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2 Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Marzo/aprile 2008 – Anno IX Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino IL PROBLEMA DEI PROBLEMI IDEE E PROGRAMMI PER IL MEZZOGIORNO P ur senza prendere parti- to, dato il carattere della Fondazione, sentiamo il dovere di prendere parte alla competizione eletto- rale in corso con un confronto ‘trasversale’ sui temi del Mezzo- giorno tra i principali protago- nisti della vita politica italiana. Perché il Mezzogiorno, insieme all’Europa, è al centro della no- stra mission. Perché, come ha rilevato il Presidente Napolitano nella recente visita nelle Marche, il Mezzogiorno rimane “il pro- blema dei problemi” per la mo- dernizzazione e la competitività del sistema Italia. Un problema difficile, scomodo, che qualcuno vorrebbe negare, rimuovere, mettere tra parentesi, confinare a mera asimmetria territoriale. In- vece a nostro avviso – un avviso ovviamente del tutto aperto al confronto – anche se nel Mezzo- giorno tante cose sono cambiate, molte anche in meglio, il divario Nord‑Sud rimane come questio- ne ‘strutturale’, espressione dello storico dualismo dello sviluppo economico, sociale e civile del paese. > segue a pag. 3 Il Mezzogiorno sui numeri della rivista >da pag. 25 Biagio de Giovanni: È venuta meno la cornice istituzionale / Giuseppe Galasso: Mezzogiorno come risorsa e come problema italiano ed europeo / Adriano Giannola: Una questione ancora aperta / Massimo Lo Cicero: Liberiamoci del Mezzogiorno? da pag. 9 > Interviste con Fausto Bertinotti emma Bonino renato Brunetta Pier Ferdinando Casini Linda LanziLLotta enriCo Letta enriCo morando Luigi niCoLais CONVERSAZIONE CON MASSIMO D’ALEMA Andrea Geremicca > a pag. 5

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Rivista Mezzogiorno Europa

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Page 1: Numero 2/2008

2Reg. al Trib. di Napoli n. 5112 del 24/02/2000.

Spedizione in abbonamento postale 70%Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Mar

zo/a

prile

200

8 –

Anno

IX

Periodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano PenninoPeriodico della Fondazione Mezzogiorno Europa – Direttore Andrea Geremicca – Art director Luciano Pennino

IL PROBLEMA DEI PROBLEMIIdee e programmI per Il mezzogIorno

P ur senza prendere parti-to, dato il carattere della Fondazione,  sentiamo il  dovere  di  prendere 

parte  alla  competizione eletto-rale  in corso con un confronto ‘trasversale’ sui temi del Mezzo-giorno  tra  i  principali  protago-nisti  della  vita politica  italiana. Perché il Mezzogiorno, insieme all’Europa, è al centro della no-stra mission.  Perché,  come ha rilevato il Presidente Napolitano nella recente visita nelle Marche, il Mezzogiorno  rimane “il  pro-blema dei problemi” per la mo-

dernizzazione e la competitività del sistema Italia. Un problema difficile, scomodo, che qualcuno vorrebbe  negare,  rimuovere, mettere tra parentesi, confinare a mera asimmetria territoriale. In-vece a nostro avviso – un avviso ovviamente del  tutto aperto al confronto – anche se nel Mezzo-giorno tante cose sono cambiate, molte anche in meglio, il divario Nord‑Sud rimane come questio-ne ‘strutturale’, espressione dello storico dualismo dello sviluppo economico, sociale e civile del paese.  > segue a pag. 3

Il Mezzogiorno sui numeri della rivista >da pag. 25Biagio de giovanni: È venuta meno la cornice istituzionale / giuseppe galasso: Mezzogiorno

come risorsa e come problema italiano ed europeo / adriano giannola: Una questione ancora aperta / massimo lo Cicero: Liberiamoci del Mezzogiorno?

da pag. 9 > Interviste conFausto Bertinotti

emma Boninorenato Brunetta

Pier Ferdinando CasiniLinda LanziLLotta

enriCo LettaenriCo morando

Luigi niCoLais

CONVERSAZIONECON MASSIMO D’ALEMA

Andrea Geremicca > a pag. 5

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�> segue da pag. 1

In questa delicata fase della vita del paese varrebbe a nostro  avviso  la  pena  di ragionare su alcune opzio-

ni  di  fondo  che  dovrebbero orientare una coerente politica nazionale e meridionalista. 

Primo. Garantire  l’auto-nomia  e  l’autogoverno  delle popolazioni meridionali, come condizione per consolidare le basi  democratiche  del  paese e  garantirne  lo  sviluppo  e  la coesione.  Combattere  l’uso clientelare della spesa pubblica che trasforma i diritti in favori, emargina risorse e competenze, soffoca la concorrenza e il libe-ro mercato, alimenta fenomeni di  rassegnazione e di esaspe-razione  sociale.  Impegnare  lo Stato a tutti i livelli e mobilitare i cittadini, a cominciare dai più giovani, nella lotta alla crimina-lità organizzata come garanzia di libertà e di civile conviven-za. Riformare  la politica ed  il sistema dei  partiti,  stabilendo regole certe di partecipazione, condivisione  e  pluralismo. Combattere i fenomeni di cor-ruzione e di infiltrazione della criminalità  organizzata  nelle istituzioni  e  nelle  assemblee elettive.  Introdurre  efficienza e  trasparenza  della  Pubblica amministrazione.

Secondo. Porre  l’avvio a  soluzione  della  questione meridionale  tra  le  priorità della  politica  nazionale:  per ragioni  di  equità  e  coesione e  per  rendere  competitivo  il sistema  Italia.  La  sfida  della globalizzazione  impegna  il paese  ad  utilizzare  al meglio tutte le potenzialità e le risor-

se a propria disposizione. E il Mezzogiorno è un importante ‘giacimento’, una riserva ricca di risorse umane e materiali e disposizione del paese.

Terzo. Tenere  ferma  la dimensione  europea  degli obbiettivi di modernizzazione e  crescita  del Mezzogiorno. Un’Italia dimezzata è destinata 

ad un  futuro di marginalizza-zione nel contesto internazio-nale. Al tempo stesso l’Europa non  potrà  reggere  la  sfida della  globalizzazione  senza farsi  carico  dello  sviluppo delle  regioni meridionali  non solo con strumenti economici e finanziari – terreno sul quale sta già facendo molto – ma con politiche complessive di inno-vazione e sviluppo infrastruttu-rale, civile e socioeconomico di questi territori.

Quello  che  oggi  occorre è  il  linguaggio  della  verità.  E 

una  saggia  e  corretta moder-nizzazione delle  idee  e  delle politiche  per  il Mezzogiorno e  l’intero  paese.  Bisogna,  sa-per  declinare  la  Questione Meridionale  in  forme  nuove, non  essendo  più  proponibili superate teorie imitative dello sviluppo. 

Il  dualismo  economico centro‑nord – sud  non  può 

costituire  un mero  esercizio di  riflessione  politica,  così come – anche al di là di discor-danti analisi e programmi (che rappresentano un fattore tutto sommato  fisiologico) – non può essere eluso o messo  tra parentesi  nella  competizione elettorale. 

Sarebbe  altrettanto  fuor-viante, nel tentativo di conqui-stare consensi a breve scaden-za,  sovrapporre  i  termini  del ritardo di sviluppo nel Mezzo-giorno con le insoddisfazioni, i malumori, le denunce – spesso 

più  che  condivisibili – che hanno poi trovato cittadinanza in quella che è stata impropria-mente  definita  la Questione Settentrionale.

I dati relativi all’andamento del Pil, della crescita economica più generale, della produttività effettiva degli investimenti, del progressivo accentuarsi del gap infrastrutturale,  inchiodano  il Mezzogiorno alla imbarazzan-te posizione di fanalino di coda dell’Ue a 27, inclusi i Paesi di recente adesione, non proprio campioni di dinamismo econo-mico e competitività.

Tra  le  aree  in  ritardo  di sviluppo,  la  macroregione Sud  Italia  si presenta dunque come  quella  più  in  affanno, nonostante si sia giunti al ter-mine di un impegnativo ciclo di  spesa  di  Fondi  comunitari relativi  alla  programmazione 2000 – 2006.  Pur  trovandoci in un quadro di difficoltà strut-turali  assai  più  complessivo, che riguarda per molti aspetti l’intero  Paese,  la  condizione delle  cosiddette  ex  Regioni Obiettivo 1 appare particolar-mente grave. 

Un esempio emblematico è offerto dal capitolo “attrazione dei capitali”: l’Italia attira solo il 2,1% del totale delle risorse internazionali che vagano per il mondo “alla ricerca” di op-portunità  di  investimento. Di questi,  i  due  terzi  si  dirigono in  una  sola  regione,  la  Lom-bardia, il 99,6% del totale da Roma  in  su, e  solo 0,4% nel Mezzogiorno. 

Ancora. In tema di interna-zionalizzazione delle imprese e  politiche  “di  vicinato”,  se è  vero  che  l’Italia  nel  suo insieme sta perdendo la sfida competitiva nel Mediterraneo 

Un nodo da non dimenticarenella campagna elettorale

•••••

Il problema dei problemi non è stato an‑cora posto sul tappeto nelle mosse pre‑liminari dei partiti verso il voto del 13 apri‑le. Almeno non in modo convincente. Il nodo principale è il dualismo nello svi‑luppo economico, sociale e civile di una parte dell’Italia rispetto all’altra, anche se si declina in termini diversi dal passato, e se non siamo più alla dicotomia Nord‑Sud come la si poteva immaginare una volta.S p e ro c h e i l n o d o d e l l a q u e st i o ‑n e m e r i d i o n a l e n o n s i a d i m e nt i c a ‑to nel corso della campagna elettorale.Dall’intervento del Presidente della Repubblica in visita nelle Marche il 5 Marzo 2008.

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�con Francia e Spagna, fa riflet-tere  il  dato  che  sia Milano a detenere il primato di apertura complessiva ai nuovi mercati di  questa  strategica  area  di prossimità,  seguita  da  Bolo-gna, Padova, Firenze, mentre grandi realtà meridionali quali Napoli, Palermo o Bari siano relegate  oltre  le  prime  dieci posizioni. 

Si potrebbe purtroppo con-tinuare con tanti altri esempi, graduatorie,  classifiche:  dalla qualità  della  vita  alla  qualità dell’offerta  di  ser-vizi  pubblici,  dalla gap  infrastrutturale ai  livelli  di  inoccu-pazione,  particolar-mente  gravi  per  la condizione giovanile e femminile.

Tra  le  tante  di-seconomie  che  si addensano sul Mez-zogiorno,  alcune hanno  radici  pro-fonde,  e  richiede-rebbero una visione di sistema che tenga insieme  le  diverse azioni  che  pure  si dovranno mettere in campo: 

•  dalla  semplif i-cazione  del la macchina ammi-nistrativa, 

•  all’utilizzo  intel-ligente della leva fiscale per tenta-re  di  irrobustire un  tessuto  pro-duttivo  gracile e  troppo  spesso assist ito  attra-verso  improprie intermediazioni politiche, 

•  dall’azione  di  contrasto alla  criminalità  organiz-zata, 

•  alla capacità di realizzare un sistema infrastrutturale e  logistico sovraregionale degno di questo nome, 

•  dalla valorizzazione della formazione  d’eccellenza e delle  tante buone pra-tiche che pure esistono 

•  alla  riqualificazione  delle diffuse e spesso devastate periferie urbane, passando per  politiche  finalmente 

virtuose  di  salvaguardia ambientale  e  sviluppo sostenibile.

Su  tutti  questi  aspetti, cercando  di  valorizzare  le tante  specifiche  competenze e  i diversi approcci politici e culturali ai temi in oggetto, ab-biamo svolto le conversazioni riportate  in  questo  numero della rivista. La competizione elettorale è un evento impor-tante, dal quale dipende il fu-turo prossimo del paese e nel 

quale sono coinvolti milioni di cittadini, chiamati ad esprime-re il loro voto ed a giudicare i diversi programmi.

Non sarebbe stato giusto che Mezzogiorno  Europa,  si chiamasse  fuori  da  questo evento. Perciò ci stiamo, con le nostre idee, con spirito di servizio  nei  confronti  degli elettori,  e  con  rispetto  pro-fondo per tutti i partecipanti alla  nostra  conversazione, che  ringraziamo  per  la  loro cortese disponibilità. 

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�Geremicca. Grazie per la

tua disponibilità nei confron-ti di Mezzogiorno  Europa. Con te vorremmo parlare del Mezzogiorno, perché abbiamo l’impressione che in generale questo tema sia trattato in maniera un po’ di-stratta, anche nella campagna elettorale in corso, e nei limiti delle nostre forze, vorremmo contrastare questa tendenza. Innanzitutto: qualche accenno sui tratti salienti del problema del Mezzogiorno oggi, su quello che resta della storica questione, e sui nuovi caratteri del divario Nord Sud. Inoltre, vorrei domandarti: esiste a tuo avviso un rapporto tra questio-ne meridionale e crisi setten-trionale, definita da qualcuno “questione settentrionale”, termine verso il quale noi abbiamo delle riserve?

D’Alema. Grazie a voi dell’opportunità che mi offrite di tornare a discutere assieme di Mezzogiorno, sia perché conosco ed apprezzo il vostro lavoro come Centro culturale e come rivista, sia perché ritengo che effettivamente in questa campagna elettorale sul tema del Mezzogiorno si registri un oscuramento. Il rischio, infatti, è che la crisi del nord, a mio avviso impropriamente presentata come “questione”, occupi completamente la scena politica. La mia preoc-cupazione è che si vada ad un Parlamento con un equilibrio fortemente spostato a nord, sia dal punto di vista dell’agenda politica, sia dal punto di vista del suo peso e della sua stessa composizione. Pochi hanno riflettuto sulla circostanza che, con il premio di maggioranza

previsto dall’attuale sistema elettorale, vi sia un partito del nord che potrebbe diventare per la prima volta una com-ponente determinante della maggioranza di governo, col pericolo di spostare notevol-mente l’asse dell’interesse del Parlamento nazionale. Un’altra cosa che mi colpisce è il tipo di raffigurazione che c’è del Mezzogiorno nel centrode-stra. Ho letto nei giorni scorsi di una polemica tra la Lega Nord e l’onorevole Lombardo, il quale rappresenta un certo “sicilianismo” che poco ha a che fare con la tradizione meridionalista. La cosa interes-sante di questa polemica era il convergere di Roberto Cal-deroli e di Raffaele Lombardo nel prendersela con Giuseppe Garibaldi. La cosa riveste un certo interesse, al di là dell’ap-prossimazione culturale, nel senso che sia l’uno che l’altro mettevano in sostanza sotto accusa il processo di unità nazionale e l’Italia come stato nazionale. I leghisti dicevano

che con l’occupazione del Mezzogiorno il nord si era caricato di una palla al piede; mentre il neoseparatista soste-neva che il sud era stato occu-pato e colonizzato dal nord, riprendendo con ciò temi cari ad un certo filone culturale meridionale neoborbonico. Devo dire che questo mi ha molto colpito, perché credo che la questione meridionale possa essere inquadrata solo nel tema più complessivo dell’unità nazionale del Paese. Quando si mette in discussione l’unità nazionale, e si considera il formarsi di una maggioranza di governo come un aggrega-to di rappresentanze di tipo regionalistico e localistico, ‘as-semblate’ in una sommatoria di interessi particolari, allora la questione meridionale non esi-ste più. Esiste solo un mercato delle decisioni politiche, dove i diversi clan si presentano per cercare di avere la loro fetta di torta. In uno schema così, il Mezzogiorno è liquidato. Solo ragionando sul destino di

tutta l’Italia, la questione meri-dionale può tornare ad essere un tema centrale. Se questo approccio scompare e ci ar-rendiamo invece all’idea che l’Italia sia una pura espressione geografica e che il governo del nostro Paese consista esclusi-vamente nel tenere assieme una somma di interessi partico-laristici, avremo perso la sfida. L’idea leghista del federalismo è proprio questa, una specie di supermarket in cui ci si mette d’accordo sulla spartizione delle risorse del Paese in base al rapporto di forza che si stabilisce. In questo senso, è significativa la gestione del problema Alitalia, che, per loro, è sempre stato solo il problema di Malpensa. Il fatto che venga meno la compa-gnia nazionale e che non si sappia bene chi collega Bari o Palermo all’Europa a loro non importa un bel niente. Io credo che la loro visione – la voglio nobilitare – nasca da una cattiva lettura della globa-lizzazione. A un certo punto, ha preso piede l’idea che con la globalizzazione scompare la questione nazionale. Dunque, si è diffusa la sottocultura del cosiddetto “glocal”, cioè la tesi che esiste il mondo globale e che poi esistono i sistemi locali, i quali si collocano autonomamente nella globa-lizzazione. E c’è stata tutta una letteratura, anche colta, beninteso, sulla crisi dello Stato nazionale… Ecco, ritengo che questo filone culturale abbia fornito un’immagine sbagliata della globalizzazione. Lo dico non solo come persona che legge e che si tiene informa-ta, ma come testimone, in quanto ministro degli Esteri,

Conversazione con il Vice presidentedel Consiglio massimo d’alema

SE RINNEGHI L’UNITÀ

NAZIONALEcANcELLI

IL MEZZOGIORNO Andrea Geremicca

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di un fatto reale: lo Stato na-zionale rimane, tuttora, un nodo fondamentale nella rete delle relazioni globali. E l’idea della competitività territoriale è sempre mediata attraverso lo Stato. La sfida della compe-tizione globale passa, quindi, attraverso la sfida politica degli Stati nazionali. L’idea che i territori possano compe-tere prescindendo dalla forza politica degli Stati, è un’idea sbagliata, perdente.

Geremicca. In questo ra-gionamento le cose si legano. Senza una visione nazionale d’insieme la questione me-ridionale non esiste, ma allo stesso modo non si può discu-tere dei problemi dell’Europa e dell’Unione europea se si ne-gano o si mettono tra parentesi le singole realtà nazionali.

