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Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore RETORICA, ERUDIZIONE, RETORICA, ERUDIZIONE, FILOSOFIA FILOSOFIA La filosofia morale e naturale di Seneca Lo stoicismo fino al II secolo d.C. La Institutio oratoria di Quintiliano Il Dialogus de oratoribus Il Panegyricus Traiano imperatori di Plinio il Giovane Il tramonto dell’eloquenza latina Neosofistica e arcaismo: Frontone Le Noctes Atticae di Gellio Neosofistica e oratoria: Apuleio

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Page 1: RETORICA, ERUDIZIONE, FILOSOFIA - edu.lascuola.it · La filosofia morale e naturale di Seneca 456 Retorica, erudizione, filosofia A LTO I MPERO Le origini La formazione L’avvio

Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore

RETORICA, ERUDIZIONE, RETORICA, ERUDIZIONE, FILOSOFIAFILOSOFIA

La filosofia morale e naturale di Seneca

Lo stoicismo fino al II secolo d.C.

La Institutio oratoria di Quintiliano

Il Dialogus de oratoribus

Il Panegyricus Traiano imperatori di Plinio il Giovane

Il tramonto dell ’eloquenza latina

Neosofistica e arcaismo: Frontone

Le Noctes Atticae di Gellio

Neosofistica e oratoria: Apuleio

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La vitaLucio Anneo Seneca nacque a Còrdova, in Spagna, intorno al 5 a.C. Era di fami-glia ricchissima d’estrazione equestre. Il padre era M. Anneo Seneca il Retore e lamadre, Elvia, era donna di profonda cultura. A Roma Seneca ricevette un’ottima educazione sia retorica sia filosofica. Seguì lelezioni dello stoico Attalo, del neopitagorico Sozione e di Papirio Fabiano aderentealla setta dei Sestii che prescriveva il vegetarismo, l’ascesi, l’isolamento dalla vitapolitica e mondana in vista della libertà interiore. In seguito si recò in Egitto forseper sfuggire alle persecuzioni ordinate da Tiberio nel 19 d.C., contro i seguaci dipratiche ascetiche e straniere, vegetarismo incluso.Ritornato a Roma dopo tre anni, iniziò la carriera politica e forense nella quale sidistinse come brillante oratore. Il giovane provinciale entrò nell’ordine senatorio, ri-coprì anche la questura. Ma un suo discorso in senato offese Caligola, chel’avrebbe messo a morte se una donna potente a corte non avesse convintol’imperatore che Seneca sarebbe morto presto comunque, malato com’era.Sotto Claudio nel 41 fu relegato in Corsica, accusato di adulterio con Giulia Livilla,sorella di Caligola e rivale di Messalina, moglie dell’imperatore. In Corsica Senecarimase otto anni, durante i quali ebbe modo di mettere in pratica i precetti stoici se-condo i quali il bene del saggio non dipende dai luoghi, ma dall’equilibrio interiore.Di questi anni è la Consolatio ad Polybium, dedicata al potente liberto imperialePolibio per consolarlo della morte del fratello, ma soprattutto per ottenere con adu-lazioni smaccate la revoca dell’esilio.Caduta in disgrazia Messalina, la nuova imperatrice Agrippina fece tornare Sene-ca, per affidargli l’educazione del proprio figlio di primo letto, Nerone. Eral’occasione per realizzare il sogno platonico di uno stato perfetto, illuminato dallasapienza filosofica, fondato sull’umanità, la filantropia, la clemenza. Morto Claudionel 54, effettivamente Seneca, di comune accordo col prefetto del pretorio Burro,per cinque anni regnò in luogo del principe. Secondo il programma senecano l’imperatore sarebbe dovuto apparire un modellodi virtù, un buon padre in grado di condurre alla felicità i sudditi, in una ritornata etàdell’oro. Di Nerone cercò di temperare l’enorme vanità prospettandogli la gloria de-rivante da un governo moderato, rispettoso delle prerogative tradizionali dell’aristo-crazia senatoria. Anche se – come leggiamo nel De clementia, dedicato a Neronee «manifesto del nuovo regime» – queste prerogative non avevano più fondamentocostituzionale, ma erano da Seneca stesso viste come benigna concessione del-l’imperatore. Ma il sogno di trasformare il principe nel re-filosofo auspicato da Platone non urta-va solo contro il corso della storia e contro la natura di Nerone, che di lì a poco

La filosofia morale e naturale di Seneca

456 Retorica, erudizione, filosofiaAL

TOIM

PERO

Le origini

La formazione

L’avvio alla carriera politica

L’esilio in Corsica

Il ritorno dalla Corsica

La monarchia illuminata

Il contrasto tra dottrina e vita

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avrebbe rivelato il suo volto illiberale e dispotico, attuando una politica antisenato-ria e autocratica. Urtava anche contro l’incapacità di Seneca stesso di vivere coeren-temente coi precetti enunciati. E questa incoerenza lo rendeva poco credibile agliocchi dei detrattori, che gli rimproveravano non a torto l’avarizia, l’ambizione e fi-nanche l’usura. Inoltre la necessità di preservare l’imperatore dagli intrighi dinasticiimponeva che Seneca stesso avesse parte in delitti che non potevano non ripugna-re alla sua coscienza morale e filosofica. Così lasciò che Nerone uccidesse il fra-tellastro Britannico (55 d.C.) e finanche la madre Agrippina (59 d.C.). Sul piano filosofico ed esistenziale il bilancio di quei cinque anni di reggenza nondoveva risultare positivo per Seneca. Alla morte (nel 62 d.C.) dell’alleato Burro, eglinon fu più disponibile ad avallare la politica antisenatoria e assolutistica di Neronee si ritirò allo studio e alla vita contemplativa, attendendo alla composizione dellesue opere. Ma la politica lo raggiunse anche in quest’isolamento: nel 65 d.C. il principe lo ac-cusò – non si sa con quale fondamento – di fare parte della congiura dei Pisoni egli inviò l’ordine di tagliarsi le vene. Con grande dignità Seneca affrontò quella morte alla quale si era lungamente pre-parato nella riflessione di un’intera vita.

Le opereLe opere filosofiche furono riunite, dopo la morte di Seneca, nei 12 libri di Dialogi(titolo che ricalca il greco diatribài ovvero dialèxeis), trattati brevi d’argomento eticoe psicologico: 1. Ad Lucilium de providentia; 2. Ad Serenum de constantia sapien-tis; 3-5. Ad Novatum de ira libri III; 6. Ad Marciam de consolatione; 7. Ad Gallionemde vita beata; 8. Ad Serenum de otio; 9. Ad Serenum de tranquillitate animi; 10. AdPaulinum de brevitate vitae; 11. Ad Polybium de consolatione; 12. Ad Helviam ma-trem de consolatione. Altre opere di argomento filosofico, tramandate separatamente dai Dialogi sono: ilDe beneficiis, il De clementia dedicato a Nerone (in tre libri di cui restano il primo el’inizio del secondo), e le 124 Epistulae morales ad Lucilium riunite in 20 libri. Sono opere di carattere scientifico le Naturales quaestiones (in 7 libri, forse in ori-gine 8), dedicate a Lucilio. Ecco gli argomenti: 1. I fuochi celesti; 2. I tuoni, i fulmini,i lampi; 3. Le acque terrestri; 4. La piena del Nilo, le nubi; 5. I venti; 6. Il terremoto;7. Le comete.Ci sono pervenute nove tragedie di argomento greco, tramandate in quest’ordine(nel manoscritto Etruscus della Biblioteca Laurenziana): Hercules furens, Tròa-des, Phoenissae, Medèa, Phaedra, Oèdipus, Agamemnon, Thyestes, HerculesOetaeus. Un altro gruppo di manoscritti conserva una decima tragedia, l’Octavia,di argomento romano, una praetexta probabilmente opera di un imitatore (vedi p.528).A parte va considerata l’operetta mista di prosa e versi che reca il titolo di Ludusde morte Claudii (o Apokolokyntosis, cioè «inzuccatura» o «apoteosi di un zucco-ne»), feroce parodia del processo di beatificazione del defunto imperatore. Fuscritta nel 54, subito dopo la morte di Claudio, e inscenata a corte col consenso diAgrippina.Di dubbia attribuzione sono gli Epigrammi. Svariate le opere perdute (soprattutto fi-losofiche, riguardanti il matrimonio, l’amicizia, l’utilità della filosofia), ma anchequelle sicuramente spurie.

La filosofia morale e naturale di Seneca 457

Il ritiro dalla politica

La morte per ordine di Nerone

Opere filosofiche

Opere di carattere scientifico

Dieci tragedie

La Apokolokyntosis

Epigrammi e opere perdute

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I DialogiI dieci Dialogi (in dodici libri: nove di un libro, il De ira di tre) furono scritti duran-te l’arco di vita che va dal regno di Caligola alla morte dell’autore. Nonostante iltitolo – dovuto al fatto che il dialogo era stato il genere tipico della letteratura fi-losofica – non hanno forma dialogica come quelli di Platone, ma sono una rifles-sione continuata, con rari interventi del dedicatario o di un interlocutore anoni-mo. Per la vivacità espressiva e l’informalità di registro risentono piuttosto del-l’influenza della diàtriba stoico-cinica. In quanto non riflettono una precisa lineadi sviluppo della speculazione filosofica senecana, non si possono datare concertezza.Attorno al 40 d.C. può collocarsi la Consolatio ad Marciam, indirizzata alla figlia diCremuzio Cordo per consolarla della morte di un figlio. È il pretesto per esaltare lanobile figura di Cremuzio, storico delle guerre civili. Il genere della consolatio, diffusoin Grecia e a Roma, implica l’adozione di temi (l’effimero dell’esistenza, l’ineluttabilitàdella morte, la morte come passaggio a una vita migliore, ecc.) che costituiranno ilnucleo della meditazione etico-filosofica di tutta la produzione di Seneca. Della Consolatio ad Polybium e delle indecorose adulazioni per ottenere la revocadell’esilio, abbiamo già riferito nella «Vita». Si trattò di una caduta del filosofo, ilquale peraltro aveva altrove espresso la convinzione che il saggio «sa comprareciò che è posto in vendita» e, se per entrare in una porta deve dare una mancia,la darà. Con la Consolatio ad Helviam matrem, scritta forse nel 42 ai tempi della relegazio-ne in Corsica, Seneca cerca di convincere la madre che l’esilio non è motivod’infelicità per il saggio, è solo una commutatio loci. La esorta a ritrovare la sereni-tà accanto ai familiari, in particolare al nipotino Marco.I tre libri del De ira, dedicati al fratello Novato, sono una «fenomenologia dellepassioni umane» (Conte) descritte nella natura e nei meccanismi generativi. Ditali passioni – e specialmente dell’ira, studiata attraverso esempi storici e consi-derata una «malattia sociale» – si prescrivono i modi per arginarle, sedarle,prevenirle. Il trattato fu scritto subito dopo la morte di Caligola, che nell’opera èpresentato come belva assetata di sangue, facile vittima della funesta passionedell’ira.Sempre a Novato, quando già aveva mutato il nome in quello di Gallione dopol’adozione da parte di Giunio Gallione, è dedicato anche il De vita beata, che affron-ta il tema della felicità, soprattutto in rapporto alle ricchezze: un tema scottante, cheil filosofo arcimilionario trattava anche nell’intento di confutare quanti (secondo Taci-to) lo accusavano di vivere in modo difforme dai precetti stoici enunciati. Premessoche la virtù, e non la ricchezza, è il fondamento della felicità, Seneca afferma chenemo sapientiam paupertate damnavit, «nessuno ha mai condannato la sapienzaalla povertà». Ciò che conta per il saggio non è di non possedere ricchezze, ma dinon essere posseduto da esse. E poi egli non pretende di essere un saggio, ma unoche cura i mali del proprio animo mediante la filosofia. Del resto l’accusa di incoe-renza rispetto ai principi filosofici fu rivolta anche a illustri filosofi del passato:

Parli in un modo, tu mi dici, e vivi in un altro. Queste accuse… furono ri-volte a Platone, a Epicuro, a Zenone. Tutti questi filosofi, infatti, parlavanonon come vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Io non parlo di me,ma della virtù, e se condanno i vizi, condanno innanzi tutto i miei. Quandone sarò capace, vivrò secondo virtù.

458 Retorica, erudizione, filosofiaAL

TOIM

PERO

Il genere

Le Consolationes

Il De ira

Il De vita beata: il saggio e la ricchezza

18, 1; trad. di G. Garbarino

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Anche i tre dialoghi De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi – il cuicomune dedicatario è Sereno, un amico epicureo convertitosi allo stoicismo e chesi rivolge a Seneca per essere guarito dai mali dell’anima – trattano dei temi, carialla filosofia ellenistica, dell’autonomia del saggio e del contrasto tra vita attiva e vi-ta contemplativa. Nel De constantia è affermato in sintonia con la dottrina stoica, qui presentata an-che negli aspetti più paradossali, che il saggio, in quanto possiede la virtù, non puòricevere offesa da parte degli uomini. Il De tranquillitate animi, scritto ai tempi della collaborazione con Nerone, analizzail rapporto tra saggio e politica. Al giovane interlocutore, combattuto tra il dovere diuna vita impegnata al servizio degli altri e gli allettamenti dell’otium, Seneca pro-spetta il comportamento flessibile del saggio che di volta in volta, in relazione allasituazione, decide di scendere nell’agone politico o di rifugiarsi nel sicuro porto del-la contemplazione. Nel De otio, scritto probabilmente dopo il ritiro coatto dalla politica, manca lo sforzodi conciliazione tra le esigenze antitetiche dell’otium e quelle dell’impegno civile. Lapreferenza è accordata alla difesa della vita contemplativa, che frutta la serenitàdell’animo. Forse agli anni tra il 49 e il 52 risale la stesura del De brevitate vitae, che affron-ta il tema della durata della vita. Questa è lunga per chi sa come impiegarla (vita,si uti scias, longa est, 2, 1) mentre è brevissima (fluit et praecipitatur, 10, 6) perchi sciupa il tempo inseguendo vane chimere, come gli occupati oziosi rappre-sentati in una grottesca rassegna caricaturale. C’è chi passa il tempo dal parruc-chiere a imbellettarsi, chi allestisce sempre banchetti, chi canta tutto il giornocanzonette di moda, chi colleziona statue. La polemica contro gli indaffarati sen-za costrutto, che combattono quotidianamente la noia della vita inutile ripetendocon «automatismo burattinesco» (Perelli) atti insensati, oppone nettamente ilsaggio agli occupati. Fu scritto forse negli ultimi anni il De providentia, che dibatte l’apparente contraddi-zione tra il provvidenzialismo stoico e il fatto che quasi sempre la sorte sembra pu-nire i virtuosi e premiare i malvagi. In realtà, dice Seneca, Giove vuole mettere allaprova il saggio perché egli tenga in esercizio e rafforzi la propria virtù. Le sventuresono pertanto un segno della Provvidenza, che sa distinguere i saggi e, creandoostacoli, consente loro di perfezionarsi.

Politica e morale: il De clementia e il De beneficiisFuori della raccolta dei Dialogi ci sono giunti altri due trattati: Il De clementia e il Debeneficiis.Il De clementia, dedicato al giovane Nerone, tratta delle virtù del principe ideale. Èil «manifesto della teoria politica», a cui Seneca si atterrà nella conduzione dellostato in nome di Nerone (Stupazzini). La struttura monarchica è fuori discussione in quanto, secondo la concezione stoi-ca, uniforma l’ordine sociale all’ordine razionale dell’universo. La positività dellamonarchia dipende solo dal principe, che può essere o non essere virtuoso. Parteessenziale della sua virtù è la clementia, cioè l’atteggiamento di generale benevo-lenza verso i sudditi.Evidentemente si tratta di una teoria paternalistica, in quanto legata alla buonadisposizione di chi esercita il potere. Dipende solo dal principe – e in misura mino-

La filosofia morale e naturale di Seneca 459

Il De constantia sapientis,il De otio, il De tranquillitate animi

Il De brevitate vitae

Il De providentia

Il De clementia

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re, da chi presiede alla sua formazione filosofica e morale – che egli concepisca lapropria funzione come una «nobile servitù», un sacrificio (onus) cui egli si sottopo-ne per il bene della collettività. I sette libri del De beneficiis, terminati nel 64, trattano del legame tra beneficato ebenefattore, «il legame che più tiene coesa la società umana» (1, 4, 2). Chi è piùfortunato deve aiutare chi lo è meno. Rivolgendosi soprattutto agli esponenti dellasua stessa classe sociale, senatori e grandi ricchi, Seneca afferma il dovere dellabeneficenza in nome di una comune dignità umana che ogni uomo possiede, an-che se schiavo. È poi degno di nota che gli schiavi possano essi stessi divenire be-nefattori dei liberi (Pennaccini).Si tratta di una «teoria della generosità» – sulla tradizione di analoghe elaborazionidi autori greci (Pitagora, Crisippo) e del De officiis ciceroniano – che, in quanto mi-ra anche a prevenire conflitti sociali, ha una sua rilevanza politica. Al di là della por-tata ideale e utopica, il De beneficiis è di fatto un corollario della teoria della cle-mentia.

Le Epistulae ad LuciliumL’opera maggiore e più celebre di Seneca è rappresentata dai 20 libri delle 124Epistulae morales ad Lucilium, scritte dopo il ritiro dalla politica, pochi anni primadella morte. La raccolta è forse incompleta. Sebbene il destinatario, Lucilio, sia unpersonaggio reale (si tratta di un funzionario imperiale, intellettuale e amico di Se-neca, di cui è un po’ più giovane), alcuni studiosi dubitano che sia realmente inter-corso uno scambio epistolare. Le lettere, assai varie per estensione (talune della dimensione di un trattato), fon-dano un genere nuovo, adatto a rendere il pensiero senecano, asistematico e incli-ne a trattare separatamente singoli temi etici (Conte). Un antecedente latino eranostate le Epistole di Orazio, che pure si proponevano come il genere più adatto a chisente l’esigenza della filosofia intesa come ricerca morale, come quotidiana praticadi saggezza. E certo con le epistole oraziane quelle di Seneca hanno in comune ilfatto d’essere destinate alla pubblicazione, la varietà e l’occasionalità dei temi, il le-game stretto tra filosofia e vita vissuta, l’atteggiamento umile di chi non s’impancaa maestro ma parla sottovoce (submissiora verba, 38, 1) considerando sé stessobisognoso di perfezionamento non meno del destinatario. Anche il tono colloquiale,il registro informale, lo stile non elaborato e semplice (inlaboratus et facilis, 75, 1-2), adatto alla conversazione tra amici, fanno pensare ai sermones oraziani.Ma il modello delle Epistulae ad Lucilium era piuttosto Epicuro, che istituiva coi di-scepoli un rapporto pedagogico e di direzione spirituale omologo a quello che Se-neca stabilisce con Lucilio. Nel carattere filosofico, nell’essere veicolo di consigliutili alla salute dello spirito, sta appunto la specificità delle lettere di Seneca, la loronovità rispetto alla produzione epistolare precedente:

Gli antichi avevano l’abitudine, ancora in atto, di aggiungere alle prime pa-role della lettera: “se stai bene sono contento, io sto bene”. Meglio, noi di-ciamo: “se ti dedichi alla filosofia sono contento, io sto bene”. Stare beneinfatti, in definitiva, è questo. Senza questo l’animo soffre.

In questa critica dell’epistolografia precedente, considerata futile e superficiale,era coinvolto anche l’epistolario ciceroniano, troppo legato alla cronaca e all’at-tualità spicciola e privata, lontano da un modello di scrittura volta a sondarel’interiorità:

460 Retorica, erudizione, filosofiaAL

TOIM

PERO

Il De beneficiis

Un epistolario fittizio?

Il genere

Il modello di Epicuro

La polemica contro Cicerone

Ep. 15

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Non farò certo quello che Cicerone … chiede ad Attico di fare, esortando-lo, anche se non avrà notizie da dargli, a scrivergli qualunque cosa gli ver-rà in mente. … È meglio occuparsi dei propri mali che di quelli altrui, esa-minare a fondo se stessi e vedere quante ambizioni sbagliate noi abbiamo,e non assecondarle.

Intendiamoci: non è che nelle lettere di Seneca manchi il riferimento al privato. Anzi,ci sono pagine intense di rievocazione dell’adolescenza e dei maestri di quegli anniremoti, c’è il ricordo affettuoso del padre, ci sono espressioni di tenerezza per la gio-vane moglie Paolina. E neppure mancano i riferimenti alla quotidianità spicciola o ilresoconto dei fatti giornalieri. Ma da questi fatti, di per sé irrilevanti, l’autore sempretrae spunto per una profonda riflessione morale: così un accesso d’asma che l’hacolpito lo sospinge a meditare sulla morte, un soggiorno in una località balneare lus-suosa lo induce a riflettere su come i luoghi possano condizionare la virtù.Gli argomenti delle lettere sono assai vari, ma sempre riconducibili al nucleo es-senziale dell’etica stoica e della predicazione diatribica: l’autonomia del saggio,l’esortazione all’otium, il valore della virtù, il controllo delle passioni, la capacità disopportare le avversità, la serena accettazione della morte. La convinzione dell’u-guaglianza naturale di tutti gli uomini (inclusi gli schiavi, per i quali Seneca trovaparole di grande solidarietà umana) e il dovere di amare gli altri sono affermati conuna passione che trascende i limiti della filantropia stoica. Questa accentuazionedella componente umanitaria ha indotto taluni a parlare di una carità cristiana. Male analogie col cristianesimo si rivelano poco fondate, se si tiene conto del caratte-re fortemente aristocratico della filosofia di Seneca, il quale spesso dichiara il fasti-dio per la folla, il disprezzo per il volgo stolto, che si compiace dei turpi spettacolicircensi.Un motivo costantemente presente è quello della morte, vista non come oggetto dipaura o segno d’impotenza, ma come consolatoria liberazione, suprema afferma-zione della libertà del saggio, simbolo della sua indipendenza dalle cose: non su-mus in ullius potestate, cum mors in nostra potestate sit (91, 21). A Lucilio Senecaraccomanda: «Medita la morte: chi dice questo t’invita a meditare la libertà. Chi haimparato a morire ha disimparato ad essere servo» (26, 10). Nella quotidiana, alacre ricerca del bene, nel viaggio sulla via del perfezionamentointeriore Seneca oscilla pendolarmente tra l’esigenza di isolarsi e quella di comuni-care i risultati della propria riflessione spirituale agli altri, perché possano trarnevantaggio. Il fatto è che spesso la risposta a una domanda dell’interlocutore fungeanche da chiarimento per l’autore a se stesso, con moto a un tempo centrifugo ecentripeto, riflesso dalla polarità tipica del linguaggio senecano, teso tra «predica-zione» e «interiorità». Su questo punto ha scritto pagine illuminanti Alfonso Traina,che avverte in Seneca «il dramma di un uomo perennemente oscillante fra la cellae il pulpito», ovvero «il dramma della saggezza fra l’amore di sé e l’amore degli uo-mini». Ma questi due amori sono conciliabili, almeno sul piano ideale, anzi addirit-tura inscindibili: «bisogna che tu viva per gli altri, se vuoi vivere per te» (15, 3). Eanche l’isolamento per il saggio non è un atto di egoismo, ma un impegno per il be-ne dell’umanità, posteri inclusi:

Questo è lo scopo per cui mi sono ritirato ed ho chiuso le porte di casa: perpoter essere utile ad un maggior numero di persone … Mi sono isolato nontanto dagli uomini quanto dalle cose, e prima di tutto dalle cose mie. Oraagisco nell’interesse dei posteri. Scrivo qualcosa che possa recar loro aiuto.

La filosofia morale e naturale di Seneca 461

La quotidianità in funzionemorale

I contenuti

La riflessione sulla morte

«Fra la cella e il pulpito»

118, 1-3;trad. di G. Garbarino

8, 1-2; trad. di G. Garbarino

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Le Naturales quaestionesDedicati a Lucilio, i Naturalium quaestionum libri VII sono la sola opera scientificadi Seneca pervenutaci. Scritti negli ultimi anni di vita dopo il ritiro dalla politica (ilperiodo è confermato dagli accenni al terremoto di Pompei del 62 d.C.), tuttaviarappresentano una sistemazione di materiali raccolti nell’arco di una vita. Il trattato descrive i fenomeni atmosferici e celesti in una prospettiva dossografica,cioè di mera raccolta di opinioni altrui, senza alcuna originalità di ricerca. È il fruttodi un vasto lavoro di compilazione, durato probabilmente lunghi anni, risultante damanuali e repertori stoici (rilevante, l’influenza di Posidonio), ma anche epicurei eplatonici.L’opera vuole probabilmente fornire il supporto «fisico» al pensiero di Seneca, cioècostituire quello che era la «fisica» (una delle tre parti della filosofia, insieme allamorale e alla logica) nei sistemi filosofici antichi (Garbarino). Ma si tratta di una fisi-ca che – in piena coerenza con la visione stoica – appare fortemente subordinataalla morale. Infatti la conoscenza dei fenomeni naturali mira, come già era stato perLucrezio, a liberare gli uomini dai falsi timori, a soddisfare l’esigenza di sapere, ainsegnare loro il corretto impiego dei doni della natura.

462 Retorica, erudizione, filosofia

I contenuti e le fonti

La finalizzazione morale

Il busto dello «Pseudo-Seneca». La figura riporta la replica bronzea di un ritratto di ignoto personaggio greco, dettoconvenzionalmente «Pseudo-Seneca», da un ritratto noto in trentasei copie, creato intorno al 230 a.C. (Napoli, MuseoNazionale).

Alla corrente veristica dell’arte ellenistica, cui appartengono altre opere celeberrime comel’«Omero cieco» o il «Fanciullo a cavallo» di Capo Artemisio, va riferito anche il cosiddetto«Pseudo-Seneca», «un virtuosistico studio anatomico che si compiace di rendere l’estremo decadi-mento fisico, … il risalto delle vene, l’acuto affiorare delle ossa, … il gioco delle rughe» (G. Bec-catti).Riportiamo il commento di R.V. Schoder, uno storico dell’arte classica:

«Un tipico esempio dell’implacabile realismo che distingue le correnti della produzione ellenisticaè dato da questo sconcertante ritratto, che offre uno spettacolo di sgomento e di disperazione. Unvecchio sembra guardare terrorizzato l’avvicinarsi dellamorte, il vuoto che gli si prepara col decadimento del suofisico un tempo si vigoroso da fargli affrontare le batta-glie della vita con fiduciosa sicurezza. Perduta ogni spe-ranza, amareggiato dall’incapacità di vincere la morteinevitabile che presto lo avvolgerà nel suo manto, il vec-chio pagano fissa con occhi sgomenti il suo destino conuna intensità che rivela in lui il sopravvivere di qualcheenergia. È dubbio che sia mai stato raggiunto in arte unostudio più perfetto.Anche gli antichi ammiravano molto questo pezzo, affa-scinati dalla sua forza di espressione, poiché ben trenta-sei copie ne sopravvivono oggi, a dimostrare quanto essofosse apprezzato ai tempi di Roma. Una delle copie mi-gliori è certamente questa, trovata a Ercolano nella villadei Pisoni. È forse l’originale, dal quale furono tratte lecopie, ma se al contrario si tratta di una copia, essa hatali caratteri di maestria da far collocare il suo scultorefra i più abili, e modellato su una forma che ha colto ogniparticolare dell’originale. L’artista che per primo hascolpito questi tratti ci ha rivelato il logorio interno delpensiero, le qualità psicologiche che ha poi magistral-mente espresse nella materia. Il complesso della fisiono-

ALTO

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Lo stile di SenecaAlla gerarchia e alla simmetria del periodo ciceroniano – specchio di una realtà or-dinata, di un equilibrio politico e morale – si contrappone la sintassi di Seneca,asimmetrica, spezzata e convulsa, riflesso di un rapporto conflittuale col mondo:«è lo stile drammatico dell’anima umana che è in guerra con se stessa» (Marche-si), lacerata tra il bisogno d’interiorità e l’esigenza di predicazione, tra la ricercadella libertà dell’io e l’ansia di liberare l’umanità. Si tratta di una scrittura concitata,incalzante, nervosamente franta, che abolisce i rapporti di subordinazione confe-rendo alla singola frase il rilievo di una sentenza autonoma. Alla sentenza, appunto, luminosa e di pregnanza epigrammatica, tende dichiarata-mente Seneca: «I precetti hanno di per sé molto peso, soprattutto se … espressi inuna prosa che si condensi in sentenza» (prosa oratione in sententiam coartata, Ep.94). L’asistematicità che è propria del pensiero di Seneca caratterizza anche il suostile, frantumato, omologo alla problematicità e complessità del reale: uno stile che«con una sorta di tecnica “puntillistica” produce l’effetto di sfaccettare un’idea se-condo tutte le angolazioni possibili» (Conte). Di qui il giudizio spregiativo di Caligo-la, che definì la prosa senecana harenam sine calce («sabbia senza calce»), cioèun coacervo di parti giustapposte senza vera coesione. In realtà la calce c’è, però non sta nei nessi subordinanti, ma nelle equivalenze rit-miche e semantiche (parallelismi, antitesi, ripresa e variazione del motivo prece-dente, ecc.). L’antitesi è il procedimento di stile più ricorrente: in forma di ossimoro(inquietam inertiam, De tranq. 12, 2), con arguto concettismo (cum vitiis conviciumfacio, De vita beata 18, 1), con chiasmo (petita relinquimus, relicta repetimus, Deotio 1, 2). All’intenzione pedagogica e alla necessità di ribadire in modo martellantei precetti basilari si lega l’uso dell’anafora, che spesso scandisce la progressionedel discorso verso un punto cruciale: Hoc nempe ab homine exigitur: ut prosit homi-

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L’opposto della concinnitas ciceroniana

L’antitesi e l’anafora

«Sabbia senza calce»

mia è veramente interessante ma anche i particolari, presi singolarmente, hanno il loro significa-to, gli occhi smarriti, privi di speranza, le gote scavate, la barba incolta, le labbra cascanti e ilcollo flaccido, tutto contribuisce a creare quella espressione tesa, disperata di chi ha perduto ogniinteresse alla propria persona esteriore. Un bronzo che è un frammento di tormentata umanità.Fu questo un uomo veramente esistito? La risposta rimane incerta. Una vecchia teoria che ricono-sceva Seneca in questi tratti è del tutto tramontata, dato che si tratta di opera ellenistica assai pre-cedente a lui (Seneca fu maestro di Nerone). Qualcuno ha voluto vedervi raffigurato Ipponatte oArchiloco, Filemone, Aristofane, ma nessuna attribuzione è parsa convincente e la corona di allo-ro che si riscontra in talune copie non è necessariamente da attribuirsi alla qualità di poeta. Po-trebbe essere un filosofo, benché i più famosi siano facilmente identificabili e non abbiano alcunarassomiglianza con questo»1.

