opera nuova rivista internazionale di scritture e ... · il gufetto apre lo scatolone e tira fuori...

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Opera Nuova Rivista internazionale di scritture e scrittori

fondata da Raffaella Castagnola e Luca Cignetti

2019/3

numero speciale online

«Dieciperdieci»

Condizioni di abbonamento:

Svizzera ordinario chf 50.- sostenitore chf 100. numero arretrato chf 30.-

Altri Paesi ordinario chf 60.- sostenitore chf 120. numero arretrato chf 40.

I versamenti vanno effettuati traimite c/c o bonifico bancario intestato a:

«Opera Nuova», CH-6900 Lugano c/o Banca Raiffeisen, via Pretorio 22, CH-6900 Lugano IBAN: CH24 8037 5000 1075 7812 3 BIC: RAIFCH22

Indirizzo web: www.operanuova.com

Le proposte di pubblicazione vanno inviate all’indirizzo: [email protected]

È vietata ogni riproduzione non esplicitamente autorizzata, anche parziale ed effettuata con qualsiasi mezzo. Tutti i diritti sono riservati.

© Opera Nuova

ISSN 1663-2982

lucacignetti
Typewritten Text
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Edizioni Opera Nuova fondate a Lugano nel 2010

Luca Cignetti

Direzione

Andrea Afribo (Università di Padova), Sabrina Caregnato (Ginevra), Dario Corno (Università del Piemonte Orientale), Massimo Gezzi (Liceo Lugano 1), Gilberto Isella (Lugano), Uberto Motta (Università di Friburgo), Paolo Orvieto (Università di Firenze), Matteo Viale (Università di Bologna), Irene Weber Henking (Centre de Traduction Littéraire, Università di Losanna), Luca Zuliani (Università di Padova)

Comitato scientifico e di redazione

A garanzia della qualità di ogni fascicolo tutti i contributi vengono sottoposti al giudizio di due revisori esterni («blind referees»)

2019/3

Opera Nuova ringrazia per il sostegno:

Aiuto federale per la lingua e la cultura italiana

OPERA NUOVA online – Edizione speciale per i 10 anni

Dieciperdieci 10 favole per bambini e ragazzi

Indice Introduzione: Dieciperdieci di Sabrina Caregnato 11

Invito (da Polvere di Stelle), di Alberto Gianinazzi 13

L’albero di Sammy, Studentesse DFA-SUPSI 15

La leggenda della grande carestia, di Duilio Parietti 17

Il sogno di Bianca, di Nadia Meli 21

Il viaggio verso il cielo, di Paola Menghini 25

Storia di un sassolino che voleva diventare un artista, di Laura Sarotto 33

Il lampione di secca, di Daniela Delfoc 37

Dialoghetto tra uno gnomo ed un folletto, di Domenico Bonini 41

Che cos’è la guerra? – Storia di Piuno e di altri tre punti –

Storia di una linea (da Storie di segni), di Michele Canducci 46

La zanzara e il culturista, di Simone Fornara e Mario Gamba 57

OPERA NUOVA 2019/3 • 11

Introduzione di Sabrina Caregnato

Dieciperdieci

el 2009, nasceva Opera Nuova, grazie all’impulso di Luca Cignetti, l’attuale direttore, e Raffaella Castagnola. L’intento era di dar voce agli scrittori esordienti e alle nuove generazioni. Sono stati dieci an-ni intensi, che meritavano di essere festeggiati ringraziando anche i nostri lettori. Abbiamo perciò deciso di proporre un numero spe-

ciale, scaricabile gratuitamente online.

È nato così Dieciperdieci, un fascicolo che raccoglie dieci favole per bambini e ragazzi, già pubblicate in passato su vari numeri della rivista.

Dieci testi per dieci anni di attività, selezionati pensando ai bambini e ai

ragazzi, e pensando all’emozione collettiva che la lettura a voce alta può stimolare.

Ricordo ancora con nostalgia quando mia madre mi leggeva «le storie di animali» (come le chiamava la bambina che ero all’epoca). Sono passati tanti anni, ma riesco ancora a meravigliarmi e commuovermi pensando a quei momenti passati ad ascoltare la sua voce. Ci sedevano sul divano, una accan-to all’altra, lei apriva a caso un librone che teneva sulle ginocchia, poi inizia-va a leggere.

Credo sia grazie a quel rituale serale che ho imparato ad amare la lettura, la letteratura. Però ho imparato anche un’altra cosa, forse la più importante: ho imparato a immaginare altri mondi e altri modi, coi quali forgiare solu-zioni e opportunità difronte ai problemi della vita.

Dieciperdieci comincia con L’invito, tratto da Polvere di Stelle, di Alberto

Gianinazzi (pubblicato sul n° 2018/1). Seguono L’albero di Sammy delle Studentesse SUPSI (n° 2015/1), La leggenda della grande carestia di Duilio Parietti (n° 2019/1), Il sogno di Bianca di Nadia Meli (n° 2014/2), Il viaggio

verso il cielo di Paola Menghini (n° 2010/2), Storia di un sassolino che voleva

diventare un artista, di Laura Sarotto (n° 2013/2), Il lampione di secca di Daniela Delfoc (n°2011/2), Dialoghetto tra uno gnomo ed un folletto di Do-menico Bonini (n° 2015/1), Storie di Segni: - Che cos’è la guerra? - Storia di

Piuno e di altri tre punti - Storia di una linea di Michele Canducci (n° 2018/1). Conclude la raccolta la favola La zanzara e il culturista di Simone Fornara (a sua firma sono anche le illustrazioni) e Mario Gamba.

N

12 • DIECIPERDIECI

E quale momento più opportuno se non il periodo natalizio per pubbli-

care questo fascicolo? A nome mio e della redazione, auguro a tutti i bambini (piccoli o grandi

che siano), una buona lettura.

L’ALBERO DI SAMMY

OPERA NUOVA 2019/3 • 13

Polvere di stelle di Alberto Gianinazzi (in Opera Nuova 2018/1)

Invito

a quanto tempo non vai sull’altra sponda del lago? È una gior-nata chiara e limpida. I colori sono cromatici. Le tue montagne ti sembrano più vicine. Prendi il battello all’imbarcadero di Lu-gano e allontanati dal tuo ambiente di comodo, dove tutto ti sembra facile, sicuro e familiare. È solo un’illusione. Non resi-

stere al richiamo del lago e dell’altra sponda da te meno conosciuta, ma non per questo meno bella. Su quella riva sarai qualcuno.

Non preoccuparti, anche se fa freddo, il tempo rimarrà sereno e il lago piatto. La “Porlezzina”, quel vento impetuoso e improvviso tanto temuto dai barcaioli, se ne starà tranquilla. Oggi il lago sarà il tuo fede-le amico e, come un contrabbandiere, dovrai infrangere le regole. Porta qui i tuoi pensieri, con discrezione, senza sbatterli in faccia alla gente. Per strada ne perderai alcuni, ma in cambio ne troverai degli altri, forse più belli. Sarà come raccogliere nuove spezie: daranno un sapore diver-so e particolare al minestrone insipido della tua vita. Dovrai marinare la città senza paura, come facevi da adolescente, quando andavi a scuo-la.

Eccoti alcuni consigli, mi raccomando, seguili! Non prenderti troppo sul serio, come fai ora. Non rincorrere chi-

mere, evita il pifferaio magico, non guardare lo specchio per le allodole e soprattutto spegni il cellulare. Vieni in cerca d’avventura con euforia: qui ti assicuro, la troverai. Non ci sarà alcun dramma, solo commedia. Ritornerai rinnovato!

D

L’ALBERO DI SAMMY

OPERA NUOVA 2019/3 • 15

L’albero di Sammy di Studentesse DFA-SUPSI (in Opera Nuova 2015/1)

un freddo giorno d’inverno, il nostro piccolo Sammy esce dalla sua casa, che si trova nel tronco di un abete, nel mezzo del bo-sco ridarello. il suo albero è il più grande del bosco ed è rico-perto da fresca neve caduta qualche giorno prima.

Sammy è emozionatissimo. Manca pochissimo al suo giorno preferi-to ed è arrivato il momento di preparare il suo bell’albero.

Così Sammy scende nella sua cantina e inizia a cercare. Cerca, cerca fino a quando finalmente, in un buio angolino, dietro a una vecchia lampada rotta trova un grosso scatolone. Lo scatolone è pesantissimo, Sammy lo solleva, ma deve stare molto attento a non inciampare men-tre lo porta fuori!

Il gufetto apre lo scatolone e tira fuori una grande boccia dorata, poi vola attorno al suo albero e la attacca a un ramo. Poi scende di nuovo fino alla scatola e tira fuori delle piccole campanelline. Vola, vola e le attacca a un altro ramo.

Sammy trascorre tutta la mattina volando su e giù, e attaccando bocce, renne, angioletti, ghirlande, lucine e tantissime altre decorazioni ai rami del suo abete.

Dopo tanto lavoro, nel suo scatolone resta un solo oggetto: una grande, bellissima e lucente stella. Delicatamente Sammy, stando atten-to a non romperla, la porta su, su fino alla cima dell’abete e la attacca al ramo più alto. La stella era la decorazione che Sammy preferiva.

Adesso Sammy è molto soddisfatto, infatti il suo abete è diventato il più bello del bosco.

Proprio in quel momento arriva Paolo lo scoiattolo che si arrampica fi-no a raggiungere la casa di Sammy.

«Ciao Sammy, che bell’albero che hai! Quante decorazioni!», dice Pao-lo meravigliato.

«Grazie Paolo! Tu come hai decorato il tuo albero?», chiede il gufetto. «Ci ho messo tante bocce rosse e oro, però delle campanelline così bel-

le mi mancano proprio.» «Prendi quelle che più ti piacciono, io ne ho molte», dice Sammy. Così Paolo se ne torna a casa felice di avere anche lui delle campanelli-

ne.

È

STUDENTESSE DFA-SUPSI

16 • DIECIPERDIECI

Poco dopo, ad andare a salutare Sammy è il topo Tommaso, che da sotto l’abete lo chiama: «Sammy! Che bellissimo albero!»

Sammy scende giù fino a terra e saluta il suo amico che dice un po’ triste: «Vorrei avere io tutte quelle belle bocce dorate, ma nella mia cantina sono riuscito a trovare solo delle ghirlande!»

Così Sammy, che è un gufetto davvero generoso, prende una delle sue belle bocce dorate e la dà al suo amico topolino che la porta a casa tutto contento. Dopo che il topo Tommaso se ne è andato, il gufetto si incontra con Vittoria la volpe e insieme giocano a prendersi.

«Ho visto il tuo albero Sammy, è davvero stupendo!» Dice la volpe, «Ho anche visto che hai una renna bellissima, me ne manca proprio una!»

«Prendila pure, io ho moltissime altre decorazioni», risponde Sam-my alla sua amica.

In quel momento arriva anche la piccola Sofia, una bellissima coni-glietta bianca che chiede timida all’amico: «Non è che per caso avresti anche un angioletto da darmi? Il mio si è rotto.»

Sammy, che voleva molto bene a Sofia, vedendola triste prende l’angioletto più bello dell’albero e lo regala alla sua amica. Quel giorno Sammy incontra tantissimi altri animali del bosco: l’alce, il lupo, il cer-vo e molti altri. dal momento che è un gufetto molto generoso, regala una delle sue decorazioni a ciascun animale.

Alla sera però, quando guarda il suo albero, si accorge che sui rami del suo abete non ci sono più decorazioni: le ha regalate tutte ai suoi amici animali!

Sammy, un po’ dispiaciuto che il suo albero non è più bello, se ne va a dormire. La mattina dopo, quella di Natale, Sammy si sveglia sen-tendo cantare “Bianco Natale”. Un po’ assonnato esce dalla sua tana e rimane sorpreso nel vedere che sui rami del suo albero sono appesi tantissimi biscottini con dei nastrini colorati e giù, ai piedi dall’abete, ci sono tutti i suoi amici che cantano.

Sammy scende e chiede: «Da dove vengono queste bellissime deco-razioni?»

«Ieri, quando ci siamo accorti che hai regalato tutte le tue bellissime decorazioni, ci è dispiaciuto molto, così ti abbiamo portato i nostri bi-scotti e li abbiamo appesi. Ora il tuo albero è di nuovo il più bello del bosco!», spiega la piccola Sofia.

Sammy ora è felicissimo, perché i suoi amici sono stati gentili con lui come lui era stato gentile con loro, e tutti insieme festeggiano il Na-tale mangiando biscotti e cantando bellissime canzoni.

LA LEGGENDA DELLA GRANDE CAREESTIA

OPERA NUOVA 2019/3 • 17

La leggenda della grande carestia di Duilio Parietti (in Opera Nuova 2019/1)

anto tempo fa, quasi alla sommità del vasto bosco di larici, c’erano due grandi formicai. Sorgevano a poche centinaia di metri uno dall’altro ed erano abitati da due colonie di formi-che.

Il primo, quello più a nord, era popolato dalle formiche ros-se: grosse, tozze e un poco goffe. Non erano delle abili scavatrici, per questo il loro rifugio si estendeva più in larghezza che in profondità. Il secondo era la casa delle formiche nere, più piccole, snelle e slanciate. Contrariamente alle rosse, le nere erano abilissime nell’arte dello scavo, tanto che le loro gallerie si spingevano metri e metri sottoterra.

Si avvicinava l’autunno ed entrambe le colonie erano confrontate con la peggiore carestia che si ricordasse a memoria di formica. L’inverno aveva portato neve in abbondanza e temperature rigide, di molto sotto la media dei precedenti anni.

La successiva primavera non era stata più clemente: le piogge e il vento di tramontana avevano sferzato la montagna quasi ininterrotta-mente. Le due colonie avevano dovuto lavorare senza sosta ai loro formicai, liberando le gallerie dalle piccole frane che a causa delle piog-ge continuavano a ostruirle, e cercando di mantenere al sicuro le riser-ve di cibo che, giorno dopo giorno, andavano assottigliandosi in manie-ra sempre più preoccupante.

Dopo le piogge era poi arrivata l’estate, la più calda e secca che le due comunità ricordassero. Così, anche durante la stagione solitamente dedicata all’accumulo di cibo, le formiche erano state costrette ad at-tingere alle loro già scarse riserve, ormai quasi del tutto esaurite.

Tra le formiche rosse e quelle nere non era mai corso buon sangue. I vecchi raccontavano di frequenti guerre sanguinose scoppiate spesso per futili motivi, per questo ai giovani formichini veniva suggerito di non avere contatti con i nemici, così le due comunità avevano impara-to a convivere, cercando di star lontano quanto più possibile l’una dall’altra.

Purtroppo la scarsità di cibo costringeva le affamate formiche a mettere da parte la prudenza. Le rosse e le nere si trovavano così, sem-pre più spesso, a contendersi qualche rara larva o resti di animali sem-pre più rari e gli incidenti, spesso letali, erano ormai quotidiani.

T

DUILIO PARIETTI

18 • DIECIPERDIECI

Un giorno Salomone, il re delle formiche nere, convocò i suoi gene-rali. La situazione era drammatica: il cibo nelle riserve era sempre più scarso e, se non avessero fatto qualcosa, l’inverno successivo avrebbe ri-schiato di annientare l’intera comunità.

«Sapete che sono un re pacifico», iniziò in tono solenne il sovrano, «non ho mai amato la violenza, e penso che la forza non possa risolvere i problemi ma questa volta ci troviamo davanti a una situazione tragi-ca, che potrebbe portare all’estinzione del nostro popolo. Le scarse provviste che siamo riusciti a immagazzinare non saranno sufficienti per la sopravvivenza nel prossimo inverno. Per questo motivo sono giunto a una conclusione che, credo, sia l’unica che potrebbe permet-terci di sopravvivere.»

I generali, che già avevano intuito quella che sarebbe stata la propo-sta del loro re, se ne stavano in silenzio, osservando quella vecchia for-mica ricca di esperienza, che emanava sicurezza e grande carisma.

«Propongo di attaccare le formiche rosse e razziare le loro scorte di cibo.»

Si levò un brusio sommesso poi Morgan, il generale più giovane, al-zò un’antenna richiedendo la parola, che il re accordò con un gesto.

«Ma sire, non teme che l’attacco possa tramutarsi in un massacro? Le rosse sono giù grosse e forti di noi.»

«Certo si tratta di una mossa azzardata. Avremo molte vittime nelle nostre fila però ricordate che, se la superiorità fisica delle rosse è in-dubbia, è altresì vero che le truppe nere sono più numerose, e poi non dimenticate che i nostri soldati sono più agili. Inoltre potremmo muo-verci di notte, in modo da avere dalla nostra l’effetto sorpresa. Sarà una battaglia aspra e sanguinosa, ma sono ottimista sul risultato finale.»

Un’altra antenna si alzò, era quella di Nestore, il generale più anzia-no, che anni prima aveva perso una zampa in battaglia.

«Sire, forse avrei un’idea alternativa che potrebbe risparmiare tante vite. Sappiamo che al di là della collina in cui vivono le rosse c’è un grande bosco di castagni. Certo la carestia ha colpito anche quella zona, ma la ricchezza naturale di quel terreno nasconde di certo il cibo che ci servirebbe.»

