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Guida Intercultura (finale) PROGETTO INTERCULTURE Linee guida per la progettazione degli interventi delle scuole A cura del Comitato Scientifico Ottobre 2007

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Guida Intercultura (finale)

PROGETTO INTERCULTURE

Linee guida per la progettazione degli interventi delle scuole A cura del Comitato Scientifico

Ottobre 2007

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1. INDICE

1. Indice .......................................................................................... 2 2. Premessa ...................................................................................... 3 3. Aspetti metodologici ........................................................................ 4

3.1 La progettazione in ambito formativo .............................................. 4 3.2 L’intervento socio-educativo ......................................................... 7

4. Analisi del contesto........................................................................ 10 5. Criteri di qualità dei progetti ............................................................ 13

5.1 Integrazione ........................................................................... 15 5.2 Interazione interculturale........................................................... 17 5.3 Gli attori e le risorse ................................................................. 20

6. Relazioni con le famiglie.................................................................. 23 7. Glossario..................................................................................... 28 8. Bibliografia .................................................................................. 35

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2. PREMESSA

Questo documento, redatto dal Comitato scientifico del Progetto Interculture della Fondazione Cariplo, propone alcune linee-guida e criteri qualitativi che dovrebbero caratterizzare un “buon” intervento educativo/didattico nell’ambito dell’intercultura. Gli orientamenti proposti sono diretti a sostenere il Comitato di progetto, le équipes degli operatori e le scuole selezionate nelle tre province di Milano, Brescia e Mantova, nelle diverse fasi dei Progetti Pilota: la progettazione partecipata dei percorsi, la sperimentazione e la riflessione critica sulla sua realizzazione.

Principi e criteri qui indicati, condivisi dal Comitato, presentano alcune linee unitarie sul significato delle azioni interculturali in campo educativo, i loro obiettivi e metodi. Questi vanno tuttavia messi in relazione con la complessità della progettazione educativa in ambito scolastico, che deve tener conto dei diversi contesti, gradi di scuola, livelli di responsabilità, culture degli operatori. Per offrire materiali e indicazioni il più aderenti possibili alla dinamicità delle situazioni in cui i Progetti Pilota verranno svolti, il Documento si articola nei seguenti punti:

gli aspetti metodologici (di Maddalena Colombo) canalizzano l’iter, le fasi, le logiche e le modalità di intervento di un progetto in ambito scolastico con le specificità derivanti dalla prospettiva interculturale;

l’analisi del contesto (di Susanna Mantovani) mette a fuoco le problematiche specifiche dell’applicazione della logica progettuale interculturale;

i criteri di qualità dei progetti (di Milena Santerini) evidenziano le linee guida sulla cui base qualificare i progetti pilota sui tre assi dell’integrazione, dell’interazione interculturale e degli attori/risorse.

gli aspetti relativi alla relazione con le famiglie straniere vengono approfonditi da Paolo Branca;

il glossario (di Agostino Portera) permette infine di condividere i significati di alcuni termini la cui apparente chiarezza nasconde spesso diverse interpretazioni.

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3. ASPETTI METODOLOGICI1

3.1 La progettazione in ambito formativo

Come si colloca il metodo progettuale nell’ambito scolastico? E’ opportuno ricordare che il modus operandi dell’azione scolastica poggia su una lunga e solida tradizione di programmazione didattica ed educativa, ossia sulla definizione di obiettivi specifici coerenti con indicazioni generali relative ai piani di studio (una volta i Programmi ministeriali, oggi le Indicazioni nazionali e le Linee guida). Nella logica programmatoria, la definizione delle metodologie didattiche, degli approcci alla persona, delle risorse da investire e dei risultati attesi è per lo più assente. La verifica dei risultati è demandata all’acquisizione di conoscenze/abilità da parte dello studente, con prove di accertamento in varie tappe del percorso. La programmazione definisce in gran parte il funzionamento delle organizzazioni didattiche garantendo stabilità e continuità all’azione; d‘altra parte sempre di più si mostra inadeguata di fronte a compiti complessi e dinamici richiesti alla scuola, poiché: richiede procedure di ispezione e certificazione che possono risultare rigide in taluni casi e deboli in tal altri; comporta ripetizione (a volte acritica) delle procedure; di rado è creata ex novo da chi la svolge ma l’insegnante si limita ad adeguare le indicazioni ad alcuni parametri contestuali e personali.

Lo sviluppo di progetti – che storicamente si deve all’esperienza dell’autonomia scolastica - vuole introdurre un elemento di novità rispetto alla precedente logica, per almeno tre motivi; intanto gli obiettivi progettuali solo in parte sono sovrapponibili a quelli della programmazione didattico-educativa, bensì possono essere definiti su scale non omogenee: obiettivi di scuola; di classe; di gruppo; individuali, secondo una struttura di rimandi ‘a scatole cinesi’. Inoltre la progettazione richiede l’utilizzo di risorse aggiuntive al funzionamento ordinario: si pone dunque il problema di dove reperirle, come usarle, come evitare il ‘drenaggio’ delle risorse destinate al funzionamento ordinario, come assicurare il gettito delle risorse nelle fasi di sviluppo del progetto, ecc. Infine, rispetto alla programmazione, si colloca in maniera più aleatoria nel complesso delle attività della scuola (sia dal punto di vista gestionale sia didattico): un progetto può nascere ma può anche arenarsi; può essere condiviso da più attori oppure gestito da singoli e ignorato dal resto della comunità; può rappresentare una caratteristica qualificante di un intero istituto oppure una proposta di eccellenza che tocca solo alcuni, ecc.

Pertanto la filosofia progettuale contiene elementi di forte attrazione per chi è desideroso di uscire dalla logica programmatoria e ne ha sperimentato i limiti; ma nello stesso tempo implica l’assunzione di maggiori rischi ed imprevedibilità sia per chi propone il progetto, sia per chi lo realizza, e più ancora per chi si trova ad osservarlo dall’esterno con il timore di ‘subirlo’. Esso va continuamente collocato in rapporto alla programmazione, e legittimato attraverso il dialogo con i vari comparti dell’organizzazione didattica, facendo leva sui beneficiari diretti, e esplicitando le ricadute indirette sulla programmazione ordinaria.

1 Di Maddalena Colombo, Università Cattolica di Brescia.

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Per ridurre i rischi di impatto negativo, di caduta della motivazione, ecc. da parte degli attori scolastici variamente coinvolti, la metodologia della co-progettazione è senz’altro efficace. La progettazione stessa, infatti, rispetto alla programmazione si propone come azione:

discorsiva;

formativa;

decisionale;

localizzata;

che può coinvolgere un numero illimitato di attori, proprio per la possibilità di ampliare-restringere gli obiettivi in ragione di bisogni in crescita. Anzi, la presenza di più attori scolastici ed extrascolastici comporta l’ingresso di nuove fonti da cui mobilitare le risorse.

Un iter progettuale-tipo prevede quattro fasi distinte:

a) istruttoria generale (analisi dei bisogni, analisi del contesto e delle risorse, verifica delle condizioni di fattibilità);

b) progettazione (definizione obiettivi, aree di intervento, metodi e approcci, destinatari, operatori, strumenti, tempi, costi e fonti di finanziamento);

c) realizzazione (sviluppo azioni, monitoraggio azioni, documentazione);

d) valutazione (verifica dei risultati e valutazione del processo).

Una parte importante della fase preliminare (istruttoria) è costituita dalla analisi delle condizioni di fattibilità. Questa segue logicamente e temporalmente l’analisi del contesto/dei bisogni (v. oltre), che mira innanzitutto a stabilire la direttrice lungo la quale impostare il cambiamento desiderato.

Una volta conosciuta questa traiettoria, nel nostro caso in riferimento a obiettivi specifici e generali del progetto interculturale, occorre valutare se esistono condizioni favorevoli alla partenza del progetto e al suo sviluppo nell’arco temporale stabilito. Esse sono determinate da una serie di fattori predittivi, elencati anche nella Guida ai progetti di educazione interculturale (Colombo, 2007).

Il primo fattore chiave sono le risorse umane a disposizione dell’organizzazione scolastica; non solo un team di lavoro con obiettivi dichiarati (gruppo progettuale e gruppo operativo possono essere distinti), ma anche la presenza entro questo team di persone competenti nell’area interculturale, che abbiano una motivazione esplicita e se possibile una formazione specifica o abbiano intenzione di svolgerla in vista del progetto. Questo team solitamente prende il nome di Commissione Intercultura o Integrazione o Alunni stranieri. Anche lo stile di lavoro comune è fondamentale: l’abitudine ad interagire nei gruppi produttivi implica la capacità di accettare la suddivisione dei ruoli, l’assunzione di incarichi specifici e differenziati, la capacità decisionale per lavorare in relativa autonomia sia dagli altri team sia dalla dirigenza scolastica, la capacità di mediazione per affrontare eventuali conflitti. In questo quadro risulta condizione favorevole l’esistenza di una figura dirigente che indirizza

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e supporta, non solo in vista di un controllo ma anche in funzione promozionale, la cui leadership – sia istituzionale che ‘trasformazionale’2 - è per lo più riconosciuta.

Il secondo fattore chiave è l’esistenza di rapporti di collaborazione con enti esterni alla scuola, che si possa configurare come lavoro in rete: dagli accordi per il regolamento di iscrizione/accoglienza, ai patti di reciprocità per interventi occasionali (es. laboratori linguistici in condivisione), alle convenzioni per la realizzazione di azioni/servizi strutturati. Il lavoro in rete si può anche differenziare per livelli di intensità dello scambio (raccordo, collaborazione, cooperazione), e secondo la natura dei beni scambiati (informazioni, risorse umane, servizi, strutture, infrastrutture, tecnologie). La rete infine può essere tematica, cioè dedicata a un progetto mirato, oppure essere ricompresa in un più ampio livello di raccordo (es. Piano di zona); può essere indipendente ovvero intersecata ad altre reti di intervento sul territorio. Fanno parte, in genere, di reti che realizzano progetti nell’area dell’intercultura enti come:

scuole (istituti singoli o in rete, centri di formazione e di alfabetizzazione, istituti statali, non statali - paritari e privati);

università (statali, non statali, private);

enti locali (Regioni, Province, Comuni – singoli o associati, Comunità montane, Aziende sanitarie locali);

enti nonprofit (onlus, associazioni e reti – di italiani e stranieri, organizzazioni non governative, cooperative, agenzie del tempo libero, agenzie internazionali, fondazioni);

enti privati (imprese, associazioni).

Il terzo elemento decisivo per la fattibilità del progetto è la possibilità di accedere a fonti aggiornate per la lettura del territorio e ai materiali prodotti da interventi analoghi nel medesimo territorio/ambito. Questi costituiscono la “memoria storica” di tutta la comunità che sta intorno alla scuola o ente educativo e fa da spinta al nuovo progetto: poiché la composizione demografica dei nostri territori è in continuo cambiamento, è fondamentale ricordare sempre da quale punto si è cominciato, come si stanno evolvendo i contesti e imparare dalle precedenti sperimentazioni. Attraverso tali dati, fonti e materiali, si potrà ricostruire l’identikit del contesto attuale, i suoi problemi ricorrenti e contingenti e progettare linee di intervento con diverse prospettive temporali (breve-medio-lungo termine) in base ai cambiamenti locali prevedibili (flussi, domande in crescita di servizi o interventi, ecc.). Non si opera mai in un vacuum sociale, formativo e informativo, pertanto un’attenzione particolare sarà da dedicarsi ai fattori di resistenza (prevedibili o certi) al progetto: opinioni contrarie, pregiudizi, incompatibilità tra correnti culturali o politiche, eventi pregressi di chiusura e intolleranza, ecc.

2 Si può distinguere la leadership istituzionale da quella trasformazionale facendo riferimento allo schema di Weber: mentre la prima deve la sua legittimazione alla posizione/ruolo nell’istituzione, cioè alla sua base tecnico-razionale, la seconda forma di leadership trova legittimazione nel carisma della persona che la esercita. In pratica un leader istituzionale assicura continuità e razionalizzazione delle azioni nel gruppo, il leader trasformazionale trasforma se stesso e gli altri membri incarnando valori, istanze etiche e progettualità a lungo termine.

