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15 Guido Pensato Per fatto personale: di molti La Biblioteca, il Teatro Club, la Città* di Guido Pensato Me-ti vantava in Mi-en-leh la capacità di gettare carbone nel fuoco con le mani senza sporcarsi (B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte) 1. Anniversari, ricorrenze (coincidenze, convergenze?) Nel giro di qualche mese e in sequenza mi sono venute a scadenza due richie- ste di contributi scritti per eventi che ho finito col collegare e col rubricare sotto le voci “anniversario”, “decennale”; forse in maniera non del tutto arbitraria, sulla base di una motivazione e una chiave di lettura degli stessi fortemente (e non solo soggettivamente) unificanti. Se, infatti, l’ottobre 2004 consacra il trentennale della nuova sede della Biblioteca Provinciale di Foggia, tra 2004 e 2005 si collocano, ri- spettivamente, i quarantacinque anni del CUT (Centro Universitario Teatrale) di Bari e il quarantennale del Teatro Club, una fragorosa meteora della storia culturale foggiana. Attraverso il teatro. Cronache dal CUT Bari negli anni dell’innovazione * Mentre consegno in redazione queste pagine, giunge notizia di un convegno in cui si discute, tra l’altro, di un progetto di legge per la statizzazione della Biblioteca Comunale di Lucera. Trent’anni e più di dure battaglie dell’Associazione e di tutti i bibliotecari italiani, delle Regioni e degli Enti Locali, per liberare l’Italia dal triste e solitario primato di gestire decine di biblioteche “nazionali” (che sono storicamente e culturalmente “regionali”), oltre che due biblioteche nazionali…centrali, vengono minacciate da rigurgiti di retorico provincialismo e di specifica ignoranza della storia e della cultura bibliotecaria italiana e della storia culturale tout court. Se c’è in Puglia una biblioteca che incarna un rapporto strettissimo con la città, la sua storia, la sua cultura; la storia dei suoi uomini di ingegno, dei suoi intellettuali, della loro capacità di dialogare, dalla loro città e attraverso la sua biblioteca, con la cultura italiana: questa è la biblioteca di Lucera, che con la città si identifica. Ha senso rescindere questo legame, in epoca di controverso ma trasversale federalismo, in nome di un riconoscimento fasullo (o per un improbabile “pugno di dollari”?), che espropria la città della propria storia e del proprio passato? Un passato che, in questo momento, ne sono certo, si vergogna del presente, nella certezza che il futuro finirà, una volta per tutte, per seppellire sotto una sonora risata sortite che riescono ad insultare contemporaneamente tante storie, tante vicende, tante idee, tanti valori importanti.

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Guido Pensato

Per fatto personale: di moltiLa Biblioteca, il Teatro Club, la Città*

di Guido Pensato

Me-ti vantava in Mi-en-leh la capacità di gettarecarbone nel fuoco con le mani senza sporcarsi

(B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte)

1. Anniversari, ricorrenze (coincidenze, convergenze?)

Nel giro di qualche mese e in sequenza mi sono venute a scadenza due richie-ste di contributi scritti per eventi che ho finito col collegare e col rubricare sotto levoci “anniversario”, “decennale”; forse in maniera non del tutto arbitraria, sullabase di una motivazione e una chiave di lettura degli stessi fortemente (e non solosoggettivamente) unificanti. Se, infatti, l’ottobre 2004 consacra il trentennale dellanuova sede della Biblioteca Provinciale di Foggia, tra 2004 e 2005 si collocano, ri-spettivamente, i quarantacinque anni del CUT (Centro Universitario Teatrale) diBari e il quarantennale del Teatro Club, una fragorosa meteora della storia culturalefoggiana. Attraverso il teatro. Cronache dal CUT Bari negli anni dell’innovazione

* Mentre consegno in redazione queste pagine, giunge notizia di un convegno in cui si discute, tra l’altro, diun progetto di legge per la statizzazione della Biblioteca Comunale di Lucera. Trent’anni e più di dure battagliedell’Associazione e di tutti i bibliotecari italiani, delle Regioni e degli Enti Locali, per liberare l’Italia dal tristee solitario primato di gestire decine di biblioteche “nazionali” (che sono storicamente e culturalmente“regionali”), oltre che due biblioteche nazionali…centrali, vengono minacciate da rigurgiti di retoricoprovincialismo e di specifica ignoranza della storia e della cultura bibliotecaria italiana e della storia culturaletout court. Se c’è in Puglia una biblioteca che incarna un rapporto strettissimo con la città, la sua storia, la suacultura; la storia dei suoi uomini di ingegno, dei suoi intellettuali, della loro capacità di dialogare, dalla lorocittà e attraverso la sua biblioteca, con la cultura italiana: questa è la biblioteca di Lucera, che con la città siidentifica. Ha senso rescindere questo legame, in epoca di controverso ma trasversale federalismo, in nome diun riconoscimento fasullo (o per un improbabile “pugno di dollari”?), che espropria la città della propriastoria e del proprio passato? Un passato che, in questo momento, ne sono certo, si vergogna del presente,nella certezza che il futuro finirà, una volta per tutte, per seppellire sotto una sonora risata sortite che riesconoad insultare contemporaneamente tante storie, tante vicende, tante idee, tanti valori importanti.

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(Modugno, Edizioni dal Sud, 2004), dedica una meticolosa analisi alla storia e al-l’attività del gruppo barese, nell’ambito di una, purtroppo insolita, attenzione aiprotagonisti e ai destinatari, che privilegia il versante delle politiche e dell’organiz-zazione, e non solo quello testuale o registico. Eccellente quanto raro segnale inproposito (mi piace rilevarlo qui, in questo frangente e in apertura) è Il pubblico delteatro in Italia, curato da Fabiana Sciarelli e Walter Tortorella (Napoli, Electa Na-poli, 2004). Il volume sul CUT reca tracce anche della vicenda che, in questo caso“attraverso il Teatro Club”, più direttamente ha riguardato la nostra città, lungo unbreve ma intenso quinquennio, dal 1965 al 1970.

Sarebbe, perciò, questo, tempo di anniversari, o di bilanci, e di bilanci? Equale tempo non lo è? Si può sfuggire agli anniversari? Sono più insopportabili,insostenibili i fatti o la loro memoria? I processi o le celebrazioni? Domande elise(eluse?), in questo caso, dalla coincidenza e dal collegamento; che non sono unaforzatura, perché l’una e l’altra sono nei fatti, prima ancora che nelle date, nei tem-pi. E un fatto sono anche le persone, i soggetti coinvolti. Ed è per questo che hoscelto di non ignorare il sovrapporsi di date e di memorie, al di là delle differenze,soprattutto di scala, tra le vicende e gli oggetti di cui ho deciso di occuparmi. Eproverò a farlo percorrendo una linea di confine, per di più né retta, né continua; ein modo, perciò, vagamente rapsodico, come si conviene a chi si affida ai ritmi flut-tuanti e ondivaghi della memoria; e quasi esclusivamente a quelli. Non ho, perciò,consultato documenti, atti; solo qualche pagina tratta da libri che mi assediano dasempre (piacevolmente, perché in versi) o che mi hanno incuriosito di recente o checontengono qualche precedente riflessione (mia e no) sugli oggetti di questa nota.Una scelta che, per di più, mi consente di dedicare queste pagine esclusivamenteagli anni della mia presenza in biblioteca - dal 1970 al 1994 -, salvo qualche irruzio-ne nell’immediato passato e nel contesto generale di oggi.

2. Il “personale”, se non “politico”, può essere almeno “pubblico”?

Lo avevo promesso, proprio dalle pagine di questa rivista: prima o poi avreitracciato un bilancio della mia esperienza, dei miei cinque lustri all’interno dellaBiblioteca, o meglio, più in generale, dell’itinerario attraverso le biblioteche, l’As-sociazione, il Consiglio Nazionale dei Beni Culturali. È passato del tempo da quel-l’impegno. Sono qui per dire quel che ho da dire, ma non sarà quel che avevo inmente allora, quello che sarebbe forse giusto dire fare e aspettarsi. Ma, tant’è: “Du-rano sì certe amorose intese/quanto una vita e più./Io so un amore che ha durato unmese,/e vero amore fu”. (Saba)

Certe altre, viceversa, coltivati magari per venticinque anni, finiscono, depe-riscono. E non si ha più, mai più voglia di parlarne, qualunque cosa si dica o sisappia in materia di “elaborazione del lutto”. Oppure, se si decide di parlarne, sisceglie di farlo con modalità affatto particolari, che spesso riescono a dissimularerimpianti, nostalgia, recriminazioni; ma rischiano di portarsi via perfino l’interesse

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per l’oggetto in sé, ammesso che e per quanto distante e astratto sia diventato. Inquesto senso, le pagine che seguono sono il mio modo di tenere fede a quell’impe-gno. E le modalità, i toni, la forma, i temi possono apparire insoliti, irregolarmen-te assemblati: sono, in ogni caso, gli unici di cui dispongo, che sono disposto aimpiegare. Ma, al di là del chiedersi se sia legittimo provare a ricavare analisi par-tendo dal vissuto personale, da quello che residua, a questo livello di coscienza edi elaborazione psicologica e intellettuale, di vicende che hanno avuto un versan-te pubblico; al là di questo, non è affatto detto che siano, oltre che apparentemen-te arbitrari, anche inutilizzabili, inservibili le modalità e i toni evocati e scelti. Èstato detto autorevolmente - e proprio in occasione di un precedente decennale -che la storia delle istituzioni culturali è fatta anche di quella degli uomini che vioperano e delle loro vicende. Vanno, tuttavia, messi in conto, nelle ricostruzioniche, come in questo caso, da esse non prescindono, almeno sotto forma degliumori e “rumori di fondo” che conservano, non possono escludersi - ma corrol’alea - un po’ di rischi: da quello di offrire queste pagine come “reperto” e “sin-tomo”, a quelli di parzialità e miopia analitica, di una più o meno consapevole (egià ipotizzata) riluttanza ad analizzare quella che si è configurata come passioneforte e delusa (ma è davvero completamente così? Non è, in fondo, diventataancora più forte, perché riportata sul terreno della pura astrazione e costruzioneintellettuale?); e, infine, quello di una sorta di cortina fumogena di parole, di sen-sazioni sollevata a coprire una sostanziale reticenza, un più o meno esplicito ri-fiuto. Ancora più comprensibile, perciò, sarà la disparità di trattamento riservataad una vicenda piuttosto che ad un’altra, ad un settore della biblioteca rispetto adaltri, in un intervento, che è una ricostruzione (professionale, psicologica, cultu-rale, emotiva) personale e soggettiva.

La forma che emerge da queste pagine, il loro configurarsi non come un bi-lancio, ma solo come un repertorio di brandelli, di lacerti recuperati dalla memoria(anche in momenti in cui essa sembra assumere i caratteri di una nuova conoscenzae dell’esperienza ed abilitare, perciò, a tentativi di analisi), assegna un rilievo prima-rio a quella individuale, per un deficit di memoria istituzionale collettiva pubblica,che normalmente rinvia a un presupposto di coscienza civile diffusa, che è lontanodall’essere patrimonio condiviso nella storia non solo recente delle nostre comuni-tà; al di là di retoriche enunciazioni in nome di altrettanto sbandierati e improbabiliproblemi di identità, vista la confusione e l’approssimazione dei contesti evocati edelle finalità dichiarate e sottese. Eppure quello della memoria, anche di quella in-dividuale, personale, all’interno delle istituzioni, soprattutto di quelle che dellamemoria si occupano, è un dovere, non solo formale ma sostanziale, “civico” eprofessionale, che dovrebbe assumere forme specifiche, al di là di quelle costituitedagli atti e dalla documentazione strettamente burocratico-amministrativa o delladiaristica più o meno esplicitamente autocelebrativa. E spesso così non è stato, an-che nel mio caso e in quello della storia della nostra biblioteca.

Lungo il mio percorso professionale ho prodotto una discreta quantità dipagine, ufficiali e no, di relazioni, progetti, proposte, programmi, atti; mai, tuttavia,

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quelle pagine hanno assunto il carattere di bilancio, di “formale consegna” ammini-strativa e culturale, nemmeno quando, conclusa l’esperienza della direzione della“Provinciale”, passai il testimone al mio successore; cosa che, d’altro canto, si eraverificata pari pari in occasione della cessazione dall’incarico da parte del mio pre-decessore e si sarebbe ripetuta nei confronti dell’attuale direttore. Inconsapevole,reiterata trascuratezza? O sintomo esplicito ed esplicitamente esibito di un’ansia didistacco, di presa di distanza?

È forse anche per questo e per altri dubbi che serpeggiano lungo il percorsoche sto compiendo (- occorre dirlo? - in tranquillità e addirittura, talora, in allegracreatività), che mi spingo, sento di dovermi spingere a mettere in campo non soloun punto di vista soggettivo, ma soprattutto la riconduzione del tutto a questa sfe-ra; quella che, molto probabilmente, mi ha consentito di praticare costantementeuna sorta di parziale clandestinità non enunciata, se non nella sua parte più esterna,leggibile; la ricerca spasmodica di una via di fuga, di una sfera pubblico-privata, ametà strada tra il pubblico e il privato, per l’esercizio di una irregolarità impossibi-le, di una trasgressione vitale, di un livello di conciliazione improbabile traantiistituzionale e creativo, tra pragmatismo d’obbligo e utopia, di una praticaesibizionistica e narcisistica insopprimibile e, se possibile, non azzardata. E infine,a rischio di enfatizzare il versante delle colpe, come ignorare un dubbio “conclusi-vo”: che la scelta di lasciare a cinquant’anni la direzione della Biblioteca - conti-nuando a coltivare gli stessi convincimenti di fondo, gli stessi interessi e gli stessiimpegni, intrecciandoli, come era già stato in passato, ma da privato cittadino or-mai, “con le mani libere”, accanto ad altri, contigui o lontani - sia stato il frutto e laconferma di una sopraggiunta, ormai radicale, estraneità al compito: per colpa diuna natura di onnivoro vorace, di famelico consumatore di esperienze e del precoce(ben più di quanto gli esiti del percorso e della decisione finale facciano intendere)deperimento di quella che è stata certamente la più duratura, la più professionalizzatae istituzionalizzata.

3. “Quegli anni”: la Città, il Teatro Club, la Biblioteca /1

Negli anni ’60 Foggia vive ancora una fase acuta delle vicende postbelliche edella ricostruzione di un tessuto abitativo e civile sconvolto; vicende che vengonoarricchite e complicate dai fenomeni di un inurbamento innescato dalla crisi e dallospopolamento delle campagne e delle aree interne del Gargano e dell’Appennino.Ma l’emergenza sembra finita. A quelli che si configurano ormai come dati struttu-rali della società locale: l’ “economia del mattone”, le pratiche dell’assistenzialismoe del “clientelismo a mezzo ente pubblico”, assurte, rispettivamente, a cultura im-prenditoriale e modelli sociali diffusi, sembrano affiancarsi idee e bisogni nuovi, sulfronte delle domande e su quello delle risposte. Si intravedono i primi esiti - soprat-tutto in termini di psicologia e di progettualità individuale e collettiva - di una ri-presa, di uno sviluppo in atto, che, peraltro, riguarda tutto il paese. Sul versante

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culturale la guerra aveva consegnato ai foggiani una città che a lungo era stata eancora sarebbe stata quasi un deserto: un Teatro Comunale ridotto a “pidocchietto”,perché progressivamente trasformato in un equivoco locale di quart’ordine, dopoaver tentato di essere nell’Ottocento il labile segnacolo delle aspirazioni e della vo-glia di “autorappresentazione” di altrettanto precariamente emergenti ceti dirigenticittadini e dopo aver tenuto a battesimo, all’inizio del XX secolo, il “cinematogra-fo” a Foggia (Cristina Zagaria, Società e cinema in Capitanata, Foggia, Diomede,2002); una Biblioteca Provinciale (la sola biblioteca pubblica della città) alle presecon i problemi (ma anche con le opportunità) della ricostruzione; un Museo difatto inesistente, un Liceo Musicale e un Palazzetto dell’Arte che faticano a faremergere una consuetudine accettabile - e soprattutto orientata al nuovo - con lepratiche e le produzioni di propria rispettiva competenza. Poco altro: locali cine-matografici e librerie relegati - come promotori e destinatari insieme - in un circolovizioso domanda/offerta e qualità/consumo che annunciava ben altri ritardi e “per-versioni” tipiche dell’industria culturale di massa; una “Società Dauna di Cultura”,alle prese - ma siamo già qualche anno più avanti - con le tematiche tradizionalidella storia locale; i partiti, i sindacati, le organizzazioni cattoliche, che, sia pure inun clima di contrapposizione e di scontro ideologico, garantiscono finalmente imeccanismi della partecipazione, della crescita individuale e collettiva, la dimensio-ne pubblica, politica della vita cittadina.

È proprio nei primi anni ’60 che Foggia (in asse con Bari e con l’egemonia“morotea” nella politica pugliese) diviene laboratorio, se non dell’innovazione, cer-tamente di un’idea di modernità e di sviluppo che, pur continuando a pagare untributo pesante in termini di costruzioni e distruzioni, in eguale misura devastanti,non si limita al miraggio consumistico e non esclude dal proprio orizzonte la scuo-la, la formazione, la cultura, l’arte. Si mette mano ai lavori di restauro eriorganizzazione del Museo Civico e del Teatro “Giordano”, recuperato alla ge-stione pubblica, ma emblematicamente contrassegnata, questa, dalla “cancellazio-ne” del grande dipinto del soffitto. La Biblioteca si accinge a divenire uno dei polidi sperimentazione del primo programma organico di diffusione della lettura nelnostro paese. Si avvia un contraddittorio dibattito (durerà vent’anni!) intorno aun’università dauna. Ce n’è abbastanza, in fin dei conti, per suscitare attenzionidiverse, nuove energie, per instaurare un circuito positivo e vivace. Anche tra i gio-vani. È in questo contesto e in questo clima che si costituisce il Teatro Club Foggia.I poli della sua azione vengono individuati rapidamente: la riapertura del TeatroComunale - che rappresenta addirittura il “pretesto” per la sua nascita - e il dibatti-to sul “teatro pubblico”, che, dal “Piccolo” di Milano e da oltre un decennio ormai,coinvolge tutta la cultura italiana. Come era inevitabile in una realtà di inesistenteassociazionismo culturale “engagé”, “militante” - ché questo si avviò rapidamentead essere il gruppo - la sfera di intervento si ampliò rapidamente e finì con il coinci-dere con tutto il sistema (che sistema non era ancora e non è tuttora) di quello cheoggi chiameremmo “dell’organizzazione delle strutture e dei servizi culturali”, mache allora non si riusciva se non ad intravedere come percorso e obiettivo. Le attivi-

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tà si estesero, nell’arco di cinque anni, a tutto campo: dalla stampa (nessuna nostal-gia per lo “sporco” e frustrante ciclostile!) di un bollettino di informazioni e di-scussione, alle battaglie per un cartellone e una gestione non colonialistica del“Giordano” da parte dell’Ente Teatrale Italiano (ETI) e per l’apertura festiva (tut-tora una chimera) del Palazzetto dell’Arte e a quella, insieme al Cut Bari e ad altriorganismi spontanei, per un teatro pubblico in Puglia; dai gruppi di studio su auto-ri italiani e stranieri, alla produzione di spettacoli di “teatro politico” (quasi a ridossodell’uscita del libro, si realizzò qui la prima messa in scena italiana di Lettera a unaprofessoressa di don Milani e della Scuola di Barbiana), alle iniziative messe in cam-po in occasione dell’alluvione di Firenze, contro le dittature di Franco in Spagna edei colonnelli in Grecia, contro la guerra del Vietnam e contro l’invasione dellaCecoslovacchia, alla attiva solidarietà nei confronti del “movimento per il metano”del Subappennino Dauno.

Per un quinquennio, un gruppo partito da uno specifico settore della vitaculturale cittadina, da un’emergenza positiva, coglieva la centralità del tema genera-le della cultura, in una fase cruciale della transizione della città dai problemi e dalclima dominante il lungo dopoguerra a quelli di una società sulla strada dellamodernizzazione, di nuovi bisogni, di nuove domande, di crescenti spazi chiesti eofferti alla e dalla circolazione delle idee, del sapere, delle conoscenze, dell’arte.Questa capacità venne “riconosciuta” e divenne il terreno di incontro con le forzepiù avanzate della città e con i pochi operatori impegnati all’interno delle istituzio-ni e dell’organizzazione culturale e in grado di rivelarsi all’altezza dei compiti nuo-vi che quella fase richiedeva, di assumere un ruolo decisivo, da protagonisti, di quelmomento.