D’Alema. Certamente. E lasciami dire, a proposito del-l’Europa e di una visione tradi-zionalmente italiana di un’Eu-ropa federale, che in realtà il processo di rilancio dell’unità europea è avvenuto sulla base di un accordo intergovernati-vo. Piaccia o non piaccia, la dimensione interstatuale ha as-sunto un peso forte. Il rilancio dell’unità europea si è avuto sulla base di un accordo tra i grandi Paesi europei, dentro una logica in cui l’equilibrio tra istituzioni comunitarie e istituzioni intergovernative è apparso abbastanza orientato a favore di queste ultime. Ho fatto questa premessa perché sono convinto che il tema vero della campagna elettorale sia se avremo o no un Governo che punti a ricostruire l’unità del Paese. E questo vale sia

nel rapporto tra le forze e gli interessi sociali, che nel rap-porto tra i territori. Partendo dalla constatazione che le disuguaglianze in questo Paese si sono fortemente accentuate. Pensiamo al Mezzogiorno. La questione non è se “permane ancora lo squilibrio”. La verità è che lo squilibrio si è forte-mente accentuato, è cambiata la morfologia del Paese. Noi eravamo un Paese in cui il peso delle classi medie era de-terminante, come una squadra di calcio che era molto forte a centrocampo. Nel corso degli ultimi 15 anni, viceversa, ci siamo ‘allungati’ in maniera abnorme, e la distanza tra ricchi e poveri è diventata una distanza grande, una separa-zione profonda nella struttura dei consumi, nei gusti, nell’an-tropologia. Elementi che prima non c’erano, perché, anzi, la forza del Paese stava nella sua relativa coesione sociale. Invece, negli ultimi 15 anni, abbiamo avuto una crescita dei redditi da lavoro dello 0,9%, mentre quella degli altri redditi è stata del 13%. E non c’è dubbio che in questo processo, in cui i ricchi sono diventati più ricchi, il nord si è ulteriormente allontanato dal sud. Il fatto che la famiglia monoreddito meridionale co-stituisca la categoria dei nuovi poveri è assolutamente indica-tivo. Da questo punto di vista, il vero grande tema, di cui non si discute e che costituisce il segno complessivo dell’imma-turità della classe dirigente del Paese, è se ci sia una politica che punti a ricostruire l’unità e la coesione tra gli italiani, e che consideri questa coe-sione come la condizione

della ripresa della crescita. Noi abbiamo il problema di dover tornare a produrre ricchezza. Se negli ultimi 15 anni noi fos-simo cresciuti al tasso medio europeo, oggi avremmo un PIL superiore di 225 miliardi di euro. È in questa ottica che va vista la questione del Mezzogiorno. Rilanciare la crescita su vasta scala non vuol dire migliorare soltanto la competitività del nord: i tre principali filoni – riduzione della pressione fiscale, infra-strutturazione, miglioramento dell’efficienza della P.A – sono un’esigenza del nord, ma lo sono anche per il Mezzogior-no. E sia chiaro: quand’anche si concentrassero le risorse del Paese nelle tre direzioni che ho detto prima, riservandole solo alla Lombardia e al Ve-neto, questo non risolverebbe il problema della crescita italiana. Si potrebbe forse ot-tenere un miglioramento della competitività di quel sistema produttivo, ma non un balzo nella crescita complessiva del Paese. Un dato indicativo del nuovo divario sta nel fatto che nel centro-nord il 57% delle donne in età lavorativa è effettivamente impiegata, mentre nel Mezzogiorno è poco più del 30%. Questo, se-condo me, è il dato più dram-matico, perché è indicativo dell’arretratezza della società meridionale, della mancanza di un welfare moderno, della struttura ancora in parte arcai-ca della società meridionale. Ed è uno dei grandi problemi del nostro Paese: mobilitare la forza di lavoro del Mez-zogiorno, in parte oramai scolarizzata, e in particolare il mondo femminile. Consi-

derando il tema della crescita italiana in termini quantitativi, possiamo tornare a crescere ad una media europea soltanto se abbiamo un tasso di crescita del Mezzogiorno pari al dop-pio di quello del nord. E se la crescita è l’obiettivo dell’Italia, il Mezzogiorno acquista un peso fondamentale per evitare il declassamento. Per restare, ad esempio, nel G8 come una squadra di serie “A” che voglia evitare la retrocessione.

Geremicca. Insomma, alla domanda se il Mezzogiorno possa e debba essere una ri-sorsa per lo sviluppo generale del Paese, la tua risposta è molto netta: o il Mezzogiorno è questo, o non c’è crescita per il Paese.

D’Alema. Certamente. Siccome la principale risor-sa del Paese è il lavoro, se vuoi crescere devi far lavorare più persone ed elevare la produttività del lavoro. Se il problema è questo, allora non c’è il minimo dubbio che il Mezzogiorno è il problema dell’Italia. Le possibilità di crescita del centro-nord sono obiettivamente limitate. Tutti i dati macroeconomici ci dicono che è necessario un processo di mobilitazione e coinvolgi-mento della forza lavoro del Mezzogiorno. E insisto: deve riguardare particolarmente le donne, perché si tratta di un obiettivo che non si risolve con gli incentivi alle imprese, ma con la innovazione com-plessiva della società ed un nuovo welfare.

Geremicca. Vorrei torna-re sul tema dell’Europa. La

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questione del rapporto tra il Mezzogiorno e l’Europa viene affrontata quasi sempre dal punto di vista dei Fondi strut-turali e del loro uso corretto, tale da avere effetti concreti di crescita, occupazione, svilup-po, e così via. Ma il rapporto Mezzogiorno – Europa non è solo una questione di Fondi. Sei d’accordo?

D’Alema. Bada che il pro-blema dei Fondi è molto importante, perché chiama in causa direttamente la credibi-lità e la capacità della classe dirigente meridionale. L’effica-

cia della spesa complessiva, in termini di crescita econo-mica, di accrescimento del capitale sociale, è un fattore determinante. La dispersione di risorse, denunciata e docu-mentata da più parti, chiama in causa il sistema di governo, da quello centrale a quello delle Regioni. Anzi, c’è una centralità delle Regioni nella programmazione dell’uso di queste risorse, che va accom-pagnata da una responsabilità nazionale. Secondo me, le Regioni dovrebbero concor-dare le grandi scelte ad un tavolo con il governo. Non

è possibile che una Regione punti sui trasporti, un’altra su un’altra questione, e un’altra su un’altra ancora. Le grandi scelte devono collocarsi den-tro un quadro di programma-zione nazionale. Negli ultimi anni, abbiamo dovuto subire una grande e confusa sbornia federalista, mentre il vero pro-blema italiano è quello della fragilità dello Stato nazionale, che trova espressione nella fragilità dei governi e nella debolezza delle istituzioni centrali. Così, abbiamo contri-buito a disarticolare il Paese. Le Regioni sono soggetti es-

senziali, ma da sole e in ordine sparso non vanno lontano. Ora abbiamo un altro ciclo di risorse europee. Poi non ne avremo più. Quindi, dobbia-mo utilizzarlo per risolvere le grandi questioni attraverso un accordo tra tutte le regioni del Mezzogiorno. Questo metodo, per la verità, si è già avviato, anche se con un coordinamento molto blando, mentre i Paesi che meglio han-no utilizzato i Fondi europei sono quelli che più hanno sa-puto concentrare i programmi e gli sforzi. Questo per quanto riguarda l’uso dei Fondi. Poi c’è, naturalmente, un grande problema di natura geopoli-tica, al quale tu accennavi, e cioè che l’Europa si è dedicata per 15 anni essenzialmente a nord est, sia pure per ragioni assolutamente comprensi-bili, perché la grande sfida dell’Europa, dopo la Guerra fredda, era quella di riunire i Paesi al di là della Cortina di ferro. Ebbene, ora dovremmo riuscire ad ottenere che l’Euro-pa si occupi del Mediterraneo. La grande sfida non è quella di fare alla Sarkozy, e cioè l’unione dei vari mediterranei, bensì di spostare l’asse della politica dell’Unione europea verso il Mediterraneo. È que-sto, infatti, il luogo dove si gioca la sfida più grande. Nel Mediterraneo si concentrano i pericoli maggiori per la si-curezza mondiale, ma anche le grandi opportunità, sia per i traffici lungo l’asse nord-sud, sia per le merci che, attraverso il canale di Suez, arrivano dall’Asia. Questo comporta che la maggior parte degli investimenti dovrebbe in-dirizzarsi alla logistica, per

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fare dell’Italia una sorta di pontile dell’Europa, come si dice da tempo e come è nella nostra vocazione culturale e politica.

Geremicca. Ho notato che in numerose occasioni, incontri, iniziative, articoli, ec-cetera, stai rispondendo con fermezza alla critica rivolta alle forze politiche in questa campagna elettorale, di non trattare a sufficienza il tema della sicurezza e della legalità, con particolare riguardo alla lotta alla criminalità organiz-zata.

D’Alema. Ho preso di petto il problema, anche fi-sicamente. Voglio dire che sono stato a Scampìa, a Torre Annunziata, ho incontrato di persona i magistrati che si oc-cupano di lotta alla camorra. La presenza e la testimonian-za fisica hanno una grande importanza etica e politica,

nonostante l’attuale pessima legge elettorale abbia in parte smorzato questo aspetto, non lasciando ai cittadini la pos-sibilità di scegliere da chi vo-gliono essere rappresentati in Parlamento. Detto ciò, voglio anche sottolineare che negli ultimi mesi ci sono stati arresti eccellenti, che il numero degli omicidi è sceso in un anno del 40%, che abbiamo rafforzato il presidio dei territori. Credo che Saviano abbia avuto un grande merito nel restituire una straordinaria centralità al tema della sicurezza e del-la legalità, ma credo anche che il governo abbia dato risposte adeguate, mettendo a disposizione risorse e inco-raggiando le forze dell’ordine. E qualche risultato lo abbiamo ottenuto.

Vorrei concludere la nostra conversazione ag-

giungendo che, una volta individuati quelli che sono i problemi del Mezzogiorno, noi dovremmo anche saper presentare al mondo le nostre opportunità. Io mi sono addi-rittura commosso, in questa campagna elettorale, perché ho visitato tra la Puglia e la Campania alcune aziende aeronautiche. Tra queste due Regioni c’è un polo di eccel-lenza dell’industria aeronau-tica mondiale. Qui noi produ-ciamo il 14% del Boeing 787, un aereo tecnologicamente all’avanguardia. E lo facciamo adoperando tecnologie in parte prodotte da noi. Quello che mi ha commosso è che in queste fabbriche ci sono ingegneri di 26 anni, o periti ventenni, tutti provenienti da Napoli, Bari, Lecce. E che, a detta degli stessi america-ni, sono più bravi di quelli

che lavorano a Charleston.

S a r e b -

b e u n a buona co-

s a s e o g n i tanto i giornali

riportassero an-che queste notizie.

Quando racconto tutto ciò, la gente pensa che

sia propaganda. Invece, noi abbiamo sul serio importanti punti di forza. Abbiamo ri-sorse, competenze, capacità. Abbiamo giovani eccezionali. Perfino le nostre tanto vitupe-rate università non sono poi così disgraziate, come spesso si lascia credere.

Magar i i nos t r i g io -vani laureati hanno meno informazio-ni dei loro c o l l e g h i americani,

ma hanno una cultura di

base più forte, perché – lasciami

dire una cosa rea-zionaria – avendo

studiato un po’ di greco e di latino, han-

no basi più solide di chi ha imparato solo nozioni.

Hanno una straordinaria capacità di continuare ad imparare, perché hanno una mente più elastica. E il vero problema della formazione moderna non è quello di sapere tutto della tecnologia corrente, ma di essere in gra-do di imparare rapidamente la tecnologia nuova, che cambia ad una velocità impressionan-te. Per questo è fondamentale avere una buona cultura di base, e in questo, il nostro sistema scolastico è ancora competitivo. Anche nel Mez-zogiorno.

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Quali sono a suo avviso i tratti salienti della problematica del Mezzogiorno oggi?cosa rimane della storica ‘questione’ e quali sono i nuovi ca‑ratteri del divario Nord‑Sud? Esiste un rapporto tra questio‑ne meridionale e la cosiddetta questione settentrionale?

Fausto BertinottiE v i T E r E i D i PArlAre di questione set-tentrionale. Nel nord dell’Italia

esistono molte-plici ragioni di ma-

lessere e anche di vera e propria sofferenza, ma esse attengono a problemi di carattere generale, che riguardano il nostro paese nel suo complesso e hanno molto a che vedere con le dinamiche più nega-tive della globalizzazione. Mi rife-risco, in particolare, alla condizio-ne del lavoro, reso oggi precario e insicuro anche nei luoghi storici di un sistema industriale che è stato attraversato, nel corso degli ultimi decenni, da processi giganteschi di esternalizzazione, riconversione e delocalizzazione. Il lavoro degli operai, dei tecnici e degli impiega-ti è meno garantito di quindici o vent’anni fa: non si sa fino a quan-do si andrà avanti, peggiorano le

condizioni di tutela della salute e i livelli di sicurezza, non si riesce ad arrivare alla fine del mese. Sono le questioni del lavoro e del salario quelle che attraversano dramma-ticamente il nord. Lo ripeto: non in quanto nord, ma in quanto ter-ritorio principale dell’economia italiana.

Così come si riversano con particolare enfasi sul nord anche i processi di omologazione indotti dall’attuale economia globalizzata. Le specificità dei territori, le vo-cazioni produttive tradizionali, il patrimonio di tradizioni e cultura delle diverse comunità, le stesse linee del paesaggio: tutto viene fagocitato in un indistinto mercato generale che rende tutto uniforme e tutto piega entro l’ambito angusto del valore delle merci. Di qui lo spaesamento culturale, le memorie che sembrano vacillare. Di qui anche i cortocircuiti politici, con le pulsioni identitarie, declinate

dalla Lega in chiave razzista, e le spinte reazionarie che accolgono il mercato e chiudono alle persone, declinate dall’insieme della destra con particolare virulenza anche in questa campagna elettorale.

Queste problematiche che ci consegna il nord vivono anche al sud. Con l’aggravante che qui esse si intrecciano con una specifica e corposa “questione meridionale”, una questione che narra ancora di vecchie arretratezze e di insufficien-ze storiche nello sviluppo econo-mico e sociale, ma che si presenta soprattutto in forme nuove, con caratteristiche pienamente interne all’attuale ciclo del capitalismo. Il punto decisivo risiede nel modo stesso di funzionamento dell’eco-nomia contemporanea, che tende ad essere compiutamente duale anche nei paesi avanzati, con la creazione di aree forti (segnate comunque da una rigida compres-sione del lavoro), e il parallelo de-

terminarsi di aree deboli, destinate al declino o addirittura al degrado e alla marcescenza sociale. L’affanno del Sud si spiega oggi anzitutto con il modello sociale costruito dalla globalizzazione liberista. Viene incessantemente riprodotta, a scala planetaria, una società atomizzata, con poca capacità di interazione sul piano delle culture e delle dinamiche collettive, unificata esclusivamente dalle regole del mercato. Ciò si traduce nel nostro Sud in un moltiplicarsi abnorme della disgregazione economica e sociale, proprio perché la spinta generale alla frammentazione trova un terreno già fertile, preparato da una storia antica di squilibri e disarmonie. Il Sud che frana, che si piega sotto il peso della criminalità organizzata, dei disastri ambientali e della precarietà assoluta dell’esi-stenza, è un’immagine chiarissima della moderna barbarie dei nostri tempi.

Idee e programmi per il MezzogiornoLe domande e le risposte

Interviste con

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10 Interviste con

il problEmA del Mezzogior-no è ancora un divario di svi-luppo, che per

essere risolto deve essere affron-

tato come tale. Tuttavia, la logica con la quale abbiamo agito nel passato anche recente è almeno in parte inadeguata. Ci stiamo rendendo conto con sempre mag-giore chiarezza che il primo diva-rio è un divario di legalità. Senza una battaglia a tutto campo per affermare il primato della legge anche nelle regioni meridionali il Sud non farà mai veramente parte dell’Europa. Quello che è accadu-to in Campania in questi mesi – e i disastrosi effetti sul turismo – è la dimostrazione che qualsiasi svi-luppo è compromesso se non si assicurano innanzitutto le condi-zioni di legalità e di efficienza della pubblica amministrazione. Non dico con questo che gli inter-venti specifici per migliorare le

condizioni delle imprese e del lavoro nel Sud non siano utili: le politiche di riduzione del cuneo fiscale, maggiorate per le lavora-trici del Sud, vanno bene, ma avranno un reale successo se ac-compagnate da un vero “cambio di passo” nella lotta non solo alla criminalità organizzata, ma a tutte le forme di illegalità e di clienteli-smo. È un’utopia? Così poteva sembrare, fino a qualche mese fa. Ma la reazione degli imprenditori siciliani che si rifiutano di soggia-cere alle estorsioni della mafia, è un grande segno di cambiamento, che va incoraggiato in tutti i modi.

Il discorso della legalità e del-l’efficienza della macchina pubbli-ca lega la questione meridionale a quella settentrionale. Anche nel Nord ci sono carenze infrastruttu-rali, ma c’è soprattutto una grande irritazione per il cattivo uso dei fondi, per l’inefficienza della buro-crazia, per il distacco nei confronti di una classe dirigente pubblica

che non sa interpretare le esigenze poste dalla globalizzazione e la-scia tutto il carico delle incertezze a lavoratori e imprenditori: senza ammortizzatori sociali adeguati, con meccanismi giudiziari disa-strosi, senza la capacità di una politica per il “Sistema Paese”. Dalla mia esperienza di ministro per il Commercio internazionale, posso dire che quando il mondo produttivo è sollecitato e avverte che si cerca davvero di aiutarne le azioni di internazionalizzazione, le risposte arrivano, le sinergie si creano. E i risultati si vedono. D’altra parte non credo che il Nord possa salvarsi senza il Sud e viceversa. Intendo dire che la macchina dello Stato deve fun-zionare adeguatamente in tutto il Paese, altrimenti l’illusione di migliorarne l’efficienza soltanto al Nord rimarrà appunto un’illu-sione. Non dimentichiamo, poi, che il Sud si apre ora a nuove opportunità che interessano for-temente il Nord. Forse il mercato

meridionale è meno importante, per le imprese settentrionali, di qualche anno fa, nell’ottica della globalizzazione. Ma il Sud è una piattaforma importante verso i nuovi paesi del continente africa-no. Abbiamo fatto questo discorso per anni, sempre più stancamente, perché non si vedevano risultati concreti. Adesso però l’Africa si sta svegliando: gli Stati – e sono molti – del Continente che non sono devastati da guerre e corruzione fanno registrare tassi di sviluppo significativi. Se ne sono accorti i cinesi e gli indiani, che stanno investendo massic-ciamente in Africa; l’Europa non può rimanere indietro. Quanto dello sviluppo del Friuli – Venezia Giulia, che fino a qualche anno fa sembrava una regione marginale, di frontiera, si deve oggi al ruolo di “ponte” verso i Balcani e gli ex Paesi sovietici? Allo stesso modo, il Sud, anche nell’interesse del Nord, ha grandi potenzialità di interazione con la nuova Africa.

Emma Bonino

minor prodotto pro-capite, fragi-lità delle struttu-re produttive, carenza ende-

mica di infrastrut-ture, malavita orga-

nizzata: questi i caratteri fonda-

mentali del ritardo di sviluppo che frenano il nostro Mezzogiorno. Una diagnosi questa certamente non nuova e che, senza fare l’en-nesima ricostruzione storica della questione meridionale, viene da lontano. Per troppo tempo si è, infatti, concentrata genericamente

l’attenzione sulla disoccupazione meridionale, sui suoi livelli e sulle sue dinamiche, senza mettere in relazione questo pur grave feno-meno con la qualità dell’occupa-zione e con il tipo di regole del vivere associato prevalenti nella società meridionale.

Al Nord come al Sud del paese non mancano risorse territoriali, am-bientali, artistiche e umane. Ciò che manca al Nord, ma in maniera anco-ra più marcata al Sud, è la capacità di valorizzare mediante l’efficienza dei servizi di base il funzionamento del network logistico-produttivo.

Renato Brunetta

A DisTAnzA di quasi un secolo e mezzo dal-l’Unità d’Italia, la quest ione

meridionale non

è stata risolta. Il divario del PIL pro-capite tra Nord e Sud resta vasto e il tasso di disoccupazio-ne meridionale è ancora un multiplo di quello settentrionale, senza contare i picchi di pover-

tà che si registrano nel Mezzo-giorno.

Tut tavia, l’economia del Mezzogiorno ha sperimentato in questi anni un progresso di grande rilievo. Ecco perché la

questione meridionale, oggi, si pone in modo diverso da come si poneva alla fine della seconda guerra mondiale. E le risposte dovranno essere necessariamen-te diverse da quelle che hanno

Pier Ferdinando casini

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Linda Lanzillottanon EsisTE un “caso mezzo-giorno” separa-bile dal “caso Italia”. L’eredità

storica della que-stione meridionale

c’è, ma assume oggi caratteri di-versi da quelli del secolo scorso, inquadrabili nel più generale pro-blema dello sviluppo italiano i cui squilibri territoriali non sono più leggibili solo nei termini della di-cotomia Nord/Sud. Non voglio con quest’affermazione negare l’esi-stenza di squilibri strutturali, evi-denziati da indicatori di base: il reddito pro-capite, che nelle regio-ni del Mezzogiorno è inferiore del 33% a quello medio nazionale; il tasso di occupazione, che è di dodici punti sotto la media nazio-nale e di venti punti inferiore a quello del Nord; la crescita econo-

mica, che da tre anni nel Sud è sistematicamente inferiore a quella del resto del Paese. Ma non esiste un solo Mezzogiorno e non esiste un solo Nord. Nel Sud ci sono cluster tecnologici importanti (Ca-tania con la cosiddetta Etna Valley, Napoli con il distretto dei materia-li polimerici) gli stessi indicatori prima citati assumono livelli molto diversi da regione a regione; né la tendenza generale è stata sempre negativa: negli anni ’90 il tasso di crescita del mezzogiorno è stato più sostenuto di quello del Nord, e anche negli anni successivi il Sud ha partecipato al generale aumen-to dell’occupazione connesso ai mutamenti del mercato del lavoro. Allo stesso tempo, non ha più senso parlare di un solo settentrio-ne: Nord Ovest e Nord Est sono due realtà di sistema tra loro assai diverse, che hanno reagito in modo

differente alle alterne fasi dell’eco-nomia mondiale. In una fase ab-biamo visto prevalere il modello produttivo dinamico e molecolare del Nord Est, in un’altra c’è stato il recupero delle grandi imprese del vecchio triangolo industriale.

