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RASSEGNA STAMPA di martedì 24 aprile 2018 SOMMARIO “I nostri ragazzini sono la bomba su cui siamo seduti - osserva Davide Rondoni oggi sulle pagine di Avvenire -. Così scrivevo oltre 15 anni fa iniziando la collaborazione da strano poeta editorialista su queste colonne. Già allora si parlava di emergenza educativa, ricordando avvertimenti di Gramsci e prima ancora del poeta Péguy: «Le crisi di insegnamento sono crisi di civiltà». Non si volle guardare al problema. La bomba sta esplodendo. Ne siamo tutti colpevoli. Media, intellettuali, politici, genitori, insegnanti. Molti purtroppo pensano ancora che il problema educativo si possa affrontare senza cambiare se non qualche procedura o con qualche richiamo retorico. A seguito dei fatti di cronaca di questi giorni si è acceso un dibattito spesso surreale, volto più a individuare colpevoli e scambiarsi accuse. Mentre è un problema epocale, e riguarda tutti. Che una cosa succeda a scuola indica ovviamente che i primi a dover cambiare sono gli attori della scuola, ma la scuola per come è attuata è frutto di un paradigma culturale che non nasce lì dentro, ma nella parte intellettuale e politica. Si vede una crisi di paradigma, ovvero dei fondamenti stessi su cui la nostra scuola si costituisce. Il paradigma è marcio e va cambiato. Siamo in un «cambiamento d’epoca», abbiamo visto fenomeni nuovi affermarsi, abbiamo visto 'addirittura' un Presidente nero negli Usa e un Papa che dice 'Buongiorno' (e che proprio sul «cambiamento d’epoca si è fatto ascoltare da quasi tutti), eppure due cose sole sembrano non cambiare: la scuola e il festival di Sanremo. Gli assetti fondamentali su cui questa scuola poggia sono, innanzitutto, la assunzione quasi totalitaria dello Stato come agente educativo, non sempre davvero insieme alle famiglie. In secondo luogo, l’idea che la cultura e la formazione passino attraverso una enciclopedia di competenze che nei programmi scolastici trova contenitore e metodo. Infine che la scuola debba formare al lavoro, cioè segua i peraltro flessibili orientamenti dei mercati e delle professioni. È un paradigma che non a caso entra in crisi mentre vediamo in crisi altre organizzazioni nate da grandi ideologie nell’alveo della cosiddetta modernità illuminista. Oggi sono in crisi i media e l’idea che il cittadino informato sia migliore degli altri, sono in crisi i partiti intesi come mediazione tra potere dello Stato e infine lo Stato stesso non è più un potere autonomo e forte rispetto a forze sovrastatali che lo usano per scopi diversi dalla tutela dei popoli. Si tratta di grandi convulsioni, complesse ma evidenti. Occorre un nuovo paradigma educativo. Abbiamo delegato alla scuola, ad esempio, d’esser quasi l’unico luogo in cui avviene l’incontro tra ragazzi e adulti, dentro uno schema alunno-insegnante (impiegato dello Stato, spesso mal pagato) che non è forse il più valorizzante. Abbiamo piegato la scuola a essere solo 'abilitante' invece che educatrice perché questo comporterebbe scomode discussioni intorno al problema della autorevolezza. Abbiamo tutti chiuso i nostri ragazzi (che non sono di fine Ottocento o degli anni 50) in edifici spesso orridi per cinque-sei ore al giorno perché altrimenti non si saprebbe come inpegnarli. I segni di sofferenza non sono tanto e solo nei fenomeni odiosi di bullismo, ma in atteggiamenti diffusi di noia, di formalismo, di difficile collaborazione tra adulti, di schematismi assurdi. Occorre mettersi tutti più a 'rischio' dinanzi alla domanda impetuosa di bene e alla fame di vita dei ragazzi. E occorre dunque bere a nuove fonti per scardinare ciò che ha generato un disagio tenuto chiuso come in una pentola a pressione” (a.p.) Si è spento questa mattina a Venezia, all’ospedale Fatebenefratelli dove era ricoverato da qualche giorno per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, mons. Sergio Sambin: canonico del Capitolo cattedrale metropolitano di S. Marco, veneziano d’origine, laureato in Diritto canonico e Prelato d’onore, a lungo impegnato nel Tribunale ecclesiastico regionale, aveva ormai superato i 97 anni ed era attualmente il sacerdote più anziano d’età del Patriarcato. Mons. Sambin era

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Page 1: Rassegna stampa 24 aprile 2018 · con quella di un santo. Il compleanno ci ricorda che apparteniamo al tempo, l’onomastico che siamo legati a un santo; ci ricorda che il nostro

RASSEGNA STAMPA di martedì 24 aprile 2018

SOMMARIO

“I nostri ragazzini sono la bomba su cui siamo seduti - osserva Davide Rondoni oggi sulle pagine di Avvenire -. Così scrivevo oltre 15 anni fa iniziando la collaborazione da

strano poeta editorialista su queste colonne. Già allora si parlava di emergenza educativa, ricordando avvertimenti di Gramsci e prima ancora del poeta Péguy: «Le

crisi di insegnamento sono crisi di civiltà». Non si volle guardare al problema. La bomba sta esplodendo. Ne siamo tutti colpevoli. Media, intellettuali, politici, genitori,

insegnanti. Molti purtroppo pensano ancora che il problema educativo si possa affrontare senza cambiare se non qualche procedura o con qualche richiamo retorico. A seguito dei fatti di cronaca di questi giorni si è acceso un dibattito spesso surreale, volto più a individuare colpevoli e scambiarsi accuse. Mentre è un problema epocale, e riguarda tutti. Che una cosa succeda a scuola indica ovviamente che i primi a dover cambiare sono gli attori della scuola, ma la scuola per come è attuata è frutto di un

paradigma culturale che non nasce lì dentro, ma nella parte intellettuale e politica. Si vede una crisi di paradigma, ovvero dei fondamenti stessi su cui la nostra scuola si

costituisce. Il paradigma è marcio e va cambiato. Siamo in un «cambiamento d’epoca», abbiamo visto fenomeni nuovi affermarsi, abbiamo visto 'addirittura' un

Presidente nero negli Usa e un Papa che dice 'Buongiorno' (e che proprio sul «cambiamento d’epoca si è fatto ascoltare da quasi tutti), eppure due cose sole

sembrano non cambiare: la scuola e il festival di Sanremo. Gli assetti fondamentali su cui questa scuola poggia sono, innanzitutto, la assunzione quasi totalitaria dello Stato come agente educativo, non sempre davvero insieme alle famiglie. In secondo luogo,

l’idea che la cultura e la formazione passino attraverso una enciclopedia di competenze che nei programmi scolastici trova contenitore e metodo. Infine che la

scuola debba formare al lavoro, cioè segua i peraltro flessibili orientamenti dei mercati e delle professioni. È un paradigma che non a caso entra in crisi mentre

vediamo in crisi altre organizzazioni nate da grandi ideologie nell’alveo della cosiddetta modernità illuminista. Oggi sono in crisi i media e l’idea che il cittadino informato sia migliore degli altri, sono in crisi i partiti intesi come mediazione tra potere dello Stato e infine lo Stato stesso non è più un potere autonomo e forte

rispetto a forze sovrastatali che lo usano per scopi diversi dalla tutela dei popoli. Si tratta di grandi convulsioni, complesse ma evidenti. Occorre un nuovo paradigma

educativo. Abbiamo delegato alla scuola, ad esempio, d’esser quasi l’unico luogo in cui avviene l’incontro tra ragazzi e adulti, dentro uno schema alunno-insegnante

(impiegato dello Stato, spesso mal pagato) che non è forse il più valorizzante. Abbiamo piegato la scuola a essere solo 'abilitante' invece che educatrice perché

questo comporterebbe scomode discussioni intorno al problema della autorevolezza. Abbiamo tutti chiuso i nostri ragazzi (che non sono di fine Ottocento o degli anni 50) in edifici spesso orridi per cinque-sei ore al giorno perché altrimenti non si saprebbe come inpegnarli. I segni di sofferenza non sono tanto e solo nei fenomeni odiosi di

bullismo, ma in atteggiamenti diffusi di noia, di formalismo, di difficile collaborazione tra adulti, di schematismi assurdi. Occorre mettersi tutti più a 'rischio' dinanzi alla

domanda impetuosa di bene e alla fame di vita dei ragazzi. E occorre dunque bere a nuove fonti per scardinare ciò che ha generato un disagio tenuto chiuso come in una

pentola a pressione” (a.p.)

Si è spento questa mattina a Venezia, all’ospedale Fatebenefratelli dove era ricoverato da qualche giorno per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, mons.

Sergio Sambin: canonico del Capitolo cattedrale metropolitano di S. Marco, veneziano d’origine, laureato in Diritto canonico e Prelato d’onore, a lungo

impegnato nel Tribunale ecclesiastico regionale, aveva ormai superato i 97 anni ed era attualmente il sacerdote più anziano d’età del Patriarcato. Mons. Sambin era

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nato a Venezia il 16 dicembre 1920 e fu ordinato sacerdote il 25 giugno 1950 dall’allora Patriarca Agostini. Il suo primo incarico pastorale è stato quello di

vicario parrocchiale a S. Felice (Venezia); per parecchio tempo (dal 1953 al 1968) fu quindi impegnato nella Cancelleria Patriarcale, prima come Procancelliere e poi

come Cancelliere Patriarcale. In diversi periodi, poi, è stato membro del Consiglio amministrativo diocesano, della Commissione diocesana di arte sacra e della

Commissione diocesana per l’evangelizzazione e la catechesi, rettore della chiesa vicariale di S. Sofia, insegnante di religione al Liceo Marco Polo di Venezia e

assistente ecclesiastico del settore maschile dell’Azione cattolica. Dal 1959 fino al 2010, per oltre cinquant’anni ininterrottamente, ha prestato il suo servizio come avvocato del Tribunale ecclesiastico regionale triveneto; più recentemente, per

oltre un decennio (1998-2008), aveva anche curato e coordinato un servizio legale e pastorale di consulenza gratuita in vista di un possibile ricorso al Tribunale stesso per ottenere la dichiarazione di nullità del matrimonio. Dal 1964 al 1968 è stato parroco a S. Felice (Venezia) e vicario foraneo di Cannaregio, dal 1968 al 1971 è

parroco di Carpenedo nonché vicario foraneo di Carpenedo; dal 1970 al 1973 è stato preside del Collegio dei parroci del Patriarcato e, più o meno nello stesso periodo,

ha insegnato Diritto canonico in Seminario. Per un lungo periodo, dal 1973 al 1997, è poi parroco a S. Zaccaria (Venezia) e, per buona parte degli anni Ottanta, membro del Consiglio presbiterale diocesano e vicario foraneo di S. Marco. Dal 1962 al 1997

è stato, inoltre, consulente ecclesiastico provinciale dell’Aiart (Associazione italiana ascoltatori radio e tele-teatro-cine-spettatori) mentre dal 1997 è stato anche

assistente del movimento Rinascita Cristiana e delegato per la Scuola Grande di S. Teodoro. Nel 1968 è nominato Canonico onorario del Capitolo di S. Marco per poi diventare Canonico residenziale nel 1997 e sino ad oggi. I funerali di mons. Sergio

Sambin saranno celebrati giovedì 26 aprile, alle ore 10.00 nella basilica cattedrale di S. Marco a Venezia; li presiederà il Patriarca Francesco Moraglia.

Intanto mercoledì 25 aprile ricorre la festa di san Marco, sempre molto sentita nella città di Venezia e nei territori storicamente ad essa più legati. Alle ore 10.30, nella basilica cattedrale marciana, il Patriarca Francesco Moraglia presiede la S. Messa - alla presenza dei fedeli e delle autorità civili e militari della comunità lagunare -

nella solennità dedicata all’evangelista patrono di Venezia e delle genti venete. Alle ore 17.30 del pomeriggio, sempre nella cattedrale veneziana e presieduti dal

Patriarca Francesco, sono poi previsti i vespri solenni.