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Un servizio efficace per non partire da zero è costituito dagli archivi locali delle progettazioni socio-educative e didattiche nella medesima area di intervento: ne esistono a livello provinciale e comunale (grandi comuni); sul territorio lombardo opera dal 1999 la Banca dati dell’educazione interculturale della Fondazione ISMU-Osservatorio regionale per l’integrazione e la multetnicità, che ha raccolto, classificato e indicizzato i progetti avanzati da scuole ed enti extrascolastici. Consultando l’archivio è possibile non solo ricostruire percorsi e tendenze progettuali degli enti affini e prossimi a quello in cui si opera ma anche costruire nuove intese, aprire piste di lavoro innovative in continuità con quelle precedenti, nella direzione di una costruzione collettiva dell’operare che è sempre auspicabile in aree così complesse e mutevoli.

3.2 L’intervento socio-educativo

La progettazione entra nel vivo dell’intervento con la definizione degli obiettivi e la scelta di una più aree specifiche di azione. L’esame della situazione di partenza facilita la formazione di una scala di priorità, mettendo in gerarchia i bisogni e gli obiettivi, in modo da evitare interventi eccessivamente generici o eccessivamente circoscritti. Relativamente all’ambito interculturale possono essere individuate diverse aree (es. accoglienza/integrazione; pedagogia/interazione interculturale; formazione; ecc.), anche da coprire simultaneamente con una pluralità di azioni, ma in questo caso occorrerà tener conto della necessità di un bilanciamento fra azioni rivolte ai cittadini stranieri e azioni rivolte alla comunità locale. La definizione dell’area o delle aree di intervento porta immediatamente alla scelta dei destinatari, interni o esterni alla scuola, diretti (es. studenti) o indiretti (es. comunità scolastica). Poiché gli obiettivi della sperimentazione riguardano sempre un cambiamento, i destinatari sono il principale bersaglio (target) di tale cambiamento; in prospettiva, coloro che in una prima fase del progetto sono i destinatari (es. genitori o studenti) possono diventare in una fase successiva gli operatori del progetto stesso, avendo sperimentato su di sé atteggiamenti culturali, esperienze di contatto, tecniche comunicative, utili da trasferire ad altri destinatari.

Un elemento forte del progetto è costituito dagli operatori (coloro che abbiamo denominato sopra risorse umane) e dalla loro capacità di stabilire un approccio adeguato nel proporre le azioni, sia riguardo al contatto con i destinatari (rispettandone ad esempio aspettative, stili, timori, ecc.), sia come forza di coinvolgimento/convincimento verso l’elemento di novità che verrà introdotto mediante il progetto. Poiché la relazione formativa è influenzata di fatto dalla personalità e dalla cultura degli attori, oltre che dai vincoli contestuali e dalla tenuta metodologica, occorrerà verificare le risorse professionali degli operatori (motivazione, competenze di ruolo, conoscenze specifiche). Il progetto stesso sarà occasione di verificare il livello di partenza di queste risorse, perché possa essere eventualmente potenziato mediante le azioni del progetto. Infatti, la ‘pratica trasformativa’ dell’educazione interculturale porta necessariamente gli attori a fare i conti con i propri assunti di base (valoriali, motivazionali, tecnico-professionali) nell’interazione con gli altri, sia nel team (colleghi) sia nella situazione operativa (destinatari); esplicitando e riconoscendo tali assunti – sottoforma di schemi di pensiero, regole implicite, presupposizioni, miti e generalizzazioni culturali – si fa esperienza della diversità, da cui sorge inevitabilmente un incremento di professionalità nel senso richiesto dagli obiettivi di questo tipo di intervento.

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L’approccio da suggerire è quello della comunicazione interculturale, che parte dal riconoscimento paritetico degli interlocutori, passa dal distacco nei confronti della propria cultura (vedere la propria cultura dall’esterno, cioè come la vedono gli altri, percepire se stessi come membri di una società non necessariamente ‘pura’), sperimenta la comprensione dell’altro (comprendere ciò che non possiamo accettare) e tenta di raggiungere un adattamento reciproco. Per facilitare questo itinerario di sviluppo personale e professionale è opportuno offrire agli operatori la possibilità di lavorare in gruppi inter-professionali, affiancando insegnanti, educatori, volontari, assistenti sociali, animatori, mediatori, ecc., ciascuno portatore di una propria specificità culturale in merito alle pratiche educative.

Un’attenzione particolare è da dedicare alla scelta dei metodi e degli strumenti operativi, che saranno non solo in linea con gli obiettivi scelti e con le condizioni poste dalla struttura/infrastruttura di lavoro, ma anche miranti a aggiungere valore di innovazione alla proposta. Anche metodi tradizionali o comunque più diffusi – come lezioni basate su testi, presentazioni frontali, compiti individuali, ecc. – possono essere utilizzati con funzione innovativa, rivisitandoli riguardo a tempi e spazi di realizzazione, o riguardo a contenuti straordinari. L’interesse e la curiosità derivati dall’incontro con l’Altro sono una fondamentale risorsa di apprendimento, che va coltivata e non dissipata mirando solo a ‘stupire’ (approccio folkloristico) o a ‘normalizzare’ (approccio assimilativo), ma occorre stimolare percorsi di elaborazione critica e approfondimento tenendo conto anche di atteggiamenti e reazioni delle persone italiane e straniere di fronte alle proposte. In questo senso, il laboratorio, come spazio di esperienza e di riflessione sull’esperienza, rappresenta una proposta metodologica più efficace della lezione in aula. L’uso di artefatti (oggetti ed elementi visuali), di qualunque tipo e linguaggio, è un’altra indicazione preferenziale: dando forma ai nostri atteggiamenti, sentimenti, pregiudizi, ecc. è più facile prenderne distacco e facilitare una razionalizzazione; rispetto ai procedimenti astratti, la concretizzazione imposta dagli artefatti è anche più stimolante indipendentemente dall’età per la comunicazione e l’espressione.

La durata dell’intervento impone poi un piano di azioni per il monitoraggio sistematico delle attività e delle ricadute immediate (reazioni, difficoltà, tendenze scaturite dal progetto stesso, ecc.). Alla base di questa funzione vi è senz’altro la messa in opera di competenze specifiche di osservazione: ossia quell’attività basata sul “guardare” e sull’”ascoltare” che ci permette di descrivere un oggetto utilizzando necessariamente una tecnica di scrittura e di fornire un’interpretazione. L’osservazione può essere:

focalizzata o generica (in base all’ampiezza del raggio osservativo, da osservazione di individui a osservazione di collettivi/spazi);

partecipante o distante (in base alla posizione dell’osservatore);

di tipo medico (osservazione di sintomi); psicologico (osservazione di comportamenti); etnografico (osservazione di interazioni sociali e scambi di significato) in base all’interesse preminente dell’osservatore;

naturale o di laboratorio (in base al contesto in cui si svolge l’attività osservata).

Dall’osservazione durante lo svolgimento del progetto derivano informazioni indispensabili per l’orientamento operativo ed eventualmente per il suo riorientamento; non solo, aumenta progressivamente la capacità diagnostica e l’intensità della partecipazione degli operatori, si raffina la sensibilità per ciò che è

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‘visibile’ e per ciò che ‘rimane invisibile’ malgrado la volontà di comprendere; in altre parole l’osservatore mette alla prova il suo ‘campo cognitivo’ sperimentandone la relatività e i limiti, nonché maturando un più forte desiderio di allargarlo per arrivare a comprendere l’Altro negli aspetti indecifrabili. Nel caso delle attività che riguardano direttamente le dinamiche interculturali, vi sono alcuni focus di attenzione che l’osservatore non potrà ignorare: i linguaggi usati e le modalità di comunicazione e presa di parola tra persone di diversa cultura; gli scambi interculturali (chi apprende da chi? Cosa e come ci si scambia i tratti delle reciproche culture?); i processi di inclusione ed esclusione su base culturale, religiosa o etnica; le immagini o aspettative di integrazione di cui sono portatori i membri del gruppo di maggioranza e quelli del gruppo di minoranza (chi vuole integrarsi? Come ? perché? Cosa ci si aspetta che l’altro faccia per integrare? ecc.).

Aspetto fondamentale della metodologia dell’intervento socio-educativo è infine la documentazione, un modo per poter lasciare tracce e poterle riguardare. Ogni attività va documentata se si vuole garantire la sua continuità e la circolazione sociale delle idee e dei prodotti che ne derivano. La documentazione delle esperienze educative, infatti, è fondamentale perché queste possano condurre un “ciclo di vita” superiore all’occasionalità e all’estemporaneità, perché siano stimolo e riferimento per diversi tipi di operatore, divenendo anche materiale ricchissimo per la formazione e la creatività dei formatori. Si possono raccogliere e ordinare i materiali prodotti in tutte le fasi del progetto (progettazione, aggiornamento insegnanti, fase sperimentale, fase di verifica) con più o meno unitarietà nelle modalità di registrazione e nella scelta dei documenti prodotti, contemplando sia materiali “soggettivi” cioè emersi dalla creatività dei singoli, sia oggettivi cioè scaturiti da un reporting esterno. Le funzioni della documentazione sono varie: di memoria e ricostruzione storica degli eventi; di riflessività e di apprendimento dall’esperienza; di comunicazione all’esterno e tra i membri della stessa rete di progetto.

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4. ANALISI DEL CONTESTO3

Il processo di verifica approfondita e a mente aperta, che si interroghi non soltanto sugli aspetti che caratterizzano le situazioni studiate tradizionalmente presi in esame dalla ricerca (ad esempio, nel nostro caso, le caratteristiche socio-culturali delle famiglie e degli insegnanti, gli aspetti organizzativi e le tradizioni di ciascuna istituzione scolastica, le tradizioni culturali e religiose alle quali i diversi soggetti fanno riferimento, ecc.) è essenziale per approfondire e comprendere i processi culturali (Tobin, Wu e Davidson, 1989, Rogoff, 2003) e a maggior ragione per studiare quel complesso processo culturale che è l’esperienza scolastica per tutti i soggetti che ne sono coinvolti.

Si tratta, da un lato, di analizzare e descrivere gli elementi che caratterizzano ogni situazione studiata (nel nostro caso il contesto di ciascuna scuola partecipante al progetto) per evidenziare sia gli aspetti comuni e la loro declinazione specifica, al fine di raggiungere un certo livello di generalizzabilità dei risultati, o per lo meno indicare quali sono le caratteristiche di tipicità, dall’altro di descrivere e tenere conto degli elementi specifici di ogni situazione all’interno della nicchia ecologica che la caratterizza e dei significati che essi assumono per i diversi attori (Mantovani, 2007). Che significato ha/può assumere ad esempio l’esperienza di gruppo per i bambini, gli insegnanti e i loro genitori? Che significato ha/può assumere la valutazione? Che significato hanno/possono assumere gli incontri tra genitori e insegnanti?

In generale, per analisi del contesto si intende quel processo conoscitivo che le organizzazioni compiono o dovrebbero compiere prima di accingersi a realizzare interventi/cambiamenti che possono avere un impatto sia sul contesto organizzativo al quale si fa riferimento , sia sull’ambiente circostante alla situazione/istituzione studiata. Questa conoscenza infatti, secondo è un elemento cruciale per comprendere i mutamenti che si produrranno e sostenerne gli effetti se questi si riveleranno congruenti con le aspettative. La possibilità di disporre di informazioni complete e ben organizzate sul contesto nel quale si intende promuovere la progettazione consente di rendere più significativo il progetto, di metterne in luce la rilevanza possibile per i soggetti che vi partecipano ed è quindi una delle condizioni per il suo successo

Le finalità dell’analisi del contesto, in generale sono :

delineare una visione integrata della situazione nella quale si renda conto delle connessioni tra la microsituazione studiata e meso e macro-livelli (Bronfenbrenner, 1985);

formulare delle ipotesi sulle potenziali interazioni e sinergie tra i soggetti e le organizzazioni/istituzioni coinvolte nel progetto in modo diretto o indiretto;

valutare i punti di forza e le risorse umane e ambientali alle quali appoggiarsi per innescare l’intervento che mira a processi di cambiamento;

3 Di Susanna Mantovani, Università di Milano – Bicocca.

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valutare gli elementi di debolezza dei quali tenere conto nella progettazione dell’intervento pena l’inefficacia dello stesso e che possono essere essi stessi elementi sui quali orientare parte dell’intervento preliminare o successivo (ad esempio la stabilità di una coppia di insegnanti in una classe a tempo pieno in una scuola primaria può essere una condizione per l’intervento e al tempo stesso una finalità da raggiungere stabilmente);

verificare i vincoli e le opportunità offerte dall’ambiente di apprendimento.