Non solo: tutti i territori sono attraversati dalla dicotomia tra grande città e piccoli comuni, e il vitalismo dei sistemi economici urbani non è una prerogativa di una sola area geografica – pur avendo mostrato il suo maggior effetto nell’area metropolitana di Roma. Dunque, a mio avviso è più utile parlare di diverse que-stioni italiane, caratterizzate dalle differenti risposte dei territori al grande sommovimento mondiale portato dalla globalizzazione, ma accomunate da un fenomeno: la bassa produttività del sistema, che è un problema di tutti, con accenti

più o meno gravi. Bassa produtti-vità che è effetto del nostro gap nel nuovo fattore di produzione, l’economia della conoscenza. A questo proposito, prima ancora che gli indicatori dell’information technology – che sono diffusi a macchia di leopardo nel Paese, non seguendo la linea Nord/Sud –, prenderei in considerazione gli indicatori basilari dell’istruzione, della scuola, della formazione: dalla presenza degli asili nido alla dispersione scolastica alle com-petenze in matematica, lettura e scienze degli studenti. Qui sì che i dati sono drammatici, e vedono il Sud lontano dalle medie Ocse, e lontanissimo anche dal nostro Nord-Est. In questo contesto, è chiaro che una politica di svolta sulla scuola e l’istruzione diventa innanzitutto una politica per il Mezzogiorno.

caratterizzato le politiche per il Mezzogiorno messe in atto in passato.

I problemi non sono cambiati, ma bisogna porli in termini attuali, bisogna superare antichi pregiudi-zi e vecchi schemi interpretativi

e utilizzare nuovi strumenti di analisi e d’intervento più adatti ad incentivare lo sviluppo socio-economico, a promuovere le ricchezze ambientali (agricole e paesaggistiche) di cui il meridione è ricco, a favorire la capacità e la

volontà di produzione autonoma di beni e di servizi. Noi vogliamo difendere il Mezzogiorno d’Italia. Difenderlo da chi ha sempre ri-vendicato per il settentrione una peculiarità e una superiorità su un meridione parassitario, arretrato e

indolente. È per questo che non possiamo lasciare in mano alla Lega il destino del nostro Paese: se vince il Pdl la ‘golden share’ della vittoria sarà in mano alla Lega e per il Mezzogiorno sarebbe un segnale d’allarme molto serio.

Enrico Lettal’ItAlIA rimAnE, nell’Europa a 27, l’unico Paese con uno svilup-po che tecnica-

mente è possibile classificare come

«duale», con due grandi macroa-ree che continuano a correre a velocità diversa. E questo nono-stante l’impegno in direzione di una maggiore convergenza eco-nomica messo in atto negli ultimi anni grazie anche all’azione di

stimolo esercitata dalla politica comunitaria di coesione. I motivi di tale «disallineamento» sono molteplici e non è questa la sede per analizzarli in chiave storica. Di certo, a criticità in qualche modo croniche o addirittura se-colari si sono accompagnate scelte poco lungimiranti, specie per quanto riguarda alcune prati-che amministrative di governo locale. Detto questo, ritengo che il principale freno alla crescita del Mezzogiorno sia ancora legato

alla sfida alla legalità, con tutto quello che ciò comporta in termi-ni di sicurezza dei cittadini, per-cezione della presenza dello Stato, attrazione degli investimen-ti, competitività delle imprese. Ne risente lo sviluppo del Sud tutto intero, che tra l’altro, dopo decen-ni di stasi, è tornato nuovamente a vivere il trauma dell’emigrazio-ne interna. Ce n’è abbastanza per tracciare i confini di una nuova, forse addirittura più complessa, «questione meridionale». Il Nord

se la passa chiaramente meglio, anche se – dati alla mano – l’espressione «questione setten-trionale» non mi sembra impro-pria, se con essa ci si riferisce alla mancata risoluzione di quelle problematiche che continuano a inficiare la performance comples-siva di un’area che sulla carta potrebbe essere tra le più compe-titive del mondo. Sto pensando alla scarsa mobilità, al nodo irri-solto delle infrastrutture, a comin-ciare dalla Tav, alle difficoltà in-

Interviste con

Page 12: Numero 2/2008

12 Interviste con

Enrico Morandol’iTAliA TuTTA – da molti an-ni – non cresce ad un ritmo adeguato. In

dieci anni, abbia-mo accumulato un-

dici punti di ritardo rispetto al-l’Unione Europea, che pure ha fa-ticato a tenere dietro al tumultuoso incedere dell’economia globale. La produttività del lavoro cresce poco, o non cresce affatto. La produttivi-tà totale dei fattori – il più significa-tivo indicatore della sostenibilità di lungo periodo della crescita – ad-

dirittura diminuisce, come è acca-duto nei primi anni Duemila. A ri-prova del carattere strutturale della nostra difficoltà, in presenza di una significativa ripresa dell’economia nell’area dell’Euro – quale si è avuta nel 2006 e nella prima parte del 2007 – il PIL italiano cresce al di sopra del potenziale.

La questione del ritardo di sviluppo del Sud va collocata in questo contesto: nel Sud, tutte le strozzature, le fonti di difficoltà strutturali presenti nel complesso del sistema economico-sociale, si presentano in forma più acuta.

Qualche esempio, per dare l’idea. Primo: la competitività del sistema è penalizzata dal deficit formativo della forza lavoro italiana. Ma l’in-dagine PISA dell’OCSE ci dice che il livello di conoscenze matemati-che e di capacità d’interpretazione di un testo dei quindicenni del Sud è molto più basso di quello medio dei quindicenni del centro-nord. Secondo: la partecipazione delle donne alle forze di lavoro è in Italia sotto la media europea, così da deprimere il nostro potenziale di sviluppo. Ma le donne del Sud partecipano alle forze di lavoro

secondo percentuali che stanno sotto la metà del livello medio del centro-nord. Terzo: l’intero Paese patisce di un deficit infrastrutturale gravissimo (se si eccettua l’Alta Capacità Ferroviaria, negli ultimi venti anni la crescita del capitale fisso è stata vicino allo zero). Ma persino l’Alta Capacità si ferma a Napoli. Potrei proseguire. Ma mi pare che basti per rispondere: io vedo un Paese che ha problemi di sistema, in larga misura unitari. E vedo un Sud dove ognuno di questi problemi ha drammatiche accentuazioni.

Luigi NicolaislA quEsTionE meridionale si presenta oggi in termini nuo-vi, con nuovi

elementi di rifles-sione, nuovi prota-

gonisti, nuovi campi di indagine e di potenziale azione politica. E tuttavia, i dati parlano chiaro: il Mezzogiorno rappresenta ancora

la macroregione in maggior ritar-do di sviluppo rispetto all’intera Unione Europea a 27 Stati. Esiste il grande tema relativo al persiste-re di economia duale nel Paese, tuttavia da declinare non più alla luce dei vecchi modelli imitativi di sviluppo, crescita e competiti-vità tra centro-nord e sud. Io credo che su infrastrutture e logi-stica, trasferimento tecnologico e

innovazione, capacità di attrarre capitali internazionali e riforme amministrative si gioca la partita sul futuro del Mezzogiorno. Esiste, certamente, anche una “questione settentrionale”, ma i due ambiti non vanno confusi. Entrambi hanno certamente bisogno di politiche liberalizzatrici, moder-nizzazioni della macchina pubbli-ca, qualità della spesa. Ma le di-

seconomie presenti nel Sud, e che credo debbano essere aggredite anche con alcune terapie forti, sono o peculiari di questi territo-ri – penso alla grande criminalità organizzata che soffoca il tessuto produttivo e il terziario –, o co-munque più gravi che nel resto del Paese, come quella relativa al gap infrastrutturale e alla qualità dei servizi pubblici locali.

[…]

contrate da molte piccole e medie imprese di fronte alle grandi sfide della globalizzazio-

ne e della rivoluzione tecnolo-gica. In questo quadro, pur nelle già richiamate differenze

tra le grandi macroaree del Paese, è evidente che esiste una più generale «questione Italia»,

sulla quale devono concentrar-si i nostri sforzi e le nostre analisi.

Page 13: Numero 2/2008

1�Interviste con

Quali scelte di politica economica occorrono per trasformareil Mezzogiorno da rischio e problema in risorsa e occasione?

poiché vorrEi rispondere in modo non su-per ficiale ad una domanda

così impegnativa, sono costretto a par-

tire, sia pure rapidamente, dalle caratteristiche di fondo del capi-talismo contemporaneo. Esso si caratterizza, anche qui in Italia, come realtà sociale generale, nel senso che l’attività di produzione viene sempre più ricompresa entro le più complessive struttu-re di riproduzione della vita materiale e la nostra epoca si caratterizza, molto più che in passato, per l’estrema combina-zione sociale del lavoro, per l’integrazione sinergica tra le diverse produzioni e le diverse modalità produttive, e, soprattut-to, per la connessione strettissima tra loro di tutte le relazioni e tutte le attività umane. Alla mo-bilitazione produttiva concorro-no non soltanto tutte le energie e le potenzialità comprese nel perimetro delle fabbriche e degli uffici, ma anche i sistemi com-plessi delle infrastrutture, della logistica, della distribuzione, della comunicazione, della for-mazione, dell’assistenza; analo-gamente, la cooperazione pro-duttiva non si racchiude nel solo

tempo di lavoro, ma deborda continuamente nei tempi di vita e nelle vicende specifiche delle singole persone. Questa nuova dimensione cooperativa della produzione determina una irre-versibile novità storica: la socie-tà, modellata dalle dinamiche economiche, condiziona a sua volta l’economia, ne descrive i limiti e le possibilità e dà ad essa prospettiva o declino.

Proprio perché è intervenuta, anche sul piano dell’economia, questa nuova assoluta centralità degli assetti sociali, io ritengo che nessuna ricetta esclusiva-mente economica possa af-frontare davvero una questione meridionale diventata oggi così complessa, e una realtà sociale così lacerata e lacerante, così piena di contraddizioni. Siamo nell’epoca in cui un reale ed armonico avanzamento econo-mico riesce solo se si colloca entro l’alveo di una società attraversata da relazioni positive al proprio interno, che costruisce e conserva elementi di civiltà finanche sul piano di più minuti legami interpersonali. L’analisi della realtà sociale, e a maggior ragione qualunque proposito di trasformazione dello stato di cose presenti, deve guardare con grande attenzione non soltanto ai

dati nudi e crudi dell’economia, ma anche alla qualità intrinseca del tessuto sociale, al segno che contraddistingue le relazioni interpersonali, al comune senso civico, al grado di autonomia intellettuale degli strati popolari, ai codici comportamentali, al formarsi dei processi di identità e di appartenenza. Occorre far pienamente interagire società ed economia, tanto sul piano del-l’indagine quando sul piano della proposta, proprio perché esse già interagiscono nella concreta realtà del nostro tempo. Nel Sud questo è ancora più vero.

Io, per esempio, giudicherei positivamente una ripresa della politica industriale nel nostro Mezzogiorno, guidata dallo Stato, e riterrei riduttiva una prospettiva che assegni alle regioni meridionali un ruolo di pura piattaforma logistica. Ma aggiungo subito che, poste così, nessuna delle due opzioni sarebbe risolutiva. Occorre una qualificazione sociale degli investimenti, una loro aperta finalizzazione in direzione del modello di società. Diventa stringente, insomma, il tema del “cosa” produrre, del “come” produrre, del “quanto” produrre. Si tratta di intervenire contempo-raneamente su tutti i punti del

vivere sociale, sugli spazi della produzione e del lavoro non meno che su quelli del vivere e delle relazioni interpersonali. E soprattutto di intervenire aven-do in testa, ancor prima che un modello di economia, proprio un modello di società.

È questo il nodo di fondo: la sfida del Sud si pone oggi esattamente sulla linea di con-fine dell’alternativa di sistema. Il ragionamento va fatto fin da subito oltre che dal versante dell’economia anche da quello della cultura e della politica. È proprio in questo Sud disarmo-nico, che ha pienamente senso proporre le acquisizioni sulle quali il movimento dei movi-menti ha insistito negli ultimi anni, dai processi di de-crescita alla critica del consumismo, dalla difesa dei beni comuni all’aper-tura comunicativa. È proprio in questo Sud difficile, che vede le concentrazioni urbane caotiche e invivibili e al tempo stesso la dorsale appenninica in fase di progressivo spopolamento, che ha senso proporre il ciclo breve di produzione e consu-mo, oppure l’energia pulita, o anche il recupero ambientale come riqualificazione non solo dell’economia ma dell’intero vivere sociale.[…]

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1� Interviste con

sul piAno PIù s t r e t t amente e c o n o mic o , dobbiamo in-quadrare la si-

t ua z ione d e l Mezzogiorno nel

contesto nazionale e internazio-nale. Nell’ultimo quindicennio l’Europa ha registrato un tasso di crescita inferiore a quello degli Stati Uniti. Il divario è riconduci-bile a problemi di crescita e di competitività, derivanti da una inferiore capacità innovativa del sistema produttivo e da un mino-re grado di concorrenzialità dei mercati. Il rallentamento in Italia si manifesta però con maggiore forza anche nei confronti degli altri paesi europei.

La frenata dell’economia italiana è stata determinata so-prattutto dal cumularsi nel tempo degli effetti di irrisolti problemi di carattere strutturale che, seppure parzialmente comuni al resto dei Paesi europei, appaiono in Italia più gravi. Il livello di competitivi-tà globale del sistema produttivo ha risentito del minore grado di innovazione tecnologica, di concorrenza e di efficienza dei servizi pubblici.

La sopravvenuta imprati-cabilità dello strumento della svalutazione monetaria per sostenere le espor tazioni e l’accentuarsi della concorrenza internazionale ha reso tali dif-ficoltà strutturali più evidenti. Inoltre, la necessità di risanare i conti pubblici ha limitato nell’ultimo quindicennio l’azio-ne di ammodernamento del paese, soprattutto in termini di investimenti in infrastrutture, in particolare nel Mezzogiorno.

Le questioni strutturali ap-paiono, quindi, tra le principali determinanti di questa fase di stagnazione. I fattori di freno allo sviluppo, non sufficientemente

contrastati dall’azione di policy e dalle riforme che pure sono state avviate in diversi campi a partire dai primi anni ’90, sono sinteticamente riconducibili a:

• il livello insufficiente del capitale umano, con riflessi negativi sull’ampliamento e sulla riqualificazione del mercato del lavoro.

• la scarsa innovazione im-prenditoriale nei processi, con particolare riguardo all’esiguità della spesa in ricerca e all’utilizzo delle nuove tecnologie.

• l’inadeguatezza dei servizi di pubblica utilità, che risente della natura protet ta del settore terziario.

• l’inefficienza del mercato dei capitali, che ostacola l’aumento della dimensione aziendale.

Tali fattori sono presenti in misura più marcata nel Mez-zogiorno. La distribuzione re-gionale del valore aggiunto, concentrata per il 40 per cento in quattro regioni del Nord, conferma il ridotto apporto del-le regioni meridionali che, nel complesso, contribuiscono per il 24 per cento del valore aggiunto nazionale, pur mostrando che in queste aree vi è un elevato potenziale di crescita: la quota del valore aggiunto risulta infatti molto inferiore a quella derivante dalla distribuzione regionale della popolazione (36 per cento circa).

Nel Mezzogiorno il divario di sviluppo si manifesta nel divario di produttività. Gli ultimi dati sul valore aggiunto per unità di lavoro resi disponibili dall’ISTAT mostrano nel Mezzogiorno una differenza rispetto alla media italiana di oltre venti punti per-centuali (22,61%) per l’industria

manifatturiera nel 2005 e di oltre dieci punti (12,04%) per i servizi. La differenza tra Nord e Mez-zogiorno è quasi del trenta per cento per l’industria e del sedici per cento per i servizi.

Il quadro sinora delineato evidenzia, in un contesto na-zionale di crescita modesta, la permanenza di differenze fra le due grandi aree del Paese, Mezzogiorno e Centro-Nord, segnalando la persistenza del forte dualismo territoriale.

Di fronte a questi problemi, quando la presenza di ostacoli strutturali rischia di rallentare lo sviluppo delle aree meno com-petitive, il ruolo delle istituzioni e della politica economica deve essere attivo e porsi come prin-cipali obiettivi la produzione di servizi pubblici locali e di rete, la promozione della ricerca, dell’innovazione e del capitale umano e il miglioramento delle condizioni di concorrenza dei mercati.

Oggi la prima risposta da dare alla domanda “perché gli imprenditori non vanno nel Mez-zogiorno?” è, dunque, “perché non gli conviene”. Che fare? Le scelte sono semplici e note: per cominciare, si deve investire in infrastrutture economiche e sociali, che significa ad esempio ferrovie – ricordo che la Sicilia, che è la prima regione per super-ficie e la quarta per popolazione, ha una rete ferroviaria a binario singolo – ma anche strade, elet-tricità, acqua, ospedali, scuole. Mi sembra dif ficile pensare di poter costituire un’impresa industriale o di servizi dove la logistica è inesistente o l’acqua e l’elettricità arrivano a singhiozzo. Prendo ad esempio, la Sicilia e la Sardegna: queste due regioni hanno quasi il triplo delle interru-zioni del servizio elettrico, e più del triplo delle irregolarità nella

fornitura dell’acqua, rispetto al Nord.

Accanto a questo, ci sono gli investimenti in capitale umano. Il Mezzogiorno è ricchissimo di capitale umano poco valorizza-to. Il 70% dei giovani meridionali (20-24 anni) ha conseguito la licenza media superiore, contro la media nazionale dell’80%, a dispetto di un più alto tasso di partecipazione iniziale. Il 37% dei quindicenni meridionali ha basse competenze nella lettura contro il 18,5% del Nord. Per finire, il grado di istruzione nel Mezzogiorno è oggi più basso della media nazionale, dato che il 56% della popolazione adulta (25-64 anni) ha conseguito al massimo la licenza media in-feriore e la media nazionale è del 49%. Pensare di risolvere i problemi del Mezzogiorno senza migliorare questi indicatori è illusorio. Per i moltissimi giovani qualificati ancora oggi non c’è alternativa all’emigrazione al Nord. Intendiamoci, non è più il vecchio discorso della “valigia di cartone”, anzi un periodo trascorso fuori dalle regioni d’ori-gine è salutare per tutti i giovani d’oggi. ma molto deve essere fat-to.. Ma i laureati (e ancor di più le laureate, più numerose e più qualificate) devono poter trovare uno sbocco sul loro territorio. C’è certamente da affrontare un pro-blema di mismatch, di mancato incontro tra domanda e offerta. Le nostre università sfornano lau-reati in materie poco richieste dal sistema produttivo, con livelli di qualificazione troppo bassi, che derivano anche, come ci dicono i confronti internazionali, da una preparazione inadeguata nella scuola secondaria superiore. È evidente che laddove il mercato del lavoro è più difficile, come nel Mezzogiorno, questo misma-tch è particolarmente gravoso.