Re Salomone lo interruppe: «In passato abbiamo provato più volte a scalare la collina, e mai nessuna formica è tornata viva. Purtroppo quel posto è completamente brullo e gli uccelli sembrano essere appostati proprio ad attendere chi vi si inerpica. Oltre tutto in questo periodo anche loro saranno di certo più affamati e a corto di cibo… No, caro Nestore, non mi sembra una buona idea…»

POLVERE DI STELLE

OPERA NUOVA 2019/3 • 19

«Ma io non pensavo di scalare la collina», insisté il vecchio generale. «E allora come pensavi di arrivare al bosco di castagni, volando?» «No, scavando…» Nestore, accompagnato da una delegazione di nere si presentò

all’ingresso del formicaio delle rosse. «Dove credete di andare?» fece in tono rude una guardia, «Vorremmo parlare con il vostro re!» fece eco il vecchio generale

con tono fermo e deciso. «E di cosa vorreste mai parlare con il nostro sovrano?» «Abbiamo una proposta da sottoporgli. Vai dal tuo re, e digli che

Nestore vuole vederlo.» La giovane guardia restò un istante in silenzio, indeciso davanti a

quella insolita richiesta, poi acconsentì, «Restate qui, vado a parlare con il nostro sire.»

Di lì a qualche minuto Nestore si trovò davanti a Gaspare, il re del-le temute rosse. Era una formica possente, dal corpo tozzo e le zampe corte, con lunghe antenne e occhi intelligenti. Il generale delle nere era la prima volta che se lo vedeva di fronte e non poté che provare una sensazione di timore mista a rispetto, davanti a quello sguardo profon-do e indagatore.

«Chi sei?» Gli domandò Gaspare? «Sono Nestore, generale anziano delle formiche nere. Mi manda Sa-

lomone, il mio re. Ho da farti una proposta che potrebbe salvare le no-stre comunità da questa carestia.»

«Accomodati», disse il re indicando un giaciglio di foglie secche, «sentiamo cos’hai da dirmi.»

Fu così che il vecchio Nestore espose il suo piano. Re Gaspare lo ascoltò, senza interromperlo. Solo quando la vecchia

formica nera ebbe finito, e dopo essersi sfregato a lungo le antenne una contro l’altra disse: «La tua idea è interessante, ma la decisione è così importante che voglio parlarle con i miei consiglieri. Vai, torna dal tuo re e portagli i miei saluti. Domani avrai la nostra decisione.»

I lavori terminarono alla fine di settembre. C’erano volute settimane

di duro lavoro, a cui avevano partecipato entrambe le comunità. Le formiche nere avevano scavato alternandosi a turno, frantumando con le loro zampe e le possenti mascelle il duro terreno sotto la collina. Le

DUILIO PARIETTI

20 • DIECIPERDIECI

nere, forti e instancabili si erano occupate del trasporto della terra sca-vata al di fuori del sempre più lungo cunicolo.

Il bosco, che dopo tanti sforzi congiunti, finalmente si aprì davanti alle lavoratrici, si dimostrò proprio come raccontavano le antiche leg-gende. Il terreno era protetto dagli attacchi degli uccelli da grandi ca-stagni e, su di esso il cibo era abbondante, addirittura più di quanto avessero immaginato.

Ci vollero molti giorni per riempire i magazzini delle due colonie. Il lavoro di trasporto fu svolto dalle formiche rosse, mentre le nere, gra-zie alla loro abilità di scavatrici, realizzarono per le cugine dei depositi più in profondità nel terreno, il che avrebbe permesso una maggiore si-curezza nel caso in cui l’inverno, ormai incombente, si fosse dimostrato rigido come il precedente.

Terminato il lavoro, proprio nel giorno in cui dal cielo cadeva la prima neve, i re delle due colonie firmarono un patto di pace, che da quel giorno sarebbe diventato frutto di mille storie raccontate ai for-michini nelle lunghe sere invernali.

Con il ritorno della bella stagione le due colonie costruirono un unico, grande formicaio, nel quale da quel giorno vissero insieme, in pace e armonia per sempre.

IL SOGNO DI BIANCA

OPERA NUOVA 2019/3 • 21

Il sogno di Bianca di Nadia Meli (in Opera Nuova 2014/2)

era una volta una stella alpina di nome Bianca. Viveva insieme alla sua famiglia ma, mentre tutte le altre stelle alpine trascor-revano le giornate procurandosi il cibo attraverso le radici, aprendo la corolla all’alba e richiudendola al tramonto senza farsi domande, lei si chiedeva in continuazione quale fosse il

senso di tutto ciò. Guardava con invidia le farfalle che le volavano in-torno. Pensava: «Chissà quante cose belle ci sono nel mondo! Perché devo vedere sempre e solo lo stesso pezzo di cielo? Che cosa ci sarà ol-tre quelle montagne? Che cosa darei per poter an dare a vedere!».

I suoi genitori e le sue sorelle le dicevano: «Smettila di dire stupi-daggini, noi siamo fiori, non possiamo volare!».

Ma Bianca non li ascoltava e continuava a sognare. «Ci deve essere un modo», ripeteva senza sosta, «la vita non può essere tutta qui!».

Così iniziò ad allungarsi più che poteva cercando di uscire dal ter-reno, ma fu tutto inutile. Le sue radici erano troppo lunghe e la anco-rava no saldamente al suolo.

Tentò allora di agitare i petali come fossero ali, sperando di sollevar-si almeno di un poco, ma non accadde nulla. Le sue sorelle non smet-tevano un istante di prenderla in giro: «Ah, ah, ma che cosa vuoi fare? Ti agiti per niente. Sei proprio una sciocca!».

Bianca non rispondeva, ma non ci pensava proprio ad arrendersi. «Ci deve essere un modo! Ci deve esse re!», diceva convinta.

Una mattina si alzò un forte vento. Le altre stelle alpine chiusero le corolle per stare al riparo. A lei invece non parve vero di sentirsi tra-scinare di qua e di là; sperava che arrivasse una raffica più forte delle altre, così forte da riuscire a portarla via. Purtroppo ciò non accadde.

Verso sera, dopo che il vento si fu placato, i suoi genitori la sgrida-rono. Le dissero: «Quante volte ti dobbiamo dire che siamo fiori delica-ti? Quando il tempo è brutto devi rimanere chiusa, altrimenti rischi di ammalarti o, peggio ancora, di morire!».

A lei non importava nulla di ammalarsi o morire. Ma perché non capivano?

«Voi non sapete cosa vi perdete a chiudervi! È stato bellissimo ab-bandonarmi al vento!» rispose.

C’

NADIA MELI

22 • DIECIPERDIECI

Nei giorni successivi Bianca provò di nuovo ad allungarsi e a muo-vere i petali. Pensò: «Se ci provo dieci, cento, mille volte, prima o poi funzionerà!». Lo fece ininterrottamente per ore e ore. Si fermò solo quando una bellissima farfalla viola si posò su di lei. Era la farfalla più bella che avesse mai visto. Bianca le chiese: «Chi sei?».

«Fino a poco tempo fa ero un fiore» rispose la farfalla, «un ciclami-no per l’esattezza. E come te sognavo di volare.».

«E poi?» chiese la stella alpina. «Poi una farfalla gialla si è posata su di me, mi ha sollevato in volo, i

miei petali sono diventati ali e ho iniziato a volare. Ora, se vuoi, farò la stessa cosa con te. Ma prima devo dirti ciò che la farfalla gialla ha detto a me; come farfalla vivrai un giorno soltanto, mentre se rimarrai fiore avrai una vita più lunga: a te la scelta!».

«Farfalla! Farfalla!» gridò Bianca. Un istante dopo si sentì trascinare verso l’alto, percepì il terreno sci

volarle sulle radici e cominciò a sentirsi leggera, leggera, sempre più leggera. Vide i suoi petali diventare meravigliose ali bianche, mentre il gambo, le foglie e le radici cadevano a terra. Si mise a battere le ali, dapprima timidamente, poi velocemente e si sentì librare nell’aria. Quante volte aveva sognato quel momento!

«Ora,» le disse la farfalla viola «vola libera e se ti capiterà di incon-trare un fiore che sogna di alzarsi in volo, potrai aiutarlo a diventare farfalla, come io ho fatto con te. Ma ricordati che non potrai far nulla se un fiore non desidera volare con tutto sé stesso. Le farfalle sono fiori senza radici; tutti i fiori possono, se vogliono, diventare farfalle, ma molti preferiscono rimanere attaccati alla terra e vivere come farfalle senz’ali. Bisogna rispettare la loro volontà».

Prima di volare via disse a Bianca che la vita di una farfalla era più pericolosa di quella di un fiore. Per i fiori, a parte le intemperie, cui si poteva ovviare chiudendo la corolla, c’era il rischio di essere raccolti e niente altro. Una farfalla invece poteva essere mangiata da lucertole e uccelli o catturata da bambini e collezionisti in cerca di nuovi esempla-ri. Per di più c’era una strega di nome Argasida, che si aggirava per la valle a caccia di farfalle: usava le ali per le sue pozioni magiche.

«Se malauguratamente ti capitasse di imbatterti in lei, ricordati di ripetere per tre volte questo suono: RIM. E un antidoto per qualsiasi magia», disse come ultima cosa.

Bianca era talmente felice che ascoltò l’ultima parte del discorso un po’ distrattamente.

IL SOGNO DI BIANCA

OPERA NUOVA 2019/3 • 23

Appena la farfalla viola se ne fu andata, il primo pensiero di Bianca fu per i suoi genitori e le sue sorelle. Avrebbe tanto desiderato far pro-vare anche a loro la felicità che aveva invaso il suo cuore, così comin-ciò ad avvicinarsi nella speranza che la riconoscessero. Purtroppo non fu così. Li trovò in lacrime perché pensavano che lei fosse morta e quando tentò di spiegare loro ciò che era successo, si rese conto che non la capivano: non parlavano la sua lingua. Avrebbe voluto insistere, ma si ricordò delle parole della farfalla viola e capì che sarebbe stato inutile. Inoltre aveva poco tempo. Così, anche se un po’ a malincuore, si alzò in volo e si diresse finalmente alla scoperta del mondo.

Che meraviglia vedere tutto dall’alto! Stava volando tranquilla e fe-

lice, quando all’improvviso sentì che faceva fatica a muovere le ali. In pochi istanti si ritrovò paralizzata. Era rimasta impigliata in una ragna-tela viscida e scura. Poco dopo si materializzò davanti a lei Argasida. Aveva gli occhi chiarissimi, dei lunghi capelli grigi e un naso enorme. Prese la farfalla e la mise in tasca congratulandosi con sé stessa per la cattura.

«Ih, ih, mi servivano giusto delle ali bianche per la mia pozione.». «Non è possibile!» pensò Bianca «proprio adesso che ero così feli-

ce!». Non avendo ascoltato con attenzione le ultime parole della farfal-la viola, non ricordava quale fosse il suono-antidoto; pensando di essere spacciata, svenne per la paura. Per fortuna le apparve in sogno la farfal-la viola che le suggerì di nuovo il suono magico. Bianca si svegliò poco dopo e: «Rim, rim, rim!» gridò con quanto fiato aveva in gola. Imme-diatamente la ragnatela si dissolse e Bianca volò fuori dalla tasca della strega.

Argasida rimase a bocca aperta: non riusciva a capire cosa fosse suc-cesso. Tentò in tutti i modi di riacciuffarla, ma fu tutto inutile.

Bianca continuò a esplorare la montagna e incontrò altri meraviglio-si fiori senza radici come lei. Verso sera si posò dolcemente su una genziana, intenta a stiracchiarsi ripetutamente e a cercare di battere i petali azzurri come ali.

La genziana le chiese: «Chi sei?». «Fino a poco tempo fa ero un fiore. Una stella alpina, per

l’esattezza» rispose Bianca «e come te, sognavo di volare». «E poi?» chiese la genziana. «Poi una farfalla viola si è posata su di me, mi ha sollevato in volo, i

miei petali sono diventati ali e ho iniziato a volare.»

NADIA MELI

24 • DIECIPERDIECI

Così la genziana si trasformò in una farfalla azzurra. A sua volta aiu-tò un garofano alpino, che divenne una meravigliosa farfalla rossa. La farfalla rossa aiutò un ranuncolo a trasformare i petali in ali candide come la neve. E così fu per una viola, una campanula, un papavero e per molti altri fiori, che divennero coloratissime farfalle.

E Bianca? Dopo aver volato per un giorno intero, tornò dalla sua fa miglia, si posò sulle sue sorelle e sui suoi genitori, li accarezzò con le ali cercando di instillare in loro la voglia di volare, infine si adagiò su una roccia, dove chiuse gli occhi e si preparò ad addormentarsi. Era felice: aveva realizzato il suo sogno e sapeva che esso avrebbe continuato a vivere grazie a una meravigliosa staffetta alata tra i fiori desiderosi di volare e le farfalle disposte ad aiutarli.

IN VIAGGIO VERSO IL CIELO

OPERA NUOVA 2019/3 • 25

In viaggio verso il cielo di Paola Menghini (in Opera Nuova 2010/2)

volte il sole, dopo una splendida giornata, si siede comodo comodo sulla sua poltrona preferita, fatta di polvere d’universo, e incomincia a chiamare le stelle.

«Stelle, stelle! Dove siete? Fatevi vedere, è tutto il giorno che non vedo altro che cielo azzurro e nuvolette bianche. Venite astri del cielo, ho una storia da raccontarvi!».

A queste parole le stelle escono dai loro scuri nascondigli e si avvi-cina no al sole, cominciando a brillare.

Piano piano si formano tanti gruppi di stelline. Quelle più timide restano lontano e si nascondono dietro le altre, brillando poco poco per non farsi notare, mentre le più sfacciate si siedono proprio ai piedi del sole spruzzando di luce tutto il cielo.

A volte capita anche che una stella arrivi in ritardo, allora attraversa il cielo lasciandosi dietro una scia luminosa e di corsa si mette seduta vicino alle sue amiche.

Succede sempre così, ogni volta che il sole chiama. E quando il fir-mamento è al completo, con la sua voce calda il grande vecchio co-mincia a raccontare.

«Fatemi posto, che mi state schiacciando! Ehi, mi fate male! Siete

proprio delle grosse prepotenti». Delle tre lei era la più piccola e per questo le sue sorelle non le da-

vano mai ascolto. Loro non facevano altro che mangiare e ingrassare, e ogni volta che si muovevano la schiacciavano con la loro enorme pan-cia.

«Smettila di lagnarti, siamo castagne! Le castagne devono diventare ciccione, altrimenti non servono a nulla!».

«Lo sai anche tu che per essere una buona castagna bisogna avere la pancia. Le castagne piccole vengono raccolte e seccate per farne farina, quelle un po’ più grosse diventano caldarroste, mentre le più belle ven-gono imbevute di sciroppo di zucchero, avvolte in una magnifica carta dorata e presentate in bell’ordine sul bancone di una pasticceria. Si chiameranno Marongla c’è!».

«Si dice Marrons Glacés».

A

PAOLA MENGHINI

26 • DIECIPERDIECI

«Sta zitta tu, che sei così piccola e striminzita che nemmeno gli scoiattoli ti metterebbero in dispensa».

«Devi gonfiarti un po’ se vuoi essere raccolta almeno per la farina. Sì perché non penso proprio che riuscirai a diventare una caldarrosta, tan-to meno un Mar Onglasè».

«Marrons Glacés! Ma io non voglio diventare niente di tutto questo, io diventerò... diventerò... non lo so ancora, ma sarà una cosa bellissi-ma».

«Sì, figurati! Intanto spostati che qui dentro stiamo strette». Nel riccio infatti spazio non c’era più. Un giorno allora la piccola

castagna decise di andarsene. «Voglio uscire, non ne posso più di stare chiusa al buio con voi due.

Ho bisogno di andare in giro per il mondo, per scoprire cosa vorrei di-ventare. E poi sono stufa del buio, ho bisogno di luce e colori!».

Cominciò a spingere, un po’a destra e un po’a sinistra, un po’ sopra e un po’sotto, sperando di aprire un buchino anche piccolo per poter-sene scappare via, ma le pareti del riccio erano solide e nulla si muove-va.

«Smettila di spingere sottiletta», la riprendevano le sorelle. Ma lei non le ascoltava e continuava a farsi strada.

Finalmente un raggio di luce riuscì ad entrare nel riccio e a rompere il buio che avvolgeva le tre castagne.

«Sììì, se un raggio di luce riesce a entrare, allora io posso uscire!», gridò eccitata, e si tuffò nella direzione del raggio di luce. Lo spiraglio si al largò un poco, e visto che lei era piccola e magra vi scivolò attraver-so precipitando tra foglie verdi e gialle, spicchi di cielo azzurro, rami e tronchi.

«Evviva! Ce l’ho fatta! Sono riuscita ad uscire». Fece una capriola in volo per controllare se le sue sorelle la stavano seguendo. «Per fortuna non sono ancora riuscite ad uscire. Forse riesco e fuggire lontano, così non potranno più prendermi in giro e dirmi che non valgo nemmeno quanto una castagna da seccare».

Mentre pensava a queste cose atterrò su uno spesso strato di foglie secche, in mezzo a ricci aperti e una moltitudine di castagne... grosse lucide castagne, molto simili alle sorelle che aveva appena lasciato lassù in cima alla pianta. Queste appena la videro cominciarono a sbeffeg-giarla.

«Ah ah, guardate cosa è appena caduto dal vecchio castagno». «Una sottiletta marrone».

IN VIAGGIO VERSO IL CIELO

OPERA NUOVA 2019/3 • 27

«Mai vista una castagna così magra. Se fossi in te non mi farei vede-re in giro».

«Speriamo solo che nel tuo riccio non siate tutte così». «Come ti chiami piccolina? Signorina Secchis?». E giù tutte a ridere di lei. Non era questo che si era immaginata quando nel suo riccio sognava

di andarsene per il mondo. Avrebbe voluto scappare lontano da queste cattiverie, ma c’era un piccolo problema: le castagne non hanno gambe. Nei suoi sogni di viaggio, volava leggera come una piuma soffiata dal vento. ma nella realtà non riusciva a spostarsi neanche di un millime-tro.