Riflessioni assai diverse faceva, di fronte a questo singolare busto, H. Melville, l’autore di MobyDick:

«Nel busto di Seneca, la cui filosofia potrebbe essere il cristianesimo stesso, salvo la sua autentici-tà, le cui espressioni destarono tanto stupore in uno degli antichi padri che egli pensò che avesseavuto contatto con S. Paolo, vediamo un volto che somiglia molto più a quello di un corrucciatousuraio, pieno di rughe e di pensieri. È la sua apparenza esatta, poiché è ben noto che egli eraavaro ed avido, e che s’occupava volentieri d’ipoteche e di prestiti, e che conduceva affari spre-giudicati anche per quei tempi. È ferreo e inflessibile e non sarebbe disdicevole neanche a unagente di Wall Street»2.1. R.V. Schoder, Capolavori di arte greca, Electa, Milano, 1963.2. H. Melville, Diario italiano, Opere Nuove, Roma, 1964.

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nibus, si fieri potest, multis; si minus, paucis; si minus, proximis; si minus, sibi, «Que-sto si esige dall’uomo: che giovi all’umanità, se è possibile; o almeno a molti; o al-meno a pochi; o almeno ai congiunti; o almeno a se stesso», dove il culmine dellaclimax è nel pronome riflessivo, ossia nell’invito a sondare la propria interiorità. Certo questi procedimenti di stile – in particolare il ribattere il pensiero con tensio-ne che culmina nella punta aguzza della minutissima sententia – derivano dallescuole di declamazione, dalla retorica asiana. Ma, almeno in linea di principio,l’artificio retorico è funzionale all’espressione dei contenuti, si giustifica nella pro-spettiva psicagogica del fissare nella mente e nel cuore un precetto morale: nondelectent verba nostra sed prosint (Ep. 75, 5). Al messaggio dell’interiorità – in cui consiste tutta la filosofia di Seneca (me priusscrutor, deinde hunc mundum, Ep. 65, 15) – doveva corrispondere un linguaggioche fosse strumento adeguato per l’ossessivo scavo dentro di sé. Ma un tale lin-guaggio era ignoto ai Romani, che non avevano conosciuto l’invito socratico all’au-tocoscienza. «Dunque, toccò a Seneca foggiare il linguaggio latino dell’interiorità»(A. Traina).

La fortunaGià abbiamo accennato al giudizio non positivo di Caligola. Anche Quintiliano rim-proverava a Seneca lo stile anticlassico, pur riconoscendo la validità del suo inse-gnamento morale: «Nei suoi scritti spiccano molte sentenze e molti passi sono degnidi lettura in virtù della loro moralità. Ma nello scrivere il suo stile si rivela quasi sem-pre guasto e per questo assai nocivo, perché abbonda di vizi seducenti» (Inst. or. X1, 129). Nocivo a chi? Soprattutto ai giovani che, sempre a sentire Quintiliano, legge-vano solo le sue opere: solus hic fere in manibus adulescentium fuit (Inst. or. X 1,126). Poco favorevole fu anche il giudizio che Frontone e gli arcaizzanti del II secolopronunciarono sullo stile «moderno» dello scrittore. In particolare Frontone sconsigliaall’imperatore Marco Aurelio la lettura di Seneca, le cui qualità non compensano i di-fetti, che consistono nell’eloquenza aggrovigliata (confusam … eloquentiam) e nellatendenza a ripetere migliaia di volte la stessa idea sotto veste diversa. Gli aspetti po-sitivi gli sembrano irrilevanti: anche nelle fogne si può trovare una lamina d’argento,ma non per questo vale la pena di frequentare le fogne (Ep. de orat. 21, 6).Non molto più benevolo è il giudizio di Gellio, che dedica a Seneca un intero capi-tolo delle Notti attiche (XII 2). Il filosofo è ritenuto ineptus et insubidus homo per lecritiche da lui espresse – nel XXII libro delle Epistole, che non ci è giunto – riguar-do all’oratoria ciceroniana.Il contenuto etico delle Epistole e dei Dialogi fu apprezzato dai cristiani, che, spes-so fraintendendo il pensiero del nostro autore, lo considerarono uno degli spiritinobili del paganesimo più vicini al cristianesimo. Tertulliano usa l’espressione Se-neca saepe noster (cioè, «Seneca ragiona spesso come un cristiano», Amin. 20,1). Lattanzio lo considera omnium Stoicorum acutissimus e inoltre scrive, inaugu-rando la leggenda della cristianità del filosofo: quam multa alia de deo nostris (cioèai cristiani) similia locutus est! (Ist. 1, 5, 28). Girolamo lo nomina di frequente e citaper primo un carteggio fra Seneca e S. Paolo, che è giunto fino a noi. In realtà ipunti di contatto tra la filosofia laica di Seneca e la teologia di Paolo di Tarso eranopochi, e l’epistolario dev’essere parso credibile solo in virtù della circostanza ester-na che questi due spiriti di diversa fede, all’incirca negli stessi anni (tra il 50 e il 67d.C.), si avvalevano per la loro «predicazione» del mezzo delle lettere. Il carteggio

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PERO

Delectare e prodesse

Il linguaggio dell’interiorità

L’antichità

«Seneca cristiano»

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ha contribuito alla fama del filosofo nel Medioevo, ma può anche essere vero ilcontrario: che la fortuna delle quattordici lettere nel corso dei secoli è dipesa dallafortuna medioevale di Seneca e dalla diffusione della leggenda della sua conver-sione. In età medioevale grande fu infatti la fortuna di «Seneca morale», come lo chiamaDante (Inf. IV 141 ) con riferimento ai contenuti etici delle opere del filosofo1. La suamorte fu letta come martirio cristiano secondo una leggenda che attraverso il Ro-man de la rose è riportata nel Novellino. Sempre il Novellino presenta aneddoti del-la vita di Seneca – tolti dai Fiori dei filosofi – come veri exempla, cioè testimonian-ze autorevoli di una virtù eroica, proposti come modello da imitare. Un’ulteriore prova della fama goduta dal filosofo in età medioevale è nel gran nu-mero dei codici, ma anche degli scritti apocrifi (i Monita Senecae, il Liber de mori-bus, ecc.). È soprattutto nei secoli XII e XIII che questo autore divenne popolare, ea tale periodo risalgono le molte famiglie di manoscritti prodotti in vari conventi, co-me quello di Montecassino, alla cui attività assidua si deve in particolare la conser-vazione dei Dialogi, che in seguito ebbero grande diffusione nell’Europa settentrio-nale, nelle scuole universitarie di Parigi e di Oxford, in Germania. Grande interesseper il teatro di Seneca fu espresso dalla corte papale trasferitasi ad Avignone.Le Lettere a Lucilio e alcuni trattati furono letti da Petrarca e da Boccaccio, i quali pe-rò non pare ne avessero una conoscenza troppo approfondita. In Spagna Seneca fuconsiderato autore nazionale e tradotto e commentato dal re Alfonso V in persona.Alla fine del Quattrocento, nelle prime edizioni a stampa si distinse Seneca Philo-sophus e Seneca Tragicus. La prima edizione delle opere filosofiche è quella napo-letana del 1475. Nel Cinquecento Seneca fu maestro di saggistica in tutta Europa. Godette dell’am-mirazione di Montaigne, i cui scritti sono densi di citazioni tratte dalle Lettere a Lu-cilio e dai Dialogi. Rilevante fu l’influsso di queste opere sulla cultura prima gesuiti-ca, poi protestante.Le tragedie dell’orrore di Seneca, con il loro barocco cupo e truculento, furono digrande attualità sia in Italia, sia soprattutto nell’Inghilterra elisabettiana. Così il tea-tro di Seneca influenzò Shakespeare (in particolare nel Macbeth e nell’Amleto) etutto il teatro inglese. Lessero Seneca Racine e Corneille, il quale nella Médée e nella Phèdre imitò letragedie omonime del filosofo latino.Anche Voltaire conobbe le opere morali e il nostro Alfieri fu influenzato dalle vibran-ti e cupe scene del teatro senecano.Nell’Ottocento Seneca continuò ad essere letto da scrittori e filosofi. Criticato daHegel che gli rimproverava il difetto di capacità speculativa, ammirato da Schopen-hauer, Seneca prosatore ha goduto ininterrottamente del favore dei lettori e ancoroggi continua a costituire uno dei capisaldi della paidèia umanistica. Non così per ilSeneca tragico, la cui fortuna, cresciuta senza interruzioni dal XIV al XVIII secolo,sembra essersi definitivamente interrotta in Italia, dove alla disistima romantica si èaggiunta poi nel Novecento la stroncatura crociana.

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Il Medioevo

Il Trecento e il Quattrocento

Il Cinquecento e il Seicento

L’epoca moderna

1. A meno che Dante non intendesse, con l’epiteto morale, distinguere il filosofo dal tragi-co ritenendoli due persone diverse. Pare che tale distinzione tra due Seneca non si facesseall’età di Dante, ma sia stata introdotta in seguito, per un errore di interpretazione, dal Boc-caccio, che ne persuase anche il Petrarca (cfr. Dante e Seneca filosofo, «Studi danteschi» VI5-24).

Ludmilla Mikaël nel ruolo diFedra, in una ripresa contempo-ranea del dramma di Racine daparte della Comédie-Française.

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Contemporanei di Seneca furono l’africano (di Leptis) L. Anneo Cornuto e MusonioRufo di Volsini (Bolsena). Il primo, forse un liberto di Seneca – alla famiglia degliAnnei appartenevano Seneca e Lucano – fu filosofo stoico e grammatico. La suascuola fu frequentata da Lucano e da Persio, del quale egli curò dopo la mortel’edizione delle Satire. Per la sua libertà di pensiero fu esiliato da Nerone nel 65d.C., l’anno della congiura dei Pisoni. Negli stessi anni il filosofo e oratore Musonio Rufo teneva lezioni di etica stoica,probabilmente in greco, ma non volle mai affidare il proprio pensiero alla scrittura.Restano di lui citazioni trascritte dagli scolari, il più celebre dei quali è il filosofoEpitteto. Fu grande ammiratore di Catone Uticense (il simbolo stoico dell’opposizio-ne alla tirannia, celebrato da Lucano, protagonista di una biografia scritta dal marti-re per la libertà Tràsea Peto e del quale Seneca scriveva: «Catone non visse dopola libertà, né la libertà dopo Catone», De const. sap. II 3). Le sue idee politiche gliprocurarono due esili (nel 65 e nel 71). Si occupò anche di filosofia economica. Dallo stoicismo furono influenzati anche, come vedremo, i poeti Lucano e Persio,non a caso allievi di Cornuto. Dopo Seneca, Cornuto e Rufo, furono interpreti di rilievo del pensiero stoico Epitte-to e Marco Aurelio, esponenti della cosiddetta Stoà tarda.Nato a Ierapoli in Frigia (50 ca. - 135 d.C.) e condotto a Roma come schiavo poi re-so libero, fu coinvolto nell’espulsione dei filosofi decretata da Domiziano nell’88-89d.C. Fondò una scuola a Nicopoli in Epiro e come Socrate non lasciò alcuno scritto.Il proprio pensiero tuttavia fu raccolto fedelmente da un suo allievo, Arriano di Nico-media, in due opere scritte in greco: le Dissertazioni o Diatribe e il celebre Manua-le, tradotto da Leopardi. Epitteto intende recuperare lo stoicismo originario, privo diconcessioni e adattamenti, eliminando gli aspetti scettici introdotti nella MediaStoà. Accorda la massima centralità all’etica identificando moralità e virtù. Questaconsiste nel desiderare solo ciò che è in nostro potere e nel disprezzare tutto il re-sto. La serenità va cercata nell’interiorità del proprio spirito e nella rinuncia a consi-derare come raggiungibili cose che non sono alla nostra portata. D’altronde il tur-bamento dell’animo è sempre soggettivo: «gli uomini non sono agitati e turbati dal-le cose, quanto dalle opinioni che essi hanno delle cose». E poiché le opinioni di-pendono da noi, la serenità è in nostro potere. L’antico motto stoico sustine et ab-stine («sopporta il dolore e astieniti dai beni apparenti»), che predica il distaccodalle cose esterne e il pieno dominio dei nostri desideri, compendial’insegnamento morale di Epitteto.L’ultima grande voce dello stoicismo è rappresentata dall’imperatore filosofo MarcoAurelio Antonino (121-180 d.C.). Dedito agli studi di retorica sotto la guida di Fron-tone, appassionato di filosofia e lettore assiduo di Epitteto, scrisse un corpus di let-tere in latino riportate nell’epistolario di Frontone e, in greco, l’opera in 12 libri inti-tolata A se stesso. Non si tratta dell’esposizione sistematica della dottrina stoica,bensì di un diario spirituale che consiste in riflessioni sparse, espresse in forma diaforisma, distillate nei momenti di tregua tra una campagna militare e l’altra. È unarielaborazione personale e suggestiva di alcuni temi morali canonici, come quellodella serena accettazione del nostro destino, che ci impone d’essere soldati e im-peratori, mentre avremmo preferito per intima inclinazione una vita dedita all’otiumfilosofico. È un colloquio dell’autore con se stesso, che inaugura un genere lettera-

Lo stoicismo fino al II secolo d.C.

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L. Anneo Cornuto e Musonio Rufo

Epitteto

Marco Aurelio

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rio di grande fortuna, imitato da Agostino a Petrarca fino alle recenti Memorie diAdriano della Yourcenar. Il tema è sempre quello della conquista dell’equilibrio inte-riore, della riflessione sulla morte, sul carattere effimero dell’esistenza sia indivi-duale sia del grande impero, la cui sopravvivenza è minacciata da orde barbaricheche si affacciano sui vari confini.

La durata della vita umana è un istante, la materia fluisce, la sensazione èsubito cancellata, la compagine del corpo si sfascia, la forza vitale è unvortice, la fortuna malcerta: insomma, tutte le cose del corpo sono un fiu-me, quelle dell’anima sono sogno e stupore, la vita è guerra e pellegri-naggio.

Di qui il senso di malinconia che pervade l’opera, nato anche dalla consapevolezzache Marco Aurelio ha di essere l’ultimo grande imperatore, sulla cui tomba è giàstata incisa l’epigrafe: «Egli è l’ultimo della sua stirpe» (VIII 3, 1). Il fascino è, oltreche nello stile scabro ed essenziale, nella disarmante sincerità che rende l’operanon un compendio di astratta dottrina, ma l’espressione di una concreta e vissutaricerca della saggezza. Da questo punto di vista la figura di Marco Aurelio è davve-ro paradigmatica, in quanto ci si presenta come «la più concreta realizzazioneumana dello stoicismo romano, con il suo senso del dovere e del sacrificio pur nel-la assoluta libertà di giudizio interiore, con la sua superiore saggezza non priva dimalinconia e di pessimismo per la caducità della vita e della storia, donde un ama-ro desiderio di morte e di oblio» (Sini). Con queste voci lo stoicismo come indirizzo filosofico autonomo conclude il propriociclo. Echi stoici ritorneranno nel pensiero cristiano (in particolare si parlerà di «Se-neca cristiano», vedi p. 464) e l’aggettivo stoico ancor oggi definisce la personasaggia, capace di affrontare con fermezza e rassegnazione il dolore fisico e lesventure.

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VII 5, 3

Marco Aurelio, Pontefice Massimo,compie un sacrificio (II sec. d.C.)Roma, Palazzo dei Conservatori.

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Al periodo turbolento della dominazione di Nerone (54-68 d.C.) seguì quello della«restaurazione» di Vespasiano e dei suoi successori, i Flavi (69-96 d.C.): con unparallelo stilistico potremmo fare corrispondere all’età neroniana le irregolarità del-lo stile asiano e alla successiva età flavia un’esigenza di ordine e organizzazione ditipo piuttosto atticista. I Flavi sostituirono alla figura del filosofo e consigliere impe-riale quella del retore e funzionario amministrativo, e di conseguenza attribuironogrande importanza alla formazione retorica della nuova classe politica. È a questopunto che entra in gioco la figura di Quintiliano, già insegnante di retorica nella na-tiva Spagna e primo professore a ricoprire la cattedra di eloquenza stipendiata dal-l’impero per volontà di Vespasiano nel 71 d.C. Il fatto che divenisse addirittura pre-cettore dei figli di Domiziano potrebbe farlo apparire irrimediabilmente compromes-so con la politica di regime, ma nonostante egli considerasse la realtà dell’imperocome necessaria – e quindi come imprescindibile posizione di partenza – tracciòuna figura nobile di oratore, con il cui contributo giovare certo più al bene della respublica che del singolo principe.

La vitaCiò che sappiamo di Quintiliano ci è noto prevalentemente dalla sua opera e dallaCronaca di Girolamo, fonte preziosa peraltro di notizie riguardanti numerosi altriscrittori latini.Marco Fabio Quintiliano nacque fra il 35 e il 40 d.C. in Spagna, a Calagurris(l’odierna Calahorra). Il padre, anch’egli maestro di retorica, lo condusse giovanis-simo a Roma, dove seguì gli insegnamenti del grammatico Remmio Palemone edell’oratore Domizio Afro, personaggio da lui più volte ricordato con ammirazione.Tornò in patria dove esercitò la professione di retore, raggiungendo successo e fa-ma, fino a quando, nel 68 d.C., fu ricondotto a Roma da Galba, allora governatoredella provincia, acclamato dopo la morte di Nerone imperatore dalle legioni spa-gnole. Qui rimase anche dopo l’uccisione di Galba, avvenuta l’anno seguente el’elezione ad imperatore di Vespasiano (69 d.C.), dedicandosi all’avvocatura e al-l’insegnamento di retorica. Dagli imperatori che governarono durante la sua vitaebbe grandi prove di stima: da Vespasiano gli fu attribuita una delle prime cattedredi retorica (ebbe come allievi Plinio il Giovane e forse Tacito e Giovenale) con unostipendio annuo di 100 000 sesterzi; da Domiziano gli furono conferiti il consolatoe, dopo il suo ritiro dall’attività dell’insegnamento durata circa vent’anni, l’incarico diistruire i suoi due pronipoti destinati, nella sua intenzione, al trono.La data della morte va posta fra il 96 e il 100 d.C.Quintiliano vide, durante la sua vita, il succedersi di numerosi imperatori in Roma.Durante la sua gioventù, che egli trascorse prevalentemente in Spagna (tranne, co-me si è visto, il tempo in cui fu a Roma per gli studi di grammatica e retorica), go-vernarono prima Claudio (41-54 d.C.) e poi Nerone (54-68 d.C.). In tale periodo ilpotere si spostò sempre più dal senato all’imperatore, con conseguente perditadella libertas, presupposto indispensabile per la lotta politica e linfa vitale perl’oratoria che da essa aveva tratto vigore e passione. Lo studio della retorica, che pur sempre a Roma aveva rivestito grande importanzanell’iter formativo della classe dirigente, non fu più diretto prevalentemente alla for-mazione dell’oratore che avrebbe dato prova di sé nel foro e nella vita pubblica, ma

La Institutio oratoria di Quintiliano

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La «restaurazione» dei Flavi

Il clima politico e culturale

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divenne elemento base dell’istruzione superiore a cui si dedicavano intellettuali e altifunzionari dello stato. Spia della mutata situazione è la pratica delle declamationes,che, nate come esercitazioni da parte del maestro o degli allievi di una scuola di re-torica, divennero discorsi fittizi che si tenevano in pubblico. Di conseguenza si affer-mò uno stile più ricercato, spesso artificioso, mirante a suscitare effetto sull’uditorio.Tale ondata anticlassicistica si andò esaurendo con l’avvento degli imperatori delladinastia Flavia. Tutto il loro programma, imperniato sulla ricerca di un nuovo equili-brio, rivela impostazione conservatrice: segni evidenti, sul piano della politica inter-na, il riavvicinamento al senato; sul piano sociale, il programma di ritorno agli anti-chi ideali e agli antichi costumi. In questo clima fu favorito, sul piano culturale, reto-rico e letterario, un ritorno al classicismo che trovò in Quintiliano uno dei suoi fau-tori. L’impegno da parte dei Flavi alla formazione della classe dirigente e la loro at-tenzione alla cultura che serviva all’insegnamento svilupparono gli studi di retorica;questi furono tenuti in grande considerazione al punto che, per la prima volta, furo-no istituite cattedre di eloquenza latina e greca retribuite dallo stato.

L’operaGli interessi di Quintiliano, come rivelano le sue opere, furono incentrati esclusiva-mente sulla retorica ed i problemi ad essa connessi. La sua attività di scrittore sisvolse completamente dopo il ritiro dall’attività dell’insegnamento; tuttavia, comeegli stesso riferisce nella Institutio, già precedentemente era stata diffusa sotto ilsuo nome un’opera, in due libri, di arte retorica, compilata da suoi allievi, che ave-vano raccolto il materiale stenografando una lunga conversazione e numerose suelezioni, senza alcuna revisione da parte del maestro.Scrisse un De causis corruptae eloquentiae in cui esaminava le cause della deca-denza dell’oratoria dei suoi tempi, opera per noi perduta, e la Institutio oratoria(«La formazione dell’oratore»), la sua opera maggiore, scritta probabilmente fra il93 e il 95 o 96. Inoltre sono state tramandate con il suo nome due raccolte di De-clamationes (19 maiores, ampie e compiute, 145 minores in forma di schema o diabbozzo di orazione), ma la loro paternità è, in parte o completamente, respinta damolti studiosi.Vivo fu nel I secolo d.C. il dibattito sull’oratoria. Oggetto del dibattito furono in parti-colare due questioni: quale fosse lo stile da perseguire nell’eloquenza (arcaizzante,modernizzante, ciceroniano), e le cause della crisi dell’oratoria.Sulla prima questione Quintiliano si pose fra i classicisti: il modello che egli additaper il futuro oratore è Cicerone; dell’Arpinate ammira l’equilibrio stilistico, lontanodalle eccessive ampollosità dell’asianesimo (di quest’ultimo, Seneca, contro il cuistile si pronuncia più volte, era stato il maggior rappresentante) e dall’arida asciut-tezza dell’atticismo.Sulle cause che avevano provocato il declino dell’oratoria si pronunciarono parec-chi scrittori del tempo e Quintiliano dedicò a questo problema un’intera opera (Decausis corruptae eloquentiae); nonostante la sua perdita possiamo individuare leidee di Quintiliano in proposito da numerosi cenni presenti nell’Institutio. Egli dà alproblema una risposta di tipo morale in quanto intravvede nella decadenza dei co-stumi la causa principale del degenerare dell’eloquenza. Non manca di considera-re anche la vacuità delle declamazioni (si ricordi che molti oratori nascevano comedelatori presso il principe), dovuta al venir meno di una complessiva formazioneculturale e morale, indispensabile per un buon oratore.

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Quintiliano e il dibattitosull’eloquenza:la figura ideale dell’oratore

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Questa formazione, che andava al di là del possesso di buone competenze tecni-che, era stata proposta come ideale anche da Cicerone; tuttavia in essa, diversa-mente che per l’Arpinate, per Quintiliano non è più la filosofia che ricopre il ruoloprimario, ma la retorica, che in tal modo, nelle sue intenzioni, veniva a perdere unaconnotazione puramente tecnica di strumento di persuasione, per avere inveceun’ampia valenza educativa.Nel piano di educazione retorica del futuro oratore Quintiliano non manca di indica-re quali letture ritenga più idonee; in questa prospettiva traccia nel X libro dell’Insti-tutio un’ampia panoramica, considerata una breve storia letteraria, degli scrittorigreci e latini utili a formare lo stile migliore. Vengono espresse, in quest’ottica, valu-tazioni su diversi autori, a volte desunte da fonti, a volte personali, che ci testimo-niano quali fossero «i canoni critici dell’antichità». Significativi delle sue scelte sonoin particolare i giudizi che esprime sullo stile di Cicerone e Seneca: decisamentefavorevole, frutto di un attento vaglio delle sue caratteristiche, quello sull’Arpinate;negativo quello sul Cordovano, di cui afferma in X 1, 125: «di molti suoi brani èconsigliabile la lettura a scopo morale, ma per il riguardo stilistico sono general-mente corrotti e tanto più pericolosi, in quanto abbondano di allettanti vizi».La formazione di questa figura ideale è tracciata nella Institutio oratoria, compostain dodici libri dopo l’88, anno del suo ritiro a vita privata, in seguito a un’attività qua-si ventennale di insegnamento. Indicativo è innanzitutto il fatto che si parli di Institu-tio, ossia di formazione, di istruzione, di educazione. Si tratta quindi di un manualedi tecnica retorica accompagnato da un forte interesse didattico. Mentre le prece-denti opere retoriche avevano sempre rivolto i loro precetti ad uomini già cultural-mente formati, Quintiliano ritiene di dovere tracciare una metodologia di formazio-ne dell’oratore che comprenda addirittura la fase dell’infanzia:

… generalmente gli autori di precettistica retorica iniziarono le loro operecome rivolgendosi a persone già perfettamente versate in ogni ramo del sa-pere, per dar loro quindi l’ultima mano, consistente nei precetti dell’elo-quenza; sia in dispregio dei primi studi, come fossero bagattelle, sia perchécredettero che non ad essi spettasse soffermarvisi, in quanto, a loro avviso,esisteva la specializzazione professionale, sia forse – ed è questa l’ipotesipiù probabile – perché non speravano in alcun riconoscimento del loro in-gegno, se si fossero attardati intorno a cose necessarie, sì, ma lontane dallapossibilità di un certo esibizionismo: proprio come di un edificio si suoleosservare la parte alta, mentre le fondamenta restano nascoste. Personal-mente, ritengo non esservi nozione alcuna, indispensabile alla formazionedi un oratore, che sia estranea all’arte oratoria, e che non si può giungerealla formazione di qualche cosa, se non partendo dai suoi primi elementi;ed è per questo che non mi rifiuterò di scendere fino ai semplici fondamen-ti della formazione retorica, i quali sono, tuttavia, premessa indispensabileper le fasi più impegnative nel sèguito; e comincerò ad organizzare gli stu-di e le attività dell’oratore fin dalla sua infanzia, esattamente come se mivenisse affidato perché lo allevassi.

È una impostazione che rivela l’atteggiamento ottimista di chi certo riconosce lostato decadente dell’oratoria contemporanea, ma al tempo stesso ritiene che pos-sa esservi rimedio e che la soluzione consista in una riforma dell’educazione. Lostorico Tacito, con maggiore penetrazione, individuerà le ragioni profonde della de-cadenza oratoria nella mancanza di libera espressione imposta dal regime impe-riale: certo è che a Quintiliano interessa delineare maggiormente il ruolo culturaledell’oratore piuttosto che la sua possibilità di affermazione sul campo politico.

