dall’intelligentzija e dalla storiografia. Valgano, fra i tanti proponibili, gliesempi di Togliatti e di Garin.

Palmiro Togliatti, che fu tra i primi a rivendicare l’originalità marxista esocialista di Labriola e a vedere in lui il precursore di Gramsci, nel 1935, nelCorso sugli avversari (o Lezioni sul fascismo) tenuto a Mosca, scoprì una sortadi «fatalismo rivoluzionario» e meccanicista nel marxismo di Labriola. «InItalia», disse Togliatti, «se studiate a fondo il solo marxista che abbiamo avuto,Antonio Labriola, voi trovate in esso delle sfumature di questo fatalismo», chelo indusse a vedere nelle sviluppo della borghesia capitalistica nazionale lapremessa per l’avvio al socialismo. Continuò il dirigente comunista56:

È su questa base che Labriola scivolò fino a legittimare la espansione italiana in Africa[...]. Noi dobbiamo, diceva egli, sostenere questa espansione perché ci avvicina alsocialismo. Voi vedete come in questa posizione non vi sia più nulla di marxista.

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Ciò, secondo Togliatti, non sminuì il poderoso contributo fornito daLabriola non solo al dibattito ideale ma, con la sua critica, alla costruzioneorganizzativa del socialismo italiano.

Eugenio Garin, nella voce Labriola per il Dizionario biografico delmovimento operaio italiano57, mise in luce l’operosa e intelligente attività diinnovazione marxista svolta dal filosofo, ma anche i suoi aspetti di ambiguità,specie se rapportati al profilo basso ma alla coerenza maggiore della suacontroparte di sempre, Turati. Manifestò senza sosta riserve e ironie neiconfronti della confusa attività parlamentare dei socialisti italiani e denunciòla loro mancanza di iniziativa: e fu appunto tra i più fervidi sostenitori diquell’espansionismo coloniale, che avrebbe marcato dolorosamente la vicendaitaliana della prima metà del secolo XX. Mentre il filosofo restava aperto eimmune da contaminazioni, nella pratica politica, separato dal movimento esolo, fu soggetto a «scadimenti d’improvvisazione», che ne avrebbero bollatoparte dell’insegnamento. Tuttavia, le «sue opere restano vive e ricche di stimolifecondi, nonostante ogni squilibrio fra il teorico e il politico».

Note al testo

1 Rinvio ad ANGELO DEL BOCA, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore, 1860-1922,Laterza, Roma-Bari 1986, vol. I, specie pp. 3-38. In generale, cfr. NICOLA LABANCA,Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2002, e WOLFGANGREINHARD, Storia del colonialismo, Einaudi, Torino 2002. Sul dibattito, cfr. OTTAVIO BARIÉ,Imperialismo e colonialismo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da LuigiFirpo, Utet, Torino 1972, vol. V, pp. 652-727.

2 Per un’interpretazione della posizione labrioliana della neo-destra, cfr. ENRICO LANDOLFI,Rosso imperiale. Le sorprese espansionistiche in A. Labriola e altri saggi, con introduzione di MarioBernardi Guardi, Solfanelli, Chieti 1992; ID., L’idea di nazione e la politica espansionistica in ungrande interprete del marxismo: A. Labriola, «Rassegna Siciliana di Storia e Cultura», Palermo1998, n.5, pp. 63-78.

3 JOHN ATKINSON HOBSON, Imperialism. A Study (1902), in ital. L’imperialismo, a cura di LucaMeldolesi, Newton, Roma 1996; RUDOLF HILFERDING, Das Finanzkapital (1910), in ital. Ilcapitale finanziario, con un’introduzione di Giulio Pietranera, Feltrinelli, Milano 19763. Cfr.la sezione Da un secolo all’altro. L’imperialismo, in ENZO SANTARELLI, Storia sociale del mondocontemporaneo. Dalla Comune di Parigi ai nostri giorni, Feltrinelli, Milano 1982, pp.106-184.

4 Seguo l’interpretazione di FRANCO ANDREUCCI, La questione coloniale e l’imperialismo, inStoria del marxismo. Volume II. Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Einaudi,Torino 1979, pp. 865-893.

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5 Da una lettera di Engels a Kautsky, 12 settembre 1882, ibidem, p. 872.

6 Da «Der Sozialdemokrat», 10 luglio 1884, ibidem, pp. 874-875.

7 Ibidem: «Le argomentazioni riguardano soprattutto il ruolo di provocazione svolto dallapolitica coloniale nelle relazioni internazionali; il peso negativo del bilancio coloniale, poverodi frutti consistenti, ma tradotto in imposte che colpiscono tutti i cittadini; lo stimolo alle spesemilitari che deriva dalle imprese coloniali; la sottrazione di una fetta del bilancio dello Stato dallapolitica di riforme sociali. E, come sfondo di tutto ciò, l’intensificarsi della contraddizione fral’aumento della produzione e il restringersi dei mercati» (p. 877). Cfr. anche, MADELEINEREBÉRIOUX, Il dibattito sulla guerra, in Storia del marxismo. Volume II, cit., pp. 895-935.

8 Cfr. Storia del socialismo. Dal 1875 al 1918, a cura di Jacques Droz, Editori Riuniti, Roma1974, vol. II, pp. 685-687.

9 JULIUS BRAUNTHAL, Geschichte der Internazionale, Hannover, Dietz, 1961, vol. I, pp. 310-326. Sono menzionati i testi famosi di BERNARD SHAW, Fabianism and the Empire. A Manifestby the Fabian Society, London 1899, e di E. BERNSTEIN, Die Voraussetzungen des Sozialismus unddie Aufgabe der Sozialdemokratie, Stuttgart 1899 (cfr. l’ediz. ital. I presupposti del socialismo e icompiti della socialdemocrazia, con introduzione di Lucio Colletti, Laterza, Bari 1968).

10 ENRICA COLLOTTI PISCHEL, Il colonialismo e la decolonizzazione, in Enciclopedia della sinistraeuropea nel XX secolo, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 857 sgg.

11 Così ROBERT MICHELS, L’imperialismo italiano. Studi politico-demografici, Società EditriceLibraria, Milano 1914.

12 ID., Storia del marxismo in Italia, Mongini, Roma 1909.

13 È comprovato dalla storiografia che Labriola fu un acceso critico del positivismo: fra gli studiesistenti, rinvio a FERDINANDO VIDONI, Labriola critico del positivismo e dell’evoluzionismo, inA. Labriola e la nascita del marxismo in Italia, Unicopli, Milano 2005, pp.197-214. Tuttavia,nelle questioni dell’espansionismo coloniale italiano l’atteggiamento di Labriola fu fortementeinfluenzato da visioni positiviste.

14 Cfr. lettera di Labriola a Baccarini, 24 febbraio 1890, edita in «Il Risveglio», Firenze, 9 marzo 1890,e ripresa da «Il Messaggero», Roma, 15 marzo 1890, ora in A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici,a cura di Franco Sbarberi, Einaudi, Torino 1973, vol. I: Una lettera a Baccarini (pp. 107-110).

15 Labriola menziona la monografia di ACHILLE LORIA, Analisi della proprietà capitalistica,Bocca, Torino 1889, vol. I, congiunta all’altra, del medesimo anno, Le forme storiche dellacostituzione economica, Bocca, Torino 1889. Rinvio a G. M. BRAVO, Marx ed Engels in Italia.La fortuna, gli scritti, le relazioni, le polemiche, Editori Riuniti, Roma 1992, e a PAOLO FAVILLI,Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra, Franco Angeli, Milano 1996.

16 THEODOR HERTZKA, Freiland. Ein sociales Zukunftsbild, Pierson, Dresden - Leipzig 1890.La prima edizione inglese ebbe un titolo leggermente diverso: Freeland. A Social Anticipation,Chatto & Windus, London 1891.

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17 Nel saggio In Memoria del Manifesto dei comunisti (1895), Labriola ironizzò sulle «formesportive» del socialismo utopistico di Tienne Cabet, Edward Bellamy e Theodor Hertzka (i cuitesti peraltro furono all’epoca assai più diffusi di quelli di Marx): ora in A. LABRIOLA, Scrittifilosofici e politici, cit., vol. II, p. 516.

18 Cfr. FILIPPO TURATI, La questione sociale e la colonia Eritrea, «Cuore e Critica», Milano 16aprile 1890, ora in A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici, cit., vol. I, con titolo Le obiezioni diTurati (pp. 110-113). Segue, nello stesso n. di «Cuore e Critica», la risposta di Labriola (ora inScritti filosofici e politici, cit., vol. I, con titolo La replica di Labriola (pp. 113-115) e la letteradi Engels a Pasquale Martignetti (ivi, p. 115).

19 Lettere di Martignetti a Engels e di questi all’interlocutore italiano (in tedesco),rispettivamente del 26 e 30 marzo 1890, ora in K. MARX - F. ENGELS, Corrispondenza conitaliani, 1848-1895, a cura di Giuseppe Del Bo, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 354-356. Lelettere furono anche l’occasione per l’avvio del carteggio di Engels con Labriola: cfr. la primalettera del tedesco al filosofo, 30 marzo 1890, ora in A. LABRIOLA, Carteggio. 1890-1895, a curadi Stefano Miccolis, Bibliopolis, Napoli 2003, vol. III, pp. 22-24.

20 L’opinione di Engels, «Cuore e Critica», Milano 16 aprile 1890, ora in K. MARX - F. ENGELS,Scritti italiani, a cura di Gianni Bosio, Edizioni Avanti!, Milano-Roma 1955, pp. 131-132.

21 Cfr. F. ANDREUCCI, Engels, la questione coloniale e la rivoluzione in Occidente, «Studi Storici»,Roma 1971, pp. 437-479; KARL KAUTSKY, La questione coloniale. Antologia degli scritti sulcolonialismo e sull’imperialismo, a cura di Renato Monteleone, Feltrinelli, Milano 1977.

22 A. DEL BOCA, Gli italiani in Libia cit., vol. I, pp. 21-22; PAOLO SPRIANO, Storia di Torinooperaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1980.

23 Il discorso del prof. Labriola, «Il Mattino», Napoli 23-24 febbraio 1897, ora, con titolo PerCandia, in A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici cit., vol. II, pp. 911-913.

24 Sui temi dell’emigrazione, cfr. ROBERT PARIS, L’Italia fuori d’Italia (nell’ampia sezioneL’emigrazione), in Storia d’Italia. Dall’Unità a oggi, Einaudi, Torino 1975, vol. IV/1, pp. 525-620; inoltre, cfr. Il problema dell’emigrazione italiana tra Ottocento e primo Novecento a partiredalle pagine della «Riforma Sociale», «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XXXII, Torino1998, pp. 39-161.

25 A. LABRIOLA, Aigues-Mortes e l’Internazionale, e Ancora sui fatti di Aigues-Mortes (1893), inScritti filosofici e politici cit., pp. 187-191 e 197-201.

26 Per Candia cit., p. 913.

27 Cfr. GEORGES HAUPT - CLAUDIE WEIL, L’eredità di Marx ed Engels e la questione nazionale,«Studi Storici», Bologna 1974, n. 2, pp. 270-324; G. HAUPT - MICHAEL LOWY - C. WEIL, Lesmarxistes et la question nationale, 1848-1914, L’Harmattan, Paris 19972; Miklós Molnár, Marx,Engels et la politique internationale, Gallimard, Paris 1975.

28 FRANTZ FANON, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962.

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Antonio Labriola e la questione coloniale

29 Lettera di Labriola a Croce, 23 febbraio 1897, in A. LABRIOLA, Carteggio. 1896-1898, a curadi S. Miccolis, Bibliopolis, Napoli 2004, vol. IV, p. 291.

30 Cfr. t.k. [FILIPPO TURATI - ANNA KULISCIOFF], La insurrezione di Candia e i socialisti,«Critica Sociale», Milano, 1° marzo 1897, pp. 65-67; cfr., di Miccolis, la nota 2 alle pp. 293-294 del cit. vol. IV del Carteggio.

31 Lettera di Labriola a Croce, 5 marzo 1897, in Carteggio cit., vol. IV, p. 293.

32 Lettera di Labriola a C. Triantafillis, 5 marzo 1897, in Carteggio cit., vol. IV, pp. 294-295:la lettera fu pubblicata con titolo La causa ellenica, in Ellade. Pubblicazione del Comitato CentraleNapoletano pro Candia, Pierro e Veraldi, Napoli 1897; cfr. le note di Miccolis, ibidem, p. 295.

33 Lettera di Labriola a Karl Kautsky, 6 marzo 1897, in Carteggio cit., vol. IV, pp. 295-296.Kautsky firmò l’articolo Die orientalische Frage und die Sozialdemokratie, «Vorwärts!», 4 marzo1897: cfr. le note di Miccolis, ibidem, p. 296.

34 Lettera a Croce, 11 marzo 1897, ibidem, p. 297.

35 Lettera di Labriola a Luise Kautsky, Privata, 13 marzo 1897, ibidem, pp. 298-303 (cit. pp.301-302).

36 Cfr. l’intervista, a cura di Andrea Torre, Tripoli, il socialismo e l’espansione coloniale. Giudizidi un socialista, «Giornale d’Italia», Roma 13 aprile 1902, ora con titolo Sulla questione diTripoli, in A. LABRIOLA, Scritti filosofici e politici cit., vol. II, pp. 957-964.

37 Ivi, p. 957.

38 Rinvio alla bibliografia sopra menzionata.

39 LENIN, Sul diritto di autodecisione delle nazioni (1914), e L’imperialismo, fase suprema delcapitalismo (1916), in ID., Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 487-540 e 569-672.

40 Sulla questione di Tripoli cit., p. 958.

41 Cfr. Una rivista all’avanguardia. La «Riforma Sociale», 1894-1935. Politica, società,istituzioni, economia, statistica, a cura di Corrado Malandrino, Olschki, Firenze, 2000.

42 Sulla questione di Tripoli cit., p. 958.

43 Rinvio al sempre valido testo di GIAMPIERO CAROCCI, Giolitti e l’età giolittiana, Einaudi,Torino 1991.

44 Sulla questione di Tripoli cit., p. 959.

45 A. LABRIOLA, Da un secolo all’altro (1901), in Scritti filosofici e politici cit., vol. II, p. 852.

46 Sulla questione di Tripoli cit., p. 959.

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47 Ivi, pp. 959-960.

48 Ivi, pp. 960-961.

49 Ivi, pp. 961-962.

50 Ivi, p. 962.

51 Ivi, p. 963.

52 Richiamo ancora la monografia di A. DEL BOCA, Gli italiani in Libia cit., vol. I, passim.

53 Ivi, pp. 963-964.

54 Cfr. i giudizi, ripetuti in luoghi diversi, da Ernesto Ragionieri, nel volume (postumo) dellaStoria d’Italia. Dall’Unità a oggi, Einaudi, Torino 1976, vol. IV/2 (specie nella sezione, Unriformismo senza riforme).

55 Cfr. il necrologio A. Labriola, pubblicato sulla «Leipziger Volkszeitung» e subito ripreso dallarivista teorica della Spd, «Die Neue Zeit», Stuttgart, XXII/1, 1904, pp. 585-588.

56 PALMIRO TOGLIATTI, Corso sugli avversari (1935), in ID., Opere, 1929-1935, a cura di E.Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1973, vol. III/2, pp. 623-624; inoltre, la sezione dedicata alfilosofo, in ID., La politica culturale, a cura di Luciano Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1974, pp.307-371.

57 EUGENIO GARIN, Labriola, A., in Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, 1853-1943, a cura di F. Andreucci e Tommaso Detti, Editori Riuniti, Roma 1977, vol. III, pp. 21-39 (la voce è ripresa nel cit. A. Labriola e la nascita del marxismo in Italia, pp. 233-256); cfr.anche i saggi di VALENTINO GERRATANA, Marxismo ortodosso e marxismo aperto in A. Labriola,e Realtà e compiti del movimento socialista in Italia nel pensiero di A. Labriola, «Annali», IstitutoG. Feltrinelli, XV, Milano 1973, pp. 554-580 e 581-607; ancora, ID., A. Labriola el’introduzione del marxismo in Italia. Volume II cit. pp. 619-657 (parla delle «oscillazioniinterpretative» di Labriola, pp. 622-624).

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Autonomie locali e decentramento durante il fascismo

Autonomie locali e decentramento durante il fascismo:l’istituzione di ventisei provincie

di Umberto Chiaramonte

Premessa

L’opinione unanime degli storici è che il fascismo, per la sua stessa naturaautoritaria e totalitaria, sia stato contrario alle autonomie locali. D’altra parte,se l’autonomia locale è valutata «come una proiezione, una specie diprolungamento delle libertà individuali»1, si comprende come le autonomietrovino spazio soltanto nel contesto di un potere autenticamente democratico.Ciononostante, il fascismo si pose il problema della riorganizzazione dellapubblica amministrazione e del decentramento, il quale rientra nellerivendicazioni autonomiste. In questo saggio si verificherà se questoprogramma perseguito dal fascismo fu coerente con la valorizzazione delleautonomie locali; e si verificherà la tesi secondo la quale «il fascismo non avevaportato i postulati anti-autonomistici della sua concezione alle conseguenzeestreme», in quanto «neppure nell’ambito dell’amministrazione locale lo statofascista era stato totalitario fino in fondo»2. In sostanza, secondo Rotelli e altri,come Aquarone, il fascismo si sarebbe limitato a riorganizzare il sistemaamministrativo, di decentrarlo per renderlo più «snello», economicamenteefficiente e più vicino ai cittadini, ponendo alla base una riforma dellaburocrazia. Questi temi verranno sottoposti ad analisi attraverso lo studio del«caso» della creazione di ventisei nuove provincie che (assieme allasoppressione dei piccoli comuni e alla loro aggregazione a quelli più grandi),costituì il cardine della politica di decentramento del fascismo.

Continuità con il sistema liberale

Preliminarmente è necessario rammentare che la riforma della pubblicaamministrazione e della burocrazia era stata tentata dai governi liberali acavallo della prima guerra mondiale quando il parlamento prese in

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considerazione la riforma dell’apparato statale con l’obiettivo di ridurresprechi e incongruenze, ma anche di ammodernare lo Stato. Solo che lebuone intenzioni di una prima commissione si arenarono per la elefantiacacomposizione della stessa3. Non migliore sorte ebbe la legge n. 260 del 16marzo 1921 con la quale fu varata la costituzione di un’altra «commissioneparlamentare d’inchiesta sull’ordinamento delle amministrazioni di Stato esulle condizioni del personale». Per quanto interessa il tema qui scelto, vadetto che la commissione si limitò a valutare il sistema amministrativo e lasua funzionalità all’interno di nuove e più aggiornate funzioni dell’apparatoburocratico; e, in quest’ambito, discusse sulla opportunità di ridurre ilnumero delle prefetture, ma poi, tenuto conto della loro distribuzione nelterritorio, scelse la strada di lasciare immutato il numero delle 69 provinciecostituite con l’unificazione nazionale. Propose una via di compromesso conil raggruppamento di alcune prefetture in una unità amministrativa cuiavrebbe dovuto provvedere una sola prefettura; ma tali raggruppamentifurono «riconosciuti possibili in zone geograficamente e demograficamenteomogenee, con interessi affini»4. Più drastica fu la decisione sullesottoprefetture, dislocate nei capoluoghi di circondario, che vennerogiudicate eccessive per numero e irrazionali per distribuzione rispetto alla«esiguità delle funzioni loro attribuite». Per cui la commissione valutòl’opportunità di mantenerle solo nei territori isolati e lontani dai capoluoghidi Provincia, purché se ne aumentassero le competenze «senza però elevarlead un rango speciale di vice prefettura». Questa commissione argomentòanche sulla concezione di decentramento individuandone tre forme:autarchico, burocratico e istituzionale. Sul decentramento autarchico,riferendosi all’ente Provincia, sostenne che da tempo era penetrato «nellapubblica coscienza la convinzione [...] di infondergli vita nuova, di renderlostrumento di decentrate funzioni statali da un lato, strumento integratoredella grama vita dei nostri comuni minori dall’altro»5. Tenuto conto che iltesto unico della legge comunale e provinciale n. 148 del 4 febbraio 1915non aveva fatto passi avanti sulle competenze provinciali (che si mantennerocircoscritte alle strade non comunali, agli esposti, ai pazzi e alle scuolesuperiori e tecniche), la commissione ritenne che occorresse usciredall’equivoco: o la Provincia veniva abolita preferendole l’istituzione dellaregione, o si mantenevano in vita entrambe, oppure si abbandonava l’anticoprogetto della regione mantenendo la Provincia come unico enteintermedio. Nei due ultimi casi fu ritenuta necessaria la rivitalizzazionedell’ente Provincia affidandole funzioni integratrici di quelle municipali,

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come le strade e la sanità, e «una larga autonomia che le consenta di prendereiniziative quante volte creda che un pubblico bisogno di carattere generaleper la circoscrizione si manifesti e non dovrà parlarsi per esse di speseobbligatorie, ma di funzioni cui deve obbligatoriamente provvedere, e difunzioni non obbligatorie»6. In sintesi, la commissione chiese che laProvincia diventasse «un organo efficace di amministrazione localedecentrata», intesa in modo diverso dal decentramento burocratico che altronon era che il trasferimento in periferia degli uffici locali governativi. Questiultimi non avrebbero mai inciso risolutivamente sull’autonomia locale finoa quando non si fossero assegnati ai funzionari locali i poteri discrezionali ela conseguente responsabilità delle decisioni e degli atti. Quanto aldecentramento burocratico si guardò al modello del selfgovernmentdell’Inghilterra, dove prevaleva «il concetto di concentrare il Governo, didiscentrare l’amministrazione». Secondo la commissione, in Italia si erarealizzato un sistema abnorme giacché gli uffici locali governativi avevanocreato un’organizzazione pletorica che occorreva semplificare «nell’interessesupremo di una maggiore libertà, di un’amministrazione più agile, di unadestinazione più proficua di quelle sudate imposte del pubblicocontribuente che in gran parte non trovano proficuo impiego»7. L’ultimotipo di decentramento, definito istituzionale, si realizzava ogniqualvolta loStato attribuiva ad istituti o a persone di diritto pubblico senza baseterritoriale, funzioni esercitate prima direttamente.

Queste conclusioni, per quanto teoriche, consentono di prendere attoche, se non era mancato un progetto di modernizzazione nella classe politicaliberale, sull’onda del contributo politico e tecnico dei partiti di massa, ilsocialista e il partito popolare italiano, che ormai erano presenti nel governolocale con migliaia di consiglieri e di sindaci, mancò invece «una strutturasociale e un consolidamento dei rapporti politici dove si potesse poi tenerefede a questo impianto avanzato, dove le parole potessero divenire fatti»8. Cifu un progetto di «adeguamento del sistema di governo locale alla crescitadella società civile; dell’adeguamento del diritto amministrativo allarivoluzione giuridica che ha investito il diritto privato»9, ma non ci fu lavolontà politica di sburocratizzare la macchina amministrativa.

Il repubblicano Oliviero Zuccarini dalle pagine della sua rivista «Lacritica politica», fondata nel 1921 per dare voce ad un dibattito «critico» sulleautonomie locali, intravide il fallimento dei lavori nel permanente dissidiotra la commissione e il governo, giacché questi «sarebbe stato lo strumentopassivo dell’alta burocrazia centrale e la commissione consultiva

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parlamentare si sarebbe fatta eco di tutte le farmacie delle cittaduzzeinteressate a mantenere le sottoprefetture, le preture, ecc.; così l’uno e l’altraavrebbero discordamente concordato nell’aumento della burocrazia e nellarelativa spesa [...]. Parlamento e Governo sono organicamente incapaci adaffrontare e risolvere il problema della riforma burocratica»10. In realtà, unariforma burocratica avrebbe dovuto essere affrontata con una «volontàrivoluzionaria» affermante una cultura autonomista e antiparassitaria.Certamente non erano temi nuovi né facili da risolvere nel panorama di undibattito che aveva travagliato la nazione11, nel momento in cui sirafforzarono i fautori della regione, ai quali mancò il supporto di una veramaturazione dell’idea regionalista12.

La Provincia nella concezione fascista

Volendo considerare il programma del fascismo sulle autonomie, non sipuò fare a meno di valutarlo molto generico. Tra «gli obbiettivi immediati»enunciati nel programma del 1921, al punto 2 era previsto «il decentramentoamministrativo per semplificare i servizi e per facilitare lo sfollamento dellaburocrazia, pur mantenendo l’opposizione recisa ad ogni regionalismopolitico»13. In un discorso alla Camera (21 giugno 1921) Mussolini avevarifiutato «il socialismo di Stato», e sul decentramento amministrativo avevaconcesso una condizionata apertura «purché non si parli di federalismo e diautonomismo, perché dal federalismo regionale si andrebbe a finire alfederalismo provinciale» spaccando l’unità della nazione14. Sebbene,dunque, Mussolini si fosse pronunciato contro il filone del centralismosocialista15, non aveva reciso del tutto i legami con esso. Nei suoi programminon vi era alcun accenno alle autonomie locali, e il suo progetto politicomirava soltanto al decentramento burocratico, con una visione opposta aquella dei cattolici popolari e dei socialisti impegnati nelle amministrazionilocali. Le stesse dichiarazioni contrarie ad una invadenza dello Statonell’economia e nella vita sociale non scaturivano dall’adesione allatradizione liberale, ma erano strumentali all’acquisizione del consenso dellaclasse imprenditoriale, desiderosa di meno lacci e lacciuoli, ma sensibileall’intervento statale quando le crisi la minacciarono. Né deve trarre ininganno il cauto e breve dibattito che la nuova rivista di Mussolini,«Gerarchia», ospitò all’inizio sulla formazione dello Stato. In uno di questiinterventi, lo Stato fu ancorato a due cardini: al potere legislativo, assunto

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da un sistema epistemarchico, formato cioè «da quelli che più hanno lacapacità tecnica di farle [le leggi] bene, dai veri competenti»; eall’amministrazione, che doveva limitarsi a «dare ordini, cioè disposizioniparticolari e transitorie, relative ai singoli casi dati»16. In altri termini, siprivilegiò un tecnicismo che proponeva la legislazione e l’amministrazionedell’economia demandata ad organi decentrati regionali17. In un altrosaggio, pur elogiando lo spirito autonomistico espresso dalla «Carta delCarnaro» di Gabriele D’Annunzio, si valutava quell’aspirazione come«aberrante» e di impossibile applicazione, giacché le riforme non dovevanomirare a scardinare lo Stato, ma a ricostruirlo con moderazione18. L’opera didemolizione di quel poco di autonomia che lo Stato liberale aveva concesso,si concretizzò nel giro di pochi anni attraverso una serie di decreti, leggi edirettive che interessarono tutti gli enti autarchici, comuni e provincie, gliorgani elettivi ad essi connessi, la revisione delle stesse circoscrizioniterritoriali comunali e provinciali, modificando radicalmente l’apparatoamministrativo periferico19. Non è compito di questo lavoro ricostruire lalegislazione che riguarda tutta la materia del decentramento, «complessonormativo davvero poderoso»20. Certamente il fascismo realizzò unadrastica inversione di tendenza dando l’immagine di un esecutivodeterminato, capace di sottrarsi ai condizionamenti dei poteri forti e dellevarie lobby.

Il compito di portare a termine il riordinamento del sistemaamministrativo e tributario che era stato studiato da commissioni prefascistevenne facilitato dalla concessione a Mussolini dei pieni poteri21, che consentìdi avviare una serie di leggi che aumentarono il centralismo dello Statoprendendo a pretesto l’efficienza amministrativa nel quadro di «nuove edaccresciute esigenze della vita nazionale». Sulla base del valore dell’unitànazionale come fondamento della nuova religione civile degli italiani, ilfascismo mirò a scoraggiare qualsiasi velleità centrifuga, e quindi abbandonòqualsiasi riforma e «ristrutturazione radicale dell’intero sistema politicoitaliano, [mirò] invece a presentarsi essenzialmente come il portatore diun’esigenza di razionalizzazione del meccanismo amministrativo delloStato»22. La strategia messa a punto dal fascismo ebbe inizio dalla periferiadella nazione mediante la promulgazione di una legge comunale eprovinciale che ebbe come obiettivo quello di creare «uno Statomaterialmente e moralmente forte, semplice nell’organizzazione, rapido neimovimenti, efficace nell’azione che comporta, in conseguenza, solidagerarchia, autorevolezza e prestigio dei suoi organi, libertà garantite dalla

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disciplina nell’interesse nazionale e della legge»23. Dalle enunciazionicontenute nella relazione allegata alla legge, tutta la riforma appare fondatasu una concezione dirigistica della vita degli enti locali, giacché conferiva algoverno la facoltà di determinare il numero dei circondari e l’ampliamento«considerevole» della competenza dei sottoprefetti nei circondari e lamodifica del sistema di elezione della giunta provinciale amministrativa perassicurare la rappresentanza della minoranza. Se per i comuni finalmente siriconosceva l’auspicata classificazione secondo la popolazione el’importanza, per la Provincia la relazione assegnava al governo la facoltà «didecretare l’unione di due o più provincie» sia nel caso lo richiedessero iconsigli provinciali interessati, sia per iniziativa governativa, e stabiliva lapossibilità di distaccare i comuni da una Provincia per aggregarli ad un’altra«con determinate garanzie», che in realtà non furono mai esplicitate erispettate. Prevedeva l’attenuazione della vigilanza sull’ente mediante ilservizio ispettivo provinciale; dava la facoltà di istituire liberi consorzi, manello stesso tempo il prefetto aveva la potestà «di costituire coattivamente taliConsorzi»24.

La legge nella teoria e nella prassi costituiva la continuità con la lineapolitica del periodo liberale, in quanto concedeva alcune aperture infunzione esclusivamente burocratica, ma che non si trattasse di vera riforma,ma piuttosto di semplice pulitura di facciata, lo sostennero persino alcunistudiosi fascisti, i quali avrebbero preferito un ulteriore restringimento dellefunzioni degli enti locali se si voleva creare davvero uno Stato forte eaccentrato25. Questioni di punti di vista, giacché nel momento in cui siaccrescevano alcune competenze dell’amministrazione locale, già sisottolineava la priorità a salvaguardare «le guarentigie indispensabili, a tuteladella legge [...] nell’interesse superiore dello Stato». E infatti venneroaggravate le sanzioni repressive introducendo «l’istituto della sospensionedelle amministrazioni comunali e provinciali e quello del prolungamentodella gestione straordinaria fino ad un anno» a determinate condizioni26. SiaRotelli che Melis (più volte citati) hanno sostenuto la tesi secondo cuiMussolini non attuò una riforma propriamente fascista degli ordinamentilocali, ma si limitò a rafforzare tendenze autoritarie. Se ciò risponde al vero,bisognerebbe dire quali forme di ordinamento si configurano cometotalitari.

Venne soppressa l’elettività dei consiglieri comunali per introdurre laconsulta municipale e fu decisa «una revisione generale delle circoscrizionicomunali per disporne l’ampliamento o la riunione, o comunque la

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modificazione all’infuori dei casi previsti», da effettuare entro due anni dallaentrata in vigore del r.d. n. 383 del 17 marzo 1927, e per di più, «senzal’osservanza della procedura prescritta». Furono soppressi oltre duemilapiccoli comuni aggregandoli ai centri più popolosi; furono ridisegnate lecircoscrizioni di molti comuni e provincie senza alcun riguardo per letradizioni storiche, economiche e sociali delle «piccole patrie». La «strage»dei comuni non riguardò soltanto i più piccoli, «ma anche ragguardevolicentri, posti alla periferia di capoluoghi di Provincia, abbisognevoli (questiultimi) di lustro... finanziario»27. La motivazione ufficiale fu che a fronte di«nuove e accresciute esigenze della vita nazionale»28, occorreva porre termine«all’aumentato costo dei pubblici servizi». D’altra parte, Mussolini fu chiarodavanti al Parlamento:

Procederemo al riordino delle circoscrizioni municipali: novemila Comuni in Italiasono troppi, vi sono Comuni che hanno 200, 300, 400 abitanti. Non possono vivere,devono rassegnarsi a scomparire e fondersi in più grandi centri29.

Le nuove provincie nelle «terre redente»

Ritornando alla tesi del fascismo continuatore, nella prima fase, delprogramma dei governi liberali, si deve affermare che ciò si realizzò con laconclusione della questione dell’assetto territoriale delle terre redente,istituendo nel 1923 le provincie che erano state progettate quando si poseil problema della riorganizzazione amministrativa del Trentino-Alto Adige,del Friuli-Venezia Giulia e del territorio della Dalmazia che gravitavaattorno a Zara. La gestione delle zone «liberate» era stata affrontata con unapolitica gradualista dal governo Orlando, che mantenne le preesistenticircoscrizioni territoriali, le tradizioni e le autonomie locali in vigore con ladominazione austriaca, limitandosi ad assegnare le funzioni politiche eamministrative a governatori militari30. Creato il ministero per le TerreLiberate con il r.d. n. 41 del 19 gennaio 1919, il governo Nitti gestì ilpassaggio dell’amministrazione alle autorità civili31. Con il decretoluogotenenziale n. 1081 del 4 luglio 1919 era stato costituito l’Ufficiocentrale per le nuove provincie alla cui presidenza venne posto il senatoreFrancesco Salata, alle dirette dipendenze del presidente del Consiglio deiministri. I compiti dell’Ufficio erano di curare i rapporti col comandomilitare che amministrava i territori occupati in via provvisoria, ma

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soprattutto di predisporre e studiare la sistemazione politico-amministrativadelle nuove provincie facilitando il passaggio «dallo stato di armistizio aquello di annessione», di coordinare, dopo l’annessione e il trattato di pace,l’attività per assicurare uniformità di leggi e provvedimenti nei nuoviterritori. Gli studi erano assicurati da una commissione consultiva divisa indue sezioni, una per la regione adriatica e un’altra per quella tridentina, concommissari che, essendo del posto, conoscevano i problemi locali 32.

Per il Trentino-Alto Adige fu determinante il lavoro di studio e dipreparazione che portò avanti Ettore Tolomei, che dirigeva l’ «Archivio perl’Alto Adige» e quindi aveva una buona conoscenza dei problemi deiterritori, ma la sua azione fu deliberatamente a senso unico in quantoprivilegiò in modo esclusivo il criterio dell’italianizzazione del Sud Tirolo,assegnato all’Italia. Egli fu fortemente convinto della necessità di istituireuna sola grande Provincia con capoluogo Trento, ritenendo che gli italianidovessero pacificamente collaborare con i tirolesi33, avversò drasticamentel’istituzione di una Provincia atesina con Bolzano capoluogo e fu contrarioa qualsiasi rivendicazione autonomista da parte delle minoranze per nondare adito a «rivolte contro l’ordine e la disciplina nazionale»34. In pienarestaurazione fascista, quando sarà costituita la Provincia di Bolzano,Tolomei giustificherà ulteriormente la primitiva posizione sostenendo cheil suo obiettivo era l’assimilazione dell’Alto Adige da parte degli italiani conuna operazione che doveva partire da Trento e non da Roma35. Un’altraragione che gli fece preferire la Provincia unica era basata sul convincimentoche l’intera regione andava valutata come «marca di confine» dove leprovincie, tanto più erano estese territorialmente, tanto meglio sarebberostate forti, soprattutto se rette da un governatore sull’esempio di quanto erastato attuato in Germania nel 1871 per l’Alsazia e la Lorena. A ben vedere,l’assimilazione dell’Alto Adige fu argomentata non come una minacciaall’autonomia locale o alle minoranze linguistiche ed etniche, ma come unobiettivo di unità e di pacificazione che avrebbe consentito enormi vantaggieconomici, oltre che politici.

Il fascismo locale aderì a queste tesi prendendo una posizione nettamenteostile alle autonomie del dominio austriaco nel Tirolo tanto che nontardarono a scatenarsi atti di violenza sin dal 1921, mentre in una riunionedella federazione fascista del 6 aprile 1922 fu votato un odg che chiedeva«l’abolizione di qualsiasi autonomia di carattere legislativo oamministrativo». Venne ribadita e difesa la costituzione di una Provinciaunica per l’intera Venezia Tridentina, l’estensione della legislazione italiana

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nel territorio e quindi l’abrogazione di qualsiasi norma austriaca, fu votatala «lingua italiana esclusiva negli uffici statali e comunali» dove gli italianierano la maggioranza della popolazione36. Qualche autore ha valutato questerichieste come nazionaliste «più nell’apparenza che nella sostanza», inquanto non si ponevano in contrasto con quelle degli altoatesini. Di fatto,i fautori dell’istituzione di una Provincia tirolese, che gravitavano attorno algiornale «Deutscher Verband», dovettero accettare l’ostracismo delfascismo locale che fu fatto proprio dal Gran Consiglio con una risoluzioneche, ribadendo la scelta della Provincia unica di Trento, sentenziò che «purcon rispetto delle credenze e dei costumi e con il proposito della pacificaconvivenza delle due stirpi, [il governo fascista] non intende affatto di daregaranzie di perpetuità al germanesimo nella regione atesina come sono staterichieste dal Deutscher Verband ai governi passati»37.

Per quanto riguarda la Venezia Giulia, già lo storico Arduino Agnelli haricostruito le vicende dell’autonomismo giuliano ricordando che la regioneaveva usufruito di una certa autonomia amministrativa sotto gli austriaci38.La regione fu divisa in Distretti mantenendo sostanzialmente lecircoscrizioni storiche di quei territori39. Trattando la formazione delleprovincie nelle «terre redente» non è possibile prescindere dai lavori dellacommissione dei 26 dell’Ufficio centrale delle nuove provincie, presiedutoda Francesco Salata40, il quale, contrariamente a quanto fece Tolomei, difeseil rispetto delle autonomie locali sostenendo che le leggi di annessione leavevano riconosciute «in forma indubbia come sussistenti, e quindisopravviventi al crollo dell’Austria», autonomie che «non [erano] largizionedi princìpi stranieri, ma patrimonio connaturato con le nostre piccole patriee del quale la grande Patria non ha bisogno di insospettirsi»41. Nel 1921 lacommissione aveva proposto il riconoscimento di «tre circoscrizionielettorali - la goriziana, la triestina e l’istriana -, le quali corrispondevano allasuddivisione austriaca della regione in Principesca Contea di Gorizia eGradisca, Trieste e il suo territorio e il Margraviato d’Istria»42. Per questaragione, Salata diede atto ai governi liberali e, in particolare, a Giolitti, diaver garantito il rispetto delle autonomie43.

Il fascismo, invece, si distinse nel negare le tradizionali autonomie, tantoche sulla lesiva soluzione del regime Salata non mancò di prendere ledistanze44. Il plauso che rivolse al fascismo per la «mutazione di ritmo e dimetodo» impresso alla lunga vicenda dopo quattro anni di lavoropreparatorio, era un riconoscimento alla capacità del governo fascista didefinire un problema che si trascinava da anni, non già alla soluzione

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accentratrice decisa il 4 gennaio 1923 che prevedeva l’aggregazione deiterritori delle due provincie di Udine e di Gorizia in una sola circoscrizioneprovinciale. Salata sostenne: «Udine non può fare per l’Italia tra gli slavi ciòche può far Gorizia. Nulla potrebbe compensare in Gorizia l’assenza dellasede provinciale con tutte le conseguenze ed influenze». Per lui,l’accentramento che fu perseguito con la fusione dell’Istria con Trieste, erafunzionale a «sommergere» gli sloveni «nel mare magno della ricostituitagrande patria del Friuli» mediante il riconoscimento di «una congruamaggioranza italiana nel consiglio provinciale»45. Ma temeva le reazioninazionaliste degli slavi che si sarebbero ritenuti «vittime di sopraffazioni»,ricordando che a suo tempo aveva suggerito la necessità e l’opportunità diconservare la divisione territoriale che sin dal novembre 1921 era statariconosciuta dal governo liberale, e quindi di procedere alla costituzionedelle provincie della Venezia Tridentina, del territorio dalmata annesso(Zara e Lagosta), di Trieste, dell’Istria e di Gorizia con Gradisca.

Il 4 gennaio 1923 il Consiglio dei ministri non tenne conto delle avvertenzedi Salata e della sua commissione e soppresse Gorizia come capoluogoistituendo un’unica circoscrizione che venne denominata «Provincia delFriuli», comprendente le due ex provincie di Udine e Gorizia. Ma la nuovadicitura non smorzò le lagnanze della minoranza slovena. Uno sguardo allaconfigurazione della nuova Provincia fa emergere una situazione complessa di

circondario popol. del popol. del sup. del addetti addetti addetti addetti addettidistretto capoluogo distretto agricoltura industria commer. pubblica culto e

1921 (capol.) (capol.) (capol.) amm. professsioni(capol.) (capol.)

Trento 105.347 32.160 70.734 1.249 6.907 2.344 3.636 1.739

Trieste 238.655 239.627 9.589 3.065 55.037 19.035 11.349 4.699

Pola 83.787 49.339 77.942 3.346 10.125 1.849 4.691 700

Zara 18.623 16.650 11.001 2.419 1.922 898 1.675 473

Fiume (*) 70.187 99.723 31.067 6.117 9.989 2.562

TABELLA n. 1 - Distretti e capoluoghi delle «terre liberate» al 1921

(*) Dati riferiti all’Istria.

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cui il fascismo, contraddicendosi, non tenne conto, soprattutto perl’ampliamento del territorio goriziano e per la diversità degli interessi cherappresentava46. Tre giorni dopo, il 7 gennaio, il governo abrogò ledisposizioni che salvaguardavano le autonomie e le prerogative previste dallalegge austriaca e che erano state riconosciute come intangibili da Giolitti e dalsuo successore. La soluzione delle terre liberate fu sancita il 21 gennaio conl’istituzione di cinque nuove provincie, elevando a capoluoghi Trento,Trieste, Pola, Zara e Fiume47. Si concluse così la fase degli studi preparatori edelle proposte, adottando per la regione trentina la linea propugnata daTolomei che di fatto negava una Provincia al Sud Tirolo, al quale riconoscevasoltanto i circondari di Bolzano e Bressanone con le rispettive sottoprefetture,e non si tenne conto dei suggerimenti della commissione Salata per la VeneziaGiulia48. Trento divenne unico capoluogo con dieci circondari (Trento,Rovereto, Riva, Tione, Borgo, Cavalese, Merano, Bressanone e Bolzano)49.Per la formazione dei circondari si tenne conto dei distretti giudiziari e deidistretti politici, ma alcuni comuni come Ampezzo e Livinallongo, furonoscorporati dalla regione per essere aggregati al circondario di Belluno.

Nella Venezia Giulia la definizione delle circoscrizioni fu più problematicanon solo per la soppressione della Provincia di Gorizia, ma anche per lereazioni cui diede origine la scelta di Pola anziché di Parenzo, antica sede dellaDieta provinciale istriana, anche se si escogitò il cavillo di chiamarla «Provinciadell’Istria», così come fu un espediente nominalistico chiamare «Provincia delFriuli» quella di Udine-Gorizia. L’atteggiamento duro di Mussolini neiconfronti di qualsiasi protesta per la decisione avallata, dimostra come lasoluzione prescindesse da una riflessione sensibile alle tradizioni e alla storiadelle autonomie, ed evidenzia come nei primi mesi del regime fascista non sifosse verificata una sottomissione generale50. Lo spazio non consente di riferiree commentare i successivi provvedimenti che confermarono la volontà delfascismo di dirigere e controllare l’intera operazione delle provincie delle terreliberate, con la nomina delle commissioni straordinarie provvisorie per queiterritori fino a quando non fosse avvenuto l’insediamento dellarappresentanza elettiva. Va aggiunto che il fascismo ebbe cura di inserire inquelle commissioni personalità di sicura fedeltà al nuovo governo. L’interoanno 1923 scandì le tappe organizzative che non si limitarono aldecentramento amministrativo, all’estensione di tutta la legislazione italianaalle nuove provincie, ma abbracciarono i provvedimenti per l’estensione delledisposizioni relative all’ordinamento dello stato civile51, per la sistemazionegiuridica degli impiegati presso l’amministrazione pubblica che avevano

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svolto il servizio sotto l’Austria, ma che avevano preso la cittadinanza italiana.Infatti, il r.d. n. 440 del 18 febbraio 1923 non ammetteva equivoci, poichécoloro che non avrebbero conseguito la cittadinanza italiana sarebberodecaduti «di diritto» dal rapporto d’impiego non potendo vantare più «alcunapretesa verso lo Stato italiano». In sostanza, qualsiasi provvedimento adottatodall’Austria sarebbe stato ritenuto decaduto. La linea accentratrice era ormaievidente su tutto il comparto statale: con decreto del 4 marzo 1923 n. 490venne ridisegnata la circoscrizione militare del regno in modo che dal 15 marzovenne ridisegnato tutto l’organigramma militare in dieci Corpi d’armata con30 divisioni alle dipendenze del ministro della Guerra Armando Diaz52. Nelmarzo si adottò nell’Alto Adige la toponomastica in lingua italiana, in agostofu vietato l’uso del termine Tirol e in settembre furono sciolte tutte leassociazioni alpine del Sud Tirolo e confiscati i loro beni53. Anche lacircoscrizione territoriale dei circoli di Corte di assise nelle nuove provincievenne ridefinita con un decreto del 24 settembre 1923 n. 2011, con il qualefurono costituite le Corti d’appello a Trento e a Trieste e gli uffici giudiziaridipendenti54.

La voce di protesta fu levata da Zuccarini che denunciò come il governoavesse definito la questione delle circoscrizioni provinciali «in quattro equattro otto» facendo prevalere il criterio aberrante dell’uniformitàlegislativa sull’interesse dell’autonomia regionale55. A ben guardare, questedecisioni dimostrano che Mussolini non era pienamente sicuro del suopotere se in un comunicato «ufficioso» fece sapere che «la soluzione non puòessere impeccabile in tutti i particolari e da tutti i lati». Stessa prudenzamanifestò il ministro Acerbo nel discorso di Teramo del 4 febbraio 1923,sostenendo che le circoscrizioni delle nuove provincie avrebbero potuto«essere anche rivedute in seguito, se sulla base di diretta esperienza risultassenecessario un nuovo esame delle condizioni particolari di quella zona tantosensibile del nostro confine»56. Di fatto, però, non ci furono cambiamentialla linea dura fino al 1927.

La rivalutazione di due porti militari: La Spezia e Taranto

La creazione delle nuove provincie nelle terre liberate costituì unmessaggio di novità e di capacità decisionale della politica italiana in temadi revisione delle circoscrizioni amministrative, giacché nessun governopost-unitario aveva toccato le 69 provincie istituite con l’unificazione, se

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non in casi rari e per porzioni territoriali quasi insignificanti57. Infatti, nelquadro del decentramento amministrativo il fascismo creò, nello stesso1923, altre due provincie elevando a capoluogo le due città di La Spezia e diTaranto, che nel periodo bellico avevano assunto un ruolo sempre piùrilevante non solo come porti militari, ma anche come territori ad altaconcentrazione industriale.

La Spezia era uno dei cinque capoluoghi di circondario della Provinciadi Genova, attorno a cui gravitavano 27 comuni che, rispetto agli annigiolittiani, avevano registrato un incremento in tutti i settori produttivi e didemografia58. L’aspirazione di La Spezia a staccarsi da Genova era didominio pubblico fin dal 1913 quando l’amministrazione civica organizzòun convegno con i Comuni del circondario e con altri limitrofi. FrancescoPoggi, nell’elencare le ragioni storiche ed economiche che giustificavano lacreazione di una nuova Provincia in Liguria, prospettò una circoscrizioneterritoriale che comprendeva, oltre al circondario spezzino, quello diPontremoli con l’aggiunta di alcuni comuni della Provincia di MassaCarrara59. Più che il tema dell’autonomia e delle prerogative connesse, lapreoccupazione principale dei relatori del convegno fu la definizione dellacircoscrizione, sicché emersero diverse possibili soluzioni che prefiguraronoun territorio che attingesse anche a qualche Comune del Genovese, dellaLucchesìa e del Carrarese. La guerra e l’indisponibilità dei governi liberali acreare nuove provincie, misero a tacere ogni aspirazione, finché il giornale«La Provincia di La Spezia», fondato dal fascista Orlando Danese nel 1921,non ripropose la questione coinvolgendo nel dibattito anche alcuni Comunidella Toscana. Le cronache narrano che Mussolini, passando da La Spezianel 1923, fece sapere che presto avrebbe pubblicato il decreto di istituzionedella Provincia60. Infatti, con r.d. 1913 del 2 settembre 1923 La Spezia vennepromossa capoluogo di una Provincia che sostanzialmente mantenne icomuni del vecchio circondario con in più i comuni di Maissana e VareseLigure del circondario di Chiavari, e di Calice al Cornoviglio e di Rocchettadi Vara del circondario di Massa Carrara. È importante sottolineare comein questa scelta, e nelle altre simili, l’opinione popolare non fu tenuta innessun conto, come dimostra un documento inviato al governo da parte deicomuni del circondario di Pontremoli (MS), che chiedevano esplicitamentel’inserimento nella nuova Provincia61.

I pontremolesi sostennero che la loro appartenenza a Massa Carraracostituiva una «artificiosità», come era stato dimostrato sin dal convegno del1913 e come era stato chiesto dal dibattito svoltosi sul giornale «Lunigiana»,

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sorto nel 1910 con lo scopo di assecondare la nascita della Provincia di LaSpezia. La documentazione mette in evidenza una serie di studi, appunti ecorrispondenza che proponevano diverse e contrastanti soluzioni quasi sitrattasse di far quadrare il numero dei comuni con il numero degli abitanti,senza alcuna attenzione agli aspetti tecnici e amministrativi e soprattuttodella storia locale. I telegrammi di adesione o di delusione dei sindaci perl’inserimento o l’esclusione nella nuova Provincia non contengono alcunamotivazione se non quella sentimentale o delle distanze e quindi delledifficoltà di interloquire con i nuovi organi istituzionali periferici62. Inquesto contesto non va trascurato il telegramma del deputato Boracchia delSanto a Mussolini con il quale, a conclusione del I convegno provinciale delPpi, notoriamente fautore delle autonomie, gli chiedeva che «problemaProvincia sia integralmente risolto con aggregazione Spezia tutta ValleMagra»63.

In altri termini, la formazione della nuova circoscrizione provincialeconfermava la vacuità e l’inapplicabilità del criterio su cui si sarebbe dovutobasare la Provincia, cioè come libero consorzio tra liberi comuni. In questoversante, se i liberali non avevano mai tenuto conto delle disposizioni dell’art.168 della legge 23 ottobre 1859 che assegnava al consiglio provinciale (equindi ai rappresentanti del popolo) il parere di mutare le circoscrizionicomunali e provinciali, il fascismo si guardò bene dall’ascoltare la popolazione,le classi dirigenti o gli enti di sviluppo territoriale, mentre utilizzò sempre laderoga dalle leggi. «Il Lavoro» di Genova criticò il metodo sostenendo che percreare una nuova Provincia non bastava individuare un capoluogo, o dividereil territorio di due piccole provincie contigue (Spezia e Massa). Più coerentesarebbe stato estendere l’attenzione alle aree regionali e quindi alla salvaguardiadei più ampi interessi socio-economici, rifiutando la divisione per interessilocalistici. Nel caso specifico «Il Lavoro» sostenne la tesi che la soluzione avevatenuto conto di non mortificare l’affermazione del fascismo sia a La Spezia chea Carrara64. «La critica politica» colse l’occasione per ribadire che alla base dellaistituzione di nuove provincie il fascismo finiva con l’accrescere la burocraziadell’amministrazione periferica, piuttosto che ridurla65. Mussolini, nella suarelazione allegata al decreto di istituzione, fece riferimento alle richieste dellepopolazioni, e citò persino il convegno del 1913 più sopra richiamato, ma nededusse che

le soluzioni prospettate presentavano tutte difetti o difficoltà pressochéinsormontabili, sicché il Governo, pur riconoscendo la necessità della creazione della

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Provincia della Spezia, ha ritenuto prescindere dai progetti suaccennati per adottareuna diversa soluzione inspirata anche al concetto di conciliare per quanto possibile icontrastanti interessi delle provincie contermini66.

Taranto, che era l’altro polo della marina militare che Mussolini volevaadditare come simbolo della forza militare nazionale, ebbe la nomina acapoluogo nello stesso giorno di La Spezia67. Fino a quel momento era statauno dei 4 capoluoghi di circondario della Provincia di Lecce, ma nel 1921aveva registrato un incremento demografico del 25,4 per cento rispetto alcensimento del 1911 (274.907 unità contro 219.254). Ciò era dovuto aduno sviluppo economico sostenuto, ma sostanzialmente trainato dalleattività portuali e dalle industrie connesse68. Come scrisse il capo del governonella relazione introduttiva al decreto di costituzione, si guardava a questacittà come al ponte per i commerci con l’Oriente, e nello stesso tempo siaccentrava il ruolo del porto militare che ospitava l’Alto comando delloJonio e del basso Adriatico, il dipartimento marittimo con arsenale e cantierinavali. Il fascismo volle saldare il debito con le popolazioni che sin dal 1919avevano richiesto l’autonomia amministrativa da Lecce, ma nella decisioneprevalse il principio di non turbare gli interessi dei leccesi e della Basilicata,sicché la circoscrizione provinciale fu mantenuta entro i confini dell’anticocircondario di Taranto con i suoi 224.465 ettari di superficie.

La mobilitazione locale per promuovere l’istituzione della Provincia siera rafforzata sin dal mese di marzo del 1923, quando si intensificarono levoci di un progetto di revisione delle vecchie circoscrizioni provinciali. Incittà si costituì un comitato di promozione, presieduto dal sindaco diTaranto, che nell’avanzare la richiesta non volle intaccare le suscettibilitàcampanilistiche, sostenendo la tesi che l’autonomia provinciale avrebberafforzato i vasti interessi della nazione. Ma le reazioni che suscitarono nelceto politico e imprenditoriale di Lecce dovute alla sottrazione di un riccoterritorio, provocarono un ordine del giorno della classe politica eimprenditoriale tarantina, che da tempo aveva inserito l’istituzione dellaProvincia tra i programmi elettorali. Si preferì smussare le diatriberimettendo la decisione alla «illimitata fiducia nell’opera sapiente edimparziale del Governo d’Italia»69. Non mancarono pressioni da parte deifautori e degli oppositori con lettere, telegrammi e memorie trasversalirispetto all’appartenenza politica. L’Associazione del Partito liberale delterritorio, con una lettera espresse il suo sdegno per le «disgustosemanifestazioni, alle quali, sotto diverse forme, i leccesi han creduto

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inconsideratamente di abbandonarsi»70, e nel contempo richiamòl’attenzione delle autorità fasciste sul fatto che già il sindaco liberale edeputato locale Troilo si era battuto per l’elevazione di Taranto a capoluogo.Le posizioni contrarie provennero da Bari, da Lecce e dalla Basilicata, conla motivazione che l’annunciato scorporo di alcuni comuni per aggregarlialla costituenda Provincia avrebbe provocato risentimenti nelle popolazioniper i disagi, ma soprattutto non avrebbe propiziato lo sviluppo economicoe sociale di quelle zone. Il Consiglio provinciale di Bari, che temeva diperdere consistenza e risorse, si dichiarò contrario quando le voci sulla nuovaProvincia cominciarono a intensificarsi. In un odg del 13 marzo 1923, ilConsiglio ritenne grave «spezzare i vincoli secolari che affratellano tutti ipaesi della Provincia di Bari», aggiungendo che «gravi danni deriverebberonon solo a quei paesi ed alla città e Porto di Bari come alla Provincia tutta,[...] ma anche a tutta la regione di Puglia ritardando il progresso dellecomunicazioni e dei commerci nel basso Adriatico». Per questa ragione sipronunciò contro qualsiasi modifica della circoscrizione barese71. Lettere eordini del giorno vennero inviati dalla Basilicata e uno fu spedito da 23 fascidel Pnf che si erano riuniti in assemblea per avvertire Mussolini di nonimpoverire ulteriormente il circondario di Matera con lo smembramentodella già povera regione72. Persino il prefetto di Potenza fece sapere aMussolini che la notizia che si era sparsa della disaggregazione dellaProvincia di Potenza in favore di Taranto avrebbe provocato «vivissimaagitazione: agitazione invero fondata, in quanto che il privare la Basilicata,in tutto o in parte del circondario di Matera costituirebbe non solo unosmembramento [...] ma anche un impoverimento, verrebbe a perdere il nonlieve contributo fondiario del Materano»73. Questi movimenti di opinionepubblica scaturivano più dal convincimento che sarebbero stati danneggiatiprecisi interessi politici, amministrativi e commerciali, che daargomentazioni in favore delle autonomie, se non in quella minima parteche intaccavano interessi municipalisti. Anche i prefetti ritennero diintervenire inviando le loro osservazioni più per il timore di perdere ilprestigio della grande Provincia, o per l’influenza dei politici locali, che perdifendere le tradizioni del territorio. Del resto, la storia delle autonomielocali non sempre ha avuto paladini nobili e disinteressati che hannoguardato al bene comune più che agli affari di bottega. A fronte di tutto ciò,la risposta del governo, sensibile a non suscitare malumori, non si feceattendere con le assicurazioni che la volontà di tutti i ministri era di nontoccare i territori della Basilicata.

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La soppressione delle sottoprefetture

Queste «prove di decentramento amministrativo», se da una parteevidenziarono quanto sensibile fosse l’opinione pubblica per ilriconoscimento ad una promozione del proprio territorio, dall’altraconsolidarono in Mussolini il convincimento che la promozione acapoluogo di provincia suscitava troppe emozioni politiche e attestati diconsenso. Ma in questa prima fase del regime, non mancarono sceltecontraddittorie, come avvenne nel comparto della pubblica istruzione conla soppressione degli uffici scolastici provinciali (provveditorati agli studi)dal 1° luglio 1923, sostituiti con provveditorati agli studi regionali. Secondoqualche autore questa nuova aggregazione aveva il duplice scopo «disottrarre il provveditore agli studi alle nefaste influenze dei piccoli ambientidi Provincia e, dall’altra, quello più ambizioso sotto il profilo culturale, diriportare il popolo al culto delle tradizioni storiche delle singole regioni»74.Ma l’affermazione non tiene conto dell’avversione del fascismo nei riguardidi qualsiasi forma di regionalismo, patrocinata dal Ppi di Sturzo e dairepubblicani della «Critica politica», i quali, anziché gioire della decisione,avanzarono un giudizio di prudente attesa e di perplessità, in quanto fuintravisto «il pericolo di un maggiore concentramento, di una maggioreburocratizzazione e quindi di una minore autonomia»75. D’altra parte, loscopo di queste riforme era lo «snellimento» dell’attività amministrativa enon di dare alla «regione scolastica» più poteri decisionali76.

Non c’è dubbio che nell’opinione pubblica ebbe una visibilità maggioree un effetto dirompente la revisione delle circoscrizioni provinciali che ilfascismo iniziò nel 1923. La prima fase del progetto fu, per così dire, distudio, in quanto diede l’impressione di portare a compimento alcuniritocchi per sanare un antico malcontento per l’appartenenza a circoscrizioniprovinciali ritenute «forzose» e incuranti delle tradizioni locali. Ilcircondario di Rieti venne sottratto alla Provincia di Perugia per aggregarloa quella di Roma77; il circondario di Rocca S. Casciano dalla Provincia diFirenze fu trasferito a quella di Forlì78; fu disposta la soppressione delcircondario di Bobbio distribuendo i comuni sulle tre provincie di Genova,Piacenza e Parma79; fu soppresso il circondario di Fiorenzuola d’Ardaaggregandolo a Piacenza80 alla quale Provincia vennero sottratti i comuni diBardi e di Boccolo dei Tassi per cederli a Parma81; un’altra revisione avvennenella Provincia di Massa dalla quale venne staccato il circondario diCastelnuovo di Garfagnana per aggregarlo a Lucca82; ed infine, il Comune

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di S. Giovanni Ilarione venne staccato da Vicenza per aggregarlo allaProvincia di Verona83. Non fu che l’inizio di una sequenza di trasferimentiquasi si trattasse di una partita a scacchi, ed anche con queste scelteMussolini avallava, senza volerlo, la tesi di molti studiosi secondo cui laProvincia era una istituzione senza fondamento storico, costruita a tavolino.Esempio ulteriore di quanto si va dicendo è la revisione della circoscrizioneamministrativa delle due provincie di Pisa e Livorno. Quest’ultima avevasempre lamentato il suo ridotto territorio circoscritto al Comune di Livornoin terra ferma e alle isole della Toscana, ma mentre nel periodo liberale Pisala spuntò sempre su Livorno, con l’affermarsi del fascismo e, secondo alcunistudiosi, con l’ascesa politica del livornese conte Costanzo Ciano, le cosemutarono fino alla revisione sancita con il r.d. 15 novembre 1925 n. 2011con il quale alla città portuale vennero aggregati 10 comuni della Provinciadi Pisa, mentre questa acquisì alcuni comuni della Provincia di Firenze84. Larevisione non fu indolore non solo per i pisani, ma anche per i comuni dellaProvincia di Firenze85, ma sul piano economico e commerciale aguadagnarci fu Livorno, acquisendo soprattutto Rosignano e Piombino coni loro insediamenti industriali e il porto86.

Anche la città di Roma subì un radicale mutamento che si concluse conl’azzeramento della storia municipale poiché il fascismo istituì ungovernatorato per la capitale con le funzioni che prima erano esercitatedall’amministrazione comunale87. Il 31 dicembre 1925 fu insediato a Romail primo governatore della capitale, con una cerimonia che la presenza diMussolini e di altri ministri rese più solenne88. Ma, come è noto, il colpo digrazia alle autonomie locali il fascismo lo assestò ben presto sia con l’istituzionedel podestà, sia con l’istituzione della Consulta municipale non soltantoperché si sottraeva al popolo l’eleggibilità dei propri amministratori, maperché non poteva essere giustificato con lo snellimento burocratico.Tornando alla creazione di nuove circoscrizioni provinciali, non è fuori luogochiedersi quali furono i criteri ispiratori di questa rivoluzione; quantopesarono le pressioni delle comunità locali e fino a che punto si volleroriconoscere le tradizioni di cui non si era tenuto conto con l’unificazionenazionale; fino a che punto lo spostamento di intere comunità da unaProvincia all’altra fu funzionale allo snellimento della pubblicaamministrazione e alla riduzione delle spese di gestione. Per fare un esempioconcreto, ci si può domandare quale snellimento sarebbe derivato aggregandoil circondario di Rieti alla Provincia di Roma, che, oberata dei problemi di unacapitale, era l’unica nel Lazio per la quale si istituiva, appunto, un

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governatorato. Solo una serie di ricerche locali potrebbe evidenziare pregi edifetti di questa rivoluzione amministrativa che ridisegnò la mappa delpotere locale che era rimasta intatta in oltre sessanta anni. Altre ragionidovettero spingere il fascismo in questa vasta operazione che produssemalcontento e reazioni che solo il regime autoritario poté controllare ereprimere. Qualche autore ha sostenuto che «c’era infatti (bene adombrato)anche l’estremo bisogno di sanare le finanze dei centri maggiori, dissestatedalla politica accentratrice e sperperatrice»89. In realtà, il fascismo mortificòin continuazione gli enti locali e se nel dicembre 1923 aveva varatol’istituzione della Confederazione nazionale enti autarchici, con il «fine diraggiungere una cooperazione diretta e immediata fra gli enti stessi»90, perconverso aveva avviato la soppressione dell’Associazione dei Comuniinserendo Upi e Anci tra gli organismi del Pnf.

L’operazione della revisione territoriale delle provincie ebbe inizio nel1926, data dalla quale si fa iniziare la seconda fase del fascismo, chiamata di«lotta costituzionale», «l’anno legislativo della rivoluzione»91. Eppure, anchequesta fase venne avviata con qualche contraddizione. Nella seduta delconsiglio dei ministri del 1° gennaio, contraddicendo l’intento delcontenimento della spesa e della riduzione delle sottoprefetture, venneapprovato uno schema di decreto con il quale fu istituito il circondario diRagusa, in Provincia di Siracusa92. A differenza di altre provincie italiane,questa comprendeva soltanto i tre circondari di Siracusa, Noto e Modica. Daquest’ultimo, che aveva appena 13 comuni con una superficie di 150.451ettari e 251.762 abitanti, e quindi per nulla complesso o disagiato, venneritagliato il nuovo circondario di Ragusa, unico in tutta Italia ad essereistituito nel periodo fascista. La decisione fa intravedere l’anticipo del«regalo» che ben presto il duce avrebbe fatto alla città iblea onorando undebito di immagine nei confronti del sottosegretario Filippo Pennavaria chesu questo punto lo aveva sollecitato a più riprese. La decisione di istituire unnuovo circondario fa sorgere il dubbio che la riforma non fosse esente dacomportamenti di clientelismo in quanto qualche mese dopo, nel Consigliodei ministri del 26 agosto 1926, il ministro dell’Interno Federzoni espose aicolleghi le condizioni di difficoltà nelle quali era venuto a trovarsi ilministero dell’Interno in seguito alla diminuzione degli organici nelmomento in cui erano aumentate le attribuzioni del personale. Necessità dinon gravare l’erario, «anzi di realizzare tutte le possibili economie,impone[va] di risolvere la duplice contraddittoria difficoltà della deficienzadi funzionari e dell’accresciuto lavoro degli Uffici con una ulteriore

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semplificazione dei servizi»93. Perciò propose, e il Consiglio approvò, lasoppressione di 95 sottoprefetture su 167, con una proporzione del 57 percento94. La motivazione verbalizzata fu la seguente:

Tale soppressione, mentre non porterà alcun danno a zone per le quali la frequenza ela rapidità sempre maggiore delle comunicazioni rendevano ormai inutile ilfunzionamento degli organi tutori, darà alle Prefetture la possibilità di adempiere inuovi gravi e delicati e importanti compiti che sono stati loro attribuiti dalla legge perl’espansione dei poteri dei Prefetti e dell’ordinamento sindacale95.

