pulvis es - kaiak. a philosophical journey · parafrasare il bergson de le due fonti della morale e...
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Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
1 Data di pubblicazione: 18.12.2014
Eleonora de Conciliis
“Pulvis es…”
Breve viaggio nel sottosuolo del cristianesimo
Abstract
The human mortality forms a whole with man’s terrestrial nature and with his sense of
inferiority before God. Being born from the soil for God’s will, mankind is condemned to
return into the soil because of the same will, to be dissolved like dust under the surface of the
earth.
Christianity is the only monotheistic religion that promises the deliverance from this doom.
But both from a theological and a symbolic point of view (the Cross, the Holy Sepulchre and
so on), as well as from a topological or imaginary perspective (catacombs, relics, crypts)
Christianity seems to be permeated by a pulviscular bond between soul life (psychicity), death
and underground. From a sub-religious perspective and proceeding along paths outlined by
other geologists of thought (Nietzsche, Foucault, Nancy), this essay visits those places hidden
under the surface of faith and tries to shed light on the underground of Christianity as a
‘psychotic’ religion about human imperfections. But it tries to evaluate the faults of its
metamorphic survival in the Contemporary World, too.
* * *
Premessa
Nella fonte jahvista dell’Antico Testamento (cfr. Genesi 2,4b-7), l’uomo viene plasmato da
Dio con la “polvere del suolo”, e la vita come anima (psiche) gli viene soffiata nelle narici.
Oltre a fornire il prototipo del golem cabalistico, è questo racconto della creazione della prima
coppia umana (secondo il quale Eva viene tratta dalla costola di Adamo), e non quello
elohista, a giustificare la celebre espressione “quia pulvis es et in pulverem
reverteris” (Genesi, 3,19: “perché sei polvere e in polvere ritornerai”), prelevata dalla Vulgata
di San Girolamo e ancora utilizzata dalla Chiesa cattolica come memento mori nel rito
penitenziale della liturgia del mercoledì delle Ceneri. Nella sua interezza, il versetto
costituisce la terribile frase pronunciata da Jahvè dopo il peccato originale, quando decide di
cacciare Adamo dall’Eden condannandolo alla fatica del lavoro e, soprattutto, alla morte:
“Con il sudore della fronte mangerai il pane; finché non tornerai alla terra, perché da essa sei
stato tratto: polvere tu sei e polvere ritornerai!”. La mortalità dell’uomo fa qui tutt’uno con la
sua ‘natura’ terrestre: sorto dal suolo per volontà divina, egli è destinato dalla stessa volontà a
ritornarvi – a dissolversi come polvere sotto la superficie.
Il cristianesimo, unica tra le grandi religioni monoteistiche, promette una liberazione da
questa condanna, ma sia dal punto di vista squisitamente teologico (poiché è il sacrificio
vicario di Cristo a fondare la promessa di vita eterna anticipata dalla sua stessa resurrezione),
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sia da quello simbolico (la Croce, il santo sepolcro, ecc.) sia, infine, da quello topologico e
immaginario (dalle catacombe alle cripte alle reliquie), esso sembra attraversato da un legame
pulviscolare tra vita dell’anima (psichicità), morte (annullamento) e sottosuolo. In una
prospettiva, come vedremo, letteralmente infra-religiosa e semplicemente percorrendo sentieri
già tracciati da altri e ben più celebri geologi del pensiero, si cercherà qui di visitare questi
luoghi nascosti sotto la superficie: di illuminare i sotterranei del cristianesimo come religione
della (non)morte, obbedendo al titolo di un vecchio romanzo del risentimento: chiedi alla
polvere (Ask the Dust, di John Fante, 1939).
1. “Gerarchia. In primo luogo vi sono pensatori
superficiali, in secondo luogo pensatori profondi, –
quei tali che vanno nel profondo di una cosa, – in
terzo luogo pensatori radicali, che vanno alla radice di
una cosa, – ciò che ha molto più valore dello scendere
nelle sue profondità, – infine coloro che cacciano la
testa nella melma: la qualcosa pertanto non dovrebbe
essere ancora un segno di profondità né di radicalità!
Sono i cari uomini del sottosuolo.”
Friedrich Nietzsche, Aurora, § 446
Per connotare compiutamente il viaggio con una metafora spaziale, si potrebbe suggerire che
il cristianesimo rappresenta, come e più dell’ebraismo, una sorta di verticalizzazione della
psichicità occidentale, cui sembra corrispondere una profonda, gerarchica verticalizzazione
del pensiero, che prende il nome di metafisica.
Senza caricare il termine della nota interpretazione heideggeriana (senza cioè fare della
metafisica una filosofia dell’ente, ma concependola more platonico come un raddoppiamento
del mondo), si potrebbe altresì suggerire che Nietzsche sia stato uno dei primi a mostrare il
prezzo morale di tale verticalizzazione, trasformando addirittura il sottosuolo in un metodo –
alla lettera, in una strada – per giungere alla comprensione della fangosa creazione dell’uomo.
Se infatti, per parafrasare una sua celebre definizione riferita all’arte greca, solo
un’orrenda profondità rende possibile la bellezza della superficie, Nietzsche scrive da dio
perché ha messo il naso nella melma come pochi altri: è lui l’“essere sotterraneo …che
perfora, scava, scalza di sottoterra” (Aurora, Prefazione, 1)1, la talpa che fruga nei bassifondi
della storia per illuminare la pudenda origo della morale e con essa della psichicità cristiana –
per mostrare le tenebre e la polvere sotto la luce della resurrezione.
Col suo implacabile fiuto genealogico, Nietzsche ha scavato nei sotterranei della metafisica –
nelle vanitose, idealistiche, adolescenziali fantasie della filosofia – e vi ha trovato la religione
come invenzione (Erfindung). Nella Gaia scienza (III, 151), leggiamo inoltre che il bisogno
metafisico non è affatto all’origine della religione, come voleva Schopenhauer, bensì un suo
tardivo germoglio – un effetto del suo indebolimento. Se la credenza in un altro mondo (che
può essere “retrostante, sottostante, sovrastante” il mondo fisico, ibidem) rappresenta a sua
volta un errore, cioè una debolezza dell’intelletto, la metafisica si sostituisce alla religione
quando l’illusione religiosa viene distrutta, fungendo così da debole surrogato della fede. Da
tale punto di vista, Nietzsche ha affiancato al “terribile testo fondamentale homo natura” (Al
di là del bene e del male, VII, 230) l’altrettanto terribile testo homo historia: in quanto la
genealogia è una filosofia critica ma anche storica, essa insegna che “l’uomo è divenuto” –
1 Tutti i riferimenti alle opere di Nietzsche sono tratti dall’edizione della Piccola Biblioteca Adelphi, a cura di G.
Colli e M. Montinari, Milano 1974-1993.
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benché gli stessi storici non vogliano capirlo (cfr. Umano troppo umano, I, § 2), così come
non vogliono capire che la stessa religione ‘diviene’: che lo spazio psichico verticale
dischiuso dal cristianesimo permane perché si modifica nel tempo. Non a caso, nel celebre §
113 di Umano troppo umano Nietzsche muove dal cristianesimo come antichità – dalla sua
stessa meraviglia di fronte al fatto che viene ancora ricordato un uomo crocefisso quasi
diciannove secoli prima – per scavare nel sottosuolo psicologico della fede.
*
Per smontare il mondo celeste bisogna dunque scendere in quello sotterraneo. Per scoprire la
psicologia terrena, ‘sporca’, dello stare o essere gettato ‘sotto’ (alla lettera: subiectum),
dell’essere calpestato, del cadere in basso e nel basso, con il metodo storico-comparativo del
filologo classico Nietzsche va alla ricerca di ciò che nel cristianesimo non è greco, ma
barbarico o asiatico (cfr. Umano troppo umano, I, § 114).