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PERO

Proemio 4, 1 ss.; trad. di R. Faranda

Institutio oratoria

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Dunque i primi tre libri sono dedicati alle definizioni generali di carattere retorico esoprattutto alla prima formazione, grammaticale per il bambino e successivamenteretorica per il ragazzo di età maggiore. Sono pagine famose per l’acutezza dimo-strata dall’autore in campo pedagogico, ad esempio quando raccomanda di presta-re attenzione alle caratteristiche dell’indole di ogni fanciullo. Dal libro IV inizia latrattazione tecnica delle parti tradizionali in cui si articola la retorica: fino al libro VIsi tratta dell’inventio, nel VII della dispositio, nell’VIII e nel IX dell’elocutio, e nell’XIdella memoria e dell’actio. Sono termini già presenti nella precedente trattatisticaretorica, dalla quale Quintiliano attinge aggiungendovi però una chiarezza didatticadi esposizione. Occorre subito sottolineare come l’auctor per eccellenza di Quinti-liano sia Cicerone, per il quale tuttavia egli nutre un’ammirazione non passiva:

… spesso ho detto e dirò che Cicerone è oratore perfetto, così come chia-miamo generalmente gli amici e galantuomini e prudentissimi, mentre nes-suna di queste qualità viene concessa, se non ai sapienti in assoluto. Ma,quando bisognerà esprimersi con termini propri e secondo la legge stessadella verità, cercherò quell’oratore che anche lui cercava. In sostanza, seb-bene io confessi che egli è pervenuto al più alto fastigio dell’eloquenza enon mi riesca quasi di trovare che cosa ancora gli si sarebbe potuto aggiun-gere, anche se potrei trovare, forse, che cosa a mio avviso gli si sarebbe an-cora potuto togliere (effettivamente il giudizio degli studiosi, in generale, èche siano in lui moltissime virtù e qualche difetto: del resto egli ammetteda sé di aver molto sfrondato dalla sua giovanile esuberanza): tuttavia, dalmomento che non si ascrisse il titolo di sapiente – ancorché fosse tutt’altroche denigratore di se stesso – e che avrebbe potuto essere miglior oratore,se almeno avesse avuto vita più lunga e maggiore tranquillità per compor-re, potrei onestamente credere che gli sia mancata quella suprema perfezio-ne, alla quale nessuno più di lui si avvicinò mai.

La grande dote di Quintiliano appare proprio la moderazione, che gli consente dievitare gli eccessi e di cogliere in ogni direzione le prospettive positive. Così egli sidistacca dalle esagerazioni sia dell’atticismo che dell’asianesimo, dalla moda dellostile arcaico e dalla degenerazione delle declamazioni retoriche spettacolari. Nongli piace nemmeno il filosofo Seneca (4 a.C. circa – 65 d.C.), con quel suo proce-dere a frasi spezzate e oscuri giochi di parole, ma ancora con equilibrio ne ricono-sce i pregi nel giudizio formulato nel libro X (p. 464).Il libro X è noto per essere una sorta di «storia letteraria», composta allo scopo direndere visibile nei testi l’applicazione dei princìpi tecnici illustrati dai libri prece-denti: si svolge la trattazione di autori greci e latini, poeti e oratori. La prospettiva è diversa da quella ciceroniana che aveva affidato, nella cultura del-l’oratore, una posizione preminente alla filosofia rispetto alla letteratura. Il XII ed ultimo libro traccia un ritratto dell’oratore ideale, che trae dal modello cice-roniano la cultura enciclopedica e da quello catoniano la necessità di una solidaformazione morale:

Sia, dunque, l’oratore che andiamo formando e di cui dà la definizione Mar-co Catone, uomo onesto, esperto nell’eloquenza, ma soprattutto – come eglipure ha posto in primo luogo ed è anche secondo la natura preferibile e piùimportante – assolutamente onesto: e ciò non soltanto perché, se la capacitànell’eloquenza fosse servita a dare armi alla malvagità, non ci sarebbe nulladi più dannoso, per la vita pubblica e privata, dell’eloquenza, e noi stessi,che abbiamo tentato di portare secondo le nostre possibilità personali un con-tributo allo sviluppo dell’eloquenza, avremmo fatto il peggiore servizio al-l’umanità, se forgiassimo queste armi per un predone e non per un soldato.

La Knstitutio oratoria di Quintiliano 471

XII 1, 19, 3 ss.

XII 1, 1 ss.

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Il tentativo di riportare il modello ciceroniano nell’oratoria del I secolo d.C. rivela unascarsa consapevolezza storica, in quanto Quintiliano non sembra rendersi conto chel’eloquenza di Cicerone era frutto della passione politica dei suoi tempi e che, poichéle condizioni politiche erano mutate, non era più proponibile, ma è allineato con ilprogramma culturale dei Flavi che perseguirono una politica di restaurazione moralee politica. Quintiliano accettava il principato e per lui il sostegno al regime era fuoridiscussione. «Comunque si giudichi il suo comportamento nei confronti di Domizia-no, è certo che il compito da lui svolto e il compito da lui assegnato all’oratore, a pro-posito del quale insiste sulle doti morali, si pongono al servizio della res publica edella società, non del principe in particolare. Pur segnando le debite differenze daTacito, va riconosciuto che anche lui cercava per l’intellettuale un grande compitopubblico che non coincidesse né con la rivolta né con il servilismo» (A. La Penna).Peculiarità dell’opera quintilianea è l’attenzione ai problemi didattici e pedagogici. Nonerano mancati spunti e riflessioni sporadiche che rivelavano sensibilità versol’insegnamento anche in opere di scrittori precedenti come Cicerone e Seneca (in hocaliquid gaudeo discere, ut doceam dice ad esempio il filosofo cordovano in Ep. 6, 4), mada parte di Quintiliano la preoccupazione di indicare a chi insegna comportamenti e sug-gerimenti tecnici è costante; egli traccia perciò l’intero percorso necessario alla formazio-ne dell’oratore, accompagnato da una serie di indicazioni didattiche legate in modo orga-nico e coerente. D’altronde egli crede fermamente alla determinante importanza dell’in-segnamento nella formazione, tanto che ritiene che vi sia possibilità di miglioramento perl’oratoria futura se vi sarà il contributo di docenti validi, moralmente ineccepibili. Per Quintiliano, come si è ripetutamente detto, l’oratore deve raggiungere una for-mazione morale e culturale completa; per conseguire tale scopo è necessario cheil maestro lo segua fin dall’infanzia fornendogli non solo competenze tecniche, maanche un esempio morale che ne permetta un armonico sviluppo interiore. In tal modo Quintiliano riporta nella sua opera la sua esperienza ventennale di do-cente attento e sensibile, dimostrando di conoscere le caratteristiche e le esigenzedell’età infantile e di come i fanciulli vadano trattati per ottenere da loro i migliori ri-sultati nell’apprendimento.Alcune intuizioni pedagogiche sono ritenute ancora oggi valide, quali ad esempiola necessità di alternare allo studio lo svago e la convinzione che non si debba ri-correre a punizioni fisiche, a quei tempi (ma anche fino all’età moderna) ricorrentinella scuola. Per questi aspetti la sua opera ha conosciuto una certa fortuna fin dalMedioevo e Quintiliano è stato ritenuto un precursore della pedagogia moderna.

Lingua e stileLa lingua e lo stile di Quintiliano non possono non risentire della sua impostazioneteorica classicistica. Modello oratorio proclamato, come si è detto, è Cicerone, chequindi è scelto anche come modello di scrittura per il suo stile armonioso e misura-to, che evitava gli eccessi sia dell’atticismo sia dell’asianesimo.Tuttavia la lingua, come la storia, conosce un’evoluzione a cui non ci si può sottrar-re e fra i due scrittori non mancano le differenze. Quintiliano presenta tratti caratteristici della sua età sia nelle scelte lessicali, sianella collocazione dei termini, sia nella sintassi (usa poco, ad esempio, il nesso re-lativo, di cui tanto spesso si era servito Cicerone), che nella sua opera ha unastruttura meno regolare e simmetrica di quella ciceroniana. Per conferire maggiorepiacevolezza e vivacità all’espressione del pensiero ricorre inoltre spesso a iperba-

472 Retorica, erudizione, filosofiaAL

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PERO

I rapporti con il regime

La pedagogia di Quintiliano

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ti, a similitudini e metafore, peculiari della locuzione poetica (si ricordi che i trattidella lingua della prosa e di quella della poesia in età postclassica si avvicinano);non mancano inoltre quelle sententiae caratteristiche dello stile «moderno», il cuiuso eccessivo egli aveva condannato in Seneca e nei suoi imitatori, ma che evi-dentemente erano entrate nella prassi dello scrivere del tempo, al cui gusto rispon-devano. Il suo modo di scrivere risulta dunque «ornato», anche se in misura equili-brata, e chiaro, come si addiceva ad un trattato di tipo didascalico.

La fortunaQuintiliane, vagae moderator summe iuventae, / gloria Romana, Quintiliane, togae(«Quintiliano, sommo maestro della volubile gioventù, gloria del foro di Roma»); co-sì Marziale si rivolge idealmente a Quintiliano in un suo epigramma (II 90, 2), testi-moniandone in tal modo la fama che aveva presso i suoi contemporanei comemaestro e come retore. Furono suoi allievi, oltre i nipoti di Domiziano, Plinio il Gio-vane che, in un’epistola in cui tratta del decadimento dell’eloquenza giudiziaria (II14, 9), lo chiama praeceptor meus, e forse anche Tacito.Anche se Quintiliano non raggiunse il suo obiettivo di imporre il modello stilistico ci-ceroniano in cui credeva, e la sua opera «legata com’era alle esigenze di una pre-cisa contingenza storica, determinata dalla volontà restauratrice dei Flavi, non co-nobbe grande fortuna presso le età successive della letteratura latina» (Salemme),tuttavia il suo magistero ebbe, nei secoli, grande autorità. A testimonianza di ciò, leparole di grande considerazione di poeti e scrittori posteriori: ad esempio Ausonio,autore del IV secolo, più volte nelle sue opere ne ricorda la indiscussa fama; Giro-lamo, in una lettera a Leta (Ep. 107) in una parte dedicata a consigli sull’educazio-ne della figlioletta Paola, destinata alla vita monastica, ne accoglie i principi educa-tivi, dimostrando in tal modo che l’opera quintilianea era divenuta punto di riferi-mento nel campo pedagogico e didattico.Il gran numero di manoscritti medioevali delle Declamationes testimonia che la lorofortuna, e quindi quella di Quintiliano che ne era ritenuto l’autore, continuava anchein quel periodo. Ma è soprattutto nel Rinascimento che l’Institutio oratoria, che autori medioevaliavevano già conosciuto (anche se non completamente) e utilizzato, venne apprez-zata; e ciò in seguito alla scoperta da parte di Poggio Bracciolini di due codici cheriportavano il testo integrale dell’opera. L’interesse riscosso fra gli studiosi del tem-po fu notevole e furono scritti studi e stilati commenti all’opera quintilianea da notiumanisti quali ad esempio Lorenzo Valla e Angelo Poliziano.Grande continuò ad essere la fortuna di Quintiliano nella cultura europea, che dal-la sua opera trasse spunti di riflessione in ambito retorico-letterario e soprattutto inquello educativo e didattico, venendogli riconosciuta una sorta di paternità dellapedagogia. Nell’Ottocento, che pure non ne accettò le regole stilistiche, ne espres-se un giudizio altamente lusinghiero il Mommsen.Dopo un’attenzione lungamente e prevalentemente volta agli aspetti pedagogici dell’o-pera quintilianea, negli studi contemporanei si torna a studiarne maggiormentel’aspetto retorico. Ciò fors’anche per un recupero della retorica non più vista come «si-nonimo d’artificio, d’insincerità, di decadenza», ma come «sistema di leggi convenzio-nali» a cui l’artista antico si atteneva nella creazione dell’opera letteraria «senza chene venisse a soffrire la sua sincerità» (Marrou); si ritiene inoltre che la sua conoscenzapossa rivestire anche oggi una notevole importanza come tecnica della persuasione.

La Knstitutio oratoria di Quintiliano 473

Quintiliano e i contemporanei

Gli scrittori tardo-antichi

Il Medioevo e il Rinascimento

Dal Seicento ai tempi nostri

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Un’analisi storicamente penetrante sulle cause politiche della decadenza oratoriaè presentata dal Dialogus de oratoribus («Dialogo sugli oratori»): opera controver-sa quanto ad attribuzione e datazione, è quasi concordemente assegnata a Tacito(55/60-117 d.C. circa) e agli anni intorno al 100 d.C. Il dialogo è di stile ciceronia-no e ricorda infatti l’impostazione del De oratore, salvo poi non concordare con Ci-cerone riguardo ad un punto fondamentale: mentre per l’oratore del I secolo a.C. ildispiegarsi della grande eloquenza è legato ad una condizione di pace, perl’autore del Dialogus l’oratoria repubblicana fu il frutto del turbolento clima delleguerre civili e conseguentemente la pax imperiale comporta un affievolirsi dellastessa oratoria. Se prima dell’avvento dell’impero i discorsi furono lo strumento dell’affermazionepolitica, si legarono tuttavia alle ambizioni aristocratiche di potere, mentre la pre-senza attuale dell’imperatore, garante dell’assenza di conflitti, confina lo stru-mento oratorio ad un ruolo di secondo piano. «La scomparsa dei grandi processipolitici è anche segno della scomparsa dei mali da cui essi traevano origine. Lagrande oratoria era radicata nel disordine sociale e istituzionale; la sua crisi èsintomo di una ritrovata salute sociale, e del buon funzionamento delle istituzio-ni»1. Nell’oggettività delle considerazioni presentate dall’autore del Dialogus paretuttavia di scorgere il tono disilluso di chi in fondo comprende che la pace impe-riale viene a corrispondere con l’assenza di dibattito, con l’impossibilità di espri-mere la propria opinione e insomma con la mancanza di libertà. Tacito aveva ab-bandonato l’attività forense, deluso dal clima di violenza che nei tribunali si anda-va diffondendo soprattutto a causa dei delatori, e aveva scelto di dedicarsi allastoriografia, alla redazione di opere di carattere storico. Del suo interesse e dellasua competenza retorica si ha prova attraverso i discorsi rappresentati nell’operastorica intitolata Annales. Non a caso il portavoce delle idee di Tacito nel Dialogus appare Curiazio Materno,il personaggio che, davanti alla decadenza dell’oratoria contemporanea, sceglieuna strada alternativa: in questo caso non la storiografia ma la poesia, attraverso lecui immagini esprimere liberamente il proprio pensiero nel clima sorvegliato dellacorte imperiale. E la poesia preferisce un’ambientazione campestre, lontana dallaconfusione cittadina della corte e del foro. Emerge qui rinnovata la concezione delsofista greco Gorgia, secondo la quale oratoria e poesia sarebbero di uguale natu-ra e solo le differenzierebbe la presenza del metro, del ritmo. L’autore del Dialogusspecifica che oratoria e poesia hanno un diverso fine, poiché l’oratoria mira ad es-sere utile e la poesia a dilettare. Oltre a Curiazio Materno vi sono nel Dialogus altri interlocutori, impegnati adiscutere sulla superiorità dell’oratoria antica o di quella moderna. Marco Aproafferma che non si possa nemmeno parlare di decadenza dell’oratoria contem-poranea, ma solo di un cambiamento di gusto: gli oratori della generazione pre-cedente non sono più attuali, con le loro lungaggini, se confrontati con le moder-ne tendenze dello stile, che deve essere breve e incisivo. Vipstano Messalla alcontrario sostiene decisamente la preminenza antica e attribuisce la decadenzacontemporanea alla formazione scolastica, che non avviene più presso un orato-

Il Dialogus de oratoribus

474 Retorica, erudizione, filosofiaAL

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La tesi di Materno

L’eloquenza nasce dal disordine sociale

1. E. Narducci, Oratoria e retorica, in «La prosa latina», Roma 1991, p. 98.

Altre tesi

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re affermato e nel mezzo della reale vita del tribunale ma attraverso le declama-zioni fittizie. A questa considerazione bene si legano le conclusive e vivaci imma-gini del Dialogo:

Quanta forza non dobbiamo pensare che abbiano tolto ai discorsi questiambienti di scuola e d’archivio, in cui si trattano quasi tutte le cause? Aquel modo che le corse su spazi aperti fanno riconoscere i cavalli di raz-za, così è necessario agli oratori un campo tale, che il loro talento vi sipossa muovere libero e sciolto; altrimenti l’eloquenza si affloscia e sva-nisce. E l’esperienza ci insegna che riesce contraria all’effetto anche lacura stessa e la meticolosità nel preparare il modo dell’espressione: per-ché spesso il giudice ti interroga nel momento in cui tu stai per abborda-re la trattazione, e allora devi incominciare dalla sua interrogazione: nondi rado poi egli ti fa tacere per dar luogo ad argomenti di prova e a testi-moni, e in questo frattempo uno o due stanno ad ascoltare, e la causa sisvolge, per così dire, nel deserto. Ora invece l’oratore ha bisogno di ac-clamazioni e di plauso e quasi di una specie di teatro; il che toccava ognigiorno agli oratori antichi, quando un uditorio tanto numeroso quantoscelto affollava il foro, quando stuoli di clienti e tribù e deputazioni dimunicipi e una parte dell’Italia presenziavano ai giudizi; quando il popo-lo romano si riteneva direttamente interessato all’esito della maggior par-te dei processi.

Il Dialogus de oratoribus 475

Fanciullo che declama di fronteal maestro.

39, 1, 4 ss.; trad. di A. Arici

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Allievo di Quintiliano, nonché amico e ammiratore di Tacito, fu Plinio il Giovane (ve-di p. 495) il quale esercitò l’oratoria forense sia in cause civili di ordinaria ammini-strazione (riguardanti per lo più testamenti ed eredità), sia più raramente in proces-si di carattere politico. Lo stile delle orazioni di Plinio è assai ridondante, lontanodai modelli di Cicerone e Demostene raccomandati dal maestro Quintiliano. O me-glio, egli riprende di Cicerone la copia, l’abbondanza di parole, ma cerca di adattar-la al gusto contemporaneo con abbellimenti di stile. Così Plinio stesso in una lette-ra descrive vivacemente le condizioni di una propria performance oratoria:

Ultimamente, dovendo pronunciare un’arringa davanti ai centumviri, nonebbi modo di arrivare al mio posto se non passando dalla parte del palco,addirittura attraverso al collegio dei giudici, tanto grande era la ressa cheostruiva tutto lo spazio rimanente. Inoltre un giovane particolarmente benmesso, dopo che ebbe gli abiti lacerati, come suole avvenire nella calca, ri-mase là, con soltanto la toga indosso, e per ben sette ore; infatti tale fu ladurata della mia orazione, che mi costò molta fatica ma che ottenne un ri-sultato ancora superiore.

Durante il più famoso dei processi politici a cui partecipò, Plinio fu a fianco di Tacitonell’accusare per abuso di potere Mario Prisco, che era stato governatore d’Africa.Mentre Tacito si era poi allontanato dall’ambiente forense – per disgusto nei confrontidei procedimenti ormai sanguinari, innescati per esempio dai delatori –, Plinio, da uo-mo di mondo qual era, dimostrò al proposito minori preoccupazioni. Arrivò a dichiararedi preferire comunque, per il suo carattere politicamente incontaminato, l’oratoria discuola che si esprimeva nelle declamazioni: queste, come si è ricordato, erano statecondannate da Petronio e invece accettate da Quintiliano solo perché ormai divenuted’uso comune. Plinio, dopo avere pronunciato effettivamente in tribunale le proprie ora-zioni, le rielaborò a tal punto da trasformare lo schema iniziale in un nuovo discorso dadeclamare davanti a un pubblico di amici. L’orazione giudiziaria diviene quindi occasio-ne di intrattenimento, prima di raggiungere l’ultima definitiva fase scritta, ulteriormentemodificata sulla base anche dei consigli e delle critiche ricevuti dall’uditorio. Nell’epi-stola VII 9 Plinio indirizza ad un amico, aspirante oratore, alcuni precetti formativi:

ibidem, VII 9, 2 ss. Come prima cosa è utile seguire la norma su cui tanti insistono, di tradurredal greco in latino o dal latino in greco. Questo tipo di esercizi fornisce unaterminologia precisa e colorita, larga disponibilità di figure stilistiche, ca-pacità di enunciare agevolmente i concetti e inoltre, con l’imitazione deiclassici migliori, una fertilità d’inventiva che raggiunga effetti analoghi ailoro. Nello stesso tempo, quelle finezze che fossero sfuggite durante la let-tura non potrebbero certo rimanere inavvertite durante la traduzione. Inquesta maniera si acquista forza di penetrazione e sicurezza di valutazione.Sarà tutt’altro che dannoso leggere un passo in modo da ricordarne solol’argomento e la trama e poi stenderlo in una specie di gara con l’originale;quindi paragonare la propria redazione con quello che si è letto e valutarecon diligente impegno che cosa sia riuscito più felicemente a te e che cosainvece a lui.

Il panegiricoPlinio, quando nel 100 d.C. fu nominato console, volle ringraziare Traiano, chel’aveva raccomandato per quella carica, con un’orazione in seguito rielaborata perla pubblicazione e giunta a noi col titolo di Panegyricus Traiano imperatori dictus.

Il Panegyricus Traiano imperatori di Plinio il Giovane

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Epistole IV 16, 1, 2 ss.; trad. di F. Trisoglio

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Si tratta dell’entusiastica celebrazione delle eccelse virtù pubbliche e private del-l’imperatore (liberalità, moderazione, modestia, affabilità, austerità, rispetto per ilSenato) contrapposte sistematicamente ai vizi del predecessore, il despota e pes-simus princeps Domiziano: «Non occorre adularlo come un dio e come un nume.Infatti non stiamo parlando di un tiranno ma di un cittadino, non di un padrone madi un padre» (2, 3). Il panegirico segna l’avvento della felicitas temporum, del ritor-no alla pace sociale e alla concordia. È il manifesto dell’ideologia traianea, che re-cuperava accanto a motivi augustei alcuni temi della tradizione repubblicana cariall’aristocrazia: l’austerità e la frugalità dei prisci Romani, l’invito alla concordia or-dinum, il rifiuto a ricevere onori divini e la riluttanza a fregiarsi del titolo di pater pa-triae, il rispetto per il Senato. Traiano incarna il modello del perfetto regnante, il suocomportamento indicherà ai futuri imperatori «la via più spedita per accedere allamedesima gloria» (III 18, 2). In realtà il Panegirico è l’elogio della monarchia assoluta, nella quale la libertà èsolo un dono paternalisticamente elargito dall’optimus princeps, anzi paradossal-mente un ordine: «Senza paura e con passione ti seguiamo dove ci chiami. Ci co-mandi d’essere liberi: lo saremo. Ci comandi di esprimere pubblicamente il nostropensiero: lo esprimeremo» (66, 3). Di fatto, la politica filosenatoria di Traiano, che asentire Plinio avrebbe restituito ai senatori le dovute dignitas e securitas («Ora im-peratore e Senato approvano e disapprovano gli stessi provvedimenti», 62, 5) con-sisteva solo in un ossequio formale, in una maggiore attenzione che l’imperatore ri-servava alle procedure tradizionali, all’etichetta, ai privilegi di casta di un’aristocra-zia di cui egli stesso faceva parte. D’altronde lo stesso Plinio che, pur talora pare ri-vendichi ingenuamente una funzione pedagogica nei confronti di Traiano e che ineffetti era uomo vicino al cuore dell’imperatore, «non è ... un consigliere a pieno ti-tolo del principe, ma ... un funzionario subalterno, un portavoce che possiede glistrumenti tecnici per trasmettere (e imporre) all’uditorio tradizionale (ma soprattuttoal Senato) le decisioni e i mandata dell’imperatore» (G.F. Gianotti). E l’incipit dellalettera famosa, scritta all’imperatore per avere lumi su come districarsi nei processicontro i Cristiani («È mia usanza, signore, rimettere a te tutte le questioni su cui hodei dubbi. Chi meglio infatti potrebbe guidare la mia esitazione o colmare la miaignoranza?», X 96) potrebbe davvero essere assunta «come didascalia generaledell’atteggiamento dell’autore nei confronti del principe» (Gianotti). Il clima di cortigianeria che s’accompagnava alla perdita di libertà favoriva la diffu-sione del panegirico come genere. Si trattava, nell’antica oratoria greca, di undiscorso ufficiale tenuto in occasione di una festa panellenica (panégyris, ad esem-pio i giochi olimpici), per lodare la festa stessa o la città in cui si svolgeva. A Romaquesta forma celebrativa si riallacciava da un lato alle parti elogiative dei carminatriumphalia, dall’altro alla letteratura delle laudationes funebres e degli illustrium vi-rorum exitus: un genere, quest’ultimo, reso attuale ai tempi di Plinio dai frequentielogi delle vittime della tirannide imperiale, da Nerone a Domiziano, e per nullaostacolato dalla monarchia illuminata di Traiano, durante la quale fu anzi pubblicatoquel monumento della cultura senatoria che sono le opere storiche di Tacito.Del panegirico imperiale la laudatio pliniana costituì il modello nei tempi seguenti,fissando i tratti distintivi del genere: ricorso obbligato all’amplificatio per enfatizzarele virtù del celebrato, e alla comparatio per sottolinearne, mediante il confronto coni predecessori, la superiorità; definizione dello schema retorico, che prevedeva pri-ma l’elogio delle res externae (natali, formazione culturale, imprese) poi delle res

Il Ranegyricus Traiano imperatori di Plinio il Giovane 477

Un manifesto dell’ideologia di Traiano

L’ossequio formale versoil Senato

Un tipo di eloquenza adatto ai tempi

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corporis (qualità fisiche) e infine delle virtutes obbligatorie del principe ideale (cle-mentia, pietas, humanitas, fortitudo, ecc.). Lo stile dell’elogio pliniano è, natural-mente, formale e magniloquente, gonfio d’enfasi e soffocato nelle volute dell’ampli-ficazione retorica, incline nonostante l’intenzione ciceroniana ai vizi dello stile «mo-derno» (concettosità, ricerca di sentenze pregnanti e inattese). L’opzione è, insom-ma, quella dell’oratio lata et magnifica dell’asianesimo baroccheggiante, densa diartifizi, di figure, di topoi.

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Traiano e l’amico Sura. Particolare della Colonna Traiana.

Colonna Traiana, Roma.

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Sotto gli imperatori antonini continua il successo dei retori e delle declamazionispettacolari. Non a caso, dell’intera opera De viris illustribus di Svetonio dedicata ailetterati (vedi p. 449) ci è pervenuta solo la sezione De grammaticis et rhetoribus.Stilisticamente dilaga – in parallelo alla scuola dei poetae novelli in poesia (vedi p.538) – la tendenza arcaista, con il recupero degli autori latini antichi come Catone,Ennio, Plauto, dei quali si apprezza, più che la forza espressiva, la possibilità cheessi offrono allo scrittore e all’oratore di attingere vocaboli inusuali, da combinareper effetti vistosi di stile. L’interesse per la latinità arcaica non è confinato alla solaletteratura, ma riguarda ogni testimonianza, dalle iscrizioni alle leggi più antiche.Tale orientamento del gusto non determinò un movimento originale (a parte Apu-leio, da considerarsi come un caso a parte), ma si tradusse in sterile imitazioneerudita. L’arcaismo latino corrisponde a un’analoga tendenza al purismo riscontrabile inambito greco, dove i retori neosofisti rifiutano l’evoluzione del greco ellenistico epredicano il ritorno ai modelli della prosa attica, Senofonte e Lisia. Tuttavia il paral-lelismo tra Neosofistica e Neoatticismo da una parte e arcaismo latino dall’altra èsolo parziale: mentre i neosofisti greci sono interessati a dare una patina filosoficae politica alla loro retorica, gli arcaisti latini riservano un’attenzione pressocchéesclusiva alla purezza della lingua. Il prestigio culturale di questi due orientamentidel gusto sembra culminare, emblematicamente, nell’anno 143 d.C., che vede as-sociati nel consolato Frontone ed Erode Attico, rispettivamente massimo esponen-te dell’arcaismo latino e insigne maestro della neosofistica, entrambi prescelti daAntonino Pio come educatori dei principi Marco Aurelio e Lucio Vero.

Principale esponente dell’arcaismo latino è Frontone (100 circa - 166 circa d.C.),nativo di Cirta in Numidia, celebre oratore a Roma sotto Adriano, nominato consulsuffectus da Antonino Pio (143 d.C.) che gli affidò anche l’educazione dei figli adot-tivi Marco Annio Vero (il futuro Marco Aurelio) e Lucio Vero. Il suo grande prestigiointellettuale è confermato da Gellio:

Da giovane, prima di passare ad Atene, stavo a Roma, e quando avevo iltempo libero dalle lezioni dei miei maestri, mi recavo a far visita a Corne-lio Frontone, godendo del suo conversare purissimo e pieno di sana erudi-zione. Non capitò mai una volta che andassimo a vederlo e ascoltarlo senzatornarcene in qualche modo arricchiti di cultura e di sapere.