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1�Interviste con

il suD hA biso-gno di società ci-vile. Senza so-cietà civile gli inves t iment i

pubblici conti-nueranno a produrre

sprechi, clientele, dipendenza e proliferazione delle reti antagoni-stiche, espressione della criminali-tà organizzata.

Quindi, colmare il gap infra-strutturale e produttivo è certa-mente condizione necessaria per

innescare uno sviluppo economico e sociale, sostenuto e duraturo, ma non può essere condizione sufficiente se non viene accompa-gnata, anche finanziariamente, da un parallelo impegno nella produ-zione di quei “beni relazionali” che

sono lo sviluppo virtuoso di reti di credibilità e fiducia. In altre parole investimenti materiali, ma soprat-tutto immateriali. Investire in lega-lità perché la legalità costituisce la premessa di qualsiasi crescita, sia essa economica o sociale.

vAlE pEr TuTTi i settori l’esempio appena fatto a proposito della scuola: non una

politica geografi-camente limitata,

ma una politica generale i cui effet-ti benefici si vedranno soprattutto laddove ce n’è più bisogno. La politica principale è quella per la crescita e la competitività, senza la

quale non c’è riequilibrio territoria-le né redistribuzione possibile. La crescita non riprende per caso né può essere pianificata, ma può es-sere incentivata e accompagnata con una serie di politiche per tutta l’Italia: politiche che favoriscano la creazione e accumulazione delle conoscenze, la competitività, la concorrenza e gli investimenti nelle grandi infrastrutture, materiali e immateriali. Solo politiche mirate

in questa direzione, dunque riforme strutturali più che politiche di spesa, possono aiutare il Mezzogiorno a usare al meglio le sue risorse e i fondi che arrivano dalle politiche di coesione; ma le stesse politiche possono aiutare anche il Nord a uscire da una sorta di “angoscia da globalizzazione”, che negli ultimi anni è stata fortemente ingigantita nascondendo il fatto che un bel gruppo di medie imprese italiane,

dopo aver ristrutturato e innovato al proprio interno, è ormai piena-mente e vivacemente integrato nell’economia mondiale. Dunque, un’agenda per lo sviluppo suddivisa per temi e non per emergenze ter-ritoriali – sul modello di quel che è stato fatto per il programma Indu-stria 2015; e allo stesso tempo un forte investimento nell’innovazione istituzionale, politica ed economica per tutto il Paese.

il mEzzoGior-no è fisiologica-mente una ri-sorsa preziosa per l’Italia. La

sua posizione geografica ne fa, ad

esempio, un avamposto per l’in-

terscambio commerciale e cultu-rale tra l’Europa e i Paesi emer-genti. Per valorizzare questa ri-sorsa è però fondamentale agire su leve di politica economica improntate rigorosamente alla selettività: dalle misure a soste-gno dell’occupazione femminile

agli interventi per la famiglia, dalle grandi decisioni in materia di infrastrutture a una promozio-ne multidimensionale e strategica dei flussi turistici. Scelte selettive e ben programmate, che segnino la fine della lunga stagione degli interventi una tantum, spesso

legati agli appuntamenti elettora-li, e dei finanziamenti a pioggia. Solo così si può procedere alla diffusione di regole e comporta-menti più efficienti che possono cambiare il volto stesso del Mez-zogiorno e delle sue pubbliche amministrazioni. Questo pun-

il mEzzoGiorno non ha bisogno di ricette diver-se da quelle del resto del Paese

ma, ha bisogno di un’attenzione parti-

colare su più versanti.Dobbiamo rimboccarci le ma-

niche e cogliere ciò che di meravi-glioso abbiamo. Un’opportunità, in particolare, arriva dal turismo. Ma come si può fare turismo se non ci sono le infrastrutture, se c’è criminalità e se non ci sono le condizioni che permettono all’imprenditore di investire?

Ecco perché bisogna inter-venire con risposte e soluzioni adeguate di cui noi conosciamo i costi e indichiamo il modo per reperire le risorse che servono.

C’è una strutturale difficoltà di accesso al credito da parte delle imprese del Sud, c’è un problema di tassi che comprime il diritto di cittadinanza di queste imprese rispetto a quelle del resto del Pae-se. Noi proponiamo di rafforzare il sistema dei confidi e di assistere le imprese nella certificazione del proprio rating. Vogliamo incen-tivi più moderni, meno a fondo perduto e più a conto interessi. Vogliamo, soprattutto un piano infrastrutturale che consenta di accelerare le grandi opere rimaste incompiute, fra cui il Ponte sullo Stretto. Ci impegneremo per la creazione di poli tecnologici di ricerca internazionali con i quali attrarre al Sud i migliori cervelli stranieri e valorizzare i nostri giovani più bravi. Noi più di tutti,

crediamo nei giovani e il nostro programma per il Mezzogiorno è tagliato su di loro.

Ma nel Sud si deve anche centrare l’azione sulla famiglia. Noi abbiamo scelto di aiutare le famiglie italiane, prevedendo un meccanismo di deduzione dalle tasse. Le nuove povertà nascono infatti anche dall’ingiustizia di non poter dedurre dalle tasse le spese per i libri testo, le cure mediche e gli asili nido. Vanno aiutate in particolar modo le famiglie con figli monoreddito, le giovani cop-pie che vogliono metter su casa e famiglia, anche con agevolazioni negli affitti e nei mutui.

Senza dimenticare che esiste un legame inestricabile tra le ca-ratteristiche strutturali dell’econo-mia italiana e i governi locali che

rappresentano una carta decisiva per lo sviluppo complessivo del Paese. Per questo affrontare i problemi del Mezzogiorno non è solo una questione di giustizia sociale, ma è un nostro interesse concreto. Spesso, però, in ambito locale permangono atteggiamenti legati ad un’occupazione cliente-lare del potere che non aiutano e che vanno contrastati con forza. Anche per questo noi crediamo che alcune materie come le grandi reti di trasporto, l’ener-gia, le comunicazioni, vadano sottratte alla Regioni e riportate alla competenza dello Stato, pur salvaguardando la necessaria solidarietà tra le regioni ricche e quelle povere, per garantire un uniforme godimento dei diritti costituzionali.

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1� Interviste con

to – il salto di qualità nel governo locale – mi sembra irrinunciabile: dobbiamo fare in modo che vengano identificate con maggio-

re precisione le priorità da parte delle amministrazioni e soprat-tutto che venga ulteriormente diffusa nel processo decisionale

la cultura della valutazione. È allora indispensabile ridare qua-lità alla spesa perché le risor-se – finanziarie, umane, profes-

sionali, naturali – sono numerose e forse senza corrispettivi al mondo ed è del tutto insensato continuare a sprecarle.

sE quEllo chE ho detto fino ad ora ha un senso, io vedo l’urgen-za di definire

politiche “nazio-nali” che riconosca-

no le “accentuazioni” del Sud. Anche qui, ricorrerò a qual-

che esempio. Abbiamo bisogno di accrescere la partecipazione delle donne alle forze di lavoro. Per ottenere questo risultato dob-biamo: a) aiutare le imprese che le

assumono a tempo indeterminato, più di quanto non aiutiamo quelle che assumono maschi; b) aiutare le donne che vogliono lavorare fuori di casa: detrazioni IRPEF specifiche per le spese di cura a favore di tutte le donne che lavo-rano, dipendenti o autonome che siano; c) creare efficaci servizi per la conciliazione lavoro in famiglia, lavoro fuori casa: asili nido, orari delle scuole, ecc. Ciascuna di queste scelte, si rivolge a tutto il Paese, a tutte le donne italiane.

Ma ciascuna di queste scelte può prendere avvio dal Sud, per poi estendersi al resto del Paese. Idem per le infrastrutture:bisogna fare dell’accesso alla banda larga un diritto universale, esattamente come quello alla rete elettrica o alla rete fognaria.

Vanno dunque “manovrati” di conseguenza diritti conces-sori e carichi fiscali sui gestori in modo da ottenere questo “diritto” ovunque. Ma se si vuole sfruttare – per la logistica – la

naturale predisposizione del Sud, bisogna che la rete della banda larga si sviluppi subito al Sud, senza il ”solito” ritardo di dieci anni rispetto al Nord, dove il mercato è più ricco e il gestore tende ad investire prima.

E ancora: valutazione, pre-mio al merito, esaltazione della autonomia degli istituti scolastici. Scelte che valgono per tutta l’Italia. Ma che debbono essere subito diffusamente sperimentate al Sud.

occorrE Anzi-TuTTo riqualifi-care la spesa pubblica e pro-

gettare organi-camente il futuro.

Le risorse non sono mai manca-te, e non mancheranno nei prossimi anni. Solo dal prossimo 2007 e fino al 2013 il Sud potrà contare su 100 miliardi di euro tra fondi strutturali, Fesr, Fondo

Sociale Europeo, trasferimenti nazionali complementari. Sfrut-tare bene il Quadro Strategico Nazionale e il prossimo ciclo di spesa relativo alla Politica di Convergenza deve rappresentare per le classi dirigenti nazionale e meridionali un imperativo ca-tegorico.

Occorre considerare il Mez-zogiorno come una macro re-gione, e concentrare le risorse

attorno a pochi grandi assi di intervento: infrastrutture e lo-gistica sovraregionale, ricerca e innovazione, modernizzazione del sistema di governance pub-blica, valorizzazione di settori traino come l’agroalimentare e il turismo di qualità.

Se si riuscirà a realizzare queste azioni, avremo lavorato alle pre-condizioni dello svilup-po di un intero sistema territoria-

le. Poi starà alle nostre imprese, ai nostri cervelli, ai tanti talenti, alle università e ai centri di ricerca, al vasto mondo del ter-ziario e dei servizi competere sui mercati europei e globali.

Ma una buona politica eco-nomica deve operare alla rimo-zione delle troppe diseconomie che oggi, in larga parte, rendono tale competizione velleitaria e viziata in partenza.

[…]

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1�Interviste con

Mezzogiorno ed Europa. La politica di coesione è solo una questione di fondi? come si colloca la problematica meri‑dionale nello specifico contesto europeo e mediterraneo, oltre che nello scenario globale?

il sosTEGno comunitario alle aree depresse è certamente una oppor tunità,

ma la questione meridionale non

può essere affrontata con la pura logica del trasferimento delle ri-sorse. Più in generale, ritengo intrinsecamente debole la tesi che spiega la situazione di crisi in cui versa il Sud con la sola storia concreta degli investimen-ti pubblici. È indubbiamente vero che il sostegno economico al Sud abbia oscillato, nel corso dei decenni, tra momenti intensi di allocazione delle risorse e mo-menti di sostanziale rallentamen-to del flusso dei trasferimenti. Si può anche convenire che il soste-gno pubblico al Sud sia stato complessivamente, sul piano quantitativo, di sotto delle possi-

bilità e delle necessità. E però, piuttosto che alle quantità, biso-gnerebbe ragionare esattamente sulle caratteristiche qualitative degli investimenti. È difficile di-fendere oggi, ad esempio, talune scelte fatte in passato. Penso al-l’industrializzazione per poli, oppure alla velleitaria integrazio-ne di strutture portuali, industrie chimiche e terminali energetici, o anche al finanziamento polve-rizzato all’agricoltura. Sono state tutti provvedimenti che hanno inciso in modo negativo sugli assetti sociali, distruggendo mol-to e costruendo poco. Del resto, anche sul piano della stretta contabilità economica hanno mostrato la corda, arenandosi nel breve volgere di qualche lustro. E ciò indipendentemente dagli sprechi giganteschi, dalle ruberie incredibili e dalla mancanza di-sarmante di programmazione

territoriale. Siamo ora agli inizi di un nuovo grande flusso di risorse legate alla programmazione eu-ropea dei fondi 2007 – 2013. Farà la stessa fine dei trasferimenti avvenuti in passato? Opporre riusciremo a dar vita ad un per-corso virtuoso, che metta real-mente in valore le tante vocazio-ni territoriali del nostro Mezzo-giorno, le straordinarie energie intellettuali che lo caratterizzano, le grandiose risorse ambientali che si incontrano ovunque, le ricchissime connessioni storiche e culturali di un Sud che appare ancora, nonostante tutto, ricchis-simo di potenzialità?

A me pare davvero indi-spensabile una nuova stagione di programmazione economica, che veda la costruzione di un nuovo intervento pubblico in economia, caratterizzato da precisi vincoli sociali. Penso a

grandi, indispensabili piani di bo-nifica ambientale, a pratiche in-novative di riassetto urbano, alla incentivazione delle produzioni tradizionali ed eco-compatibili, anche col rilancio, e nel Sud sarebbe una novità, della realtà cooperativa. Penso, inoltre, ad una relazione positiva con i paesi del Mediterraneo, in parti-colare con i paesi della sponda sud. Il nostro Mezzogiorno è un crocevia naturale. Occorre farlo diventare un crocevia organiz-zato di relazioni, di coopera-zioni e di scambi, in un clima di reale apertura e reciprocità. Il Sud dell’Italia è, concretamen-te, l’Europa nel Mediterraneo; contemporaneamente esso è il Mediterraneo che dialoga con l’Europa. È con questa visione che dovremmo saper utilizzare le stesse occasioni offerte dalla Comunità europea.

cominciAmo dal quadro ge-nerale. Consi-derando la di-stribuzione del

PIL procapite nelle 268 regioni

della UE27 misurata nel 2003 in SPA (standard di poteri di acqui-sto), un gruppo significativo di regioni italiane del Nord e del Centro si ritrova ai vertici della distribuzione, in una posizione superiore alla media UE 15; due

regioni del Centro si collocano subito al di sotto o in media UE 15; il gruppo delle otto regioni del Mezzogiorno appare più distan-ziato, nell’insieme al di sotto della media UE 25 e UE 27 e con un gruppo di regioni in una posi-zione nettamente inferiore e che si avvicina alla parte inferiore della distribuzione.

I ritardi più significativi, so-prattutto in termini di infra-strutture e di condizioni sociali e di legalità, sono certamente

presenti in Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Basilicata, ma situazioni di difficoltà si riscon-trano anche nelle altre regioni del vecchio aggregato Mezzo-giorno (Abruzzo e Molise, già uscite dal vecchio Obiettivo 1, e Sardegna, attualmente in regime di “phasing in”).

Misurate le distanze in termini di sviluppo su scala nazionale, occorre considerare anche le opportunità derivanti dalla proie-zione del Mezzogiorno sul Sud

mediterraneo, l’area balcanica e Sud-Est europeo. Il Mezzogiorno italiano rimane un’area di policy da considerare in maniera unitaria e di cui valorizzare, al contempo, le specifiche potenzialità regiona-li di cerniera: verso Nord, con le altre regioni italiane e l’Europa; e verso Sud e Sud–Est, con le re-gioni mediterranee extraeuropee e del Sud Est europeo.

La politica di coesione ha avuto finora effetti positivi, ma i risultati sono stati inferiori

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1� Interviste con

alle attese: le consistenti risorse messe a disposizione spesso non sono state ben utilizzate e/o indirizzate. In questa direzione, ora, dobbiamo avere il coraggio di fare un ragionamento senza pregiudizi sul ruolo dei diversi livelli di governo.

Non sempre le Regioni sono state in grado di compiere le scelte migliori, né lo Stato di im-porsi per concentrare le risorse sulle esigenze davvero più im-portanti. Io non ho nulla contro

il federalismo, ma sono contraria a farne un’ideologia: dove gli enti territoriali sono carenti, lo Stato deve essere in grado di supplire con programmi davvero significativi. Questa è la strada che mira a percorrere il nuovo Quadro Strategico Nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013 (QSN).

Con un orientamento più stringente verso i traguardi della Strategia di Lisbona, ovvero cre-scita e occupazione, il Governo

ha cercato di ottenere questi obiettivi. L’Italia ha presentato all’Unione Europea il suo QSN con lo scopo di indirizzare le risorse che la politica di coesio-ne destinerà al nostro Paese, sia nelle aree del Mezzogiorno sia in quelle del Centro-Nord. Sono delineate dieci priorità strate-giche, tra cui la valorizzazione delle risorse umane, l’energia e l’ambiente, l’inclusione sociale, l’innovazione per la competiti-vità, l’apertura internazionale, la

governance. La politica regionale unitaria nel suo complesso (che vede per la prima volta riunite nella programmazione tempo-rale sia le risorse comunitarie e di cofinanziamento, sia quelle aggiuntive nazionali del FAS) dispone nel Mezzogiorno, per il ciclo di programmazione unitaria 2007-2013, di oltre 100 miliardi di euro.

I fondi dunque non manche-ranno, ma la scommessa politica sarà di spenderli al meglio.

l’unionE Euro-pea cerca di col-mare il gap infra-strutturale con lo stanziamento

di fondi allo svi-luppo per le regioni

in difficoltà. Sebbene in questi ulti-mi anni le capacità progettuali e

l’impiego dei fondi europei da parte delle regioni del Sud siano sensibilmente accresciute, questo nello scenario euromediterraneo non basta. La migliore strada per il Mezzogiorno é quella di puntare allo sviluppo endogeno delle regio-ni, in un sistema di relazioni molto stringente con i mercati internazio-

nali, in particolare con quelli Euro-pei e quelli Mediterranei. Il Mezzo-giorno occupa, infatti, una posizio-ne geografica straordinaria lungo la rotta che seguono le grandi navi porta-container da Oriente verso l’Atlantico, e viceversa. Il caso di Gioia Tauro, di Taranto, di Salerno e di Napoli lo dimostrano: il Mez-

zogiorno può diventare un tassello fondamentale della nuova logistica a valore aggiunto. La creazione di zone e di porti franche, poi, dareb-be ulteriore spinta a questo proces-so, a sua volta capace di aumentare l’attività economica e l’occupazione in tutti i settori produttivi dell’indu-stria e del terziario.

lA poliTicA di coesione non è solo questione di fondi, ma questi vanno

acquisiti e utiliz-zat i a l meglio.

Molte regioni europee hanno dato prova di grande dinamismo e capacità nell’uso dei fondi europei, mentre spesso noi ab-biamo sofferto di ritardi e spre-chi ingiustificabili.

Nel nuovo contesto dell’Eu-ropa allargata, con tante nuove aree che avranno diritto a parte-cipare ai programmi per i fondi di coesione, il governo razionale dei fondi comunitari e nazionali

diventa cruciale. In questo am-bito, il governo nazionale può svolgere un ruolo di raccordo e servizio per le regioni in Europa: cosa che abbiamo cercato di fare nella legislatura appena con-clusa, fornendo alle regioni un quadro tecnico e di supporto alla capacità progettuale e gestionale dei territori.

Si è appena concluso un road show del Pore nelle regioni del Sud, destinato proprio a coin-volgere e informare gli attori territoriali sull’accesso ai fondi comunitari a gestione diretta. Più in generale, è in corso una riflessione sul nuovo ruolo dei governi nazionali nell’Europa

delle regioni: un ruolo cruciale, a mio avviso, per mantenere la po-tenzialità e la vitalità dei territori evitando però che questi si pre-sentino in ordine sparso, come tante lobbies più o meno potenti, a Bruxelles e dando loro la forza e la struttura di chi ha alle spalle un sistema-Paese, il cui proget-to strategico è già inserito nel contesto europeo. Le scelte e gli indirizzi del sistema-Paese valgono, a maggior ragione, in un momento dell’economia mondiale nel quale cambiano le specializzazioni produttive e le rotte geografiche dello svi-luppo e dei commerci. Al polo industrial-finanziario dell’Europa

del Nord si contrappone il polo logistico di quello che è stato de-finito “il Nord del Mediterraneo”, e dunque porta d’accesso per il Sud e l’Est, della quale il nostro Mezzogiorno è parte decisiva. Ma questo richiede precise scelte nazionali nella politica delle infrastrutture, a partire dai porti. Se queste scelte negli ultimi anni sono state tentennanti, o contraddittorie, non lo si deve solo a un problema di risorse, ma al più generale problema della titolarità e del coraggio delle decisioni: occorre chiarire qual è il soggetto istituzionale che, al termine di percorsi di ampio coinvolgimento democratico

i problEmi del Sud vanno con-frontati secondo nuovi schemi che comprendo-

no l’allargamento

dell’Unione Europea e i parametri di Maastricht, fattori che rendono più difficili i trasferimenti verso il Mezzogiorno. Il Sud Italia resta però il ponte naturale col resto del Me-diterraneo e la vera sfida per l’Eu-

ropa, oggi, è proprio quella che si conduce al Sud, mentre oggi si guarda troppo al Nord e all’Est. Per questo, nel Mezzogiorno deve es-serci un laboratorio permanente di formazione indirizzato verso i

Paesi del Sud con i quali va alimen-tato un dialogo economico, cultu-rale e interreligioso costante che ci dia gli strumenti per confrontaci con un mondo sempre più multietnico e globalizzato.