Se i Greci non avevano il senso del peccato, se il pentimento era per loro un sentire da
schiavi, alla crudeltà di Dio e all’insondabilità dei suoi disegni corrispondono l’abiezione e
l’umiliazione degli uomini, che rendono necessarie l’espiazione vicaria di Cristo e lo scandalo
della Croce. Così, interrogandosi sull’origine del peccato (cfr. Gaia scienza, III, 135),
Nietzsche fa emergere quella che abbiamo definito verticalizzazione della psichicità
occidentale: il peccato è una caduta, un cadere in basso che costringe l’uomo a strisciare sulla
terra (come il serpente del racconto biblico) e a nascondersi nel sottosuolo. Rovesciando
completamente la teologia del giovane Hegel, per il quale il cristianesimo rappresentava una
rivoluzione morale e razionale rispetto all’ebraismo, Nietzsche mostra il sentimento del
peccato come un’invenzione ebraica e il cristianesimo come un’irrazionale “ebraizzazione”
del mondo. Nonostante la sua onnipotenza, Dio decide infatti misteriosamente di punire
l’uomo, cioè di vendicarsi attraverso il sacrificio del Figlio; in termini filosofici non
metafisici, questo evento privo di logica (cui si riferirà il credo quia absurdum di Tertulliano)
rappresenta un errore dell’intelletto, una défaillance della ragione.
Siamo così gettati in basso, verso la debolezza psichica degli uomini, che ‘sta sotto’ il loro
egoismo. Nella Gaia scienza (cfr. V, 347), Nietzsche s’interroga sul bisogno di fede – sul
bisogno di credere in qualcosa che ‘sta sopra’; ebbene, la sua è una risposta dura ma onesta: i
molti, in quanto deboli, hanno bisogno di credere perché hanno bisogno di appoggiarsi a
qualcosa di saldo – di superiore a loro. In altri termini, col cristianesimo si è prodotta una
verticalizzazione del mondo morale che equivale a un indebolimento delle menti – a una
forma artificiale di demenza. La fede diventa necessaria quando manca la forza della volontà
(o la volontà come forza: Wille zur Macht), cioè la ‘grande salute’ come effetto, non certo
come causa, di libertà e autodominio; attraverso il riconoscimento della rarità, non certo della
naturalezza, di tale condizione psichica, la religione va quindi pensata come una malattia
storica della volontà, il cui principale sintomo è l’obbedienza: “Quando un uomo giunge alla
convinzione fondamentale che a lui devono essere impartiti ordini, diventa ‘credente’”
(ibidem) – diventa cioè uno che sta sotto. E che perciò ha bisogno di stare in compagnia.
Come ammette anche il Grande Inquisitore nel famoso monologo de I fratelli Karamazov –
cui fa eco il quasi coevo § 472 di Umano, troppo umano dedicato a religione e governo –, il
cristianesimo fornisce (in termini foucaultiani) una risposta pastorale-governamentale alla
mediocrità e alla debolezza dei molti – le quali a loro volta ne costituiscono il collante
sotterraneo: la morale cristiana rafforza l’istinto del gregge del singolo.
Come sappiamo, è nella Genealogia della morale che Nietzsche offre la chiave psicologica di
quest’assunto paradossale: la religione cristiana vi viene presentata come geniale
interpretazione sacerdotale della debolezza e della mediocrità, che consente di rovesciarle in
forza – per cui lo stare sotto diventa, in termini morali, uno stare sopra. Del resto, già nella
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Gaia scienza (cfr. V, 353) egli aveva individuato con assoluta precisione la leva archimedea
di questa verticalizzazione: bisogna interpretare la vita, anche a costo di sacrificarla; è quanto
ha fatto Paolo di Tarso, il primo vero ‘inventore’ della teologia verticale: se l’interpretazione
della vita è all’origine di una religione, il cristianesimo paolino ha interpretato il
rovesciamento rivoluzionario di Gesù (cfr. il Discorso della montagna: “Beati gli ultimi,
perché saranno i primi”) e trasformato la misera esistenza delle masse ai margini dell’impero
romano in ‘valore’ – cioè in oggetto di redenzione, meritevole del sacrificio di Cristo. Anche
in Al di là del bene e del male (cfr. VIII, 262) viene schizzata la genealogia psico-religiosa
dell’Occidente: in condizioni avverse, di pericolo esterno, emerge la durezza dei forti, cioè la
morale dei signori; come morale degli schiavi, cioè come interpretazione della mediocrità che
gioca sulla comparazione risentita tra deboli e forti rovesciandola fino al delirio, il
cristianesimo porta invece il pericolo dentro l’individuo – in termini foucaultiani, attraverso
l’ermeneutica del sé lo trasforma in una ‘bestia da confessione’ (cfr. infra, § 2) .
Il cristianesimo rappresenta insomma il risultato dell’interpretazione paolina, verticale e al
tempo stesso reattiva, di Gesù di Nazareth – il ‘santo idiota’ dell’Anticristo, lo spirito
‘degenerato’ potenzialmente in grado di nobilitare la legge farisaica, il folle mistico che (per
parafrasare il Bergson de Le due fonti della morale e della religione) avrebbe potuto, ma in
fondo non è riuscito a rivoluzionare il sistema morale ebraico. Ecco perché nella Genealogia
della morale (cfr. I, 8), Nietzsche insiste sull’amore ‘nuovo’ di Gesù che incarna
l’evaporazione della vendetta (porgi l’altra guancia) ed è germogliato sul tronco dell’odio
giudaico – che rappresenta invece la sete di vendetta di un popolo plebeo e schiavo contro i
nobili dominatori romani: per compensare la propria impotenza, il revanscismo sacerdotale si
scaglia implacabilmente su Gesù come vittima sostitutiva; mettendo Dio in croce, Israele ha
scaricato il suo odio sul povero pazzo che minacciava di dissolverlo, se non addirittura di
ridicolizzarlo con la forza dell’innocenza (che in termini foucaultiani coincide con il coraggio
della verità, cioè con la parresía: cfr. infra, § 2).
Per mascherare la vendetta e trasformarla in trionfo, si rende dunque necessaria l’invenzione
teologica dell’agnello sacrificale, cui si affiancherà il capovolgimento valoriale che
caratterizza la verticalizzazione cristiana della psichicità: se la debolezza diventa merito –
diventa bontà (cfr. Genealogia della morale, I, 2, 5, 14) –, i cristiani divengono bestie del
sottosuolo – luogo in cui si sente puzza di malattia e di morte, si diffonde il fetore della
morale degli schiavi e la casta sacerdotale fabbrica ideali reattivi; se infatti l’aldilà (in termini
metafisici, il mondo superiore) non è che un conforto immaginario contro la miseria terrena
(cioè contro l’inferiorità), sotto la fede in Cristo cova il risentimento (cfr. Genealogia della
morale, II, 11).
Com’è noto, il risentimento viene posto da Nietzsche all’origine del desiderio di giustizia
sociale, concepito come desiderio di vendetta dei deboli sui forti; anche la vittoria del Dio
giusto sugli empi viene riconosciuta come ulteriore travestimento di tale vendetta, mentre in
Umano, troppo umano, I, § 92, l’impersonalità e l’obiettività della legge erano già state
ridotte all’esigenza di compensazione tra forze all’incirca pari (per cui il danno mio
dev’essere anche tuo). Da tale punto di vista, che potremmo definire comparativo oltre che
genealogico, se l’uomo del risentimento è l’inventore della cattiva coscienza – del senso di
colpa che trasforma la forza in debolezza, e la costringe in basso, facendola ammalare –,
questa situazione patologica permane ancora nella modernità – perché secondo Nietzsche
l’uomo moderno è un uomo malato. Dando prova di uno spietato, nonché illuministico
razionalismo antropologico, egli smaschera così la verticalizzazione morale operata dal
cristianesimo, che coincide con una sorta di capovolgimento reattivo della misura ‘greca’ del
mondo, e ne trae le estreme conseguenze: “con la comprensione dell’errore della ragione, in
cui consiste il bisogno cristiano di redenzione, si cessa di essere cristiani” (cfr. Umano
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troppo umano, I, § 134 e 135). Perciò in noi “immoralisti, noi atei di oggi… giunge al suo
compimento… l’autosoppressione della morale” (Aurora, Prefazione, 4).
Ma davvero il moderno spirito libero è riuscito a prendere congedo da ogni fede, e a
sperimentare la forza dell’autodeterminazione?