Morì probabilmente dopo il 170.

Le opere pervenuteci furono scoperte nel 1815 dal cardinale Angelo Mai in un palinsesto(cioè riscritto) del monastero di Bobbio. Prima di quella data, Frontone era noto solo comeuno degli interlocutori delle Noctes Atticae di Gellio (vedi p. 483).Il corpus frontoniano comprende lettere a Marco Aurelio, Lucio Vero e altri personaggi; glischerzi neosofistici Laus fumi et pulveris e Laus neglegentiae; il De bello Parthico sullacampagna di Lucio Vero contro i Parti e i Principia historiae, esposizione dei criteri storio-grafici in base ai quali Lucio Vero avrebbe dovuto rielaborare i diari della spedizione; loscritto consolatorio De nepote amisso; il De feriis Alsiensibus, dove si consiglia a MarcoAurelio di godersi una vacanza sulla spiaggia di Alsio (ora Ladispoli); l’Arion, sulla favola di

Arcaismo e Neosofistica in Frontone

Il tramonto dell’eloquenza latina

Arcaismo e Neosofistica in Frontone 479

Arcaismo e Neosofistica

Noct. Att. XIX 8, 1

Le opere

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Arione salvato dal delfino. Ad eccezione dell’Arion, tutto è in forma di epistola. Qualche let-tera è scritta in greco. Restano solo frammenti delle opere oratorie che resero celebreFrontone, la più famosa delle quali, ricordata da Minucio Felice nell’Octavius, era contro icristiani.

La teoria retorica Il corpus di Frontone – che dal punto di vista del genere epistolare trattiamo a p.501 – è di notevole interesse per delineare la sua teoria retorica, in base alla qualel’eloquenza del principe, che al pari della tromba militare guida i sudditi, deve pos-sedere i mezzi retorico-linguistici adeguati a persuadere:

… quando dovesti parlare in senato o nell’assemblea del popolo, non usa-sti nessun vocabolo un po’ insolito, nessuna figura astrusa o inconsueta,poiché tu sai che l’eloquenza di un Cesare deve somigliare alla tromba,non al flauto, che ha un suono minore e presenta maggiore difficoltà.

Frontone distingue un’elocutio principis da un’elocutio novella. La prima èl’eloquenza dell’imperatore, che si può paragonare al segnale di battaglia della trom-ba, per la sua caratteristica di essere immediatamente riconoscibile e comprensibile,automaticamente comunicativa. Essa deve risultare chiara e servirsi di parole comu-ni e di uno stile semplice, perché svolge un ruolo di esortazione o di ammonimentonei confronti del senato e del popolo. «Vi è dunque uno stile d’eloquenza(l’eloquenza dell’imperatore) che formalizza la comunicazione persuasiva, coercitiva,direttiva del sommo potere con i sudditi; è noto che una monarchia assoluta (e taleera nella sostanza anche l’impero dei cosiddetti optimi principes del II secolo d.C.)tende a livellare tutti i sudditi: quindi l’eloquenza dell’imperatore si rivolge egualmen-te al senato come alle assemblee del popolo e dell’esercito» (A. Pennacini). Al contrario, l’elocutio novella – che costituisce il vero centro del pensiero retoricodi Frontone – si rivolge a un circolo ristretto di dotti, incluso l’imperatore quando sialibero da incombenze di governo e la sua oratoria non abbia finalità operative e po-litiche. Si caratterizza per una minore chiarezza e potenza, ma sa meglio esprime-re sentimenti ed emozioni, è più simile al suono vellutato del flauto che a quello im-perioso della tromba. Si tratta di una oratoria patetica, che mira a colmare lo iatotra le esigenze espressive personali e le possibilità della lingua d’uso, insufficientea rendere certe sfumature del reale. Si tratta di una oratoria creativa, che tenta levie della sperimentazione poetica e dell’innovazione linguistica (fictio novorum ver-borum) attingendo lessico e modelli espressivi dagli autori arcaici come Catone,Ennio, Nevio o dagli imitatori di questi, come Sallustio e Lucrezio. Da questi scritto-ri, piuttosto che dai classici ormai troppo noti, si devono cogliere gli inopinata atqueinsperata verba, cioè le espressioni e parole che – in quanto giungono inattese esono dotate di una purezza originaria – sono in grado di rinnovare l’espressione ecorrispondere alle esigenze non soddisfatte dalla lingua d’uso (sermo volgatus).Ciò implica, per il retore e lo scrittore moderni, un’estenuante ricerca che consistenella schedatura del lessico arcaico, naturalmente ricco di quei termini imprevisti ecuriosi «che si scoprono soltanto a prezzo di studio, cura, veglie e larga memoriadella poesia antica». L’arcaismo frontoniano è una risposta alla «questione della lingua», quale si pone-va nel momento in cui la «purezza originaria» era compromessa dal fatto che il la-tino era usato da popoli di lingua madre diversa. Il purismo di Frontone è, comeogni forma di purismo, una risposta in termini di protezionismo linguistico. Il model-

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TOIM

PERO

L’elocutio principis

Epistole III 1, 1 ss.; trad. di F. Portalupi

L’elocutio novella

La «questione della lingua»

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lo di Latinitas a cui attenersi è quello tradizionale, disponibile all’innovazione pur-ché questa avvenga nel rispetto delle strutture linguistiche originarie. A queste con-dizioni è ammesso anche il neologismo, purché ottenuto ricalcando le regole di for-mazione della parola latina: solo così non sembrerà una moneta falsa (aes adulte-rinum). «È significativo che come punto di riferimento s’identifichi il periodo arcaico,precedente al processo di integrazione politica degli Italici e alla fondazione dell’im-pero su scala extranazionale» (G. Giannotti).

Lo stileLo stile di Frontone si conforma ai principi, enunciati nella lettera Ad Marcum Cae-sarem, sui quali si fonda l’elocutio novella, che sono latinitas, elegantia, diligentia. Della latinitas già s’è detto. L’eleganza dell’eloquio è ricercata attraverso il dispiegodi mezzi retorici: parallelismi, antitesi, metafore, similitudini, ricerca di effetti sonori,giochi di suono e di senso. Il virtuosismo retorico, che tocca l’apice negli elogi para-dossali del fumo e della negligenza, degenera in una leziosaggine che, quand’an-che sia eccessivo considerare come specchio di una «società affetta da un formacollettiva di rimbambimento» (Perelli), risulta disturbante. Al tono sdolcinato, ceri-monioso, stucchevole concorrono i complimenti affettati, i diminutivi in funzionevezzeggiativa come nella poesia «leggera» dei Novelli, le espressioni retoricamen-te sproporzionate come le attestazioni di grave sollecitudine per un raffreddore deldestinatario. C’è l’ostentazione di sentimenti delicati e teneri, c’è il bamboleggiarein futili giochetti verbali, come fata-fari mentre si accenna alla morte dei figli: singo-lare disponibilità al divertissement linguistico in un padre di sei figlie, delle quali,come apprendiamo dall’epistolario, cinque morte bambine. Il culto della parola è assoluto in Frontone e rasenta il fanatismo, la retorica per luinon è più funzionale, come era sempre stata nei poeti e prosatori, all’espressionedi concetti, opinioni, sentimenti, ma è fine a se stessa. Convinto com’è della supe-riorità dell’eloquenza su ogni altra attività, neppure ammette che si possa avere in-teresse per la filosofia, come scrive a Marco Aurelio:

Mi sembra che tu, come fanno i giovani, stanco e annoiato per la fatica, ab-bia abbandonato lo studio dell’eloquenza e ti sia rivolto alla filosofia, uncampo in cui non ci sono proemi da rifinire con cura, né narrazioni dasvolgere concisamente e chiaramente e da collocare con accortezza, né te-mi generali da suddividere in parti, non ci sono prove da cercare, non vi ènulla da amplificare.

In realtà l’imperiale discepolo non abbandonò mai la retorica, tuttavia scrisse ingreco i suoi Pensieri, forse per insofferenza verso una concezione così assillantedello strumento linguistico, quale fin da ragazzo gli era stata instillata dal maestro.Il terzo principio su cui si fonda l’elocutio novella è la diligentia, che concerne so-prattutto la scelta dei vocaboli (dilectus verborum):

Soprattutto mi fa piacere che tu non afferri le parole che da sole ti si pre-sentano, ma cerchi quelle migliori. Infatti in questo il sommo oratore sidifferenzia da quelli mediocri, nel fatto che gli altri sono pronti ad accon-tentarsi delle parole che possono andar bene, mentre il sommo oratore nonsi accontenta di quelle che vanno bene, se possono essercene di migliori.

Di ogni parola, è scritto nell’epistola de eloquentia (2, 1), vanno sempre valutatiquesti aspetti: loca, gradus, pondera, aetates dignitatesque «posizione, ordine, pe-so, antichità e rango».

Arcaismo e Neosofistica in Frontone 481

Virtuosismo e leziosità

La retorica fine a se stessa

Epistole, p. 148, Van den Hout

Scelta e collocazione delle parole

Epistole, p. 92, Van den Hout

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L’opportuna conlocatio verborum è esemplificata sul passo sallustiano in cui è det-to di Catilina che «aveva dilapidato i beni paterni manu, ventre, pene», cioè nel gio-co, nei banchetti, nei bordelli. Il terzo vocabolo disturberebbe se fosse posto in pri-ma sede, mentre attenua la sua crudezza se è dislocato alla fine della serie omo-sillabica:

L’effetto ottenuto dalla somiglianza della forma delle parole fa sì chel’ultima parola, per quanto sia oscena, non risulti sconveniente. Questo,perché è preceduta da due parole simili. Ma se avesse scritto: pene bonapatria laceraverat sarebbe apparsa subito l’oscenità del vocabolo.

L’arcaismo frontoniano è equidistante dal ciceronianesimo di Quintiliano e dallateatralità dello stile «moderno» di Seneca. Il retore africano rimprovera a Ciceroned’essersi tenuto «lontano dalla scelta minuziosa dei vocaboli». Di Seneca invececritica l’eloquenza spettacolare e ne giudica lo stile, ricco di argute sententiae, ri-correndo a una similitudine. In un banchetto, uno si porta le olive alla bocca e lemastica coi denti; un altro le getta per aria e le acchiappa in bocca al volo, come fail prestigiatore con le palline. Certo, i convitati si divertono di più a guardare il se-condo, ma «mentre il primo avrà pranzato decentemente, il secondo avrà solo ese-guito una pantomima con le labbra». Seneca, funambolo della parola e capace diprodursi in virtuosismi che compromettono la limpidezza, è simile a quest’ultimo.

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TOIM

PERO

Epistole, p. 147, Van den Hout

Né Cicerone, né Seneca

Il neologismo. Il breve passo chiarisce la ragion d’essere dell’elocutio novella, nata per soddisfare le esigenze espres-sive di chi vuole comunicare sentimenti intensi e complessi o descrivere certe sfumature del reale, ma non trova nellalingua d’uso gli strumenti adeguati. Di qui la necessità di ricorrere all’innovazione linguistica (fictio novorum verborum).

Domino meo[1] Quod poetis concessum est o¬nomatopoieîn,verba nova fingere, quo facilius quod sentiuntexprimant, id mihi necessarium est ad gaudiummeum expromendum, nam solitis et usitatisverbis non sum contentus, sed laetius gaudeoquam ut sermone volgato significare laetitiamanimi mei possim: tot mihi a te in tam paucisdiebus epistulas scriptas easque tam eleganter,tam amice, tam blande, tam effuse, tam fla-granter conpositas, cum iam tot negotiis quotofficiis, quot rescribendis per provincias litterisdistringere.

3, 14

Al mio signore[1] Il neologismo concesso ai poeti, cioè ilcreare parole nuove, per estrinsecare con piùfacilità i propri sentimenti, è necessario a meper esprimere la mia gioia. In effetti le paroleusate comunemente non mi appagano; ma lamia esultanza è troppo viva perché io possamanifestare col linguaggio comune la felicitàdel mio amico: che tu mi abbia scritto in cosìpochi giorni tante lettere composte con tale ele-ganza e affetto, con tale dolce e ardente tra-sporto, quando appunto sei occupato da tantiaffari, da tanti compiti, dal dovere di risponde-re a tante lettere nelle varie province.

(trad. di F. Portalupi)

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Di Aulo Gellio (130 ca. - 180 ca. d.C.), forse africano, sappiamo solo ciò che lui stes-so racconta di sé. Erudito e soprattutto appassionato di cultura, studiò a Roma sottomaestri famosi come il grammatico Sulpicio Apollinare e il retore Antonio Giuliano.Frequentò le maggiori personalità intellettuali del tempo, il celebre retore neosofistaFavorino e soprattutto Frontone, col quale condivise l’indirizzo culturale arcaistico.Compì il viaggio d’istruzione canonico in Grecia, dove completò gli studi di filosofia.Qui conobbe Erode Attico, che lo ospitò nella sua villa. Visse in seguito a Roma,nei luoghi citati nella sua opera, Ostia, Tivoli, Preneste.È autore di una monumentale raccolta di citazioni (in venti libri quasi completamen-te conservati, manca l’ottavo) desunte dalla lettura diretta di testi, soprattutto d’etàrepubblicana. L’opera si immagina iniziata nelle sere d’inverno in una villa dell’Atti-ca, e perciò è intitolata Noctes Atticae:

Poiché abbiamo cominciato a redigere questi capitoli, quasi per diverti-mento, nelle lunghe notti invernali trascorse, come dicevo, nel territoriodella regione attica, così li abbiamo intitolati Notti attiche.

Il modello è quello della «miscellanea» (un genere noto anche coi titoli silvae o pra-tum), cioè di una raccolta di materiali eterogenei, volutamente priva di sistematici-tà, come precisa l’autore: nos usi sumus ordine rerum fortuito, «nella disposizionedegli argomenti ho adottato il criterio della casualità» (Praef. 2). In effetti gli argo-menti si susseguono senza un ordine logico, presentati mano a mano che veniva-no raccolti (indistincte atque promisce annotabam «prendevo nota così come veni-va, alla rinfusa», ibid.). Si passa dai venti ai poeti comici, dal genitivo partitivo allastoria del figlio muto di Creso. I soggetti trattati sono i più svariati: etimologico-grammaticali e di semantica (ad esempio, differenze espressive dei sinonimi), lette-rari, filosofici, storico-giuridici, religiosi, concernenti la scienza, l’astronomia e lamedicina, perfino gastronomici. Tuttavia, pur nella varietà caleidoscopica,l’interesse prevalente è per le discipline linguistiche e grammaticali, per i problemidi critica testuale, cronologia, attribuzione. Le Noctes riflettono l’aspirazione enciclopedica ad abbracciare ogni branca del sa-pere. Forse una suggestione derivava dalla Pantodapé historia («Questioni di ognigenere») di Favorino, che aveva l’identica presunzione di trattare tutti gli argomenti.Il carattere enciclopedico è confermato dagli indici redatti dall’autore, per agevolarela fruizione dell’opera, evidentemente destinata, più che alla lettura integrale, allaconsultazione in rapporto a specifici interessi del lettore. L’intento, espresso nella prefazione, era di costruire quasi quoddam litterarum pe-nus, «quasi una dispensa di cibi culturali» (Praef. 2), «in modo da condurre gli in-gegni ben disposti e alacri, per un sentiero svelto e facile, al desiderio di una scien-za onorevole e alla cognizione delle arti utili» (Praef. 12). Il genere era, insomma,quello di un’opera di «alta divulgazione» (Pennacini) destinata a un pubblico me-dio-alto, desideroso di svagarsi istruendosi. Per la configurazione sociologica diquesto pubblico «borghese», si veda quanto abbiamo scritto a p. 514 a propositodei ceti emergenti in età flavia.Alla frammentarietà si lega il gusto per il particolare, per l’aneddoto «sfizioso», perla curiosità erudita, sottile, spesso oziosa. Ai maggiori intellettuali del tempo – Fron-tone, esponenti insigni della Nuova Sofistica, grammatici e giuristi famosi – riunitinelle cene dei Saturnali, nell’atmosfera rarefatta delle gelide notti ateniesi, il padro-

Le Noctes Atticae di Aulo Gellio

Le Noctes Atticae di Aulo Gellio 483

Praef. 4

Asistematicità e varietà

Il carattere enciclopedico

L’erudizione

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ne di casa poneva questioni – ma c’è chi ha parlato di quiz – come quella gramma-ticale esemplificata nel brano che riportiamo sotto: se harena potesse essere usataanche al plurale e se quadrigae avesse un singolare. Altri quesiti potevano verteresul significato di una parola rara, sulla spiegazione o commento di un passo difficiledi un autore antico, sulla correttezza di un’argomentazione o l’errore di un sofisma.Si tratta di sottigliezze, di questioni formali talora vacue e capziose, ma a Gellio cosìnon pare. Anzi, egli critica gli eccessi dell’arcaismo ed è convinto di avere colto dagliautori antichi, depurato dalle quisquiglie, ciò che serve davvero per la formazionedell’uomo. Certo il suo orizzonte è più ampio e meno dogmatico di quello di Fronto-ne, il cui interesse era circoscritto alla sola retorica. Gellio è interessato anche agliaspetti di carattere morale, filosofico, giuridico (preziose informazioni egli ci offre suldiritto dell’antica Roma). Inoltre egli dà spazio anche a chi contesta il frontonianoculto della parola, come il retore Domizio che accusa gli arcaisti di ridurre tutto averba: «raccogliete glossari e parolette (lexidia), cose risibili, vacue, frivole» (18, 7). Nondimeno Gellio è solidale con gli arcaisti, con questi condivide la convinzione che lalingua antica possa esprimere adeguatamente ogni realtà del presente ed è pronto acensurare ogni aspetto di novità che non si conformi alle categorie linguistiche – equindi morali, cognitive, estetiche – del mondo arcaico. «Le Noctes Atticae prospettanouna visione dei fenomeni culturali sotto il segno della continuità con un passato ormairemoto e cristallizzato, che pure, per l’autore, è in grado di fornire i moduli espressiviper ogni esigenza» (A. Pennacini). Il patrimonio della tradizione è il fondamento di ognirealtà, ha un valore assoluto e discriminante nei confronti degli aspetti del presente. A prescindere dalla loro qualità intrinseca le Noctes Atticae sono una preziosa mi-niera d’informazioni, soprattutto per le diverse centinaia di citazioni letterarie latinee greche (accompagnate da aneddoti, informazioni, giudizi letterari spesso deno-tanti capacità di penetrazione critica) che grazie a essa ci sono state conservate.Lo stile, semplice e piacevole come si addice a un’opera di divulgazione, varia dal-la forma scarna e concisa della trattazione tecnica a quella più vivace e briosa deldialogo a più voci, che conserva il sapore delle conversazioni colte del tempo.L’inserimento della materia in una cornice narrativa, con incontri, cene, passeggia-te, aneddoti gustosi, vivacizza la materia farraginosa e pedante. L’opera rimase persecoli il modello della letteratura compilativo-erudita e una delle fonti più importantiper la conoscenza antiquaria del mondo latino.

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TOIM

PERO

Il conservatorismo culturale

Il valore dell’opera

Il classico come metafora patrimoniale. La parola arena si può usare al plurale? E quadrigae si può dire al singolare?Per risolvere dubbi linguistici di questo genere, si deve consultare un autore che sia classicus e non proletarius: due ter-mini, questi, di cui Gellio chiarisce il senso originario che avevano otto secoli prima, nella Roma di Servio Tullio.

Quand’ero un giovinetto a Roma, prima di recarmi ad Atene quando mi lasciavano del tempo liberoi maestri e le lezioni, facevo sovente visita a Cornelio Frontone e godevo della sua conversazioneraffinata e ricca di ogni eccellente dottrina. E non avvenne mai, ogni volta che lo vedevo e lo udivodiscorrere, di ritornarmene meno istruito e informato. Ad esempio, nel giorno in cui tenne una dis-sertazione su un argomento leggero, ma non di poco conto per la conoscenza della lingua latina. In-fatti, avendo un amico suo, persona assai colta ed eminente poeta in quel tempo, detto che era guari-to dall’idropisia avendo fatto uso di harenis calentibus (sabbie calde), Frontone ridendo disse: «Seiguarito dal male, ma non dal difetto di linguaggio. Gaio Cesare infatti, quel famoso dittatore perpe-tuo, suocero di Pompeo, da cui poi discese la famiglia dei Cesari che da lui così si chiamò, uomo dimeraviglioso ingegno, superiore a ogni altro del tempo suo per la purezza del linguaggio, nel libroDe analogia che dedicò a Marco Cicerone ritiene parlare improprio il dire harenae giacché harena(arena) non ha plurale, così come caelum (cielo) e triticum (frumento); invece ritiene che quadrigae(quadrighe), anche se si tratta di un solo cocchio trascinato da quattro cavalli, debba essere usato al

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Le Noctes Atticae di Aulo Gellio 485

plurale, come arma (armi), moenia (mura), comitia (elezioni), inimicitae (ostilità); a meno che con-tro tale affermazione, mio finissimo poeta, tu abbia qualcosa da obiettare, sì da dimostrare che il tuonon è un errore» [...] Tali questioni, penso, non possono venir investigate, chiarite e risolte da uomi-ni indaffarati in una città così occupata. Persino le stesse poche cose che vi ho detto vi hanno tratte-nuto, mi sembra, da qualche affare, al quale, penso, dovevate accudire. Andate pure, e quando percaso avrete del tempo libero, cercate se quadriga e harenae sia stato per caso detto da qualcuno diquella antica schiera o di oratori o di poeti, cioè da qualche scrittore classico e autorevole, non prole-tario» (quaerite an «quadrigam» et «harenas» dixerit e cohorte illa dumtaxat antiquiore vel orato-rum aliquis vel poetarum, id est classicus adsiduusque aliquis scriptor, non proletarius).

(XIX 8, 1-4 e 14-15; trad. di L. Rusca)

Qual è il significato di proletarius?

Un giorno mi trovavo a Roma nel Foro: gli affari eran sospesi; si celebrava lietamente una festivi-tà e in un crocchio di molte persone si leggeva un libro sugli Annali di Ennio. In tal libro si pre-sentarono i seguenti versi:

«A pubblica spesa è armato di scudoil proletario, e di crudele ferro;egli guarda le mura, la città, il Foro».

Allora si cominciò a chiedere che cosa significhi proletarius. Ed io, scorgendo in quel gruppo unamico esperto di diritto civile, gli chiesi di spiegarci quel vocabolo; avendo egli risposto che eraesperto in diritto e non in grammatica, gli dissi: «Proprio perché sei, come dici, esperto in dirittopuoi spiegarci quel vocabolo. Giacché Quinto Ennio prese quel termine dalla vostra legge delleDodici Tavole, nella quale, se ben ricordo, sta scritto: “Il proprietario sia garante per il proprieta-rio. Per il cittadino proletario lo sia chi vuole”. Perciò ti chiediamo di voler considerare che ti ab-biamo letto non gli Annali di Ennio ma le Dodici Tavole, e di spiegarci che cosa si intenda in quel-la legge per cittadino proletario». Ed egli rispose: «È vero che io dovrei saper spiegare e interpre-tare quel termine, se avessi imparato la legge dei Fauni e degli Aborigeni. Ma poiché oggi i termi-ni di proletarii, adsidui, sanates, vades e subvades, viginti quinque asses, taliones, i processi difurto cum lance et licio, sono tutti scomparsi, e la vecchia legge delle Dodici Tavole, salvo che neiprocessi davanti ai centumviri, è stata messa a riposo dalla legge Ebuzia, io debbo studiare e occu-parmi del diritto e dei termini legali che vengono al giorno d'oggi impiegati».Proprio in quel momento vidi passare di là Giulio Paolo, poeta fra i più colti di mia conoscenza.Avendolo salutato, gli chiesi di erudirci intorno al significato e all'origine di quel vocabolo. Edegli: «Coloro che fra la plebe romana erano più umili e più poveri e non erano censiti per più dimillecinquecento assi; venivan chiamati proletarii, e coloro poi che non dichiaravano nulla o quasial censo erano chiamati capite censi e il limite massimo dei loro censi era di trecentosettantacinqueassi. Ma poiché solo le proprietà e il denaro di una famiglia venivano considerati una garanzia e unpegno di lealtà verso lo Stato e costituivano una premessa e un'assicurazione di patriottismo, né iproletari né i capite censi venivano arruolati nell'esercito, salvo che in periodi di straordinari disor-dini, dato che la loro proprietà e il loro avere erano o modesti o inesistenti.

(XVI 10, 1-11; trad. di L. Rusca)

Qual è il significato di classicus?

Classici venivan detti non tutti coloro che erano divisi nelle cinque classi,1 ma soltanto quelli dellaprima classe, che cioè eran censiti per un possesso di centoventicinquemila assi o più. Eran detti infraclassem quelli che appartenevano alla seconda o alle altri classi, e che eran censiti per una somma in-feriore a quella sopra detta. Ho ricordato brevemente questo, perché nell'orazione di Marco Catone Infavore della legge Voconia2 si vuole ricercare la differenza fra classicus e infra classem.

(VI 13, 1-3; trad. di L. Rusca)

1. La divisione del popolo di Roma in cinque classi di seniores e una di iuniores veniva fatta risalire a Servio Tullio edaveva scopi militari e fiscali per contributi diretti. Alla prima classe inizialmente appartenevano, secondo Laevadan(Dect. des Antiquités), coloro che avevano 100 000 assi di reddito; alla seconda, 75 000; alla terza, 50 000; alla quarta,25 000; alla quinta, 1000. Coloro che avevano un reddito inferiore eran considerati extra classem.

2. Quinto Voconio Saxa, tribuno della plebe, propose nel 169 a.C. una legge che negava alla donna il diritto di eredita-re, concedendole solo di ricevere un legato.

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ALTO

IMPE

RO486 Retorica, erudizione, filosofia

Dai tre passi risulta che per Gellio il classico è innanzi tutto antico (cohorte ... antiquiore), inoltre è assiduus, cioè «be-nestante». Anche il significato originario di classicus riguardava il censo. Classici erano gli appartenenti alla prima dellecinque classi istituite da Servio Tullio, quelli censiti per oltre centoventicinquemila assi. Invece proletari erano i più pove-ri, coloro che non avendo patrimonio erano ricchi solo di prole. Che c’entrano queste definizioni con i classici della lette-ratura? «Nella metafora patrimoniale di Gellio gli scrittori classici si distinguono sulla base della loro “solvibilità”, se cosìsi può dire: uno scrittore può aspirare alla classicità quando risulta talmente affidabile che chiunque può rivolgersi a luiper stabilire se harena si può usare anche al plurale [...] La categoria della classicità corrisponde alla capacità di garan-tire, al possesso dell'autorevolezza, della rispettabilità. Il classico è uno scrittore che non t'inganna. Il suo patrimonio èricco: fidati, lo troverai sempre solvibile [...] Non si può negare che lungo l’arco della nostra cultura i classici abbianosvolto una funzione di tipo autoritativo. “L'ha detto Platone”, si dice comunemente, “l'ho letto in Omero”: dunque si trattadi una testimonianza importante, viene da un uomo di primo rango» (M. Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, Ei-naudi, Torino 1995, p. 147).

Il Tempio dei Castori (o di Ca-store e Polluce, o dei Dioscuri).Roma, Foro.

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Il clima culturalePer comprendere la figura di Apuleio (vedi il profilo a p. 591) è necessario rifarsi alcomplesso panorama culturale che caratterizza i suoi tempi. In seguito alla mutatacondizione storico-politica nascono nel mondo romano, segnato da mancanza ditensione ideale, nuove esigenze spirituali a cui la cultura latina non è in grado dioffrire risposte; si lascia spazio quindi a un processo di orientalizzazione che por-ta con sé esperienze religiose lontane dal tradizionale sentire del popolo di Romae dell’Italia. Sono queste legate ai Misteri, che, con il loro fascino esotico, asse-condano il bisogno di trascendenza e spiritualità ormai diffuso. D’altro canto, segnodella povertà culturale dei tempi è anche la risposta dei letterati che si rifugiano nel-la retorica e in un nuovo culto della parola. È il periodo della «Seconda» o «Nuova»Sofistica, che continua quella tendenza al disimpegno caratterizzata da indifferenzaper i contenuti che abbiamo visto affermarsi nelle declamationes del I secolo d.C. Ilrecupero lessicale delle forme arcaiche è solo ricerca di novità e il richiamarsi allaletteratura latina delle origini «ha un significato, sia pure non preminente, di risve-glio e orgoglio nazionale» di fronte al dilagare di culture diverse; non mancal’interesse per la filosofia, soprattutto pratica, ma l’atteggiamento è per lo più super-ficiale: «molto più del bisogno di verità, molto più dell’esigenza di fissare dei valoriper la vita, conta il piacere della conversazione erudita e della disputa; la grandevarietà di argomenti, la mancanza di sistematicità sono in funzione di una curiositàsenza tormento» (La Penna). I letterati conoscono grande popolarità e successistrepitosi grazie alla moda che si era diffusa di andare in giro a tenere conferenze.