Questo drastico ridimensionamento di città che vantavano tradizionistoriche, fu definito da «Il Popolo d’Italia» «una ecatombe»96, e fu decisodallo stesso ministro che otto mesi prima aveva istituito il piccolocircondario di Ragusa. Per la soppressione delle sottoprefetture è lecitochiedersi se furono approntati studi tecnici specifici e da chi.Nell’operazione il fascismo poteva sostenere di essersi attenuto alleindicazioni della «commissione parlamentare d’inchiesta sull’ordinamentodelle amministrazioni di Stato e sulle condizioni del personale» del marzo1921, la quale aveva proposto una riduzione, se non la totale soppressionedelle sottoprefetture. Sebbene l’inutilità di molte sottoprefetture fosse nota,un attento esame di quelle soppresse mostra come non sia stata veritiera lamotivazione secondo cui le migliorate vie di comunicazione avevano resoinutile una parcellizzazione della struttura burocratica in periferia. Per farequalche esempio, nel Nord la soppressione delle sottoprefetture di Vercelli,Varallo Sesia, Biella, Domodossola e Pallanza, tutte in Provincia di Novara,accentuava le difficoltà di quella Provincia che comprendeva 660.267 ettaridi superficie alpina, pre-alpina, di pianura e lacustre, e da cui in futurosaranno formate altre tre provincie (Vercelli, Biella e Verbania). Nel Sud levie di comunicazione nei circondari di Vallo della Lucania e di Campagna,in Provincia di Salerno, non erano tali da rendere più agevoli i collegamenticon il capoluogo. Gli esempi potrebbero continuare. Che alla base delladecisione ci fossero seri studi economici, statistici e di geomorfologia,sembra dubbio, quantomeno non si trattò di un lavoro preparatorioaccurato se nel mese di ottobre Federzoni presentò una variazione dellaprecedente proposta, riattivando le tre sottoprefetture di Monfalcone,Tolmino e Sesana e sopprimendo quella di Idria97. Questi ripensamentirivelano una certa fretta, funzionale soltanto a dare un’immagine di fortedecisionismo del governo, il quale poté vantare l’assenza di proteste dellepopolazioni coinvolte, mentre alcune informative dei prefetti inviate al

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ministero dell’Interno dimostrano che il malcontento ci fu. Tanto per farequalche esempio, per i quattro circondari della Provincia di Trento98

l’ispettore generale d’accordo col Prefetto rit[enne], in linea principale, checonven[isse] mantenere, anche temporaneamente, i quattro circondari sopprimendiprincipalmente per necessità politiche, per potervi esercitare una più immediatasorveglianza sulle popolazioni delle rispettive circoscrizioni. In subordinata propo[se]che [fossero] almeno mantenute le sottoprefetture di Cles e Tione. In caso di nonaccoglimento di tali proposte [fu] del parere che i Comuni dei quattro circondarisuddetti [venissero] aggregati a quello di Trento il quale così verrebbe a comprenderen. 29 Comuni, con una popolazione di 202.463 abitanti99.

Altri documenti della Provincia di Trento evidenziano che diversipodestà di molti comuni di montagna espressero parere negativo sullasoppressione di alcuni circondari e di sottoprefetture motivandolo conragioni storiche, economiche e di scadenti vie di comunicazione. Il prefetto,consigliando di conservare Cles e Tione per la montuosità dei comuniaggregati, per cautela scrisse al ministro che il suo parere

deve intendersi circoscritto allo studio ed alle proposte circa l’assegnazione dei Comunidipendenti dalle sottoprefetture di cui è stata deliberata la soppressione e non si estendeanche al giudizio sulle opportunità o meno di talune soppressioni. Ma per quel che hovisto ed osservato de visu, percorrendo in automobile centinaia e centinaia dichilometri per constatare le condizioni di viabilità ed i mezzi di comunicazione deiComuni più lontani ai vari centri dei circondari, m’incombe il preciso obbligo di nontacere e di sottoporre alle considerazioni dell’E.V. il grave problema, anche seconsiderazioni assolute di ordine supremo dovessero imporsi e prevalere, anche colsacrificio dei molteplici interessi pubblici e privati, che più sopra ho segnalato100.

Non si espressero con meno risentimento alcuni capi del fascismo locale,come il fiduciario del Pnf di Tione, che informò il ministro di evitare lasoppressione di quella sottoprefettura, per ragioni storiche e soprattutto perla difficoltà di comunicazioni nei periodi invernali101. Ma, a ben vedere,anche queste esternazioni di malcontento non avevano nulla a che vederecon l’autonomismo genuino e forse era condizionato più da interessi locali.

Verso la riforma della Provincia

Dopo quanto si è detto, appare evidente come il fascismo abbiaproceduto a tentoni, senza un progetto politico e organizzativo di lungo

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respiro. Riferendo di un colloquio tra Mussolini e Federzoni, «Il Popolod’Italia» dell’agosto 1926 scrisse che l’ordinamento amministrativoprovinciale era ancora allo studio giacché esso avrebbe dovuto armonizzarsi,«se non fondersi, con le nuove funzioni dei Consigli per l’Economia e delleGiunte provinciali delle Corporazioni»102. Il dibattito sul ruolo dellaProvincia non fu di alto livello tecnico e politico perché gli autori, che spessoerano gli stessi amministratori delle provincie, si attestarono sulle posizionigovernative, paghi del fatto che il fascismo non avrebbe mai abolito laProvincia, anche se ciò avrebbe comportato un alto prezzo sul piano delleautonomie. Le riviste di settore e l’Unione delle provincie Italiane (Upi)sposarono le scelte del regime perché nel frattempo erano statefascistizzate103. La «Rivista delle Provincie», dopo le battaglie per le libertàlocali, cominciò l’allineamento. Pubblicando la notizia di un probabileannullamento della eleggibilità dei consigli, evidenziò la propriasottomissione al fascismo, e agli scontenti ricordò che non c’era nulla ditraumatico in questa scelta, giacché si sarebbe ripristinata la vecchia leggecomunale e provinciale, come a dire che tornare indietro non era poi unascelta antidemocratica. D’altra parte, per la scarsa mole di lavoro che venivasvolta (i consigli si riunivano una sola volta all’anno, nel secondo lunedì diagosto), sarebbe stato più che sufficiente affidare la gestione ad uncommissario o ad una commissione. È difficile, però, non leggere in questeenunciazioni una certa ambiguità in quanto il periodico, nel contempo, nonmancò di ricordare che le provincie avevano sempre auspicato e chiesto unampliamento delle loro funzioni, e mai la soppressione104. Nondiversamente si comportò il decimo congresso dell’Upi, tenuto a Trieste nelgiugno 1926 alla presenza del ministro dell’Interno, giacché non affrontòdirettamente la questione delle autonomie, preferendo presentare tematichetecnico-amministrative. Davanti agli amministratori provinciali, Federzonidefinì la Provincia un ente necessario con funzioni che avrebbero potutoavere ulteriori sviluppi e bocciò i sogni utopistici dei «regionalistiautonomi», accattivandosi il consenso dell’uditorio. Solo nell’odgapprovato al termine, i 150 rappresentanti delle 76 provincie italianechiesero di contare di più con l’assegnazione di nuovi compiti105. Anche nelconsiglio direttivo dell’Upi si prese atto «con compiacimento che il progettoministeriale [aveva] accolto i principi relativi alla nuova rappresentanza,basata sull’ordinamento corporativo e sulla nomina regia del capodell’amministrazione provinciale»106. Il ceto politico provinciale, che si eraavvicinato al fascismo, poteva stare tranquillo giacché una nomina

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governativa tutto sommato gli avrebbe fatto correre meno rischi di unaelezione popolare. L’unica cosa che l’Upi richiese fu quella di un ampliamentodi funzioni e competenze, sostanzialmente perché la Provincia contasse di piùnel sistema del potere locale, ma, a ben vedere, la richiesta non era incontraddizione con la riforma fascista che mirava al controllo provinciale delpotere locale. Nessuno alzò la voce per difendere l’eleggibilità del consigliocomunale e provinciale, o una più ampia autonomia che limitasse l’ingerenzadello Stato e assicurasse le risorse finanziarie107. Prima ancoradell’approvazione della riforma, l’ente locale si era arreso senza condizioni alregime totalitario che non trovò nessuno disposto a contraddirlo.

Paradigma di un radicale cambiamento d’opinione tra coloro cheavrebbero dovuto difendere le conquiste autonomiste, fu il discorso che ilpresidente della deputazione provinciale di Milano Fabbri, tenne inconsiglio. Di fatto egli accettava l’antiteticità tra «fascismo ed elezionismo»:

I futuri consigli provinciali - disse - saranno emanazione dei Sindacati. D’altra parte,data la natura accentratrice dello Stato fascista e la figura tipica della Provincia fascistaquale organo di decentramento unicamente funzionale, il potere esecutivodell’Amministrazione provinciale non potrà che essere emanazione diretta del poterecentrale108.

Fabbri prospettò una Provincia come «lunga mano delle varieamministrazioni centrali dello Stato», e si limitò a ripescare la proposta delriconoscimento di una diversa configurazione delle provincie in base alla loropotenzialità economica e al grado di sviluppo culturale di ciascuna, giacchéquelle a economia sviluppata avrebbero dovuto funzionare con mezzi propri,mentre le altre avrebbero dovuto ottenere dallo Stato i mezzi per raggiungerepotenzialità autonome. Riconobbe il principio di sussidiarietà che era statoteorizzato dal Ppi, ma sostanzialmente inquadrò il ruolo della Provincia nellastretta collaborazione fra le rappresentanze delle organizzazioni degli interessidel governo centrale e delle organizzazioni tecniche periferiche.

Con la giustificazione di far fronte alla crisi economica attraverso lariduzione della spesa pubblica, il fascismo cercò di legare allo Statototalitario le politiche della periferia con la conseguenza di porre sottocontrollo l’ente Provincia. In nome della teoria dello Stato sovrano,l’aspirazione autonomista venne valutata come «retorica individualistica eparticolaristica» di un Paese che per secoli aveva privilegiato ilframmentarismo provinciale, causando un grave ritardo al raggiungimentodell’unità geografica, politica e morale109. In sintesi, la politica fascista

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rovesciò i termini del problema e anziché riconoscere maggiori autonomielocali come vennero reclamate nel dopoguerra, volle «sprovincializzare laProvincia» riducendo il suo ruolo ad una adesione completa alla politicacentrale per avere «l’assoluto dominio e l’incontrastato controllo di tutti icentri politici ed economici»110. Su questa base, lo Stato accentratore avevabisogno di

costruttori silenziosi e fedeli, [voleva] degli organismi provinciali duttili e consapevoli,ispirati alla nuova politica fascista, [voleva] un indirizzo unitario; [... voleva] che laProvincia si sollev[asse] su tutte le forme di politica localistica, che [aveva] resoimpossibile per tanto tempo l’unità della nazione, che [aveva] corroso, coipersonalismi, ogni tentativo di restaurazione del costume, che [aveva] impedito sempreche si formasse la coscienza della sovranità dello Stato. [... Voleva], insomma, che inciascuna Provincia trionf[asse], sulle inveterate esigenze ribellistiche e campanilistiche,il senso severo e inderogabile della disciplina dello Stato111.

Questa opinione era la quintessenza di quanto trapelava dal lavoropreparatorio degli esperti della riforma. Partendo dal convincimento cheprima del fascismo gli enti locali avevano raggiunto livelli di ingovernabilitàche avevano stravolto i loro compiti istituzionali, con un comunicato nelmese di agosto, Federzoni rese noto il testo della sua riforma112. Dopo averassestato un duro colpo alla sovranità popolare fondata sul suffragioelettorale, valutato come causa della degenerazione nazionale, il ministrosostenne che la nuova concezione dello Stato fascista attingeva «la potestàdalla sua stessa natura e essenza», che rendeva inevitabile l’eliminazionedell’istituto elettorale, giacché gli enti locali derivavano la loro potestà dallaconcessione dello Stato e non dal popolo. La riforma amministrativa delleprovincie avrebbe completato quella già varata per i comuni.

Pur conservando l’ente, non potrà il suo ordinamento amministrativo essere sottrattoall’influenza dei nuovi concetti a cui il Fascismo è ormai addivenuto: i Consigliprovinciali dovranno essere ordinati non più in base ad un criterio di rappresentanzaterritoriale frazionata per circoscrizioni più o meno vaste, ma in diretto rapporto dicorrelazione con il nuovo ordinamento corporativo dello Stato, nel senso, cioè, cheaffidati i poteri amministrativi delle Province ad organi che, come i podestà, ripetano laloro origine direttamente dallo Stato, le associazioni sindacali legalmente riconosciutesiano ammesse anche a partecipare alla vita amministrativa della Provincia.

Il nuovo decreto garantiva una armonizzazione tra comuni e provincie siapure rispettando le diverse attribuzioni, mirando a finalità istituzionali di

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comune interesse. In questa concezione centralista, l’ordinamentoamministrativo fu armonizzato anche con la legge 18 aprile 1926 n. 731 suiConsigli provinciali dell’economia. Il comune obiettivo, cioè «il benessereeconomico e sociale della Provincia, assicurato e promosso mercé la tutelaed il coordinamento di tutti gli interessi agricoli, industriali, commerciali edaltresì amministrativi»113, fece ritenere sufficiente e necessario l’istituzione diun’unica Consulta, «espressione comprensiva di tutti i molteplici interessid’ogni Provincia raccolti in organica sintesi». L’ente amministrativo e l’enteeconomico diventavano la base dell’ordinamento provinciale: il primoavrebbe espletato le funzioni che la legge comunale e provinciale assegnavaal presidente della deputazione provinciale e al consiglio provinciale; ilsecondo avrebbe avuto le competenze previste dalla legge 731/1926 delConsiglio provinciale dell’economia, diviso per sezioni di competenza.Entrambi avrebbero avuto sede nel capoluogo della Provincia, entrambisarebbero stati retti da un presidente e da un vice-presidente nominati percinque anni, rispettivamente dal ministro dell’Interno e dell’EconomiaNazionale, e le cariche avrebbero potuto essere «sempre confermate» orevocate con decreto reale. I membri della Consulta sarebbero stati sottrattiall’elettorato attivo, mentre sarebbero stati nominati con decreto di concertocon i due ministri interessati114.

Il nuovo assetto del governo provinciale, per la complessità della suarappresentanza tra membri di diritto e di nomina ministeriale su indicazionedi associazioni e corporazioni, escludeva qualsiasi giudizio dell’elettoratopopolare. Venne così rivoluzionata l’idea stessa di governo locale comediretta emanazione della volontà popolare, che era stata ritenuta unaconquista dalle forze politiche liberali, cattoliche e socialiste. Sebbenel’elezione popolare sia, secondo alcuni autori, garanzia necessaria ma nonsufficiente di autonomia, l’averla esclusa d’imperio costituì un regresso dellademocrazia nel governo locale.

L’istituzione di 17 provincie

Il 6 dicembre 1926, nella seduta del Consiglio dei ministri, il nuovoministro dell’Interno Mussolini presentò un provvedimento con il quale siistituivano diciassette nuove circoscrizioni provinciali, e nel contempo sisoppresse la Provincia di Caserta, il cui territorio venne smembrato edistribuito alle provincie di Napoli (circondari di Caserta e di Nola), di

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Benevento (circondario di Piedimonte d’Alife) e di Frosinone. Tutte lesottoprefetture d’Italia, anche quelle rimaste indenni dopo la prima«ecatombe», vennero soppresse115. Mussolini presentò in Consiglio il testodel decreto che l’ufficio studi e legislativo del ministero aveva elaborato perFederzoni, ma egli lo corresse eliminando alcuni passaggi e aggiungendonealtri di suo pugno116. La relazione conteneva gli elementi che per il fascismocostituivano l’innovazione e la svolta rispetto al passato: tutto il sistemaamministrativo degli enti locali venne riformato e messo sotto la tutela delloStato. Se il capo del fascismo fece propria gran parte della relazione, sua fula scelta esclusiva dei capoluoghi di Provincia elevati in quella storica sedutadel 6 dicembre 1926: Aosta, Bolzano, Brindisi, Castrogiovanni (cui diedepersonalmente l’antica denominazione di Enna), Frosinone, Gorizia,Matera, Nuoro, Pescara, Pistoia, Ragusa, Rieti, Savona, Terni, Varese,Vercelli, Viterbo. È da notare come il fascismo esperì la strada del decreto-legge sostenendo l’urgenza senza giustificarla realmente117.

A riprova che la creazione di nuove provincie faceva parte della riformagenerale della pubblica amministrazione, e non di una concessioneautonomista, nella stessa seduta il governo varò lo «Schema di Regi decretiriguardante le modifiche all’organico dei ruoli dell’Amministrazione civiledell’Interno», approvò la nomina dei diciassette prefetti destinati nelleprovincie di nuova istituzione e ne trasferì o dimissionò altri trenta.Dall’elenco dei nuovi rappresentanti del governo si evince che soltanto aVercelli, Bolzano, Gorizia, Viterbo, Pescara, Matera e Rieti furono inviatiprefetti già in organico, mentre per gli altri dieci capoluoghi furono elevati alrango di prefetto altrettanti vice prefetti o personalità legate al fascismo118.Nelle sedute dei giorni successivi fu approvato uno schema di decreto reale chestabiliva la data della cessazione delle amministrazioni ordinarie e straordinariee dell’inizio delle funzioni dei Podestà e delle Consulte municipali nei comunicapoluoghi di provincia119, ma in altra seduta il consiglio dei ministri delegòMussolini, come capo del governo e ministro dell’Interno, a fissarne la data120.

Arnaldo Mussolini, fratello del duce e direttore de «Il Popolo d’Italia»,elogiò «la creazione ponderata e ragionata» delle nuove provincie in quantosignificò l’accantonamento della regione proposta da Sturzo e dai popolari,«ridotta ad espressione topografica». Per il fratello del duce, il nuovo assettoperiferico garantiva una «perequazione» più coerente e sanava queglisquilibri che erano stati consentiti da macroscopiche diversità tra leprovincie italiane; «la nuova sistemazione provinciale permette[va] aiprefetti una maggiore opera di controllo, di dominio, di presidio e di

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incitamento»121. Egli intuì e sottolineò la svolta autoritaria, che si manifestòanche nella scelta di prefetti di sicura fede fascista impegnati e utilizzati «nelleforme di governo provinciale». Nessuno avrebbe potuto più dubitare dellasottomissione dell’ente locale:

Si ritorna un poco alle vecchie prefetture politiche. Il Fascismo guarda e si compiacedei nuovi prefetti prescelti. Siamo certi che la loro fede, temprata a molte battaglie, laloro disciplina e la loro devozione al Regime, li faranno ottimi elementi alle leve dicomando122.

Il segretario del Pnf, Augusto Turati, rilasciò dichiarazioni entusiasticheper la nomina a prefetti di otto fascisti della prima ora, giacché era un segnaledell’occupazione nei posti chiave del potere locale, dopo aver rafforzatoquello centrale. Tra i «prefetti fascisti» che sostituirono quelli di carriera, vierano Guido Pighetti, deputato dell’Umbria e capo del sindacalismogenovese, destinato a Cuneo; il generale Franco Ugo di Novara, destinatoa Foggia; il maggiore medico Giovanni Selvi, tra i primi fascisti, destinatoa Brindisi; il deputato Marcello Vaccari, toscano, pluridecorato e mutilatodi guerra e della «rivoluzione fascista», fu mandato a reggere la prefettura diTrento, rinunciando al seggio parlamentare; il marchese Dino PerroneCompagni, anch’egli squadrista toscano, fu destinato a Reggio Emilia;Franco Dinale, squadrista e giornalista del «Popolo d’Italia» fu inviato aNuoro. Da quella data, l’abitudine di nominare fidati fascisti, deputati egenerali per ricoprire la carica di prefetto (ma anche di podestà) si estese neglianni successivi. D’altra parte, l’elevazione di 17 città al ruolo ambito dicapoluoghi provinciali servì a far dimenticare l’attentato al duce del 31ottobre, dando alla nazione l’immagine di un governo che impegnava leproprie energie nella riorganizzazione dello Stato.

Caratteristiche delle nuove provincie

La stampa sottolineò la giustezza delle scelte dei capoluoghi dicendo che«erano già da qualche tempo diventate cittadine popolose e progredite ecentri di vita di alcune caratteristiche zone»123. Ma se per la maggior partedelle città promosse l’affermazione corrispondeva alla realtà della situazione,per altre il criterio della scelta lasciava adito a dubbi e perplessità. Non sonostate rinvenute relazioni preparatorie di commissioni ministeriali ad hoc; nérisulta che il ministero dell’Interno abbia inviato una circolare ai prefetti per

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chiedere il loro parere. I rapporti che sono stati trovati in archivio siriferiscono alla soppressione delle sottoprefetture giacché i prefetti vennerocoinvolti direttamente per l’accresciuto lavoro amministrativo che nederivava; né risultano richieste di pareri ai sindaci o podestà dei comuni circala loro nuova destinazione124. Da quanto si è detto, sembra giustificatoaffermare che le città promosse capoluogo furono frutto di un progettoesclusivo e personale di Mussolini. Che mancasse uno studio accurato difattibilità, lo conferma la testimonianza del senatore Ettore Tolomei che fuil promotore della italianizzazione dell’Alto Adige. Sebbene si riferisse alTrentino-Alto Adige, la sua testimonianza apre uno spiraglio per capire il

TABELLA n. 2 - Situazione socio-economica nei circondari prima dellacreazione delle nuove provincie*

(*) Enna, Pescara e Ragusa non erano capoluoghi di circondario; Littoria (Latina) non era stata fondata.

circondari popol. superficie numero addetti addetti addetti addetti abitanticircond. del circond. comuni agricoltura industria commercio pubblica capoluogo(1921) (ha) (1921) ammin.

e priv.

Aosta 78.811 326.492 73 343.705 8.876 1.661 1.194 9.554

Bolzano 102.368 174.897 44 28.317 12.123 4.737 5.447 25.141Brindisi 188.039 170.111 16 63.467 18.951 3.281 8.767 35.440

Frosinone 211.281 182.267 43 89.379 12.079 2.306 1.439 13.380Gorizia 94.853 78.389 47 1.003 5.827 1.933 3.342 30.386

La Spezia 195.925 62.849 30 33.929 35.746 5.251 14.596 73.066Matera 108.999 301.991 23 41.090 9.913 1.397 687 18.357Nuoro 77.033 315.456 33 22.857 3.440 880 749 8.534

Pistoia 140.375 73.586 12 31.653 21.030 3.338 1.842 72.999

Rieti 101.690 137.680 56 26.201 7.175 1.240 930 18.832

Savona 145.378 97.142 41 25.723 27.590 4.630 3.495 53.063

Taranto 274.907 224.625 27 71.910 36.954 4.994 2.944 104.387

Terni 111.341 118.319 25 29.112 16.960 1.772 1.954 36.490

Varese 174.029 286.146 161 27.177 54.467 5.487 2.250 18.216Vercelli 146.553 124.905 55 62.986 20.337 5.211 2.430 32.159

Viterbo 196.842 302.088 61 63.969 17.514 2.697 2.216 25.460

Asti 182.121 97.447 85 77.482 16.819 5.553 1.624 40.753

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metodo della negoziazione del decentramento amministrativo realizzato dalfascismo:

Quando cominciò a circolare la voce, nei primi di dicembre 1926, che sarebbero statecreate le nuove provincie, e che la parte settentrionale della Provincia di Trento avrebbeformato la Provincia di Bolzano, [...] nulla di quella decisione m’era stata comunicatao riseppi, ma mi giunse, come a tutti, improvvisa. [...] Contrariamente alla dicerialargamente diffusa nel Trentino ch’io l’avessi provocata, non v’ebbi ingerenza alcuna.La seppi dai giornali»125.

C’era una punta di malumore nell’affermazione di Tolomei, il quale,come massimo conoscitore dell’Alto Adige, avrebbe voluto contribuire alladefinizione della circoscrizione territoriale come aveva fatto nel primodopoguerra, ma nella sostanza perché valutava i lavori preparatori comesuperficiali, sostenendo che «la delimitazione geografica delle provincienuove fu opera d’una commissione, la quale, per quanto riguarda Bolzanoe Trento, a chi e come siasi rivolta per dati e consultazione non so. A me no,né ad altri quassù»126. Se ci furono tecnici, e certamente ce ne furono,incaricati di tracciare linee di confine, di tenere conto di usi e tradizioni, dicondizioni geografiche e altre questioni, non dimostrarono di ascoltare ilpersonale conoscitore dei luoghi127. E anche questo comportamento nondimostrava riguardo per le autonomie locali.

Risulta che dopo il primo annuncio dei confini territoriali delleprovincie, Mussolini, probabilmente a seguito di rimostranze, nominò unacommissione con l’incarico di riesaminare i confini geografici in modo piùappropriato128. Ma il fatto che la commissione in un mese avesse rivisto lamateria deliberando nuove aggregazioni e/o disaggregazioni, confermaulteriormente che il piano generale peccò di approssimazione. Mentre perAosta, Bolzano, Enna, Gorizia, Pescara, Ragusa, Rieti e Savona tutto rimasecome era stato previsto dalla relazione del capo del governo, per le altreprovincie furono operate modifiche anche notevoli129. Dopo questeosservazioni, si può affermare che il criterio prioritario adottato fu di lasciareintatti i circondari con i comuni originari di appartenenza, disaggregandolidalle provincie del 1861 e aggregandoli alle nuove; in altri casi i comunifurono spostati da una Provincia all’altra badando alle distanze dalcapoluogo, ma non sempre le decisioni furono tecnicamente ineccepibili. Il«silenzio» o l’assenza di contestazioni da parte dei comuni non può essereaddotto a conferma che le nuove provincie avevano trovato il consenso«unanime» delle popolazioni, giacché si ha la documentazione di delusioni

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e malumori nelle città che attendevano la promozione a capoluogo e non laebbero. Suona ambiguo il telegramma che Mussolini inviò ai prefetti perchénon venissero effettuati festeggiamenti, probabilmente per il timore che sipotessero verificare provocazioni o proteste di malcontento130, anche sel’abolizione di associazioni e partiti contrari al regime, approvata dalparlamento nel maggio1925, rendeva molto improbabili simili reazioni.Mussolini, nel «discorso dell’Ascensione» rivolto alla Camera il 26 maggio1927, diede la sua spiegazione sulla istituzione di nuove provincie:

Perché ho creato 17 nuove provincie? Per meglio ripartire la popolazione; perché questicentri, abbandonati a se stessi, producevano un’umanità che finiva per annoiarsi, ecorreva verso le grandi città, dove ci sono tutte quelle cose piacevoli e stupide cheincantano coloro che appaiono nuovi alla vita. [...] Noi siamo più liberi in questa materia,e allora, fin dal nostro avvento, abbiamo modificato quelle che erano le più assurdeincongruenze storiche e geografiche dell’assetto amministrativo dello Stato italiano131.

Il duce enunciò i criteri per l’istituzione delle nuove provincie che avevanoriscosso l’entusiasmo delle popolazioni interessate, ma giustificò anche le«mutilazioni» derivate dal riassetto di alcune circoscrizioni territoriali, comeper Genova, Firenze, Perugia, Lecce e per la soppressione della Provincia diCaserta, unico caso nella storia d’Italia. Egli assunse tutte le responsabilità perquel «rimescolamento» di città e comuni, sostenendo che

la creazione di queste provincie è stata fatta senza pressioni degli interessati; è statoperfettamente logico che i Segretari federali siano stati festeggiati, ma non ne sapevano nulla.

Ma che Mussolini abbia deciso autonomamente anche in base a simpatiepolitiche non può essere escluso del tutto132. Si pensi, ad esempio - oltre alcaso di Enna e di Ragusa - alla promozione di Pescara, piccolo borgo dipescatori e città natale di Gabriele D’Annunzio. Da alcune lettere intercorsetra il vate e il capo del fascismo si desume una promozione del tutto inattesae ingiustificata. D’Annunzio aveva scritto una lettera al duce per pregarlo diadoperarsi perché la sua

Pescara si congiunga civicamente a Castellammare Adriatico e cospeggi una Provincianuova. C’è su questa una mia prosa del 1882, se non sbaglio! Esaudi me e la mia gentefiumatica e adriatica. Giacomo Acerbo, nel nome di Aterno, amplierà il feudo133.

Mussolini, evitando la specifica richiesta di D’Annunzio, nella rispostaespose temi di natura diversa, quasi non volesse prendere impegni, finché il6 dicembre 1926 gli inviò il seguente telegramma:

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Oggi ho elevato la tua Pescara a capoluogo di Provincia. Te lo comunico perché credoche ti farà piacere. Ti abbraccio. Mussolini.

Il vate gli rispose con entusiasmo e riconoscenza:

Sono contentissimo della grande notizia e sono certissimo che la mia vecchia Pescararingiovanita diventerà sempre più operosa e ardimentosa per mostrarsi degna delprivilegio che oggi tu le accordi. Gabriele D’Annunzio.

Soltanto una ricostruzione di storie locali, condotta con rigore e senzal’intenzione di difendere posizioni municipalistiche, potrebbe aiutare a capiremeglio metodi, costi e reazioni al decentramento del regime fascista. Ma uncaso esemplare di decisioni clientelari è la contemporanea soppressione dellaantica Provincia di Caserta che comprendeva una superficie di 526.872 ettari,190 comuni e 867.829 abitanti, distribuiti nei cinque circondari di Caserta,Gaeta, Nola, Piedimonte d’Alife e Sora. Mussolini riferì alla Camera che nellasoppressione della Provincia, Caserta aveva «dato uno spettacolo di compostadisciplina» e di aver «compreso che bisogna rassegnarsi ad essere un quartieredi Napoli»134. Forse non appare scorretto ipotizzare che all’origine dellasoppressione non ci fossero soltanto criteri di risparmio e di semplificazioneamministrativa enunciati ufficialmente, ma di accondiscendenza alla richiestadei politici locali di un risarcimento dei torti subiti dalla ex capitaleborbonica135, giacché sembra difficile ritenere che l’amministrazioneprovinciale partenopea sia stata semplificata aggregandole i 69 comuni delcircondario di Caserta, i 23 di Nola e 11 di altri circondari136. Nonostante lapalese contraddizione, «Il Popolo d’Italia» esaltò la decisione del duce come un«programma di rinnovamento e di valorizzazione morale ed economica dellanostra meravigliosa città e di tutta la regione»137. L’organo del fascismo nonbadò a esporsi con un commento senza alcun fondamento storiograficoquando sostenne che in questa decisione di Mussolini c’era la soluzione nonsolo della «secolare crisi napoletana, ma un poco [di] tutta la quistionemeridionale»138.

Nel discorso dell’Ascensione, a cui si è già fatto riferimento, il capo delgoverno disse:

Non appena fu pubblicato sui giornali l’elenco delle nuove provincie, sorsero deidesideri. Alcune città che si ritenevano degne di questo onore, lo sollecitarono. Ma iorisposi con un telegramma ai notabili di Caltagirone, dicendo che fino al 1932 di ciònon si sarebbe parlato. Perché nel 1932? Perché nel 1932, sarà finito il censimento chenoi stiamo preparando sin da questo istante. [...] Ed allora molto probabilmente ci sarà

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una nuova sistemazione delle provincie italiane, ci saranno città che diventerannoprovincie, se le popolazioni saranno state laboriose, disciplinate, prolifiche139.

A parte il riferimento non casuale a Caltagirone (città di Luigi Sturzo edel suo ex amico e compagno di partito, ma oppositore del fascismo, ArturoVella), che si era sentita «scippata» di una promozione che si attendeva dasempre140, il malumore interessò altre città come Lodi. In ogni caso,Mussolini mantenne la promessa e il 4 ottobre 1934 promosse a capoluogodi Provincia la cittadina di Littoria (Latina) che egli stesso aveva fondato il5 aprile 1932 in un territorio dilaniato dalle paludi e dalla malaria, che ilfascismo sanò nel quadro di una politica di bonifica integrale. Purtroppo,questa scelta, di chiaro sapore politico, rimise in discussione le circoscrizionidel 1926 giacché alla Provincia furono assegnati 28 comuni141 cheappartenevano al circondario di Gaeta della soppressa Provincia di Caserta.L’art. 6 del decreto istitutivo assegnava al ministro dell’Interno dieci anni ditempo per rivedere la circoscrizione e apportarvi le necessarie variazioni o lacostituzione di nuovi comuni «senza l’osservanza della proceduraprescritta». Come dire che, eventuali malumori e opposizioni sarebbero statitenuti presenti entro un decennio.

L’anno dopo, con r.d.l. del 1° aprile 1935 n. 297, venne istituita un’altracircoscrizione provinciale con capoluogo Asti. Il territorio comprendeva icomuni del circondario di Asti, fino allora in Provincia di Alessandria, piùaltri 42 comuni scorporati dalle provincie limitrofe142. In conclusione, dal1923 al 1935, il fascismo istituì 26 nuove provincie dando alla nazionel’immagine di un governo capace di assumersi responsabilità e decisioniimpopolari su problemi in cui i governi liberali avrebbero rischiato la crisi.Il progetto del decentramento burocratico si concluse con la creazione diquattro provincie della colonia libica: Tripoli, Misurata, Bengasi e Dernache con il r.d.l. del 7 giugno 1939 n. 70 vennero aggregate al territorio delRegno italiano143. Ma a fronte di quest’operazione di decentramentoamministrativo, iniziò la soppressione o l’aggregazione dei piccoli comuniitaliani ritenuti incapaci, per mancanza di risorse e di abitanti, a realizzarei nuovi compiti nel quadro dello sviluppo nazionale144.

Tuttavia, non si comprenderebbe l’affermazione più volte ripetuta sullaassenza di un progetto autonomista nella politica del fascismo, e non sicapirebbe la vera finalità del decentramento amministrativo del regime senon si riflettesse sul segnale della svolta autoritaria nel potere locale sancitocon la circolare del 5 gennaio 1927 ai prefetti, su cui gli storici e gli studiosi

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del diritto amministrativo hanno argomentato con una nutrita letteratura.Arnaldo Mussolini su «Il Popolo d’Italia» la definì «la pietra miliare» dellapolitica interna, scrivendo:

C’è nel nuovo documento una nobiltà di forma inusitata nei documenti ufficiali ed unelemento di sostanza assai raro nella prosa dei politici e degli statisti, una dose dicoraggio possibile solamente nei forti condottieri che dominano le loro milizie145.

Se qualcuno aveva ritenuto che le nuove provincie rappresentassero unriconoscimento delle autonomie locali e che lo Stato fascista avrebbediminuito la sua ingerenza sull’amministrazione periferica o anche ridottoil potere della burocrazia, dopo questa circolare si rese conto che attornoall’autorità del prefetto venne tessuta l’intelaiatura di un sistema di potereperiferico forte a cui tutti dovevano fare riferimento, compresi i gerarchi delPnf. Chi aveva rimproverato a Giolitti l’uso politico dei prefetti, ora potevarendersi conto che le cose erano peggiorate, giacché «trasformazione dellasocietà e trasformazione della politica coincidevano»146. Se il fascismo erapartito con la promessa di semplificare e riformare la burocrazia, il risultatofinale era stato l’opposto, avendo contribuito a incrementarla147. Lo Statosarebbe stato percepito dai cittadini attraverso la burocrazia, poiché i suoiorgani venivano assimilati a quelli del Pnf148. Uno sguardo alla rassegnastampa di quei giorni dimostra il generale plauso che la circolare ottenne nonsolo per la chiarezza lessicale che superava il linguaggio della burocrazia, maanche per aver dato le regole chiare di comportamenti collettivi149. Il«Corriere della sera» colse il nodo del problema definendo il prefetto un«gerarca» al servizio dello Stato-partito, con competenze specifiche cheescludevano la possibilità di conflitti tra partito fascista e pubblica autorità.Difatti, la circolare assegnava al prefetto il compito di impegnarsi «nelladifesa del regime contro tutti coloro che tendano ad insidiarlo e aindebolirlo». Non era soltanto il rappresentante del governo in periferia, maanche il capo del partito, e questo compito Mussolini lo illustròpersonalmente ai neo-prefetti delle 17 provincie convocati a Roma in queigiorni, per spronarli ad un impegno che superasse l’ambito burocratico.

Non è certamente questo il luogo per discutere il ruolo dei prefetti nellastoria d’Italia, né verificarlo in rapporto al governo locale, perché altri studihanno affrontato la questione150. Va detto che nella costituzione delle nuoveprovincie il duce ponderò con cura la scelta dei prefetti perché aveva laconsapevolezza del grave compito che li attendeva. Ciò potrebbe essere

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TABELLA n. 3 - Prefetti, funzionari di partito e del sindacato nelle nuoveprovincie (1927)

FONTE: Rielaborazione da fonti diverse.

provincia federale provinciale segretario sindacato prefetto

Aosta Luigi Ramallini Domenico Maitilasso Stefano Pirrettilaurea ingegneria sindacalista già vicepref. di Bergamo

Bolzano Muzio Levoni Enrico Zenanetti Umberto Ricciferroviere sindacal. laureato già prefetto di Udine

Brindisi Giuseppe Simone Edoardo Polacco Ernesto Perezlaurea medicina, ex ragioniere, prefetto di Parma reggentecons. com. e assess. fascista dal 1919

Enna Giovanna Monastra Alceo Castellani Gius. Roggesavvocato, Milizia Volontaria sindacalista già prefetto

Frosinone Nicolò Maraini Andrea Cilento Ubaldo Belliniavvocato mutilato di guerra già prefetto

ex segr.comunaleGorizia Barduzzi Luigi Di Castri Anselmo Cassini

deputato professore già vice prefettoLa Spezia Italo Foschi Cesare Giovara

avvoc. giornalista già prefettoMatera Gerardo Loreto Rosario Rossi

deputato, laurea scienze già prefettosociali e legge, med. bronzo Alberto Maroni

già prefettoNuoro Salvatore Siotto, Cassio Spagnoli Ottavio Dinale

deputato sindacalista interventista fascistaGianni Tincaingegnere

Pescara Raffaele Staccioli Luigi Vancini Emilio Severiniingegnere deputato fascista

Tito C. CanovaiPistoia Leopoldo Bozzi Mario Bartoli Mauro Di Sanza

avvocato sindacalista, fasci combattimento già vicepref. BeneventoRagusa Luigi Lupis Forestieri Gaetano De Blasio

camicia nera, ex combattente già commissario com. di BergamoRieti Mario Marcucci Guglielmo Pezzoli Francesco Venuta

avvocato sindacalista già prefetto di TrapaniSavona Alessandro Lessona Edoardo Cecconi Lorenzo Lavia

deput.- capo gabinetto volontario già vicepref. di Cosenzamin. Guerra, laurea legge Ia guerra mondiale

Taranto Ces. Blandamura Giuseppe Chiappelli Umberto Albinichirurgo professore già prefetto, squadristaMilziade Magnini

Terni Elia Rossi Passavanti Amilcare Rossi Michele Internicolaconte, deput., med.oro, mutilato medaglia d’oro già vicepref. di Genova

Varese Aurelio Bianchiex uff. alpini

Vercelli Fulvio Tomasucci Edoardo Malusardi Empedocle Lauricellamedaglia d’oro sindacalista già pref. di RovigoAngelo d’Eufemiaingegnere

Viterbo Filippo Ascenzi Giuseppe Barbacci Gennaro Di Donatoingegnere avvocato prefetto

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dimostrato esaminando, se lo spazio lo consentisse, il curriculum di ciascunodi loro, facendo emergere i meriti acquisiti sia nella carriera ministeriale chenel partito fascista, senza escludere la partecipazione alla prima guerramondiale e alle lotte fasciste fino alla marcia su Roma. In sintesi si puòaffermare che si trattava di persone che avevano maturato una esperienza dibuon livello nell’amministrazione pubblica o all’interno del Pnf, come eragiusto che fosse, visto che su di loro pesava l’onere di «creare» dal nulla gliuffici provinciali e assicurare l’ubicazione di una serie di uffici del Pnf.Mussolini scelse persone di cui poteva fidarsi in modo assoluto: per lo piùerano funzionari che, al momento di prendere servizio nella nuovaProvincia, avevano un’età tra i 32 e i 48 anni, dunque abbastanza giovani perassimilare lo spirito del cambiamento che il fascismo aveva voluto imporrealla funzione prefettizia. Ma, come avvenne per i podestà, col settembre1927 alcuni prefetti di carriera vennero sostituiti da fascisti militanti, anchese spesso affermati per esperienza e preparazione.

Altrettanta cura il fascismo ebbe nell’inviare nelle nuove provincie isegretari federali del partito e i responsabili sindacali, a conferma che laProvincia non era ritenuta soltanto un organo di decentramentoamministrativo, ma una base per il controllo della nazione, del partito e dellaproduzione. I segretari politici e sindacali erano di sicura fede fascista, perlo più laureati, inseriti nelle libere professioni, oppure militanti distintisi conmedaglia d’oro nella grande guerra o nelle battaglie per l’affermazione delpartito, e in qualche caso fondatori dei primi fasci. Dalla tabella n. 3 sidesume la composizione della classe politica delle nuove provincie aconferma che non doveva esserci alcuna distinzione tra burocraziaamministrativa e burocrazia di partito e sindacale, in modo da rafforzare ilprogetto totalitario di una intima connessione tra Stato e nazione. Un’altracaratteristica di questi funzionari di partito fu la loro mobilità in quantovennero utilizzati a seconda delle necessità; contrariamente a quantoavvenne per la nomina dei podestà, quasi sempre originari del medesimoComune o della Provincia, federali e sindacalisti all’inizio vennero spostatida una Provincia all’altra un po’ come i prefetti, utilizzando le competenzeche avevano acquisito nelle diverse località. Successivamente, prevalse lavolontà «di dare maggiore stabilità di sede ai Prefetti»151 e ai funzionari dipartito per evitare la precarietà dei loro compiti.

Un elemento che giocò a vantaggio dei centri promossi a capoluogo fucertamente quello dell’affermazione del Pnf nel territorio. Al di là delleprovincie delle terre liberate, in quanto l’istituzione rientrava nel

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programma dei governi liberali a cui il fascismo aderì per risarcire queiterritori dall’occupazione straniera, soffermiamo l’attenzione sulleprovincie erette tra il 1923 e il 1927. Il «Foglio d’Ordini» del 14 ottobre1926 rese nota la rete organizzativa del Pnf fino a quel periodo, indicando9.472 Fasci di Combattimento con 937.967 tesserati; 1.185 Gruppifemminili con 53.391 iscritte; 4.390 Avanguardie con 211.189 iscritti;4.058 Gruppi Balilla e Piccole Italiane con 269.166 iscritti152. La tabella n.4 riporta i dati statistici del Pnf nelle nuove provincie153.

La Provincia come fattore di sviluppo territoriale

I prefetti delle nuove provincie dovettero predisporre e attivare contatticon le autorità cittadine e con i privati perché venissero individuati i localiadatti per ospitare tutti gli uffici del decentramento burocratico, finanziario

TABELLA n. 4 - Dati sull'organizzazione del Pnf nelle nuove provincie

FONTE: SANDRO GIULIANI, Le diciannove provincie create dal Duce, Tip. «Popolo d’Italia», Milano 1928.

Provincia Fasci numero Avanguardisti Balilla Piccole Fasci lavoratori(n. sez.) iscritti (n. sez.) (n. sez.) Italiane femmin. sindacalizzati

(n. sez.)

Aosta 120 6.000 3.000 5.000 5.000 1.500Bolzano 160 178 (62) 2.000Brindisi 25 7.000 1.000 1.000 22.000Enna 22 4.712 1.032 3.200 (3) 2.895 312 (6) 7.000Frosinone 94 16.000 1.000 4.053 (3) 1.000 (30+14)Gorizia 36 3.000 1.300 3.000 3.000La Spezia 32 5.900 2.700 3.000 650 500 (15)Matera 32 5.210 1.000 1.200 600 700 (20)Nuoro 10.000Pescara 50 5.600 1.377 (41) 1.200 600 (28)Pistoia 54 5.500 1.500 2.000Ragusa 12 6.700 2.800 2.300 2.070Rieti 120 8.000 1.200(56) 1.243(38) 475(18) 1.120(45) 2.700Savona 172 5.000 20.000Taranto 30 7.000 1.500 2.500 1.200 700Terni 140 5.500 1.200 2.000 1.500 500(15) 11.000Varese 102 9.000 8.000 11.000 4.000 35.000Vercelli 145 8.200 4.000 (500) (8) 70 25.000Viterbo 69 8.000 1.300 1.000 500 (22)

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(Banca d’Italia, Intendenza di finanza), dell’imprenditoria (Camera dicommercio), della scuola, dell’assistenza e del lavoro, delle assicurazioninazionali, della polizia. Ma c’era anche il problema della sistemazione deifunzionari e degli impiegati degli uffici, che agli inizi vennero presi tra coloroche risultavano in soprannumero nelle provincie originarie, ma checomunque dovevano spostarsi da soli o con le loro famiglie. Occorrevamettere in moto una poderosa macchina organizzativa che, nonostante lepromesse di non gravare sul bilancio dello Stato, ebbe un prezzo altissimo.Non mancò di evidenziare questi problemi la «Rivista delle Provincie» nelmarzo 1927, soffermandosi soprattutto sul riassetto delle strade dipertinenza del nuovo ente locale154. Sia pure con le dovute cautele, la«Rivista» aprì un dibattito sul nuovo quadro di decentramentoamministrativo, sostenendo che per creare una Provincia non era sufficienteil «criterio della territorialità senza tener conto del fattore storico» e che peravere un ceto impiegatizio occorreva un nuovo impulso del Pnf e delsindacato per arrivare alla soluzione del problema con comandi e contrattifunzionali155.

Tra l’8 e il 10 dicembre 1926, vale a dire immediatamente dopol’istituzione delle provincie, Mussolini presentò al consiglio dei ministri loschema di decreto che stabiliva la data della cessazione delle amministrazioniordinarie e straordinarie e dell’inizio delle funzioni di podestà e delleConsulte municipali nei capoluoghi di provincia156. La facoltà di stabilire ladata della cessazione delle amministrazioni ordinarie e straordinarie vennedelegata al capo del governo e ministro dell’Interno157. Per quanto riguardai locali per il funzionamento degli uffici provinciali, il governo non avevapredisposto nulla, e quattro mesi dopo si limitò ad emanare un regio decretolegge ad hoc che autorizzava i prefetti a requisire alcuni edifici in caso dipubblica necessità158. Mussolini era stato messo a conoscenza che alcuninuovi capoluoghi mancavano addirittura di edifici di rappresentanza perospitare la sede del palazzo della prefettura e degli altri uffici. Dalladocumentazione d’archivio emerge con evidenza questa difficoltàsoprattutto in quei centri, come Enna, Ragusa, Matera, Nuoro, Pescara, chenon si aspettavano di diventare capoluoghi.

Mentre per la sistemazione e il funzionamento degli uffici pubblici ilgoverno andò incontro alle esigenze dando facoltà ai prefetti di requisire ilocali in base all’urgenza e alla necessità del servizio pubblico, il reperimentodi alloggi per il personale fu cosa più ardua giacché, dove non fu possibileusufruire di alloggi urbani, i prefetti ricorsero al decreto del 4 marzo 1923

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n. 496 che estendeva alle nuove provincie della Venezia Giulia e Tridentinae della Dalmazia il r.d. 7 gennaio 1923, n. 8, contenente disposizioni circale locazioni urbane. Si trattava di norme tese a tutelare maggiormente quantiavevano preso alloggi in affitto, il che non voleva dire automaticadisponibilità di alloggi, che mancavano in alcuni capoluoghi più piccoli,dove lievitarono i prezzi di locazione dando la stura ai contenziosi.Tralasciando un esame completo nelle diverse provincie, se ne citano alcuniverificatisi nei capoluoghi meno dotati di infrastrutture, dove la carenzadelle abitazioni fu maggiormente avvertita. Ad Enna, il prefetto individuòl’ex monastero di San Benedetto come il più adatto per insediarvil’Intendenza di finanza, ma l’edificio, che dal 1893 era stato ceduto alministero della Guerra per farne un magazzino di artiglieria, era stato poirestituito al Comune nel 1920 e da questo destinato alla Congregazione dicarità, perché vi venisse istituito un ricovero per gli inabili del lavoro159.Dalla vertenza si evince che la Congregazione di carità non riconobbeapplicabile la legge del 16 giugno 1927 n. 948 che aveva calmierato i canoniper gli edifici privati in quanto l’ex monastero era da ritenersi un edificopubblico perché gestito da un ente morale. Il prefetto informò la presidenzadel consiglio che si era addivenuti ad una transazione con la Congregazioneche avrebbe affittato una parte soltanto dell’edificio al canone di lire 12.000annue (poi elevato a lire 14.000 per aver concesso agli uffici anche l’orto),ma sempre con l’obbligo di assumersi l’onere della ristrutturazione. Dopoquesto accordo, il prefetto comunicò che la richiesta doveva ritenersi esigua,«tenuto conto del numero degli ambienti, della loro ubicazione» e dei prezzicorrenti in città. In buona sostanza, la Congregazione aveva «ceduto per undoveroso senso di disciplina e per mostrare la migliore disposizione perl’impianto degli uffici pubblici», dopo che egli stesso aveva consigliato gliamministratori a «cooperare»160.

Nella stessa città, un’altra vertenza scaturì dalla necessità di sistemare ilcarcere mandamentale, ubicato nel castello detto «Lombardia», madichiarato monumento nazionale, e per questo motivo la sovrintendenza aimonumenti di Palermo non fu propensa a dare il nulla osta per adattarlo,chiedendo anzi l’immediato sgombero per ripristinarlo161. Sicché il prefetto,vedendosi pressato dalla richiesta della Procura che riteneva prioritaria lasistemazione dei carcerati, individuò nell’ex monastero delle Figlie delpopolo la soluzione migliore. Ma questo apparteneva al ministero dellaGuerra che non volle cederlo in quanto era adibito a magazzino di materialemilitare. Il prefetto dovette intervenire anche per sistemare una sezione del

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Genio civile interessando la presidenza del consiglio in quanto l’ufficio eraritenuto «assolutamente indispensabile per dare un più diretto ed efficaceimpulso ai lavori pubblici che [erano] in corso di attuazione e che [avrebberodovuto] in seguito attuarsi e la cui urgente esecuzione [era] reclamata dallepeculiari condizioni in cui [era] venuta a trovarsi la Provincia stessa»162.

Anche il caso della città di Ragusa, ugualmente carente di infrastrutture,è illuminante di quanto si va dicendo, soprattutto riguardo alle abitazionidegli impiegati. Il prefetto sin dal dicembre 1926 aveva informato il capo delgoverno sulla difficoltà per gli impiegati di trovare un alloggio, per cui chiesel’intervento dello Stato163, ma la situazione non si sbloccava. Con unasuccessiva lettera espose i bisogni immediati della nuova Provincia:

La elevazione di questo Comune a capoluogo di Provincia, ha prodotto una notevolerichiesta di case per l’impianto di uffici pubblici e per le abitazioni di impiegati. Lamancanza assoluta di edifici demaniali ha reso molto difficoltosa la ricerca dei locali peri pubblici uffici; la Prefettura ha fino ai primi dello scorso aprile funzionato in quellidella cessata sottoprefettura presi in fitto dal Comune, e solo ora è stata trasferitanell’unico edificio non perfettamente adatto di privata proprietà concesso dopo lunghetrattative ed a condizioni onerose dal proprietario il quale lo occupava in parte, pochigiorni prima della pubblicazione del r.d.L. 14 aprile 1927 n. 597 col quale è stataautorizzata la requisizione di locali per pubblici uffici nei capoluoghi delle nuoveprovincie164.

La questura dovette essere sistemata nei locali della ex sottoprefettura equindi per un certo periodo operò gomito a gomito con la prefettura e conl’intendenza di finanza per la quale il prefetto entrò «in trattative per laconcessione in affitto di un fabbricato di proprietà di una casa religiosa postaall’estremo dell’abitato e di difficile accesso». Né fu cosa semplice sistemarel’ufficio di leva, l’ufficio metrico, l’Opera nazionale maternità e infanzia,l’Opera nazionale balilla, la Cattedra ambulante di agricoltura, «ecc.,ecc.»165. Se questa era la situazione di partenza, cosa sarebbe avvenutoquando tutto l’impianto amministrativo della nuova Provincia si sarebbecompletato con l’arrivo di impiegati e famiglie? Le case scarseggiavano

perché qui quasi tutte le famiglie occupano case proprie, ma in conseguenza dellarichiesta, che qui non si era mai verificata, e della scarsezza dell’offerta, le pigionirichieste sono esegeratissime, non conciliabili con le modeste risorse degli impiegatirichiedenti.

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Secondo il prefetto, a parte la qualità «molto scadente delle case offerte,i canoni d’affitto erano lievitati come nelle grandi città e si aggiravano osuperavano le 1000 lire annue per vano «considerando per tali anche quelliaccessori». Sicché, molti funzionari della prefettura vivevano in albergo nonavendo e non potendo chiamare le rispettive famiglie.

In questo marasma, egli non trovò altra soluzione che consigliarel’approvazione di un nuovo decreto conforme al n. 597 che «consenta fino al31 dicembre 1927 ai Prefetti delle nuove Provincie di requisire nei capoluoghiper abitazione dei pubblici impiegati, le case disponibili o quella parte di esseche non risulti necessaria al proprietario od al locatario che occupaattualmente». Non che non si rendesse conto della «gravità della proposta» chericordava i disastri tellurici, ma ribadì che la situazione aveva portato uno statodi esasperazione negli impiegati. Il sottosegretario alla Presidenza, GiacomoSuardo, gli fece comunicare che aveva informato per iscritto il ministrodell’Interno e quello della Giustizia166, ma la risposta del primo ministro fu chela proposta era stata esaminata anche durante la redazione del decreto n. 597,ma anche allora risultò impraticabile «perché apparve destituita di giuridicofondamento», giacché la requisizione si giustificava soltanto nell’ipotesi di«immediata ed obbiettiva» necessità, cosa che non era prevista per le abitazionidegli impiegati167. Per il ministro dell’Interno si trattò di un problema cherientrava «nel complesso problema dei fitti; e [andava] risolto, in via generale,con metodi di diverso contenuto economico e giuridico da quello dellerequisizioni». In sostanza, il ministero non volle esorbitare dai canali giuridicisapendo che, se fosse stata applicata la norma delle requisizioni, si sarebbescatenato il malcontento generale. Del resto, come per Enna, anche per Ragusae altre provincie, si moltiplicarono i ricorsi e gli esposti per espropri chevennero effettuati con compensi irrisori168.

Altri problemi di grande rilievo si presentarono a Matera, a Nuoro e aPescara, ma lo spazio non consente un esame anche parziale di essi. A frontedi queste urgenze, nei nuovi capoluoghi vennero effettuati investimenti perportare a termine le necessarie opere pubbliche che diedero lavoro a unanutrita manodopera, mettendo in moto un’economia che fino allora erastata stagnante. Cominciarono a pervenire nei capoluoghi i contributi delgoverno per la scelta delle aree per la costruzione dei primi edifici pubblicie per le case degli impiegati, come testimonia un documento del prefetto diEnna, mentre al duce vennero tributati i riconoscimenti di un consenso chein quei territori sarebbe durato a lungo169. Non è semplice effettuare uncalcolo di quanto venne a pesare nella bilancia dei pagamenti questo

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immenso cantiere pubblico; solo una serie di ricerche locali potrebbedocumentarlo. Sulla Provincia di Matera è stato scritto:

Ad accrescere il successo del Fascismo in Lucania contribuì l’elevazione a rango dicapoluogo della città di Matera nel 1927. [...] La città si abbellì di nuove opere (laCamera di Commercio, il Palazzo della Prefettura, la Banca d’Italia, la sede del Bancodi Napoli), riaffermando spesso lo stile ‘novecento’ dei primi anni del secolo. Nel 1928,due tre anni prima delle realizzazioni citate, fu costruita la sede dell’Amministrazioneprovinciale. Nel 1926 la città di Matera ebbe l’acqua con allacciamento all’acquedottopugliese, il Monumento ai Caduti e l’anno dopo fu inaugurato, alla presenza diVittorio Emanuele III, l’ospedale civile170.

Sebbene gli abitanti dei sassi nella città vecchia non cambiassero le loroabitudini di vita nell’immediato, in connessione con la creazione della nuovaProvincia iniziò un periodo di lavori edilizi che frenò, in parte, l’emigrazioneverso le Americhe giacché «almeno diecimila operai trovarono, se non tuttol’anno, lavoro nei grandi cantieri edilizi che costruivano strade, ponti, nuovipalazzi, acquedotti. [...] Matera fece passi da gigante in quel periodo. IlGoverno la dotò di tutti i servizi che un capoluogo di Provincia deve avere»171.Un altro tema non superfluo riguarderebbe i casi di impresari e professionistiche trassero alti guadagni da quest’immenso cantiere, ma anche in questoversante soltanto ricerche particolareggiate sulle nuove provincie potrebberodare un quadro completo di quanto qui si ipotizza172. Fenomeni diclientelismo e di conflitto di interessi, o di speculazione, non mancarono, masostanzialmente la popolazione vide crescere le proprie città, le videammodernare e rese più belle e vivibili. Crebbero i commerci e le attivitàeconomiche e industriali, per cui si può affermare che l’elevazione a capoluogodi provincia divenne motivo di sviluppo. Questa ripresa si verificò ovunquee, sebbene una parte delle innovazioni venisse finanziata dai cittadini sottoforma di tasse varie che aumentarono173, la costituzione di nuove provincieconfermò l’opinione popolare e degli amministratori pubblici che fosseun’occasione per il salto di qualità della vita economica e sociale del territorio.Tra le spese più alte che le provincie dovettero affrontare ci fu quella dellamanutenzione delle strade provinciali, ma ciò sarebbe stato possibilegarantendo alle amministrazioni un maggiore gettito fiscale174.

La richiesta di poter contare su un’entrata più consistente fu unalamentela pressoché costante nella vita degli enti locali175. È un fatto che lacomparazione di alcuni descrittori (demografici, occupazionali, del reddito,dei salari, del numero delle industrie, ecc.) tra il 1927 e gli anni successivi,

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conferma che le città capoluogo registrarono un salto di qualità inconnessione e a partire dalla loro promozione. Per avere un’idea del denaroche circolava nelle città capoluogo per la presenza di uffici amministrativi,giudiziari e caserme, si pensi che le spese di mantenimento degli uffici diprefettura, e di alcuni uffici connessi (alloggi dei prefetti, affitto delleprefetture, caserma carabinieri, ecc.), complessivamente in Italia erano statecalcolate in svariati milioni176. Nei capoluoghi si concentrarono iniziativecommerciali, industriali e artigiane, e aumentò notevolmente il personaleamministrativo sia pubblico che privato e quello dei servizi (scuola, sanità,libere professioni, impiegati nel settore creditizio e assicurativo). Il settoreedile fu tra i più dinamici: oltre alla costruzione di edifici pubblici, ledomande di case in affitto o in vendita misero in moto l’intero settore cheassunse il ruolo trainante della nuova economia locale: lievitarono gli affittie i prezzi delle aree fabbricabili, mentre gli squilibri tra le provincie del Norde quelle del Sud (non solo in termini economici o di infrastrutture, ma anchedi cultura e alfabetizzazione) si ridussero in maniera irrisoria. Per tutti sipotrebbe citare il caso di Pescara che nei decenni posteriori alla suapromozione è assurta a città dotata di grandi infrastrutture (porto turistico,università, aeroporto) e in continua crescita demografica.

Note al testo1 Crf. il saggio introduttivo del curatore al volume Il fascismo e le autonomie locali, a cura di S.Fontana, Il Mulino, Bologna 1973, p. 10.

2 E. ROTELLI, Costituzione e amministrazione dell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 1981, p. 214.L’autore giustifica l’affermazione in riferimento alla «prima riforma fascista della leggecomunale e provinciale» (decreto del 30 dicembre 1923, n. 2.839) che non effettuò «modifichesignificative» rispetto al T.U. del 1915. Cfr. ID., Le trasformazioni dell’ordinamento comunalee provinciale durante il regime fascista, in L’alternativa delle autonomie istituzionali locali etendenze politiche dell’Italia moderna, Feltrinelli, Milano 1978, p. 177.

3 Fu composta da 600 membri con il decreto 30 giugno 1918. Cfr. G. DE CESARE,L’ordinamento comunale e provinciale in Italia dal 1816 al 1942, Giuffrè, Milano 1977, p. 643.

4 Ivi, p. 55. Sulla commissione cfr. inoltre A. AQUARONE, L’organizzazione dello Statototalitario, Einaudi, Torino 1978, I, p. 6.

5 Commissione parlamentare d’inchiesta, cit. nel testo, vol. I, La provincia e il comune, p. 135.

6 Ibidem, p. 137.

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7 Ibidem.

8 P. POMBENI, Autorità sociale e potere politico nell’Italia contemporanea, Marsilio, Venezia1993, p. 35.

9 Ivi, p. 36. Cfr. anche GUIDO MELIS, Storia dell’amministrazione italiana: 1861-1993, IlMulino, Bologna 1996, pp. 284-294. Per un quadro europeo, cfr. S. F. ROMANO, Breve storiadella burocrazia dall’antichità all’età contemporanea, Cappelli, Firenze 1965.

10 O. ZUCCARINI, Le sorti della riforma burocratica, in «La critica politica», a. II, fasc. 3, 25 marzo1922, p. 139. Né va dimenticato il fatto che Giolitti, provenendo dalla burocrazia nella qualefece tutta la sua carriera, mantenne stretti legami con essa. Cfr. G. ANSALDO, Giovanni Giolitti,il ministro della buona vita, Casa ed. Le lettere, Firenze 2002.

11 Cfr. U. CHIARAMONTE, Il dibattito sulle autonomie nella storia d’Italia: 1796-1996. UnitàFederalismo Regionalismo Decentramento, F. Angeli, Milano 1998.

12 Il richiamo obbligato sul regionalismo è a Luigi Sturzo (La regione nella nazione, Capriotti,Roma 1949) e al programma del Ppi, ma anche agli «amici della Critica politica» di Zuccarini.Cfr. P. DRAGHI, A proposito di autonomia regionale, in «La critica politica», fasc. 6, 25 giugno1922, pp. 240-256; G. CROCINI, Preparazione culturale all’autonomia regionale, ivi, fasc. 7-8,25 agosto 1922, pp. 307-309. Per un approfondimento della questione, R. RUFFILLI, Laquestione regionale dall’unificazione alla dittatura (1862-1942), Il Mulino, Bologna 1971.

13 Il testo completo del Programma del Pnf (1921) in R. DE FELICE, Mussolini il fascista. Laconquista del potere 1921-1925, Appendice 5, Einaudi, Torino 1966, pp. 756-763.

14 Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, tornata 21 giugno 1921, ora anche in B.MUSSOLINI, Scritti politici, a cura di E. Santarelli, Feltrinelli, Milano 1979, pp.200-06; la cit.a p. 202.

15 Cfr. E. GENTILE, Le origini dell’ideologia fascista, Laterza, Bari 1975; ID, Il culto del littorio,Laterza, Roma-Bari 2001; D. SETTEMBRINI, Fascismo Controrivoluzione imperfetta, Sansoni,Firenze 1978.

16 M. GOVI, Punti fondamentali per il riordinamento dello Stato, in «Gerarchia», a. II, 1923, pp.694-707; la cit. a p. 694.

17 In particolare i Consigli regionali dell’Economia pubblica e le Amministrazioni regionalidell’Economia pubblica, sotto il controllo di un Consiglio superiore dell’economia pubblica,come organo supremo di coordinamento.

18 Cfr. P. L. CATTANEO, Riformare con metodo, in «Gerarchia», a. II, 1923, pp. 965-68. Sulla«Carta del Carnaro», (del 1920) cfr. il testo in G. D’ANNUNZIO, Scritti politici, a cura di P.Alatri, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 224-243. In essa vi erano riconosciuti tutti i dirittifondamentali, come la libertà individuale, di stampa, di riunione, e «per tutti i Comuni l’antico‘potere normativo’ che è diritto di autonomia pieno: il diritto di darsi proprie leggi».

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19 E. ROTELLI, Le trasformazioni dell’ordinamento comunale e provinciale durante il regimefascista, in Il fascismo e le autonomie locali cit. pp. 73-155.

20 La definizione è di G. MELIS, Storia dell’ amministrazione italiana cit., p. 331, secondo il qualesi sarebbe trattato di «una stagione di grande fertilità normativa, favorita certo dal trasferimentodella funzione legislativa all’esecutivo, ma che si avvalse anche di una competenza tecnicagiuridica dell’amministrazione ancora di elevato livello». Sugli interventi legislativi, si rinvia aCAMERA DEI DEPUTATI, Legislatura XXVII, La legislazione fascista (1922-1928). Appendice,Segretariato Generale. Direzione del resoconto e degli studi legislativi, Roma 1927.

21 Ciò avvenne con la legge n. 1.601 del 3 dicembre 1922 che diede al governo la delega legislativa(a suo tempo concessa a Bonomi e Facta) sulla riorganizzazione amministrativa con l’impegno diriferire entro il marzo 1924 dell’uso fattone. Cfr. P. CALANDRA, Parlamento e Amministrazione,Milano 1971; G. DE CESARE, L’ordinamento comunale e provinciale cit., pp. 661 ss.

22 A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario cit., p. 5.

23 La citazione è presa dalla relazione che accompagnava il r.d. 30 dicembre 1923 n. 2.839 dellariforma. Cfr. anche F. TONELLI, Gli enti locali nello Stato fascista, in «Gerarchia», a.III, 1924,p. 415-16. La nuova legge comunale e provinciale è la n. 2.839 del 30 dicembre 1923.

24 Atti Parlamentari, Documenti, Legislatura XXVI, II, pp. 84 ss.

25 Fra i quali, il Tonelli, citato sopra, che lamentò la poca incisività dell’innovazione circa lecompetenze della giunta e del Consiglio comunale. Ma la critica era rivolta in funzione di unaproposta peggiorativa della legge giacché l’autore avrebbe visto come innovativa la soppressionedel Consiglio comunale.

26 Cfr. «Rivista amministrativa del Regno», Giornale ufficiale delle Amministrazioni centrali eprovinciali dei Comuni e degli istituti di beneficenza, a. LXXIX, 1928, «Atti del Governo», p. 41.Non che lo scioglimento dei consigli non venisse praticato nel periodo giolittiano e anche dopo(cfr. U. CHIARAMONTE, Piombino 1912: lo scioglimento di un Comune socialista nel periodogiolittiano, in «Città & Regione», a. 9, n. 6, 1983, pp. 141-177), ma con il fascismo il fenomenosi accentuò in modo repressivo. Nel 1923 i consigli comunali sciolti furono 561 e 10 i consigliprovinciali, nel 1924 furono rispettivamente 278 e 10. Cfr. A. AQUARONE, L’organizzazione delloStato totalitario cit., I, pp. 35-36.

27 LIPPARA, Per la ricostruzione dei Comuni soppressi dal fascismo, in «Battaglia Socialista», Roma,15 dicembre 1946.

28 Cfr. il r.d.l. 17 marzo 1927, n. 383. Con la circolare n. 15.300 del 10 febbraio 1927,sostenendo la tesi che la vita delle piccole realtà amministrative ostacolava lo sviluppo socio-economico a causa delle ridottissime risorse finanziarie che non consentivano «ilraggiungimento dei fini di pubblico interesse», il fascismo ritenne necessaria «una soluzioneradicale del problema» adottando criteri che miravano a «creare organismi più robusti, siamediante il raggruppamento in un unico ente di piccole unità preesistenti, sia mediantel’aggregazione di tali piccole unità a limitrofi centri di notevole importanza demografica».

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29 B. MUSSOLINI, Il Discorso dell’Ascensione, in Scritti e discorsi dal 1927 al 1928, Hoepli, Milano1934, p. 50. Nel lungo discorso, tenuto il giorno della festa dell’Ascensione, il duce espose «inuna sintesi vastissima e completa», (secondo il curatore), «le idee forza della politica fascista» intre punti: la situazione nazionale riguardo anche alla salute fisica e della razza del popoloitaliano, l’esame dell’assetto amministrativo, le direttive politiche e generali attuali e future. Iltema dei piccoli comuni è tornato alla ribalta recentemente con una proposta di legge tesa atutelare i centri fino a 5.000 abitanti, che ha trovato attenzione anche al di fuori dell’Italia. Cfr.A.C., Piccoli Comuni d’Europa, uniamoci, in «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», n.17, 24 aprile 2003, p. 67. Con la repubblica italiana si ripristinarono molte comunità soppressein quanto richiesero di riprendere le antiche denominazioni e autonomie. Cfr. LIPPARA, Perla ricostruzione dei Comuni soppressi cit. Volendo fare una comparazione con la Francia, Paesea cui Mussolini era legato culturalmente, si può dire che fino alla riforma di De Gaulle (1958)esistevano oltre 38.000 comuni, mentre oggi ce ne sono 36.394, dei quali 32.500 con meno di2.000 abitanti. Cfr. N. CAMPINOTI, La legislazione comunale in Francia e in Italia. Analisicomparata dei due ordinamenti, Noccioli, Firenze 1984, pp. 23-41.