Provò e riprovò, cercò di rotolare, di saltellare, di strisciare, ma non succedeva niente. Dopo un’ora era ancora lì, esattamente dove era at-terrata, sulla stessa foglia secca.

Stanca per gli sforzi inutili e arrabbiata per l’accoglienza ricevuta. cercò di non ascoltare le battute e le risate delle altre castagne, e co-minciò a guardare il paesaggio attorno a lei.

Era circondata da grandi alberi, erano tutti così alti che non ne di-stingueva la cima. Sopra al tetto di foglie verdi e gialle, si intravedeva il cielo azzurro. La piccola castagna, che aveva vissuto al buio fino a po-che ore prima, era affascinata dalla luce e dai colori del bosco. I raggi di sole che filtravano tra le foglie rade illuminavano i tronchi degli alberi facendo risaltare i disegni irregolari della corteccia. L’aria fresca portava una gran quantità di profumi: terra umida, funghi freschi, erba appena calpestata. Tutta un’altra aria di quella che si trovava nel riccio, soprat-tutto quando le sue sorelle dopo una grassa mangiata facevano a gara di puzzette!

«Che ridano pure di me, non mi interessa, io sono fatta così e sono sicura che il mio destino sarà molto meglio di quello di una caldarro-sta!», disse sottovoce.

«Giusto, hai ragione, non dar peso alle loro malignità. Sono convinte di essere le più belle.» Le disse una voce proveniente da una foglia. «Sono sicure di essere le migliori solo perché sono ben pasciute».

Un piccolo bruco bianco dall’aria assolutamente innocua si trascinò fino alla piccola castagna, la guardò bene, le girò intorno e le sussurrò: «Non devi avere paura di me».

«Paura di te? E perché mai dovrei avere paura di te?». «Mi presento: sono Curculio Elephas, ma gli amici mi chiamano

Larva. Nasco nella castagna, mangio, cresco e quando sono pronto ro-

PAOLA MENGHINI

28 • DIECIPERDIECI

sicchio la buccia, faccio un bel buco ed esco all’aria aperta bello cic-ciotto. Poi mi lascio cadere a terra, scavo una tana e mi ci nascondo per tutto l’inverno. A primavera mi sveglio e mi trasformo in un Balanino delle castagne».

«Ciao Larva, le mie sorelle mi chiamavano La Piccola, io però prefe-rirei essere chiamata semplicemente Castagna. Così tu nasci dentro alle castagne, e passi l’inverno sottoterra?! Caspita, prima sei un piccolo bruco e dopo l’inverno diventi un Balanino!? Incredibile, ma che cos’è un Balanino?».

«Un piccolo coleottero grigio e giallo, dal naso lunghissimo. Non vedo l’ora che arrivi la primavera! Ora però devo trovare un posto do-ve scavare la mia tana per l’inverno».

Larva si voltò e cominciò a strisciare sotto alle foglie verso il terre-no.

«Aspetta. Prima di andartene potresti farmi un piacere? Mi daresti una spinta per allontanarmi da quelle castagne che continuano a pren-dermi in giro? Solo una piccola testata, così se finisco sotto le foglie, non mi vedono e forse la smettono».

«Un momento che arrivo. Se ti spingo in questa direzione... uff... magari riesci ad arrivare fino a quel tronco... sei magra ma sei pesante da spostare... ecco qui sei abbastanza lontana. Ora me ne vado, comin-cio già a sentire l’inverno che si avvicina».

Larva sbuffò, si rituffò sotto le foglie secche e in un attimo sparì. Castagna si ritrovò sola appoggiata alle radici di un grosso albero. Si

stava bene lì, era un posto tranquillo, Castagna poteva vedere le foglie colorate sopra di lei e l’azzurro del cielo ancora più su. Il colore del cie-lo le piaceva proprio tanto. Quando era ancora al buio nel riccio, non si immaginava che al mondo potessero esistere tanti colori e così belli. Ora si godeva quello spettacolo appoggiata al tronco senza pensare ad altro.

Passarono diversi giorni e Castagna si godeva l’azzurro del cielo, il verde delle foglie, il giallo dorato, l’arancione e il rosso fuoco.

Non poteva farne a meno, era cresciuta al buio e ora la luce e i co-lori erano tutti a sua disposizione. A volte sognava addirittura di diven-tare una castagna arcobaleno.

«Mamma guarda quante ce ne sono. Sono grossissime». Castagna sussultò, risvegliandosi dal suo sogno. «Anche qui ce ne sono tante, vieni a vedere».

IN VIAGGIO VERSO IL CIELO

OPERA NUOVA 2019/3 • 29

«Fate attenzione a non pungervi con i ricci, e non raccogliete quelle bacate».

Davanti a Castagna un piede spostò le foglie secche e una mano raccolse una grossa castagna marrone nascosta sotto di esse. Poi la mano scese di nuovo e prese altri tre frutti non lontano da lei e li mise in un sacco.

«Mamma le facciamo cuocere sul fuoco o in pentola? Io preferisco le castagne che fai cuocere nel camino».

«Anch’io mamma! Le mangiamo questa sera?». «Certo, ma bisogna raccogliere anche un po’ di legna per il fuoco». La stessa mano di prima tornò allora a spostare le foglie per racco-

gliere i rametti secchi nascosti lì sotto. «Mamma guarda questa castagna come è piccola e stretta». Castagna si ritrovò appoggiata sul palmo di una piccola mano, non

troppo pulita per la verità, ma queste cose non interessano troppo una castagna.

«Hai ragione, è proprio stretta. Buttala, non portarla a casa, lasciala nel bosco per i cinghiali».

«D’accordo mamma». La mano si chiuse in un pugno, tutto il mondo di luce scomparve e

Castagna si ritrovò immersa nel nero più nero, come quando era nel riccio. Ma lo spavento durò poco, la mano si riaprì e Castagna volò at-traverso gli alberi, sbattendo contro le foglie fino a cadere su uno strato di terreno morbido e sgombro da foglie secche.

«Caspiterina che volo. Mi piace volare, ma preferisco restare a terra. Bello questo nuovo posto, riesco a vedere ancora più cielo di prima».

Si rituffò nel mare di colori che la circondavano e venne il crepu-scolo. Improvvisamente Castagna udì una voce profonda e grufolante che si avvicinava.

«Qui no, qui no, qui nemmeno. Non ce ne sono più! Deve essere già passato qualcuno».

Un attimo dopo sopra di lei comparve un grosso naso piatto, umido e peloso con due narici così grosse da poterci entrare. Sbuffava, e ad ogni soffio le foglie sul terreno si spostavano. Anche Castagna rischiò di essere sbuffata via.

«Smettila, mi stai soffiando via!». «Ehilà, chi va là. Chi ha parlato?». «Sono Castagna, sono qui sotto di te. E tu chi sei?».

PAOLA MENGHINI

30 • DIECIPERDIECI

«Sono Cinghiale e sono affamato. Se tu sei una castagna potrei man-giarti, ma sei fortunata, oggi ho voglia di tartufi. Qui sottoterra ce ne sono sempre... oggi però non ne trovo... qualcuno deve averli scovati prima di me».

Castagna non fece in tempo a rispondere che Cinghiale aveva già in-filato il grugno sottoterra sollevando una zolla, proprio quella dove si trovava lei, e con un colpo di muso la rovesciò. Castagna cominciò a rotolare giù, giù, giù per il pendio, si fermò solo quando picchiò contro un grosso sasso liscio. Ormai la era notte già scura, non si vedeva niente e si mise a dormire.

Il giorno dopo, con la nuova luce, Castagna si accorse di essere finita in fondo ad un burrone, in mezzo a una distesa di sassi di tutte le for-me e dimensioni. Lì di castagne o foglie secche non ce n’erano, solo sas-si. Inoltre dal fondo del burrone Castagna non riusciva più a vedere il cielo e anche le foglie verdi erano troppo lontane. Tutto era privo di colore.

Trascorsero diversi giorni, nessuno passava da quelle parti e Casta-gna cominciava addirittura a sentire la mancanza delle sue sorelle.

«Chissà se sono riuscite a diventare caldarroste o se sono ancora nel bosco. In fondo un po’ mi mancano, qui sono così sola, non succede niente, niente si muove, i sassi sono grigi e mi mancano i colori del bo-sco...».

Improvvisamente sentì qualcosa caderle addosso e scivolarle sulla buccia.

«Piove!», disse Castagna contenta della novità. E piovve così intensamente che dopo poco in mezzo ai sassi comin-

ciarono a scorrere fili d’acqua. E piovve così a lungo che i fili d’acqua si trasformarono in rigagnoli, che si unirono in un ruscello, che dopo giorni di pioggia si trasformò in un torrente.

Castagna all’inizio vedeva l’acqua scorrerle a fianco, poi si ritrovò immersa per metà nel ruscello, e dopo giorni di pioggia il torrente la sommerse completamente e la portò via facendola sbattere contro i sassi.

Castagna rimase in balia del fiume per diverso tempo, poi per sua fortuna venne scagliata contro un sasso liscio che le fece da trampolino scaraventandola fuori dall’acqua. Si ritrovò in una pozza di fango, e lì rimase semisommersa fino a che non smise di piovere.

«Che freddo! Ora capisco perché Larva si scava una tana sottoterra per l’inverno. Qui fuori fa veramente freddissimo».

IN VIAGGIO VERSO IL CIELO

OPERA NUOVA 2019/3 • 31

Se avesse potuto muoversi, Castagna si sarebbe messa a tremare. Dopo la pioggia arrivò la neve che ricoprì tutto. Anche Castagna si

ritrovò sotto uno spesso strato di neve bianca. «Che strano qui ora tutto è bianco, nel mio vecchio riccio tutto era

nero, mentre il bosco era pieno di colori. Io amo i colori... tutti, ma l’azzurro del cielo è il mio preferito... chissà se lo rivedrò in primavera»,

Castagna si sentiva sempre più stanca, aveva un gran sonno e pian piano si addormentò.

Dormì tutto l’inverno sotto la coperta di neve sognando colori, co-lori e ancora colori. Quando finalmente il sole riuscì a sciogliere tutta la neve ricominciando a scaldare la terra, Castagna si risvegliò, ben riposa-ta ma con una strana sensazione.

«Che bello! L’inverno è finito, l’aria è di nuovo calda e piena di pro-fumi, il cielo è sempre azzurro, sulle piante stanno nascendo moltissi-me foglie verdi. Tutto è perfetto, ma io mi sento strana. Non capisco cosa sia, ma ho la sensazione di essere inchiodata a terra».

Si guardò un po’ attorno cercando qualcuno che la potesse aiutare Non molto lontano vide passare uno scoiattolo.

«Ehi Scoiattolo, per favore, vieni un momento qui». «Qui dove? Chi è che sta parlando?». «Io, Castagna. Sono qui, qualche saltello alla tua destra». «Ecco, ho fatto qualche saltello a destra, ma continuo a non veder-

ti». «Certo, se dico destra e tu vai a sinistra non mi troverai mai». «Ops, scusa, ho sempre fatto confusione fra destra e sinistra. Sono

qui. Ma tu chi sei e soprattutto dove sei?». «Sono Castagna e sono proprio ai tuoi piedi». «Ah! Ma tu non sei una castagna. No, aspetta... certo, tu eri una ca-

stagna ma ora sei un germoglio di castagno. Quando sarai ben cresciuta sarai un castagno, un grande, rugoso castagno».

«Ma cosa ti stai inventando?». «Beh, senti qui?». Lo scoiattolo toccò Castagna con la punta della

coda facendole solletico. «Ecco queste sono le tue radici che stanno scavando sottoterra. E

queste sono le tue prime foglie. Sono molto delicate ora, ma poi diven-teranno forti. Sei proprio una bella piccola pianta di castagne», disse Scoiattolo ammirando il germoglio.

«Grazie. In effetti mi sentivo un po’ strana».

PAOLA MENGHINI

32 • DIECIPERDIECI

Così Castagna, stagione dopo stagione, anno dopo anno crebbe tan-to da diventare l’albero di castagne più alto del bosco.

Oggi è ancora lì, con i suoi rami così vicini al cielo azzurro che tan-to le piace da riuscire a toccarlo quando soffia il vento.

I suoi ricci sono sempre pieni di belle castagne e anche la più picco-la, un giorno, potrebbe diventare un magnifico albero.

«Fine della storia. Forza pigrone, adesso alzatevi e tornate a nascon-

dervi, che è quasi l’alba».

Ma le stelle non si muovono. Restano ferme e sperano che il sole con-

tinui a raccontare.

«Non ho più tempo, ora devo tornare al lavoro! Via, via sparite!».

Controvoglia allora gli astri si alzano, tornandosene in cielo.

E il sole riprende a splendere per un altro giorno.

LAURA SAROTTO

OPERA NUOVA 2019/3 • 33

Storia di un sassolino che voleva diventare artista di Laura Sarotto (in Opera Nuova 2013/2)

ené voleva diventare un artista. Come quegli uomini che ve-deva arrivare ogni anno e che plasmavano la creta, creando nuove forme. O come i bambini che vedeva accompagnati dai loro genitori, che davano colore alla loro fantasia disegnando su un foglio bianco. Ma Nené non aveva pennelli né matite né

pennarelli. E, se è per questo, non aveva nemmeno mani o braccia. Non aveva neppure una zampa qualunque. Eppure Nené voleva dipin-gere, scolpire, modellare. I suoi amici ridevano a crepapelle.

«Sei un sasso, Nené» dicevano. «Dove vuoi andare? Il tuo destino è restare qui, in questa montagna insieme a noi.»

Ma Nené voleva proprio fare l’artista e creare. Prendere la materia e trasformarla. Dare corpo ai suoi sogni. Così, un giorno prese una deci-sione e partì.

Prima cercò di dipingere nell’acqua e rotolò giù per la parete dove abitava fino a un laghetto a valle. Dapprima rimbalzò sulla superficie, ricamando l’acqua come un’esperta cucitrice. Ma poco dopo affondò. Rimase lì per anni. L’acqua lo erodeva a poco a poco. Placidamente, ma instancabilmente. Finché un giorno non passò di lì una rana.

«Amica rana!» la chiamò Nené. La rana si avvicinò incuriosita: non aveva mai sentito un sasso chia-

marla. Di solito le rocce non erano creature socievoli. «Dimmi sassolino, perché mi hai chiamata?» domandò la rana. «Vorrei chiederti un favore» disse Nené. «Chiedi pure» rispose la rana. «Vedrò cosa posso fare.» «Vorrei un passaggio per uscire di qui.» «E perché mai?» chiese la rana. «Perché voglio diventare un artista. Volevo dipingere sull’acqua, ma

sono affondato.» Le rocce vicine risero sguaiatamente. «Ti aiuterò» disse la rana, «perché sei un sasso coraggioso.» Così la rana se lo caricò sul suo dorso e con un balzo lo portò fuori

dall’acqua. All’aria aperta, Nené si accorse di essere diventato più pic-cino e più liscio.

N

LAURA SAROTTO

34 • DIECIPERDIECI

Nené non se ne preoccupò e provò a dipingere sulla terra. Che me-raviglia! Rotolando poteva creare disegni come fossero tatuaggi sulla pelle del mondo. Ma bastava un po’ di pioggia e tutto spariva di nuovo.

Nené aspettò ancora. Passarono molti anni: gli autunni, gli inverni, le primavere e le estati si rincorrevano instancabilmente. E lui stava lì, ad aspettare e a lasciare che piano piano le intemperie lo erodessero un altro po’.

Un giorno, vide uno stambecco che passava di lì e lo chiamò: «Ami-co stambecco!»

Lo stambecco si fermò, sorpreso che un sassolino gli rivolgesse la parola. «Perché mi chiami?» domandò.

«Se non è troppo disturbo, vorrei che mi portassi in alto, su quel ghiacciaio.»

«Lo farò» rispose lo stambecco, «se mi dirai come mai ci vuoi anda-re.»

«Voglio provare a scolpire la neve.» I sassi che vivevano lì intorno risero di gran gusto. Ma lo stambecco

lo afferrò tra i denti e lo portò con lunghi balzi sul ghiacciaio, dove c’era ancora neve. Lassù, Nené si accorse che era diventato ancora più piccino e un po’ più tondo.

Il sassolino rotolò nella neve, intagliandola come un incisore. Che gioia! Finché non arrivò l’estate e, con il sole, la neve diventò acqua e scivolò via, portando con sé quello che Nené aveva creato.

Passarono altri anni, e il sassolino non si mosse. A ogni anno, Nené perdeva un pochino di sé stesso, millimetro dopo millimetro si faceva sempre più piccolo.

Una mattina, vide un’aquila e la chiamò: «Amica aquila.» «Chi mi chiama?» chiese l’aquila che non vedeva nulla. Poi osservò

meglio con la sua vista da rapace e notò un minuscolo sasso in mezzo a un ghiacciaio.

«Dimmi!» disse l’aquila posandosi di fronte a lui. «Perché mi chia-mi?»

«Ho girato tanto, perché volevo fare l’artista spiegò il sassolino. «Ma ogni volta che pensavo di esserci riuscito, il mio peso, la pioggia o il so-le cancellavano il mio lavoro. Ora desidero soltanto tornare da dove sono venuto» disse Nené rassegnato.