3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 2 Francesco e il bene delle cose piccole di Mauro Leonardi Il dono di un gelato, una lezione preziosa Pag 23 Regina Coeli: “Lasciamoci conoscere da Gesù, Lui ci accetta come siamo” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 30 I genitori adottati di Mariapia Veladiano La scuola e le famiglie AVVENIRE Pag 2 Eppure impetuosa e buona è la giovane fame di vita di Davide Rondoni E’ in crisi un modello di scuola in cui è stato rinchiuso il disagio CORRIERE DEL VENETO Pag 1 I luoghi della educazione di Massimiliano Bucchi

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Scuola e società 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ AVVENIRE Pag 3 La sanità non è un algoritmo. I medici chiedono una svolta di Paolo Viana Dal personale al divario Nord- Sud: perché una riforma 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 15 L’isola e i suoi cinque frati di Vittorio Pierobon Il convento dei religiosi a San Francesco del Deserto compie gli 800 anni di vita IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Pietro, Marco, i 2 anelli e il rapporto con Roma di Pieralvise Zorzi 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Tremila sagre ed eventi a rischio di Michela Nicolussi Moro e Alessandro Zuin Sicurezza, nuovi diktat: servono mezzi e uomini anche per piccoli spettacoli di paese. Le Pro Loco: “Così si ferma la nostra vita sociale”. Gastronomia, identità, volontariato e welfare: quel rito che resiste alla modernizzazione … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La spinta all’unità dalle urne di Venanzio Postiglione Lega e Forza Italia Pag 1 La zavorra di veleni sul Patto di Massimo Franco Dem e 5 Stelle Pag 3 Mattarella deluso: serve un accordo. Dopo resta solo un governo “di garanzia” di Marzio Breda Pagg 20 – 21 La Corte europea: staccate la spina. L’Italia dà la cittadinanza al piccolo Alfie di Luigi Ippolito, Margherita De Bac e Marco Galluzzo Tom, il padre senza paura: “E’ crudele che ci vietino di continuare ad amarlo”. A 20 minuti dalla fine la mossa Alfano – Minniti Pag 30 Nuovo allarme migranti: serve un’Europa compatta di Goffredo Buccini LA REPUBBLICA Pag 30 Dal Pd a Salvini la via stretta del Quirinale di Stefano Folli AVVENIRE Pag 1 Figlio nostro di Giuspepe Anzani Un bimbo, una famiglia, un buon diritto Pag 7 Quel lungo filo rosso tra salvataggi in Libia e confini francesi chiusi di Paolo Lambruschi IL GAZZETTINO Pag 1 Silvio e Matteo e quel messaggio agli elettori di Marco Gervasoni Il voto in Molise LA NUOVA

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Pag 1 La lezione del 25 aprile per l’Europa di Vincenzo Milanesi

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 2 Francesco e il bene delle cose piccole di Mauro Leonardi Il dono di un gelato, una lezione preziosa Ieri, festa di san Giorgio, il Papa, per il suo onomastico, ha regalato tremila gelati ai poveri di Roma (e dintorni). Chi criticherà Francesco anche per questo piccolo gesto – pochi, ma certamente non mancheranno – dimentica che se non puoi fare le cose grandi devi fare quelle piccole. Se non hai strumenti per costruire “corridoi umanitari” (perché ti è dato solo di pregare, di far incontrare i potenti, di sostenere quanti hanno il coraggio di incominciarli), puoi però venire incontro alla domanda che tutti abbiamo pronunciato quando eravamo bambini: “Papà, me lo compri il gelato?”, con gli occhi che brillano davanti ai colori, ai gusti e alle mosse magiche del gelataio. Che in quel momento diventa, inesorabilmente, l’uomo più buono del mondo. E, se il papà il gelato ce lo regala “perché oggi è il mio onomastico”, si imprime dentro di noi, nel nostro cuore, che il nostro onomastico è qualcosa d’importante. Non è secondario che la nostra vita c’entri con quella di un santo. Il compleanno ci ricorda che apparteniamo al tempo, l’onomastico che siamo legati a un santo; ci ricorda che il nostro sangue cristiano è lo stesso che scorre nelle vene dei santi, e di uno in particolare: quello di cui portiamo il nome da quando siamo stati battezzati. Per il Papa è Jorge, Giorgio, per me è Mauro, ed è il nome di chi legge per chi legge (e se non ha il nome di un santo lo invito a scegliersene uno, adesso, come amico). Sono sprecati qualche migliaio di euro di elemosina papale in gelati? Si potevano spendere meglio? Io credo di no. Forse perché sono allergico ai discorsi di chi vorrebbe affittare San Pietro ai migranti o trasformare la piazza antistante in un campo per Rom “visto che il Papa è tanto favorevole ai migranti faccia qualcosa pure lui e invece in Vaticano non si fa nulla per i profughi e si chiacchiera solo”. In primo luogo, so che non è vero che non si fa nulla ma, soprattutto, credo che il compito più importante di ciascuno di noi non sia di cambiare il mondo, ma di cambiare noi stessi. Lamentarsi di quello che gli altri non fanno, soprattutto se si tratta di criticare le persone famose, ha il grande vantaggio di mettere a tacere per un attimo la nostra cattiva coscienza. Quella che noi azzittiamo raccontandole che un gelato dato a un bambino non risolve né il problema della sua fame né quello della sua integrazione né quello delle tensioni Nord-Sud del mondo. Ma ha lo svantaggio, appunto, di non renderci migliori: perché, non dimentichiamocelo, l’unico modo per essere più buoni è fare delle azioni buone, anche piccole. Pag 23 Regina Coeli: “Lasciamoci conoscere da Gesù, Lui ci accetta come siamo” A partire dall’immagine del Buon pastore la riflessione del Papa domenica scorsa al Regina Coeli. Al termine l’appello per il Nicaragua, dove «in seguito a una protesta sociale, si sono verificati scontri, che hanno causato vittime ». Dal Pontefice l’espressione della vicinanza nella preghiera e la richiesta, che riprende quella dei vescovi locali di far cessare «ogni violenza» perché «si eviti un inutile spargimento di sangue e le questioni aperte siano risolte pacificamente e con senso di responsabilità ». Un appello quanto mai urgente se confermato che due persone sono morte nella notte tra domenica e lunedì durante l’irruzione delle forze di sicurezza all’Università Politecnica di Managua. A denunciare il fatto sono stati gli studenti asserragliati nel palazzo. Tornando al Regina Coeli, domenica scorsa dal Papa anche un richiamo alla 55ª Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni e, tra i pellegrini italiani, un saluto a quelli arrivati da Castiglione d’Adda, Torralba, Modica, Cremona e Brescia. Quindi un pensiero al coro parrocchiale di Ugovizza e ai ragazzi della Cresima di Gazzaniga, Pollenza e Cisano sul Neva. Di seguito le parole del Papa prima della preghiera mariana.

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno! La Liturgia di questa quarta Domenica di Pasqua prosegue nell’intento di aiutarci a riscoprire la nostra identità di discepoli del Signore Risorto. Negli Atti degli apostoli, Pietro dichiara apertamente che la guarigione dello storpio, operata da lui e di cui parla tutta Gerusalemme, è avvenuta nel nome di Gesù, perché «in nessun altro c’è salvezza » (4,12). In quell’uomo guarito c’è ognuno di noi – quell’uomo è la figura di noi: noi siamo tutti lì –, ci sono le nostre comunità: ciascuno può guarire dalle tante forme di infermità spirituale che ha – ambizione, pigrizia, orgoglio – se accetta di mettere con fiducia la propria esistenza nelle mani del Signore Risorto. «Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno – afferma Pietro – costui vi sta innanzi risanato» (v. 10). Ma chi è il Cristo che risana? In che cosa consiste l’essere risanati da Lui? Da che cosa ci guarisce? E attraverso quali atteggiamenti? La risposta a tutte queste domande la troviamo nel Vangelo di oggi, dove Gesù dice: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» ( Gv 10,11). Questa autopresentazione di Gesù non può essere ridotta a una suggestione emotiva, senza alcun effetto concreto! Gesù risana attraverso il suo essere pastore che dà la vita. Dando la sua vita per noi, Gesù dice a ciascuno: «la tua vita vale così tanto per me, che per salvarla do tutto me stesso». È proprio questo offrire la sua vita che lo rende Pastore buono per eccellenza, Colui che risana, Colui che permette a noi di vivere una vita bella e feconda. La seconda parte della stessa pagina evangelica ci dice a quali condizioni Gesù può risanarci e può rendere la nostra vita gioiosa e feconda: «Io sono il buon pastore – dice Gesù – conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre» (vv. 14-15). Gesù non parla di una conoscenza intellettiva, no, ma di una relazione personale, di predilezione, di tenerezza reciproca, riflesso della stessa relazione intima di amore tra Lui e il Padre. È questo l’atteggiamento attraverso il quale si realizza un rapporto vivo con Gesù: lasciarci conoscere da Lui. Non chiudersi in sé stessi, aprirsi al Signore, perché Lui mi conosca. Egli è attento a ciascuno di noi, conosce in profondità il nostro cuore: conosce i nostri pregi e i nostri difetti, i progetti che abbiamo realizzato e le speranze che sono andate deluse. Ma ci accetta così come siamo, anche con i nostri peccati, per guarirci, per perdonarci, ci guida con amore, perché possiamo attraversare sentieri anche impervi senza smarrire la via. Ci accompagna Lui. A nostra volta, noi siamo chiamati a conoscere Gesù. Ciò implica un incontro con Lui, un incontro che susciti il desiderio di seguirlo abbandonando gli atteggiamenti autoreferenziali per incamminarsi su strade nuove, indicate da Cristo stesso e aperte su vasti orizzonti. Quando nelle nostre comunità si raffredda il desiderio di vivere il rapporto con Gesù, di ascoltare la sua voce e di seguirlo fedelmente, è inevitabile che prevalgano altri modi di pensare e di vivere che non sono coerenti col Vangelo. Maria, la nostra Madre ci aiuti a maturare una relazione sempre più forte con Gesù. Aprirci a Gesù, perché entri dentro di noi. Una relazione più forte: Lui è risorto. Così possiamo seguirlo per tutta la vita. In questa Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni Maria interceda, perché tanti rispondano con generosità e perseveranza al Signore che chiama a lasciare tutto per il suo Regno. Francesco Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 30 I genitori adottati di Mariapia Veladiano La scuola e le famiglie Il rapporto sul Benessere equo e sostenibile è un bel progetto Istat-Cnel che legge la dimensione sociale del nostro star bene. Fra gli indicatori considera anche la fiducia. L'ultimo Rapporto 2016 dice che solo il 20% degli italiani dai 14 anni in su ritiene che gli altri siano degni di fiducia. Vuol dire che 8 su 10 delle persone che incontriamo ci guardano con sospetto. Non un bel vivere. La scuola, ci ha detto Ilvo Diamanti ieri, sta meglio di altre istituzioni perché ancora il 53% degli italiani la apprezza, ma il tarlo della

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sfiducia collettiva l'ha già raggiunta. E allora come si fa, visto che la scuola vive di ogni tipo di fiducia: nei ragazzi che sono pieni di valore, quali che siano i loro risultati; negli insegnanti che non li stanno ingannando ma aiutando a riconoscere se stessi e le proprie abilità, nel futuro per cui studiare è cosa buona? Si può fare. In generale la sfiducia dilaga quando non si conosce la realtà che si ha davanti. Della scuola il mondo esterno non sa nulla. Solo la rappresentazione occasionale e gridata che ne danno i media quando qualcosa di orribile capita nell'universo dei 7 milioni di studenti distribuiti nelle 8.700 scuole della penisola. Tutta la vita d'aula, l'intensità, la bellezza e la fatica di governare relazioni con bambini e adolescenti belli confusi ed esplosivi, tutto questo non lo si conosce. A casa i figli sono uno o due alla volta, a scuola sono trenta e più per classe. Un immaginario condiviso di scuola noi in Italia non ce l'abbiamo. Le fragilissime strutture partecipative pensate dai Decreti delegati si sono sciolte di fronte alla crisi di partecipazione dei nostri giorni. Poi le scuole sono aulifici e tanto poco prevedono la presenza dei genitori che li riceviamo nei corridoi. Infine i genitori vanno a scuola soprattutto quando hanno paura per i risultati dei figli, che misurano il loro valore di padri e madri. La scuola oggi si trova a dover allargare il proprio ruolo sociale e spesso "adotta" i genitori insieme ai figli, per poter uscire insieme dalla trappola di una conflittualità ormai accettata che alza i toni del conflitto corrodendo la capacità riparativa che ha la parola quando ci si incontra e ci si parla. Tutto questo richiede un dialogo personale e paziente che spesso è difficilissimo perché le scuole sono spaventosamente sovradimensionate. La norma parla di 900 studenti per scuola al massimo, spesso sono tre volte tanto e i presidi hanno quasi sempre anche una scuola in reggenza con un eccesso di responsabilità da togliere il respiro. Al dialogo servono il tempo e la lentezza dell' ascolto. Bisogna avere scuole più piccole e classi meno numerose, punto. Per non essere inchiodati agli obblighi della "scuola difensiva", che si sfibra in adempimenti borbonici mirati a evitare i contenziosi. E poi all'immaginario di scuola servirebbe tanto una moderna narrativa e filmografia che parlasse di scuola in modo tale da far emozionare, da permettere a chi legge di identificarsi con i docenti ed essere con loro sgomenti e affaticati e entusiasti di fronte alla complessità dei comportamenti dei loro figli. Perché anche i genitori non sanno niente dei loro figli e quando li convochiamo per raccontarglieli si arrabbiano o si disperano. Non hanno tempo, dicono, ma spesso li vedono con gli occhi del loro desiderio, occhi narcisistici: mio figlio è mio, mio figlio sono io. Libri che parlano di scuola ne escono tre al giorno, ma quando si tratta di romanzi i professori sono sempre diversamente bravi rispetto al loro compito: sono detective, psicologi o assistenti sociali. E infatti, spesso, questo i genitori chiedono alla scuola e non va bene. AVVENIRE Pag 2 Eppure impetuosa e buona è la giovane fame di vita di Davide Rondoni E’ in crisi un modello di scuola in cui è stato rinchiuso il disagio I nostri ragazzini sono la bomba su cui siamo seduti. Così scrivevo oltre 15 anni fa iniziando la collaborazione da strano poeta editorialista su queste colonne. Già allora si parlava di emergenza educativa, ricordando avvertimenti di Gramsci e prima ancora del poeta Péguy: «Le crisi di insegnamento sono crisi di civiltà». Non si volle guardare al problema. La bomba sta esplodendo. Ne siamo tutti colpevoli. Media, intellettuali, politici, genitori, insegnanti. Molti purtroppo pensano ancora che il problema educativo si possa affrontare senza cambiare se non qualche procedura o con qualche richiamo retorico. A seguito dei fatti di cronaca di questi giorni si è acceso un dibattito spesso surreale, volto più a individuare colpevoli e scambiarsi accuse. Mentre è un problema epocale, e riguarda tutti. Che una cosa succeda a scuola indica ovviamente che i primi a dover cambiare sono gli attori della scuola, ma la scuola per come è attuata è frutto di un paradigma culturale che non nasce lì dentro, ma nella parte intellettuale e politica. Si vede una crisi di paradigma, ovvero dei fondamenti stessi su cui la nostra scuola si costituisce. Il paradigma è marcio e va cambiato. Siamo in un «cambiamento d’epoca», abbiamo visto fenomeni nuovi affermarsi, abbiamo visto 'addirittura' un Presidente nero negli Usa e un Papa che dice 'Buongiorno' (e che proprio sul «cambiamento d’epoca si è fatto ascoltare da quasi tutti), eppure due cose sole sembrano non cambiare: la scuola e il festival di Sanremo. Gli assetti fondamentali su cui questa scuola poggia sono,