In un progetto di ricerca/intervento è essenziale che, al fine di individuare indicatori e informazioni al tempo stesso rilevanti e confrontabili, si riesca in qualche modo a delimitare il campo di indagine alle condizioni e ai fenomeni più rilevanti , pur nella consapevolezza della possibilità pressoché infinita di approfondire l’analisi/conoscenza di ciascun contesto. Preliminarmente alla definizione precisa del progetto di intervento è in particolare necessario valutare la disponibilità dei soggetti e la loro oggettiva raggiungibilità e accessibilità e il tempo a disposizione per perseguire gli obiettivi del progetto medesimo in modo da definire, in modo realistico, il livello di approfondimento possibile.

Si fa riferimento, in genere, sia all’analisi del contesto interno, che è formato dagli elementi che compongono la struttura interna della situazione studiata (classe, scuola,ecc.), sia al contesto esterno costituito sia dal livello intermedio e cioè dagli elementi che compongono la comunità nella quale la situazione studiata è inserita, sia ad elementi, forze, tendenze più generali che possono avere natura politica, sociale, valoriale, ideologica e che possono influenzare le idee, le rappresentazioni e i comportamenti di tutti gli attori coinvolti.

In un approccio interculturale è altresì essenziale prendere in esame non solo gli elementi del contesto interno ed esterno, ma anche i significati che i diversi attori vi attribuiscono. Evitando un approccio etico imposto nel quale il ricercatore imponga i propri assunti culturali a favore di un approccio emico o etico derivato nel quale si cerca non solo di rappresentare il punto di vista culturale degli appartenenti a una specifica comunità (nel nostro caso una classe o una comunità scolastica e di ciascuno dei suoi attori portatore di una propria cultura) ma anche di trovare metodi e attivare situazioni nelle quali sia possibile osservare, interpretare e negoziare tra tutti gli attori le prospettive di tutti i partecipanti e i significati che essi attribuiscono alle situazioni nelle quali vivono o vengono coinvolti (Rogoff, 2003; Mantovani 2007).

Sono dunque necessarie, e vanno previste nel progetto, procedure, modalità interpretative , ma anche conoscenze e teorie condivise per riflettere sui modelli significativi osservati e pervenire a interpretarli in modo condiviso. La condivisione almeno parziale dei significati è finalità essenziale in un processo di ricerca/intervento in generale e in particolare di ricerca interculturale, ma - alla luce delle considerazione che precedono – è necessario delimitarne necessariamente l’approfondimento mantenendo consapevolezza del valore comunque parziale dei dati ottenuti ed esercitando dunque estrema cautela nel generalizzarne i significati pena il ricadere nella stereotipizzazione e nel pregiudizio che costituiscono il primo ostacolo che la ricerca medesima intende superare. La tensione tra generalizzabilità – di dati e delle azioni - e validità ecologica è sempre presente infatti nella ricerca interculturale (Caronia, 1997, 2004).

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Il processo di analisi/interpretazione/condivisione dei significati del contesto è reso complesso dalle diverse culture di provenienza - ma diverse sono anche le “culture” dei bambini, dei genitori e degli insegnanti (Corsaro, 2003) – e richiede non solo consapevolezza e delicatezza metodologica (Mantovani, 2001; Mortari, 2007), ma anche la ricerca di strumenti metodologici adeguati, sia nella raccolta dei dati sia nella loro analisi. Ad esempio, per rendere possibile la condivisione con i genitori immigrati (senza utilizzare esclusivamente il filtro del mediatore/interprete) è necessario essere consapevoli dei limiti costituiti da situazioni/contesti solo di parola (incontri individuali, incontri di gruppo nella scuola) e, al fine di dare voce e di sentire le voci (Bachtin) può essere utile utilizzare anche strumenti di tipo diverso quali ad esempio l’utilizzazione della documentazione attraverso immagini (Tobin, Mantovani, Bove, 2007).

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5. CRITERI DI QUALITÀ DEI PROGETTI4

Il momento attuale è caratterizzato da un forte aumento del numero degli alunni immigrati, (anche nella scuola secondaria) e da una tendenza alla loro concentrazione in alcune scuole. Tale popolazione è però variegata, in quanto comprende sia alunni neo-arrivati che non padroneggiano l’italiano, sia alunni nati o cresciuti in Italia, italofoni e con un senso di appartenenza al nostro paese. Numerose altre differenze sono relative ai paesi di provenienza, al progetto migratorio della famiglia, alla lingua. Le strategie di integrazione e, più in generale, la qualificazione in senso interculturale delle scuole ad alta percentuale di immigrati di cui si occuperanno i Progetti Pilota devono, quindi, tener conto di tale varietà di situazioni e dei diversi obiettivi da individuare.

Si tratta cioè, in base a quanto proposto dal Progetto Interculture della Fondazione Cariplo, di:

a) aumentare il rendimento scolastico degli alunni immigrati (dimensione dell’“integrazione”);

b) migliorare le politiche di accoglienza potenziando la qualità interculturale (“azioni interculturali”).

I due obiettivi devono essere visti come distinti ma, allo stesso tempo, complementari; ne consegue che le strategie da implementare e da sostenere nel processo di accompagnamento delle scuole prescelte devono poter essere elaborate nella sinergia tra questi due elementi.

Il primo obiettivo, infatti, sarebbe limitato se rivolto solo ad un rapido e pieno inserimento dei bambini e dei ragazzi stranieri, soprattutto se non italofoni, attraverso misure di insegnamento di Italiano L2, attività di tipo compensativo e di recupero. Questa prospettiva, che chiameremo di integrazione, corre il rischio di considerare solo gli elementi relativi all’adattamento degli alunni al sistema scuola, la trasmissione degli apprendimenti necessari e il raggiungimento di un livello adeguato di rendimento.

Per questo motivo, tale obiettivo va visto in sinergia col secondo, e cioè le azioni interculturali (miglioramento delle relazioni, prospettiva interculturale nelle discipline, attività contro le discriminazioni, qualificazione dei rapporti con le famiglie, conservazione della lingua di origine). Porterebbe fuori strada, come è avvenuto, pensare queste finalità come un’opzione puramente aggiuntiva di tipo “simbolico-culturale”. Questo equivoco è nato anche dalle caratteristiche di molte azioni cosiddette “interculturali” diffuse finora nelle scuole, che hanno accentuato la dimensione culturalista nella relazione coi ragazzi immigrati, ricorrendo a visioni stereotipate e folkloriche della cultura d’origine, spesso “sovrapposta” più che vissuta dagli alunni, soprattutto se da vario tempo in Italia.

In realtà, la dimensione interculturale deve essere vista in stretto rapporto con la questione del rendimento scolastico. Ambedue gli elementi devono fare perno sulla valorizzazione delle caratteristiche personali e specifiche di ogni alunno, con la sua

4 Di Milena Santerini, Università Cattolica di Milano.

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storia, la sua carriera scolastica, i suoi atteggiamenti verso lo studio, la qualità delle sue relazioni con gli insegnanti e i compagni. Una visione personalista della cultura rende ogni bambino/ragazzo un soggetto unico con le sue particolarità, dove cultura d’origine, provenienza e le caratteristiche del presente si fondono in un profilo irripetibile. Ciò significa darsi come obiettivo la complementarità tra le attività di integrazione (accrescimento del rendimento, delle modalità di accoglienza, insegnamento Italiano L2) e quelle di azione interculturale (miglioramento delle relazioni, azioni contro i pregiudizi, rispetto della lingua e cultura d’origine).

Il primo modo per monitorare la qualità dei progetti, quindi, è quello di verificare che le azioni promosse dalla scuola corrispondano alla complementarietà delle due dimensioni. In questo modo, le attività di inserimento e incremento dei risultati non rischieranno di essere realizzate meramente nell’ottica funzionalistica dell’assimilazione e del rapido assorbimento degli “stranieri” nel sistema scuola del paese, per farli adattare il più velocemente possibile al profilo del buon alunno. Ancora, si potrà tener fede all’impostazione di tipo universalistico e di apertura che caratterizza la scuola italiana se la didattica anche - ma non necessariamente - in presenza di alunni immigrati risponderà a quell’esigenza di differenziazione e di flessibilità che permette il rispetto dei percorsi di apprendimento degli alunni.

In questo senso, una seconda direzione che può guidare l’individuazione dei criteri qualitativi è quella di sostenere quei progetti e iniziative che portino a una interculturalità attenta ai problemi della coesione sociale e non solo a valorizzare le differenze in modo esotico. La “nuova intercultura” che alcune scuole già praticano deve essere considerata una vera e propria educazione alla cittadinanza, che ha come prima caratteristica quella di essere rivolta a tutti gli alunni e non solo a quelli immigrati, attenta a valorizzare la diversità nell’ottica della coesione sociale. Le attività che hanno come oggetto esclusivamente la promozione della “cultura” o la relazione tra “culture”, invece, rischiano di rendere statici e stereotipati tratti che devono essere sempre visti come vissuti in modo soggettivo dalle persone. I progetti impostati in questo modo possono rendere le scuole capaci di lavorare sull’eterogeneità e sul pluralismo, a partire dalla varietà di situazioni (non solo etniche) presenti in essa.

Da questa premessa è possibile costruire una serie di criteri qualitativi più precisi che potranno essere utilizzati nell’analisi dei progetti, da suddividere (per meri motivi di analisi e chiarezza) nei due assi portanti dell’integrazione e dell’interazione interculturale (vedi aree di intervento per le candidature), cui aggiungere l’asse organizzativo e delle risorse, per verificare la capacità della scuola di adeguare l’impianto strutturale (leadership, democrazia interna, coinvolgimento del territorio, reti di scuole) agli obiettivi pedagogico-didattici e sociali che si è data.

Integrazione:

Pratiche di accoglienza e di inserimento nella scuola; Italiano come seconda lingua; Valorizzazione del plurilinguismo.

Interazione interculturale:

Relazioni a scuola e nel tempo extrascolastico; Interventi sulle discriminazioni ed i pregiudizi; Prospettive interculturali nei saperi e nelle competenze.

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Gli attori e le risorse:

Organizzazione della scuola; L’autonomia e le reti tra istituzioni scolastiche,società civile e territorio; La formazione dei docenti, del personale non docente, dei dirigenti scolastici; Relazione con le famiglie straniere e orientamento.

5.1 Integrazione

5.1.1 Pratiche di accoglienza e di inserimento nella scuola I progetti centrati sulle pratiche di accoglienza e inserimento sono tra i più diffusi nella scuola italiana, poiché hanno costituito la prima risposta all’arrivo degli alunni immigrati. In un certo senso, essi costituiscono il biglietto da visita della scuola, nella sua apertura a bambini e ragazzi di altrove.

Il ripensamento di tali pratiche deve però confrontarsi con i cambiamenti attuali della società e della scuola. Da un lato, i progetti mirati all’accoglienza si misurano con il problema della distribuzione degli immigrati negli istituti e nelle classi; dall’altro, occorre vengano pensati alla luce di una popolazione scolastica sempre più eterogenea, dai tempi e modi di inserimento tra i più vari.