L’aquila provò compassione. Lo prese nel suo becco e si alzò in vo-lo. Ma non lo portò nel posto da cui era venuto. Volò invece fino alla

STORIA DI UN SASSOLINO CHE VOLEVA DIVENTARE ARTISTA

OPERA NUOVA 2019/3 • 35

cima del monte più alto e lì lo depositò. Era diventato poco più di una briciola di roccia che brillava al sole.

«Ora aspetta» disse l’aquila. «Non avere fretta e vedrai.» Nené rimase lì ancora per molti anni. La pioggia e la neve lo colpi-

vano duramente, ma lui fece quello che gli aveva detto l’aquila e aspet-tò. Di anno in anno diventava sempre più piccino. E ancora e ancora. Finché un giorno si accorse che era diventato solo un granello di polve-re leggera.

Arrivò il vento. Nené non dovette nemmeno chiamarlo e il suo sof-fio lo fece volare via.

Ora Nené non era più un sasso. Era aria. Era diventato vento lui stesso. E volò. Sui fianchi delle montagne, a scolpirne le pareti, sulle superfici dei laghi a incresparne l’acqua pigramente distesa, in mezzo agli alberi a incurvarne le cime, tra i prati a far vibrare i fili d’erba. Ed era felice. Perché ora Nené era diventato un artista.

IL LAMPIONE DI SECCA

OPERA NUOVA 2019/3 • 37

Il lampione di secca di Daniela Delfoc (in Opera Nuova 2011/2)

era una volta un lampione, sì proprio un lampione, uno di quelli che troviamo sulle nostre strade ai bordi dei marciapie-di. Ma questo lampione si trovava su una stradina di monta-gna. Una stradina piccola piccola, che collegava una frazione di nome Secca a un paese che si chiamava Stanto.

A Secca abitavano soltanto quaranta persone, per lo più contadini con i loro figli, niente scuole, negozi o bar, tutto era posizionato a Stan-to che distava solo due chilometri in linea d’aria.

Per andare da Secca a Stanto c’erano solo due possibilità: la strada provinciale o una scorciatoia, percorribile solo a piedi, con il nostro lampione.

I bambini, per andare a scuola, passavano tutti i giorni da lì e, vuoi perché erano dispettosi, vuoi perché c’era solo lui a cui dare fastidio, quando passavano, tiravano calci al povero lampione che era sempre più indignato.

Lui voleva solo essere rispettato, dopotutto a quei monelli, illumi-nava la via tutti i giorni.

Dopo anni di sopportazione, decise che era ora di smetterla: avreb-be scioperato!

“Sciopero”, che parolona! L’aveva sentita usare da alcuni operai che avevano detto di meritare qualcosa di meglio dalla fabbrica che li aveva assunti e si erano rifiutati di lavorare, finché non avevano ottenuto quello che volevano.

Lui avrebbe fatto altrettanto. Così, una sera, invece di accendersi al solito orario, rimase spento. Quando i bambini presero la strada per tornare a casa, si ritrovarono

al buio e, anche se erano grandi e prepotenti, si accorsero di avere pau-ra. Avevano solo la luce di un misero quarto di luna calante, che illu-minava la via attraverso qualche nuvola solitaria.

Dopo aver rischiato di finire nel fosso che costeggiava la stradina ed essere caduti un paio di volte per colpa di qualche sasso, arrivarono fi-nalmente a casa.

Il giorno dopo venne chiamato un operaio dell’azienda elettrica per mettere a posto il lampione. Ma tutto era in ordine, la corrente arriva-

C’

DANIELA DELFOC

38 • DIECIPERDIECI

va e l’operaio, per scrupolo, cambiò la lampadina che era vecchia, ma non fulminata.

Tuttavia il lampione non si accendeva. L’uomo rientrò senza poter fare nient’altro che riferire ai suoi supe-

riori quello strano caso. I municipali dissero che se ne sarebbero occupati in seguito. In fon-

do non era urgente e loro avevano cose più importanti da fare, che pensare a un lampione.

La mattina dopo i bambini si fecero accompagnare a scuola e sup-plicarono i genitori di andarli a prendere, ma purtroppo a quell’ora erano tutti impegnati, chi in stalla, chi al lavoro. Allora chiesero il permesso di passare dalla provinciale, ma fu loro negato in quanto troppo pericoloso, perché mancava il marciapiede e le automobili an-davano troppo veloci.

Alcuni genitori consegnarono loro delle pile tascabili, raccoman-dando ai figli di tornare a casa in gruppo.

Usciti da scuola i bambini di Secca si fecero coraggio e si avviarono verso casa.

Era una notte nuvolosa e le loro pile non illuminavano abbastanza; dopo essere caduti per l’ennesima volta, sconsolati, si misero a piange-re.

Il lampione li guardava dall’alto ed era triste, perché quei bambini che piangevano gli facevano pena. Ma ora, forse, avrebbero capito che lui era importante.

I bambini, pian pianino, smisero di piangere e tra di loro cercarono di infondersi il coraggio per continuare a salire verso casa.

Immaginatevi che paura quando il lampione disse: «Mi avete sem-pre tirato calci, ma io in tutti questi anni vi ho sempre illuminato la strada. Ora sono stanco, tanto stanco.»

I bambini raggelarono. Il lampione parlava. Se non fosse che era buio pesto e le loro pile erano quasi scariche,

sarebbero corsi via a gambe levate. Rimasero fermi e, con voce un po’ tremolante, chiesero al lampione

di accendersi per consentir loro di arrivare fino a casa. Ma il lampione fece finta di non sentirli. «Scusaci, non lo faremo più» promisero i bambini.

IL LAMPIONE DI SECCA

OPERA NUOVA 2019/3 • 39

«Mi dispiace, ma non ci credo. Lo dite sempre ai vostri genitori quando combinate una marachella, ma poi ricominciate come se niente fosse. Io continuo a scioperare.»

I bambini salutarono titubanti il lampione e accesero le pile. Tutti insieme tornarono a casa decidendo di non dire nulla ai loro genitori: sia per paura di essere presi per matti, sia perché avrebbero dovuto confessare di aver preso ancora a calci il lampione, nonostante i loro rimproveri e le loro raccomandazioni.

Il giorno dopo, a scuola, durante la ricreazione, parlarono di quello che era successo la sera prima. Il più grande dei bambini, Andrea, disse che, in effetti, il lampione era indispensabile per loro, soprattutto ora che era inverno.

Gianni, un bambino di prima elementare, che la sera prima aveva avuto una fifa incredibile, disse che avrebbe chiesto persino scusa in ginocchio al lampione e che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di avere di nuovo la strada illuminata.

Saverio, il più pestifero della combriccola, ebbe un’idea per chiede-re scusa al lampione, un’idea stravagante; ma che a loro parve vera-mente eccezionale.

Dopo mangiato portarono a scuola una radiolina, una grande pila e alcune scatolette di pittura acrilica colorata.

Alla sera, fiduciosi, presero la strada per casa. La luna, dall’alto, sembrava che approvasse e facesse loro l’occhiolino.

Arrivati sotto il lampione si fermarono e Saverio, nominato da tutti portavoce ufficiale, chiamò: «Signor Lampione, siamo qui per chiederle di perdonarci. Siamo veramente pentiti per quello che abbiamo fatto. Ci scusi. Abbiamo capito di avere sbagliato.»

«Mhmm e perché dovrei credervi?» «Ci dia una possibilità, signor Lampione, vedrà che non la delude-

remo. E vorremmo anche chiederle se possiamo pitturarla. Guardi, ab-biamo portato del rosso, del blu e del giallo.»

«Perché mi volete colorare? E datemi del tu, sono un lampione, non un signore» disse perplesso.

«Perché ci siamo resi conto di quanto tu sia importante. Non ti tire-remo più calci e ti tratteremo con rispetto, però sei così... GRIGIO.»

«E allora?» «Noi ci cambiamo i vestiti e mettiamo i colori che vogliamo e que-

sto ci rende allegri; volevamo fare la stessa cosa per te, per ringraziarti di quello che fai per noi.»

DANIELA DELFOC

40 • DIECIPERDIECI

«Va bene, fate pure. Ma non penserete di riuscirci con quella luci-na!» Acconsentì il lampione ridendo.

E si illuminò come mai aveva fatto prima. I bambini lo abbellirono con i loro disegni e così fecero pace.

Da allora tutte le volte che passavano, si fermavano a fare due chiacchiere con lui.

Da quel giorno lo rispettarono sempre, loro, i loro figli e anche noi, che siamo i loro nipoti.

Ma se capitate dalle nostre parti, non chiedeteci se è vero che il lampione parla, perché lo negheremmo.

In fin dei conti cosa importa: l’importante è rispettare ed essere ri-spettati. E noi viviamo felici e contenti.

DIALOGHETTO TRA UNO GNOMO ED UN FOLLETTO

OPERA NUOVA 2019/3 • 41

Dialoghetto tra uno gnomo ed un folletto* di Domenico Bonini (in Opera Nuova 2015/1)

na fiaba nel 2011? Perché no?

Non c’era una volta tutta la fitta ragnatela che oggi copre la terra di strade, binari e superstrade, di gallerie, viadotti e pon-ti. Anche città e villaggi erano meno estesi: se ne stavano stret-

ti stretti attorno a una piazza, a un campanile. E nelle folte foreste che coprivano il globo, ma anche nelle viscere della terra, giù nel fondo di grotte, caverne e miniere, elfi, silfi, ninfe, gnomi, folletti e spiritelli vari vivevano felici in grande quantità.

Per noi, oggi, è invece difficilissimo incontrarne anche uno solo in un’intera esistenza, perché, arcistufi del gran fracasso che facciamo con aerei, vetture, stadi sportivi, scooter d’acqua, macchine e impianti in-dustriali d’ogni genere, se la son data a gambe da un pezzo, rifugiandosi in quei pochi angolini al mondo in cui si può ancora vivere in santa pa-ce. Ma so per certo che sono arrabbiatissimi, perché anche lì enormi velivoli fischianti e rombanti terrorizzano i poveri folletti, mentre ai vecchi gnomi balza il cuore in gola, ogni volta che un disgraziato con troppe stelle sulle spalline fa esplodere sottoterra qualche ordigno nu-cleare. Così, tanto per vedere se davvero funziona.

Eppure, proprio l’altra sera, mentre mi facevo quattro passi di gesti-vi dopo cena, nella neve che scintillava magica sotto la luna, appena fuori dal paese ne ho incontrati due che discutevano animatamente ai piedi di un castagno centenario. Incuriosito, perché fino a quel mo-mento li avevo trovati solo nei libri, mi son subito acquattato dietro un bell’arbusto di agrifoglio. E ho sentito tutto!

«Spicciati, vecchio gnomo furbacchione: è ora di andare se vogliamo vederne almeno qualcuno! Sai bene che ce n’è sempre di meno...» dice un folletto altro tre spanne, vestito tutto di feltro rosso, col suo bravo berret-to a sonagli e le scarpette di vetro, come ogni folletto che si rispetti.

«Eeeeh, calmati, calmati, folletto burlone!» gli risponde un minusco-lo gnomo, infagottato in un caldo mantello di panno verde con tanto di cappuccio, dal quale spunta una lunga barba bianca, che scende fino a

_____________________

* Una versione dialogata della prima parte di questo racconto fiabesco, esplicitamente ispirato dal celebre dialogo leopardiano, è stata diffusa la Vigilia di Natale del 1994 dalla RSI, con invito agli ascoltatori a completarla. In forma narrativa e adatta ai giovani lettori, il racconto è stato invece pubblicato nel primo volume del Nuovo Tra parole e immagini (Gaggini e Bizzozero, Lugano 1995).

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DOMENICO BONINI

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grattargli la pancia. «Lo sai o non lo sai che a quest’ora gli uomini se ne stanno ancora a guardare fissamente, e senza parlarsi, tante cose scioc-che dentro quelle strane scatole di luci colorate?»

«Uffa! È vero. E fin quando quelle stupide scatole rimangono acce-se, di quelli che piaccion tanto a noi non riusciamo a vederne neanche uno...»

E hop, con un bel salto, il rosso folletto finisce a cavalcioni d’un ra-mo, proprio sopra la testa incappucciata del vecchio gnomo.

«Ah, certo che nulla è più come una volta, quando gli uomini se ne andavano a letto, se non con le galline, per lo meno con le prime stelle e da quel momento, fino al canto del gallo, il mondo era tutto per noi gnomi...»

«... e per noi folletti!» «E nelle nostre profonde gallerie non gocciolava quell’acquaccia

sporca e puzzolente che ci piove continuamente in testa oggi.» «Ma voi, vecchi gnomi, siete più che fortunati a starvene quasi

sempre sotterra! Pensa un po’ a tutti i fili ronzanti che quei bricconi di uomini hanno teso da un palo o da un traliccio all’altro per il solo gusto d’intralciare voli e salti di noi poveri folletti! Per non parlare poi dell’ultima diavoleria: tutte quelle onde che s’intrecciano per ogni do-ve, captate dalle loro antenne, parabole e telefonini. Loro non sanno ancora quanto facciano male; ma noi folletti, e gli uccelli, sì!»

«Beh, ora non esagerare: anche se gli uomini si danno così tanto da fare, correndo e agitandosi come se il mondo fosse fatto soltanto per loro, e anche se sulla terra son diventati davvero troppi, forse oggi non si sta poi né peggio né meglio di una volta.»

«Ma bravo, il vecchio gnomo! Si vede proprio che te ne stai notte e giorno rintanato a scavare i tuoi filoni d’oro! Ma non vedi quante bestie e quante piante muoiono ogni giorno che non si vedranno mai più sulla faccia della terra? Non sai che da anni Babbo Natale, lassù nel Nord, dove tutto è bianco, non riesce a trovare le renne da attaccare alla sua slitta? Pare che sian quasi tutte morte per un’esplosione in una centra-le, che ha obbligato alla fuga anche centinaia di migliaia di uomini, ol-tre a fare migliaia di morti, molti dei quali ancora bambini. Le poche renne rimaste sono rinchiuse e gelosamente custodite da lapponi in gonnellino, che pare le mantengano vive solo per mostrarle ai turisti.»

«Oh, qualche altro mezzo di trasporto l’avrà pur trovato! Non per nul-la ha la barba bianca come noi gnomi, quel furbone di Babbo Natale.»

«Sì, figurati! Pare che abbia provato a caricar di regali una grande zattera, alla quale voleva attaccare un paio di dozzine di grossi pesci

DIALOGHETTO TRA UNO GNOMO ED UN FOLLETTO

OPERA NUOVA 2019/3 • 43

come motore. Ma tutti i pesci con i quali ha parlato erano troppo de-boli, malati o malandati per essersi bevute ogni giorno tutte le schifez-ze che gli umani versano nell’acqua. Così, s’è dovuto contentare d’una vecchia jeep, di non so quale esercito, col suo rimorchio...»

«...che avrà caricato zeppo zeppo di mandarini, pan di spezie e tor-roncini?»

«Macché! Quelli non li vuole più nessuno, povero gnomo del tem-po che fu! Ci ha messo invece un sacco di videogiochi, di Barbie, di Manga, di...»

«Beh, beh, per i loro giochini elettronici i fili di rame, almeno quelli, li vengono ancora a cercare da noi. Ma adesso avviamoci, se vogliamo riuscire a vedere qualche bambino dormire...»

«Uhm, uhm..., è proprio la sola cosa che mi trattiene dall’andarmene di qui. Quando li guardo, posso almeno sognare che il mondo lo lasce-ranno un po’ migliore di come l’avranno trovato.»

«Ah, folletto brontolone...» E il rosso folletto saltellando, il vecchio e verde gnomo zoppicando

si avviano verso il paese. E io dietro, per vedere che mai faranno. Eccoli infatti dirigersi verso una casa tutta di mattoncini rossi dalle

finestre appena illuminate. Quando, all’improvviso... «Ahi! Ahi! Aaaaahiii! Accidentaccio!» Il vecchio gnomo, con un ruzzolone tremendo, è finito a gambe all’aria,

battendo la sua povera schiena di gobbetto sulla neve ghiacciata. «Questa la dobbiamo a quello scimunito di Tonio... Ma glie in fare-

mo pagare salata! Eccome se la pagherà!» stride la vocina del folletto e, in men che non si dica, i due si dileguano nella notte.

Me ne vado a letto anch’io, rimuginando gli straordinari avvenimen-ti di questa sera, senza capirci molto in verità.

Passando però di lì la mattina, mi trovo sotto i piedi qualcosa di ben strano: leggerissime e bianche palline da imballaggio. Allora finalmente capisco. Capisco che dopo aver fatto brutti scherzi agli uomini per se-coli, legando fra di loro ad esempio le code del le vacche che poi mug-givano tutta notte, i dispettosi folletti han no trovato qualcuno che lo scherzo l’ha fatto a loro.

Devo però prima dirvi che Tonio è l’ultimo rappresentante di una specie in via di scomparsa: è l’ultimo contadino figlio di un contadino del paese. Anche perché i figli degli altri contadini defunti, o pensiona-ti dall’artrosi, lavorano quasi tutti in banca e fanno studiare i loro figli

DOMENICO BONINI

44 • DIECIPERDIECI

perché non debbano mai più curvarsi sulla terra, che è tanto bassa e sporca.

Questo Tonio, famoso per il suo caratteraccio e per l’abitudine di bersi più di un bicchiere di troppo, è un omone con una barbaccia nera e l’abitudine di rispondere al saluto dei compaesani, semmai, con un ringhio.

Ebbene, qualche giorno fa, l’avevano sentito strepitare e urlare gia-culatorie fino in cima alla valle, perché aveva trovato le sue quattro vacche nella stalla che facevano un baccano infernale. Qualcuno aveva attaccato alle loro code delle lattine da birra usate riempite di sassolini. Così le povere bestie avevano cominciato la giornata come erano abi-tuate a fare, scacciando le mosche con quegli strani campanacci appesi alle code. Proprio più per abitudine che per altro, siccome anche le mosche nere d’inverno sono rare come d’estate quelle bianche.