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1�Interviste con

dei territori, debba assumersi la responsabilità della decisione. Sulle competenze riguardanti

le grandi reti penso che sia ne-cessario un ritocco della riforma costituzionale del 2001, in modo

tale da riportare le decisioni di interesse strategico al governo nazionale. La riflessione a livello

teorico è aperta da tempo, è il momento di trasferirla al livello politico e legislativo.

lA DomAnDA mi ricorda una frase che mi è stata detta po-chi giorni fa in

campagna eletto-rale da una giovane

siciliana: «Il mio sogno è che si inizi a pensare al Mezzogiorno non più come alla ‘fine’ dell’Europa, ma come al suo ‘inizio’».

Questo è l’atteggiamento che dobbiamo assumere: non possiamo chiuderci alle sfide che vengono da un mondo sempre più competitivo, nella speranza di continuare a ricevere in eterno

i Fondi strutturali dall’Unione eu-ropea. In fondo, lo scopo più am-bizioso della politica di coesione è quello di porci nella condizione di non ricevere più cofinanziamenti e di camminare, anzi di correre, con le nostre gambe. La Sardegna e l’Abruzzo hanno dimostrato la capacità di uscire dall’obiettivo 1 della politica regionale del-l’Unione e ora proseguono il loro percorso di sviluppo autonomo. Bisogna raggiungere lo stesso risultato nelle altre grandi regioni del Sud. Il vero nodo, lo ripeto, non è l’entità della spesa, ma la sua qualità. I requisiti di finanzia-

mento diventeranno sempre più rigorosi e richiederanno maggiore competenza, maggiori risultati e spese chiaramente project‑orien-ted. Dobbiamo, inoltre, essere consapevoli che il Mediterraneo può a breve affermarsi concreta-mente come il vero e proprio bari-centro dell’Europa: non possiamo aspettare questo cambiamento, dobbiamo incentivarlo.

Con la straordinaria crescita di Cina e India e alla luce degli obiettivi posti dal processo di Barcellona, il Mediterraneo torna ad assumere un ruolo strategico anche maggiore di quello che ave-

va nel XVI secolo. Tuttavia, per far sì che il nostro Mezzogiorno ne benefici pienamente, abbiamo bisogno di un progetto serio e a lungo termine.

Occorrono programmazione, infrastrutture, coesione sociale. Occorre, soprattutto, il senso di una grande sfida condivisa, che non investe solo i cittadini delle regioni meridionali, ma gli italiani tutti, visto che dalla risoluzione del dualismo dell’economia na-zionale dipende, come detto, la nostra capacità di competere con successo come «sistema Paese» nel mercato globale.

no. non è pre-valentemente una questione di quantità delle

risorse dedicate all’obiettivo del rie-

quilibrio. Negli ultimi anni, è au-mentata la capacità di spendere i fondi comunitari. Ma non abbiamo saputo scegliere le priorità e con-

centrare su pochi obiettivi essenzia-li. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: molte risorse disperse in mille rivoli, senza risolvere alcun proble-ma “strutturale”. Ora, se il discorso da tutti condiviso sul Sud come “naturale” piattaforma logistica posata nel mezzo di un mare torna-to centrale per il commercio mon-diale ha un senso – e secondo me

ce l’ha – bisogna operare una scelta analoga a quella che Spagna e Irlan-da hanno fatto anni or sono: almeno il 50% delle risorse su ben selezio-nati progetti di mobilità. Strade, autostrade, ferrovie, porti, aeropor-ti, autostrade del mare. Il resto, sulle infrastrutture di base del vivere civile, buone per i cittadini come per le imprese. A quel punto, le

imprese che operano sul mercato potranno fare il resto. Questo, sul versante economico-sociale. Più in generale, il Sud deve e può diven-tare anche un hub politico per il rapporto tra area Euroatlantica, di cui facciamo parte, Oriente e Africa. Politica, cultura ed economia come componenti di un grande progetto di cooperazione mediterranea.

comE DETTo sopra, il Mez-zogiorno deve imparare a vi-

vere il proprio essere parte di un

più vasto consesso geo-economi-co come una galassia di oppor-tunità, un sistema di chance da saper cogliere. Il Mediterraneo ha riscoperto negli ultimi anni una nuova centralità grazie all’affac-ciarsi sulla scena mondiale di nuovi colossi produttivi, e di potenziale consumo, quali India e Cina. Resta vivo, se pur tra

mille difficoltà, il processo di realizzazione dell’Area di libero scambio Euromed per il prossimo 2010. E poi ci sono i Programmi Quadro Ue sulla Ricerca Scienti-fica e l’Innovazione, le Politiche di Vicinato e di Prossimità, il dossier comunitario sull’Energia e le fonti rinnovabili, le azioni guida per l’internazionalizzazio-ne delle imprese, i Programmi a Sportello Bruxelles, le Politiche per le infrastrutture e i “Corridoi”, i l nu ovo c ic lo d i s p e s a 2007 – 2013. Insomma, abbiamo di fronte un interessante cruscot-

to di opportunità, partnership, risorse, progetti: occorre solo avere una idea compiuta del fu-turo, che fondi sulle vocazioni strategiche dei nostri territori, e una capacità politica e ammini-strativa di realizzare sviluppo. Troppo spesso le nostre classi dirigenti – politiche, amministra-tive, imprenditoriali, accademi-che o delle professioni – manife-stano una certa indolenza di fronte al nuovo. Di fronte alla complessità, cioè, matura a livel-lo diffuso e quasi inconsciamen-te una tendenza al ripiegamento

su auto consolatorie certezze e consolidati strumenti e prassi di intervento, nel settore pubblico come in quello privato. Dobbia-mo imparare a misurarci con il nuovo, con mercati aperti, con l’innovazione tecnologica. E oc-corre farlo sapendo che quando le trasformazioni sono molto ra-pide e tumultuose, come nei nostri tempi, è più utile elaborare modelli che ricercare specifiche singole risposte, magari poco flessibili, e che quindi rischiano di durare lo spazio di qualche anno.

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20 Interviste con

Sicurezza e legalità. come affrontare questi due fattori‑chia‑ve per il Mezzogiorno senza ridurli a mere questioni di ordi‑ne pubblico?

vA cErTAmEn-te sostenuto in tu t t i i modi l’intervento di contrasto alla

criminalità, che avvelena, in senso

anche letterale come si è visto in Campania, troppe aree del Mezzogiorno. Al tempo stesso, occorre evitare la regressione securitaria dei nostri ordina-menti e delle nostre pratiche di

vita. La legalità e il rispetto delle regole non si impongono con gli stati d’assedio, ma mol-tiplicando i presidi di civiltà sui territori. Le scuole, le strutture sanitarie, il reticolo funzionante dei trasporti pubblici, l’associa-zionismo, il volontariato: sono tutti punti che fanno barriera contro la criminalità organizza-ta e contro l’illegalità diffusa allo stesso modo, e a volte an-che di più, delle caserme dei

carabinieri, dei commissariati di polizia e dei tribunali. Si voglio-no più sicure le regioni meridio-nali? Allora la prima risposta è il lavoro; e la seconda sono i servizi sociali.

Ed è anche necessario, pa-rallelamente, che la politica si modifichi realmente nel rapporto con i cittadini, puntando ad es-sere più trasparente e più parte-cipata. Quando la cosa pubblica è attraversata dalle istanze della

gente normale, allora gli interessi particolari dei ceti privilegiati, anche gli interessi perversamente intrecciati con i poteri criminali, sono costretti ad indietreggiare. Su questo piano devo lamentare la poca attenzione da parte delle altre forze politiche. Eppure, alla lunga, proprio il superamento della crisi della politica è il piano decisivo per vincere la stessa sfida posta dalla mafie alle po-polazioni del Sud.

nEll’ulTimo Rapporto sul-l ’a t t ua zione della Strategia

di Lisbona vi è un focus partico-

lare su questi due aspetti. La Commissione Europea insiste sulla legalità come fattore di svi-luppo: questo significa certezza del diritto, durata dei processi civili e penali, disciplina adegua-ta dei fallimenti. Tutti questi argo-menti non sono specifici del Mezzogiorno, ma riguardano il Paese nella sua interezza.

Ci sono poi temi che riguar-dano in modo specifico le regioni del Sud. Lo sviluppo è il primo strumento di lotta contro l’ille-galità. Persone più qualificate saranno meno “tentate” da scelte di appartenenza alla criminalità organizzata. E una maggiore crescita implica minore attrat-

tività del business malavitoso. La criminalità organizzata resta un problema da risolvere non solo con la necessaria fermezza e credibilità delle politiche di ordine e sicurezza pubblica, ma anche con le politiche econo-miche. L’emersione di attività “in nero” riduce lo spazio di manovra a chi in questo mare nuota agevolmente, traendone vantaggi sia economici sia di disponibilità di manodopera. Ma come ho detto all’inizio, credo che il problema della legalità sia anche un più generale problema di costume, che si può risolvere solo con l’affermarsi di una classe dirigente non compromessa. Per i partiti politici è una grande sfida di rinnovamento, che, spero, sarà stimolata dall’insofferenza dei giovani e delle donne verso i vecchi modi di fare politica, che li hanno sempre penalizzati.

quali sono i punti critici della condizione femminile nel mezzogiorno, e quali sono, di conseguenza i punti di attacco di una politica meridionalista adeguata ai tempi e alla portata dei problemi?

Rispetto ai problemi generali che le donne incontrano in Italia, la specificità della condizione femminile meridionale è evidente nel campo dell’occupazione. Se prendiamo le ultime cifre dell’Istat: nel 2007, il tasso di occupazione femminile, calcola-to sulla popolazione tra 15 e 64 anni, è stato del 56,8 nel Nord e del 31,1% nel Mezzogiorno. Questo significa che il Nord è sostanzialmente in linea con gli obiettivi della strategia di Lisbo-na, che prevedono un tasso di occupazione femminile al 60% nel 2010. Nel Sud invece l’occu-pazione femminile è a livelli vicini

a quelli della sponda meridionale del Mediterraneo, tanto da far precipitare l’Italia, nella media europea, al penultimo posto dopo Malta.

La situazione non sta miglio-rando: mentre al Nord e anche al Centro il tasso d’occupazione femminile l’anno scorso è cre-sciuto di mezzo punto rispetto al 2006, al Sud è rimasto stazio-nario. E non possiamo neppure rallegrarci del fatto che il tasso di disoccupazione femminile nel Mezzogiorno è sceso di 1,6 punti, addirittura di 2,2 punti quello giovanile: significa solo che le donne del Sud, anche le giovani, sono sempre meno attive nella ricerca di lavoro.

Quali le cause di questa si-tuazione? Ovviamente, la prima riflessione è che le donne sono più sacrificate nelle regioni in cui c’è meno lavoro. Mentre infatti

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21Interviste con

nel Nord e nel Centro le donne occupano il 42% dei posti di lavoro disponibili, nel Mezzogiorno arri-vano a malapena a coprirne uno su tre. Però possiamo rovesciare il ragionamento: forse è vero che oggi le donne del Sud rimangono a casa perché c’è poco lavoro, ma possiamo anche affermare che c’è poco lavoro e sviluppo perché si concedono poche opportunità alle donne.

Ci sono infatti numerosi studi internazionali che ci dicono che la valorizzazione del lavoro femmini-le fa aumentare il Prodotto interno

lordo in misura superiore a quanto avverrebbe se gli stessi posti fosse-ro assegnati soltanto agli uomini. È noto d’altra parte che il lavoro femminile non è più un ostacolo, bensì un incentivo alla creazione di una famiglia e alla nascita dei figli. Dunque la promozione del lavoro femminile nel Sud non è più un problema settoriale, di pari opportunità, come si può dire con una terminologia ormai vecchia, ma è la precondizione per uno sviluppo accelerato, economico, sociale e demografico, del nostro Mezzogiorno.

Che cosa dobbiamo fare? Insieme ai colleghi Rosi Bindi, Cesare Damiano e Barbara Pol-lastrini, con la Nota Aggiuntiva al Rapporto annuale sugli obiettivi di Lisbona che abbiamo presenta-to a Bruxelles in ottobre abbiamo voluto indicare un percorso. La Nota propone interventi, in parte già presenti nella Finan-ziaria 2008, ma in larga misura ancora da attuare, per stimolare l’occupazione femminile nelle imprese, migliorare le strutture di conciliazione tra famiglia e impiego, cambiare gli stereotipi

che tengono le donne lontane dal mondo del lavoro e comunque impediscono loro di assumere ruoli di piena soddisfazione. Ricordo anche che il principio delle pari opportunità di genere e non discriminazione è uno dei principi orizzontali nell’attua-zione del QSN. Sono convinta che la promozione del lavoro femminile nel Sud debba essere uno degli obiettivi prioritari del prossimo governo quale volano per la crescita economica del Mezzogiorno e quindi dell’Italia nel suo complesso.

consiDErAnDo che il tema sicu-rezza è caratte-rizzato dal con-trasto della cri-

minalità é oppor-tuno un aumento

della quantità e della qualità del-

l’azione preventiva verso i nuovi luoghi del vivere moderno.

Dare vigore, cioè, ad una vera e propria azione di riconquista da parte delle forze di polizia del ter-ritorio per poter contrastare ogni forma di degrado fisico e sociale, abusivismo o irregolarità.

Un modello di sicurezza “One to One” attraverso la messa a regime di programmi di forma-zione/informazione ai cittadini, azioni di cooperazione e scambio informativo tra le forze dell’ordine cosicché si possa razionalizzare l’azione investigativa limitando

per questa via la libertà operativa dei criminali.

Insomma, ci vogliono certa-mente più risorse ed un preciso impegno politico, parallelamente, però, è indispensabile il coinvol-gimento della società civile, che oggi sembra a portata di mano.

in mATEriA di sicurezza e le-galità non ab-biamo nulla da

rimproverarci. Il nostro programma

è chiaro, come è chiara la candi-datura nelle nostre fila di autore-voli esponenti delle forze dell’or-dine, che noi abbiamo sempre difeso. Vogliamo che vi siano meno divise negli uffici, dietro le scrivanie, e più in strada a presi-

diare il territorio e combattere il crimine. E soprattutto che siano pagate meglio. Proponiamo inol-tre un potenziamento della pro-cura nazionale antimafia, attri-buendole competenze nel contra-sto alla tratta dei clandestini e al terrorismo internazionale.

Certo è che le azioni di pre-venzione e repressione delle forze dell’ordine devono andare di pari passo con azioni serie ed efficaci degli enti locali per migliorare la si-

curezza e garantire la legalità: dalla semplificazione amministrativa, alla lotta al lavoro nero e all’eco-nomia sommersa, dalla gestione di fenomeni di sempre maggiore attualità come quello dell’immi-grazione (che richiede la capacità di coniugare le esigenze di sicurez-za con lo spirito di solidarietà) al contrasto di forme di sfruttamento degli extracomunitari.

Senza sicurezza non può es-serci sviluppo e le condizioni di

legalità nel Mezzogiorno sono le uniche garanzie per un progresso sociale, economico e civile che raggiunga presto i parametri europei. In questo percorso, bi-sogna quindi anche sensibilizzare i cittadini di oggi, ma soprattutto quella di domani, su questi temi. Solo alimentando la loro fiducia nelle Istituzioni si potrà infatti realizzare un’efficace alleanza contro la criminalità sottraendole definitivamente il nostro Sud.

AnchE in quE-sTo caso, le po-litiche che fan-no bene all’Ita-lia fanno bene

al Sud. La sicu-rezza, intesa come

protezione del cittadino dalla cri-minalità grande e piccola, non è solo questione di ordine pubblico.

Certo la presenza sul territorio delle forze dell’ordine va garantita e rafforzata, ma soprattutto va smontato quel meccanismo che vanifica troppo spesso il lavoro dei poliziotti e dei carabinieri: la lun-ghezza dei processi, l’incertezza della pena. Come ci hanno ricor-dato di recente scandalosi fatti di cronaca, il problema della lun-

ghezza dei processi – e della prescrizione dei reati – riguarda micro e macrocriminalità, lo stu-pratore e il mafioso, e in tutti i casi non è più tollerabile. Così come non è tollerabile una giustizia ci-vile che, con i suoi tempi lunghi, finisce per avvantaggiare inevita-bilmente chi è più facoltoso, e dunque può permettersi di aspet-

tare per ottenere (o dare) giustizia. Strettamente connesso, c’è il tema della legalità: qui non si tratta solo di criminalità, di rapporti tra lo Stato e coloro che violano le leggi, ma delle regole di funzionamento delle stesse pubbliche amministra-zioni. Occorre cancellare definiti-vamente quella zona grigia tra pubblico e privato, tra Stato e

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mercato, nella quale ha prospera-to l’illegalità, nella quale regole poco conoscibili e controllabili hanno permesso ai pubblici fun-zionari di trascurare l’interesse pubblico e ad alcuni privati di fare concorrenza sleale ad altri privati. Questo vale nei lavori pubblici, vale nella sanità, vale nei servizi pubblici locali. Ma se nel resto del paese la zona grigia significa “solo” inefficienza e aumento dei costi (e già non è poco), nel mez-zogiorno è diventata spesso “zona nera” con l’infiltrazione della cri-minalità organizzata. Le politiche e gli strumenti per incidere in questo campo sono semplici, e ancora una volta non si tratta di politiche specifiche per il Sud ma di riforme delle quali si gioverà tutta l’Italia: trasparenza, regole chiare per tutti, e soprattutto con-correnza.

il rinnovamento urbano e la qualità dei servizi appaiono come due elementi essenziali per una moderna politica meri-dionalista. è d’accordo su questa valutazione?

Il miglioramento qualitativo dei servizi è strategico per lo sviluppo, come riconosciuto anche dal nuo-vo Quadro strategico comunitario che subordina l’erogazione di una quota dei fondi al raggiungimento di obiettivi di servizio. Noi par-tiamo da una situazione molto differenziata per aree geografiche. Nel mezzogiorno l’indicatore delle perdite di rete del sistema idrico è a quota 38,6%, contro il 30% della media nazionale e il 25% del

Nord. Ogni anno ciascun cliente della rete elettrica subisce 74,45 minuti di interruzione del servizio (sono 52 nella media italiana). La percentuale della raccolta differen-ziata dei rifiuti è al 10,2%: meno della metà della media nazionale, che già è bassa. Lo spazio per l’au-mento della qualità e dell’efficien-za dei servizi – a partire dai servizi pubblici locali, ma il discorso riguarda anche i servizi privati – è enorme. Anche in questo caso, la svolta può venire da politiche che riguardano tutta l’Italia: chiarire e attuare le grandi scelte sulle reti e sulle infrastrutture; cambiare il loro modello gestionale, seguen-do un modello nel quale l’ente pubblico assume compiti di indi-rizzo e controllo, lasciando fare la gestione diretta a chi la sa fare meglio (trasparentemente scelto con gara pubblica). Bisogna a tale scopo rafforzare nella pubblica amministrazione le capacità di indirizzo, progettazione strategi-ca e controllo. Sono d’accordo anche sulla centralità del ruolo del rinnovamento urbano: le città come leva e centro propulsore di sviluppo sono una realtà della nuo-va economia in tutto il mondo. In questo campo, è importante dare nuovi meccanismi organizzativi e nuovi strumenti istituzionali, più flessibili e adatti a realtà territoriali in movimento: dalle città metropo-litane alle associazioni di comuni, secondo il disegno previsto dalla riforma della Carta delle autono-mie presentata nella legislatura appena conclusa e che a mio avviso va rafforzata. Allo stesso

tempo molte città del Sud – e an-che qualcuna nel Nord – hanno al proprio interno fortissime tensioni sociali, evidenti sacche di povertà, emergenze come quella abitativa che vanno affrontate dotando gli amministratori locali di maggiori poteri, dando qualche strumento finanziario in più e sostenendo buone pratiche che qua e là si vanno sperimentando: dall’avvio di nuovi programmi di housing sociale alle zone franche urbane, importate dai modelli francese e statunitense anche in Italia con la legge finanziaria.