30 Con ordinanza del Capo di Stato Maggiore Armando Diaz, il 19 novembre 1918 venneronominati governatori militari il generale Guglielmo Pecori Giraldi per il Trentino, l’Alto Adigee l’Ampezzano; il generale Carlo Petitti di Roreto per la Venezia Giulia; l’ammiraglio EnricoMillo per la Dalmazia e le isole annesse.

31 In un primo momento furono nominati commissari straordinari in Trentino e Alto Adige ideputati A. Ciuffelli, poi Antonio Mosconi, e L. Credaro; più a lungo restò in Dalmazia ilgovernatore militare con la motivazione di mantenere l’ordine pubblico, ma poil’amministrazione civile fu estesa anche a questo territorio.

32 Per il testo del decreto, cfr. G. U. n. 60 del 7 luglio 1919. La provvisorietà dell’Ufficio eradovuta all’attesa della firma del trattato di Saint Germain - en - Laye (avvenuta il 10 settembre1919) e quello di Rapallo (del 12 novembre 1920) che assegnò all’Italia i territori della VeneziaTridentina, la Venezia Giulia e parte della Dalmazia relativamente a Zara e al suo territorio,assicurandogli confini «strategici» ai quali l’Italia aspirava da tempo.

33 E. TOLOMEI, Trentino e Alto Adige Provincia unica, Parigi 1919. Sulle autonomie in Trentino-AltoAdige cfr. BICE RIZZI, La Venezia Tridentina nel periodo armistiziale, Trento 1963; V. CALÌ, Il casoTrentino, in L’autonomia e l’amministrazione locale nell’area alpina, a cura di P. Schiera, R. Gubert, E.Balboni, Jaca Book, Milano 1988, pp. 105- 115; M. COSSETTO, L’Alto Adige, ivi, pp. 117- 128.

34 Il riferimento citato è ad un testo del 1922, riportato da G. NEGRI, L’autonomismo nell’AltoAdige, in Il fascismo e le autonomie locali cit., pp. 205-231; la cit. alle pp. 206-7.

35 E. TOLOMEI, Le due provincie: Trento e Bolzano, in «Archivio per l’Alto Adige», annata XXII, 1927,pp. 193-218. Egli utilizzò il motto «Trento e Bolzano città sorelle», dando ai trentini la responsabilitàdi non essersi aperti a questo scambio perché non riuscirono a dimenticare «i torti subiti» (p. 198).

36 G. NEGRI, L’autonomismo nell’Alto Adige cit., pp. 207-08.

37 Citato da M. COSSETTO, L’Alto Adige cit., p. 124.

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38 A. AGNELLI, Gli autonomisti giuliani e l’avvento del fascismo, in Il fascismo e le autonomie localicit., pp. 171-203; cfr. anche D. MOSCARDA TORBIANELLI - F. DIMORA MORWAY, Il FriuliVenezia Giulia, in L’autonomia e l’amministrazione locale nell’area alpina cit., pp. 129-148.

39 Nel censimento del 1921 la Venezia Giulia risultava divisa in nove distretti: Gorizia, con 78.389ettari di superficie, 47 comuni e 99.348 abitanti; Gradisca, con 18.695 ettari di superficie, 20comuni e 34.041 abitanti; Monfalcone, con 43.357 ettari di superficie, 25 comuni e 59.050abitanti; Sesana, con 47.195 ettari, 30 comuni e 29.609 abitanti; Tolmino, con 106.946 ettari,24 comuni e 40.444 abitanti; Carinzia e Corniola (comprendente Idria, Postumia e Tarvisio),con 163.753 ettari, 54 comuni e 67.688 abitanti; Trieste, con 9.589 ettari e 239.627 abitanti.L’Istria comprendeva i distretti di Capodistria (12 comuni), Lussino (4 ), Parenzo (11), Pisino(6), Pola (7) e Valosca-Abbazia (8) per complessivi 443.693 ettari di superficie e 351.546 abitanti;Zara e le isole dalmate comprendevano 2 comuni con 11.001 etttari e 18.255 abitanti.

40 Cfr. F. SALATA, Per le nuove provincie e per l’Italia. Discorsi e scritti con note e documenti,Stabilimento Tip. per l’Amministrazione della guerra, Roma 1922. Il libro uscì quando Salatafu nominato da Facta liquidatore dell’Ufficio, poco prima della marcia su Roma. Il r.d. n. 1.353del 17 ottobre 1922 venne pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’8 novembre 1922 con lafirma di Mussolini, divenendo il suo primo atto pubblico da presidente del consiglio.

41 F. SALATA, Per le nuove provincie cit., p. 45.

42 A. AGNELLI, Gli autonomisti giuliani cit., p. 187.

43 Giolitti disse che «il potere legislativo delle Diete provinciali [sono] la base delle autonomie che la leggesulle annessioni vuole trasmettere integre alla futura sistemazione definitiva degli ordinamenti dellenuove provincie», ibidem, p. 47, ripreso dal decreto del 31 agosto 1921. Il governo Bonomi, che seguìquello di Giolitti, riconobbe nel novembre 1921 le antiche Diete provinciali e le giunte provincialistraordinarie di Trieste, Gorizia, Parenzo e Zara. Per la costituzione delle giunte provvisoriestraordinarie, cfr. d.l. n. 1.269 del 31 agosto per l’Istria; d.l. n. 1.746 del 19 novembre per Trento,Gorizia e Zara. Per questi provvedimenti legislativi, cfr. F. SALATA, Per le nuove provincie cit.

44 F. SALATA, Il nuovo governo e le nuove Provincie, Estratto da «Le Nuove Provincie», fascicoloIII, dicembre 1922. Sull’attività della commissione, Salata nel discorso del 7 giugno 1922 riferìche dal 1918 al 1922 erano stati adottati 300 provvedimenti di contenuto legislativo, 5 leggi,57 d.l., 189 tra regi decreti e decreti luogotenenziali, e 30 decreti ministeriali. ID, Per le nuoveprovincie cit., pp. 21-80.

45 F. SALATA, Il nuovo governo cit., p. 14.

46 Nel censimento del 1921, la circoscrizione era formata dai circondari di Udine (92 comuni),Cividale del Friuli (22 comuni), Pordenone (30 comuni) e Tolmezzo (35 comuni). Incomplesso, se prima aveva 657.014 ettari di superficie e 179 comuni che si stendevano dal mareAdriatico alle Alpi, con 451.710 abitanti, con il territorio di Gorizia si aggiungevano altri 47comuni con una superficie di 78.389 ettari e circa 100.000 abitanti.

47 Il r.d. n. 759 dell’8 marzo 1923 sancì lo scioglimento del Consiglio provinciale di Udine,affidando l’amministrazione delle unificate due provincie ad una commissione straordinaria.

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Per avere un’idea dello stravolgimento dell’intera operazione, basti pensare che i tre circondaridi Gorizia, Gradisca e Tolmino erano formati da 149 comuni. La relazione che accompagnavail decreto argomentava che «la mutata situazione politica e amministrativa della Provinciarichiedeva un periodo piuttosto lungo dell’amministrazione straordinaria» ai fini di un equofunzionamento del nuovo ente. In deroga alla legge comunale e provinciale e in virtù della l. n.1.601 del 3 dicembre 1922 il ministro dell’Interno propose al re una commissione di sei membriassegnando poteri maggiori che l’eccezionalità del caso richiedeva.

48 Stranamente nella premessa del decreto di istituzione delle nuove provincie è detto «Sentitala commissione consultiva centrale per la sistemazione amministrativa delle nuove Provincie»,mentre in realtà non se ne tenne conto.

49 Dal decreto istitutivo n. 93 (in G.U. n. 24 del 30 gennaio 1923) risultano i seguenti circondarie comuni: Rovereto con Ala, Mori, Villa Lagarina; Riva con Arco, Pieve di Ledro; Trento conCembra, Civezzano, Lavis, Pergine, Vezzano, Mezzolombardo, Andalo, Cavedago, Fai Grumo,Mezzocorona, Molveno, Nave S. Rocco, Roverè della Luna, Spormaggiore e Zambana; Tionecon Condino e Stenico; Cles con Fondo, Malè, Campodenno, Dardine, Denno, Dercolo,Lover, Masi di Vigo, Mollaro, Priò, Quetta, Segno, Sporminore, Termon, Torra, Toss,Tuenetro, Vervò, Vigo e Vion; Cavalese con Fassa, Egna, Termeno; Merano con Lana, Passiria,Glorenza e Silandro; Bressanone con Vipiteno, Brunico, Marebbe, Monguelfo, Tures; Bolzanocon Caldaro, Chiusa, Sarentino e Castelrotto.

50 Cfr. A. AGNELLI, Gli autonomisti giuliani cit. p. 188 che riporta i telegrammi di Mussolinial sindaco di Pola: «Sono sicuro che senza proteste che non sarebbero assolutamente tollerateaccetterete delibera Governo»; e al sindaco di Gorizia al quale cercò di indorare la pillolapromettendo che «in un secondo tempo, quando l’opera di assimilazione degli elementi allogenisia bene avviata, Gorizia possa essere elevata a Provincia».

51 Il r.d. n. 2.013 del 24 settembre 1923 sancì questa complessa operazione prevista dadisposizioni del Codice civile relative agli atti di stato civile, le disposizioni del Codice diprocedura civile e le varie leggi concernenti lo stato civile.

52 Per quanto riguarda le nuove provincie si potrebbe rilevare una certa parcellizzazione che sievidenziò nell’inserimento di Trento nella IX Divisione militare all’interno della III Armatadi Verona, mentre il distretto giudiziario di Monguelfo, della medesima Provincia di Trento,venne inserito, con i territori della Provincia di Belluno e della «Provincia del Friuli», nella XIIDivisione militare di Treviso facente parte della IV Armata di stanza a Bologna; nella V Armatadi Trieste furono inserite la XIII Divisione di Trieste, la XIV di Gorizia e la XV di Pola.

53 M. COSSETTO, L’Alto Adige cit., p. 125.

54 Da Trento dipendevano i due capoluoghi di circolo Trento e Bolzano con i tribunali di Trentoe Rovereto nel circolo di Trento, e di Bolzano in quello omonimo; da Trieste dipendevano ilcapoluogo di circolo Trieste con tribunali a Trieste e Gorizia, e il capoluogo di circolo a Pola contribunali a Pola, Capodistria e Zara. Corti straordinarie erano state istituite a Gorizia e Capodistria.

55 NOI, nella rubrica «Note e Commenti», in «La critica politica», a. III, fasc. 1, 25 gennaio1923, p. 50.

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56 Riportato in «La critica politica», fasc. 2, febbraio 1923.

57 GABRIELE AMENDOLA, La Provincia e l’Amministrazione provinciale, Atheaeum, Roma 1914,p. 37. Secondo l’autore «La Provincia non può essere toccata se non in quanto nuovi elementieconomici siano sopraggiunti a modificare le relazioni radicate fra le parti del suo territorio ei territori vicini, o ne sia stata di già alterata la tradizionale costituzione con aggregamenti odisaggregamenti forzati e contrari ai locali interessi» (p. 38).

58 Mentre nel 1911, avevano una popolazione di 170.280 unità, nel censimento del 1921avevano registrato un incremento demografico del 15,1 per cento aumentando la popolazionedi oltre 25.000 unità.

59 Atti del Congresso per il riordinamento amministrativo della Lunigiana promosso dal Comunedella Spezia, Tip. Moderna, La Spezia 1914, che trovasi in ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO(ACS), Ministero dell’Interno. Amministrazione civile: Comuni (1923-35), busta 2.012.

60 Per la ricostruzione delle provincie create dal fascismo, oltre che di fonti d’archivio e digiornali locali, si terranno presenti gli articoli pubblicati su «Il Popolo d’Italia» dall’inviatoSandro Giuliani nel periodo che va dal gennaio 1927 all’estate 1928. Gli articoli furono poiraccolti in volume con il titolo Le diciannove provincie create dal Duce, Tip. «Popolo d’Italia»,Milano 1928. Fu dedicato al direttore del giornale, e fratello del duce, Arnaldo Mussolini; ilcapo del governo scrisse una Introduzione autografa (Roma, 28 febbraio 1928).

61 MANFREDO GIULIANI, Memoria al Governo Nazionale per l’aggregazione del Circondario diPontremoli alla Provincia della Spezia, Stabilimento tip. C. Cavanna, Pontremoli 1924, inACS, M. I., Amm. Civile, b. 2.012. Nonostante l’auspicato legame con La Spezia, il Giulianinon trascurò di criticare la caratteristica dello sviluppo del capoluogo osservando che sarebbedivenuta una grande città soltanto se avesse avuto alle spalle un vasto territorio, consentendol’insediamento di attività produttive che avrebbero dovuto invertire il progresso di «cittàimprovvisata, ancora troppo ‘arsenalotta’, cioè troppo passiva e statolatra. Il suo sviluppo nonsi è prodotto per iniziativa della sua popolazione, che lentamente, [ha] costruito i suoi idealie la sua fortuna, [che invece] le è venuta dalle molteplici possibilità date dalla sua passione,da un intervento dello Stato che ha improvvisamente creato uno sviluppo demografico edeconomico estraneo non solo alle iniziative cittadine, ma in contrasto con forti resistenzemisoneistiche» (p. 11).

62 Alcune carte riproducono lo schema seguente che dimostra quanto si è detto circal’artificiosità della circoscrizione:1. Prov. di Massa Carrara:a) Circ. di Castelnuovo Garfagnana: n. 17 comuni, pop. residente 46.523 (di fatto 42.917);b) Circ. di Massa Carrara: n. 13 comuni, pop. residente 145.698 (di fatto142.459);c) Circ. di Pontremoli: n. 6 comuni, pop. residente 43.625 (di fatto 40.568);2. Dopo l’istituzione della Prov. di Spezia:a) Portati a Spezia n. 2 comuni (Calice e Rocchetta) per totale 4.886 abitanti (residenti 4.517)A Massa restavano comuni per 230.960 abitanti.3. Dopo la separazione della Garfagnana (17 comuni e 46.523 abitanti)A Massa restavano 17 comuni per 184.437 abitanti.

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4. Se si fosse intaccato il Circondario di Pontremoli (6 comuni e 43.625 abitanti) a Massasarebbero rimasti 11 comuni e 140.812 abitanti.

63 ACS, M.I., Amm. Civile, b. 2.012.

64 «Il Lavoro», 23 agosto 1923.

65 La Lunigiana e la Provincia di Spezia, in «La critica politica», a.III, fasc. 8-9, agosto-settembre1923, p. 399.

66 Relazione al r.d. 2 settembre 1923, n. 1.913.

67 Fu istituita con r.d. 2 settembre 1923, n. 1.913.

68 Mentre nel censimento del 1911 tutto il circondario contava 219.254 abitanti, in quello del1921 aveva avuto un incremento del 25,4 per cento portando la popolazione a 274.907 unità.L’apparato industriale si era esteso a settori produttivi diversificati: il cantiere navale FrancoTosi che si stendeva su un’area di 200.000 mq di superficie; la fabbrica di birra e ghiaccio Raffo& C., ritenuta la più grande del Meridione con i suoi 12-15 mila ettolitri di produzione annua;le fabbriche di materiali da costruzione, gli oleifici, la Soc. Ceramica Tarantina, lo StabilimentoMontecatini per concimi chimici, le Officine Meccaniche Jonio, La metallurgica eL’Anconetana. Il settore agricolo era in espansione, al punto che il fascismo sostenne che nelterritorio si era realizzata «la rivoluzione agraria del Salento», con i 19.000 ettari di bosco e conle prospettive accresciute dopo la lotta alla malaria e la bonifica della Stornara, dovutaall’Associazione Nazionale Combattenti.

69 ACS, M.I. Amm. Civile, b. 2.012, Odg manoscritto del comitato formato da tutte leorganizzazioni politiche, commerciali e industriali di Taranto, datato 9 marzo 1923.

70 Ivi, la lettera dattiloscritta al Presidente del consiglio, non riporta la data.

71 Ivi, odg della seduta del 13 marzo 1923.

72 Ivi. Si riporta come esempio il telegramma del 21 agosto 1923 dei 23 fasci di Matera, ma anchequello del 24 marzo 1923 di un deputato lucano che chiese al sottosegretario all’Interno Aldo Finzidi non aggregare a Taranto il Comune di Montescaglioso, in Provincia di Potenza, giacché nonaveva nulla che poteva congiungerlo ad essa. Stessa contrarietà manifestò il presidente del consiglioprovinciale di Bari perché Logorotondo non venisse aggregato a Taranto, e in questo caso ci fula risposta del capo di Gabinetto dell’on. Finzi con cui fu tranquillizzato.

73 Ivi, lettera del prefetto di Potenza al presidente del Consiglio dei ministri, 26 agosto 1923.Per fare breccia maggiore, il prefetto informò che il giornale nittiano «La Basilicata», attaccavacon spirito sarcastico il progettato distacco di una parte di questa Provincia.

74G. INZERILLO, Natura e compiti del Provveditore agli Studi, La Nuova Italia, Firenze 1980,pp.12-13. I provveditorati vennero ricostituiti dal ministro della P.I. De Vecchi a partire dal1° luglio 1936 (r.d. l. 9 marzo 1936, n. 400).

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75 La Regione scolastica, in «La critica politica», a. III, fasc. 2, 25 febbraio 1923, p. 98.

76 Il 5 febbraio 1923 il Consiglio dei ministri aveva soppresso anche il Consiglio scolasticoprovinciale e la Deputazione scolastica. Al criterio di snellire la burocrazia apparteneva ilprovvedimento coevo di ridurre il numero degli ispettori delle scuole superiori da 37 a 3 e quellodegli ispettori scolastici delle elementari da 400 a 50.

77 Con r.d. 4 marzo 1923, n. 545. «La critica politica» criticò questa soluzione sostenendo chela Sabina era legata da tradizioni storiche a Rieti e non a Roma. Cfr. a.III, fasc. 10, 25 ottobre1923, pp. 446-7; e un articolo dell’on. Nicoletti sul «Mondo», 19 settembre 1923.

78 Con r.d. 4 marzo 1923, n. 544.

79 Con r.d. 8 luglio 1923, n. 1.726.

80 Con r.d. 8 luglio 1923, n. 1.727.

81 Con r.d. 24 settembre 1923, n. 2.076.

82 Con r.d. 9 novembre 1923, n. 2.490.

83 Con r.d. 30 dicembre 1923, n. 3.169.

84 Si trattò di Bibbona, Campiglia Marittima, Castagneto Carducci, Cecina, Collesalvetti,Piombino, Rosignano, Sassetta e Suvereto.

85 Per avere un’idea delle ripercussioni si pensi che persino il sindaco di Santa Croce minacciòuna marcia su Roma di fascisti e della popolazione. Cfr. V. BARTOLONI, Via Cecafoglia. Sindacie podestà a S. Croce sull’Arno, Ponte a Egola 1995, p. 49. Venne definita dal presidente dellaProvincia di Pisa una decisione «esaminata e discussa in alto loco». Cfr. PROVINCIA DI PISA, Unsessennio di amministrazione fascista, Pisa 1928, p. 55, citato da A. POLSI, Il profilo istituzionale(1865-1944), in La Provincia di Pisa (1865-1990), a cura di E. Fasano Guarini, Il Mulino,Bologna 2004, p. 150.

86 Va aggiunto che Livorno versò alla Provincia di Pisa la somma di 5 milioni di lire comeindennizzo della cessione per ripagarla degli investimenti effettuati nei nuovi comuni in lavoripubblici (1° ottobre 1929). Cit. da A. POLSI, Il profilo istituzionale cit., p. 162.

87 Con r.d.l. 28 ottobre 1925, n. 1.949. A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitariocit., I, pp. 83-84.

88 Venne insediato il senatore Filippo Cremonesi, che era stato commissario della capitale neitre anni precedenti. Cfr. «Corriere della sera», 1° gennaio 1926.

89 LIPPARA, Per la ricostruzione dei Comuni cit.

90 Cfr. «Rivista delle Provincie», Bollettino dell’Upi, Sezione della Confederazione Naz. EntiAutarchici, a. XIX, fasc. I, gennaio 1926.

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91 «Critica fascista», a. V, n. 14 del 15 luglio 1927 parlò di tre fasi del fascismo: la prima (1919-22) di «preparazione e insurrezione»; la seconda (dal 1923 al I semestre 1926) di «lottacostituzionale»; e la terza di «restaurazione e rinnovazione dello Stato» (pp. 261-63).

92 ACS, Verbali del Consiglio dei ministri, seduta del 1° gennaio 1926, p. 149 bis.

93 ACS, Verbali del Consiglio dei ministri, seduta del 26 agosto 1926, pp. 210 ss.

94 Le 95 sottoprefetture soppresse furono: Acqui, Casale Monferrato, Novi Ligure, Tortona;Città Ducale, Sulmona, Fermo, Ariano, S. Angelo dei Lombardi, Altamura, Feltre, Cerreto, S.Bartolomeo in Galdo, Clusone, Treviglio, Imola, Vergato, Chieri, Salò, Verolanuova, Isernia,Larino, Nola, Piedimonte d’Alife, Acireale, Lanciano, Vasto, Lecco, Varese, Casalmaggiore,Crema, Alba Mondovì, Saluzzo, Cento, Comacchio, Bormio, S. Severo, Cesena, Rimini, RoccaS. Casciano, Albenga, Chiavari, Gallipoli, Castelnuovo Garfagnana, Cemerino, Pontremoli,Abbiategrasso, Gallarate, Lodi, Monza, Mirandola, Pavullo, Casoria, Castellammare, Pozzuoli,Biella, Domodossola, Pallanza, Varallo, Vercelli, Termini Imerese, Borgo S. Donnino,Borgotaro, Mortara, Voghera, Urbino, S. Remo, Faenza, Lugo, Guastalla, Velletri, Adria,Campagna, Vallo della Lucania, Montepulciano, Penne, Ivrea, Pinerolo, Susa, Mazara delVallo, Cividale, Gradisca, Pordenone, Tolmezzo, Chioggia, Asiago, Cles, Riva, Rovereto,Tione, Monfalcone, Sesana, Valasca e Abbazia. A distanza di anni si può osservare come novedi queste città in seguito sono state elevate a capoluogo di Provincia.

95 ACS, Verbali del Consiglio dei ministri, seduta del 26 agosto 1926, cit.

96 3 agosto 1926, dove è riportato l’elenco completo delle sottoprefetture soppresse.

97 ACS, Verbali del Consiglio dei ministri, seduta del 2 ottobre 1926, p. 230 bis. Lesottoprefetture di Monfalcone e Sesana erano state soppresse con r.d. 18 gennaio 1923, n. 53.

98 Si trattava dei circondari di Cles, con 97 comuni e 60.034 abitanti; Tione, con 66 comunie 43.095 abitanti; Rovereto, con 37 comuni e 69.741 abitanti; e Riva di Trento, con 22 comunie 29.593 abitanti.

99 ACS, M.I, Amministrazione civile, b.9.70- Provincia di Trento (1923-1927).

100 Ivi. La Provincia di Trento aveva 578 comuni e al momento della sua costituzione aveva diecicircondari e quindi dieci sottoprefetti.

101 Ivi. Lettera del 16 settembre 1926, n. 5.004.

102 Colloquio Mussolini-Federzoni, in «Il Popolo d’Italia», 29 agosto 1926.

103 E. ROTELLI, Le trasformazioni cit., pp. 76-77.

104 I consigli provinciali saranno sciolti?, in «Rivista delle Provincie», a. XIX, aprile-maggio 1926,fasc. IV-V, pp. 115-123. Cfr. anche la «Gazzetta del popolo», 4 maggio 1926 che diede la notiziacome certa.

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105 La decima assemblea dell’UPI, in «Rivista delle Provincie», a. XIX, giugno 1926, fasc. VI, pp.129-154.

106 «Corriere della sera», 3 ottobre 1926.

107 Si vedano in «Rivista delle Provincie» i monocordi interventi di GENNARO CAPURSO, LaProvincia Fascista, a. XIX, luglio 1926, fasc. VII, pp. 181-198; SILVIO MOLINARI, Le basiregionali della riforma dell’Ente Provincia, agosto 1926, fasc. VIII, pp. 225-230; MICHELEPERSICHETTI, La Provincia Fascista, settembre 1926, fasc. IX, pp. 242-44; SILENO FABBRI,Riforma dell’ordinamento amministrativo provinciale, ottobre 1926, fasc. X, pp. 276-86.Quest’ultimo contributo era la relazione tenuta al consiglio direttivo dell’Upi e non portavaalcuna novità rispetto alla proposta di sopprimere l’eleggibilità del consiglio, cosa già esposta inuna seduta consiliare a Milano.

108 Nuovi compiti della Provincia fascista lumeggiati dall’avv. Fabbri al Consiglio Provinciale, in«Il Popolo d’Italia», 10 agosto 1926. Presidente era Sileno Fabbri.

109 GUIDO GAMBERINI, Provincia e unità, in «Il Popolo d’Italia», 15 agosto 1926.

110 Ibidem.

111 Ibidem.

112 L’on. Federzoni illustra il nuovo ordinamento amministrativo e annunzia la riforma dei Consigliprovinciali, in «Il Popolo d’Italia», 31 agosto 1926. Cfr. anche «Corriere della sera», 3 ottobre1926. L’intervista anticipò alla stampa il testo dello schema del decreto legge che il direttoregenerale dell’amministrazione civile aveva preparato per il ministro sull’ordinamentoamministrativo ed economico delle provincie, che fu presentato nel Consiglio dei ministri.

113 ACS, M.I., Amministrazione civile, l.c., Relazione a S.E. il Ministro per il Consiglio deiMinistri, Roma, 29 settembre 1926.

114 La Consulta era formata da membri di diritto (il medico provinciale, il veterinario provinciale,l’ingegnere capo del Genio civile, il Provveditore agli studi o di un suo rappresentante nelleprovincie che non l’avevano, il Provveditore alle opere pubbliche), e membri nominati con decretodi concerto con i due ministeri interessati. Il d.l. si riservava di emanare norme entro tre mesi perdefinire gli enti con personalità giuridica che avrebbero dovuto essere rappresentati, ma comunqueerano previste le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, dei professionisti e artisti. Lecariche dei consultori e dei presidenti e vice presidenti erano gratuite, e qualora fosse riconosciutauna indennità, sarebbe stata a carico delle singole provincie.

115 Il Regno diviso in 93 Provincie. Largo movimento di Prefetti, in «Corriere della sera», 7dicembre 1926. Per inquadrare meglio gli incarichi ministeriali, si ricorda che Mussolini ricoprìl’incarico di ministro dell’Interno dal 31 ottobre 1922 al 5 luglio 1923; lo sostituì LuigiFederzoni fino al 5 novembre 1926, nonostante i rimpasti di governo. Mussolini tenne poi latitolarità dell’Interno fino alla caduta del fascismo, mentre Federzoni fu nominato ministrodelle Colonie dal 6 novembre 1926 all’11 dicembre 1929.

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116 ACS, Archivio autografi del Duce, scatola 3, fasc. 4.5.6, Relazione al Consiglio dei Ministri sullasituazione interna. Il testo è riportato anche in «Il Popolo d’Italia», 7 dicembre 1926. SecondoPetacco, Mussolini «leggeva tutto con attenzione estrema: sottolineava le frasi più significativee annotava sullo stesso foglio i suoi commenti, o le eventuali risposte da dare, usando la matitarossa e blu». Cfr. A. PETACCO, L’archivio segreto di Mussolini, Mondadori, Milano 1997.

117 Il decreto-legge del 2 gennaio 1927 n.1, venne pubblicato nella «Gazzetta Ufficiale» n. 7dell’11 gennaio 1927.

118 Il movimento dei prefetti interessò anche trenta antiche provincie, mentre altri prefettivennero collocati a riposo. I prefetti nominati nelle nuove provincie furono: EmpedocleLauricella a Vercelli; Umberto Ricci a Bolzano; Anselmo Cassini a Gorizia; Gennaro Di Donatoa Viterbo; Emilio Severini a Pescara; Rosario Rossi a Matera; Francesco Venda a Rieti. I viceprefetti elevati a prefetti furono: Stefano Pirretti ad Aosta; Lorenzo La Via a Savona; PasqualeRandone a Varese; Michele Internicola a Terni; Ubaldo Bellini a Frosinone; Ernesto Perez aBrindisi; Mauro A. Disanza a Pistoia; Giuseppe Rogges a Castrogiovanni; Gaetano De Blasioa Ragusa; Ottavio Dinale a Nuoro.

119 ACS, Verbali del Consiglio dei ministri, seduta dell’8 dicembre 1926, p.238 bis.

120 ACS, Verbali del Consiglio dei ministri, seduta del 12 dicembre 1926, p.239.

121 A. M. [A. MUSSOLINI], Sei Dicembre, in «Il Popolo d’Italia», 7 dicembre 1926.

122 Ibidem.

123 «Il Popolo d’Italia», 7 dicembre 1926.

124 Un richiamo alle inchieste parlamentari del passato sottolineano la differenza dicomportamento. Si pensi, solo per citare un esempio, all’inchiesta sulla Sicilia nel 1875-76quando fu sottoposto un questionario sull’amministrazione periferica dal quale emergeva unospaccato del ruolo dello Stato e delle caratteristiche della sua azione nella società. Cfr. L’inchiestasulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia e sull’andamento dei pubblici servizi, deliberatadalla legge 3 luglio 1875 n. 2.579 e conclusasi con la relazione di Romualdo Bonfadini e in partepubblicata dall’ACS di Roma, a cura di S. Carbone e R. Grispo, Il Mulino, Bologna 1969. Cfr.anche E. IACHELLO, Stato moderno e disarmonie regionali, Guida, Napoli 1987.

125 E. TOLOMEI, Le due provincie. Trento e Bolzano, in «Archivio per l’Alto Adige», annata XXII,1927, pp. 193-218; la citaz. a p. 193.

126 Ivi, p. 206.

127 Va ricordato che il Gran Consiglio del Fascismo aveva creato i «Gruppi di competenza»nazionali e provinciali, cioè «una importante raccolta di studiosi e di tecnici al servizio delGoverno fascista». Cfr. PARTITO NAZIONALE FASCISTA, Il Gran Consiglio nei primi cinque annidell’Era Fascista, Prefazione di B. Mussolini, Libreria del Littorio, Roma 1927, Riunione XXV,28 luglio 1923, p. 79. Furono costituiti 178 «Gruppi di competenza» in 46 provincie e 3capoluoghi di circondario, compresi in 17 regioni: 11 per la pubblica amministrazione, 14 per

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la finanza pubblica, 16 per il settore giuridico-legale, 8 per le opere pubbliche, 12 per i trasportie le vie di comunicazione, 14 per le industrie, 12 per il commercio, 22 per l’agricoltura, 19 perl’istruzione, 4 per la previdenza sociale, 11 per le belle arti, 8 per l’edilizia, 10 per la sanità eigiene, 2 per le colonie, 7 per i porti e la navigazione, 8 per le miniere.

128 I confini delle nuove Provincie, in «La Stampa» di Torino, 11 gennaio 1927.

129 L’elenco dà un segno dell’approssimazione con cui l’operazione venne condotta. Modifichefurono apportate per Brindisi, Nuoro, Terni e Viterbo (a quest’ultima furono aggregati alcunicomuni del circondario di Civitavecchia); a Pistoia fu aggregato il Comune di Tizzana. Piùconsistenti furono le modifiche nelle provincie di Frosinone (a cui venne tolta tutta la zona dellasoppressa Provincia di Caserta, tra il Liri e il Garigliano e il mare, nonché i comuni deimandamenti di Terracina, Segni, Piperno e Vallecorsa i quali passarono tutti alla Provincia diRoma); Matera (vennero tolti alcuni comuni del circondario di Lagonegro, precedentementeassegnatile, e gliene lasciò sei: Novasiri, Rotondella, Tirsi, Valsinni, Codognaro e S. GiorgioLucano; in più le assegnarono tre comuni della Provincia di Potenza: Genzano, Banzi [ma oggiquesto è tornato a far parte di Potenza] e S. Gervasio);Varese (cui venne tolto parte dei comunipiù vicini a Milano che li reclamò per non depauperare il proprio territorio); Vercelli (a cuirimasero i comuni dei circondari di Vercelli, Biella e Varallo, oltre ai comuni di Borgo Vercellie Villata, mentre tutti i comuni della Val d’Ossola rimasero a Novara).

130 Il 6 dicembre Mussolini inviò il seguente telegramma: «Il periodo delle cerimonie, delleinaugurazioni e dei festeggiamenti è finito. La Nazione deve lavorare tranquillamente e consenso di rigida economia. I Prefetti sono invitati ad impartire disposizioni perché le cerimoniedi ogni genere siano rinviate ad altra stagione».

131 B. MUSSOLINI, Scritti e discorsi dal 1927 al 1928 cit., p. 44.

132 Che Mussolini abbia deciso personalmente le città da promuovere è dimostrato dal suo caratterepersonale che lo spingeva a prendeva da solo le decisioni più importanti. Cfr. R. DE FELICE, Mussoliniil duce, vol. I, Gli anni del consenso:1929-1936, Einaudi, Torino 1974, pp. 19 e ss.

133 La lettera, scritta il 16 maggio 1924, è stata pubblicata per la prima volta nel 1941 in Letteredi D’Annunzio a Mussolini, Milano, 1941, e nel 1971, in Carteggio D’Annunzio- Mussolini(1019-1938), a cura di R. De Felice e E. Mariano, Milano, 1971. Cfr. anche R. TIBONI, Comenacque Pescara Capoluogo di Provincia. Dal carteggio D’Annunzio-Mussolini, Estratto da «Oggie Domani», mensile di cultura e attualità, a. V, aprile-maggio 1977; IDEM, «Il Tempo» di Roma,21 settembre 1967. «Cospeggi» probabilmente sta per «capeggi».

134 B. MUSSOLINI, Scritti e discorsi cit., p.47.

135 La Provincia di Napoli aveva una superficie di 90.845 ettari e 72 comuni, e sebbene avesseuna popolazione di 1.478.021 abitanti, la più alta d’Italia per densità, riteneva la propriacircoscrizione provinciale di scarso rilievo, per cui chiedeva un maggior prestigio individuatoin una più vasta circoscrizione territoriale. La Provincia di Caserta venne ricostituita conl’avvento della repubblica nel secondo dopoguerra.

136 Questi comuni furono: Carinola, Conca Campania, Francolise, Marzano, Appio,

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Mondragone, Ponza, Roccamonfina, Sessa Aurunca, Tora e Piccilli. La superficie della provinciadi Napoli era di 90.845 ettari e i 72 comuni non erano sufficientemente appaganti. Questa fu lavera ragione per aggregarle un’ulteriore superficie di oltre 170.000 ettari con circa 500.000abitanti.

137 Un Programma che si compie. La Provincia di Napoli ha il suo necessario respiro territoriale, in«Il Popolo d’Italia», 15 dicembre 1926. I rimanenti centri del Casertano vennero annessi alleprovincie di Benevento e di Frosinone.

138 Ivi. Il provvedimento collegato alla nuova circoscrizione provinciale estendeva la proroga al1928 del regime fiscale di cui godeva il porto di Napoli, mettendolo in condizione privilegiatarispetto agli altri porti italiani e mediterranei. In conclusione, l’accentramento, perché di questosi trattò, di interessi commerciali e amministrativi nella città di Napoli venne considerato come«la via della resurrezione» di una metropoli che si dibatteva in crisi ricorrenti che richiedevanoleggi e concessioni speciali.

139 B. MUSSOLINI, Scritti e discorsi cit., p. 49. Parte di questo discorso è stato pubblicato anche, conil titolo La creazione del Podestà, in ID., Discorsi del 1927, Edizioni «Alpes», II edizione, Milano 1928.

140 A. Vella (nato a Caltagirone nel 1896 e morto a Roma nel 1943) fu il fondatore dellaFederazione Giovanile Socialista nel 1907, pubblicista, deputato per tre legislature, vicesegretario nazionale del Psi, pagò con il carcere il pacifismo nella I guerra mondiale. Per questasua posizione si scontrò nella direzione socialista con Mussolini quando questi dovettedimettersi da direttore dell’Avanti! e in quell’occasione il futuro duce minacciò perché Vellanon venisse scelto come suo sostituto alla direzione del giornale. Per un approfondimento, cfr.U. CHIARAMONTE, Arturo Vella e il socialismo massimalista, Lacaita, Manduria 2002.

141 R.d.l. 4 ottobre 1934, n. 1682, in G.U., 26 ottobre 1934, n. 252. I comuni erano:Bassiano, Campodimele, Castelforte, Cisterna di Roma, Cori, Fondi, Formia, Gaeta, Itri,Lenola, Littoria, Minturno, Monte S. Biagio, Norma, Ponza, Proverno, Prossedi,Roccagorga, Rocca Massima, Sabaudia, San Felice Circeo, Sermoneta, Sezze, Sonnino,Sperlonga, Spingo Saturnia, Terracina e Ventotene. Al Comune di Littoria vennero aggregatele frazioni Acciarella, Conca e Le Ferriere. Oggi la Provincia è composta di 33 comuni e225.000 ettari.

142 Cfr. R.d.l. del 1° aprile 1935, n. 297, in G.U. dell’8 aprile 1935, n. 82. La costituzionedecorreva dal 15 aprile 1935. Ufficialmente fu fatto passare il criterio della necessità di snellirele provincie di Alessandria, che aveva 343 comuni e 508.800 ettari di superficie, e di Cuneo,con 263 comuni e 743.000 ettari di superficie.

143 In G.U. del 3 febbraio 1939, n. 28.

144 Le aggregazioni e le soppressioni dei piccoli comuni venivano comunicate dalla «Rivistaamministrativa» a partire dal 1923 fino al 1935 nell’apposita rubrica «Atti del Governo».

145 A.M. (ARNALDO MUSSOLINI), La pietra angolare, in «Il Popolo d’Italia», 7 gennaio 1927.Il giornale pubblicò la circolare sul n. 5 del 6 gennaio, e oggi la si può leggere in diversepubblicazioni, tra cui A. AQUARONE, L’organizzazione dello Stato totalitario cit., II, pp. 485-

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88; oppure in Scritti politici di Benito Mussolini, Introduzione e cura di E. Santarelli, Feltrinelli,Milano 1979, pp. 237-240.

146 P. POMBENI, Autorità sociale e potere politico cit., p. 24.

147 Melis ha riportato dati della Ragioneria generale che dimostrano che un decremento degliimpiegati pubblici si ebbe soltanto dal 1923 al 1928 (quando passarono rispettivamente da540.847 a 520.979), ma il trend riprese a salire nel 1933 (634.328 impiegati), nel 1938(787.862) e nel 1943 (1.380.904). Naturalmente, i dati sugli impiegati negli enti localiandrebbero disaggregati. Cfr. G. MELIS, Storia dell’amministrazione cit., pp. 328 ss., che riportai dati del ministero del Tesoro. Ragioneria generale dello Stato. Ispettorato generale servizispeciali e meccanizzazione, Dipendenti delle amministrazioni statali dal 1923 al 1992, Ist.Poligrafico dello Stato, Roma 1994.

148 Per quanto riguarda questi temi nel periodo liberale, cfr. A. M. BANTI, Storia della borghesiaitaliana. L’età liberale, Donzelli, Roma 1996, soprattutto pp. 10-22.

149 Se ne veda una sintesi in Il pensiero della stampa italiana, in «Il Popolo d’Italia», 7 gennaio1927, dove sono riportati brani dal «Corriere della sera», «Il Secolo», «La Sera»,«L’Ambrosiano», «L’Italia», «Il Giornale d’Italia», «La Gazzetta del Popolo», «Il Tevere»,«Lavoro d’Italia», «Corriere d’Italia», «Impero», «Il Mezzogiorno», «La Tribuna».

150 Per un panorama sulla figura del prefetto nella storia d’Italia, cfr. R. C. FRIED, Il prefetto inItalia, Giuffré, Milano 1967; P. CASULA, I prefetti nell’ordinamento italiano. Aspetti storici etipologici, Giuffré, Milano 1972; L. PONZINI, Il governo dei prefetti . Amministrazione e politicanell’Italia meridionale: 1922-1926, Meridiana Libri, Catanzaro 1995; E. GIUSTAPANE, Sullastoria dei prefetti, in «Le Carte e la Storia», 1995, n. 1, pp. 18-27.

151 UGO MARCHETTI, Mussolini, i Prefetti e di Podestà. Lo stile e l’opera di un Prefetto fascista,Casa ed. «Mussoliniana», edizioni Palatino, Mantova, s.i.a. [ma 1927], p.33.

152 «Il Popolo d’Italia», 17 ottobre 1926.

153 I dati raccolti dal giornalista vanno presi con cautela in quanto furono arrotondati con unacerta approssimazione, secondo le indicazioni che gli diedero i federali delle provincie. Occorreaggiungere che i dati si riferiscono all’intera Provincia, per cui sarebbe interessante considerarela consistenza del Pnf nei capoluoghi, tenendo conto del rapporto degli iscritti con il numerodegli abitanti. Ad esempio: a Terni i militanti nel partito, nelle sue varie organizzazioni, eranopiù del 50 per cento dell’intera Provincia (600 fascisti, 100 fasciste donne, 200 avanguardisti,800 balilla, 100 piccole italiane); a Viterbo, gli iscritti al fascio erano 600 sugli 8.000 dellaProvincia; a Matera i fascisti tesserati erano 459 sui 5.210 della Provincia e i balilla erano 300su 1.200. Gli esempi potrebbero continuare.

154 Cfr. PAOLO RUZZI, La Provincia dello Jonio, in «Rivista delle provincie», a. XX, fasc. III,marzo 1927, pp. 109-112. L’autore limitava la sua analisi alla Provincia di Taranto, chiamataappunto Provincia dello Jonio, sottolineando che per il solo consorzio antitubercolareoccorrevano 40.000 lire.

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155 SILENA FABBRI, La riforma territoriale delle Provincie, in «Rivista delle provincie», a. XX, fasc.I, gennaio 1927, pp. 21-25.

156 ACS, Verbali del Consiglio dei ministri, seduta 8 dicembre 1926.

157 Ivi, seduta del 10 dicembre 1926.

158 L’art. 1 del r.d.l. 14 aprile 1927, n. 597 (in G.U. del 3 maggio 1927, n. 102) stabiliva: «entro seimesi [...] i Prefetti delle nuove Provincie [...] possono, in caso di necessità, disporre la requisizionedi locali di privata proprietà» per gli uffici della Provincia, non superando la durata di tre anni. Controla requisizione prefettizia non era ammesso ricorso né in via amministrativa né in via giurisdizionale.

159 La cessione al Comune fu fatta in base all’art. 20 della L. 17 luglio 1866 n. 3036 sui beniecclesiastici, dando la priorità all’uso di beneficenza. Il presidente della Congregazione, FrancescoMilitello, barone di Castagna, si rivolse a Mussolini per far desistere il prefetto dal pretendere chegli si cedesse in affitto l’ex monastero, per lasciare, invece, «ai poveri il grazioso dono del Governo».Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM), fasc. n. 1.830, lettera del 28 aprile 1927. Larichiesta del canone d’affitto da parte del Comune, sembrò eccessiva, come eccessivi venneroritenuti i 22 locali posti nei due piani. Inoltre, l’Intendenza avrebbe dovuto spendervi una sommapari a 120.000 lire per la ristrutturazione. Il Comune nella seduta del 14 luglio 1927 deliberò uncanone di 30.000 lire annue per un contratto di sei anni, mentre la Congregazione di Caritàchiedeva 60.000 lire annue. Fu il ministero delle Finanze che non accettò (cfr. lettera del ministeroFinanze alla Presidenza del Consiglio, 30 luglio 1927, n. 21.455).

160 ACS, PCM, lettera del prefetto alla PCM, 22 novembre 1927, n. 2.038.

161 Per la questione, cfr. ACS, PCM, b. 1.241, Castrogiovanni.

162 ACS, PCM, b. 3.620, Castrogiovanni, Lettera del prefetto del 2 settembre 1927, n. 555.

163 ACS, PCM, lettere del 16 dicembre 1926, n. 4; del 13 gennaio 1927, n. 115 e del 2 maggio1927, n. 672.

164 ACS, PCM, b. 2.312, lettera del prefetto di Ragusa alla Presidenza del C.M., 27 maggio1927, n. 963.

165 Nel testo della lettera.

166 ACS, PCM, b. 2.312, lettera di G. Suardo al prefetto di Ragusa, 6 giugno 1927.

167 Ivi, lettera del M.I. alla P.C.M., 16 giugno 1927, n. 1.595. La proposta venne rigettataunanimemente dagli altri ministeri interpellati anche perché aveva tutta l’aria di apparire«bolscevica» ove era «largamente applicata», e avrebbe dato luogo «a più gravi inconvenienti ea malcontento maggiore». Cfr. Lettera del ministro della Giustizia alla PCM, 17 giugno 1927,n. 2.312/3-19. Anche per la «Rivista amministrativa del Regno» (a. LXXVIII, 1927) eraindispensabile la condizione di necessità per la utilità delle opere pubbliche in quanto «sisostanzia in essa l’interesse pubblico da soddisfare» (p.45). Essendo l’autorità amministrativa,si configurava una discrezionalità soggetta al giudizio di legittimità per eccesso di potere.

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Umberto Chiaramonte

168 Per Ragusa, cfr. ACS, M.I., Amministrazione civile, Fondo Comuni, b. 2.291, dove sonoraccolti alcuni esposti del 1929-30 per l’esproprio di terreni per la costruzione di scuole e case.

169 ACS, M.I., Amministrazione civile, Fondo Comuni, b. 1.231, Telegramma del prefettoRogges Giuseppe a Mussolini (22 marzo 1927, n. 15.896) - Cifrato: «Con insediamentocommissione per scelta aree costruzione primi edifici istituto nazionale case per impiegatiquesta cittadinanza riceve conferma tangibile vivo interessamento Eccellenza Vostra perrinnovamento edilizio questa venusta Enna che E.V. volle elevare a dignità capoluogo Provincia(stop) Classe impiegatizia et cittadinanza tutta nella novella prova benevolenza suo amatissimoDuce riconferma giuramento fedeltà incondizionata et fermo proposito disciplina et lavoro perportare anche materialmente questo capoluogo alla dignità cui l’E.V. volle elevarla».

170 DIMO D’ANGELLA, Storia della Basilicata, Arti Grafiche Liantonio, Matera 1983, vol. III, pp. 735-76.

171 Ivi, p. 737.

172 Alcune tracce di questi casi sono stati rinvenuti in ACS, M.I., Amministrazione civile, FondoComuni . Si cita il caso di Ragusa dove vennero presentati esposti per la direzione dei lavori di unedificio scolastico, affidata ad un ingegnere del Genio civile che prendeva due stipendi per duelavori svolti contemporaneamente (lettera di alcuni cittadini al M.I. del 9 aprile 1929); per ladirezione dei lavori del palazzo del Governo (lettera al M.I. firmata ABC, del 1° luglio 1930 erisposta del prefetto del 13 settembre 1930, n. 1.520); esposto per sperperi del Comune per i troppiimpiegati e per i lavori della fognatura cittadina (lettera di cittadini al Duce, del 9 settembre 1929).

173 Anche questa affermazione meriterebbe una documentazione ed un approfondimento nellediverse realtà. Qui basti citare la denuncia di eccessivi tributi partita da cittadini di Ragusa alM.I. Il prefetto rispose al ministero che «nonostante i nuovi e maggiori oneri che il Comunedeve sostenere per l’elevazione a capoluogo di Provincia, i tributi vengono applicati in misuranormale. [...] L’amministrazione si è interessata di ridurre al minimo quelle tasse che piùdirettamente incidono sull’agricoltura, allo scopo di contribuire con ogni mezzo a fronteggiarel’attuale situazione». Cfr. la lettera del prefetto al M.I., dell’11 marzo 1930, n. 347.

174 Da una indagine sulle spese sostenute dalle singole provincie per la manutenzione delle strade diI classe, provinciali, comunali e cantoniere, si desume che complessivamente in Italia si spendevano307.800.965 lire . Cfr. Le provincie e le spese stradali, in «Rivista delle Provincie», a. XX, fasc. IX,settembre 1927, pp. 290 ss.; Le strade, ivi, fasc. XI-XII, novembre-dicembre 1927, pp. 426-28.

175 Cfr. la lettera del prefetto di Ragusa al ministro dell’Interno (11 marzo 1930, n. 347), cit.,con la quale il prefetto informava che erano state contenute le tasse che incidevano«direttamente sull’agricoltura», mentre nel 1929 le tasse sul bestiame erano state inferioririspetto a quanto era previsto dal regolamento provinciale. In ACS, Ammin. civile, FondoComuni, b. 2.291.

176 Nel 1909 per gli alloggi dei prefetti venivano calcolate 3.973.802 lire; per gli uffici diprefettura 7.254.890 lire, che, aggiunte alle spese per le caserme dei carabinieri e della pubblicasicurezza, venivano calcolate in lire 25.025.451 complessivi. Cfr. alcuni dati significativi in«Bollettino dell’Unione delle Provincie d’Italia» (poi «Rivista delle Provincie»), a. II, fasc. II,febbraio 1909, Gli sgravi delle Provincie dalle spese di carattere generale, pp. 41-49.

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Centri Raccolta Profughi per gli italiani in fuga

Centri Raccolta Profughi per gli italiani in fuga

di Riccardo Cappelli

Introduzione

Questo articolo si basa in modo esclusivo sulla consultazione del fondoarchivistico denominato Comunità Protetta Profughi - che riguarda il centroaccoglienza profughi sito in Marina di Carrara - conservato presso l’ArchivioStorico e di Deposito della Giunta Regionale Toscana. Va sottolineato cheil fenomeno dell’assistenza ai profughi e sinistrati nell’Italia post bellica è unargomento finora poco trattato dagli studiosi. Questo saggio, lungidall’offrire un’analisi storica esaustiva e dettagliata, vuole solo fornire deglispunti di massima, oltre a descrivere quanto è possibile trovare in archivio.A questo proposito, farò uso esteso di citazioni dirette del materialedocumentario1, con l’obiettivo di «lasciar parlare le carte» (errorigrammaticali compresi) e rendere così l’atmosfera del tempo2.

Cenni storici

Alla fine del secondo conflitto mondiale si rese necessaria la creazione didiversi Centri Raccolta Profughi (CRP) per ospitare i sinistrati e iconnazionali costretti a rimpatriare. Questi ultimi erano dei residenti interritori sottratti all’Italia, come conseguenza di situazioni generali aventicarattere eccezionale da paesi europei ed extra europei, per i quali fosse statadichiarata l’esistenza dello stato di necessità da parte dello Stato italiano. Aiprofughi del secondo conflitto mondiale, provenienti per lo più dalle excolonie d’Africa, Egitto, Tunisia, Grecia e Jugoslavia, si sommarono via viaquelli prodotti dalle lotte di decolonizzazione africane (Angola, Algeria,ecc.) e, dal 1969, anche gli italiani in fuga dalla Libia.

I Centri, diffusi in tutta la penisola, dipendevano organicamenteprima dal ministero per l’Assistenza Post-bellica, poi dal 1947 del settore

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Riccardo Cappelli

dell’assistenza pubblica del ministero dell’Interno. La strutturaorganizzativa dei Centri non era rigida, ma vi erano, comunque, delleindicazioni di massima e provvisorie date dall’Alto commissariatoprofughi di guerra. Quest’ultimo suggeriva di creare un Ufficioamministrazione, un Ufficio registrazione e movimento, un Serviziomagazzino viveri e cucina, un Servizio sanitario e igienico, un Serviziotecnico manutenzione lavori, un Servizio di polizia e uno di assistenzareligiosa. Nel caso in cui il Centro ospitasse oltre 500 profughi, ildirettore (che era di nomina prefettizia) poteva richiedere anche un vicedirettore e una piccola segreteria per il disbrigo delle pratiche generali.Per i servizi e gli uffici del Centro si doveva cercare di utilizzare almassimo l’opera dei profughi (pagati con 30-90 lire giornaliere a secondadel sesso e delle mansioni svolte3), con l’esclusione delle mansioni cherichiedevano una certa continuità o comportavano responsabilitànotevoli4.

Archivio Storico e di Deposito della Giunta Regionale Toscana

Fondo Comunità Protetta Profughi

Elenco serie archivistiche:

PERSONALE: Personale impiegato, Personale salariato, Personale ausiliario, Presenze,

Varie (1945-1970) pzz. 10; AFFARI GENERALI: Leggi, Circolari, Verbali, Consegna (1945-

1975) pz. 1; DIREZIONE: Informazioni, Disposizioni, Varie (1945-1970) pzz. 4; Pratiche di

Segreteria (1945-1970) pzz. 5; REGISTRI: Protocolli della corrispondenza, Registri profughi,

Registri assistenza profughi, Registri prestazioni ambulatoriali, Inventario (1945-1972)

pzz. 93; RUBRICHE: Rubriche profughi e sinistrati (1945-1972) pzz. 9; Fascicoli profughi

(1945-1970) pzz. 93; Fascicoli profughi lavoratori (1945-1970) pzz. 4; UFFICIO STRALCIO:

Segreteria, Disposizioni, Rendiconti, Bilancio preventivo e libro cassa, Contratti, Fascicoli

personali, Inventario, Presenze, Sussidi sostitutivi mensa, Varie (1972-1984) pzz. 16.

Date estreme della documentazione: 1945-1984.

Consistenza: metri lineari 20, pezzi n. 235.

Strumenti d’accesso: elenco di versamento cartaceo.

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Centri Raccolta Profughi per gli italiani in fuga

Inizialmente, il sussidio previsto era di 5 lire al giorno, però questo venivatrattenuto in un fondo di riserva per i primi tre mesi di permanenza delprofugo e, successivamente, veniva versato solo per metà al profugo e l’altrametà andava sempre ad alimentare il fondo di riserva. Nel caso in cui ilprofugo, al momento del definitivo sfollamento o del trasferimento in altroCentro, non riconsegnasse gli oggetti dati in consegna provvisoria - coperta(540 lire), pagliericci (300 lire), gamella (58 lire), bicchiere (15 lire), piatto(45 lire), cucchiaio (12 lire) e forchetta (12 lire) - il loro importo venivadetratto dalla liquidazione della somma finale maturata.

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Riccardo Cappelli

Nel corso degli anni si sviluppò una copiosa attività normativa (e relativaproliferazione di circolari interpretative) riguardante la complessa questionedei rimpatriati. In particolare, numerosi furono gli interventi del legislatorevolti a regolare in maniera sempre più restrittiva i sussidi in denaro destinatiai profughi, a incentivarne il loro volontario sfoltimento (attraversol’assegnazione di una quota riservata di edilizia popolare e premi monetari)e, infine, a favorirne l’occupazione lavorativa esterna.

Solo con la legge n. 137 del 4 marzo 1952 venne regolata tutta la materiarelativa all’assistenza ai profughi e categorie assimilabili. Nello spirito lalegge tendeva a facilitare il ritorno alla vita civile e produttiva dei profughi,ma nella sua applicazione concreta incontrò molte difficoltà, soprattutto perle scarse risorse e la carente gestione dei Centri che mantenevano in unacondizione miserevole gli assistiti.

Il Centro Raccolta Profughi di Marina di Carrara

In Toscana il CRP aveva sede a Marina di Carrara presso la ex ColoniaVercelli di via Marina Cavaiola e si estendeva su una superficie di circa45.000 metri quadrati (v. mappa), con alloggi e servizi in grado di accoglierecirca 850 profughi e, in momenti di crisi, anche un migliaio. Sfogliando inmaniera sommaria le carte conservate in archivio, si trovano diversi prospettidelle presenze: nel settembre 1946 risultano presenti 1.000 profughi, nelmaggio 1949 853, nell’aprile 1950 811, nell’aprile 1952 805, nel giugno1955 806, nel settembre 1959 465, nel febbraio 1964 181 e nell’ottobre1967 57.

Oltre ai circa 6.000 fascicoli personali dei profughi, di particolareinteresse sono i faldoni della Direzione e Segreteria, i quali contengonocarteggio relativo alle questioni più disparate: segnalazioni di giovani in etàdi leva; richieste di sussidi, esenzioni, sconti postali e teatrali; ricezione diaiuti da associazioni di carità; questioni relative a permessi e assenze(giustificate o meno); richieste di danni di guerra; pratiche scolastiche;inventari; richieste di informazioni su parenti; corsi professionali;distribuzione di dolciumi, coperte, vestiario, ecc. Inoltre, sono numerosi itentativi d’inserire i profughi presso imprese. Le richieste d’informazioni daparte di queste ultime, sul singolo profugo aspirante, ottengonoinvariabilmente una risposta positiva da parte del direttore, che fa largo usodi aggettivi descrittivi quali «bravo», «zelante», «tranquillo», «operoso», ecc.

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Centri Raccolta Profughi per gli italiani in fuga

Il direttore del Centro aveva certo i suoi grattacapi: infatti, dovevafronteggiare una situazione degradata sia per quanto riguardava lecondizioni di vita dei profughi, che per l’ordine pubblico. Ad esempio, lascarsa quantità e qualità del vitto - viveri che provocavano la diarrea, alimentiavariati, carne scadente, ecc. - causarono decine di lagnanze nel corso deglianni, tuttora conservate agli atti. Nel 1946 la tabella alimentare giornalieraper i profughi prevedeva grammi 325 di pane, 85 di pasta, 33 di zucchero,5 di concentrato, 100 di legumi, 10 di sale, 400 di carne o simili (allasettimana), 6,6 di olio, 50 di latte, 5 di surrogato5. Nel 1949 si decise diaumentare la razione giornaliera portandola a grammi 325 di pane, 200 dipasta e riso, 100 di legumi, 50 di carne fresca, 28 di olio, 33 di zucchero, 10di sale, 10 di conserva, 100 di latte fresco e, infine, lire 9,40 di patate eortaggi. Il valore medio della tabella giornaliera degli alimenti passava cosìdalle 113 alle 153 lire6. Ma le lamentele non cesseranno mai per tuttal’attività del Centro, dato che spesso il menù dipendeva da quello che siriusciva poi effettivamente a reperire sul mercato e non sempre questocoincideva con la tabella alimentare prevista. Inoltre, i profughi cercavanosempre di ottenere più cibo, anche ricorrendo a furberie:

Sino a Martedì 12 corrente il pane veniva distribuito sottraendo da ogni pesata unacerta quantità a titolo di sfrido, per compensare cioè quello che normalmente si perdenel taglio.Alcuni elementi della Commissione Interna, ritenendo di poter prendere in castagnagli incaricati della distribuzione, hanno disposto che lo sfrido non venisse più calcolato.In tal modo si sono persi circa 21 Kg. di pane. Da oggi pertanto ho disposto che si tornial vecchio sistema, in modo da non far torto a nessuno7.

Anche il riscaldamento invernale era soggetto a restrizioni e le distribuzionistraordinarie di legname dovevano essere autorizzate dal prefetto:

Dato il perdurare della stagione invernale e la grande percentuale di persone anzianeattualmente ospiti di questo Centro, si prega voler autorizzare una distribuzionestraordinaria di legna da ardere, per consentire di superare più facilmente questo periodo.Si precisa che gran parte degli assistiti hanno espresso tale richiesta e che per quantoconcerne il quantitativo esso sarà quello concesso dalle vigenti disposizioni in ragionedi Kg. 1,500 pro-capite e pro-die. Essendo la forza presente attuale di n° 181 personale,il quantitativo di legna da ardere occorrente sarà di Q.li 81,00 per una spesacomplessiva di L. 104.000 nel caso venga autorizzata una distribuzione per un mese edella metà se solo per una quindicina.

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Riccardo Cappelli

Per la disponibilità, si aggiunge che il quantitativo di legna da ardere fino ad oggidistribuito, è inferiore di non poco a quello preventivato all’inizio dell’esercizio8.

Altri problemi erano le periodiche invasioni di zanzare e parassiti, iliquami gettati nelle vicinanze del centro, le pessime condizioni igienichegenerali, ecc. Nel 1946 un’ispezione eseguita dalla Squadra Mobile d’Igieneportò ai seguenti rilievi:

1) Sarebbe utile riparare gli scarichi otturati degli orinatoi installati nei gabinetti degliuomini;2) necessità di mettere al più presto in funzione le docce del Centro;3) è urgente rimettere il chiusino ad una fogna della cucina;4) le scatolette di carne che appaiono rigonfie debbono essere sistematicamentedistrutte senza nemmeno esaminare il contenuto;5) i rifiuti della cucina e così le altre immondizie debbono essere depositate in recipientimetallici unti di lubrificanti usati e provvisti di coperchio;6) è necessario prendere gli opportuni accordi con chi di dovere per il periodicosvuotamento del pozzo nero in cui immettono le fognature del Centro, essendo logicoprevedere che questo dovrà essere svuotato con maggiore frequenza di quellasufficiente a quando gli edifici del Centro erano utilizzati come Colonia Marina;7) occorre costruire una base in muratura, provvista di scarichi, intorno alle vaschedella lavanderia per evitare gli allagamenti e l’inquinamento con larve di mosca delterreno circostante9.

Destava particolare preoccupazione lo stato dei bagni, tanto è vero chesi potevano leggere simili avvisi ai profughi:

Ho saputo ed ho constatato che le latrine sono tenute malissimo e sono spessoadoperate per un uso diverso a quello al quale son destinate.Nel Padiglione C è stata trovata la pelle di un coniglio nel gabinetto e non è statopossibile sapere da chi sia stato commesso tale abuso.Perché tutte le famiglie siano interessate a prevenire nel loro interesse tali fatti hodisposto che in occasione della paga a ciascun capo-famiglia venga ritirata, a titolo diammenda, la somma di L. 5 per ogni membro di famiglia.Nella latrina del Padiglione B sono state trovate varie posate nuove alcune usate e forbici:infliggo a tutte le famiglie del predetto padiglione la stessa ammenda di cui sopra.Nel gabinetto del Padiglione G è stato trovato rotto un vetro, il valore del quale saràrecuperato mediante ritenuta, proporzionale al numero dei membri di famiglia, che ilSignor Nicoli applicherà sulla prossima paga dei capi famiglia del predettopadiglione10.

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Centri Raccolta Profughi per gli italiani in fuga

Grave era la scarsezza di acqua potabile (specie nella stagione estiva), unproblema ammesso anche dal Comune di Carrara il quale, in una letterainviata al prefetto e al direttore del Centro, affermava che:

L’approvvigionamento idrico del Campo Profughi, malgrado l’aumentato numero diserbatoi per accrescere la disponibilità di acqua potabile è insufficiente alle necessità deiprofughi ospitati.Considerato che l’acquedotto di Carrara non può dare una dotazione idrica sufficiente eche nemmeno il pozzo artesiano, data la sua modesta portata, non è capace di sopperirealla richiesta, si ritiene doveroso far presente la cosa per i provvedimenti del caso11.

Gli impianti elettrici dei fabbricati abitati dai profughi nonfunzionavano a dovere e ciò fu l’oggetto di una relazione del vice-direttore:

In seguito alle ripetute lagnanze dei profughi per il cattivo funzionamentodell’impianto elettrico degli alloggi, ho fatto un’accurata visita a tutto l’impianto ed horilevato quanto segue:Inizialmente l’impianto venne eseguito in modo assai empirico, senza tener conto ditutte le misure di sicurezza indicate dalla tecnica.Le infiltrazioni d’acqua nei soffitti durante la stagione piovosa, hanno causatofrequenti danni, riparati male ed in fretta, sia per la mancanza di mezzi adeguati e dipersonale idoneo, sia per la necessità di ripristinare in fretta il servizio.Infine, il carico eccessivo delle linee, l’umidità dei soffitti, il deterioramento naturaledelle parti isolanti, e le frequenti manomissioni ed alterazioni effettuate dai profughi,hanno ridotto tutta la rete di distribuzione della illuminazione ad un tale stato dideterioramento che non è più possibile provvedere con i mezzi normali.Tale stato della rete, oltre che lasciare quasi ogni sera senza luce qualche padiglione, ècausa di una forte dispersione di corrente e della fulminazione di una grande quantitàdi lampadine, con conseguente notevole aggravio delle spese di illuminazione e dimanutenzione.Si rende pertanto necessario provvedere con la massima sollecitudine alla quasicompleta ricostruzione di tutto l’impianto elettrico.[...] Sarei infine del subordinato parere di usare lampadine elettriche con un marchioindelebile per evitare la possibilità di sostituzione delle lampadine efficenti con altrebruciate12.

Del resto, oltre che rubare le lampadine, alcuni profughi cercavano diottenere un’illuminazione migliore (così aggravando le condizionidell’impianto generale)13, perciò:

Si rinnova a tutti gli assistiti l’avvertimento che è fatto divieto di fare uso, nelle singoleabitazioni, di lampadine superiori ai 40 watt.

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Riccardo Cappelli

Tutti coloro che adoperano lampadine di maggiore potenza, sono invitati a sostituirleimmediatamente.Saltuari controlli verranno effettuati dal personale addetto che provvederà senz’altroal sequestro del materiale abusivamente adoperato14.

Tra l’altro il filo elettrico poteva servire anche a un altro scopo, lo sideduce da questa richiesta indirizzata all’Ufficio Economato del Comune diCarrara:

Siamo stati informati che nei depositi di codesto Ufficio esiste del filo elettricoamericano ricuperato nella zona.Dovendo noi come da autorizzazione del ns. ministero procedere alla costruzione deilettini a castello tipo militare, avremmo necessità di detto filo per poter effettuare unsistema di rete per i lettini stessi.Pertanto saremmo a pregare la Vs. cortesia di potercene fornire un quantitativo di 500o 600 Kg., certi che data l’opera a cui esso deve servire non mancherete di accettare lans. richiesta15.

Comunque, uno degli aspetti più preoccupanti rimaneva la criminalitàe l’ordine pubblico. I reati commessi dai profughi che compaiono nei verbalie promemoria redatti dal posto fisso di Pubblica Sicurezza (organico duepersone, una per turno) all’interno del CRP e dall’Ufficio vigilanza sono unasfilza: ubriachezza, stupri, furti, rapine, risse, alterchi (spesso dovuti a saltidi fila), calunnie, truffe, atti vandalici, prostituzione, introduzione dipersone non autorizzate, turpiloquio, ecc.

Il direttore cercava di reprimere i comportamenti devianti comminandodiffide, multe e penalità ai profughi, un’attività che gli comportava di essereoggetto di ripetute minacce (in un italiano incerto) da parte di alcuniprofughi turbolenti:

Egregio Direttore!In poche parole, gentilmente a lei si prega di fare ridare immediatamente il sussidioregolare a tutti i poveri profughi che lavorano e che è a loro stato sospeso il dettosussidio.Deve bene rammentarsi e essere cosciente, che questa povera gente non ha ne tetto neletto e se si guadagna qualche piccolezza, malefatta sospendersi il sussidio.Dunque sta a lei, e stia bene attento, che se non sarà risolta quanto prima la questione:le potrebbero succedere dei guai!Faccia come sa e silenzio16.