In primo piano vennero le convergenze con i gruppi di ispirazione cattolica(ampiamente maggioritari ed egemoni), impegnati in particolare, oltre che in unvivace dibattito interno ma aperto, anche sul versante della cultura cinematografica(è a partire da qui che si dischiuse pubblicamente la straordinaria e dialogante mili-tanza civile e culturale di Peppino Normanno, la cui “assenza” si fa fatica, faticotuttora ad accettare) e con i quali, di fatto, si individuava un’area comune di scam-bio e di elaborazione critica. Si trattava di un’esperienza del tutto nuova, extrapoli-tica, ma non separata o “a parte”; al contrario, di forte presa sulla realtà e sull’attua-lità: “del mondo” e “locale”, ma proprio per questo l’una e l’altra, rispettivamente,non “evasive” e non più semplicemente coincidenti con un hic et nunc angustamen-te localistico, “risorgimentale” e “patrio”. Il clima di fervore innovativo che si re-spirava veniva colto e riceveva conferme e segnali di risposta significativi e diversi:dal messaggio vergato e fatto pervenire ai “giovani del Teatro Club” da quello che,allievo di Mario Sansone, sarebbe divenuto docente di letteratura italiana nell’Uni-versità di Bari e che, grosso modo, suonava così: “grazie per darci una speranza…”;al numero di iscritti (diverse centinaia), incredibile per un gruppo culturale autono-mo, non “affiliato”, che finì col veder rappresentati davvero tutti gli strati dellapopolazione: dai giovani studenti al mondo della scuola in generale, dagli impiegatiai tanti operatori, cultori e appassionati di teatro, di cinema, di arte, di musica; ad

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una, anche questa eccezionale, insolitamente forte presenza di donne. Insomma,come suggerisce il titolo già citato, sembra di poter dire che intorno al Teatro Clube “attraverso il teatro”, tematiche, persone e protagonisti sensibili e attenti ai conte-nuti e al ruolo della cultura e delle arti in una società in trasformazione si raccolserointelligenze, energie, idee, azioni e si imposero come oggetti e soggetti di interessegenerale. Era il versante attivo, partecipato, protagonista di una società di massaormai in fase di strutturazione, anche per quel che riguardava la cultura e il livellolocale. Di più: il Teatro Club fu fattore e soggetto attivo di una fase in cui si venivadelineando un proficuo rapporto critico tra istituzioni società e cittadini, fuori daicanali tradizionalmente praticati nell’ambito di una democrazia recente e di unastoria sociale e civile fortemente contrassegnata dalla subordinazione, piuttosto chedalla partecipazione. Il gruppo accompagnò e visse nella realtà locale la fase nascen-te di quella che si sarebbe schematicamente e successivamente definita come “socie-tà civile”. Si delineava - e ne erano protagonisti su versanti diversi ma sullo stessoterreno - un circuito in cui individui istituzioni e cittadini organizzati, al di là deiluoghi e dei soggetti deputati - partiti e sindacati -, si proponevano e agivano comearticolazioni di una comunità in profonda trasformazione, che viveva, forse comenon mai prima, in presa diretta i mutamenti in corso, le idee, le contraddizioni, gliscontri generazionali presenti nel più ampio contesto nazionale e oltre. Una situa-zione che, come è ovvio, si andò (ma a partire dal Sessantotto), anche qui da noi,arricchendo e complicando con e attraverso la presenza - antiistituzionale, radicalee contestativa - di nuovi strumenti, nuove tematiche e nuovi soggetti organizzati,soprattutto giovanili; e che prenderanno il posto di quelli tradizionali, “forniti”dalla politica e dai livelli istituzionali, per esempio della Chiesa. Dal seno del TeatroClub si leggevano, d’altro canto, i segnali e non solo questi, ma anche le azioniesplicite, che partivano da quei settori della città che resistevano al cambiamento.Dire che questo continuerà ad essere fino ad oggi il tema centrale, la questionesempre aperta, equivale ad evocare una costante generale della dialettica interna aigruppi sociali e alle comunità locali. Ma mai come in quegli anni ciò risultò visibile,evidente: e non poteva essere diversamente, dato il carattere radicale ed epocale delconfronto in atto. Con sempre maggiore consapevolezza, l’azione e i protagonistidi quel gruppo si diressero contro questa parte della città, una parte che manifesta-va caratteri che oggi si chiamerebbero “trasversali”. Si trattava, infatti, di un esta-blishment stanziato sui due versanti degli schieramenti politici e sociali e che anda-va dai vecchi e nuovi gruppi di potere che individuavano negli apparati pubblici illuogo privilegiato del loro insediamento strategico, ai gruppi dirigenti pervicace-mente “bracciantili” e antiurbani dei partiti della sinistra, che resistevano, nono-stante la visione diversa e lucida di alcuni, all’esigenza di “scafonizzare” il movi-mento politico-sindacale socialista e comunista locale (o quanto meno di renderlocapace di un dialogo più ricco, più diversificato, non monolitico, più aderente aduna realtà in trasformazione verso una complessità tipica dei centri urbani meridio-nali). Fu, quest’ultima, una visione costantemente minoritaria di fronte a quella,bracciantile appunto, di segno oggettivamente conservatore (rispetto al complessi-

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vo contesto locale, anche se, viceversa, avanzato e spesso addirittura “esemplare” alivello nazionale, per quel che riguardava lo specifico contrattuale e di categoria),rinsaldata dalla trentennale posizione di forza mantenuta dal Partito Comunistain gran parte dei principali centri della Capitanata e agita, brandita come stru-mento di pressione sul capoluogo, sui e tra i gruppi dirigenti locali. Si trattava diuna situazione che, a distanza di decenni, Enrico Berlinguer denunciò esplicita-mente nel corso di un congresso provinciale del PCI (30 gennaio 1983), rilevan-done la gravità e la persistenza:

Giustamente si è parlato della permanenza nel Partito di una certa chiusura e diuna certa scarsità di collegamenti e di iniziative verso tutte queste nuove realtàsociali tali che tengano conto e si avvalgano anche dei positivi sviluppi e muta-menti avvenuti nella coscienza e nelle aspirazioni, in particolare in quelle dellegrandi masse femminili e giovanili. Anche nel lavoro del Partito nel capoluogoe nella provincia – e nell’atteggiamento verso la città capoluogo delle nostreorganizzazioni insediate nei grossi Comuni - si riverberano, mi pare, questechiusure e diffidenze. Per cui la vostra Federazione è in una certa misura anco-ra una costellazione di roccaforti con un carattere un po’ paesano e non unarealtà fusa, operante, che riceve forza da questi capisaldi […] e la unisce, laproietta, la diffonde in tutta la provincia e nel capoluogo. (Enrico Berlinguer,Le costellazioni di roccaforti, in «Sudest», Numero Zero, ottobre 2004).

A distanza di qualche anno, il crollo verticale di quei capisaldi sanciva il ca-rattere di quello che si configurò e deflagrò, quando venne “pronunciato”, come un(sia pure irrimediabilmente tardivo) vero e proprio allarme.

4. Intermezzo: Una città da amare (o da odiare?)

Come si può immaginare e come sa chi in quegli anni visse le vicende che quiprovo a riassumere, le tematiche proposte dal Teatro Club e, in particolare, nellaseconda parte di quella breve esperienza, tra il 1968 e il 1970, quelle che esploderan-no grosso modo in sincrono e in sintonia (fatti salvi i fisiologici ritardi e la diversascala) con “il movimento” mondiale, trovarono anche nella realtà della Capitanata,soprattutto nel capoluogo, interlocutori, “sponde” attive e reattive, protagonistidiretti, non solo tra i giovani, gli studenti e gli operai, ma perfino in settori dellivello istituzionale (addirittura emblematiche e talora paradossali e un po’parossistiche divennero le “rincorse” e gli scavalcamenti da parte di frange - la “si-nistra di base” - della Democrazia Cristiana e del sindaco di allora, puntualmentepresente a tutte le iniziative “contro”: i colonnelli greci, la guerra del Vietnam, ecc…).

Personalmente inclino a collocare in quegli anni il pendolo del mio rapportocon la città in cui sono nato e vivo. Ma nemmeno in questo caso credo si tratti diuna questione semplicemente privata, originale ed esclusiva. E tuttavia, proprio perquesto, mi sembra di poter dire che non è un caso che quel tema mi si imponga

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nell’ambito di una più estesa riflessione su una fase in cui si costruisce e si struttura,con caratteri di dinamismo e di ambivalenza, quel rapporto; e che, per questo, èsoprattutto riflettendo su quella fase della mia vita personale e pubblica che miappare alternativamente chiaro e oscuro cosa si intenda per amare/odiare una città.In effetti cosa si ama, cosa si odia di una città? A cosa penso quando penso alla città,a questa città? Certo immediatamente alla sua fisicità, che, non potendo riferirsi acaratteri strettamente geografici, evoca il costruito, la stratificazione visibile (quan-do è visibile) attraverso il costruito. Ma il costruito è quello architettonico, edilizio(l’urbanistico è qui un risultato ottenuto per pura e brutale addizione/sottrazione/giustapposizione); ma è anche lo storico, il comunitario, il sociale; e infine, il men-tale, psicologico, emotivo, frutto di volontà di identificazione o avversione, in rela-zione o contrapposizione con un’idea, un’astrazione che si deposita in un nome,ma che si compone di pezzi concreti, di vicende e avvenimenti della cronaca e dellastoria individuale e collettiva, di eventi e soggetti, protagonisti e vittime. Ma anchedi un “colore”, di suoni, di profumi e sapori rintracciati lungo le strade o nei per-corsi della memoria, intorno alle tavole imbandite della cucina familiare. E tuttavia,il più delle volte, sono proprio i tratti materiali, visibili e tangibili, della città - edi-fici, strade, spazi, quartieri - a leggere, raccontare e farsi lente delle vicende e di noistessi in queste e del tutto in uno spazio fisico. E quei tratti, al di là delle catastrofie delle distruttive vicende storiche subite, rinviano al progressivo, inesorabileimbruttimento estetico e all’abbrutimento etico e sociale che corrono sul filo dellosviluppo edilizio della cità e convergono simbolicamente (e drammaticamente), traXX e XXI secolo, nel “crollo di Viale Giotto” del 1999, con i suoi 67 morti; maanche ad altro, in quanto segni e tracce delle caratteristiche culturali e sociali, poli-tiche ed economiche e del ruolo svolto, nelle diverse epoche della storia, dai ceti edai gruppi sociali, a cominciare da quelli egemoni. Quando perciò, dico che mi èdifficile stabilire se amo la mia città, lamento di fatto di avere a disposizione unguazzabuglio, un coacervo indistinto di dati materiali, culturali e psicologici; e nonun gruzzolo, una sequenza di fatti-eventi-processi-documenti-monumenti-figurein grado di assumere il carattere e il ruolo di miti/riti identitari da condividere;capaci, cioè, di essere memoria collettiva, riconosciuta e diffusa e di produrre oggimodelli non mitologici e fasulli, ma concreti, perché culturalmente radicati e agiti.Insomma, un ipotetico, sia pur generoso, mozartiano catalogo di “oggetti amorosi”sarebbe, nel mio caso e rispetto al mio rapporto con la città, ben striminzito; ameno di accontentarsi di dati di fatto preculturali, nel senso di possedere un minimuminfinitesimale di razionalità sociale e un massimo di ancestralità psicologica indivi-duale e collettiva, coincidente con il radicamento e con l’identificazione affettiva esentimentale con i luoghi, le persone e le loro storie. Io credo di aver strutturato ilmio rapporto con la città negli anni che sto raccontando, sulla base del conflitto cheinsorgeva e si disponeva ai miei occhi sulla coppia, apparentemente primordialeanch’essa, razionale-emotiva: “amore/odio”, nel tempo rafforzata dall’altra: “sta-re/andare”. E ciò avvenne in quegli anni perché fu allora che Foggia si fece fondale,scenario in cui si rappresentavano (e mi si svelavano con evidenza) le contraddizio-

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ni, i ritardi culturali, le arretratezze sociali ed economiche dei gruppi dirigenti, delleistituzioni e degli apparati pubblici, della società locale nel suo complesso. Nei trat-ti fisici ho cominciato a vedere rispecchiato tutto questo: in quelli involontari esubiti dei bombardamenti e delle distruzioni belliche; in quelli voluti e scelti - sia pure“in stato di necessità” - della ricostruzione postbellica e delle distruzioni ulterioricollegate alle fasi successive di “ammodernamento” e di espansione; gli uni e gli altrifrutto di una (in)cultura del vivere associato e della incapacità di coniugare la perce-zione primaria e il soddisfacimento di bisogni individuali e privati con una salda enon antagonistica percezione-assimilazione della dimensione collettiva e pubblica.Se, in conclusione, non esistono luoghi senza passato e senza storia e se il passato e lastoria non sono “buoni” o “cattivi”, possono essere, tuttavia, tali da sedimentarsi insegni e tratti più o meno significativi ed esemplari, da far assumere a questa o quellacittà perfino i caratteri e il ruolo di metafora esistenziale, culturale e sociale, indivi-duale e collettiva. Vi sono città che, afflitte da un deficit di immagine e di riconoscibilitàgrave, relegano i cittadini in una sorta di indigenza e finzione identitaria collettiva o disolipsismo relazionale, in grado di generare un pulviscolo di metafore ad uso e consu-mo degli individui, che si rivela non liberatorio, non creativo. Anche le città caratte-rizzate, viceversa, da una sorta di “opulenza identitaria”, producono una mole infini-ta di metafore: ma queste sono capaci di generare idee, energie, modelli collettivi,creatività.

Niente di nuovo, evidentemente, e di straordinario, se non che tutto ciò av-veniva in quegli anni, nei quali, contemporaneamente e tutto intorno, si realizzava-no trasformazioni, contrasti e rivolgimenti ben più profondi e radicali, che solleci-tavano e inducevano novità e cambiamenti anche nelle “periferie” e nello stessotempo acuivano localmente (nelle angustie sociali e culturali - prossemiche? - date)le contraddizioni e gli esiti “conservativi”, depositandoli nelle coscienze e amplifi-candone la portata e la risonanza a livello individuale e “a futura memoria”, comevizio, male “oscuro” e inconsapevole, come intransigente inappagamento.

5. “Quegli anni”: la Città, il Teatro Club, la Biblioteca /2

Rispetto alle tematiche culturali e agli anni cui si riferiscono queste pagine,il punto meno appariscente ma certamente più rilevante di quello che si configuròcome un convergere di pochi e diversi soggetti intorno a obiettivi e modalità diintervento comuni fu rappresentato dalle iniziative della Biblioteca Provinciale edel suo direttore, Angelo Celuzza. Fin dalla costituzione (la fase più “collabora-tiva” e istituzionalizzata, precedente quella contestativa e radicalizzata, sul pianoculturale e su quello politico), il Teatro Club si impegnò sul versante della diffu-sione della conoscenza delle opere e degli autori collegati all’attività del rinatoTeatro Comunale e a quella dell’attualità culturale in genere; e lo fece con atteg-giamento non paludato, ma concreto e “di servizio”, producendo schede e artico-li, frutto del lavoro di appositi gruppi di studio e di singoli soci. La risposta della

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biblioteca, che era diventata il luogo “naturale” di questa attività, fu immediata,contestuale: Mario Taronna, vecchio bibliotecario, giornalista, conoscitore e stu-dioso della canzone e dello spettacolo napoletano e meridionale, fu applicato acompilare un catalogo speciale su schede dedicato al teatro, che comprendevaanche gli spogli delle riviste specializzate di settore. Quel catalogo fu uno stru-mento prezioso di conoscenza e di valorizzazione di una parte del patrimoniodella biblioteca a disposizione di appassionati, operatori, ricercatori. Esso è anco-ra oggi un documento, non solo della storia recente della biblioteca, ma della faseiniziale di una nuova e più ampia storia, di una vicenda che non ha conclusione,perché allude alla vita stessa delle istituzioni culturali, alla loro specifica “missio-ne”, perché le riguarda e le simboleggia. Mi riferisco al processo permanente ealle modalità corrette attraverso cui esse, interagendo con la società locale e lacomunità degli utenti - reali e potenziali, individuali e collettivi, spontanei e orga-nizzati -, mettono continuamente in gioco e in discussione struttura, funzioni,procedure, servizi e si propongono come “osservatorio pubblico permanente delledinamiche culturali in atto”; laddove “culturali” ha un’accezione antropologica esociologica amplissima e “osservatorio” è inteso come strumento di analisi e diconoscenza finalizzato alla produzione di risposte adeguate a domande e bisogniinformativi, documentari, conoscitivi e culturali correttamente e precisamente in-dividuati e riconosciuti. Il flusso di azioni, iniziative, interventi tra BibliotecaProvinciale e Teatro Club passava, come ovvio, attraverso persone fisiche concre-te e finì con il coinvolgerle personalmente nelle vicende dell’uno e dell’altra, anzi,più precisamente, dall’uno all’altra. Al termine del quinquennio di vita del grup-po (non è senza significato che esso comprenda anni come il 1968 – “maggiofrancese” e “movimento studentesco” - e 1969 – “autunno caldo” - ), molti deiprotagonisti furono attratti in quella che non fu mai, tuttavia, una banale deriva,ma una precisa scelta, un esito e un impegno politico diretto e consapevolmenteperseguito. Tutti avevano comunque maturato una acuta e moderna sensibilitàper la rilevanza “civile” e politica delle tematiche culturali, una sensibilità e unacapacità perspicue di sguardo nei confronti della produzione, dei linguaggi e deicontenuti specifici e settoriali della cultura e delle arti. Sensibilità e capacità chediventarono “requisiti” e non passarono inosservati agli occhi di chi seppe guar-dare e vedere e furono valutati come una risorsa spendibile, da investire nei pro-grammi in atto per l’ammodernamento delle strutture culturali cittadine. Il cheavveniva sulla base di una concezione, tacitamente e largamente condivisa, dellacultura e del suo ruolo, avvertiti come di fatto collocati agli antipodi rispetto auna pratica ancillare di essa nei confronti del potere e a una consuetudine di reci-proca contiguità, subalternità: pratica e consuetudine ben note, oggi non meno diieri e dell’altro ieri. Era questo il segnale forte di una sintonia che accomunavasoggetti diversi, ma, sarebbe giusto aggiungere: che e perché era nei fatti, nellenuove esigenze di una realtà in crescita, di nuovi protagonisti della scena, nonsolo locale.

In tale contesto la Biblioteca Provinciale, nel quadro del programma mini-

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steriale di istituzione e diffusione, prima sperimentale e attraverso progetti pilota -la Capitanata era tra questi -, quindi ordinario, della lettura e dei “sistemi bibliote-cari”, aveva promosso la nascita di biblioteche comunali in gran parte dei centri delTavoliere, del Gargano e del Subappennino. A seguito di quello che era il primoconcreto manifestarsi e attuarsi di una funzione territoriale ampia e tendenzialmen-te coincidente con le competenze istituzionali dell’ente di appartenenza, la “Pro-vinciale”, in quanto “centro-rete” del sistema, si accingeva a disporre di una nuovamoderna sede: stava per divenire concreta la prospettiva proposta fin dagli inizidegli anni ‘60. Si trattò di un processo a tappe insolitamente accelerate, che preve-deva, tra l’altro, il reclutamento e l’impiego di un gran numero di nuovi addetti, adiversi livelli di competenze e di funzioni. Si mise in moto un meccanismo, direibidirezionale: la biblioteca (nelle persone che ne avevano la responsabilità, rispetti-vamente, culturale e politica) “scoprì” e “riconobbe” nei giovani impegnati nelTeatro Club, prima degli interlocutori e dei destinatari delle sue attività, delle ini-ziative e dei programmi, quindi dei possibili collaboratori diretti, dei protagonistidelle stesse. Lo fece con una modalità singolare, svelandosi cioè, non come il luogoin cui “abitano”, “si trovano” e “si leggono” i libri, ma come istituzione culturaleviva, in cui si producono occasioni culturali e servizi per la cultura; in cui, insom-ma, “persone” fanno tutto questo “lavorando”. Una sorta di rivelazione, appunto:tra l’altro, tuttora non ancora compiutamente avvenuta, sia sul versante degli ope-ratori, che su quello dei cittadini, in un paese come il nostro, solo di recente conqui-stato ad una cultura e ad una pratica bibliotecaria moderne. Quelle, intendo, quan-to meno legate al concetto di public library, di biblioteca come servizio pubblico,certamente non in contraddizione con quelli di biblioteca come sistema culturalecomplesso e come parte di un sistema complesso: osservazione utile, io credo, adefinire anche i limiti delle accuse di tecnicismo, empirismo ed ipocrita “neutrali-smo”, che allora venivano mosse, “da sinistra”, a quel concetto, soprattutto quandoe se se ne enfatizzavano, isolandoli e promuovendoli a feticci, paranoie e solipsismii più disparati, gli aspetti tecnico-catalografici.

Il maieutico itinerario di disvelamento delle biblioteche come realtà e op-portunità “lavorative” cui ho fatto cenno, si svolse anche attraverso tappe direttequanto esplicite, come quella che mi coinvolse in prima persona. Fui invitato apartecipare, su suggerimento di Angelo Celuzza e in qualità di laureando (maanche perché, ne sono certo, impegnato in un gruppo come il Teatro Club e per-ciò visibile e credibile rappresentante dei giovani cui l’iniziativa era diretta), a unatavola rotonda sulla “fuga dei cervelli” e sul conseguente impoverimento del Mez-zogiorno: argomento, come ognuno può vedere, mai sopito, mai vecchio, oltreche costantemente, inutilmente premonitore e ammonitorio. Armato di dati erapporti del Banco di Napoli, sostenni la inaccettabilità del “ricatto morale” insitonell’equazione “abbandono del Sud uguale tradimento”. Ma ero, nell’ultimo de-gli anni ’60, sulla strada del tradimento… della tesi lì con convinzione difesa. Agliinizi del 1970 ero il vicedirettore della Biblioteca Provinciale di Foggia. Il concor-so era stato bandito nell’estate precedente. Sostenni le prove dopo qualche mese,

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di fronte a una commissione non “presieduta”, ma “affascinata” da uno straordi-nario e vitalissimo Mario Sansone. Era successo. Lavoravo in un luogo che fre-quentavo, da lettore, da oltre un decennio, dai tempi del ginnasio (lo conoscevoda tempo, avendo frequentato le medie nella vecchia “De Sanctis”, ospitato inPalazzo Dogana fino alla costruzione della nuova sede) e nel quale avevo matura-to e visto crescere in concreto - ma per pochissimi - l’idea del ruolo della culturae delle sue istituzioni per la città e per i cittadini. La mia scrivania era collocata inuna sala della storica sede di Piazza XX Settembre, con una grande finestra sulVico Palazzo, tra gli scaffali e i libri della sezione locale. Ma la “scoperta” dellebiblioteche coinvolse altri, ormai “ex”, del Teatro Club. Nel giro di qualche mese,uno divenne bibliotecario dell’ “Universitaria” di Pisa e, di lì a qualche anno, dueapprodarono nelle biblioteche dei Centri Servizi Culturali del Formez e quattroancora nella Biblioteca Provinciale di Foggia. È indubbio che queste non eranopiù solo vicende personali; che l’appeal delle biblioteche, uscite finalmente da unasorta di clandestinità, da una storica, secolare marginalità sociale e culturale, co-minciò a diventare visibile e consistente in quegli anni, anche qui da noi. I proget-ti che nascevano intorno alla “Provinciale” la facevano crescere e rientrare anchenella progettualità di chi provava a immaginare un futuro nella propria terra e unlavoro non privo di suggestioni, di fascino: “lavorare tra i libri, con i libri!”, maanche di incognite: “in cosa mai consisterà un lavoro di biblioteca?”; un lavoro dainventare forse, e proprio per questo, in grado di sollecitare le aspettative di chiaveva scelto (magari con qualche concessione a un’enfasi ideologica tipica di que-gli anni) e aveva avuto la ventura di fare esperienza di sé e del rapporto con glialtri e con la realtà, attraverso e sul terreno della cultura.