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innanzitutto, la assunzione quasi totalitaria dello Stato come agente educativo, non sempre davvero insieme alle famiglie. In secondo luogo, l’idea che la cultura e la formazione passino attraverso una enciclopedia di competenze che nei programmi scolastici trova contenitore e metodo. Infine che la scuola debba formare al lavoro, cioè segua i peraltro flessibili orientamenti dei mercati e delle professioni. È un paradigma che non a caso entra in crisi mentre vediamo in crisi altre organizzazioni nate da grandi ideologie nell’alveo della cosiddetta modernità illuminista. Oggi sono in crisi i media e l’idea che il cittadino informato sia migliore degli altri, sono in crisi i partiti intesi come mediazione tra potere dello Stato e infine lo Stato stesso non è più un potere autonomo e forte rispetto a forze sovrastatali che lo usano per scopi diversi dalla tutela dei popoli. Si tratta di grandi convulsioni, complesse ma evidenti. Occorre un nuovo paradigma educativo. Abbiamo delegato alla scuola, ad esempio, d’esser quasi l’unico luogo in cui avviene l’incontro tra ragazzi e adulti, dentro uno schema alunno-insegnante (impiegato dello Stato, spesso mal pagato) che non è forse il più valorizzante. Abbiamo piegato la scuola a essere solo 'abilitante' invece che educatrice perché questo comporterebbe scomode discussioni intorno al problema della autorevolezza. Abbiamo tutti chiuso i nostri ragazzi (che non sono di fine Ottocento o degli anni 50) in edifici spesso orridi per cinque-sei ore al giorno perché altrimenti non si saprebbe come impegnarli. I segni di sofferenza non sono tanto e solo nei fenomeni odiosi di bullismo, ma in atteggiamenti diffusi di noia, di formalismo, di difficile collaborazione tra adulti, di schematismi assurdi. Occorre mettersi tutti più a 'rischio' dinanzi alla domanda impetuosa di bene e alla fame di vita dei ragazzi. E occorre dunque bere a nuove fonti per scardinare ciò che ha generato un disagio tenuto chiuso come in una pentola a pressione. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 I luoghi della educazione di Massimiliano Bucchi Scuola e società Quando si parla di educazione, oggi, si pensa quasi sempre solo all’istruzione scolastica. Ma l’educazione era tradizionalmente anche, e soprattutto, la «buona educazione». Un’espressione che oggi, di fronte alle notizie e agli episodi che, anche in Veneto, la scuola quotidianamente offre alle cronache, ci pare tragicamente fuori moda. Dove si imparava la buona educazione? In tre luoghi, fondamentalmente. In famiglia, senza distinzione di ceto o livello economico – anzi, l’enfasi sulla buona educazione spesso era maggiore proprio tra le famiglie di estrazione più modesta. A scuola, dove alla trasmissione di contenuti si affiancavano regole di comportamento e di rispetto tra pari e tra insegnanti e allievi. Infine, sul luogo di lavoro: tutti noi ricordiamo un datore di lavoro o un collega più esperto che ci ha aiutato a comportarci in modo consono al nostro ruolo professionale. Tutti e tre questi luoghi, dal punto di vista educativo, sono stati messi in discussione e apertamente criticati da cinquant’anni a oggi. In parte perché effettivamente alcune regole e metodi educativi avevano perso la propria efficacia in un mondo profondamente cambiato. In parte per interesse: demolire i punti di riferimento precedenti aiutò le nuove generazioni a trovare un proprio spazio. Ma a quella distruzione non ha mai fatto seguito una ricostruzione. Si è confusa tragicamente la critica all’autoritarismo (fondata e inevitabile) con la critica all’autorevolezza e la negazione di ogni rispetto per l’autorità. Che non è servilismo, ma riconoscimento che se chi ricopre un ruolo (come quello di insegnante, preside o genitore) è tenuto ad un certo comportamento, gli altri (studenti, figli) sono tenuti a rispettarlo (il che non significa esimersi dal criticarlo). La comunicazione è una spia implacabile di questo cambiamento: quasi sempre, negli annunci matrimoniali di un tempo, la prima qualità che si vantava era la «buona educazione». Oggi perfino cartoni animati e libri per bambini predicano la ‘ribellione come valore fondamentale. È ormai evidente che non basta mettere una pezza con l’ennesima predica o iniziativa specifica, per quanto animata da buone intenzioni: i ragazzi che hanno diffuso il video intimo della compagna (cito dal Corriere) «avevano appena fatto un corso su sexting, cyberbullismo e rischi del web tenuto da psicoterapeuti». Negli anni passati si è discusso molto della cosiddetta «buona scuola». È ora di rompere un tabù e di tornare a parlare di «buona educazione». Che non sarà, certamente, quella di 50 anni fa. Che dovrà essere aggiornata ai cambiamenti nella scuola, nella famiglia, nei mezzi di comunicazione. Ma se non torniamo a interrogarci su

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che cosa significhi oggi, per un docente, essere un modello educativo credibile per i propri studenti; se nessun genitore si scuserà mai per la maleducazione dei propri figli; se nessuno capirà che umiliando il proprio docente, ha umiliato stupidamente la propria classe e la propria scuola, continueremo a indignarci per la prossima notizia o video. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ AVVENIRE Pag 3 La sanità non è un algoritmo. I medici chiedono una svolta di Paolo Viana Dal personale al divario Nord- Sud: perché una riforma «Cercasi un medico, chirurgo generale o anestesista. Comunque un medico qualificato nell’area dell’emergenza». Quest’annuncio, apparso sul portale della Fnomceo, potrebbe riferirsi indifferentemente al policlinico Cardarelli o alle Molinette. Ovunque servirebbe un medico, visto che – come dice lo spot della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri – i camici bianchi e i loro pazienti 'vivono lo stesso disagio'. I primi devono farsi bastare farmaci e garze e ai secondi tocca attendere dei mesi per una risonanza magnetica. I primi non si azzardano a fare un taglio in più di quelli prescritti dalle linee guida, 'perché poi c’è il penale', come ricorda Felice Achilli, chirurgo al San Gerardo di Monza. E se i secondi hanno bisogno di un intervento debbono votarsi a qualche santo, giacché 21 sistemi sanitari diversi non sono in grado di garantire quel principio dell’uguaglianza della cura che è nato con la Repubblica ed è morto con i tagli. Oggi il 58% dei pazienti over 65 con un femore fratturato è sottoposto all’operazione in 48 ore, ma le differenze da una Regione all’altra possono arrivare al 97%. Questa sperequazione non è casuale. Siamo un Paese a due velocità: «La spesa sanitaria al Sud è più pesante del Nord, rispetto al Pil, e per contro i cittadini ricevono un’assistenza molto più insoddisfacente» ammette il presidente Filippo Anelli, il quale punta il dito contro i tagli che dal 2015 hanno depredato il Servizio Sanitario Nazionale di 11,54 miliardi di euro. Oggi, il nostro rapporto tra la spesa sanitaria e il Pil è nettamente inferiore a quello tedesco e francese, per non parlare del National Health Service di Sua Maestà. Anelli non esulta neanche per il recente accordo sulla medicina generale, che ha portato a sbloccare 300 milioni di arretrati ma non ha risolto il problema del fabbisogno – nei prossimi anni 33.000 medici di base andranno in pensione e 14 milioni di italiani resteranno scoperti – né quello sulla formazione. La Lorenzin ha messo sul tavolo sessanta milioni per le borse di studio ma le Regioni frenano: «Il principio dell’autonomia si è conservato magnificamente in questi anni, mentre non si può dire lo stesso di quello della solidarietà» commenta il presidente dei medici che dal nuovo governo si aspetta un cambio di passo. Butta lì, speranzoso, che «nel programma del Movimento 5 Stelle è prevista un’inversione di tendenza rispetto al definanziamento che ha depresso soprattutto il Sud». La Fnomceo chiede di archiviare i tagli, ridimensionare i direttori generali e riportare il controllo della spesa sanitaria nelle mani dei professionisti della salute. Cioè i medici. «Bisogna cambiare la governance e dire basta alla logica dell’aziendalizzazione della sanità» racconta Anelli. Non contesta il principio del pareggio di bilancio – introdotto dalla legge 2001 del 2012 – ma rivendica alla classe medica la responsabilità di gestire ospedali e poliambulatori. È la tesi degli Stati Generali, che riunirà nella primavera del 2019. Certo, se il referendum non fosse andato come è andato, questa strada non sarebbe tanto in salita. A ben vedere, infatti, anche il programma del M5S più che ridimensionare i direttori generali vorrebbe sottrarli al controllo dei governatori. Senza contare che il mantra pentastellato dell’onestà si confonde facilmente con quello dell’efficienza che ha attraversato la stagione dei costi standard: il ricordo delle siringhe d’oro, delle protesi e delle garze che da un nosocomio all’altro rincaravano di dieci volte è ancora troppo vivo. Anelli, però, ribatte ai numeri coi numeri: «La corruzione c’è sempre stata, bisogna vigilare e costruire una cultura della buona gestione, perseguire i colpevoli, ma anche essere onesti nelle valutazioni dei fatti; e allora io dico che sono passati quasi dieci anni e le Regioni che dovevano attuare i piani di rientro hanno fallito, perché non hanno raggiunto gli obiettivi prefissati né in termini di Lea né di servizi al cittadino. Volete la prova che questo modello non

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funziona? Al Sud si muore di più». Eccoli, i numeri che danno ragione ai medici: secondo Osservasalute e il Censis, i tagli alla sanità avrebbero provocato una riduzione nell’aspettativa di vita degli italiani, poiché nel 2015, undici milioni di concittadini hanno fatto a meno di curarsi per ragioni economiche mentre chi poteva si rivolgeva al privato, facendo lievitare quella spesa del 3,2%. Oggi chi spende di più nella sanità privata? I milanesi? No, i residenti in Campania e Basilicata. I l ritardo della Sanità meridionale non si conta solo in minuti di attesa dell’autoambulanza - in Liguria ci mette 13 minuti e in Basilicata 27 -, né in attesa della visita: il 23% dei pazienti meridionali non accede a un intervento chirurgico entro 60 giorni, il 16% deve pazientare per un mese se ha bisogno di una chemio e l’attesa media di una mammografia al Nord - secondo le rilevazioni di Cittadinanzattiva - è di 89 giorni mentre al Sud è di 142. Attenzione: non è semplicemente tempo perso. È vita. La doppia velocità denunciata dai medici significa che se hai un tumore al Sud hai tre probabilità su cento in meno di sopravvivere a cinque anni dalla diagnosi. Il 3% è accettabile per risanare la Sanità? Chiedetelo a chi ha il cancro. E cco, l’argomento forte che può dividere l’Italia più del reddito di cittadinanza: con questo Sistema Sanitario, che costa pur sempre 114 miliardi di euro, al Sud si crepa prima. I 'giorni perduti' perché non si è riusciti a curare il paziente sono più di dieci all’anno e se nasci al Nord hai una speranza di vita in buona salute di 60,5 anni, mentre al Sud ti devi accontentare di 56,6. Insomma, non mancano i numeri a sostegno dell’assioma di Anelli: i ragionieri hanno fallito, prima tentando di incentivare i camici bianchi a risparmiare – «ma ci siamo rifiutati di rifiutare le cure a chi ne ha bisogno» precisa il presidente della Fnomceo – e poi trasformando il principio di appropriatezza della cura in una tagliola. Che poi il loro algoritmo non ha neanche funzionato, dice la Fnomceo, se è vero che la spesa sanitaria del Mezzogiorno è rimasta la più alta e i Lea i più bassi. Alimentando la mobilità e gonfiando il fatturato della sanità settentrionale: nel 2016, si sono spostati così 4,16 miliardi di euro, con la Lombardia al top per mobilità attiva (937 milioni) e il Lazio per mobilità passiva (542,2). Insomma, abbandonate alle loro inadempienze e con Lea irrecuperabili, nel momento stesso in cui ricevevano meno finanziamenti, perché il fondo sanitario è attribuito in base a fattori demografici che penalizzano il Mezzogiorno, le Regioni meridionali finanziavano la sanità settentrionale, portandoci al paradosso per cui oggi la spesa sanitaria pubblica pro capite in Puglia, Calabria e Campania supera la media nazionale ma le famiglie meridionali che si impoveriscono per curarsi sono il 2,7% contro lo 0,4 di quelle residenti nel Nord-Ovest. I l risanamento ha fatto cilecca anche nel redistribuire le risorse all’interno della macchina sanitaria: «Il blocco della spesa è stato raggiunto con il razionamento dei servizi, ma mentre sono stati bloccati gli investimenti, senza peraltro razionalizzare la rete ospedaliera al Sud, e il turnover, con il risultato che abbiamo reparti senza medici – osserva il presidente della Fnomceo – hanno continuato a lievitare le spese di gestione, come se quelle non le pagasse il cittadino». L’ultima battaglia, quella per ridurre il superticket, oggi Regioni e Stato si confronteranno su come ripartire 60 milioni di euro annui per ridurre la compartecipazione per le prestazioni specialistiche – secondo Cittadinanzattiva e Fnomceo rischia di penalizzare il Sud, concentrando il 70% delle risorse in sole cinque regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana), a sfavore di Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. G li algoritmi dei ragionieri che condizionano la politica sanitaria sono stati messi in discussione anche dalla Consulta e dalla Cassazione, ma ai medici non basta. Non si accontentano più di essere dei 'prestatori d’opera'. Non contestano efficienza e appropriatezza: vogliono gestirle. Promettono di realizzare gli obiettivi di salute dei cittadini. Invocano un riequilibrio Nord-Sud in termini di posti letto, personale e tecnologie. Sostengono di poter superare i localismi, evitare gli sprechi e abbattere le diseguaglianze sociali e territoriali. Oltre a trovare quel «medico, chirurgo generale o anestesista, comunque qualificato nell’area dell’emergenza» che, purtroppo, per adesso non andrà né alle Molinette né al Cardarelli, visto che il bando in questione riguarda la missione italiana in Antartide. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