*
Invece di seguire Nietzsche sul difficile terreno che avrebbe dovuto ospitare, al di là del
nichilismo, le orme del superuomo e il trionfo amorale della sua volontà di potenza,
affonderemo ora nella peculiare spazialità del cristianesimo – posto che la verticalità della
psiche cristiana non ‘apre’ soltanto il mondo celeste, ma anche e soprattutto il sottosuolo
come luogo del divino. Per parafrasare Nancy2, si tratta di capire come il cristianesimo, in
quanto religione del sottosuolo, abbia contribuito a “generare l’Occidente” in senso psichico-
spaziale, e quindi di chiedersi cosa c’è sotto il cristianesimo.
È una domanda che si pone lo stesso Nancy, ma a partire dalla distruzione heideggeriana della
metafisica. Per scoprire cosa c’è sotto il cristianesimo ontoteologico aggredito da Nietzsche
con la sua stessa violenza, bisogna in tale prospettiva decostruire l’Essere come sostanza (sub-
stantia, ciò che sta sotto), che è anche Dio come fondamento degli enti, e dissotterrare una
dimensione originaria che starebbe al di sotto del fondamento, o meglio in un luogo in cui
Dio, ormai depotenziato, non occupa più il posto del fondamento – alla lettera, non funge più
da ipostasi. Secondo il filosofo francese, in una simile situazione non c’è più alcuna necessità
di scagliarsi contro Dio alla maniera nietzscheana o in nome della ragione – come ha fatto
l’illuminismo credendo ingenuamente che l’Occidente moderno si fosse affermato contro il
cristianesimo oscurantista. Nella lettura heideggeriana che ne dà Nancy, l’atteggiamento
nietzscheano resta insomma complementare al teismo metafisico – ne è semplicemente l’altra
faccia, dacché Nietzsche compie la metafisica nella volontà di potenza della tecnica proprio
mentre cerca di distruggerla come religione, affermando la morte di Dio. In quanto negazione
distruttiva dell’Essere, l’ateismo superomistico di Nietzsche (come quello di Freud o di Marx,
che riduce la religione a oppiaceo per il popolo) sarebbe cioè funzionale al teismo ontologico
come pienezza totalitaria della sostanza, come tutto-pieno: il Dio cristiano viene distrutto in
quanto Medesimo immutabile, fondamento inconcusso dentro cui non è possibile alcuna
‘dischiusura’ al di là, o al di sotto della stessa secca alternativa tra tutto e nulla, tra Dio e
l’ateismo.
In altri termini, invece di cassare semplicemente il cristianesimo come errore della ragione,
Nancy lo decostruisce, lo apre, quasi lo disintegra riducendolo a un ‘pulviscolo’ relazionale.
Al di sotto del cristianesimo sacramentale (eucaristico), ma anche al di sotto dei blocchi
teismo/ateismo e dell’intero plesso storico-dottrinale della teologia e dell’anti-teologia, vi
sarebbe cioè un’apertura, una fessura attraverso cui soffia qualcosa di molto profondo e
nascosto (cachet) che non si può afferrare, e che tuttavia ‘lega’ tra loro gli “esseri-singolari-
plurali” – un gesto a cui il filosofo dà il nome di adorazione3. Senza volere né poter entrare
2 Cfr. J.-L. Nancy, La dischiusura. Decostruzione del cristianesimo I, Cronopio, Napoli 2007.
3 Cfr. J.-L. Nancy, L’adorazione. Decostruzione del cristianesimo II, Cronopio, Napoli 2012. Questo legame
evocato da Nancy possiede a giudizio di chi scrive anche un altro senso pulviscolare, quello del rapporto tra i
vivi e i morti – i quali sono letteralmente ridotti a polvere: la loro è una non-comunità, sia perché la vita non li
lega, nella misura in cui la morte li divide, sia perché tra di essi non vi è alcuna comunicazione. Si tratta di un
paradosso che ritroviamo in uno dei tre grandi misteri del cristianesimo sfiorati da Nancy, quello della
resurrezione. La resurrezione di Cristo, e prim’ancora quella di Lazzaro (del quale però il Vangelo dimentica di
raccontarci la seconda, terribile morte), rappresenta infatti l’evento grazie a cui nell’apertura del sottosuolo –
nella dischiusura della pietra sepolcrale – si realizza eccezionalmente la comunicazione tra i vivi e i morti,
facendo trionfare il loro ‘legame’. In tale prospettiva, il legame è anche quello che s’instaura tra coloro che
credono perché vedono e condividono il cenno (in termini heideggerani: Wink), il segnale divino – ad esempio le
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qui nelle profondità di questo concetto, che Nancy considera una risorsa sommersa sotto il
cristianesimo, si può semplicemente evidenziare come, nel suo pensiero, l’adorazione
rappresenti un ulteriore tentativo (rispetto, ad esempio, a quello di Lévinas) di ridurre la
religione – e con essa la promessa di salvezza – al ‘saluto’, al con-essere affettivo, al
‘rapporto’ o legame spirituale tra gli uomini4; tutti concetti orizzontali che sembrano quasi
voler esorcizzare la spazialità verticale del cristianesimo da cui siamo partiti.
Interpretando invece questo spazio come luogo in cui il cristianesimo esercita il suo “basso
potere terreno” (Dostoevskij, L’idiota), che fa sprofondare l’adorazione in dipendenza e
l’umiltà in umiliazione5, possiamo tornare a un pensiero del sottosuolo come metodo e,
insieme, come luogo psichico pulviscolare. Se infatti il sottosuolo è un luogo dove il senso
non ‘passa’ (come vorrebbe Nancy6) ma, alla lettera, sprofonda, al di sotto del fondamento
cristiano si verifica uno sprofondamento che riduce l’Uomo in polvere. Come suggerisce la
celebre immagine con cui si conclude Le parole e le cose, l’Uomo moderno nasce morto, o
meglio nasce solo per dissolversi come un volto disegnato sulla sabbia7. Se ciò allude al fatto
che la modernità non è che una metamorfosi del cristianesimo, il quale ha svolto per essa la
funzione di fondamento, di sottosuolo psichico, per comprendere il senso profondo
dell’immagine foucaultiana bisognerebbe inoltrarsi in questo sottosuolo, seguendo il
movimento genealogico compiuto da Foucault a partire da Nietzsche, più che da Heidegger.8
Il problema da cui muove, e a cui approda l’indagine foucaultiana sul cristianesimo non è
infatti Dio come sostanza (non è il problema dell’ontoteologia), bensì come spirito che entra
‘dentro’ il soggetto: un Altro inafferrabile (pulviscolare, appunto) con cui la relazione non è e
non può mai essere ‘umana’ (dunque non può nascondere il ‘tra’ del legame etico, sulla cui
adorabile apertura grava peraltro il sospetto nietzscheano), perché non è orizzontale ma
verticale. Oltre a dischiudere la radice primitiva, quasi animistica del cristianesimo, e a
insistere su ciò che differenzia gli uomini proprio mentre li lega, questo tipo di approccio
porta a dubitare del fatto che – come sembra sostenere Nancy – siamo ormai usciti dal
religioso. Piuttosto, siamo forse in un luogo che è ‘fuori’ ma anche ‘sotto’ il cristianesimo.
Siamo nella polvere.
2. “…uno dei problemi fondamentali del cristianesimo,
della teologia cristiana, della pastorale cristiana, è
[…quello] dei rapporti tra la salvezza e la perfezione.
La salvezza implica la perfezione? […] Come riuscire
a edificare una religione della salvezza che non
implichi la perfezione di coloro che sono salvati? Il
cristianesimo è una religione della salvezza nella non-
perfezione. […] Credo che il grande sforzo e la grande
donne che si recano alla tomba di Gesù: il segnale segnala loro letteralmente un luogo, il sepolcro, che si rivela
essere soltanto un passaggio; e colui che segnala è Gesù stesso, benché irriconoscibile – segnala che il suo corpo
non è più là (cfr. Matteo, 28,1-10; Marco 16,1-8; Giovanni, 20,11-19). Le donne rispondono allora con
l’adorazione, cioè con la relazione ‘impossibile’ verso il Cristo risorto – la stessa cui tende Tommaso quando
chiede di toccarne il costato (dacché l’adorare, ricorda Nancy, è la forma attraverso cui i credenti si relazionano
col loro Dio). 4 Cfr. J.-L. Nancy, L’adorazione, cit., pp. 81, 88, 110-114.