Federalismo fiscale e mezzo-giorno. qual è la problematica connessa a questo ‘binomio’?

Introdurre il federalismo in un paese a due e più velocità come l’Italia è un’impresa non facile ma necessaria. È necessario però, perché il federalismo posso realiz-zarsi e non portare alla rottura del sistema, che sia un federalismo solidale e cooperativo: come tutti i sistemi nati per federare più che per dividere. Il nodo che per anni ha fermato i progetti di federalismo fiscale è stato proprio quello dei meccanismi perequativi: cosa fare di fronte alle differenti velocità dei territori italiani, che portano – rebus sic stantibus – a regioni finanziariamente in surplus e regioni finanziariamente in rosso. Non dobbiamo dimenticare il fatto che per anni ha operato un’Alta commissione per il federalismo fi-scale che ha concluso i suoi lavori, nel 2005-2006, con un nulla di fat-to: proprio per l’incapacità politica

di sciogliere questo nodo, nello stallo dato dalle contrapposizioni che c’erano in seno all’allora Casa delle libertà (e che non c’è motivo per ritenere risolte all’interno del nuovo Pdl). Il blocco del federa-lismo fiscale non ha penalizzato solo le regioni del Nord, quelle in surplus di risorse, ma anche quelle del Sud: tutta l’Italia ha sofferto di una riforma a metà, che ha visto un ingente trasferimento di poteri e funzioni ai territori non accompagnato dal corrispondente aumento dell’autonomia finanziaria e della responsabilità fiscale. Il Mezzogiorno ha tutto da guada-gnare dalla piena introduzione del principio di responsabilità fiscale, e dalla cancellazione di meccanismi automatici di ripiano dei deficit che hanno negli anni de-responsabilizzato le classi dirigenti locali. Certo, i meccanismi della perequazione vanno studiati bene, e soprattutto non vanno tarati sulle spese e i costi storici: in questo caso riprodurrebbero gli antichi vizi, condannando molte regioni del Mezzogiorno a un regime di assistenzialismo perenne che non meritano ed è fonte di guasti che vanno al di là della sola sfera della finanza pubblica. I meccanismi perequativi al contrario vanno riferiti ai parametri dei costi stan-dard e delle prestazioni standard: in questo caso introdurrebbero e propagherebbero comportamenti virtuosi. Allo stesso tempo, la piena responsabilità fiscale degli ammini-stratori locali avvicinerebbe il loro operato al giudizio e al controllo dei cittadini, a tutte le latitudini.

lo ribADisco: la sfida alla le-galità da parte delle organiz-zazioni crimi-

nali costituisce il più pesante freno

allo sviluppo del Sud.

Occorrono scelte e orienta-menti politici coraggiosi. Il tutto, però, con una consapevolezza: il riscatto del Mezzogiorno non può che passare attraverso la sua società.

Una società non solo civile, ma anche «responsabile», come

ama dire Don Luigi Ciotti. Negli ultimi anni è avvenuta e sta av-venendo una reale rivoluzione culturale, silenziosa e pervasiva.

Dalle iniziative di Libera e Addiopizzo alla chiara presa di posizione di Confindustria Sici-lia, dalla grande manifestazione

di Bari di qualche settimana fa fino ai numerosi successi dei nuclei investigativi antimafia. Questa rivoluzione non è di-stribuita in modo omogeneo in tutto il Sud.

E la battaglia – culturale pri-ma ancora che giudiziaria o di

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2�Interviste con

A pArTE chE le “questioni di or-dine pubblico”, se non risolte,

costituiscono un formidabile ed in-

sormontabile ostacolo per qualsia-si ipotesi di sviluppo, credo che la cronaca ci offra la prova di un

vecchio assunto della politica an-timafiosa “di sinistra”: quando c’è mobilitazione politico-culturale e sociale contro le mafie, allora le specifiche attività di contrasto e di repressione hanno successo. Si veda l’impressionante sequenza di arresti di grandi latitanti in Sicilia. È difficile non metterla i relazione

con lo straordinario sforzo che è venuto da industriali, commercian-ti, artigiani contro il pizzo. Là dove manca la mobilitazione socio-cul-turale e politica, là le stese forze dell’ordine faticano.

Naturalmente, l’una dimensio-ne sostiene l’altra, e viceversa: ora è dunque il momento di investire

in sicurezza. Nel Programma del Partito Democratico, ad esempio, si mettono in strettissima relazio-ne il “diritto alla banda larga” e la creazione di un’efficace prote-zione di cittadini e imprese dalla criminalità. Al solito: quel che vale per l’Italia, vale doppiamente per il Sud.

lE risposTE di ordine pubblico sono indispen-sabili, e il con-trasto al crimine

va portato avanti con decisione sfrut-

tando tutti gli strumenti, anche i più innovativi, di cui lo Stato di-

spone. Detto questo, e senza scadere in fuorvianti sociologismi fuori moda, considero però altret-tanto indispensabile provare a rimuovere le tante condizioni di disuguaglianza, di bisogno, di degrado sociale ed urbano, che rappresentano il brodo di coltura da cui la criminalità attinge a

piene mani sempre nuova ma-novalanza. Dalla scuola all’orga-nizzazione del tempo libero, dalla qualità dei servizi pubblici essenziali alle riqualificazioni urbanistiche delle periferie delle grandi città, dalla riscoperta della vitale funzione dei corpi sociali intermedi al contrasto al

nuovo fenomeno del divario digitale e, ancora, nuove politi-che dinamiche per l’assistenza e l’avvio al lavoro: insomma, oc-corrono misure in grado di argi-nare il malessere diffuso che tutte le società moderne, atomiz-zate e sfilacciate, vedono mon-tare al proprio interno.

ordine pubblico – è lungi dall’es-sere vinta. I segnali, tuttavia, sono incoraggianti. Soprattutto perché questa presa di coscienza col-lettiva ha ormai una fisionomia

strutturale e non più emozionale come in passato. Sicurezza e legalità sono allora molto più che questioni legate alla sicurezza; anzi, al Sud la stessa idea di citta-

dinanza passa attraverso un atto positivo di rifiuto delle mafie.

A questo proposito voglio essere chiarissimo: la politi-ca – quella nazionale e quella

locale – ha l’obbligo di sostenere con grande forza questo passaggio storico. Il tempo dell’indifferenza mi sembra francamente scaduto. Siamo tutti responsabili.

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Nonostante il permanere delle profonde contraddizioni che distinguono il Mezzogior-no, assistiamo in misura

crescente alla materiale scomparsa della “Questione meridionale”. Contraddizioni

del Mezzogiorno e Questione meridionale non sono concetti coincidenti. Le prime costituiscono un dato sociale, economico, strutturale ed infrastrutturale; la seconda è una questione politica, ed esiste solo se e quando viene percepita come tale. La

politica è percezione, e pertanto in poli-tica una questione esiste solo se diventa contenuto. La mancanza di questa dimen-sione soggettiva, e cioè la mancanza della percezione della Questione meridionale, è il segno che essa non esiste più nella

coscienza politica del Paese. In questi anni è emersa invece una Questione settentrionale, poi anch’essa è in una certa misura arretrata nella percezione.

Sono state immaginate molte interpretazioni del Mezzogiorno che prescindevano la Questione meridionale. Molte ideologie e cul-ture “meridionaliste”, alcune vere e

Mezzogiorno Europa Gennaio‑Febbraio 2005

Anno VI, n.1

Biagio de Giovanni

È VENUTA MENOLA cORNIcE

ISTITUZIONALE

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altre meno vere. Nulla da obiettare, perché quando si parla del Mezzogiorno va tutto bene, ma la percezione del Mezzogiorno come Questione, è venuta inesorabilmen-te meno, e la ragione di fondo, secondo me, risiede nei cambiamenti intervenuti nella cornice istituzionale rappresentata dallo Stato, l’unica all’interno della quale la Questione meridionale potesse essere interpretata. Nell’ambito di quella corni-ce veniva chiaramente indicato cos’è la storia d’Italia, cosa significa il dualismo italiano, e perché la Questione meridio-nale è una questione dello Stato, così come è stato per tanto tempo. Ora, la tesi della cornice dello stato-nazione viene inesorabilmente meno, e il dualismo tra localismo e globalismo diviene l’elemento principale che rimette in discussione la stabilità politico – istituzionale, attraverso la quale il Mezzogiorno veniva pensato come Questione. In questo modo il Mezzogiorno resta senza un lettore che sia in grado di “pensarlo”. Non c’è più un lettore politico, e sostanzialmente non c’è neanche un lettore culturale.

Ma c’è un’altra questione sulla quale vorrei porre l’attenzione, ed è la questio-ne dell’Europa. Si tratta di una tematica che presenta aspetti che si prestano alla retorica, e bisogna evitare il pericolo di esaurire nella questione dei fondi strut-turali l’intero problema del rapporto tra il Mezzogiorno e l’Europa. In realtà non è possibile giocarsi tutte le carte sull’idea che esista un mercato unico, perché esso sta diventando estremamente conflittuale e competitivo, all’interno dei suoi stessi confini. Aumentano le conflittualità e le competizioni intra-europee, emergono lo-calismi, questioni nazionali e subnazionali. Si tratta di contrasti che nella mancanza di un quadro nazionale forte, possono verificarsi all’interno delle stesse economie di una singola nazione, tra nord e sud, e finanche all’interno del sud. È un elemento completamente inedito rispetto al passato,

ed è un tratto che ci fa capire in quale dire-zione è cambiata la natura della Questione meridionale. Il tema principale, in questo nuovo contesto, è quello della capacità competitiva, concetto cui tutti facciamo spesso riferimento. Qualche giorno fa mi è successo di incontrare il Sindaco e alcuni industriali di Solofra, centro di un importante distretto industriale conciario, e loro mi riferivano che, per la prima volta, il loro settore soffre una crisi che non è di carattere congiunturale, ma strutturale, perché non regge più alla competizione extraeuropea. Qual è la risposta alla crisi di un settore che negli anni passati era così tanto capace di creare occupazione? Su questo piano la consapevolezza degli industriali è di gran lunga superiore a quel-la dei politici, infatti essi affermano che l’unica risposta è riuscire ad aumentare la qualità del prodotto e spostare in avanti la capacità di competizione. La parole qualità ed innovazione diventano pertanto decisive. Io non sono un economista e non parlo da tale, quindi rischio di essere im-preciso, ma a me pare che, riguardo al set-tore manifatturiero, sia sempre più difficile immaginare una potenzialità di sviluppo occupazionale; e per l’appunto, qui nasce il tema della competitività e della qualità. Ma naturalmente qualità e competitività rischiano di restare solo parole. Intanto perché agiscono nel periodo medio-lungo; poi perché necessitano della creazione di premesse adeguate. Ma poiché i tempi dei meccanismi economico-politici sono estremamente accelerati, l’accompagnare questa analisi a delle proposte diviene oggetto di grande difficoltà. Quello che sicuramente va evitato, è immaginare l’Europa e il Mezzogiorno come due entità che si confrontano. Non è così, e proprio per questa competitività e conflittualità sempre più aspra, che si verifica all’inter-no dello spazio economico denominato Europa, dove il gioco delle autonomie, dei localismi, delle culture non-nazionali,

assume un ruolo straordinario. È il Mezzo-giorno capace di sprigionare da sé queste energie? Forse in parte si. I dati citati in più occasione da Mariano D’Antonio sono assolutamente interessanti. Sappiamo però che intorno a questi pur interessanti dati, ci sono giganteschi problemi di infrastrut-ture, di formazione, di crisi della ricerca. È difficilissimo accompagnare una proposta, e tuttavia è necessario “problematizzare” il rapporto con l’Europa, altrimenti si rischia di farla diventare una sponda passiva, come prima era lo Stato. È un rischio che va scongiurato, perché il risveglio potreb-be essere assai brutto, soprattutto per la ragione che tutto si gioca in tempi assai più ristretti rispetto al passato, proprio per l’accelerazione che la competitività imprime ai processi.

Infine, c’è un terzo punto sul quale vorrei soffermarmi, ed è l’azione della classe dirigente politica. Assistiamo ad una forte desertificazione della politica, la cui classe dirigente nel Mezzogiorno tende a diventare sempre più ceto. Un ceto politico, inteso come qualcosa di diverso da una classe dirigente, e il cui tratto distintivo è l’autoreferenzialità. La separazione del ceto politico dalla società civile, dalle sue articolazioni e dalle sue competenze, modelli e culture, è a mio avviso un elemento estremamente critico rispetto alla possibilità di dare risposte ai problemi che prima ho cercato di indivi-duare sommariamente.

Non è facile immaginare come rimet-tere in moto un processo che generi classe dirigente politica, ma anche amministrati-va; e siccome le due cose sono collegate, è evidente che se la classe politica diventa ceto, allora le speranze che una società riesca dal proprio interno a trovare le ener-gie necessarie per trasformarsi, diventano sempre più esigue.

Da Riflessioni sul futuro del Mezzogiorno. Convegno promosso dal Centri di Iniziativa Mezzogiorno Europa. Napoli. Dicembre 2004.

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[…] Comincio con il chiedermi quale significato possa avere oggi, a quasi

centocinquant’anni dalla unificazione politica dell’Italia, il parlare di una

questione del Mezzogiorno. Beninteso, se il sussistere di una questione meridionale viene riconosciuto. Si sa, infatti, che la sussistenza di tale questione nel passato prossimo è stata negata ripetutamente e con molteplici argomenti. È stata necessaria, più o meno da tre anni a questa parte, una serrata polemica, di cui mi

attribuisco immodestamente una parte del merito, perché almeno si ammettesse che il divario tra le due Italie, come si diceva una volta, continua a sussistere.

La struttura delle statistiche nazionali è nota ed è eloquente; io non vi indu-

gerò. Già Mungari ha riferito qualche dato statistico: quello per esempio, sulla differenza nelle attrezzature. A mia volta, citerò un solo dato, dall’ultimo numero delle «Informazioni Svimez». La Svimez ha classificato le 103 province italiane in

quattro categorie: province deboli e in rallentamento, province de-boli ma in crescita, province forti ma in rallentamento, province forti e in crescita. Ebbene, tutte le 36 province del Mezzogiorno appartengono alla categoria delle province deboli: dieci, deboli e in rallentamento; ventisei, deboli ma in crescita. Su questa crescita poi

Mezzogiorno EuropaNovembre‑Dicembre 2004

Anno V, n. 5

Giuseppe Galassomezzogiorno Come

risorsa e ComeProBLema itaLiano

ed euroPeo

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farò qualche considerazione. Al contra-rio, delle 67 province non meridionali, solo 12 apparivano deboli.

È un dato impressionante. Natural-mente, le statistiche sono le statistiche, ma non per questo non si devono tenere in conto. E, anche se non mi diffondo più su questo tema delle statistiche, voglio dire ancora che la struttura delle statistiche nazionali permette di notare che – qualsiasi indicatore si consideri, e tranne pochissime eccezioni, che poi sono di sostanziale conferma della regola o non in contraddizione con la regola stessa – le province del Nord e del Centro occupano la prima parte della graduatoria, quelle del Sud e delle Isole la seconda. Ripeto, qualsiasi indicatore statistico si consideri.

Tale, inoltre, è la portata di questo divario che le punte avanzate del Mez-zogiorno si collocano, in generale, ad alcuni punti percentuali di distanza, secondo i vari indicatori statistici, dai fanalini di coda del Centro-Nord. La con-clusione è inevitabile: la carta geografica delle condizioni economico-sociali del nostro paese è a due colori: più intensa al Centro-Nord, molto scolorita al Sud.

Ci sono poi elementi non trascura-bili, da cui è autorizzata l’impressione, da sottolineare anch’essa, che le forbici del divario hanno teso negli ultimi anni piuttosto ad allargarsi che a restringersi. E va, pure, notato, per inciso, che sembra crescere specificamente, e bisogna sot-tolinearlo, la distanza tra le due aree per quanto riguarda la rispettiva dotazione tecnologica.

Il riconoscimento del divario è già un buon punto di partenza. Neppure sul piano statistico questo è, però, suffi-ciente, visto che le indicazioni dei dati cui ci si riferisce vengono discusse nella loro validità su un piano più generale. Non si è mancato, ad esempio, di far presente che, sia pure in netta posizione

di inferiorità rispetto al Nord, il Mezzo-giorno si trova a un livello di redditi che lo include nella fascia europea superiore rispetto ai paesi rivieraschi del Mediter-raneo e a quelli dell’Europa orientale e balcanica prossimi a entrare nell’Unione Europea. Il che è vero, ma non si vede quale senso politico possa avere, al di fuori di un ammonimento, difficilmente recepibile, a non lamentarsi troppo, se non ad accontentarsi di ciò che si ha e che poi non sarebbe né tanto poco né tanto male.

Altra questione sarebbe, se con tale osservazione circa il livello dei redditi meridionali in rapporto ad aree più disgraziate del Mezzogiorno, si volesse dire che il Mezzogiorno non parte, come è ovvio, da zero e che anch’esso ha fatto il suo cammino, benché non tanto da mettersi al passo con il resto del paese. Questa considerazione è necessaria contro il catastrofismo inconcludente di certe visioni del Mezzogiorno, che ne parlano in termini di terzo Mondo (Napo-li più o meno come Calcutta!) e negano o dimenticano che, come diceva Ugo La Malfa, il Mezzogiorno è pur sempre, ed è sempre stato, nell’Occidente. Bisogna però aggiungere che al suo livello di redditi, il Mezzogiorno si ritrova più per il suo inserimento – questo mi pare il punto fondamentale – nell’organismo nazionale italiano e meno per la forza e il grado di sviluppo della sua economia, della sua capacità in fatto di prodotto lordo e di valore aggiunto, del suo capi-tale di apparato produttivo, di risorse e di relativi impieghi. Se si facesse e si potesse fare astrazione da tale inserimento, la posizione del Mezzogiorno risulterebbe ben diversa, e cioè peggiore, sia nel quadro mediterraneo che rispetto all’Est europeo e balcanico.

Altra questione, in un certo senso opposta alla precedente, è pure quella derivante da una lettura ossessiva delle

variazioni statistiche annuali. Ogni anno, per poco che sia possibile, si mette in rilievo che per questo o quell’aspetto il Mezzogiorno ha progredito di più o ha regredito di meno del Centro-Nord, e se ne traggono non solo auspici, il che è del tutto lecito, ma drastiche affer-mazioni, secondo cui il Mezzogiorno avrebbe ormai imboccato la dirittura di arrivo della sua rincorsa al Centro-Nord e avrebbe operato una definitiva e ri-soluta inversione di rotta sulla via dello sviluppo. Affermazioni tutte incaute e puntualmente smentite appena dall’im-mediato si passa non dico alla media du-rata, bensì anche solo a una durata non brevissima, anche solo alla breve durata. Nelle oscillazioni frequenti e fatali della congiuntura, il vantaggio meridionale di un singolo anno o di brevissimi periodi viene presto riassorbito e riconvertito in un maggiore svantaggio appena, o per poco, che le ruote della congiuntura centro-settentrionale tornino a girare più veloci.