Per quanto riguarda il primo punto, la normativa italiana prevede la settorializzazione, per cui le famiglie hanno il diritto-dovere di iscrivere i loro figli nelle scuole di zona. La concentrazione degli immigrati in alcune aree e quartieri di alcune città e paesi, quindi, rende ineguale tale distribuzione. L’area geografica del paese con la percentuale più alta di alunni stranieri si conferma anche quest’anno il Nord Est. La regione con l’incidenza più alta è ancora l’Emilia Romagna con il 9,5% . La Lombardia è, invece, la regione con il maggior numero di alunni stranieri, poco più di centomila. Tra i comuni capoluogo è Milano ad avere l’incidenza più alta con il 12,7%, mentre tra le province è invece al primo posto Mantova con l’11,9%. Alcune scuole hanno una percentuale di alunni senza cittadinanza italiana del 40-50%. Ciò ha portato ad un allarme sociale e mediatico che ha avuto echi anche nella presentazione di varie proposte di legge alla Camera.

Attualmente, le iscrizioni vengono regolate secondo il DPR 349/99, sulla base delle Linee Guida del Ministero della Pubblica Istruzione del marzo 2006 e della C.M. 93/2006 che prevede che i minori stranieri vengano inseriti in qualunque periodo, in classi corrispondenti all’età anagrafica, equamente distribuiti nelle classi.

Tuttavia, nelle zone di alta presenza di famiglie straniere, gli alunni sono concentrati in alcune scuole (alcune tendono a “dirottarli”), o all’interno dei plessi in una sede, o in alcune classi. Sempre di più le famiglie italiane tendono a evitare le “scuole degli stranieri” tanto da dover fronteggiare il fenomeno della differenza tra “scuole forti” e “scuole deboli”. In queste ultime vi è la tendenza ad rendere più indulgenti le valutazioni, con la conseguente amplificazione delle disuguaglianze.

Un progetto di accoglienza deve quindi tener presente queste dinamiche, affrontando la problematica della distribuzione non tanto in un’ottica compensativa, quanto di valorizzazione delle risorse esistenti. Le esperienze più innovative realizzate in Italia prevedono di stabilire protocolli di accoglienza e inserimento a livello territoriale mediante patti tra scuole e Enti locali, convogliare risorse

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aggiuntive alle scuole con maggiori necessità, porre attenzione alla distribuzione nelle classi, realizzare il coinvolgimento dei genitori italiani.

Tra i criteri qualitativi vanno, quindi, tenuti presenti:

capacità della scuola di gestire la distribuzione a livello di istituti, plessi, classi (con patti territoriali e accordi di rete), soprattutto mediante protocolli comuni e criteri condivisi;

finalità dell’accoglienza, mirata all’inserimento individualizzato più che al rapido adattamento dell’alunno a tempi e modalità di organizzazione dell’istituto;

attenzione specifica all’accoglienza graduata secondo i tempi di arrivo degli alunni;

presenza di insegnanti incaricati e non solo insegnanti di classe. Materiali ad hoc – tradotti nelle varie lingue, guide di orientamento, informazioni per la famiglie etc., anziché generici;

capacità di gestire e pensare l’immagine della scuola come luogo della pluralità anziché del disagio (soprattutto tenendo conto che sempre di più gli alunni “immigrati” sono nati in Italia o cresciuti qui).

5.1.2 Italiano come seconda lingua L’insegnamento dell’Italiano L2 è ancora uno dei punti-base dell’integrazione, su cui tendono a concentrarsi i progetti delle scuole. In un certo senso, la percezione dell’insegnante resta ancorata all’idea di una “emergenza linguistica” da tamponare rapidamente per poter permettere all’alunno di seguire il passo degli altri. Occorre però sempre di più pensare la qualità dei progetti alla luce di occasioni formative differenziate supplementari, ma non speciali (laboratori linguistici, presenza di facilitatori e mediatori culturali) integrando questo sforzo in un più ampio programma di educazione interculturale, coinvolgente tutta la classe, impostata secondo la logica della pluralità. In questo senso, l’insegnamento della L2 dovrebbe uscire dall’impostazione episodica, per acquisire la logica del percorso disciplinare vero e proprio, strutturato e stabile nel tempo. I modelli consolidati attualmente diffusi in Italia prevedono l’insegnamento dell’Italiano L2 ad alunni neo-arrivati e non ancora italofoni con un congruo orario settimanale, in piccoli gruppi, avvalendosi di insegnanti specializzati; tale organizzazione va svolta in forma sistematica e progressiva, con un’articolazione didattica puntuale. Inoltre, deve qualificare il progetto l’utilizzo di strumenti per la definizione dei diversi livelli di competenza di “Italiano-base” e “Italiano per lo studio” che tengano conto del Quadro comune europeo; modelli organizzativi integrati nel lavoro di classe; personalizzazione del curricolo.

Oltre alla quantità sufficiente di figure impegnate nell’organico funzionale, un progetto deve poter impostare la qualità sulla competenza e formazione degli insegnanti e dei facilitatori linguistici e sul loro coordinamento, in stretta collaborazione con i docenti dell’area linguistica.

I punti di qualificazione del progetto si presentano quindi nel seguente modo:

articolazione dell’intervento a livello sistematico anziché “a progetto”, con adeguata strutturazione nel percorso scolastico;

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utilizzo di strumenti per la definizione dei diversi livelli di competenza di Italiano-base e Italiano-per-lo-studio che tengano conto del Quadro comune europeo;

interventi integrati nella vita della classe, essa stessa un “laboratorio”;

metodologie specifiche e materiali mirati (modelli di test di accesso, strumenti didattici);

insegnanti specialisti e/o formati adeguatamente, coordinati al loro interno.

5.1.3 Valorizzazione del plurilinguismo La scuola italiana è attualmente plurilingue, sia in quanto prevede l’insegnamento di lingue comunitarie, sia per la presenza del plurilinguismo degli alunni immigrati. La diffusione di quest’ultimo è un’opportunità per tutti, qualificante i progetti interculturali, che trova la sua ragione anzi tutto nei diritti della persona, in particolare attraverso il mantenimento della Lingua e Cultura d’origine (LCO). Esso valorizza, inoltre, il Piano di Offerta Formativa delle scuole, poiché evidenzia il rapporto stretto esistente tra lingua e cultura, contribuendo ad arricchire ed aprire gli orizzonti mentali e culturali degli alunni. Il plurilinguismo rende coscienti dell’esistenza di altre modalità di comunicazione , aumentando la capacità di decentramento e sviluppo cognitivo di tutti gli alunni. L’insegnamento della lingua d’origine, tuttavia, trova notevoli ostacoli di realizzazione a causa soprattutto dell’elevato numero di gruppi linguistici presenti nelle scuole italiane (circa 60) e delle difficoltà nell’inserire l’insegnamento all’interno del curricolo e del calendario scolastico.

Criteri qualificanti potrebbero essere considerati:

valorizzazione del plurilinguismo attraverso l’insegnamento, con relativa visibilità nella scuola;

capacità da parte della scuola di effettuare, attraverso l’insegnamento di LCO, un riconoscimento della cultura delle famiglie immigrate, specie in situazioni di “conflitti” culturali;

coinvolgimento di gruppi e comunità di appartenenza e associazioni italiane e straniere;

presenza di insegnanti madrelingua;

metodologie innovative nella trasmissione del patrimonio delle lingue e degli alfabeti.

5.2 Interazione interculturale

5.2.1 Relazioni a scuola e nel tempo extrascolastico L’intercultura in classe assume il significato di un paradigma per l’intero sistema-scuola. In questo senso, non significa concentrare l’attenzione sul recupero degli immigrati come “alunni-problema”, ma integrare questo sforzo in un più ampio programma di educazione interculturale, coinvolgente tutta la classe. Tale approccio interculturale è fondato su una concezione dinamica della cultura, espressa

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soprattutto nell’ambito delle relazioni tra l’insegnante e gli alunni e tra gli alunni stessi.

In passato, da parte di molti insegnanti è stata assunta una concezione culturalista, che tende a confrontarsi con le “culture d’origine” in quanto tali, e che rischia di assolutizzare l’appartenenza etnica degli alunni, predeterminando i loro comportamenti e le loro scelte. Una concezione personalista della cultura, invece, valorizza le persone nella loro singolarità e nel modo irripetibile con cui vivono gli aspetti identitari, l’appartenenza, il percorso migratorio. La relazione interculturale opera il riconoscimento dell’alunno con la sua storia e la sua identità, evitando, tuttavia, ogni fissazione rigida di appartenenza culturale e ogni etichettamento.

Si tratta, quindi, di fare della classe e della scuola un luogo di comunicazione e cooperazione. In questo senso, sono da sviluppare le strategie di apprendimento cooperativo che, in un contesto di pluralismo, possono favorire la partecipazione di tutti ai processi di costruzione delle conoscenze.

Alcuni criteri qualificanti i progetti, i questa prospettiva, potrebbero essere:

realizzare in tutto l’assetto scolastico (relazioni, clima della scuola, attività didattiche etc.) una comunicazione interculturale basata sul confronto e sullo scambio;

svolgere attività interculturali e strategie centrate sull’alunno e sulla promozione della soggettività individuale anziché basate sul mantenimento dell’identità culturale intesa come oggettiva e statica (i “cinesi” gli “albanesi”);

attività interculturali rivolte a tutti anziché specifiche per gli immigrati (evitando folklore o esotismo);

scelte consapevoli da parte degli insegnanti rispetto alle differenze di valori in senso universalistico (ogni cultura ricondotta a un principio unico) o relativistico (ogni cultura valida ma difficoltà nel dialogo tra di esse);

considerazione di tutte le diversità presenti nella scuola, non solo etniche (sociali, età, di genere etc.);

didattiche differenziate basate sulla cooperazione e sul “fare con gli altri”.

5.2.2 Interventi sulle discriminazioni e i pregiudizi Stereotipi, pregiudizi, forme di etnocentrismo possono fare da elemento scatenante della xenofobia o del vero e proprio razzismo, nelle sue varie forme e livelli (da quello scientifico a quello non teorizzato ma ugualmente pericoloso). La scuola, anziché tacere o sottovalutare questi fenomeni, deve considerare l'educazione antirazzista come uno degli obiettivi all'interno dell'intercultura, anche se non coincide interamente con essa. Respingere il razzismo significa, dunque, contrastare la costruzione dell’altro come nemico e una visione essenzializzata e stereotipata di esso. Per fare ciò è necessario che gli educatori si interroghino sulle forme assunte dai pregiudizi e dagli stereotipi verso la diversità (etnica, sociale etc.), con relativi comportamenti xenofobi e razzisti (e nello specifico anche di antisemitismo, islamofobia, antiziganismo), sulle condizioni per affrontarli e sulle strategie da porre in atto.

Un progetto di educazione interculturale che abbia tra gli obiettivi la prevenzione delle discriminazioni e la promozione della comprensione reciproca deve tendere a

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svilupparsi su due dimensioni complementari: da un lato ampliare il campo cognitivo, fornire informazioni, promuovendo la capacità di decentramento, con l’obiettivo di mostrare la varietà di punti di vista da cui osservare una situazione, organizzandone lo scambio; dall’altro agire anche sul piano affettivo e relazionale, attraverso il contatto, la condivisione di esperienze, il lavoro per scopi comuni, la cooperazione. La scelta delle strategie dovrà soprattutto essere fatta nel senso della "convergenza", mirando cioè maggiormente alla ricerca dell'inclusione, di ciò che unisce.

Possono essere considerati criteri qualificanti di un progetto sul pregiudizio e sulla costruzione della cittadinanza, le dimensioni seguenti:

prevedere e configurare il ruolo attivo del docente e dell’educatore come animatore di convivenza, affrontando i meccanismi di esclusione e discriminazione che si creano nei gruppi, soprattutto di adolescenti;

integrare la dimensione cognitiva (il sapere), affettiva (atteggiamenti ed emozioni..) e di azione (comportamenti e impegno);

basare le azioni sulla percezione della complessità decostruendo una visione “essenzializzata” dell’altro come “nemico”;

formulare le caratteristiche delle strategie : partecipative e di coinvolgimento anziché frontali o declaratorie, organiche anziché estemporanee;

evitare l’accentuazione della diversità, privilegiando invece ciò che crea convergenza e inclusione nei gruppi e tra le persone.