5 Cfr. J.-L. Nancy, L’adorazione, cit., p. 16; 26.
6 Cfr. J.-L. Nancy, L’adorazione, cit., p. 61; pp. 122-124.
7 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano 1996, p. 414.
8 E tuttavia l’elogio di Nietzsche risente ancora, in questo Foucault, della terminologia heideggeriana così cara a
Nancy: la scomparsa dell’Uomo che segue la morte di Dio “non è né più né meno che l’apertura di uno spazio in
cui finalmente è di nuovo possibile pensare”, ivi, p. 368, corsivo mio.
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singolarità storica del cristianesimo, che spiega
senz’altro numerosi tratti del suo sviluppo e della sua
permanenza, è di essere riuscito a dissociare salvezza
e perfezione.”
Michel Foucault, Del governo dei viventi
Oltre ad averne mutuato il metodo genealogico, si può dire che negli interventi e nei corsi
tenuti al Collége de France dalla fine degli anni settanta fino alla morte, Foucault ripeta a
livelli sempre più stratificati e complessi il movimento comparativo di Nietzsche, che consiste
nel chiedersi che cosa non è greco nel cristianesimo.
Il punto di partenza potrebbe essere indicato ancora una volta nella Gaia scienza, V, 353
(Dell’origine delle religioni), dove Nietzsche afferma che all’origine di una religione c’è
l’interpretazione della vita. Ebbene, nel cristianesimo si tratta di interpretare la vita anche a
costo di sacrificarla, producendo così un’oscillazione tra la forza dell’ideale ascetico e la
debolezza del gregge, al quale viene accuratamente nascosto che l’interpretazione non ha
alcun referente ‘divino’. Ma invece di scagliarsi con rabbia, come ha fatto Nietzsche, contro il
carattere ‘reattivo’ di quest’interpretazione che alimenta il risentimento, col distacco e la
spietatezza dell’archeologo (colui che scava nella polvere) Foucault si concentra piuttosto sul
processo che, nell’Occidente cristiano, ha condotto dalla forza ascetica del monachesimo dei
primi secoli (originariamente orientale) all’ermeneutica del sé – da intendere qui come
‘dischiusura’ ma anche come ripiegamento infinito del sottosuolo psichico del soggetto.
Da un lato infatti Foucault sembra aver letto benissimo gli aforismi dedicati da Nietzsche alla
vita religiosa, nei quali la sfida ‘soggettiva’ dell’ascesi viene presentata come una sorta di
volontà di potenza del monaco-santo che “flagella la sua divinizzazione di sé col disprezzo di
sé e la crudeltà” (Umano troppo umano I, § 142). Dall’altro, egli sembra ricostruire
genealogicamente il modo in cui questa volontà – come forma di superiorità, o meglio come
qualità morale – sia stata umiliata dal trionfo del potere pastorale cristiano, che, attraverso
l’obbligo di verità su se stessi, ha elaborato il principio dell’obbedienza come forma di
inferiorità. Se insomma nella storia del cristianesimo la forma psichica ‘pulviscolare’ ha
prevalso sull’ascesi come superiorità, grazie a Foucault si può comprendere qual è la sottile
differenza che separa, nella civiltà occidentale, le tecniche del sé greco-romane ed ellenistiche
da quelle cristiane (che pure sono a suo giudizio di derivazione ellenistica), ovvero come
l’assoggettamento del sé cristiano si sovrapponga impercettibilmente ma inesorabilmente al
suo rafforzamento ascetico; ma soprattutto si può mostrare che la radice infra-ontologica del
principio di obbedienza, che ancor oggi sembra caratterizzare la soggettività occidentale, è
costituita dall’imperfezione – la quale a sua volta si radica nel nulla, nel non-essere della
polvere.
*
Secondo Foucault9, nell’antichità la colpa esiste, ma all’interno di un assetto giuridico che la
rende tragica responsabilità (come dimostra la storia di Edipo, a cui Foucault dedica le prime
lezioni del corso), ovvero la rappresenta come l’altra faccia della forza e dell’autonomia del
soggetto greco. Nel cristianesimo, invece, dalla legge (la quale afferma: questo è bene, questo
è male, dunque è riferita all’azione) si passa alla qualità dell’agente, ovvero a chi agisce, e al
perché – si realizza cioè una psicologizzazione della colpa che passa sia attraverso il sapere
del soggetto su se stesso, sia attraverso le pratiche di veridizione.
9 Cfr. M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France 1979-80, a cura di M. Senellart,
Feltrinelli, Milano 2014, d’ora in poi citato in corpo testo con la sigla GV seguita dal numero di pagina.
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8 Data di pubblicazione: 18.12.2014
In tal senso il cristianesimo è tutt’altro che barbarico: è una raffinatissima ‘piega’ (direbbe
Deleuze) dell’antichità greco-romana, che s’innesta sulla complessa costruzione gnostica e
neoplatonica del divino, per criticarne e riformularne radicalmente la forza soterica. Rispetto
all’equivalenza posta dalla gnosi tra salvezza e perfezione, la religione cristiana propone
infatti una salvezza nella non-perfezione (cfr. GV 261), che equivale a una sorta di
infinitizzazione psichica della colpa e della stessa imperfezione: a partire dal problema dei
lapsi, ma anche dalle forme dell’exagoreusis e dell’exomologesis prelevate dalle filosofie
ellenistiche, si configura la possibilità di una continua ricaduta nella non-verità del peccato,
cui si oppone la possibilità di reiterare ad infinitum la confessione come manifestazione della
propria verità di peccatore e di rinascita attraverso la mortificazione di sé (penitenza). A
differenza di quello tardo-antico, il sé cristiano non è dunque né forte né stabile: esso esiste,
potremmo dire, solo in un continuo auto-annullamento auto-aleturgico inferiorizzante – in cui
consiste la appunto la sua non-perfezione. Per usare l’efficace formula di Chevallier, il sé
cristiano diviene oggetto di sapere solo per rinunciare meglio a se stesso10
, ma soltanto così si
salva, nell’infinita messinscena confessionale della sua imperfezione, che coincide con una
doppia, paradossale inferiorizzazione: il soggetto si ‘chiude’ nell’identità (culpa) proprio
mentre si ‘dischiude’ nella discontinuità (conversio).
Questo paradosso si riflette in quello dell’umiltà veridica cristiana, esaltata dal potere
pastorale come qualità morale contro il peccato di vanagloria (che potremmo anche definire
peccato della volontà trionfante); esso consiste nella volontà di sacrificare la volontà – come
suggerisce Foucault, nel ‘voler non volere’, che è anche un ‘non voler volere’ – e dunque
nell’usare la volontà di verità contro se stessi per obbedire all’ingiunzione dell’Altro – ma
rischiando così di incontrare, al fondo di se stessi, non l’Altro-Dio, bensì l’altro-Satana.
Nell’inferiorità destinale della lotta in cui sprofonda il sé cristiano, il diavolo è infatti la falsa
verità, per difendersi dalla quale esistono solo tre armi: vergogna, luce ed esorcismo (nel
senso di verbalizzazione). Bisogna cioè vergognarsi di se stessi, illuminare senza pietà i
recessi del proprio animo e soprattutto parlare per esorcizzare la possibilità dell’inganno
satanico – bisogna confessarsi continuamente a un altro cristiano, il direttore di coscienza,
anch’egli peraltro a rischio di caduta nel peccato.
Nei termini fin qui usati, il cristiano è polvere – è nulla; dunque l’imperativo del cristianesimo
come voce dell’Altro/altro potrebbe (ri)suonare così: diventa ciò che (non) sei – dal momento
che non sei nulla, che sei un peccatore, che lo sarai sempre, che hai bisogno di una guida
perché sei debole e la tua forza sta solo nel confessare la tua debolezza – nel verbalizzare
ognuno dei tuoi pensieri: poiché puoi sempre ingannarti, bisogna che tu parli, bisogna che ti
confessi. Se la voce che pronuncia tale discorso, a sua volta, viene dal nulla, è chiaro che
questa ‘rappresentazione’ psichica di se stessi, della propria inferiorità davanti all’altro per
mezzo della veridizione su di sé, costituisce l’esatto contrario della parresía greca intesa
come coraggio della verità e dunque come forza del soggetto11
: teatralizza un discorso doppio
come ingiunzione alla, e al tempo stesso riconoscimento della propria debolezza.