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Centri Raccolta Profughi per gli italiani in fuga

Nel corso del 1946 il Centro, il cui servizio di vigilanza interna èassicurato da un capo-guardia e sette guardie, subì addirittura diversiattacchi armati e il carteggio tra il direttore e le autorità superiori rispecchiail clima di tensione esistente:

Portiamo a conoscenza all’Ecc.Vs., che questa mattina circa le ore una sconosciutiintrodottisi nel Centro scavalcando i reticolati che lo recingono nascostesi tra le piantee i cespugli della macchia hanno fatto fuoco contro la pattuglia di perlustrazioneformata dalle guardie: B.V. e B.U., i quali hanno immediatamente risposto con le armiin loro possesso.Il ripetersi di questi attacchi ci preoccupa vivamente in quanto le armi in possesso dei ns.Guardiani (fucili da caccia e pistole automatiche) sono di gran lunga inferiori alle armiche vengono usate dagli sconosciuti che s’introducono nel centro (fucili da guerra).Pertanto interessiamo, l’Ecc.Vs. perché ci vengano fornite delle armi adeguate perpoter controbattere questi attacchi che ormai si verificano a periodi abbastanza breviuno dall’altro17.Informo che oggi ore 15,30 gruppo persone armate appartenenti presumibilmente eda quanto riferito da guardie questo Centro at Federazione Anarchica Italiana habetfatto irruzione per ricercare profughi fascisti. Poiché tali atti est da ritenersiinopportuno et non legalmente autorizzato prego provvedere urgentemente atopportuni provvedimenti riguardo. Prego Signoria Vostra provvedere at rinforzoposto di Pubblica Sicurezza poiché popolazione Centro est allarmata. Qualora nonprovvedesi at quanto con presente richiesto declino responsabilità ordine pubblicointerno18.Dobbiamo segnare come ancora una volta il nostro personale, predisposto al serviziodi polizia, sia stato fatto segno di attacco con armi da fuoco da parte di sconosciuti.Nello spazio di 7 mesi è questo il 4° attacco che essi subiscono ed occorre assolutamenteprovvedere perché questi episodi siano eliminati o comunque metterci in grado diintervenire con mezzi adeguati.Fino dal 16/6 provvedemmo ad inviare alla Questura di Massa tutti gli incartamentioccorrenti per avere la nomina di guardie giurate interne al personale scelto (Reducie Partigiani) per tale servizio, ma fino ad oggi, solo due persone sono state chiamate aprestare giuramento per avere tale nomina.[...] A questo proposito Vi facciamo osservare che un servizio d’ordine, come si richiedein un Centro Profughi, non può essere assolutamente disimpegnato da profughiperché praticamente si renderebbe nullo, per ragioni facilmente comprensibili.[...] Inoltre si deve tenere presente che, malgrado le pratiche fatte, non si è ancorariusciti ad avere l’installazione di un telefono che possa collegarci con la Stazione deiCarabinieri, che dista circa 2 Km. dal Centro, che il Centro si trova in aperta campagna,come possono attestare Vostri Funzionari che lo hanno visitato, e quindicompletamente in balia di noi stessi19.

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Da registrare nello stesso periodo una missiva dell’AssociazioneNazionale Antifascisti diretta alla Direzione del Centro, dalla quale si evincecon tutta probabilità il motivo dell’ostilità armata dei locali:

Ci viene riferito che in questi ultimi giorni, abbia preso alloggio costì una qualchefamiglia di certi elementi che hanno appartenuto alle brigate nere e che furono fra i piùviolenti fascisti della prima ora.Non intendiamo farne colpa per questo a Codesta Direzione, tutt’altro, masemplicemente desideriamo che sia informata di tutto ciò per il suo interesse e per lamaggiore sorveglianza.Quello che riflette la posizione di detti elementi è cosa che ce ne occuperemo noi pervedere come procedere nei loro confronti20.

Nel 1947 le guardie giurate hanno finalmente preso servizio e sonoaffiancate da sorveglianti disarmati:

Nei servizi di vigilanza notturna possono portare le armi soltanto quelle guardie chesono in possesso del decreto di nomina a guardia giurata e del permesso di portod’arma.Le guardie non giurate eseguiranno il servizio disarmate.Le guardie sorprendendo persone in atteggiamento sospetto, nel recinto del Centrointimeranno il «chi va là» e «l’alto là» e procederanno al loro fermo. Se le guardie fosserodisarmate richiederanno l’intervento di quelle giurate.Queste sole potranno far uso delle armi se fatte segno a colpi di arma da fuoco da partedegli aggressori, al solo scopo di difesa personale, come è consentito dalla legge21.

Comunque gli addetti alla vigilanza possono fare poco in caso di rivolte,come accadde nel 1947, quando a Marina di Carrara i profughi dettero vitaa una violenta sommossa «tutta al femminile» (conclusasi con espulsioni etrasferimenti degli assistiti più riottosi):

In seguito ai disordini verificatisi nel Centro Assistenza Profughi di Marina di Carrarai giorni 23 e 24 Maggio 1947 il sottoscritto Direttore del Centro denuncia a codestoComando [Stazione Carabinieri], per i provvedimenti del caso, le persone qui di seguitonominate, tutte residenti nel Centro stesso, e ciascuna per i motivi a fianco segnati:[Nomi di sei donne] Per avere il giorno 23 Maggio incitato i ricoverati del Centro aviolenta rivolta. Per avere insultato e minacciato nello stesso giorno il Direttore delCentro, Pubblico Ufficiale, ed iniziato e incoraggiato un tentativo di lapidazione dellostesso a mezzo di ciottoli e scatole di carne. Per avere, il mattino del 24 Maggio,sobillato con ogni mezzo i ricoverati per provocare una nuova manifestazione, violato

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Centri Raccolta Profughi per gli italiani in fuga

il domicilio privato del Direttore nel Centro, minacciando lo stesso Direttore conbastoni, insultandolo e giungendo a percosse con le mani, nel tentativo di sospingerloa viva forza in mezzo alla massa di dimostranti22.

In generale, a livello nazionale, proteste e rivolte accompagnavano leprogressive limitazioni dei diritti dei profughi (in particolare, l’esclusionedal sussidio per alcune categorie), limitazioni tese a convincere i profughi adabbandonare i Centri e a reinsediarsi. A questo proposito, uno degli anni più«caldi» fu il 1955 quando si prese atto che:

lo stato di disagio in cui versano ancora numerosi profughi non può imputarsi agliavvenimenti bellici, dopo tanti anni dalla fine della guerra e dopo l’avvenutaricostruzione, sicché non si giustifica la concessione di una particolare e più favorevoleforma di assistenza a favore dei profughi nei confronti delle altre categorie di indigenticomuni. Inoltre, il perdurare di tali benefici comporta al bilancio dello Stato ungravissimo onere.Nonostante tali considerazioni, questo ministero riterrebbe opportuno, per motiviintuibili, non cessare del tutto ed improvvisamente le provvidenze assistenziali di cuialla legge che sta per scadere, ma prorogarle limitandole: è perciò predisposto unoschema di legge per prorogare sino al 30 giugno 1956, solo alcuni interventiassistenziali in favore dei profughi.Precisamente – per le considerazioni succitate e per il fatto che la concessione troppoprolungata del sussidio giornaliero induce all’inerzia molte persone ancora idonee allavoro, le quali preferiscono accontentarsi del modesto aiuto elargito dallo Stato,anziché adoprarsi per trovare una qualsiasi sistemazione – il provvedimento di prorogacontiene numerosi restrizioni rispetto alle norme attuali in modo che verrà ad esseredi gran lunga ridotto il numero degli assistiti ed ad essere limitata la concessionedell’assistenza a casi veramente degni di considerazione23.

Perciò, nel 1955 la prefettura di Massa-Carrara giustamente sipreoccupava delle ricadute sull’ordine pubblico delle nuove disposizionirestrittive (disposizioni che provocheranno diverse sommosse in altri centriraccolta profughi):

Con circolare del 28.6.u.s. il ministero dell’Interno, Direzione Generale AssistenzaPubblica ha impartito nuove disposizioni sull’assistenza ai profughi. In base a talinorme verrà a cessare, con effetto immediato, la corresponsione del sussidio giornalieroa circa 450 profughi ricoverati presso il Centri di Marina di Carrara.Nella eventualità che il citato provvedimento possa avere qualche ripercussione neiconfronti di quanti vengono a trovarsi privati del beneficio di cui godevano, prego V.S.

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di voler senz’altro disporre per quei provvedimenti cautelativi più opportuni edadeguati, onde prevenire ogni possibile turbativa alla normale vita del Centro24.

Oltre a coloro che abbandonavano in maniera volontaria il CRP persistemarsi altrove, vi erano anche profughi costretti a lasciare il Centro percause - per così dire - di forza maggiore come quelli incarcerati per reaticommessi all’esterno, o come il profugo U.C. che si dette alla fugaprecipitosa per:

sottrarsi alle minacce di un numeroso stuolo di creditori, che si ritenevano da luiraggirati.Costoro avevano fatto ricorso al Sig. Direttore Perone perché inducesse il C. asoddisfare ai propri debiti e sostavano minacciosi nei pressi dell’ingresso principale,alcuni armati di roncola e falcetto determinati, dicevano, uccidere il truffatore25.

Invece, altri profughi erano oggetto degli interessi informativi delministero dell’Interno. A questo proposito, vi è una velina di risposta aldirettore dell’Ufficio provinciale assistenza post-bellica di Massa (cheillustra bene anche le miserie umane del CRP):

A seguito di quanto richiesto verbalmente dalla S.V. in data 16 u.s., in merito allaattività del Comitato Giuliano si precisa quanto segue:nessuna attività viene svolta dal Comitato in parola in questo Centro Raccolta, vi èsolamente un componente del Comitato Provinciale, nella persona del profugo T. avv.R., componente che non risulta essere stato eletto dalla comunità.Risulta ancora, da varie indiscrezioni, che lo stesso non è gradito alla maggioranza deiprofughi in quanto per ogni eventuale prestazione come domande varie, richiestedanni di guerra, denunce dei beni abbandonati, richiede equi compensi in denaro.Infatti, per la compilazione dei formulari relativi alla denuncia dei beni abbandonati,richiedeva somme varianti dalle 1.000 alle 1.500 lire.Questa Direzione, per ovviare il ripetersi di tali inconvenienti, ha messo a disposizionedei profughi un impiegato dell’ufficio Assistenza per il disbrigo delle pratichesopracennate26.

Tutta la vita nel campo era minuziosamente regolata e la visione diprogrammi televisivi non fa eccezione, così veniamo a sapere che si puòvedere la tv:

Per gli adulti: Ogni giorno della settimana dalle ore 20,30 alle ore 23,00Per i ragazzi: Ogni giorno della settimana dalle ore 17,00 alle ore 18,00

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Centri Raccolta Profughi per gli italiani in fuga

La Domenica sarà trasmessa la partita di calcio dalle ore 18,45 fino al termine dellastessa27.

Inoltre, per evitare disdicevoli discussioni dei profughi:

Si ricorda che nei giorni di mercoledì e domenica nei programmi T.V. serali dovràessere data la precedenza alle trasmissioni sportive28.

Infine, non mancavano prescrizioni relative alla morale:

Per buona norma si tornano ad avvertire tutti i ricoverati che è fatto assoluto divietodi circolare nell’interno del Centro indecentemente vestiti. Pertanto mentre gli uominicureranno di non aggirarsi a petto nudo, le donne dovranno evitare di circolare inpantaloncini corti o addirittura in costume da bagno.Gli agenti di P.S. ed il personale dipendente, cureranno la massima osservanza delpresente avviso, segnalando a questa Direzione gli inadempienti per i provvedimentidisciplinari del caso29.

Comunque, ancora nel 1970 i profughi appena giunti dalla Libiadovettero trovare estremamente sgradevole la loro permanenza presso ilCentro di Marina di Carrara, tanto da rivolgere una perorazione alpresidente Saragat:

perché intervenga a sanare una situazione insostenibile, provocata dal vittoinsufficiente e talvolta immangiabile [e dalle] loro condizioni di assoluta indegenza atal punto, di non poter acquistare neppure una stringa per le scarpe o un dentifricio30.

Con decreto del ministro dell’Interno dell’11 agosto 1971 il CentroRaccolta Profughi si trasformò in Comunità Protetta Profughi di Marina diCarrara. Con il D.P.R. n. 9 del 15 gennaio 1972, le funzioni amministrativein materia di beneficenza pubblica furono trasferite dallo Stato alle Regioni.Nell’aprile del 1972 erano presenti 196 profughi, nel gennaio 1974 ne eranorimasti 30 che si ridurranno progressivamente a 5, quando la Comunità venneinfine soppressa con Legge regionale n. 15 del 7 aprile 1976, con attribuzionedelle residue competenze assistenziali all’ente locale e quelle amministrative alneo costituito Ufficio stralcio della Comunità Protetta Profughi.

Comunque, la «musica» non cambiò di molto anche nel periodo digestione regionale:

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Riccardo Cappelli

Ovviamente rientra nei compiti dell’Ufficio esercitare costante opera di persuasioneaffinché gli ospiti si inseriscano nella vita produttiva e sociale dello Stato dimettendosidalla Comunità. Ma poiché non tutti sono propensi affrontare, in modo autonomo,le oggettive difficoltà della vita, occorrono precise disposizioni se si deve intervenirecon maggior severità (facendo intervenire le autorità di P.S.), quando le pressioni e lediffide non danno il risultato sperato31.

Tra l’altro, le operazioni miranti allo sfollamento incontrano l’ostilità diambienti politici ben definiti, come denunciato dal dirigente regionaleBordigoni nella sua prima relazione annuale:

Malgrado il lavoro sia stato arduo a causa di una costante e pressante interferenza diforze politiche di estrema destra che con la chiusura della Comunità vengono a perdereil loro nucleo organizzato più numeroso ed importante della provincia (forse dellaRegione), la situazione nella Comunità è abbastanza soddisfacente32.

L’ufficio stralcio terminava la propria attività il 31 dicembre 1984mettendo fine, una volta per tutte, anche alla triste esperienza toscana.

Note al testo

1 Il lavoro è basato sui documenti conservati nel fondo Comunità Protetta Profughi dell'ArchivioStorico e di Deposito della Giunta Regionale Toscana. Di essi si indica la collocazione nellarelativa busta.

2 Per gli interessati, si segnala un libro di memorie scritto da una ex profuga del Centro di Marinadi Carrara: M. BRUGNA, Memoria negata, Editore Condaghes, Cagliari 2002, pp. 296.

3 Nell’aprile del 1945 un capo squadra prendeva 90 lire al giorno; un operaio specializzato 75,80così come una guardia notturna; un operaio qualificato 70,75; un manovale comune 50,60; unaddetto alla pulizia 40,50 se uomo, 30,40 se donna; un impiegato dalle 55 alle 90 a seconda dellecompetenze e del titolo di studio e così via. Il compenso dovuto ai profughi era qualificato come«maggiorazione al sussidio» e, perciò, esente da ritenuta erariale e assicurazione sociale(Ministero dell’Assistenza post-bellica, Servizio Civili Vittime di Guerra, «Sussidi ai Profughiricoverati nei Centri di Raccolta», 2 ottobre 1945, busta 104).

4Alto Commissariato Profughi di Guerra, «Regolamento per il funzionamento dei servizipreposti all’igiene dei Campi e dei Centri di Raccolta e Smistamento dei Profughi di Guerra»,22 aprile 1945, busta 104.

5 «Avviso ai profughi», 19 agosto 1946, busta 110.

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Centri Raccolta Profughi per gli italiani in fuga

6 Ministero dell’Interno, Ufficio Provinciale dell’Assistenza Post-bellica, «Nuova tabelladietetica per i profughi assistiti nel Centro e fuori», 10 febbraio 1949, busta 105.

7 «Avviso ai profughi», 15 novembre 1946, busta 109.

8 Lettera al prefetto del 14 febbraio 1964, busta 108.

9 Il Sottosegretario di Stato (Ministero dell’Assistenza post-bellica, Ufficio Sanitario),«Deficienze e necessità del Centro Profughi di Marina di Carrara», 2 marzo 1946, busta 110.

10 «Avviso ai profughi», 5 novembre 1946, busta 109.

11 Missiva del 22 luglio 1960, busta 107.

12 Rapporto del 2 gennaio 1950, busta 110.

13 L’articolo 13 del Regolamento interno del CRP nel 1947 stabiliva: «È vietato l’uso dimateriale elettrico come fornelli, stufe, ferri da stiro, ventilatori, motorini ecc. Anche gliapparecchi radio sono vietati. In generale, il divieto è imposto dallo spreco di energia che l’usodi questi apparecchi comporta. Sarà concesso l’uso di un apparecchio radio in consegna allaCommissione Interna» («Regolamento interno», 12 gennaio 1947, busta 111).

14 «Avviso ai profughi», 15 marzo 1960, busta 110.

15 A. Perone all’Ufficio Economato del Comune di Carrara , 19 maggio 1946, busta 110.

16 1° luglio 1957, busta 106.

17 13 maggio 1946, busta 109.

18 21 luglio 1946, busta 109.

19 16 giugno 1946, busta 109.

20 11 giugno 1946, busta 109. La lettera è su carta intestata dell’Associazione NazionaleAntifascisti (con le seguenti subintestazioni: «Cittadini mai iscritti al Partito Fascista – Sestobraccio – L’A.N.A. non è un partito. È un movimento di purificazione»), ma in fondo reca iltimbro circolare «Unione Antifascisti Intransigenti».

21 31 marzo 1947, busta 110.

22 27 maggio 1947, busta 110.

23 Ministero dell’Interno, Direzione Generale Assistenza Pubblica, «Nuove normesull’assistenza a favore dei profughi», 28 giugno 1955, busta 111.

24 6 luglio 1955, busta 111.

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25 27 settembre 1946, busta 109.

26 21 gennaio 1953, busta 106.

27 «Avviso ai profughi», 5 maggio 1960, busta 110.

28 «Avviso ai profughi», 17 dicembre 1969, busta 110.

29 «Avviso ai profughi», 17 luglio 1961, busta 110.

30 «Al Capo dello Stato Giuseppe Saragat, 3 dicembre 1970, busta 105.

31 «Istruzioni sulla condotta della Comunità», 12 dicembre 1972, busta 1 (Ufficio Stralcio).

32 «Relazione», 2 luglio 1973, busta 1 (Ufficio Stralcio).

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Un fatto sugli altri domina: la sicurezza

africa e dintorni

«Un fatto sugli altri domina: la sicurezza».Uno scambio di relazioni sull’Etiopia del settembre 1937

di Nicola Labanca

1. All’inizio di settembre del 1937 l’ispettore del Partito nazionalefascista Davide Fossa scrisse ad Alessandro Lessona, ministro dell’Africaitaliana. Nel giro di pochissimi giorni il ministro rispose. Il carteggio,durissimo nella sostanza anche se mellifluo nelle reciproche dichiarazioni diamicizia personale, giunse all’attenzione di Benito Mussolini, che volleconservarlo1. Le missive, ma potremmo dirle relazioni per la loro ampiezza,sono due documenti esemplari dello stato dell’«Impero», di quell’Etiopiacioè per conquistare la quale il regime aveva rotto la pace internazionale,sbrecciato il sistema di sicurezza collettiva della Società delle nazioni,travolto il bilancio pubblico nazionale, impegnato le forze armate e attrattol’attenzione dell’opinione pubblica scatenando una campagna propagandi-stica senza precedenti. Una legislazione razziale era già stata introdottanell’Impero. La seconda guerra mondiale si era avvicinata, dopo la guerrad’Etiopia.

Tutto questo per avere cosa in cambio? Lo scambio fra Fossa e Lessonaoffre importanti risposte.

2. Per capire meglio lo stato dell’Impero alla vigilia dell’autunno-inverno1937, però, è necessario vedere la situazione coloniale italiana sullo sfondodelle altre situazioni degli altri imperi oltremare delle potenze europee. Lastoria dell’imperialismo coloniale, è noto, è una storia di diversità, didifferenti situazioni fra colonia e colonia, fra area ed area. Ma alcuni elementidi continuità c’erano.

La fine della prima guerra mondiale e la redistribuzione dei territoricoloniali tedeschi aveva avvantaggiato Regno Unito e Francia. La crisi del

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Nicola Labanca

1929 mise a dura prova ma anche valorizzò i rapporti fra madrepatria ecolonie. Fra il 1935 e il 1939 il 39,5 per cento delle importazionibritanniche proveniva dalle colonie, mentre il 49 per cento delle esporta-zioni vi si dirigeva. Non a caso gli storici parlano di «recovery throughempire». Questo aumento dell’interscambio, ottenuto anche un rinnova-to protezionismo, permise persino uno «sviluppo» economico di alcunearee delle colonie, e per certi versi anche politico ed amministrativo. Glistorici ancora discutono se il Government of India Bill del 1935 (o 1935Act) era davvero destinato ad aumentare l’autonomia amministrativa dellaperla dell’impero britannico: certo è che di questi temi si trattava, persinosotto i governi liberali o conservatori2.

Anche nei vari e diversificati possedimenti francesi la crisi del 1929 avevapesato molto. Crisi commerciale e pauperismo non furono fenomeni isolatinella prima metà degli anni trenta. Ma anche qui il rapporto privilegiato framadrepatria e Oltremare ne uscì rafforzato. I governi di Fronte popolare siposero il problema se un’economia coloniale «dirigée» fondata sull’interven-to statale fosse la risposta giusta a questi problemi. Chi sosteneva che «la salutde la France était dans son Empire» esagerava forse un rapporto che però erastretto, e che aveva portato frutti indubitabili a Parigi. La concretezza deirisultati ottenuti non ottenebrava, però, i sentimenti dei Francesi che – perquanto possano valere i sondaggi di opinione del tempo – erano divisisull’opportunità di dover combattere per difendere l’Empire (non perampliarlo, ché a questo nessuno seriamente pensava): 44 contrari, 40favorevoli. In molti, poi, erano favorevoli a riformarlo3.

Anche altre ben più piccole potenze coloniali, per quanto dal passatoglorioso, come il Portogallo, avevano rafforzato in quegli anni rapporti benstretti con le proprie colonie. Già in un importante discorso pronunciato il 17maggio 1931, Salazar aveva affermato «a vontade de sermos no presente e nofuturo o que sempre fomos no pasado - livres, indipententes, colonizadores»4.

Tutti, insomma, in Europa pensavano agli imperi. Ma pensavano a«valorizzarli», cioè a sfruttarli, ed effettivamente ne trassero vantaggi.

Nessuno – nemmeno chi, come il dittatore portoghese, non inclinavacerto verso le riforme coloniali ideate dai governi di Fronte popolare franceseo verso le cautissime ipotesi di autonomia amministrativa dei governibritannici – pensava a ampliare i propri territori.

Mussolini e il fascismo, invece, ci pensarono. Con la guerra del 1935-1936 e con la conquista dell’Etiopia l’Italia fascista scatenò l’ultima,anacronistica guerra di conquista coloniale della storia5.

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Un fatto sugli altri domina: la sicurezza

I SENTIERI DELLA RICERCA

rivista di storia contemporanea

EDIZIONI CENTRO STUDI“Piero Ginocchi”, Crodo

Graziani firma l’atto di costituzione di nuove città in terra africana.

Esercitazioni nel maneggio delle armi in A.O.I.

I SENTIERI DELLA RICERCA

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A quale pro? Invece di guadagnare dalle colonie, il fascismo ci sperperòrisorse preziose che sarebbero poi mancate al momento della prova fataledella guerra mondiale. E l’Etiopia fu davvero conquistata?

3. A settembre 1937 era ormai passato quasi un anno e mezzo dallaproclamazione, il 9 maggio 1936, dell’Impero fascista sull’Africa orientaleitaliana. Lo scambio fra Fossa e Lessona avveniva a quasi sei mesi dall’attentatoal vicerè Rodolfo Graziani (19 febbraio 1937) e per certi versi traeva unbilancio della reazione del vicerè e della politica del ministro. Le conclusioniche Mussolini maturò rispetto a quella reazione e a quella politica sono note:nel novembre Graziani e Lessona sarebbero stati licenziati.

Sulle realizzazioni italiane in Etiopia il giudizio dovrebbe essere articola-to, settore per settore, area per area. Nell’insieme, però, i giudizi italiani percui si sarebbe «perven[uti] a risultati obiettivamente rilevanti»6 o quellioccidentali per cui «l’occupazione italiana diede anche una benefica scossaa istituzioni medievali e a un immobile modo di vita tradizionale»7 da temposono stati posti a severa discussione da parte degli studiosi africani e etiopici.Questi sono più inclini a sottolineare che l’intervento militare fascistainterruppe il, sia pur contraddittorio e timido, «modernization work»8

intrapreso dal Negus d’Etiopia e più in generale che la politica italiana – apartire da quella agricola – non ebbe conseguenze o se le ebbe esse furonoin linea di massima di scarso vantaggio per il colonizzatore e negative perl’economia locale, nel caso specifico agricola.

Non è quindi inutile riascoltare ancora una volta la voce dei documentie dei massimi protagonisti: in questo caso di un ispettore in loco come Fossae del ministro responsabile9. Il fatto che si tratti di voci riservate, destinatea rimanere nel chiuso degli archivi e delle lotte di potere interne alla classedirigente fascista, ha la sua importanza. Infatti, all’esterno, la propaganda delregime non perdeva occasione per «laudare» la sicurezza dei territori, laqualità dei programmi di colonizzazione, il consenso degli «indigeni» versoil governo fascista ecc.: nel segreto delle comunicazioni riservate «a doppiabusta», invece, la realtà emerge in forma generale ma con tratti nitidi edifficilmente negabili. Nonostante quelle che furono definite «grandi ope-razioni di polizia coloniale» e nonostante gli orrori come il massacro diDebrà Libanos, la resistenza etiopica al colonialismo fascista era rimastaforte. Se gli stessi artefici della conquista fascista, in un anno e mezzo, eranocosì insoddisfatti e per certi versi critici verso i risultati dell’occupazioneitaliana, perché avere un’opinione diversa in sede storiografica? Fossa eLessona se lo scrivono a chiare lettere: l’Impero è ancora in mezzo alla rivolta

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Un fatto sugli altri domina: la sicurezza

antiitaliana, non c’è sicurezza, il regime spende in Etiopia ma non ciguadagna, gli italiani invece di colonizzarla ne fuggono e quelli che vi sistabiliscono non sembrano i migliori.

Un altro aspetto che i documenti fanno risaltare è l’assoluta imparità deidue all’altezza delle questioni che sono chiamati ad esaminare. Fra i due, laposizione è diversa: Fossa enumera i problemi aperti, Lessona cerca didifendere quanto già fatto. Ma ambedue non hanno idee e progettiall’altezza della situazione. Fossa, di fronte al continuato dilagare dellaprotesta antiitaliana pensa solo a far rimanere le truppe (e quindi ad unasoluzione militare). Lessona tenta di difendere la politica economica colo-niale dalle critiche riversando tutta la responsabilità sulle spalle del vicerè(che sa già in disgrazia presso Mussolini). Al problema istituzionale deirapporti fra poteri e istituzioni, fra madrepatria e colonie, Lessona non saquale soluzione offrire se non una riproposizione teorica e schematica delleverticalità e delle gerarchie dello Stato totalitario fascista. Proprio Lessona,in particolare, insiste nel carattere strategico del razzismo fascista e dellanecessità del rispetto della legislazione razziale: non solo «nessun potere airas» ma nessuna seppur minima concessione che anche solo lontanamenteavrebbe potuto ricordare l’elargizione di qualche diritto agli «indigeni»doveva essere praticata nell’Impero. Sono solo alcuni esempi, ma su puntidecisivi, della impressionante pochezza della classe dirigente fascista.

Quello, infine, che colpisce è che sia Fossa sia Lessona hanno compresomolte cose. Hanno compreso che l’Impero non esiste. Che forse non sarebbeesistito per molto tempo ancora. Che le immense risorse economiche gettatedal regime nella fucina della guerra sono state quindi sprecate. Che la paceeuropea è stata messa a repentaglio per una politica, di cui essi e il regimesono responsabili, la quale – invece di dare i frutti afferrati da Londra, Parigie persino Lisbona – non crea al Paese che problemi e difficoltà.

Lo hanno compreso e se lo scrivono, per quanto ognuno addossando aqualcun altro le responsabilità (Fossa a Lessona, Lessona a Graziani). Manon c’è un filo d’autocritica. Sanno, ma non vogliono trarre le conseguenze.

Non furono i problemi, né le conseguenze dei loro atti, né i movimentinazionali e anticoloniali a scalzare questo «Impero» e i suoi fondatori. Cisarebbero volute, e al fine ci vollero, la guerra mondiale e la Resistenza persbarazzare il Paese da questa classe dirigente. Purtroppo, a quel punto, sulpassato Impero cadde il silenzio, e la sua storia – oltre a quanto già neconosciamo10 – ha ancora tante pagine che attendono di essere scritte.

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L’abbraccio del Duce al Maresciallo Graziani al suo ritorno in Italia

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Un fatto sugli altri domina: la sicurezza

STRETTAMENTE PERSONALE – doppia busta

5 settembre XV

S.E. ALESSANDRO LESSONAMinistero Africa Italiana

Roma

Cara Eccellenza,ritengo mio dovere anche in nome della nostra buona amicizia e della benevolenza chemi hai dimostrato, scriverti la presente in ordine ad alcuni fra i più importanti problemiche interessano la vita dell’Impero.Naturalmente Tu farai l’uso che crederai delle mie informazioni e considerazioni.Quello che mi importa è che Tu consideri il presente documento prova di lealtà e di affetto.Premetto che sono un poco rammaricato del mancato riscontro alla mia del 14 agostorelativa agli articoli apparsi sulla stampa italiana circa i problemi della colonizzazioneed al possibile equivoco intervenuto con S.E. il Segretario del Partito per le presuntediversità riscontrate fra le direttive di massima della colonizzazione e le primeapplicazioni pratiche per la Romagna. Spero tuttavia che la mia lettera sia stataesauriente e non sussistano più malintesi di sorta.Il primo argomento sul quale mi corre obbligo di intrattenerTi è quello relativoall’ordinamento militare dell’Impero.Secondo quanto si afferma è stato deciso di attuare entro l’anno l’ordinamento militaredi pace. In conseguenza sono in corso di smobilitazione e di rimpatrio circa 70 milasoldati: 30 mila metropolitani e 40 mila indigeni.Ora, per l'impressione che si ha generalmente qui, i soldati e i legionari metropolitaniche restano, sono, per la situazione di oggi, pochi. Insufficienti al bisogno. Sui repartiindigeni si potrà contare sino ad un certo punto.Anche recentissimi, attuali episodi dimostrano che le cosiddette ‘bande’ non hannoancora raggiunto quella efficienza, solidità, coesione, che consenta di guardare conassoluta sicurezza al loro impiego. Si tratta di gente inquadrata da poco, che almomento dell’urto si batte abbastanza bene se perfettissimamente inquadrata, ma –quando questo non sia oppure veda l’ufficiale ferito – non resiste. Ora la perfezionedell’inquadramento è sempre relativa, e di ufficiali feriti e morti ne abbiamo purtroppoavuto parecchi in questi ultimi tempi.Gli abissini sono gente fantasiosa. Sono bastate le prime partenze di soldati e di operai,perché preti e cantastorie girassero nei paesi dell’interno annunziando che gli italianise ne andavano via.Le conseguenze non sono mancate e non mancano.Se effettivamente entro l’anno rimpatrieranno la «Tevere» e la «Pusteria» chi guarderàla ferrovia e la Dessiè-Addis Abeba? Se attualmente ai primi segni di ribellione nei Galla

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Sidamo lo Stato Maggiore non avesse potuto inviare in loco, come ha fatto, forzeimponenti che vengono ristabilendo l’ordine, che cosa sarebbe successo nell’Ovest? Ese a fine anno i tentativi dovessero essere ripetuti, come verrà fronteggiata la situazionese le truppe saranno partite? sono questi gli interrogativi che la gente si pone.Soltanto se noi saremo forti non correremo rischi e la conquista sarà serena e sicura.Anche l’imminente inizio degli esperimenti di colonizzazione nel Semien, nel Cercer,nei Galla Sidamo richiede un ambiente se non pacifico, sicuro perché forte.Le popolazioni indigene debbono vedere, sapere, provare la forza. Non conoscono chequella. I più recenti avvenimenti dimostrano che, almeno per ora, non sono soltantogli Scioani quelli di cui bisogna diffidare, ma anche altre razze. Tutte. Per esempio sisono ribellati i Galla che, per opinione comune e corrente, erano ritenuti assolutamen-te pacifici.Del resto qui c’è il Vice Re, il Capo di Stato Maggiore, il Comandante Superioredell’Aeronautica, il Comandante Superiore dell’Arma dei CC.RR., tanto per citare iprincipali. Non mi pare si possa prescindere dai loro pareri – pareri che io mi [sic]sappia decisamente contrari ad una riduzione di effettivi così sollecita come quella chesi vorrebbe attuare.La nostra non è una forma «inglese» di colonizzazione. Gli inglesi tengono le colonie conpochissima gente. Ma essi hanno lasciato o addirittura creato dei capi indigeni respon-sabili. Di fianco a questi capi hanno messo un Residente con un reparto. Il giorno cheil capo indigeno sgarra viene impiccato e sostituito. Noi abbiamo invece un programmadi colonizzazione e di popolamento, e non teniamo conto degli indigeni come capi. Edallora anche il problema militare deve essere riguardato con concetti diversi.Le forze cosiddette di pace andranno bene fra qualche tempo. Non bastano ora. Giài reparti che sono qui si disperdono nei servizi e negli immensi territori dell’Impero.Alcune decine di migliaia di uomini diventano piccoli presidi. Qui occorrono uominie mezzi sufficienti. Le specialità: genio, radio, motoristi, assicurate per necessità sullequali soltanto lo Stato Maggiore può essere giudice. Segnalo ancora la deficienza diofficine meccaniche: un motore guasto costituisce la gioia dell’indigeno.Non si creda che gli stessi uomini attualmente mobilitati siano eccessivi come numeroe della migliore qualità. I Capi sono generalmente elementi scelti, ma fra gli ufficialiinferiori – Esercito e Milizia – si notano e si lamentano spesso deficienze, e nella massadei volontari – Esercito e Milizia – sono numerosi quelli che, più che per spiritomilitare, sono venuti in A.O. per sistemarsi come civili, e gli Uffici del Lavoro nonfanno che ricevere soldati e militi che chiedono di essere occupati come lavoratori.Informazioni concordi di ufficiali e soldati dimostrano [che] la tattica dei cosiddettiribelli ha subito e subisce una continua trasformazione in senso evoluto e militare. Icombattimenti non sono ormai quasi più il caotico urto di due anni fa. Un principiodi tecnica c’è. E le armi moderne e le munizioni non mancano.La fase dell’occupazione e della pacificazione non è ancora compiuta. È questa unarealtà della quale bisogna tener conto. Ieri ho avuto un lungo colloquio col camerata

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Generale Mischi. Mischi, per l’azione di penetrazione che ha saputo svolgere e per ilsuo coraggio, è certamente uno dei Comandanti di settore che si trovano [sic] incondizioni migliori. Sostanzialmente i miei dubbi e preoccupazioni, conseguenza diopinioni raccolte nei più svariati ambienti, sono stati in pieno confermati dalle sueparole.Le sollecite partenze dei soldati e degli operai (40 mila operai in tre mesi) hannodeterminata una effervescenza dell’ambiente indigeno. Continuare per questa stradapotrebbe recarci qualche sorpresa.Per i rimpatri dei soldati è desiderabile una gradualità maggiore. E nel contempo siravvisa sempre di più la necessità di sviluppare una azione intesa ad irretire la vitadell’Impero di un complesso così solido di provvedimenti nei settori civile, sociale edeconomico, da poter resistere ad ogni evenienza.Tornando al problema militare un provvedimento ottimo appare quello di stabilirel’obbligo per i Commissari, Residenti, ecc. di imparare, nel termine più breve possibile,la lingua locale. La peste maggiore sono gli interpreti e gli informatori. Buone volte siè dovuto provvedere a fucilarne diversi perché trovati in flagrante reato. Bisogna chei dirigenti, militari e civili, dei Dipartimenti siano in grado, quanto più presto èpossibile, di mettersi a contatto diretto con la popolazione indigena. O quanto menodi controllare gli interpreti, se per una ragione di prestigio si dovessero conservare gliinterpreti stessi.Come dicevo più sopra difetti ed errori ve ne sono e se ne compiono. Per essi leGerarchie responsabili potranno gradualmente provvedere. Ma un fatto sugli altridomina: la sicurezza. Ove questa non sia garantita possono capitare guai seri, ed irimedi che dovrebbero essere presi, indubbiamente costerebbero moralmente ematerialmente assai di più di quanto possa oggi costare il considerare realisticamentela situazione per quello che è.La situazione di oggi non è tale da creare gravi preoccupazioni. Ogni movimento ribelleviene dall’inizio isolato e stroncato. Questo si può fare oggi e si fa. Ed è indispensabileche si possa fare sempre.Del resto – secondo quanto si afferma dai competenti – è sopratutto una maggioregradualità che occorre. Dar tempo al tempo e cioè fare in modo che la vita dell’Imperopossa consolidarsi in un regime di ordine.

Il secondo argomento sul quale voglio intrattenerTi è dato dalla situazione economica.Intorno ai problemi economici dell’Impero sono vivissime, negli ambienti dell’A.O.I.discussioni che naturalmente si svolgono senza alcuna pubblicità ma che non perquesto sono meno vive, appassionate e profonde.I provvedimenti del contingentamento, della esportazione, della valuta, sono natural-mente all’ordine del giorno.Si ha la impressione che i pareri siano discordi e che non si tenga sufficientemente conto,da parte del Ministero, di quelle che sono le proposte che vengono avanzate da qui,proposte conseguenza di esperienza che ogni giorno ciascuno nel proprio settore fa.

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Roma deve giustamente avere una preminente, diretta e continua ingerenza nella vitadell’Impero, ma d’altra parte si pensa da parecchi – e non soltanto negli ambienti delGoverno Generale – essere indispensabile da parte vostra una maggiore considerazionedegli studi che vengono compiuti in A.O.I.Si ha l’impressione che taluni problemi non siano sempre considerati in tutti i loro aspetti.La economia di qui si mantiene in uno stato vitale e pulsante ma purtroppoprevalentemente artificioso. Le iniziative private sono lente e si muovono in mezzo agravissime difficoltà di ordine burocratico. Le pratiche relative affogano fra le carte,non si sa bene se qui, presso i Governi Territoriali, o a Roma.Secondo precise indicazioni del Banco di Roma, in certi campi (per esempio: caffè, oro,pelli) abbiamo perduto terreno rispetto alla situazione del periodo negussita, e, sempresecondo quanto si afferma dal Banco di Roma e dagli altri competenti di qui, nel campoeconomico non si vede ancora chiaro per un miglioramento.Bisogna decidersi: o il Governo Generale dell’A.O.I. ha funzioni prevalentementeispettive e la responsabilità della organizzazione economica e civile è dei singoliGoverni Territoriali, di concerto col Ministero, o la Direzione Superiore degli AffariEconomici del Governo Generale dell’ A.O.I. (tanto per citarne una) è certamente aldi sotto della situazione.Appare assolutamente necessario ed urgente che Tu esamini il problema e prendaopportune decisioni di indirizzo.Le Consulte sono un Istituto teoricamente ottimo e che indubbiamente assolve [sic]a funzioni politiche importanti, ma per quanto riguarda la pratica soluzione dideterminati problemi ha [sic] il difetto di essere formato in massima parte dapersonaggi che non conoscono l’Impero, non vi sono mai stati o ci sono stati in visita15 giorni, e poi stanno a Roma, seimila chilometri e più dal terreno dell’azione. Io l’hoesperimentato per quello che riguarda la Consulta del Lavoro, e penso che pressapoco[sic] capiterà lo stesso anche per le altre.Il programma di organizzazione dell’Economia dell’Impero dovrebbe a mio modo divedere essere disposto attraverso la più stretta collaborazione fra Ministero, GovernoGenerale e Partito.

I due argomenti sopra indicati, militare ed economico, portano a considerare laposizione dei rapporti fra il Governo Generale ed il Ministero.Tu hai detto giustamente al Senato che non vi può essere dubbio in ordine alla chiarezzadi tali rapporti partendo dalla considerazione che si tratta di due organi di diversaposizione gerarchica: ma indubbiamente nella realtà se occorre da parte del GovernoGenerale tener conto che il Ministero è un Istituto Superiore, d’altra parte il Ministeronon può prescindere dalla consapevolezza e dalla responsabilità delle Gerarchiedell’Impero da esso stesso nominate.Io non ho ancora visto, da quando sono tornato in A.O.I., S.E. il Vice Re che è in visitaai territori del Nord; ma ho avuto in questi giorni lunghi ed ampi colloqui con S.E. ilVice Governatore Generale.

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Un fatto sugli altri domina: la sicurezza

Sono sempre più convinto essere necessaria una Tua sollecita presenza in A.O.I. e perl’avvenire i più frequenti, possibili, personali contatti fra le Gerarchie del Ministero edil Governo Generale.Coi telegrammi si risolve ben poca cosa, anzi certe posizioni si inaspriscono a tuttoscapito dell’interesse reciproco e generale.So della Tua lettera a S.E. Petretti relativamente alla questione dei cosiddetti «pienipoteri» e della ampia risposta inviataTi dalla stessa Eccellenza.Evidentemente più che della forma ed esteriorità occorre occuparsi e preoccuparsi dellasostanza.Qui non si tratta di dare maggiore soddisfazione a questa od a quella personalità quantodi trovare per la vita, lo sviluppo, la potenza dell’Impero la migliore possibile soluzionecontemperando le assolute necessità dell’Impero per la sua organizzazione ed il suoprogresso con quelle che sono le attuali abbastanza scarse possibilità dalla Madre Patria.Si dice che sia imminente una Tua visita.Io mi auguro fervidissimamente che la notizia sia vera perché penso, ripeto, chesoltanto ‘in loco’ e con la Tua indiscussa ed indiscutibile autorità, potrai affrontare edefinire questioni che – credilo – viste qui, appaiono tuttaffatto [sic] diverse di quantonon possa risultare esaminandole da Roma.Considerato, come dicevo più sopra, che in materia di problemi imperiali la ignoranzaè moltissima e che le stesse Consulte Ti possono dare un contributo relativo, io che Tivoglio veramente bene, Ti ammiro, Ti stimo e Ti apprezzo, penso che Tu finisca perassumerTi, solo e personalmente, troppo gravi responsabilità e che sia invece quantomai utile e necessario determinare fra Te ed il Governo Generale solidarietà completa,fattiva e sostanziale. Solidarietà che deve scaturire da intese dirette e personali e dafiducia reciproca, ma che non potrà mai invece essere data dalla schermaglia telegraficadegli alti funzionari.

Quarto elemento sul quale voglio portare la Tua considerazione in questa lunga ma,spero, non inutile lettera, è la posizione e funzione del Partito in A.O.I.Il Partito non è sufficientemente valorizzato nei territori dell’Impero.Non parlo tanto per me, che in definitiva dal punto di vista personale non posso certolamentarmi, quanto del problema in sé e per sé.Molti aspetti di questa poco piacevole situazione sono stati rappresentati dai SegretariFederali in tutte le riunioni e particolarmente nell’ultima.Da parte delle Gerarchie e dell’alta burocrazia si notano troppo spesso, nei confrontidel Partito, incomprensioni e gelosie.Si rischia in talune località di vedere riaffiorare le divisioni e le polemiche che dieci ododici anni fa si facevano in Patria per i rapporti fra i Prefetti ed i Segretari Federali.Pensa che un Governatore è arrivato a chiedere – a voce e per iscritto – che gli venisseroprecisati, per iscritto, i compiti e le funzioni della Segreteria Federale.Appare opportuno che – in linea generale – venga segnalata la necessità di una maggiorevalorizzazione del Partito.

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Il Partito deve apparire l’anello di congiunzione tra la popolazione metropolitana edil Governo, deve essere considerato strumento d’azione del Governo in tutti i settori.Tu comprendi che anche gli stessi problemi indigeni non possono sfuggire allaconsiderazione ed all’indagine del Partito, sempre s’intende come forma di subordina-ta collaborazione. Il lavoro degli indigeni, la proprietà terriera, l'educazione dei giovani– tanto per citare appena qualche argomento – sono evidentemente direttamenteconnessi a problemi di ordine generale che non possono lasciare indifferente il Partito.È ridicolo sentirsi dire: «voi non c’entrate».Ti ringrazio delle disposizioni date per quanto riguarda il lavoro degli indigeni, ma vediche è stato necessario che intervenissi Tu personalmente.Sempre a proposito di come è considerato da certi funzionari il Partito vi è quell’altroepisodio delle Commissioni di Studio che vengono in A.O.I. e che non avrebberodovuto avere nessun contatto col Partito «perché la loro attività ed i loro programmiinvestono esclusivamente la competenza dei Governi» (!!!)Attualmente alle Segreterie federali vi sono dei vecchi camerati che hanno notevoleesperienza della vita del Partito ed una squisita sensibilità politica.I Governi possono e debbono, a mio modo di vedere, considerare il Partito con assolutafiducia e servirsi di esso.Per quanto riguarda le popolazioni metropolitane, vi è tutto il settore morale che nonpuò essere considerato soltanto dal punto di vista della polizia: vi è quello economicoche, in attesa della attuazione dell’ordinamento sindacale nelle terre dell’Impero, puòe deve essere campo di proficua azione per il Partito.Insomma pure comprendendo appieno che la posizione delle Segreterie Federali neiconfronti dei Governi non può essere uguale a quella delle Segreterie federali nelconfronti delle Prefetture, bisogna che si senta di più quella che è la presenza, l’influenzae l’importanza del Partito. Dire in che modo è difficile perché il problema presenta puntidi squisita sensibilità, ma io ho segnalato a Te – fascista – la questione e le preoccupazioni.Prima dell’Impero, il Partito in Colonia era considerato ben poco e d’altra parte avevaben poco da fare, ma oggi naturalmente la situazione è assolutamente diversa.

Non dovrai in alcun modo dolerTi, cara Eccellenza, della presente che è certamente frale lettere più importanti che io abbia mai scritto nella mia vita.Ho molto considerato, prima di scriverla, ed è stata dettata dalla responsabilità che voimi avete affidata e dal sincero, profondo affetto che io sento nei Tuoi confronti.Ti ripeto – come ho cominciato – considerala un documento di lealtà e di devotafraterna amicizia.

(Davide Fossa)

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Un fatto sugli altri domina: la sicurezza

Roma 16 settembre 1937-XV

all’On. Dott. Davide FossaIspettore Fascista del lavoro

per l’Africa Orientale ItalianaAddis Abeba

Caro Fossa,ho letto con vivo interesse la tua lettera personale che tratta dei principali problemidell’Impero e ti ringrazio anzitutto di avermela voluta indirizzare perché soltanto conun cordiale e schietto spirito di collaborazione tra tutte le gerarchie si può riuscire a farequalche cosa di positivo.Se tutti usassero lo stesso sistema invece di rifugiarsi nei trinceroni di una sterilepolemica, se tutti esponessero chiaramente e con assoluta franchezza il loro pensiero,non per amore della critica ma con l’intento di portare il proprio contributo allasoluzione delle gravi questioni che si presentano a chi ha la responsabilità dell’avveniredell’Impero, le cose andrebbero certamente meglio.Rispondo punto per punto a quanto mi prospetti:1°) Ordinamento Militare. Premetto che scrivo in via strettamente personale econfidenziale al camerata Fossa al quale desidero esprimere il mio pensiero conaltrettanta lealtà di linguaggio. Nonostante l’attuale situazione dell’Impero, che nonè preoccupante ma è certamente fastidiosa, sono ancora convinto che si sarebbe potutoentro l’anno arrivare all’ordinamento militare di pace risparmiando molte centinaia dimilioni che avrebbero potuto essere utilmente impiegati nelle iniziative dicolonizzazione demografica. Superfluo ricordare a te, che ne sei sempre stato tenaceassertore, che la colonizzazione demografica mediante i reparti di lavoratori agricoliinquadrati nella milizia avrebbe rappresentato almeno in buona parte un sicurosurrogato della organizzazione della sicurezza dell’Impero basata, quale è attualmente,soltanto sui reparti regolari dell’Esercito e della Milizia. A parte questo, desidero ancheaggiungere non per fare rilievi a chicchessia ma soltanto per esprimerti appieno il miogiudizio che se si fosse seguita una diversa linea politica quale fu ripetutamente indicatada questo Ministero, le cose non sarebbero oggi al punto da richiedere la presenza inA.O. di una così ingente massa di truppe.Nessuno si nasconde né si è mai nascosto che in un paese come l’Etiopia esistono edesisteranno ancora per molti anni focolai di disordini e di brigantaggio. Quello che sipoteva e si doveva evitare era l’estendersi della ribellione propriamente politica. Ormaiinutile recriminare; certo è che allo stato attuale dei fatti è necessario mantenersi inforze fino a completa chiarificazione della situazione. Pertanto, pur rendendomi contodel gravissimo onere che ne deriverà alla finanza, ho dato disposizioni perché sianosospesi i rimpatri delle truppe metropolitane e i congedamenti di quelle indigene.

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Coma vedi, pure non concordando nelle premesse siamo venuti alla stessa conclusione.Riferendomi ad un tuo inciso circa la necessità di stabilire l’obbligo per i Commissari,i Residenti ecc. d’imparare la lingua locale, ti faccio presente che esiste già una precisadisposizione che obbliga gli addetti di Governo appena entrati in carriera a seguire uncorso regolare di lingue parlate nelle nostre colonie e che le lingue stesse sono materiadi esame per la promozione a Commissario Regionale.2°) Situazione economica. Quando sei venuto in Italia ti ho dimostrato, documenti allamano, che le difficoltà all’afflusso delle Ditte industriali e commerciali nell’Imperoerano poste non già dal Ministero ma unicamente dal Governo generale.Posso aggiungere che ancora oggi attendo invano una risposta alla mia lettera n. 15269del 3 luglio con la quale chiedevo al Governo generale precise proposte in materia diautorizzazione di licenze. Ho fatto tre solleciti che sono sinora caduti nel vuoto.Pertanto non è esatto che non si tenga sufficientemente conto delle proposte delGoverno generale perché queste proposte, per quanto sollecitate, non vengono affatto.È esattissimo quanto riferisci in base a precise indicazioni del Banco di Roma e cioè chein certi campi abbiamo perduto terreno rispetto alla situazione del periodo negussita.È questo infatti il settore nel quale il Governo generale ha completamente mancato aisuoi compiti trascurando tutte le direttive impartite da Roma.3°) La questione dei rapporti tra il Governo generale ed il Ministero cui tu accenni anchenell’ultima parte del punto secondo, è indubbiamente fondamentale. D’accordissimoche i contatti personali sono proficui: non mi si può certo rimproverare di non esserevenuto frequentemente nell’Impero... anche a dispetto dei santi. In quanto alle visitedelle Autorità dell’Impero a Roma, posso però osservare che non sono state altrettantoproficue: cito il caso di Petretti e in piccola parte anche il tuo. Quando siete venuti a Romavi siete convinti che da parte del Ministero vi è la massima buona volontà di collabora-zione cordiale, la massima comprensione delle reali esigenze dell’Impero e delle difficoltàin cui vi dibattete tanto che in breve si è raggiunto l’accordo su molti problemi. Perricordarti un caso tipico e di grande importanza mi riferisco proprio al sistema delleautorizzazioni per attività commerciali e industriali e dell’afflusso delle ditte: tutti vi sieteconvinti che il sistema è ottimo e che con una maggiore larghezza da parte delle Autoritàdell’Impero tutto sarebbe proceduto nel migliore dei modi. Appena tornati costì vilasciate irretire dall’ambiente e tornate ad accusare il Ministero di porre intralciburocratici all’attuazione dell’avvaloramento economico dell’A.O.Tu sai benissimo che più che del parere delle Consulte io fido nella mia personaleesperienza ed in quella dei miei immediati collaboratori che di colonie in genere e diAfrica Orientale in specie s’intendono certamente (per essere ottimisti) tanto quantole attuali autorità dell’A.O.Ma affrontiamo pure il problema fondamentale dei rapporti tra Ministero e Governogenerale. È evidente che accentrando tutto ad Addis Abeba, dico anche la pratiche diordinaria amministrazione, il Governo generale costituisce un superfluo duplicato delMinistero frapponendosi fra questo ed i cinque Governi dell’A.O. È evidente che uno

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dei due organi deve rinunciare in gran parte alle sue attuali funzioni. Non voglio farmiusbergo delle norme giuridiche ricordando che la legge organica è molto precisa alriguardo, poiché qui siamo in tema di discussione politica e non giuridica. Ora io dico:a) l’impossibilità di dirigere al centro la vita di una grande colonia esisteva tre secoli fa;non esiste certamente oggi quando la radio e l’aeroplano hanno posto i possedimentid’oltremare in quasi immediata vicinanza della metropoli;b) il Ministero è in grado di dirigere meglio che non il Governo generale l’attività deiGoverni territoriali (intendo naturalmente nelle grandi linee) perché ha la possibilitàdi conformare le proprie direttive alla reale situazione del paese nei vari settori diattività politica ed economica mantenendosi a stretto contatto con tutte le altrebranche di attività statali corporative e private e di adeguare le stesse direttive allasituazione internazionale;c) il Ministero ha il compito di predisporre i provvedimenti legislativi per l’Impero chein numero di trenta in media per seduta vengono sottoposti all’approvazione delConsiglio dei Ministri. Per questa sua altissima funzione il Ministero deve seguire davicino tutte le attività che si svolgono nell’Impero, altrimenti si farebbe della puraaccademia giuridica;d) si dimentica poi troppo facilmente che in un Regime autoritario l’autorità centraledev’essere continuamente al corrente di tutte le attività periferiche cui impartiscedirettamente le proprie istruzioni. Gli ambasciatori della Repubblica Veneta potevanogodere di una certa autonomia, ma gli ambasciatori dell’epoca fascista non sono altroche dei diligenti esecutori degli ordini che loro vengono impartiti quotidianamente dalcentro con la radio, il telegrafo, il telefono e l’aeroplano;e) infine è da tenere ben presente la formidabile personalità del Duce il quale nontrascura fin nei minimi particolari ciò che ha attinenza in Italia e in Africa alla vita delloStato e della Nazione. Si dimentica che il Ministero dell’Africa Italiana funziona comeuna specie di grande segreteria per gli affari africani agli ordini diretti ed immediati delCapo del Governo il quale ne intende seguire ed indirizzare giorno per giorno tuttal’azione. È un fatto che i rapporti tra il Ministero e i cinque Governi territoriali si sonosempre mantenuti nello spirito di una perfetta collaborazione e sono stati veramenteproficui, mentre gli intoppi e le polemiche sono venuti unicamente dal Governogenerale di Addis Abeba.Allora, tu mi dirai, che cosa ci sta a fare il Governo generale? Ma il Governo generaleaveva e dovrebbe avere ben altri compiti che quello di costituire un doppioneburocratico degli uffici ministeriali frapponendosi con uffici mastodontici come undiaframma tra l’autorità centrale e i cinque Governi territoriali.Quando si è fatta la legge organica si è avuto ben presente di evitare questa possibilità dicostituire un superfluo duplicato; infatti si è stabilito che i cinque Governi potevanocorrispondere direttamente con il Ministero per gli affari di ordinaria amministrazionee che il Governo generale aveva il compito di coordinamento per l’attuazione delledirettive impartite dal Ministero. Tutti gli uffici del Governo generale non avevano

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quindi funzioni sedentarie burocratiche ma compiti di coordinamento che evidentemen-te meglio si esplicano mediante attività ispettive visitando direttamente ogni territoriodell’Impero per rendersi esatto conto dell’applicazione delle istruzioni di Roma. Non mirisulta che i funzionari del Governo generale a cominciare dal vice Governatore generalesiano mai usciti da Addis Abeba. Lo stesso Viceré si è deciso a farlo dopo che il Capo delGoverno ha indicato come molto opportune le sue visite ai vari territori.Il Governo generale ha inteso invece di accentrare ogni potere ad Addis Abeba,sostituendosi da una parte al Ministero e dall’altra agli stessi cinque Governi territorialiche per ovvie ragioni essendo ad immediato contatto dei paesi e delle popolazionipotevano più efficacemente realizzare gli ordini di Roma; e così è avvenuto che lepratiche si fermano ad Addis Abeba per dei mesi, essendo evidente l’impossibilità dipoter fare tutto da Addis Abeba. In altri termini il Governo generale avrebbe dovutoattuare un larghissimo decentramento nel campo amministrativo, limitarsi a curarel’esatto adempimento delle direttive generali impartite dal Duce e dal Ministerodell’Africa Italiana di cui è stato costantemente informato, e dare a sua volta soltantole direttive d’ordine generale nel settore politico militare ed economico.Infine, caro Fossa, tu stesso poni come assiomatica la dipendenza gerarchica delGoverno generale dal Ministero dell’Africa Italiana.Ora una delle prime conseguenze della gerarchia è la disciplina e non già l’insofferenza di ogniordine impartito dal superiore. È invece costantemente avvenuto che il Governo generale,invocando una molta aleatoria dipendenza diretta dal Duce, ha sempre tentato di scavalcareed ignorare il Ministero dell’Africa Italiana. Ha sempre assunto apertamente un atteggia-mento di ostilità e di critica alle direttive del Ministero, usando anche un linguaggio offensivosia nei rapporti interni che in pubbliche riunioni. In queste condizioni non si può certoparlare di collaborazione e tanto meno di cordialità poiché quando l’inferiore pretende dicontrobattere tutti gli ordini del superiore senza porsi con spirito aperto di cameratismo asuo fianco, è perfettamente inutile ricercare da quale parte stia il torto.Tu sai che tanto nel settore politico quanto in quello economico le mie direttive nonsolo non sono mai state applicate ma è stato fatto precisamente tutto il contrario, cosaveramente inconcepibile in un Regime sostenitore delle gerarchie come il nostro.Del resto il più chiaro esempio di come il Governo generale dovrebbe funzionare melo dai tu stesso, caro Fossa, con l’organizzazione dell’ispettorato del Partito in A.O. Tunon hai mai inteso costituire un’altra direzione del Partito ad Addis Abeba, nésostituirti a Starace nelle sue funzioni di Segretario del Partito. Né hai mai inteso disostituirti ai cinque Federali accentrando tutto ad Addis Abeba. Hai saputo invececontenerti nei precisi limiti delle tue funzioni eseguendo alla lettera gli ordini del tuosuperiore e girando continuamente l’Impero per farli applicare. Io avrei sperato che ilGoverno generale facesse semplicemente altrettanto.4°) Affermi che il Partito non è sufficientemente valorizzato nel territorio dell’Impero.Mi rendo conto che con l’attuale situazione ancora quasi del tutto militare e anche percausa di incomprensioni e gelosie dell’alta burocrazia, il Partito non possa muoversi

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ancora con la sufficiente libertà che gli è necessaria. Ma anche qui è un prodotto dellasituazione locale e soltanto locale, mentre sai che al Ministero sono riuscito adimprimere lo spirito del fascismo al cento per cento mantenendo la più stretta ecameratesca collaborazione col Segretario del Partito. So che molti attriti si vanno appianando, come rilevo anche da una recente relazione delSegretario Federale di Addis Abeba, 31 Agosto, nella quale è esplicitamente detto che irapporti con le autorità di Governo e militari sono improntati a spirito di fattivacollaborazione. In quanto all’intervento del Partito nei riguardi degli indigeni bisognastare attenti a non esagerare per non dare l’impressione agli indigeni di trovare nell’orga-nizzazioni del Regime il mezzo per ottenere la parità di diritti coi nazionali. Dev’essere benchiaro che l’appartenere al Partito è un privilegio altissimo riservato soltanto ai nazionali.Tanto meno il Partito deve servire a dare un'infarinatura culturale o pseudo-culturale agliindigeni specialmente a quelli delle così dette capitali, che sono i peggiori e più viziati:ne faremmo degli spostati e quasi certamente dei ribelli.Infine fascismo significa quintessenza del nazionalismo e non conviene a noi dominatorisuscitare sentimenti del genere nei sudditi. Ma c’è di più: il Partito non deve darel’impressione agli indigeni di potere sperare nel suo appoggio contro il Governo. Tipicoè il caso dell’ufficio del lavoro di Assab, che ha creduto bene di ammonire operai sudanesidi non lavorare più di otto ore e di pretendere le razioni viveri anche se non lavoravano.È semplicemente inaudito fare del sindacalismo con degli autentici selvaggi, a parte laconsiderazione che nel caso si trattava poi di sudditi stranieri.Così anche l’organizzazione giovanile indigena dev’essere a mio avviso mantenutaesclusivamente nel campo dell’istruzione premilitare e di questo argomento miriprometto di parlare in questi giorni con Starace.Per il resto tu sai che io non ho mancato di intervenire ripetutamente ed anche con unacerta energia perché fosse dato al Partito quanto gli spetta e non credo che mi si possaimputare di ristrettezza a cominciare dal lato finanziario per il quale, come sai, ilMinistero ha destinato oltre dieci milioni all’anno alle Federazioni Fasciste dell’A.O.Può darsi che qualche Governatore militare, abituato a considerare il Partito secondouna mentalità superata, richieda ancora oggi quali sono i compiti del Partito in A.O.Anche questo si risolverà col tempo. Certo è che il Partito ha una influenza edimportanza decisiva in tutti i settori dell’Impero e tutta la vita dell’Impero se ne devepermeare essendo essenziale alla sua sanità e vitalità politica e morale.Concludendo: ti ho esposto con assoluta chiarezza e sincerità il mio pensiero sui diversipunti che mi hai prospettato. Devi considerare la mia lealtà di linguaggio come unaprova della grande fiducia che in te ripongo. Naturalmente ho parlato al camerata Fossae sono sicuro che queste mie considerazioni non saranno partecipate ad alcun altro.Con ogni cordialità credimi

aff.moLessona

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Note al testo

1 Sta in Archivio Centrale dello Stato, Segreteria particolare del Duce, Carteggio riservato, b. 87.

2 Cfr. BERNARD PORTER, The lion’s share. A short history of British imperialism 1850-1970,Longman, London 1975, p. 265.

3 Cfr. Histoire de la France coloniale. 1914-1990, J. THOBIE, G. MEYNIER, C. COQUERY-VIDROVITCH, C.-R. AGERON, 1914-1990, Colin, Paris 1990, p. 234 e 309.

4 Cfr. Nova História da expansão portuguesa, a cura di Joel Serrão, A.H. de Oliveira Marques,vol. XI,(a cura di), O império africano 1890-1930, a cura di A.H. de Oliveira Marques , Estampa,Lisboa 2001, p. 88.

5 Per la conquista dell’Etiopia e in genere per il colonialismo italiano cfr. ANGELO DEL BOCA, Gliitaliani in Africa Orientale, Laterza, Roma-Bari,1976-84, e Gli italiani in Libia, ivi, 1986-88; eNICOLA LABANCA, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002.

6 Cfr. GIAMPAOLO CALCHI NOVATI, Il corno d’Africa nella storia e nella politica. Etiopia,Somalia e Eritrea fra nazionalismi, sottosviluppo e guerra, Sei, Torino 1994, p. 75.

7 Cfr. ALBERTO SBACCHI, Il colonialismo italiano in Etiopia 1936-1940, Mursia, Milano 1980,p. 346.

8 M.P. AKPAN (based on contributions from A.B. Jones and R. Pankurst), Ethiopia and Liberia,1914-35. Two indipendent African states in the colonial era, in General history of Africa, vol. VII,Africa under colonial domination 1880-1935,a cura di, A. Adu Boahen, Unesco, Heineman,Paris-London 1985, p. 730. Ma anche BAHRU ZEWDE, A history of Ethiopia, London 1993.

9 Lo scambio ci pare inedito per il lettore italiano. La lettera di Lessona pare in originale, quelladi Fossa è in copia. La data della risposta di Lessona è riportata più volte in nota nel volume diSbacchi (p. 73, n. 30 e 32, e p. 78, n. 56), ma senza menzione della lettera di Fossa (la più critica,e quella comunque cui il ministro risponde) e senza che il testo di Sbacchi vi faccia riferimentoo che ne prenda spunto o che ne citi anche un solo rigo.

10 Cfr. A. DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale cit.; ALBERTO SBACCHI, Il colonialismoitaliano in Etiopia 1936-1940 cit.; N. LABANCA, Oltremare. Storia dell’espansione colonialeitaliana cit.

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L’uso dei gas da parte italiana nella guerra d’Etiopia

L’uso dei gas da parte italiana nella guerra d’EtiopiaLa testimonianza del sergente Luigi Canali

di Marco Lenci

La nozione relativa all’impiego dell’arma chimica da parte italiana nel corsodella guerra di Etiopia può essere oramai considerata come un dato pienamenteacquisito. A partire dalle prime «scoperte» operate da Angelo Del Boca circa unquarantennio fa1, tra polemiche accese ed infinite reticenze, la verità alla fine siè fatta strada sino ad imporsi incontrastata. In pratica l’ultimo atto di quellatormentata vicenda, di cui non riteniamo opportuno tentare in questa sedeneppure una minima sintesi2, si è svolto nel 1996 quando il ministro della Difesadell’epoca, Domenico Corcione, riconobbe pubblicamente «che nella guerraitalo-etiopica furono impiegati bombe d’aereo e proiettili d’artiglieria caricati adiprite ed arsine e che l’impiego di tali gas era noto al Maresciallo Badoglio, chefirmò di proprio pugno alcune relazioni e comunicazioni in merito»3.Un’ammissione inconfutabile di fronte alla quale ebbe a piegarsi lo stesso IndroMontanelli che pure - vantando una sua diretta testimonianza oculare, per altrodimostratasi per lo meno problematica4 - era stato per decenni il più ascoltatorappresentante del fronte negazionista.

Sul piano più strettamente storiografico si deve comunque lamentare ilpersistere di una lacuna che ancora appare ben lontana dall’essere colmatain maniera soddisfacente. Ci riferiamo alla questione cruciale relativa al «chisapeva?». Di sicuro ben informati erano i principali responsabili dellaconduzione della guerra: i massimi vertici militari e politici del regime, apartire da Mussolini a Roma e da Badoglio in Etiopia. Ovviamente nedovevano essere informati gli uomini componenti le squadre del servizio dibonifica che avevano proprio il compito di far scomparire dal terreno ognitraccia di uso di aggressivi chimici. In tutto - si può ipotizzare - pochecentinaia di persone a fronte delle diverse migliaia di militari alloraimpegnati nelle operazioni belliche. Tra questi ultimi è possibile chenessuno abbia visto o notato qualcosa?