5.2.3 Prospettive interculturali nei saperi e nelle competenze Non esistono oggetti intrinsecamente interculturali, ma ogni argomento o dato può essere visto in una prospettiva interculturale. L’approccio alle discipline scolastiche (storia, letteratura, geografia, scienze etc.) deve essere quindi rivisto in senso interculturale, per rendere consapevoli gli alunni degli apporti e degli intrecci delle diverse culture allo sviluppo umano. Tutte le discipline possono offrire la possibilità di un’integrazione sia nei contenuti (diritti umani, fenomeno delle migrazioni) sia del potenziale critico. In particolare, la prospettiva interculturale può essere collocata all’interno di una nuova “Educazione alla cittadinanza” in senso attivo, sia nelle forme previste dal vigente curricolo, sia negli spazi offerti all’autonomia delle scuole per elaborare una coesione sociale messa alla prova dalle differenze. Si vuole, di conseguenza, esaminare la capacità della scuola e dei singoli insegnanti nell’inserire uno “sguardo interculturale” all’interno dei saperi trasmessi.

In particolare, va sottolineato che l’educazione interculturale, entrata di diritto nella programmazione scolastica con la diffusione di vari documenti e circolari ministeriali, resta tuttora un tema extra-curricolare. Le soluzioni messe in atto finora nelle scuole italiane restano nella maggior parte dei casi estemporanee (attività interculturali inserite in determinati periodi nella programmazione scolastica) o specifiche (aggiunta di una materia ad hoc – come Lingua e cultura d’origine (LCO) – da affidare ad un insegnante già in organico o specializzato) o viene adottata la soluzione “delle materie ospitanti” (individuazione di contenuti interculturali all’interno di discipline (storia, geografia, educazione civica, etc.). Pur non sottovalutando questo tipo di iniziative, va considerato criterio di qualità la realizzazione di un impianto diffuso che implica la revisione di tutto l’impianto curricolare.

Vanno quindi analizzati come criteri:

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la scelta di svolgere approcci all’insegnamento di tipo “inter” anziché “mono”;

l’introduzione degli approcci all’apprendimento per “infusione” anziché in modo aggiuntivo;

la collocazione organica della prospettiva interculturale nel curricolo, anziché estemporanea o episodica;

la realizzazione, anche nei contenuti di insegnamento, di una vera e propria educazione alla cittadinanza mirante alla convivenza nella complessità per creare coesione sociale - pur nella diversità culturale, sociale, religiosa - e non solo alla costruzione dell’identità nazionale.

5.3 Gli attori e le risorse

5.3.1 Organizzazione della scuola La scuola è un’organizzazione complessa che eroga formazione. Sotto questo profilo l’organizzazione del servizio scolastico acquista un rilievo decisivo nella traduzione operativa quotidiana delle dichiarazioni presenti nel Piano dell’Offerta Formativa. Si possono prendere in considerazione alcuni snodi dell’organizzazione scolastica per individuare quali strategie organizzative possano essere più favorevoli alla promozione di scuole per il successo scolastico di tutti, a partire da alti tassi di diversità culturale. Uno degli aspetti più importanti è quello relativo all’organizzazione delle Commissioni, ed in particolare alla loro integrazione nell’Istituto (interazione dei membri del Team, capacità decisionale e altro). La qualità organizzativa è infatti incrementata dalla coesione interna all’Istituto che non delega il “problema intercultura” come aggiuntivo o marginale ad un gruppo o a singoli docenti, ma riesca a renderlo dimensione e prospettiva stabile della scuola. La Commissione può e deve elaborare proposte che esprimono una matura riflessività pedagogica ed educativa.

Nella stessa direzione, la leadership (dirigenza e staff) può rendere l’intercultura fattore di innovazione, stimolando il corpo insegnante a ripensare in senso inclusivo tutte le attività pedagogico-didattiche. Inoltre, fattore importante dal punto di vista organizzativo saranno i raccordi con l’esterno, nella forma di reti, intese e formazione di gruppi interprofessionali con gli operatori del territorio.

Tra i criteri di qualità avremo quindi:

organizzazione della Commissione Intercultura d’Istituto composta con criteri oggettivi oltre che sulla base di interessi personali, con compiti di innovazione anziché gestione dell’emergenza;

funzioni della/e Commissione/i, oltre che organizzativo, di tipo propositivo e riflessivo, integrati nell’azione complessiva dell’Istituto;

leadership educativa a rete nella prospettiva di trasformazione della scuola secondo criteri inclusivi e non di successo di alcuni.

formazione di gruppi interprofessionali con operatori del territorio.

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5.3.2 L’autonomia e le reti tra istituzioni scolastiche,società civile e territorio L’autonomia delle scuole permette di far fronte in modo mirato alla grande varietà di situazioni presenti nelle scuole (numero degli immigrati, paesi di provenienza, risorse, contesto del territorio…). La collaborazione tra scuola e territorio può, allo stesso tempo, fornire le risorse per affrontare i problemi in modo integrato (distribuzione, rapporti con le famiglie, problematiche sociali etc.). Un progetto pilota avrà tra i suoi obiettivi quelli di potenziare e portare a sistema sia le buone pratiche esistenti nelle scuole sia gli esempi di collaborazione interistituzionale nel territorio. La progettualità della scuola dovrà essere quindi considerata su linee di innovazione, e non soltanto di risposta a bisogni, e valutata sulla base della sistematicità della collaborazione interistituzionale: Particolare importanza va data alla composizione di reti di scuole, non solo su problemi ma anche per scambio e diffusione delle risorse.

Tra i criteri qualitativi avremo:

progettualità innovativa della scuola, in cui i bisogni specifici degli alunni immigrati vengono affrontati a livello sistemico;

presenza di esperienze stabili e non solo temporanee di collaborazioni con Enti locali, istituzioni, volontariato etc.;

utilizzo delle reti tra scuole a partire da bisogni specifici per affrontare una progettualità complessiva.

5.3.3 La formazione dei docenti, del personale non docente, dei dirigenti scolastici

L’intercultura così prospettata necessita di una nuova formazione degli insegnanti come “sensibili alle culture”. Ciò significa una formazione critica e riflessiva anziché prevalentemente conoscitiva o di tipo informativo-culturale. I criteri qualitativi investiranno, quindi, la capacità della scuola di integrare la formazione nella progettualità complessiva, in collaborazione anche con esterni, su alcuni punti centrali, quali l’impianto teorico-critico sulle tematiche fondamentali dell’intercultura, il sostegno all’autoriflessività e all’interpretazione della cultura soggettiva degli alunni, le competenze relative all’inserimento della prospettiva interculturale nelle discipline, una formazione specifica sul pregiudizio e gli stereotipi.

In sintesi:

formazione considerata parte integrante del progetto della scuola in campo interculturale, realizzata anche in collaborazione con esterni;

contenuti della formazione non solo conoscitivo- informativi ma centrati su questioni di fondo interculturali, sulla lettura dinamica dei cambiamenti culturali degli alunni e della società;

competenze fornite dalla formazione di tipo riflessivo-esperienziali anziché applicative.

5.3.4 Relazione con le famiglie straniere e orientamento La relazione con le famiglie immigrate pone l’attenzione a tre livelli: coinvolgimento al momento dell’accoglienza, partecipazione attiva durante il percorso scolastico, orientamento nella scelta della scuola. Tale rapporto può essere concepito in modi

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molto diversi, sia in senso di problema da risolvere, sia di risorsa da sfruttare. Nel primo caso, le famiglie immigrate sono destinatarie di informazioni e sollecitazioni volte a favorire l’adattamento alla istituzione scuola, superando gli ostacoli posti dalle differenze culturali e dai problemi di comunicazione; nel secondo, tutte le famiglie sono spinte a divenire protagoniste di una comunicazione scuola-famiglia centrata sulla personalità dell’alunno, i suoi atteggiamenti e la sua storia, superando il mero rapporto basato sul rendimento scolastico. In questo senso va anche la promozione della partecipazione delle famiglie immigrate, spesso ostacolata da mancanza di tempo e di strumenti culturali.

La scuola accogliente può creare nuove modalità di incontro con le famiglie, di tipo flessibile, centrate sullo scambio educativo e non solo sulla comunicazione mono-direzionale. L’alunno può essere considerato il go-between tra la famiglia e la scuola, realizzando una comunicazione anche di tipo indiretto. Attraverso i figli è possibile modificare un’immagine della scuola a volte di tipo istituzionale, aprendo nuove possibilità di partecipazione

La mediazione culturale è una risorsa importante per la relazione scuola-famiglia. L’uso dei mediatori risponde però a criteri qualitativi non sempre seguiti dalle scuole. Il mediatore può essere impiegato per la traduzione delle comunicazioni scolastiche, la partecipazione a momenti di educazione interculturale, in modo integrata con gli altri servizi territoriali. In realtà, copre a volte funzioni improprie (quali l’insegnamento Italiano L2 o la gestione situazioni di disagio) o assume compiti sostitutivi dell’insegnante, anziché integrativi.

Tra i criteri qualitativi dei progetti troveremo:

presenza di elementi facilitanti la partecipazione delle famiglie immigrate attraverso informazioni pertinenti e accessibili e misure di accompagnamento;

condivisione del progetto pedagogico della scuola;

orientamento delle famiglie nella scelta della scuola;

funzioni dei mediatori nell’ambito delle relazioni e accompagnamento anziché per compiti impropri.

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6. RELAZIONI CON LE FAMIGLIE5

Una realtà nuova Agli inizi della sua manifestazione, il fenomeno migratorio è stato caratterizzato da vari elementi che ne accentuavano la natura intrinsecamente temporanea, episodica o semi-nomade, che aveva tra le sue conseguenze uno scarso radicamento nei paesi ospitanti. Nel caso dell’immigrazione maghrebina o africana prevalevano, infatti, soggetti maschi adulti e soli; in altri, invece, donne che hanno successivamente attuato ricongiungimenti familiari. Anche nei casi in cui non fossero dediti a lavori di tipo stagionale, gli uomini immigrati concepivano comunque la loro presenza come un’esperienza limitata nel tempo e mantenevano affetti e legami principalmente nei paesi d’origine. La stessa destinazione dei guadagni percepiti era orientata in tal senso: poter metter su casa al ritorno, mantenere una famiglia laggiù, intraprendere in terra d’origine qualche attività finanziata dai risparmi via via messi da parte.

Con i ricongiungimenti familiari, tale prospettiva non è del tutto sfumata, ma si è notevolmente modificata: vi sono certamente ancora parenti rimasti in patria da sostenere, ma la presenza accanto all’immigrato della moglie e dei figli distoglie parte del reddito e delle attenzioni dal mai definitivamente tramontato sogno del ritorno a casa, che inevitabilmente viene sempre procrastinato e virtualmente escluso dalla maggioranza, complici non soltanto le condizioni politiche ed economiche del luogo di provenienza - spesso immutate, talvolta persino peggiorate - ma anche un senso di appartenenza meno aleatorio rispetto al paese in cui ci si trova.

L’arrivo di mogli e figli, o le famiglie costituitesi addirittura qui, hanno un notevole peso nel determinare tale mutamento di prospettiva. Ovviamente non si tratta soltanto di un diverso utilizzo delle risorse economiche. Raggiungendo i mariti, le donne si trovano nella possibilità e talvolta nella necessità di contribuire al bilancio domestico con qualche attività lavorativa, ma anche quando restano a casa per occuparsi della famiglia, ricevono stimoli a concepire il proprio ruolo diversamente da come lo avrebbero giocato in patria. I figli, poi, nascendo o arrivando in un altro paese fin dalla più tenera età, fatalmente si trovano in una posizione differente rispetto ai genitori. Essi non sono immigrati, non hanno mai fatto tale scelta né hanno vissuto consapevolmente quella dei genitori. Tanto meno ne condividono nostalgie o progetti a lungo termine. Il radicamento nella società ospitante con essi fa un passo decisivo verso l’integrazione. Fin dal livello primario della lingua. Conosciuta poco e male dai padri, spesso occupati in lavori manuali e quindi poco interessati a svilupparne l’apprendimento, la lingua locale non può più restare per essi al livello della mera sopravvivenza.