Nel cristianesimo dei primi secoli si forma allora, secondo Foucault, un legame tra l’obbligo
di verbalizzazione della verità e l’istanza di obbedienza assoluta all’altro – ma si assiste anche
a una temporalizzazione di quest’obbligo, che diventa coestensivo alla vita stessa. La lotta
contro il male interiore che abita l’uomo, contro la corruzione della natura umana, è infatti
una lotta che dura tutta la vita e caratterizza il rapporto del soggetto con se stesso – la sua
psichicità come interiorità. Il cristianesimo elabora cioè l’“idea di uno spazio interiore”, uno
10
Cfr. P. Chevallier, Michel Foucault e il “sé” cristiano, in Aut aut 362. Dire il vero su se stessi. Cantiere
foucaultiano, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 116; di Chevallier cfr. anche Michel Foucault et le christianisme,
ENS éditions, Lyon 2011. 11
Cfr. M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri. Il Corso al Collège de France (1984),
a cura di M. Galzigna e F. Gros, Feltrinelli, Milano 2011.
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spazio-tempo verticale “abitato” fino alla morte “da una presenza estranea e maligna”12
. In
quanto verticalmente linguistico, lo psichismo cristiano è insomma essenzialmente
ermeneutico: è la verbalizzazione dei pensieri e delle intenzioni a ‘dischiudere’ l’ermeneutica
del sé, che si basa su un doppio presupposto13
: da un lato si postula una verità del sé
sotterranea e nascosta, che si può portare alla luce solo attraverso l’annichilimento della
volontà del diretto implicata nella confessione delle colpe; dall’altro lato, però, l’efficacia
della verbalizzazione funziona solo fino a un certo punto: la confessione non libera, non
guarisce, non salva se non temporaneamente, perché “con la confessione verbale delle colpe,
si inizia a scavare uno spazio nuovo, quello di un’interiorità animata da forze sconosciute e
invisibili”.14
In quanto spazio-tempo verticale dotato di un’ingannevole profondità, un tale non-luogo
psichico costituisce un’invenzione tipicamente cristiana che potremmo definire psicotizzante
in senso non solo paranoico, ma anche schizofrenico e malinconico, poiché obbliga il
soggetto a vivere e parlare al cospetto dell’Altro-altro, col problema dell’Altro-altro dentro di
sé (Dio-Satana), e con la consapevolezza di essere nulla. Oltre a poter innescare vissuti di
scissione e smembramento, questa situazione sembra rinviare, seppur con alcune significative
modifiche, ai tre postulati che, in termini lacaniani, caratterizzano le psicosi15
: il postulato di
innocenza, che è tipico della paranoia, viene rovesciato in colpevolezza e si associa al
postulato di indegnità, che è tipico della malinconia, mentre il postulato di inesistenza tipico
della schizofrenia, invece di coincidere con il corps morcelé (corpo a pezzi) o con
l’esperienza della possessione, decade letteralmente in quello della propria nullità. Si potrebbe
quindi affermare che questi tre postulati coagulano in uno solo, quello di inferiorità. E che la
forma paranoica dell’inferiorità cristiana consista nel timore di essere ingannati, il quale si
associa all’incertezza schizofrenica – poiché nell’esperienza schizofrenica niente è vissuto
come stabile e sicuro.
Il postulato di inferiorità si manifesta in due forme o atteggiamenti tipicamente cristiani:
l’umiltà e il sospetto nei confronti del pensiero – sia verso i propri pensieri che soprattutto
verso la libertà del pensiero. Il cristiano ha innanzitutto la verità come segreto dentro di sé, al
fondo di se stesso (cfr. GV 314: la verità è ciò che sta sotto, subiectum) e quindi ne è schiavo.
È aggiogato a questa verità che non sarà mai sua, non solo perché è il male, ma perché è la
sua stessa inferiorità, ed è costretto a dirla continuamente – a confessarsi per dis-identificarsi a
sé, nella misura in cui dice la verità su di sé. Il sospetto del cristiano contro se stesso
(postulato di colpevolezza) si traduce quindi in timore, umiltà e diffidenza verso le
cogitationes: il pensiero, in quanto esperienza di forza psichica, potrebbe essere un simulacro
ingannevole proveniente da Satana – potrebbe essere il male. La liberazione dal male coincide
allora con la servitù e per la maggioranza dei fedeli con la volgarità dell’ignoranza contenta di
sé – ciò che Nietzsche ha chiamato ‘morale degli schiavi’. Con una completa trasformazione
della saggezza antica (che potremmo definire ‘morale dei signori del pensiero’), il rifiuto della
forza delle cogitationes equivale alla condanna della libido sciendi e della sapienza come
forma di superiorità: nel cristianesimo pastorale è vietato pensare, ma anche vietato essere
migliore di un altro. Il principio dell’umiltà mira infatti a negare l’esperienza della differenza:
siamo tutti inferiori, deboli e peccatori.
12
L. Cremonesi, Veridizione antica e veridizione cristiana in Michel Foucault, in Foucault e le genealogie del
dir-vero, a cura di materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2014, p. 102. 13
Cfr. ivi, p. 104. 14
Ibidem. 15
Cfr. J. Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Einaudi, Torino 1980, e Id., Il
seminario. Libro III. Le psicosi. 1955-1956, Einaudi, Torino 2010; cfr. anche la limpida lettura che ne dà
Massimo Recalcati su http://www.psychiatryonline.it/node/3420-21.
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Al tempo stesso, però, siamo tutti bambini – perché siamo tutti ‘figli di Dio’ (secondo
l’espressione di Clemente d’Alessandria). La dissociazione di salvezza e perfezione segnalata
da Foucault non porta soltanto alla morale degli schiavi, ma anche e soprattutto alla
infantilizzazione della non-perfezione: l’inferiorità del cristiano lo condanna ad essere per
tutta la vita un uomo-bambino – senza peraltro possedere l’ingenuità e la purezza che saranno
attribuite ai minori dalla moderna mitologia dell’infanzia. Se insomma la santità è l’ideale
regolativo del monaco, del suo perfezionamento infinito e infinitamente fallimentare, alla
maggior parte dei cristiani è proibito diventare adulti – e poiché in effetti non ci riescono mai,
tendono a compiacersi del loro stato infantile con la complice accondiscendenza del pastorato.
Infine, nel suo assetto paranoico, la psiche cristiana converte in timore il postulato di
colpevolezza. Esso si trasforma così in (puerile) rifiuto dei piaceri sessuali, che nel loro
somigliare a delle convulsioni (Galeno) ma anche a delle piccole possessioni, suscitano il
terrore della metamorfosi amplificato dalla presenza dell’altro satanico. Dunque il sesso non
va controllato, ma evitato come peccato e pervertimento della natura, che diviene altra,
sporca. Nella struttura psicotico-paranoica del sé cristiano, l’altro malvagio (il demonio
tentatore) si può sempre nascondere nelle tenebre, cioè nel sottosuolo psichico – come nella
carne. Da qui la necessità di portare alla luce i pensieri, di dissotterrarli ma anche di aggredirli
come si fa con la carne: il nemico sono io, sembra dire il cristiano, il nemico è l’altro dentro
di me; da qui anche l’obbligo di veridizione continua al cospetto dell’altro fuori di me, il
sacerdote come figura dell’Altro buono cui aggrapparsi per stanare quello malvagio.
Nello spazio dell’interiorità/inferiorità, si assiste insomma ad una specie di temporalizzazione
bellica del perfezionamento (l’ascesi del monaco), che la trasforma in un processo mai
definitivo, mai sicuro e concluso (neppure con la morte), perché l’incertezza psicotica
neutralizza la potenza della grazia: la remissione dei peccati, il perdono, non è in grado di
liberare il fedele-bambino dal timore, al quale anzi egli deve rimanere sottoposto per tutta la
vita, in un rapporto a se stesso perennemente inquieto – come confessa Agostino, “inquietum
est cor nostrum”.