6. Coincidenze, convergenze? /1

Bastano gli elementi fin qui disposti alla rinfusa a spiegare e giustificare,anche partendo da un’ottica soggettiva e personale, la scelta di proporre all’atten-zione del lettore di queste pagine una riflessione in parallelo tra le vicende diun’istituzione con centosettant’anni di storia - per quanto travagliatissima finoagli anni ’60 del ’900 - e quelle di una sorta di meteora velocissima - per quanto“densa”, “scabra” e irrequieta - del panorama culturale cittadino? E ancora: dicequalcosa il “passaggio” di un gruppo del Teatro Club alle biblioteche, alla Biblio-teca Provinciale di Foggia? Ma, più in generale, la coincidenza giustifica che ven-ga anche segnalata? Al di là di una semplice percezione personale, c’era qualcosa,un terreno comune che rendeva, magari accidentalmente, vicini, contigui due sog-getti così diversi e “inconfrontabili”: l’uno istituzionale e l’altro “spontaneo”,l’uno “storico” e con una storia da scrivere, l’altro “effimero”, destinato a brucia-re in una breve stagione la propria esperienza? Ovviamente, credo di sì. A partiredal contesto geografico e sociale, economico politico e istituzionale: ma è sconta-to. E il dato temporale, quegli anni e il clima di quegli anni: ma è generico. Cosa

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era quel clima, qui e allora? Era certamente l’insofferenza verso il vecchio, la vo-glia, il bisogno di nuovo, l’urgenza di superare il localismo; una visione condivisadella cultura, delle istituzioni culturali pubbliche, che uscivano allora e qui dauna cronica marginalità, inutilità; una forte carica progettuale, inventiva. Questoterreno era stato scelto ed era iscritto nella genesi, nel patrimonio genetico delTeatro Club, gruppo “nato per questo”. Ma era una opzione culturale altrettantoradicale, di svolta, al di là della percezione di “eccezionale normalità” che se neaveva, per la Biblioteca Provinciale e per Angelo Celuzza, l’uno e l’altra terminaliquasi di un processo di ammodernamento, di radicale trasformazione di istitu-zioni ridotte, soprattutto al Sud (ma c’era mai stata qui una storia diversa?), aun’esistenza poco meno che simbolica e autoreferenziale, o fortemente, radical-mente élitarie e classiste (si intende ancora il senso di questa parola?). L’ancorag-gio forte di quel progetto era rappresentato da un modello consolidato - la publiclibrary - misurato (sia pure parzialmente e con esiti più o meno positivi, comeapparirà chiaro, io credo e a ben guardare, negli anni successivi), sulla concretasituazione italiana e meridionale. Ma c’era dell’altro, di segno opposto e ben oltrela dimensione locale: le biblioteche erano destinate all’estinzione, a sentire chi inquegli stessi anni questo vaticinava, sul versante di una fatale ineludibile palinge-nesi “macluhaniana” dell’universo informativo e culturale: la paperless society,una comunità planetaria “senza carta, senza libri, senza biblioteche”. Il che mo-stra quanto la scommessa allora messa in campo in Capitanata, fosse (o comun-que apparisse e con fondamento) straordinariamente vincente; anche a distanzadi tempo e visti, di contro, gli esiti complessivi e, lo si può dire oggi, finali di quelsinistro vaticinio, peraltro, occorre dirlo, sbrigativamente e catastroficamente sem-plificato e volgarizzato.

A quei lontani anni risale certamente la mia speciale avversione per le retori-che intorno al libro, alla lettura e alle biblioteche: quelle di segno positivo, fondatesu supponenti affermazioni tautologiche (ideologiche e antimoderne), circa la “su-periorità” del libro; e quelle in negativo, costruite sull’annuncio della sua estinzio-ne, al di fuori di una reale, concreta e “umile” (alla Escarpit, per intenderci) cono-scenza dei meccanismi di funzionamento e delle motivazioni all’uso della straordi-naria, complessa “macchina da leggere” e “del leggere” (anche queste ugualmenteideologiche, in quanto moderniste). A ben guardare, entrambe le posizioni mi sonosempre apparse prodotto di un più o meno consapevole pregiudizio elitaristico, diuna più o meno intenzionale e cinica volontà di difesa di quello che viene, infine,percepito e gestito come un privilegio e un bene, un’opportunità “non per tutti,non da tutti”. Fu per questo che il catalogo speciale dedicato al teatro, cui si è fattocenno, mi sembrò un segnale chiaro, era la esposizione lineare di un’idea, che nonho smesso di condividere, circa il ruolo delle biblioteche: istituzioni culturali pub-

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bliche di carattere primario, poste cioè a fondamento e a base della ricerca, dell’ac-cesso e della pratica della cultura; non insomma ornamenti e decoro feticistico esuperfluo di un’autoesaltazione civica e nazionale. Un ruolo che si traduce, vicever-sa, in funzioni specifiche, quale quella di garantire la raccolta, la conservazione e lacircolazione delle informazioni, dei dati e delle conoscenze e che prescinde dallanatura dei supporti, perché dinamicamente, “evolutivamente” ne presuppone e neprevede lo sviluppo, la trasformazione, anche radicale. È questo lo specifico mododi fare cultura delle biblioteche, è questa la cultura delle biblioteche: garantire lecondizioni - dal punto di vista delle risorse materiali e professionali, delle procedu-re di descrizione, di organizzazione, di gestione, di accesso e di servizio - perchéindividui, gruppi organizzati e comunità nel loro articolato complesso, esercitino ipropri diritti all’autoformazione, alla ricerca, al libero e consapevole impiego deltempo libero, alla libera espressione delle proprie capacità e della propria creatività:perché per strade liberamente e consapevolmente scelte, “usino” e producano cul-tura.

È di questi giorni l’ennesima, come sempre e, verrebbe da dire, vanamentee sterilmente allarmata - visti i rimedi proposti e i risultati solitamente conseguiti- indagine sulla lettura, curata dall’Associazione Italiana Editori (Aie). Un’asso-ciazione che oggi rappresenta un settore dell’industria culturale, che per numero-si decenni - di fatto dall’Unità al Fascismo fino agli anni ’70 -, o ha ignorato lebiblioteche, o le ha brutalmente strumentalizzate: si pensi all’Ente Nazionale Bi-blioteche Popolari e Scolastiche e alle leggi delle Regioni (soprattutto meridiona-li) sull’editoria: veri e propri strumenti di indiscriminato assistenzialismo e di“smaltimento dei rifiuti” del mercato, delle giacenze -; o le ha addirittura avversa-te, perché avvertite come concorrenziali (come si vede, niente di nuovo nelle “mo-derne” battaglie sulle fotocopie e sul prestito librario a pagamento, condotte anchecon “ispezioni” nelle biblioteche). È indubbio che queste ricorrenti analisi dellostato delle cose sono ben lontane dal confermare le previsioni catastrofiche diqualche decennio fa, ma, semmai, il già noto: che, per esempio, i paesi tradizio-nalmente “forti lettori” continuano ad esserlo, così come i deboli - e tra questi,cronicamente, il Bel Paese (dove, tuttavia, è bene ricordarlo, la pratica della lettu-ra, in un secolo o poco più, ha bruciato tappe inimmaginabili quando la percen-tuale degli analfabeti superava l’80%) - restano deboli, per un intreccio, nel no-stro caso, di fattori strutturali: storici, politici - di (mancata e tuttora mancante)politica di settore - e culturali, che nulla hanno a che fare con i temi e i problemiposti dai “media elettrici ed elettronici”, che sembrano aggravare sì la nostra si-tuazione, ma proprio per la compresenza di quelli. A ben guardare, a livello pla-netario (e quindi anche qui da noi), viceversa, non si sono mai stampati tanti tito-li, testate e copie, quanti nell’era di Internet. Anche su e per Internet, argomentoe strumento, nascono nuovi lettori abituali, più o meno settoriali. Proprio gliutilizzatori della “rete” diventano lettori o più forti lettori di libri (e periodici).Quelli deboli hanno qualche chance di rafforzarsi (anche se sono l’anello a ri-schio nella catena); gli abituali tendono a diventare forti e questi fortissimi. Il che

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conferma un altro dato, noto e inoppugnabile, circa lo stato delle cose, sia neipaesi “avanzati” che in quelli afflitti da ritardi gravissimi sul piano economico esociale, se solo si amplia lo spettro dell’analisi a comprendere, oltre che la lettura, lepratiche e i consumi culturali in genere: in linea di massima, gli uni e le altre sirafforzano reciprocamente, così come gli analfabetismi. Basti riflettere su un dato aconferma: negli stessi giorni dell’allarmata denuncia dell’Aie, a Mantova, nell’am-bito di “Festivaletterature”, fino a quarantamila lettori paganti hanno frequentatoincontri-evento con scrittori di tutto il mondo. Ma, al di là di un dato quantitativoche dice qualcosa e in positivo sul reale stato delle cose, elementi dello stessotenore, vengono proposti da un clima generale, che, di fronte alle drammatichepretese semplificatorie della politica dominante, ci racconta un paese, soprattuttogiovane, desideroso di capire e ficcare occhi e intelligenza nella complessità delmondo: e lo fa nei libri e attraverso i libri, nelle cento occasioni che, anche lerealtà periferiche, offrono e si offrono. Penso ai festival dedicati alla filosofia ealla storia, alle letterature e alla poesia, alle letture poetiche, alle contaminazionitra cultura scritta, arti visive e sceniche e musica, ai “Presìdi del libro”. Non è,perciò, un piccolo segnale che si confermi e consolidi a Lucera un “Festival dellaletteratura mediterranea”, così come a Milano si discute partendo dal Teatro delMediterraneo o che l’Università di Foggia dedichi attenzione, facendosi garantedell’alto livello qualitativo del confronto, alla “poesia neodialettale”. Perché sitratta di un complesso di dati e di eventi che mostrano, anche qui da noi, comenon esistano battaglie culturali perse per sempre, né luoghi deputati della lettura,ma che quelli che lo sono istituzionalmente possono concorrere, “uscendo fuoridi sé” (dal punto di vista delle rigide partizioni istituzionali e disciplinari), a mi-gliorare il proprio ruolo e a garantire il raggiungimento degli obiettivi della diffu-sione della lettura e della partecipazione critica. Il che sarà tanto più possibile,soprattutto se si abbandonano intenti e modalità pedanti e “pedagogiche”, se siparte non dai feticci, ma dai soggetti e dagli oggetti vivi, dai libri, dagli autori, dailettori, dal loro incontro, facendoli uscire da una condizione “muta” e solipsistica,cui non sono fatalmente e ab origine destinati; restituendo un ruolo anche allaparola detta, allo scambio, alla oralità, al calore di un mezzo - la parola appunto -“raffreddato” da incrostazioni, mediazioni, lontananze e inaccessibilità ormai sto-riche, di natura intellettualistica, divistica, commerciale, consumistica, mass-mediatica.

E tuttavia l’accesso alla lettura è tuttora, innegabilmente un privilegio: in troppiluoghi del mondo, non solo del “terzo” o del “quarto”, ma anche del “primo e del“secondo”, dove i proclami sul carattere (peraltro incontestabile, anche se costan-temente minacciato) aperto e democratico della “rete” rischiano di assumere fun-zione democraticistica di copertura nei confronti delle esclusioni ed espulsioni (leggi“analfabetismi di ritorno”, generali e settoriali, in cui piombano troppi diplomati elaureati) dai prodotti, dai canali e dai servizi informativi e culturali più tradizionalie complessi (per struttura profonda e non per “organizzazione esterna e puramentetecnologica”). In ogni caso, al di là della battaglia delle cifre, della contraddittorietà

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dei dati forniti da questo o da quel soggetto interessato, resta incontestabile chetutto quello che si riuscirà a fare perché si legga di più non sarà mai troppo e lo sifarà, lo si dovrà fare, comunque, anche attraverso e nelle biblioteche. Che si tratti diun imperativo tuttora decisivo per l’Italia lo si ricava dal clima di diffusa inculturache Tullio De Mauro coglie e documenta nel paese e, ancora una volta lucidamentee appassionatamente, ci trasmette dalle pagine del suo libro-intervista (curato daFrancesco Erbani) La cultura degli italiani (Bari, Laterza, 2004).

8. Coincidenze, convergenze? /2

All’attuale, più massiccio impegno verso gli altri, deve corrispondere il più vivoed elaborato contrappeso interno del nostro dibattito, così che abbia valore esignificato di arricchimento collettivo di quel che noi “agli altri” diremo, e altempo stesso, ci trovino meglio sensibilizzati a ricevere - e a rielaborare - glistimoli e i suggerimenti che “dagli altri” riceveremo. In questo senso, siamo,come del resto sempre abbiamo saputo, una élite che si prepara la fossa. (Chisiamo, in «Bollettino del Teatro Club Foggia», II, (1968), n. 3, gennaio).

Sarebbe ben più che una forzatura, forse un segno di delirante presunzioneretrodatata, attribuire a queste parole, farne discendere una volontà di “donazio-ne culturale di sé” in favore della città. Certo è che una lucida consapevolezza delcarattere transitorio, “suicida” della connotazione d’avanguardia e contestativadel gruppo c’era; come del suo essere fisiologicamente legata al bisogno di radica-le trasformazione, di sostituzione degli obiettivi, dei valori, delle finalità, del mododi proporsi della cultura e delle istituzioni, degli intellettuali, degli operatori ri-spetto al contesto, alla società, ai cittadini, agli utenti (che cominciano ad essereindividuati come soggetti e non solo come destinatari di prodotti e servizi grazio-samente elargiti, solitamente dalla parte più arroccata e inattingibile degli appara-ti pubblici: quella insediata, incistata nelle istituzioni culturali tradizionali, non acaso vissute e usate come “sine cura” o cosa propria). Così come diffusa tra i piùera la convinzione che il destino di consolidamento e di sviluppo di quelle cheapparivano come conquiste, quanto meno ideali, concettuali e di consapevolezza,era affidato alla loro assunzione da parte delle articolazioni rappresentative dellasocietà, delle istituzioni culturali e della loro generalizzazione e del lororadicamento nel tessuto della città.

In sintesi: mi sembra non arbitrario scorgere nell’azione di quegli anni, dellabiblioteca e del gruppo, una condivisione non “stipulata”, ma fondata su praticheconcrete e sulla constatazione della inadeguatezza dei tradizionali modelli organiz-zativi, della ratio stessa, delle finalità poste a giustificare e orientare le scelte dellacultura, delle istituzioni culturali, degli operatori. Tutto ciò è oggi evidente, anchese allora poteva risultare non immediatamente leggibile, perché si trattava, come giàdetto, di soggetti non omologabili, impegnati su percorsi diversi e che sembravanorinviare a visioni apparentemente divaricate, lontane, ma più per il carattere rituale

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della terminologia, della lingua parlata e della liturgia praticata dal gruppo e di quelleufficiali normalmente in uso nelle istituzioni. Al di là di queste differenze emergo-no in filigrana, soprattutto a distanza di tempo, lo sfondo pragmatico e la visioneideale insieme, che attribuivano una funzione attiva di democratizzazione della so-cietà alla cultura, a un accesso finalmente libero e generalizzato alla cultura. Unavisione incarnata dalla definizione della biblioteca pubblica quale “istituto dellademocrazia”, che molto probabilmente “quelli del Teatro Club” non conoscevano,ma che ben si attagliava all’idea di cultura che praticavano.

9. Cap. N/Memo?

a) Il contesto

I pachidermi lasciano tracce profonde e durature; come i grandi uomini, leesistenze significative. L’Italia, questo paese di grandi ingombranti passati, di gran-di uomini e grandi imprese, di grandi biblioteche storiche, ha faticato e fatica tutto-ra a dotarsi di grandi biblioteche (oggi mediateche, multimediateche?) moderne, damettere in campo di fronte ai complessi problemi propri delle società contempora-nee. Ma grandi bibliotecari sono nati e hanno operato proprio tra le difficoltà diuna storia fatta di contraddizioni e ritardi. Qualcuno ne ho conosciuto. Con qual-cuno ho lavorato, nella Biblioteca Provinciale di Foggia, nel Direttivo dell’Associa-zione, in giro per l’Italia e oltre: e sono, soprattutto, Franco Balboni, Angelo Celuzza,Angela Vinay, Luigi Crocetti, Luigi De Gregori, Luigi Balsamo, Mia L’AbbateWidmann. Sono quelli che mi hanno consentito di apprendere la professione, diamarla partendo dalla e costruendola sulla passione civile che, a lungo e a partiredagli anni ’60 e ’70, al di là delle difficoltà e delle contingenze, si concretizzò nel-l’obiettivo strategico della generalizzazione dell’accesso all’informazione, al sape-re, alla ricerca, alla cultura, alle fonti e ai servizi, alla loro utilizzazione libera e nonburocratica, autoritaria ed eterodiretta.

Come bibliotecario considero di essere stato fortunato. Ho vissuto inten-samente, “attraverso le biblioteche”, anni intensi e cruciali per l’organizzazionebibliotecaria italiana e in Capitanata. Si consolidava, qui e altrove, con successi esuccessivi ridimensionamenti e delusioni, l’esperienza dei “sistemi bibliotecari” epartiva l’era del decentramento regionale, che portò a una vera e propria esplo-sione dell’organizzazione bibliotecaria: centinaia di nuove biblioteche e grandedibattito sui nuovi compiti e le nuove funzioni. L’Associazione Italiana Bibliote-che cessava di essere una costola ministeriale e assumeva un ruolo decisivo nellagrande svolta di quegli anni. I bibliotecari degli enti locali uscivano dall’isola-mento, si incontravano, scambiavano esperienze, descrivevano le situazioni, perlo più disastrose, ma lo facevano immaginando e progettando un futuro; comeavevano fatto qualche anno prima, senza risultati, dando vita ad un’associazione“separatista”, contrapposta a un’A.I.B., che, fino alle soglie degli anni ’70, sareb-

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be stata tradizionale “portavoce” dei settori più retrivi e immobili del Ministerodella Pubblica Istruzione e delle biblioteche statali. Cominciavano ad avere vocei responsabili delle biblioteche dei piccoli centri italiani: la stragrande maggioran-za! “Bibliotecari campesinos” si autodefinirono in uno dei tanti infuocati con-gressi “di svolta”. Nel giro di poco più di un decennio, si innescarono processi esi realizzarono obiettivi inimmaginabili dopo più di un secolo - tra Unità e Fasci-smo - di disastrosa storia bibliotecaria, fatta di retorica esibizione e progressivodegrado, enfasi propagandistica e asservimento del prezioso patrimonio e delleistituzioni culturali nazionali; di progressiva incapacità di trasformare le gloriosema inevitabilmente elitarie istituzioni degli Stati regionali preunitari in strutturedella e per la “nuova Italia”, adeguandole ai cambiamenti, non solo politio-istitu-zionali, ma sociali ed economici di un paese che pretendeva di essere non solounito, ma moderno. Tutto quello che si riuscì a fare fu di trasformare quelle bi-blioteche, indistintamente, in biblioteche “statali”, “nazionali”: caso unico almondo e vezzo tardivo ancora oggi e qui da noi, di un provincialismo retorico eignorante. Le biblioteche cessavano finalmente di essere oggetti oscuri e miste-riosi, luoghi di pratiche “clandestine”, sconosciute e inaccessibili ai più e si impo-nevano addirittura come argomento giornalisticamente interessante, al Nord comeal Sud. Un serrato dibattito teorico e politico su questioni cruciali, come la fun-zione e l’organizzazione, la “mission”, la strumentazione legislativa, intorno al-l’oggetto “biblioteche”, ma più in generale, al patrimonio e ai servizi culturali. LeRegioni divennero laboratori di concreta sperimentazione e pronta applicazionedi analisi ed elaborazioni maturate nell’ambito del dibattito sul concetto di “beneculturale”, che, partito negli anni ’60 in seno alla “Commissione Franceschini”,avrebbe condotto, negli anni ’80, alla istituzione del Ministero dei Beni Culturalie Ambientali.

Fu questa, in tutto il paese, per il settore delle biblioteche, una vera e propriafase costituente, nel senso che si ponevano le basi - incerte, contraddittorie, disegualiquanto si vuole, ma concrete, visibili e soprattutto progettuali, proiettate verso il fu-turo - di una moderna rete di servizi bibliotecari di base e diffusi. Così come si dibat-tevano e si progettavano e si proponevano - attraverso l’azione finalmente libera dacondizionamenti e straordianariamente dinamica dell’A.I.B. - interventi in grado diridefinire l’architettura generale del sistema, il ruolo e le funzioni delle strutture “na-zionali”, la istituzione e l’articolazione di vecchi e nuovi servizi centrali. Di lì a qual-che anno - sia pure, come era inevitabile, tra contrasti e interrogativi, all’interno del-l’Associazione e nelle altre sedi “competenti” - avrebbe visto la luce SBN, il ServizioBibliotecario Nazionale, ambizioso programma - il primo, il solo! - di messa in rete edi organizzazione in sistema delle risorse bibliografiche del paese: strutture, patrimo-ni, servizi. Le Regioni passavano, intanto, progressivamente alle leggi di seconda ge-nerazione in materia. La rivoluzione informatica si trasformava in un processo com-plesso, con il quale le biblioteche e i bibliotecari avrebbero imparato a fare i conti,trasformando radicalmente e arricchendo fortemente potenzialità e offerta: di strut-ture, patrimoni e servizi, appunto. Si deve alla “rivoluzione” di quegli anni, se gran

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parte delle biblioteche italiane è oggi in grado di gestire e offrire Internet come lostrumento avanzatissimo - potenzialmente e tendenzialmente democratico e “senzalimiti e confini” - di una prassi biblioteconomica collaudata, capace di presentare, asua volta, la biblioteca come strumento e “luogo” maturo di analisi e di esercizio diun uso consapevole e critico di ogni tecnologia informativa da parte dei cittadini.

b) Il sommerso, ma non tanto

A proposito di grande storia bibliotecaria e di grandi storiche biblioteche; dipiccoli o grandi, antichi o precoci pachidermi culturali: quanto (non) hanno pesatosul passato, quanto (non) pesano sul presente, soprattutto del Sud? E nel calcolodel peso di oggi rientra il passato, quanto conta il ricordo? Quanto pesavano, inquegli anni, l’uno e l’altro, quel mito, la conoscenza di quello straordinario passatoe un ricordo non ancora maturo, quando non erano né l’uno né l’altro, ma presente,il mio presente nella biblioteca della mia città? Che peso, che risonanza hanno den-tro di me oggi e che valore, che significato, che senso avevano allora per me leesperienze che facevo, le cose che si realizzavano e, tra queste, quelle che in qualchemisura o di fatto erano riconducibili a me, al mio ruolo, indipendentemente dalfatto che fosse formalmente, ufficialmente riconosciuto o da me stesso “ritagliato”,all’interno di una gestione contemporaneamente centralizzata, frantumata e…“situazionista”?