Convinto di dovere quel tiro mancino ai maligni folletti, Tonio si era vendicato spargendo le palline davanti a ogni finestra del villaggio dove dormisse qualche bambino. E di qui il capitombolo del povero gnomo un po’ guardone, che già sognava di starsene per ore con il naso appiccicato ai vetri per godersi lo spettacolo d’un pupetto addormentato.

E adesso come la concludo la fiaba? Ci vuole qualcosa di meravi-glioso che faccia sognare, anche se la ragione non lo accetta, in un mondo che di sogni ne ha sempre meno. Qualcosa che si possa raccon-tare anche a un bambino. O a un adulto che non abbia sepolto troppo profondamente il bambino che c’è in lui. Ci provo?

E intanto il tempo passa. Viene la sera, ed è una sera un po’ specia-le: quella della Vigilia di Natale.

Curioso di sapere se il folletto e lo gnomo si rifaranno vivi, m’imbottisco ben bene e vado di nuovo ad appostarmi dietro lo stesso arbusto di agrifoglio. E ci resto due ore, col freddo che fa, senza muo-vermi per paura, caso mai comparissero, di spaventarli.

Aspetta e aspetta, non accade nulla. Solo, a un certo punto, il canto di Tonio che se ne torna un po’ brillo dall’osteria rompe il silenzio del paesaggio tutto bianco sotto le stelle.

È quasi mezzanotte, fa sempre più freddo e allora mi dirigo anch’io verso casa.

Il sentieruccio mi porta proprio verso la stalla di Tonio e, quando sto per passarci davanti, quasi non credo ai miei occhi: c’è Tonio, a gambe allargate, le spalle appoggiate al trattore, la testa rovesciata all’indietro, la barbaccia nera puntata verso la luna, che canta a squar-ciagola una sua serenata dedicata, sembrerebbe, proprio alla luna.

DIALOGHETTO TRA UNO GNOMO ED UN FOLLETTO

OPERA NUOVA 2019/3 • 45

Ma ecco che, sbucati da chissà dove, il verde gnomo e il rosso follet-to, lesti lesti, lo afferrano per le caviglie e... ciuff! Lo tuffano a testa in giù in una botte vuota che se ne sta lì ad aspettare l’acqua delle piogge di primavera.

Tonio scalcia e mugola a più non posso, ma i due non gli danno ret-ta. Anzi:

«Ben ti sta! Così imparerai! Ora sei tu a esser nei guai!» cantano in coro il folletto e lo gnomo saltellando intorno alla botte in una buffa danza.

Mi sto davvero godendo lo spettacolo, quando un suono di campa-ne annuncia lo scoccare della mezzanotte. Improvvisamente una gran luce bianca illumina le case, i campi e i vigneti coperti di neve. Non come se venisse da qualche faro, piuttosto come se i vigneti, i campi e le case si mettessero da soli miracolosamente a scintillare.

Subito mi copro gli occhi, perché questa è l’ora magica in cui gli al-beri, per un attimo, fioriscono in pieno inverno, le mucche si mettono a parlare tra di loro nelle stalle e nelle fontane colano latte e miele. Ma guai a chi dovesse vedere questi prodigi: subito cadrebbe morto. Al-meno così dicono le nostre leggende.

Con le campane sembrano intanto suonare anche flauti e zampo-gne. Una musica dolcissima copre gli strepiti di Tonio. La sarabanda del folletto e dello gnomo, ogni altro rumore della notte. Poi la musica si spegne. E con la musica si spegne pure la luce brillante che mi filtra tra le dita.

Pian piano apro le dita e cosa vedo? Il folletto volante e il gobbo gnomo hanno sfilato a Tonio scarponi e calze e gli stanno, con grande impegno... leccando le piante dei piedi. E Tonio ride, ride a crepapelle con la testa all’ingiù dentro la botte, dove le spalle son conficcate così strettamente che non riesce a liberarsi per quanto si divincoli. Ride, ri-de tanto da rischiare di morir dal ridere. Ridendo riesce a farfugliare con una voce strana dal fondo della botte:

«Hiii, huuu, hu... basta, pietà! Non lo farò mai più, ve lo giuro! Hi, hi, fi... Potrete starvene finché vorrete a veder dormire i bambini. Ma basta, basta, muoio!»

Ecco che allora gnomo e folletto s’infilano bruscamente in testa il verde e il rosso cappuccio e... spariscono d’incanto.

Quanto a Tonio, verrà presto sua moglie a liberarlo, abituata com’è a ripescarlo dove è andato a sbronzarsi. E anch’io me ne vado finalmen-te a letto a ripensare a quello che i due dicevano sul nostro mondo che stiamo mandando a carte quarantotto.

STORIE DI SEGNI

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Storie di segni di Michele Canducci (in Opera Nuova 2018/1)

Che cos’è la guerra

n giorno il punto interrogativo domandò: che cos’è la guerra?

Risposero, le virgole, con mille incisi, e, il punto, intendo quel-lo interrogativo, non capì.

Così chiese di nuovo: che cos’è la guerra? Risposero i puntini di sospensione… ma invece di chiarire la que-

stione… beh… la resero solo più fumosa e... il punto interrogativo... capì... lui capì... insomma lui capì di dover chiedere a qualcun altro…

Così chiese di nuovo: che cos’è la guerra? Risposero le virgolette con mille citazioni, «tante quante le stelle del

firmamento» e il punto interrogativo «dovette rimandare al domani una faccenda così urgente».

Così chiese di nuovo: che cos’è la guerra? Risposero le parentesi (ma si mischiavano fra loro (facendo una gran

confusione (e il punto interrogativo (che ancora fremeva nell’avere una risposta soddisfacente (o forse non esisteva (cominciò a chiedersi)?)) non capì))).

Così chiese di nuovo: che cos’è la guerra? Risposero i punti e virgola; ma erano indecisi; o forse erano decisi

ad essere indecisi; fatto sta che il punto interrogativo non capì; non ca-pì affatto.

Così chiese di nuovo: che cos’è la guerra? Risposero il punto e. Il punto a capo. Ma.

Si. Ingarbugliarono con i. Capoversi e. Il punto. Interrogativo. Non capì. Così chiese di nuovo: che cos’è la guerra?

Rispose infine il punto esclamativo esclamando: la guerra è una schifezza!

Il punto interrogativo si ritenne soddisfatto.

Storia di Piuno e di altri tre punti

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STORIE DI SEGNI

OPERA NUOVA 2019/3 • 47

Un giorno qualsiasi di non tanti anni fa quattro giovani punti si ri-trovarono per caso a un incrocio di vie. Provenivano da quattro strade diverse, quattro linee con origini lontanissime tra loro. Si scrutarono un poco prima che uno dei quattro, vinto l’imbarazzo con la curiosità, riu-scisse a domandare:

«Chi siete? Da dove venite? E che cosa, se posso chiedere, vi ha messo in viaggio?»

Rispose subito il secondo punto con energia: «Io ero il punto di un punto e virgola. Mi sentivo inutile perché nessuno mi voleva utilizzare. Molti scrittori ormai usano solo o i punti o le virgole e non ci conside-rano importanti: dicono che non serviamo a niente. Così un giorno me ne sono andato e ora sto cercando fortuna migliore, un posto dove sen-tirmi a mio agio e utile a qualcosa.» concluse tutto d’un fiato.

«Io invece sono un punto sbagliato» cominciò il terzo punto con una rabbia mal nascosta, quasi urlando ogni sillaba, «un bambino mi ha inserito per sbaglio durante un tema di italiano sopra una “l” in stampa-tello. La maestra non se n’è accorta così sono stato lì sopra per dei me-si. Un giorno ho deciso di andarmene per cercare un posto giusto dove stare: mi ero stancato di sentirmi sbagliato!» fini con un ruggito.

«Io sono stato un punto d’arrivo per diverso tempo» iniziò con aria triste il terzo punto. «Un giovane uomo mi utilizzava per spronarsi a migliorare: voleva un punto d’arrivo per la forma fisica, per l’intelligenza, per la carriera, per la famiglia. Ogni volta però che stava per arrivare a quello che si era prefissato mi spostava più in là, cosicché non è mai riuscito a raggiungermi. Ero sconsolato, mi sentivo fallito! Così ho deciso di abbandonare il mio padrone: non voglio più essere ir-raggiungibile» concluse quasi in lacrime.

«E tu invece! Da dove vieni?» fece il secondo punto al primo. «Io ero il punto che faceva da centro a una palla, o meglio a una sfe-

ra» fece lui con aria da attore, di quelli bravi che raccontano storie per gli altri. «È una sfera molto importante e serve anche agli scienziati per fare esperimenti e costruire teorie: la chiamano Mondo. Io però mi sentivo solo e volevo dare sfogo alla mia curiosità, conoscerlo questo Mondo di cui ero il centro! Stando nella palla non potevo vedere nien-te al di là del bordo e dovevo rimanere immobile perché senza centro, si sa, la sfera non esiste neanche. Un giorno non ce l’ho più fatta e sono scappato. Così ora sto andando in giro, a vedere com’è tutto quanto.»

I quattro punti si erano ascoltati a vicenda con molto interesse; ave-

vano sete di storie e voglia di raccontarsi, e poiché viaggiare da soli non

MICHELE CANDUCCI

48 • DIECIPERDIECI

è di certo il miglior modo per capire dove si vuole andare ed è d’altronde sempre piacevole avere una compagnia con cui condividere occhi e opinioni, non ci fu molta indecisione quando il primo punto, che non si faceva problemi a esporsi, si azzardò a domandare: «Che ne dite di fare un pezzo di viaggio insieme?»

Gli altri accettarono di buon grado l’offerta e siccome erano in tutto e per tutto uguali d’aspetto, per non confondersi nel chiamarsi fra loro decisero di darsi quattro nomi diversi:

«lo mi chiamerò Piuno» fece il primo punto. «Io invece Pidue» fece il secondo. «Io sarò Pitré» esclamò il terzo. «E io Piquattro» concluse il quarto. Cosi Piuno, Pidue, Pitré e Piquattro si misero in viaggio verso

l’ignoto in cerca di avventure. Dopo qualche giorno di cammino, arrivarono in una città

sull’oceano. «Entriamo, vi prego!» disse Piuno, che per tutto il tragitto non aveva

fatto altro che stupirsi per ogni pianta, roccia o animale incontrato. «Non ho mai visto il mare e vorrei tanto sapere com’è fatto!» concluse con euforia.

Arrivati in spiaggia, rimasero per un po’ a guardare l’acqua e le on-de. Piuno era molto colpito da quell’immensa distesa trasparente e per un attimo credette che quello fosse il luogo più bello del Mondo. Ben presto però si scoprì a pensare «se dopo solo qualche giorno di cammi-no ho visto una tale meraviglia, chissà quanti altri luoghi affascinanti scoprirò andando avanti!»

Stavano già per tornare sulla strada quando sentirono chiamare aiu-to dall’acqua. Pidue corse veloce, arrivò a destinazione prima degli altri e scoprì che un ragazzino si era ferito su uno scoglio e quasi non riusci-va a stare in piedi: aveva un brutto taglio sulla testa e necessitava di cu-re immediate. Subito accorsero i bagnanti e per fortuna!

Fra di loro c’era un medico che si mise a trafficare velocemente e con preoccupazione nella borsa a tracolla, ma a un certo punto si voltò verso la folla dicendo: «Bisogna cucire la ferita e non ho con me il ne-cessario per mettere i punti.»

Che fare? I soccorsi tardavano e il ragazzo stava perdendo sangue. In quel momento Pidue, che altro non voleva se non sentirsi utile

per qualcuno, andò dal medico e disse: «Lo faccio io il punto di sutu-ra!»

STORIE DI SEGNI

OPERA NUOVA 2019/3 • 49

Il medico restò un attimo perplesso. Poi, vedendo che il giovane aveva perso conoscenza, si decise a cucire un po’ alla bell’e meglio la ferita e, con l’aiuto di Pidue, tutto andò bene.

«Siamo riusciti a ricucire!» disse raggiante il medico. «È fuori perico-lo, ma bisogna portarlo subito in ospedale.»

All’udire ciò, i tre punti rimasti in disparte si precipitarono verso l’amico:

«Pidue che farai?» chiese Pitré preoccupato. «Una volta entrato in ospedale ci saranno tanti dottori che avranno bisogno, non uscirai più! Scappiamo ora!»

Pidue rispose: «Non preoccupatevi per me, io starò bene qui: final-mente servirò a qualcosa.» Disse con voce calma e pacata. «Grazie di avermi portato con voi, e buona fortuna amici!» quindi sparì fra i ca-pelli del ragazzo e si allontanò dalla spiaggia in compagnia del medico.

Piuno, Pitré e Piquattro ripresero il viaggio, un po’ tristi per la man-

canza del loro compagno ma anche contenti perché era sembrato loro felice.

Non passò tuttavia neanche una settimana che i tre punti si dovet-tero fermare a causa del brutto tempo. Trovarono riparo in un piccolo paese alle pendici di un monte: era composto da una trentina di case in tutto, gli abitanti erano molto ospitali e prevalentemente anziani. Fra loro c’era però una giovane coppia che si offrì di accogliere i tre punti nella loro grande casa. I due sposi avevano un figlio piccolo, un bambi-no molto simpatico e intelligente che si divertì per qualche ora a in-trattenere i tre punti con spettacoli di magia e giochi con i legni. La se-ra a cena Piuno, che non riusciva in nessun caso a trattenere la curiosi-tà, domandò quanti anni avesse e se fosse il solo bambino della zona. I due genitori si incupirono un poco, poi risposero:

«Ha sei anni ed è l’unico bambino rimasto nel paese», disse il babbo con voce roca e triste. «Fino a qualche anno fa c’erano una ventina di famiglie, giovani e bambini, c’era persino una scuola, ma con il tempo, la mancanza di lavoro ha spinto tutti verso la città. Siamo rimasti soli, senza compagni di giochi o insegnanti per nostro figlio.»

«Tutto questo è molto triste» sussurrò piano Piquattro. «Non c’è modo di far tornare qualcuno?»

«Purtroppo no» sospirò la donna. «L’unico lavoro è tagliare legna o allevare bestiame e nessuno è più disposto a vivere una vita così fatico-sa.»

MICHELE CANDUCCI

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«Non li incolpiamo di certo di essere andati via» continuò il compa-gno, «ma la fatica non è l’unica cosa che si trova in questi luoghi: c’è af-fetto, calore, comprensione e aiuto reciproco... e poi c’è lei» disse indi-cando la montagna fuori dalla finestra, «con tutta la bellezza della natu-ra che accoglie.»

I tre punti ascoltavano rapiti e provavano tenerezza per quelle per-sone e quel luogo così bello ma senza futuro.

«Noi possiamo anche continuare così» disse poi la giovane, «ma per nostro figlio diventerà sempre più dura. Senza nessuno con cui crescere ben presto anche lui si stancherà di questo posto.»

Pitré si rianimò un istante e, probabilmente per cercare di dar con-forto, disse: «Forse non succederà! Forse vostro figlio vedrà tutte le co-se belle che avete visto voi, resterà qui e convincerà altri a tornare!»

«Ma come? Non c’è neanche una scuola nel raggio di chilometri, non potrà imparare niente restando qui» disse il padre sconsolato.

«Potreste fargli voi da insegnanti!» esclamò Piuno. «Non sapremmo come fare» ribatté la donna, «e poi non cambie-

rebbe nulla. Questo luogo è destinato a morire se non troveremo qual-cosa di nuovo, un nuovo punto di partenza.»

«Lo farò io!» urlò Piquattro il quale, fino a quel momento sopraffat-to dalla tristezza, sentì esplodere dentro una forza inaudita. «Io posso essere il vostro punto di partenza!»

I due giovani, inizialmente restii ad accettare un così generoso aiuto, si convinsero nel corso della serata e infine accolsero con gioia l’offerta di Piquattro e nel giro di qualche ora stabilirono punto per punto da dove iniziare per ridare vita al piccolo paese sulle pendici della monta-gna. L’indomani Piuno e Pitré fecero i bagagli, e non scorgendo Piquat-tro, andarono a cercarlo nel bosco: lo trovarono intento a disegnare una mappa della valle.

Vedendoli, Piquattro smise di lavorare e disse loro: «Cari amici, mi spiace ma non posso proseguire il viaggio con voi. C’è così tanto lavoro da fare e siamo solo all’inizio. Credo di aver trovato il posto in cui starò bene. Non sono mai stato un buon punto d’arrivo, ma sarò certamente un punto di partenza per queste persone. Mi mancherete, ma dobbia-mo dividerci qui.»

I due punti, che avevano già intuito i pensieri di Piquattro, salutaro-

no l’amico e, lasciatosi il piccolo paese alle spalle, si rimisero in viaggio. Attraversarono valli e montagne, guadarono fiumi, soggiornarono in

STORIE DI SEGNI

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piccoli villaggi sulla costa, si imbarcarono su una nave per raggiungere l’altra parte dell’oceano, visitarono grandi città piene di metallo, videro enormi distese di alberi di ogni forma e colore, conobbero diverse tribù strane, ma ogni volta, passato qualche giorno, ripartivano per continua-re il viaggio.