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IL GAZZETTINO Pag 15 L’isola e i suoi cinque frati di Vittorio Pierobon Il convento dei religiosi a San Francesco del Deserto compie gli 800 anni di vita Roberto, Silvio, Felice, Cristoforo e Rosario. L'appello degli abitanti è già concluso. Siamo a San Francesco del Deserto, l'isola meno popolata di Venezia con solo cinque frati che vivono nel convento. Anche se il nome può far pensare a un posto fuori dal mondo, siamo in piena laguna nord a pochi minuti di barca da Burano, vicini a Torcello, mete di caotiche invasioni turistiche all'insegna del consumismo sfrenato. Eppure su quest'isola pare davvero di essere in un ambiente deserto. Un'altra dimensione, quasi mistica. Suggestione del luogo: un silenzio disturbato solo dal canto di qualche uccello, una vegetazione rigogliosa che si nota già in lontananza, e all'interno chiostri, chiesette, antiche cisterne, iscrizioni di secoli fa. Tutto appare in una perfetta armonia da cantico delle creature. UNA STORIA MISTERIOSA - Ma chiariamolo subito, lo dicono con sincerità anche gli stessi frati: del passaggio sull'isola di San Francesco non c'è certezza. Non esistono documenti o testimonianze storiche ufficiali. «Di sicuro Francesco nel 1220 è stato a Venezia spiega Roberto Cracco, da dieci anni padre guardiano della piccolissima comunità Tornava dalla Terra Santa, dove aveva tentato di mediare con il sultano d'Egitto Melek-el-Kamel per scongiurare una nuova Crociata. È probabile che sia sbarcato a Torcello che all'epoca era sede vescovile con migliaia di abitanti. Di certo, pochi anni dopo, nel 1228, qui venne edificata una chiesa intitolata a San Francesco. I resti sono ancora visibili». Ma per tutti questa è l'isola del Santo poverello e ci sarebbe anche un evento miracoloso ad attestarlo, come racconta San Bonaventura da Bagnoregio, biografo ufficiale. Francesco arrivato a Venezia, dopo il lungo viaggio su una nave della Serenissima, chiese di fermarsi a meditare in un luogo appartato e lo portarono su quella che allora era chiamata l'isola delle Due Vigne, di proprietà di Jacopo Michiel, discendente da una famiglia di dogi. La leggenda, come riportato su una lapide incisa all'ingresso del convento, dice che c'erano migliaia di uccelli che cantavano, facendo un frastuono che disturbava la meditazione. Francesco con un gesto della mano li fece tacere. Quando finì di pregare ricominciarono a cantare. Pochi anni dopo, nel 1233, la famiglia Michiel regalò l'isola delle Due Vigne ai frati. PREGHIERA E AGRICOLTURA - Anche questa donazione fa pensare che sull'isola sia accaduto qualcosa di talmente particolare da consacrarla alla preghiera. E da allora, salvo il periodo napoleonico, quando i religiosi vennero allontanati da tutte le chiese, e l'isola fu trasformata in polveriera francese, i frati sono sempre stati lì. Sono trascorsi 800 anni dal probabile passaggio di San Francesco, ma poco è cambiato. «Noi viviamo secondo le regole del nostro Ordine racconta padre Roberto, 53 anni, originario della provincia di Vicenza i ritmi delle giornate sono scanditi da lavoro e preghiera: si comincia alle 6.45 con le lodi a cui segue la messa, alle 11.30 preghiera, alle 12 il pranzo, alle 14.30 ancora un momento di preghiera, poi alla sera, prima di cena il Vespro e alle 21 Compieta chiude la giornata. Le assicuro che non abbiamo tempo per annoiarci, in cinque c'è davvero tanto da lavorare per gestire l'isola» E basta guardarsi attorno per vedere che tutto è in perfetto ordine. Ogni confratello ha i suoi compiti, dall'orto alla cucina, dai lavori di manutenzione all'accoglienza dei visitatori. Ma non è una comunità di eremiti. I frati hanno contatti frequenti con il mondo esterno e possono usare internet e cellulari. Per gli spostamenti hanno un topo, barca lagunare da trasporto, con cui si recano nelle altre isole. Non ci sono collegamenti di linea, a San Francesco si arriva unicamente con natanti privati. C'è solo un barcaiolo, Massimiliano, che a chiamata d'inverno e a orari fissi in primavera-estate, trasporta i visitatori, traghettandoli da Burano. Ma i più arrivano con i lancioni che accompagnano i turisti in giro per la laguna. E non sono pochi. «In un anno vengono a trovarci 20-25 mila persone racconta il padre guardiano Facciamo fare una visita guidata ad orari prestabiliti. Nei fine settimana, per gruppi ristretti organizziamo ritiri spirituali. Tanti chiedono di venire qui per meditare, pregare. C'è chi viene a cercare la fede e chi a confermarla. Ma anche chi viene solo per ritrovare se stesso. Il luogo aiuta molto. Gli ospiti vivono con noi e con le nostre regole». Per tutti c'è una celletta a disposizione, i posti letto non mancano. «Una volta l'isola ospitava anche una cinquantina di fratelli ricorda padre Roberto ora con il calo delle vocazioni dobbiamo rimodulare le presenze e i compiti. Anzi, siccome due di noi sono

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anche sacerdoti, spesso ci chiamano a dare una mano per le funzioni nelle parrocchie dell'estuario». Le porte del convento sono virtualmente sempre aperte, anche se per motivi organizzativi sono state fissate due fasce orarie. «Noi accogliamo tutti, anche chi non crede e viene soltanto come turista dice ancora padre Roberto. Uno di noi è sempre pronto a scambiare due parole con chi ne ha bisogno. Viene gente da tutto il mondo e rimangono sorpresi che in mezzo alla laguna ci sia un posto simile». Il tour dell'isola è incantevole: il convento è rimasto fermo al 1200-1400 quando sono state realizzate tutte le opere murarie, poteva accogliere decine di frati come dimostrano le numerose celle e la dimensione del refettorio. RONCALLI E MONTINI - Non c'è un registro di visitatori illustri, anche perché quando entrano nel convento tutti sono uguali e i titoli non contano. Fu così per Romano Prodi, quando era presidente della Commissione del Parlamento europeo, o per i futuri Papi, Angelo Roncalli e Giovanni Battista Montini. In un'isola dedicata a San Francesco, sarebbe bello che anche il Papa che porta il suo nome venisse in visita. Del resto Papa Francesco ha annunciato che presto verrà a Venezia, perché non invitarlo? Padre Roberto sorride e quasi arrossisce: «Non mi permetterei mai di invitare il Santo Padre, lui sa cosa fare. So che una volta Francesco è uscito fuori da San Pietro in macchina con il suo autista e si è fatto accompagnare a Greccio, il luogo del primo presepio, e si è presentato al santuario tra lo stupore dei frati. Se dovesse bussare anche da noi sarebbe una gioia. Non poniamo limiti alla Provvidenza, questo Papa sa stupire. E questa è casa sua». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Pietro, Marco, i 2 anelli e il rapporto con Roma di Pieralvise Zorzi Che la festa di San Marco sia anche una venezianissima festa della liberazione è un fatto che andrebbe riconosciuto. Il ritrovamento delle reliquie e la loro fortunosa traslazione nelle isole Realtine segna infatti il punto focale della liberazione di Venezia, che da pochissimo da urbs è diventata civitas, da una pesante dipendenza. Non stiamo parlando dell'imperatore Lotario, anche se l'arrivo del Santo vanifica il suo stratagemma del Concilio di Mantova, che ha ristabilito il primato del Patriarca di Aquileia su quello di Grado, eletto imperiosamente da Venezia. L'arrivo delle reliquie nell'828 spariglia le carte, conferendo improvvisamente alla Serenissima una valenza di centro spirituale superiore a tutti i patriarcati. Stiamo parlando di una ben più importante liberazione: quella dal Papa e, per esteso, dalla Chiesa di Roma. L'arrivo di San Marco, fortemente voluto da Giustiniano Parteciaco che per recuperarlo aveva inviato ad Alessandria un vero e proprio commando di veterani ben addestrati, conferma il Doge come capo spirituale della Chiesa di Venezia e la sua indipendenza da colui che i cristianissimi veneziani rispettavano, ma comunque ritenevano sempre un Prencipedalle mani longhe. Venezia quindi in un colpo solo si libera da una pretesa di controllo assai pesante sul piano morale ma anche e soprattutto politico. Per la giovane Serenissima inizia una indipendenza religiosa che ne farà un caso nella storia, unico almeno fino al XVI secolo, quando nascerà la Chiesa di Inghilterra. Alla Chiesa di Roma verrà dato il contentino di San Giorgio Maggiore. La non dipendenza dalla cappella dogale e quindi dalla Chiesa veneziana attirerà al Monastero nuove donazioni e benefici da parte dei Pontefici ma per tutto il resto della gestione del sacro in ogni suo aspetto, come si vedrà più volte nella storia della Serenissima, l'ultima parola sarà sempre di Venezia. A riaffermare questo principio contribuirà anche la leggenda dell'anello, la cui triplice versione ribadisce con forza la supremazia veneziana. Nel primo caso l'anello proviene dal dito di San Marco stesso, uscito con tutto il braccio da una colonna nel 1094; nel secondo a donarlo al doge Sebastiano Ziani è papa Alessandro III dopo la pace con Federico Barbarossa del 1177; nella terza, datata 1340, è di nuovo San Marco a consegnarlo al Doge per mano di un pescatore. In questa versione è ancora più forte il messaggio: il Doge ha un Anulus Piscatoris tutto suo: un anello del pescatore contrapposto a quello omonimo del Papa. In un caso l'anello è di Marco, nell'altro di Pietro. Un Evangelista ed un Apostolo. Venezia-Roma, uno pari. Sarebbe splendido che anche oggi si potesse ripetere questa battuta, anche se la dipendenza politica in ogni suo aspetto è nodo ancor più difficile da sciogliere che quelli religiosi. Ci accontenteremo quindi tra i diffusi e talvolta anacronistici evviva,

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di dedicarne uno tutto nostro ed accorato a San Marco, che ci protegga almeno lui, visto che gli altri non ci riescono. 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Tremila sagre ed eventi a rischio di Michela Nicolussi Moro e Alessandro Zuin Sicurezza, nuovi diktat: servono mezzi e uomini anche per piccoli spettacoli di paese. Le Pro Loco: “Così si ferma la nostra vita sociale”. Gastronomia, identità, volontariato e welfare: quel rito che resiste alla modernizzazione Venezia. L’unica che se la ride è la befana di Vittorio Veneto, che invece di finire sul rogo se n’è beatamente volata via, perché il rito del «Panevin» è stato annullato. Troppo complicato e costoso da organizzare per le contenute risorse dei promotori, volenterosi volontari «senza portafoglio». Nell’archivio della memoria collettiva sono finiti anche alcuni eventi all’aperto ambientati lungo la Riviera del Brenta, quest’anno cassati dai sindaci perché programmare vie di fuga, contapersone, jersey di cemento e squadre antincendio altamente specializzate era materialmente impossibile. E la sindrome dell’«annullato» rischia di contagiare le feste in spiaggia, le sagre di paese, le parate con l’orchestrina, la banda e le majorettes, i tornei di basket o volley in piazza, addirittura le processioni, perché varchi, controlli, accessi regolati, idranti, piani di emergenza e di evacuazione, megafoni, insegne luminose, steward e transenne non tutti se li possono permettere. Eppure sono obbligatori dal 28 luglio 2017, data della circolare emanata dopo gli incidenti di Torino durante la finale di Champions League dal prefetto Mario Morcone, capo di gabinetto del Viminale, per tutelare la «safety» (l’incolumità delle persone) e la «security» (l’ordine e la sicurezza pubblici) durante «pubbliche manifestazioni». Già applicate al Carnevale di Venezia (contingentate a 20mila le presenze in piazza San Marco) e ai party sulla sabbia a Jesolo (1,5 persone per metro quadro, 4 steward per 200 ospiti, 6 se i partecipanti sono di più), le misure citate sono inapplicabili a molti dei 2500/3000 eventi l’anno gestiti dalle 545 Pro Loco venete con 60mila volontari, per un giro d’affari di 25 milioni di euro. Insomma, si è passati dalla leggerezza alla base della tragedia di Refrontolo (4 morti e 5 feriti per il nubifragio che nel 2014 spazzò via il tendone di una festa paesana allestito vicino al torrente Lierza), a «task force da concerto di Vasco Rossi in una corsa podistica», per dirla con il presidente regionale delle Pro Loco, Giovanni Follador. Che si chiede: «Ma come facciamo a chiedere ai vigili del fuoco le stesse squadre specializzate per la tutela delle industrie chimiche da schierare invece davanti all’orchestrina di paese? Come paghiamo la gru per posizionare i blocchi di cemento ai Panevin da 100-200 partecipanti o i camion della Protezione civile per proteggere 40 persone che mangiano il folpo ai chioschi? E poi i Comuni, che ci dicono: ti diamo i vigili che ti servono, però te li paghi. Non discutiamo la necessità di tutelare la gente, soprattutto dai terroristi, ma qui non c’è correlazione tra rischio e livello di prevenzione. Non puoi bloccare la vita sociale di un territorio». Le Pro Loco hanno scritto alle segreterie dei partiti per chiedere una modifica della circolare Morcone. «E intanto un gruppo di tecnici della Regione sta lavorando a un manuale per l’omogenea interpretazione delle norme - rivela Giampiero Possamai, presidente della IV commissione (politiche pubbliche) -. Ora infatti c’è un’applicazione diversa a seconda della provincia e del Comune. Elaborato il vademecum, allargheremo il gruppo di lavoro a prefetture, vigili del fuoco, associazioni e Anci». A proposito di Anci, il vicepresidente regionale Francesco Lunghi conferma: «Ogni Comune va per conto proprio. Tutti hanno presentato in prefettura l’elenco delle kermesse e il Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza predispone gli adeguati accorgimenti. Del resto con quello che sta succedendo nel mondo non si può pensare che uno Stato abbassi il livello di allerta, anche perché se poi succede qualcosa, di chi la colpa?». «Me ne rendo conto - conviene l’assessore alla Protezione civile, Gianpaolo Bottacin - ma la circolare ministeriale, in alcuni punti tecnicamente sbagliata, impone diktat spropositati a cui associazioni e Comuni non sono in grado di adempiere». Esempio: il sindaco di Caorle, Luciano Striuli, ha speso 40mila euro di barriere anti-traffico. E mentre il senatore Antonio De Poli (Udc) interroga il ministro dell’Interno, Marco Minniti, «sull’efficacia delle nuove disposizioni», il Pd con il