L’avvio di quella che sarebbe stata, all’interno della Biblioteca Provinciale diFoggia e attraverso essa, una vera e propria avventura professionale, culturale eumana - “a termine”, ma, almeno per un quindicennio, “di formazione”: lunga eininterrotta, costantemente e appassionatamente assaporata - fu all’insegna, sì di unquasi incredulo entusiasmo, ma anche, oggettivamente, di una sia pur “eccitata”normalità. Ma essere dentro e armeggiare tra i penetrali della biblioteca - libri, scaf-falature, sale di lettura, depositi, schedari riservati, cataloghi -: tutto questo era giàl’avventura. Certo non l’esercizio scontato e di scarso interesse, niente affatto sti-molante per chi non ha mai apprezzato l’ebbrezza di poteri formali, della cosiddet-ta funzione vicaria del direttore. Ma, al contrario: schedare il piccolo “Fondo Nar-dini”; curare il servizio e la rassegna stampa per un paio di presidenti della Provin-cia e fungere da loro ghostwriter; scoprire i caratteri, i pregi e le lacune delle colle-zioni; seguire e concorrere a curare la visita di Cesare Zavattini (memorabile la fotoche lo ritrae, del tutto casualmente, in biblioteca, lui sceneggiatore di Ladri di bici-clette, accanto a quella del vecchio commesso, pubblicata in un ormai introvabileopuscolo!); cominciare ad entrare nel più vasto mondo delle biblioteche, attraversoun corso riservato ai bibliotecari statali e, attraverso e nell’A.I.B., maturare con-temporaneamente il convincimento che fosse giunto il tempo di fare entrare il mondonelle biblioteche: ce n’era a sufficienza per suscitare entusiasmi ed energie. Al pun-to di non intravedere i limiti che avrebbero accompagnato, già nella fase della gesta-zione (complici anche vicende esterne impreviste), la transizione dalla vecchia alla

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nuova (sede della) biblioteca e la sua vita futura. Come accennato, nel giro di qual-che anno, tra 1970 e 1973, l’ampliamento dell’organico aprì le porte, per la primavolta attraverso pubblici concorsi per tutti i diversi livelli - da vicedirettore ad “or-dinatore” ad “applicato”-, a forze numerose e giovani, compreso il drappello di“reduci del Teatro Club”. Il Sistema Bibliotecario Provinciale era in pieno svilup-po, la nuova sede quasi pronta. L’ansia, il fervore dei protagonisti: direttore intesta, amministratori, dipendenti, gran parte dell’opinione pubblica cittadina, eranointensissimi. Classificazione Decimale Dewey e informatizzazione delle proce-dure catalografiche costituirono le porte di accesso e gli itinerari di iniziazione -straordinariamente stimolanti e innovativi - alla teoria e alla prassi bibliotecono-miche: ben al di là delle angustie tecnicistiche cui la fama - un po’ oscura e, tuttosommato, immeritata - della disciplina sembrava introdurre. Uno sciagurato al-larme, non si sa quanto realistico o quanto addirittura artificiosamente lanciato:“Palazzo Dogana crolla!”, accelerò il trasferimento del patrimonio librario e do-cumentario, degli uffici e del personale della biblioteca presso la nuova sede diViale Michelangelo. E fu una eccellente controprova della antropologica vocazio-ne degli italiani-meridionali-napoletani-pugliesi-dauni-foggiani (dentro questa“linea” sono sintetizzati i cinque sesti di quella ideale che orienta lo sviluppo dellecollezioni di interesse locale della “Provinciale”!) alla gestione ottimizzata delleemergenze; nel corso della quale si distinse, insieme a tanti altri, Vincenzo Fidan-za: certo per abnegazione e spirito di iniziativa, ma soprattutto per olimpica cal-ma e ironico distacco; e per questo mi piace ricordarlo, quasi simbolo di queglianni e di quanti a uno spirito analogo sono capaci di informare il proprio piccoloo grande impegno quotidiano.

Ma il trasferimento materiale dei vecchi fondi della biblioteca coincideva conl’esigenza di arricchire e aggiornare le collezioni, di costituirne di nuove per nuoviservizi, di colmare lacune di carattere generale, per esempio sul versante delle scien-ze e delle nuove scienze, dei materiali periodici, fondamentali per dar conto dellaricerca e dello stato degli studi sulle discipline “di confine” e sull’attualità socialepolitica e culturale. Si trattò di un processo che si svolse in tempi brevi, con moda-lità governate dalla concitazione e dall’eccitazione intellettuale, in cui conoscenze epredilezioni personali si mescolavano ad analisi affrettate e presuntive delle esigen-ze di un futuro possibile pubblico della biblioteca. Era ancora fresco di stampa Lascelta del libro (1972) di Rinaldo Lunati; di là da venire Gli acquisti in biblioteca(1989) e Costruzione e sviluppo delle raccolte (1997) di Carlo Carotti e Le raccoltedelle biblioteche (1999) di Giovanni Solimine. E d’altra parte, chi mai si era avven-turato prima in analisi del risicato universo di utenti (l’1% della popolazione?) del-le strutture culturali locali? Era proprio questo che ci sembrava doversi fare: inne-scare un processo avanzato di sollecitazione (vellicamento?) della domanda, attra-verso i materiali che documentavano la vivacità e la complessità del momento stori-co-culturale che stavamo vivendo. E infine, non c’erano pur sempre, ormai da tem-po, nella città e in provincia centri culturali e di ricerca, luoghi moderni di applica-zione e di esercizio della scienza e della cultura: Teatro, Conservatorio, Accademia

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di Belle Arti, Laboratori del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Centri sperimen-tali per l’agricoltura, le foraggiere e la zootecnia, i complessi ospedalieri; lo zoccolostrutturale su cui, accanto alla stessa nuova biblioteca, cominciava a costruirsi laprospettiva dell’università foggiana (che, tra l’altro, proprio in biblioteca mosse iprimi passi), tali e tanti da lasciar supporre l’esistenza di una domanda sommersa,latente? Ma il percorso per l’affermazione di un ruolo forte della biblioteca dovevaessere (è tuttora) ben più arduo e non poteva esaurirsi nella definizione di un’offer-ta culturale (bibliografico-documentaria) accattivante e ricca. Fu così che la presen-za sugli scaffali di materiali riguardanti la filosofia della scienza e le antropologie, lecomunicazioni di massa e la linguistica; di quelli raccolti dai Lomax per la Libraryof Congress, delle bibliografie nazionali (italiana, inglese, francese, americana), deirepertori bibliografici speciali, dei classici nelle lingue originali, dei principali“Excerpta” di carattere medico, di settecento periodici correnti: tutto questo nonbastò, si rivelò in gran parte esercizio illusorio in sé. Imparai a capire allora quelloche da allora cominciai a tradurre nella formuletta: “la domanda di lettura non sicrea in biblioteca e attraverso le tecniche descrittive e catalografiche”. Insomma: gliapprendisti bibliotecari si erano trasformati in apprendisti stregoni e avrebberodovuto, da un canto imparare a fare i conti con il contesto, quello vero, non quellopresunto, immaginato, sognato; dall’altro che, senza una solida struttura tecnico-professionale specifica della biblioteca nel suo complesso, il gap tra le potenzialitàdi essa e la reale capacità di farle valere “fuori di sé” rischiava di consolidarsi e direndere sempre più concreta la prospettiva di un suo sostanziale isolamento, divederla trasformata, al di là della forte, ormai solida e permanente visibilità, in una“cattedrale nel deserto”: fenomeno, d’altra parte, non estraneo ad altri versanti delpanorama locale. Questi nodi sarebbero divenuti intricati e visibili più in là, so-prattutto negli esiti riconducibili al ruolo dell’apparato politico-amministrativo.

10. Due nuovi servizi

La Sala Ragazzi

Intanto la nuova biblioteca prendeva forma, attraverso servizi del tutto nuo-vi o apparentemente tradizionali, ma che di fatto non avevano nulla in comune conquello che la vecchia struttura riusciva a garantire. Inconfrontabile con la situazio-ne del passato, per non fare che un esempio, il destino che la nuova prestigiosa sedecominciò a garantire a compiti e fondi che più tradizionali e tipici non potrebberoessere in una biblioteca italiana: quelli destinati alla conservazione e allavalorizzazione dei materiali di interesse locale e di quelli rari e di pregio. Finalmen-te, attraverso l’allestimento o la partecipazione a mostre, l’attività editoriale, la pub-blicazione di manoscritti facenti parte delle collezioni della “Provinciale”, la pro-duzione di bibliografie e cataloghi a stampa o su scheda, i “tesori nascosti” diven-nero potenzialmente accessibili. Nuovo impulso ricevette «la Capitanata”», che,

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con i suoi oltre quarant’anni di vita, resta la rivista più longeva della storia culturaledella provincia che le dà il nome.

Per quel che mi riguarda, al di là dell’allestimento di sale come quella destina-ta agli adulti (in effetti sala di lettura a carattere generale) e quella “di consultazio-ne”, cui concorsi partendo dal patrimonio esistente e attraverso una “campagnaacquisti” che durò diversi anni, un particolare impegno fui chiamato a porre nellacostituzione della “Sala ragazzi” e della “Discoteca”. A ragione, credo ancora oggi,i due nuovi settori furono individuati come simbolo e concreto strumento operati-vo dell’urgenza e della prospettiva, rispettivamente, di legare la nuova bibliotecaproprio al luogo primario di formazione dell’abitudine alla lettura e della capacitàcritica di fronte ad essa e non solo; e di proiettarla in ambiti tendenzialmente sem-pre più forti e complessi del consumo culturale corrente, che personalmente consi-deravo non necessariamente e definitivamente terreno esclusivo ed elusivo di prati-che inconsapevoli ed eterodirette. Il carattere emblematico delle rispettive “storie”,fu confermato tutto, nel tempo, nel bene e nel male. Per questo mi sembra utiledirne, sia pure brevemente, anche perché nelle due vicende credo di aver speso einvestito, insieme ai colleghi direttamente impegnati nei servizi, molte mie energiee le speranze di rapido radicamento della biblioteca nel tessuto culturale e formativodella città e della Capitanata.

L’opuscolo che, distribuito in tutte le scuole, annunciava la nascita della “SalaRagazzi”, nella forma adottata - agile e ironica - e negli argomenti utilizzati - “li-bertà di aggirarsi e di utilizzare i materiali”, “nessuna barriera tra utenti e servizi” -tendeva a ribaltare quello che sapevamo essere un archetipo, saldamente e inconsa-pevolmente insediato, come immagine fortemente negativa e scostante e che tende-va a identificare su questo terreno aprioristicamente repulsivo scuola e biblioteca.La stessa costruzione del fondo librario fece i conti con questo sforzo, sganciandosidall’orizzonte strettamente “scolastico” e “parascolastico” imposto da un’editoriadi settore ancora carente, soprattutto sul piano della qualità e dell’autonomia e del-la specificità dei materiali destinati ai bambini e ai ragazzi, “al di là della scuola”.Problemi analoghi si posero perfino per gli arredi: scaffalature, tavoli, sedie, sche-dari, generalmente afflitti da una anonima e disarmante tristezza, come la produ-zione libraria, dove, tuttavia, non mancavano le eccezioni e le eccezionali novità(Munari e Rodari, per pochi, ma c’erano già), che esibivamo con insistenza. Su que-ste premesse, le iniziative della “Sala Ragazzi” si moltiplicarono, coinvolgendo de-cine di scuole, docenti e studenti. I terreni privilegiati furono quelli dell’attivitàteatrale appositamente ideata e realizzata (per e con i destinatari-protagonisti: do-centi e studenti) e dei seminari di qualificazione e di aggiornamento; le tematichequelle dei linguaggi e dei rapporti tra gli stessi e un forte radicamento con le realtàin cui operavano le scuole e vivevano i ragazzi: i piccoli centri, i quartieri e le borga-te del capoluogo.

I quaderni “Biblioteca Educazione” documentarono un complesso e si-stematico programma realizzato dalla “Sala ragazzi” e indirizzato alla scuola,non agli insegnanti e agli studenti, ma alla scuola come istituzione. Le prime

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pagine del primo quaderno, pubblicato nel 1979, ma costruito su esperienze avviatenel 1977 (che videro impegnati, con il gruppo “Giochiamo davvero” di Giuliano Pa-renti, due giovanissimi Susy Blady e Patrizio Roversi) esplicitano con chiarezza glielementi utili alla comprensione della logica, delle motivazioni, degli obiettivi, dellemetodologie e delle tecniche impiegate in iniziative protrattesi per alcuni anni e siste-maticamente accompagnate da pubblicazioni e mostre, l’ultima delle quali - “La partedell’occhio” - allestita nelle sale del Palazzetto dell’Arte.

La definizione della linea di intervento della sala ragazzi nei confronti dellascuola è necessariamente legata alle tensioni e alle contraddizioni che questavive, viene condizionata dai limiti e dalle carenze che limitano questa istituzio-ne, si scontra con la stessa arretratezza contro cui sono da tempo impegnatistudenti e insegnanti. Questo legame scaturisce dalla scelta fatta di non consi-derare la biblioteca come ‘seconda scuola’ né, d’altra parte, come porto francoin cui evadere, ipotizzare e realizzare avanzate sperimentazioni culturali. La‘terza strada’ adottata è quella di un confronto, pur nella specificità di interven-to, tra i due istituti, partendo, per quanto riguarda la biblioteca, proprio dailimiti e dalle contraddizioni più grosse della scuola per svolgere opera difruttuosa ‘provocazione’ e, in questo rapporto, trovare e ridefinire volta a voltail proprio ruolo. Questa convinzione ci ha indotto a considerare comeinterlocutore privilegiato nelle iniziative che si intraprendono non tanto i sin-goli insegnanti e studenti (anche se, nei fatti, è su questi che si fa perno), quantol’istituzione nel suo complesso, chiamata a responsabilizzarsi e a cogestire di-rettamente le attività. […] (Liliana Di Ponte, Teatro animazione ricerca. Un’espe-rienza di animazione teatrale tra biblioteca, scuola e territorio, Foggia, Ammi-nistrazione Provinciale di Capitanata, 1979).

Su tali premesse si articolarono progetti che si ponevano obiettivi specifici:analizzare problematiche della città e delle altre realtà coinvolte; utilizzare consa-pevolmente e con abilità il libro, il giornale, la biblioteca; scoprire che la parola nonè il solo mezzo di espressione; scoprire “un modo di ‘fare ricerca’ del tutto diverso(nel metodo, nei tempi di attuazione e negli strumenti utilizzati) da come comune-mente lo si intende e lo si pratica nella scuola”. Nelle stesse pagine così vengonodescritte le fasi di una iniziativa, esemplarmente significative del rifiuto dell’attivitàdi animazione come pratica di evasione e di banalizzazione:

lo spettacolo mobilita, attraverso linee prevalentemente emotive, una serie di in-teressi, richieste, interrogativi attorno ai problemi che tratteggia; - l’animazioneimmediatamente successiva, facendo leva su questa domanda, rende possibile esollecita un’immediata presa di posizione di ognuno, espressa prevalentementecon la parola scritta, il disegno, il fumetto; - la riflessione collettiva sui materialicosì prodotti conduce dalla emotività iniziale ai primi tentativi di sistemazionerazionale. Dalle inevitabili contraddizioni scaturiscono più solide motivazionialla ricerca; - la ricerca sul reale più prossimo, tramite interviste e indagini, dilatai primi risultati, li precisa, li contestualizza; - la ricerca su libri, giornali, docu-

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menti che affrontano quelle problematiche fa emergere altri termini della que-stione, riferendoli non solo ai confini della propria realtà ma a quelli relativi alladimensione e alle implicazioni complessive del problema. (Ibid.)

Mi appare tuttora chiaro come il complesso degli interventi progettati e rea-lizzati dovesse tendere e fosse diretto a un obiettivo fondamentale, coerente, da unaparte con la riconosciuta centralità del rapporto con la scuola e con il tema piùgenerale della formazione degli utenti della biblioteca (non si dice, da sempre, chela scuola è il luogo della formazione dei cittadini; e non sono innanzitutto cittadinigli utenti dei servizi, compresi quelli culturali?) della biblioteca; dall’altra con lanatura istituzionalmente propria della biblioteca, in quanto struttura al servizio ditutto il territorio provinciale e, perciò non servizio di base e di primo livello, ma disecondo livello, diretto, cioè, ai bibliotecari comunali e scolastici, ai docenti e aglioperatori dell’educazione e della formazione in genere e, attraverso questi, agli utentie ai potenziali utenti impegnati nella ricerca, nello studio, nell’impiego del tempolibero. Quello che mi sembrava doversi configurare era, insomma, un vero e pro-prio “dipartimento educativo”, che andasse ben al di là dell’idea della “sala destina-ta ai ragazzi” e, per di più, della sola area urbana e che fosse in grado di concorreread accrescere conoscenze e abilità specifiche, a partire dal terreno della “mediazio-ne catalografica” (Serrai), per integrare quella della mediazione educativa e formativae della comunicazione culturale e, infine, della scoperta e della pratica della creativi-tà come risorsa della (auto)formazione, dell’affermazione di sé e della condivisionedel sistema di valori su cui si fonda una democrazia tollerante e giusta.

Sarebbe forse arduo graduare il peso rispettivo di ciascuna delle cause chehanno determinato la mancata realizzazione di una articolazione funzionale di unaspecifica “competenza” della biblioteca, che consideravo allora e considero tuttorastrategica rispetto alla sua capacità di realizzare, attraverso la definizione di un pro-prio ambito formativo, gli obiettivi propri; i quali, arricchiti e complicati dalla com-plessità degli scenari sociali e culturali in cui vanno interpretati e perseguiti, tuttaviapermangono, al di là della mutata natura degli “oggetti” di cui si occupa e dellastrumentazione che impiega. Nessun dubbio, viceversa, sul fatto che, spostando inavanti il riferimento a quelle più generali e strutturali, le cause specifiche, anche adistanza di anni, possano essere sommariamente così descritte:

a) pressoché totale inesistenza, all’interno delle scuole, di un sia pur minimale (ereale, non apparente) servizio di biblioteca e, conseguentemente, di una pratica del-la lettura, della ricerca bibliografica e del rapporto con le istituzioni e le risorseinformative documentarie e culturali del territorio, che non fosse frutto, in genera-le, di un avvilente routine minimalista. Una scuola ancora inchiodata a un rapportoesclusivo e totemico con il libro di testo e che trasformava in libro di testo ognilibro, faticava a relazionarsi in maniera attiva con la biblioteca e a configurare eformulare, dall’esterno della stessa, una diversa e più forte proiezione verso i po-tenziali utenti collettivi e organizzati. Resta da aggiungere almeno l’aberrante stra-

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volgimento verso il basso della pratica delle “ricerche”: una grottesca e devastanteprefigurazione “ante litteram” del “copia/incolla” informatico;

b) enfatizzazione, all’interno della biblioteca, di pratiche forse troppo marcatamente(ma apparentemente, aggiungo) comprese sotto la generica formula di “attività cultu-rali con la scuola”, a scapito di quelle tradizionali e convenzionali: produzione dicataloghi speciali e bibliografie mirate, specifiche e periodiche; programmi di “avvia-mento e invito alla lettura” e “lettura in comune e ad alta voce” e così via. Una devia-zione per molti versi inevitabile, che e perché si spiega con il generale timore chepercorreva allora il mondo bibliotecario italiano di fronte al deserto di consuetudinee di tradizioni nei confronti del servizio di pubblica lettura, oltre che della letturastessa; con l’ansia di richiamare l’attenzione sul nuovo che nasceva e con il timore cheil nuovo non fosse riconosciuto come tale perché storicamente arenato nelle paludidelle pratiche catalografiche e del “bricolage biblioteconomico” (Rino Pensato). Quellache qui segnalo si configurò come una carenza grave che rappresentò un alibi incon-sapevolmente offerto alla scuola e fece venire meno, proprio nei confronti del sogget-to collettivo e organizzato, dell’utente istituzionale più rilevante e strategico, quellastrumentazione tecnico-culturale in grado di garantire l’assunzione di quel ruolo at-tivo e autonomo, perché tecnicamente attrezzato, di fronte alla biblioteca - quelladella scuola e quelle del territorio -, alle sue risorse, ai suoi servizi;

c) natura conflittuale che, al di là delle intenzioni, assunse la proposta di trasforma-re in “dipartimento educativo” la “Sala ragazzi”; una scelta che avrebbe consentitodi correggere errori e deviazioni, da una parte, e ataviche passività e pigrizie, dall’al-tra. È questa l’occasione, tra l’altro, di rilevare come la dizione “Sala ragazzi” so-stanzialmente confliggesse in maniera stridente e fin dall’inizio - dalla fase di pro-gettazione della nuova sede e della definizione dei relativi servizi - con il ruolocomplessivo della biblioteca, in quanto “provinciale” e in quanto “centro rete” estruttura di riferimento del Sistema Bibliotecario della Capitanata. Non trattando-si, infatti, di semplice leggerezza o approssimazione terminologica, non si vede enon si spiega - se non come un caso di strategia culturale non sufficientementechiara o non coerentemente attuata - come le funzioni implicite nel suo ruolo isti-tuzionale, politico-amministrativo e politico-culturale, potessero tollerare laprefigurazione di un servizio generale (di una funzione surrogatoria rispetto a quellidi base), indirizzato essenzialmente ai “ragazzi”, per di più solo a quelli del capo-luogo e non imponessero, viceversa, proprio la configurazione che successivamen-te proposi. Prevalse, perché inserita, come era opportuno che fosse, nel più ampiocontesto di una riorganizzazione complessiva dei servizi, il sospetto che la propo-sta fosse o potesse essere indirizzata a costruire posizioni di preminenza a favore diun addetto piuttosto che di un altro. Era una fase storica (giova ricordarlo e dichia-rarlo, finalmente, al di là di attardate e inestinguibili ipocrisie), in cui nella pubblicaamministrazione imperava (un imperfetto fuori luogo?) la più completa “cogestione”tra i diversi livelli: politico-partitico, politico-amministrativo, politico-sindacale e

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degli apparati. Nessun atto che avesse, sia pur minime e lontane nel tempo, in unaprospettiva breve media e lunga, capacità di incidere sul destino di un pubblicodipendente, quale che fosse la norma o la ratio politica, amministrativa e organizzativada cui traeva origine - magari la più alta e impellente - poteva sottrarsi al vaglio, alledefatiganti trattative e ai conseguenti stravolgimenti in grado di piegarlo agli accor-di raggiunti o da raggiungere a tutti i costi.