Dopo un po’ di quel girovagare, Piuno e Pitré capitarono in una zo-na di guerra. Le strade erano piene di buche e c’era dappertutto un’insostenibile puzza, simile a quella dei peli bruciati. I due amici gi-rovagarono in cerca di un posto dove riposarsi qualche ora con l’idea di abbandonare il prima possibile quei luoghi. Chiedendo in giro dove trovare alloggio capitarono dentro a un Frutta e Verdura.

«Un albergo dite?» fece il commesso con fare sospettoso. «Non ce ne sono più da diverso tempo ormai. E d’altronde che senso avrebbe? Siete i primi visitatori da non so più quanto!»

Chiacchierando con il fruttivendolo Piuno e Pitré appresero che da anni era in corso un sanguinoso scontro fra le due famiglie più potenti della città: la famiglia Arrosto e la famiglia Spiedo.

«Il fatto è che non riescono a mettersi d’accordo se sia più buono il pollo allo spiedo o quello arrosto» disse il fruttivendolo. «Così si fanno la guerra.»

«Sono dei begli stupidi» disse Piuno distratto dalla varietà degli ali-menti esposti.

«Già!» fece il commesso. «Pensate che si sparano addosso da una parte all’altra della città. Una famiglia lancia degli spiedini di carne di pollo che sembrano frecce, l’altra, con un cannone speciale, spara dei polli interi. Arrosto, ovviamente.»

«Che razza di spreco inutile di cibo e tempo!» disse Pitré con la rabbia che gli ribolliva dentro. Siccome poi non poteva proprio soffrire vedere le persone essere così ingiuste, si diede subito da fare. Andò prima dal capo della famiglia Spiedo, poi dal capo della famiglia Arro-sto, spiegò e urlò cercando di far loro intendere quanto fosse insensata quella guerra, ma presi separatamente quei due cocciuti erano sordi ad ogni ragionamento. Alla fine, come ultimo tentativo e con l’aiuto di Piuno, riuscì a organizzare un incontro pubblico con lo scopo di mette-re a confronto le due fazioni: che trovassero finalmente un modo per far cessare la guerra!

Il pomeriggio, all’appuntamento c’era tutta la città e per diverse ore le due famiglie si contrapposero, l’una spiegando perché il pollo andas-se cotto allo spiedo, l’altra elencando le qualità indiscutibili del pollo

MICHELE CANDUCCI

52 • DIECIPERDIECI

arrosto. All’imbrunire ancora non c’erano stati segnali di pace, solo un gran vociare e parlarsi addosso.

«Continueremo a farci la guerra!» esclamarono avviliti gli Spiedo. «Non troveremo mai un punto di accordo!» disse il capo della fami-

glia Arrosto scuotendo la testa e ordinando ai suoi di ritirarsi con un gesto del braccio.

«Aspettate!» urlò Pitré, «aspettate un attimo, solo un secondo. Se tutto quello di cui avete bisogno è un punto d’accordo… beh posso farlo io!» concluse con fierezza.

In quell’istante successe qualcosa: tutti si fermarono e per un po’ fu solo silenzio. I due capi si guardarono, poi guardarono Pitré, poi la folla radunata in piazza, e finalmente si vergognarono della propria stupidità

«Va bene» dissero entrambi, «acconsentiamo!» Pitré venne fissato al centro della piazza perché potesse rimanere

saldo e ben al sicuro da eventuali ladri. Dopo aver faticato così tanto per trovarlo, nessuno voleva perdere il punto d’accordo e rischiare di ripiombare in guerra.

Piuno rimase qualche giorno in città, ma ben presto sentì di nuovo

la voglia di conoscere e ripartire. Nel salutare l’amico Pitré provò un certo dispiacere misto a orgoglio per quel puntino appeso in memoria della ritrovata serenità. «Non vuoi che ti faccia scendere? Non sei triste di non poterti muovere?» domandò infine.

«Non essere afflitto per la mia sorte» rispose calmo Pitré. «Per anni sono stato un punto sbagliato. Ora sono tranquillo, ho regalato un po’ di pace alla città e questo mi basta. Ho trovato il mio posto, quello più giusto per me». Poi aggiunse con voce d’amico: «E tu Piuno? Cosa farai? Continuerai a girare il Mondo?»

«Sì!» rispose lui deciso. E così fece. Vagò in lungo e in largo per tutta la Terra, visitandone

ogni angolo, abitato e non, raggiunse il polo nord facendo il giro da sud e attraversò i continenti da ovest a est e da est a ovest, il tutto per tre volte. Fece anche un paio di giri del Mondo in diagonale. Negli anni in cui rimase in viaggio conobbe tutti i re della Terra e ognuno gli era af-fezionato perché portava sempre con sé una quantità di stramberia da ogni dove. Di tanto in tanto tornava a trovare i suoi vecchi amici e rac-contava loro dei luoghi che visitava e dell’insaziabile curiosità che lo spingeva ogni volta a ripartire con nuovo vigore e nuova energia. Pidue,

STORIE DI SEGNI

OPERA NUOVA 2019/3 • 53

Pitré e Piquattro lo accoglievano volentieri, chiacchieravano con lui e gli confidavano le fatiche e le gioie della propria vita.

Quando Piuno divenne vecchio, i re di tutti i continenti si accorda-

rono per offrirgli di diventare uno dei quattro punti cardinali: nord, sud, ovest o est.

Piuno ci pensò un po’ su, ringraziò e disse: «Sono onorato e grato della vostra gentilezza, ho avuto una vita fortunata perché ho potuto farne quel che più desideravo e se la vecchiaia non avesse indebolito i miei sensi, sarei ancora in viaggio. È per questo motivo che piuttosto che un punto cardinale della bussola, vorrei in vece esserne il centro: per poter dirigere lo sguardo in tutte e quattro le direzioni e vedere ogni volta che ne avrò voglia tutti i luoghi che ho visitato.»

Gli venne concesso, e fu così che Piuno tornò ad essere il centro del Mondo. Come da giovane, solo da un altro punto di vista.

Storia di una linea

C’era una volta, in un Paese un po’ strano che non esiste più, una giovane linea di nome Dylan. Terminate le scuole, Dylan cominciò a chiedersi quale lavoro avrebbe potuto fare per vivere. Non avendo idee chiare a riguardo, pensò di tentare il più classico tra gli impieghi: prese servizio presso un architetto. L’architetto si serviva di Dylan per disegnare varie parti delle case che gli venivano commissionate: a volte Dylan era un tetto, altre volte il profilo di un’abitazione, altre volte an-cora si ritrovava ad essere spezzettata qua e là per comporre l’arredamento interno. Era brava e diligente, viveva in modo dignitoso e cominciava già a fare dei progetti sul futuro. Un giorno, però, l’architetto cominciò a utilizzare una strana macchina tuttofare: basta-va spingere un bottone per disegnare non una ma mille linee contem-poraneamente. Dylan venne licenziata in tronco e si ritrovò senza im-piego. Siccome lavoro da altri architetti non ce n’era (quelle macchine avevano invaso tutto il mercato), Dylan decise di partire in cerca di fortuna.

Cammina, cammina, arrivò in un paese abitato da gente dissoluta:

chi beveva sempre, chi passava giornate intere a giocare a carte, chi

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non si curava dei bambini lasciati pascolare nei prati come pecore, chi gettava in terra i rifiuti senza curarsi di pulire. Tutti i giorni vi erano risse, scazzottate e uomini e donne che litigavano per un nonnulla. Per-sino il re della città, non sapendo più che fare, si era chiuso in una stanza, cedendo alla più meschina delle barbarie: l’indifferenza.

Dylan si commosse così tanto nel vedere quella devastazione, che decise di rimboccarsi gli estremi (le linee infatti non hanno maniche) per aiutare quel paese.

Si scrollò di dosso i giorni di viaggio, si mise in posizione diritta, an-dò dal re e disse: «Vostra grazia, mi chiamo Dylan e vengo da lontano. Sono qui per dirvi questo: se volete ancora salvare questa città, io posso aiutarvi!»

«E come?» disse il re con lo sguardo basso di chi non crede e, più grave ancora, si vergogna di non credere. «Abbiamo smarrito la retta via, passiamo la vita concedendoci a gravi e inutili passioni, non sap-piamo dove andare e per questo conduciamo un’esistenza infima. Co-me puoi tu aiutarci se noi stessi non sappiamo che fare?»

Dylan si fece coraggio e rispose: «Sire, posso condurvi io fuori da questo pantano. Dovrete solo assumermi in qualità di linea di princi-pio: sarò io la vostra retta via!»

Il re ci pensò su, ci ripensò ancora e ancora; poi, già condizionato un poco dalla presenza così sicura e ferma di Dylan, si dichiarò favorevole al tentativo. Fece emanare un editto nel quale si obbligavano i sudditi a transitare almeno una volta al giorno nella piazza centrale della città dove Dylan sarebbe rimasta dalla mattina alla sera, indicando la retta via. Per qualche tempo i cittadini continuarono a comportarsi al solito modo ma di lì a qualche settimana le cose cominciarono a cambiare: gli ubriaconi si ripulirono i vestiti e tornarono al lavoro, le madri fecero un bagno ai loro figli sporchi di terra ed erba, gli artigiani tornarono a costruire tavoli e impagliare sedie. In men che non si dica il paese tor-nò splendente e rigoglioso come non mai. Il re, dal canto suo, si era ri-preso dallo sconforto e vedendo che tutto stava tornando alla normali-tà, tornò a occuparsi delle solite mansioni di regnante: amministrare le terre, seguire l’andamento delle messi, organizzare i consigli, promuo-vere i rapporti con altri paesi alleati e anche, purtroppo, preparare la guerra.

Dylan non era d’accordo, ma decise di non interferire per amore dei cittadini a cui si era affezionata. Grazie al lavoro dei forgiatori di spade, al ritrovato senso del dovere dei militari dell’esercito e alla buona vo-

STORIE DI SEGNI

OPERA NUOVA 2019/3 • 55

lontà di tutti i cittadini, il re vinse numerose battaglie e vide accrescere il suo regno.

Quando si trovò a dover decidere i nuovi confini con gli alleati vit-toriosi, mandò a chiamare Dylan e le disse: «Mi hai servito bene fino ad ora. Ho bisogno di nuovo del tuo aiuto, continuerai ad essermi fedele?»

Dylan, che era di animo buono e generoso, rispose di sì. Il re allora le disse: «D’ora in poi, sarai la linea di confine del mio regno.»

Dylan rimase molto amareggiata da quell’ordine. Temeva infatti che i cittadini, non vedendola più al centro della piazza, potessero tornare alle disdicevoli occupazioni precedenti. Ciò nonostante obbedì: si di-stese lungo le coste per separare le spiagge dagli oceani, piegò la sua forma dritta per meglio adattarsi alle nuove terre conquistate, si distri-cò fra i pini e gli abeti e i castagni di foreste divise in due, si posò come filo impalpabile fra le rocce delle montagne e delle valli del nuovo re-gno. Dylan si scoprì curiosa come non sapeva di essere. Passava ore e ore a rimirare i luoghi interni ed esterni a sé stessa e, dopo qualche tempo, si rese conto di conoscere a memoria ogni anfratto del regno. Intanto, come Dylan aveva previsto, in città le cose presero nuovamen-te una brutta piega: i sudditi e il re avevano perso ancora la retta via. Non tardarono a giungere nuovi conquistatori da terre straniere e ben presto Dylan si trovò ad essere linea di confine di un regno inesistente.

Abbandonati i boschi, i campi e le catene montuose, e piena di un

nuovo sentimento di curiosità e scoperta, Dylan si sentiva a disagio nel mondo degli uomini che gli apparivano così poco interessati ad essere felici e, piuttosto, occupavano il loro tempo in inutili questioni di suc-cessioni e denaro. Così la linea, un po’ per liberarsi dal peso della gravi-tà terrestre, un po’ per fame d’avventura, si staccò dalla superficie e si mise al servizio dei grandi uccelli migratori. Per loro era una delle tante linee d’aria che, con l’aiuto dei venti e delle stagioni, percorrevano ogni anno per spostarsi in zone calde e sicure del globo. Dylan era felice perché in quel modo aveva l’opportunità di vedere diverse parti del mondo.

Negli anni cambiò diverse volte lavoro: dapprima volò insieme con

ogni sorta di uccello, poi seguì, con i grandi mammiferi degli oceani, l’andamento lieve e guidato delle correnti marine. Siccome non aveva mai avuto l’occasione di vedere il polo nord, per qualche tempo prese l’incarico di essere circolo polare e ammirò le più belle aurore boreali e i più grandi ghiacciai della Terra. Dylan non era mai sazia di nuove av-

MICHELE CANDUCCI

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venture, ma lentamente cominciava a invecchiare. Un giorno si rese conto di non poter più continuare a viaggiare: si impigliava continua-mente in ogni tipo di ostacolo e le ci volevano ore per sbrogliare i nodi che si formavano. In più, gli uomini avevano invaso le rotte aeree con i loro uccelli di metallo, le correnti marine erano state sostituite da cor-renti di rifiuti e persino la terra era piena di case, costruzioni strane e palazzetti al posto di alberi e foreste e montagne. Dylan divenne triste, ma un giorno le venne un’idea: pensò che quello che mancava di più agli uomini non fosse tanto una linea di principio, non una retta via da seguire, ma la capacità di sognare e guardare lontano, quella voglia di spingersi verso il cielo e pensare di fare cose grandiose.

Fece i bagagli e parti per il suo ultimo viaggio: da allora, Dylan è la linea dell’orizzonte.

LA ZANZARA E IL CULTURISTA

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La zanzara e il culturista di Simone Fornara e Mario Gamba (in Opera Nuova 2011/2) Illustrazioni di Simone Fornara

arciso aveva un problema.

Anzi due.

Anzi tre.

E il terzo era una fobia tutta speciale. Il primo problema non era di facile soluzione: entro mezz’ora la vo-

ce dello speaker lo avrebbe chiamato sul palco per esibirsi al cospetto dei giudici. Era la sera della grande gara. Narciso sentiva il rumore del pubblico che affollava la sala e scandiva il suo nome. Lui era la star, l’atleta più atteso. Bordate di applausi e di urla scomposte filtravano nello spogliatoio attraverso la porta socchiusa.

Il primo problema era la porta: troppo stretta per passarci attraver-so, almeno a prima vista.

Narciso si guardò ancora una volta allo specchio: un quintale e

mezzo di carne ipertrofica; un reticolo di vene turgide che gli vascola-rizzavano tutto il corpo intrecciandosi su una muscolatura straripante. La cassa toracica si slargava a dismisura dai fianchi sottili e marmorei, e fioriva verso l’alto in un paio di spalle e braccia mostruose, strabocche-voli di deltoidi, trapezi, tricipiti e bicipiti gonfi come camere d’aria di uno pneumatico. Di schiena, le glabre e marmoree natiche sorreggeva-no l’eruzione di una piramide rovesciata di fibre muscolari guizzanti costituenti in ciclopica successione i trigoni lombari, gli obliqui esterni addominali, i gran dorsali, i gran romboidi, i gran rotondi e i piccoli romboidi. La testolina di Narciso, incassata nelle spalle e sormontata da una cupola di carne che gli cresceva dietro la nuca, sembrava piccola come un chicco d’uva, quasi una incerta appendice dondolante, un in-significante pseudopodo cresciuto a caso nella caotica massa mostruosa.

«Quanto ssei bbello!... Te amo!» disse Narciso all’immagine riflessa nello specchio, ingollando una compressa di somatotropina.

Poi la testolina tornò al problema. Come fare a passare per quella porta?

N

SIMONE FORNARA E MARIO GAMBA

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La testina riuscì con gran sforzo a pensare: «Mbeh! Tipo... démose ‘na spalmata. Ce posso tipo sscivolare de traverso. Dovrebbe funziona-re!»

Il secondo problema era che l’unguento di cui era solito servirsi per far luccicare i muscoli prima di ogni gara di culturismo, ebbene... non era un olio abbronzante e lucidante propriamente normale, e necessi-tava di un particolare attrezzo per poterselo spalmare.

Era una mistura puteolente di steroidi vari (dianabol e nandrolone e halotestin e metandrostenolo) che si preparava con le sue mani. Tritu-rava in un pestello compresse azzurre e rosa fino a ridurle in polvere, poi mischiava il tutto con un paio di ampolle di parabolan e condiva con una dose abbondante di olio di mallo. Il risultato era una specie di crema sciropposa che – secondo Narciso – aveva un triplice effetto: da una parte, filtrando attraverso i pori, l’unguento avrebbe contribuito a mantenere la tonicità dei muscoli; dall’altra, l’odore pestilenziale della marmellata di steroidi avrebbe senz’altro tenuto a bada tutti quegli in-settini repellenti di cui il colosso aveva una paura folle; infine, l’effetto lucidante e scurente dell’olio di mallo avrebbe contribuito a mandare in visibilio le cinguettanti schiere di fan coatte pronte a tutto pur di as-sistere a una microvibrazione delle fibre tese e gonfie del suo corpo scultoreo, appena ricoperte da uno strato sottile di epidermide iperab-bronzata.

Orbene, il secondo problema era che Narciso aveva dimenticato di

mettere nel borsone l’attrezzo: una pistola a spruzzo che gli serviva per verniciarsi il corpo elefantiaco e arrivare a spargere la mistura immon-da anche là dove le braccia ingolfate dalla massa di carne non riusciva-no ad arrivare: nel mezzo dei dorsali che si allargavano a fisarmonica, tra le chiappe, sul cocuzzolo dei trapezi del collo.

Il terzo problema stava nel fatto che quella era una serata di mezza

estate, particolarmente umida e particolarmente adatta alle incursioni aeree di mosche e tafani e zanzare in cerca di sangue iperproteico.