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consigliere regionale Claudio Sinigaglia avverte: «Troppe regole rischiano di cancellare un patrimonio storico, culturale e d’identità veneta». Secondo i profeti della Modernità novecentesca, avrebbero dovuto sparire come reliquie del passato contadino, insieme ai riti legati alla terra, ai costumi e magari anche alle manifestazioni esteriori della fede. Feste paesane, rogazioni e processioni varie: folklore buono al massimo per i nostalgici, di cui l’irreversibile inurbamento della popolazione avrebbe decretato la morte sicura. E invece no, cari modernisti di ogni ordine e grado: le sagre (e anche le processioni, a dire il vero) sono ancora qui con noi, nell’anno domini 2018, e stanno a rappresentare un legame con le nostre radici sociali molto più resistente di quanto i profeti della civiltà metropolitana potessero immaginare. Ai quali, oltretutto, era sfuggito un elemento fondamentale, che ha fatto la differenza soprattutto dagli anni Settanta del secolo scorso in avanti: le feste paesane - pure quelle di matrice religiosa dedicate al santo patrono del luogo, che in moltissimi casi si sovrappongono o si sostituiscono alle prime – si sono trasformate sempre più di frequente in sagre gastronomiche, dando vita a un fenomeno collettivo che, in diversi casi, ha ricadute importanti ed economicamente misurabili nel campo del turismo e dell’attrattività del territorio. Tanto per fare un esempio, un sito web di viaggi ed esperienze diffuso a livello globale come Expedia ha una pagina specifica intitolata «7 feste e sagre del Veneto da non perdere in estate»: tutte, ma proprio tutte hanno a che fare con il gusto e le specialità enogastronomiche del posto, dal prosciutto Dop (a Nanto, suo Colli Berici) alla «bufala come non l’avete mai mangiata» (a Terrassa Padovana). Per uscire dai confini regionali, sappiate che alla sagra del tomino a Rivarolo Canavese (Piemonte) sono state vendute oltre cinquemila forme di formaggio in due giorni: quando si parla di ricadute economiche, queste sono cifre che non ammettono repliche. A volerla vedere sotto una lente sociologica, le feste paesane legate alle tradizioni gastronomiche – in Italia, praticamente ogni borgo può vantare qualcosa di tipico da gustare – hanno vinto sui profeti di sventura poiché hanno saputo esaltare le identità locali, contrapponendole ai globalismi alienanti dell’hamburger. In altre parole, hanno prodotto una rivalutazione della gastronomia etnico-regionale – e con essa, in senso più ampio, anche della cultura e delle tradizioni del posto –, vincendo su quella seriale di matrice industriale. La sagra del prosciutto di San Daniele del Friuli o la festa del baccalà alla vicentina di Sandrigo, solo per citarne un paio, sono diventate una sorta di presidio irrinunciabile della civiltà locale contro l’omologazione dei gusti. Per altro, secondo Coldiretti, sono tre su quattro gli italiani che ogni anno partecipano almeno a una sagra, spendendo in media una ventina di euro a testa. E se non è un business questo… Una seconda ragione per cui i modernisti non hanno (ancora) vinto sta nel fatto che le feste paesane molto spesso si sono evolute da assalti al palo della cuccagna, con soppressa in palio per i più abili, in forme di piccolo welfare sussidiario della comunità locale. Lo stand delle costesine serve a sostenere le spese per la squadretta dei bambini del paese, il banco degli spritz sotto il tendone aiuta a raccogliere fondi pro-asilo parrocchiale (che altrimenti chiuderebbe, è il sottinteso), la lotteria o la pesca di beneficenza drenano risorse per una buona causa. Non tutto, insomma, è puro business. Il terzo aspetto qualificante si chiama volontariato. Almeno il 50% della sagre è organizzato dalle Pro loco ma, più in generale, l’intero universo delle feste paesane (da 20 a 30 mila ogni anno in Italia, secondo stime recenti) si regge sulla gratuità del tempo e del lavoro messi gentilmente a disposizione dai volontari. Migliaia di persone che fanno promozione sociale e che, loro malgrado, quando occupano posizioni di coordinamento - caso tipico, il presidente della Pro loco locale - possono rischiare in proprio rispetto alle norme di sicurezza, alle autorizzazioni, alla vigilanza contro gli infortuni e via elencando. Un caso limite di questa forma di responsabilità oggettiva si è verificato proprio qui in Veneto: la magistratura ha imputato del reato di concorso in omicidio colposo il presidente della Pro loco di Refrontolo, Valter Scapol, in seguito alla tragedia del 2 agosto 2014, quando una bomba d’acqua provocò l’esondazione del torrente Lierza e la conseguente ondata di piena spazzò via il tendone della Festa dei Omini, organizzata appunto dalla Pro loco al Molinetto della Croda, provocando la morte di quattro persone. Diecimila firme sono state raccolte dalle associazioni di volontariato per richiedere una legge che esenti da responsabilità legali gli organizzatori delle sagre, in caso di lutti o gravi danni provocati da eventi naturali. Il governatore Luca Zaia ha fatto sua la battaglia, promettendo che la

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Regione sosterrà le spese legali, al grido «giù le mani dalle Pro loco, i volontari non si possono trasformare in imputati». Sennò chi le organizzerà più la festa del gnocco o la sagra dei s-ciosi? Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La spinta all’unità dalle urne di Venanzio Postiglione Lega e Forza Italia Sembrava solo un passaggio. Ma è successo qualcosa. Le elezioni in Molise dicono più del previsto e sono forse un altro ostacolo sulla strada del governo nazionale. Proprio adesso, mentre Roberto Fico riprende il filo dei colloqui. I vincitori dell’altro ieri, Di Maio e Salvini, non sono i trionfatori di oggi. Il centrodestra prevale perché unito: un candidato, un programma. Così come in Lombardia, in Veneto. Una rottura della coalizione avrebbe ricadute in tutta Italia. Forza Italia va ancora giù, ma resta più su della Lega: non era scontato. I 5 Stelle non conquistano la loro prima Regione e fanno un passo indietro rispetto alle Politiche. Il centrosinistra precipita: il 4 marzo non era una parentesi, si poteva indovinare però colpisce lo stesso. Ma la sorpresa (vera) arriva dal centrodestra. La boccata d’ossigeno è allo stesso tempo un rompicapo. Come se ci fosse una unità a prescindere. Più i leader si allontanano, con Berlusconi e Salvini che insistono ogni giorno sulle differenze, e più gli elettori li richiamano all’ordine. Forse alla necessità. Forza Italia cala ma la Lega resta al suo posto e non la supera né la straccia: il destino «ineluttabile» magari è solo rinviato, però non si è ancora compiuto. Anche perché sono andate bene le liste civiche: area moderata, consensi alti. Nei giorni più difficili, Matteo Salvini ha anche la pressione delle giunte locali, dalla Liguria alla Sicilia, passando per centinaia di Comuni. Un tormento politico e anche personale. Strappare, non strappare, a che prezzo. Il richiamo del comando subito, come l’anello di Tolkien, o la pazienza di una leadership da cucire e costruire. Senza fretta. Il capo leghista percepisce che non può stare né con Berlusconi né senza Berlusconi: un sentiero stretto. Da oggi ancora più stretto. Il segnale è arrivato ma non era quello che aveva in mente Salvini: la rottura con Forza Italia può diventare un azzardo. I 5 Stelle si sentivano la vittoria in tasca. Un po’ per l’onda lunga delle elezioni politiche, un po’ per il dato specifico in Molise (dove avevano superato il 44 per cento). Ma l’intreccio tra voto di protesta, soprattutto al Centro e al Sud, e proposte choc, a partire dal reddito di cittadinanza, quasi svanisce nelle città e nelle Regioni. Dove c’è un problema di programmi, di candidati, di presenza reale e non solo virtuale. Difficile dire se ha pesato anche il tira e molla di un mese e mezzo di trattative a Roma. Possibile. Anche perché il Movimento vive di sogni, di tappe bruciate, di fughe in avanti: fermarsi è come retrocedere. Il potere va preso senza dirlo troppo in giro: altrimenti diventa torbido. E poi c’è il centrosinistra. Nel senso che non c’è. Il 18 per cento delle Politiche diventa in Molise il 16. Con il Pd addirittura sotto il 9. In una Regione che governavano. Chi ha parlato di traversata del deserto è un ottimista: si tratterà di scalare montagne, sfidare cascate, navigare per gli oceani. La storica forza della sinistra, cioè il buon governo locale che si trasforma in una grande spinta nazionale, si è perduta nella nebbia. Il Partito democratico avrà bisogno di «un nuovo inizio», per dirla in politichese. Non si tratta soltanto di progetti e di programmi: ma anche di leader da cercare e da immaginare. Tempi lunghi. La mappa delle Regioni «rosse» sembra lo specchio di un’altra epoca: una stella che vediamo ancora brillare, ma non esiste più nella realtà. Il Molise all’improvviso al centro del Paese ha votato e lanciato il suo governatore. Subito, all’alba. Si può parlare ancora per mesi del pantano italiano, si deve trovare il governo possibile perché è passato già un periodo lungo e le nostre emergenze premono, ma diventa inutile girarci attorno: senza una legge elettorale maggioritaria, la paralisi è scritta. Il turno unico nelle Regioni, chi arriva primo vince, e soprattutto il ballottaggio nelle città, i due più forti che si sfidano, hanno un pregio chiaro e convincente. Che si chiama governabilità. Come dimostra Macron in Francia. Forse il nuovo Parlamento, il

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giorno in cui avremo un esecutivo o magari senza aspettarlo, dovrà occuparsene. Meglio prima che poi. Gli elettori, in questi tempi, hanno fretta e perdonano poco. Pag 1 La zavorra di veleni sul Patto di Massimo Franco Dem e 5 Stelle Sembrava solo un passaggio. Ma è successo qualcosa. Le elezioni in Molise dicono più del previsto e sono forse un altro ostacolo sulla strada del governo nazionale. Proprio adesso, mentre Roberto Fico riprende il filo dei colloqui. I vincitori dell’altro ieri, Di Maio e Salvini, non sono i trionfatori di oggi. Il centrodestra prevale perché unito: un candidato, un programma. Così come in Lombardia, in Veneto. Una rottura della coalizione avrebbe ricadute in tutta Italia. Forza Italia va ancora giù, ma resta più su della Lega: non era scontato. I 5 Stelle non conquistano la loro prima Regione e fanno un passo indietro rispetto alle Politiche. Il centrosinistra precipita: il 4 marzo non era una parentesi, si poteva indovinare però colpisce lo stesso. Ma la sorpresa (vera) arriva dal centrodestra. La boccata d’ossigeno è allo stesso tempo un rompicapo. Come se ci fosse una unità a prescindere. Più i leader si allontanano, con Berlusconi e Salvini che insistono ogni giorno sulle differenze, e più gli elettori li richiamano all’ordine. Forse alla necessità. Forza Italia cala ma la Lega resta al suo posto e non la supera né la straccia: il destino «ineluttabile» magari è solo rinviato, però non si è ancora compiuto. Anche perché sono andate bene le liste civiche: area moderata, consensi alti. Nei giorni più difficili, Matteo Salvini ha anche la pressione delle giunte locali, dalla Liguria alla Sicilia, passando per centinaia di Comuni. Un tormento politico e anche personale. Strappare, non strappare, a che prezzo. Il richiamo del comando subito, come l’anello di Tolkien, o la pazienza di una leadership da cucire e costruire. Senza fretta. Il capo leghista percepisce che non può stare né con Berlusconi né senza Berlusconi: un sentiero stretto. Da oggi ancora più stretto. Il segnale è arrivato ma non era quello che aveva in mente Salvini: la rottura con Forza Italia può diventare un azzardo. I 5 Stelle si sentivano la vittoria in tasca. Un po’ per l’onda lunga delle elezioni politiche, un po’ per il dato specifico in Molise (dove avevano superato il 44 per cento). Ma l’intreccio tra voto di protesta, soprattutto al Centro e al Sud, e proposte choc, a partire dal reddito di cittadinanza, quasi svanisce nelle città e nelle Regioni. Dove c’è un problema di programmi, di candidati, di presenza reale e non solo virtuale. Difficile dire se ha pesato anche il tira e molla di un mese e mezzo di trattative a Roma. Possibile. Anche perché il Movimento vive di sogni, di tappe bruciate, di fughe in avanti: fermarsi è come retrocedere. Il potere va preso senza dirlo troppo in giro: altrimenti diventa torbido. E poi c’è il centrosinistra. Nel senso che non c’è. Il 18 per cento delle Politiche diventa in Molise il 16. Con il Pd addirittura sotto il 9. In una Regione che governavano. Chi ha parlato di traversata del deserto è un ottimista: si tratterà di scalare montagne, sfidare cascate, navigare per gli oceani. La storica forza della sinistra, cioè il buon governo locale che si trasforma in una grande spinta nazionale, si è perduta nella nebbia. Il Partito democratico avrà bisogno di «un nuovo inizio», per dirla in politichese. Non si tratta soltanto di progetti e di programmi: ma anche di leader da cercare e da immaginare. Tempi lunghi. La mappa delle Regioni «rosse» sembra lo specchio di un’altra epoca: una stella che vediamo ancora brillare, ma non esiste più nella realtà. Il Molise all’improvviso al centro del Paese ha votato e lanciato il suo governatore. Subito, all’alba. Si può parlare ancora per mesi del pantano italiano, si deve trovare il governo possibile perché è passato già un periodo lungo e le nostre emergenze premono, ma diventa inutile girarci attorno: senza una legge elettorale maggioritaria, la paralisi è scritta. Il turno unico nelle Regioni, chi arriva primo vince, e soprattutto il ballottaggio nelle città, i due più forti che si sfidano, hanno un pregio chiaro e convincente. Che si chiama governabilità. Come dimostra Macron in Francia. Forse il nuovo Parlamento, il giorno in cui avremo un esecutivo o magari senza aspettarlo, dovrà occuparsene. Meglio prima che poi. Gli elettori, in questi tempi, hanno fretta e perdonano poco. Pag 3 Mattarella deluso: serve un accordo. Dopo resta solo un governo “di garanzia” di Marzio Breda