Per anni, dal 1965 in poi, colui che per primo denunciò l’uso dei gas hacondotto centinaia di interviste rivolte a persone che hanno partecipato,

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Marco Lenci

Bomba ad ......... inesplosa

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L’uso dei gas da parte italiana nella guerra d’Etiopia

come ufficiali o come semplici soldati, alla campagna etiopica, ma soltantodue o tre hanno ammesso di aver visto qualche traccia dei bombardamentichimici. In definitiva - questo il parere di Del Boca - si può legittimamenteaffermare che sul teatro delle operazioni al corrente dell’uso dell’armachimica furono soltanto alcuni ufficiali dell’intendenza e un numeroristretto di piloti dell’aviazione; la grande maggioranza dei soldati inveceavrebbe ignorato del tutto l’impiego dei gas e, proprio per tale motivoavrebbe poi manifestato indignazione quando i giornali stranieridenunciarono la cosa5. Tale quadro non è stato sostanzialmente modificatoneppure da qualche altra ammissione reperita tra le migliaia di lavoratori cheoperarono a ridosso delle linee del fronte6. La conclusione appare quindiincontrovertibile: tutti o quasi tutti gli italiani che vissero direttamentel’aggressione all’Etiopia non videro e non seppero.

Proprio per questo motivo ci è sembrato utile segnalare la testimonianzadel sergente Luigi Canali sotto riportata. Si tratta di una lettera alla famigliaspedita dal graduato il 5 aprile 1936. La missiva risulta essere stata scritta aBet Mahra, località posta poco a nord dell’Amba Alagi che era stato occupatoil 28 febbraio precedente dalle forze del I Corpo d’Armata comandate delgenerale Ruggero Santini. Ed al I Corpo d’Armata apparteneva perl’appunto anche il sergente Canali, inquadrato nella 74 Compagnia delGenio.

La lettera, che riferisce le impressioni raccolte nel corso di una marciacompiuta pochi giorni prima a ridosso del passo Falagà (ad orientedell’Amba Alagi), pare opera di una persona dotata di una certa proprietà dilinguaggio, il cui non modesto bagaglio culturale è confermato anche dalriferimento ad un’assidua lettura degli organi di stampa che, evidentemente,si faceva inviare con una certa regolarità dall’Italia («ricevo frequentementei giornali...»).

Altra caratteristica che emerge dal breve scritto è costituita dal fortespirito di osservazione. Luigi Canali riferisce sinteticamente, ma ancheefficacemente, i principali dati del paesaggio circostante non esclusi quelliumani («si incontrano popolazioni Galla di tipo veramente africano, diquelli che si usano per campioni della razza nera»). Nel suo marciare si vienepersuadendo delle buone prospettive economiche dell’impresa etiopica: ilsuolo gli appare infatti «fertilissimo», anche se - aggiunge subito dopo -«occorreranno però grandi lavori per sfruttarne una quantità notevole». Egliappare in definitiva convinto di trovarsi su quella che sarà «la via maestradella penetrazione italiana in Etiopia, anche commerciale».

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Il livello di istruzione e di consapevolezza dello scrivente è quindi buono;né traspaiono atteggiamenti di opposizione preconcetta al fascismo. Proprioper questo le sue considerazioni circa l’abbondante impiego di gas (di cuiriferisce che «alcune tracce sono visibili») ci paiono particolarmentepreziose. Si tratta di una testimonianza in presa diretta e come tale assai piùinequivocabile di altre connesse ad una memoria più o meno lucida di eventilontani. Ma il dato più toccante e rilevante ci pare la sensibilità che ilgraduato mostra nel cogliere in poche righe gli effetti destabilizzanti circa lepossibilità di controllo politico del territorio da parte italiana che l’utilizzodell’arma chimica e più in generale la brutalità del comportamento italianopotrebbero avere. «L’occupazione ha segnato profondamente anche l’animodella gente. Si vede girare intorno agli accampamenti: negli occhi e negliatteggiamenti è un’ipocrisia rivoltante. Non saranno tutti così. Certo imigliori non sono qui: stanno combattendoci». L’affermazione di estremointeresse che - ci pare - si commenti da sola.

Due parole, infine sul modo con cui il documento è oggi fruibile perchiunque voglia consultarlo e sul come esso è stato rinvenuto7.

Nell’anno accademico 2003-2004, nell’ambito del master di Storia,Didattica e Comunicazione indetto dalla Facoltà di Scienze Politichedell’Università di Milano lo stage formativo si è svolto presso la sezionemilanese «Ferruccio Parri» dell’Istituto nazionale per la storia dei movimentidi liberazione in Italia. Due dei partecipanti al master, Luigi Nicola Belgranoe Stefano Morosini, avendo per tutor il dott. Antonino Criscione, hannointeso dedicare la maggior parte delle ore del loro stage alla messa a punto diun sito di carattere storico-didattico dedicato al colonialismo italiano. Il sito,intitolato Un posto al sole? La guerra d’Etiopia 1935-1936 (visitabile in http://www.novecento.org8), si articola in diverse sezioni tematiche. In talecontesto, nell’intento di fornire al navigatore anche un approccio diretto adun documento originale attestante l’utilizzo da parte italiana dell’armachimica, i due curatori nella sezione denominata Approfondimenti hannoposto in rete la lettera del sergente Canali, da dove è possibile oggi scaricarlanel suo originale testo autografo.

Circa il reperimento dello scritto consta che esso sia avvenuto pressol’archivio della suddetta sezione «Ferruccio Parri» dove esiste un fondoCanali Luigi, contenente in realtà solo la copia fotostatica della lettera inquestione. Tale copia è pervenuta all’istituzione milanese nel febbraio 1996grazie all’interessamento di un giornalista comasco, Franco Giannantoni,conoscente di una sorella del sergente Canali.

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L’uso dei gas da parte italiana nella guerra d’Etiopia

Stando così le cose è ovvio che il documento in questione potrebbestimolare ad ulteriori approfondimenti. Per cominciare si potrebbe o megliosi dovrebbe cercare di entrare in contatto con i discendenti dello scrivente,che risultava nel 1936 essere residente nella provincia di Como. Potrebberoin tal modo emergere altre missive connesse alla guerra d’Etiopia, missive dalcontenuto magari meno «esplosivo» di quella qui riportata, ma che nondovrebbero mancare di presentare spunti interessanti data la provatasensibilità del loro autore. Forse una simile indagine non verrà maiapprontata oppure potrà dare risultati negativi. È certo però che dal caso delsergente Canali emerge per tutti gli studiosi interessati allo studiodell’avventura etiopica l’urgenza di approntare un piano di ricerca per ilreperimento, l’inventariazione e lo studio degli epistolari privati di coloroche ne furono protagonisti anche minori. Si tratta di un compito stimolantegiacché dallo spoglio di quegli epistolari potrebbero emergere visioni nuovedal basso di fenomeni - come appunto quello dell’uso dei gas - su cui ancorasiamo lontani dall’avere una rappresentazione a tutto tondo. Ma si dovrebbeintervenire il più rapidamente possibile, di sicuro prima che la semprepossibile incuria o disattenzione degli eredi non li faccia scomparire persempre ed irrimediabilmente.

Bet Mahra 5 aprile 1936

il primo giorno del mese mi sono recato presso il passo Falagà, sul fianco sinistro diAmba Alagi e il giorno 2 sono tornato a Sciafat, il tre mi hanno spostato qui a BetMahra, di fronte all’Amba Alagi. Non starò qui molto tempo!I viaggi gli ho sempre compiuti in ottime condizioni e mi hanno dato modo diinteressarmi molto agli agli [sic] ambienti ed agli abitanti.Dalla parte di passo Falagà c’è da percorrere una vallata coperta di vegetazione folta,alberi di alto fusto, rari in Eritrea e sul Tigrai. Nelle boscaglie fitte solcate da una pistaa zig-zag che sembra giocare col torrente che interseca frequentemente creando unnumero incredibile di guadi, ho visto delle scimmie allo stato libero. Il suolo deve esserefertilissimo. Occorreranno però grandi lavori per sfruttarne una quantità notevole.Per l’Amba Alagi sideve contornare prima il massiccio formidabile dell’Amba Aradam, asinistra, poi per un susseguirsi incostante di ambe e minori sopraelevazioni del terreno siimbocca una vallata, stretta ma non «strozzata» come quella di Passo Falagà. In questa vallatasorgerà la via maestra della penetrazione italiana in Etiopia, anche commerciale.Si incontrano già le popolazioni «Galla» di tipo veramente «africano», di quelli che siusano per campioni della razza nera. Si vede che sono sparsi un po’ ovunque in Etiopia.

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Marco Lenci

Le zone attraversate recentemente sono state abbondantemente bombardate e cosparsedi «iprite». Alcune tracce sono visibili. L’occupazione ha segnato profondamente anchel’animo della gente. Si vede girare intorno agli accampamenti: negli occhi e negliatteggiamenti è un’ipocrisia rivoltante. Non saranno tutti così. Certo i migliori nonsono qui: stanno combattendoci.Ricevo frequentemente i giornali: ultimamente non ho avuto tempo di leggerli ma hopotuto conservarli e li guarderò ora. Tenetemi al corrente degli studi di Beniamino edi tutto quanto mi può interessare indipendentemente dalla piacevolezza o meno dellenotizie.Mi ha scritto anche lo zio Francesco.Salutatemi parenti e conoscenti.Saluti all’amico del babbo «Giuan».Bacioni,

Luigi.

Note al testo

1 Cfr. ANGELO DEL BOCA, La guerra d’Abissinia 1935-1941, Milano 1965. Le primeacquisizioni di Del Boca nei decenni successive sono state confermate con ulteriori prove siadallo stesso Del Boca che da altri studiosi; per una recente puntualizzazione vedi ARAMMATTIOLI, L’uso italiano dei gas asfissianti in Abissinia nel biennio 1935-1936, in «Studipiacentini», 33/2003, pp. 123-157.

2 Per una esauriente ricostruzione è d’obbligo rimandare A. DEL BOCA, Una lunga battaglia perla verità, in I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia a cura di A. Del Boca, Roma, 1996,pp. 17-48.

3 Ivi, p. 40.

4 Al riguardo si legga MARCO LENCI, L’Eritrea e l’Etiopia nell’esperienza di Indro Montanelli, in«Studi piacentini», 33/2003, pp. 205-231.

5 Cfr. A. DEL BOCA, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell’Impero, Roma-Bari 1979,p. 493.

6 Cfr. IRMA TADDIA, La memoria dell’Impero. Autobiografie d’Africa Orientale, Bari 1988, p. 85.

7 Tengo a precisare che tutte le informazioni sotto riportate mi sono state fornite dal dott. LuigiNicola Belgrano che qui ringrazio per la collaborazione offertami.

8 Al sito è possibile accedere anche da http://www.utenti.lycos.it/etiopia.

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L´Africa di Emilio Salgari

L’Africa di Emilio SalgariL’eurocentrismo e il problema delle fonti

di Felice Pozzo

Il 29 agosto 1862 sui Piani d’Aspromonte Garibaldi fu ferito e poco doposcrisse al popolo italiano un’esclamazione che risuonerà nell’aria per lungotempo: «Avevano sete di sangue...»1.

Emilio Salgari nacque il 21 agosto 1862 e trascorse la giovinezza udendonarrare le gesta garibaldine. Quando, poco più che ventenne, inventò le sueprime avventure malesi, Sandokan apparve come una tigre umana assetatadi sangue. La colorita frase sopra citata aveva ottenuto riscontri impensati:«Largo ai pirati di Mompracem...largo ai padroni di questo mare...essiberranno il vostro sangue...»2.

Tra le sue letture giovanili figura la Vita di Garibaldi di Jessie WhiteMario, dove si legge, tra l’altro, della campagna di Montevideo del 1846,quando l’eroe dei due mondi salvò un nemico dalla vendetta dei suoilegionari gridando: «Non uccidetelo: è un valoroso!»3.

Lo stesso generoso ordine sarà pronunciato in più occasioni dagli eroisalgariani; ad esempio da Yanez, noto alter ego di Salgari, in I Pirati dellaMalesia: «Ferma! Quell’indiano è un prode!»4.

O dove si legge come Garibaldi fosse «sempre seguito dall’erculeo negroAnghiar»5, proprio come il gigantesco Moko diventerà l’ombra del CorsaroNero.

Non occorre proseguire con citazioni di pagine risorgimentali dove èagevole riscontrare episodi o situazioni che si ritrovano nelle pagine del papàdi Sandokan. È ormai assodato che il senso eroico dell’epopea garibaldina haottenuto un entusiastico riscontro in quelle pagine. In passato ho avutomodo di evidenziarne alcune: la rievocazione di Custoza nell’articolosalgariano Al cimitero (1889); l’inno alla «Giovane Italia» contenuto neiNaufraghi del Poplador (1895); il Garibaldi citato in Sull’Atlante (1908) ecosì via. In quell’occasione rivelai anche, con raffronto iconografico, comenoti disegni giovanili di Salgari fossero ispirati ad una litografia ottocentescadi Perrin dedicata all’assedio di Ancona del 18606. In un libro intitolato

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Felice Pozzo

Garibaldi, sin dal 1982 Omar Calabrese ha suggerito accostamenti, talvoltaarditi, tra l’epopea storica di cui trattasi e quelle fantastiche che vedonoprotagonisti la Tigre della Malesia e il funereo conte di Ventimiglia.

Questo per dire che non esistono dubbi sul patriottismo, che potremmoanzi definire «acceso», di Salgari.

Ora, è stato proprio il patriottismo, in quegli anni, a giocare un ruolorilevante nelle scelte degli italiani in tema di colonialismo. Ha scritto MirellaTenderini che «ferma restando la prevalenza degli interessi politici edeconomici da parte degli Stati, la componente idealistica che spinse moltiuomini in avventure rischiose ritenute utili per la loro nazione traeva origineda un clima di patriottismo diffusissimo in quel periodo»7, mentre AngeloDel Boca, nel suo fondamentale Gli Italiani in Africa Orientale, haindividuato anche nei «sognatori» e negli «scontenti della politicarinunciataria delle mani nette» coloro ai quali interessava l’Africa alla vigiliadegli avvenimenti coloniali. D’altra parte è agevole rintracciare nelle vicendeafricane d’ Italia numerosi personaggi che furono protagonisti delRisorgimento: da Francesco Crispi, già ardente mazziniano che avevacontribuito alle imprese garibaldine e da Francesco Rubattino, che avevafinanziato la spedizione dei Mille, sino ai più avventurosi viaggiatori edesploratori d’Africa con mire colonialiste: Amilcare Cipriani, volontarioappena quindicenne nel 1859, che si ritrovò a partecipare a una dellespedizioni verso le sorgenti del Nilo condotta da Giovanni Battista Miani;Gian Pietro Porro, volontario nel 1866, ucciso a Gialdessa; AugustoFranzoj, anch’egli volontario nella terza guerra d’indipendenza, e tantissimialtri. Ernesto Ragionieri ha d’altronde individuato nella componentecolonialistica costituita dall’esplorazione «una precisa impronta borghesenella quale confluivano i residui tutt’altro che inoperanti dell’ideologiaitaliana che aveva improntato il Risorgimento e le nascenti aspirazionimediterranee e africane delle classi dirigente del paese»8.

Benché non uomo d’azione, se si escludono parentesi giovanili nellepalestre veronesi, attività velocipedistiche e persino un duello alla sciabola(però non risulta abbia prestato servizio militare), Salgari condiviseidealmente il tortuoso percorso patriottico che dalle battaglied’indipendenza portò a coltivare mire che tendevano a toglierel’indipendenza in casa d’altri, in Africa.

Le cronache dell’epoca e persino i taccuini degli studiosi in cerca dianeddoti curiosi, tramandano episodi della vita di Salgari molto eloquenti.Dopo la sconfitta italiana a Dogali (1887) il giovane romanziere partecipò

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L´Africa di Emilio Salgari

a manifestazioni patriottiche: durante un invio di nuove truppe in Africa,quale presidente del Circolo Velocipedistico Veronese, si mise alla testa d’unnutrito gruppo di ciclisti e attraversò Verona diretto verso la stazioneferroviaria di Dossobuono, dove avrebbe sostato un treno carico di soldati.Quando il treno arrivò, c’era gran folla ad attenderlo, soprattutto donne enaturalmente Salgari con i suoi velocipedisti, le une e gli altri pronti adistribuire fiori e abbracci. Quando i giornali aprirono sottoscrizioni afavore delle famiglie dei caduti e dei feriti di Dogali, Salgari partecipòversando la somma di due lire. Nel 1895, trasferitosi nel Canavese eprecisamente a Priacco, una frazione di Cuorgné (Torino), scelse, inamicizia com’era con il proprietario, la nuova denominazione d’una osteria:«Cantina del guerriero Galliano», per onorare l’eroe di Macallè.

Anche la sua piuttosto breve attività giornalistica, svolta in gioventù, èrivelatrice, come è stato dimostrato nel 19949. Tra il 1883 e il 1885, con lopseudonimo Ammiragliador e in veste di redattore del quotidiano «NuovaArena» di Verona, pubblicò ben 115 articoli riguardanti la rivolta del Mahdiin Sudan, la guerra d’occupazione francese nel Tonchino e le vicendecoloniali sulle sponde del mar Rosso. Per questo lavoro, svolto conparticolare partecipazione, si avvalse prevalentemente di agenzie di stampa.Ed è proprio negli articoli dedicati alla questione del mar Rosso che dimostròun insospettato spirito interventista, avverso alla Francia e non del tuttocontrario ad alleanze con l’Inghilterra, quella stessa Inghilterra contro cuiSandokan e i suoi pirati avrebbero versato fiumi di sangue e sentimenti dirancore.

Prendendo in considerazione le flotte italiane e francesi, quandol’argomento era dibattuto su tutti i giornali in vista di uno scontro armato,scrisse il 18 ottobre 1883:

Basta dare uno sguardo a queste due flotte, che in un tempo forse non lontano verrannoa combattimento, per comprendere come la nostra sia di gran lunga inferiore pernumero alla francese, che noi abbiamo assoluto bisogno di accrescerla, di rinforzarla,per impedire che questo Mediterraneo non finisca col diventare un lago francese, e persventare le terribili idee dei nostri amici d’oltre Alpi, che hanno lasciato già abbastanzaintravedere come lo scopo principale della loro possente marina, alla prima guerra, nonsarebbe che quello di fiaccare completamente il nostro commercio che è la nostra vitae di rovinare da capo a fondo le nostre fiorenti città del litorale.10

Nell’articolo intitolato In giro pel mondo con data 21 ottobre 1884 scrisse:

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Felice Pozzo

Non è la prima volta che alziamo la voce per avvertire che la nostra microscopicacolonia d’Assab corre un serio pericolo. Inghilterra e Francia, le due nazioni che sidisputano la supremazia del Mar Rosso, non hanno mai visto di buon occhio la nostrabandiera sventolare sulle rive del Danakil.Invidiose dei nostri rapporti con Menelik, re dello Scioa, paurose che noi abbiamo adattirare ad Assab il commercio di quel reame, cercano tutti i modi possibili di attirarlodalla loro parte e vanno occupando tutte le baie e cittadelle al sud della nostra colonia.Non è molto che l’Inghilterra ha occupato i porti di Zeila e di Berbera per farconvergere a sé il commercio abissino. Ora la Francia sta per occupare Tagiura, luogoimportante che giace in fondo alla baia dello stesso nome che viene formata dal Golfodi Aden, e per il quale passano tutti i viaggiatori che si recano nel reame di Scioa [...]E noi che facciamo laggiù? Lasceremo che la Francia o l’Inghilterra si impadroniscanodi tutte le coste intorno alla nostra colonia, di tutti i porti, di tutti i commerci, senzaimitarli, senza nulla tentare? Che ne pensa l’onorevole Mancini, l’amico di tutte lenazioni? A Beilul, a Edd, alla baia Ayth non sventola alcuna bandiera europea: perchénon si occupano questi luoghi importantissimi? [...] Un duecento uomini sono più chesufficienti per l’occupazione. Perché adunque non la si fa? Di chi si ha paura? Seall’Inghilterra o alla Francia salterà il ticchio di farci delle osservazioni, chiederemo aloro con qual diritto hanno occupato Zeila, Berbera e Tagiura. L’esempio ce l’hannodato loro11.

È poi un crescendo rossiniano: a decrescere è soltanto l’anglofobia, adimostrare peraltro come Salgari stesse scrivendo sull’onda delle notizie chegli pervenivano dalle agenzie, che talvolta cita, e degli avvenimenti politiciin corso. È nota la subalternità del nostro imperialismo, in quel periodo, neiconfronti di quello inglese. Già nel 1882 l’Inghilterra aveva consideratol’esigua presenza italiana ad Assab un salutare bilanciamento della presenzafrancese a Obock. Esclusa dalle più importanti spartizioni delle costeafricane, l’Italia sperò ancora, come dichiarò Mancini, che il mar Rosso ciavrebbe dato le chiavi del Mediterraneo. Si buttò persino qualche occhiatainteressata all’Egitto, tanto più che l’Inghilterra non si era dimostratacontraria, sempre in funzione antifrancese, neppure alla nostra presenza aMassaua. Si tentò dunque di convincere Londra dell’utilità di unacooperazione militare dell’Italia in Sudan. Le trattative, già iniziate, furonosollecitate anche dagli ambienti militari. Però lord Granville, ministro degliaffari esteri della Regina, declinò le offerte italiane, sia prima che dopo lamorte di Gordon, dichiarando che l’Inghilterra poteva contare suarmamenti sufficienti ed aveva inoltre interesse morale a non accettarel’aiuto di altre nazioni.

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L´Africa di Emilio Salgari

Ed ecco Ammiragliador-Salgari scrivere il 2 dicembre 1884:

Ci si schiaffeggia e ci si calpesta a Tunisi, ci si osteggia odiosamente alla Plata,minacciano la nostra microscopica colonia d’Assab, ci insultano in Europa e nullafacciamo, anzi ci chiudiamo in un vergognoso silenzio, incoraggiando glischiaffeggiatori a farci di peggio e meritarci il nome di «razza degenerata» o poco meno.C’è una nazione che ci sputa in volto e questa nazione è quella stessa che ci schiaffeggiòa Tunisi, quella stessa che diede la caccia ai nostri connazionali a Marsiglia. È, infineancora, la Francia! [...] Onorevole Mancini, quando la finirà? Quando è che il nostrogoverno, schiaffeggiato e calpestato, alzerà la voce e le mani per reagire? Siamoadunque, noi italiani, degenerati al punto da beverci in pace gl’insulti i più sanguinosie farci deridere da tutte le civili nazioni?12

Non aveva che ventidue anni, Salgari, e si vede dal piglio col qualesollecita l’on. Mancini. Così scrive il 29 dicembre 1884:

Così la Germania si annette, l’Inghilterra si annette, la Francia, la Spagna, il Portogallosi annettono... e l’Italia dorme. Si vede che pell’illustre signor Mancini non è ancorvenuto il momento per spingere gl’Italiani in Africa. Ella aspetta che non vi sia unpalmo di terra disponibile per muoversi. Non è vero illustre ministro?13

Le esortazioni proseguiranno nel 1885. In un articolo del 5 gennaio,addirittura si atteggiò a grande esperto di cose africane, tale da poter darelezioni di Storia e di politica internazionale al nostro governo, magari conperiodare zoppicante:

Si va o non si va a Tripoli? Questa è la domanda che corre su tutte le labbra dacché sidivulgarono le voci che il nostro governo avesse messo gli occhi sulla Tripolitania, vociche furono più volte confermate per poi venire smentite.La maggioranza della popolazione italiana vorrebbe che la bandiera italiana sventolassefinalmente sulle coste africane del Mediterraneo, prima che abbiano a caderetotalmente nelle mani degli inglesi o dei francesi. Il nostro ministro degli esteri,quantunque pressato da tutte le parti, sembra che non si sia ancora deciso a fare il granpasso, né pare che si deciderà tanto facilmente. Perché? Perché l’Italia, sorta nel santonome della nazionalità, l’onorevole Mancini, crede non debba conculcare questodiritto in nessun altro paese. Ecco il grande ostacolo che arresta il nostro ministro degliesteri e che lo fa esitare prima di lanciare un corpo di spedizione sulle coste dellaTripolitania. Egli teme forse di provocare una guerra fra italiani e arabi e che del sanguescorra. Ed è qui che l’on. Mancini- il quale non deve conoscere affatto le vere condizionipolitiche della Reggenza- s’inganna di grosso. Vogliamo dimostrarglielo riassumendobrevemente la storia della Tripolitania...14

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Felice Pozzo

Segue una rievocazione degli avvenimenti di quel Paese a partire dal1814, tesa a suggerire un intervento a Tripoli «non per impadronirseneformalmente, ma a rimettere sul trono il figlio e nipote di Josef Pascià,procurandosi l’alto protettorato di questo ubertosissimo territorio».

In previsione dell’occupazione di Massaua, il 2 febbraio 1885, tirò inballo l’alleanza con l’Inghilterra:

Si prevede che le nostre truppe appena che avranno occupato la città, dovranno pormano al fucile e unirsi agli inglesi per combattere gli insorti che vanno gradatamenteconcentrandosi a poca distanza dalla costa. Osman Digna, il celebre luogotenente delMahdi, il vincitore di Tokar, di Trinkitat e di Sinkat, che costrinse gli inglesi adabbandonare la campagna e rinchiudersi a Suakin, è padrone di tutta la costa e siapparecchia a riprendere le ostilità [...] Non è però da credere che Osman Dignaopporrà una seria resistenza alle nostre truppe collegate a quelle inglesi15.

Risale al 3 marzo 1885 l’ultimo suo articolo sull’argomento:

Si scuota adunque il nostro governo; non si lasci intimorire dalle grida di quelle potenzeche tanto urlavano per l’occupazione di Massaua. È dovere dell’Italia, una e libera,popolata da pressoché trenta milioni, con oltre un miliardo di bilancio, nazione pernatura e tradizioni marinaresca e commerciale, di mantenere, o meglio, di far riviverele tradizioni dei suoi piccoli stati; farsi vedere non da meno delle piccole repubblichedi Genova e di Venezia che da sole, e nemiche tra loro, sapevano tenere in iscacconazioni già formate, stati oggidì potenti; è dovere dell’Italia di porre un argine allapreponderanza straniera nel Mediterraneo, che dovrebbe essere un mare italiano.Non scordiamoci che l’avvenire d’Italia è tutto sul mare!16

Se ci siamo soffermati su questi articoli giovanili di Salgari è perché hannosuscitato, a suo tempo, perplessità e sorprese non sopite, se ancorarecentemente Silvino Gonzato li ha definiti giustamente «dei veri e propricomizi» e ha aggiunto: «E pensare che sul «capitano» pacifista e anticolonialistasono stati versati fiumi di inchiostro!»17. Molto opportunamente ha precisatoin seguito: «Il sedicente capitano di gran cabotaggio è anticolonialista quandoci sono di mezzo i francesi e gli inglesi, ma si getta nella mischia interventistaquando si tratta di giustificare la politica coloniale italiana. Salgari è insommaprima di tutto un italiano e, allora come oggi, essere italiano non era unanazionalità ma una professione»18.

Ecco dunque che si ritorna al patriottismo e che le mire espansionistichedi Salgari sembrano ad esso soltanto collegate. Lo dimostrerebbe l’ignoratanota che ha apposto a fondo pagina nel romanzo I Pescatori di Trepang

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L´Africa di Emilio Salgari

(1896) dove, trattando della Nuova Guinea, scrive: «Nel 1879 in Italia erasorta l’idea di occupare una parte della Guinea e di mandarvi degli emigranti,circa 3000, ma poi fu abbandonata e forse a torto»19.

Sicuramente vi sono alcune osservazioni da fare, riguardo quegli articoli.Intanto vorrei riproporre alcuni brani della mia prefazione al citato libro cheli contiene, perché già allora era precisata la chiave di lettura che continuoa ritenere corretta:

Salgari, alle prime armi nel giornalismo, non lavorava, come ad esempio AugustoFranzoj, per fogli antigovernativi: era pagato per rispecchiare e magari appoggiare lescelte politiche e le istanze nazionalistiche di quei giorni: di suo ci metteva quello spiritopatriottico che gli derivava dalla passione per il Risorgimento [...] Ma leggiamolo trale righe, piuttosto, il nostro Ammiragliador. Scrive che «il povero Egitto» ne haabbastanza degl’inglesi, i quali «aspirano a creare imbarazzi per diventare padroniassoluti»; scrive anche: «Sono duecento anni che le popolazioni maomettane dormono,e potrebbe darsi che avessero a svegliarsi e sollevarsi in massa contro coloro che liopprimono».Per chi fa il tifo, tutto sommato? Ammira incondizionatamente Gordon, la cui vita «èun romanzo, una leggenda», personaggio che definisce «il gran Gordon, il buonGordon», tradito dalla patria, coraggioso generale che «arrischiò freddamente la vitaper uno scopo puramente umanitario»20 [...] Un personaggio, insomma [...] che eglinon considera affatto una pedina dell’imperialismo inglese, ma un uomo indomitospinto dagli stessi colpi di testa degli eroi disinteressati e solitari che animeranno tra nonmolto le pagine salgariane [...] E poi, a chi vanno le non tanto nascoste simpatie diAmmiragliador? A Osman Digna, «l’eroico» (l’aggettivo è ripetuto più volte),«l’intrepido» luogotenente del Mahdi, «l’eterno rompiscatole» che «forse spera, unanotte o l’altra, di andare a bere una tazza di merissak in città, dopo aver fatto una bellamarmellata di quei pochi egiziani che gl’inglesi vi hanno lasciato».Mi fa venire in mente Sandokan quando, in I Pirati della Malesia (potete controllare),esclama: «Perché non ero io là coi miei Tigrotti? Avrei fatto una marmellata di tutti queisanguinari indiani!»21.

Abbiamo a che fare, insomma, con un Salgari che si nasconde dietro unopseudonimo, che lavora per un giornale crispino e interventista di cui èredattore e dal quale è pagato e che si dimostra interventista soltanto conriferimento all’Italia, mentre i Francesi e gli Inglesi sono definiti avidi,prepotenti e chi più ne ha più ne metta.

Ma sino a che punto era interessato alle nostre vicende coloniali, in realtà?Intanto c’è da sottolineare un fatto. Egli utilizzò come romanziere e in

tempo ravvicinato gli avvenimenti contemporanei che illustrava firmandosi

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Felice Pozzo

Ammiragliador con una esclusione sintomatica. Dalla guerra del Tonchinotrasse la novella Tay-See (1883)22; dalla rivolta del Mahdi trasse il romanzoLa Favorita del Mahdi (1887)23. Nulla trasse invece dalle vicende sul marRosso!

E successivamente? Nel 1897, nella breve presentazione Ai lettori nelvolume di Alfredo Ferrero Il Fiore del Deserto pubblicato a Genova daDonath, scrisse:

Campo di queste strane e commoventi avventure è la Somalia Italiana, questa vastaregione equatoriale, sottoposta alla nostra influenza, ma ancora imperfettamenteconosciuta e, solo in parte, recentemente esplorata dal nostro valoroso capitano Bòttego.

Dove non pare trasparire, peraltro, particolare entusiasmo. Pochi annidopo, con lo pseudonimo Cap. Guido Altieri, pubblicò il racconto Loschiavo della Somalia (storia vera): ne è protagonista il moretto Sadì Omar,che compie un gesto d’eroismo a favore dei suoi «benefattori Taliani» ascapito delle «canaglie arabe», così che viene scelto come «marca di fabbrica»del noto «liquore Galliano» della «premiata distilleria Arturo Vaccari diLivorno». Va bene che la denominazione di quel liquore fu, come l’osteriadi Priacco, un omaggio all’eroe di Macallé, ma scrive Giovanna Viglongo:

Questo racconto, sottotitolato «storia vera», espressione mai usata prima neifascicoletti pubblicati da Biondo) ha un’aria così smaccatamente reclamistica- di unprodotto non certo consigliabile ai bambini cui invece era espressamente dedicato ilracconto- da rendere perplessi, non sulla veridicità della storia, ma sull’inconsuetoatteggiamento sia dell’autore che dell’editore, i quali non hanno esitato, nel bel mezzod’un racconto moralistico-patriottico, ad intonare un peana rivolto ai liquori pregiatid’una distilleria con tanto di nome, cognome e città, coinvolgendo anche il pittoreSarri che ha addirittura diligentemente disegnato le tre etichette reclamizzate; è statacioè introdotta, in un testo di lettura, una «informazione pubblicitaria» bella e buonache di solito viene fatta dietro pagamento e comunque non in quella sede. C’è dachiedersi se questo enfatico canto d’allegrezza per il «magico liquore» non abbia avutoun corrispettivo e, se sì, chi ne fu il beneficiario24.

Ancora, dunque, non traspare particolare entusiasmo. Tutto qui. E sì cheSalgari è noto per aver romanzato in tempo reale o quasi, schierandosiapertamente, un gran numero di avvenimenti bellici del suo tempo: oltre aquelli già ricordati (Tonchino e Sudan), la guerra della Triplice Alleanzacontro il Paraguay, la guerra nelle Filippine, la guerra Ispano-Americana, la

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L´Africa di Emilio Salgari

rivolta dei boxers in Cina, la guerra russo-giapponese, il conflitto ispano-marocchino del 1909 nel Riff e altri, per non dire di quelli rievocati adistanza di tempo, dalla questione americana dei pellirosse alla battaglia diMarudu (1845) degli inglesi contro i malesi, dalla rivolta dei cipays in India(1857) alle guerre d’indipendenza americane. E sì, inoltre, che le nostreguerre coloniali si sarebbero prestate egregiamente a narrazioni avventurose,come dimostrano, tra gli altri, i romanzi Gli Schiavi bianchi- Meraviglioseavventure di quattro italiani traverso l’Africa Equatoriale (1900) di ArturoOlivieri Sangiacomo, pubblicato proprio dall’editore Donath di Genovacon il quale Salgari aveva un contratto in esclusiva (1898-1906) e Faragialla(1908) di Eduardo Ximenes25, pubblicato da Bemporad, l’editore che ebbeSalgari sul proprio libro paga nell’ultimo periodo (1906-1911).

Nessun veto editoriale, dunque, ma una scelta precisa e, si direbbe,irremovibile di Salgari.

Silvino Gonzato ha ipotizzato che l’esordiente Salgari abbia evitato didescrivere avvenimenti africani perché condizionato dall’ambiente in cuiviveva:

Pur avendo l’Africa in casa, Emilio Salgari non vi ambienterà che il suo terzo romanzod’appendice26 [...] Volendo soprattutto sbalordire il lettore, il giovane scrittore [...]forse temeva che l’Africa rappresentasse un argomento troppo «domestico» perottenere lo scopo che si prefiggeva. Verona brulicava di barbe di missionari che lasapevano lunga, molto più lunga di lui, sul continente nero. Le strade erano piene di«moretti» e «morette» dell’Istituto Don Mazza. Il marchese Miniscalchi teneva dueleoni nella villa di campagna. Il conte Pullé, quando tornava dalle cacce africane,attraversava la città strascicando i suoi trofei. Il serraglio di via Valverde, a ridosso delcentro, era un fornitissimo campionario di belve di savana27.

Tuttavia l’Africa cadde sotto la sua penna già nel 1884, appunto, e dopodi allora avrebbe costituito lo scenario ottimale per un nutrito numero dilavori: 13 romanzi e 16 racconti28, senza peraltro che le vicende colonialinostrane vi comparissero.

Un elenco dei romanzi africani di Salgari mi fu richiesto telefonicamenteda Mino Milani in vista di una interessante iniziativa che stava per essererealizzata nella sua Pavia, con l’intervento del Dipartimento di Studi PoliticiSociali e del Centro Studi per i Popoli Extraeuropei. Gli scrissi il 4 settembre1987 inviandogli i titoli; il 15 dicembre 1988 fui perciò invitatoall’Università di Pavia per assistere alla presentazione del libro Il Paesedell’avventura. La rappresentazione dell’Africa in Emilio Salgari29 di

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Tundonu Amosu dell’Università di Obafemi Awolowo di Ile-Ife,pubblicato nell’ottobre precedente a Milano per l’Istituto italiano di culturadi Lagos.

Conservo quel libro con dedica autografa di Tundonu Amosu ed anchememoria della vivace discussione che suscitarono le sue affermazioni,presenti e documentate nel volume. Tra l’altro Amosu sostenevasostanzialmente che «i romanzi di Salgari rientrano pienamente, anche senon intenzionalmente, nella grande operazione ideologica messa in atto pergiustificare l’avventura coloniale alla quale si mostra tanto avverso nel cicloasiatico e in quello delle Indie Occidentali».

L’approssimazione dimostrata da Salgari, la sua disinformazione e l’usodi moduli confezionati, caratteristici di chi conosce i luoghi che descrive soloper sentito dire, sono alla base della critica sopra esposta. Scrive ad esempioAmosu:

L’intolleranza degli arabi che obbliga l’eroe europeo a travestirsi prima di avventurarsinel loro territorio trova una diretta antitesi nel nero africano che, nei romanzi diSalgari, è più sottomesso alla persuasione morale e riserva un’accoglienza più calorosaagli europei. In verità i neri appaiono come una moltitudine di stupidi e superstiziosii cui re scambiano i propri vicini e persino i loro stessi sudditi con oggetti privi di valoree vino di pessima qualità. Sono dediti al bere e ciò li rende avversari innocui e ridicoli.Il quadro complessivo è lungi dall’essere lusinghiero (p. 168).

I sovrani locali, in particolare, ottengono descrizioni impietose ecaricaturali e molti sono dediti al traffico degli schiavi: il re Bango ne Idrammi della schiavitù (1896), il re Pembo ne Gli scorridori del mare (che èin buona parte un rifacimento del romanzo precedente, 1900), il re Ranakonel racconto Il negriero (1903): il loro abbigliamento annovera un elmo dapompiere e stracci bisunti; tutti sono invecchiati precocemente dall’alcol.

Tutto ciò è innegabile e Amosu ha ragione. Eppure occorre porsi alcuniinterrogativi e fornire le risposte.

Si tratta di un’invenzione di Salgari dettata da spirito razzista?Assolutamente no, perché, com’è noto, egli non inventava nulla, ma traevaogni particolare da un’infinità di testi che giudicava attendibili, allainesausta ricerca dell’aderenza a quella realtà che non conoscevapersonalmente. Ho già avuto occasione di dimostrare come il re Bango,capostipite degli altri ridicoli re africani e schiavisti di Salgari, abbia fonti benprecise: Un capitaine de quinze ans (1878) di Jules Verne, romanzopubblicato in Italia dalla Tipografia Editrice Lombarda di Milano nello

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stesso anno dell’edizione francese30, e l’articolo Il re Bango e i suoi popolidell’esploratore Paul du Chaillu (1835-1903), pubblicato sulla rivista diviaggi e avventure «La Valigia» di Milano con data 21 novembre 188631.Ogni particolare coincide nei minimi dettagli; ovviamente anche il fatto chere Bango fosse dedito alla tratta degli schiavi.

Salgari ha riservato questo trattamento soltanto ai re africani?Assolutamente no: lo ha riservato ad ogni monarca «cattivo». Un despotadelle isole Figi, ad esempio, è descritto, sia pure con il meccanismo deglistereotipi, invecchiato precocemente dall’uso di bevande alcoliche edestinato a rotolare «sconciamente» in terra dal suo palanchino nel romanzoUn dramma nell’Oceano Pacifico (1895). Il sultano di Varauni, in Lariconquista di Mompracem (1908), è descritto così: «Il signore del Borneo,come tutti i sultanelli delle isole indomalesi, non era già un gigante e nonaveva affatto un aspetto guerresco. Era un cosettino smilzo, color del panebigio» che per apparire più imponente «portava sul capo un turbante didimensioni monumentali». E si potrebbe continuare.

Ha riservato questo trattamento a tutti gli africani? Assolutamente no.Ben diversamente sono descritti i «neri» positivi: da Niombo (I drammi dellaschiavitù) a Bonga (Gli corridori del mare), da Sango a Onga, da Notika alvecchio cafro del racconto La Stella del Sud o a Moko, amico del CorsaroNero. E l’elenco potrebbe allungarsi notevolmente. Tutti sono personaggieroici, protagonisti o deuteragonisti, nobili d’animo, leali e generosi.

Salgari, piuttosto, è giunto a livelli elevati nel nome del principiodell’uguaglianza. I drammi della schiavitù ha un finale emblematico: dopouna rivolta simile a quella di Amistad (1839), i bianchi diventano schiavi deineri. Addirittura, ci dicono gli appunti inediti del romanziere, pensò a unseguito intitolato Gli schiavi bianchi: non fu scritto, ma l’intenzione èlodevole.

Infine, le descrizioni inclementi sono riservate soltanto agli africani?Assolutamente no. In passato, dopo aver riscontrato un’accusa di razzismorivolta a Salgari per come ha dipinto gli inuit (eschimesi) nel romanzo Lemeraviglie del Duemila (1907), ho scritto quanto segue:

È vero che «un odore nauseabondo» regna nelle abitazioni degli esquimesi e che unodei personaggi raccomanda agli altri: «turatevi il naso e fatevi coraggio». Se è per quello,in altri romanzi Salgari sarà anche più esplicito e definirà l’abitazione degli esquimesi«fetente pozzanghera» e «cloaca». Si noti tuttavia che, secondo Salgari gli esquimesi«sono rimasti tali e quali come li avevano trovati gli esploratori del secolo scorso»32. NelDuemila, dunque, i nostri eroi li trovano esattamente come li trovarono quei

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viaggiatori ed esploratori le cui descrizioni impietose ed esagerate Salgari, che sidocumentava con attenzione, lesse più volte.Durante la sua seconda spedizione polare (1821) William Edward Parry scrisse adesempio: «A stento potrebbe immaginarsi razza più schifosamente sozza e piùdegradata nell’umana famiglia! Sucida ed unta la carnagione, capelli ispidi, fattezze dabruti, denti neri, piccoli di statura, coperti di pelli di foca e di orso, riuscivano con taliindumenti a celare in parte le loro sgraziate forme. Traevano essi la più misera esistenzafra quegli eterni ghiacci in sui confini della terra, in luride tane e può dirsi avessero quasiperduta la nobile impronta dell’uomo»33.Persino le più ammorbidite descrizioni ottocentesche destinate ai fanciulli sisoffermavano su certi particolari: «L’uomo è piccolo e tarchiato con una lungacapigliatura nera e un volto schiacciato. Non è né bianco né color di rame. La sua pelleha un colore brunastro, ma non è così facile distinguerne la vera tinta, perché per mesie forse per anni non si è mai lavato, onde il suo viso è tutto coperto di macchie, delsudiciume e del fumo in mezzo ai quali ei vive»34.Vere o no che fossero, Salgari prese per buone queste ed altre relazioni che è persinotroppo facile rintracciare e poi ci ricamò sopra, senza cattiveria, da buon romanziereche vuole anche stupire, chiuso nei limiti degli schemi culturali del suo tempo. Altrove,peraltro, egli ha descritto «questi bravi abitanti del Polo» quali «valenti cacciatori» eottimi pescatori, attardandosi con simpatia sulla loro mitezza e laboriosità, sino aconstatarne con autentico rammarico il declino a contatto con la civiltà corruttrice.Salgari razzista? Chiunque conosca anche superficialmente la sua opera dove, tral’altro, le più note storie d’amore nascono tra uomini e donne di etnie diverse e persinonemiche, sa la risposta35.

Sarebbe interessante estendere questo tipo di considerazioni o di ricerchealle varie popolazioni del mondo descritte da Salgari, visto che ha ambientatoromanzi e racconti appunto in ogni angolo del mondo. Si vedrebbe come nonabbia fatto altro che riciclare opere altrui, ritenute affidabili, per il solitoproblema d’essere stato uno scrittore che non è mai uscito dall’Italiasettentrionale. Per di più, uno scrittore di fine Ottocento e inizio Novecentocondizionato dal microcosmo, soprattutto culturale, in cui operava.

Basandomi su queste considerazioni, mi sono in passato occupatodiffusamente della questione dei pellirosse36 che qualcuno, con visualemoderna, ha successivamente giudicato trascurata e vilipesa dalle paginesalgariane, così da indurmi ad approfondire il tema in altre due occasioni37

e a scrivere, tra l’altro:

[...] la ricerca delle fonti è attività fondamentale per la valutazione dell’opera salgariana.Le precarie possibilità d’approfondimento devono dunque essere considerate accanto

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alla serietà o meno dei testi consultati, molti dei quali hanno ottenuto aggiornamentio revisioni documentate dopo molti anni, se non in tempi recenti.La circostanza va soppesata con attenzione particolare nei casi in cui ci si sentirebbespinti a porre l’accento su certe sue inesattezze o prese di posizione. Si pensi, adesempio, alla questione dei pellirosse, che notoriamente ha ottenuto rivisitazionidecisive soltanto in tempi successivi alla morte di Salgari. Non v’è dubbio, allora, chese avesse avuto a sua disposizione tutti i testi consultabili oggi- gli stessi che consentonodi contestarlo- nonché il tempo di leggerli, avrebbe scritto pagine ben diverse da quelleche scrisse sull’argomento. Taluni critici improvvisati, dunque, dovrebbero almenoeffettuare un timido tentativo di retrocedere nel tempo e mettersi nei panni di chiscriveva un secolo fa, più o meno.

Ed ho elencato le pagine in cui Salgari ha assunto la difesa del «fratellorosso».

Occorre inoltre considerare in che modo, nonostante tutto, abbia saputotracciare un sentiero del tutto autonomo rispetto i colleghi contemporaneie persino rispetto i suoi «maestri» di altre nazioni, in particolare Francia eInghilterra.

È evidente, infatti, come abbia evitato di veicolare i messaggiimperialistici che hanno caratterizzato, ad esempio, la letteratura di Haggardo di Kipling e persino quelli nazionalisti di Jacolliot, Boussenard, Aimard edi tanti altri romanzieri d’avventure francesi del suo tempo. È vero chel’Italia non poteva per nulla vantare il senso di grandezza e di gloriadell’impero britannico e neppure la folie des grandeurs dei francesi. Ma nonc’è chi non veda come i numerosi personaggi italiani dei romanzi di Salgari,viaggiatori, esploratori o avventurieri che siano, evitino ogni atteggiamentodi conquista o di avanguardia del colonialismo nazionale o simili. Al serviziodell’avventura, sono risoluti contro gli avversari stranieri perché così vuoleil gioco caratterizzato dagli immancabili «cattivi» che si oppongono all’eroedi turno. Spesso coltivano interessi ed intenti scientifici e il frutto delle lorostraordinarie scoperte o cacce è destinato ai musei.

D’altro canto nessuno come lui, in quei tempi, ha promosso al ruolo diprotagonisti assoluti uomini orientali che agiscono per la libertà dei loropaesi.

Concludendo, si può affermare, a mio avviso, che fu fautore del nostrocolonialismo in Africa soltanto in un periodo circoscritto della sua vita,quello giovanile, ricco di entusiasmi patriottici, assecondandol’immaginario collettivo nostrano, ma senza particolari coinvolgimentisoprattutto per quanto riguarda il suo mestiere di scrittore. Si può affermare

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inoltre che non può essere ragionevolmente accusato di razzismo ma, se mai,di ingenuità nell’utilizzare le fonti. Altresì di schematismo eccessivo e disemplificazione paradossale, che hanno in sottofondo, questo sì, un puntodi vista eurocentrico.

Ha scritto Bruno Traversetti:

Nella sua partizione esotistica del mondo, Salgari privilegia l’oriente asiatico e il nord-Africa musulmano. L’Africa nera, a dispetto del suo primario interesse coloniale e dellaintensa fascinazione che essa esercitava sull’immaginario europeo del tardo Ottocento,resta in lui solo teatro di storie minori e poco frequenti. La sua sensibilità inventiva èeccitata soprattutto dai lontani ma grandi complessi di civiltà, nei cui meandri ilmistero e l’avventura circolino paludati da fastose mitologie culturali. La sua Asia, però,coincide abbastanza fedelmente (se si fa eccezione per l’arcipelago delle Filippine, versoil quale lo sospinge anche una simpatia di tipo politico) con quella dell’imperobritannico e dei possedimenti olandesi: India e Insulindia, soprattutto, sono i luoghieletti del suo esotismo, delle sue scenografie eroiche. L’Estremo Oriente Giallo,l’immenso e non meno suggestivo mondo cinese e indocinese, resta quasi ai confini delsuo immaginare: in romanzi come La scimitarra di Budda o La città del re lebbroso,ambientati rispettivamente in Cina e nella regione cambogiano-siamese, egli sembraquasi incapace di fantasticare l’azione; le vicende vi si snodano lente, ripetitive,costellate qua e là da brandelli d’avventura che sembrano allestiti come stanchi filid’occasione38.

Ed ha aggiunto:

Il punto d’osservazione salgariano, il centro dal quale egli distingue l’altro da sé e tracciala topografia esotistica del mondo è, ovviamente, l’Europa; o meglio, poiché l’esoticoha anche un versante temporale, l’Europa del tardo XIX secolo. Questo luogo diautoriconoscimento, tuttavia, non è compatto come, ad esempio, l’Inghilterra diKipling; e, anzi, sfumate vene di alterità lo attraversano. Ai suoi incerti margini etniciocchieggia l’ambiguo esotismo dei gitani di Spagna, primi attori, con la loro reginaZamora, dei Briganti del Riff, mentre ai confini del sud-est il mondo balcanico giàsfuma nella doppiezza asiatica e fornisce una ricca tradizione litografica a certe figuredi antagonisti [...] Lo sciame di vibrazioni esotistiche indotte dalle nozioni di «gitano»e di «balcanico» è senza dubbio il più denso che si levi dall’Europa salgariana. Nel primocaso si tratta di un’alterità antichissima ed endemica, connaturata allo stato irregolaredella nazione zingara, alle cronache e alle diffuse leggende che la riguardano; per ilsecondo caso, invece, occorre tenere presente sia la forte arretratezza nello sviluppoindustriale in cui versava la regione balcanica nell’Ottocento, sia la sua forte diversitàculturale dovuta all’espansione, in essa, dell’impero ottomano [...]39.

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Viene da chiedersi tuttavia se l’eurocentrismo salgariano non siagerminato, al di là delle predilezioni personali, dalla disponibilità delle fonti.

L’interrogativo si dimostra pertinente prendendo in esame, ad esempio, ilproblema della tratta la cui soluzione, come è stato sottolineato con giustacritica, secondo Salgari, «è in mano alle grandi potenze europee, portatrici diciviltà e di progresso»40. È stato accertato che tra le fonti principali del papà diSandokan figura il volume L’Antischiavismo alla fine del secolo XIX di CarloBianchetti. In esso, ma non solo, la scoperta e poi l’esplorazione dell’Africasono descritte come atti di abnegazione, di coraggio indomito, di costanza damartiri, da parte di uno stuolo di eroi, missionari, animi nobili che «s’avanzaardito per ogni dove, sotto quel cielo di fuoco, per lande selvagge, fra milleasprezze e pericoli, sfidando la fame e le febbri, non tementi delle tigri e deileoni [...] tutti corazzati di intrepidezza e di costanza, si slanciano sui fiumi, suilaghi, sui monti, nei deserti del misterioso continente, portando ciascuno lapatria nel cuore e facendo risuonare da lontano la favella, il nome e le glorie»41.

Alle nazioni europee cui appartengono questi gentiluomini, assicuraBianchetti, è toccato e toccherà risolvere definitivamente l’immane tragediadella schiavitù, poiché «a favorire le cause generatrici dello schiavismoconcorre singolarmente il fanatismo religioso dell’Islamismo riguardatocome irreconciliabile colle confessioni cristiane. Tutti i mali d’Africa, lasciòscritto il Mage, capitano di vascello, provengono dall’Islamismo (Fleurs dudesert, p. 27)»42. Ma è piuttosto agevole consultare i testi dell’epoca, inparticolare, per constatare quanto fosse diffusa questa convinzione43.

Ma torniamo all’ambientazione eurocentrica dei romanzi salgariani.I testi di ogni genere, scientifici o fantastici, divulgativi o

d’intrattenimento, diffusi in quel periodo, riguardavano appunto le zonesottoposte all’influenza coloniale: sia per evidenti ragioni politiche che perl’effettiva, migliore conoscenza che se ne era acquisita ad ogni livello. Per dipiù, con non sopito spirito giornalistico, Salgari scriveva sovente autenticiinstant books sugli avvenimenti del suo tempo: vale a dire sui conflitticoloniali contemporanei, appunto.

Non che mancassero nozioni, spesso esaurienti, sulle altre zone delmondo, ma l’attenzione era monopolizzata su quelle che, grosso modo,corrispondono al prediletto esotismo salgariano.

Viene da chiedersi ancora: e se avesse avuto a sua disposizione tutti i testiche abbiamo oggi?

Difficile, con riferimento a Salgari, non pensare subito all’India o alBorneo. Ebbene, erano zone alle quali non si poteva non prestare attenzione.

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È nota la storia della penetrazione europea in India che possiamo far iniziarenel 1498 con l’invasione pacifica di Vasco de Gama. La comprensibileignoranza di costui, che «prese per un’immagine della Vergine quella che eral’effige della dea Kalì»44, è stata soppiantata nei secoli da una bibliografiaoceanica e sempre più raffinata. Nel solo ambito della letteraturaavventurosa ma documentata che fu notoriamente fonte di Salgari (ma le suefonti «indiane» accertate sono anche altre) ricordiamo romanzi di JulesVerne e di Louis Boussenard, ma soprattutto la copiosa produzione di LouisJacolliot (1837-1890) che annovera una ventina di volumi «indiani»,compilati con intenti scientifici, nei quali è svelato ogni più reconditomistero, poiché quello studioso, che esordì con La Bible dans l’Inde (1868),spese molti anni della propria vita viaggiando e compiendo ricerche, ancheesoteriche, in gran parte dell’India.

In quanto al Borneo, mi sia permessa un’ultima citazione di me stesso,usando la tolleranza e la pazienza che si riserva ai barbosi decani (compio diquesti tempi i quarant’anni di ricerche salgariane...):

Ma esisteva soprattutto una collaudata tradizione nautica che guardava a quelle zone.Giacomo Bove (1852-1887), morto suicida a Verona, quasi- potremmo dire- sotto gli occhicosternati di Salgari che era allora giornalista, si era congedato come guardiamarinadall’Accademia Navale di Genova. Promosso sottotenente, fece un viaggio al Borneo sullacorvetta «Governolo» al comando di Enrico Accini, allo scopo di studiare la costasettentrionale dell’isola: quindici mesi di vita ricca di emozioni e fatiche. Giovanni BattistaCerruti (1850-1914), imbarcatosi giovanissimo come mozzo, al suo terzo viaggio arrivò alBorneo e conobbe da vicino i luoghi delle sue future imprese e della sua morte. Ricordiamoancora i viaggi al Borneo dei fiorentini Odoardo Beccari (1843-1920) ed Elio Modigliani(1860-1932) o del ligure Giacomo Doria (1840-1913). Come costoro, anche Salgari, siapure viaggiando solo con la fantasia, aveva scelto una precisa rotta di navigazione45.

Per non parlare delle vicende di James Brooke e dei pirati malesi o diquelle dei garibaldini finiti in quelle zone: tutta «realtà romanzesca» che funettare per il palato di Salgari.

Insomma, anche il suo conclamato e innegabile eurocentrismo potrebbeavere motivazioni e perciò attenuanti ben precise.

Perché, alla fine dei conti, non pare giusto responsabilizzare più di tantoun onesto autodidatta ottocentesco, un entusiasta ragioniere dell’avventura,più che mai portavoce dell’immaginario collettivo dell’epoca, che ha in ognicaso seminato valori e ideali del buon tempo antico.

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Note al testo

1 Epistolario di Giuseppe Garibaldi con documenti e lettere inedite (1836-1882), I, A. Brigola,Milano 1885, p.204.

2 E. SALGARI, La Tigre della Malesia, Viglongo, Torino 1991, p. 54.

3 J. WHITE MARIO, Vita di Garibaldi, Ed. Studio Tesi, Pordenone 1976, p. 45. È lariproduzione integrale dell’edizione Treves del 1882.

4 E. SALGARI, I Pirati della Malesia, Donath, Genova 1897, pp. 15.

5 J. WHITE MARIO, Vita di Garibaldi cit., p. 67.

6 F. POZZO, «Avevano sete di sangue...». Salgari e Garibaldi, in «Studi Piemontesi», XXIV, 2,1995, pp. 355-358.

7 Cfr. Prefazione a F. POZZO, Un viaggiatore in braghe di tela. La vita avventurosa di AugustoFranzoj, CDA Vivalda, Torino 2003.

8 Cit. in F. SURDICH, Esplorazioni geografiche e sviluppo del colonialismo nell’età della rivoluzioneindustriale, 1, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 130.

9 Cfr. E. SALGARI (Ammiragliador), A Tripoli! Il Mahdi, Gordon e gli italiani ad Assab nelle«corrispondenze» per la Nuova Arena, a cura di Claudio Gallo con prefazione di Felice Pozzo,Perosini, Zevio 1994.

10 Ivi, p. 106.

11 Ivi, pp. 112-114.

12 Ivi, pp. 114-116.

13 Ivi, p. 118.

14 Ivi, p. 119.

15 Ivi, p. 125.

16 Ivi, p. 131.

17 S. GONZATO, Introduzione a E. SALGARI, Al Polo Australe in velocipede, a cura di V. Sarti,Oscar Mondadori, Milano 2002.

18 S. GONZATO, Introduzione a E. SALGARI, La Costa d’Avorio, a cura di V. Sarti, OscarMondadori, Milano 2003.

19 E. SALGARI, I Pescatori di Trepang, Cogliati, Milano 1896, p. 145.

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20 A Gordon, Salgari dedicherà il racconto agiografico L’eroe di Karthum, usando lo pseudonimoCap. Guido Altieri.

21 F. POZZO, Il piccolo ammiraglio della «Nuova Arena», in E. SALGARI (Ammiragliador), ATripoli! cit., pp. VII-XVIII.

22 In 28 puntate sulla «Nuova Arena» dal 15 settembre al 12 ottobre 1883. Con importantimodifiche diventerà La Rosa del Dong Giang nel 1897.

23 Già apparso in 124 puntate sulla «Nuova Arena» dal 31 marzo al 7 agosto 1884, poi sulla«Gazzetta dell’Emilia» di Bologna in 145 puntate dal 24 aprile al 26 settembre 1886.

24 G. V. (G. VIGLONGO), Lo schiavo della Somalia, in E. SALGARI (Cap. Guido Altieri), I Raccontidella Bibliotechina Aurea illustrata, a cura di Mario Tropea, II, Viglongo, Torino 2001, p. 154.

25 Romanzo già apparso a puntate nel 1905, con pseudonimo Oscar d’Aulio, sul «Giornale diViaggi e Avventure di Terra e di Mare» pubblicato a Milano da Gussoni.

26 La Favorita del Mahdi (vedi nota n. 23).

27 S. GONZATO, Introduzione a E. SALGARI, La Costa d’Avorio cit.

28 Ho pubblicato la Bibliografia delle opere di Salgari dedicate all’Africa in Emilio Salgari el’Africa, in L’Africa in Piemonte tra ’800 e ’900, a cura di Cecilia Pennacini, Regione Piemonte,1999, pp. 115-116.

29 Il volume, con prefazione di Mino Milani, è bilingue, per cui in copertina figura anche il titoloin inglese (The Land of Adventure. The Representation of Africa in Emilio Salgari).

30 F. POZZO, Il sorriso di Seghira, la zattera della Medusa e la sete di re Bango, in E. SALGARI, Idrammi della schiavitù, Viglongo, Torino 1992, pp. XIX-XXXII.

31 Cfr, Emilio Salgari e l’Africa, cit.

32 In una nota al testo citato ho rilevato, evidenziando i casi, come Salgari, nel romanzo di cuitrattasi, si fosse dimenticato più volte di essere...nel Duemila e che pertanto il «secolo scorso»va inteso come «due secoli or sono».

33 E. GIRIBALDI, Viaggi e scoperte polari dalla loro origine sino ai giorni nostri, Tip. Ed. G.Candelotti, Torino 1882, p. 45.

34 ANONIMO, Racconti dei Mari Polari, Tip. Claudiana, Firenze 1873, p. 17.

35 F. POZZO, Tanto valeva che non si fossero risvegliati dal loro sonno secolare, in E. SALGARI, Lemeraviglie del Duemila, Viglongo, Torino 1995, pp. XXXIX- XLI.

36 F. POZZO, Note sulla questione indiana nella vecchia letteratura avventurosa, in «LGArgomenti», Genova, 4, 1983, pp. 26-28.

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37 Cfr. L’anomalo Far West di Salgari, in «Salgariana in ricordo di Giuseppe Turcato», BibliotecaCivica di Verona, 1998 e il capitolo 13 intitolato Un gran diavolo rosso in F. POZZO, EmilioSalgari e dintorni, Liguori, Napoli 2000, pp. 145-154.

38 B. TRAVERSETTI, Introduzione a Salgari, Laterza, Bari 1989, p. 41.

39 Ivi, p. 45.

40 V. ASIOLI, L’impero di carta. Il colonialismo italiano di età liberale nell’editoria per ragazzi(prima parte), in «Studi piacentini», 35, 2004, p. 68.

41 C. BIANCHETTI, L’antischiavismo alla fine del secolo XIX, Tipografia Subalpina, Torino 1893,pp. 13, 14.

42 Ivi, p. 293.

43 Cfr., fra i tanti, La schiavitù Africana, supplemento illustrato al «Corriere della Sera», febbraio1889.

44 V. SALIERNO, L’India degli dei. Storia, civiltà, cultura, Mursia, Milano 1986, p. 151

45 F. POZZO, Emilio Salgari, la geografia e le esplorazioni, in «Bollettino della Società GeograficaItaliana», Serie XII, vol. V, fasc. 1-2, Roma 2000, p. 229.

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Gli ebrei della Libia, il nazionalismo arabo e la questione palestinese

Gli ebrei della Libia,il nazionalismo arabo e la questione palestinese.Note dai documenti del Political Intelligence Service britannico(1945-1949)

di Federico Cresti

I documenti del Public Record Office

Presso il Public Record Office di Londra (Kew Gardens) sono conservatealcune serie di documenti relativi alla storia delle vicende sociali e politichedella Tripolitania tra il 1946 e il 1949: essi riguardano in particolare gli inizie gli sviluppi dell’attività dei partiti politici in un momento in cui il paese siavviava verso l’indipendenza nel quadro delle trattative internazionali cheavevano seguito la fine della seconda guerra mondiale.

Il nucleo principale dei documenti a cui ci riferiamo è costituito dallaserie del «Monthly Political Intelligence Report – Tripolitania», bollettinomensile del servizio di informazioni politiche della Tripolitania, che iniziaad essere redatto nel dicembre del 1945 e che giunge nel marzo del 1949 alsuo trentanovesimo numero. La raccolta, conservata nelle serie del WarOffice [WO], è incompleta: mancano i documenti del periodo che va daldicembre del 1945 al gennaio del 1947, dei quali sono stati tuttavia trovatialcuni estratti1. Per i due anni successivi, al contrario, la raccolta è completa:in una serie diversa da quella che contiene gli estratti appena citati sonoconservati tutti i numeri che vanno dal quindicesimo (febbraio 1947) altrentanovesimo (febbraio 1949)2. Per il periodo relativo all’ultimo annodell’amministrazione britannica della Tripolitania il «Monthly PoliticalIntelligence Report»è conservato in una serie del Foreign Office3 che non èstata studiata.

La parte più corposa della raccolta risulta provenire dall’ufficio degliAffari civili dell’amministrazione militare britannica dei Territori africani 4.

Ricordiamo che nella struttura organizzativa dell’amministrazionemilitare britannica, che si era formata a partire dall’occupazione dei territorinemici nel corso della seconda guerra mondiale, gli affari civili erano postisotto la responsabilità di un funzionario militare, con il grado di generale dibrigata, direttamente dipendente in via gerarchica dal comandante in capo

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delle forze armate britanniche del Medio Oriente. La direzione degli affaricivili del Cairo (Civil Affairs Branch, CAB) era suddivisa in quattro uffici chefacevano riferimento ai territori italiani dell’Eritrea, della Cirenaica, dellaTripolitania e del Dodecanneso5. A partire dal 1943 i funzionari del governomilitare (ufficiali della riserva e interpreti civili che nei mesi precedenti eranostati riuniti a Maadi, in Egitto, sotto il comando del generale di brigata Lushper organizzare il lavoro) si insediarono nei loro uffici sul territoriotripolitano. La Tripolitania era stata divisa in sei dipartimenti, con sedicentrali nei capoluoghi di Tripoli, Zuara, Garian, Homs, Misurata ed Hon.La scala gerarchica dell’amministrazione degli Affari civili vedeva allasommità un ufficiale comandante (Chief Civil Affairs Officer, CCAO), conun aggiunto (Deputy Chief Civil Affair Officer, DCCAO), residenti al Cairo.Alle dipendenze del Chief Administrator e al comando di ciascuno degliuffici dipartimentali del territorio si trovava un ufficiale superiore (SeniorCivil Affairs Officer, SCAO) che aveva alle sue dipendenze uno o più ufficialiper gli Affari civili (Civil Affairs Officer, CAO). Con il passare degli anni lastruttura gerarchica subì qualche variazione e funzionari civili libicisostituirono i militari inglesi in alcuni degli uffici periferici.

Tra le altre attività del Political Intelligence Service in ciascuno dei territorioccupati era la redazione di un bollettino periodico: quello del servizio diinformazioni politiche della Tripolitania è costituito da numeri mensilidattiloscritti destinati ad una circolazione ristretta e di carattere segretoredatti dagli agenti britannici e raccolti dall’ufficio di collegamento per gliAffari civili6 del quartier generale dell’amministrazione militare britannica.Ciascun numero del bollettino è composto da una serie di paragrafi, con unnumero progressivo e un titolo, con notizie relative soprattutto ai principaliavvenimenti di carattere politico, ma a volte anche di interesse generale: adesempio, vi si incontrano informazioni su eventi climatici di carattereeccezionale e sulla situazione economica del territorio, in particolare perquanto riguarda l’agricoltura. Spesso il bollettino è accompagnato da uno opiù documenti allegati (copie di lettere o documenti particolarmenteimportanti, traduzioni inglesi di documenti in lingua araba, testi di articolidi giornali...).

Le informazioni contenute nei bollettini sono di diversa provenienza edin generale la loro fonte non è rivelata. Per la maggior parte sono il fruttodell’attività segreta di spionaggio e controllo della popolazione civileorganizzata dall’amministrazione britannica attraverso agenti stipendiati ocollaboratori di diverso genere reclutati tra la popolazione locale, che non

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vengono mai citati per nome e a cui spesso è fatto riferimento come«informatori». Molte delle notizie del bollettino riguardano l’attivitàcorrente o riservata dell’ufficio degli Affari civili della Tripolitania, che avevatra i suoi compiti anche quello di gestire i rapporti con gli esponenti politicidelle comunità del territorio amministrato. Appaiono sporadicamentenotizie provenienti dall’ufficio della censura civile, che in Tripolitaniarimase in vigore fino al 15 dicembre 19477: in particolare la censura postaleè all’origine di una serie di analisi sulla situazione della comunità italiana, cheappare essere posta sotto speciale controllo, e di informazioni di caratterepersonale e politico sui suoi principali esponenti. Inoltre, venivanoconvogliati verso l’ufficio di collegamento per gli affari civili, selezionati edin alcuni casi inseriti nel bollettino documenti ed informazioni provenientidalla direzione della polizia e dai diversi uffici dell’amministrazione militareper la gestione degli affari civili, in particolare dall’ufficio per la stampa el’informazione pubblica.