«A bbello! E mo?? Tipo, che se fa?» pigolò Narciso indirizzandosi al suo personal trainer, l’allenatore che aveva assunto da poco e che di nome faceva Giovanni Provvisorio.

Giovanni posò il libro che stava leggendo su una panca dello spo-gliatoio e si guardò attorno smarrito, come se si fosse appena svegliato da lunghe e complesse meditazioni.

LA ZANZARA E IL CULTURISTA

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Era costui un omino esile esile, non più che una pulce al cospetto del colosso. Era senza meno l’antitesi esistenziale di Narciso: tanto quest’ultimo era grosso e ipertrofico nel corpo e vacuo nella zucca, tanto Giovanni era minuto nel corpo e sottile nell’intelletto. La mente dell’omino era in effetti quella di uno studioso di cose antiche. Era, come amava dirsi, un “letrado disoccupato”, un “uomo inutile”. Aveva lauree in Lettere e in Lingue classiche e in Filosofie orientali, ma tutti quei papiri non erano bastati a fargli trovare uno straccio di lavoro che gli si confacesse... Così aveva iniziato a ingegnarsi, a fare di tutto, ma proprio di tutto, per buscarsi il pane. Tutti lavoretti a breve scadenza e in nero, ovviamente: garzone di panetteria, apprendista cameriere, ap-prendista tour operator, apprendista barbiere... due settimane qui, due giorni là.

Stava già per diventare apprendista barbone quando aveva gettato

una slumata con la coda dell’occhio all’annuncio che Narciso aveva messo sul giornale: “Cercasi trainer culturismo”.

«E che ci vorrà mai?» si era detto Giovanni. E in quattro e quattr’otto aveva leggiucchiato un paio di manualetti

e navigato su Wikipedia alla volta della voce body-building. Per uno che conosceva a memoria mezza Eneide e tutto il Purgatorio di Dan-te... era stato un gioco da ragazzi (magari un pochino umiliante) impa-racchiare 50 parole nuove per darsi il tono d’un esperto di culturismo.

Ed era stato assunto. Aveva trovato il “suo pane”: la montagna di stupidaggine carnosa

che gli stava davanti. Ma il gusto dello studio delle cose antiche, naturalmente, gli era ri-

masto, e nelle tasche portava sempre con sé qualche edizione econo-mica di Shakespeare o Catullo o Tennyson, appositamente foderata con una copertina su cui campeggiava l’immagine di Lou Ferrigno alle prese con manubri e bilancieri, giusto per non dare nell’occhio.

«Aho! A Giovanne, tipo, che leggi? Svee-iia! Mi ascolti? T’ho detto che me manca tipo l’attrezzo!»

Giovanni posò Tennyson sulla panca e ricordò che aveva ancora in una tasca del giubbetto la spatola che gli serviva al mattino, quando in-tegrava il suo magro stipendio da trainer con un lavoretto da apprendi-sta imbianchino.

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«Questa può andare?» disse rivolto a Narciso, mostrandogli l’attrezzo da stuccatore. Di certo non si sarebbe messo lui con le sue mani a sfregargli l’unguento. Gli face-va senso. Anzi, schifo.

«Tipo... mejo che niente! Vai!» Giovanni cominciò a spatolare per

bene la crema sul corpazzo del cul-turista: una stuccata in su e una in giù, con metodo.

«Ti capisco. Stasera ci saranno un mucchio di mosconi. Molto umido stasera!»

«Nunn me lo di!» «Gonfia un po’ il tricipite

sinistro... Mmm, bene. Ora pompa i pettorali: figura espan-sione toracica laterale destra! Alè... molto bene!» e a ogni ordine che im-partiva giù una spalmata con la lamina che si fletteva sui muscoli gonfi.

«Posa “tutto muscoli”.... Benissimo! Dai che così facciamo anche riscaldamento!»

«No ne li narici!» protestava ogni tanto il megamostro.

«Fermo, feermo... Ecco, bene così! Posa dorsali di schiena... Via!» rispondeva Gio-vanni, allontanandosi d’un passo per rimi-rar l’opera sua, con la spatolina graziosa-mente piegata in mano e l’occhio dell’intenditore. Sembrava un pittore, un Giorgione o un Masaccio intento a ritoccare e rifinire un affresco viven-te. E allo stesso tempo si sforzava anche di dimostrare la competenza linguistica maturata in ben due giorni di studio delle tecniche del buil-ding.

«Push-up! Bene bene bene.... Feermo! Ecco, una ripassata sulla chiappa

...Illà! Perfetto!» «No ner buco!»

LA ZANZARA E IL CULTURISTA

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«Dai che abbiamo quasi finito! Fammi una serie di squat da 200 kg... Ec-co... una spennellata sul grande romboide... fatto!» concluse Giovanni con la lingua stretta a lato tra le labbra, tutto preso dall’opera.

Narciso, ormai spatolato a dovere e ben riscaldato, aveva risolto tutti i suoi problemi. O così credeva.

Certo, una semplice spatola non poteva funzionare bene tanto quanto una pistola a spruzzo, e rimaneva sempre qualche micron di pelle appena velata o proprio scoperta, soprattutto là dove le spalmate tendevano a combaciare. Comunque...

«Grazie, a Giova’! Tu sei tipo un vero trainer!» Poi Narciso diede un bacetto ai due poster che teneva appesi all’anta

dell’armadietto: Arnold Schwarzenegger e Franco Columbu, i suoi idoli; dis-se «A’bbelli! Ner nome di Mister Olympia, stateme accanto tutt’ed due!».

Ripose il vasetto di marmellata di anabolizzanti nel borsone; fletté di scatto il polso destro per veder gonfiare il bicipite; disse «Bbello!»; udì la chiamata dello speaker, guardò Giovanni con occhi pieni di bovina ricono-scenza e fece: «Nnamo! So’ qua! Arriva er mejo!... “Veni, vinci e torni”, co-me disse er Cesarone passando er Rubicone... O ggiù dde lì!»

E uscì alla ribalta, lasciando una parte del primo problema spalmata sulla porta.

Uscì con il trainer. Ma dietro il trainer scivolò una piccola ombra. Solo un occhio molto esperto l’avrebbe individuata per ciò che era: un

famelico esemplare di Nematocera Culicomorpha Siringosa.

Nematocera Culicomorpha Siringosa. Rarissima specie di insetto appartenen-te ai Ditteri Culicidi, noti volgarmente come zanzare. Benché io non l’abbia mai vista, e benché nessuno ne abbia mai fotografata una, si vocifera che sia di corpo esile, lungo circa 9 millimetri e culminante in un capino con antenne piumose, dal quale si diparte una sotti-lissima proboscide contenente uno sti-letto puntuto che porta la lunghezza complessiva dell’insetto adulto a 9 cen-timetri (raffigurato qui sotto a dimen-sioni più o meno reali).

Alla nascita, l’insetto è formato dal la sola proboscide, che si srotola in tutta la sua lunghezza alla schiusa dell’uovo e va subito in cerca di una vittima. La prima suzione è infatti necessaria per far emergere dalla parte posteriore del-la proboscide il corpicino già in tutto formato, che si gonfia a causa della pressione del liquido ematico o zuc-cherino aspirato. Le femmine sono ematofaghe; i maschi si nutrono di liquidi zuccherini; gli esemplari ermafroditi (giacché pare che esistano anch’es si) si nutrono e di sangue e di liquidi zuccherini. Le fem-mine depongono le uova negli umidori

SIMONE FORNARA E MARIO GAMBA

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di vasetti di medicinali, prediligendo quelli di natura steroidea, in particolare di parabolan altrimenti detto trembo-lone. La peculiarità di questa specie - oltre alla nascita e alla lunghezza della can-nula proboscidale – è dovuta al fatto che la zanzara suddetta ha maturato chissà come l’impressionante capacità di centrare a gran de velocità e con tuf-fi in verticale, a missile, anche porzioni piccolissime di epidermide nuda. Il tut-to senza doversi appoggiare con le zampette al corpo della vittima e con una velocità di suzione dei liquidi inimmaginabile, che rende l’atto della puntura pericolosissimo per la soprav-vivenza della zanzara stessa la quale, presa dall’ingordigia, se non ferma subi-to l’aspirazione ematica o di liquidi zuccherini va incontro a una fine pre-coce per esplosione del pur iper-elastico corpicino. Scoperta e origine del nome. A sco-prirla fu quel consesso di discepoli di Linneo noto come il Gruppo Balabiöti, che la classificò come la tremilacinque-centoquarantesima delle specie cono-sciute. Nonostante le argute ipotesi dei Balabiöti, non è ancora chiara la sua origine. A questo proposito, gli annali del gruppo tramandano la seguente discus-sione (dal Verbale n. 125.876 dell’anno XIX della fondazione del gruppo): Carluccio Rabbia [scuotendo il capo e sollevando la retina da apicoltore dietro la quale si è trincerato]: «Per la miseriac-cia, credo invece che sia arrivata qui da noi dal Mar Rosso. Se emigrano tante porche specie di pesci che non s’erano mai viste prima nel Mediterraneo a cau-sa del maledetto riscaldamento delle ac-

que, perché cavolo non dovrebbero ar-rivare anche nuovi tipi di fottutissime Nematocera?» Onesto Solodinome [di scatto, con ira, rammemorando forse che riceve un bel po’ di fondi dalla Oil Carb-Corporation): «Ah, sì, beh... la teoria del global warming... Ma non è una teoria comprovata! In ogni caso, non è questo il problema più urgente! La co-sa fondamentale, ora, è dare un nome a questa zanzara qua! Al resto ci pense-ranno i nostri nipoti. A noi non com-pete.» Margheritina Scarach [incerottandosi il buco che la bestiaccia le ha fatto sul naso]: «Mah, secondo me la viene dalle foreste del Mato Grosso. Sapete, con tutta codesta immigrazione! Magari ce l’aveva un sudamericano dentro le ta-sche dei halzoni.» Antonietto Zittiti [riportando le dottis-sime conclusioni scientifiche delle sue analisi di laboratorio, condotte nel re-tro del bar dietro casa): «Eh, la globa-lizzazione! Ormai ci arriva di tutto! Nuovi stranieri, nuove malattie, nuove specie animali...» Tralascio la seguente parte del verbale, che riporta senza soluzione di conti-nuità le accanite diatribe linguistiche avvenute nei ventinove giorni seguenti tra i quattro scienziati, che portarono ad aggiungere alla parola Nematocera i termini Culicomorpha e Siringosa, dopo aver risolto un non facile dilemma ag-gettivale: perforatrix o siringosa? Il di-lemma fu risolto dalla constatazione – conseguente a un ciclo di punture cui si sottoposero i Balabiöti con auto-osservazione reciproca – che la nuova Nematocera non trivellava, ma s’inzeppava a catapulta nella pelle pro-prio come una siringa.1

1. [Nota di Sarlino il Pio] Dal Mirabilium Terrae Perdilae Liber a Sarlino Pio scriptus

et illustratus (per comodità del lettore, riporto la traduzione in italiano da me medesimo effettuata).

LA ZANZARA E IL CULTURISTA

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In ogni caso, nessuno notò quel banalissimo insetto, comunemente noto come “zanzara” e altrettanto comunemente oggetto di epiteti non propriamente gentili da parte dei comuni mortali, data la sua spiccata e invereconda tendenza – comune a tutte le specie consimili – alla ema-tofagia.

La Nematocera siringosa scivolo alle spalle di Narciso e Giovanni, e s’impennò in alto nell’aria stantia della sala che odorava di sudore e profumo. Svolazzava sulle teste delle dozzine di persone che rumoreg-giavano sedute sulle poltroncine del teatro. La carogna portò il numero di battuta delle ali a 350 al secondo, quasi spingesse al massimo il mo-tore che le rombava nella carlinga affusolata dell’addome. Poi si fermò un micro-secondo rimanendo sospesa nell’aria. Voltò rapida il capino a destra e a manca, frustando l’aria con la puntuta proboscide. Cercava il bersaglio con lo stiletto proteso in avanti.

Un fascio di luce si accese davanti alla Nematocera siringosa, inqua-drando Narciso sul palco.

Lo speaker presentò Narciso, e Narciso fu accolto da una salva di applausi frenetici e isterici. Il pubblico lo adorava.

«A bbello!» «Sei er mejo!» «Facce ‘na espansione de torace!» «Te amo!» Narciso fece un inchino al pubblico. Una signora in prima fila, non più giovane ma con una luce d’estasi

sul volto, incrociò le mani sul petto anoressico, fece tintinnare la bi-giotteria che pendeva dalle orecchie ed esclamò: «Te amo tanto!»

Narciso raccolse l’ultima esclamazione e fece di rimando, tutto serio e compunto: «A Bbella! Allora semo tipo in due! Anch’io me amo tan-to tanto!»

Giovanni sedette nel suo posto riservato, in posizione un pochino defilata rispetto al centro del palco.

Quant’è stupida ‘sta gente! – rifletteva. Più vuoti e fastidiosi di tutti i tafani e le mosche e le zanzare di questo mondo! Che ci faceva lui, lì? Beh, pazienza: doveva pur guadagnarsi il pane.

Accavallò le gambe; gridò un «Fagli vedere!» di circostanza all’indirizzo del colosso; pensò “Quanto è scemo! Beh, però è il mio

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64 • DIECIPERDIECI

pane”; si guardò attorno e vide che erano tutti concentrati verso ciò che accadeva sotto la luce dei riflettori; aprì Tennyson e si immerse nella lettura. Non aveva più niente da fare. Ora toccava a Narciso.

Sul palco, il culturista piottò verso la pedana sui piedini piccoli pic-

coli sovrastati dalla carne gonfia e polpacciuta delle gambe. Ancheggio spostando enormi quantità d’aria come se camminasse su delle uova: era la classica “camminata del pappone versione tamarro”, come gli aveva spiegato pazientemente il suo trainer. Faceva effetto sulle ragaz-zette decerebrate. Garantito. E poi era l’unica andatura che gli venisse naturale, a Narciso. L’aveva vista al cinema e nelle strade.

Narciso raggiunse finalmente la pedana. Poi iniziò il suo esercizio sotto lo sguardo severo dei giudici e gli occhi ammirati del pubblico.

Si produsse in tutte le figure e le pose che aveva previsto in scaletta. Cominciò con un doppio bicipite frontale, tenendo le braccia parallele al pavimento e torcendo i polsi per ottenere il picco dei lacerti.

Poi toccò ai dorsali di schiena. E poi all’espansione toracica a sinistra. A ogni posa il sangue gassoso di Narciso aumentava la sua pressione,

e i muscoli si gonfiavano come se fossero stati sottoposti all’azione di un compressore pneumatico.

Espansione toracica destra. E plop! Una trentina di muscoli emerse-ro accavallandosi l’uno sull’altro, mentre Narciso fletteva il braccio a 90 gradi e s’afferrava il polso con l’altro. E poi pum e pum! Due mo-struosi pettorali fiondarono in fuori grossi come meloni.

Addome-gambe: Narciso si inerpicò sulle punte delle dita dei piedi e congiunse le braccia sulla testa, con uno sforzo tremendo, come fosse diventato l’oscena imitazione di una ballerina di danza classica. Kraka-

ta pumm! Trentaquattro muscoli addominali vennero sparati in avanti, senza un filo di grasso e induriti dalla massa di gas che pulsava sotto la pelle.

Trentaquattro signorine starnazzanti e donne mature entrarono in

estasi. E chi saliva in piedi sulle poltrone e chi fischiava cacciandosi dieci dita in bocca e chi alzava le sottane facendo finta di svenire.

Ma ormai Narciso era quasi giunto al culmine della tensione e della serie di esercizi, e non si rendeva nemmeno più conto di cosa stesse ac-cadendogli: sapeva solo che tutti lo adoravano. Decise di continuare e continuare e continuare.

LA ZANZARA E IL CULTURISTA

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Straripava. Era tutto gonfio e dilatato, molto ma molto più del fa-moso omino Michelin. I muscoli si aggrovigliavano, si attorcigliavano e continuavano a crescere l’uno sull’altro, incontrollabili, mentre l’unguento steroideo di cui era ricoperto crepitava come scaglie di stucco che stessero per staccarsi sotto la pressione dell’epidermide tesa fino a scoppiare.

Poi venne il dramma. Perché arrivò Nematocera Culicomorpha Sirin-

gosa, e proprio sul più bello. «Tutto muscoli» pigolò Narciso stremato dalla fatica ma intenziona-

to a proseguire. Era la figura più terrificante e spettacolare. Narciso piegò il busto in avanti e assunse una posa gorillesca, ar-

cuando leggermente le braccia. I muscoli di tutto il corpo vennero tutti assieme catapultati in fuori, in una apoteosi di vene pulsanti. Vvumm! Un enorme bubbone di carne emerse sulla nuca quando anche i mu-scoli dei trapezi e dei piccoli romboidi vennero sollecitati. Narciso sembrava cresciuto di dieci centimetri in altezza.

L’espansione muscolare sembrava non finire più, mentre il culturi-

sta tratteneva il fiato gonfiando le guance e stringendo le chiappe. «Mmmm...» solo un suono strangolato usciva dalla gola di Narciso,

che aveva cominciato a tremare e vibrare per lo sforzo terribile. E continuava a crescere, a slargarsi, a sollevarsi, a espandersi sulla

pedana, sempre di più, sempre di più... Disumano! «El scioppa! Atensiun! El mat a s-cioppa!» fece un giudice a un trat-

to, allontanandosi di scatto dalla sua sedia col terrore dipinto sul volto. «Via, via! Al fijol a s-ciopa!» confermò un altro giudice. «Mii!... Mizzega!» balbettò il terzo con i bulbi oculari ormai prossi-

mi a cadere fuori delle orbite. Molti intuirono il pericolo; alcuni, soprattutto quelli delle prime fi-

le, cominciarono ad arretrare; molti altri, ragazzette e signore, rimasero semplicemente a bocca aperta. A una cadde la dentiera.