Le opereNumerose e di vario genere, le opere di Apuleio stanno a dimostrare i suoi interes-si nei campi più svariati: dall’erudizione scientifica (aritmetica, medicina, astrono-mia, scienze naturali ecc.) alla storia, la musica, la poesia, la filosofia; di questegran parte non ci è giunta, mentre abbiamo l’Apologia, i Florida e le Metamorfosi(vedi pp. 591 ss.). Ci sono pervenuti anche numerosi scritti filosofici a lui attribuiti,ma gli studiosi propendono per l’autenticità soltanto di De Platone et eius dogmate,De mundo, De deo Socratis.

Le opere filosoficheApuleio amava definirsi philosophus Platonicus e con questo epiteto fu conosciutoed onorato dai suoi contemporanei, che gli tributarono l’onore di una statua con lascritta sul basamento «Al filosofo platonico, i cittadini di Madaura».In realtà i suoi trattati filosofici rivestono una certa importanza non tanto per origi-nalità di pensiero, quanto perché rivelano e gli interessi che egli coltivò in questoambito e le tendenze culturali del tempo; contribuirono inoltre alla conoscenza delpensiero platonico, seppure «contaminato», durante il Medioevo, quando ancoranon erano conosciute direttamente le opere del filosofo greco.Il De mundo è il rifacimento in latino di un breve trattato in lingua greca, il Perì kò-smu, falsamente attribuito ad Aristotele, opera forse di un anonimo del I secolod.C. Vi sono sviluppate le teorie fisiche di Aristotele, non prive tuttavia di influssiplatonici e neo-stoici.

Neosofistica e oratoria: Apuleio

Neosofistica e oratoria: Apuleio 487

De mundo

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Nel De Platone et eius dogmate sono esposte la vita e la dottrina platonica secon-do l’interpretazione del platonismo medio, «caratterizzato dalla ripresa e dall’ap-profondimento degli aspetti esoterici della filosofia di Platone, cioè da quelle dottri-ne “non scritte” di taglio mistico ed escatologico che rappresentavano le radici pro-fonde del pensiero filosofico» (Cipriani). Il De deo Socratis è in realtà un’ampia conferenza, con lo stile proprio dell’oratoriaepidittica del tempo, in cui viene ampiamente trattata la dottrina dei dèmoni diffusafra alcuni famosi seguaci di Platone: secondo questa i dèmoni che popolano ilmondo sarebbero potenze divine intermedie con funzione di mediatori fra gli dèi egli uomini; così era anche il dèmone di Socrate, quella voce che egli affermava disentire, la quale non gli diceva cosa dovesse fare, ma lo distoglieva dal compiereazioni sbagliate.

Le opere oratorieApulei Platonici pro se de magia è l’indicazione riportata nei codici più antichi a in-dicare il discorso – unica orazione giudiziaria della letteratura latina, oltre quelle diCicerone, giuntaci per intero – che Apuleio pronunciò in propria difesa (per questoprobabilmente in epoca umanistica fu chiamata anche Apologia) verso la fine del158 d.C. a Sàbrata, città della regione sirtica, nell’Africa settentrionale.Era infatti stato accusato di aver sedotto, attraverso arti magiche, la ricca e maturavedova Pudentilla inducendola al matrimonio per impossessarsi delle sue ricchez-ze. L’accusa era grave in quanto già dal I secolo a.C. in Roma era in vigore unalegge, la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, che puniva duramente, anche con lamorte, chi ricorreva a veleni ed era dedito a culti proibiti e riti notturni; questa, ripre-sa all’epoca di Tiberio, venne ampliata e perseguiva qualunque reato di magia.Che si dicesse nella città che Apuleio era un mago doveva essere la verità; i suoiaccusatori approfittarono di ciò e cercarono di dimostrare che era vero e che, solograzie a questa sua attività, era riuscito a convincere Pudentilla, fino ad allora re-stia ad un nuovo matrimonio, a sposarlo; l’insinuazione era che l’avesse sposataper interesse. Nella prima parte del discorso Apuleio affronta l’accusa riguardantela magia ribattendo punto per punto quanto aveva affermato o insinuato l’avvocatod’accusa Tannonio Pudente: con abilità mette in luce dinanzi al giudice, a cui si ri-volge confidenzialmente come a chi è fra i pochi che possono comprenderlo, chel’atteggiamento dei suoi accusatori è dovuto ad ignoranza e rozzezza; contro di lo-ro usa l’arma dell’ironia, il che conferisce al discorso un andamento vivace e un to-no brillante; nella seconda parte si difende dall’accusa di seduzione di Pudentilla ri-cordando le intricate vicende connesse con l’eredità. Ne risulta uno squallido qua-dro in cui i parenti di lei sono mossi unicamente da interesse per le grandi ricchez-ze della vedova; Apuleio invece non può che essere immune da questo sospetto,dato che – e qui c’è il colpo di scena – il testamento che Pudentilla aveva scrittoera tutto a favore del figlio Pudente! Se nella prima parte prevale l’ironia sulle accu-se di magia (tra cui: Apuleio è bello ed eloquente, si è servito per un dentifricio dierbe e polverine che si usano anche per pratiche magiche, ha scritto versi d’amoreper due fanciulli con evidente funzione magica per sedurli, possiede uno specchio,seziona pesci, fa sacrifici notturni), tutta l’orazione è giocata sulla dimostrazione«culturale e sapienziale, che necessariamente diventa, sul piano di Apuleio, filoso-fica (amore), scientifica (specchi e pesci), medicale (epilessia-incanti)» (Mosca), esulla distinzione fra la magia dei grandi pensatori che persegue il bene e la salvez-

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TOIM

PERO

De Platone et eius dogmate

De deo Socratis

Apologia

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za dell’uomo, e la magia nera, che ha per scopo il male ed è quella di cui è accu-sato Apuleio: ma egli afferma di credere ed essere dedito solo alla prima, dimo-strando che la ricerca delle sostanze e dei metodi per curare l’uomo è del magocome del medico, come del filosofo.L’altra opera di Apuleio di carattere oratorio sono i Flòrida, antologia di conferenze(sono ventitré, di estensione varia) tenute in Africa, tratte forse, non sappiamo dachi, da una raccolta più ampia curata da Apuleio stesso. Testimonianza delle suecapacità oratorie, trattano argomenti di natura diversa, affrontati in tono brillantema in modo superficiale: caratteristica più evidente, il virtuosismo linguistico che siesplica nella costruzione del discorso come nella scelta delle parole.

Retorica e stileA giudizio unanime degli studiosi Apuleio è un artista della parola. Il suo stile, fruttodi sofisticata elaborazione artistica, appare originalissimo: l’abbondante ricorso amezzi retorici non è riservato alle orazioni, ma si riscontra in tutte le sue opere. Tut-tavia sull’artificiosità, peraltro talora presente, prevale il senso della raffinatezza de-terminata da particolare abilità nel mescolare registri linguistici diversi: ne risultauna varietà che si concretizza nella scelta di un lessico a volte specifico, a volte fat-to di arcaismi e poetismi, volgarismi e neologismi. Non è disdegnata la lingua par-lata quotidianamente, ma la fantasia e la capacità inventiva di Apuleio la arricchi-scono di echi e citazioni letterarie che stanno a dimostrare la sua grande cultura fi-losofica e letteraria. Lontano dal senso classico della forma, il suo stile si può direperfettamente inserito nelle tendenze dell’epoca: ama particolarmente i diminutivipropri sia del linguaggio familiare, sia dei poetae novi e di Catullo (modelli dei poe-tae novelli), e a questi sa attribuire sfumature diverse a seconda delle esigenze deltesto. Ma l’aspetto in cui Apuleio maggiormente si distingue è il senso musicaledella lingua a cui presta la sua formazione retorica ricorrendo a giochi di parole,accostamenti di frasi parallele e ad ogni tipo di figura di suono.

Neosofistica e oratoria: Apuleio 489

Flòrida

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Francesco Piazzi, HORTUS APERTUS - Autori, testi e percorsi - Copyright © 2010 Cappelli Editore

GRAMMATICA, GRAMMATICA,ERUDIZIONEERUDIZIONE Macrobio

Vittorino, Donato, Servio, Marziano Capella

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Della vita di Ambrogio Teodosio Macrobio non sappiamo quasi nulla, tranne chedovette essere un personaggio di rango senatorio (lo prova la formula vir clarissi-mus et illustris assegnatagli nei codici) forse di origini africane, legato alla famigliadei Simmachi. È incerto se lo si debba identificare col Macrobio prefetto di Spagnanel 399 o con quello che fu prefetto del pretorio nel 430. La questione non è irrile-vante e ha conseguenze nell’interpretazione dei suoi scritti, che sono i Commenta-rii in Somnium Scipionis (commento in chiave neoplatonica del finale del libro VIdel De repubblica ciceroniano), i sette Saturnaliorum convivia («Conviti durante iSaturnali»), il trattato grammaticale De differentiis et societatibus Graeci Latiniqueverbi («Differenze e analogie fra il verbo greco e quello latino») di cui restano scar-si frammenti. Queste opere assumono un significato diverso a seconda che siano state compo-ste alla fine del IV secolo, quando la cultura pagana conservava una certa vitalità,o verso la metà del V, quando ormai il cristianesimo aveva celebrato il suo trionfo. I Saturnaliorum convivia sono un dialogo che si svolge per tre giorni (dal 17 al 19dicembre), durante la festa dei Saturnali, tra personaggi di primo piano della cultu-ra pagana riuniti a convivio: Aurelio Simmaco, Avieno (forse figlio del poeta omoni-mo), il grammatico Servio, l’oratore Eusebio, il filosofo Eustazio e altri esponentidell’intellettualità del tempo. L’anno dell’ambientazione è il 384. La serena corniceletteraria del banchetto dei sapienti, un espediente narrativo non nuovo il cui arche-tipo è nel Simposio di Platone, movimenta l’esposizione e rende più gradevole lalettura. Gli argomenti dibattuti nella prima giornata sono di varia erudizione e spaziano dal-la linguistica alla letteratura, dalla medicina alla filosofia, dall’astronomia ai motti dispirito arguti degli antichi. Nei due giorni successivi l’oggetto della discussione èsoprattutto Virgilio, considerato fonte d’ogni sapere (anche in campo scientifico,giuridico, filosofico) e modello di ogni stile:

V 1, 7 Quattro sono, disse Eusebio gli stili del discorso: quello copioso (copio-sum), in cui prevale Cicerone; quello conciso (breve), in cui domina Sallu-stio; quello sobrio (siccum) di cui è maestro Frontone; quello ampolloso efiorito (pingue et floridum), nel quale si distinse in passato Plinio il Giova-ne ed ora, non inferiore ad alcuno degli antichi, il nostro Simmaco. Ma nelsolo Virgilio troverai questi quattro generi di stile.

Il poeta dell’Eneide è oggetto di un culto, da parte dei convitati, che fa presagire lafortuna che avrà nel Medioevo. La sua opera comincia già ad essere interpretata insenso mistico-allegorico. I personaggi, e in particolare i tre anfitrioni (Pretestato, Simmaco, Flaviano), sonoben caratterizzati e i loro interventi riflettono le specifiche competenze di ciascuno: il

Macrobio

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La vita

I Saturnali

I contenuti

I personaggi

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gran sacerdote e seguace di culti orientali Pretestato disquisisce di questioni di ca-rattere religioso, di Virgilio trattano Simmaco, Eustazio, e Servio: il primo ne discutelo stile, il secondo la filosofia, il terzo commenta alcuni passi controversi. Un perso-naggio petulante e solo letterario, Evàngelo, svolge il ruolo di denigratore di Virgilio(obtrectator Vergilii), innescando vivaci scambi polemici con gli altri convitati.Nonostante il carattere compilatorio dell’opera – che assembla materiali di variaprovenienza, spesso trasferendoli di peso dall’originale, come avviene per alcunipassi delle Notti Attiche di Gellio – l’autore mira a dare organicità e ordine all’insie-me: «Non ho certo raccolto senz’ordine, come in un mucchio, le cose degne di ri-cordo … ma le disparità dei vari argomenti … ho disposte in un complesso organi-co, di modo che … risultassero ordinate e ben connesse come le membra di uncorpo» (Praef. 3). Oltre a Gellio, figurano tra le fonti Varrone, Svetonio, Plutarco.L’interesse antiquariale non concerne aspetti futili o secondari, ma focalizza proble-mi nodali della cultura pagana, concernenti il significato attuale e la sopravvivenzadi questa nei tempi del cristianesimo trionfante, anche se di cristianesimo Macro-bio, curiosamente, non parla mai. Pur nella serena finzione del dialogo convivialetra dotti, si ha l’impressione di un arroccamento come per un’estrema, vana difesa.Questi rappresentanti prestigiosi dell’intellettualità pagana, simboli della grande tra-dizione classica, percepiscono la fine d’un mondo e s’affrettano a rievocarlo, benconsapevoli che non potrà più tornare. Essi «sembrano intenti a redigere un inven-tario globale del loro sapere, prima che si disperda o taccia sopraffatto da altre cul-ture, da altre concezioni del mondo» (G.F. Giannotti). Incrollabile è infatti la lorocertezza che quel patrimonio culturale meriti d’essere conservato:

Se siamo assennati dobbiamo avere una sconfinata ammirazione per i tem-pi antichi. Sono quelle le generazioni che crearono questo immenso imperocol sudore e col sangue. Certo non vi sarebbero riusciti, se non li avesserosorretti grandi doti di virtù.

Africano d’origine, Mario Vittorino fu maestro di retorica famoso sotto Costanzo II,al punto da ricevere nel 353 l’onorificenza di una statua nel Foro di Traiano. La vi-cenda della sua conversione al cristianesimo – esemplare per la notorietà del per-sonaggio, la cui scuola era frequentata da membri dell’aristocrazia pagana – è rife-rita da Agostino, che rievoca il momento in cui «tra lo stupore di Roma e la gioiadella Chiesa» Vittorino, ormai in extrema senectute, prese il battesimo. In seguito aldecreto di Giuliano che vietava ai cristiani d’insegnare nelle scuole, si ritirò a vitaprivata e attese alla composizione di molti scritti.

Vittorino curò varie traduzioni dal greco (perdute) di opere filosofiche di Aristotele, Porfirio,Plotino; scrisse il trattato di logica De definitionibus (sulla teoria della definizione), l’Arsgrammatica (conservataci solo nelle parti relative alla fonetica e all’ortografia); composecommenti al De inventione di Cicerone e alle epistole di S. Paolo (agli Efesini, ai Gàlati, aiFilippesi), scritti teologici contro l’arianesimo e il manicheismo: De homousio recipiendo(«Sulla necessità di accogliere la dottrina della consustanzialità», cioè dell’uguaglianza nel-la sostanza tra Padre e Figlio), Adversus Arium, Ad Candidum Arianum, De generatione di-vini Verbi. Restano anche tre inni ritmici sul tema trinitario, privi della struttura metrica tradi-zionale e notevoli per il lirismo ispirato ai Salmi.

L’interesse per i filosofi neoplatonici, in particolare per Porfirio – nel cui pensiero,ammette Agostino, «almeno si suggerisce l’idea di Dio e del suo Verbo» – dovette

Vittorino, Donato, Servio, Marziano Capella

Vittorino, Donato, Servio, Marziano Cappella 675

L’intento enciclopedico

L’arroccamento culturale

III 14, 2

Le opere

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facilitare la conversione al cristianesimo, col quale il neoplatonismo condivideva latrascendenza divina e il monoteismo. Le traduzioni di Plotino e Porfirio attestanoanche un fervore di studi filosofici neoplatonici a Roma verso la fine del IV secolo.L’apprezzamento di Agostino, che lo elogia come «dottissimo maestro, grande co-noscitore di ogni disciplina liberale» (Conf. VIII 2), non è condiviso da Girolamo,che ne critica le oscurità e le sottigliezze.Forse africano, nato intorno al 310, il grammatico Elio Donato fu protagonista, in-sieme con Vittorino, della rinascita di studi filologici e antiquariali del IV secolo.Grande cultore di classici, dei quali sapeva trasmettere l’amore ai propri discepoli(tra questi, Girolamo e Rufino), scrisse due manuali scolastici di grammatica,un’Ars minor per i principianti e un’Ars maior per gli studi avanzati. Nel primo sianalizzano le otto parti del discorso (conservate nell’analisi grammaticale fino ainostri tempi), nel secondo sono trattati argomenti di stile e di metrica. Di un commento a Virgilio restano un’introduzione alle Bucoliche e una biografiadel poeta dipendente da Svetonio. Un commento alle commedie di Terenzio, perve-nuto quasi integro (manca solo la parte relativa all’Heautontimorùmenos), è digrande interesse per gli interpreti del commediografo, in quanto ci informa sulle cir-costanze delle rappresentazioni e sui rapporti con gli originali greci, che Donatoleggeva ancora mentre per noi sono perduti.In particolare le due Artes ebbero grande fortuna durante il Medioevo fino a tuttol’Umanesimo, al punto che Donatus finì col designare, per antonomasia, la gram-matica. Divenuti un classico della grammatica latina, i due manuali furono varia-mente rimaneggiati: fusi in uno solo, ampliati oppure ridotti, trasformati in commen-ti. Dante ricorda nel Paradiso «quel Donato/ ch’a la prim’arte degnò porre mano»(XII 137-138), intendendo con prim’arte la grammatica che apriva gli studi del Trivio.Probabilmente allievo di Donato di cui curò un commento delle Artes (Explanatio inartem Donati), Servio è uno dei convitati dei Saturnales di Macrobio. Vissuto a Ro-ma tra il IV e il V secolo, scrisse un celebre commento a Virgilio (all’Eneide, alleBucoliche, alle Georgiche), del quale sono rimaste due stesure: una scolastica bre-ve e una più ampia consistente in una serie di annotazioni (scolia) di caratteregrammaticale, stilistico, antiquariale. La seconda redazione – denominata ServiusDanielinus da Pierre Daniel, che ne curò l’edizione parigina del 1600 – fu incre-mentata nel tempo con l’aggiunta di materiali eruditi di altri autori (in particolare diDonato), pertanto si configura come la summa di una lunga tradizione scolastica diesegesi dei testi di Virgilio: perciò è denominata anche Servius auctus, cioè accre-sciuto da materiali medioevali. Le note «danieline» sono di grande interesse, oltreche per lo studio di Virgilio, perché riportano citazioni di testi perduti che altrimentinon potremmo leggere. Inoltre ci fanno conoscere i metodi della critica letterarianell’antichità. Virgilio nel commentario serviano comincia ad assumere i tratti delmaestro di sapienza, quale sarà nel Medioevo. Iniziano qui le interpretazioni alle-goriche dei testi virgiliani (ad esempio dell’egloga IV, del VI libro dell’Eneide), nateanche per favorire il sincretismo tra mondo classico e cristiano. Sempre, nel corso della storia, la tradizione sopravvive se è in grado di accoglierele istanze dei nuovi tempi. Così la cultura pagana, per non morire, doveva integrar-si nella visione cristiana del mondo. Alla sintesi tra cultura classica e cristianesimo,tra vecchio e nuovo, preludono i nove libri del De nuptiis Mercurii et Philològiae del-l’avvocato cartaginese Marziano Capella, vissuto nella prima metà del V secolo.L’opera, mista di versi e prosa (prosimetro) sul modello delle sature Menippeae, èl’enciclopedia delle arti liberali: grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmeti-

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Elio Donato

Servio

Marziano Capella

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ca, astronomia, musica. Queste, ridotte a sette rispetto alla suddivisione tradiziona-le che includeva anche l’architettura e la medicina, costituiranno il Trivio e il Quadri-vio del Medioevo. Nell’allegoria del De nuptiis, Mercurio sposa la Filologia, doctissi-ma virgo cui gli dei concedono l’immortalità. Le sette arti, ciascuna delle quali sipresenta a partire dal terzo libro (i primi due narrano le mistiche nozze), saranno lesue ancelle. Le parti poetiche riecheggiano versi di Lucrezio, Catullo e dei poeti au-gustei. Il modello dell’allegoria è la favola di Amore e Psiche di Apuleio, da cui lenozze di Filologia derivano molte immagini e situazioni narrative, il gusto perl’allegoria, lo stile turgido e ricercato. Soprattutto apuleiano è l’elemento iniziatico emisterico di ascendenza neoplatonica, che agevola il sincretismo religioso e cultu-rale ricercato da questi autori della tarda latinità.

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Oratoria, retorica,epistolografia

I Panegyrici Latini

Simmaco e la reazione pagana

Retorica e Cristianesimo: Tertulliano, Minucio Felice, Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Lattanzio

La nuova eloquenza cristiana di Agostino

Epistolografia cristiana:Ambrogio, Girolamo, Agostino

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Il corpus dei cosiddetti Panegyrici Latini comprende 12 composizioni encomiastiche inonore di imperatori pronunciate in un arco di tempo che va dal 289 al 389. La raccolta,che probabilmente fu approntata in Gallia e aveva una destinazione scolastica, si aprecol Panegirico di Plinio il Giovane, che di questo genere oratorio è il modello indiscusso. Dei 12 componimenti (includendo anche quello pliniano), cinque sono anonimi. Gliautori dei rimanenti sono uno sconosciuto Memertino, i due retori gallici Eumenio eNazario, Flavio Claudio Mamertino, Latinio Pacato Drepanio. Gli imperatori dedicatarisono Massimiano, Costanzo, Costantino, Giuliano, Teodosio. Le circostanze sono ilcompleanno dell’imperatore, un matrimonio o una vittoria, l’assunzione di una caricapubblica da parte dell’autore.Il carattere ufficiale e propagandistico, l’aderenza a schemi retorici assai vincolanti,la selezione dei soli contenuti positivi e la rimozione di quelli più imbarazzanti per ilcelebrato rendono tutti simili tra loro i panegirici e comportano che il loro interessestorico-documentario sia limitato. Il fatto stesso che nella raccolta sia incluso il pa-negirico di Plinio a Traiano, scritto quasi tre secoli prima, dimostra la fissità nel tem-po delle forme dell’oratoria elogiativa.Certo, la veste retorica e la visione obbligatoriamente ottimistica non sempre riesconoad occultare le difficoltà dell’impero (i barbari ai confini, le condizioni dell’economia,ecc.), ma il celebrato quasi sempre è presentato come colui che a questi problemicruciali ha saputo dare una soluzione. Ad esempio, nel panegirico di Massimiano, siammette che ad ogni secca del Reno sorge il timore che i Germani lo attraversino, maciò riguarda il passato precedente alle vittoriose campagne militari di quell’imperatore:«Ma tu, invitto signore, hai sottomesso quelle genti fiere e indomite … Da allora noisiamo finalmente liberi da ogni preoccupazione» (2, 7, 6-7). Non si deve sottovalutarela funzione «mediatica» di pubblicizzazione della politica dell’imperatore, svolta daqueste composizioni. Ma al di là dell’enfasi propria del genere encomiastico, questiscritti attestano la sincera convinzione dell’importanza della cultura tradizionale e lacertezza di una sua rivincita sul trionfante cristianesimo, che nei panegirici viene sem-plicemente ignorato. Inoltre costituiscono un prezioso documento sull’insegnamentodella retorica e quindi sul tipo di istruzione impartita ai ceti dirigenti del tempo. Queste composizioni d’apparato risultano fastidiose e stucchevoli per il gusto del let-tore moderno a causa della magniloquenza, delle iperboli inverosimili, delle espres-sioni fatte per compiacere al celebrato, cui l’elogio era stato preventivamente sottopo-sto per l’approvazione. Disturbano la ricorsività monotona dei motivi, la fissità delloschema espositivo simile a quello degli antichi elogia: si inizia con la descrizione del-la patria e della formazione del celebrato, poi si passa alle sue imprese e virtutes raf-forzando le lodi con exempla tratti dal mito e dalla storia, infine si formulano gli augu-ri di fortuna e prosperità. Naturalmente abbondano poetismi e forme ricercate,espressioni di sentenziosità astratta e solenne, dotte allusioni ai classici.

I Panegyrici Latini

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Retorica e tarda latinità

Gli stereotipi del genere encomiastico

Lo stile

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Il più audace tentativo di restaurazione pagana è rappresentato dalla politica diGiuliano, detto l’Apostata per avere abiurato il cristianesimo, ormai divenuto religio-ne di stato. Attorno a questo imperatore filosofo, imitatore di Marco Aurelio, si strin-sero i massimi esponenti dell’intellettualità pagana. L’azione di Giuliano concernevail rilancio della religione tradizionale rivisitata in chiave neoplatonica, il restauro deitempli, l’abolizione dei privilegi della Chiesa, il divieto ai cristiani di insegnare nellescuole pubbliche. La morte dell’imperatore nella campagna contro i Parti del 363troncò il progetto, tuttavia non pochi esponenti dell’aristocrazia romana continuaro-no ad impegnarsi nella difesa della cultura tradizionale. In particolare due famigliedella nobiltà senatoria, i Simmachi e i Nicomachi, furono il punto di riferimento del-la ripresa pagana, che in un primo tempo non fu ostacolata dalla politica tollerantedi Gioviano e Valentiniano, i successori di Giuliano. Ma con Teodosio i culti antichifurono vietati e non ci fu più lo spazio politico per una restaurazione classicistica. In tale contesto si svolge l’attività di Quinto Aurelio Simmaco, esponente dell’aristo-crazia senatoria romana nato verso il 340, oratore famoso, prefetto di Roma nel384-385 e console nel 391. Alla corte di Valentiniano I (364-375) conobbe il poetaAusonio. È il paladino della cultura negli anni cruciali in cui il cristianesimo divienereligione di stato e il paganesimo è posto al bando.

Di lui ci restano otto orazioni incomplete, tre panegirici (dedicati a Valentiniano e Graziano,pronunciati alla corte di Treviri) e un copioso epistolario di circa 900 lettere indirizzate apersonaggi pubblici tra i quali lo stesso Stilicone, il potente generale vandalo di Teodosio.49 lettere sono Relationes, cioè rapporti ufficiali inviati all’imperatore da un magistrato, altrehanno carattere privato (epistulae salutatoriae cioè di saluti e convenevoli, commendaticiaecioè di raccomandazione, consolatorie, di ringraziamento, ecc.). L’epistolario è ordinato se-condo il modello pliniano: dei nove libri in cui è diviso, i primi otto contengono lettere priva-te, il decimo quelle di carattere pubblico.

In particolare nella Relatio III Simmaco chiede che venga ricollocata nella Curial’ara della Vittoria, rimossa da Graziano. Il monumento, voluto da Augusto dopo labattaglia di Azio nel 31 a.C., era un simbolo della paganità e il segno visibile dellaprotezione accordata dagli dei pagani all’impero romano: sull’ara i senatori gettava-no granelli d’incenso entrando nella Curia. Simmaco presenta la petizione alla cor-te di Milano nel 384, nella sua veste di praefectus urbi. La restituzione dell’insignemonumento s’impone, secondo Simmaco, per motivi di tolleranza religiosa e pergarantire la sicurezza dell’impero:

Restauriamo, quindi, i riti e i culti, che così lungamente protessero il nostrostato. Possiamo certo noverare prìncipi seguaci dell’una o dell’altra fede:d’essi i primi hanno professato la religione dei padri; altri, più vicini a noi,pur non professandola, non l’hanno soppressa. Ora, se non serve a void’esempio la religione dei primi, vogliate almeno ispirarvi alla tolleranzadi quegli altri. Chi è così amico dei barbari da non rimpiangere l’altare del-la Vittoria? Noi siamo pensosi delle future sorti dell’impero e temiamo chel’avvenuta rimozione di quell’ara possa essere per l’impero presagio disventure.

Un parere contrario alla ricollocazione fu espresso in due discorsi da Ambrogio, ilcui punto di vista intransigente finì col prevalere presso l’imperatore Valentiniano II.L’ara della Vittoria non ritornò più nella Curia. Al nobile pagano che affermava un principio di relativismo culturale e di rispetto

Simmaco e la reazione pagana

Simmaco e la reazione pagana 681

La parentesi anticristianadi Giuliano

La battaglia di Simmaco

Opere

La questione dell’altaredella Vittoria

III 3; trad. di L. Canfora

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delle diversità («Che importa se ognuno cerca la verità a modo suo? Non si puòconoscere un così grande mistero per un solo cammino», 3, 10) il vescovo cristia-no rispondeva così: «La salvezza non potrà essere ottenuta se non si adora il veroDio, cioè quello dei cristiani … gli dèi pagani sono demòni» (par. 1). La durezza della contrapposizione tra pagani e cristiani in questi anni cruciali per ilrapporto tra le due culture non impediva tuttavia al cristiano Prudenzio di esprime-re stima e ammirazione per Simmaco, auspicando che egli ponesse la propria elo-quenza al servizio della vera fede:

Contra Symm. I 632-637 O lingua che spande una fonte mirabile di parole, gloria dell’eloquenza ro-mana, di fronte alla quale s’inchinerebbe perfino Cicerone, tanto è il fulgo-re della sua mirabile facondia! Bocca degna di risplendere eternamented’oro, se mai volesse un giorno lodare Dio, al quale ha preferito orridi mo-stri, profanando con un delitto la sua voce armoniosa.