Neppure poi si prende in conside-razione il fatto che le variazioni annuali più positive per il Sud che per il Nord, tanto esaltate quando vi sono, si aggirano di solito su poche decine di centesimi di punto percentuale; e perciò debbono sempre essere riferite non solo al fatto evidente che basta poi qualche varia-zione positiva al Nord per riassorbirle, ma, ancor più, alla portata della distanza corrente tra Nord e Sud, per rendersi conto di ciò che in termini di tempo esse significhino, anche se proseguissero a lungo costanti e inalterate, se le si valuta come avvio di una svolta decisiva ai fini di una riduzione soddisfacente, se non ad un annullamento del divario tra le due Italie.

Voglio forse dire con ciò che le variazioni positive per il Mezzogiorno, di cui parliamo, non abbiano alcuna importanza o che di esse non ci si debba

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compiacere? Naturalmente, non voglio dire questo.

Voglio solo definire con pertinenza la dimensione e gli effetti di quelle variazio-ni e soprattutto sottolineare un elemento che appare solitamente trascurato, pur essendo essenziale per la questione di cui parliamo. Mi riferisco al fatto che un divario, quale è quello del Mezzogiorno rispetto al Nord, nella fenomenologia storica che conosciamo, nelle logiche storiche che conosciamo (di logiche storiche che non conosciamo non di-scuto, ovviamente) non è un problema di cui si possa venire a capo con lente accumulazioni di miglioramenti margi-nali, che per di più si dimostrano spesso reversibili e svaniscono al primo soffio di vento contrario. La cifra che valuta al 58% il reddito meridionale rispetto a quello settentrionale è più o meno la stessa di quarant’anni fa. Si tratta qui di un problema che sembra richiedere non i piccoli sbalzi di centesimi di punti percentuali, bensì quei salti decisi di qua-lità, quella “rivoluzione” (tra virgolette), che in un lasso di tempo assolutamente breve, concentrano l’essenziale, i semi decisivi e immancabili di una grande trasformazione.

Quest’ultimo punto è particolarmente importante. È il punto per cui anche i risultati della “politica speciale” per il Mezzogiorno avviata dopo la seconda guerra mondiale hanno provocato una delusione maggiore di quanto sarebbe lecito, considerando l’impegno e la convinzione con cui quella politica fu promossa; ma la delusione, almeno a posteriori, risulta naturale proprio per le considerazioni che vado facendo.

È accaduto così che le conseguenze attese come automatiche implicazioni delle infrastrutture preparate e degli incentivi concessi oppure l’indotto presunto come altrettanta automatica conseguenza di investimenti e impianti

localizzati nel Mezzogiorno oppure, ancora, gli effetti di trascinamento attri-buiti a questa o a quella misura politica economica siano del tutto o molto larga-mente mancati, perché era quella nozio-ne di automaticità o quasi automaticità a costituire l’anello debole della logica di impostazione e di conduzione di quegli interventi.

Ciò non autorizza affatto a dare, come è accaduto, un giudizio totalmente o prevalentemente negativo su quella “politica speciale”. Quella politica è stata storicamente una pagina di assoluto rilievo nella storia italiana. Per la prima volta, e per alcuni decennii, lo Stato nazionale si impegnò a considerare il problema del Mezzogiorno come una grande questione di interesse nazionale, che non richiedeva interventi particolari, anche se meritorii, come quelli che si erano avuti nel primo cinquantennio dell’unità nazionale, dall’operazione per il risanamento di Napoli, alla legi-slazione del periodo giolittiano per la stessa Napoli, la Sardegna, la Sicilia, la Basilicata, la Puglia, nonché per l’opera di bonifica che trasformò già allora radicalmente l’aspetto agricolo di molte realtà dell’Italia meridionale. Per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, si tentò di affrontare il problema meridionale globalmente, come una sezione del generale proble-ma di sviluppo del paese italiano e alla luce della più moderna cultura di economia dello sviluppo e di problematiche del sottosviluppo o delle “aree depresse”, come allora si diceva. Fu anche la prima volta che per compiti istituzionali ed esecutivi di così grande rilievo, lo Stato italiano si dotò di un organo specifico e straordinario, della portata e del rilievo che ebbe la Cassa per il Mezzogiorno, né si può disconoscere che in molti

settori si ebbero realizzazioni e opere im-portanti, come, ad esempio, per l’acqua, l’elettricità, la telefonia, e questo elenco si potrebbe ancora allungare.

Il deterioramento dello slancio nazio-nale di quella politica, sul quale si è trat-tenuto anche Mungari, fu – se si vuole, e questo bisogna riconoscerlo – alquanto rapido e si andò accentuando quando dalla politica di dotazione infrastruttu-rale, come requisito determinante dello sviluppo, si passò al cosiddetto “secondo tempo” della più generale politica me-ridionalistica. Fu il tempo che ancora è ricordato come quello più caratteristico dell’intervento pubblico, il tempo del-l’impianto e dell’avvio di grandi imprese pubbliche e private, per cui fino ad allora era mancato un avvio spontaneo. Fu il tempo che si finì con il considerare come quello della vera genesi e maturazione della politica complessiva dell’intervento della complessiva “politica speciale”.

Le degenerazioni politiche, cliente-lari, affaristiche del mondo gravitante intorno alla Cassa e quelle dello stesso genere o corporati-ve della Cassa medesima fecero

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poi venire meno non solo le ragioni di più alta ispirazione e conduzione di un tale intervento, ma ne misero in questio-ne la stessa ragion d’essere. Si aggiunga che si determinò, fra l’altro, piuttosto rapidamente una prassi per cui la spesa destinata alla “politica speciale” per il Mezzogiorno non rimase affatto, quale era stata concepita e avrebbe dovuto essere, aggiuntiva a quella ordinaria, e si trasformò, invece, in una spesa larga-mente sostitutiva della spesa ordinaria per lo stesso Mezzogiorno. E si aggiunga, inoltre, che come a suo tempo ebbe a rilevare Saraceno, delle risorse erogate dalla Cassa e da essa distribuite e im-piegate, già nella seconda metà degli anni ’70 soltanto più o meno l’1% finiva con l’essere destinato all’effettivo diretto incremento della potenzialità produttiva delle ragioni meridionali, con una fin troppo evidente dispersione della natura strategica assegnata all’azione della stes-sa Cassa e alle risorse all’uopo reperite.

Si aggiunga ancora che, sotto l’ap-parenza di una ininterrotta continuità, e contro l’apparenza di un aumento, a volte, delle risorse destinate al Mezzogiorno, in realtà non solo il governo e la sua maggioranza, ma più in generale tutto lo schieramento politico italiano – opposizione compresa, lo si deve riconoscere – nonché la cultura e l’opinione pubblica si andarono gradualmente raf fred-dando nei loro entusiasmi meridionalistici (e qui mi per-donerete l’eufemismo con il quale mi sono espresso, parlando di raffreddamento degli en-

tusiasmi, perché i termini reali del feno-meno furono ben diversi).

Per questo si poneva un problema di fondo su cui ritornerò subito. Intanto, però, credo che valga la pena notare due cose.

La prima è che già alla fine degli anni ’70 era chiaro che la Cassa aveva dato il meglio di sé e che la sua azione si era ormai tradotta in una routine bu-rocratica assolutamente non in grado di impedire o contrastare le degenerazioni alle quali ho accennato. Soprattutto, la Cassa aveva dato quel che poteva dare dal punto di vista dell’idea di politica economica che era stata alla sua base e ne aveva ispirato l’istituzione. Per questa ragione, e per altre che ho già accennato, già alla fine degli anni ’70 si cominciò a invocare addirittura la cessazione della “politica speciale” nella concezione, nelle istituzioni e nella prassi fino allora seguita, e si auspicò il passaggio a moduli meridio-nalistici che si risolvessero compiutamen-te nella politica economica nazionale e garantissero, attraverso di essa, attraverso

la politica economica generale del paese, e non con in-

terventi straordinari o speciali, il per-seguimento e il conseguimento

degli obiettivi auspicati e desiderati per il Mezzogiorno

d’Italia (e questo lo sottolineo anche perché, mi sia consentito di ricordarlo,

io fui tra i pochis-simi, che alla fine

degli anni ’70 so-stenevano questa tesi).

La vicenda si concluse poi con la liquidazione traumatica e tardiva della Cassa per il Mezzogiorno, in un clima dell’opinione pubblica e in una disposi-zione del mondo politico i più contrari che si potessero desiderare dal punto di vista meridionale, con strascichi non ancora oggi esauriti, a distanza di un quindicennio circa, più o meno. Fra i quali strascichi c’è il consolidamento di un pregiudizio antimeridionalista, che, qualsiasi giustificazione possa avere avuto (e ha avuto le sue giustificazioni, riconosciamolo), risulta, nella sostanza effettiva delle cose, dannoso non soltan-to al Mezzogiorno.

La seconda osservazione da fare è che, conclusa così la parabola della poli-tica meridionalistica e del suo principale organismo, nessun pensiero alternativo si è delineato all’orizzonte della politi-ca italiana in materia di politica per il Mezzogiorno, che possa far pensare a qualche cosa di minimamente somiglian-te (a qualche cosa di equivalente non penso neppure) alla dismessa “politica speciale” o “intervento straordinario”. La strumentalizzazione che si è cercata di dare a una certa azione per il Mez-zogiorno (accordi di programma, distretti industriali ecc.) è rimasta frazionata in una pletora di iniziative, cui raramente hanno arriso successi significativi, mal-grado la modernità e anche l’acume di alcune delle concezioni, che hanno ispi-rato l’individuazione di queste strategie particolari.

Ben più. Alla resa dei conti, ha avu-to luogo il ricorso a qualche tipo di

agenzia o di orga-

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nizzazione ad hoc, con un involontario ma incontrovertibile riconoscimento del tipo di strumento scelto a suo tempo per la Cassa. Mi pare, anzi, necessario ricor-dare che anche in materia di strumenti normativi si è fatto valere soprattutto il ricorso a vari tipi di incentivi, con un ulte-riore riconoscimento implicito, oggettivo, di fatto, dell’azione precedentemente svolta, mentre tipi diversi di incentivazio-ne o strumenti diversi dell’incentivazione in qualsiasi forma offerta non sono né avuti né concepiti. Equità vuole, inoltre, che si noti come neppure una trasforma-zione istituzionale così importante, come quella che nell’ordinamento italiano ha realizzato le Regioni, è valsa a imprimere allo sviluppo del Mezzogiorno un ritmo diverso.

So di muovermi qui su un terreno scottante, ma lo devo dire perché è la verità, per chi la vuole conoscere, ed è anche la verità per chi la conosce e non la vuole dire. A questo riguardo, un esame di coscienza, come sarebbe il caso di definirlo, non è stato fatto da nessuna parte. Le Regioni hanno, invece, insi- s t i to sulle carenze e le inadempienze dello Stato nei loro confronti. Sia detto schiet-tamente: ben poco vale sul piano di un ripensamento organico del meridionali-

smo, e, soprattutto, ben poco vale sul piano della delineazione

di un’azione politica di fondo in senso meridionalistico, questa recrimi-

nazione regionali-

stica, verso lo Stato. Ripensare l’istituto regionale in questa funzione – e cioè, anche se, naturalmente, non solo, in chiave meridionalistica – appare perciò un punto politico di primaria impor-tanza.

La serie delle osservazioni che mi sono finora permesso di esporre, che a molti forse appariranno discutibili, deve essere a mio avviso integrata, notando pure che il riconoscimento del persi-stente divario statistico fra le due Italie è apparso ancora più insidiato e negato nel suo intrinseco e discriminante valore da un altro ordine di considera-zioni, che si traduce in una completa disarticolazione della nozione stessa di Mezzogiorno.

Si lascino pure da parte le insostenibili e incredibili versioni storiografiche, alle quali si è presunto e si continua troppo spesso a presumere di appoggiare una vera e propria disarticolazione della nozione di Mezzogiorno. Basta notare

che l’indubbia articolazione interna del Sud è molto lontana dall’avere l’importanza decisiva che i suoi sostenitori suppongono. Chi ha mai

dubitato o taciuto che da regione e regio-ne, da provincia a provincia, da zona a zona del Mezzogiorno variano, in modi e misure a volte più, a volte meno sensibili, ma sempre non trascurabili, le condizioni economiche e sociali? In quale libro di storia è scritto che il Mezzogiorno

ha costituito in qualsiasi epoca una unità indifferenziata al suo interno? Ed è questa la scoperta storiografica e strutturale, che dovrebbe ispirare una nuova considerazione del Mez-

zogiorno? Il fatto è che, però, qualsiasi differenziazione interna del Mezzogiorno perde alla fine di valore rispetto alla

struttura dualistica del quadro statistico e della realtà na-

zionale italiana.

Anche gli Abruzzi, spesso esaltato come la punta di diamante delle mutate condizioni del Mezzogiorno, a parte il salasso demografico gigantesco a cui è soprattutto dovuto il loro relativo equi-librio, sono indubbiamente molto più in testa al Mezzogiorno che alla coda del Centro-Nord. È questo un punto da sottolineare: il meglio del Mezzogiorno rimane sempre a una per nulla trascurabi-le distanza statistica dalle punte inferiori del Centro-Nord. E, semmai, sono varie province attigue del Lazio, dell’Umbria e delle Marche a condividere le condizioni di questa testa del Mezzogiorno, sicché si può ben dire che è piuttosto la con-dizione meridionale a sforare nell’area centro-settentrionale anziché la condi-zione centro-settentrionale a penetrare in qualche misura nell’area geografica meridionale.

Prima di riprendere la nostra doman-da iniziale e di concludere, è necessario, comunque, una considerazione ulteriore di particolare importanza. Il meridionali-smo nacque dopo l’unificazione italiana e la politica meridionalistica si sviluppò sulla base dell’ipotesi che non solo il Mezzogiorno fosse un grande problema nazionale, ma che dalla sua soluzione, dalla soluzione di questo problema di-pendesse l’avvenire e lo sviluppo di tutto il paese, di tutta l’Italia. «L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà», diceva, con la sua appassionata oratoria, Giustino Fortunato.

Ebbene, e questo non lo rileva quasi nessuno, non è stato così. La constata-zione è ineludibile. L’Italia è diventata uno dei primi sette o otto paesi più avanzati del mondo dal punto di vista dello sviluppo, ma è contemporanea-mente rimasto un paese dualistico, e la questione meridionale rimane conficcata nella sua realtà ben più di quanto non si sia finiti oggi con l’essere disposti a riconoscere.

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È questa la ragione per cui già nel 1978 mi venne l’idea di suggerire che i meri-dionalisti indossassero il saio dell’umiltà, come facevano i peccatori penitenti, rinunciando alla loro ipotesi di condi-zionamento meridionale dello sviluppo nazionale al di là di quanto il buonsenso può indicare, e pensando ad altri moduli della politica meridionalistica.

Mezzogiorno senza meridionalismo, allora? Ammesso, ma non concesso per nulla che lo si possa dire o pensare, non è questo il problema. Nessuna efficacia concreta hanno le ripetute affermazioni di studiosi di varii campi in questo senso. Ad esempio, l’affermazione che il Mez-zogiorno debba essere considerato e stu-diato come un qualsiasi pezzo di mondo, quasi che qualsiasi pezzo di mondo possa essere storicamente e strutturalmente considerato eguale o equivalente a qual-siasi altro pezzo di mondo e possa essere impunemente portato fuori del suo con-testo storico e umano. Né è mancato chi ha sostenuto che i beni del Mezzogiorno e la sua condizione propria sono tali da rendere di gran lunga preferibile di vivere a Catanzaro (questo è letterale) invece che a Milano, come dimostra (aggiungo io, e lo dico con ironia, ma anche con cordialità) il caso dell’autore di tali affermazioni, che nella natia Calabria non vive. Ma già a disdire una tale audace affermazione valgono soprattutto le ormai centinaia di migliaia di persone che negli ultimi cinque o sei anni hanno ripreso a lasciare il Mez-zogiorno. E sarebbero, questi emigranti, questi nuovi emigranti, tutte vittime di illusioni modernistiche e consumistiche? Io ricordo sempre che Voltaire (un autore non troppo di moda in questo periodo, ma non male come autore) diceva pres-sappoco: “Volete capire come si vive in un paese? Guardate i suoi confini. Se la gente vi accorre, vi si vive bene; se la gente ne esce, vi si vive male”. Un criterio rozzo, ma straordinariamente efficace, credo.

Oppure si afferma che il Mezzogior-no ha i suoi valori e i suoi beni e che lo si deve giudicare alla stregua di questi beni e di questi valori, e non con parametri e criteri esterni ad essi. Quasi che il succo della storia e della politica, anzi della vita tutta, non stia in un continuo confronto, in un continuo rispecchiarsi nel contesto in cui ci si trova e al di là di esso; o, quasi che una esclusiva autoreferenzialità pos-sa essere un canone valido per la storia, per la politica, per la vita. O, ancora, si afferma che quella meridionalistica è sta-ta una ideologia distorcente di una realtà storica fin dall’inizio, in quanto inventata in ottiche particolari e discutibili. Anche qui non è mancato chi ha proposto di vedere l’invenzione della questione me-ridionale, nell’azione e nei discorsi degli esuli meridionali a Torino del decennio precedente l’unificazione del paese, perché avevano interesse, questi esuli, a rappresentare in modo negativissimo le condizioni del Mezzogiorno per raf-forzare così la spinta della restante Italia verso il Mezzogiorno. Quasi che l’intera vicenda dell’Italia unita, a cominciare dalla demografia e dai movimenti mi-gratorii non dimostri la fin troppo reale fondatezza della questione meridionale. Quindi, altro che inventarla: la “questio-ne” era sul tappeto sin dall’inizio.

Tralascio altre possibili specificazioni al riguardo. Dirò, per concludere, che la nozione di Mezzogiorno non può essere abbandonata, anche a prescindere da ogni riferimento di delineazione e richiesta di speciali interventi politici o normativi. Quella nozione è confitta nella realtà della storia meridionale italiana, mediterranea ed europea, ed è egualmente confitta nella realtà di problemi che ogni giorno si impongono da sé per la loro macroscopicità ed evi-denza, anche quando, come io ho fatto qui, non si accenna al risvolto criminale delle regioni meridionali (e non l’ho fatto

per non aprire un capitolo che da solo esigerebbe una lunga trattazione).

È probabile, almeno a mio giudizio, che la realtà delle cose finisca con l’im-porre una più pertinente veduta delle cose del Mezzogiorno, ma è certo che oggi non se ne vede alcun segno. E gra-direi molto di essere smentito clamorosa-mente nel mio pessimismo. L’avvicinarsi dell’ampliamento dell’Unione Europea varrà a modificare le cose? È presto per dirlo. Ma, in generale, sembra piuttosto prevalere, su questo problema, l’opinione di coloro (del resto, non infondatamente) ritengono che nel quadro europeo che conseguirà da quell’ampliamento vi sarà una maggiore difficoltà per il Mezzo-giorno ad essere considerato nella reale consistenza dei suoi problemi, e per lo più sembra accadere che nel ventilare questo timore si esaurisca anche il senso della preoccupazione così affacciata.

La cultura e la politica dovrebbero, comunque, essere molto più largamen-te mobilitate sul tema meridionale, se davvero si volessero fare nuovi e grandi passi avanti in materia. La deprecazio-ne, spesso letteralmente inaccettabile del passato, non esorcizza il problema. Se il Mezzogiorno non è una risorsa, non è tuttavia soltanto un peso morto, a costoso rimorchio della locomotiva italiana. È un anello irrinunciabile della catena italiana, e, ormai, europea. Ci si dovrebbe regolare di conseguenza.

E qui avrei finito, ma quando ho finito di scrivere questa relazione mi sono accorto che non mi ero posto l’in-terrogativo principale, con il quale vorrei lasciarvi: e, cioè, la domanda circa che cosa si possa dire che facciano i meri-dionali per il Mezzogiorno. E questa non è affatto tutt’altra questione.