Anche Giovanni, risvegliato dal caos, si rese conto di quanto stava succedendo.

«Fermati, ferm...» ma non fece in tempo a concludere. Pac!, una piccolissima scaglia della marmellata anabolizzante venne

via con un suono sordo, lasciando scoperta sul cocuzzolo che sormon-tava la nuca una frazione di pelle larga proprio quanto la proboscide

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della Nematocera. Che immediatamente venne attirata dall’odore del sangue iperproteico.

E fu la ingloriosa fine.

La siringosa ronzò, cabrò, sali ancor più in alto fin quasi a toccare il soffitto, portò a 400 al secondo i battiti delle ali e poi scese in picchiata con la proboscide che trinciava l’aria, guidata dai suoi sensori. Venne giù a missile e si infisse sul bubbone di carne che Narciso si portava sulla nuca.

S-bumm!

Un fiotto d’aria e gas maleodoranti esplose dal bubbone trafitto, sparando indietro la zanzara sorpresa.

Narciso si sentì strattonare e sollevare di mezzo metro verso l’alta e cominciò a piroettare su sé stesso ruotando come una trottola impazzi-ta, muovendosi a scatti, a zig-zag, sul palco, a mezz’aria; ora verso Gio-vanni ora verso la sdentata ora verso un giudice ora verso un altro ora verso la folla di ammiratrici terrorizzate ora verso la porta dello spo-gliatoio: come un palloncino bucato.

Dal buco sul groppone usciva sibilando e fischiando uno sfiato di gas. come dal beccuccio di una caffettiera in ebollizione.

Narciso schizzava in qua e in là sbatacchiando e cozzando e rove-sciando tutto ciò che incontrava sul suo cammino aereo, e pigolando terrorizzato:

«A Giova’, aiutemeee! Che è ‘sta corrente d’aria che me sento su la crapa?»

Giovanni accorse gridando: «Il mio pane! Il mio pane!» e cominciò a saltellargli dietro e a rincorrerlo.

Ma era difficile da bloccare. Non stava fermo un attimo.

Vale la pena di considerare brevemente che cosa accadde allo stesso tempo alla siringosa: come detto, venne sparata indietro a folle velocità e con gran sorpresa dal rinculo dell’esplosione, ma una parte considere-vole del gas fuoriuscito dal forellino sulla cocuzza del culturista si in-canalò nella cannula della proboscide, rifluendo con l’impeto di un gey-ser nel corpicino prima floscio, gonfiandolo all’inverosimile. Per una frazione infinitesimale di secondo (giacché così poco durò la puntura e la singolare conseguente avventura dell’insetto) la zanzara assunse di-mensioni spaventose, paragonabili a quelle dello sgonfiantesi ammasso

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di muscoli. Ma fu, appunto, un attimo: la siringosa, non si sa se con co-gnizione di causa o per riflesso condizionato, si salvò l’elastica pellaccia espellendo l’accumulo di gas pernicioso dal minuscolo deretano, in-fiammandone e strappandone l’estremità sfinterale e producendo una corrente d’aria di potenza pari a un significativo tornado.

Per farla breve, mollò una scoreggia devastante.† Va anche detto che – probabilmente a causa dello scompiglio crea-

to nel pubblico dalle spernacchianti giravolte di Narciso – nessuno si accorse della prodezza meteorica dell’insettino. Molti dei presenti, pe-rò, ne subirono le conseguenze, che furono tuttavia imputate all’emissione di gas diretta dal forellino di Narciso, e non a quella passa-ta per il tramite dello stiletto e del corpicino della Nematocera: tra i fe-nomeni fisici più notevoli, vale la pena di citare almeno l’ossigenazione dei capelli della madama imbigiottata che aveva dichiarato coattamen-te il suo amore per Narciso (risparmio i soldi di una seduta dal parruc-chiere, trovandosi i capelli magicamente mechati di un biondo color platino), nonché l’essiccazione istantanea di ventiquattro paia di lenti a contatto che mandarono d’urgenza altrettanti sventurati nella più vici-na clinica oculistica, con serissimi danni alla cornea. Sessantaquattro fu-rono gli intossicati, ma qui è davvero difficile stabilire la vera causa ef-ficiente delle esalazioni – sfiato dell’uomo o scoreggia del dittero. Pro-babile che il connubio abbia fatto del suo.

_____________________

† [Nota di Sarlino il Pio) L’episodio di meteorismo esplosivo della Culico-

morpha mi obbliga ad aggiornare la voce del Mirabilium Terrae Perdilae Liber a Sarlino Pio

scriptus et illustratus riportata più sopra. Laddove si parla del pericolo di esplosione dovuto all’ingordigia dell’insetto, dopo le parole “del pur iper-elastico corpicino” e prima delle no-tizie sulla scoperta e l’origine del nome, si aggiunga: «Per ovviare a questo problema, alcuni esemplari della specie hanno sviluppato la capacità di salvarsi la vita sfogando i liquidi o gli eventuali gas ingeriti in eccesso attraverso l’orifizio anale, grazie all’emissione di ciclopiche e pestilenti flatulenze, non prive di spiacevoli conseguenze per chi avesse la sventura di trovarsi nel cono di retroazione che ha la sua scaturigine sfintere dilacerato e bruciacchiato della zanzara».

SIMONE FORNARA E MARIO GAMBA

68 • DIECIPERDIECI

Mezz’ora dopo era tutto finito. Della Siringosa non v’era traccia, dal momento che per reazione fu sparata chissà dove dalla fragorosa flatulenza. Narciso, invece, perse in velocità e plano pian piano a ter-ra, reggendo a fatica i trenta chili di pelle che gli si era afflosciata. Era diventato tutto un cascame di pelle grinzosa attaccata a un corpo scheletrico.

«Aiuteme!» Giovanni, non sapendo che altro fare

per mantenersi il pane, raccolse e trascinò come meglio poté l’ammasso scheletri-co-epidermico pateticamente frignante, strattonando le volute mollicce che si incastravano tra le sedie, gli orecchini e le protesi del pubblico urlante e sgomento, lasciando su di esso oleose strisciate di mistura steroidea e di olio di mallo.

«Aho me strappi la ppelle, Gio-va’! Ahiahiai…»

Il trainer letrado portò l’involucro umano singhioz-zante dietro le quinte e di lì nello spogliatoio, dove prima incerottò il muscolo trapezio sforac-chiato, poi provò a rigonfiare Narci-so con una pompa da bicicletta…

«No ne li narici!» ...e poi addirittura con un compressore... «No ner buco, t’ho detto!» ...infine si arrese sconsolato. E fu licenziato. I giudici, dopo aver arieggiato la sala, trasportato i feriti all’esterno e

portato i sali alle donzelle svenute a dozzine sotto l’azione degli effluvi pestilenziali usciti dal corpaccio di Narciso, completarono le loro sche-de.

«Boja fauss!» scrisse semplicemente uno.

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«Mizzega!» vergò il secondo. «Ostrega!» compilò il terzo. Narciso perse la gara. Il giorno dopo, di buon mattino, Narciso trascinò le trippe ammol-

late e i cascami di pelle flaccida fino allo spogliatoio del teatro, dove era solito allenarsi.

Si sedette su una panca tutto sconsolato e lasciò che la pelle debor-dasse giù verso il pavimento.

Poi ebbe un moto di stizza e tirò un pugno nell’aria, mentre due chili di epidermide moscia e pendula sventolavano dal braccio ossuto: «Maledette ‘ste zanzare e api e tipo tafani e mosche e Dio mio che le hai create a ffa?»

Narciso era sconsolato ma non si era mica arreso! Se non avesse fat-to il culturista, del resto, cosa sarebbe stato di lui? Non c’era altro nella sua vita.

Mise una mano sulla panca e si imbatté in un libriccino foderato con una immagine di Lou Ferrigno ai manubri. Diede un bacetto a Lou. Poi disse. «Er manuale de Giovanni, quer bono a nulla!»

Aprì a caso e lesse con difficoltà quelle strane parole:

Stammi vicino quando i sensi sono

Torturati da uno strazio che vince la speranza

E il tempo è un pazzo che sparge polvere

E la vita, una Furia che divampa.

Stammi vicino quando la mia fede è inaridita

E gli uomini sono mosche della tarda primavera

Che depongono uova, punzecchiano e ronzano,

Tessono celle meschine, e muoiono.‡

«Mbe?! Che vor di? Gnente! Li ommini mica so’ mosche! Mica so’ zanzare che ronzeno! Mah, ‘sti manuali de culturismo mica li capisco!»

Narciso buttò il libro e si sdraiò faticosamente a terra. Era intenzio-nato a riprendere. E la prossima volta non avrebbe dimenticato la pi-stola a spruzzo.

«Push up!» gridò con un sorriso sul volto mentre cominciava a pompare sulle braccia magre magre.

_____________________

‡ A. Tennyson, Stammi vicino, da In Memoriam

SIMONE FORNARA E MARIO GAMBA

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Ma una piccola ombra, illesa anche se un po’ ammaccata, ronzava in alto, vicino al soffitto dello spogliatoio. Aveva tempo. Bisognava solo aspettare che il tipo lì sotto si rimettesse un po’ in carne.

Gli autori di Opera Nuova

Prisca Agustoni 2011/1, 2014/1, 2014/2 Michele Amadò 2015/1 Fabio Andina 2013/2 Flavio Arrigoni 2013/1, 2014/2 ,

2015/2, 2016/2 Fabiano Alborghetti 2010/1, 2018/2 Pier Carlo Apolinari 2010/2 Wystan Hugh Auden 2015/2 Sylvia Bagli 2019/1 Raffaele Beretta Piccoli 2011/1 Daniele Bernardi 2013/1 Yari Bernasconi 2017/2 Vanni Bianconi 2010/2 Domenico Bonini 2011/2, 2015/1 Tomaso Bontognali 2010/2 Giovanni Bruno 2019/1, 2019/2 Lorenzo Buccella 2015/1 Elia Buletti 2010/2 Michele Canducci, 2018/1 Sara Camponovo, 2016/1 Sabrina Caregnato 2014/1, 2017/1,

2017/2, 2018/2, 2019/1, 2019/2 Valeria Callea 2017/1 Lillith Cavalli 2018/2 Pierre Chappuis 2011/1, 2012/2 Joanne Chassot, 2016/2 Luca Cignetti, 2017/2 Davide Circello 2017/1 Lucia Colombi-Bordoli 2010/2 Fabio Contestabile, 2016/1 Angela Curatolo 2019/1 Valeria Dal Bo 2012/1 Alessandro Dall’Olio 2016/2 Andrea De Alberti 2012/1 Adele Desideri 2014/1 Daniele Dell’Agnola 2013/2, 2017/2 Daniela Delfoc 2011/2

Anna Maria Di Brina 2019/1 Mauro Delfoc 2011/2 Jacques Dupin 2010/1 Anna Felder 2015/2 Simone Fornara 2011/2, 2015/1, 2017/1 Gaetano C. Frongillo 2012/2 Lia Galli 2012/1, 2017/1 Mario Gamba 2011/2 , 2015/1 Claire Genoux 2013/2 Dario Galimberti 2019/2 Laura Garavaglia 2015/1 Debora Giampani 2016/2 Alberto Gianinazzi, 2018/1 Francesco Giudici, 2018/1 Giuliana Pelli Grandini 2015/1 Cécile Guivarch 2014/2 Silvia Härri 2011/2 Federico Hindermann 2010/1 Marica Iannuzzi 2017/1 Gilberto Isella 2013/1 , 2015/2 Elisabetta Jankovic 2012/2 Elena Jurissevich 2010/1 Luigi La Rosa 2019/2 Pierluigi Lanfranchi 2011/1 Eva Maria Leuenberger 2016/2 Wanda Luban 2019/1 Allievi della 1° elementare di

Lugano-Cassarate, 2018/1 Claudio Magris 2016/2 Massimo Malinverni 2011/2 Simonetta Martini 2011/2 Sebastiano Marvin 2016/2 Manuela Mazzi 2015/1, 2019/2 Roberto Mc Cormick 2017/2, 2018/2,

2019/2 Nadia Meli 2013/2, 2014/2 Paola Menghini 2010/2

Fabio Merlini 2015/1 Roberto Milan 2015/1 Christian Moccia 2014/2 Edoardo Moncada 2019/1 Nicolai Morawitz 2017/1 Gerry Mottis 2012/1, 2013/2, 2017/2 Laura Muscarà 2011/2 Alberto Nessi 2011/2 Guido Oldani 2014/2 Tiziana Ortelli 2014/2 Duilio Parietti 2019/1, 2019/2 Angela Passarello 2017/2 Amleto Pedroli 2013/2 Alfonso Maria Petrosino 2010/2 Vincenzo Pezzella 2013/2 Annamaria Pianezzi-Marcacci 2010/2 Mariacristina Pianta 2012/2 Rosa Pierno, 2016/1 Roberta Plebani 2019/1 Héloïse Pocry 2016/2 Ivan Pozzoni 2012/1, 2106/1, 2018/2 Michèle Python 2017/1 Fabio Pusterla 2011/1 Federico A. Realino 2013/1, 2019/1 Anita Rochedy 2016/2 Sergio Roic 2012/1 Marina Riva 2015/2

Paola Celio Rossello 2012/2 Antonio Rossi 2014/1 Tiziano Rossi 2011/2 Luca Saltini 2011/1, 2014/1, 2015/2 Maria Elena Sangalli 2015/1 Laura Sarotto 2013/2 Oliver Scharpf 2010/2 Adam Schwarz 2016/2 Giulia Elsa Sibilio 2012/1 Carlo Silini 2019/2 Carlotta Silini 2017/1 Tommaso Soldini 2013/2 Michelle Steinbeck 2016/2 Studentesse e studenti DFA-SUPSI

2014/1, 2015/1, 2016/1, 2017/1, 2018/1

Flavio Stroppini 2010/1, 2010/2, 2012/1, 2013/2

Denise Storni 2012/2, 2013/2, 2014/2 Lolvé Tillmanns 2016/2 Vincenzo Todisco 2013/2, 2017/2 Andrea Trombin Valente 2012/2 Arianna Ulian 2019/2 Tiziano Uria 2019/1 Maria Rosaria Valentini 2013/2 Bernard Vargaftig 2013/1 Simone Zanin 2013/1

I collaboratori di Opera Nuova

Prisca Agustoni 2010/2, 2012/2, 2013/2 Claudia Azzola 2015/2

Arnaldo Benini 2016/2

Giovanni Bardazzi 2010/2

Michela Bettoni 2018/1

Andrea Bianchetti 2013/1 Stefano Bragato 2018/2

Laura Branchetti, 2016/1, 2019/1

Mariarita Buratto, 2016/1 Sebastiano Caroni 2017/2

Raffaella Castagnola 2010/1 , 2011/1, 2012/1, 2013/1, 2014/1, 2015/1, 2015/2, 2017/1, 2018/2

Luca Cignetti 2010/1, 2014/1, 2014/2, 2015/1, 2017/2

Silvia Demartini 2017/2

Dario Corno 2010/1, 2012/1, 2013/1

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Lorenzo Tomasin 2017/1

Luca Zuliani 2010/2

Le interviste di Opera Nuova

Yari Bernasconi 2017/2

Massimo Gezzi 2017/1

Pier Vincenzo Mengaldo 2010/2

Fabio Pusterla 2011/1

Gian Mario Villalta 2010/2

Le pubblicazioni di Opera Nuova

Collana Artemis

1. Luigi Rossini, Collerico, superbo, nel tempo istesso modesto, benigno.Scritti autobiografici, 2014

Collana Autografica

1. Federico Hindermann, Cerchi di luce, 20102. Prisca Agustoni, Casa delle ossa, 2010

3. Pier Carlo Apolinari, Preludi e fughe senza indicazioni di tempo, 2011

4. Robero Milan, Il mare alla rovescia, 2011

5. Jacques Dupin, Scarto, traduzione di Gilberto Isella, 2011

6. Simone Fornara e Mario Gamba, I cavalieri davanti al fiume, 2011

7. AA.VV., Il punto illustrato, 2011

8. Sergej Roic, Il gioco del mondo, 2012

9. Pierre Chappuis, Il mio sussurro. Il mio respiro, 2010.

10. Gilberto Isella, Caro aberrante fiore, 2013

11. Giuliana Pelli Grandini, Le Marfungole, 2013

12. Sergio Wax, Fragmentos, 2013

13. Michele Amadò, Nient’altro che cinque minuti, 2014

14. Sergio Wax, Terra e sale, 2015

15. Anna Felder, Liquida, 2016 (2° ed. 2017)

16. Luca Cignetti, Nel tempo cavo, 2019

Collana Riflessi

1. POESIT. Repertorio bibliografico dei poeti nella Svizzera Italiana, a cura diRaffaella Castagnola e Matteo Viale, 2012

2. Oscar Mazzoleni, Andrea Pilotti e Marco Marcacci, Un cantone inmutamento. Aggregazioni urbane ed equilibri regionali in Ticino, 2014

3. Michele Amadò, Disegnare il mondo, 2015

4. Michele Amadò, La casa delle muse – LAC, 20165. Michele Amadò, Oracoli. Fontane del Ticino, 20176. Michele Amadò, Quatto quatto come un gatto, 2018

Opera Nuova 2019/3Pubblicato online nel mese di dicembre 2019