La Discoteca

La nascita della “Sala Ragazzi” rappresentava pur sempre, tra i servizi di nuovaistituzione, la centralità di una scelta a favore della scuola e del suo rapporto con labiblioteca, tradizionalmente forte (o meglio, con forza e sistematicamente enuncia-ta) perfino nel nostro paese (anche se rimasta lettera morta lungo tutto il periodopost-unitario, il Fascismo, fino al secondo dopoguerra e agli anni ’60), ma mai,comunque, elusa in ogni biblioteca moderna in ogni parte del mondo; particolar-mente e soprattutto se e perché generalmente ispirata a quel concetto di public li-brary affermatosi in area angloamericana, in stretta relazione, già nel XIX secolo,con i processi di scolarizzazione e di alfabetizzazione di massa.

Anche la previsione e la costituzione della “Discoteca” (successivamente epiù correttamente denominata “Fonoteca”), destinata alla cultura musicale, al ma-teriale sonoro e alla produzione discografica e su nastro magnetico, vanno ricondottealla stessa matrice di cultura bibliotecaria, lontana da una visione sacrale esacralizzante delle istituzioni pubbliche, dei musei, delle biblioteche, degli archivi,destinati tutti, programmaticamente, alla conservazione e al trattamento di mate-riali rigorosamente ben individuati da una rigida e solida tradizione. Si pensi, vice-versa, per stare a quello che qui ci interessa, allo straordinario, già citato, materialeraccolto sotto il nome dei Lomax presso la Library of Congress di Washington ealle analoghe iniziative rapidamente consolidate presso gran parte delle bibliotechepubbliche americane e inglesi. Nel panorama italiano degli anni ’70 la nascita della“Discoteca” foggiana rappresentava una sostanziale, radicale novità, anche per ledimensioni della nascente nuova biblioteca, per il carattere esemplare che si attribu-iva al progetto, non a caso seguito passo dopo passo da Virginia Carini Dainotti,vestale del modello public library, consegnato a quel vero e proprio manifesto chefu il suo La biblioteca pubblica istituto della democrazia (Milano, Fabbri, 1964).Eppure, l’angustia degli spazi (quattro cabine individuali di 1m.x1m. e un’areascaffalature-ufficio di 10 mq. circa) destinati all’interno della nuova sede a questoservizio, insieme alla mancata previsione di un’area di ascolto comune (cui si rime-diò successivamente), denunciavano più un frettoloso ricalco del modello, che nonuna preventiva, consapevole definizione dei presupposti e delle strategie culturali chela scelta implicava. Questa della discoteca fu per me un’importante esperienza, anchese e forse proprio perché si rivelò uno dei terreni sul quale si misurò il peso del con-testo reale rispetto ai modelli e il destino di inefficacia degli stessi di fronte ai fatali

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esiti di isolamento, di “fuga in avanti” e ridimensionamento, costantemente in aggua-to nel settore culturale, come in quelli sociali ed economici e sistematicamente ricor-renti nella storia recente del Sud (si pensi all’asse “intervento straordinario, Cassa delMezzogiorno, intervento sul ‘fattore umano’, Formez, Centri Servizi Culturali”). Lastessa preliminare costituzione del fondo discografico di base pose questioni di gran-de interesse perché imponeva di misurarsi con il panorama di un mercato affollatissi-mo di prodotti e articolatissimo; così come si rivelarono stimolanti e complesse quel-le legate alla descrizione catalografica dei materiali, in un contesto nazionale in cui simuovevano i primi passi verso scelte comuni e coerenti con le regole e i repertoriinternazionali in materia di “non-book materials” e supporti sonori.

Per quanto la stessa nascita della nuova biblioteca rendesse scontata e inlinea di principio accettata la presenza di supporti “non cartacei”; e per quantofosse rifiutata a priori - e pour cause - ogni ipotesi di “consacrazione” o di esclu-sione di questo o quel genere musicale, di specifici e singoli materiali sonori, conl’una e con l’altra si dovette successivamente fare i conti. E furono proprio lavastità della produzione, la complessità della cultura musicale e dell’universo so-noro e la necessità di misurarsi con le risorse finanziarie e con le capacità gestionaliconcretamente disponibili, a imporre scelte e percorsi culturali precisi, in qualchemisura obbligati. Difficoltà vennero, come era inevitabile, dall’assenza in loco difornitori in grado di far fronte ad ordini quantitativamente rilevanti e diversificatiper generi. I laboriosi percorsi di acquisizione dei materiali toccarono Bari, Na-poli, Roma, Bologna e Milano e dettero luogo, nel corso degli anni impiegatinella costituzione della dotazione di base, complicati dalle allora - così sembravae si diceva - inevitabili lungaggini burocratiche, anche ad episodi ai limiti del grot-tesco: un importante rivenditore napoletano, sfiancato dall’attesa dei pagamenti,di fronte alla richiesta di una nuova fornitura, replicò di essere pronto a soddi-sfarla solo a fronte di un pagamento non “pronta cassa”, ma… “a cassa fulminan-te!”. Di ben altro tenore, fortunatamente, i confronti e le discussioni sui termini -di volta in volta, di genere, cronologici, quantitativi - entro i quali definire gliacquisti e i tentativi posti in essere per produrre un circuito tra diverse istituzionilocali, partendo dai temi della cultura musicale. Autori ed esecutori (anche diver-si per le opere più importanti), come ovvio, furono i riferimenti obbligati per lamusica classico-sinfonica e operistica; e non fu trascurata quella contemporanea,salvo l’acuirsi dei problemi della scarsità e della difficile reperibilità delle incisio-ni. Altrettanto ovvia l’attenzione quasi esclusiva posta, nel caso del jazz, agli ese-cutori; in questo ambito si cercò, tra difficoltà già allora note, di valorizzare ilruolo del jazz italiano contemporaneo. Difficoltà di ben altra portata e di naturaopposta, incontrammo nella compilazione di elenchi ideali e ipotesi e pacchetti diacquisto dedicati alla musica popolare e demoantropologica da una parte e a quellaleggera-pop-rock dall’altra. Per quel che riguarda la prima, volendo restringere lescelte, come di fatto si decise di fare, all’ambito italiano, ben poco veniva offerto dalmercato discografico. E fu così che si cominciarono a stabilire rapporti con la Disco-teca di Stato, che, per non fare che qualche esempio, ci fornì copia di registrazioni

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storiche, come quelle effettuate negli anni ’50 sul Gargano da Diego Carpitella e AlanLomax e quelle riguardanti eventi e personaggi della storia italiana; e a cui offrimmola possibilità di acquisire copia di esecuzioni storiche e rare in mio possesso e chedepositai in copia (realizzata dalla stessa Discoteca di Stato) anche presso la nostrabiblioteca: il “Trio n.1” di Schubert nella esecuzione di Cortot-Thibaud-Casals; “Onl’appelle Manon”, nella interpretazione di Enrico Caruso; e incisioni di Chaliapine eMc Cormack. Nonostante gli sforzi, credo che, fin da allora il settore dedicato allamusica popolare fosse particolarmente carente. Così come credo sia tuttora irrilevan-te la documentazione riguardante quella leggera-pop-rock; ma, come detto, per ra-gioni opposte. Di fronte, infatti, alla sterminata, quotidianamente incalzante e mon-tante produzione nazionale e mondiale e alla conseguente impossibilità di definire uncriterio e una strategia plausibili di formazione e, in prospettiva, di incremento dellaspecifica raccolta, si adottò una decisione in radicale contrasto con la linea di “nonconsacrazione” preventivamente stabilita. Si decise, infatti, non so quantosalomonicamente, di acquisire quei materiali relativi a opere, autori, esecutori, grup-pi, complessi… consacrati - evidentemente dal passare del tempo, dalla critica e dalmercato - nella definizione di “classici” della storia della musica rock, pop e leggera.Sono ancora qui in attesa di superare, da un canto le mille obiezioni possibili, dall’al-tra le altrettante difficoltà di una eventuale, possibile scelta alternativa (che non sia,oggi, quella, estremamente controversa, offerta dal libero accesso alla “rete”). Comesono ancora incerto circa le ragioni che impedirono la riuscita di una ipotesi di lavoromessa in campo già nella fase di costituzione della raccolta, che, mirata, come credotuttora giusto, a un’utenza collettiva e organizzata, oltre che a quella spontanea, pre-vedeva il coinvolgimento del Conservatorio “Giordano”, docenti in prima istanza.Terreno prescelto di incontro fu il rapporto della musica, delle correnti, dei composi-tori, dei musicisti in genere, con i movimenti, gli autori, le correnti delle altre arti edelle diverse discipline del sapere e del pensiero nei diversi periodi storici. Un terrenofin troppo scontato, apparentemente banale, o fin troppo arduo? Fatto sta, che, dopoqualche incontro preparatorio, il tentativo si arenò e ripiegò su occasionali incontri efiloni tematici di ascolto comune. Si può ben dire, perciò, che, tra i servizi della bi-blioteca e rispetto alle potenzialità innovative, quello della “Discoteca” è stato il più…sottoutilizzato, se si fa eccezione per uno sparuto gruppo di docenti e di appassionati(per lo più giovani e addetti ai lavori).

Quel che è certamente rimasto del “lavorio” di quegli anni è depositato -tangibile testimonianza delle grandi difficoltà, ma anche del grande fascino cultura-le che suscita un lavoro all’interno delle istituzioni pubbliche, che cerchi di esserenon di puro ricalco dei meccanismi prevalenti, dominanti del consumo - tra glistigli della fonoteca: un (ormai) piccolo fondo di incisioni storiche rare e preziose;perché prestigiosi gli esecutori, perché ormai introvabili sul mercato corrente, per-ché su supporto, il vinile, desueto, eppure considerato “da melomani veri”: da quel-le riguardanti jazzisti leggendari come Muggsy Spainer, “Jelly Roll” Morton, FatsWaller o i nostri Gianni Basso e Oscar Valdambrini, all’ormai introvabile Messa“Se la face ay pale” di Guillaume Dufay e ai “Mottetti e Madrigali” di Gesualdo da

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Venosa; dai “Quattro Concerti per corno” di Mozart nell’esecuzione di Seifert al“Como una ola de fuerza y luz” di Nono; dalla “Donna Lombarda” ai “Maggidella Bismantova” e così via. Attraverso la fonoteca sperimentai un piccolo saggiodi quello che si sarebbe potuto (dovuto) fare, anche su questo versante; di quelloche ogni biblioteca, ogni istituto culturale pubblico locale, dovrebbe essere messoin condizione di fare, di tentare almeno, rispetto ai materiali e alle fonti, alla memo-ria, disseminata e nascosta, dispersa sul territorio. Mi accadde di visitare (grazieall’indimenticabile Ferrante) - e mi fu concesso di farlo in maniera abbastanza me-ticolosa - “casa Volpe” a Sant’Agata di Puglia: una piccola casa-museo familiare.Quella occasione produsse il recupero e la pubblicazione del prezioso archivio (acura di Viviano Iazzetti) e l’acquisizione da parte della Biblioteca Provinciale di unpiccolo fondo discografico su grafite, che comprendeva rare incisioni di “Bohème”,“Aida”, “Norma” e un altrettanto raro grammofono d’epoca. Infine: la storia dellaFonoteca è stata accompagnata dalla progressiva acquisizione di un prezioso baga-glio di conoscenze in materia di descrizione dei materiali sonori, che non ha, tutta-via, potuto contare, all’interno della biblioteca, su una adeguata e altrettanto co-stante catena di trasmissione: un dato di fatto, che riconduce a limiti “storici” e“strutturali” delle vicende della Biblioteca Provinciale di Foggia (intorno alle qualiqueste pagine cercano di imbastire, nei limiti detti ed esplicitamente accettati di unalettura “molto personale”, una riflessione).

11. Breve storia di un collezionista. I manifesti cinematograficidella Biblioteca Provinciale

Franco Ferrarotti, titolare della prima cattedra italiana di Sociologia, ebbemodo di sostenere, con convinzione e argomentazioni, che tutto quello che si ècapito e spiegato della società italiana del secondo dopoguerra, della ricostruzione,degli anni ’60 e del cosiddetto “boom economico”, lo si deve più al cinema che allasociologia. E si riferiva, evidentemente, allo straordinario percorso dal “neorealismo”alla “commedia all’italiana”. Ma quel contributo di analisi il cinema - tra alti e bassi- non ha mai cessato di fornirlo, fino ad oggi e, ovviamente, in tante parti del mon-do: non è un caso che venga considerata, per antonomasia, la musa (e lo specchio,più o meno deformante, poco importa) della contemporaneità. Spesso ha fatto di sestesso - del patrimonio di immagini, di suoni e miti, di personaggi, parole e storiesedimentato nella memoria e nell’immaginario di ciascuno - l’oggetto di nuovi rac-conti. Tralasciando la lunga teoria di grandi e meno grandi “registi cinefili” - dalleorigini ad oggi, il cinema è un continuo “filmarsi addosso” -, Ettore Scola e Giusep-pe Tornatore hanno raccontato, rispettivamente in Splendor e in Nuovo CinemaParadiso, nello stesso anno - il 1988 - il ruolo del cinema, della distribuzione cine-matografica nella costruzione del bagaglio di informazioni, di paesaggi - fisici ementali - di comportamenti e di modelli, di visioni e sogni di un intero paese; diinteri paesi, soprattutto di quelli della periferia italiana, di quella meridionale in

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particolare, deserta di luoghi e strumenti per l’informazione e la cultura, oltre cheper la socialità (spesso per la stessa speranza).

Parte da qui, da lontano, la storia dell’acquisizione della collezione di manifesticinematografici oggi in possesso della Biblioteca Provinciale. Da molto lontano; e dauna sorta di delirio, non dissimile da quello collettivo che accompagnava spesso l’ap-parizione sullo schermo, - o la sparizione e la cancellazione, per censura o per rotturadella pellicola - di un personaggio, di una sequenza. Tutt’altro dai fanatici deliri che cidocumenta la televisione e che vanno in scena lungo le passerelle della Croisette o delLido veneziano. Perché precoce e furioso, individuale e segreto, solipsistico delirio dipossesso fu quello che si impadronì di Matteo Soccio, intorno agli otto nove anni, trail finire dei ‘40 e gli inizi dei ‘50. Fu allora che nella natia Pietra Montecorvino, picco-lo centro dell’Appennino Dauno, vide il suo primo film, Il Cucciolo (1946), nel neo-nato Cinema Lembo (1948). Non era un film qualsiasi, anzi. Fiaba triste e struggente“che ha fatto piangere intere generazioni”, premio Oscar per la fotografia, sembravafatto apposta - protagonisti una famiglia contadina, un giovane cerbiatto e un bambi-no; interprete Gregory Peck - per “impadronirsi” del piccolo Matteo e per conqui-starlo ineluttabilmente alla “fabbrica dei sogni”. Se si pensa che il secondo film chevide (o quello di cui conserva, non a caso, ed è questo che conta, nitida memoria) fuCatene (1949) di Raffaello Matarazzo, uno straordinario melodramma, che combi-nava eros, dedizione e spirito di sacrificio, centralità della famiglia e… del divismo(Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari), la sola cosa che meraviglia non è che Socciouscisse dalla doppia esperienza completamente soggiogato dal cinema, ma la singola-rità della forma che quella “possessione” assunse e la motivazione, la spiegazione chedi quella modalità egli adduce. Al giovane, precoce cinefilo (definizione assolutamen-te riduttiva) sembrava assurdo e crudele che, riaccese le luci, tutto svanisse e, addirit-tura, che durante la proiezione le immagini non avessero consistenza, non lasciasserotraccia sul telone (ancora oggi, nel rievocare quella sorta di “deprivazione”, si alza inpiedi e compie il gesto di toccare… quelle ombre sfuggenti). Per fortuna vennero insoccorso le “locandine”, sintetiche evocatrici del sogno.

Si può immaginare la storia - umana, psicologica, culturale e materiale -, chepartì in quel lontano 1948/1949 e, soprattutto, la progressione alluvionale di “ap-porti”, che l’esperienza e l’audacia, giorno dopo giorno acquisite, e il montantedelirio, alimentato dalle “conquiste”, investì, per decenni, casa Soccio, in Via Spala-to, a Foggia, dove, a qualche anno di distanza da quelle iniziali folgorazioni, lafamiglia d’origine si era trasferita. Il tutto (o quasi) mi fu raccontato, fresco dellafunzione di direttore, da Matteo: con un misto di orgoglio e di senso della inelut-tabilità degli eventi; e da sua moglie Dora, che lasciava trasparire un orgoglio vicinoalla tenerezza che si ha con i “folli”, insieme a una disperazione, che giunta, credetti dicapire, alla soglia estrema di gesti irreparabili, per l’equilibrio della famiglia o l’inco-lumità del “collezionista”, si trasformava in speranza e sotto tale forma si aggrappavaa me (alla biblioteca), ai miei cenni di meraviglia, di approvazione, di grande interesse.Un intreccio, un incrocio di occhiate, esclamazioni, sensazioni a tre, che si facevadenso, stringente, incalzante, via via che la signora, desolata e implorante compren-

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sione e aiuto, apriva sportelli, cassetti, armadi, valige, ripostigli, scatoloni… e, infine,stremata, il forno: il tutto stipato fino all’inverosimile di locandine, manifesti, foto discena, ritagli. Compreso il “dramma”, fui informato dell’intenzione di Soccio di ce-dere gran parte della collezione, “chiusa” in sé e di fatto tematica: quasi esclusivamen-te cinema italiano, e organizzata entro termini temporali abbastanza definiti e circo-scritti: anni ’20/’60 (ma con esemplari fino agli anni ’80). Obiettivo della decisione erala non più segreta speranza di trasformare, scambiare i due sogni di una vita: il cinemae una casa di proprietà! (l’esclamativo è d’obbligo, per una storia che sembra venirefuori da quegli anni sì, ma raccontata dal cinema di qualche decennio prima; e che, sisussurra, potrebbe aver ispirato, viceversa, quella sulla quale Tornatore costruì il suoNuovo Cinema Paradiso da Oscar).

Non si affacciarono dubbi di sorta sulla utilità dell’acquisizione, anzi sullastraordinaria occasione che si presentava di documentare una vicenda personalenon comune e, insieme, una serie altrettanto importante di implicazioni: un pezzodi storia culturale di una comunità attraverso la distribuzione cinematografica e lasua programmazione (tutta da indagare, al di là delle suggestioni provenienti… dalcinema); e quella, “interna” e specifica, della grafica applicata ai manifesti e, ovvia-mente, del cinema italiano del periodo rappresentato.

Ma quante buone intenzioni e azioni si impantanano, per cause ben note oper ragioni (apparentemente) misteriose? (A proposito: la burocrazia, di cui si la-mentano cittadini, operatori culturali, industriali, politologi, analisti sociali…, è un“mistero”, un alibi, o un unico grande, diffuso “ministero”; il “Grande Fratellastro”di una società perennemente in bilico tra lamento e scaricabarile?). Questo non fu ilcaso. Nel giro di qualche mese, col sostegno immediato e incondizionato dell’as-sessore del tempo, Leonardo De Luca, “appenninico” pragmatico e fidente, la trat-tativa era conclusa. Non si rivelò particolarmente complicata, anche perché non fudifficile battere la concorrenza, prestigiosa, ma debole nell’occasione, di ArturoCarlo Quintavalle e del suo Archivio dell’Immagine dell’Università di Parma: lasua offerta, infatti, - un’auto di lusso - non interessava minimamente i Soccio. Matteo,infatti, era impiegato presso una concessionaria Citroen ed entrambi… sognavanouna loro casa, altro che una nuova macchina. La parte più impegnativa dell’opera-zione, ma anche più interessante, riguardò l’acquisizione di pareri culturali e tecnicidi congruità; che furono forniti da Gianni Attolini, allora ricercatore presso la cat-tedra di Storia dello spettacolo dell’Università di Bari e da Luciana Zingarelli, sto-rica dell’arte. Prima della fine del 1985 l’operazione era conclusa. Tra le poche, nelnovero di quelle in qualche modo riconducibili al mio diretto impegno, che sentodi sottoscrivere in pieno, perché completamente rispondente all’idea che sempre hocoltivato del ruolo di un’istituzione culturale pubblica: di attiva e dinamica conserva-zione/innovazione. L’indubbia rilevanza dell’acquisizione mise in moto l’imperativodi non chiudere i materiali nel cassetto. Cominciò il solito lavoro di indagine sullenorme e di messa a punto delle tecniche di descrizione (di questo e d’altro riferisceAntonio De Cosmo ne suo Rita Haywart e il suo doppio. Diario grafico grafico-catalografico, apparso in «la Capitanata», nel n. 2 del 1994); sulle modalità di conser-

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vazione e, contestualmente, di riproposta. Dall’ansia di rendere immediatamente con-creto quest’ultimo obiettivo, “in parallelo” e non “dopo” le procedure di descrizio-ne, che furono realizzati un intensissimo incontro con Vincenzo Mollica, nascente egià brillante divulgatore-raccontatore di storie e personaggi legati al cinema, al fu-metto, alla musica e una piccola mostra presso il Palazzetto dell’Arte, dedicata al duoRota-Fellini e collegata ad un concerto dei Solisti Dauni su musiche del compositoremilanese, tanto legato alla Puglia e all’ensemble foggiano, che aveva diretto tra il ’73 eil ’77 e per il quale scrisse espressamente nel 1977 il quinto tempo, “Presto”, del suoNonetto, cui aveva lavorato già in due precedenti riprese, nel ’59 e nel ‘74.