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Deluso e irritato, ma non rassegnato. È così che si è mostrato ieri Sergio Mattarella nel colloquio con Roberto Fico destinato ad aprire un nuovo capitolo, il penultimo, al tentativo di uscire dallo stallo. Ha esordito con una spiegazione che dava conto della fretta imposta ai partiti: «Guardi che, a distanza di quasi due mesi dalle elezioni del 4 marzo, va da tutti sottolineato il dovere di dare al più presto un governo all’Italia». Poi, con un sospiro di sincerità, gli ha confessato come ha deciso di affidargli un mandato esplorativo che, per il momento in cui cade e per i limiti assegnati, sembra quasi la mossa della disperazione. «Dopo le consultazioni di Elisabetta Casellati, ho atteso altri tre giorni, fino a stamane, per registrare eventuali novità pubbliche nel confronto tra i partiti. Queste novità non sono emerse, per cui…». Il quarto tempo - Per cui eccoci al «quarto tempo» di una prova che - il capo dello Stato lo rammenta - si sta svolgendo «nelle sedi istituzionali previste dalla Costituzione» e non all’esterno. Sedi nelle quali si assumono gli impegni attraverso una verifica concreta delle diverse soluzioni. Già che c’è, Mattarella ripete a Fico come ha proceduto finora, con un Parlamento caratterizzato da tre schieramenti, nessuno dei quali dispone di una maggioranza. Così, il Quirinale ha «doverosamente» cominciato dal centrodestra, ossia lo schieramento più consistente, che a sua volta ha indicato di voler formare un esecutivo con i 5 Stelle. Lo schema - Questo - ottenuto con uno schema lineare e trasparente - risulta a verbale delle due esplorazioni avvenute sul Colle. Dove, come pure è accaduto negli incontri della Casellati, tale tipo di intesa (che avrebbe la più ampia base parlamentare) è tuttavia emersa come impraticabile. Perché i 5 Stelle sono sì disponibili a un’alleanza con la Lega, ma non con gli altri suoi partner, specie Forza Italia, dai quali Salvini al momento non dimostra di voler divorziare. Di qui, stanco dei tatticismi e delle rincorse a perdere tempo («ancora qualche giorno», chiede ogni mattina il capo leghista, concentrato sui voti regionali d’aprile), il presidente ha rotto gli indugi per far sondare il versante a sinistra del Parlamento, il Pd. Il resto sono chiacchiere. Per lui il test elettorale da prendere in considerazione è quello nazionale del 4 marzo. Le altre chiamate alle urne non contano. Altrimenti la paralisi si trascinerebbe sino alle amministrative di maggio/giugno, sommando veleni e minacce, come quella, sgradevolissima per il Quirinale, rimbombata dal Friuli-Venezia Giulia ieri sera per bocca di Salvini. Entro giovedì sera sapremo l’esito dell’esplorazione di Fico. Ma se, contro le speranze di Mattarella, anche la sua missione si rivelasse un insuccesso come quella della Casellati, che cosa accadrebbe? Quali altre chances resterebbero a disposizione del capo dello Stato prima di rassegnarsi a proporre un governo istituzionale? La prassi costituzionale - Quanto alla prima questione, si sa che nella prassi costituzionale un mandato esplorativo si conclude solo in due modi: 1) con un nulla di fatto, nell’ipotesi di un fallimento; 2) con un incarico pieno e non più con un prudente pre-incarico, se sarà stata individuata una maggioranza di governo. Certo, le prassi si possono innovare. Ma in un caso come quello che abbiamo di fronte, con i due mezzi vincitori che hanno dimostrato di vedere il pre-incarico come il fumo negli occhi, temendo di uscirne bruciati con la certificazione della loro disfatta, sarebbe comunque una scelta improponibile. Per inciso: lo schema delle esplorazioni, al di là di come sarà chiuso l’esperimento di Roberto Fico, è stato comunque il modo più saggio per imprimere una svolta alla partita. Può infatti far emergere «in negativo» una maggioranza, ventilando una falsa pista che può rivelarsi utile a trovare la pista buona. Un esempio? Lo scenario di un potenziale accordo tra centrodestra e Pd, buttato lì in diversi colloqui e da tutti escluso, tranne Berlusconi. Le alternative - Tornando alla seconda questione (legata sempre alla eventualità di uno scacco di Fico) su che cosa ci separerebbe da un esecutivo d’emergenza, va detto: nulla. A quel punto Mattarella non avrebbe alternative. Probabilmente convocherebbe un ultimo giro di consultazioni, e se ne assumerebbe la guida, per far entrare i partiti in una nuova prospettiva. Quella, estrema, di un governo di traghettamento, per evitare un ritorno alle urne senza che il Paese abbia affrontato alcune cruciali scadenze interne ed europee e, per di più, con questo catastrofico sistema di voto. Sarebbe un governo «di garanzia», per evitare il blocco del sistema e nel quale dovrebbero riconoscersi tutti. A una condizione: uscire, proprio mentalmente, dal clima di campagna elettorale (la più lunga del dopoguerra) in cui siamo immersi da ben prima del 4 dicembre 2016, quando votammo sul referendum di Renzi.

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Pagg 20 – 21 La Corte europea: staccate la spina. L’Italia dà la cittadinanza al piccolo Alfie di Luigi Ippolito, Margherita De Bac e Marco Galluzzo Tom, il padre senza paura: “E’ crudele che ci vietino di continuare ad amarlo”. A 20 minuti dalla fine la mossa Alfano – Minniti Londra. È una vicenda che ripercorre quella del piccolo Charlie Gard, che l’anno scorso aveva diviso le opinioni pubbliche in Gran Bretagna come in Italia: anche in questo caso c’è un bambino gravemente malato, Alfie Evans, conteso fra le speranze dei genitori, che vorrebbero dargli un’ultima possibilità, e la decisione dei medici dell’ospedale in cui è ricoverato, che ritengono più opportuno staccare la spina. Teatro del dramma è lo Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, dove ieri mattina si sono vissuti momenti di tensione: alla notizia che anche l’ultimo ricorso dei genitori era stato respinto dalla Corte europea per i diritti umani, e che dunque la procedura di sospensione delle cure stava per essere messa in atto, un gruppo di manifestanti ha tentato di dare l’assalto alla clinica e ha costretto la polizia a intervenire. In un tentativo in extremis di fermare i medici, il governo italiano ha concesso la cittadinanza al piccolo: i genitori di Alfie chiedono infatti di poterlo trasferire a Roma, all’ospedale vaticano del Bambino Gesù, per continuare le cure palliative. Ma a tarda sera il magistrato britannico che segue il caso, dopo un confronto telefonico con i legali che assistono la famiglia, ha dato il via libera definitivo al distacco dei macchinari che tengono in vita il bambino. Secondo i familiari, la procedura è iniziata già durante la notte. La triste vicenda aveva avuto inizio a dicembre del 2016, quando il bambino, nato il 9 maggio di quell’anno, era stato ricoverato in seguito a ripetute convulsioni: i medici avevano diagnosticato una malattia neurologica degenerativa e da allora il piccolo è rimasto in terapia intensiva, in uno stato semi-vegetativo. Nel dicembre scorso l’ospedale di Liverpool si è rivolto a una Alta Corte per chiedere di poter sospendere le cure: secondo i medici, gli esami mostrano una «catastrofica degradazione del tessuto cerebrale» e proseguire il trattamento sarebbe non soltanto «futile» ma anche «inumano». I genitori chiedono il permesso di trasferire Alfie a Roma, ma il tribunale dà ragione ai medici sentenziando che il piccolo ha bisogno di «pace, quiete e riservatezza». Tom e Kate, il padre e la madre di Alfie, portano il caso davanti a una Corte d’Appello, ma vengono sconfitti. E lo stesso succede davanti alla Corte suprema. Si rivolgono alla Corte europea per i diritti umani, che tuttavia giudica il ricorso «inammissibile». Il 16 aprile i legali dei genitori tentano una nuova strada, sostenendo che il bambino è «detenuto illegalmente»: ma vengono nuovamente respinti sia dalla Corte d’Appello che dalla Corte suprema. Il 18 Tom Evans vola a Roma per chiedere al Papa di «salvare suo figlio», ma ieri la Corte europea rifiuta per l’ultima volta di intervenire nel caso, dando di fatto il via libera alla sospensione delle cure. C’è però da dire che la vicenda ha avuto scarsa risonanza in Gran Bretagna: ieri i telegiornali hanno ignorato il dramma, concentrati com’erano sull’arrivo del «royal baby». Solo di fronte all’ospedale staziona da giorni qualche centinaio di dimostranti. Quando l’ha vista entrare nella stanza dei colloqui, lo sguardo di Tom Evans si è illuminato. Per il padre di Alfie, Mariella Enoc non è solo la presidente del Bambino Gesù. È come una parente, una zia molto amata. Forse l’unico personaggio che gli fa sperare si possa fare qualcosa per salvare il figlio di 23 mesi. «Mariella, non chiediamo altro che continuare a dargli amore per tutto il tempo che sarà possibile. È crudele che non ce lo permettano, voglio lottare, non si devono azzardare a toccarlo. Io me lo porto via», le ha ripetuto chiamandola più volte per nome, stringendole le mani, dopo l’ennesima notte trascorsa steso a dormire in corridoio. Al suo fianco la moglie Kate che dopo un abbraccio è tornata in rianimazione, molto provata. Due genitori semplici, di origini umili, capaci di sostenere indomiti e con atteggiamento affatto subalterno il confronto con giudici, medici e avvocati. Tom va avanti senza timore, mosso da forza sovrumana. «Ho il timore compia gesti sconsiderati, sembra agire come si trattasse di un’occupazione operaia», dice Enoc. Kate dopo settimane di lotta appare fragile e frastornata. Sono fidanzati dall’età di 16 anni, si sono conosciuti nelle scuole dei quartieri popolari alla periferia di Liverpool. Lei protestante, seconda di quattro figli, estetista. Lui penultimo di nove fratelli, famiglia cattolica, imbianchino. Alfie è stato concepito quando non avevano la maggiore età, però non hanno mai pensato all’aborto.