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Dittico dei Nicomachi e dei Simmachi (400 circa). Parigi, Museo di Cluny; Londra, Victoria and Al-bert Museum.

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Il rapporto degli scrittori cristiani con il patrimonio retorico classico – nei secoli checonducono dalla tarda antichità al Medioevo – si articola lungo due direttive princi-pali: da un lato essi conoscono gli strumenti della persuasione retorica e se ne val-gono, soprattutto nella predicazione o negli scritti a difesa del pensiero cristiano;dall’altro ne rifiutano il carattere di artificio contrapposto alla semplicità anche stili-stica del messaggio evangelico.Tra i tipi canonici di orazioni, quella di genere giudiziario è ben conosciuta dagli au-tori che, all’epoca delle persecuzioni, si propongono di difendere i cristiani comedavanti a un tribunale. È il caso evidente dell’Apologeticum (scritto apologetico, ossia di difesa) del cartagine-se Tertulliano, composto verso la fine del II secolo d.C. da uno scrittore che ben cono-sceva i procedimenti della giurisprudenza e della retorica. Indirizzando la propria dife-sa ai governatori romani, egli da un lato respinge le accuse infamanti rivolte alle primecomunità cristiane, dall’altro, in perfetto stile processuale, controbatte passando all’at-tacco. La terminologia oratoria giudiziaria appare evidente all’inizio del capitolo II:

Se dopo tutto è certo che noi siamo dei grandi delinquenti, perché mai ve-niamo trattati da voi stessi diversamente dai nostri simili, cioè dagli altridelinquenti, mentre per una stessa colpa dovrebbe esservi trattamentouguale? Quando gli altri sono accusati di tutte le cose che a noi vengonoimputate, essi possono, con la propria voce o per mezzo di una voce paga-ta, provare la propria innocenza; essi hanno facoltà di risposta, di contrad-dittorio, perché non è affatto lecito condannare qualcuno senza che sia sta-to difeso ed ascoltato. Ai cristiani non è invece permesso di dire ciò che lidiscolperebbe dall’accusa, farebbe rifulgere la verità dei fatti, impedirebbeal giudice di commettere un’ingiustizia …

Probabilmente conobbe l’Apologeticum tertullianeo Minucio Felice, che ne riecheggiaalcuni passaggi nel dialogo Octavius. Nato nell’africana Numidia, Minucio Felice vis-se a cavallo dei secoli II e III e fu avvocato: conobbe quindi anch’egli le proceduredell’oratoria giudiziaria e le leggi della retorica classica. Il dialogo si svolge tra l’autorestesso, il cristiano Ottavio ed il pagano Cecilio, che, scettico all’inizio, si convertirà in-fine al cristianesimo. Si tratta quindi sempre di un’opera apologetica, ma condotta neitoni più temperati e moderati del dialogo e con notevoli aperture nei confronti dellacultura classica, di cui traspare nel testo la conoscenza da parte dell’autore. Echi dell’Octavius si ritrovano a loro volta nell’Ad Donatum di Cipriano (III secolo).Anch’egli africano e famoso professore di retorica prima della conversione, cosìesprime nell’Ad Donatum la differenza tra la forma esteriore dell’oratoria giudiziariae l’importanza del contenuto della Parola divina:Nei tribunali e nei discorsi che si tengono al foro, facciano pure sfoggio diricca facondia messa al servizio della volubile ambizione. Quando si parla

Tertulliano, Minucio Felice, Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Lattanzio

Tertulliano, Minucio Felice, Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Lattanzio 683

Retorica e Cristianesimo

I padri della Chiesa

Tertulliano

Apologeticum II 1 ss.; trad. di L. Rusca

Minucio Felice

Cipriano

Ad Donatum;trad. di G. Toso

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del Signore e di Dio la nostra parola dev’essere chiara e sincera; per docu-mentare la fede dobbiamo far uso dei fatti, non della forza che deriva dal-l’eloquenza. Ascolta quindi gli argomenti che hanno della sostanza e non sicurano della forma. Accetta le parole che non sono artificiosamente co-struite ed esposte in modo elegante per adescare le orecchie della gente,ma sono semplici parole dette sulla falsariga di una disadorna verità, peròadatte a divulgare la bontà di Dio.

Dal trattato De habitu virginum («La condotta delle vergini»), nato da una raccoltadi omelie (i discorsi di insegnamento ed esortazione tenuti dal predicatore duranteil rito religioso), si legga inoltre l’inizio del paragrafo XXI come esempio della facol-tà oratoria di Cipriano predicatore:Ascoltatemi dunque, o vergini, come un padre: vi prego di ascoltarmi,mentre mi preoccupo di voi e vi ammonisco. Date ascolto a uno che consincerità si preoccupa del vostro bene e del vostro vantaggio. Siate come viha fatto Dio Creatore. Siate come le mani del Padre vi ha fatte. Conservateil volto senza trucco, il collo libero da collane, l’aspetto naturale.

La maggior parte degli scritti esegetici del grande vescovo di Milano (vedi il profilo,p. 644) rappresentano la rielaborazione di precedenti omelie. La destinazione origi-naria traspare dall’intento pratico e didattico dei testi. Di qui anche la frequenza deimodi del parlato. Della suggestione esercitata sui fedeli dall’oratoria di Ambrogio futestimone anche il giovane Agostino, giunto a Milano dall’Africa.Parte dei discorsi di Ambrogio hanno una valenza politica e si legano all’alto magi-stero ricoperto e agli obblighi conseguenti. È il caso delle orazioni funebri Sullamorte di Valentiniano II e Sulla morte di Teodosio (pronunciato nel 395 davanti al fi-glio ed erede Onorio). Originarie omelie sono anche gli scritti dei trattati De sacra-mentis e De mysteriis. L’oratoria cristiana di Ambrogio testimonia l’impegno di ade-guare al messaggio cristiano le forme dell’oratoria epidittica insegnate nelle scuole,fondendo motivi retorici tradizionali con i temi della liturgia ecclesiastica. Di quil’impiego degli strumenti retorici tradizionali, usati a fini parenetici e persuasivi.Nel IV secolo si collocano Elio Donato e Girolamo. Elio Donato è autore di quellafamosa Ars grammatica che avrebbe costituito durante il Medioevo il manuale di ri-ferimento per l’educazione elementare (vedi p. 676). Allievo di Elio Donato a Romafu Girolamo, che dal maestro apprese i fondamenti della cultura classica, la cui ap-profondita conoscenza avrebbe contrassegnato, come una trama sotterranea, lasua successiva produzione letteraria. Egli avverte con intensità il contrasto del pen-siero cristiano con i testi pagani. Nei confronti di questi prova sia attrazione che re-pulsione, ritenendo infine possibile una loro convergenza secondo una prospettivacristiana. Famosa è al proposito l’epistola 22: … me ne ero andato a Gerusalemme a militare per Cristo. Ma dalla mia bi-blioteca, messa assieme a Roma con tanto amore e tanta fatica, proprio nonavevo saputo staccarmi.Povero me! Digiunavo, e poi andavo a leggere Cicerone. Dopo molte nottitrascorse vegliando, dopo aver magari versato fiumi di lacrime che sgorga-vano dal profondo del cuore al ricordo dei peccati d’un tempo, prendevo inmano Plauto. Se talvolta, rientrando in me stesso, aprivo i libri dei Profeti,il loro stile disadorno mi dava la nausea.

Insegnanti di retorica furono Arnobio – vissuto sotto l’imperatore Diocleziano e nel ter-ritorio dell’Africa proconsolare, autore anch’egli di un’opera di stampo apologetico, daltitolo di Adversus gentes – ma soprattutto Lattanzio (IV secolo). Questi fu definito daGirolamo nel De viris illustribus «una sorta di fiume di eloquenza ciceroniana», per il

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De habitu virginum XXI1 ss.;trad. di G. Toso

Ambrogio

Girolamo

Epistola 22;trad. di S. Cola

Lattanzio

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suo bagaglio di conoscenze classiche, che egli mira a conciliare con quelle cristiane.Dalla retorica classica vorrebbe trarre gli ornamenti stilistici per avvicinare al messag-gio evangelico anche i pagani, sospettosi nei confronti dello stile troppo spoglio delleSacre Scritture. La sua opera maggiore, le Divinae Institutiones, modella, per ammis-sione dello stesso autore, il titolo sulla denominazione di Institutiones civilis iuris («Isti-tuzioni di diritto civile») e l’impostazione apologetica – come di un avvocato che con-duca la difesa in tribunale – emerge subito dalla Prefazione: Il parlar bene può riguardare pochi, ma il ben vivere è cosa che tocca tutti.Tuttavia quel nostro esercizio di trattare cause, questioni immaginate, ci hagiovato molto, così che ora possiamo difendere la causa della verità conpiù numerosi e più gravi argomenti: essa, per altro, potrebbe essere soste-nuta anche senza l’aiuto dell’arte oratoria, come fu appunto per parte dimolti; tuttavia ci pare di doverla illustrare con chiarezza e splendore diespressione, perché essa si fissi più stabilmente negli spiriti, forte della suastessa forza, illuminata dalla luce della parola.

L’inizio del libro III bene esprime l’utilità per la fede cristiana di un’eloquenza discuola classica: … io vorrei mi fosse concessa – sia pure non come quella che rifulse in M.Tullio Cicerone, veramente grande e magnifica – una certa facoltà oratoria,da poter far sì che la verità – per quanto essa valga prima e soprattutto perla sua intima forza – risplendesse in tutto il suo splendore, e, confutati tan-to gli errori del volgo, quanto di coloro che sono reputati saggi, potesse ap-portare agli uomini luce magnifica e fulgidissima. Ed io desidererei di po-ter fare ciò per due cause: prima, perché gli uomini potrebbero, certamentecon maggior ragione, prestar fede alla verità luminosa, essi che credonoanche alla menzogna, se attratti da quello che sia lenocinio di forma e ma-gnificenza di espressione; seconda, perché certamente gli stessi filosofi sa-rebbero confutati e confusi da noi con quei mezzi, e con quelle stesse armidelle quali sono soliti compiacersi e in cui fermamente confidano.

Lattanzio introduce anche il tema della diffidenza degli intellettuali pagani verso lostile dimesso delle Sacre Scritture: … presso i sapienti, i dotti, e i luminari di questa età, la Sacra Scrittura nonriscuote autorità e fede; perché i Profeti parlarono con parola semplice epiana, qual si conviene a chi deve parlare al popolo. Sono tenuti in pocaconsiderazione da coloro che non intendono di ascoltare o di leggere, senon quello che sia elegante, forbito e presentato in una forma veramentesquisita, e nell’animo loro non può restare se non ciò che molce l’orecchiocon soavità di suono. Tutto quello, invece, che riveste un carattere di purasemplicità e schiettezza, è considerato inutile ciarla, cosa volgare e non de-gna di considerazione alcuna. È così che essi non stimano vero, se nonquello che a loro fa piacere ad ascoltare; non v’è niente a cui si debba pre-star fede, se non ciò che possa svegliare una certa soddisfazione e lusinga-re; è per questo che nessuno giudica una data cosa nel suo giusto valore,ma dall’apparenza. Non credono quindi questi pretesi saggi a quanto vi èdi divino, perché ogni orpello è lontano dalle cose di Dio, e non prestanofede neppure a coloro che delle cose divine sono gli interpreti e i banditori,perché anche essi vivono in tutta semplicità, e sono addirittura rozzi, o, al-meno, hanno un limitato grado di cultura. È rarissimo il caso che essi ab-biano il dono di un’eloquenza fluente e magnifica, e la ragione di ciò, delresto, è chiara: la parola è in servigio delle cose del mondo; desidera di far-si valere fra le genti e rifulgere in quanto possa magari non esser buono; sepure, come avviene assai spesso, non arriva a voler abbattere la verità, perdimostrare così la sua potenza; aspira ad aprire la strada alle ricchezze, habrama di onori, rivendica a sé il più alto grado di dignità e di onore.

Tertulliano, Minucio Felice, Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Lattanzio 685

Divinae Institutiones,Prefazione;trad. di G. Mazzoni

ibidem, III 1 ss.

ibidem, V 1 ss.

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Sarà Agostino (354-430, vedi il profilo a p. 664) a porre le fondamenta di una nuo-va eloquenza cristiana, la quale non prende a modello gli artifici retorici dei Greci,ma ha il fondamento nello stile stesso delle Sacre Scritture. Queste sono criticatedai sapienti pagani a causa del loro aspetto apparentemente poco curato, che in-vece esprime per ciò stesso lo «scandalo della Croce». Come infatti il Dio cristianosi rivela agli uomini non nella figura vittoriosa di un regnante ma nelle semplici spo-glie di un bambino e nella sconfitta umana della morte sulla croce, allo stesso mo-do la Bibbia sceglie parole umili per esprimere un contenuto sublime. Come la li-nearità del linguaggio biblico rende il messaggio comprensibile anche ai semplici,allo stesso modo la profondità del suo significato costituisce degno alimento perl’intelletto dei dotti. Nelle Confessiones Agostino descrive la propria iniziale incomprensione per lo stiledelle Sacre Scritture:

… mi proposi di rivolgere la mia attenzione alle Sacre Scritture per vederecome fossero. Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non menovelato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto dimisteri. Io non ero capace di superare l’ingresso o piegare il collo ai suoipassi. Infatti i miei sentimenti, allorché le affrontai, non furono quali orache parlo. Ebbi piuttosto l’impressione di un’opera indegna del paragonecon la maestà tulliana. Il mio gonfio orgoglio aborriva la sua modestia, lamia vista non penetrava i suoi recessi. Quell’opera invece è fatta per cre-scere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi piccolo e per essere gonfiodi boria mi credevo grande.

Certo, anche l’oratore cristiano dovrà munirsi di armi retoriche, per non presentarsisprovveduto nel suo ufficio di persuadere il prossimo al bene e alla verità:

Dato che con la retorica si sostengono argomenti sia veri sia falsi, chi ose-rà dire che contro la menzogna i difensori della verità debbono essere deltutto disarmati? Perché mai quanti cercano di accreditare il falso sanno ac-cattivarsi coi loro esordi l’ascoltatore rendendolo attento e arrendevole,mentre invece costoro non lo sanno fare? Perché quelli sanno esporre ilfalso con brevità chiarezza verisimiglianza, mentre questi espongono il ve-ro in modo che l’ascoltatore s’annoi, non riesca a capire e non resti convin-to? Perché quelli riescono con argomenti ingannevoli a impugnare la veritàe affermare la falsità, mentre questi non sono capaci né di difendere il veroné di confutare il falso? Perché quelli con le loro parole sanno smuovere espingere all’errore gli animi degli ascoltatori atterrendoli rattristandoli ral-legrandoli esortandoli col massimo impegno, mentre questi in difesa dellaverità sonnecchiano pigri e fiacchi? Chi può essere tanto sciocco da pen-sarla così? Dato perciò che la capacità di parlare è moralmente neutra ed èmolto efficace per sostenere argomenti sia cattivi che buoni, perché mai lapersona dabbene non si dovrebbe mettere in condizione, grazie a questostudio, di battersi per la verità, dal momento che i malvagi se ne servonoper far prevalere cause disoneste e prive di fondamento a beneficio dell’i-niquità e dell’errore?

L’oratore cristiano si potrà valere dunque dei tre stili ciceroniani (umile, medio e al-to) mescolandoli all’interno della stessa omelia. Dovrà di preferenza docere, «inse-gnare» con stile umile, nella spiegazione del testo sacro; saprà vituperare o lauda-re, «rimproverare» ed «elogiare» in stile medio, ornato da figure retoriche; potràmovere, «convincere» con stile alto:

La nuova eloquenza cristiana di Agostino

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Confessiones III 9; trad. di C. Carena

De Doctrina ChristianaIV 2, 3 ss.;trad. di M.Simonetti

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Se si devono istruire gli ascoltatori, bisogna esporre in modo da far cono-scere l’argomento di cui si tratta, purché ce ne sia necessità. Se poi si vuolrendere certo ciò che è dubbio, bisogna far uso del ragionamento, confor-tandolo con elementi di prova. Se invece chi ascolta, più che apprendere,deve essere stimolato perché non si impigrisca nel fare ciò che già sa e diail proprio assenso a ciò che riconosce essere vero, in questi casi c’è biso-gno di maggiore capacità di eloquio, perché qui è necessario far uso di pre-ghiere e rimproveri, di esortazioni e divieti, e di tutto ciò che è capace dimuovere gli animi.

Si preferiranno le figure retoriche che permettono un più stretto collegamento conla sostanza del messaggio (ad esempio le parabole) o che conferiscono al discor-so un ritmo incalzante (come le ripetizioni di parole o la loro collocazione parallela).Per apprendere gli strumenti oratori non tanto servirà studiarne accuratamente leregole, quanto seguire l’esempio di valenti predicatori:

Chi poi ha intenzione di apprendere a parlare non solo con sapienza ma an-che con eloquenza, perché certo riuscirà di maggiore utilità se sarà capacedi fare l’una cosa e l’altra, lo invito a leggere ascoltare e imitare conl’esercizio chi è abile nel parlare, piuttosto che consigliargli di andare ascuola dai maestri di retorica.

La nuova eloquenza cristiana di Agostino 687

Pagina miniata del XV sec. raffigurante i grandi difensori delladottrina cristiana. Milano, Collezione Mario Crespi Morbio.Gregorio di Nazianzo, Padre della Chiesa di lingua greca, Am-brogio, l’imperatore Graziano, Girolamo, Giovanni Crisosto-mo, Padre della Chiesa di lingua greca, Agostino, GiovanniDamasceno, Padre della Chiesa di lingua greca, Paolo Orosio,storico latino cristiano e il Papa Leone Magno.

ibidem, IV 4, 6

ibidem, V 5, 8

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Il primo esempio di epistolografia cristiana è rappresentato da quattordici lettere diS. Paolo, scritte tra il 50 e il 66 d.C. Nella struttura e nei contenuti si ritrovano le ca-ratteristiche dell’epistolografia tradizionale pagana, ma in ogni epistola è presente ilmessaggio cristiano che influenza i contenuti e finanche le formule di saluto e dicongedo. Le tipologie sono varie: lettere di viaggio, dottrinali, pastorali, polemiche,«aperte». Egli sfrutta le potenzialità comunicative della lettera e la sua forma poli-valente per fare circolare il messaggio cristiano, sostenuto dalle continue citazionidei passi biblici. Dopo S. Paolo la lettera diverrà lo strumento comunicativo più usa-to dalle comunità cristiane, in quanto risulterà un utile mezzo per organizzarle edanche una valida forma di propaganda religiosa. Le lettere, redatte con cura e conarte, sono «aperte», cioè rivolte ad un pubblico e destinate ad essere diffuse, perquesto spesso il destinatario assume il volto anonimo di un’intera comunità, senzaun’apparente precisa individualità storica.Tra le tipologie epistolari dell’antichità i Padri della Chiesa svilupparono e trasfor-marono soprattutto l’epistola consolatoria, la più adatta a mostrare la misericordiadi Dio nel momento del dolore. Le consolationes della tradizione pagana erano co-stituite generalmente da due parti, una personale che si adattava alle circostanzedel destinatario ed una generale rappresentata da massime, esempi, luoghi comu-ni sulla morte e sul dolore. Seguendo questo schema topico, ereditato da scrittoricome Cicerone e Seneca, i Padri della Chiesa trasformarono in particolar modo laparte generale, dedicata alla glorificazione di Dio, all’elogio delle virtù evangeliche,all’insegnamento della dottrina e delle verità bibliche: «la consolatio diventa esorta-zione, esegesi, insegnamento teologico, guadagnando in varietà ciò che perde inunità» (Ciccarese).In lingua greca, oltre alle lettere di San Paolo, ci sono stati tramandati numerosiepistolari, soprattutto di vescovi. Alcuni sono giunti in forma completa, altri inframmenti, altri, pur essendo perduti, ci sono noti da altri epistolari coevi. Al IIIsecolo risale l’epistolario di Cipriano, vescovo di Cartagine, che si rivela un’otti-ma fonte documentaria per testimoniare un momento di crisi della Chiesa, vessa-ta all’esterno dalle persecuzioni di Decio e spaccata, all’interno, su questionidogmatiche.Nel IV secolo si assiste ad una fioritura di epistolari cristiani, che, sulla scorta dellateorizzazione retorica sia latina (Giulio Vittore) che greca (Pseudo Libanio), tendo-no ad assorbire i canoni tradizionali del genere. In particolar modo i proemi dellelettere tendono a retoricizzarsi e a divenire modelli per i secoli a venire. Tra gli scrit-tori del IV secolo è importante ricordare Gregorio di Nazianzo, che fu il primo auto-re greco a divulgare in modo sistematico le proprie lettere; egli inoltre, nell’epistola51, ha delineato i tratti peculiari dell’epistolografia, contribuendo alla codificazionedel genere epistolare.Anche in ambito latino il IV secolo mostra una fioritura di epistolari cristiani. Il primoimportante è quello di Ambrogio (vedi p. 644), costituito da 92 lettere, distribuite in10 libri e scritte tra il 379 e il 396 d.C. La maggior parte di esse sono legate allasua attività di vescovo, indirizzate agli uomini che ricoprivano le più alte carichedell’amministrazione imperiale e ai confratelli. I temi trattati sono prevalentementedogmatici o morali. Anche le lettere di Ambrogio risentono dei canoni retorici for-mulati in quegli anni e si mostrano attente a tutte le regole del genere e alle normerelative all’elaborazione stilistica.

Epistolografia cristiana: Ambrogio, Girolamo, Agostino

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Le epistole di S. Paolo

L’epistola consolatoria

Epistolografia di lingua greca

Ambrogio

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A cavallo tra il IV e il V secolo vive ed opera Girolamo (vedi p. 707), il cui epistola-rio è costituito da 154 lettere, in parte scritte da lui, in parte risposte dei corrispon-denti. Furono redatte tra il 374 e il 410 e fu lui stesso a curarne l’edizione. Dall’epi-stolario emerge la figura di Girolamo non solo come uomo di Chiesa, ma anche co-me erudito. Possediamo lettere di vario genere: occasionali, consolatorie, polemi-co-apologetiche, didattiche ed altre che affrontano temi letterari. Interessanti quelleche testimoniano il suo lavoro di esegesi biblica che lo condusse a pubblicare il pri-mo testo della Bibbia tradotto in latino, a tutti noto con il nome di Vulgata. La corri-spondenza epistolare fu per Girolamo il modo più naturale per esprimere i suoipensieri. Per la sua capacità di modularli variamente e di piegare lo stile epistolarea rendere i più svariati contenuti e a servire a scopi molteplici, «ci ha dato il veromodello del genere epistolare moderno» (Moricca).Tra le più note sono le epistole che affrontano il problema del rapporto tra cristia-nesimo e cultura pagana. Girolamo, lettore e conoscitore dei classici, visse semprein modo lacerante il dissidio tra cultura classica pagana e cultura cristiana, come èdimostrato da questo sogno raccontato in un’epistola inviata ad una sua discepola:[…] D’un tratto ho come un rapimento spirituale. Mi sento trascinato da-vanti al tribunale del Giudice, e mi vengo a trovare tra un tale sfolgorio diluce che irradia da ogni parte, che io, sbattuto a terra, non oso levare in al-to lo sguardo. Mi chiede chi sono. «Un cristiano!» rispondo. Ma il giudicedal suo trono esclama: «Bugiardo! Sei ciceroniano, tu, non cristiano! Doveè il tuo tesoro, là è il tuo cuore!». Resto di colpo senza parola. […] comin-cio a giurare, a dare la mia parola, invocando Lui stesso a testimone: «Si-gnore se d’ora innanzi avrò ancora fra le mani un’opera profana, o la leg-gerò, vorrà dire che t’ho rinnegato!». […] Da quel giorno mi sono messo aleggere la Scrittura con un ardore che mai ne avevo messo l’eguale nelleletture pagane.

Di Agostino (354-430, vedi il profilo a p. 664) restano 267 lettere indirizzate, tra il386 ed il 429-30, a diversi destinatari, tra cui spicca Girolamo. Fu lo stesso autorea curarne la pubblicazione, dopo aver apportato alcune correzioni. Le tipologie epi-stolari sono le più varie: lettere consolatorie, dottrinali ed esegetiche, ufficiali, pa-storali-organizzative, alcune di carattere intimo. I modelli latini erano ben presentiad Agostino, il quale però mostra in molte occasioni di staccarsi dalla tradizionepagana, per segnare anche a livello stilistico e formale la sua conversione al cri-stianesimo. Questo atteggiamento si nota in particolar modo nelle lettere consola-torie. Rispetto alla tradizione pagana, in Agostino si riscontra l’assenza delle lau-des del defunto, che invece erano sempre presenti negli autori classici, anche inAmbrogio e Girolamo. Inoltre gli exempla storici vengono sostituiti con esempi trattidalle Sacre Scritture. Ampio spazio viene dedicato al tema della sofferenza. Agostino comprende il dolo-re dei fedeli e ritiene che non debba essere soffocato dalla ragione, ma debba tro-vare conforto nella fede, nelle promesse evangeliche e nella speranza della resur-rezione dei corpi:Tuo fratello, cara figliuola, dorme nel corpo ma vive nello spirito; forseche uno che dorme non si ridesterà mai più? Dio, che ha accolto il suo spi-rito, gli restituirà il corpo che gli ha tolto, non già perché andasse perdutoma perché è rinviato il tempo in cui gli sarà restituito […] Questa speranzanon l’hanno i pagani che ignorano la S. Scrittura e la potenza di Dio, ilquale può rinnovare le cose andate in rovina e far tornare in vita quellemorte, restituire nella loro integrità quelle corrotte, riunire di nuovo quelle

Epistolografia cristiana: Ambrogio, Girolamo, Agostino 689

Girolamo

trad. di S. Cola

Agostino

Epist. 263, 4; trad. di L. Carrozzi

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disgiunte e conservare senza fine quelle prima corrotte e arrivate alla fine.Questo ha promesso di fare colui il quale ce ne dà la certezza in virtù dellepromesse che ha già mantenute.

Anche le epistulae exhortatoriae della tradizione pagana sono modificate e adatta-te alla nuova cultura cristiana. L’esortazione alla sapientia non è più identificabilecon la filosofia dei pagani, bensì con la dottrina cristiana. La finalità delle lettere èconquistare nuovi proseliti, diffondere il messaggio cristiano, invitando tutti a legge-re le Sacre Scritture:

[…] se vogliamo essere veramente felici – né possiamo non volerlo – te-niamo bene a mente la massima imparata dalle stesse Sacre Scritture: Bea-to chi ripone la propria speranza nel Signore e non segue la falsità né lepazzie menzognere. […] Riflettiamo quindi, te ne prego, le stolte e pazzemenzogne dei falsi filosofi […].

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Vetro dorato con l’apostoloPaolo (IV secolo). Città del Va-ticano, Museo Sacro.