La collezione di manifesti della Biblioteca Provinciale - lo sta ampiamente dimo-strando - è una fonte inesauribile di suggestioni e di iniziative, ma anche di ricerchetrasversali e in profondità. Ma non va dimenticata la particolare storia che l’ha originata.Non sarebbe, perciò, disdicevole conservare, nell’intitolazione, il nome dell’avventuro-so collezionista: Matteo Soccio. La memoria porta sempre il nome di uomini.

12. L’Archivio della Cultura di Base, ovvero, la biblioteca si nega: due volte

All’atto del mio ingresso in Biblioteca Provinciale come vicedirettore, si ve-rificò una sorta di tacita attribuzione di compiti, che mi destinava (fu davvero così,o mi sembrò che così fosse, o “decisi” che così dovesse essere; o, infine, mi sembradi poter ricostruire che questo si sia verificato?) ad avere un’attenzione particolareai meccanismi, ai soggetti e ai percorsi considerati e di fatto non “ufficiali”, nontradizionali, non consueti rispetto a quelli delle istituzioni culturali pubbliche. Una“assegnazione” che, facendosi ruolo istituzionale, sembrò derivare da una dato ge-nerazionale (avevo ventisei anni) e da una storia personale e culturale (cui, peraltro,in queste pagine si è, direttamente e indirettamente, fatto cenno); fatto sta che iltutto assunse rapidamente anche le forme di una sorta di routine: un filo diretto coni giovani (l’informazione bibliografica e l’assistenza nella compilazione delle tesi dilaurea restano tra le esperienze più interessanti, istruttive e “rivelatrici” tra quelleda me fatte nell’intero settore) e con le organizzazioni spontanee e le articolazioniculturali “non formali” presenti ed emergenti: dai Circoli del Cinema - le esperien-ze si inseguivano e moltiplicavano - al Cidi, dal Gruppo Speleologico Dauno aiCentri Servizi Culturali, all’Arci, alla Mathesis, ai Solisti Dauni, al LaboratorioArtivisive, ai gruppi che affiancavano, ora formalmente, attraverso i “comitati digestione”, ora informalmente, le biblioteche comunali. Nei confronti di tale uni-verso finivo spesso col rappresentare me stesso e la biblioteca, fino al punto di es-servi coinvolto direttamente, personalmente, appunto, in qualche caso fin dall’attodella nascita dei gruppi.

Le vicende dell’Archivio della Cultura di Base sono dentro tutto questo eben più in là di tutto questo. Difficile, complessa da raccontare, da sintetizzare, senon affidandosi anche ad alcune brevi citazioni risalenti alle diverse fasi, vere e pro-prie epoche che quella storia ha subito, riemergendo con una prepotenza degna di

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una riflessione ben più ampia (e forse distaccata, ammesso che questo ne garantiscal’attendibilità) di quella che queste righe riusciranno ad assicurare. Come vedremo,materia e soggetti in grado di garantire che ciò avvenga non mancano. E non è uncaso che, in qualche misura, sia già avvenuto.

La storia delle biblioteche italiane - delle biblioteche nel loro complesso, nonquella delle singole strutture, né quella dell’ “organizzazione” o del “sistema” bi-bliotecario, tuttora inesistente - è una storia antichissima e nobilissima; recente e“miserabile”: eppure/oppure, se si vuole, “eroica”; recentissima e sulla strada diuna rapidissima e “incredibile” “riabilitazione”, di un sostanziale riaccreditamento:non irreversibili, né generalizzati. Sinteticamente si potrebbe dire che i problemiappena passati o ancora attuali delle nostre biblioteche sono riconducibili a unaincapacità storica dei ceti dirigenti - politici (in senso lato) e intellettuali (in sensolato) - di far germinare un presente e un futuro da uno straordinario passato, ridot-to viceversa a peso retorico ingombrante e ingestibile e perciò spesso votato al de-grado. Nemmeno nelle fasi cruciali di “modernizzazione” che hanno caratterizza-to le vicende post-unitarie, quelle del Fascismo e quelle del secondo dopoguerra, lebiblioteche, come altri luoghi nodali del rapporto società-formazione-cultura-eco-nomia, sono state individuate e sono riuscite ad imporsi come strumenti al serviziodi un paese moderno. Non è un caso, a conferma della stretta connessione tra svi-luppo della democrazia e affermazione del concetto di biblioteca pubblica, che questovenga a maturazione, qui da noi, solo a partire dagli anni ’70 del XX secolo, a centoanni dall’analogo processo verificatosi in paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti.Non sorprenderà, quindi, che un tale ritardo temporale se ne sia portati dietro diulteriori sul piano tecnico, culturale, strutturale, gestionale e così via. Come quello,per non citarne che uno, che qui mi interessa in particolare segnalare e che si èconcretizzato nella radicale separatezza, ripropostasi e riprodottasi fedelmente al-l’interno dei tradizionali istituti culturali, tra cultura “alta”, accademica, ufficiale e,in quanto tale, consacrabile (e non a caso consacrata esclusivamente nella scritturain senso stretto e dalla pratica e dal riconoscimento delle élites che la producono econsumano) e cultura “popolare”, “bassa”, non accademica, destinata a circuiti “al-tri”, “esterni”, spontanei, subalterni, non riconosciuti, non consacrati, in quantoquasi sempre consegnati alla oralità. I materiali “minori”, “non librari”, i contenuti,le storie, i testi non organizzati in forme tradizionalmente riconosciute o non pro-venienti da soggetti individuali e collettivi non altrettanto tradizionalmente “abili-tati” e riconosciuti, hanno faticato e faticano tuttora ad essere accettati in gran partedelle biblioteche italiane. Altrove, nei paesi di cultura bibliotecaria matura, essi rap-presentano quasi sempre il nerbo, il nucleo centrale delle “collezioni locali” e dellesezioni di “cultura e tradizione orale”.

Quando, a metà degli anni ’70, dall’incontro con due giovani ricercatori -Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero - prese l’avvio il progetto di costituzione nel-l’ambito della Biblioteca Provinciale, dell’Archivio della Cultura di Base, mi sem-brava chiaro che di questo si trattasse: della preliminare negazione dello statutotradizionale, della messa in discussione, non solo della “natura” apparentemente

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immutabile della biblioteca, ma della sua natura “incompleta”; della incompletezza,cioè delle sue funzioni, del suo ruolo istituzionale, esclusivo ed escludente, della con-seguente incompletezza delle sue raccolte, delle sue tecniche di raccolta e diacquisizione, di trattamento e di descrizione dei materiali. La grande “fortuna” cheper ragioni diverse - dalla maturazione delle tematiche del decentramento ammini-strativo e della più diretta e diffusa partecipazione democratica a tutti i livelli, finoall’attenzione e al ruolo nuovo che assumevano le “chiese locali” - si guadagnarono lacultura popolare e quella materiale, apriva, se non le porte di tutte le istituzioni cultu-rali pubbliche, quanto meno ampi spiragli nel dibattito tra gli operatori, i quali pone-vano con decisa problematicità la questione della costituzione di sezioni e diparti-menti programmaticamente dedicati alle espressioni e alle testimonianze di quelleculture. Quella che allora definivamo “indifferenza” (in pratica un’aperturaproblematica) rispetto alla localizzazione di tali sezioni presso biblioteche, musei,archivi-centri di documentazione (Guido e Rino Pensato, Storia locale, cultura popo-lare e biblioteca: il caso dell’Archivio della cultura di base, in La memoria che resta.Vissuto quotidiano, mito e storia dei braccianti del Basso Tavoliere, Foggia, BibliotecaProvinciale, 1981), non impediva (e non impedisce tuttora) che altrettanto chiaro ap-parisse a me, in quanto bibliotecario, e a loro, in quanto ricercatori demoantropologici,il perché dovesse essere e fosse proprio una biblioteca a sperimentare il percorsoipotizzato. Non era/è, infatti, la biblioteca pubblica moderna, il luogo e lo strumentodella conservazione della memoria individuale e collettiva; in particolare di quella“locale” e di quella fortemente e precocemente deperibile; nel caso soprattutto, edera/è il nostro, di una struttura a forte vocazione territoriale? Ma non è così, anche esoprattutto in questo caso, nel caso, cioè, della “cultura locale”, della produzioneculturale locale “marginale”, e dell’istituzione culturale dichiaratamente,programmaticamente, decisamente orientata alla circolarità della azioni e degli inter-venti; schierata, cioè, sul versante dell’uso, della “restituzione” agli utenti delle risorseinformative e documentarie, delle fonti? O almeno, non avrebbe dovuto, non do-vrebbe essere tuttora questo?

Le attività dell’Archivio suscitarono un indubbio interesse, ben oltre la di-mensione locale e sui piani diversi su cui si realizzavano: da quello strettamentebiblioteconomico (sia pure in un senso radicalmente e consapevolmente innovati-vo), a quello più ampiamente demoantropologico e storico-culturale. Basti pensarea un solo tema, esemplarmente cruciale e trasversale, particolarmente in quegli anni,ma che potrebbe essere riproposto (e forse si ripropone) oggi, in termini sostanzial-mente analoghi. Mi riferisco al tentativo che, tra gli altri, l’Archivio pretendeva dirappresentare e realizzare: quello di contribuire a far uscire (protagonisti e inter-preti di) quella parte rilevante, soprattutto in Capitanata, della storia locale e dellastoria generale del Paese che riguardava le cosiddette “classi subalterne” appunto,dal ghetto della marginalità in cui, nel suo complesso, si è sempre collocata e dibat-tuta, se e perché non “trattata” con gli strumenti, i metodi e le fonti della storiogra-fia ufficiale; ma anche dalla apparentemente ineluttabile e permanente tendenza ascrivere e trasmettere acriticamente la mitografia individuale e collettiva di una

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classe, o meglio: di un’avanguardia di una classe e di ceti popolari, in quanto mi-litante e, soprattutto, in quanto “organizzata” in apparati e istituzioni. Si prova-va, inoltre, a proporre una lettura dei termini “avanguardia” e “militante” nonnecessariamente ed esclusivamente in senso strettamente politico, ma anche sem-plicemente perché agite sul terreno (politico) della cultura, delle proprie, origina-li, autonome forme e modalità di espressione, di “scrittura” in senso lato e comu-nicazione; forme e modalità fondate su una forte (perché politica e culturale) con-sapevolezza di sé come protagonisti e interpreti, ma anche in grado di proporsicome “oggetti” e questione storiografica non chiusa e di politica della culturaaperta all’investigazione e alle decisioni di istituzioni anche diverse: biblioteche,musei, archivi, centri di documentazione.

Se queste furono le intenzioni, più o meno esplicitate, in ogni caso accompa-gnate da una forte consapevolezza e oggi altrettanto chiaramente ricostruibili, leazioni concrete riguardarono oggetti di interesse, metodologia e strumenti di inda-gine, di raccolta e di riproposta e, infine, risultati che si andarono progressivamentearricchendo e complicando. Testimonianze orali, individuali e collettive, raccolte inaudio e in video, campagne fotografiche, videoregistrazioni e filmati sulla storia deibraccianti del Tavoliere, dei protagonisti delle lotte, sui testimoni e “narratori” del-le stesse; sui grandi miti e i grandi riti collettivi, laici e religiosi - Di Vittorio, il 1°Maggio, il Carnevale, il teatro popolare dei “ditt” garganici, la Cavalcata degli An-geli dell’Incoronata -; tematiche, e relativi materiali raccolti, riproposti, innanzituttonei luoghi e tra i protagonisti stessi della ricerca, ma anche altrove, dalla Puglia alFerrarese, in spazi deputati e no, dalle scuole alle Camere del Lavoro, dalle biblio-teche alle gallerie d’arte, attraverso mostre, proiezioni, dibattiti, convegni. Una moleingentissima di documenti, in gran parte destinati alla sparizione, perché discono-sciuti dai circuiti e dai meccanismi tradizionali e ufficiali della memoria, della storiae della cultura e soprattutto per questo (oltre che per le intrinseche caratteristichedegli strumenti e dei supporti impiegati per la trasmissione) “deperibili”, divenneoggetto e materiale per la ricostruzione di storia e di storie, per la discussione ditemi e problemi presenti e la definizione di progetti.

L’utilizzo dei nuovi mezzi tecnologici, reso possibile dall’intervento istituzio-nale, migliora la qualità delle rilevazioni ed estende il raggio d’azione della ri-cerca a tutti i paesi della Capitanata che, aderendo al Sistema Bibliotecario Pro-vinciale, diventano dei veri e propri terminali dell’Archivio, creando una vastarete di collaboratori, associazioni, ricercatori e storici locali. Il progetto stessoa questo punto si estende all’obiettivo di rappresentare attraverso tutte le fontidisponibili le specifiche caratteristiche della memoria popolare dei diversi ter-ritori indagati” (Giovanni Rinaldi, Braccianti. Il silenzio e la memoria, in «Il deMartino», n.14/2003).

Ma è in particolare la ricerca sui braccianti (avviata da Rinaldi e Sobrero pri-ma della costituzione dell’Archivio e proseguita nell’ambito e attraverso lo stesso),rifluita in gran parte in La memoria che resta, a rappresentare un modello, al quale

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tuttora si fa riferimento, se Cesare Bermani, nel presentare il fascicolo della rivistadell’Istituto Ernesto de Martino dedicato a “Oralità, classe operaia, ricerca sul cam-po” («Il de Martino», n.14/2003), la definisce la “più importante ricerca che siastata fatta nel nostro paese su una zona di bracciantato agricolo, quella del BassoTavoliere di Puglia”.

Non sorprende, pertanto, che la stessa pubblicazione de La memoria cheresta venga considerata da Sergio D’Amaro, in un articolo dal titolo Capitanata:culture e territorio, apparso su «La Grande Provincia» del 19 marzo 2003,

una svolta nell’approccio alla microstoria. Non più solo era ‘interessante’ lagrande storia o la storia degli altri, ma diventa ‘interessante’ la storia dei piccolie la storia del ‘vicino’, grazie al documento parlante. Non era la museificazionedel mondo contadino, né la sua esaltazione acritica. Ciò che prima era sembra-to il ‘confine di Eboli’, la ‘porta dell’inferno’, l’ ‘altro mondo’, la ‘riserva india-na’, capace al massimo di fruizione folklorica, entrata invece come nuova fron-tiera nella piazza dei nuovi discorsi su ciò che era stato e voleva essere una partedel Mezzogiorno.

Al di là dei riconoscimenti raccolti e dell’interesse suscitato, lentamente, pro-gressivamente, inesorabilmente (ma non del tutto inspiegabilmente) gli spazi anda-rono via via restringendosi: dapprima attraverso l’impiego delle armi tradizionali esostanzialmente occulte, non dichiarate, delle difficoltà “burocratiche e finanzia-rie”; quindi in maniera esplicita, “amministrativa” e “politica”. Il luogo istituziona-le per la decisione, amministrativa e politica appunto, fu la Commissione PubblicaIstruzione e Cultura della Provincia. Alla massiccia illustrazione-proiezione-audi-zione-visione dei materiali raccolti e prodotti non seguì una discussione/messa indiscussione né dell’attività dell’Archivio, né dei risultati conseguiti. Tutto si incanalòverso una pretestuosa messa in questione del ruolo dei ricercatori rispetto all’Am-ministrazione, che assunse i chiari connotati di un’operazione condotta in nome eper conto di settori interni all’apparato - dell’amministrazione e della biblioteca -che avevano da sempre mal sopportato l’ “intrusione” e che avrebbe successiva-mente dato luogo a una sorta di “vertenza”, non formalizzata ma strumentalmenteagitata, circa la titolarità giuridico-culturale dei materiali raccolti. Il gioco fu, in-somma, condotto in modo esplicito e strisciante nello stesso tempo; in ogni caso“scoperto” e contemporaneamente reso più complicato e contraddittorio dalla po-sizione assunta dal rappresentante di uno delle forze politiche di opposizione, Mi-chele Marinelli dell’ M.S.I. (la maggioranza che governava in quegli anni la Capitanataera di sinistra), il quale dichiarava il suo totale apprezzamento, nel merito scientifi-co e culturale, per il lavoro svolto, al di là della lettura che, sul versante dei contenu-ti, se ne dava. Detto della (malcelata) opposizione di natura sindacal-corporativa, sipuò provare a riassumere e spiegare, a memoria e per sommi capi, la singolare arti-colazione delle posizioni che si manifestarono in quella occasione nel modo se-guente:

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a) dato per scontato il carattere strumentale della “difesa Marinelli” di cui si è detto,non può tuttavia escludersi, anche per le caratteristiche e le qualità del protagonista,tutt’altro che “rozzo” o “incolto”, un ancoraggio culturale e politico della stessa.Non si dimentichi che Foggia e la Capitanata furono uno dei luoghi “privilegiati”di esercizio di una delle irriducibili ambiguità, delle doppiezze permanenti e consa-pevolmente irrisolte del Fascismo e di quegli anni. È qui, infatti, che le squadraccedi mazzieri organizzati e capeggiati da Caradonna compirono le imprese più ferocinei confronti di braccianti e contadini e al fianco degli agrari; qui, come altrove, sisperimentava la retorica “ruralistica” e delle “tradizioni popolari”. Risalgono a queglianni, per non fare che qualche esempio all’insegna di un solo nome, gli studi e leattività promozionali di Ester Lojodice (seguace degli insegnamenti di NicolaZingarelli), le elezioni delle “reginette del grano” (in auge, peraltro, già agli inizi delsecolo), la costituzione presso il museo del capoluogo di un’apposita sezione dedi-cata alle “tradizioni popolari”, appunto;

b) la crescente insofferenza dell’Amministrazione, della maggioranza di sinistra chela governava in quegli anni (di quanti rappresentavano l’una e l’altra) nei confrontidell’Archivio, va messa in relazione al fatto che esso si muoveva sulla base di unprogetto e un programma definiti dal punto di vista metodologico e delle strategiedi indagine e di riproposta, ma pensato e gestito “programmaticamente” come stru-mento e per mezzo di strumenti, con modalità e attraverso percorsi - diretti spon-tanei non formalizzati né soprattutto mediati - che lo resero “sospetto”, nella misu-ra in cui se ne verificava una capacità di suscitare adesioni, azioni, “parole” altret-tanto non formalizzate, non controllate attraverso i consolidati canali e meccanismidella mediazione politica istituzionale. Si noti, infine, che in nessuna occasione ven-ne meno da parte della Direzione della biblioteca (leggi Angelo Celuzza) l’apprez-zamento positivo per la qualità che aveva caratterizzato i programmi e le attivitàdell’Archivio e per la mole e la natura dei risultati conseguiti;

c) all’interno della storica patologia da cui sono affetti tutti gli apparati precoce-mente o lentamente consolidati in posizioni di presunto o reale potere politico,burocratico o culturale, va considerata pressoché nella norma (è accaduto anche neiconfronti del tema e del processo di informatizzazione dell’amministrazione pub-blica) la istantanea e pregiudiziale ostilità con cui fu accolta l’esperienza dell’Archi-vio all’interno della biblioteca: 1. perché considerata “esterna” ed “estranea”, ap-punto. Si trattava, in effetti, di una delle prime esperienze del genere, nell’ottica diconsiderare la biblioteca il naturale luogo di incrocio e di incontro di professionali-tà, abilità e ambiti disciplinari diversi, soprattutto in una fase in cui le bibliotechesembravano (mi sembravano, ci sembravano) non potersi sottrarre a una messa indiscussione di uno statuto tecnico-culturale e di una strumentazione del tutto coe-renti con una secolare e fallimentare tradizione e tanto più inadeguati rispetto alledomande e alle sollecitazioni culturali e professionali allora prevalenti; 2. perché inaperto conflitto con la storiografia localistica, ancillare e subalterna rispetto a quel-

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la ufficiale e accademica, della quale traduceva “in minore” un’eco di rifiuto edestraneità rispetto agli strumenti, alle metodologie e al sistema delle fonti propridella “storia orale” e della sua statutaria propensione al “nomadismo disciplinare”e a un programmatico capovolgimento delle gerarchie degli “oggetti”, oltre chedelle fonti. E si trattava di uno stato di cose solo marginalmente scalfito dall’ormaiconsolidata fortuna della “microstoria” e dalla generale attenzione - frutto di unpreciso clima politico sociale e culturale - riservata proprio alla cultura orale e aquella materiale; 3. perché queste posizioni venivano oggettivamente incoraggiatedai limiti di settorializzazione, autoreferenzialità, scarsa collegialità e circolazionedelle esperienze che affliggevano la biblioteca.

Attendibile o tendenziosa che sia o appaia questa lettura “a posteriori” deglieventi, resta il dato storico che la voce relativa all’Archivio scomparve dai program-mi dell’Ente, inducendo la biblioteca a “negarsi” per la seconda volta: in questocaso, nel segno di un rappel à l’ordre.