Quasi tutti i documenti allegati ai bollettini sono in lingua inglese; inpochi casi si incontrano testi in francese, mentre non ne appaiono in arabo.Nessuno dei documenti presenta problemi particolari di lettura o diinterpretazione, se non per alcuni casi di nomi di persona: in molti casi inomi non inglesi sono storpiati, e per i nomi arabi si incontrano trascrizionidiverse, in forme variabili e senza regole precise. Laddove non sia attestatauna trascrizione dei nomi arabi più coerente con le norme scientifiche è stataconservata nel testo la trascrizione usata nei documenti8.

Da un’analisi complessiva dei documenti, attualmente in corso, traiamoin questa occasione l’analisi dei documenti che si riferiscono alla comunitàebraica.

La comunità ebraica della Tripolitania nella Libia del dopoguerra

Alla fine del 1947 la comunità ebraica della Libia entrava, volente onolente, nel gioco politico che si stava svolgendo nei centri nevralgici delladiplomazia del dopoguerra per decidere le sorti future del paese nel quadrodelle trattative sul destino degli ex territori coloniali italiani.

Dopo la firma dei trattati di pace una lunga serie di incontri ai livelli piùalti tra i rappresentanti dei governi delle nazioni vincitrici aveva messo inevidenza volontà contrastanti e impossibilità di accordo: il consiglio deiministri degli Esteri delle Quattro potenze aveva deciso alla fine del 1947 di

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inviare una commissione di studio nei territori coloniali italiani conl’incarico di stilare un rapporto che facilitasse il raggiungimento di unaccordo: nel rapporto doveva essere illustrata con chiarezza la situazionesociale e politica dei diversi territori e soprattutto dovevano essere resemanifeste l’opinione e la volontà delle popolazioni che li abitavano sul lorofuturo.

Nell’attesa dell’arrivo dei membri della commissione in Tripolitania ipartiti politici nazionalisti avevano iniziato le manovre per affermare i loroobiettivi: in particolare avevano deciso di riunire un’assemblea dirappresentanti per elaborare una piattaforma unitaria di rivendicazioni dapresentare alla commissione. Anche le minoranze (in particolare, nellasituazione libica, la comunità ebraica ed i coloni italiani) avrebbero avuto ildiritto di formulare le loro richieste e di manifestare i loro progetti suldestino politico del paese: da qui le pressioni nei loro confronti, che avevanolo scopo di far loro manifestare opinioni che influenzassero nel modo volutoil giudizio finale della commissione.

Intorno alla metà del mese di novembre giunse a Tripoli la notizia che ilpresidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, RaffaeleCantoni, proclamandosi portavoce dei 30.000 ebrei di Libia9 aveva inviatoun messaggio telegrafico al consiglio dei ministri degli Esteri a Londra in cuisi affermava che essi erano favorevoli al ritorno di un governo italiano. Lacomunità ebraica di Tripoli aveva accolto con grande allarme questadichiarazione ed aveva immediatamente reagito inviando in Italia unarichiesta di smentita: nel telegramma si affermava che gli ebrei di Libia nonavevano mai espresso il desiderio di un mandato italiano sulla sua anticacolonia, ma che al contrario e da lungo tempo essi avevano aderito econtinuavano ad aderire alle aspirazioni di indipendenza del paese10. Nonavendo ricevuto nessuna risposta dall’Italia, dopo aver fatto pubblicare sullastampa di Tripoli una smentita delle dichiarazioni del presidente dellecomunità israelitiche italiane, i rappresentanti dell’ebraismo tripolitanoavevano scritto anch’essi a Londra negando che Cantoni fosse portavocedella loro opinione e ribadendo l’appoggio alla prospettivadell’indipendenza libica.

La vicenda ebbe un seguito anche sulla stampa italiana. In un articolopubblicato dal quotidiano «Momento» del 12 novembre Fausto Cohenspiegava che gli ebrei della Libia erano obbligati ad appoggiare la prospettivadell’indipendenza per paura di rappresaglie. Non si doveva pensare,argomentava l’autore, ad un doppio gioco degli ebrei, che in Italia

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mostravano di essere favorevoli alla prospettiva di un mandato italiano econtrari alla volontà degli arabi e in Libia favorevoli all’indipendenza econtrari al mandato italiano, dal momento che «i programmi sono una cosaed i pogrom un’altra»11.

La situazione della comunità ebraica nell’atmosfera politica di queglianni non era delle più confortevoli. Anche i servizi di informazionebritannici giudicavano che gli ebrei avrebbero accolto favorevolmente ilristabilimento del potere italiano sul paese, ma non potevano permettersi diaffermarlo apertamente senza correre gravi rischi12: al contrario, dovevanomostrare in tutti i modi di essere favorevoli all’indipendenza per paura dirappresaglie da parte dei nazionalisti.

È opportuno ricordare che dopo la fine della guerra lo stato di tensionetra la comunità ebraica e la popolazione araba aveva visto episodi di sangueestremamente gravi. Nel novembre del 1945 c’era stato un vero e propriomassacro che aveva toccato, oltre Tripoli, le comunità di Zanzur, Tagiura,Zuara e Cussabat: si erano contati centotrenta morti13, con sinagoghedistrutte e case saccheggiate. A Cussabat donne e ragazze furono violentatee molti ebrei furono costretti ad abbracciare l’islàm per aver salva la vita.Oltre ai morti ed ai feriti, le distruzioni ridussero in miseria alcune migliaiadi persone e almeno 1.400 ebrei persero le loro abitazioni. L’inchiestasuccessiva aveva verificato la poca affidabilità di alcuni elementi della polizialibica, che aveva reso necessario l’intervento delle truppe britanniche perristabilire l’ordine: erano state arrestate 864 persone e qualche tempo dopodue arabi erano stati condannati a morte dal tribunale di Tripoli egiustiziati14.

Le ragioni invocate dagli storici per spiegare questi episodi atrocimettono in evidenza la responsabilità del nazionalismo arabo, sottolineandoquelle «dei red fez, [...] nazionalisti egiziani, siriani, palestinesi giunti in Libiaal seguito dell’esercito inglese»15, della loro propaganda panaraba edell’agitazione politica clandestina animata dalla loro presenza, da mettereanche in relazione con gli avvenimenti palestinesi e con una tradizionaletensione intercomunitaria ebraico-musulmana risorta con la guerra e la finedel governo coloniale. Una parte non minore di responsabilità è attribuitaai nazionalisti e ai notabili arabi libici, nonché «all’indifferenza eall’inefficienza della BMA»16: l’amministrazione britannica aveva senzadubbio gravissime responsabilità per non aver saputo arrestare rapidamentel’eccidio17, ma tra le ragioni che lo avevano generato tendeva a sottolinearequelle che avevano più profonde radici nella vicenda socioeconomica degli

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anni della guerra, riducendo il peso delle ragioni politiche circostanziali. Ilgenerale Blackley, capo dell’amministrazione militare della Tripolitania,all’epoca della visita a Tripoli della commissione d’inchiesta delle quattropotenze, ad una domanda sullo stato dei rapporti tra musulmani ed ebreifece un riferimento esplicito a questa vicenda. Rispondendo al capo delladelegazione statunitense Utter, Blackley affermò:

The anti-jewish riots of November, 1945, were produced, or if not produced, they wereintensified by the fact that the Jews had been acquiring property, movable property, fromthe Arabs which owing to various economic circumstances they tended to sell. There wasa certain jealousy on that account among the Arabs. Today with conditions of hardshipexisting as they do, there has again been a tendency for Arabs who are out of work to selloff their belongings and those belongings normally find their way into the hands of theJews which in turn means if we got any disturbances of political nature, there would bea tendency to loot Jewish shops and establishments. I can say at once that the situationin Palestine has had relatively little repercussion here18.

Dopo i massacri l’amministrazione britannica aveva promosso laformazione di un Comitato arabo-ebraico per la collaborazione e laricostruzione, presieduto dal qadi al-qudat Mahmud Burchis e dall’expresidente della comunità israelitica Halfalla Nahum, che aveva operato perpacificare gli animi19.

In seguito al ritorno della libertà di associazione gli ebrei parteciparono aldibattito politico ed alcuni membri della comunità assunsero posizioniapertamente favorevoli all’indipendenza della Libia. Peraltro anche all’internodella comunità ebraica si manifestavano posizioni diverse, risultato, a quantoè dato di comprendere dai documenti del servizio di informazioni, di rivalitàpersonali più che di opposizioni ideologiche. Ad esempio il presidente dellacomunità israelitica di Tripoli Zacchino Habib aveva aderito fin dalla suafondazione, avvenuta nel maggio del 1946, al Fronte nazionalista unito (al-jabha al-wataniya al-muttahida)20, divenendo uno dei membri del suocomitato esecutivo: i suoi oppositori all’interno della comunità avevano alloradato il loro appoggio ad un altro raggruppamento politico, il Blocconazionalista libero (al-kutla al-wataniya al-hurra)21, come si rileva da una notadel bollettino secondo la quale questo partito22

ha ottenuto un appoggio considerevole dagli ebrei. La maggior parte dei fondi adisposizione del partito sembrano essere stati sottoscritti dagli ebrei che si oppongonoa Zacchino Habib, un membro importante del Fronte nazionalista unito23.

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Dopo gli eccidi del novembre 1945 non si erano più contati episodi diviolenza collettiva, ma risse tra giovani e litigi avevano rivelato una tensionenascosta che continuava ad avvelenare i rapporti tra la comunità ebraica equella musulmana. Un fatto più grave era avvenuto nella notte del 2 marzodel 1947 quando il cadavere di un arabo assassinato, di nome Salem BenLamin, era stato trovato nel quartiere ebraico: immediatamente era statatemuta una ritorsione collettiva e l’inizio di un nuovo massacro. Il giornosuccessivo il suo funerale era stato seguito da seimila persone e le duecomunità erano in grande agitazione. I rappresentanti dei principali partitiavevano fatto pubblicare sui giornali appelli alla calma: questo intervento,che aveva avuto l’effetto di evitare un nuovo episodio di violenza collettiva,era motivato, secondo il servizio di informazioni britannico, dalla volontà dinon compromettere la libertà politica che i partiti desideravano conservare,ma che in definitiva dipendeva dal buon volere dell’autorità britannica checon un pretesto avrebbe potuto sospenderla. Inoltre, qualsiasi episodio diintolleranza religiosa da parte della maggioranza araba avrebbe costituitoun’arma nelle mani di quanti si opponevano alle richieste di autonomia e diindipendenza perché sarebbe stato interpretato come una provadell’immaturità del paese e dell’incapacità della sua classe dirigente agovernarlo.

In quell’occasione molte famiglie della hâra di Tripoli che abitavanonelle zone più vicine ai quartieri musulmani avevano lasciato le loro case perrifugiarsi in luoghi meno esposti, e la presenza militare intorno al quartiereebraico per controllare eventuali incidenti era stata fortemente aumentata.Per parare la minaccia, da parte degli ebrei era stata diffusa la voce che laresponsabilità dell’assassinio fosse da attribuire ad una manovra dell’autoritàbritannica che voleva in questo modo creare uno stato di tensione tra lecomunità religiose ed interrompere «the broterly attitude of Jews and Arabsin Tripolitania»24, ma qualche giorno dopo due ebrei erano statiimprigionati come responsabili dell’omicidio. In occasione dell’arresto ilpresidente del Blocco nazionalista libero, Ali Fiki Hassan, aveva inviatoall’amministrazione britannica una lettera in cui domandava che fosseapplicata nei confronti dei due ebrei accusati la regola biblica, occhio perocchio e dente per dente: commentando la richiesta il funzionariobritannico che l’aveva ricevuta faceva notare come il presidente della Kutlaavesse, con poca logica ma con molto opportunismo, dimenticato gli episodidel novembre del 1945, quando, se gli articoli della legge mosaica fosserostati applicati, sarebbe stato necessario condannare a morte 130 arabi25.

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L’attenzione generale era stata distolta da questi avvenimenti quando il5 marzo 1947 un comunicato della stampa ripreso dai giornali di Tripoliaveva reso nota una dichiarazione secondo la quale gli Stati Uniti si eranodetti favorevoli - aderendo in parte alla posizione della Francia - allaconcessione di un mandato all’Italia su alcuni dei suoi ex territori coloniali;avevano inoltre riconosciuto l’opportunità di far partecipare unrappresentante italiano alle successive conferenze in cui si doveva discuteredella sorte dei territori italiani in Africa. La notizia aveva suscitato molteproteste, in particolare da parte della Kutla, e l’animosità verso gli ebrei si eraattenuata per rivolgersi contro la comunità italiana.

Il periodo di pace per la comunità ebraica durò qualche mese, ma lasituazione tornò ad essere molto tesa quando l’Assemblea generale delleNazioni Unite votò il piano di spartizione della Palestina, il 29 novembre194726.

La questione palestinese, come era ovvio, coinvolgeva gli ebrei dellaTripolitania, che avevano collegamenti ufficiali o clandestini con leorganizzazioni sioniste. La stampa era tenuta sotto stretto controllo da partedelle autorità britanniche, che ad esempio avevano censurato tutte lepubblicazioni dell’Organizzazione sionista revisionista quando questa erastata messa fuorilegge 27, tuttavia la propaganda era rimasta attiva e attraversocanali clandestini giungevano a Tripoli pubblicazioni stampate in Tunisiae notiziari inviati dalle organizzazioni ebraiche degli Stati Uniti28.

Era noto ai servizi di informazione britannici che molti giovani ebreicercavano di raggiungere la Francia o l’Italia attraverso la Tunisia per poiemigrare verso la Palestina: per quanto l’emigrazione dalla Libia alla Tunisiafosse illegale, le informazioni giunte dall’ufficio della censura postale avevanopermesso di sapere che alcuni giovani ebrei di Tripoli erano riusciti a passarela frontiera: dopo essere stati sottoposti ad una visita di selezione in una localitàsconosciuta erano stati inviati per un periodo di addestramento in un centrodi formazione clandestino situato a duecentocinquanta chilometri da Tunisi.Da lì erano stati trasferiti a Milano per poi partire per la Palestina. Il serviziodi informazioni britannico non aveva potuto scoprire se l’organizzazionesionista avesse una sua base di partenza in Tripolitania e nel corso dell’estatedel 1947 stava ancora indagando per accertarlo29.

Le prime reazioni arabe alla spartizione della Palestina si ebbero il primodicembre del 1947, quando sulle mura di Tripoli apparvero alcuni manifestiche chiamavano gli arabi a scioperare contro la decisione delle NazioniUnite: una manifestazione di alcune decine di studenti fu sciolta dalla polizia

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senza incidenti gravi due giorni dopo. In quegli stessi giorni il Blocconazionalista libero e il Partito dell’Unione tripolitano-egiziana (al-hizb al-ittihad al-tarabulsi al misri)30 iniziarono ad arruolare volontari per la guerra:circa mille giovani si iscrissero nelle liste, ma secondo gli agenti inglesi ilprimo entusiasmo non durò a lungo e il reclutamento cessò poco tempodopo. Così si legge in una nota del servizio di informazioni britannico delmese di dicembre 1947:

gli unici tripolitani che hanno mostrato di voler combattere nell’Esercito arabo sono duestudenti di Tripoli. Si sono allontanati da casa lasciando ai loro genitori un biglietto incui dicevano di essere diretti in Palestina. I genitori informarono la polizia e i due giovaniguerrieri furono presi a Misurata e tornarono dai loro arrabbiati genitori31.

Dopo il voto delle Nazioni Unite i partiti politici presero diverseiniziative nei confronti della comunità ebraica. La Jabha convocò presso lasede del partito alcuni dei suoi rappresentanti per conoscere la loro posizionesul sionismo: come si è detto, uno dei principali dirigenti della comunità,Zacchino Habib, era membro del comitato di direzione del partito el’incontro si svolse in un’atmosfera amichevole in cui gli ebrei presentiespressero il loro disaccordo unanime circa la decisione sulla spartizionedella Palestina e riaffermarono il loro pieno appoggio alla causadell’indipendenza libica32. Il Partito del lavoratori (hizb al-ummal)33 chieseai rappresentanti della comunità ebraica di pronunciarsi ufficialmente sullaquestione e la stampa di Tripoli diede larga pubblicità ad un comunicato inproposito34. La più radicale Kutla assunse un atteggiamento intransigente:il 17 dicembre il suo presidente inviò una lettera minacciosa al GranRabbino e a Shalom Nahum, vicepresidente della comunità, il cui tonofaceva presagire atti di rappresaglia contro gli ebrei di Tripoli. Un interventoenergico del capo dell’amministrazione britannica Blackley, a cui gli ebrei sierano rivolti per far conoscere le minacce, costrinse Ali Fiki Hassan a recarsinegli uffici della comunità per fare atto di ammenda, e la questione non ebbeulteriori sviluppi: in effetti, anche se a quanto sembra durante la sua visitail capo della Kutla non espresse particolare contrizione per quanto avevascritto, i notabili della comunità ebraica chiesero alle autorità britanniche dinon andare più oltre nelle loro pressioni35.

La proclamazione dello Stato di Israele nel panorama socio-politico libico

Sullo sfondo delle vicende interne che assorbivano gran partedell’attenzione dei partiti tripolitani nei primi mesi del 1948 la questione

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palestinese appariva a sprazzi, come fattore di mobilitazione e di agitazionepopolare: all’epoca della decisione delle Nazioni Unite sulla spartizione,come si è detto, alcuni partiti avevano iniziato a reclutare volontari percombattere il sionismo, ma apparentemente senza un grande successo. Ilmovimento aveva subito una brusca accelerazione dopo la proclamazionedello Stato di Israele, il 15 maggio del 1948, che a Tripoli aveva avuto tra lesue conseguenze l’arrivo di gruppi sempre più numerosi di volontari deipaesi maghrebini che entravano nel territorio libico per recarsi a combatterein oriente. Anche molti giovani libici avevano mostrato l’intenzione diarruolarsi nell’Esercito di liberazione della Palestina. Sia i volontari dei paesivicini, che malgrado il rafforzamento dei controlli francesi alla frontieratunisina continuavano ad entrare in Libia, che i volontari libici avevano unadestinazione comune: il campo di Marsa Matruh, in territorio egiziano, cheera stato organizzato per accoglierli.

A Tripoli si era costituito un Comitato di difesa della Palestina, che, purformato su una base non partitica, vedeva particolarmente attivi i militantidel Partito nazionalista (hizb al-watani)36: lo dirigeva il presidente delpartito, Mustafa Mizran. Il comitato si occupava dell’organizzazione delviaggio dei volontari verso Marsa Matruh ed aveva assunto il compito(particolarmente gravoso dal punto di vista economico nella disastrosasituazione della Libia di quegli anni) di assicurare la loro sussistenza aTripoli. Le partenze da Tripoli verso l’Egitto per via di terra avvenivano ingenerale a piccoli gruppi: durante il mese di maggio erano partiti in tutto 420volontari tripolitani e 530 provenienti dal Marocco, dalla Tunisia edall’Algeria37.

Il campo di Marsa Matruh era stato visitato durante il mese di aprile daAbdallah Abid al-Sanusi: insieme ad alcuni notabili aveva accompagnato ungruppo di settanta volontari della Cirenaica bene equipaggiati, che venivanoad aggiungersi ai circa 400 maghrebini che già vi si trovavano. Molti deivolontari della Cirenaica erano ex soldati dell’esercito coloniale italiano odella Libyan Arab Force inglese che avevano combattuto nel corso dellaguerra. L’emiro Idris si era congratulato per l’iniziativa ed aveva espresso ilsuo augurio per la buona riuscita della spedizione. Dietro le pressioni diAbdallah, che aveva protestato con il segretario della Lega araba per lapermanenza eccessivamente lunga dei volontari nel campo di MarsaMatruh, un corpo armato di 419 libici, che aveva preso il nome di «RepartoAhmad al-Sharif al-Sanusi»38, aveva lasciato il Cairo in direzione dellaPalestina il 24 aprile 39. Il mese successivo erano arrivati al Cairo 260 nuovi

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volontari libici che erano stati incamminati verso il fronte palestinese: altri500 erano allora in viaggio dalla Cirenaica verso Marsa Matruh, ma ilgoverno egiziano aveva chiesto di fermarli perché non sarebbe stato possibileequipaggiare i nuovi arrivati per mancanza di armi.

Alcune notizie del bollettino di informazione riportano incidenti edisaccordi sorti in Palestina tra volontari libici e tunisini da un lato e egizianie orientali dall’altro: era stato necessario l’invio di un emissario della LegaAraba per risolvere i problemi e pacificare gli animi40.

In Tripolitania all’atto della proclamazione dello Stato di Israele leautorità britanniche avevano fatto forti pressioni sulla comunità ebraicaperché fosse evitata qualsiasi manifestazione di giubilo, e non si erano avutiincidenti di nessun genere nei giorni immediatamente successivi. Ciò eravisto come un risultato della politica di buon vicinato e di riconciliazione chenotabili musulmani ed ebrei avevano messo in atto dopo gli eccidi delnovembre 1945: la comunità ebraica aveva addirittura organizzato unricevimento in onore del Comitato di liberazione della Libia41 (haiat al-tahrir al-libiya) all’epoca del primo viaggio del suo presidente, BashirSadawi, a Tripoli. Scopo della manifestazione era stato affermare lasolidarietà della comunità ebraica negli sforzi per la liberazione el’indipendenza del paese42.

Dal 1947 l’amministrazione britannica aveva registrato una progressivadiffusione della propaganda sionista nel territorio ed una sempre piùmassiccia adesione al sionismo da parte dei giovani della comunità ebraica.Secondo le informazioni, la nomina a capo rabbino di Shalom Yelloz, chepur essendo algerino di nascita aveva un passaporto palestinese, eraall’origine di questo fenomeno43: dall’epoca del suo arrivo si era registrata lapartenza di molti giovani ebrei della Tripolitania per l’Italia, prima tappa diun viaggio più lungo che li avrebbe portati in Palestina.

La polizia inglese teneva sotto stretto controllo gli avvenimenti: perevitare che la presenza dei maghrebini creasse problemi in Tripolitanial’autorità britannica non faceva niente per arrestare il flusso, anzi cercava difavorire il passaggio dei volontari verso l’Egitto44. Tuttavia si temeva loscoppio di nuovi tumulti contro la comunità ebraica.

La situazione iniziò a peggiorare dagli inizi di giugno: il 7 giugno leautorità egiziane annunciarono che non avrebbero più accolto i volontari inEgitto, ed i maghrebini che erano giunti in Libia non ebbero più lapossibilità di continuare il loro viaggio45. Intorno al 10 giugno le autoritàbritanniche calcolavano che nella città vecchia di Tripoli si trovassero da 400

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a 500 tunisini che speravano di riuscire a partire verso l’Egitto e che esitavanoa tornare indietro temendo le sanzioni da parte delle autorità francesi peraver lasciato il paese clandestinamente.

Nei giorni successivi la situazione nella città vecchia si fece sempre piùpericolosa. All’aumento della tensione, come afferma un rapporto delservizio informazioni sugli incidenti che scoppiarono il 12 giugno,concorrevano diversi attori: da un lato i volontari maghrebini bloccati aTripoli, che passavano le loro giornate nei bar della città ascoltando ediscutendo le notizie radiofoniche degli avvenimenti palestinesi; dall’altroalcuni giovani ebrei sionisti che assumevano atteggiamenti provocatori. Iltutto si aggiungeva alla tradizionale tensione ebraico-musulmana, che itentativi di riconciliazione non avevano totalmente eliminato, e alla difficilesituazione dell’economia agricola causata dalla siccità, che aveva visto neimesi precedenti l’afflusso di numerosi disoccupati in cerca di lavoro dalleregioni circostanti.

Secondo i rapporti della polizia britannica gli incidenti iniziarono il 12giugno intorno alle 4 del pomeriggio: nelle vicinanze di via Leopardi e dicorso Sicilia un arabo ed un ebreo cominciarono a discutere tra di loro,richiamando l’attenzione di passanti sempre più numerosi e di un gruppo ditunisini che accorsero gridando: «Se non possiamo andare in Palestina acombattere gli ebrei, combattiamoli qui»46.

Fu questo l’inizio di una serie di episodi gravi, dal saccheggio dei negoziall’assassinio, che durarono tutta la sera ed il giorno successivo: le notizieraccolte in seguito dai funzionari di polizia escludevano che si fosse trattatodi incidenti organizzati e sottolineavano il carattere spontaneo edinesplicabile degli avvenimenti47. Era opinione comune all’internodell’amministrazione che la questione palestinese fosse stata un motivooccasionale, ma non essenziale. In effetti secondo il rapporto della polizia gliincidenti erano stati causati dalla feccia della popolazione:

La plebaglia era composta per la maggior parte dai rifiuti dell’umanità, tagliagole chenel loro profondo stato di depravazione avrebbero ucciso i loro correligionarimusulmani per rapinarli nello stesso modo in cui avevano trattato gli ebrei48.

Secondo i funzionari inglesi le gravi condizioni sociali ed economiche delpaese spiegavano l’accaduto più delle ragioni di carattere religioso e politico:si faceva notare in effetti che tra i settantasette arrestati in flagrante delitto

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solamente sette erano tunisini e solamente nove residenti nella città diTripoli: se ne deduceva che i principali attori degli incidenti appartenevanoalla massa dei disoccupati venuti a Tripoli dai territori dell’interno a causadella crisi.

Secondo altre fonti49 l’inizio degli incidenti non era stato così occasionalecome voleva farlo intendere il rapporto ufficiale della polizia inglese: unnumeroso gruppo di arabi armati di bastoni e di coltelli aveva iniziato colriunirsi in uno dei più malfamati quartieri della città vecchia, Bab al-Hurriyya, e si era poi riversato nel quartiere misto di Sidi Umran dove ipassanti ebrei erano stati aggrediti. Da lì si era diretto verso la hâra, al cuiingresso però aveva incontrato una forte resistenza da parte di gruppi armatidi autodifesa. Non riuscendo a penetrare nel quartiere ebraico e lasciando sulterreno un numero imprecisato di morti e di feriti, gli arabi si erano spostatinelle zone meno protette, dove avevano saccheggiato negozi e magazzini,incendiato e distrutto abitazioni e luoghi di culto. La BMA aveva subitodecretato lo stato di emergenza, ma nuovi incidenti si erano avuti anche ilgiorno successivo: nel pomeriggio del 13 giugno l’ordine era stato ristabilitoquasi dovunque. Ad eccezione di Suk al-Giumaa, dove c’erano statisaccheggi nella case ebree, gli incidenti si erano sviluppati solamente aTripoli.

Il bilancio ufficiale aveva contato 13 morti tra gli ebrei e 3 tra gli arabi,35 feriti gravi, in maggioranza ebrei, e 56 feriti leggeri, tra cui un italiano edun agente di polizia. Secondo le fonti ebraiche, che mettevano in risaltosoprattutto l’importanza e la buona organizzazione dell’autodifesa armata,il bilancio era più pesante, soprattutto per gli arabi. Avevano dovutoabbandonare le loro abitazioni, distrutte o saccheggiate, circa 1.600 ebrei,che avevano trovato rifugio nella hâra ed in un campo organizzatodall’amministrazione militare e circa trecento famiglie avevano perdutotutti i loro beni nel corso dei saccheggi e delle distruzioni50.

Questo nuovo episodio di violenza collettiva aveva portato adapprofondire il solco esistente tra la comunità ebraica e quella musulmana:per timore di nuove violenze gruppi di ebrei dei territori più interni avevanoabbandonato le loro case e si erano spostati a Tripoli, dove vivevano conl’aiuto delle organizzazioni di carità. I sentimenti ostili alla Gran Bretagna,che già erano forti in seguito agli avvenimenti palestinesi51, si eranoaccentuati mentre si manifestava un avvicinamento delle posizioni dellacomunità in favore di un mandato italiano in Libia: lettere aperte e petizioniinviate agli organi internazionali da parte di membri autorevoli

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dell’ebraismo libico si pronunciavano apertamente in questo senso,chiedendo inoltre che cessasse la proibizione di emigrare imposta agli ebreidall’autorità britannica52.

Gli incidenti avevano avuto il risultato di aggravare la già difficilesituazione economica di Tripoli: in effetti un gruppo di commercianti ebreiaveva deciso di cessare l’attività creando un ulteriore scompenso nelle attivitàeconomiche. Un nuovo tentativo di riconciliazione era stato intrapreso daun gruppo di notabili delle comunità araba ed ebraica che si era riunito incasa di Taher Karamanli per discutere sulle misure per evitare ulterioriincidenti. Si era deciso di inviare un messaggio a Bashir Sadawi, che era alloratra gli uomini più in vista della politica tripolitana, ma che risiedeva inEgitto, informandolo degli avvenimenti: in seguito Sadawi aveva rispostoche sarebbe presto tornato in Tripolitania per pacificare gli animi. Alcuninotabili ebrei avevano proposto di rimuovere dal suo incarico il rabbino apodella comunità, rabbi Shalom Yelloz, che tra l’altro aveva dimostrato pocotatto nel suo comportamento verso i notabili arabi53. Mustafa Mizran, su cuila BMA aveva fatto pressioni discrete, aveva cessato totalmente l’attività delpartito per il reclutamento di volontari54.

Per impedire che continuasse l’afflusso dei tunisini in Tripolitania lafrontiera con la Tunisia era stata chiusa: ai volontari che si trovavano bloccatiin Tripolitania fu lasciata la scelta tra il ritorno in Tunisia con i loro mezzio l’espulsione e la consegna alle autorità francesi55. Questo tuttavia nonarrestò completamente gli arrivi: per passare dalla Tunisia alla Libia la via piùsemplice divenne quella marittima. La polizia britannica fermava edespelleva dal paese quanti cadevano nelle sue mani: alla fine del mese digiugno erano stati espulsi verso la Tunisia 1.822 volontari, mentre altri 262aspettavano di essere deportati56.

Dal Cairo Habib Burghiba aveva telegrafato il 16 giugno al comitatoesecutivo del Neo-Destur di interrompere il reclutamento dei volontari perla Palestina, ma prima di quella data i volontari già in marcia erano entratiin Libia ed erano stati catturati dalle autorità britanniche e rispediti indietro:molti erano stati processati dal tribunale militare francese. Un’imbarcazionepartita da Sfax con 90 volontari era stata inseguita da una torpedinierafrancese ma era riuscita ugualmente ad arrivare a Zuara: al loro sbarco ivolontari erano stati arrestati, ma un gruppo aveva rifiutato di obbedire agliordini dei militari inglesi. Ne era seguito un tafferuglio in seguito al qualesette tunisini erano stato arrestati con l’accusa di resistenza e disobbedienzaagli ordini del governo in attesa di essere giudicati da un tribunale57.

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Gli ebrei della Libia, il nazionalismo arabo e la questione palestinese

Diversa nei percorsi, ma uguale nella meta, un’altra «migrazione volontaria»si svolgeva all’epoca della prima guerra arabo-israeliana: quella degli ebrei chevolevano raggiungere la Terra promessa per combattere dalla parte di Israele.Come si è visto, il percorso normalmente seguito passava dalla Tunisia edall’Italia attraverso i canali dell’organizzazione sionista, ma nel corso del mesedi agosto la BMA aveva proibito agli ebrei di recarsi in Italia. Si era allorasviluppata l’emigrazione clandestina: molti ebrei, maschi e femmine(l’amministrazione britannica li valutava ad alcune centinaia), avevano lasciatodi nascosto la costa libica imbarcandosi verso la Sicilia negli ultimi mesi del 1948.Nel traffico illegale operavano soprattutto pescherecci siciliani: secondo ilservizio informazioni nei mesi di settembre e ottobre almeno 193 giovani ebreierano riusciti a raggiungere la Sicilia sulle imbarcazioni «Dulcinea» e «DonChisciotte» ; quattro pescherecci siciliani (il «Maria delle Grazie», il «Novanna»,il «San Giuseppe» e il «Miri di Porto Sarbo [Salvo]») erano stati sequestratidurante il pattugliamento notturno per impedire l’emigrazione illegale.Quaranta giovani ebrei erano stati arrestati sulle spiagge tra Tripoli e Sabrata esi stimava alla fine di ottobre che circa 200 fossero in attesa dell’occasionepropizia per lasciare il paese: il costo del passaggio illegale per mare era di circa20 sterline a testa. Un’altra corrente di emigrazione era riuscita a formarsiattraverso la Cirenaica, dove numerosi ebrei avevano ottenuto il permesso direcarsi in Italia per ragioni di salute. Alcuni avevano tentato di uscire dal paesefalsificando i documenti di espatrio ed erano stati fermati.

La BMA aveva sollecitato i capi della comunità ebraica ad intervenire perimpedire l’emigrazione illegale: le autorità inglesi temevano soprattutto chepotesse accadere qualche grave incidente alle ragazze ebraiche che sirecavano di notte in posti isolati della costa per imbarcarsi clandestinamente.Se non altro, i braccialetti d’oro che esse indossavano sempre avrebberopotuto attirare l’attenzione di malintenzionati. I responsabili della comunitàsostenevano di non avere il potere di impedire quelle fughe e di nonconoscere gli organizzatori del traffico : peraltro affermavano che la causareale dell’emigrazione illegale dei giovani ebrei non era la propagandasionista, quanto la situazione di stagnazione economica del territorio58.

Anche dopo l’armistizio tra le forze arabe e quelle israeliane la tensionein Libia rimase molto forte, malgrado le manifestazioni di fraternizzazioneorganizzate dai notabili: a Tripoli correvano frequentemente voci diprossimi attacchi contro il quartiere ebraico.

Diversi attentati dinamitardi avevano contribuito ad aumentare l’ansiagenerale: il 28 ottobre una bomba era scoppiata all’esterno di una casa araba

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della hâra, demolendola in parte. Gli arabi affermavano che era una manovradi intimidazione degli ebrei per allontanare gli arabi dal loro quartiere,mentre da parte ebraica si sosteneva che la bomba era scoppiata mentre ilproprietario della casa la stava preparando: dal momento che nei mesi disettembre ed ottobre c’erano stati diversi attentati con bombe di ugualefabbricazione, si pensava che tutti fossero l’opera di una stessaorganizzazione. La polizia britannica riteneva che facessero parte di episodidi intimidazione ad opera di un’organizzazione ebraica clandestina: ineffetti, ad eccezione di due casi, le persone contro cui gli attentati eranorivolti erano arabi che vivevano all’interno o vicino al quartiere ebraico. Inun caso, quello della bomba del 28 ottobre che aveva distrutto in parte la casadi un tale Taieb Indeisha, le autorità di polizia collegavano l’attentato ad unprecedente incidente che nel febbraio dello stesso anno era costato la vita aduna donna e ad un bambino ebrei: si sarebbe dunque trattato di un atto divendetta59.

La BMA riteneva che i gruppi di autodifesa del quartiere durante la nottevi svolgessero esercitazioni clandestine per l’uso delle armi e degli esplosivi60.Attraverso una rete clandestina sconosciuta alla polizia molti ebrei eranoriusciti a procurarsi armi da fuoco: già in seguito ad un attentato dinamitardoche era avvenuto il 12 giugno le indagini della polizia avevano portatoall’arresto di 7 ebrei e in seguito ad una retata nella hâra nel mese di novembredi quell’anno ne furono arrestati altri trenta trovati in possesso di armi61.

Gli ebrei e l’emigrazione in Israele

Dal punto di vista della politica interna, la comunità ebraica dellaTripolitania era stata colpita nei primi mesi del 1949 da alcune misure dicarattere restrittivo che facevano seguito agli sviluppi della questionepalestinese: in effetti all’inizio del mese di febbraio l’amministrazione avevadecretato la proibizione dell’emigrazione ebraica verso lo Stato di Israele.Questa decisione aveva creato una situazione di crisi all’interno dellacomunità della Tripolitania, dove le partenze fino a quel momento avevanofunzionato come una valvola di sfogo, permettendo di allontanare dalterritorio tutti coloro che mancavano di mezzi di sostentamento: in effettiin una situazione economica particolarmente grave si contavano alcunemigliaia di ebrei senza risorse che erano totalmente dipendenti dalleorganizzazioni caritatevoli.

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Gli ebrei della Libia, il nazionalismo arabo e la questione palestinese

Di fronte alle pressioni dei notabili israelitici l’amministrazione avevaqualche tempo dopo annullato le misure restrittive: immediatamente unagran quantità di ebrei delle classi più povere aveva affollato gli ufficidell’amministrazione per chiedere i documenti necessari all’espatrio. Ilfenomeno era stato particolarmente importante a Tripoli, dove si eranocontate migliaia di richieste e dove coloro che aspettavano la partenzaavevano rapidamente venduto tutti i loro beni.

Una grande confusione aveva agitato la comunità ebraica, soprattutto inseguito alla diffusione di una notizia secondo la quale le autorità israelianeavrebbero inviato alcune navi per trasportare i correligionari ebrei della Libiain Palestina. Le autorità britanniche avevano messo in guardia i dirigenti dellacomunità ebraica sulle difficoltà che l’emigrazione avrebbe rappresentato: fufatto sapere a tutti che le autorità israeliane non avrebbero accettatoindistintamente tutti coloro che volevano emigrare, ma solamente quantifossero in buona salute e capaci di contribuire al buon andamentodell’economia del paese, e che non era previsto l’invio di nessuna nave per iltrasporto in Palestina. La disillusione era stata allora molto forte, e quantidesideravano emigrare avevano accusato i dirigenti della comunità di averliingannati: in tutti i casi alla fine del mese di febbraio l’amministrazione ingleseaveva rilasciato 2.919 permessi di viaggio per l’Italia ad altrettanti ebrei62.

In effetti da Israele tardavano ad arrivare alla comunità libicainformazioni ufficiali sull’atteggiamento del governo del nuovo Statoriguardo all’emigrazione degli ebrei libici e questo causava uno stato diffusodi insoddisfazione: in mancanza di notizie dirette, si sperava che alcunifunzionari di un’organizzazione ebraica americana (l’American JointDistribution Committee) che dovevano arrivare a Tripoli avrebbero potutofornire qualche informazione in proposito63.

Conclusioni

Come si è visto, lo spoglio del bollettino mensile relativo alla situazionepolitica della Tripolitania stilato dal Political Intelligence Service britannicopermette di arricchire con elementi poco noti la conoscenza dell’evoluzionesociale e politica della comunità ebraica della Libia nell’immediato secondodopoguerra.

Nelle note che abbiamo raccolto e commentato si legge tra le righe ildestino futuro della comunità ebraica della Libia: l’abbandono o

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l’espulsione dal paese. Dei 29.000 ebrei di Libia nel 1948 (concentrati ingran parte a Tripoli, dove la comunità era formata da circa 22.000 persone)e dei circa cinquemila della Cirenaica, 26.000 partirono nel corso dei treanni successivi. All’epoca della proclamazione dello Stato indipendente, nel1951, la comunità della Tripolitania è ridotta a 3.500 persone a Tripoli e adue famiglie residenti a Misurata; in Cirenaica rimangono 40 famiglie aBengasi64. Gli ultimi atti dell’esodo dalla Libia si recitano alla fine degli annisessanta. La guerra dei Sei giorni tra Israele ed Egitto scatena sommosse eattentati, con morti e feriti, saccheggi e distruzioni delle proprietà: quasitutta la residua comunità ebraica, con l’autorizzazione del governo libico,lascia il paese rifugiandosi soprattutto in Italia. Nel 1970, l’anno successivoal colpo di stato degli ufficiali liberi, una delle prime leggi emanate dal nuovoregime sancisce, insieme a quelle degli italiani, la confisca dei beni el’espulsione degli ebrei: nel paese si contano ancora 40 ebrei nel 1972 e 16cinque anni dopo65.

Note al testo

1 Public Record Office, Londra (Kew Gardens) [da adesso: PRO], WO 230/232. In questa seriesono conservati unicamente documenti ed informazioni estratte dal bollettino circa le attivitàdel Partito nazionalista (al-hizb al-watani) della Tripolitania.

2 PRO, WO 230/206, 1947-1949. Faremo da qui in avanti riferimento alla serie dei rapportimensili sulla situazione politica della Tripolitania (Monthly Political Intelligence Report –Tripolitania) con la sigla MPIRT, seguito dal numero progressivo del bollettino, dalla data diriferimento e dal numero del paragrafo o della pagina.

3 PRO, FO 1015/186 : 1949 Monthly political intelligence reports: BA [British Administration], Tripoli.

4 Civil Affairs Agency, British Military Administration [da adesso: BMA] of African Territories,che nel 1947 aveva i suoi uffici al n. 8 di Dar el Shifa al Cairo.

5 Mentre gli altri territori già italiani della Somalia e dell’Etiopia dipendevano dal comandomilitare britannico dell’Africa Orientale. L’amministrazione dei territori nemici occupati dalleforze armate inglesi fu posta dal 1943 sotto la direzione del ministero della Guerra: dal primoaprile del 1949 l’amministrazione militare cessò e la responsabilità amministrativa delle ex-colonie italiane fu assunta dal ministero degli Esteri nel quadro di una Foreign OfficeAdministration of African Territories, non molto diversa nelle sue strutture dalla precedente masotto la direzione di funzionari che non appartenevano più alla gerarchia militare.

6 La stampigliatura «Secret» appare sulla prima pagina di tutti i numeri del bollettino. Alcunidocumenti recano la dicitura «Top Secret». Il Civil Liaison Officer [CLO] era in genere un

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funzionario dell’amministrazione militare con il grado di major. Ciascun numero del bollettinoè firmato dal funzionario responsabile : tra i nomi più frequentemente citati, i majors F.G.Maclean, C. Radley, C.E. Greatorex.

7 MPIRT, 25, dicembre 1947, n. 314.

8 Per i personaggi più noti abbiamo seguito la trascrizione semplificata di MAJID KHADDURI,Modern Libya. A Study in Political Development, The Johns Hopkins Press, Baltimore 1963.

9 Secondo i dati della BMA, alla fine del 1947 si contavano in Tripolitania 28.606 ebrei : 28.100dediti al commercio e all’artigianato e circa 500 agricoltori, «fermiers sédentaires»(Commissiond’enquête des Quatre Puissances dans les anciennes colonies italiennes, Volume III - Rapport surla Lybie [sic !], ciclostilato, s.d.: Tripolitaine, sez. II, cap. I, pp. 4-5).

10 Testo del telegramma in MPIRT, 25, dicembre 1947, n. 308. Cfr. anche A. DEL BOCA, Gliitaliani in Libia dal fascismo a Gheddafi, Mondadori, Milano 1997 - I ed. Laterza, Roma-Bari1988 -, pp. 366-367.

11 «Programmes are one thing: pogroms another»(MPIRT, 25, dicembre 1947, ibid.).

12 Il commento appare a proposito di un articolo pubblicato da «La Voce dell’Africa»(unperiodico finanziato dall’amministrazione italiana che aveva iniziato le sue pubblicazioni neldicembre del 1945, e che aveva come sottotitolo: «Giornale degli Italiani d’Africa»), in cui siaffermava che gli ebrei della Libia desideravano il ritorno degli italiani (ivi, n. 295). Nei fattile posizioni all’interno della comunità ebraica erano alquanto differenziate: Renzo De Felice(Ebrei in un paese arabo. Gli Ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo esionismo (1835-1970), Il Mulino, Bologna 1978, p. 322) distingue tra «filolibici (sinceri oopportunisti poco importa), filoitaliani e sionisti»analizzando con precisione le posizionipolitiche dei tre gruppi circa il futuro della Libia.

13 Secondo diverse valutazioni, questa cifra varia tra 120 e 135: nelle fonti inglesi la cifra di 130morti tra gli ebrei è fornita in un caso (MPIRT, 16, marzo 1947, n. 214, cfr. infra), mentre inun altro caso 130 sono i morti totali, di cui 124 ebrei, 5 arabi e un italiano (Commissiond’enquête cit., Tripolitaine, p. 22).

14 Cfr. ibidem; R. DE FELICE, Ebrei in un paese arabo cit., pp. 296-297 e passim.

15 A. DEL BOCA, Gli italiani in Libia cit., p. 334.

16 Ibid.

17 La responsabilità dell’amministrazione militare inglese, che si dimostrò incapace dicontrollare la situazione non solamente in occasione degli incidenti antiebraici a Tripoliquell’anno, ma anche di quelli antiitaliani a Mogadiscio nel 1947, è stata rilevata da moltiautori: la discussione su questo punto non rientra tra gli scopi del presente lavoro, ma èinteressante sottolineare come Rivlin abbia messo in relazione i due episodi con l’affermazionedi F.J. Rennell, uno dei più alti funzionari dell’amministrazione militare britannica in Africa,secondo la quale «any call for troops to maintain authority or to quell disturbances represents

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failure for a military administrator»(B. RIVLIN, recensione a F.J. RENNELL, British MilitaryAdministration of Occupied Territories during the Years 1941-1947, London 1948, in «TheMiddle East Journal», III, 1/1949, p. 97).

18 Commission d’enquête cit., vol. III, Documents annexes au Rapport sur la Libye : n. 9, Recordof hearing of Brigadier T.R. Blackley, O.B.E. Chief Administrator, p. 18.

19 R. DE FELICE, Ebrei in un paese arabo cit., pp. 300-302.

20 Da adesso: Jabha.

21 Da adesso: Kutla.

22 Che in questa nota viene definito «potentially dangerous»(MPIRT, 16 cit., n. 211). Secondol’interpretazione di R. De Felice (Ebrei in un paese arabo cit., pp. 318-322) l’adesione di granparte degli ebrei alla Jabha ebbe un «carattere forzato e opportunistico»(ivi, p. 322). De Felicecita diversi documenti in cui esponenti dell’ebraismo di Tripoli criticano le posizioni assunteda Zacchino Habib («cittadino inglese, non eletto ma nominato dal Governo, con funzioniesclusivamente assistenziali ed amministrative», ivi, p. 327) sottolineando le pressioni ed i ricattiche aveva messo in atto nei confronti dei circoli ebraici per farli aderire alla Jabha. Secondo unodi questi documenti, scritto in chiave filoitaliana, il presidente della comunità (che appare comeun agente inglese) avrebbe avuto lo scopo di «compromettere [...] la Collettività ebraica difronte alla popolazione italiana»(ibid.).

23 «Gained a considerable amount of support from the Jews. The greater part of the funds at thedisposal of the Party appears to be subscribed by Jews who are opponents of Zacchino Habib,a prominent member of the United National Front»(MPIRT, 15, febbraio 1947, n. 203).Secondo un’informazione fornita da Bashir Hamza, ex tesoriere della Kutla dopo la suaespulsione dal partito per sospette ruberie, Ali Fiki Hassan ritirava per suo uso personale 10.000MAL al mese dai fondi versati dalla comunità ebraica (MPIRT, 21, agosto 1947, n. 270).Dai documenti citati sembra di poter affermare che Zacchino Habib agisse all’interno dellaJabha seguendo le indicazioni dell’amministrazione britannica.

24 MPIRT, 16, marzo 1947, n. 217. In occasione della morte di Salem Ben Lamin le voci diffusedalla comunità ebraica affermavano che l’arabo era stato assassinato da un ufficiale del serviziosegreto britannico, che poi ne aveva gettato il corpo nel quartiere ebraico.

25 «If the articles of the Mosaic Law had been fulfilled at that time 130 Arabs would have paidwith their lifes»(MPIRT, 16, marzo 1947, n. 214). Il processo era terminato con la condannaa 21 anni di prigione per omicidio dell’ebreo Simone Burbeiba (MPIRT, 17, aprile 1947, n.229).

26 Secondo il bollettino non ci furono immediate ripercussioni tra la popolazione musulmanaalla notizia della spartizione; le prime reazioni si manifestarono solamente due giorni dopo(ibid.).

27 MPIRT, 21, agosto 1947, n. 272.

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28 Il 22 marzo 1947 erano state sequestrate alla frontiera con la Tunisia alcune decine di copiedel settimanale in lingua francese «La Gazette d’Israel», stampata a Tunisi. La notizia del servizioinformativo riferisce che questo periodico è stampato dalla «IMP. S.A.P.I., 12, rue de Vessoul,Tunis [...] whose editor is A. Bismuth»(ibid.). Su documenti della propaganda sionista inprovenienza dagli Stati Uniti, cfr. MPIRT, 17, aprile 1947, n. 229.

29 MPIRT, 21, agosto 1947, n. 272.

30 Fondato nel dicembre del 1946 da Ali Rajab, questo partito affermava di avere un seguito diun migliaio di aderenti e sosteneva un progetto di unione politica tra l’Egitto e la Tripolitania.

31 «The only Tripolitanians who have apparently been willing to fight in the «Arab Army» aretwo Tripoli schoolboys. They left home leaving notes for their fathers stating that they were enroute for Palestine. The fathers informed the Police and the two young warriors were seized atMisurata and returned to their irate parents» (ivi, n. 307). Tuttavia giunsero dalla Libia all’AltoComitato arabo per la Palestina numerosi telegrammi di simpatia, in cui si affermava: «Libyajoins with the Arabs in protest against the UNO decision. She is ready to take part in the dutiesaf Arabism»(ivi, n. 308). Altri telegrammi in termini simili vennero inviati alla Lega Araba e alleader palestinese Hajj Amin al-Husseini.

32 Ibidem.

33 Fondato intorno alla metà del 1947 da Bashir Ben Hamza.

34 Una copia della risposta alla richiesta dello hizb al -ummal si trova in allegato a MPIRT, 25,cit.

35 Ivi, n. 310. Ali Fiki Hassan sviluppava in quel periodo una notevole attività pubblicistica, edinviava una parte delle sue note e corrispondenze al periodico dei Fratelli Musulmani del Cairo(«Al-ikhwan al-muslimun») ed alla stampa egiziana, che ne pubblicò diverse (MPIRT, 23,ottobre 1947, n. 290).

36 Autorizzato dall’amministrazione inglese nell’aprile del 1946, questo partito, il primo tra iraggruppamenti nazionalisti della Tripolitania, aveva svolto in precedenza un’attivitàclandestina.

37 MPIRT, 30, maggio 1948, n. 356

38 Nel testo inglese, Ahmed el Sherif el Senussi Force.

39 PRO, WO 230/201: Civil Affairs Branch – Middle East, Monthly Political IntelligenceSummary of Libyan Affairs in Egypt [da adesso : MPIS-LAIE], 28, aprile 1948, n. 346.40 MPIS-LAIE, 29, maggio 1948; 30, giugno 1948.

41 Fondato al Cairo nel marzo del 1947 per iniziativa di Bashir Sadawi e con l’appoggio dellaLega Araba.

42 Nel libro già citato di R. De Felice (s.p.) è riprodotta una fotografia del ricevimento.

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43 MPIRT, 31, giugno 1948, allegato A.

44 «No obstacle was placed in the way of Muslims leaving Tripolitania for Palestine via Cyrenaicanor of Jews via Tunis and Italy» (ivi, n. 369). Blackley aveva fatto «istituire una linea di autobusTripoli-Capuzzo onde facilitare e rendere più rapido il trasferimento verso l’Egitto degli arabiprovenienti dalla Tunisia» (R. DE FELICE, Ebrei in un paese arabo cit., pp. 330-331).

45 Gli appelli inviati alla Lega Araba, al re Faruq e al console egiziano a Bengasi per ottenere ilpermesso di attraversare il territorio egiziano da parte dei volontari non ebbero nessun esito (ivi,n. 374).

46 MPIRT, 31, giugno 1948, appendix A: Arab-Jewish disturbances Tripoli 12th/13th June, 1948.

47 «Racial disorders were wholly impredictable in that the smallest incident of daily occurrencemay for some unaccountable reasons provoke dissident persons or groups to murder and toriot»(ibid).

48 «The mobs in the main, were composed almost entirely of the drags of the humanity, riff-raffwho would as soon have killed their fellow Muslims for loot in their inflamed state ofviciousness, as they would Jews» (ibid.).

49 Cfr. R. DE FELICE, Ebrei in un paese arabo cit., pp. 331-333.

50 Ibidem.

51 A quanto sembra, nel corso degli incidenti di giugno a Tripoli un ebreo aveva lanciato unabomba contro un camion della polizia inglese (cfr. ivi, p. 331).

52 MPIRT, 31, giugno 1948, pp. 333-335.

53 MPIRT, ivi, n. 371.

54 Le notizie relative alla partecipazione dei tripolitani alla guerra in Palestina sono estremamenteframmentarie. In una nota del dicembre 1948 si informa del ritorno in Tripolitania di MuhammadBellusa, che aveva assunto il comando del corpo dei volontari tripolitani: Bellusa aveva espressodurissime critiche sul modo in cui la Lega Araba e il governo egiziano avevano trattato i volontari,letteralmente costringendoli con la forza a tornare nei loro paesi. Aveva anche affermato che un grannumero di volontari aveva perso la vita per mancanza di armi e per insufficienza di munizioni, masoprattutto per l’incapacità dei comandanti (MPIRT, 37, dicembre 1948, n. 433).

55 Gli accordi con le autorità francesi prevedevano che a quanti tornavano in Tunisia fossecomminata solamente una piccola pena pecuniaria (ibid). Nei documenti si afferma che «Thosevolunteers who arrived from Tunis were of a very poor quality and were obviously no more thanthe riff-raff and vagabonds of Tunis»(ibid).

56 Ibid.

57 MPIRT, 32, luglio 1948, allegato: Balhawan a Burghiba, 17 giugno 1948.

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Gli ebrei della Libia, il nazionalismo arabo e la questione palestinese

58 Ibid.

59 MPIRT, 36, novembre 1948, n. 429.

60 MPIRT, 35, ottobre 1948, n. 419.

61 Cfr. R. DE FELICE, Ebrei in un paese arabo cit., p. 333.

62 MPIRT, ivi, n. 462.

63 Questo organismo aveva già inviato durante il 1948 e all’inizio del 1949 alcuni suoifunzionari, tra cui alcuni medici, per controllare la situazione sanitaria della comunità, inparticolare quella dei bambini (ibid).

64 Gli ebrei libici erano divisi in 14 comunità. I dati dettagliati sono in A. CHOURAQUI, Les Juifsd’Afrique du Nord, PUF, Paris 1952, p.127.

65 Le sommosse del 1967 avrebbero contato 15 morti e alcune decine di feriti. Sugli avvenimentidi quest’ultimo periodo, cfr. R. DE FELICE, Ebrei in un paese arabo cit., passim.

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Oltre la Konversija

Oltre la Konversija:l'industria della difesa nella Federazione Russa

di Cristian Collina

Introduzione

L’attuale scenario delle relazioni internazionali sembra ormai averassunto alcune caratteristiche sul piano politico e strategico destinate aconservarsi per alcuni decenni. Nella politica delle grandi potenze ha ripresovigore e corpo la issue militare con l’avvio di una nuova stagione di riarmo,dopo circa un decennio (1987-1998) di relativo contenimento e di impegnoper il disarmo ed il controllo degli armamenti. Quale sia stato l’evento o ilciclo di eventi politici che ha portato alla rottura di questa fase è oggetto diun vivace dibattito tra intellettuali e policy-makers. Ad ogni modo il ritornodella issue militare nella politica internazionale, a partire dalla fine degli anninovanta, da subito si è imposto come un passaggio profondo cui gli eventidell’11 settembre hanno fatto allo stesso tempo da corollario e catalizzatore.Si pensi ad esempio alla crescita delle tensioni nelle regioni calde del pianeta,alla crisi del Kosovo e al confronto sull’intervento umanitario e il nuovoruolo della NATO, e sul piano delle politiche degli armamenti, allo stallonegli accordi di Disarmo, alla messa in discussione di trattati storici per ilcontrollo degli armamenti come l’ABM 1972, al riemergere dei progettistatunitensi sulla creazione di uno scudo antimissilistico.

La Federazione Russa ha cercato per tempo l’aggancio al nuovopanorama che si è andato delineando e si presenta oggi, con l’entrata in forzadi azioni quali la guerra preventiva condotta dagli USA in Iraq, come unpaese teso a riproporre il proprio status di potenza militare. Su un primolivello, il tentativo di capire come il paese abbia assolto questo compitoriporta all’adozione dei nuovi documenti militari e strategici (la DottrinaMilitare e la Concezione di Sicurezza Nazionale), e all’aumento sostanzialedella spesa militare1. Da un punto di vista cronologico sia l’adozione deinuovi documenti sia l’aumento della spesa risalgono alla fine degli anninovanta: nel 1998 è pianificato il primo aumento della spesa e nel 1999

studi sull'europa

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Cristian Collina

iniziano i lavori per la stesura dei nuovi documenti. Oggi il paese vanta unpacchetto di documenti strategici che tiene il passo con le attuali minaccealla sicurezza nazionale e internazionale (terrorismo, conflitti regionali,integralismi ecc.) e un livello di spesa militare stimato, da molti istituti diricerca tra cui l’istituto SIPRI, il secondo più alto al mondo dopo quello degliUSA, a partire dal 1999.

Tuttavia, se l’introduzione dei nuovi documenti, con la peculiarità delleargomentazioni contenute, aiuta a spiegare l’aggancio politico ad uncontesto internazionale in cui la Russia deve recuperare e mantenere lo statusdi grande potenza militare, il cospicuo aumento della spesa militare, da solo,non soddisfa la comprensione dell’aggancio economico. Un aspettotutt’altro che residuo se si considera che è proprio la dimensione economicae industriale, intesa come quantità e qualità di armamenti elaborati, prodottie venduti, che detta la reale potenza e attendibilità sul lungo periodo dellescelte in materia di difesa e sicurezza di ogni paese. È a questo punto, dunque,che si delinea la necessità di spingersi verso un livello più approfondito diindagine che riguarda l’economia della difesa e le più recenti dinamiche nelcomplesso militare-industriale della Russia.

In questo articolo si proverà a farlo secondo la seguente linea diragionamento. La Konversija, ovvero la conversione dell’industria militarealla produzione civile, tracciata negli ultimi anni di vita dell’UnioneSovietica in concerto con l’impegno sulla via del Disarmo e poi ereditata erielaborata dalla Federazione Russa, è stata la cornice e l’ispirazione deicambiamenti nel settore militare industriale per circa un decennio: dal 1988al 1997. A partire dal 1998, tuttavia, sia in ragione del generale fallimentodelle politiche di conversione, sia per una nuova sensibilità in campomilitare e strategico che comincia a toccare la leadership del paese, laKonversija smette di essere il principale meccanismo di trasformazionedell’industria della difesa russa e ad essa subentra una nuova politica: laRestrukturizacija.

In primo luogo, saranno illustrate le ragioni e gli obiettivi del nuovo corsodell’industria della difesa russa con riferimento anche alle attuali dinamichemilitari-industriali dei paesi più avanzati. Successivamente, saranno consideratialcuni aspetti attuativi della politica di Restrukturizacija – dal riordino degliassetti proprietari al trasferimento di competenze ad autorità civili e allacollaborazione con soggetti stranieri – al fine di mettere in evidenza i principalielementi innovativi introdotti. Nei paragrafi principali, saranno riportati alcuniaccenni a vicende e decisioni concrete di imprese e aziende del settore.

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1. Origini e scopi della Restrukturizacija

Già alla fine del 1997 i risultati della Konversija, la politica di conversioneereditata dall’URSS erano apparsi alquanto deludenti e si richiedevanointerventi sostanziali nel settore militare-industriale, non solo perché lepolitiche di conversione non si erano consolidate come ci si aspettava, maanche perché il complesso militare-industriale andava incontro ad unaprogressiva decadenza, come anche le principali risorse per lo svilupposcientifico e tecnologico sia di tipo militare che civile2. La Konversija aveval’obiettivo di trasferire capacità e potenzialità produttive dal settore militare aquello civile. Tuttavia anche quando la conversione riusciva ad essere portataa compimento, il bene prodotto in sostituzione di quello militare contenevaun concentrato di tecnologia molto più basso3. Alla lunga il gap tecnologicoaccumulato rispetto agli altri paesi sarebbe divenuto incolmabile e avrebberelegato la Russia ad un ruolo di follower sulla scena internazionale. Sul finiredegli anni novanta, inoltre, la nuova fase di riarmo che coinvolge le grandipotenze rende necessario l’intervento nel settore militare industriale anche perassicurare alla Russia un ruolo visibile e non subalterno in questo contesto. Dal1998 prende il via così una politica di ampio respiro volta alla modernizzazionedell’industria della difesa e alla sua integrazione con il sistema economico sottoil nome di Restrukturizacija. Questa politica, ampiamente sostenuta dalpresidente V. Putin ed il suo entourage politico, si articola in un programmagenerale, lanciato nel 1998, e una serie di programmi di settore e misure ad hocadottate in momenti diversi e prevalentemente nel periodo 1998-2001.

L’aumento intenso della spesa militare in questi anni è senz’altro il primoindicatore di un ritrovato impegno in materia militare industriale, da partedella leadership del paese. Secondo la pubblicazione annuale dell’istitutoSIPRI (2002) l’andamento della spesa militare della Russia conferma il trenddi crescita degli ultimi quattro anni, pareggiando, a fine 2001, una somma dicirca 43.9 miliardi di dollari. Negli ultimi anni, inoltre, il paese è il secondoal mondo per spesa militare dopo gli Stati Uniti, con il 6 per cento nel 2001;il 6 per cento nel 2000 e il 7 per cento nel 1999. Nel 2002, la spesa militareè aumentata del 20 per cento4. Se, dunque, la Konversija si è combinata condrastici tagli alla spesa militare, nel 1992 infatti la spesa si riduce di due terzirispetto al 1991 per diminuire con ritmi minori negli anni successivi, laRestrukturizacija si combina, invece, con una crescita della spesa militare5. Sitratta di una differenza sostanziale che influisce soprattutto sulle possibilità diriuscita, dal momento che una delle principali cause del fallimento della

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Konversija è stata individuata proprio nella carenza di finanziamenti sia direttiche indiretti.

Sulla base di questo forte investimento finanziario, gli interventi diRestrukturizacija si pongono l’obiettivo di rilanciare secondo linee modernel’industria della difesa ed in generale il potenziale strategico del paese, inmodo da reggere il confronto internazionale e fronteggiare quelle diverseprospettive di crisi, individuate nei nuovi documenti sulla sicurezzanazionale approvati nel 2000 e confermate negli anni successividall’intensificarsi del terrorismo di matrice islamica, dagli eventi dell’11settembre e dalle successive guerre. La Restrukturizacija si pone inoltre cometentativo di rapido aggancio alle complesse trasformazioni cui è statasoggetta l’industria della difesa delle grandi potenze negli anni novanta e allemodalità di riarmo dei paesi più industrializzati.

Con la fine della guerra fredda, le commesse militari nella maggior partedi questi paesi si riducono. Lo stesso livello della spesa militare mondiale dal1992 si abbassa notevolmente e tocca, nel 1998, il suo minimo storico. Leindustrie della difesa dei paesi più industrializzati, quini, vanno incontro adun processo di riorientamento e di trasformazione, per non vedere estinta laloro esistenza e la loro funzione. La principale soluzione è offerta dallavendita a paesi che non perseguono politiche di disarmo e sono coinvolti incrisi e conflitti regionali: Medio Oriente, Balcani, Sud Est Asiatico, tra leprincipali aree, ma anche: Africa, Asia Centrale, America Centrale e del Sud.Negli anni novanta, inoltre, si moltiplicano i soggetti non nazionali checommissionano e acquistano armi di ogni genere: dai vari eserciti e corpi diliberazione, come l’UCK (Esercito di Liberazione Nazionale) in Kosovo,fino alle reti terroristiche di matrice islamica fondamentalista, oggi divenutedi drammatica attualità6.

L’incidenza dell’export di armi e generi militari sul PIL cresce tra il 1990ed il 1997, dall’11 per cento al 21 per cento in USA, dal 31 per cento al 41per cento in Francia, dal 38 per cento al 50 per cento in Gran Bretagna7. Inpochi anni, dal 1992 al 1998, il potenziale militare accumulato nei paesi piùindustrializzati è smistato nei vari angoli del mondo in vari modi: dallavendita diretta alla collaborazione scientifico-tecnologica, al trasferimentodi tecnologie militari. D’altra parte, non va dimenticato che, mentre la spesamilitare dei paesi industrializzati decresce quella dei paesi terzi cresce o simantiene costante8.

Dunque negli stessi anni in cui la spesa militare delle grandi potenze siriduce il commercio ed il traffico di armi e sistemi d’arma si ampliano

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vertiginosamente. Tuttavia, il commercio estero non è l’unica via disopravvivenza per l’industria della difesa dei paesi industrializzati dopo laguerra fredda. Un’alternativa è rappresentata dal riorientamento,quantitativo e qualitativo, delle proprie attività produttive al fine disoddisfare le richieste della sfera civile dell’economia9. Si tratta di qualcosadi diverso dalla conversione, perché non implica la cessazione dellaproduzione militare e perché nei paesi industrializzati, il settore civile è statosempre abbastanza sviluppato e recepisce in modo utile i contributi delsettore militare. La produzione civile delle imprese militari deve competerein un mercato ormai consolidato, dove diverse imprese già da temposoddisfano la richiesta di beni civili. Per questa ragione essa non può essereassimilata neanche alla diversificazione, in quanto una produzione civileresidua e secondaria non avrebbe prospettive di concorrenza, né di successo.

L’industria della difesa dei paesi industrializzati va, dunque, incontro adun processo di integrazione con il sistema industriale ed economico cheimplica tanto il movimento delle industrie militari verso la produzione civiletanto l’inverso. Con la Restrukturizacija, la leadership russa si proponeproprio questo obiettivo di compenetrazione ed integrazione del sistemaindustriale. Probabilmente si tratta di un obiettivo troppo ambizioso per lecosì diverse condizioni strutturali rispetto ai paesi industrializzati. Tuttavia,è l’unico modo per poter agganciare i livelli internazionali, in un momentoin cui la leadership russa ha preso coscienza che l’era della Konversija esoprattutto del Disarmo è finita. Infatti, la politica di conversione, seppurein continua revisione, si è protratta e mantenuta per tempi così lunghi soloin Russia. In Occidente e negli USA in particolare, essa non ha avuto granchésuccesso e diffusione, le imprese ritenute non più utili al fabbisogno militaresono state privatizzate del tutto o liquidate, ma in pochi casi hannoconvertito la loro produzione sulla base di programmi e finanziamentipubblici. Eccetto casi episodici, l’industria della difesa delle grandi potenzenon è stata interessata da un processo di conversione in blocco e totale, maha seguito altre forme di trasformazione10. L’industria della difesa non haabbandonato la produzione militare, ma ha razionalizzato e modernizzatola conduzione e la produzione, secondo linee coerenti con i sistemi dimercato con i quali deve interagire e con le nuove esigenze di warfare. LaRestrukturizacija, intesa come tentativo di aggancio a questo tipo diindustria, è quindi una svolta radicale rispetto alla Konversija.