155, 2, 6;trad. di L. Carrozzi

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Con l’Alto Medioevo appare compiuto il distacco della retorica dalla vita politica e giudizia-ria, perciò la continuità con la tradizione classica si realizza prevalentemente riguardo algenere dimostrativo e celebrativo. Indicazioni in tale senso erano state anticipate in epocaromana. Come si ricorderà, Tacito aveva amaramente riflettuto sul tramonto della libertàpolitica e con essa del dibattito oratorio. D’altro canto Quintiliano aveva concesso largospazio, nella sua trattazione retorica, allo studio della letteratura, preannunciandol’assunzione da parte della retorica di una veste letteraria. Non a caso, dal V secolo inavanti, viene dedicata grande attenzione alla sezione retorica dell’elocutio, che del discorsocura l’espressione stilistica e che viene sviluppata secondo una suddivisione approfonditadelle figure retoriche. Muta significativamente anche la scelta dei testi retorici della classici-tà presi a riferimento: si preferiscono i trattati di carattere tecnico e precettistico, come i To-pica aristotelici e ciceroniani, la Rhetorica ad Herennium o il De inventione di Cicerone,piuttosto che le opere di respiro più filosofico, come la Rhetorica di Aristotele o il De orato-re ciceroniano. Al V secolo risale l’opera dal titolo De nuptiis Philologiae et Mercurii («Le nozze della Filo-logia con Mercurio») di Marziano Capella: è un testo che avrà larga diffusione nel Medioe-vo e che rivela già dal titolo una struttura allegorica. Allegoria è parola greca che significa«dire altro, parlare diversamente» e indica una figura retorica la quale, attraverso il riferi-mento a una cosa, intende significarne un’altra. Dunque poiché l’allegoria allude attraversoun termine a un significato più profondo, avrà grande fortuna nel Medioevo cristiano, per-ché tra i luoghi retorici si rivela assai adatta a sottolineare il legame tra le vicende terrenedell’uomo e la sua prospettiva ultraterrena. Nel De nuptiis le ancelle della Filologia sono lesette arti medioevali del Trivio e del Quadrivio, che costituivano il fondamento dell’educa-zione scolastica. Mentre le arti del Quadrivio sono di carattere scientifico (matematica, geo-metria, astronomia e musica), le arti del Trivio riguardano le discipline del discorso: gram-matica, dialettica e appunto retorica, allegorizzata da Marziano Capella con i caratteri rega-li di una donna maestosa. Il successo della rappresentazione allegorica è consacrato dalla raffigurazione della Filoso-fia personificata quale donna consolatrice nella Consolatio Philosophiae di Severino Boezio(480-524). La figura di quest’ultimo acquista rilevanza per la storia della retorica non soloperché egli fu traduttore dei Topica ciceroniani, ma soprattutto perché conobbe profonda-mente gli scritti aristotelici: da Aristotele deriva la considerazione della retorica come subor-dinata alla dimensione filosofica della dialettica, una costante che accompagnerà tutto ilMedioevo. Sempre a cavallo dei secoli V e VI si collocano le Institutiones divinarum et saeculariumlitterarum – destinate all’educazione dei monaci – di Cassiodoro (490-575); il secondo li-bro è dedicato alle arti del Trivio e del Quadrivio e quindi anche ad una sezione retorica,che con lui acquista piena dignità anche in ambiente cristiano, come strumento del qualela Parola divina possa giovarsi utilmente. Allo stesso periodo risale l’Institutio de artegrammatica di Prisciano, significativa per la dimensione grammaticale in cui la retoricaviene inserita.

La dimensione letteraria della retorica: il passaggio all’Età di Mezzo

794 Dalla retorica pubblica alla persuasione occulta della pubblicità

Dalla retorica pubblica alla persuasione occultadella pubblicità

De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella

Boezio e Cassiodoro

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Tra il VI e il VII secolo le Etymologiae di Isidoro di Siviglia (570-636) costituiscono la tipica«enciclopedia» medioevale con la trattazione delle sette arti ed ancora una sintesi retoricarealizzata sulla base dei trattati più tecnici della latinità. Un secolo dopo il Venerabile Beda(672-735) riprende la ricerca agostiniana delle figure retoriche nel testo delle Scritture. Sipotrebbe accelerare il corso della trattazione affermando che «il tramando attraverso i se-coli bui (X e XI secolo) non porta insomma a uno scardinamento del reticolo istituzionale sucui si regge la retorica, ma tutt’al più a un suo prosciugamento, a una nozionistica semprepiù ridotta e povera» (R. Barilli).

Allievo del Venerabile Beda fu Rabano Mauro, il quale selezionò dal patrimonio retoricoclassico quanto poteva servire all’arte dei predicatori cristiani. Anticipò così le linee cheavrebbero condotto alla compilazione nel XIII secolo dei primi manuali per la predicazione,i quali assumono il nome tecnico di artes praedicandi e hanno lo scopo di fornire agli orato-ri cristiani le strutture argomentative atte a difendere la fede dall’attacco delle eresie. Anco-ra la teoria retorica si intreccia con l’oralità della predicazione. Un caso isolato resta al pro-posito quello di S. Francesco d’Assisi (1181-1226) il cui carisma fu tale da non necessitaredi strutture retoriche, appoggiandosi quindi sulla sola actio, termine tecnico che designa lasezione orale dell’esercizio oratorio. Infatti di solito un predicatore aveva bisogno di suppor-tare la sostanza del messaggio con strumenti tecnici retorici, che si andavano differenzian-do non a seconda del tipo di situazione (come previsto dallo schema classico il quale divi-de l’oratoria politica da quella giudiziaria e da quella celebrativa) bensì in relazione al tipodi pubblico: l’oratore utilizzerà toni drammatici con un interlocutore pericolosamente espo-sto alla minaccia dell’eresia, oppure toni distesi rivolgendosi alla benestante borghesiamercantile della città. Il mutamento dell’interlocutore è davvero fondamentale: se il predica-tore si rivolge ad una platea di studiosi o di ecclesiastici, tenterà di convincerli servendosidelle più raffinate armi della discussione filosofica; se invece parla al popolo incolto deicontadini e degli artigiani, utilizzerà massime di comune saggezza, come i proverbi, e strut-ture di carattere più narrativo che logico, ma soprattutto si esprimerà non in latino bensì involgare. Delle parti canoniche dell’orazione viene ad essere valorizzata la dispositio, chenella retorica si propone di ordinare le parti dell’orazione, come in teologia (cioè nello studiodella scienza divina) vuole dare ordinamento all’universo e al sapere medioevale. Acquistaimportanza anche la memoria, che permette di esprimere in maniera semplice alcuni con-cetti teologici, associandoli ad immagini più concrete ed immediate.Alle artes praedicandi si associano le artes dictandi, manuali che insegnano ad applicare leregole retoriche non a una predicazione orale ma a documenti scritti e precisamente a epi-stole, cioè a lettere. Queste possono avere carattere ufficiale ed essere redatte presso lecorti, la sede papale o le cancellerie (ossia gli «uffici» amministrativi degli stati), oppure es-sere scritture private dei mercanti e dei notai nelle città. Sono caratterizzate dalla mancan-za di un interlocutore fisicamente presente, dal che deriva la svalutazione di due requisiticanonici del discorso classico: dell’actio, cioè della normativa riguardante la prestazioneoratoria «dal vivo», e della memoria, che non è necessario esercitare trattandosi di docu-menti scritti. Sono invece importanti la parte iniziale della presentazione (exordium) e quel-la finale del saluto (salutatio). La struttura feudale delle classi sociali si riflette nella sceltadel lessico e nell’ordine delle parole, da variare a seconda del destinatario più o meno illu-stre. Le epistole ufficiali, di carattere amministrativo, nascono dalla necessità dei grandi re-gni di comunicare con tutte le regioni, anche le più lontane. Le lettere di contenuto privatoriflettono invece la vita movimentata delle città, ove hanno la funzione di dare scrittura a uncontratto o a un ordine commerciale: attraverso il loro ruolo pratico, la retorica acquista rile-vanza cittadina. Essa diviene l’arte dei governanti e dei legislatori, che hanno necessità dipersuadere della validità delle proposte avanzate.

Le artes

Le artes 795

Etymologiae di Isidoro diSiviglia

Rabano Mauro e le artes praedicandi

Le artes dictandi

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Il principale rappresentante in Italia dell’ars dictandi fu il toscano Boncompagno da Signa(1170-1240 circa), insegnante di retorica a Bologna e in altre città e autore di una Rhetori-ca antiqua (meglio nota come Boncompagnus) e una novissima. Il primo ad applicare i ca-noni dell’ars dictandi al volgare italiano fu Guido Faba, notaio bolognese e anch’egli mae-stro di retorica, vissuto nella prima metà del XIII secolo. Scrisse manuali tra cui i Parlamen-ta et epistolae, ove esempi di lettere latine sono tradotti in volgare e presentati in redazionidi diversa lunghezza. Ma la figura più di rilievo è quella del maestro fiorentino Brunetto Latini, vissuto nel corsodel XIII secolo, al tempo delle lotte politiche tra ghibellini e guelfi. Lo storico trecentescoGiovanni Villani lo definisce «sommo maestro in rettorica, tanto in bene saper dire come inbene dittare», dunque valente nell’oratoria («bene saper dire») e nell’epistolografia («benedittare»). Tradusse e commentò i primi capitoli del De inventione ciceroniano, nel testo inti-tolato Rettorica. Ecco come, in italiano antico, Brunetto si presenta nel Prologo:

L’autore di questa opera è doppio: uno, che di tutti i detti de’ filosofi che fuoro da-vanti lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Mar-co Tullio Cicero, il più sapientissimo de’ Romani; il secondo è Brunetto Latino,cittadino di Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponeree chiarire ciò che Tullio aveva detto.

Per concludere la trattazione della retorica nel Medioevo non è possibile non citare DanteAlighieri (1265-1321) per la mescolanza degli stili retorici da lui mirabilmente operata nellaDivina Commedia. L’utilizzo dello stile era spesso determinato da motivi di ordine «sociale»:l’autore sceglieva il registro alto, medio o umile a seconda del grado sociale del destinatario.Ma il lettore della Commedia è l’umanità intera, cui si propone un cammino di redenzionecristiana: la divisione degli stili perde di significato e tutti i registri si susseguono nel poema aseconda delle diverse situazioni. Vi è anche un’opera dantesca, il Convivio, ove la retorica èparagonata al pianeta Venere e quindi considerata una sorta di persuasione piacevole. Tut-tavia per Dante la parte della retorica più rilevante non fu l’elocutio, l’ornamento delle figure(in consonanza con l’immagine di Venere), bensì la dispositio, l’ordinata disposizione delleparti del discorso che ancora vuole riflettere l’ordine teologico dell’universo medioevale.

Nel XV secolo, attraverso il movimento umanistico, la cultura europea rientra in possessodi opere letterarie e filosofiche dell’antichità greca e latina, che durante il Medioevo eranorimaste custodite soprattutto nelle biblioteche dei conventi, senza nutrire di nuovi fermenti ilpanorama intellettuale. Anche la retorica vuole riconquistare un legame più schietto con lasapienza delle fonti classiche. Il padre della «riscoperta» dei classici è Francesco Petrarca (1304-1374), autore di molteopere latine e della raccolta di liriche volgari dal titolo di Canzoniere. Egli è tra l’altro lo sco-pritore del manoscritto contenente le Lettere di Cicerone, attraverso le quali rinnova il ge-nere letterario dell’epistolografia: nei propri Epistolari Petrarca preferisce il modello cicero-niano e si distacca dalle rigide norme delle artes dictandi medioevali. Nella sua produzioneletteraria è possibile individuare «una retorica doppia, quella esterna, dell’uomo pubblico,del cittadino, dell’oratore che vuole imporre le proprie ragioni, e quella interna, dell’Io dialo-gante con Dio senza potergli nascondere il proprio cuore»1. L’ideale concreto di oratore èper Petrarca Cola di Rienzo (1313-1354), il quale, eletto «tribuno» del popolo, si proponevadi rifondare Roma sul modello dell’antica repubblica (nel periodo in cui la sede del papatosi trovava ad Avignone in Francia e Roma era in preda al disordine politico). La contempo-ranea Cronica di Anonimo Romano parla infatti di Cola come «nutricato de latte de elo-quenzia, bono gramatico, megliore retorico». 1. E. Battistini e E. Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura italiana, To-rino 1984, III 1, p. 48.

Umanesimo e Rinascimento

796 Dalla retorica pubblica alla persuasione occulta della pubblicità

Boncompagno da Signa

Rettorica di Brunetto Latini

Dante

Il maestro impartisce la lezioneex cathedra (dalla cattedra).

Petrarca

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Amico di Petrarca fu il fiorentino Giovanni Boccaccio (1313-1375), autore della raccolta del-le cento novelle dal titolo di Decamerone. L’opera denuncia chiaramente la conoscenza daparte dell’autore dell’Institutio di Quintiliano, il cui testo in forma integrale sarebbe stato ri-trovato dall’umanista Poggio Bracciolini in un convento della Svizzera oltre cinquant’annidopo. Nel Decamerone si ritrovano inoltre esempi di oratoria, quando i diversi personaggipronunciano discorsi e difendono la loro causa in toni appassionati. Dalla lettura delle no-velle risulta infine evidente la conoscenza della teoria retorica classica del «riso». Riportia-mo la divertente descrizione di frate Cipolla:

Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso, e il mi-glior brigante del mondo: e oltre a questo, niuna scienzia avendo, sì ottimo parla-tore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran retoricol’avrebbe stimato, ma avrebbe detto esser Tullio medesimo o forse Quintiliano.

In un’opera dello stesso Boccaccio dedicata ai miti classici (Genealogia deorum gentilium,«Genealogia degli dèi pagani») alcune funzioni oratorie (quella della persuasione emotivao quella celebrativa o di incitamento alla battaglia) sono considerate prerogative dell’unicafigura del poeta. Si accennava alla riscoperta dell’Institutio oratoria di Quintiliano, avvenuta nel 1416. Nel1421 è riportato alla luce anche il De oratore di Cicerone. Questi due fondamentali testi – dicui già si è rilevato, a proposito della storia retorica latina, il respiro «filosofico» – si affian-cano, a partire da quest’epoca, ai manuali tecnici su cui si era esercitata la retorica me-dioevale, ossia la Rhetorica ad Herennium e il De inventione ciceroniano. L’Umanesimo ri-legge i classici non solo latini ma anche greci: questi ultimi erano stati spesso studiati du-rante il Medioevo non nel testo originale bensì in traduzioni. Gli umanisti si riapproprianodel testo greco della Retorica aristotelica, leggendola non con prevalente interesse filosofi-co, come in epoca medioevale, ma con angolatura propriamente «retorica». Nessun testoretorico classico assume comunque la valenza rigida di «manuale di regole», perché gliumanisti amano esercitare la propria facoltà di giudizio e di libera scelta, e traggono dallalettura diretta degli autori greci e latini una sorta di retorica personalizzata.Tale disciplina, nell’ambito dell’Umanesimo, non è un esercizio fine a se stesso ma si legastrettamente alla vita politica e sociale delle città. L’umanista Lorenzo Valla (1405-1457)considera l’oratoria come la più importante delle scienze, proprio per il suo collegamentocon la realtà e con tutte le discipline, dalla letteratura alla storiografia alla filosofia. I protago-nisti del primo Umanesimo fiorentino (e, in misura minore, delle altre città) sono maestri, maanche funzionari e uomini politici: valga per tutti ricordare la figura del cancelliere di FirenzeLeonardo Bruni (1370 circa - 1444), autore di una Laudatio florentinae urbis, ossia di un en-comio di Firenze, che appartiene al genere oratorio celebrativo. Bruni compose anche, nona caso sul modello del De oratore ciceroniano, i Dialogi ad Petrum Histrum: la persuasioneretorica dell’Umanesimo troverà spesso espressione nella forma del dialogo, che dà voce aduna pluralità di opinioni diverse, le quali rispecchiano la complessità della vita reale. È un atteggiamento di apertura che si riflette anche nell’oratoria umanistica, la quale siesplica soprattutto in occasione delle cosiddette prolusioni, cioè i discorsi di presentazionedelle lezioni all’inizio dell’anno universitario. Gli oratori umanisti non procedono con rigidaorganizzazione logica dei passaggi del discorso, ma lo improntano ad una retorica più mo-bile e meno severa.

Umanesimo e Rinascimento 797

Decamerone di Boccaccio

Decamerone VI 10

Cola di Rienzo (1313-1354), ilnotaio romano, amico e ammi-ratore del Petrarca, tribuno delpopolo.

Valla, Bruni e Poliziano

Oratio super Fabio Quintiliano

Tra queste prolusioni è da ricordare quella tenuta nel 1480 dal grande poeta e umanista fiorentino Angelo Poliziano (1454-1494), nel-la quale dialogano due voci non canoniche della letteratura latina: il retore Quintiliano e il poeta Stazio. Il confine tra retorica e poesiasi fa sottile, come testimoniato dal titolo di un’altra opera dello stesso Poliziano, l’Orfeo, personaggio mitologico la cui lira simboleggiacerto la poesia, ma anche la forza psicagogica della retorica. Poliziano non può che rivolgere all’eloquenza parole di lode, nell’Oratiosuper Fabio Quintiliano:

Riunì in una sola città gli uomini dapprima dispersi, mise pace tra i contendenti, e avvinse tutti quanti con le leggi, lamorale, con ogni forma, insomma, di educazione umana e civile.

Prolusioni

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La retorica civile dell’Umanesimo, legata a un’attiva partecipazione politica, trova ancoravoce attraverso Niccolò Machiavelli (1469-1527), che nelle Istorie fiorentine rappresenta leultime battute di un’oratoria deliberativa, legata alle urgenze della lotta, nel periodo dram-matico che a Firenze conduce dalla caduta del regime repubblicano alla restaurazione delpotere signorile dei Medici. A proposito del tumulto dei Ciompi, cioè dei lavoratori della la-na, avvenuto nel 1378, uno dei rivoltosi «de’ più arditi e di maggiore esperienza, per inani-mire gli altri parlò», e alla fine dell’orazione «queste persuasioni accesero forte i già per lo-ro medesimi riscaldati animi al male» (III 13).

798 Dalla retorica pubblica alla persuasione occulta della pubblicità

Machiavelli

Arte della guerra

Nell’Arte della guerra, opera in forma di dialogo dello stesso Machiavelli, è rievocata l’eloquenza trascinatrice del capitano militare:

… gli eccellenti capitani conveniva che fussono oratori, perché, sanza sapere parlare a tutto l’esercito, con difficultà sipuò operare cosa buona; il che al tutto in questi nostri tempi è dismesso. Leggete la vita d’Alessandro Magno, e vedetequante volte gli fu necessario concionare e parlare pubblicamente all’esercito; altrimenti non l’arebbe mai condotto, sen-do diventato ricco e pieno di preda, per i deserti d’Arabia e nell’India con tanto suo disagio e noia; perché infinite voltenascono cose mediante le quali uno esercito rovina, quando il capitano o non sappia o non usi di parlare a quello; perchéquesto parlare lieva il timore, accende gli animi, cresce l’ostinazione, scuopre gl’inganni, promette premii, mostra i peri-coli e la via di fuggirli, riprende, priega, minaccia, riempie di speranza, loda, vitupera, e fa tutte quelle cose per le qualile umane passioni si spengono o si accendono.

Quando tuttavia Machiavelli parla dell’oratoria militare come ormai «dismessa», cioè ab-bandonata, svela una visione scettica sulla possibilità della retorica di agire concretamentenella vita politica e anzi nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio ne critica la qualitànegativa di mistificazione, di nascondimento della realtà: ingannevoli sono le interpretazionidi una retorica al servizio del potere. Nostalgicamente ricorderà l’oratoria delle lotte fiorenti-ne, raccontata soprattutto da Machiavelli, la Rhetorica di Bartolomeo Cavalcanti (1502-1562), ispirata a quella aristotelica e non a caso costruita in modo da concedere più spazioa riflessioni etiche che a discussioni tecniche sull’ornamentazione retorica.Al genere dell’oratoria civile si possono collegare le prediche fiorentine del frate domenica-no Girolamo Savonarola (1452-1498), il quale dal pulpito tuonava contro la corruzione, pro-ponendo una restaurazione morale della Chiesa e dell’Italia intera. Nonostante egli ritengache la verità dei fatti non abbia bisogno dell’ornamento della retorica, tuttavia si serve nellesue omelie di artifici retorici.

La retorica dei predicatori

Girolamo Savonarola

Si noti per esempio l’inizio incalzante dell’omelia in cui Savonarola propone il «rogo delle vanità», ossia dei libri di argomento pericoloso:

O Italia, o Firenze, fa penitenzia; quia propter peccata tua venient tibi adversa; per li tuoi peccati si apparecchiano gran-di tribulazioni. Fa penitenzia, dico, acciò che Dio abbia misericordia di te; voi tenete molti libri in casa che non li dover-resti tenere, perché v’è scritto di molte cose inoneste.

S. Bernardino da Siena

L’oratoria omiletica, cioè costituita dalle omelie dei predicatori al popolo cristiano, aveva già trovato nel Quattrocento rinomanza gra-zie alle prediche volgari di San Bernardino da Siena (1380-1444), dal ritmo vivace, incalzante, dalla forma ben comprensibile all’udi-torio dei semplici ma al contempo dotata di accorgimenti retorici:

Dico che la donna è più pulita e preziosa nella carne sua, che non è l’uomo; e dico, che se egli tiene il contrario, eglimente per la gola: e tolgolo a provare. Vuolo vedere? Ma dimmi, l’uomo non fu egli criato da Dio di fango? – Sì – Odonne, la ragione in mezzo. E la donna fu fatta di carne e d’ossa, si ch’ella fu fatta di più preziosa cosa che tu.

Il Predicatore del Panigarola

La consacrazione teorica della prosa omiletica a genere letterario si avrà un secolo dopo con il manuale dedicato a Il Predicatore diFrancesco Panigarola (1548-1594), egli stesso accreditato oratore, dallo stile impetuoso e mirato ad impressionare gli ascoltatori:

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Cruda, aspra, terribile et horrenda materia da ragionare insieme ci propone oggi la conditione di questi tempi, o Bolognamia cara; poiché né questa così folta frequenza, né questa inaspettata mia salita al pergamo, né questo mio inusitato mo-do di ragionare, né questa nuova gratia venuta da Roma, né questo o tremore o pallore o dentro alla mia voce o nel miovolto altro però ci accennano, altro ci additano, altro ci mostrano, altro ci significano, altro ci figurano, altro c’insinuanoche punitioni, che vendette, che flagelli, che ire, che furori, che pene, che morbi, che morti.

Il Seicento 799

Alla retorica persuasiva e finalizzata a un intervento attivo, civile o religioso, si accompagnanello stesso periodo una retorica più distesa e colloquiale, sorta di intrattenimento cortesee cittadino, bene rappresentata dal trattato De sermone dell’umanista Giovanni Pontano(1429-1503), il quale dalla teoria classica retorica riprende soprattutto le riflessioni aristote-liche e ciceroniane sul riso. Né è da dimenticare l’esistenza di una retorica «di corte», che si esprime nelle regole chescandiscono il rapporto tra il cortigiano ed il Signore. Una sezione del De cardinalatu diPaolo Cortese (1465-1510) descrive le tecniche retoriche, necessarie anch’esse, al pari dialtre discipline, a formare il Cardinale, l’alto prelato ecclesiastico.

Retorica teorica e «cortese»

Il Cortegiano del Castiglione

Di carattere formale e stilisticamente ornato sarà poi la conversazione con il Principe condotta dal Cortegiano di Baldesar Castiglione(1478-1529):

Io estimo che la conversazione, alla quale dee principalmente attendere il cortegiano con ogni suo studio per farla grata,sia quella che averà col suo principe.

(Cortegiano II 18)

All’ambiente della corte si collega anche il genere dell’oratoria diplomatica, che gli amba-sciatori dei regnanti dovevano esercitare quando venivano inviati in rappresentanza.L’oratoria diplomatica presenta le tradizionali caratteristiche sia del genere deliberativo(perché deve sapere persuadere riguardo a decisioni politiche), sia del genere celebrativo(quando le viene richiesto di rivolgere complimenti formali ad un illustre interlocutore). Visono scritti che teorizzano le caratteristiche di questa oratoria diplomatica, come il De offi-cio legati («Sui doveri dell’ambasciatore») di Ermolao Barbaro (1453-1493) e Il messaggie-ro di Torquato Tasso (1544- 1595). In alternativa alla corte – luogo in cui l’intellettuale si rivolge al Principe con controllato ri-spetto – si afferma l’Accademia come spazio apparentemente più libero di conversazionefra letterati. Essa diviene l’unica sede in cui sia possibile apprendere la retorica, che tutta-via vi assume l’aspetto sterile dell’esercitazione scolastica, come appare dall’Orazione inlode delle Accademie di Scipione Bargagli (1540-1612). Le linee esteriori e celebrative del-la retorica cinquecentesca sono tracciate dal Dialogo della retorica di Sperone Speroni(1500-1588). Il nuovo retore è un tecnico che a pagamento si presta a comporre orazionicelebrative: modello di questo «avventuriero della penna» fu Pietro Aretino (1492-1556). Un’altra tappa significativa della storia di questa disciplina nel Cinquecento è rappresentatadall’opera in cui per la prima volta pienamente vengono applicate alla lingua volgare italia-na le regole della retorica classica. Si tratta delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo(1470-1547) che propongono – come modello assoluto di lingua volgare – la perfezione diPetrarca per la poesia e di Boccaccio per la prosa, in modo da dotare anche l’italiano diuna «grammatica retorica» che gli consenta di raggiungere l’esemplarità del latino.

Durante il XVII secolo (l’età barocca) i trattati di retorica diventano espressione delle normeche regolano la vita della società aristocratica cittadina: essa è scandita dal susseguirsi de-gli intrattenimenti mondani, in cui acquista un ruolo importante la conversazione cortese. «Il

Il Seicento

Le Accademie

Bembo

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primato della socialità ripristina la supremazia della retorica in quanto codice eletto che vaposseduto da chi, ammesso in uno spazio privilegiato, voglia partecipare ai riti e alle festeche vi si celebrano» (Battistini e Raimondi). Poiché la conversazione mondana è volta adelectare piuttosto che a docere, quindi a divertire invece che ad ammaestrare, la partedella retorica che acquista maggiore rilevanza è quella dell’elocutio, dell’ornamentazionestilistica e delle figure retoriche. Tra queste ultime spicca la metafora, la quale diviene quasi una chiave interpretativa dellarealtà. La metafora, come è noto, si ottiene sostituendo a una parola un’altra il cui significa-to presenti qualche tratto comune con la prima (ad esempio quando per indicare il concettodi «origine», si utilizza l’immagine della «radice», che però propriamente sarebbe quella diun albero). Se tuttavia Aristotele raccomandava di costruire questa figura tra termini con si-gnificato affine, in modo che il meccanismo retorico fosse facilmente ricostruibile, l’età ba-rocca collega nella metafora vocaboli appartenenti ad aree lontane e non associabili intuiti-vamente, se non facendo ricorso alla dote dell’ingegno, dell’acutezza intellettuale. La meta-fora nasconde dunque un significato oscuro: il letterato «vela» il significato ultimo della me-tafora che il lettore deve «disvelare». Il procedimento comporta da un lato un gioco delleparti tra letterato e lettore, dall’altro è un modo prudente per non esprimere a chiare lettereil proprio pensiero nell’età della censura politica e della Controriforma cattolica.

800 Dalla retorica pubblica alla persuasione occulta della pubblicità

Il secolo della metafora

Cannocchiale aristotelico del Tesauro

La teoria della metafora barocca è compiutamente esposta nel Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro (1592-1672) al capito-lo VII intitolato Trattato della metafora. Del meccanismo metaforico si dice tra l’altro:

Ingegnosissimo veramente, però che se l’ingegno consiste (come dicemmo) nel ligare insieme le remote e separate no-zioni degli propositi obietti, questo apunto è l’officio della metafora, e non di alcun’altra figura: perciò che, traendo lamente, non men che la parola, da un genere all’altro, esprime un concetto per mezzo di un altro molto diverso, trovandoin cose dissimiglianti la simiglianza. Onde conchiude il nostro autore che il fabricar metafore sia fatica di un perspicacee agilissimo ingegno.

(Cannocchiale aristotelico VII 7 ss.)