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Il bambino è stato battezzato, come il papà. Solo dopo la nascita si è capito che qualcosa non andava. Crisi convulsive, pianto, improvvise assenze dello sguardo. L’hanno portato all’Alder Hey Children’s Hospital, il migliore ospedale pediatrico del nord ovest del Paese e Kate ha dovuto insistere con i medici perché dessero ascolto alle loro preoccupazioni. Infine è arrivata una diagnosi indefinita di «neurodegenerazione cerebrale» che ha progressivamente portato il piccolo allo stato vegetativo senza ritorno. Tom però non si dà per vinto e crede esista una cura. La presidente Enoc è tornata da Liverpool ieri sera dopo l’incontro di pochi minuti con i coniugi Evans, accompagnata da un sacerdote. In realtà lo scopo della visita era avere un colloquio con i sanitari dell’Alder, negato e forse mai preso in considerazione dagli inglesi, per convincerli sull’opportunità di un trasferimento a Roma. «Tom mi vede come l’estremo appiglio per salvare Alfie. Crede che nel nostro ospedale il piccino troverebbe sollievo e loro potrebbero continuare ad accarezzarlo. È così che succede nella nostra realtà. Anche quando non c’è guarigione noi siamo vicini alle famiglie. Tante volte sono rimasta al fianco dei genitori di bambini in attesa della morte». Per impostazione, la struttura della Santa Sede è però distante anni luce dall’ospedale britannico: «Ho avvertito la frattura tra gli Evans e i medici. Un clima di fredda ostilità». Roma. Un vorticoso giro di telefonate. Da Strasburgo, da Liverpool, dalla Santa Sede. Il nostro governo è stato crocevia di molteplici contatti, confronti, informazioni, sino a 20 minuti prima che la struttura sanitaria inglese iniziasse le procedure per staccare la spina al piccolo bambino inglese in grado di vivere solo grazie alle macchine. Venti minuti prima del punto di non ritorno, un ultimo giro di telefonate fra Angelino Alfano, Marco Minniti e Palazzo Chigi è servito ad imboccare la strada della cittadinanza con un decreto d’urgenza, da approvare ma anche da comunicare in fretta e furia ai media con tanto di secondi contati. È stata anche una corsa contro il tempo la decisione che viene applaudita da gran parte della politica italiana, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni. Una corsa che ha come primo obiettivo - spiegano alla Farnesina - quello di dare una mano alla battaglia dei due genitori del piccolo Alfie Evans. Esiste adesso una carta in più, il ministro degli Esteri Angelino Alfano che nel corso dei mesi ha avuto diversi contatti con il suo omologo britannico Boris Johnson, avrà un ulteriore confronto, anche se nessuno si fa particolari illusioni, tutto resta nelle mani del governo di Londra. Il bambino infatti ha ora la doppia cittadinanza e di questo le autorità italiane sono più che consapevoli, la residenza resta su suolo inglese, l’applicazione rigorosa della normativa britannica è ancora possibile. Ed è ancora possibile, se non probabile, che l’ospedale di Liverpool non cambi la sua posizione, contraria a quella dei genitori del bambino. Ma se la scelta del governo italiano può non cambiare l’esito dello storia, di sicuro per il momento cambia alcune carte. Da oggi infatti gli avvocati inglesi della famiglia Evans avranno un appiglio giuridico in più per la battaglia legale che stanno conducendo a difesa della vita del loro bambino e contro il sistema normativo e sanitario del Regno Unito. Insomma gli aspetti legali del caso diventano molto più complessi, non schiudono automaticamente le porte di un ospedale italiano per il bambino, ma dovranno comunque essere riesaminati, tanto che ieri sera Anthony Hayden, il giudice della corte d’appello britannica che nei giorni scorsi ha firmato il verdetto che autorizza i medici di Liverpool a staccare la spina al piccolo Alfie Evans, ha deciso di avere un confronto telefonico «urgente» con i rappresentanti legali italiani che assistono la famiglia nella battaglia per continuare a dare assistenza al bambino. «I ministri degli Esteri Angelino Alfano e dell’Interno Marco Minniti hanno concesso la cittadinanza al piccolo Alfie. Il governo auspica che l’essere cittadino italiano permetta, al bambino, l’immediato trasferimento in Italia». Questa la nota diffusa dalla Farnesina venti minuti prima di una linea di non ritorno per il piccolo Alfie. I suoi genitori ora hanno anche la legge italiana sul biotestamento fra le carte da giocare. Pag 30 Nuovo allarme migranti: serve un’Europa compatta di Goffredo Buccini La tregua è finita. Con un weekend che ha portato sulle nostre coste un quarto di tutti gli sbarchi registrati nel 2018, le migrazioni tornano questione nazionale. Proprio mentre la Francia, varando una normativa in parte più severa, ci costringe a meditare sulle nostre regole (poiché è vero che, come dice il ministro dell’Interno francese Gérard

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Collomb, «se Francia, Germania e Italia non hanno le stesse procedure, i flussi si indirizzano tutti dove l’asilo è più facile»). L’ulteriore destabilizzazione libica legata all’incerta sorte del generale Haftar, l’ambizione di «sindaci» o capi tribù di ricontrattare col prossimo governo gli accordi stretti a suo tempo con Marco Minniti e, più banalmente, il bel tempo sono tutti fattori che spingono verso di noi nuove ondate di profughi. Non è più il caso di baloccarsi sul calo di arrivi dell’80 per cento che il lavoro di Minniti (peraltro assai contestato dalla sinistra radicale e da alcune organizzazioni umanitarie) aveva ottenuto. E sarebbe inoltre sconsigliabile, almeno stavolta, il consueto gioco di speculazioni politiche. Qualunque maggioranza parlamentare uscirà dalla crisi, la questione migratoria va de-ideologizzata. Proviamoci. Possiamo dare in premessa che chi vuole accogliere i migranti non progetta di «sostituirli» agli italiani? E che chi vuole respingerli non ne desidera lo sterminio? Ma che, piuttosto, ciascuno vede un solo lato di un problema che non si presta a semplificazioni? Le ultime polemiche attorno alle navi Ong (la Proactiva di Open Arms dissequestrata a Ragusa, sconfessando il pm catanese Zuccaro) mostrano una volta in più un’opinione pubblica radicalizzata sulle estreme. Le forze politiche dovrebbero fare lo sforzo inverso: convergere sul buonsenso. Sembra ingenuità ma è calcolo. Le elezioni sono passate, Mattarella non ne consentirà di nuove a breve, fare i furbi non è solo inutile, è nocivo per tutti. È davvero impossibile un disarmo bilaterale? La svolta di Minniti ha reso meno incompatibili le posizioni. Un certo irenismo, almeno nella sinistra riformista, pare archiviato. Gli spot della destra su «pulizie di massa» e su «600 mila rimpatri» ne seguiranno la sorte alla prima prova di governo. Resta la realtà, con le sue priorità. Prima fra tutte, l’accoglienza. Su questo batte la riforma francese (passata, con molti mal di pancia, all’Assemblea nazionale e da approvare al Senato): sei mesi (come in Germania) per tutta la procedura d’asilo, dentro o fuori, e detenzioni amministrative prolungate. In compenso, si amplia l’elenco dei Paesi «non sicuri» per il rimpatrio e si deroga sui «delitti di solidarietà» (l’assistenza volta ad assicurare vita degna agli stranieri). Da noi l’accoglienza è un disastro certificato. Per inadeguatezza dei nostri Centri, «smarriamo» migliaia di migranti. Lo Sprar (il circuito territoriale) deve diventare obbligatorio (tre Comuni su quattro non vi aderiscono, penalizzando così i Comuni virtuosi); ma il migrante che ne fuoriesce, perché viola il contratto di accoglienza o perché la sua domanda è respinta, non può essere mandato a zonzo senza lavoro né identità, pena la rivolta delle periferie, geografiche o sociali che siano. Dice Romano Carancini, sindaco pd di Macerata: «Se escono dal circuito dell’accoglienza, i migranti vanno tenuti in luoghi confinati». Può non piacere. Ma il percorso di Innocent Oseghale deve far riflettere: il nigeriano accusato della morte di Pamela Mastropietro era stato per più di un anno nello Sprar rifiutando ogni integrazione; arrestato poi per spaccio ed espulso dallo Sprar, era rimasto a Macerata sparendo dai radar per un altro anno, fino all’arresto per l’omicidio della ragazza. Così com’è, il sistema è criminogeno. Il secondo nodo è lo sblocco dei confini con una soluzione sui ricollocamenti. Emmanuel Macron, tentando di vestire i panni di unico leader europeo, si è appena speso contro le quote di ripartizione tra gli Stati, visto che quelle quote pochi le rispettano e nulla accade: meglio premiare chi accoglie, dice. Meglio ancora sarebbe togliere fondi europei a chi (come il gruppo di Visegrad) non ottempera alle decisioni europee sbarrando le frontiere. Molto meglio se Macron stesso riaprisse le sue frontiere lasciando attraccare anche nei porti francesi le navi Ong. Tuttavia non è sempre colpa degli altri: il Censis nel rapporto 2017 bacchetta anche le lentezze burocratiche del sistema Italia nell’avviare le «relocation». Tutti vanno salvati dal mare, zero dubbi. Ma la vera riforma va fatta in terraferma. E nessuno può farla da solo, né uno Stato né un partito. La soluzione ultima sarà stabilizzare quanti più Paesi africani sia possibile, domani. «Vaste programme», sorriderebbe De Gaulle. Nel frattempo, l’Europa deve battere un colpo tutta insieme e l’Italia, unita, deve farlo in Europa. Chi spera nel contrario, magari contando di lucrare ancora sulla disgregazione, guardi gli scontri già in atto tra fazioni di giovani, con bandiere novecentesche, fascismo e comunismo, alle frontiere o dentro le periferie delle metropoli: rischia di vincere un cumulo di macerie. LA REPUBBLICA Pag 30 Dal Pd a Salvini la via stretta del Quirinale di Stefano Folli

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L'incarico esplorativo al presidente della Camera, uguale e simmetrico a quello svolto dalla collega di Palazzo Madama, ha il vago sapore delle cose che arrivano quando ormai è troppo tardi. Il quadro generale si sta logorando, mentre si continua a pestare l'acqua nel mortaio. Quanti sono disposti oggi a scommettere sull'accordo, mediato da Fico, fra Cinque Stelle e Pd? Ben pochi. Tuttavia la fretta ansiosa con cui Orfini, presidente del partito e fedele collaboratore di Renzi, si è precipitato a negare qualsiasi margine d'azione all'esploratore, la dice lunga sullo stato dei rapporti nel centrosinistra. Il gruppo renziano è con ogni evidenza angosciato alla sola idea che un altro segmento del Pd possa aver voglia, non tanto di intavolare trattative politiche con Di Maio, quanto semplicemente di sedersi al tavolo con Fico. Un conto è argomentare sulla scarsa opportunità e probabilità di un' intesa con il M5S per ragioni culturali e politiche; un altro è chiudersi a doppia mandata nel castello, timorosi che lasciar intravedere un minimo spiraglio possa determinare il fuggi fuggi generale verso l'accordo. Tale preclusione conferma una volta di più che il Pd è sempre a un passo dal frantumarsi qualsiasi mossa decida di compiere. Sotto questo aspetto il 9 per cento del Molise ha una sua carica simbolica inquietante. Se fosse una specie protetta, si direbbe che il partito di cui Renzi è tuttora il leader occulto ha varcato la soglia oltre la quale comincia il pericolo d'estinzione. E il Friuli domenica prossima rischia di confermarlo. Ma per restare alla stretta attualità, è chiaro che il "no" perentorio nei confronti di Fico, prima ancora che questi fosse tornato a Montecitorio (a piedi, s'intende), equivale a un discreto sgarbo verso Mattarella. Non era proprio il Pd, o almeno una parte di esso, che sosteneva di essere pronto a rispondere con senso di responsabilità a un appello o a una chiamata del capo dello Stato? Se il Quirinale ha deciso di affidarsi al presidente della Camera per un supplemento di valutazioni, il galateo politico prevede (o forse prevedeva un tempo) che le forze parlamentari stiano al gioco. Invece no. E il Pd è in buona compagnia: Salvini ritiene che il mandato a Fico sia "una presa in giro". Come dire che l'area di rispetto intorno al presidente della Repubblica conosce le prime incrinature. Resta da capire cosa accadrà la prossima settimana, quando anche la seconda esplorazione si sarà consumata. Salvini continua ad annunciare che il governo, a lasciar fare a lui, "si può fare in una settimana". Ovviamente intende un governo con i Cinque Stelle e con tutto il centrodestra, visto che il capo leghista non intende operare strappi che gli alienerebbero metà Forza Italia, quella nonostante tutto fedele a Berlusconi. Se è così, non si esce dai veti incrociati e Mattarella potrebbe cominciare a pensare al governo transitorio o ponte o "del presidente". Che non rappresenta una comoda via d' uscita dal labirinto, bensì l'ennesimo rebus. Forse il più difficile, se si vogliono evitare le elezioni. Il capo dello Stato dovrà usare tutta la sua autorità e mettere nel conto polemiche e qualche attacco. Le battute acide di ieri potrebbero essere solo l'assaggio di un crescendo di critiche. Si vedrà. Intanto il Molise, nella sua scala ridotta, ha dimostrato che i Cinque Stelle, pur guadagnando voti, si fermano al di sotto della soglia del 4 marzo. Quanto al centrodestra, è competitivo, addirittura vincente, ma solo se resta unito. Almeno a Campobasso, Berlusconi riesce a difendersi. AVVENIRE Pag 1 Figlio nostro di Giuspepe Anzani Un bimbo, una famiglia, un buon diritto Il suo papà l’aveva detto, «Alfie appartiene all’Italia». Aveva detto così dopo la corsa dell’ultima speranza nel nostro Paese, e il contatto con l’Ospedale Bambino Gesù e il colloquio con il papa Francesco. Adesso è vero, Alfie appartiene all’Italia, il nostro governo gli ha concesso la cittadinanza, Alfie è italiano. E qualcosa dovrebbe pur cambiare, sul piano diplomatico, sul piano delle relazioni fra governi, circa la possibilità di movimento di un cittadino italiano, a cui medici italiani offrono di prestare le cure ancora possibili, secondo la volontà del padre e della madre. Che i medici inglesi dicano che non ci sia più nulla da fare se non staccare il respiratore e farlo/lasciarlo morire non è che il loro pensiero, la loro spugna gettata; ma se nel mondo altri medici, altri ospedali d’eccellenza offrono un altro modo di trattare il malato, di scrutare la diagnosi oscura, di proporre in ogni caso un accompagnamento di totale soccorso al bimbo e ai suoi genitori, impedirne il trasferimento è contrario all’etica medica. Quel bimbo non appartiene all’ospedale, non è prigioniero di quel letto, anche se le notizie di una notte