Secondo Foucault, “il timore riguardo a se stessi, il timore di ciò che si è”, sarà di importanza
decisiva per la soggettività occidentale, per il rapporto di sé con sé, per “l’esercizio di sé con
sé e la verità che l’individuo può scoprire in fondo a se stesso” (GV 134-135). E l’inquieta
ricerca della verità su se stessi si accompagnerà alla rinuncia, dettata dal timore dell’aspirante
alla purezza nei confronti delle proprie pulsioni sessuali – che come una sorta di possessione a
bassa intensità rappresentano il segno della presenza di Satana nella sua anima. Ha dunque
ragione Senellart nel sostenere che i corsi foucaultiani sulla confessione e la veridizione
risultano profondamente legati ai volumi sulla storia della sessualità; evidenziando
implicitamente la verticalizzazione psichica da cui siamo partiti, egli nota16
che per il cristiano
temere di peccare ancora significa sentirsi sempre minacciati di cadere, così come perseverare
nel timore significa abbandonare ogni idea di perfezione, o semplicemente, aggiungerei, di
padronanza di sé, sapendosi indefinitamente fallibili (cfr. GV 133) – sentendosi eternamente
bambini.
La verità su di sé diviene quindi il prodotto della mortificazione di sé – alla lettera, il risultato
di un rapporto con la propria morte, di una reiterata esperienza psichica del morire che si
affianca alla lotta e al combattimento con l’altro satanico (cfr. GV 166). Perciò l’obbligo di
manifestare agli altri la verità su di sé equivale all’obbligo di manifestarla come nullità, come
polvere: sebbene o proprio perché infantile, l’anima pulviscolare del cristiano non diviene mai
trasparente a se stessa, pura e dunque forte, ma ricomincia sempre daccapo nella non-
perfezione, nella tentazione e dunque nella debolezza. More etico-teologico si potrebbe
affermare che, se il monachesimo nasce come versione cristiana della vita filosofica mirante
16
Cfr. M. Senellart, Il corso Del governo dei viventi nella prospettiva della storia della sessualità, in Foucault e
le genealogie del dir-vero, cit., p. 90.
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alla perfezione e alla forza, con l’affermarsi del potere pastorale questa si trasforma in
debolezza. L’unico oggetto della vita filosofica del cristiano è infatti Dio come persona
superiore, ma quest’oggetto sfugge (Deus absconditus) perché bisogna continuamente
sfuggire al diavolo come persona inferiore.
Nella nuova teologia verticale, elaborata dal cristianesimo sulla scorta di quella ebraica e in
virtù di una sostanziale modifica di quella gnostico-neoplatonica (che postulava l’equivalenza
tra salvezza, perfezione e conoscenza), Dio è l’Essere come trascendenza e lontananza
rispetto al mondo, non più l’Essere come ordine del mondo – mentre la mediazione cristica,
nella sua fugace apparizione storica, sposta sempre più in là la salvezza, nell’attesa infinita
della seconda parousìa. Ciò significa forse che al di sotto dell’interpretazione moderna,
soprattutto hegeliana (ma anche mistica), del messaggio evangelico come irruzione
dell’infinito nel finito qui ed ora (che in fondo elude la promessa materialistica della
resurrezione dei corpi), vi è un altro messaggio, che potrebbe suonare più o meno così: ti
salvo, ma solo perché sei imperfetto, e non per condurti alla perfezione, almeno non in questa
vita. In altre parole, il cristianesimo pastorale ha promesso agli imperfetti (ai deboli, agli
schiavi, ai bambini) che potevano essere salvati, ma per ciò stesso li ha segnati con
un’imperfezione permanente e, secondo Foucault, ha finito col separare la conoscenza di Dio
dalla conoscenza di sé (cfr. GV 311). Mentre infatti ancora in Agostino il “rede in te ipsum”
rinvia alla convinzione che la Verità divina abiti nel soggetto – il quale dunque grazie alla
conversione può raggiungere la perfezione in Dio –, già in Tertulliano e poi in Cassiano ed
altri padri della Chiesa si ripete ossessivamente che nel cuore dell’uomo si nasconde il
diavolo: che in fondo a me stesso non troverò Dio, ma Satana, il male (cfr. GV 312).
A causa della sua colpevole debolezza, della sua indegnità, della sua nullità, si direbbe che
l’interiorità del cristiano nasca solo per essere distrutta: che la cristiana rinuncia a sé
costituisca una soggettivazione per distruzione (per usare le parole di Bruno Karsenti). Nel
cristianesimo siamo chiamati a scoprire la verità di noi stessi in funzione del sacrificio di noi
stessi17
, dato che tale verità è in realtà il male, è l’Altro in noi, è Satana che si è insediato nella
nostra natura in seguito al peccato originale. A differenza di quanto accadeva nell’esame di
coscienza ellenistico, l’esame di coscienza cristiano diviene allora un esame continuo della
propria inferiorità al cospetto dell’altro minuscolo – il direttore di coscienza anch’egli
inferiore (perché tutti possono ri-cadere: nessuno è al sicuro, non esiste certezza di essere
salvi), in presenza del quale s’impone la censura morale dei pensieri, ovvero la necessità di
separare il bene dal male, il grano dal loglio, la moneta buona dalla cattiva, ecc. In particolare,
le lezioni foucaultiane del 19 e del 26 marzo 1980 (cfr. GV 255-320), attraverso l’analisi dei
concetti di subditio, patientia e humilitas, mostrano come la rinuncia a sé e l’obbedienza
perinde ac cadaver rappresentino l’esatto contrario della direzione antica volta all’autonomia
del diretto – la cui sofferenza diviene perciò manifestazione di una colpa intenzionale,
psicologica, non più riferita all’atto. Ben lungi ormai dall’incarnare la forza del maestro
davanti all’allievo, l’altro (debole anche lui) si limita per lo più ad ascoltare, ad essere cioè il
destinatario passivo della verbalizzazione come prova continua della propria capacità di
sottomissione ed esplorazione anti-satanica.
Secondo Foucault, questa ermeneutica continua del sé (fittissima nello spazio oltre che nel
tempo: pulviscolare) il cui vero destinatario è Dio, costituisce il modello della soggettivazione
occidentale (cfr. GV 239), ma, potremmo dire, è anche il risultato psicotico del cristianesimo
come religione della non-perfezione, della debolezza e dell’inferiorità del soggetto nel quale
l’Altro sprofonda, e che così lo fa sprofondare.
*
17
Cfr. D. Lorenzini, Genealogia della verità e politica di noi stessi, in Foucault e le genealogie del dir-vero, cit.,
p. 160 e GV 131-32.
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Oltre ad averci lasciato, negli ultimi corsi, una sorta di riscrittura della genealogia della
morale nietzscheana, Foucault è stato una sorta di maestro del sospetto capace, da un lato, di
smascherare il sospetto paranoico del cristiano contro se stesso, dall’altro di analizzare gli
effetti e le metamorfosi di questo sospetto nel pensiero moderno.
La dissociazione compiuta dal cristianesimo tra salvezza e perfezione si ripresenta infatti
mutatis mutandis anche nella modernità, e sempre nella forma del timore, della paura. Da un
lato, ad esempio nelle Meditazioni metafisiche di Cartesio, rispunta come problema della
qualità del pensiero che teme di essere ingannato, e costringe il filosofo a ristabilire la priorità
ontologica del cogito attraverso la famosa ipotesi “controllata” del genio maligno (che
costituisce pur sempre un residuo di paranoia cristiana: cfr. GV 304-305 e naturalmente
l’appendice a Storia della follia in polemica con Derrida18
). Dall’altro lato, se il peccato
originale (da Tertulliano in poi) è stato interpretato come un pervertimento della natura
dell’uomo (che in quanto corrotta è un fondamento imperfetto: uno spro-fondamento), la
modernità si oppone solo apparentemente a questa inferiorizzazione: dopo la breve parentesi
rinascimentale – attraversata da quello che potremmo definire titanismo umanistico – già con
la Riforma l’uomo ridiventa peccatore, poiché Lutero, che pure si scaglia contro il pastorato
romano, rappresenta sotto molto aspetti una polverizzazione tardo-medievale della psiche
cristiana. Per tornare infine alla chiusa del paragrafo precedente, l’Uomo delle scienze umane
(l’allotropo empirico-trascendentale) nasce soltanto per morire – poiché, dopo esser stato
plasmato come soggetto-oggetto della conoscenza vera dai padri della Chiesa ed esser
cresciuto nei monasteri come soggetto-oggetto dell’ermeneutica del sé, continua a esistere
nell’antropologia, nella sociologia, nella psicologia e nella pedagogia come soggetto-oggetto
inferiore, pulvis.