Il trattato più completo sull’argomento è Agudeza y arte de ingenio («Acutezza e arte del-l’ingegno») dello spagnolo Baltasar Gracián (1601-1658). Affine è anche l’opera di MatteoPeregrini (1595 circa -1652) dal titolo Fonti dell’ingegno ridotti ad arte, ove si approfondiscela parte tecnica dell’inventio, ossia del reperimento delle fonti, dei luoghi attraverso i qualicostruire metafore argute, nonostante l’autore metta poi in guardia dagli eccessi di acutez-za delle figure retoriche. D’altro canto nel Trattato dello stile e del dialogo del gesuita Pietro Sforza Pallavicino(1607-1667) la retorica si lega non alla dimensione ingegnosa bensì patetica, drammatica,perché il fine della predicazione cristiana è piuttosto movere che delectare, cioè commuo-vere gli animi invece che divertirli. Il concetto del patetico si lega a quello di sublime, cioèdel grado più alto dello stile, che era stato oggetto del trattato greco omonimo, il quale nona caso in questo periodo conosce rinnovata fortuna. Al terreno dell’oratoria omiletica riportaanche l’Uomo di lettere di Daniello Bartoli (1608-1685), sempre gesuita, il quale raccoman-da al predicatore cristiano non tanto le arguzie dell’ingegno, che servono solo a compiace-re chi le inventa e non a colpire l’animo dell’ascoltatore, ma una veemenza solenne, i cuidettami retorici sono illustrati dall’Eloquentia sacra et humana del gesuita francese NicolasCaussin (1583-1651). Grande importanza fu attribuita alla retorica dai Gesuiti, un ordine religioso caratterizzatoda una vocazione non contemplativa ma attiva, e pronto a lottare contro l’eresia protestan-te nel clima difficile della Controriforma. I Gesuiti organizzano un raffinato sistema educati-vo, efficace per rafforzare i propri novizi nell’arte della persuasione. Gli esercizi comprendo-no sia la parola scritta (nella forma dell’epistolografia, che riguarda la stesura delle lettere),sia la parola orale (nella forma delle omelie). Lo stile della scrittura è modellato su quellodegli autori latini e greci, la cui lettura viene proposta nella scuola perché l’allievo possa

Alcuni celebri trattati

I Gesuiti

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esercitare l’occhio a riconoscere in essi le figure retoriche. Sulla falsariga del famoso libroX dell’Institutio oratoria di Quintiliano (che si svolgeva come una sorta di storia letteraria), laBibliotheca selecta del gesuita Antonio Possevino (1533 ca-1611) elenca gli autori classicila cui lettura viene consigliata ai cattolici. Mentre in un primo tempo la retorica è appresaper lettura diretta dei testi di Aristotele, Cicerone e Quintiliano, successivamente nasconomanuali e compendi, tra cui il più famoso è il Candidatus rhetoricae di Pomey, edito nel1659. I Gesuiti sono particolarmente attenti alle indicazioni classiche sull’importanza di va-riare lo stile in conformità al tipo di destinatario ed infatti adottano diversi registri stilistici aseconda dei popoli presso cui si trovano in missione o delle classi sociali davanti alle qualiconducono la predicazione. È importante infine sottolineare il legame dell’oratoria gesuiticacon il teatro: il novizio gesuita alla fine del corso di studi dà dimostrazione della perizia re-torica raggiunta, attraverso l’esercizio di una rappresentazione teatrale che gli permette diaffinare actio e pronuntiatio, cioè tono della voce, pronuncia, gestualità, in vista della futurapredicazione. Naturalmente il soggetto dello spettacolo è di carattere edificante e ha comescopo la persuasione retorica: vuole infatti indirizzare lo spettatore verso una determinataideologia sia religiosa che politica e conservatrice. Nel XVII secolo nasce anche la prosa scientifica e con essa un nuovo tipo di retorica, i cuistrumenti sono volti non a persuadere sulla base di argomenti «probabili» bensì a descrive-re oggettivamente realtà la cui evidenza è dimostrata dalla ragione. Il filosofo francese Car-tesio (1596-1650) fonda il movimento filosofico del razionalismo, che appunto alla ragioneassegna il ruolo primario nel processo di conoscenza del mondo. Ne consegue una svalu-tazione delle funzioni irrazionali della retorica, come la sua capacità di delectare e movere,di suscitare emozioni. La sfera emotiva è certo rivalutata da altri filosofi come il franceseBlaise Pascal (1623-1662) il quale contrappone all’esprit de géométrie (lo «spirito di geo-metria», cioè la ragione della scienza) l’esprit de finesse (lo «spirito di finezza», la ragionedel cuore). Ma a proposito della retorica Pascal afferma: «la vera eloquenza si beffa dell’e-loquenza», perché la «ragione del cuore» non può essere espressa a parole. Dunque la nuova prosa scientifica ha carattere denotativo e referenziale, cioè serve a «de-notare», a indicare l’oggetto di cui si occupa, «riferendo» ad esso la parola. L’esempio piùfamoso di questa prosa scientifica è certo quello di Galileo Galilei (1564-1642), il fondatoredella «nuova scienza».

Il Settecento è per eccellenza il secolo della ragione e vede svilupparsi il movimento filoso-fico dell’Illuminismo, che si propone di analizzare ogni campo dell’esperienza umana attra-verso i «lumi», le luci della razionalità. Sulla scia di Cartesio la retorica classica è svalutataperché persuade e offusca la ragione, la capacità di formulare sulle cose dei giudizi auto-nomi. In altre parole, la verità non ha bisogno di imporsi attraverso gli ornamenti dello stilema si afferma con la sua nuda evidenza. Di fronte all’attacco della nuova scienza le divisio-ni tradizionali della retorica resistono ma si indeboliscono soprattutto nelle sezioni dell’elo-cutio (le figure retoriche propriamente dette), dell’inventio (il reperimento delle tematicheche vengono proposte dalla nuova ricerca scientifica e che quindi non è più compito dellaretorica procurare), della dispositio (la disposizione delle diverse sezioni del discorso, an-ch’essa razionalizzata e semplificata). Si inaugura la fase della cosiddetta retorica ristretta,limitata ormai ad un esiguo numero di figure. Alla critica nei confronti di quella classica subentra tuttavia una fase costruttiva, che vede lafondazione di una retorica nuova, la quale prosegue la linea aperta nel secolo precedentedalla prosa scientifica, con le sue esigenze di ordine e chiarezza e nello stesso tempo conl’aspirazione a uno stile che non sia aridamente tecnico. Nasce il genere letterario dell’arti-colo di giornale e con esso una retorica adeguata: il giornalista adotta un linguaggio e unadisposizione della materia che siano comprensibili al lettore e svolge un ruolo di mediazio-

Il Settecento

Il Settecento 801

Ignazio di Loyola presenta, nel1540, a papa Paolo III la richie-sta per fondare la Compagnia diGesù (Roma, Chiesa del Gesù).

La prosa scientifica

La retorica ristretta

Il conte Paul Barras, nel suoabito ufficiale di membro del Di-rettorio; acquaforte colorata(Parigi, Bibliothèque Nationale).

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ne tra il sapere tradizionale, racchiuso in libri di difficile lettura, e il pubblico dei destinatariche assimilano e rielaborano le informazioni ricevute nella forma più accessibile dell’artico-lo. Tra i fini classici della retorica prevale in questo caso la funzione informativa del docere,che tuttavia diviene un insegnare di tipo non più morale ma strettamente collegato al movi-mento della vita intellettuale e politica.Un’originale difesa della retorica è condotta da Giambattista Vico (1668-1744), non a casoautore di un’opera dal titolo Scienza nuova e filosoficamente avverso al razionalismo diCartesio. Professore di eloquenza all’Università di Napoli, nelle prolusioni, ossia nei discor-si di presentazione dei corsi universitari, difende la retorica classica con argomentazioni giàavanzate da Cicerone: come nel grande oratore romano essa si lega a competenze nonsolo tecniche ma anche filosofiche e letterarie, così per Vico l’eloquenza non si puòdisgiungere dalla sapienza. Egli ritiene che la parola abbia origine divina e che il suo valorepsicagogico, persuasivo, non sia negativo, perché la persuasione può condurre al bene edal vero. Alla retorica illuministica e francese della ragione egli ne affianca una italiana delcuore: mentre la prima si fonda sull’analisi geometrica, la seconda sfrutta tutte le facoltàumane, come la fantasia, l’ingegno, il senso comune e la memoria. La retorica di Vico nonsi occupa solo di ciò che è scientificamente vero ma anche di quanto si presenta solo vero-simile o probabile. Non rifiuta la razionalità ma si allea con essa affiancandole la sfera deisentimenti. La teoria retorica di Vico diventa anche parte del programma pedagogico da luiesposto nel De nostri temporis studiorum ratione («Sulla struttura degli studi della nostraepoca») del 1708: all’educazione degli adolescenti si addice la topica, ossia quella partedella retorica che insegna a cercare i topoi, i luoghi, i temi da trattare. Come la retorica èadatta alla formazione dell’età giovanile, così fu conosciuta, sia pure in maniera inconsape-vole, dalla «giovinezza» del mondo, dalle epoche primitive. «Nel sistema di Vico la retoricadiventa lo strumento provvidenziale attraverso cui Dio insegna all’umanità, nelle sue fasiprimordiali (primordi sia dell’individuo sia del gruppo), certe verità che questa non sarebbein grado di comprendere in versione nuda. Bisogna quindi presentargliele avvolte nella fa-bula e nell’esempio, condite con linguaggio immaginoso. Ma successivamente, avvenutal’evoluzione psicologica, subentrata l’età adulta, sarà possibile accogliere il linguaggio di-retto della logica: dalla filologia alla filosofia» (R. Barilli). Un’altra tendenza retorica del Settecento consiste nell’apprezzamento dello stile alto o sub-lime, con conseguente rilettura del trattato dell’anonimo greco Sul Sublime. Viene rivalutatala sfera della percezione dei sensi, per l’influsso del movimento filosofico francese cosid-detto del sensismo. Su questa linea di pensiero, alla retorica interessa più il modo in cuiviene percepito l’oggetto che l’oggetto in sé. L’attenzione si sposta dal messaggio all’effettopatetico che esso produce sul destinatario, quindi la funzione più importante tra quelle attri-buite classicamente alla retorica diviene il movere, il provocare moti dell’animo. Le figureretoriche non sono più svalutate come ornamento ma diventano importanti per la loro capa-cità di suscitare emozioni. Quanto all’oratoria, essa rimane nel XVIII secolo ancora prevalentemente di carattere sa-cro: nella prima parte del Settecento risente dell’influenza barocca e quindi ha stile ricerca-to e altisonante, mentre nella seconda metà riflette lo sviluppo della filosofia razionalistica eprocede con rigorosi schemi logici (che tuttavia non la aiutano a creare un clima di comuni-cazione cordiale con gli ascoltatori). Esiste anche un’oratoria politica, soprattutto legata allaRivoluzione francese: anche in essa è possibile individuare due tendenze, una enfatica eappesantita dalle figure retoriche, l’altra più attenta all’interlocutore, rappresentato dall’as-semblea del popolo, tanto da utilizzare anche il dialetto. In Italia il poeta Giuseppe Parini(1729-1799) si pronunciò in favore di un’eloquenza civile, legata alla vita politica e giudizia-ria, lontana dai precetti della retorica classica. Il tragediografo Vittorio Alfieri (1749-1803)desiderò che l’eloquenza spronasse a reagire contro il potere tirannico, con toni energici darafforzare attraverso accorgimenti retorici e un accorto studio della pronuntiatio. Avversòquindi l’oratoria epidittica e celebrativa, come il genere classico del panegirico rivolto all’im-peratore.

802 Dalla retorica pubblica alla persuasione occulta della pubblicità

Giambattista Vico

«Le tribun du peuple» dell’8 ot-tobre 1794, il giornale di Grac-co Babeuf, esempio di stampapolitica rivoluzionaria (Parigi,Bibliothèque Nationale).

Un caffè inglese del XVIII seco-lo. Questi locali divennero la se-de dei club politici che animaro-no la circolazione delle idee apartire dal Settecento.

Il sensismo

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Durante il XIX secolo si approfondisce nella cultura, nella filosofia e nella letteratura il sensodel distacco nei confronti della tradizione classica e di ogni principio di autorità assoluta. Nederiva una crescente diffidenza anche verso il tradizionale sistema retorico, inteso come in-sieme di regole da applicare ad un testo. Addirittura vengono soppresse alcune cattedre uni-versitarie di retorica, come accade in Italia, nello stato Lombardo-Veneto, per opera degli Au-striaci. Nel movimento del Romanticismo la retorica perde considerazione, ma tra le arti deldiscorso acquista un ruolo importante la poesia: anch’essa vuole persuadere e ha quindi unaconnotazione retorica, ma non deve essere condizionata dall’applicazione di schemi rigidiche anzi ostacolerebbero l’espressione spontanea del sentimento. Il poeta segue la propriaispirazione e dall’ispirazione è generata naturalmente la struttura retorica. Il testo poetico èconcepito come unione di diverse componenti non separabili tra loro: non è possibile applica-re alla poesia una struttura retorica esterna, come se poesia e retorica fossero due momentiseparati. Dell’opera letteraria, sia poetica che prosastica, importa non l’applicazione astrattadelle regole che strutturano il discorso, ma la sua capacità di movere, di spingere all’azionecivile e politica. I retori che hanno bisogno degli artifici dello stile per nascondere la loro man-canza di slancio sentimentale sono i sofisti. È una posizione chiara tra gli intellettuali del Ro-manticismo lombardo riuniti attorno alla rivista. «Il Conciliatore», i quali ritengono che la lette-ratura italiana debba porsi il fine di ammaestrare e non di persuadere, perché ancora asso-ciano al concetto di persuasione retorica una connotazione negativa di inganno. Nonostante le opposizioni, la retorica non scompare ma certo si indebolisce soprattutto nel-la sezione dell’elocutio, che tratta degli strumenti più tecnici delle figure retoriche. Tra que-ste ultime acquista tuttavia rilievo il simbolo, che allude a un significato nascosto dietrol’oggetto: il procedimento mentale di associazione dell’oggetto al significato è sintetico eglobale, quindi consono alla concezione romantica che considera il processo creativo comeunitario e non divisibile in operazioni distinte. Permangono manuali tradizionali e un inse-gnamento scolastico di retorica improntati ad uno schema classico, apprezzato soprattuttodalla borghesia conservatrice. Ma la continuità retorica acquista una dimensione più vitalelontano dalle formulazioni precettistiche, incarnandosi in maniera libera all’interno dei testi.Vi sono scrittori che si servono degli strumenti retorici nel vivo dell’opera letteraria anche sein teoria li rifiutano, come il romanziere francese Victor Hugo (1802-1885) di cui è rimastofamoso il motto «Guerra alla retorica e pace alla sintassi!». Vi sono autori che ad esempioutilizzano il tradizionale criterio dell’ordo, dell’ordine delle parole, ma nel contempo lo stra-volgono, perché le parole non si dispongono più secondo l’ordine razionale della logicabensì seguendo quello imprevedibile che i sentimenti dettano. O ancora prestano attenzio-ne al destinatario del loro testo, in tal modo richiamando l’importanza tradizionalmente attri-buita dalla retorica al particolare tipo di pubblico. Alessandro Manzoni (1785-1873) propone quindi un utilizzo moderato e sapiente della re-torica, che sia «discreta, fine, di buon gusto». Nell’Introduzione alla sua opera più famosa,il romanzo I Promessi sposi, così parla a proposito del manoscritto seicentesco da cuiavrebbe avuto origine il racconto:

Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi,nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più na-turale e più piano. Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto! Idio-tismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbi-traria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là; epoi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasionedi eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que’ passi insomma che richiedonobensì un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non man-ca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio.

Il poeta Giosuè Carducci (1835-1907) ritiene la retorica strumento indispensabile per chicome lui scriva in versi, perché, essendo il poeta una sorta di «operaio» della letteratura,

L’Ottocento

L’Ottocento 803

L’antica retorica del Romanticismo

Il recupero del «simbolo»

Alessandro Manzoni

Carducci e Pascoli

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necessita di adeguate tecniche. Né del resto sarebbe possibile neppure al lettore di poesia,al critico letterario, intendere correttamente il testo senza conoscerne l’intelaiatura retorica.Mentre Carducci rinsalda l’unione della retorica con la poetica, un altro poeta famoso, Gio-vanni Pascoli (1855-1912), ritiene che chi compone versi debba occuparsi solo di poesia enon assumere le funzioni dell’oratore: certo le figure retoriche sono utilizzate dalla poesia,ma non con fini persuasivi, bensì per riuscire a vedere, attraverso il simbolo, l’essenza veradelle cose, al di là delle apparenze.Quanto all’oratoria di carattere pubblico, cessa di dare voce al potere politico dominante,per divenire strumento di protesta e di opposizione. È quindi coltivata in Italia dagli scrittoridemocratici, dai patrioti del Risorgimento. Anche il poeta Ugo Foscolo (1778-1827) aveva creduto a un’eloquenza non alleata del po-tere ma capace di denunciarne gli abusi. Se l’eloquenza è l’arte del persuadere, essa avràmaggiore efficacia sui sentimenti che sulla ragione: si riaffaccia la retorica del trattato grecoSul Sublime, che tuttavia – in linea con il rifiuto ottocentesco per ogni principio di autorità –non è accettato dal Foscolo come fonte indiscutibile di ispirazione. Egli afferma infatti chedel trattato si potrebbero salvare solo poche pagine ma facendone quasi dei «manifesti»per le scuole di eloquenza. In altre parole, della teoria greca sul sublime è mantenutal’esortazione al movere, l’invito a suscitare sentimenti, ma se ne perde l’illusione che lo sti-le alto nasca solo da una tecnica linguistica, ad esempio dall’uso di figure retoriche o dallascelta di vocaboli solenni, invece che da uno slancio politico e civile. Anche il poeta Vincenzo Monti (1754-1828) nelle Lezioni di eloquenza esorta a fidarsi piùdegli slanci del cuore che dei precetti della retorica per divenire eloquenti. Tuttavia nonama il modello di oratoria rappresentato nell’antichità da Demostene e ora incarnato nellafigura di poeta e soldato del Foscolo. Ritiene infatti che questa eloquenza trascinante pos-sa avere fini sanguinosi, come nel caso della Rivoluzione francese, e ne preferisce una for-ma più distesa.Esempio emblematico di oratoria pubblica è rappresentato dai discorsi pronunciati e riflessinelle opere del letterato Gabriele D’Annunzio (1863-1938). Si tratta di un’eloquenza tantoimpetuosa da sembrare teatrale per l’importanza accordata alla presenza fisica dell’oratorequasi più che alla sua parola. Questi non si rivolge a una folla impersonale e lontana ma in-staura con essa un rapporto diretto, basato su un coinvolgimento intenso e non su un accor-do solo intellettuale. L’oratore risulta una sorta di «capo carismatico» della folla, perl’influenza che esercita su di essa, in un vincolo così stretto da creare quasi un rito collettivo.La rivoluzione industriale e il delinearsi della società di massa mutano anche la funzionedella letteratura, soprattutto nella dinamica della comunicazione con un nuovo pubblico enel rapporto con l’industria dell’editoria. Anche la retorica si adegua al mutamento, reinter-pretando i generi tradizionali in forme consone ai tempi. Il genere deliberativo si trasformanell’oratoria delle aule parlamentari, mentre il genere giudiziario riscuote un grande interes-se popolare, presentando nei tribunali processi in cui gli avvocati sfoggiano doti oratoriequasi teatrali. La retorica si specializza per accontentare un pubblico che si va sempre piùdifferenziando: tra i vari manuali di retoriche settoriali sono da ricordare quelli che insegna-no le tecniche di recitazione per il teatro, perché l’importanza data alle specialità classichedell’actio e della pronuntiatio, delle doti vocali e gestuali indispensabili per recitare, si riflet-te in tutte le manifestazioni oratorie, al di là di quelle specificamente teatrali. Anche il genere celebrativo trova un nuovo linguaggio nell’espressione della pubblicità, im-prontata ad una retorica dell’iperbole, dell’esagerazione, necessaria per catturarel’attenzione di un lettore distratto, da stupire con l’incisività del messaggio commerciale. Èpossibile parlare anche di una retorica della persuasione occulta, soprattutto a proposito digiornali e riviste, che spesso nascondono dietro un’apparenza descrittiva un intento politi-co. I meccanismi della retorica incarnati nella nuova dimensione industriale della cultura so-no ben compresi da Renato Serra (1884-1915), intellettuale romagnolo dalle aperture euro-pee, che non a caso nelle sue Lettere dedica una sezione a «Il mercato e gli aspetti dellaproduzione libraria».

804 Dalla retorica pubblica alla persuasione occulta della pubblicità

L’oratoria pubblica

Foscolo

Monti

D’Annunzio

La retorica nella modernità

L’iperbole

La persuasione occulta

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Il Novecento si apre in Italia nel segno della negazione della retorica avanzata dal filosofoBenedetto Croce (1866-1952). Nell’opera giovanile dal titolo di Estetica (1902) Croce ritie-ne infatti che l’arte nasca dall’intuizione e dalla fantasia, doti «spontanee» che non necessi-tano dell’apparato tecnico delle figure retoriche. Il rifiuto della retorica pare mitigato nell’o-pera più tarda intitolata Poesia (1936), ove si riconosce proprio alla poesia una funzionepersuasiva e quindi una connotazione retorica, per quanto quest’ultima appaia comunquesvalutata come insieme di espedienti pratici di cui purtroppo non è possibile fare a meno.L’arte come strumento di persuasione retorica è guardata con interesse dagli intellettualiche si propongono di influenzare la massa popolare nell’intento di rinnovare positivamentela vita culturale e politica della nazione. Ciò appare soprattutto nella rivista «La Voce», fon-data nel 1908 con il fine appunto di dare voce ad un nuovo partito degli intellettuali ed al lo-ro proposito di rinnovamento. Il primo direttore fu Giuseppe Prezzolini (1882-1982), autorenon a caso di un’Arte di persuadere, che descrive cinicamente l’aspetto carismatico del re-tore, capace di convincere e anche ingannare la massa utilizzando il registro emotivo inve-ce di quello logico delle argomentazioni. A questa visione spietata della retorica rispondeamaramente la teoria esposta nella tesi di laurea La persuasione e la rettorica del giovaneintellettuale Carlo Michelstaedter (1887-1910). Michelstaedter parla della retorica in termininon tecnici bensì filosofici, distinguendo una persuasione illusoria e una persuasione au-tentica. La persuasione di cui l’uomo si può valere è illusoria quando vuole rimuovere il pro-blema di fondo costituito dalla realtà della morte e del dolore e si fonda su valori non realima apparenti, organizzati dalla retorica. La persuasione è invece autentica quando nascedalla consapevolezza della natura mortale dell’uomo, accettando la quale sarà possibile vi-vere almeno in maniera cosciente e responsabile. Sono gli anni pieni di tensione ed incertezza che precedono l’entrata dell’Italia nella primaguerra mondiale e anche all’interno della rivista «La Voce» si crea una spaccatura tra coloroche vorrebbero partecipare attivamente alla lotta politica e coloro che, delusi, vorrebbero rifu-giarsi nella letteratura. Non a caso muta la direzione della rivista, che nel 1914 passa sotto laguida di Giuseppe De Robertis (1888-1963), accusato di essere un retore di vecchio stampoper la sua convinzione dell’utilità degli strumenti retorici soprattutto per chi eserciti la profes-sione di critico letterario: è una posizione che si avvicina a quella già esaminata del Carducci. Il clima concitato che precede la guerra influisce anche sull’oratoria, la quale prende la formadei discorsi tenuti nelle piazze dai rappresentanti delle diverse posizioni: gli interventisti, chesostenevano il coinvolgimento dell’Italia nel conflitto, ed i neutralisti, che invece volevano con-servare al Paese una posizione neutrale. Questa oratoria potrebbe essere compresa nell’anti-co genere deliberativo o politico, ma il tono è più che semplicemente persuasivo, è violento: ilretore si configura come un agitatore delle masse. Lo svolgersi degli eventi conduce al primodopoguerra, quando alle folle deluse parlano retori demagoghi, che mirano ad una persuasio-ne politica del popolo fondata su argomenti emotivi. Nel successivo periodo fascista la retoricaè utilizzata per produrre nelle masse un clima di consenso nei confronti del regime politico. Un aspetto sempre importante da considerare è anche quello della retorica incarnata neitesti, ossia non discussa teoricamente ma sperimentata nella pratica della letteratura. Val-gano al proposito due esempi antitetici e significativi, rappresentati dalle figure di due nar-ratori: Carlo Emilio Gadda (1893-1973) e Italo Calvino (1923-1985). Gadda utilizza le figureretoriche con un’abbondanza che può parere eccessiva e difficile, come se volesse attra-verso di esse rappresentare la vita reale con tutta la sua complessità. Le figure non devonodenotare la realtà rispecchiandola in maniera cruda, ma connotarla nella sua polisemia,cioè nella contemporanea presenza di tanti significati diversi e non di uno solo. Non a casoegli, nella Meditazione milanese, si dichiara ammiratore di Cicerone. È inoltre sensibile al-l’antica caratteristica retorica del linguaggio chiamata pronuntiatio («pronuncia», «dizio-ne»), perché scrive alcune Norme per la redazione di un testo radiofonico.A Calvino interessa invece non tanto la complessità retorica dello stile, quanto la linearitàdel racconto, che si dipana chiaro e rispettoso dell’antico ordo retorico, cioè dell’ordine del-

Il Novecento

Il Novecento 805

Croce

Il gruppo de «La Voce»

Gadda e Calvino

Cerignola (Bari): il giovaneGiuseppe Di Vittorio, ex brac-ciante, deputato socialista dal1921, esponente della CGIL dicui sarà il leader indiscusso nelsecondo dopoguerra, arringa ilavoratori.

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le parti e della loro combinazione. Interessante risulta il romanzo intitolato Se una notted’inverno un viaggiatore, perché svela al lettore il meccanismo della narrazione e spiega ilfunzionamento degli artifici letterari e retorici, che sono i ferri del mestiere dello scrittore.Per intendere tuttavia le nuove prospettive offerte alla retorica dal Novecento occorre usci-re d’Italia e ricordare innanzitutto il Trattato dell’argomentazione del logico belga Chaïm Pe-relman (1912-1984). Perelman vuole dimostrare la validità della persuasione retorica, affin-ché non venga svalutata nei confronti della dimostrazione scientifica. La scienza logica ematematica si occupa infatti solo di ciò che si presenta vero e razionalmente dimostrabile,ma trascura il verosimile, il probabile, l’indefinito, ossia quelle aree dell’esperienza umana acui si rivolge la persuasione retorica. Perelman ripropone il pensiero retorico di Aristotele,sottolineando l’importanza di inventio e dispositio, ossia delle tecniche che permettono ditrovare gli argomenti e disporli, e rivalutando l’elocutio, per il suo valore inerente non soloalla forma esteriore delle figure retoriche, ma anche al contenuto del discorso. Molte altre sono le direzioni della ricerca novecentesca sulla retorica, a cui è possibile soloaccennare. Fondamentale è ad esempio Letteratura europea e medioevo latino del critico estorico della letteratura tedesco Ernst Robert Curtius (1886-1956), che analizza diacronica-mente, cioè attraverso le epoche, dall’antichità ai giorni nostri, il succedersi dei topoi, i «luo-ghi» retorici. Di Curtius è allievo lo studioso Heinrich Lausberg, autore di una sorta di enci-clopedia delle figure retoriche. Non a caso il contesto è quello tedesco, ove sembra neces-sario approfondire lo studio retorico, dato che «l’ignoranza dei trucchi retorici ha permessoa Hitler di ammaliare con una psicagogia di massa senza precedenti un popolo retorica-mente indifeso perché senza maestri d’oratoria» (Battistini e Raimondi). E ancora nel corso del Novecento lo studio della retorica si intreccia con quello di nuove di-scipline come la linguistica (è il caso di un allievo di Lausberg, il linguista e critico letterarioHarald Weinrich) e la «sociologia della letteratura» (nella scuola strutturalista di Praga). Laretorica si identifica con l’analisi linguistica del testo (nel movimento russo del formalismo)o coincide con la poetica, nel senso che l’opera poetica è considerata inscindibile dallastruttura retorica (come sostenuto dai new critics statunitensi). Grande è stata l’influenza della psicoanalisi fondata dal dottor Sigmund Freud (1856-1939),perché permette di intendere le figure retoriche anche come espressione del profondo in-conscio, della componente irrazionale dell’uomo. Un cenno va infine al teorico e critico del-la letteratura Gérard Genette (n. 1930) con la sua teoria della retorica ristretta (cioè ridottaprogressivamente nei secoli a studiare solo l’elocutio, le figure, e tra esse soprattutto la me-tafora) e al cosiddetto «gruppo m di Liegi», che ha classificato minuziosamente le figure,però confermando di interessarsi alla sola sezione retorica dell’elocutio. Interessante infine la collaborazione della retorica con la semiologia, cioè con la nuova scien-za che studia i «segni» (non solo linguistici, ma anche visivi, gestuali e così via) che è possi-bile interpretare sulla base di un codice conosciuto e accettato dalla società: anche la retoricapuò quindi offrire gli strumenti per interpretare i fenomeni culturali. Ciò accade a maggior ra-gione nella nostra era elettronica, che – attraverso la comunicazione permessa da telefono,radio, televisione e computer – ha rivalutato le doti retoriche della actio (la gestualità di unpersonaggio televisivo), della pronuntiatio (la dizione, importante per rendere incisiva la voceradiofonica) e della memoria (di cui necessita l’improvvisazione del cronista). Queste qualitànon erano indispensabili quando la trasmissione della cultura e delle informazioni avvenivasolo attraverso il libro, la pagina scritta, la quale impegnava il lettore in una comprensione so-litaria e solo visiva. La dimensione collettiva e acustica era propria dell’oratoria antica, greca eromana, e lo è di nuovo della retorica moderna, attraverso i mezzi di comunicazione planeta-ria. L’antico genere oratorio deliberativo o politico è rinnovato continuamente nelle discussionidelle assemblee di ogni tipo; il genere giudiziario è presente ben al di fuori delle aule di tribu-nale: in quanto discorso con cui si esprime un giudizio, esso si realizza tutte le volte in cuil’opinione pubblica, sollecitata dai mass media, risponde attraverso la propria opinione chegiudica. Infine il genere epidittico o celebrativo è quanto mai vivo attraverso la pubblicità. Ildestino della retorica pare quindi indirizzato all’applicazione in campi ben più vasti di quelloletterario, come ipotesi interpretativa della cultura e della società.

806 Dalla retorica pubblica alla persuasione occulta della pubblicità

Curtius e la storia dei topoi

Linguistica, strutturalismo,formalismo

La psicoanalisi

La semiologia

Perelman