Ma, come è noto, la memoria resiste. E infatti quella che sembrava unamorte decretata, si rivelò semplicemente presunta e, col passare degli anni, invecedi trasformarsi in una dichiarazione valida a tutti gli effetti giuridici e culturali, siconfermò per quello che era e molti speravano che fosse: una morte apparente. Lavita dell’Archivio riprendeva altrove. Già nel 1985 Sergio De Sandro Salvati ave-va realizzato un documentario, Frammenti di memoria, basato, per la parte sono-ra, sulle registrazioni trascritte ne La memoria che resta. Da allora in poi, quelliche erano stati riconoscimenti e attestazioni - in vita e post mortem - hanno co-minciato a dar luogo a sistematiche riesumazioni (mi si scusi l’insistita mascaramantica metafora all’insegna della necrofilia) di quello che si è rivelato unasorta di vero e proprio “cadavre exquis”, ricco ancora di vitalità e suggestionicreative. Il rapido esaurirsi della tiratura iniziale de La memoria che resta, nonaveva impedito una sua costante circolazione tra addetti ai lavori in senso strettoe, più in generale, tra operatori culturali e artisti. L’ultimo significativo effetto diquesta “persistenza” è la stampa, a grande richiesta, di una nuova edizione (Lecce,Aramiré, 2004), riveduta e ampliata, con una piccola variazione nel sottotitolo -Vita quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia - e corredatadi due cd che raccolgono i canti e i racconti registrati sul campo. Si tratta di unevento che si verifica mentre sono ormai disponibili in rete(www.progettobraccianti.it) la gran parte dei nastri magnetici originali e le imma-gini fotografiche; premessa, forse, di una auspicabile inversione di quel processoche Cesare Bermani, nella sua Introduzione alla storia orale (Roma, Odradek,1999), lamentava aver colpito l’esperienza dell’Archivio:

le cui testimonianze sono finite con filmati, fotografie e manoscritti in un ar-madio della Biblioteca Provinciale di Foggia. Altri materiali sono presso gliarchivi personali dei ricercatori, presso quello di Roberto Leydi, presso l’Isti-tuto Ernesto de Martino […] un caso tipico di smembramento di una ricercaimportante.

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In effetti - a conferma di una sorta di “effetto domino” che si produce intornoad esperienze multidisciplinari e strutturate tra i poli della ricerca e della riproposta -lo stesso lavoro che ha prodotto la nascita del sito, era finalizzato, in prima istanza,alla produzione di uno spettacolo teatrale (si noti, peraltro, che l’esperienza di Gio-vanni Rinaldi e Paola Sobrero proprio dal teatro era partita; aveva, infatti, preso lemosse, nel 1973-74, da quelle drammaturgiche realizzate, nell’ambito dell’appena natoDams bolognese, intorno al Gorilla Quadrumàno di Giuliano Scabia e al “teatro distalla”). Da oltre un anno un progetto, “teatrale e multimediale”, intitolato Braccian-ti. La memoria che resta, costruito intorno ai materiali dell’Archivio e realizzato dallacompagnia Armamaxa, viene rappresentato in varie località italiane, Capitanata com-presa. Ma i frutti irriducibili e “squisiti” hanno assunto anche veste musicale. Unmusicista e compositore di origine foggiana, Umberto Sangiovanni, così racconta lasvolta imposta al suo lavoro artistico e a quello della sua DauniaOrchestra:

Cercavo una chiave di racconto di me stesso, un elemento ispiratore forte: l’hotrovato tre anni fa su una spiaggia del Gargano, grazie a un amico che mi hafatto leggere un libro, La memoria che resta: ho capito che dovevo partire dallamia terra e da una sana nostalgia. (Intervista di Claudio Botta a UmbertoSangiovanni, in «Profili», II, 2004, febbraio).

E infine: Fahreneit è un programma molto popolare di Radio Rai Tre, che,tra l’altro, ha diffuso in Italia la pratica del book crossing e che, all’interno del con-tenitore generale, mette a disposizione degli ascoltatori-lettori una rubrica di “cac-cia al libro introvabile”. Nella trasmissione del 31 maggio 2002, Alessandro Piva,regista di La Capagira (1999), “caso” cinematografico non solo italiano, lanciavaun appello perché qualcuno gli procurasse una copia de La memoria che resta. Sta-va coltivando l’idea, infatti, di costruire un film dedicato ai braccianti pugliesi, par-tendo dalle storie e dalle vicende raccontate anche in quelle pagine. Quel progettova avanti. Grazie anche a una biblioteca, quella di Lugo di Romagna, come si puòleggere nell’appello lanciato da due bibliotecari, Sante Medri e Igino Poggiali, attra-verso il sito del Comune e a firma dell’assessore Dante Ferrieri:

Nel marzo del 1950, la città di Lugo fu protagonista di un particolare episodiodi solidarietà. Ospitò per due anni bambini, figli di braccianti imprigionati inPuglia per aver lottato per i propri diritti. Ora il regista Alessandro Piva vuoletrasformare questa storia in un film “Il treno della felicità” e sta cercando do-cumenti, materiali, testimonianze per ricostruire la vicenda. E veniamo ai fatti.Per raccontarli riportiamo uno stralcio di un articolo pubblicato da «la Repub-blica - Bari» del 23 marzo 2004. “I braccianti davanti ai carri armati. Il 23 mar-zo 1950 la lotta al grido di ‘pane e lavoro’ cambiò la vita a San Severo (Foggia).A fermare la rivolta arrivò l’esercito. Un morto, centinaia di feriti e 180 arresta-ti. Uomini e donne, in carcere per due anni. E, soprattutto, i loro bambini incu-stoditi, accolti nelle case di famiglie del Nord grazie a una catena di solidarietà.Il regista Alessandro Piva e lo storico Giovanni Rinaldi stanno cercando ora

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proprio quei piccoli che partirono un pomeriggio di primavera sui ‘treni dellafelicità’. La memoria ricostruita comporrà infatti la sceneggiatura di un film.Ma prima, conta restituire quei giorni a se stessi, riannodare i ricordi del 23marzo 1950 e delle giornate durissime che seguirono”.[…] Con questo appelloci rivolgiamo a tutti coloro che ricordano o, meglio ancora, hanno conservatodocumenti, foto o addirittura sono tuttora in relazione con qualcuno di queiragazzi. Vogliamo creare un archivio di tale documentazione e partecipare allarealizzazione di quel film. Questa potrebbe essere anche l’occasione per avvia-re la raccolta sistematica di documentazione sulla solidarietà della quale questacittà in ogni tempo è stata capace. Per collaborare a questa ricerca occorre pren-dere contatto con la Biblioteca Trisi.

Le biblioteche sono certamente e da sempre luoghi della memoria. La Biblio-teca Provinciale di Foggia, attraverso l’Archivio della Cultura di Base, ha saputofarsi anche strumento e soggetto attivo di itinerari nella memoria, per la sua rico-struzione e la sua restituzione a quanti era stata occultata e a quanti era stata rubata.Poche istituzioni lo fecero in quegli stessi anni (il Sistema Bibliotecario Urbano diBergamo istituì un centro con la stessa denominazione nel 1981). Non molte lofanno oggi. Ed è vero:

Per noi, a cui hanno portato via il sogno di continuare a mescolare le nostre vitee i nostri progetti a quelli della memoria, di individui e di collettività, per farneun tramite di conoscenza e di comunicazione, rimane, oltre al sentimento or-goglioso di aver vissuto comunque un’esperienza straordinaria, la soddisfazio-ne di vederla farsi rappresentazione, musica immagine, di aver ispirato la mentee il cuore di chi è capace di trasformarla e restituirla come una esperienza uni-versale di emozioni, appartenenze, passioni. (Giovanni Rinaldi-Paola Sobrero,La memoria che resta trent’anni dopo, in La memoria che resta…, 2004).

È, infatti, indispensabile, a fronte di una memoria che resta e resiste, che resi-stano e tornino continuamente ad accendersi, da quella memoria, la speranza, ilprogetto, la creatività. Esattamente come è già stato.

13. (S)Conclusioni, (s)considerazioni quasi finali

Al di là di quello che fin qui - tra memoria, racconto e riflessione (auto)critica- traspare e può comunque configurarsi come abbozzo di una valutazione com-plessiva, gli intenti che percorrono queste pagine non comprendono quello di co-stituire la base per una analisi critica oggettiva e rigorosa delle vicende narrate. Troppointensa è stata la passione e troppo calda è tuttora la materia, perché alto fu il livellodel coinvolgimento e degli investimenti professionali ed emotivi e perciò, troppopersonali, anomale e irregolari le modalità della loro “riscrittura”. Se, quindi, nonrinuncio a qualche annotazione (quasi) in chiusura, lo faccio, continuo a farlo al-

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l’insegna della incongruità, di una in qualche misura ossessiva iterazione di concettie idee (fisse) e dell’apparentemente casuale affastellarsi di associazioni, spinte e pia-ni diversi, forse non tutti e non completamente “distanziati”. E tuttavia, una letturadi fatti e vicende individuali-collettive, pur non provenendo da uno storico o da unanalista di fatti sociali, non è mai completamente arbitraria; soprattutto nel caso diun testimone-protagonista diretto. Quanto meno, ed è questo il caso, “l’interprete”fornisce elementi per un collegamento tra “lettura” e intenzioni, convincimenti,passati e attuali e sulla loro “persistenza” (ed è, ancora una volta, questo il caso).

a) La biblioteca e il sistema. La biblioteca fuori del sistema

La costituzione del Sistema Bibliotecario e la costruzione della nuova sededella biblioteca si verificarono nel contesto di una realtà, cittadina e provinciale,molto debole sul piano delle strutture e della pratica culturale diffusa. Una debo-lezza che si sostanziava nell’assenza totale di servizi bibliotecari e culturali di basein pressoché tutti i comuni, capoluogo compreso (se si accetta, come credo sia indi-spensabile fare, che la “Provinciale” non è, non può essere una “struttura di base”,in quanto struttura più complessa dal punto di vista territoriale e delle funzioni); inuna conseguente estraneità, generalizzata e specifica (per esempio del mondo dellascuola), rispetto alla cultura scritta e alla fruizione culturale in genere: libri acqui-stati e librerie presenti e parametri analoghi per cinema, teatro, musica offrivanoindicatori quantitativi e qualitativi eloquenti; e offrono tuttora, come attestano, as-segnando sistematicamente da anni a Foggia una delle ultime posizioni, le indaginisulla “qualità della vita” in Italia.

La generalizzata - e in qualche modo anche esplicitata - fame di opportunità(nemmeno lontanamente appagata, se non attraverso i nuovi consumi “primari”indotti, da una nascente società di massa) creava, anche per le ragioni appena dettee negli anni di cui parlo, condizioni certamente favorevoli, forti aspettative, maanche impegni e compiti ardui. Quello di coinvolgere centinaia di amministratori edirigenti locali sui temi della biblioteca pubblica si mostrò e fu straordinario e detterisultati straordinari, se nel giro di qualche anno i comuni della Capitanata (salvoquello delle Isole Tremiti) che ne erano privi ne avevano istituita una. Le condizioninelle quali versavano quelle preesistenti, dei centri più importanti - Cerignola, Lu-cera, Manfredonia, San Severo, Torremaggiore, ecc. - si possono immaginare e ren-dono (e rendevano) del tutto misteriose le regioni che ne motivarono l’esclusione(l’autoesclusione) dal Sistema. Sistema che ha vissuto momenti e vicende di granderilevanza per molte comunità locali. Per anni l’organizzazione centrale garantì iservizi di acquisto, catalogazione, circolazione e prestito dei materiali librari e un’at-tività di formazione degli addetti, sia pure, per quel che riguarda quest’ultimo aspetto,senza sistematicità e continuità e, quindi con risultati largamente insoddisfacenti(anche per i preliminari limiti oggettivi e soggettivi del meccanismo di reclutamen-to e selezione). I bibliotecari comunali poterono contare su un’assistenza costante,

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soprattutto sul terreno della costruzione di una immagine e di una concreta praticadella biblioteca pubblica, strettamente collegate alle specifiche realtà servite. Rap-porti con il mondo della scuola, con i gruppi organizzati, costituzione dei “comitatidi gestione”, attivazione di programmi culturali, di cicli di conferenze e dibattiti edi cineforum: il ventaglio delle iniziative fu ampio e sempre accompagnato dal con-senso e dalla maturazione dell’idea che la biblioteca potesse essere il centro dellavita delle comunità locali. A distanza di anni, considero le esperienze fatte nell’am-bito del Sistema come la punta più alta di verifica della “necessità”, della insostitui-bilità di una rete diffusa di strutture culturali di base: ancora di più oggi, in presenzadi eccezionali canali e strumenti per la circolazione e lo scambio di informazioni econoscenze. Si trattò, allora, di esperienze fondate sulla paziente e attenta tessituradi rapporti umani e culturali, di “ascolto” e di attenzione alle esigenze, soprattuttoinespresse, di giovani e adulti generalmente tagliati fuori dai circuiti, dai meccani-smi e dalle opportunità di una comunicazione culturale e di una socialità ricche,aperte e dialoganti, capaci di valorizzare, nell’incontro e nello scambio, intelligen-ze, creatività, saperi mutilati dall’isolamento, dall’afasia. A distanza di anni, alcunesituazioni nate o maturate in quell’ambito sono tuttora o ormai solide. Molte altresono ripiombate nella tradizionale marginalità, altre sono letteralmente scomparse;e proprio nelle realtà che più ne avrebbero bisogno, perché minuscole e periferiche.Tentativi di arginare un processo di degrado che alla fine si rivelò inarrestabile furo-no compiuti, da molti bibliotecari comunali e da quelli che, all’interno della Biblio-teca Provinciale, “si occupavano del Sistema”, prima e ben oltre il momento in cuisegnali espliciti annunciavano che il suo destino era segnato.

Ma quel che avvenne mi appare chiaro, oggi più di ieri, quando la voglia dinon arrendersi induceva a fare, a tenere in piedi il minimo di contatti, di iniziativerese possibili da una situazione profondamente mutata, ma che ci sembrava, vole-vamo credere rimediabile, perché incomprensibile, ingiustificabile quello che stavaaccadendo.

Vi fu, incontrovertibile e decisiva, una responsabilità politica e culturale “sto-rica” della Regione, fin dall’epoca della sua istituzione, successiva a quella dei “si-stemi bibliotecari”. Furono i prodromi di un nuovo centralismo - di apparati poli-tici e burocratici - che, in Puglia più e più precocemente che altrove, faceva le provein danno di un reale decentramento di funzioni e poteri decisionali e di gestione.Assistenzialismo e clientelismo, latitanza legislativa e programmatoria, latitanza eassenza tout court produssero, nel giro di qualche anno, dal momento del trasferi-mento delle competenze dallo Stato, un arretramento della situazione disastroso,perché fondato sull’esplicito lavoro di distruzione dell’idea stessa di cooperazioneinterbibliotecaria e di sistema di biblioteche. Perché un programma, una legge, lacooperazione mal si conciliavano con le pratiche - spartitorie e dissipatrici - cheavrebbero per lustri dominato, nel settore delle biblioteche e della cultura in gene-re, la vita regionale. Eppure si trattò di un arretramento che si sarebbe forse potutoarginare - e per qualche anno lo si fece - se un analogo, progressivo e parallelodisimpegno dal sistema bibliotecario, dalle logiche che ne giustificavano e sostene-

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vano la costituzione e l’esistenza, non fosse stato perseguito, con meticolosasottovalutazione e costante disattenzione, dall’Amministrazione Provinciale diFoggia. Potrei fermarmi qui, perché sono convinto che la rescissione del legameSistema Bibliotecario/Biblioteca Provinciale, la separazione delle rispettive sorti, laliquidazione del primo e, di conseguenza, il ridimensionamento - “territoriale efunzionale” - della seconda, siano dati di fatto ed eventi strettamente collegati.

Ma ci fu (c’era già stato) altro, perché quei dati e quegli eventi erano già ingerme negli stessi atti costitutivi di tutta la vicenda Sistema Bibliotecario/NuovaBiblioteca.

Il Sistema Bibliotecario fu forse concepito, certamente fu, successivamentealla istituzione e nei fatti, gestito e vissuto dalla Biblioteca Provinciale, nell’ambitodella stessa e rispetto alla stessa, come un suo servizio, come uno dei suoi servizi enon come il “sistema delle strutture e dei servizi territoriali” del quale anche essaera parte. Questo avrebbe dovuto essere il rapporto tra i due soggetti. Era statainfatti la prefigurazione di questo tipo di relazione che aveva portato alla istituzio-ne del Sistema e alla costruzione di una nuova sede della biblioteca, “in quantostruttura centrale di riferimento” del sistema e quindi come insieme, a sua volta, dirisorse, competenze, funzioni, procedure e servizi inseriti nell’ambito e a disposi-zione del sistema. Non essendosi proposto il rapporto Biblioteca Provinciale/Si-stema Bibliotecario in termini corretti e coerenti rispetto alla stessa “logica di siste-ma”, nessuno dei settori della biblioteca è stato mai davvero, e al di là di singolesporadiche occasioni, fino in fondo, sistematicamente perché programmaticamente,al servizio di tutto il territorio provinciale; se non nel senso di subire i meccanismispontanei che governano la formazione della domanda individuale (e talora collet-tiva) nei confronti delle istituzioni culturali in genere. A questi limiti va aggiunta laricordata e (tuttora) perdurante assenza nel capoluogo di un sistema urbano di ser-vizi bibliotecari di base, cui pure in quella fase si cercò di cominciare a porre rime-dio, con risultati al limite del credibile: l’offerta della costruzione di una modernabiblioteca nel quartiere CEP di Foggia, formulata dall’Ente Nazionale BibliotechePopolari e Scolastiche, che se ne accollava gli oneri, a fronte della messa a disposi-zione del suolo, fu lasciata cadere dal silente rifiuto del Comune. Il ridimensiona-mento prima e quindi la liquidazione del “sistema provinciale” produssero effettinegativi nelle singole realtà comunali e, come detto, sospinsero la nuova bibliotecaverso una almeno parziale delusione delle stesse aspettative e del complesso di do-mande e di bisogni, soprattutto inespressi, suscitati e la costrinsero in un ruoloterritorialmente circoscritto e indubitabilmente riduttivo, rispetto alle potenzialitàe alle risorse, delle competenze e delle funzioni di una “Provinciale”. Un ruolo cheappariva una sorta di damnatio, perché quasi iscritto nella sua stessa genesi, in quantonata da una costola della vecchia “Comunale” e, per questo, quasi segnata da undestino “civico”.

Quel processo si accentuò progressivamente, tra anni ’80 e ’90, indipenden-temente e nonostante il consolidarsi a livello locale e nazionale dell’immagine dellanuova biblioteca; un’immagine consacrata, fin dalla nascita, dalla celebrazione - tra

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Foggia e Pugnochiuso - del congresso nazionale dell’A.I.B., cui seguirono - accan-to al proliferare di lasciti e donazioni, segnali inequivocabili dell’accreditamento diuna biblioteca nei confronti della comunità - iniziative di grande rilievo, sul pianostrettamente professionale e ampiamente culturale, di cui è fatto rapido cenno daAngelo Celuzza nel suo I venti anni della nuova Biblioteca Provinciale (in «la Ca-pitanata», XXXI, 1994, 2) e che, fugati i dubbi e i pudori per le autocelebrazioni,una volta ricostruiti, “dalle origini ai nostri giorni”, riusciranno forse, tra l’altro, alenire almeno parzialmente gli eccessi autocritici e di severità presenti soprattuttoin queste mie note.

È arduo (accade quando si cerca di individuare, accanto alle “cause pri-me” e scatenanti, le concause, soprattutto se queste appaiono e sonoinestricabilmente collegate agli effetti e viceversa) “pesare” i fattori che hannoconcorso, da una parte a non impedire lo smantellamento del Sistema Bibliote-cario, dall’altra a ostacolare il completo dispiegamento delle potenzialità dellanuova struttura. Mi riferisco sia alla fase di transizione e “costituente” (si pas-sava da una decina di addetti alla Biblioteca Provinciale a sessanta; il che equi-vale a dire, da una accettabile conduzione “familiare” ad una ineludibile gestio-ne manageriale: ma c’era già la parola?), sia a quella compresa tra gli anni ’80 e’90. Provo, comunque, al di là di quelli segnalati fin qui, a mettere in fila quelliche mi appaiono oggi degni di essere raccolti in una sia pur sommaria elencazione,mi auguro in qualche modo utile:

- la forte centralizzazione delle scelte riguardanti il Sistema, utile nella fase iniziale,in cui si trattava di raccogliere le adesioni dei singoli comuni, controproducente inquelle successive, nelle quali un organismo formale e collegiale di partecipazioneavrebbe svolto una funzione di garanzia rispetto agli obiettivi di una maggiore eduratura responsabilizzazione, di una condivisione delle scelte, di continuità oltrele quotidiane vicende e pastoie amministrative;

- i meccanismi di reclutamento e di “fidelizzazione” degli addetti alle bibliotechecomunali estremamente deboli e precari: compenso scarso/impegno scarso; nono-stante alcuni sporadici tentativi, formazione inadeguata, qualificazione e aggiorna-mento delegati esclusivamente al livello personale e individuale;

- l’identica, per quel che riguarda questi temi, anzi, più grave situazione nella qualevenne a trovarsi il personale della “Provinciale”, a causa della totale - tradizionale,storica per gli enti locali - assenza di una specifica politica, che si rivelò decisiva, innegativo, per un settore in forte potenziale espansione e investito da processi diintensa professionalizzazione e altrettanto rapida innovazione (definizione ediversificazione delle figure, unificazione e standardizzazione delle procedure,informatizzazione, ecc.). I livelli garantiti dall’autoformazione e da una gestioneburocratico-amministrativa e/o genericamente “culturale” dei problemi del perso-nale, si rivelarono del tutto inadeguati;

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- la articolazione in sale e servizi della nuova biblioteca, non accompagnata da ade-guati meccanismi e spazi di scambio e confronto, in grado di garantire livelli essen-ziali di collegialità, di identificazione e coinvolgimento nella programmazione ge-nerale dell’istituto. Si produsse, in conseguenza di ciò, un processo di parcellizza-zione, superspecializzazione e autoreferenzialità “di settore”, aggravato dalla “estra-neità” sostanziale rispetto alla organizzazione del Sistema e che non risultò intacca-to dal tentativo (peraltro rapidamente accantonato) di darsi un “consiglio di istitu-to”, in analogia a quanto previsto per le strutture dello Stato dalla legge istitutivadel Ministero dei Beni Culturali e Ambientali.