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carica di angoscia parlano della determinazione a chiudere il caso con la morte del bambino. Ancor più incredibile ferita alla giustizia (ma no, più a fondo: all’etica del diritto) è la sequenza dei verdetti delle Corti. Tutte le Corti, basse, alte, di prima istanza, di appello, di grado supremo, tutte a dire che il bene, il bene del bambino è la morte. E i quadri di questa tragica recita sono stati incalzanti, rapidi, brevi, un ultimatum dietro l’altro. E la speranza dei due genitori (il bene, il loro bene, in una versione espulsa dall’aula) a rinascere ogni volta da quelle ripetute agonie e a tentare di nuovo il gradino più alto, la rupe più dura. Fino alla Corte europea dei diritti umani, che fulmineamente «non ha ammesso», non ha neppure ammesso che un’eco di quel grido ultimo giungesse nella sua sterile aula; non ha neppur provato a interloquire nel destino di Alfie e dei suoi genitori con una parola di chi sa cos’è il dolore. Quest’ultimo segmento «inammissibile» era forse già scritto, perche Strasburgo non avrebbe potuto forzare in concreto le sentenze inglesi. Ma qualcosa in tema di art. 8 della Convenzione Cedu (rispetto della vita privata e familiare) andava detto, gridava da sé. Perché è questo l’aspetto disumano: incrudelire verso due genitori provati già da un immenso dolore. Se la sintesi dello stato di salute di Alfie, incrostata nella definizione delle aule giudiziarie come «una condizione neurodegenerativa catastrofica e incurabile (untreatable), progressiva» strapparlo alle braccia dei genitori che cercano le cure dell’estrema speranza altrove, fosse in capo al mondo, è una pugnalata al diritto familiare. E se pure accadrà che nessuno salverà quel figlio, se non un miracolo, è già miracolo questo amore che non s’è arreso. Anche il governo italiano ha fatto un gesto che rappresenta, sul piano internazionale, un impegno ultimativo. Senza avere purtroppo la forza di attrarre qui con certezza Alfie, bimbo italiano che resta ancora suddito di Sua Maestà britannica. Possiamo ora dirlo figlio nostro: ma è già figlio del mondo. Restano in noi e nel mondo amore e sofferenza insieme: non chiameremo 'giustizia' una gelida violenza che espropria la vita d’un figlio. Quand’anche le cure non vincano la morte, le danno altro senso mentre danno senso alla vita. A Roma, sappiamo, non è prenotabile una vittoria certa sulla malattia, e dovunque potrebbe venire il momento estremo che le terapie di sostentamento vitale perdano ragione. Ma se il cammino sarà segnato, questo è giusto: che questo angelo e i suoi genitori lo facciano insieme, e con loro i medici, preservando il bambino dal dolore, curando e amando fino all’ultimo; e senza alle spalle l’ombra di pollice ritto o di pollice verso di nere toghe. Pag 7 Quel lungo filo rosso tra salvataggi in Libia e confini francesi chiusi di Paolo Lambruschi Il ritorno dei salvataggi nelle acque libiche di 1.400 persone (11 morti) in 48 ore sabato e domenica da parte delle navi della Guardia costiera italiana e delle vituperate Ong è legato al weekend di tensione vissuto sulle Alpi dell’AltaValsusa, sul confine italofrancese. Quanti di questi 1.400 tra poche settimane proveranno infatti a oltrepassare il Colle della Scala per transitare in Francia, diretti verso nord Europa e Regno Unito? Sul versante libico le numerose partenze sono probabilmente da collegare non solo al meteo favorevole, ma anche all’uscita di scena del generale Haftar, uomo forte della Cirenaica attualmente ricoverato in Francia. Non è da escludere, anzi, che questo sia un messaggio delle milizie - che nello sfascio libico sono spesso conniventi con i trafficanti, come dimostrano molte autorevoli inchieste e report internazionali – al prossimo governo di Roma per rinnovare gli accordi che hanno spostato la frontiera europea sull’altra sponda del Mediterraneo. È prevedibile un’impennata estiva degli sbarchi, perciò quanto accaduto su prati e vette ancora innevati vicino al Piemonte assume valore simbolico e politico. Simbolico perché accentua un’emergenza di frontiera che non c’è. Non sono infatti alti i numeri del passaggio a nordovest verso la terra transalpina, siamo nell’ordine di 1.500 persone in sei mesi, molti dei quali respinti. In Francia chi può passa pagando un passeur e salendo su un’auto o un camion a Ventimiglia per transitare. E molti, spesso donne sole con bambini e famiglie, vengono dissuasi nel centro di transito aperto dal prefetto di Torino a Bardonecchia con sindaci dell’Alta Valle e associazioni. Ma l’azione condotta sabato dai neofascisti francesi per chiudere il confine ai migranti e la risposta sul Monginevro domenica di antagonisti e anarchici in marcia verso Briançon, che ha prodotto tafferugli con i gendarmi e quattro fermi, indica che è meglio non lasciarsi distrarre dalle provocazioni dei nipotini di Petain,

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Stalin e Bakunin. Perché nel frattempo Parigi ha rinforzato la presenza della polizia e ha approvato in prima lettura un progetto di legge di segno repressivo su 'Asilo e immigrazione'. Punto di partenza è aiutare chi scappa dalle guerre ed espellere chi non ha titolo di restare. Si abbrevieranno così i tempi di decisione sull’asilo, si potrà incarcerare chi entra illegalmente e cresceranno espulsioni e riaccompagnamenti – anche in spregio al diritto internazionale – verso il Paese di prima accoglienza, l’Italia. Che oggi non ha un governo operativo e soprattutto non può a sua volta fare molte espulsioni verso l’Africa. Con buona pace di sovranisti e identitari nostrani favorevoli a ogni chiusura, l’obiettivo di Macron – europeista a parole solo a Bruxelles – è scaricare il problema sulle spalle degli italiani IL GAZZETTINO Pag 1 Silvio e Matteo e quel messaggio agli elettori di Marco Gervasoni Il voto in Molise Il Molise non è l'Ohio, e non solo perché la mini regione d'Italia è molto più amena. Se lo Stato americano decreta sempre, o almeno così dicono, chi andrà alla Casa Bianca, la vittoria del candidato del centro-destra, Donato Toma, infittisce anzi la nebbia su chi andrà a Palazzo Chigi e soprattutto su quale formula. Di certo, però, dopo aver dimostrato la solidità dell'alleanza, il Molise raffredda le tentazioni della Lega di romperla e di abbracciare i 5 stelle. Il campione elettorale è ristretto, l'astensione elevata, e le dinamiche delle elezioni locali diverse da quelle nazionali, ma il caso molisano suggerisce egualmente alcune considerazioni. La prima, banalissima, è che si tratta di una vittoria rivitalizzante per il centro-destra, che lì alle politiche aveva totalizzato il 29% senza eleggere alcun parlamentare (tutti andati ai 5 stelle), e ora sfiora il 50%. Non sfugga inoltre la dimensione simbolica della riuscita. Con la Sicilia, è la seconda regione meridionale a ritornare al centro-destra, per lungo tempo dominatore al Sud, da cui invece era ultimamente sparito. La seconda considerazione è che il coinvolgimento corpo e anima di Berlusconi, negli ultimi giorni più presente in Molise che a Roma o a Arcore, funge ancora da eccellente traino elettorale. Sarà più difficile ora pensionare a breve una macchina in grado di attrarre voti, si badi bene, più sulla coalizione che su Forza Italia in sé. La terza considerazione è infatti che il voto ha confermato la coesione della alleanza, grazie al suo equilibrio interno. Nonostante lo sparpagliamento di liste promosse dai suoi dirigenti, FI non è stata superata dalla Lega e parecchi voti ha raccolto anche l'area centrista di lunga derivazione democristiana. L'imperio di Salvini sul centro-destra pare quindi meno rapido di quanto molti pensassero, e per questo la coalizione vivrà meno fibrillazioni. È tuttavia indubbio che, tanto quanto Forza Italia è in declino, tanto la Lega sia in crescita - basti ricordare che nel 2013 in Molise il Pdl giunse al 22%, la Lega allo0,2%. In un certo senso il vecchio centro-destra è morto e Salvini è il leader di quello nuovo perché incarna una tendenza che difficilmente sulla media distanza si invertirà. Se però vuole crescere al sud, il nuovo cento-destra dovrà presentare programmi nuovi seri e credibili per il Mezzogiorno, e rendersi conto del divario storico tra le due Italie, ulteriormente allargatosi negli ultimi anni: con aree del Veneto e della Lombardia marcianti a ritmi «cinesi», e il Sud invece ancora immerso nella crisi. L'ultima considerazione riguarda gli sconfitti. Nonostante l'importante calo di voti rispetto alla politiche, quella dei 5 stelle non è una débâcle, come confermano i consensi personali raccolti dal suo candidato, superiori a quelli della lista: segno che gli elettori si sono fidati anche di una persona e non solo di un brand. Più vistosa la frana del Pd, che dovrebbe interrogarsi su dove siano finiti i voti rispetto al già magro risultato del 4 marzo. Forse sul candidato dei 5 stelle, forse nell'astensione, o persino nel centro-destra: in una logica di «voto utile», per evitare la vittoria dei grillini, giudicati inadatti. Domande cruciali per il Nazareno, visto che l'esplorazione del presidente della Camera Fico è destinata a coinvolgerlo, in modi tutti da vedere. Quanto inciderà il risultato molisano sullo scenario? Lo vedremo presto. Certo, con la vittoria di Salvini e di Berlusconi, probabilmente replicata la settimana prossima in Friuli, pare un'impresa piuttosto azzardata lasciare all'opposizione l'alleanza con il maggior numero di parlamentari, che ormai controlla tutte le regioni del Nord, tranne il Piemonte, e comincia a riprendersi il Sud. Certamente si farebbe un gran favore a Salvini, l'unico dei leader in campo a non aver alcuna fregola di sedere nei ministeri.

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LA NUOVA Pag 1 La lezione del 25 aprile per l’Europa di Vincenzo Milanesi È forte il rischio di fare del 25 aprile una celebrazione che si esaurisce in una ritualità vuota. Ma un rito non è inutile se ha la capacità di attualizzare un evento del passato, di contestualizzarlo nel presente dando ad esso un significato che va al di là della pura commemorazione. Il ricordo, pur fondamentale per non lasciar cadere nell'oblio vicende tragiche e insieme eroiche, cui dobbiamo molto di quanto di positivo ancora esiste, e resiste, nelle nostre realtà politiche e sociali, non basta. Bisogna comprendere il significato di quelle vicende per l'oggi. Solo così si evita di scivolare nella retorica, cui è facile cedere nonostante le migliori intenzioni. L'Europa di oggi nasce dalla lotta corale di popoli del Nord e del Sud del continente contro la barbarie nazifascista, negatrice dei valori fondanti il vivere civile, da quello dell'uguaglianza di ogni uomo senza distinzione di appartenenza a gruppi etnici o di fede religiosa, al valore supremo della libertà di ogni cittadino di fronte alle leggi di un Paese democraticamente governato dalla volontà popolare. Ma proprio quell'Europa che oggi è l'Unione Europea, di cui fanno parte ormai un numero assai considerevole di Stati del continente, non solo non è riuscita ad impedire la rinascita di pericolosi rigurgiti di simpatie per quell'ideologia aberrante, ma nemmeno ad evitare che si sviluppassero, ad Est come all'Ovest, partiti e formazioni politiche di matrice sovranista ed identitaria, definiti con termine generico, e inadeguato, come "populisti", sostenitori aperti di una "democrazia illiberale", dagli inconfondibili tratti autoritari. Che può essere premessa di una completa degenerazione del tessuto democratico di molti di quei Paesi. L'origine di questa situazione sta, innanzi tutto, in un deficit di capacità di costruzione di un insieme di organismi decisionali delle politiche comunitarie più adeguato a dare effettiva rappresentanza ai cittadini europei. Ma essa sta anche nell'insipienza dei partiti delle grandi famiglie politiche della tradizione culturale e politica europea, incapaci di guardare all'Europa se non esclusivamente dal punto di vista dei loro interessi come partiti meramente nazionali, invece che con uno sguardo lungimirante e orientato agli interessi di un'Europa unita, non di un singolo Paese, o di un gruppo ristretto di essi. È mancata, tra i Paesi dell'Unione, la capacità, da parte di chi ha avuto l'abilità di svilupparsi più e meglio di altri a livello politico e sociale, come la Germania, di saper essere davvero "egemone" in una fase storica in cui, complice il fenomeno imprevisto e davvero epocale delle migrazioni da Medio Oriente ed Africa subsahariana, la globalizzazione dei mercati rischia di relegare l'Europa ad un ruolo subalterno, dal punto di vista economico e quindi da quello politico, se essa non saprà essere davvero unita. Libertà e democrazia, giustizia e solidarietà, simul stabunt, simul cadent. Un errore, questo, che i Padri fondatori dell'Europa del dopoguerra avrebbero, sicuramente, saputo evitare, forti di un ideale che traeva la sua forza proprio dallo sguardo alle macerie, materiali e morali, lasciate in eredità dal secondo tremendo conflitto mondiale. Un errore che in questi anni, difficili e cruciali per il futuro dell'Europa, ma in cui ci siamo dimenticati di quelle macerie, dovremmo, noi cittadini europei, saper correggere proprio partendo dalla consapevolezza di essere prima di tutto cittadini di quell'Europa che, se unita e ben guidata, ci potrà, essa sola, salvare. Ai popoli d'Europa liberi dalle illusioni delle sirene "sovraniste" che guardano esclusivamente alle "piccole patrie" destinate solo, in quanto tali, alla sconfitta, sta la responsabilità di dare ad essa la risposta giusta. L'occasione delle elezioni europee del 2019 è quella buona. Ma purtroppo continuano ad essere le elezioni nazionali quelle che definiscono le scelte, oggi ancora troppo legate a logiche di tipo intergovernativo, della odierna governance europea. È dunque da qui che dovremo ripartire. Torna al sommario