Occuparsi di molte questioni relative all’alloggio, alla salute e all’istruzione costringe anche i genitori a cercare di allargare le proprie competenze linguistiche. Nel momento della scolarizzazione dei figli, poi, una serie di delicate mediazioni sono operate giorno per giorno: l’età e l’impegno scolastico di questi ultimi da un lato favoriscono e dall’altro esigono un ulteriore passo in avanti al quale il resto della

5 Di Paolo Branca, Università Cattolica di Milano.

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famiglia non può rimanere indifferente. Quale lingua parlare in casa? A quale dare la priorità nell’apprendimento di lettura e scrittura? Nel giro di poco tempo, anche i bambini più piccoli diventano più competenti dei loro stessi genitori nella lingua locale, con esiti talvolta imbarazzanti e/o divertenti a proposito della pronuncia scorretta di suoni o espressioni destinati a rimanere esotici e mal padroneggiati dai ‘grandi’, mentre i ‘piccoli’ li utilizzano con perfetta disinvoltura.

I sentimenti con cui tali trasformazioni vengono percepite sono connotati da una forte ambiguità: l’orgoglio verso un figlio tanto abile convive con il timore che appartenga ormai a un mondo non completamente sotto controllo. Il ruolo autorevole dei genitori può subire qualche scossone, non tanto nell’età infantile, ma soprattutto nella delicata fase dell’adolescenza. Ritenuto comunque ‘straniero’ dalla società ospitante, il giovane dovrà anche gestire la scomoda posizione di chi lo vedrà inevitabilmente (specie tra i parenti rimasti in terra d’origine) come un connazionale a mezzo servizio, magari ammirato per le migliori condizioni economiche, ma deprivato di una parte dell’identità originaria. Cosa che avrà il suo peso specialmente in alcuni passaggi delicati, come la scelta del partner. Laddove, per ragioni culturali e/o religiose, prevalga il timore di un progressivo annacquamento dell’identità originaria, al momento del matrimonio - oltre che le consuete reti - la stessa famiglia emigrata può esercitare varie forme di condizionamento, se non di pressione, affinché la scelta del futuro coniuge sia fatta tra quanti sono rimasti in patria e garantirebbero quindi un apporto di ‘sangue’ genuino a chi, almeno in parte, viene considerato deficitario rispetto a una ipotetica identità originaria.

Una realtà da conoscere Molte di queste dinamiche restano spesso poco accessibili anche agli osservatori più attenti. A parte la barriera linguistico-culturale, occorre tenere presente che tali famiglie provengono da luoghi ove le istituzioni sono assenti o prepotenti, per cui d’istinto cercano di evitare ogni contatto con esse che non sia indispensabile. Anche in assenza di un simile vissuto negativo, la situazione non sarebbe probabilmente diversa da quella dell’Italia di non molti anni fa, quando prevalevano comunque reti informali di mutua assistenza e il contatto con enti pubblici si limitava a questioni amministrative o a casi d’emergenza. Lo stato di bisogno, in senso lato, dei nuovi arrivati li mette tuttavia in una posizione potenzialmente favorevole.

Iniziative di informazione e di ascolto possono dunque trovare accoglienza, partendo da esigenze di base ma non senza l’ambizione di una formazione alla partecipazione come obiettivo a medio-lungo termine. Le ricadute più significative sono quelle che si riflettono sulle donne e sulle giovani generazioni. Da un lato, la loro dipendenza economica dovuta al genere e all’età, oltre che alle non codificate gerarchie sociali delle culture d’origine ove il ruolo del maschio adulto è ancora prevalente, ne limitano lo spazio d’azione, ma dall’altro è proprio a loro che l’innesto in una società moderna, libera e secolarizzata offre più immediate chances di ridefinizione dei propri ruoli. L’attivismo nella sfera pubblica di molte donne, spesso al servizio di altre donne di analoga estrazione, è già una realtà, così come non sfugge che le studentesse sono generalmente più motivate e attive dei compagni maschi nell’impegno scolastico e in quello sociale.

Quando possono permetterselo, negli studi - sia i ragazzi che le ragazze - spesso scelgono specializzazioni di tipo tecnico-scientifico (medicina, ingegneria...) e rimangono pertanto sguarniti sul versante umanistico, il che li rende facili vittime di

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due fenomeni: un’appartenenza alla cultura italiana da ‘parenti poveri’ da un lato e dall’altro una scarsa consapevolezza della stessa civiltà d’origine, della quale resterebbero paradossalmente i legittimi rappresentanti quanti (spesso altrettanto sprovveduti) che con meno disponibilità, impegno e successo si sono inseriti nel paese che li ospita (il caso è evidente per quanto riguarda ad esempio la leadership dei centri islamici). Se non adeguatamente accompagnato, il fenomeno rischia di sviluppare nei giovani una doppia morale, in casa formalmente rispettosa di tradizioni ataviche mai messe in discussione, fuori varie forme di compromesso delle quali quelle assimilazioniste non sono sempre necessariamente migliori di quelle conservatrici: portarsi nella borsa abiti con cui cambiarsi appena fuori dalla portata dello sguardo paterno può preludere a esiti peggiori che un velo autonomamente indossato, per convinzione o per far piacere ai genitori. Anzi, in questo caso, dover affrontare le non poche riserve dei coetanei e dell’ambiente in un’età delicata dove prevale lo spirito del branco e l’acritico uniformarsi all’ultima moda (per quanto idiota possa essere) può perfino produrre effetti positivi sulla formazione di un carattere indipendente più di qualsiasi micro-gonna portata con falsa naturalezza o con autentica incoscienza. Il coraggio di essere diversi, diversi davvero e per questo magari dileggiati, accettare di essere minoranza (etnica, linguistica, religiosa...) non è cosa da poco: tingersi i capelli di verde, mettersi un piercing o tatuarsi come un aborigeno è in fondo molto più semplice.

Casi limite, come le violenze contro figlie ribelli, sono solamente la punta di un iceberg che attira di quando in quando l’attenzione dei media, pronti a gridare allo scandalo per poi distrarsi fino al prossimo fatto di cronaca eclatante. Com’è noto, gli iceberg emergono dall’acqua solo con una percentuale risibile della loro massa. Un monitoraggio in profondità della situazione porterebbe a una conoscenza più complessiva delle dinamiche in atto, col vantaggio di consentire forme di prevenzione rispetto a possibili degenerazioni, ma soprattutto una visione più globale del fenomeno che consentirebbe l’elaborazione di progetti d’intervento complessivi e di maggiore efficacia.

Una realtà da approfondire Non sono tuttavia questi i problemi che appaiono immediatamente agli occhi di chi osserva le cose in forma affrettata e superficiale. Intervenire sul fenomeno delle migrazioni, significa - in un primo tempo - avere prevalentemente a che fare con necessità di base: alloggio, lavoro, salute. Le numerose e lodevoli iniziative che cercano di rispondere ai bisogni primari degli immigrati sono tuttavia, nella maggior parte dei casi, carenti se non del tutto prive di una dimensione culturale che le supporti e le sappia orientare. Si fa, cioè, semplicemente quel che c’è da fare, senza domandarsi troppo dove si stia andando. Si rimane in altre parole indifferenti, e quindi passivi, rispetto all’esito globale di quanto si intraprende, con una ingenua fiducia che, spontaneamente, le cose si aggiusteranno da sé cammin facendo, pretendendo che le buone intenzioni bastino a produrre in definitiva anche buoni frutti. Sembra quasi che non si abbia nulla da dire o da proporre a chi, accanto al basilare ma non certo esaustivo desiderio di trovare condizioni di vita migliori, è portatore anche di altre domande che non sappiamo interpretare principalmente perché noi stessi siamo i primi a non porcele più.

Insieme ad altri paesi dell’Europa meridionale (ma non solo, se pensiamo al caso dell’Irlanda), l’Italia ha inoltre un proprio vissuto di non poco conto a proposito del

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fenomeno migratorio. Italiani (e irlandesi), in quanto cattolici e quindi papisti, provenienti da zone rurali e dunque analfabeti, superstiziosi e maschilisti erano visti con sospetto, se non con disprezzo, nei civili paesi del nord Europa o negli Stati Uniti, fino non proprio a moltissimi anni or sono. Ci volle del tempo perché si superassero molti pregiudizi nei loro confronti. Talvolta la diffidenza che incontrarono non fu del tutto ingiustificata: forme di criminalità organizzata si diffusero tramite alcuni di essi anche oltreoceano. Questo significa forse che le discriminazioni di cui furono oggetto siano state legittime? Ciò che è comprensibile in taluni casi non può mai diventare giustificabile in generale. E’ una lezione che avremmo dovuto imparare sulla nostra pelle, ma si fa presto a dimenticare. Certe parentele scomode si finisce per cancellarle, specialmente dopo che si è raggiunto un determinato grado di benessere. La vita sacrificata di intere generazioni che hanno contribuito allo sviluppo di tanti paesi diventerebbe così solo un imbarazzante incidente di percorso, un danno collaterale che sembra fastidioso e di cattivo gusto riportare alla mente. D’altra parte, le cose sono cambiate troppo in fretta: nel giro di pochi decenni, da paese di emigrazione siamo diventati meta di una crescente immigrazione. E’ del tutto naturale che la cosa ci spaventi. Il modo in cui tale fenomeno si sta sviluppando non è certo sempre il migliore. Più che realmente gestito, ci sembra una specie di evento atmosferico che ci ritroviamo a dover subire passivamente. E’ giusto pretendere che chi deve regolamentarlo lo faccia con saggezza e con rigore. Ma ricordare che non molto tempo fa eravamo dall’altra parte della ‘barricata’ potrebbe stimolarci a considerare soprattutto la dimensione umana di quanti approdano sulle nostre sponde. Al di là delle differenze di lingua, mentalità e fede religiosa (che si sono e non vanno sottovalutate) si tratta nella maggior parte dei casi di persone che cercano soprattutto condizioni di vita migliori, un lavoro dignitoso, la libertà di poter decidere del proprio futuro… Non sempre trovano quello che cercano. Ma quando ci riescono provano in genere un profondo senso di gratitudine. Alla parte migliore di loro, che condivide con noi i medesimi timori e le stesse speranze, dovremmo dare maggiore attenzione, nel nostro stesso interesse. Una volta che avremo fatto gli uni verso gli altri almeno qualche passo, molti ostacoli che ora ci sembrano insormontabili probabilmente si ridimensioneranno. Resteranno sicuramente alla fine differenze irriducibili. Anche queste fanno parte della vita. Se pensassimo soltanto a queste, i nostri stessi rapporti familiari diventerebbero insopportabili.

Una realtà su cui intervenire Il prezzo della nostra pochezza, che ci impedisce di prendere l’iniziativa, è la condanna a subire quella altrui. Potremo anche rispondere negativamente alle richieste che ci verranno poste - quando fossero delle assurde pretese - ma se continueremo a non fare il primo passo, avremo giocato solo “di rimessa” e resteremo fatalmente vittime dell’intraprendenza dei nostri interlocutori. Tra questi, oltretutto, finiranno per farsi avanti non necessariamente i più ragionevoli o rappresentativi, ma - com’è accaduto di recente nella polemica relativa al crocefisso - quelli che sapranno con maggiore scaltrezza insinuarsi nelle pieghe delle nostre contraddizioni, senza alcun rispetto per i valori autentici delle grandi tradizioni religiose che avranno buon gioco a strumentalizzare in una sconfortante sceneggiata in cui ciascuno darà il peggio di se stesso: una partita meschina fatta di ricatti e basata sull’ambiguità.