L’intenzione di integrare l’industria militare con quella civile, tuttavia,non si spiega solo con l’ansia di importare modelli stranieri, che dopo la crisi

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del 1998 in Russia è piuttosto diminuita, ma anche come una soluzioneefficace per fronteggiare le svariate esigenze del paese. Infatti, non ci sonosolo le minacce e le sfide sul piano militare e strategico da fronteggiare, maanche la difficile questione del gap tecnologico e scientifico da colmare al piùpresto. Così, nel nuovo indirizzo militare industriale ricercato dallaRestrukturizacija, le imprese sono chiamate a produrre beni civili ad altolivello tecnologico in grado di reggere la concorrenza, senza sacrificare illivello qualitativo della quota di produzione militare che le viene richiesta.Questa quota può consistere in prodotti interi o, come sempre più spessocapita, in parti di prodotto che vengono poi raccolte ed assemblate daimprese a produzione solo militare, come accade per la componentistica pergli interni di veicoli militari11. Ad esempio, uno stabilimento di generi radio-satellitari viene sollecitato a produrre, al contempo, sistemi cellulari e nuovisistemi per la comunicazione e la trasmissione di segnali non intercettabilitra veicoli ad alta quota. È il caso della Almetievsk Radiopribor, diAlmetievsk. Le due produzioni non sono fra loro subordinate ma collegate,in modo da tenere le imprese al loro massimo di prestazione.

Nella Russia della fine degli anni novanta, il settore militare-industriale,per quanto vulnerato e sconvolto da un decennio (1988-1998) diconversione mancata, rappresenta l’unico punto di partenza disponibile perfar fronte a tante e tali sfide che si frappongono contemporaneamente. È,infatti, ancora nel VKP (Voennoe Promyshlennoe Kompleks) che siconcentrano le migliori risorse qualitative e quantitative per lo sviluppo,come ad esempio, la gran parte degli istituti di ricerca e progettazione,rimasti nelle mani dello Stato perché non sono stati privatizzati12.

Dunque, l’integrazione è un modo per adempiere al contempo richiestemilitari e civili. Questo vuol dire che le imprese vanno ristrutturate in mododa soddisfare tanto le richieste militari che quelle civili e poter contribuireallo sviluppo del sistema economico, in particolare, della produzione internaad alto contenuto tecnologico e alla crescita delle voci dell’export. Èimportante perciò sottolineare, sin d’ora, che l’intenzione esplicitamenteespressa dalle autorità russe di ridurre il numero delle imprese facenti capoal VPK non contrasta con quella di rilanciare l’industria della difesa, essendola loro integrazione, sul lungo periodo, un fine altrettanto caldeggiato.

A partire dagli ultimi anni novanta, come si è detto, il quadrointernazionale strategico e militare si complica profondamente e si apre unanuova fase di riarmo. Tuttavia, le risposte alle esigenze militari-industriali diun paese sviluppato sono diverse da quelle che si potevano concepire, e che

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furono date dall’Unione Sovietica nel corso del Novecento. Un’economiadel tutto o fortemente militarizzata, o anche un’economia in cui laproduzione militare ha un primato indiscusso sulle altre attività economicheed industriali, oggi non avrebbe speranza di sopravvivere. Ci si orienta,invece, verso un’industria della difesa pronta e moderna, ma che nonimpone grandi sacrifici e restrizioni per l’economia ed il progresso civile, chenon sarebbero più concepibili. Infatti, nei paesi industrializzati certi livellicrescenti di benessere, di progresso e di consumo sono ormai acquisiti edifficilmente si può tornare indietro.

Non è un caso se quel modo novecentesco di fare riarmo è rimasto in voganei paesi meno sviluppati e progrediti, dove massicce quantità di risorseumane ed intellettuali sono destinante all’industria militare, spessoprivando la popolazione di basilari diritti e beni di consumo13. Nei paesi piùindustrializzati, invece, le caratteristiche non egemoni dell’industria delladifesa e la tendenza verso l’integrazione rispetto al sistema economico nonsono solo un riflesso di tempi in un cui le questioni militari non sonoprioritarie e la spesa militare mondiale si riduce. Si tratta, piuttosto, diun’autentica caratteristica strutturale che, gradualmente, l’industria delladifesa sta assumendo. Quando infatti incomincia l’attuale fase di riarmo nonsi assiste ad un’inversione delle dinamiche intraprese nel dopo guerra fredda.Il riarmo delle grandi potenze insiste sugli aspetti qualitativi, innovativi,assumendo i principi e le regole della produzione aziendale in un’economiadi mercato, volte ad evitare la sovrapproduzione e la concentrazione digrandi quantità di prodotti, che in breve possono diventare obsoleti, e nonincrociano le esigenze reali del paese. La produzione militare deve costarepoco, non eccedere le quantità necessarie la difesa e l’export, e mantenere ilivelli qualitativi più avanzati14.

Al fine di ridurre i costi, in alcuni casi, si possono commissionare lecomponenti non determinanti la natura militare di un prodotto ad alcuneindustrie a produzione civile, leader nel loro settore, in modo che le industriea produzione militare si concentrino sulle sole applicazioni eaccessorizzazioni di valore militare. Su questa base, negli USA e negli altripaesi più industrializzati, nascono grandi accordi, che talvolta sfociano infusioni, tra vari soggetti industriali15.

In questo modo, la produzione militare, anche in un clima di riarmo,assume forme più elastiche ed interagisce con la produzione civile senzapenalizzarla, dando vita a quello che alcuni autori definiscono riarmo snello,con un richiamo al concetto della lean production assai diffuso nella teoria

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e nella prassi aziendale più recente. Gli stessi contorni del settore militare-industriale si attenuano e la produzione è meno ingombrante sul piano fisicoe finanziario. Si deve però puntualizzare che se dal 1998 inizia una fase diriarmo che interessa le grandi potenze, queste ultime tuttavia non sonodirettamente travolte e toccate da minacce e atti di guerra. È l’11 settembre,invece, che cambia lo scenario: l’impegno degli USA per fronteggiare ciò cheè definito un attacco militare viene acquisito dalle potenze mondialicoinvolte in una lunga guerra al terrorismo, che ha assunto il nome dienduring freedom. Gli anni prossimi dovranno dimostrare le differenze tra ilriarmo in condizioni di pace e il riarmo in condizioni di guerra, e più inparticolare se le forme ed i principi del riarmo snello, emersi nel periodo1998-2001, sono destinati a perdurare o a svanire e in cambio di cosa.

In ogni caso, sia l’integrazione dell’industria della difesa sia il riarmosnello sono realtà alle quali vuole approdare il nuovo corso di trasformazionidell’industria della difesa russa. Lo dimostrano i sei principali obiettivi dellaRestrukturizacija individuati nel Programma Federale del 24 giugno del1998 Federalnaja Programma Konversii i Restrukturizacii VoennogoPromyslennosti (Programma Federale di Conversione e Restrukturizacija),che apre concretamente la nuova fase di politiche militari-industriali.

Il primo di questi è la riduzione del numero delle industrie a pienaproduzione militare chiamate a soddisfare gli ordini di Stato. L’intenzione è dicostituire un nucleo di circa 670 imprese e stabilimenti produttivi, di proprietàstatale con piccole partecipazioni private. Il nucleo dovrebbe raccogliere imigliori soggetti sul piano produttivo, finanziario e tecnologico, stimolando laconcorrenza tra le varie ditte aspiranti a questo status, che il legislatore russo haquantificato nel 1997 in più di 1.700. Per questo obiettivo, dopo il 1998 iltermine è stato più volte rinviato: dal 2000 al 2005 al 2010. Finora l’AgenziaInformativa del VPK, TC VPK, che segue, tra le altre cose, l’attuazione delProgramma ha reso noti il totale delle imprese del VPK relativo al 1997, 1.731;al 1998, 1.749; al 1999, quando esso scende a 1.528; al primo semestre 1999,che registra una seconda contrazione arrivando a 1.48916. Il totale per anno,tuttavia, non include tutta una serie di soggetti non rientranti direttamente nelcartello VPK, ma coinvolti nella produzione militare industriale, come adesempio molti stabilimenti energetici, minerari e chimici. In questo modo,seppure è riscontrabile una relativa riduzione, essa non si avvicina ancora ai livellidesiderati. Va considerato che molte imprese mantengono una alta quota diproduzione militare anche se, formalmente, esclusi dal cartello del VPK17. Inseguito alla crisi apertasi l’11 settembre è possibile che il numero delle imprese

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a produzione militare non diminuisca, dal momento che, già nel 2002, c’è statoun incremento massiccio degli ordinativi militari.

Il secondo obiettivo della Restrukturizacija è rendere la produzione militarecompatibile con altre attività produttive, al fine di coprire la domanda interna.Dunque, le organizzazioni dell’industria della difesa ricevono degli ordinimilitari che non assorbono l’intera capacità produttiva e consentono loro dicondurre altre attività finalizzate all’export militare o alla produzione civile. Suquest’ultima l’impresa gode della massima autonomia dal controllo e dallapresenza pubblica. La fissazione di questo obiettivo risente molto delledinamiche evidenti nell’industria della difesa dei grandi paesi industrializzati.Spesso, presso le grandi imprese a produzione militare si costituiscono delleaziende filiali (docerie predpriatie) che svolgono una produzione civile in pienaautonomia, ma coordinate e finanziate da uno stesso management. Ilmeccanismo delle docerie predpriatie viene fatto proprio dalla prassi dellegrandi imprese, come la Polimer, dove ne nascono 15 con lo scopo di produrrequei beni introvabili, ostrodeficitnoj18.

Il terzo obiettivo della Restrukturizacija, che risente dei modelli stranieri,è quello di selezionare dei prodotti militari da produrre e potenziare intermini prioritari. Si possono individuare almeno due priorità caldeggiatedall’amministrazione russa: una collegata alle esigenze interne per lasicurezza del paese, l’altra collegata al confronto internazionale. Nel primopunto rientrano: la produzione di armi convenzionali, di piccoli armamentie di sistemi di difesa adatti ai microconflitti, ai conflitti locali, e allaguerriglia, ma anche la strumentazione per la previsione, il controllo e lasoppressione di pericoli militari o terroristici interni. Nel corso degli anninovanta, la Russia ha mantenuto lo status di potenza militare in base alpotenziale nucleare e atomico ereditato dall’URSS, ma la sua capacitàmilitare sul piano convenzionale non raggiunge i livelli dei paesi piùsviluppati. Alla lunga, questo divario potrebbe portare alla perdita di quellacapacità di escalation dominance, saper scalare i livelli del conflitto dai piùbassi ai più alti, che oggi è indispensabile per conservare lo status di potenzamilitare, dal momento che sono sempre più diffusi i conflitti di raggiomedio-corto che coinvolgono grandi potenze.

La questione cecena è un esempio concreto di conflitto locale, che la Russiadeve fronteggiare e per il quale si richiedono armamenti leggeri ad altaprecisione e tecnologia, come carri cingolati ed elicotteri di piccolo taglio, maanche mitragliatori e sistemi esplosivi ad alta precisione e di piccola fattura.Fronteggiare la guerriglia cecena con le armi convenzionali in riserva, risalenti

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all’era sovietica, non è una prospettiva affidabile19. L’esercito ceceno, infatti,può essere considerato tra quei soggetti non nazionali che, alla metà degli anninovanta, cominciano ad acquistare e raccogliere armi anche da parteoccidentale. Per quanto riguarda il secondo genere di priorità, certamente ilsettore nel quale il confronto internazionale si fa più acceso dalla fine degli anninovanta è quello aerospaziale. In questo settore la Russia ha ancora moltielementi per poter reggere il confronto. Il lungo esperimento della stazioneorbitante Mir riuscito con successo è una prova attendibile della tenuta delsettore nei difficili anni della transizione. A maggior ragione laRestrukturizacija mira a conservare e sviluppare al meglio le capacità del settorein futuro. Anche qui, sono previsti importanti sforzi in direzione civile. Alsettore aereo-spaziale, infatti, è affidato lo sviluppo delle comunicazioni e deiservizi satellitari per ogni finalità, dall’intrattenimento alla difesa, che deveavvenire in concerto con altri settori industriali.

Il quarto obiettivo è l’introduzione di criteri di razionalità economicanella conduzione delle singole imprese e nell’articolazione generaledell’industria della difesa. A tal fine si pone il problema di ridurre i costi, glisprechi, le inefficienze che da sempre hanno caratterizzato l’industria delladifesa russa. Questo obiettivo di per sé non è nuovo, perché anche laKonversija si proponeva di ridurre gli sprechi e i costi. Tuttavia, l’elementodistintivo in questa fase è che si fa chiaramente riferimento al contenimentoe alla disciplina delle pressioni interne al settore militare-industriale,facendo prevalere approcci neutrali e distaccati nella amministrazione degliaffari militari industriali. Si ricerca, dunque, un orientamento il piùpossibile sistemico e non settoriale, in vista anche di quella già menzionataintegrazione dell’industria della difesa con il sistema economico eproduttivo del paese20. Come si vedrà meglio più avanti la nomina di uncivile, Sergei Ivanov, nella primavera 2001, al ministero della Difesa èl’esempio più indicativo del perseguimento concreto di questo obiettivo.

Il quinto obiettivo della Restrukturizacija è il rafforzamento del controllostatale nell’ambito militare-industriale. Ciò riguarda sia l’amministrazionedegli affari militari-industriali che gli assetti proprietari dei vari soggetti.Questa esigenza di controllo ha assunto forme molto particolari e spessooriginali. Si va dalla nomina dei manager delle principali imprese alladefinizione di rappresentanti nei consigli di amministrazione. Le misure dicontrollo si fanno molto più attente e rigorose per evitare che il processotrasformativo sfugga alle reali intenzioni dell’amministrazione e che gliobiettivi di ripresa strategica, economica e militare siano mancati. Un

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ritardo o una omissione in questo momento non sarebbero ammissibili,perché il rilancio dell’industria della difesa ha un’importanza primaria21.

In fine, il sesto obiettivo, che in verità si può assimilare piuttosto ad unaprecondizione per il successo della Restrukturizacija, è la fissazione di unrigoroso quadro legale e normativo nel quale far muovere le riforme e lepolitiche militari-industriali. La Restrukturizacija, infatti, implica decisionie interventi, come la riforma del sistema fiscale e leggi sulle jointventures, nelsistema economico con i quali deve coordinarsi22. In passato, proprio lamancata aderenza delle decisioni politiche col tessuto normativo era statauna delle principali cause di fallimento.

Sulla base del Programma Federale del 1998, vengono elaborati altriprogrammi relativi ai subsettori. Il più importante, ed anche il piùpubblicizzato e documentato finora, è quello relativo l’aviazione, un settorein cui la correlazione con l’economia civile è senz’altro più forte e direttarispetto ad altri. Il Programma di Restrukturizacija dell’aviazione èconcepito già nel 1997. Altri Programmi riguardano l’industria elettronicae navale e partono dal 1998. La Restrukturizacija rappresenta, quindi, ilprimo autentico investimento pubblico nell’industria della difesa russa,divenuto una priorità per la leadership del paese.

Tutti i leader di governo e la stessa Presidenza, dal dopo-crisi 1998 in poi,sono convinti di questa ineludibile priorità23. L’idea che sembra ispirare laleadership politica è che l’industria della difesa possa fare da traino per ilsistema economico, verso una nuova fase di sviluppo. Se questo è un risultatorealmente ottenibile è difficile dirlo ora, perché i tempi non sono ancoramaturi per trarre conclusioni attendibili. Sin dalle prime battute, però, èevidente che la via prescelta per conseguire il risultato non è quella di unaconversione del settore militare industriale ma di un suo potenziamento erilancio, secondo linee più dinamiche e moderne. Questa è la caratteristicafondamentale ed imprescindibile del nuovo corso di trasformazionidell’industria della difesa, intrapreso alla fine degli anni novanta.

2. L’attuazione e gli approcci principali della Restrukturizacija

Il riassetto proprietario delle imprese

Negli anni novanta prende il via una serie di intensi cambiamenti negliassetti proprietari nell’industria della difesa. Come rilevato da alcuni

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osservatori, le privatizzazioni hanno avuto un notevole effetto innovativo sulpiano dell’organizzazione, avendo le imprese cambiato forma proprietaria emodo di conduzione, ma non su quello produttivo, dal momento che laproduzione sia civile che militare del VPK diminuisce costantemente, nelperiodo 1992-9824. Gli effetti di queste considerazioni sulle privatizzazionisi concretizzano in una serie di decisioni tese a rafforzare il ruolo e la presenzadello Stato negli assetti proprietari del complesso militare-industriale.Infatti, le forme proprietarie sviluppatesi dal 1992 al 1998, che sostenevanola compartecipazione di privati, banche ed investitori entrano in crisi e sirende necessario un riordino degli assetti proprietari.

Molte banche che detenevano parti anche molto consistenti di quoteproprietarie di imprese del VPK vanno in fallimento e le azioni sonoprelevate dalla Banca Nazionale di Riserva, Sbirbank. È il caso ad esempiodella Inkombank che dal 1995 aveva acquisito azioni di diverse imprese delVPK, come la Suchoj, la Morskaja Technika e la Ural-Del (rientrantirispettivamente nell’Industria Aerea le prime due e Marittima la terza). Nel1998, la Inkombank va in bancarotta e successivamente la Sbirbankrecupera la maggior parte delle azioni25.

Tuttavia, il recupero delle azioni di proprietà delle banche non è il solometodo attraverso cui lo Stato cerca di ricomporre gli assetti proprietari delVPK. Ci sono, infatti, anche altri interventi volti a ristabilire il controllo delloStato sui soggetti privatizzati in vari modi e misure: la definizione dirappresentanti dello Stato nelle società per azioni del complesso militareindustriale; l’individuazione di soggetti del tutto o in parte non privatizzabili.In particolare, si distinguono due tipi di rappresentanti dello Stato: quellipresenti nelle assemblee degli azionisti e quelli presenti nei consigli diamministrazione. I primi sono legati ai blocchi di quote di proprietà delloStato, e possono influire sulla creazione di alleanze tra azionisti. I secondiall’esistenza di una golden share statale. Il loro potere può arrivare fino al vetosu decisioni ritenute non congrue con l’interesse pubblico. Inoltre lo Statoattraverso la Presidenza e il governo nomina direttamente i dirigenti delleimprese a proprietà pubblica intera o prevalente26.

La nomina diretta di rappresentanti dello Stato si intreccia con ladefinizione di una lista di imprese considerate strategiche per la sicurezza delpaese. Sulla scorta dei documenti ufficiali aventi ad oggetto questa lista, sipuò individuare un nucleo centrale di circa 672 soggetti che comprende 478imprese la cui privatizzazione è proibita e 194 imprese in cui lo Statomantiene blocchi di azioni di controllo delle quote proprietarie.

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In precedenza, il decreto n. 802 del 1996, individuava 480 imprese nonprivatizzabili. Tuttavia, più avanti, due di quelle imprese sono state trasferitenel novero delle imprese in cui lo Stato ha dei rappresentanti nell’assembleadegli azionisti27. Attorno a questo nucleo centrale, ci sono circa 192 impresein cui lo Stato detiene una goldenshare. Altre imprese sono a proprietàprivata prevalente, paritaria o, in alcuni casi, totale. Da un punto di vistaterritoriale la presenza dello Stato negli assetti proprietari è più forte nelleimprese situate nell’area centrale (Mosca, regione di Mosca, Pietroburgo)dove è pari al 59 per cento, che in quelle situate nelle altre regioni dove è parial 36 per cento28.

Creazione di grandi gruppi finanziari ed industriali

Le prime forme di mergers o associations con il nome di koncenrn, komplekso korporizacija si sono diffuse in Russia in condizioni molto difficili, date leinnumerevoli lacune finanziarie e anche legali e normative29. Ad ogni modo, conl’inizio della Restrukturizacija sono apparsi diversi tentativi di far nascere grandiassociations attorno ad aziende leader nelle diverse branche dell’industria delladifesa, sul modello anche dell’industria della difesa occidentale.

Gli obiettivi di queste associations sono vari: dalla ricerca di una maggioreforza e competitività nel mercato nazionale ed internazionale, almantenimento di un ruolo incisivo nell’attribuzione delle commesse militari,alla necessità di evitare un depennamento dalle liste delle imprese di significatostrategico. Inoltre, la costituzione di grandi gruppi finanziari-industrialifavorisce l’integrazione delle produzioni civili e militari. Molte imprese chehanno una forte dipendenza dalla produzione militare e non sono riuscite aconvertire e diversificare la propria produzione possono all’interno di grandicartelli trovare una possibilità concreta di integrazione. Ad esempio, in unaassociation si possono produrre mezzi da trasporto militari e tutta una serie dibeni e servizi per i trasporti civili dagli pneumatici ai servizi di manutenzione30.In generale, lo Stato mantiene delle quote proprietarie molto consistenti nelleassociations di particolare rilevanza militare, mentre la presenza dei privati è piùforte nelle associations di tipo non interamente militare31.

Esempi di unioni di imprese sono evidenti soprattutto nell’industriadell’aviazione, il cui Programma di Restrukturizacija approvato nel 1997prevedeva la creazione di un numero limitato di associations di primolivello, circa 6, tra cui la Suchoj e la MIG, responsabili delle diverse

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produzioni di particolare significato militare: aerei da guerra, elicotteri,bombardieri pesanti ecc. Ad un secondo livello, un numero più ampio diassociations, da 10 a 15 tra cui la Il’jusin, la Tupolev, la Jakovlev e la Mil,si sarebbe occupato di produzioni relative l’accessorizzazione, lacomponentistica, i veivoli leggeri. A questo secondo livello, le impreseavrebbero potuto condurre anche produzioni di tipo non militare. Unosguardo alle più recenti vicende nel settore è sufficiente a capire che irisultati finora non sono dei migliori e si è lontani dal raggiungere unquadro stabile, essendo i processi di associations ancora in corso32. Moltedifficoltà nascono in realtà dalle resistenze che le imprese pongono allaperdita di autonomia e visibilità derivante dall’incorporazione in cartelliguidati da grandi imprese e dall’intenzione di queste ultime di essereprotagoniste nel processo di merging. Le divergenze delle rispettivedirigenze, ad esempio, hanno impedito la nascita di una association tra leditte Suchoj e MIG, ipotizzata dai ministeri della Difesa e dell’Economia,nel 1998. Si trattava di due grandi nomi dell’industria della difesa russa ec’era da attendersi che nessuno dei due avrebbe ceduto alla nascita di uncartello unico. Entrambi, però, hanno guidato processi di fusione eintegrazione con altri soggetti.

Il cartello RAC (Russian Aircraft Company) MIG, ad esempio,contiene in sé almeno sei principali aderenti: il Centro di ricerca eprogettazione MIG; gli stabilimenti produttivi Voronin, Luchivicy eKaljazine di Mosca; un Centro per attività di test e collaudo; un Centroper le attrezzature ed il rifornimento. Il cartello si definisce come unacompagnia produttrice di aerei verticalmente integrata, a sottolineare ilruolo centrale attribuito alla MIG rispetto ai soggetti associati.Storicamente il marchio è stato sempre legato alla produzione militare ela dirigenza della ditta MIG ha ottenuto, grazie alla sua posizionepreponderante, che il gruppo finanziario-industriale RAC MIGmantenesse la produzione militare come attività principale33. Si lavora,così, ad almeno dieci programmi ad alto significato militare, tra cui: ilMig-29, il Mig-29k, il Mig-21 e il Mig-31.

Il cartello costituisce oggi uno dei principali soggetti del VPK, tanto daessere uno dei pochi che hanno la possibilità di gestire il proprio export inautonomia dall’agenzia russa per l’export di difesa, Rosoboroneksport34.

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Trasferimenti di competenze e responsabilità ad autorità civili

Il quadro generale delle autorità coinvolte nelle politiche riguardanti ilVPK negli anni novanta si è dimostrato in continuo aggiornamento emutamento. Tuttavia, nel periodo 1998-2001 esso appare particolarmentesegnato dal coinvolgimento di civili alla gestione delle questioni militari-industriali.

Questi trasferimenti di competenze rispondono ad alcune intenzioniesplicitamente ammesse dalla leadership russa quali: rigenerare icomportamenti economici dei soggetti coinvolti; introdurre elementi dirazionalità economica; potenziare l’approccio intersettoriale35.

Nel quadro della Restrukturizacija, seguendo una linea cronologica, èbene cominciare dal trasferimento delle competenze sull’industria delladifesa al ministero dell’Economia (Ministerstvo Ekonomiki o Minekon)con il decreto n. 111 del 1997. In linea generale, il ministero deve garantireche le politiche inerenti il VPK non comportino sacrifici per il sistemaeconomico in generale, ma anzi offrano dei vantaggi e degli incentivi per losviluppo. Inoltre, nel settore vanno definitivamente introdotti quei principidi conduzione aziendale indispensabili nel regime di mercato che laleadership del paese rincorre da tempo. In sintesi, le responsabilità delMinekon vanno dalla definizione degli ordini di difesa dello Stato, alcontrollo e coordinamento della loro soddisfazione; dall’individuazionedelle risorse economiche a disposizione dell’industria della difesa alla lororedistribuzione; dall’inquadramento dei problemi logistici ed organizzatividel settore alla loro risoluzione.

Quali che siano i risultati della gestione del Minekon, nella seconda metàdel 2000 si registra un nuovo trasferimento di competenze al ministerodell’Industria, della Scienza e della Tecnologia (l’abbreviazione in russo èMinpromnauka). Si tratta di un nuovo ministero, costituito appositamenteper centralizzare l’amministrazione delle questioni relative al rilancioscientifico e tecnologico del paese. Questo passaggio prova quanto il VPKsia fondamentale per sanare il gap scientifico-tecnologico del paese. IlMinpromnauka sostituisce il vecchio ministero della Scienza. Non è esclusa,tuttavia, una certa partecipazione del ministero dell’Economia, rinominatoministero dello Sviluppo Economico e del Commercio, il quale è ancoraresponsabile delle previsioni di spesa sul medio e lungo periodo, per la difesadel paese e lo sviluppo del VPK. Inoltre, le nomine fatte dal ministero nonsono state revocate. Il trasferimento, quindi, non sembra contravvenire ai

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principi che hanno motivato il passaggio delle competenze verso il ministerodell’Economia. Si tratta, infatti, ancora una volta di una autorità civile,chiamata ad intervenire con l’intenzione di integrare il settore militare-industriale nel sistema economico36.

Tra i trasferimenti di compiti e responsabilità nel quadro dellaRestrukturizacija si inscrive anche la nomina di un civile, Sergei Ivanov, aministro della Difesa, nella primavera 2001. È la prima volta nella sua storiache la Russia ha un civile alla guida di questo ministero37. Tra le altre cose,il ministero è responsabile della definizione del fabbisogno finanziarioannuo delle forze armate e dei vari corpi militari, nonché dell’individuazionedei principali tipi d’arma e sistemi d’arma necessari per la sicurezza e la difesadel paese. Il nuovo ministro è riuscito a superare le resistenze dei militari edha nominato ai due sottosegretariati competenti due civili. Questa nuovaimmagine ha anche una ricaduta in termini di conoscenza e informazionesulle attività militari della Russia38.

Ricerca e sviluppo di alte tecnologie e tecnologie duali

Ci sono tre principali tipi di tecnologie che il VPK può sviluppare:tecnologie civili di difficile applicazione militare; tecnologie militari didifficile applicazione civile; tecnologie duali39.

Nel primo caso, la presenza di questo tipo di tecnologie si spiega sia conle caratteristiche storiche assunte dall’industria della difesa del paese nelcorso del tempo, unico produttore di armamenti e beni tecnologici ad usocivile, sia con il già citato obiettivo della Restrukturizacija di non volersostituire la produzione civile con quella militare, ma coordinare le dueproduzioni. Nel secondo caso, invece, si tratta di tecnologie concepite peril potenziamento militare, la modernizzazione degli arsenali, ilconseguimento di un vantaggio tecnologico-militare comparato. Negli anniprecedenti la Restrukturizacija, lo sviluppo di questo tipo di tecnologie haconosciuto un lungo e difficile periodo di crisi e di stallo. Nell’attualecontesto internazionale, invece, proprio il ritrovato interesse per ilpotenziamento militare, che si traduce nell’aumento della spesa militare enel massiccio incremento degli ordini militari, crea un ambiente favorevoleallo sviluppo di queste tecnologie strettamente militari. Occorre, infatti,modernizzare gli arsenali con l’introduzione di nuovi armamenti tecnologicie la modernizzazione dei vecchi.

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Quanto alle tecnologie duali, in questa espressione si fanno rientrarequelle tecnologie adatte tanto ad un utilizzo di tipo militare quanto civile.Si tratta, dunque, di tecnologie che permettono il perseguimento dellasuperiorità militare e, in più, hanno un discreto potenziale civile ecommerciale40. Anche i programmi di conversione della Federazione Russahanno spesso fatto riferimento allo sviluppo di tecnologie duali. Tuttavia,questa strada non è mai stata tra le principali opzioni, prescelte dallaleadership del paese. Ora, però, che la leadership si propone l’aggancio aimaggiori livelli internazionali, lo sviluppo di queste tecnologie appareimprescindibile. Le tecnologie duali, inoltre, sono tra quelle maggiormenteindicate per il perseguimento degli obiettivi civili e militari fissati nelProgramma di Restrukturizacija. Per questo, le imprese che riescono asviluppare tecnologie duali sono quelle che meglio riescono a soddisfare ilgenerale disegno di modernizzazione perseguito dalla Restrukturizacija.

Innanzitutto, tra le tecnologie ad uso civile che hanno acquisito un certolivello di sviluppo e diffusione si possono considerare le tecnologiemeccaniche, chimiche e informatiche. Per ciò che riguarda lo sviluppo delsecondo tipo di tecnologie, quelle militari, molte innovazioni hannoriguardato gli armamenti convenzionali e leggeri. Tuttavia, significativisviluppi tecnologici si sono avuti anche nel campo della difesa aerea e dellamissilistica. Un esempio è costituito dal nuovo sistema di difesa antiaerea S-400 costruito dalla ditta Triumf di Kapustin, nella regione di Astrakan. Ilsistema S-400 è presentato dai media russi come due volte più efficace delsuo precedente modello: S-30041. Vengono prodotti, inoltre diversi tipi dimissili appartenenti alle principali famiglie quali: Katran, Proton, Molnijae altri. Il fatto si spiega senz’altro con il riaperto confronto missilistico congli Usa alla fine degli anni novanta42.

Infine, nell’ambito delle tecnologie duali vanno considerati gli sviluppinel campo laser ed aereo. Nel primo caso, le tecnologie laser si sono diffusetanto nel settore militare, per modernizzare e perfezionare le prestazioni deivari sistemi d’arma, quanto nel settore civile, dalle telecomunicazioniall’entertainment fino alla medicina. Nel campo aereo, negli ultimi anni sidiffondono molti modelli di velivoli ad applicazione sia civile che militare.Un esempio è dato dal nuovo elicottero polivalente della ditta Kamov: KA-60. Al velivolo possono essere applicate diverse modifiche a seconda delleapplicazioni militari o civili, dal rifornimento armi alla distribuzione diviveri in situazioni di emergenza. Anche in questo caso, si può prevedere unaumento della domanda nel prossimo futuro, essendo il paese coinvolto in

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molte operazioni internazionali di sicurezza e di soccorso alle popolazionisottoposte a bombardamenti: dal Kosovo all’Afganistan43. Un segnale chealcuni risultati sono stati ottenuti in fatto di tecnologie duali e che laleadership ha assunto la strategicità di queste tecnologie è data dallacomparsa di diversi regolamenti e decreti, sul controllo dell’export e delladiffusione di queste tecnologie44.

L’investimento nel settore della ricerca scientifica e nell’R&D

In genere, al settore dell’R&D spetta il compito di elaborare, inventaree scoprire conoscenze e tecnologie sempre più innovative. Nell’era sovietica,la totalità degli Istituti di ricerca scientifica e tecnologica nonché dei centridi progettazione era di proprietà statale e le loro attività erano pienamenteo, in alcuni casi, prevalentemente connesse con le esigenze militari del paese.Negli anni immediatamente successivi alla caduta dell’URSS, alle incisiveperdite finanziarie per l’R&D, derivanti dal crollo della spesa militare, sisomma un complessivo disinteresse nel concitato processo di privatizzazioniapertosi dal 1992. L’effetto principale di queste difficili condizioni, e ingenerale il più evidenziato dalla letteratura, è senz’altro il brain drain, ovveroquella fuga di cervelli che ha visto migliaia di ex-impiegati, ad ogni livello, delcomplesso scientifico sovietico emigrare verso altri paesi o lavorare peraziende straniere, per via delle scoraggianti prospettive interne45. Il settoreha cominciato, così, a perdere risorse non solo sul piano finanziario edirigenziale, ma anche su quello delle riserve umane ed intellettive46.

Attualmente, tuttavia, il rilancio del settore è un passo indispensabile perrealizzare quel risanamento del gap scientifico e tecnologico rispetto agli altripaesi e per rilanciare la tecnologia militare e strategica del paese. Entrambii nuovi documenti di sicurezza strategica, la Dottrina Militare e laConcezione di Sicurezza Nazionale, sottolineano questo punto come unodei compiti principali per restituire tonicità e autorevolezza internazionalealla Russia47. Inoltre, se si considera l’attuale fase di riarmo apertasi dal 1998,con la messa in discussione di tutto il precedente regime di Disarmo econtrollo degli armamenti e la ricerca di nuovi e sempre più tecnologicisistemi di difesa, si capisce quanto sia impossibile competere e misurarsi conaltri paesi, con un settore scientifico in decadenza. In questo senso, la giàcommentata costituzione di un apposito ministero, il Minpromnauka, alquale è stata affidata la competenza sull’industria della difesa ed i successivi

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interventi di Restrukturizacija, rappresenta la più esplicita conferma di unritrovato interesse per il settore e il suo valore militare-industriale.

Tuttavia, già prima della nascita del Minpromnauka, ci sono significativisegnali di ripresa nell’R&D. Nel 1998, ad esempio, il 17 per cento dellaspesa militare approvata è destinato all’R&D, mentre negli Stati Uniti il 15per cento e nel Regno Unito il 10 per cento. La spesa per la ricerca scientificaè aumentata costantemente negli ultimi anni. Fonti ufficiali parlano di unaumento del 43 per cento nel 2001 rispetto al 200048. Oltre all’aumento deifinanziamenti ci sono, poi, una serie di agevolazioni amministrative efinanziarie, volte a facilitare l’azione degli Istituti di ricerca, a prescinderedalla forma proprietaria: l’esenzione totale o parziale dal pagamento dialcune tasse e di alcuni servizi, il non pagamento per l’uso e la disposizionedi beni naturali ed industriali rientranti nelle proprietà di Stato.

Negli ultimi anni, inoltre, si sono diffuse alcune forme di investimento dalbasso per attività scientifiche in cui partecipano banche, investitori privati anchestranieri, autorità locali, associazioni industriali e scientifiche. Sul breve periodo,un risultato abbastanza evidente delle nuove e diverse forme di investimentonella ricerca e nell’R&D, è la crescita dell’impiego nel campo della ricercascientifica e tecnologica, riconducibile alle migliorate condizioni economiche efinanziarie del settore e alle più accattivanti prospettive per scienziati, ingegneri,ricercatori e impiegati di ogni tipo, rispetto al periodo precedente49.

Nell’Oblast’ di Tomsk, ad esempio, si è da poco formato un fondo diinvestimento su iniziativa delle autorità del governo locale,dell’associazione scientifica interregionale Sibirskoe Soglasenie,dell’Università Politecnica di Tomsk, dell’Associazione per la Formazionedegli Ingegneri della Russia, (Associacija Inzenersnogo ObrazovanijaRoccii). Il fondo, denominato Fondo di Sviluppo dell’Oblast’ di Tomsk(Fon Razvitija Tomskoj Oblasti) si occupa della selezione di progetti diricerca ad alto contenuto scientifico, della loro copertura finanziaria, delsostegno organizzativo, e degli sbocchi economici e commerciali. MoltiIstituti di ricerca possono, quindi, combinare i finanziamenti del Fondocon le agevolazioni ed i finanziamenti delle autorità di governo. Non sonoancora noti i risultati e la tipologia dei progetti finora avviati, ma unnutrito numero di scienziati e ricercatori di ogni livello dell’Oblast diTomsk è stato attivamente coinvolto50. Un altro caso da considerare èquello del Centro Chrunicev dove per il 2001 è stato riscontrato unaumento di circa il 20 per cento nel personale e per il 2002 si prevede unostesso aumento51.

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Dunque al di là della consistenza e del grado innovativo dei risultati dellaricerca scientifica in Russia, negli ultimi anni il dato oggettivamenteassumibile è quello di un freno a quel processo di fuga di cervelli che rischiavadi azzerare del tutto le possibilità di rilancio scientifico e tecnologico delpaese, sia sul piano militare che civile52.

Scambio di know how e tecnologie con partner stranieri

Con sempre maggiore frequenza si parla di globalizzazione dell’industriadella difesa, volendo appunto indicare il fitto reticolo di rapporti instauratisitra diverse imprese di diversi paesi, fino a creare degli autentici soggettimilitari-industriali transnazionali53. Alle origini di questa globalizzazionevengono poste le ripercussioni della fine della guerra fredda sulle industriedella difesa delle grandi potenze. Sull’onda di questo continuo processo diintegrazione, la transnazionalità è da molti considerata la caratteristicapeculiare dell’industria della difesa del futuro. I governi, fissate di concertocon i propri alleati (o comunque in sedi sovrannazionali) le priorità militarie strategiche potranno contare su una base militare-industriale di tipotransnazionale, dove grandi complessi in cui confluiscono capacitàscientifiche e produttive di vari paesi soddisfano le commesse militari di piùpaesi tra loro alleati o associati54. Quanto detto sopra è ancora lontano dalrealizzarsi, ma il continuo intreccio di relazioni militari-industriali,cominciato negli anni novanta, sembra ormai irreversibile.

Una delle principali vie per perseguire gli obiettivi della Restrukturizacijaè, dunque, introdurre la Russia in questo complesso tipo di rapportiindustriali il cui sbocco è tutt’oggi imprevedibile. Come anche a livellosistemico con le nuove scelte di politica economica successive la crisi del1998, ciò che viene esplicitamente richiesto dalla leadership politica agliinvestitori stranieri è non tanto un qualche tipo di investimento nel VPK,ma un concreto trasferimento di tecnologie, know how ed un rapporto dipartenariato tecnologico. Importanti forme di collaborazioni su queste lineesi sono instaurate sia con soggetti statunitensi che europei. Tra le prime siconsiderino quelle della Allied Signal e della Lockeed. I due esempi sonocitati nella lista delle principali collaborazioni militari-industriali russo-americane redatta dalla FAS (Federation af American Scientist)55.

Tra le collaborazioni con l’Europa va segnalato il caso della dittamoscovita produttrice di elicotteri, Mil, che dal 1997 si è resa parte di un

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complesso programma di collaborazione internazionale chiamato Euromil,che coinvolge anche l’Italiana Agusta, come membro del marchioindustriale europeo Eurocopter. Il progetto più interessante nel periodo1998-2001 è l’elaborazione e costruzione di un nuovo elicottero polivalente,multipurpose helicopter (per i russi mnogocelevoi vertalët): il Mi-38. Euromilè una società per azioni chiusa di cui fanno parte la Eurocopter e la Mil. Nelprogetto Mi-38, la ditta russa dovrebbe occuparsi della documentazionetecnica, del design e della parte più strettamente progettuale e la Eurocopterdell’accessorizzazione con i più moderni sistemi di equipaggiamento, dellacertificazione dell’elicottero secondo le norme richieste dall’AutoritàEuropea e delle indagini di mercato. Anche un’altra ditta russa fa parte dellasocietà per azioni chiusa Euromil: la Kazan vertalëtnyj zavod. A quest’ultimaspetta la realizzazione di un modello sperimentale ed in seguito laproduzione in serie dell’elicottero. Nell’ambito del progetto Euromil le ditterusse hanno una possibilità concreta di modernizzare la propria produzionesecondo i criteri internazionali, offrendo a loro volta il proprio degreeindustriale e scientifico ai partner europei. Inoltre la polivalenzadell’elicottero Mi-38 è un buon incentivo per lo sviluppo di tecnologie dualie per l’estensione delle potenzialità dell’industria della difesa al sistemaeconomico56.

Restano ancora aperti, però, diversi problemi relativi alla sicurezza eall’affidabilità dell’investimento straniero in Russia. Lo stesso progettoEuromil richiede una moltitudine di accorgimenti e garanzie di tipo legale,finanziario, aziendale, non del tutto concretizzatisi e ciò desta non pochepreoccupazioni per i partner europei. Tuttavia, la quantità e la qualità dellecollaborazioni e dei contatti con i soggetti stranieri fanno pensare che il paesepuò ancora contare su un certo livello di interesse e considerazione sullascena internazionale. Il che, certamente, rappresenta una buonaprecondizione per l’aggancio a quella globalizzazione dell’industria delladifesa di cui si è detto sopra.

Conclusioni

Le caratteristiche della politica di Restrukturizacija avviata nel 1998, gliscopi che essa persegue e i principali approcci alla sua realizzazione rendonol’idea di un profondo cambiamento avviatosi nelle trasformazioni delcomplesso militare-industriale del paese rispetto ai primi anni della

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transizione, segnati dalle politiche di conversione. Un cambiamento che èun aspetto importante, benché finora poco considerato, del generaletentativo della Russia di riproporsi sulla scena internazionale come grandepotenza, in una fase in cui i temi del riarmo e del confronto militare hannoripreso vigore.

I punti messi in risalto nella sezione dedicata agli approcci della nuovapolitica militare-industriale - il rafforzamento della presenza dello Statonegli assetti proprietari; la tendenza al merging; lo sviluppo delle nuovetecnologie; la crescita dell’investimento nell’R&D; i vari sforzi per loscambio di know how con soggetti stranieri - rendono possibili alcuneriflessioni. Innanzitutto, il paese intende riscoprire e rivalutare il capitaletecnologico e strategico che è concentrato nel VPK, fissando priorità eobiettivi di lungo periodo. In secondo luogo, nel fare ciò, l’attuale leadershippolitica prende atto degli errori e delle disfunzioni del passato, in partederivanti dagli insuccessi delle politiche di conversione, e cercaaccuratamente di non ripeterli.

Da un punto di vista generale, considerati gli obiettivi dellaRestrukturizacija e i suoi aspetti attuativi, resterebbero da considerare lepossibilità che i risultati proposti stiano per essere conseguiti. In realtà laquestione è molto complessa perché diversi problemi, alcuni dei quali sonostati brevemente accennati, rallentano o impediscono l’ottenimento degliobiettivi. È necessario inoltre un periodo di osservazione più lungo pervalutare i risultati di una politica di così ampio respiro. Tuttavia, sul pianopolitico si può sostenere che la Restrukturizacija ha contribuito a far sì chedi fronte agli scenari aperti dall’11 settembre la Russia apparisse come unpaese più pronto di quanto ci si potesse aspettare: pronto a schierarsi nellalotta incondizionata al terrorismo; pronto a formare il consiglio Russia-Nato nel maggio 2002; pronto ad opporsi alla guerra degli USA in Iraq.Questa centralità è stata guadagnata dalla Russia, infatti, non solo in ragionedell’adozione di nuovi documenti di politica estera, strategica e militare, edell’aumento della spesa militare ma anche del ritrovato interesse a dotareil paese di una moderna industria di difesa e di un potenziale militare il piùpossibile competitivo con quello delle grandi potenze.

Con la Restrukturizacija il paese mira, dunque, a coadiuvare, la suarilevanza politica con una credibilità militare, basata non più solo su mereragioni storiche, ma sul fatto che il paese ha agganciato per tempo la fase diriarmo in corso dalla fine degli anni novanta. Se le soluzioni finora avviatesortiranno realmente i risultati strategici attesi si vedrà in futuro, ma è

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comunque su questo riarmo e sulle modalità scelte nel conseguirlo che sigiocherà gran parte di quel ritorno della Russia tra le grandi potenze, unavolta cessata l’era della Konversija.

Note al testo

1 Per una lettura dei testi integrali dei due documenti: Rossijskaja Federacija, VoennajaDoktrina Rossijskoj Federacii, «Nezavisymmaja Gazeta» 22 aprile, 2000 e RossijskajaFederacija, Koncepcija Nacional’noj Bezopanosti Rossijskoj Federacii, «Rossijskaja Gazeta», 18gennaio, 2000.

2 Su questi temi, tra gli autori pronunciatisi fin ora, si vedano R. WEBER, Swords Into DowShares: Governing The Decline Of The Military Industrial Complex, Westview Press, Boulder CO2000; A. SÁNCHEZ ANDRÉS, Privatization, Decentralization and Production adjustment in theRussian Defence Industry, «Europe Asia Studies», 52, n. 2, 1998.

3 Ad esempio la principale produzione di conversione, dello stabilimento Chrunicev, legatoall’omonimo centro di ricerca e progettazione, che produceva, tra gli altri generi aereo-spaziali,missili vettori Proton, diventa quella di biciclette, un bene a bassissimo contenuto tecnologico.L’argomento è ricostruito da Aleksandr Gol’c, in un articolo sulla «trappola della Conversione»:Konversionnaja lovuska dlja Primakova, «Itogi», 132, n. 42, 1 dicembre 1998.

4 Si vedano i dati raccolti dal Stockolm International Peace Research Institute in SIPRI Yearbook2002, Oxford University Press, Oxford 2002. Per la cifra espressa in dollari usa, la conversionein dollari è basata sul sistema P.P.P (Purchasing Power Parity) . Per i dati relativi il 2002; SIPRIYearbook 2003, Oxford University Press, Oxford 2003.

5 Per una analisi dell’andamento della spesa militare in Russia, dal 1987 al 1997 si veda: J. Cooper,The military expenditure af the USSR and the Russian Federation, 1987-97, in SIPRI YearbooK1998, Oxford University Press, Oxford 1998.

6 Per una rassegna e classificazione delle principali aree di crisi, della varietà di attori in essi coinvoltie le ripercussioni sul mercato d’armi nel corso degli anni novanta, si rinvia a B. TAYLOR SEYBOLT,Major armed conflicts in SIPRI Yearbook 2001, Oxford University Press, Oxford 2001.

7 Questi dati e una descrizione degli sviluppi dell’industria della difesa nei paesi piùindustrializzati, in R. FARAMAZJAN E V. BORISOV, Voennaja ekonomika: etapy razvitija i konturybuduscego, (L’economia militare: tappe di sviluppo e contorni del futuro) «MirovajaEkonomika i Mezdunorodnye Otnosenija», n. 9, 2001.

8 Sul commercio mondiale delle armi nel dopo guerra fredda J. BOUT WELL, et alii, LethalCommerce. The Global Trade in Small Arms and Light Weapons, American Academy of Arts andSciences, Cambridge, Mass, 1995; G. BERTSCH, W. C. POTIER, Dangerous Weapons, DesperateStates, Routhledge, New York 1999.

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9 Una trattazione approfondita sulle forme di riorientamento, in una prospettiva comparata in:G. I. SUSMAN, S. O’KEEFE, The Defence Industry and the Post-Cold War Era: CorporativeStrategies and Public Policy Perspective, Pergamon, Amsterdam 1998.

10 Sulla conversione in USA e nel mondo, a cura del Bonn International Center for Conversion,Conversion Survery 2000-2002 (BICC), Momos Verlagsgesellschaft, Bonn 2000-2002. Per unbilancio della conversione negli Usa invece: E. VASILEVSKIJ, SSA: Gosudarstvo i problemaKonversii, (USA: lo Stato e il problema della Conversione) «Mirovaja Ekonomika iMezdunorodnye Otnosenija», n. 4, 2000.

11 Alcuni esempi concreti di questo tipo di produzione sono trattati brevemente in: A. SÁNCHEZANDRÉS, Restructuring the Defence Industry and Arms Production in Russia, «Europe AsiaStudies», 52, n. 5, 2000.

12 Per una panoramica delle potenzialità rappresentate dal VPK per il rilancio dell’economia Russae delle sua potenza militare V. RASSADIN, Sostojanie Voenno-Promyslennogo Kompleksa Rossii,(Situazione del Complesso Militare-Industriale della Russia) «Voprosy Ekonomiki», n. 7, 1999.

13 Su queste posizioni G. BERTSCH, W. C. POTIER, Dangerous Weapons, Desperate States,Routhledge, New York 1999.

14 La tipologia, la consistenza e le caratteristiche della moderna industria della difesa sono espostein M. BRZOSKA, P. FRANKO, J. HUSBANDS, The Tipology of Military Assets, BICC, Bonn, 2000.

15 Una recente ricostruzione dell’economia delle difesa negli USA in D. GOLD, Defence Spendingand the US Economy, «Survival», 43, n. 3, 2001.

16 Per la versione elettronica dei dati forniti dall’Agenzia, si consulti il sito: www.tsvpk.ru/eng/anaytic/sliders/1_1_ sr_3_eng.htm. I dati sono stati riportati in alcuni dei primi studi sul tema,per un riscontro critico K. GONCHAR, Russia’s Defence Industry and Turn of the Century, BICC,Brief 17, Bonn, novembre 2000.

17 In questo modo, molti osservatori internazionali al 2000 continuano a quantificare laconsistenza dell’industria della difesa della Federazione Russa oltre le 1700 imprese, come A.SÁNCHEZ ANDRÉS, Restructuring the Defence Industry cit. e K. GONCHAR, Russia’s DefenceIndustry and Turn of the Century, BICC, Brief 17, Bonn, novembre 2000.

18 Sul tema si veda la relazione curata da V. CUMIN, TC VPK, Mosca 30 gennaio 2000,disponibile al sito: www.tsvpk.ru/analisys/cumin.html.

19 Sulla necessità di recuperare l’escalation dominance, per mantenere lo status di Potenza si vedaS. CIMBALA, Russia and Arms Persuasion, Rowman and Littlefield, Little Field, Lanham 2001.Mentre, per una panoramica della questione cecena, e i riflessi militari-industriali: G. CUFRIN,Russia: Separatism and Conflicts in the North Caucasus, in SIPRI Yearbook 2000, OxfordUniversity Press, Oxford 2000.

20 Sulla consistenza sistemica delle recenti politiche militari-industriali e l’abbandono diapprocci settoriali, in Russia e nel mondo F. SACHWALD, Defence Industry Restructuring: the End

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of An Economic Exception, Collezione Les Notes de l’IFRI 15bis, Edizione IFRI (Institut Françaisdes Relations Internationales), Parigi 1999.

21 In particolare sul decisionismo del presidente Putin ed i suoi piani di riforma militare F.WALTER, Putin und das Militär. Rußlands Militärorganisation vor einer neunen Reformrunde,«Osteuropa» 12, dicembre, 2000.

22 Ad esempio, se si vuole trasformare le imprese statali in società per azioni che combinino lapartecipazione pubblica e quella privata, facendo prevalere talvolta la prima altre la seconda, ènecessaria una legge sulle società per azioni, sulla partecipazione pubblica e sui diritti dei privatiche intervengono Il riordino delle società per azioni è trattato in D. V. ZDANOV , Reorganizacijaakcioniernych obscestv v Rossjskoj Federacii, (La riorganizzazione delle società per azioni nellaFederazione Russa) Status, Moskva 2001.

23 Alcuni titoli di agenzie informative e organi di stampa: Primakov: defence industry Russia’slocomotive, «Itar-Tass» 7 ottobre 1999; Putin: oboronnyi Kompleks-ekonomiceskom prioritetom,«Rossijskaja Gazeta», 11 novembre 1999.

24 Questi argomenti sono sostenuti nel documento preparato dal ministero dell’Economia dellaFederazione Russa per la Duma di Stato, sulla situazione generale del VPK, dopo la Conversionee le privatizzazioni, O polozenii del v Voenno-Promyslennom Komplekse (La situazione nelComplesso Militare-Industriale), «Promyslennost’ Rossii», n. 8, agosto, 1998.

25 Sul tema: K. GONCHAR, Russia’s Defence Industry at the Turn of the Century, BICC brief 17,Bonn, novembre 2000.

26 Sulle modalità di partecipazione statale negli assetti proprietari delle imprese O.KUZNETSOVA, A. KUZNETSOVA, The State as a Shareholder: Responsabilities and Objectives,«Europe Asia Studies» 51, n. 3, 1999.

27 Precisamente si tratta della NPO Krasnaja Zarja di Pietroburgo, appartenente all’industria dellecomunicazioni e della Chabarovskij Sudostroitel’nyi Zavod im. 60 letija SSSR di Chabarovsk del sotto-settore marittimo. Questa precisazione è confermata, anche in A. SÁNCHEZ ANDRÉS, Restructuringthe Defence Industry cit.

28 Per un approccio territoriale alle ultime trasformazioni dell’industria della difesa russa A.IZUMOV, et alii, Market Reforms and Regional Differenentiation of Russian Defence IndustryEnterprise, «Europe-Asia Studies», vol. 54, n. 6, 2002.

29 Per un quadro generale dei guppi finanziari-industriali in Russia, in una prospettivacomparata E. LENSKY, V. CVETKOV, Finansovo-promyslennye gruppy: istoria sozdanija,mezdunorodnyi opyt, rossijskaja model’, (Gruppi finanziari-industriali: la storia, le esperienzeinternazionali, il modello russo) «Moskva», 1997.

30 Sulle ragioni che spingono alla creazione di associations le imprese del settore militare-industriale S. TOLKACEV, Konkurentnye strategii rossijskich oboronnych kompanii, (Le strategiedi concorrenza delle compagnie russe della difesa), «Rossijskii Ekonomicski Zurnal», n. 1, 1998.

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31 Si veda, a proposito B. MIL’NER, Krupnye korporacii - osnova pod’’ema i uskorennogorazvitija ekonomiki, (Le grandi corporations sono la base della ripresa e dello sviluppo acceleratodell’economia), «Voprosy Ekonomiki», n. 9, 1998.

32 Tra gli articoli della stampa russa sulle difficoltà nella creazione di associations e nellaRestrukturizcija nel settore dell’aviazione KONSTANTIN MAKIENKO, Russia in the CombatAircraft Market, in «Russia/CIS Observer», July 2002.

33 Sulla situazione generale della ditta MIG con particolare riferimento ai problemi del personalee della dirigenza K. MAKIENKO, Kadrovyj krisis v RSK MIG i problemy restrukturizacii oboronnoypromyslennosti Rossii, «Eksport Vooruzenij», novembre-dicembre, 1999.

34Per aggiornamenti anche recentissimi sulle vicende della RCA MIG si può consultare il sito:www.migavia.ru. Uno dei più recenti documenti ufficiali pubblicato anche sul sito e firmatodal direttore generale è intitolato, appunto: RAC MIG is the first Russian vertically integratedaircraft manufactiring company, www.migavia.ru/mig-vic.htm.

35 La propensione a trasferire competenze ad autorità civili ha fatto parlare addirittura di unanuova ideologia nel VPK. Si veda, ad esempio: SERGEI SOJGU, Novaja ideologija dljaoboronnogo compleksa, in «Nezavisimoe Voennoe Obozrenie», 17-24 dicembre 1999.

36 Nel 2000 il ministro è Aleksandr Dondukov, un uomo di esperienza nel campo militare-industriale.Dondukov è stato per molti anni direttore generale del Design Bureau Jakovlëv, del settore aeronautico.Per una prima neutrale descrizione su questo trasferimento J. COOPER, Russian Military Expenditureand Arms Production in, SIPRI Yearbook 2001, Oxford University Press, Oxford 2001.

37 Per una rassegna di articoli delle più autorevoli testate russe sul tema «The Current Digest ofThe post-Soviet Press», 53, n. 13, 25 aprile 2001.

38 Su questo interessante argomento, si veda I. SAFRANCUK, M. POGORELIIJ, Sovremennaijarossiijskaja voennaja zurnalistika: opyt, problemy, prespektivy (Giornalismo militare russocontemporaneo: esperienze, problemi prospettive), Centr Anliza Strategiij i Technologiij(Centro Analisi sulle Strategie e sulle Tecnologie), Mosca 2002.

39 Per una attenta classificazione delle tecnologie disponibili nel VPK, secondo questi tre tipiLJUDMILA BZILIANSKAJA, The Trasformation of Technological Capabilities in Russian DefenceEnterprises, with Special References to Dual-Use Technology in D. A. Dyker, The Technology ofTransition, Central European University Press, Budapest 1997.

40 Per una definizione di queste tecnologie ed il loro significato militare, soprattutto nei paesioccidentali W.A. SMIT, et alii, Military technology. Innovation and Stability in a ChangingWorld, VU University Press, Amsterdam 1990.

41 Tra i titoli di agenzia sull’argomento: Russian S-400 air defence missiles, «Interfax», 17 maggio1999; Russia boasts most sophisticated anti-aircraft system, «Itar-Tass», 20 agosto 1999.

42 Sulle relazioni USA-Russia in materia nucleare e missilistica dal dopo-URSS, C. BLUTH, TheNuclear Challenge: US-Russian Strategic Relations after the Cold War, Ashgate VII, Aldershot

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Oltre la Konversija

2000 e J. MENDELSON, America, Russia and the Future of Arms Control, «Current History»,100, n. 648, ottobre 2001.

43 Una rassegna aggiornata delle più recenti produzioni militari e duali in Russia è disponibileal sito: www.vor.ru/science/madeinrus/htm. Si tratta del sito internet della prima compagniaradiofonica di Stato: Voce della Russia, Golos Rossii, già Radio Moskva, Radio Mosca. La Vocedella Russia cura una rubrica intitolata Sdelano v Rossii, dedicata interamente al made in Russiae accreditata dalle autorità di governo.

44 Sulle tecnologie duali a disposizione della Russia e l’atteggiamento sul commercio interno edinternazionale: RFE, Radio Free Europe, A Dual Position on Dual Technology, «SecurityWatch», 2, n. 8, 5 marzo, 2001.

45 Sul punto si veda: K. GONCHAR, Research and Development Conversion in Russia, BICC,Report 10, Bonn, 1997 e J. REPPY, Conversion of Military R&D, Macmillan, Basingtoke 1998.

46 Le negative ricadute del crollo della spesa militare in materia di R&D, e le mancate prospettivedi conversione sono trattate in J. REPPY, Levels and trends in international spending for militaryR&D, in ID., Conversion of Military R&D cit.

47 A tal proposito si veda V. BARANOVSKY , A. KAZIADINE, Russia: Arms Control, Disarmamentand International Security, IMEMO, Mosca 2001.

48 Il calcolo della spesa per il R&D in generale e militare in particolare è un’operazione moltocomplessa. Essa richiede dei sofisticati passaggi di aggregazione e disaggregazione dei dati resiufficiali, dalle autorità di governo: dalla spesa per l’istruzione e la formazione a quella militare.I dati citati sono presi da SIPRI Yearbook 2000, Oxford University Press, Oxford 2000 e SIPRIYearbook 2001, Oxford University Press, Oxford 2001.

49 A tale proposito si vedano le considerazioni fatte dagli studiosi dell’Istituto SIPRI nelle ultimeedizioni dell’annuario SIPRI, anche se dati certi ed ufficiali sulla quantità di impiegati effettivinell’R&D della Federazione Russa non sono al momento disponibili. SIPRI Yearbook 2000, OxfordUniversity Press, Oxford 2000 e SIPRI Yearbook 2001, Oxford University Press, Oxford 2001.

50 Una descrizione delle più recenti forme di finanziamento nell’R&D e del caso di Tomsk in G.BARYSEVA, Investicii v naucno-obrazovatel’nyj komplkse (Gli investimenti nel complesso scientifico-formativo), «Ekonomist», n. 9, 2001.

51 Una descrizione delle attività e dell’attuale momento positivo del Centro Chrunicev in K.GONCHAR, Russia’s Defence Industry cit. e sul sito www.vpk.ru.

52 Sull’importanza dell’investimento nell’R&D per la modernizzazione della Russia si veda N.SOKOV, Russian Strategic Modernisation: the Past and the Future, Rowman and Little Field,Lanham, MD, 2000.

53 Il tema è ben affrontato, nelle sue linee generali in K. HAYWARD, The Globalisation ofDefence Industries, «Survival», 42, n. 2, 2000.

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54 Su queste posizioni si pone J. BECKER, The future of Atlantic Defence Procurement in A.R.MARKUSEN, J.S. COSTIGEN, Arming the Future: a Defence Industry for the 21st Century, Councilof Foreign Relations Press, New York 1999. Mentre, Keith Hayward, nell’articolo citato, simantiene su posizioni meno futuriste e sostiene un certo limite alla globalizzazionedell’industria della difesa, rappresentato dai governi nazionali.

55 La lista è anche disponibile in rete alla pagina: www.fas.org/nuke/guide/russia/industry/docs/rus95/rdbd4ch9.htm

56 Le informazioni sul progetto Euromil, sono state prese da una relazione tecnico-commercialeredatta dalla stessa Euromil e resa nota in inglese ed in russo, sotto forma di brochure, nel 2001.Il titolo della versione russa è: Mi-38 – vertalët novogo pokolenija (Mi-38 – elicottero di nuovagenerazione). Altre informazioni ed aggiornamenti si possono reperire al sito: www.agusta.it.Sullo scambio di tecnologie e know how di difesa, nell’Europa Comunitaria e non S. BURKARD,From Cooperation to Integration: Defence and Aerospace Industries in Europe, Chialot Paper n. 40,WEU Institute for Security Studies, Paris, luglio 2000. A. ERIKSSON, J.HALLENGE, TheChanging European Defence Industry Sector: Consequences for Sweden?, Report Acta B 12,National Defence College, Stoccolma 2000.

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I tedeschi scomparsi della Mitteleuropa

I tedeschi scomparsi della Mitteleuropa

di Giorgio Novello

La Mitteleuropa perduta

A prima vista, l’ampliamento dell’Unione Europea a dieci nuovi Paesi,otto dei quali ad est di Vienna, ha consentito alla Mitteleuropa disperimentare una sorte che raramente tocca ad un progetto sociale e politico:essere tradotto in realtà. Ma proprio il confronto con la realtà ne hadenunciato immediatamente - ed impietosamente - l’inconsistenza. Pochiprogetti, poche visioni sono al contempo così noti e forse abusati; irraggiantisuggestione perenne e quasi dotati di una forza interna che coinvolge assiemeragione e sentimento; ma anche così indefiniti, forse intrinsecamenteindefinibili.

Geograficamente, la Mitteleuropa gravita sì attorno ad un centrocollocato tra Vienna, Budapest e Praga; ma i suoi confini rimangonofluttuanti, al punto che G. Konrad1 è arrivato a ricomprendervi -generosamente - quanto si trova tra Berlino, Varsavia, Roma ed Atene.Meglio forse coordinate non geografiche, come quelle, accattivanti,proposte da Guenther Schatzdorfer, per cui Mitteleuropa è (era) laddove«popoli e gruppi vivevano non solo vicino, ma confusi gli uni con gli altri,non si raggruppavano per affinità ideologiche, emotive o fisiche, esperimentavano una identità collettiva anche al di là di quello che li separavae li contrapponeva»2.

Il concetto di Mitteleuropa è però nebuloso soprattutto nei contenuti.Ne sono state date, e continuano a darsene, letture profondamente diverse.Quella di gran lunga più nota, al punto da acquisire taluni tratti propri delmito (senza per questo essere l’unica possibile o necessariamente la piùaccurata), vi vede l’archetipo stesso di una civiltà sovranazionale europea.Archetipo concretizzatosi nell’Impero asburgico e in certi suoi valori, realio ideali (la coesistenza in pari dignità, un’amministrazione sostanzialmenteefficiente ed imparziale, strumenti di identificazione collettiva diversi dallo

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Stato-nazione, fecondità culturale straordinaria anche perchè nutrita dagliapporti di esperienze svariate). Ma anche questa lettura positiva, incerta tral’esperienza storica concreta e la sua idealizzazione, è un prodotto delledifficoltà, delle angosce, delle incertezze tipiche di periodi di transizione edella loro ricerca affannosa di riferimenti.

Nel secolo appena passato questa visione della Mitteleuropa ha cosìvissuto due fioriture, tanto più spettacolari quanto più collegate al tramontodi un vecchio ordine europeo ed alla faticosa emersione di uno nuovo. Laprima affonda le radici nella scomparsa dell’Austria imperiale e negli stentidegli Stati successori. Nostalgia, idealizzazione, rievocazione del passato,rimpianto, ne costituirono l’humus; ne furono i risultati una straordinarialetteratura e programmi politici esili (anche se il movimento per laPaneuropa di Coudenhove-Kalergi conobbe a momenti una buonavisibilità)3. La seconda fioritura, culminata qualche anno fa e ora giàconclusa, prelude alla disgregazione dell’Impero sovietico, favorisce il crollodel totalitarismo, sfocia nella progressiva integrazione di nuovi Paesi nellestrutture dell’Europa occidentale.

Tra le due, non molto in comune. La Mitteleuropa idealizzata del primodopoguerra era il frutto dell’elaborazione di un lutto collettivo per la perditadel «mondo di ieri» di Zweig, si incarnava nel «mito asburgico» di Magris4

colorato dalla nostalgia per un ordine occhiuto e rigido ma non privo diaspetti positivi, tanto più rimpianti quanto più le vicende del tempoapparivano oscure; mito letterario appunto, non proposta politica. Neldopo-guerra fredda, la Mitteleuropa è recuperata al servizio di una visioneche matura progressivamente; che si ripropone all’inizio in larga misura dinuovo attraverso l’opera di letterati, da Kundera a Konrad a Milosz5; chesfocia presto anche in iniziative politiche quali la cooperazioneinterregionale Alpe-Adria, fondata a Venezia nell’autunno del 1978 o, piùsignificativamente, l’allora Quadrangolare tra Italia, Austria, Iugoslavia edUngheria, lanciata a Budapest nel 1989; e che finisce con l’approdareall’Unione Europea proprio quando lo scrittore Havel conclude il suomandato di presidente della Repubblica Ceca.

Le due fasi sono così per alcuni versi, al di là delle analogie generiche edelle comuni suggestioni, irriconciliabili: la seconda fioritura non è unariedizione aggiornata della prima. Tra le due, la cesura fondamentale dellaseconda guerra mondiale e delle sue conseguenze.

L’Unione Europea ampliata ha recuperato taluni elementi essenzialidella prima idea di Mitteleuropa, in particolare uno spazio globale di libera

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circolazione; un quadro unitario per la sicurezza; un ordinamento conalcune caratteristiche di sovranazionalità. Ma restano irrimediabili,perlomeno per il futuro prevedibile, le lacerazioni sociali e culturali che ilsecondo confitto mondiale ha inferto ad altre sue componenti essenziali.

Karl Schloegel6 sottolinea in particolare la perdita della presenza capillaredi ebrei e tedeschi nei Paesi dell’Europa centrale e orientale. Perdita tantopiù grave, si è tentati di aggiungere, e tanto più incomprensibile nella suagenesi, quanto più erano significativi alcuni legami tra i due gruppi. Basticitare anche solo l’uso dell’yiddisch nel «regno» ebraico di Polonia e Lituaniae oltre, che nonostante i tanti ebraismi lessicali resta una lingua germanica,e l’identificazione degli ambienti cittadini ebraici di Boemia e Moravia conla lingua e la cultura tedesca.