Ebbene, in questa prospettiva sotterranea, andando cioè al di sotto del giudizio che Foucault
esprime ne Le parole e le cose19
, e muovendo piuttosto dalla prospettiva del dispositivo di
sessualità ‘dischiusa’ da La volontà di sapere20
, qual è il ruolo o meglio il luogo della
psicoanalisi? …Non basta forse sottolineare che la struttura bellica, difensiva e verticale dello
psichismo cristiano si ritrova anche nella concezione freudiana della seconda topica e in
particolare dell’Io, “dominato da problemi di sicurezza”21
; si sarebbe tentati di dire che la
psicoanalisi funziona nel pensiero occidentale novecentesco come una sorta di surrogato ateo
del cristianesimo. Ad eccezione di quella lacaniana, essa non cura le psicosi, ma ne interpreta
religiosamente e verticalmente le cause remote: cadendo in una sorta di vizioso circolo
ermeneutico, l’analista cerca di giungere attraverso l’ascolto della verbalizzazione e la lettura
dei sintomi a un inconscio già pre-compreso come luogo infero dell’Altro – secondo la
famosa epigrafe virgiliana della Traumdeutung: “Si flectere nequeo Superos, Acheronta
movebo” –, cerca cioè di giungere nel sottosuolo psicotico del soggetto moderno, che Lacan
ha definito, non a caso, ‘soggetto paranoico della civiltà’.
L’inconscio potrebbe essere allora descritto come una strana forma di volontà involontaria –
come un’esperienza di raddoppiamento della volontà, che da un lato obbedisce all’energia
pulsionale (cioè alla natura, agli istinti), ma per ciò stesso si nasconde nel soggetto come
piccolo altro demonico, che ‘sta sotto’ la censura del Super-io (il linguaggio del grande
Altro). Se si risale cioè all’involontarietà del peccato (alla debolezza), che porta con sé la
rimozione, l’inconscio si rivela essere un portato storico del cristianesimo, su cui la
psicoanalisi sembra dire: rassegnati a questo altro in te, o meglio sotto di te – perché ne sei
18
Cfr. M. Foucualt, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 2011. 19
Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, cit., pp. 400 e sg. 20
Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano 1993, in particolare le pp.
19-48 e 69-117. 21
S. Freud, Compendio di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1980, p. 79.
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18.12.2014
solo la periferica, l’epifenomeno, lo schiavo. E come il cristianesimo, essa pone la salvezza
nella non-perfezione, cioè nel carattere interminabile della terapia, che spesso finisce col
rafforzare solo il minuscolo direttore di coscienza (l’analista).
Detto brutalmente: se l’inconscio è servile, l’ermeneutica psicoanalitica del sé è una trappola,
e la psicoanalisi rappresenta la morale ‘scientifica’, laica, apparentemente irreligiosa, degli
schiavi: “Siamo obbligati a parlare di noi stessi per dire il vero su di noi” (GV 313), un vero
che però non ci appartiene, e che ci condanna piuttosto alla nostra inferiorità creaturale, al
nostro essere pazienti-bambini. Non a caso, Foucault sembra indicare proprio nella sessualità
la liason tra cristianesimo e psicoanalisi22
, dacché la sua trasposizione in discorso rinvia a una
sorta di identità ‘obbligata’ che sprofonda nel passato familiare, impedisce la trasformazione e
provoca la ricaduta.
3. “…se l’interprete deve andare egli stesso fino in
fondo, come un rovistatore, il movimento
dell’interpretazione al contrario è quello di un’ascesa
[…]; ora la profondità è restituita come segreto
assolutamente superficiale, in maniera tale che il volo
dell’aquila, l’ascensione della montagna, tutta questa
verticalità così importante nello Zarathustra è, in
senso stretto, il capovolgimento della profondità, la
scoperta che la profondità era solo un gioco e una
piega della superficie. […] Sotto lo sguardo
dell’interprete ci si accorge che tutto quello che ha
esercitato la profondità dell’uomo era un gioco da
ragazzi.”
Michel Foucault, Nietzsche, Freud, Marx
Siamo così giunti alla fine del nostro viaggio. Dopo aver visitato le buie profondità del
cristianesimo ed essere andati indietro nel tempo, sentiamo il bisogno di risalire in superficie,
di ritornare al presente – ma obbedendo a questa diversa esigenza di verticalità, di luce e di
cielo, scopriamo che il ‘sotto’ non era che una curvatura dello spazio-tempo di sopra, e che
l’ermeneutica cristiana del soggetto sopravvive ancora, seppure in modo metamorfico,
all’interno dell’Occidente contemporaneo: che le tecnologie pastorali e sacrificali elaborate
dal cristianesimo, dopo aver prodotto ed estratto una verità del sé e dal sé, si sono trasferite
nelle pratiche giudiziarie, mediche, pedagogiche, psicologiche e psichiatriche, funzionando in
esse come trappola morale.
Secondo Foucault, l’antropologismo di fondo del pensiero moderno ha cercato di sostituire
queste pratiche ereditate dal cristianesimo con la figura positiva dell’Uomo, ‘interpretandolo’
però come fondamento, cioè come surrogato dell’ontoteologia; perciò, a suo giudizio, non
possiamo salvare le ermeneutiche del sé facendo cadere il cristianesimo23
– dobbiamo
piuttosto mostrare l’inconsistenza ontologica del sé e la sua costituzione storico-relazionale, le
quali hanno permesso la presa pastorale, ma possono anche aiutarci a modificare i dispositivi
e i processi di soggettivazione. Non a caso, nello stesso anno in cui tiene il corso sul governo
dei viventi (1980), Foucault propone di sbarazzarsi dell’ermeneutica del sé (che non merita di
22
Cfr. M. Senellart, Il corso Del governo dei viventi nella prospettiva della storia della sessualità, in Foucault e
le genealogie del dir-vero, cit., p. 61 e 77. 23
Cfr. M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, a cura di materiali foucaultiani, Cronopio, Napoli 2012,
p. 91.
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essere salvata24
) per andare verso una politica di noi stessi, di andare oltre le interpretazioni
del soggetto, conservando solo la dimensione relazionale della soggettivazione.
Come suggerisce Rovatti, per sbarazzarci dell’ermeneutica del sé dobbiamo restringere la
nostra pretesa di verità e così liberarci dalla sua ossessione – perché la volontà di verità
riferita a sé è la trappola dell’assoggettamento; e secondo Gros, Foucault non propone la
costruzione o la riconquista di un sé assolutamente puro e singolare, ma di un sé eticamente e
politicamente orientato agli altri: non un sé-sostanza verticalmente sprofondato, ma un sé
relazione che si muove orizzontalmente nella sfera etico-politica.25
Ebbene, in quanto rappresenta una funambolica sospensione sul vuoto – perché implica
l’abolizione del basso, del punto d’appoggio: la polverizzazione del sottosuolo –, questo non è
affatto “un gioco da ragazzi”, così come la cura di sé e degli altri non è affatto una terapia, o
un ‘prendersi cura’ dei bambini, bensì un duro esercizio di vita altrimenti: l’etica, per
Foucault, è un altro modo di fare politica se e soltanto se la verità viene ripensata
parresiasticamente come forza, e non come oggetto di potere-sapere, all’interno della
relazione tra i soggetti. Aprire lo spazio alla “dimensione politica” della soggettivazione come
possibilità di cambiare noi stessi e gli altri, significa allora “cercare un altro tipo di filosofia
critica: non una filosofia che cerchi di determinare le condizioni e i limiti della nostra
possibile conoscenza dell’oggetto, ma una filosofia critica che cerchi le condizioni e le
indefinite possibilità per trasformare il soggetto, per trasformare noi stessi”26
e gli altri.
Bisogna in altri termini polverizzare le incrostazioni dell’ermeneutica del sé, sciogliere il
legame che lega il soggetto al potere (cfr. GV 85) con un movimento di svincolamento, di
resistenza, di indocilità che può modificare il rapporto che il soggetto mantiene con la verità:
disancorarlo dalla verità come conoscenza e, risalendo in superficie, mostrargli la verità come
forza.