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Come abbiamo già detto, quando - dopo la prima fase del processo migratorio che ha visto prevalere giovani maschi soli - si passa alle problematiche dell’educazione, significa che un sottile ma decisivo confine è stato superato. A porsi il problema della scuola per i propri figli non sono ormai più singoli individui in condizioni precarie. Poter mandare i propri figli a scuola significa aver prima creato una situazione di relativa stabilità di affetti, di lavoro, di posizione sociale ed economica. Una società matura e responsabile non può trascurare i bisogni di questi nuclei familiari, anche perché essi rappresentano la parte più evoluta e stabile della gran massa degli immigrati e persino il più efficace anticorpo contro le possibili derive in fenomeni di marginalità e di devianza, compresa la criminalità e persino la militanza in gruppi eversivi. Offrire risposte adeguate alla richiesta di formazione e di educazione non è quindi affatto un lusso, ma primariamente opera di promozione umana e prevenzione sociale. L’ideale è certo che ciò possa avvenire nelle istituzioni scolastiche pubbliche, che dalla valorizzazione dei patrimoni culturali dei nuovi arrivati potrebbero addirittura trarre motivo di arricchimento, prendendo spunto, ad esempio, per ripensare insegnamenti e metodologie nel quadro della realtà sempre più pluralistica in cui sono inserite. In mancanza di simili alternative, qualcuno può intraprendere la discutibile via del “fai da te”, fuori dagli ordinamenti vigenti e creando una sorta di società parallela o addirittura di corpo estraneo rispetto al Paese ospitante. La filosofia che ispira tali scelte, quand’anche fossero fatte in buona fede, rappresenta un pericolo per gli utenti di simili imprese e rafforza in essi la già troppo diffusa mentalità secondo la quale in Italia si può fare un po’ quel che si vuole, in attesa di qualche sanatoria.

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7. GLOSSARIO6

Accettazione L’accettazione comprende l'esperienza basilare di essere preso in considerazione in maniera positiva, di ricevere attenzione, amore, di essere protetti e curati. Tale concetto, assieme a quelli di empatia e di congruenza, sono stati individuati da C. Rogers (1970) come elementi indispensabili per la riuscita di una terapia. In base ai risultati di una ricerca di Portera (2005), si sono rivelati come bisogni fondamentali per il sano sviluppo della personalità: nessun soggetto può rinunciare al loro appagamento.

Il bisogno di essere accettato a prescindere dalle proprie modalità comportamentali o da aspetti esteriori (come colore della pelle, religione, lingua, idee), in maniera appunto incondizionata, è un'esperienza indispensabile per ogni soggetto ed assume una significanza ancora superiore in contesto migratorio o multiculturale. Nel settore educativo spesso si confonde l’accettazione, che è incondizionata, va sempre data alla persona, all’essere umano, con l’essere d’accordo: che dipende di volta in volta. La persona di riferimento (educatrice o insegnante) dovrebbe riuscire a soddisfare tali bisogni del bambino, anche nei casi in cui non condivide alcune sue idee o modalità comportamentali: dovrebbe dare accettazione e riconoscimento in modo gratuito, senza condizioni o ricatti. La mancanza o l’insufficiente accettazione da parte degli educatori principali (nel senso anche di “amore condizionato”), possono causare lo sviluppo di personalità nevrotiche, con gravi disturbi psicologici a livello cognitivo, emotivo o comportamentale. I disturbi possono riguardare il settore dell’autostima e manifestarsi sia come mancanza di autonomia, e ricerca di approvazione da parte dell'ambiente sociale circostante (piegandosi alle opinioni e alle decisioni degli altri), sia mediante lo sviluppo di impulsi aggressivi, distruttivi (distruzione di oggetti, aggressione a persone) o autodistruttivi (anche in forma di dipendenza da droghe).

Appartenenza L’appartenenza potrebbe essere considerata un bisogno fondamentale dell’essere umano (Maslow 1954; Portera, 2005). La donna e l’uomo hanno bisogno di sentirsi parte costituente di un determinato gruppo di persone, di percepirsi come simili agli altri e di interagire con loro. A tale scopo vanno ricordati anche il significato dello status sociale o dei mezzi economici di sussistenza (non essere troppo al di sotto degli altri: è più facile accettare la condizione di povero tra poveri che fra ricchi). Nel settore migratorio spesso l’appartenenza è resa più difficile in seguito alle differenze linguistiche, religiose, assiologiche, comportamentali.

Choc culturale Lo choc culturale, concetto legato alla reazione nostalgica, si riferisce ad un vero (o presunto) choc che subentrerebbe dopo l’emigrazione, con il confronto con i diversi modelli di riferimento della società ospitante. Scientificamente tale concetto è 6 Di Agostino Portera, Università di Verona.

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alquanto contrastato. Nell'ambito di una indagine effettuata in Canada, Tyhurst [1995], ha riscontrato dei periodi caratteristici per la reazione psichica al cambiamento del luogo di residenza. Inizialmente prevarrebbe un sentimento di benessere. Dopo circa sei mesi si sarebbe maggiormente coscienti dei problemi quotidiani; il paese di emigrazione verrebbe idealizzato ed apparirebbero alcuni sintomi psichici (come elevata sfiducia, reazioni paranoiche, depressione e aggressività), scaturiti soprattutto in seguito a sentimenti di insicurezza e di paura. Tietze e coll. [1942] e Kantor [1966] hanno constatato una correlazione inversa tra l'insorgere dei disturbi psichici (soprattutto psicosi, nevrosi degli adulti e disturbi comportamentali dei bambini) e durata di abitazione nella stessa casa. Al contrario, Pederson e Sullivan [1964] non hanno riscontrato alcuna correlazione tra il cambiamento di abitazione e i disturbi psichici, mentre molto significativo è risultato l'atteggiamento dei genitori (specialmente della madre) per attenuare i conflitti che scaturiscono in seguito al cambiamento di alloggio.

Lo choc culturale potrebbe essere riferito anche al rapporto interpersonale, fra soggetti culturalmente differenti (non solo rispetto alla nazionalità o all’esperienza migratoria, ma per tutte le caratteristiche: status, ruolo sociale, religione, ecc.) che ha come risultato l’incomprensione. In tale contesto ci si riferisce anche al “metodo pedagogico dell’incidente critico”, elaborato da Margalit Cohen-Emerique, metodo creato per sviluppare presso il professionista della mediazione culturale la capacità di “decentrazione”, ossia la presa di coscienza dei propri quadri di riferimento, attraverso i quali egli concepisce il soggetto “culturalmente differente”, decodifica le situazioni e analizza il problema.

Congruenza Per C. Rogers una «persona completamente sana» (fully functioning person) sarebbe quella che si trova «in perfetta armonia o corrispondenza» tra il proprio Sé e le esperienze quotidiane, in congruenza, appunto: ossia integrata, completa e autentica.

La congruenza, ossia la fedeltà interiore, costituisce un elemento fondante della pedagogia interculturale. Da un’analisi biografica di giovani con esperienze migratorie si può comprendere che gli atteggiamenti contrari - cioè di incongruenza, ambivalenza, discontinuità (anche nel senso del cambiamento della persona di riferimento) e la mancanza di presenza personale - possono ingenerare grave disagio evolutivo con negative conseguenze psichiche e comportamentali. Bambini e giovani di origine straniera molto spesso entrano in contatto con educatori che assumono atteggiamenti incongruenti o ambivalenti, passando dal rifiuto (xenofobia) all’accettazione acritica (xenofilia) di tutto ciò che è diverso. Nel settore scolastico, la congruenza rimanda anche alla capacità dell’insegnante di assumere atteggiamenti coerenti fra i vissuti interiori e le proprie idee e i comportamenti nei confronti degli alunni e colleghi.

Cultura - Identità Sin dall’antichità con cultura si intendeva “il bene più prezioso che sia dato agli uomini”. Il significato originario di cultura deriva dal greco paidéia, che indica, sia l’azione educativa sia il suo risultato; in latino è stato tradotto con Humanitas, limitandone l’ambito e suscitando anche delle ambiguità. Esiste una disciplina che si è interamente dedicata alla ricerca ed alla definizione di tale termine:

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l’antropologia culturale. Sia per l’antropologia sia per la pedagogia con la parola cultura, non si intende quella degli studi classici (o umanistici), bensì tutto ciò che concerne l’uomo e tutto ciò che egli ha prodotto: conoscenze, codici, regole, lingue, rappresentazioni, valori, costumi, comportamenti, interessi, aspirazioni, credenze, miti, pratiche religiose.

In contesto interculturale le culture sono da considerarsi come delle entità altamente dinamiche ed in continua evoluzione. Per tale motivo M. Pretceille (1986) propone di sostituire la parola cultura con «culturalità». Nel momento in cui si descrivono differenze culturali, si effettuano delle “fotografie”, sicuramente vere, valide ed importanti, ma che permettono solo una visione parziale e statica di una realtà complessa. Spesso si commette l’errore di identificare dei confini politici (ad es. quelli di uno stato nazionale) con l’identità culturale: la cultura non si lascia contenere all’interno di un filo spinato. Un successivo errore scaturisce dal credere di poter conservare (o perdere) la propria cultura. La cultura, come l’identità, non si può né acquisire da un momento all’altro, né tanto meno perdere: si tratta di un processo di continua trasformazione, mediante il quale, lungo tutto il corso della vita, più o meno consciamente, si abbandona qualcosa per interiorizzarne un’altra (Portera, 2002a).

Didattica interculturale L’educazione necessità sempre di un obiettivo (non è possibile educare se non si chiarisce il fine), di mezzi (o strumenti) e di un metodo (ossia di una riflessione sul “modo”, il cammino da percorrere; tenendo conto del punto di partenza degli ostacoli da superare e degli obiettivi da raggiungere). La didattica rappresenta, in concreto, ossia in riferimento alla situazione reale, il percorso che si intende seguire.

Riflettere sulla didattica in prospettiva interculturale vuol dire riflettere sulla modalità più idonea alla divulgazione dei principi interculturali. Il fatto che a tutt’oggi esistano solo pochi modelli di didattica interculturale, non scaturisce dallo scarso interesse suscitato dall’argomento, quanto, soprattutto, dalla difficoltà di individuare delle modalità come “tipicamente interculturali”. Se, come accennato, la pedagogia interculturale non può essere divisa nettamente da quella generale (l’oggetto resta lo stesso: l’educando a prescindere da lingua, cultura o religione), anche la didattica generale difficilmente potrà essere nettamente differenziata da quella interculturale. Importante risulta invece aggiungere e sottolineare quei concetti maggiormente presenti in contesto migratorio o di pluralità etnico-culturale, come il rispetto, l’accettazione, il dialogo, la gestione nonviolenta dei conflitti.

Discriminazione Semanticamente, discriminare significa riuscire a discernere e distinguere fra cose o persone, ha una valenza neutra o positiva. In contesto multiculturale, invece, si intende negare a dei soggetti o delle comunità dei diritti o l’accesso a delle risorse, per motivi di carattere etnico, linguistico, religioso o culturale. Pur essendo meno forte, il concetto di discriminazione si avvicina a quello di Xenofobia, al quale si rimanda per conoscerne i risvolti negativi per i soggetti destinatari.

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Discriminazione positiva La discriminazione positiva, a differenza della negativa, generalmente ha dei risvolti positivi (si pensi ad esempio all’importanza dell’effetto Pigmalione, in cui l’insegnante nutre aspettative positive verso l’alunno). Ogni essere umano per un sano sviluppo della propria personalità, necessita di essere accettato, amato e stimato. Se l’educatore nutre delle aspettative positive, questo generalmente favorisce la fiducia e la stima anche nell’educando. Specialmente in contesto migratorio o multiculturale, in cui sono frequenti i casi di insicurezza e di paura, un tale atteggiamento non può non giovare all’educando ed al rapporto con l’educatore.

Sul piano politico-amministrativo il concetto di discriminazione positiva riguarda tutte le misure (introdotte soprattutto in ambienti anglosassoni) che le autorità pubbliche prendono al fine di proteggere certe categorie di persone svantaggiate (ad esempio, cittadini immigrati), allo scopo di realizzare una uguaglianza di fatto che la semplice uguaglianza di diritto non riesce ad assicurare (misure che favoriscono la formazione, l’alloggio, l’occupazione ecc.).

Empatia A differenza della simpatia o dell'antipatia, l'empatia si riferisce alla capacità di comprensione profonda della persona con la quale si sta interagendo, al tentativo di immedesimarsi, di mettersi nei panni degli altri, di calarsi nell'altro possibilmente senza atteggiamenti preconcetti o stereotipi. Ma, a differenza di ciò che si crede nel settore pedagogico, essere empatici significa anche “mantenere una certa distanza”, non perdere il contatto con i propri sentimenti, le proprie idee e le proprie emozioni. In sintesi si tratta di avvicinarsi il più possibile all’altro per conoscerlo da vicino, cercando anche di non perdersi nell’altro, di rimanere fedeli a se stessi. Il modo migliore per realizzare il bisogno di empatia potrebbe consistere in un confronto interpersonale aperto e senza preconcetti (come quello "io e tu" postulato da M. Buber), in cui entrambi i soggetti cercano di entrare in contatto fra loro, senza paura di estraniazione e senza la pretesa di costringere l'altro a pensarla allo stesso modo.