Il parallelo di Schloegel non deve naturalmente indurre a confondereesperienze storiche profondamente diverse nella loro genesi, nelle loroconseguenze, nelle responsabilità. Ma può essere riproposto in una certamisura anche al periodo della guerra fredda, allorchè, di fronte alconsolidamento dei nuovi regimi, i pochi rimasti di entrambi i gruppidovettero affrontare difficoltà in parte comparabili. Gabriele Eschenazi eGabriele Nissim sottolineano l’angustia degli spazi disponibili oltrecortinaagli ebrei superstiti, spesso tollerati a livello individuale solo ponendo lasordina alla loro dimensione collettiva, divenendo così sempre piùatomizzati, sempre più «invisibili»7. Un destino per alcuni tratti nondissimile da quello dei pochi tedeschi rimasti nell’Europa centro-orientaledopo l’esodo di dodici milioni di loro verso Germania ed Austria. Anch’essidivennero «invisibili», conservando semmai la loro germanicità a titoloindividuale ma non più di minoranze nazionali, diluendosi così quasicompletamente nel resto della popolazione, sotto il peso storico di unapresunta colpa collettiva e il peso materiale della cortina di ferro. Cortina cheperaltro paradossalmente contribuì a preservare una parvenza di vita peralcune collettività, che alla sua caduta furono poi falcidiate da una vera epropria fuga verso la Repubblica Federale.

Qualche cifra. Nella Romania del 1930, i 750.000 tedeschi costituivanooltre il quattro per cento della popolazione; erano ancora 120.000 nel 1992,ma solo 95.000 nel 1997. In altri Paesi la cesura della guerra fu ancor piùbrutale. Se in Cecoslovacchia nel 1938 i tedeschi costituivano un quartodella popolazione, erano già scesi all’ 1,3 per cento nel 1950 e allo 0,4 nel19808, mentre al censimento del 2001 le persone dichiaratesi di linguatedesca sono state in tutto 38.000. Difficile un confronto tra la situazione

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attuale e quella prebellica per la Polonia, per lo spostamento del suoterritorio verso ovest dovuto alla cessione all’Unione Sovietica di aree apredominanza ucraina e bielorussa e all’incorporazione di regioni di anticoinsediamento tedesco. Ma all’interno delle frontiere polacche del 1939vivevano probabilmente ottocentomila tedeschi9.

Dodici milioni di profughi: davvero un tema «nuovo»?

Dodici milioni di germanofoni invece furono espulsi e si trasferirono inAustria e Germania. Quelli insediatisi nella DDR vennero rapidamenteassimilati in uno Stato che fin dal Trattato di Goerlitz del 1950 aveva voluto,o dovuto, riconoscere l’Oder-Neisse come nuova frontiera con la Polonia eche, nel sistema del patto di Varsavia, non poteva riconoscere loroun’autonoma visibilità. Gli esuli hanno invece arrecato un contributosignificativo, come singoli ma anche collettivamente, allo straordinariorilancio economico e sociale della Repubblica Federale. Le straordinarieconquiste della Germania «renana» (il progresso economico e la maturitàdemocratica basata sull’economia sociale di mercato; un federalismo vitale;un convinto europeismo) sono così in qualche modo da ascrivere all’interopopolo tedesco, non solo alla sua componente occidentale. Schloegel hascritto pagine toccanti sull’arricchimento culturale che i profughi dell’Estapportarono al piccolo villaggio svevo della sua infanzia, attraverso personedai modi sofisticati, giunte da città dai nomi esotici e favolosi, quasi unanticipo e una promessa delle meraviglie del mondo al di là dei limiti angustidella provincia.

Ma l’integrazione è stata disuguale e difficile. Da qui anche la spinta adun forte associazionismo: la Bund der Vertriebenen (associazione deiprofughi), esistente dai primi anni cinquanta, non solo afferma oggi dirappresentare ancora 15 milioni di persone e di avere due milioni di iscritti,ma di guardare al futuro (ne è ad esempio presidente Erika Steinbach,parlamentare CDU nata dopo la guerra). Associazionismo rafforzatosi inparte anche come reazione alla politica di assimilazione forzata perseguita inun primo tempo dagli Alleati, riuscendo a porre in essere non solo, per breviattimi ricorrenti, un «surrogato di patria» (Heimatersatz) in occasione degliincontri periodici, ma anche un efficace strumento di mutua assistenza e uncanale di lobby politica. Tra i risultati più significativi così ottenuti (digrande importanza anche psicologica) figura la «solidarietà di fronte agli

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oneri della guerra» (Lastenausgleich), lanciata nella Repubblica Federale neiprimi anni cinquanta dopo accesi dibattiti. Tale «solidarietà» si concretizzòin particolare in una legge del 1952 (aggiornata una trentina di volte neglianni successivi) a favore di otto milioni di cittadini particolarmente colpitidagli eventi bellici e dei dodici milioni di profughi, finanziata con imposteaddizionali sul reddito e misure patrimoniali una tantum. Il programmaperse parte della sua rilevanza nel contesto del miracolo economico; fuavviato troppo tardi per farne beneficiare i profughi più anziani; risarcì nonpiù del 22 per cento delle perdite patrimoniali denunciate. Nonostantetutto, fino al 1993 furono erogati centoquaranta milioni di marchi tedeschi:il trasferimento finanziario più elevato nella storia tedesca prima di quelli afavore dell’ex-DDR10.

In Austria invece si insediò un numero ridotto di profughi; pochi anchetenuto conto delle dimensioni del Paese. Tra le cause, la parziale occupazionesovietica, il ritardato recupero della sovranità nazionale, le limitate capacità diassorbimento dell’economia, le reticenze del governo (in particolare aconcedere la cittadinanza a coloro che pure erano stati per la stragrandemaggioranza austriaci fino al 1918) dovuto, per molti osservatori, al fortedisagio di fronte alle vicende intercorse tra il 1934 e la fine della guerra. Agliinizi degli anni cinquanta erano rimasti in Austria poco più di 380.000profughi, dei quali circa 150.000 dalla Cecoslovacchia, diecimila da territoripolacchi o territori del Reich trasferiti all’amministrazione polacca, e per ilresto quasi tutti dai territori del vecchio Impero. E all’epoca solo poco più di90.000 avevano ottenuto la cittadinanza austriaca11. L’influenza delleassociazioni dei profughi sulla politica austriaca è stata quindi molto minoreche in Germania. A partire dal suo presidente Gerhard Zeihsel, diversiesponenti della SLO (Sudetendeutsche Landsmannschaft Oesterreich) sonovicini ai «liberali» già guidati da Haider. Risale comunque al 1996 (e quindiancora all’epoca della «grosse Koalition» tra popolari e socialdemocratici) laconcessione di una sede a Vienna: una Haus der Heimat («casa della Patria»:ma il termine Heimat è intraducibile, allude alla tenerezza per i luoghidell’infanzia) che ospita oggi otto associazioni territoriali di profughi dallediverse parti dell’Impero asburgico. Ma la visibilità al di fuori della cerchia deidiretti interessati resta limitata.

Ciò non toglie che l’Austria, soprattutto dopo i sommovimenti europeidei primi anni novanta, abbia perseguito con qualche successo una politicadi attenzione anche verso talune minoranze superstiti dei paesi centro-europei. È il caso in particolare della Slovenia, dove fino al 1945 vivevano

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poco meno di sessantamila germanofoni poi espulsi quasi tutti dal governoprovvisorio iugoslavo che configuravano a loro carico una colpa collettiva;oggi ne restano 1.800. Colloqui avviati a Vienna dai rispettivi ministri degliEsteri alla fine degli anni novanta condussero al riconoscimento slovenodell’incompatibilità della colpa collettiva con gli standard giuridici attuali,tanto da poter anche ipotizzare specifici «interventi correttivi» in casi singoli(oggi sono un centinaio i casi in esame), e al riconoscimento austriaco chela questione non avrebbe posto ostacoli all’adesione di Lubiana all’Unioneeuropea. L’accordo culturale del 30 aprile 2001 riconobbe i germanofoni diSlovenia come «gruppo etnico» (ma non come «minoranza nazionale», comeè il caso degli ungheresi e degli italiani dei tre comuni costieri di Capodistria,Isola e Pirano)12.

Nel periodo immediatamente precedente l’ampliamento dell’UnioneEuropea, l’espulsione dei tedeschi dall’Europa centro-orientale è tornataalla ribalta ed ha sollevato forti polemiche. Media e commentatori si sonoconcentrati soprattutto sui tre milioni e mezzo espulsi dalla Cecoslovacchia(noti collettivamente, ed impropriamente, come «Sudeti») sulla base dialcuni decreti del presidente cecoslovacco Benes. Decreti di cui alcunichiedono ora l’abrogazione, vuoi a titolo di riparazione simbolica vuoi anchein vista di risultati concreti (recupero di beni, indennizzi); altri ilmantenimento, in quanto costituirebbero altrettanti elementi strutturalidella compagine statuale ceca. Decreti che in ogni caso sono assurti asimbolo per gli uni delle ingiustizie patite dai dodici milioni di germanofonisradicati dalle loro terre dopo la seconda guerra mondiale, per gli altri dellavolontà del ricomposto Stato cecoslovacco (e di altri già occupati dal Reich)di garantire la propria sopravvivenza.

Ma in realtà i profughi non hanno mai cessato di costituire un elementodi rilievo nelle società tedesca ed austriaca. Non è quindi del tutto correttoparlare di una «riemersione» del tema, di una sua «riscoperta» ad operamagari di fattori puntuali come i servizi del settimanale tedesco «DerSpiegel» della primavera del 2002 o il romanzo di Guenther Grass ImKrebsgang13 (che per il solo fatto di trattare dell’affondamento di una navetedesca che nel 1945 trasportava migliaia di profughi dalla Prussia è statosalutato dalla critica come un «coraggioso» passo verso il riesame del passato;ma che in realtà concilia spunti «audaci» con il rispetto del «politicamentecorretto»). Vi è stata piuttosto una straordinaria serie di coincidenze, che haacuito le sensibilità e ha richiamato l’attenzione (questo sì è un elementonuovo) della comunità internazionale sui «decreti Benes»: le campagne

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elettorali del 2002 in Germania, in Austria, nella Repubblica Ceca; ilpresidente della Baviera, la regione tedesca in cui più forte è l’influenza delleassociazioni degli esuli, nel ruolo di candidato alla Cancelleria; e appunto loscorcio conclusivo dei negoziati per l’ampliamento dell’Unione Europea.Per molti osservatori hanno avuto un peso decisivo certe continuità traalcune espressioni delle associazioni dei profughi e ambiti politici populistie radicali gratificati da affermazioni elettorali significative. È questo il casodei summenzionati «liberali» austriaci e del loro ingresso nel governo, coni popolari, dopo la vittoria elettorale del 2000. Nell’accordo programmaticotra i due partiti (Koalitionsabkommen) del 1° Febbraio 2000, il nuovogoverno austriaco si impegnava tra l’altro al perseguimento di una soluzioneappropriata (sachgerechte Loesung) anche per le popolazioni di lingua tedescasradicate dalle loro zone di insediamento in Slovenia e Repubblica Ceca.Ancora il 9 marzo 2002, il cancelliere Schuessel riteneva che le conseguenzedelle espulsioni da quest’ultimo Paese andassero risolte prima dell’ingressodi Praga nell’Unione. Già con la secca sconfitta dei liberali alle elezioni delnovembre 2002 si era peraltro registrato un ridimensionamento dei toni deldibattito14.

In Germania, peraltro, rimangono isolate le posizioni radicali dei piccolipartiti di estrema destra (pari nel complesso a pochi punti percentualidell’elettorato e per di più molto divisi); e questo anche per l’azionemoderatrice della CSU bavarese che, nel suo ruolo incontestato di partito diriferimento dei Sudeti, il gruppo più compatto e più influente dei profughi,ne ha storicamente recuperato l’associazionismo ad un pieno giocodemocratico. Nel Bund der Vertriebenen tedesco hanno del resto convissutoe convivono diverse anime: presidente ne fu ad esempio, tra il 1964 e lamorte prematura nel 1966, quel Wenzel Kaksch già a capo deisocialdemocratici tedeschi di Cecoslovacchia ed interlocutore privilegiatodel presidente Benes sulle minoranze ai tempi del comune esilio londinese.

Resta, come si è detto, una nuova consapevolezza della comunitàinternazionale, favorita dalle recenti evoluzioni a livello continentale. Nulladi veramente nuovo, del resto: sul tema, i rapporti degli Stati tedeschi coni Paesi di origine degli esuli sono sempre stati influenzati in modo decisivodalle condizioni internazionali via via esistenti. Della DDR si è detto:all’interno del blocco orientale il tema non aveva diritto di cittadinanza.L’Austria neutrale capitalizzava una collocazione favorevole tra i dueblocchi, pagandola anche con un oblio di decenni. La Repubblica Federale,nei limiti delle sue possibilità di movimento, condusse una Ost-Politik che,

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tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta, si tradusse sì in una seriedi intese con i Paesi del blocco socialista, ma le cui priorità erano da un latola sicurezza (pagata anche col riconoscimento delle nuove frontiere orientali,come nel caso del trattato con la Polonia nel 1970), dall’altro condizioni divita meno disagevoli per i tedeschi di oltre cortina (da cui la coesistenza conla DDR di cui agli accordi del 1971 e 1972; e semmai concessioni quali iltrasferimento verso la Repubblica Federale di 120.000 polacchi «appartenentiincontestabilmente al gruppo etnico tedesco» di cui al secondo trattatotedesco-polacco del 1975)15.

La fine della guerra fredda ha sciolto il corsetto entro il quale tali rapportierano ingessati, ma di per sè non ha riacutizzato la consapevolezza sul tema.Né lo ha fatto, di per sè, la riunificazione della Germania, che pure avevabrevemente fatto balenare lo spettro di un’«Europa tedesca». Se ne èappunto ripreso coscienza con la prospettiva del recupero della Mitteleuropada parte dell’Europa «occidentale».

Rilevanza reale del tema, dunque; ma anche, come si è detto,sovraesposizione mediatica che, poco prima dell’ampliamento dell’UnioneEuropea, aveva addirittura indotto diversi commentatori a vedere rischi nonsolo per le relazioni bilaterali tra gli Stati interessati, ma per gli stessi equilibricontinentali («le contentieux des Sudetes empoisonne l’Europe centrale»: così«Le Monde» del 27 marzo 2002).

Una lettura più serena avrebbe dovuto condurre subito a conclusionidiverse. Avrebbe dovuto in particolare collocare l’improvvisa riacutizzazionedel tema, a livello interno ed internazionale, nella prospettiva positiva delrecupero della Mitteleuropa, ed indicare la raggiunta maturità dei tempi peril compimento di una tappa ulteriore verso quella definizione completa delpassato che durante la guerra fredda ha potuto aver luogo solo in modo parzialee disomogeneo: buono ad esempio per i profughi dalla Polonia, meno buonoper gli esuli dalla Repubblica Ceca.

Certo, il tema resta complesso. Lo confermano in particolare le vicende- per tanti versi paradigmatiche - dei tedeschi di Boemia e Moravia, icosiddetti Sudeti (da alcune zone di loro più forte insediamento). Vicendecontraddistinte da complessità e stratificazioni tali da rendere ragionedell’emotività di certe persistenti prese di posizione, e da confermarel’impossibilità di composizioni durevoli basate solo sul piano giuridico osulla sola dimensione bilaterale. Più che nell’inconciliabilità attuale delleposizioni sui punti specifici, il vero, forte ostacolo resta l’inconciliabilitàdelle visioni che le diverse parti in causa hanno della storia passata.

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I tedeschi dei Sudeti: una vicenda senza confronti

È dunque utile richiamare taluni aspetti specifici proprio delle vicendedei tedeschi dei Sudeti. La stessa immagine di questi ultimi come gruppoetnico compatto, contraddistinto da una cultura unitaria e da una storiacomune, è fuorviante. I Sudeti sono diventati tali, paradossalmente, dopo e«grazie» all’espulsione, trovando nella sofferenza comune, e poi nella intensavita associativa nell’esilio, fondamenti di un’indentità collettiva inprecedenza molto più esile.

Manfred Alexander16 definisce «un’astrazione» lo stesso concetto di unaminoranza tedesca in Cecoslovacchia. Accanto ad insediamenti compattinella Boemia del Nord e del Nord-Ovest (Reichenberg, Egeraln), vi eranoinsediamenti cittadini (a Praga a Brno/Bruenn) dove cechi e tedeschiconvivevano, in cui parte della popolazione era mistilingue, in cui era fortela presenza di ebrei germanofoni. L’atteggiamento politico era diconseguenza variegato: convivenza più o meno pacifica nelle grandi città;annessione alla Cecoslovacchia vissuta come un «incubo permanente» neiterritori già appartenuti al Reich tedesco (hultinische Laendchen). Da qui lacontrapposizione tra «attivisti», sostenitori di una collaborazione leale conle autorità centrali, e «negazionisti», questi ultimi in grado di bloccare finoal 1926 la partecipazione di partiti tedeschi al governo.

Ed infatti, come in un gioco di scatole cinesi, le relazioni tedesco-cecherelative al nostro tema rinviano sempre ad un piano ulteriore. Le polemichepiù recenti hanno tratto facile alimento da dichiarazioni forti di variaprovenienza, che a prima vista posso sconcertare. Molto citata è statal’esternazione dell’ex-premier socialdemocratico ceco Milos Zeman, che hadefinito i Sudeti «la quinta colonna di Hitler». Ma anche da parte tedesca,e da parte di insospettabili e qualificati quotidiani nazionali, sono statepubblicate rivisitazioni emotive del ruolo storico di Benes, riprendendo certivecchi stereotipi per cui il «peccato originale» dello Stato cecoslovacco neiconfronti dei tedeschi sarebbe stato pagato col colpo di Stato comunista aPraga del febbraio 1948 e, nel 1992, con la frattura tra Repubblica Ceca eSlovacchia. Insomma, un Benes che sarebbe stato «vittima dei fantasmi delcomunismo che lui stesso aveva evocato» («Die Woche») ma anche «unfreddo despota» («Frankfurter Allgemeine Zeitung»).

L’occasione prossima della controversia è stata data naturalmente dagliinterrogativi sulla compatibilità o meno dei decreti Benes con l’acquisdell’Unione Europea, che la Repubblica Ceca, al pari degli altri candidati,

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ha recepito prima dell’adesione. Da qui ripetute analisi giuridiche sullanatura dei decreti, sulla loro attuale configurabilità come diritto tuttoraesistente, sulla loro idoneità a produrre ancora effetti giuridici, sullanecessità o meno di un atto di abrogazione da parte delle autorità ceche. Sultema si sono avute pronunce del Parlamento e della Commissione europei17,che non hanno considerato la loro abrogazione come prerequisito perl’accessione della Repubblica Ceca. Di avviso opposto i pareri chiesti dalleassociazioni degli esuli. I negoziati di adesione si sono conclusi come notoa metà dicembre 2002, senza abrogazione dei decreti.

Al di là delle polemiche del momento, sullo sfondo restano le memoriedegli eventi intercorsi tra il 1938 e il 1947. Dunque, l’incontro quadripartitodi Monaco del settembre 1938, con l’avallo al trasferimento alla Germaniadi vaste regioni cecoslovacche popolate in maggioranza da popolazioni dilingua tedesca. Pochi mesi dopo, lo smembramento di quanto restava delloStato cecoslovacco: la creazione del protettorato di Boemia e Moravia,l’istituzione di una Slovacchia indipendente di nome ma di fatto soggetta aBerlino, il trasferimento di territori anche a Polonia e Ungheria. La secondaguerra mondiale, con l’assassinio di Reihardt Heydrich, stellvertretenderReichsprotektor per Boemia e Moravia, ad opera della resistenza ceca, e ladistruzione completa del villaggio di Lidice come rappresaglia. Laricostituzione dello Stato cecoslovacco sostanzialmente nelle frontiereprebelliche, appunto sotto la guida di Benes, ultimo suo presidente e guidadel governo in esilio. Le vendette incontrollate nei primi mesi, sfociate nelleprime espulsioni incontrollate (wilde Vertreibungen) ed in atti di violenzaquali il massacro del villaggio di Landskron, la «marcia della morte» per iventimila tedeschi di Brno/Bruenn, espulsi in una sola notte e obbligati araggiungere a piedi la frontiera austriaca, il «massacro di Aussig» a seguitodell’esplosione di un deposito di munizioni ceco negli ultimi mesi di guerra.La deportazione «organizzata» del primo semestre del 1946, al termine delquale la minoranza tedesca in Cecoslovacchia aveva praticamente cessato diesistere.

L’attenzione è dunque oggi in modo particolare sul cosiddetto «periododecretale», premessa sia della rinascita cecoslovacca che dell’espulsione deitedeschi. Periodo iniziato l’11 luglio 1940 nell’esilio di Londra e terminatoil 27 ottobre 1945 a Praga, nel corso del quale il presidente Benes firmò nelcomplesso 143 decreti intesi a delineare le nuove strutture statuali. Nella fasefinale del periodo decretale si inserisce il «programma di Kosice», dallalocalità della Slovacchia orientale dove il 5 aprile del 1945 venne costituito

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il primo governo postbellico. Il programma, in sedici punti, prevedeva tral’altro, in linea di principio, la punizione dei tedeschi (e dei magiari)colpevoli e l’incolumità degli innocenti; ma non dava indicazioni sul puntodecisivo dell’onere della prova. Il trattamento dei Sudeti viene disciplinatospecificamente in una decina di decreti (di cui solo tre specificamente ad essidedicati: dunque circa lo 0,5 per cento del totale), tutti emessi tra il maggioe l’ottobre dello stesso anno e quindi successivi al programma di Kosice. Inparticolare, il decreto del 19 maggio ne confisca i patrimoni; quello del 21giugno le proprietà agricole; quello del 2 agosto revoca la cittadinanzacecoslovacca a tedeschi e magiari, ed è integrato da quelli del 19 settembree del 27 ottobre che dispone l’internamento di coloro che sono stati privatidella cittadinanza; infine, la legge dell’8 maggio 1946 dichiara non punibilii delitti compiuti contro la minoranza tedesca.

Ma nessuno di questi decreti, che pure hanno disposto l’espropriazione,la perdita della cittadinanza e l’internamento dei tedeschi, ne prescriveval’espulsione, come invece si sostiene incorrettamente da più parti.Quest’ultima venne sancita dall’articolo XIII della Conferenza di Potsdam(dal 17 luglio al 2 agosto 1945), sia pure da eseguirsi «in modo umano». Suquesta base, una «nota» del governo cecoslovacco del 16 agosto avvial’organizzazione dei trasferimenti forzati, autorizzati in novembre dalConsiglio di Controllo Alleato. Il 27 gennaio 1946 parte il primo treno. Neisei mesi successivi sono deportati in Germania circa due milioni e mezzo dipersone (750.000 nella zona di occupazione sovietica).

Queste vicende restano ancora oggi, per tanti aspetti, enigmatiche. Sileggano solo le pagine che Richard von Weiszaecker, ex-presidente dellaRepubblica Federale tedesca, dedica nelle sue memorie al padre (brillantediplomatico di carriera, non sospetto di estremismo), negoziatore per partetedesca degli accordi di Monaco come sottosegretario agli Esteri18.

Ma non basta. Le vicende del 1938-1947, che vedono cechi e tedeschialternativamente nel ruolo di vittime e di carnefici (alla fine con i tedeschicostretti a portare cucito sugli abiti un simbolo che ne indicavaimmediatamente la nazionalità), seguono a vent’anni di non agevolecoabitazione nel nuovo Stato cecoslovacco, non amato dalla maggioranzadei Sudeti che nel 1919 avevano chiesto l’annessione all’Austria dei quattroLander «Boemia tedesca», «Sudetenland», «Moravia meridionale tedesca» e«Boehmerwaldgau». Alcuni parlano di un «peccato originale» dello Statocecoslovacco, nato, se non contro, quantomeno senza quel quarto dei suoicittadini di lingua tedesca. Gli scritti dei «padri della patria» confermano che

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la presenza dei tedeschi apparve fin dall’inizio come una delle «difficoltà chesi presentano per l’instaurazione di una Boemia libera»: così il futuroministro degli Esteri Masaryk, scrivendo nel 1917 sugli auspicati assettipost-bellici. Eventuali rettifiche del confine a favore dell’Austria avrebberoridotto la minoranza tedesca di un milione di persone, ma avrebbero resonecessarie altre compensazioni. Meglio quindi un’applicazione radicale delprincipio della maggioranza: «è più giusto che nove milioni di cechi stianosotto il dominio tedesco o che tre milioni di tedeschi stiano sotto il dominioceco?»19. In questa luce vanno considerati alcuni provvedimenti del nuovoStato. È il caso in particolare della riforma agraria intrapresa esplicitamentecome «riparazione» della «ingiustizia storica» seguita alla battaglia dellaMontagna Bianca, che vide la distribuzione alla nobiltà asburgica dei terreniespropriati a seguito della sconfitta della nobilità boema nel 1620. Per Benes,dopo la battaglia della Montagna Bianca, «tutta la struttura sociale enazionale della Boemia fu modificata, l’elemento ceco eliminato dalle altecariche amministrative, la borghesia ridotta in rovina»20. Non a caso, ilnuovo Stato cecoslovacco fu proclamato il 18 ottobre 1918, anniversariodella battaglia.

La rielaborazione del passato per il futuro dell’Unione Europea

Questi alcuni degli elementi del contesto in cui, nel secondo dopoguerra,si sono svolte le relazioni tra la «piccola» Germania Occidentale e laCecoslovacchia dapprima, tra la Germania riunificata e la Repubblica Cecanata dalla scissione tra Praga e Bratislava, poi. Non sono beninteso mancatiatti formali di riconciliazione. Il Trattato di Praga del dicembre 1973 coronala Ost-Politik di Brandt, sia pure in tono minore rispetto ai tratti conclusivia via con URSS, DDR e Polonia, e in un’atmosfera di minor entusiasmo,in cui già i dividendi dell’apertura all’Est apparivano forse minori dellesperanze. Vi viene ribadita la nullità degli accordi di Monaco; ma,nonostante i lunghi negoziati, senza precisare se tale nullità fosse radicale, abinitio (come chiesto dai cecoslovacchi) o con decorrenza dalla fine delleostilità e dalla ricostruzione della Cecoslovacchia (come chiesto da partetedesca). Il Trattato di amicizia e buon vicinato del 1992 condanna gli attidi violenza e l’espulsione dei tedeschi, ma in modo non soddisfacente per leassociazioni degli esuli. Con la Dichiarazione di riconciliazio ceco-tedesca diPraga nel 1997, Helmut Kohl chiede perdono per i torti arrecati dai tedeschi

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ai cechi, e Vaclav Klaus definisce «ingiusta» l’espulsione. Ancora una volta,le associazioni dei profughi sono critiche: invece che diVersoehnungserklaerung (dichiarazione di riconciliazione) parlano diVerhoenungserkalerung (dichiarazione di vergogna).

In queste vicende colpiscono insomma ancora le letture profondamentediverse, quasi inconciliabili della storia. Barbara Coudenhove-Kalergi(anch’essa esule da Praga, dove poi è ritornata come corrispondente dellatelevisione di Stato austriaca e oggi fautrice di un riavvicinamento che passiinnanzitutto per la rielaborazione comune del passato) ricorda come, per icechi, i tedeschi giunsero come colonizzatori e conquistatori, mentre questiultimi si consideravano benemeriti pionieri e promotori dello sviluppoeconomico e sociale. Per i tedeschi e gli austriaci, il periodo di maggiorfioritura artistica e culturale resta l’età barocca dell’Impero asburgico. I cechisembrano piuttosto viverla come un periodo di decadenza nazionale, seguitodalla ripresa di fine Ottocento esemplificata dal liberty.

Le stesse vicende dei Sudeti nella Germania post-bellica vano inserite inquesto contesto. È vero in particolare per la forte coesione delle loroassociazioni, a differenza ad esempio di quelle degli esuli dalla Polonia, divisitra Prussia, Pomerania, Slesia. Se in un primo momento il loro trasferimentoforzato verso le zone americana e britannica prevedeva la dispersione in areerurali scarsamente popolate e la proibizione di associazioni e partiti politicidi esuli, di fatto la maggior parte si concentrò in Assia e soprattutto in Baviera(oltre un milione). L’inserimento dei professionisti fu relativamente agevole(medici e dentisti in particolare), mentre fu arduo laddove la concorrenzacon il lavoro locale era forte (ad esempio nell’agricoltura e nella ristorazione).Ancora nei primi anni settanta il livello di vita delle famiglie originarie dallaCecoslovacchia era la metà di quello della popolazione originaria, anche sequesti dati vanno collocati nella prospettiva del miracolo economico dellaGermania nel dopoguerra. Anche con l’appoggio di Adenauer, già nel 1953venne creata la Sudetendeutsche Landsmannschaft, bacino di raccolta delleorganizzazioni Ackermann-Gemeinde, cattolica, sorta nel 1946, Seliger-Gemeinde, socialdemocratica (1951), e Witiko, nazional-liberale (1947). Èancor oggi punto di riferimento attraverso una struttura interna moltoarticolata che vede coesistere aggregazioni per luoghi di residenza attuali eper luoghi di origine, a loro volta articolati a livello federale, regionale, didistretto e di comune. Rete associativa che si è dimostrata ben più efficacedel partito «etnico», scomparso dopo successi effimeri, e che deve molto delsuo successo agli stretti rapporti con la CSU bavarese. Nel 1970, il ministro-

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presidente di Baviera Goppel consegnò ufficialmente l’atto costitutivo della«Fondazione dei Sudeti», prezioso strumento finanziario; nel 1974, ilgoverno bavarese deliberò l’istituzione di una «casa dei Sudeti» a Monaco.

Il legame particolare con la Baviera è formalizzato nella Costituzione diquest’ultima, che considera i tedeschi dei Sudeti come quarta etniacostitutiva (Stamm) accanto ai vecchi bavaresi, ai franconi ed agli svevi. Illoro portavoce è oggi Johann Boehm, presidente del Landtag (parlamento)bavarese, mentre presidente federale è l’eurodeputato Bernd Posselt;entrambi della CSU.

La repentinità della riemersione del tema denuncia, certo, anche lamancata cicatrizzazione della ferita, la persistenza del trauma non sanatonemmeno dalla soluzione «biologica» inevitabilmente apportata dal tempo.Ma è dovuta ad una serie di circostanze specifiche dei Sudeti, non condivisedall’esperienza degli esuli dalla Polonia e dagli insediamenti sparsi negli altriPaesi centroeuropei le cui vicende, al di là delle ovvie similitudini, indicanoun percorso ben diverso di integrazione e di coltivazione delle memoriecomuni. Sono unicamente dei Sudeti un’identità collettiva forgiata ex postproprio dall’esilio e quindi anche per questo tanto più solida; la posizionerelativamente marginale della Cecoslovacchia nella Ost-Politik, cheprivilegiò i rapporti con DDR, URSS e Polonia e le questioni di sicurezzaanche attraverso la definizione delle frontiere; il recupero per tanti di essi diuna «patria di adozione» nella Baviera; il progresso sociale ed economico diquest’ultima, sfociato in un ruolo significativo anche nella politica nazionalee quindi in grado di focalizzare l’attenzione sulla questione stessa e di averripercussioni anche sulla stessa vicina Austria.

Le polemiche dei primi anni del nuovo secolo non rispecchiano quindinè la posizione complessiva di Germania e Austria nei confronti dell’Europacentrale, nè tantomeno il vero stato delle relazioni nella Mitteleuropa entratanell’Unione europea ed in essa ormai dissolta. Esemplare in questo senso ilcomunicato del ministero degli Esteri polacco del settembre 2004, cherichiama la posizione del Consiglio dei ministri del luglio precedente: ilgoverno di Varsavia considera chiusa la questione delle riparazioni per dannidi guerra e non la farà pesare sulle relazioni bilaterali con Berlino. E questononostante l’iniziativa di taluni ambienti tedeschi per un ipoteticorisarcimento dei danni subiti dai Vertriebene, alla quale la Dieta di Varsaviaaveva replicato con una ferma risoluzione sui «diritti della Polonia alleriparazioni di guerra tedesche e sulle rivendicazioni illegali nei confrontidella Polonia e dei cittadini polacchi avanzate in Germania».

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Restano, naturalmente, talune idiosincrasie nazionali. A differenza dellaGermania, il forte interesse dell’Austria per la questione dei Sudeti è senzaproporzione col numero relativamente esiguo di esuli ospitati. Atteg-giamento dove si legge in filigrana l’influenza di un’eredità storica tuttoraviva ed operante. Vi si legge il trauma del trattato di pace del 1919 i cui effettiper molti versi fu ben più drammatico di quello che fu Versailles per laGermania, con la metà dei tedeschi del vecchio Impero ormai fuori daiconfini della piccola Austria postbellica. Vi si leggono le sensibilità legate allaparticolare origine dei viennesi, di cui una grande percentuale è di originececa più o meno lontana (lo sono stati ad esempio ben tre presidenti dellaRepubblica21). Testimonianza, questa, delle correnti immigratorie deidecenni aurei della monarchia asburgica e di una germanizzazione tantorapida e riuscita quanto non priva di frizioni, in una società rigidamentestratificata dove erano comuni misure quali i vari divieti dell’uso del cecoimposti dall’ora idealizzato sindaco della Vienna di inizio secolo, KarlLueger. Nel gennaio 2003 il ministro degli Esteri ceco Svoboda si èrichiamato alla «profonda differenza nell’esperienza dei due Paesi»nell’esprimersi contro una dichiarazione di riconciliazione austro-cecaanaloga a quella ceco-tedesca del 1997: gli eventi successivi alla secondaguerra mondiale «non sarebbero stati rivolti contro l’Austria», nè tra i duePaesi «vi sarebbero stati rapporti vittima-aggressore tali da costituire ilpresupposto logico per una tale dichiarazione».

Dunque, idiosincrasie nazionali tenaci che rendono la lettura in chiavepositiva e «mitica» dell’esperienza asburgica solo una delle varie interpretazionipossibili dell’esperienza storica della Mitteleuropa. Convivono infatti letturedi segno opposto, spesso altrettanto «mitiche» e sorprendentemente selettive,anche in opere qualificate o comunque diffuse. La popolarissima (in Austria)rievocazione dell’eredità asburgica di Ernst Trost22 si sofferma a lungo, ma nelvuoto, sull’espulsione dei Sudeti: non accenna minimamente nè agli eventi trail 1938 e il 1945 nè tantomeno a quelli ancora precedenti. Le sorprendenticoncessioni all’emotività di un Fejto23, che disegna una Vienna carica di unavitalità probabilmente mai esistita e tratteggia la coppia Masaryk-Benes comei veri affondatori della sovranazionalità asburgica, non sono dissimili nellasostanza da quelle di taluni storici, in particolare anglosassoni, che dedicanoal ruolo degli italiani nella Grande Guerra paragrafi che sembrano usciti dallapenna di polemisti di quart’ordine.

Proprio sbavature del genere invitano ad attenersi ad una prospettivagenerale, evitando interpretazioni di eventi puntuali come sintomi di un

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ritorno di aspetti inquietanti del passato, di tentazioni revansciste, dipotenziali minacce all’equilibrio, di crescenti ostacoli all’ampliamentodell’Unione Europea, di un nuovo richiamo a politiche di potenza. Levicende dei profughi tedeschi fanno parte della storia di diverse decine dimilioni di europei sradicati dai loro territori di insediamento tradizionale aseguito delle due guerre mondiali. La caduta della cortina di ferro harestituito dignità e ruolo anche ai tedeschi «invisibili», siano essi gli esuli (ei loro discendenti) o i pochi restati; ha fatto riemergere ferite profonde malcicatrizzate; ha promosso così quel processo di rielaborazione del passato cheè necessario a superare i traumi sia degli individui che dei popoli, comedimostra il ben riuscito caso della riconciliazione tedesco-polacca.

In questo contesto svolge un ruolo utile la Commissione Storica ceco-tedesca, istituita con le dichiarazioni congiunte del dicembre 1989 e delfebbraio 1990, incaricata di approfondire gli aspetti positivi delle relazionitra cechi e slovacchi da una parte, tedeschi dall’altro, ma anche «le tragicheesperienze [...] relative all’avvio, alla conclusione e agli esiti della secondaguerra mondiale». La Commissione, sia pure sdoppiata dopo la scissione traPraga e Bratislava, prosegue i suoi lavori senza limiti di tempo,impegnandosi anche alla formazione delle rispettive opinioni pubbliche, edha arrecato contenuti concreti ad esempio nella delicata quantificazione delnumero delle vittime delle espulsioni24.

Alla fine del percorso, auspicabilmente, la rivalutazione della presenzatedesca al di fuori di Austria e Germania. Che non consiste solo nei pochiresti di collettività autoctone e nell’associazionismo; ma in un complesso piùvasto di eredità della memoria individuale e collettiva, di antichi legami coni luoghi.

Frammenti slegati che appaiono a Schloegel25 come «la nostra Pompei,la nostra Atlantide», come residui di un naufragio. Ma che potrebbero inparte ricomporsi, che in molti casi si stanno ricomponendo, con esiti moltoconcreti, e non solo per il «turismo della nostalgia» che porta tanti tedeschiin Pomerania e in Masuria e tanti austriaci in Transilvania (e che pure haricadute economiche non secondarie). È quanto sta accadendo ad esempionell’Europa del Nord, dove il Consiglio baltico, organismo intergovernativoattivo nelle dimensioni economica, politica e di sicurezza, si ricollegaesplicitamente alla precedente esperienza storica della Hansa, il Consiglio diquella straordinaria federazione di repubbliche mercantili, a carattere piùfunzionale che territoriale ma capace di plasmare per secoli un territorio cheandava da Amburgo alla Finlandia, che si riunì per l’ultima volta nel 1669

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ma la cui persistente vitalità, anche attraverso la continuità delle comunitàtedesche eredi dei Kantore, i suoi insediamenti commerciali, si irraggia finoalle soglie della prima guerra mondiale.

Dissolta nell’Unione Europea, il mito della Mitteleuropa potrà forsepresto risorgere ad est delle nuove frontiere comunitarie. Timothy Snydergià parla di «nuovi mitteleuropei»: alcuni intellettuali di Vilnius, Minsk eKiev, pronti ad ospitare nelle loro città, unite anch’esse da cultura e strutturepolitiche per lungo tempo condivise, un sogno che cerca una nuovaHeimat26.

Note al testo

1 G. KONRAD, Der Traum von Mitteleuropa, in Aufbruch nach Mitteleuropa a cura di E.Busek-G.Wilfringer, Wien 1986, in «Transit», 21-Sommer 2001, p. 18.

2 G. SCHATZDORFER, Frankensteins Geschoepf oder Bastard? cit. in Mitteleuropa-Imgeopolitischen Interesse Oesterreichs, a cura di W. Baumann-G. Hauser , Wien 2002.

3 Ibid., pp. 84-88.

4 C. MAGRIS, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino 1996.

5 J. M. KOVACS, Die Metamorphose Mitteleuropas, in «Transit», 21-Sommer 2001, p. 9.

6 K. SCHLOEGEL, Die Mitte liegt ostwaerts, Muenchen-Wien 2002.

7 S. ROMANO, I falsi protocolli, Milano 1995.

8 H. RASCHHOFER-O.KIMMINICH, Die Sudetenfrage, Muenchen 1988, p. 345.

9 J. KOZENSKI, Minoranze nazionali in Polonia nel ventennio tra le due guerre, in Le minoranzetra le due guerre a cura di U.Corsini-D.Zaffi , Bologna 1994, pp. 97-120.

10 T. GROSSER, Sudetendeutsche in Nachkriegsdeutschland, in Deutsche und Tschechen, a cura diW.Koschmal-M.Nekula-J. Rogall, Muenchen 2001, pp. 400 ss.

11 O. RATHKOLB, Die Vertreibung der Sudetendeutschen und ihre Verspaetete Rezeption inOesterreich, in Die Benes-Dekrete, a cura di B. Coudenhove-Kalergi-O. Rathkolb, Wien 2002,pp. 138-151. V. anche ALFRED PAYRLEITNER, Oesterreicher und Tschechen. Alter Streit und neueHoffnung, Wien-Koeln-Weimar 2003.

12 Mitteleuropa - Im geopolitischen Interesse Oesterreichs cit., pp. 194-197.

13 G. GRASS, Im Krebsgang, Berlin 2002.

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14 Die Benes-Dekrete, cit., p. 138.

15 G. SCHOELLGEN, Die Aussenpolitik der Bundesrepublik Deutschland, Bonn 1999, pp. 87-137.

16 M. ALEXANDER, I tedeschi nella Prima Repubblica cecoslovacca: situazione giuridica e ricerca diidentità, in Le minoranze tra le due guerre cit., pp. 151-171.

17 F. SFORZA-S. VERRECCHIA, Il fantasma di Benes tormenta ancora Praga e Berlino, in «Limes»,5-2002, pp. 187-197.

18 R. VON WEIZSAECKER, Vier Zeiten-Erinnerungen, Berlin 1997, pp. 57-68.

19 E. BENES, La Boemia contro l’Austria-Ungheria, Roma 1917, p. 13.

20 Ibid., p. 11.

21 Die Benes-Dekrete cit., p. 11.

22 E. TROST, Was blieb vom Doppeladler, 9. ed., Wien 2002.

23 F. FEJTO, Requiem per un Impero defunto, Milano 1990.

24 S. BIRMAN, Die deutsch-tschechische und die deutsch-slovakische Historikerkommissionen, inDeutsche und Tschechen cit., pp. 449-457.

25 K. SCHLOEGEL, Die Mitte liegt ostwaerts cit., p. 239.

26 TIMOTHY SNYDER, Die neuen Mitteleuropaer, in «Transit», 21, p. 42-54.

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MICHELA WRONG, I didn’t do it faryou (How the world betrayed a smallafrican nation), Fourth Estate,London and New York 2005,pp. 432

Un lavoro decisamente interes-sante e ben documentato questo diMichela Wrong, giornalista britan-nica, già corrispondente dellaReuters, a lungo in movimento at-traverso l’Africa sempre per laReuters, la BBC e il FinancialTimes. Già autrice del volume «Inthe Footsteps of Mr. Kurtz: Livingon the Brink of Disaster inMobutu’s Congo» (la storia diMobutu Sese Seko, per trent’annipadrone assoluto del Congo-Zaire,edita dalla Harper Collins nel2001), ora pubblica questo volumededicato all’Eritrea, la più giovanedelle nazioni africane, sorta dallatrentennale guerra di liberazionecontro il governo di Addis Abeba;una nazione ancora poco nota allecronache mondiali se non per glieventi di una tremenda guerraconfinaria combattuta a più riprese

e responsabile di migliaia di vittimeanche tra la popolazione civile, unaguerra che non deve essere nemme-no oggi accantonata solo perché al-cune centinaia di Caschi bludell’Onu presidiano i confini deidue Stati dimentichi di un passatoche dovrebbe aver insegnato loroqualcosa.

In questo volume la Wrong di-mostra di essere un’ottima conosci-trice della realtà eritrea odierna che sadescrivere in pagine degne di unagiornalista intelligente, ma dà provaugualmente di ben conoscere la sto-ria dell’Eritrea colonizzata dall’Italiae a lungo soggiogata dall’Etiopia finoal giorno della sospirata «liberazio-ne» nell’ormai lontano 1991, quan-do la carta geografica dell’Africa siarricchì di un nuovo Stato sovrano.Lo stile è quello della giornalista abi-tuata ai lunghi reportage dall’Africacontraddittoria di oggi, sottoposta acrisi ricorrenti e spesso teatro diimmani conflitti etnici con un corre-do spaventoso di morti e distruzioni,sotto lo sguardo indifferente delmondo occidentale. La nascita

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dell’Eritrea attuale è stata segnata daviolenze inaudite che conosce solochi ha approfondito la storia marto-riata di questa regione, che costituì ilprimo insediamento dell’Italia inAfrica fin dagli anni settanta del XIXsecolo. Liberatasi dalla dominazionecoloniale italiana e rientrata nell’or-bita politica dell’Etiopia dapprimaattraverso la forzata soluzionefederativa degli anni cinquanta, poicome quattordicesima provinciadell’impero negussita, l’Eritrea visseesperienze tragiche. Nel 1974, quan-do la guerriglia antietiopica scuotevada tempo l’Eritrea, la nascita delDerg militare di chiara improntamarxista-leninista portò l’Etiopia, equindi l’Eritrea, a vivere un altroperiodo di ferocia inaudita. L’Eritreaintensificò i suoi sforzi, i suoi guerri-glieri occuparono parti strategica-mente importanti del suo territorio elanciarono attacchi sempre più in-tensi e riusciti contro le forzeamariche. Nel 1991 l’Eritrea, vintala lunga battaglia militare con AddisAbeba, si proclamò Stato sovrano eindipendente ed entrò a far parte deigrandi organismi internazionali.Dopo è venuta la lunga contesaconfinaria, tuttora non risoltadefinitivamente, con l’Etiopia vici-na: una presenza scomoda sia politi-camente sia economicamente, quan-do potrebbero comunque essercianche le condizioni per un rapportomeno conflittuale alla luce del triste

passato comune. Ma questo forsenon andrebbe neanche detto...

Il volume della Wrong si snodacon molta sicurezza. Per una sortadi deformazione professionale ab-biamo analizzato con attenzione lepagine che la giornalista inglese hainteso dedicare all’Eritrea sotto ladominazione italiana: pagine con-dite da qualche commento pungen-te nei confronti dell’Italia, ma an-che dal riconoscimento del valore dialcune realizzazioni, per esempio laferrovia a scartamento ridotto traAsmara e Massaua. Interessanti, inparticolare, ci sono risultati i capito-li 2 e 3 («The Last Italian» e «Thesteel snake»), ma si leggono volen-tieri anche gli altri, a cominciare daquello dedicato alla battaglia diKeren nel 1941 («The HorribleEscarpment»), per passare a quellodedicato alla fine del Negus(«Death of the Lion») con il raccon-to di alcune efferate violenze com-messe dai militari amarici contro ivillaggi nei pressi di Keren (uccisitutti gli abitanti sospettati, in quelfine 1970, di essere legati ai Frontidi liberazione) di cui avemmo noti-zia quando risiedevamo in Asmaraproprio in quegli anni, e per termi-nare a quelli dedicati ai più recenti,e purtroppo, tragici fatti di Badmeal confine eritreo-etiopico.

Dell’Eritrea oggi si parla poco,troppo poco, ricorda la Wrong nellasua introduzione, proprio come di

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Timor Est e del Rwanda. Sembrache le Potenze non vogliano rovinar-si il sonno, ma non è giusto che ilpopolo eritreo continui a sentirsi di-

menticato dai Grandi. È questo ilgrido d’allarme che la giornalista in-glese lancia dalle sue pagine (Massi-mo Romanidini).

ANGELO UMILTÀ, Gli italiani inAfrica, a cura di Giorgio Barani eManlio Bonati, T&M AssociatiEditore, Reggio Emilia 2004, pp. 675

Si tratta di un volume dall’accu-rata veste editoriale e stampato insole 200 copie numerate. È statotradotto dal francese da GiorgioBarani, studioso e viaggiatore afri-cano, in particolar modo del Cornod’Africa e della Dancalia, ed anno-tato in modo scrupoloso da ManlioBonati, bibliofilo parmense ed at-tento studioso della vita e delleesplorazioni di Vittorio Bottego dicui ha curato una meticolosa bio-grafia nel 1997 (Vittorio Bottego, unambizioso eroe in Africa, Silva Edi-tore). L’opera originaria è LesItaliens en Afrique di Angelo Umiltà(1831-1893), nativo di Montec-chio Emilia, appartenente ad unafamiglia ottocentesca avversa al re-gime ducale, garibaldino, impegna-to nella grande lotta risorgimentale.Umiltà fu anche uno dei promotoridella «Lega della Pace e della Liber-tà» (si trattava di un’associazioneumanitaria e democratica per il li-

bero scambio, la fratellanza univer-sale dei popoli e l’unità europea),fervente repubblicano e autore dinumerose opere storiche, oltre aquesto Les Italiens en Afrique: unavera rarità bibliografica oggi tradot-ta per la prima volta in italiano daGiorgio Barani non su un originale(come sottolinea Bonati nella suaintroduzione), ma su fotocopie.L’opera fu pubblicata nel 1887(l’anno della tragedia di Dogali)dalla Société d’imprimerie deCernier in Svizzera, dove Umiltàrisiedeva in esilio insegnando al-l’Università di Neuchâtel.

Per Barani e Bonati si è trattato diun lavoro complesso, in parte anchedi revisione «storica» del testo che(sottolinea sempre Bonati) si presen-tava nell’originale carico di insidie, dierrori madornali, di sviste minori,imputabili a più cause, una delle qualiil fatto che Umiltà fosse andato «amemoria» senza un’opportuna verifi-ca del suo scritto. Peraltro l’autore,che fu amico di Franzoj e Garibaldi enel 1882 ottenne la cittadinanza sviz-zera, era ben consapevole dei limiti delsuo lavoro, generoso per impegno,

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ma spesso impreciso. Nella Conclusio-ne (nel testo a p. 427) Umiltà affermatestualmente che il suo «è un diarioche registra i fatti attuali», che non ha«la pretesa di aver colmato una lacu-na», che ha iniziato a scrivere il libro«con l’ingenua illusione che per ripo-sarsi dalle fatiche quotidiane, fossemeglio un nutrimento dello spiritomeno malsano e più sostanzioso diquello dei romanzi ad effetto» e chesente «il rimorso di non aver saputo,visto, raccontato e detto tutto e di nonaver corretto nel migliore dei modi inumerosi refusi che ci sono scappati».Tutto questo non limita l’importanzadell’iniziativa di Barani e Bonati cheha consentito di dare alle stampe latraduzione di un’opera di fine Otto-cento dedicata, pur con gli evidentilimiti strutturali segnalati, alla presen-za italiana in Africa, non solonell’Eritrea di diretto dominio, che fucosì carica di contraddizioni ed errori.Al testo di Umiltà i curatori hannofatto seguire un gran numero di sche-de dedicate a personaggi e situazionicoloniali in genere successivi al 1887(Appendice A, pp. 431-606): un’occa-

sione, dopo il testo tradotto, per co-noscere gli esploratori italiani e stra-nieri in Africa, alcuni dei quali ricor-rono nella narrazione. Seguono l’Ap-pendice B «L’Eritrea nel passato e nelpresente», pp. 607-652, ricchissimadi illustrazioni»; l’Indice delle illustra-zioni e dei nomi (personaggi e autori);l’Indice generale, comprendente 29capitoli, dal massacro di Dogali alleconsiderazioni finali di Umiltà sullanatura della colonizzazione di fineOttocento. Dopo aver riportato leposizioni contrastanti di molti autoried aver ricordato il costo in denari evite umane della guerrigliaantifrancese in Algeria, Umiltà ricor-da che «andando in Africa in nomedel diritto del più forte, gli Italianiimpareranno a loro spese che non ci sipuò scontrare impunemente con unpaese vecchio come l’Etiopia. LaAbissinia è un riccio che non si sa daquale parte prendere e quelli che co-noscono il paese dicono: “Non anda-te a cacciarvi in quel ginepraio”».

Parole profetiche, se vogliamo(Massimo Romandini).

MARCO LENCI, All’inferno e ritorno(storie di deportati tra Italia ed Eritreain epoca coloniale), Biblioteca FrancoSerantini Edizioni, Pisa 2004, pp.143 (Biblioteca di cultura storica, 25)

Il volume si compone di tre con-tributi, più precisamente «Deportatieritrei in Italia (1886-1893)», «Unintellettuale eritreo al confino fasci-sta», «Deportati italiani in Eritrea: la

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colonia dei coatti di Assab (1898-1899)», nonche di appendici, glossa-rio, fonti archivistiche e indice deinomi.

L’autore, studioso di storia delprimo colonialismo italiano e do-cente di Storia dell’ Africa presso laFacoltà di lettere dell’Università diPisa, si è interessato questa voltaanche ad una vicenda (quella cheoccupa il capitolo secondo) di epocafascista. Il risultato è un volume digrande interesse su un argomentofinora non affrontato o, se affrontatoin qualche sede specialistica, noncerto per l’Eritrea, la «colonia primo-genita» della controversa esperienzacoloniale italiana. Lenci ha raccoltoun’ampia documentazione sul pro-blema della deportazione e della re-pressione tra Italia ed Eritrea chequasi si incrociavano in quel partico-lare momento storico: da un parte, idissidenti eritrei fatti affluire in Italiatra il 1886 e il 1893 in condizioniprecarie, spesso senza essere statineanche condannati, diversamentedestinati a seconda della loro condi-zione di militari (ascari) o civili, sem-pre comunque in contesti difficili etalora anche disumani; dall’altra, nelbiennio 1898-1899, quindi subitodopo il disastro di Adua e all’iniziodel governatorato civile diFerdinando Martini in Eritrea, uncerto numero di deportati italiani fuspedito nella colonia penale di Assabche, per svariate ragioni a cominciare

dalle climatiche, non era il luogo piùadatto per accoglierli. L’avventatascelta di Assab veniva dopo lunghediscussioni sull’argomento fin dal-l’indomani dell’Unità: come altrenazioni, seppure di ben altro pesopolitico, anche l’Italia aveva cercatodi dotarsi di un luogo oltremare doverelegare detenuti pericolosi, addirit-tura prima di possedere una colonia.Si trattò di un esperimento unico diutilizzazione penitenziaria di un ter-ritorio coloniale italiano tra difficol-tà politiche e sanitarie gravissime. Vifurono numerosi decessi prima dellaconclusione di questa fallimentareesperienza di cui è traccia anche nellepagine del Diario Eritreo delMartini, che tirò un respiro di sollie-vo, quando si procedette finalmenteal rimpatrio di coatti e custodi.

Il capitolo secondo è riservato daLenci alla storia di IsahacMenghistu, il giovane intellettualeeritreo, chiamato il «moro» daicompagni, iscritto alla Facoltà diIngegneria dell’Università diRoma, condannato nel 1936 alconfino dalle autorità fasciste. Fuquesto solo l’inizio di un lungo pe-riodo di sofferenze per questo inte-ressante personaggio ormai dimen-ticato a cui Lenci ha voluto dedicarela sua attenzione, con passione diuomo oltre che di ricercatore. Inappendice al volume Lenci riportadue importanti testimonianze delfratello e della sorella dello sfortuna-

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to studente che si è procurato inoccasione di un viaggio di studio inEritrea. Ne è derivato, tra il contri-buto e le testimonianze familiari, unquadro vivo e completo di un uomoindomabile che ebbe il coraggio, nelmomento di massima esaltazione delfascismo, di esprimere a chiare lette-re il suo totale dissenso. Lenci ne haricostruito la storia fino alla morte

nel 1995, ricordando episodi impor-tanti della sua vita e l’amicizia conSandro Pertini, uno dei suoi libera-tori dopo la caduta del fascismo,incontrato poi nel 1980 alQuirinale, quando Menghistu rimi-se piede in Italia trentacinque annidopo la fine della sua tragica espe-rienza di antifascista recluso (Massi-mo Romandini).

Il colonialismo e l’Africa. L’operastoriografica di Carlo Giglio, a curadi Giampaolo Calchi Novati,Carocci, Roma 2004, pp. 134

Il volume raccoglie i contributiportati da diversi studiosi ad unconvegno che si è tenuto presso laFacoltà di scienze politichedell’Università pavese nel dicembre2001 e incentrato sulla figura e sugliscritti di Carlo Giglio, che nellostesso ateneo aveva insegnato dal1950 al 1976, anno della sua morte,quando copriva la cattedra di Storiae istituzioni dei paesi afro-asiatici,presentato a ragione da PasqualeScaramozzino in apertura comeuno dei maggiori studiosi italianidell’Africa.

In quegli anni Giglio aveva fattodel proprio istituto un centro didocumentazione di storia africanaunico nel proprio genere, che

comprendeva oltre alle collezioniclassiche di esplorazioni e di viaggie alle raccolte di atti ufficiali deinuovi stati africani, i documentidelle Nazioni Unite relativi almedesimo continente e uncentinaio di riviste specializzate nelsettore.

Tra gli altri il curatore del libroGiampaolo Calchi Novati analizza laproduzione dello studioso relativa alperiodo coloniale e al successivoprocesso di decolonizzazione,analizzando pregi e limitidell’approccio di uno storico coevoagli eventi analizzati che, adottando unatteggiamento critico nei confrontidella produzione crociana e di quellamarxista, si sforza di lasciar parlare idocumenti e di non forzarli ad unapropria interpretazione. Sul tema dellefonti torna Marco Mozzati indicandonell’attenzione per queste il maggiorlascito dell’opera di Giglio. Bahru

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Zewde si ferma sui limiti della suavalutazione del trattato di Addis Abebadel 1896. All’attenzione e alla curiositàdi Giglio per l’area musulmana nelMediterraneo orientale, che traspareda opere minori e articoli diversi,circoscrive il proprio interventoFederico Cresti.

Ne esce una lettura che parlando diuno storico che per la sua formazioneculturale e politica era rimasto fermoalla personale convinzione di unapporto positivo offerto dallacolonizzazione europea ai paesi

africani sposta via via l’attenzioneall’evoluzione successiva degli studidell’Africa e del colonialismo. CalchiNovati, chiosando alcune valutazionidi Giglio sul colonialismo africano, allaluce del disastro dell’Africa di questinostri anni commenta come Giglionon fosse mai arrivato a comprenderecome «disgraziatamente quelli chevenivano vantati come “buoni” daspendere sul mercato del progressoerano proprio gli impedimenti da cui ipaesi africani non si sarebbero piùliberati del tutto» (Severina Fontana).

VITTORIO EMILIANI, L’enigmadi Urbino. La città scomparsa, NinoAragno Editore, Torino 2004

Vittorio Emiliani torna conquesto nuovo libro alla città nellaquale ha vissuto la sua infanzia e in cuisono rimasti suoi familiari, Urbino, lastessa città nella quale negli annisessanta dell’Ottocento era cresciutoGiovanni Pascoli e in anni più viciniPaolo Volponi. Il primo diceva essereUrbino «il luogo natìo della miaanima» «dove vorrei tornare ungiorno, in devoto pellegrinaggio, soloe sconosciuto, adorando epiangendo», Volponi incideva neisuoi versi «l’immagine di Urbino/cheio non posso fuggire/la sua crudelefesta/quieta fra le mie ire».

Vittorio Emiliani vi aveva giàambientato Le mura di Urbino, unromanzo di storia e memoria. Dinuovo in questo secondo libro simuove fra passato e presente.Consapevole di avvolgere i luoghidella propria infanzia del velo delmito e di ficcarsi, nello sforzo dicercare le ragioni dei cambiamenti,in un «doloroso, frustrante, spinosoginepraio psicologico» nonrinuncia a denunciare le condizionidella città di oggi «svuotata e comescomparsa, una città fantasma dellaquale sembra a volte restare unasorta di guscio spendidamentevuoto. Caso-limite o, piùprobabilmente, paradigma deinostri centri storici più belli ecivili». Quel che è accaduto a

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Urbino è infatti quel che accadeoggi in tutte le città italiane, losvuotamento del centro storico deisuoi vecchi inquilini, la perditadella propria anima, l’occupazionedelle case da parte di uffici e banchee, quando questo accade, l’arrivo diflussi turistici disordinatamenteorganizzati.

Seguendo la traccia dei ricordipersonali l’autore traccia la storia delcambiamento avvenuto fino a risalireall’inizio del processo di sfibramentodella precedente vita comunitarianegli anni del dopoguerra, altrasferimento delle prime famiglienelle case popolari costruite fuorimura e alla successiva emigrazione. AUrbino mancava infatti un tessutoindustriale che offrisse opportunità dilavoro. Unica risorsa rimaneval’Università che con il rettorato diCarlo Bo s’ingrandiva notevolmente,ma che cominciava ad occupare viavia i palazzi nobili del centro con ipropri istituti. Nel giro di qualcheanno l’Università a poco a poco simangiava la città. L’intero centrodiventava un campus universitario e

gli urbinati rimasti degli affittacamere.La popolazione tornava ai 15.000abitanti che la città contava ai tempidell’Unità d’Italia. Seguiva lasoppressione di ben quattro dellecinque parrocchie del centro.

In questo modo il muoversi diEmiliani fra i sedimenti della memoriagli consente di disegnare un volumericco di suggestioni spendibili sulfronte della storia degli anni recenti delnostro paese, quando abbiamoassistito all’inversione di un lungociclo, durato secoli, che parallelamenteallo sviluppo dei ceti borghesi avevavisto le nostre città trainare il processodi modernizzazione del paese edesercitare sulla popolazione rurale unpotere di attrazione che ha avuto il suomassimo esponente, ma anche il suopunto d’arrivo, negli anni del boom.Nello spaesamento di Emiliani gliinterrogativi di molti e il desiderio dicapire dei più, ma anche un manifestocontro le tendenze del periodo attuale«nel quale non si vuole avere memoriae si tende ad uccidere anche la storia»(Severina Fontana).

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notizie sugli autori di questo numero

MASSIMO BONFANTINI - Professore associato di Semiotica nel Politecnico diMilano. Dal 1972 al 1987 ha lavorato come ricercatore con Umberto Eco alDAMS di Bologna. Dal 1987 al 1995 ha insegnato Semiologia nell’IstitutoUniversitario Orientale di Napoli. Fra i suoi numerosi libri, La semiosi el’abduzione (1987), Breve Corso di Semiotica (2000) e la cura delle Opere diPeirce (2003). È componente del Comitato scientifico dell’Istituto storico dellaResistenza P. Fornara di Novara, presidente dell’Associazione per la memoriadi Mario Bonfantini e della Fondazione Sergio Bonfantini.

GIAN MARIO BRAVO - Preside della facoltà di Scienze Politiche dell’Universitàdi Torino e presidente della Fondazione di studi Luigi Firpo, da anni studia lastoria del pensiero socialista e del marxismo.

RICCARDO CAPPELLI - Dottore in Scienze Politiche presso l’Universitàdi Firenze, ha pubblicato diversi saggi e articoli su questioni strategico-militari.

UMBERTO CHIARAMONTE - Ispettore del MIUR per il settore storico dellescienze sociali, è autore di saggi e volumi di storia contemporanea, tra i qualiIl municipalismo di Luigi Sturzo, Morcelliana, Brescia 1992; Il dibattito sulleautonomie nella storia d’Italia, Franco Angeli, Milano 1998; Arturo Vella e ilsocialismo massimalista, Lacaita, Manduria 2001 e Luigi Sturzo nell’ANCI,Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.

CRISTIAN COLLINA - Laureato all’Università Orientale di Napoli e dottorandodi ricerca a Torino, sta conducendo studi sulla storia dei paesi dell’ex Urss e inparticolare sulla Russia.

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FEDERICO CRESTI - Ordinario di Storia e Istituzioni dell’Africa all’Universitàdi Catania. Tra i suoi principali temi di ricerca sono la storia del Maghreb inetà ottomana, la società e storia urbana del mondo islamico mediterraneo e lacolonizzazione agraria in Libia.

ANGELO DEL BOCA - Da quarant’anni si occupa di storia del colonialismo e deiproblemi dell’Africa d’oggi. Fra i suoi ultimi libri: Gheddafi. Una sfida daldeserto, Laterza, 1998; Un testimone scomodo, Grossi, 2000; La disfatta di Gasrbu Hàdi, Mondadori, 2004.

EDGARDO FERRARI - Ex sindaco di Domodossola, da anni cura la rivista«Almanacco storico ossolano».

RENZO FIAMMETTI - Collaboratore dell’Istituto storico della Resistenza P.Fornara di Novara. Tra le sue pubblicazioni L’Ovest Ticino dalla prima guerramondiale alla Liberazione, Interlinea, Novara 1997 e 25 aprile. Storia, mito,immagini della festa della Liberazione a Prato Sesia, Lampi di Stampa, Milano2005.

SEVERINA FONTANA -Insegnante di scuola superiore, si è occupata di storiadell’associazionismo economico e politico tra Otto e Novecento. Tra le altrepubblicazioni ha curato La Federconsorzi tra Stato liberale e fascismo, Laterza,Roma-Bari 1995.

NICOLA LABANCA - Docente di storia contemporanea all’Università di Siena,si occupa di storia del colonialismo italiano. Tra i suoi studi più recenti è Postial sole. Diari e memorie di vita e di lavoro dall’Africa Italiana, Rovereto 2001.Insieme a Angelo Del Boca, per gli Editori Riuniti, ha curato L’Impero africanodel fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, Roma 2002.

MARCO LENCI - Docente all’Università di Pisa, ha pubblicato volumi suirapporti tra l’Italia e il Maghreb barbaresco in età moderna. Attualmente sioccupa di storia del colonialismo italiano in Eritrea.

GIORGIO NOVELLO - Diplomatico di carriera, ha studiato giurisprudenza aPadova, scienze politiche all’École Nationale d’Administration di Parigi estoria economica alla London School of Economics. Professionalmente si è

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occupato di integrazione europea e ha prestato servizio a Lagos, Londra, Bonne Berlino. Attualmente è Rappresentante Permanente aggiunto d’Italia pressol’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa a Vienna.

FELICE POZZO - Studioso di Emilio Salgari e di storia delle esplorazioni, hapubblicato su questi argomenti articoli e saggi in riviste specializzate. Delleopere del romanziere veronese ha anche curato diverse edizioni.

MASSIMO ROMANDINI - Docente di scuola media, dal 1969 al 1975 hainsegnato in Etiopia alle dipendenze del ministero degli Esteri. Ha pubblicatomolti manuali di didattica, fra i quali citiamo l’edizione commentata de Ipromessi sposi, Mandese, 1983.

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Il Centro Studi Piero Ginocchi di Crodo è un’associazione di volontari conpersonalità giuridica riconosciuta dalla Regione Piemonte e opera sul territoriodal 1986, senza fini di lucro. Ha lo scopo di promuovere, coordinare edisciplinare le attività di carattere culturale, studio e ricerca scientifica, al finedi sollecitare la partecipazione popolare, l’impegno civile e sociale dei cittadini.

Le principali attività consistono nella gestione e valorizzazione delleseguenti proprietà: la biblioteca “Vittorio Resta”, Il Museo di Scienze dellaTerra “Ubaldo Baroli”, Il Museo Mineralogico “Aldo Roggiani”, il Museo dellaAcque Minerali “Carlo Brazzorotto”, l’archivio fotografico “Scriba”. Cural’Archivio Storico del Comune di Crodo e diffonde ricerche e studi attraversoil ramo editoriale dell’istituto.

Tra i principali volumi pubblicati: L’oro della Valle Antigorio. Le acqueminerali di Crodo fra realtà e leggenda, a cura di Angelo Del Boca, 1993; LePoesie, 1912 - 1949, di Vittorio D’Avino, a cura di Giuseppe Cobianchi, 1994;Una vita tante scalate, di Giovanni Rapetti, 1995; Il bambino del fiume, di AnnaMencarelli, 1999; I compagni di Sant’Antonio in Roma e Bologna. Le societàlaicali degli emigrati dalla Valle Antigorio e Formazza, a cura di Edgardo Ferrari,2000; Crodo e la Grande Guerra, di Angelo Del Boca, 2001; Mons. Leone Ossola,il Vescovo che salvò Novara, di Gaudenzio Barbè, 2002; L’occhio del maestro, diAngelo Del Boca, 2003; Della territorialità e della proprietà dell’Alpe Cravariola,di Francesco Scaciga della Silva, a cura di Edgardo Ferrari, 2004; La Repubblicapartigiana dell’Ossola, a cura di Angelo Del Boca, 2004; Memoria sullecondizioni dell’agricoltura e della classe agricola nel circondario dell’Ossola, diStefano Calpini, a cura di Edgardo Ferrari, 2005.