*
Ma che ne è di una simile proposta oggi, nell’epoca in cui ormai domina quella che Foucault,
più di trent’anni fa, ha profeticamente definito ‘imprenditoria del sé’? Non è forse
quest’ultima una forma solo ingannevolmente post-cristiana, in realtà ancora puerile,
volgarmente competitiva e soprattutto psicotizzante di ermeneutica del sé?
A uno sguardo attento non può sfuggire che il cosiddetto management di se stessi – come
nuovo miraggio di ‘salvezza’, stavolta socioeconomica – si confonde pericolosamente con le
tecniche del sé sia ellenistiche sia cristiane27
, e che il suo fallimento può facilmente innescare
un crollo psicotico, allorquando il soggetto viene sopraffatto dal double bind di conformismo
gregario e responsabilità individuale (self-accountability), che spesso si manifesta anche nel
conflitto tra un falso autocontrollo e un’altrettanto illusoria autonomia: nella misura in cui
l’auto-aleturgia cristiana appare oggi traslata nella sfera capitalistica, l’imprenditore di se
stesso si rivela essere un soggetto profondamente confessionale e solo superficialmente libero.
Poiché in effetti non esiste alcuna libertà ‘selvaggia’ o astorica dell’individuo, essa è divenuta
oggi (come molti altri concetti chiave della modernità) un prodotto del conformismo
socioeconomico, mentre l’estrema psicologizzazione del management di se stessi non è che il
rovescio della medicalizzazione diffusa – una situazione in cui la psicofarmacologia sembra
24
Cfr. ivi, p. 92. 25
Cfr. P.A. Rovatti, Dimmi chi sei. Foucault e il dilemma della veridizione, in Aut aut 362. Dire il vero su se
stessi. Cantiere foucaultiano, cit., pp. 35-47 e F. Gros, Soggetto morale e sé etico in Foucault, in Foucault e le
genealogie del dir-vero, cit., pp. 17-31. 26
M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, cit., p. 38. 27
Cfr. M. Nicoli, L. Paltrinieri, Il management di sé e degli altri, in Aut aut 362. Dire il vero su se stessi.
Cantiere foucaultiano, cit., pp. 49-74.
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funzionare come sedativo sociale e/o tattica di raffreddamento della proliferazione ormai
epidemica, ma sotterranea, di sintomi psicotici. Tra di essi, il più significativo potrebbe essere
il bisogno di cambiamento continuo, di continue metamorfosi (dell’abbigliamento, della
tecnologia, del corpo, del partner, ecc.), che oltre a segnalare sindromi bipolari maniaco-
depressive, assomiglia molto all’alternanza infinita di conversione e ricaduta che ha
caratterizzato verticalmente la psiche cristiana e, in termini foucaultiani, il cristianesimo come
religione di salvezza nell’imperfezione.
Secondo Bertani, “qualcosa di totalmente inedito si annuncia” dopo il cristianesimo28
;
saremmo cioè alla fine della soggettività occidentale prodotta dal regime di verità
psicotizzante che ‘interpreta’ l’Altro come sprofondato dentro il sé; saremmo giunti, con la
farmacologia prodotta dalle neuroscienze, alla superfluità dell’anima, della psicologia e
persino della relazione terapeutica. Al contrario, si potrebbe sostenere che il modello cristiano
della salvezza nella non-perfezione, dell’obbedienza, dell’umiltà, sia stato solo
superficialmente, oltre che infantilmente capovolto dal narcisismo contemporaneo. Il rovescio
narcisistico del postulato di nullità (non valgo nulla, sono un peccatore) potrebbe infatti
essere contenuto nel motto pubblicitario: perché io valgo, o meglio: sono una micro-divinità.
Si tratta di due enunciati perfettamente complementari e ‘pulviscolari’, solo che il primo si
fonda sul sistema confessionale Dio-linguaggio, ovvero sulla verbalizzazione continua
dell’inferiore al cospetto dell’Altro divino di cui il sacerdote è figura, mentre il secondo
sprofonda nel sistema para-confessionale Io-immagine, ovvero nella dissoluzione del ‘chi
sono io?’ nevrotico a favore della auto-divinizzazione afasica del borderline.
Da questo punto di vista, non siamo affatto usciti dal cristianesimo: non siamo alla fine del
pastorato, ma alla sua estrema metamorfosi capitalistico-tecnologica, e dovremmo indagare
attentamente sui sintomi della sua sopravvivenza storica – ad esempio sul rovesciamento
narcisistico-consumistico della debolezza e dell’inferiorità del sé cristiano, che genera nuove
forme di psicosi perfettamente compatibili con l’assetto socieconomico capitalistico e perciò
vissute come stati psichici ‘normali’. Oggi il governo dei viventi è solo superficialmente
dell’ordine della terapia29
, nella misura in cui la terapia di verità come obbligo di confessione
si fonda sull’imperativo performante di ‘lavorare su se stessi’; se infatti la rete funziona come
nuovo confessionale falsamente ‘orizzontale’ e democratico, cioè come ambiente ermeneutico
soft, alla domanda di cura del paziente – domanda di verità collegata alla sua non-perfezione
che è anche sottomissione all’ordine simbolico della scienza (poiché il paziente è pulvis, è
nulla di fronte allo sguardo medico) – si sostituisce il narcisismo come rovescio immaginario,
letteralmente iconico e compensativo dell’inferiorità.
Aumenta così il rischio di confusione fra la trasformazione di sé ad opera di se stessi (che
implica la forza identitaria ma anche la capacità di polverizzarsi e ricostruirsi) e
l’imprenditoria di sé socio-conforme (che interpreta la volontà di verità su di sé come libertà,
ma nasconde la debolezza identitaria), mentre le nuove forme identitarie semi-psicotiche e
pauci-sintomatiche (le cosiddette ‘psicosi fredde’) sfuggono alla presa terapeutica – si
normalizzano. L’ingiunzione alla verità, all’autenticità e alla realizzazione di sé,
apparentemente liberatoria ma profondamente narcisistica, in realtà non mira affatto alla
guarigione come padronanza di sé o stato adulto (cioè alla coscienza o alla sofferenza
consapevole), ma piuttosto alla persistenza indefinita nell’inferiorità dell’incoscienza, di cui
ormai l’individuo si compiace. L’inconscio dilaga quindi come ignoranza volontaria e non più
come rimosso: come un non-voler-sapere cui corrisponde, in sede terapeutica, un non-voler-
verbalizzare – per sentirsi ‘vero’, ma anche per riempire il proprio vuoto psichico, l’individuo
vuole solo narcisisticamente farsi vedere.
28
Cfr. M. Bertani, La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristiana, in Aut aut 362. Dire il vero su se
stessi. Cantiere foucaultiano, cit., p. 78. 29
Cfr. l’Introduzione a Foucault e le genealogie del dir-vero, cit., pp. 14-15.
Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
16 Data di pubblicazione:
18.12.2014
In un certo senso, siamo passati dalla veridizione al selfie. È ancora l’imperfezione a imporre
l’interpretazione di sé, mentre la ricerca infantile e afasica del godimento costituisce l’altra
faccia della penitenza e della mortificazione di sé. In questo senso gli innegabili aspetti
positivi, ovvero i punti di forza del soggetto occidentale ricordati da Bertani30
– profondità
dell’interiorità, libertà e ricchezza spirituale – sembrano oggi venir meno non già a causa della
fine, bensì attraverso la superficializzazione dell’ermeneutica cristiana che, come alleggerita,
appunto da sotto sale in superficie, si disperde come polvere nel soggetto, nel suo corpo e
nella sua psiche, senza per questo liberarlo dalla sua inferiorità.
Siamo allora incapaci di sbarazzarci dell’ermeneutica del sé, di dissolvere l’obbligo di verità
come forma basilare della nostra obbedienza (cfr. GV 314), di aggirare i limiti impostici dai
dispositivi in cui agiamo e da cui siamo prodotti? …Se nulla sta prendendo il posto del volto
dell’Uomo, che si è ormai cancellato sulla sabbia della storia, forse stiamo ritornando polvere.
30
Cfr. M. Bertani, La fine di un mondo? Foucault e la veridizione cristiana, in Aut aut 362. Dire il vero su se
stessi. Cantiere foucaultiano, cit., pp. 79-80.