Questi dati finirono con l’apparire via via sempre meno modificabili, per-ché fu sostenuto e aggravato dalla totale assenza di politiche della formazione edi una sistematica pratica del confronto e dello scambio professionale, che pro-dusse, a sua volta, un consolidarsi, ai limiti della esclusività, di un rapporto giàtradizionalmente forte nella pubblica amministrazione, soprattutto del Sud: quello,diretto esclusivo personale e fondamentalmente distorto, con gli apparati sinda-cali, burocratici e politici (leggi “politico di riferimento”); una fonte tradizionaledi confusione, sovrapposizione, contiguità e scambio tra il livello tecnico-cultu-rale (e professionale) e quello politico-amministrativo, che finivano con l’indebo-lire quello già di per sé debole - il primo - e la sua credibilità e autonomia. Anchequesto versante della vicenda può essere ricondotto a un, allora gravissimo, defi-cit di moderna cultura dell’organizzazione e della gestione; in particolare, di cul-tura dell’organizzazione e della gestione delle istituzioni e dei sistemi territorialicomplessi. Tutto quello che riguardava la sfera culturale e intellettuale e creativasembrava doversi pregiudizialmente (e snobisticamente/provincialisticamente) sot-trarre a logiche (per non parlate delle tecniche) sentite come “estranee”,“tecnocratiche”. E forse si trattava, più semplicemente, di coniugare professiona-lità, collegialità, partecipazione, responsabilizzazione; parole e concetti, tra l’al-tro, non estranei al clima dell’epoca, ma evidentemente, sempre particolarmentedifficili da praticare.

14. Commiato/i

a) Quattro direttori (di cui tre “ex”), ovvero: Il ceppo dauno della biblioteconomiapuò essere nocivo?

Al di là della forzatura, che posso aver imposto a queste pagine, sottolineandoricorrenze plurime, coincidenze, convergenze, il caso ha voluto segnalare una ulte-riore particolarità di questa “celebrazione”. Per quanto si possa dire che il caso, nellafattispecie, sono io, proprio perché sono io che mi sono messo sulla strada della ricer-ca di coincidenze e segnali, è un dato che essa celebrazione veda impegnati ben quat-tro direttori della Biblioteca Provinciale: tre “ex” e uno in servizio. Ha un ruolo così

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predominante il caso, da togliere qualsiasi significato a questo dato: che, infatti, non èuna coincidenza. Ben tre “ex”, vivi e vegeti! E un quarto, in servizio, altrettanto vivoe vegeto. È un fatto che vorrà pur dire, da solo, qualcosa…al di là della benedetta ebeneaugurante e auspicabilmente e ancora lungamente perdurante ed estensibile (dalui agli altri tre) longevità anagrafica e intellettuale del “Direttore” per antonomasia,Angelo Celuzza! Vorrà, cioè, pur dire qualcosa che in campo - stavo per dire (o sareb-be giusto dire) “sul campo”, “sul terreno” - vi siano un direttore in servizio e tre “ex”,dislocati, questi ultimi, per quel che riguarda l’epoca del pensionamento, in fasce dietà comprese tra i 70 e i 50 anni. Che voglia significare, per esempio, qualcosa circa la“nocività” della funzione?

Dei tre direttori “in quiescenza”, il primo, Angelo Celuzza, “temprato” davent’anni di Fascismo, dalla guerra, dal dopoguerra, dalla ricostruzione della biblio-teca, “compì l’impresa” di dotare la Capitanata di “una struttura bibliotecaria e cultu-rale fondamentale per ogni ipotesi di costruzione di un sistema integrato di servizidedicati alla documentazione e alla circolazione delle conoscenze” come amavamodire e come di fatto è. Eppure non posso dimenticare il sollievo che gli si leggeva sulviso (a meno che non abbia “letto” male), nel lasciarmi il testimone e che si fece, viavia che passavano i mesi, più intenso, assumendo i caratteri di una serena riconquistatagioia di vivere (“non riuscivo più a dormire, me li sognavo anche la notte”, si lasciòscappare in un fugace incontro, in una sosta delle sue amate passeggiate). Per quel chemi riguarda, lasciata a mia volta, nel settembre del ’94, la Biblioteca Provinciale, unmese dopo ero impegnato in una ricerca sulle tradizioni alimentari del Gargano, de-stinata alla Comunità Europea. Tuttora mi dedico con energia e allegria a intensescorribande tra biblioteche, gastronomia e mostre d’arte, vecchi e nuovi interessi,senza denunciare particolari sindromi da vedovanza. Il che mi sembra di poter direanche di Mario Giorgio, direttore da quella data e fino al 1999. A pensarci bene, ladomanda posta in testa al paragrafo può essere anche capovolta: “Foggia nuoce allabiblioteconomia, nelle persone dei bibliotecari, dei direttori di biblioteca?”. Mi augu-ro di no. Ma soprattutto, mi auguro che non nuoccia alle biblioteche.

b) Autocitazione

Chiudo il paragrafo su di me: ben sapendo che il percorso del disamore in-treccia i rispettivi e reciproci processi di disconoscimento, ridimensionamento diragioni pregi e meriti, di riconoscimento di torti difetti e limiti. Lo faccio ricorren-do a cose da me scritte per il numero 148-149 (marzo-aprile 1977) di «Italia No-stra», bollettino dell’omonima associazione; non perché siano particolarmente si-gnificative e nonostante che siano temporalmente “datate”, ma proprio perché risa-lenti a circa trent’anni fa (e scritte a tre anni dall’inaugurazione della nuova sede)possono apparire anche moderatamente significative.

La nuova Biblioteca Provinciale di Foggia e il Sistema Bibliotecario su di essaimperniato sono due entità strettamente collegate, sorte intorno agli ultimi anni

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sessanta nell’ambito di uno , e non tra i meno ambiziosi, dei rari tentativi didare un ‘sistema bibliotecario nazionale’ al nostro Paese. Il progetto aveva com-plessivamente una credibilità notevole, anche perché contrastava con un passa-to in cui lo Stato non era riuscito ad esprimere nemmeno in via di ipotesi unavisione unitaria del problema. Giocava a favore di quel tentativo la diffusa (eeffimera) ebbrezza programmatoria e riformatrice di quegli anni. Il tutto, però,conteneva già germi pericolosi e contraddittori: - la pretesa di affrontare il pro-blema della pubblica lettura (di una rete, cioè, di strutture bibliotecarie di base)prescindendo dalla situazione disastrosa in cui versavano i servizi e le bibliote-che nazionali; - l’illusione di poter calare dall’alto una iniziativa che riservava alMinistero, quello stesso che non riusciva a svolgere le proprie funzioni di ca-rattere generale, ogni potere decisionale; - la logica dei ‘poli di sviluppo’ cheanche nel settore culturale presiedeva alla scelta delle aree in cui andava speri-mentato il ‘sistema’; - la incapacità di sollecitare e coinvolgere le forze sociali eculturali, essendo tutto demandato ai livelli tecnici (vedi il boom dell’ideologiadegli ‘standards’) o a quelli burocratico-amministrativi (l’Ente Locale come‘ostacolo da superare’ e non da conquistare al discorso, proprio attraverso ilcoinvolgimento delle forze sociali); - lo scollegamento rispetto ad altri inter-venti che, proprio in quegli anni, partivano e investivano particolarmente ilSud e il settore della cultura: l’ “intervento straordinario sul fattore umano”della Cassa del Mezzogiorno e del Formez, che avrebbe finito col porsi su unpiano obiettivamente concorrenziale rispetto al progetto del ‘Piano L’ prima edel ‘Servizio Nazionale di Lettura’ dopo.Gli elementi fin qui rilevati sono essenziali alla comprensione della realtà bi-bliotecaria di Foggia, che si presenta ormai come un ‘fenomeno’ a livello meri-dionale e nazionale. Dovremmo aggiungerne altri, concorrenti e non marginalie sono poi quelli che hanno impedito il crollo dell’iniziativa fin dalla fase diinterregno tra la competenza dello Stato e quella delle Regioni -: la dedizione ela confluenza energie (professionali e politico-amministrative) individuali; latotale assenza in circa il 90% dei Comuni della Capitanata della sia pur minimastruttura culturale di base, carenza suscettibile di trasformarsi immediatamen-te in domanda e disponibilità. Elementi, questi, che andrebbero, insieme adaltri, chiariti e approfonditi per comprendere fino in fondo il fatto certamente‘anomalo’ della nascita in un’area meridionale di una struttura bibliotecariad’avanguardia e di un sistema di base comprendente 53 biblioteche, tuttoravitale, pur tra mille difficoltà e contraddizioni.[…]Il tutto concorre a creare lo ‘scandalo’ di una biblioteca che smette di credereche il proprio interlocutore sia il libro e scopre - o quanto meno cerca – gliutenti, quelli attuali e soprattutto quelli possibili, che sono di gran lunga lamaggioranza della popolazione della Capitanata. E gli utenti di una bibliotecanon si inventano con una tautologia: ‘il libro è importante perché è il libro’ ocon una finzione: ‘c’è un libro per tutti’, che sono sempre state, sia pure talorainconsapevolmente, alla base dell’attività delle biblioteche e dei bibliotecari.Gli interrogativi, i dubbi che caratterizzano positivamente l’azione della Bi-blioteca Provinciale di Foggia possono ridursi alla semplice questione: datoche la collettività non può permettersi di gestire ‘per pochi intimi’ (l’1% della

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popolazione?) strutture che costano centinaia di milioni; e dato che non èpensabile chiudere dette strutture - il regresso non è mai una soluzione -, l’uni-ca strada possibile, anche sul piano strettamente economico, oltre che su quel-lo, preminente, politico-culturale, è quella di moltiplicare enormemente l’utenza,di rendere le biblioteche davvero ‘strutture pubbliche aperte a tutti’. E questonon lo si fa soltanto ‘portando il libro al lettore’. È ora infatti che si dica conchiarezza non solo che le biblioteche funzionano male, ma anche: che la letturaè per molti nel nostro Paese un obiettivo da raggiungere; che la scuola non fanulla per fornire ai giovani le capacità strumentali e critiche essenziali alla ‘pra-tica della lettura’; che la lettura non è il fine ma un mezzo; che il libro non né un‘bisogno da indurre’, ma una risposta, una possibilità da dare in mano a moltapiù gente; che la complessiva concezione dei beni culturali ancora egemone èsostanzialmente quella per cui si attribuisce un valore, proprio perché dato eacquisito per sempre, soprattutto ai beni artistici, architettonici, monumentalie archivistico-documentari, mentre se ne attribuisce uno del tutto marginale aibeni librari (a meno che non siano ‘anche’ antichi), in quanto destinati ad essere‘usati’, a ‘servire’. Se insomma è vero che il lettore non si costruisce come cate-goria sociologica ‘a termine’, ma come qualificazione critica aggiuntiva a quelle‘normali’ (e non semplicemente sociologiche) di ‘lavoratore’, ‘impiegato’, ‘stu-dente’, ecc., è necessario che la biblioteca esca fuori da se stessa e, almeno peruna lunga fase di ‘consapevole emergenza’, aggredisca non tanto ‘il problemadei lettori’, quanto ‘i problemi del lettore (e del non-lettore). Il che può signifi-care affrontare i problemi reali di tutta una comunità, del territorio, della loroidentità storico-culturale e rispetto a questi verificare e ricostruire le capacità(vecchie e nuove) di risposta del libro, della biblioteca, dei bibliotecari.

c) Breve autocritica (con breve autodifesa)

Il mio rifiuto della conflittualità e la convinzione illusoria che sono le idee afornire autorevolezza a chi ha potere/autorità, garantendomi sicuramente un per-corso pendolare lungo l’asse “mitezza-indeterminatezza”, sono diventati (o li horiconosciuti), a una lettura a distanza, come un crisma di “pratica inadeguatezza”.Quel rifiuto e quella convinzione furono consolidati dal primo lungo periodo tra-scorso in biblioteca col ruolo di vicedirettore, nel corso del quale ero di fatto “di-spensato” da situazioni legate alla gestione del personale (salvo il citato episodiosala ragazzi-dipartimento educativo), fonte privilegiata e quasi esclusiva diconflittualità nella pubblica amministrazione. Avevo la sensazione di poter coltiva-re in tranquillità il mito di un’attività culturale affidata alla pura e semplice forzadella ragione, delle idee e delle proposte. Ma oggi mi sembra di poter, tuttavia, scor-gere uno sfondo di presunzione e di dirigismo, che si manifestava soprattutto inuna (peraltro più generale) del tutto insufficiente comunicazione e messa in comu-ne delle esperienze professionalmente forti e intense che facevo in quegli anni, al-l’interno del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali e del Direttivo dell’A.I.B.. Inbreve: un che di solipsistico e messianico; una fiducia cieca nell’onnipotenza delle

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idee che avevo (ed ho tuttora, mutatis mutandis, sostanzialmente intatte) sull’orga-nizzazione delle biblioteche e della cultura in generale, mi resero forse addiritturasnobisticamente disattento di fronte a situazioni che avrebbero richiesto forse nonpiù che l’apertura di uno spazio di confronto e discussione e non i semplici insop-portabili interventi di natura burocratico-amministrativa, che sembravano, appari-vano (ed erano) come la permanente condanna della mia condizione. E continuai alungo a non capacitarmi che la realtà fosse così “vile e meschina” rispetto al sognoe alla ragione e a pretendere che si piegasse spontaneamente all’una e all’altro. Tan-to più che, a ben guardare, queste stesse note, pur così avventurosamente compilateattraverso i meandri di una memoria, di una natura e di una quotidianità fortementeconcitate, mi sembrano ribadire esplicitamente, idee, intenzioni, convincimenti alungo (costantemente e coerentemente) praticati.

d) Qualche elemento in più

Lo sguardo sul passato, la pervicace (ma tutta condotta, come detto, sul filodella pura speculazione e osservazione) attenzione che continuo a dedicare al-l’universo amplissimo di cui le biblioteche, mi ostino a credere, devono far partee con cui, viceversa, molte riluttano a misurarsi; il vederle proficuamente, creati-vamente schierate (dilaniate!) sulla linea di confine: conservazione/innovazione/servizio pubblico (al pubblico); il veder confermata oggi, nel panorama delle bi-blioteche italiane, nel dibattito teorico e nella loro prassi, la “ineluttabilità” e l’ur-genza dell’interazione tra “competenze” e funzioni culturalmente ampie e con-nesse (e premesse) al ruolo proprio e solida definizione e accorto esercizio dellespecifiche procedure biblioteconomiche; il verificare, rispetto a queste ultime,che qua e là non è stato bandito, ma riemerge il contestuale, se si vuole ansiogenorifiuto dell’autoreclusione in esse, rassicuranti e asfissianti mura, tra confini di-sciplinari e politico-culturali definiti una volta per tutte e cristallizzati, fuori daltempo e sotto qualunque cielo; ma soprattutto, la constatazione e il convincimen-to, saldi oggi come ieri, che vi sono troppe cose fuori delle biblioteche, troppicittadini estranei ai loro “traffici culturali”, per non reclamare una sistematica,ricorrente messa in questione di tutte le rassicuranti certezze che, queste sì, neminano ruolo, funzioni e futuro (esattamente quello che non è stato fatto per unlungo, marginale, soporifero, inutilmente “glorioso” passato): tutto questo vi èstato nell’esperienza e nella storia recente delle Biblioteca Provinciale e del Siste-ma Bibliotecario, con le contraddizioni e i problemi ampiamente detti. Ma le di-rezioni e le strade intraprese erano e sono ancora quelle giuste; come molte dellecose fatte, le idee praticate, i risultati conseguiti, i dubbi, le perplessità, le incer-tezze seminate: sottoscrivo tutto, perché sono esattamente quello di cui sonofatte parole come biblioteca, libro, cultura.

Si può avere addirittura la sensazione che si sia “fatto troppo” in quegli annie proprio a scapito delle specificità…biblioteconomiche della biblioteca. Riesco a

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fugare il sospetto pensando a come, per lunghi decenni, dall’Unità in poi, (anche) legrandi strutture nazionali e quelle delle grandi aree urbane avanzate del paese, puressendo custodi di patrimoni ingenti e preziosi e (talora, non sempre) di raffinate erigorose tecniche di descrizione e di catalogazione, non siano mai riuscite, sullabase della semplice ed esclusiva manipolazione di quelle tecniche, a definire ed as-sumere un benché minimo ruolo utile, “produttivo”, non autoreferenziale rispettoal contesto. Assolutamente superfluo osservare come nelle fasi storiche e nelle real-tà economicamente, socialmente, culturalmente caratterizzate da ritardi e arretra-tezze, quelle esclusive pratiche assumessero i connotati di un’offensiva attività ona-nistica. Rendere giustizia, viceversa, alla funzione insostituibile di quelle procedu-re, significa fare i conti con le situazioni date in termini di usi, abitudini e consumiculturali; col numero dei libri venduti e letti, con il numero e la “qualità” dellelibrerie e dei lettori. Perché il tutto cresca adeguatamente, senza pensare mai che irisultati acquisiti siano definitivi. La “battaglia delle idee” è lunga e faticosa. E deveimpiegare, anche in biblioteca e attraverso la biblioteca, strumenti, occasioni, pro-poste diverse, all’insegna di una seria creatività. Nei decenni dagli anni ’70 fino adoggi per indicare una strada obbligata - aperta, vivace e “interventista” - alla biblio-teca pubblica, si sono utilizzate parole anche equivoche: “promozione”, dal saporevagamente burocratico-mercantile, oltre che inequivocabilmente paternalistico; “ani-mazione”, leggiadramente sanitario, ospedaliero; “incremento” (culturale) - spessoutilizzato, tra i lazzi e gli sghignazzi di quelli del Teatro Club, dalla burocraziacomunale di Foggia, proprio negli anni da cui ha preso le mosse questo intervento- e la cui valenza “ippica” (di monta equina), ai foggiani ben nota (per aver la cittàospitato a lungo un “istituto incremento ippico”, appunto) avrebbe dovuto sconsi-gliare l’impiego. Ma il lessico biblioteconomico inglese e americano contemplanouna parola chiara, nitida, per indicare il compito, qua e là più o meno urgente, daparte delle biblioteche di “uscire fuori di sé”: “extension”, semplicemente “esten-sione”. Una parola e un concetto che fanno parte integrante dello statuto discipli-nare e della pratica bibliotecaria e culturale di realtà avanzate di grande tradizione.Stabilire quali siano i confini e i limiti del suo raggio d’azione non può che spettare,nelle diverse, specifiche situazioni, ai bibliotecari, agli utenti individuali e organiz-zati, a coloro che sono in grado di rappresentare e dare voce al versante silente,assente e potenziale dell’utenza.

Lo si ricorda spesso e a ragione: mentre era in costruzione la nuova sede dellaBiblioteca Provinciale, un regista, preparando un documentario sull’argomento,intervistò gli operai addetti ai lavori, chiedendo, in particolare a uno di loro, dopoavergli spiegato cosa fosse una biblioteca, cosa ne pensasse, se la considerasse unabuona cosa. L’operaio accompagnò la scontatissima approvazione con un laconico,tagliente: “speriamo che non sarà la solita cosa per i figli dei massoni” (intendendo,come è ovvio, “per i soliti pochi privilegiati”). Che risposta daremmo oggi, non nelcaso specifico, ma più in generale, qui e altrove, rispetto al tema cultura-cittadini-privilegio-esclusione, a quel dubbio, a quel sospetto? Non so, infatti, se possono (odevono) definirsi privilegi, esclusioni oritardi, arretratezze, quelli che sono, tutto-

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ra, dati di fatto della situazione bibliotecaria italiana; che, comunque, induconoTulio De Mauro alle “sorprendenti” riflessioni dedicate all’eargomento nel citatolibro-intevista:

solo poche persone sanno - non lo sa il Comune di Roma, non lo sa la RegioneLazio, non lo sa forse l’intera popolazione romana - che prima dei bombardamen-ti, in proporzione agli abitanti, la città di Baghdad offriva ai suoi residenti più luo-ghi di lettura pubblica che non la città di Roma […] A Roma nessuno sa di averediritto, secondo gli standard internazionali, a trovare entro 600 metri da casa pro-pria una biblioteca che gli metta a disposizione i libri appena usciti. E questo accadea New York o a Parigi, a Madrid o a Salamanca e a Barcellona. Allora, certamentrel’Italia vive una condizione di arretratezza, ma è un’arretratezza indotta. Se non cisono biblioteche, non si sa che potrebbero e dovrebbero esserci. Non sapendoquesto, nessuno spinge per avere biblioteche. E quindi si degenera in una situazio-ne di arretratezza collettiva. […] Ma […] arretrati non si nasce.

Autopoiesi

Il tono e le intenzioni non sistematiche di questa mia partecipazione ai riti,tanto più graditi quanto più informali, per il trentennale della nuova sede della Bi-blioteca Provinciale, da una parte mi inducono a definirla, per così dire e ancora unavolta, “tangenziale”, “eccentrica”, “a margine” rispetto a una riflessione “adeguata”,“matura”, che altri vorranno (finalmente e doverosamente) dedicare all’argomento;dall’altra, mi dispensano dall’apporre una chiusa purchessia, preferibilmente altret-tanto ritualmente augurale (il che si dia, comunque, come fatto); e infine, mi autoriz-zano a proporne una che mi sembra, nonostante l’apparente suo carattere eterodosso,in sintonia con l’evento e con la mia disposizione nei confronti dello stesso.

La pagina conclusiva pretende, infatti, di essere molte (come al solito, troppe)cose: - una delle mie esercitazioni (una citazione futurista o un gioco passatista? inogni caso utile per risparmiare pagine) sui confini, tra il poetico e il tipo-grafico; - unacertificazione e un riconoscimento del debito che ho nei confronti degli “anni dibiblioteca”, per avermi consentito di consolidare la mia delirante passione per la pa-rola e la scrittura, soprattutto su due versanti apparentemente lontani: il ludico-segnicoe il civile-semantico, che, tutto sommato, forse è uno solo; - un piccolo rito conclusi-vo di appartenenza e di distacco; - un atto e un attestato di autoliberazione, comealternativa a un improbabile, improponibile, ingiustificato atto di contrizione.

Ma un dubbio resta: si tratta dell’ explicit di un poeta precoce ma clandestino,che ha preteso di fare il bibliotecario - scegliendo il certo presente tra i libri e nonl’incerto futuro nei libri - e si è accorto tardivamente di non essere tagliato per farlo (ilbibliotecario); o di un irriducibile bibliotecario, tardivamente pentito, che si accorgedi essere (stato da sempre, malgrado tutto, semplicemente, presuntuosamente) poetao che ha costantemente la tentazione di “buttarla in poesia”?

Guido Pensato, Sparse (: frecce morbide), 2004