Nel settore migratorio o di pluralismo culturale si assiste sempre più frequentemente a casi in cui è difficile soddisfare tale basilare bisogno. Nonostante tale principio sia fra i più fondanti della pedagogia interculturale, nonostante la comprensione empatica di tipo interattivo con l'ambiente sociale circostante (Mitwelt) in emigrazione assuma una importanza particolare, essa è molto più difficile da realizzare poiché molti dei vissuti, sentimenti e modalità comportamentali dei soggetti stranieri non possono essere compresi mediante categorie prestabilite, stereotipe e culturalmente rigide. Da ciò possono scaturire disagi evolutivi e disturbi comportamentali. Nel caso in cui gli educatori trasmettono messaggi del tipo: «noi riusciamo a capirti meglio di te stesso» e «solo ciò che noi proviamo e sentiamo è giusto», si assiste ad un impedimento nel riconoscimento dei propri sentimenti e emozioni: il modo migliore per divenire stranieri anche a se stessi.

Integrazione Il concetto di integrazione è forse uno dei più impiegati anche nel settore educativo e nel mondo della scuola. Ma spesso non si conoscono bene il reale significato (e le trappole) di tale termine, molto amato dai politici (e molto presente nelle legislazioni scolastiche) ma ambiguo sul piano semantico. A livello sociologico, A. J.

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Copley (1979) distingue due livelli di integrazione: l’integrazione primaria e l’integrazione secondaria. L’integrazione primaria è la fase in cui il soggetto immigrato, pur avvertendo ancora nostalgia dell’ambiente di provenienza, comincia ad interiorizzare i valori del nuovo ambiente e ad adattarsi alla vita nel paese di immigrazione. Nell’integrazione secondaria, invece, l’individuo si estranea completamente dalla sua cultura di provenienza ed interiorizza lingua, valori, norme e modelli di comportamento della società che lo ospita. Inoltre l’integrazione, può essere intesa in quattro modi sostanzialmente diversi:

1. integrazione monistica, quando la cultura, normalmente la più forte, non lascia spazio alla diversità, inglobandola nel proprio sistema di organizzazione: in questi casi si tratta di vera e propria assimilazione;

2. integrazione dualistica o pluralistica, quando due o più gruppi di persone con cultura diverse vivono assieme, nel rispetto reciproco, cercando però di evitare i contatti, per paura di perdere la propria identità: in questi casi si tratta di una confederazione, una sorta di legittimazione delle diversità;

3. integrazione come fusione delle diversità, nel senso modello del melting pot adottato dall’America del Nord, in cui un certo territorio si circa di realizzare un “crogiolo” delle molte culture, mediante la creazione di un ethos comune: modello altamente utopico, che nella realtà dell’America stessa è fallito dando vita al fenomeno del salad bowl (insalatiera);

4. integrazione interazionistica, nel caso in cui persone, appartenenti a gruppi etnici e culturali diversi, cercano non solo di vivere gli uni accanto agli altri, ma anche di interagire assieme (nel senso psicologico di attività nell’attività), tramite un costante scambio di idee, norme, valori e significati.

Pedagogia interculturale Laddove la multi e la pluricultura richiamano a fenomeni di tipo descrittivo, l’aggiunta del prefisso “inter” presuppone la messa in relazione, l’interazione, lo scambio di due o più elementi (Pretceille, 1986). Sono le società ad essere definite come “multiculturali”, nel senso che si rileva la presenza di soggetti portatori di usi, costumi, religioni, modalità di pensiero differenti, mentre la strategia d’intervento educativo è di tipo interculturale: si cerca di mettere in contatto, in interazione, le differenze (Portera, 2003).

La pedagogia interculturale rifiuta espressamente la staticità e la gerarchizzazione e può essere intesa nel senso di possibilità di dialogo, di confronto paritetico, senza la costrizione per i soggetti coinvolti di dover rinunciare a priori a parti significative della propria identità. La pedagogia interculturale si fonda sul confronto del pensiero, dei concetti e dei preconcetti, divenendo una pedagogia dell’essere, dove al centro è posto il soggetto nella propria interezza, a prescindere dalla cultura di provenienza. L’approccio interculturale tiene conto sia delle opportunità sia dei limiti degli approcci precedenti, «si colloca tra universalismo e relativismo, ma supera ambedue in una nuova sintesi» (Santerini, 1994; 2003). Movendo dal rispetto dell’identità culturale altrui, si passa dalla valorizzazione delle peculiarità (strategia multiculturale) e degli elementi comuni (strategia transculturale), al dialogo, al confronto e all’interazione (strategia interculturale).

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Tale cambiamento di paradigma pedagogico, sviluppato in Europa dalla fine degli anni Settanta, è da definire rivoluzionario (Portera, 2006a) nella misura in cui ha permesso di superare le strategie educative a carattere compensatorio, dove l’emigrazione, lo sviluppo e la vita in contesto multiculturale erano intesi solamente in termini di rischio di disagio o di malattia: si prende atto della continua evoluzione, della dinamicità delle singole culture e delle singole identità; l’alunno straniero è considerato in termini di risorsa e si riconosce ufficialmente l’opportunità di arricchimento e di crescita personale che può scaturire dalla presenza di soggetti culturalmente ed etnicamente differenti.

Mentre la pedagogia richiama alla riflessione teorica su tutto ciò che concerne l’educabilità e l’educazione dell’essere umano, l’educazione (in questo caso interculturale) è l’atto pratico, l’azione che l’educatore compie nei confronti dell’educando per dare un proprio apporto sul piano culturale e dei valori, per aiutarlo ad estrinsecare le proprie potenzialità ed a raggiungere la propria forma migliore di vita. In questo caso significa, pertanto, realizzare praticamente i principi della pedagogia interculturale: educazione alla pace, ai sentimenti, all’ascolto, al dialogo, alla gestione dei conflitti, alla legalità ed al rispetto dei limiti.

Razza Il termine “razze umane” è scientificamente privo di fondamento e pedagogicamente improponibile. La storia dell'umanità è una storia di migrazioni. In base agli studi più recenti di paleontologia, genetica, archeologia e linguistica storica, l'origine unica di tutti gli uomini (dell'unica “razza” esistente: quella umana) si localizzerebbe fra l'Africa meridionale, l'Africa orientale ed il vicino Oriente. Sono infatti l'Etiopia e la Palestina a fornire i resti dei nostri antenati più antichi, dell'Homo sapiens sapiens, databili a circa 100.000 anni fa. La forma dei continenti, eventi climatici e necessità alimentari, hanno poi spinto l'essere umano ad occupare aree sempre più vaste del pianeta: circa 20.000 anni fa, il raffreddamento dei poli ha creato una barriera di ghiacciai tra l'Europa e l'Asia del Nord, limitando i contatti; il prosciugamento del Sahara e dell'Africa orientale hanno impedito le migrazioni fra l'Africa ed il vicino Oriente; l'abbassamento del livello del mare ha facilitato il passaggio tra l'Asia e l'America attraverso lo stretto di Bering. Nel corso degli ultimi 10.000 anni, le migrazioni sono state favorite dalla crescita demografica, al momento del passaggio all'agricoltura (neolitico); specialmente negli ultimi due secoli, la fame, le guerre, le persecuzioni politiche ed etniche, la ricerca di lavoro, la voglia di esperienze nuove hanno trasformato il “volto europeo”. Se è vero che gli esseri umani sono tutti parenti ed appartengono ad un’unica razza, è altrettanto vero che sono tutti differenti: esistono evidenti differenze etniche, linguistiche, religiose e culturali che, specialmente in contesto educativo, non possono non essere considerate.

Attualmente la categoria interpretativa che tende a sostituire il concetto di “razza” è “etnia”. Come al meglio spiega A.L. Epstein (1983), mentre la prima pretende di indicare una realtà oggettiva, scientificamente dimostrabile, la seconda costituisce un dato empirico che generalmente indica un’appartenenza comune, non definibile a priori, l’uniformità di gruppi umani che soggettivamente si riconoscono come distinti dagli “altri”. Alcuni autori, per sottolineare la dinamicità, preferiscono utilizzare il concetto di popoli.

Il Consiglio d’Europa (Gazzetta ufficiale del 30.01.1997) indica espressamente di vietarne l’utilizzo, poiché, suggerendo l’errata concezione che esistono “razze”

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precostituite e gerarchicamente ordinate, potrebbe alimentare discriminazioni basate soprattutto su caratteristiche esteriori come il colore della pelle. A mio parere, a scuola sarebbe opportuno non impiegare neanche concetti come “educazione antirazzista”.

Tolleranza Comunemente con tolleranza si intende il “sopportare con pazienza, senza lamentarsi” cose spiacevoli o dolorose. In contesto pedagogico il concetto di tolleranza è stato utilizzato con valenza positiva, anche nei confronti di soggetti stranieri. Esso è fortemente legato a tutti gli studiosi, in particolare pedagogisti, che in passato hanno ribadito l’importanza dell’educazione alla pace (Comenio, Kant, Locke, Rousseau, Montessori).

Nel settore interculturale il termine tolleranza è da ritenere meno indicato di quello di rispetto o di accettazione. Infatti, la tolleranza, prescindendo dalla suddetta definizione, rimanda ad un rapporto asimmetrico, in cui una persona posta ad un livello superiore “tollera” un’altra situata più in basso (per cultura, status sociale, ricchezza). Al contrario, nel rispetto (e nell’accettazione) i soggetti si trovano ed interagiscono sullo steso piano. Pertanto tali concetti sono da ritenere più consoni con gli assunti di base della pedagogia interculturale.

Xenofobia La fobia, una delle nevrosi individuate dalla psicoanalisi classica che spesso paralizza o ostacola fortemente il contatto, si riferisce alla paura eccessiva ed immotivata nei confronti di un elemento neutro (es. animale, luoghi chiusi) che, a livello inconscio, richiama delle problematiche o dei traumi rimossi. La xenofobia, pertanto, può essere tradotta come “la fobia dello straniero” (Portera, 2002b).

Da studi significativi emerge che insegnanti ed educatori spesso non detengono abbastanza conoscenze in riferimento al retroterra culturale dei bambini e giovani stranieri e sembrano anche essere poco motivati ad un vero contatto con l'alterità. Sostanzialmente, invece di dare ai soggetti provenienti da paesi diversi la possibilità di essere se stessi, ossia di interiorizzare le norme ed i valori più consoni allo sviluppo della propria personalità, assumono atteggiamenti distanziati, ostili, discriminatori, fino a raggiungere una posizione di tipo razzista o xenofoba.

La sensazione di non essere presi in considerazione, capiti o rispettati dagli insegnanti, può ingenerare nei soggetti con esperienze multiculturale delle crisi, che spesso accentuano e consolidano ulteriormente il loro ruolo marginale in classe e peggiorano tanto la loro situazione scolastica, quanto quella psichica generale.

In base ai risultati di una ricerca (Portera, 2005) emerge come a scuola alcuni insegnanti assumano atteggiamenti opposti: di iperidentificazione con i bambini stranieri e con i loro problemi. L'identificazione eccessiva, l’atteggiamento cosiddetto "wohlwollend" (voler far bene), definito con il termine “xenofilia”, pur implicando interazioni positive noti in pedagogia (si pensi all’effetto pigmalione), se assunto in maniera eccessiva presenta dei risvolti sfavorevoli o dannosi, soprattutto nel caso in cui gli scolari si sentano costretti a «rimanere piccoli e sfortunati» o reprimere parte del proprio Sé per continuare ad essere «amati» o accettati.

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8. BIBLIOGRAFIA

Abdallah-Pretceille M., Vers une pédagogie interculturelle, INRP, La Sorbonne, Paris, 1986.

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