Dalla relazione al Convegno Le priorità del Mezzo-giorno nel contesto italiano ed europeo. Associazione degli ex parlamentari. Roma, Settembre 2004.

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[…] Visto che parliamo di Mezzogiorno, un approccio di siste-ma consente di ri-

considerare e comprendere davvero il significato dell’intervento straordinario.

Infatti, fino a che continuiamo a confinare l’ analisi all’ angusta prospettiva locale, limitandoci a considerarlo una strategia da leggere esclusivamente per i suoi effetti sul Mezzogiorno, capiremo ben poco del senso complessivo di quell’ esperienza, decisiva per le vicende del Paese oltre che per il Sud.

Con questa sensibilità, a mio

avviso, dovremmo ragionare oggi al fine di verificare se e come nel Mezzogiorno, si possa avviare, in analogia a quanto avvenne negli anni della ricostruzione, una fondamentale azione di rigenera-zione dell’ economia e della società

italiana. In quegli anni ormai lontani il Mezzogiorno fu il fulcro su cui si fece leva per industrializzare tutto il Paese, produrre beni-salario a costi decrescenti fidando su un’ ininterrotta migrazione di forza lavoro dal Sud, invadere i mercati

esteri, entrare in Europa nel ’57 con un Trattato che prevedeva in un capitolo (redatto da Sa-raceno) regole particolari per l’ Italia, proprio con riferimento al Mezzogiorno ed in significativa coincidenza con la prima legge di industrializzazione del Sud. In questa ottica l’intervento straor-dinario è stato un tassello essen-ziale di una grande stagione di

Mezzogiorno Europa

Novembre‑Dicembre 2007

Anno VIII, n.6

Adriano Giannola

UNA QUESTIONEANcORA APERTA

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politica industriale, tesa a realizzare – in regime di smantellamento del protezionismo, grazie ad un uso strategico, non localistico, degli strumenti di politica regionale – una pode-rosa azione pubblica di industrializzazione di base. Una stagione

di politica industriale che costituì il solido asse

portante sul quale si è fon-dato il successo dell’ Italia

nel secondo dopoguerra.Grazie alle deprecate cat-

tedrali nel deserto ed alla poli-tica di industrializzazione del Mezzogiorno, si sono sciolti nodi strategici per l’ industria nazionale creando un moderno settore energetico e siderurgico, che ha consentito al settore me-talmeccanico, automobilistico, aeronautico ed elettronico di decollare, oltre che – contraria-mente alla vulgata – di attivare proprio negli anni Settanta

notevoli effetti indotti sulla

industria manifatturiera meridionale. Di tutto ciò – come noto – si è poi persa

memoria rifugiandosi, per 20 anni, nella celebrazione retorica dei distretti con il risultato di trovarci oggi a discettare del declino italiano.

C’è onestamente da constatare che l’ analisi della sinistra – specie di quella del PCI – fu poco attenta al significato complessivo del progetto e poco fidu-ciosa che esso – fortemente ispirato dall’ azione pubblica attraverso il ruolo deci-sivo delle Partecipazioni Statali – potesse conseguire reali obiettivi di sviluppo e, al contempo, di riequilibrio. Paradossal-mente quando negli anni Settanta dopo una lenta maturazione il PCI aderì di fatto alla riforma dell’ intervento straordinario, esso aderì sostanzialmente ad un approc-cio che vedeva quell’ intervento come strumento del decentramento, sempre più lontano dalla sua logica originaria di disegno nazionale. Come sappiamo, sui miti dell’ autopropulsività e del lo-calismo redistributivo si è consumato il fallimento e la degenerazione di quell’ esperienza con impressionante progres-sione dalla metà degli anni settanta in poi ivi compresa l’ esperienza della “Nuova Programmazione”.

Se vogliamo ritrovare il filo dello svi-luppo sarebbe molto opportuno riandare alla logica “aggiornata ma originaria” con l’ intento di ritrovare una strategia di rilancio dell’ economia e – al suo interno – una collocazione funzionale del Mezzogiorno. Superare cioè quella

che è attualmente la visione preva-lente di contrapposizione se non di disarticolazione nel confrontarci con le gravi difficoltà della nostra economia e che ora ripropone il Sud come palla al piede, sinonimo di sottrazione di risorse, inefficien-za e spreco. Con questo approccio

possiamo individuare una strategia da sottoporre all’ attenzione anche di

quegli scettici perplessi all’ idea che il Sud, possa avere ancora un ruolo strate-gico per fare ripartire il sistema.

Il sistema produttivo italiano neces-sita, sostanzialmente, di “invertire” il tanto discusso declino. A determinare

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la dinamica di questa deriva, non è la Cina bensì l’euro che ha messo impie-tosamente a nudo l’ insostenibilità di un modello che si affida esclusivamente al dinamismo di piccole imprese di settori maturi resi – ci illudevamo – sempre verdi dalla fantasia nostrana. In nome di questo unilateralismo fondamentalista alimentato da 20 anni di svalutazioni competitive si è allegramente consentito di smantellare tutto il resto.

Rafforzare quel che c’ è quindi non basta, occorrono sostanziali modifiche del modello di specializzazione repli-cando tardivamente quanto realizzato da anni in Germania, Francia, l’Inghil-terra, ecc. Per fare ciò torna in gioco, da protagonista attivo, il Mezzogiorno. Il Sud in questo momento offre per molte significative opportunità come luogo fisico fruendo – per la sua collo-cazione – di una “rendita di posizione logistica” che – ben sfruttata – può assolvere al ruolo essenziale di dare respiro ampliando significativamente gli spazi di manovra per realizzare il com-plesso e difficile mutamento strutturale. Una bella differenza rispetto al passato quando fu necessario “esportare” mi-lioni di persone per farne la leva dello sviluppo nazionale.

Il richiamo al ruolo centrale del Sud nel Mediterraneo rischia però di essere puramente rituale. Il Mediterraneo va inteso in senso diverso rispetto a pochi anni fa quando la prospettiva si esauriva nella realizzazione della zona di libero scambio tra le due sponde. Una prospet-tiva interessante ma non decisiva, lenta e problematica a realizzarsi.

È sempre più concreto ed attuale invece l’ interesse vitale che esprimono i nuovi protagonisti del mercato globale. India e Cina in testa, che hanno la con-venienza e la necessità di battere questa strada e l’ interesse a valorizzarla ed investire risorse sempre più ingenti. Noi possiamo partecipare a questo tumul-tuosa evoluzione non solo come luogo di transito, ma attrezzandoci a svolgere un ruolo di partner di un processo che

rappresenta l’ aspetto più dinamico e progressivo della globalizzazione dei mercati..

Non è perciò credibile per l’ Italia incapsularsi nella strategia (cara al redi-vivo Lombardo – Veneto) di agganciarsi alla Baviera per un’espansione dipen-dente sui mercati dell’Est. Senza “but-tare il bambino con l’ acqua sporca”, quello del Mediterraneo è un discorso serio, molto impegnativo, che al di là di interessi regionali, rappresenta una opportunità unica di rilancio e sviluppo della nostra economia. Occorre perciò affrontare con chiarezza di idee e di intenti i nodi da sciogliere dell’ intri-cato scenario del persistente dualismo italiano.

Condizione preliminare è una cor-retta applicazione del nuovo Titolo V della Costituzione, cosa che non fa la proposta di attuazione dell’ articolo 119 presentata dal Governo attuale.

Applicare l’art.119, vuol dire molto prosaicamente un 36% di spesa ordina-ria corrente ed oltre il 45% di quella in conto capitale al Sud. Applicare l’art.119 vuol dire infatti non dimenticare che il comma 5 recita che nei territori a minor sviluppo, indipendentemente da quanto previsto nei primi 4 commi, é lo Stato, che con risorse aggiuntive e straordina-rie definisce ed attua progetti di invento. Quindi c’è una politica costituzional-mente identificata su scala nazionale (da concentrare appunto sulla realizza-zione dell’ opzione Mediterraneo), che si raccorda alla strategia di conseguire obiettivi di interesse nazionale.

Ne deriva, complementarmente, la natura strettamente aggiuntiva dei Fondi dell’Unione Europea, deliberati per il periodo 2007 – 2013. Aggiuntività e straordinarietà, riemergono a dar corpo ad un’ azione che non per questo deve calare dall’ alto ma che può divenire occasione di partecipazione e concer-tazione tra territori a condizione che si chiariscano ambiti e competenze con precise funzioni e responsabilità gerarchiche.

È da aprire immediatamente un discorso che coinvolge solidalmente le regioni meridionali, lo Stato centra-le, l’Unione Europea, sul tema della fiscalità di vantaggio, termine tanto citato ed invocato ed altrettanto privo di contenuti. Essa potrebbe effettiva-mente rappresentare un’ efficace misura automatica per favorire sia la riduzione del nostro dualismo, sia – riattivando l’ accumulazione industriale e terziaria del Sud – il rilancio del sistema. L’ obiettivo che un simile intervento dovrebbe porsi è quello di far si che una regione d’Eu-ropa come il Mezzogiorno con oltre 20 milioni di abitanti possa applicare un regime fiscale particolarmente efficace e diretto per attrarre capitali ed investi-menti in settori industriali innovativi, ricerca, terziario avanzato,nuove fonti di energia, ecc.

La paventata opposizione della Commissione Europea e, soprattutto, di eminenti commissari italiani non ha da anni alcun fondamento analitico.

In regime di Moneta Unica, è prete-stuoso lamentare una lesione della concorrenza in Italia per chiu-dere poi gli occhi di fronte alla lesione della concorrenza che nell’ambito della zona euro, ad esempio, Irlanda, e magari Galles e Scozia già praticano da anni e domani praticheranno Polonia, Slovacchia e repubblica Ceca, ecc.

Pochi, ma significativi temi sui quali varrebbe la pena ragionare per valutare in un quadro euro-peo le prospettive di sviluppo del sistema Italia. Una riflessione da fare con lo spirito e volontà che animarono gli anni della ricostruzione e attorno alla quale realizzare la convergenza – come avvenne allora – tra un meridiona-lismo illuminato ed un lungimirante disegno dell’interesse nazionale.

Dal seminario sul Mezzogiorno in occa-sione del Centenario della nascita di Giorgio Amendola.

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come ogni anno, prima dell’estate, la Svimez ha presentato il suo Rappor-to annuale sull’economia

del Mezzogiorno. Ma, in questo caso, non si è trattato solo di una diagnosi,

anche se non mancano dati ed interpretazioni che fanno com-prendere lo stato dei fatti e la natura del problema da risolvere. La Svimez ha avanzato anche una proposta che potrebbe riaprire la strada per condurre l’Italia alla soluzione di questo problema antico: una divisione economica che taglia in due il paese e che

la riunificazione politica non ha saputo affrontare. Non solo negli oltre cento anni che stanno alle nostre spalle dalla data dell’unità nazionale. Ma neanche da quando, nei primi anni novanta, si è aperta la crisi che ha condotto alla così

detta “seconda repubblica”. Un assetto istituzionale fondato sul bipolarismo ed alla ricerca di una palingenesi, che non è mai avvenuta, rispetto ai vizi della nostra precedente storia repubblicana. Hanno fallito – in questa lunga parabola

quasi ventennale, che separa la crisi del 1992 dalla ripresa della crescita, avvenuta nel 2006 solo grazie al dinamismo di un grup-po limitato, e non meridionale, di imprese italiane – governi di centro sinistra e governi di cen-trodestra. Sono stati impiegate, in maniera inefficace ed inefficiente, molte risorse finanziarie offerte

Mezzogiorno Europa

Settembre‑Ottobre 2007

Anno VIII, n. 5

Massimo Lo Cicero

LIBERIAMOcI DEL MEZZOGIORNO?

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dalle politiche di coesione europee in questi anni. Risorse che vengono da un bilancio comunitario del quale il nostro paese è creditore netto: dunque risorse che noi stessi abbiamo conferito ad un obiettivo che non siamo stati poi in grado di realizzare.

La Svimez ha richiamato tutti a questa responsabilità nazionale che deve tra-dursi in una nuova e più intensa spinta verso la crescita del Mezzogiorno. Se si vuole evitare che il dualismo si traduca in una profonda crisi della coesione so-ciale, impedendo all’Italia di agire come una potenza significativa, sia alla scala europea che ad una scala mondiale. Proprio perché questa critica radicale investe la cultura politica di entrambi i corni di un bipolarismo federale – che aggrega, in due schieramenti frastagliati, oltre venti partiti – la Svimez individuava il destinatario della propria proposta nel Parlamento e non nel Governo. Nella speranza che, almeno in quella sede, si ricompongano le fila di un processo che, altrimenti, tra decentramento ammi-nistrativo e contrapposizioni di interessi tra il Nord ed il Sud del paese, potrebbe condurre ad un vero e proprio collasso istituzionale. Un collasso generato dal deficit di crescita presente nell’area de-bole del paese e dalla parallela e costosa manifestazione di politiche di sostegno, che non avviano la crescita ma dilatano solo il dissesto della finanza pubblica na-zionale. La base analitica necessaria per ritrovare una dimensione politica della questione meridionale è evidente.

Il Mezzogiorno è omogeneamente un’area che non cresce per l’assenza di capitale fisso sociale – le infrastrutture, tangibili ed intangibili – e per la fuga della parte migliore del suo capitale umano ma anche per l’abbandono degli

investitori internazionali. Gli investimenti dall’estero si riducono in ragione dello smobilizzo, o della cessione degli im-pianti esistenti, e dell’assoluta assenza di nuovi ingressi. Nel Mezzogiorno vive il 35% della popolazione, si produce solo il 25% del prodotto interno lordo ma lavorano il 28% degli occupati (la domanda di lavoro coperta sul mercato ufficiale) e si registra la presenza del 30% delle Forze di lavoro (l’offerta ufficiale di lavoro). Ne segue che nel Mezzogiorno è bassa la produttività del lavoro; i disoc-cupati rappresentano il 54% del totale italiano; è molto estesa l’area grigia e nera del mercato del lavoro. Si tratta insomma di una economia che sconta una bassa produttività del lavoro ed una mediocre produttività totale di sistema. Di conseguenza essa esporta poco (solo l’11% del totale italiano) e grazie ad alcune, troppo poche, grandi industrie nazionali ancora presenti nell’area. Il prodotto pro capite è la moltiplicazione tra il prodotto per occupato e la frazione degli occupati sulla popolazione esisten-te: tra quanto produce ogni lavoratore e quanti lavoratori esistono. Il primo indi-ce, dal 2000 al 2006, è stabile intorno all’82% di quello del centronord mentre il secondo è pari al 69% del centronord. Ne segue che il prodotto procapite del sud sia stabilmente pari solo al 57% di quello del centronord.

Un divario di produttività, combinato con un marcato gap infrastrutturale, rende il Mezzogiorno la regione meno competitiva tra le regioni europee. Mentre il divario tra le economie degli stati europei, nell’Europa a 27, si riduce e si allarga, invece, il divario tra le regio-ni. L’Italia – il paese con il mag-

giore dualismo interno in Europa – non ha futuro in questo contesto.

Questione settentrionale vs.Questione meridionale

Insomma: le due questioni della politica italiana, la settentrionale e la meridionale, si contrappongono o sono le due facce della medesima medaglia? Sembrerebbero, a prima vista, le due facce ma la cosa diventa più compli-cata se ragioniamo sul merito dei due problemi.

La relazione tra la rete delle organiz-zazioni sociali e lo Stato, in Italia, è squi-librata. Nel Nord le prime sono troppo forti, nel Sud sono inesistenti, in termini di forza autonoma e capacità di rappre-sentare interessi effettivi ed indipendenti dalla spesa pubblica. La forza di fare sta, nel Sud, dalla parte dello Stato che, tuttavia, non ha grandi com-petenze e capacità nella organizzazione della pubblica ammi-nistrazione. Al Nord, sebbene non esista-no troppe r i s o r s e finanzia-rie – che a l Sud sembra-no ad -dirittura t r o p p e r i s p e t -to alla

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capacità di fare delle regioni e dei comuni, ma anche a quella dell’ammi-nistrazione centrale – esiste un reddito medio elevato e diffuso, che consenti-rebbe di realizzare in regime di finanza di progetto e di partnership tra attori privati e soggetti pubblici una nuova rete di infrastrutture. I cittadini del Nord potrebbero pagare per il loro utilizzo e le banche ne potrebbero finanziare la realizzazione. Al Sud il reddito procapite è troppo basso e la ricchezza è molto concentrata.

Le infrastrutture dovrebbe crearle lo Stato, ma abbiamo appena detto che le sue competenze e le sue capacità sono assai fragili. Paradossalmente inferiori a quelle delle organizzazioni pubbliche del Nord che, al contrario, hanno le competenze e la coesione sociale ne-cessaria ma non ricevono adeguati fondi

pubblici per creare nuovo capitale fis-so sociale. La sicurezza è un

problema al Nord come al Sud ma la causa

del problema è assai diversa. Al

Nord il pro-blema nasce dalla diffi-cile inte-grazione s o c i a l e dei ceti d e b o l i , gli immi-grati. Al Sud essa n a s c e dall’ec-c e s -s i v a

forza dell’unico soggetto sociale orga-nizzato e robusto: la malavita. Questa simmetria ne genera un’altra altrettanto inquietante. Al Nord l’economia som-mersa la producono le imprese che agiscono in maniera illegale ma non per finanziare attività criminali. L’elusione confina con l’evasione ed entrambe creano un vantaggio competitivo ano-malo, ma collegato alla produzione ed alla competizione. Nel Sud l’economia illegale finanzia la sopravvivenza e la in-capacità della società di porre in valore le proprie risorse. Una parte dell’eco-nomia illegale è decisamente criminale ma si ritorna, per questa strada, al caso della mafia e della camorra, cioè della malavita organizzata.

Insomma, per farla breve, al Nord concertazione e partnership tra pub-blico e privato sono molto utili, al Sud sono irrealizzabili. Al Sud la fragilità intrinseca dell’economia e delle orga-nizzazioni pubbliche genera un para-dosso originale: si parla molto (troppo?) di progetti dei quali si capisce poco l’oggetto e per i quali non è mai dispo-nibile un soggetto capace di realizzarli. In fondo la mancata crescita del Sud riguarda la capacità di programmare ed organizzare il cambiamento. Servi-rebbe una pubblica amministrazione migliore. Al Nord. invece, basterebbero meno tasse e meno pubblica ammini-strazione, dice la società civile locale. Dove conduca questa analisi è abba-stanza evidente. Non dobbiamo più inseguire la chimera della riduzione del divario, di reddito o di produttività, tra Nord e Sud, Bisogna riconoscere che il dualismo italiano è rimasto immutato e, forse, si è addirittura allargato con la fine della guerra fredda e lo sviluppo dell’economia della conoscenza e della globalizzazione.

Sarebbe possibilefare altrimenti?

Francamente la cosa più singolare della questione meridionale, oggi, è proprio il disinteresse che la circonda fuori e dentro il Mezzogiorno.

Un disinteresse che si affianca ad una lenta, ma sistematica, erosione degli interrogativi radicali che dovrebbero darci le risposte per avviare una politica economica capace di aggredire il proble-ma. Come se, per rimettere in moto un terzo dell’Italia, e così facendo, aiutare la ripresa dell’Italia intera, bastasse parlare solo di quello che si potrebbe spende-re – 100 miliardi di euro – senza mai dire come e dove quella spesa andrebbe realizzata e, da ultimo ma è la cosa più importante, perché.

Cento miliardi di euro, da spendere tra il 2007 ed il 2013, sono veramente una montagna di soldi. Rappresentano, in rate annuali costanti e consecutive, il 4% del prodotto interno lordo nel Mez-zogiorno ogni anno.

Ma il Mezzogiorno, tra i suoi tanti caratteri negativi, è ancora una pentola bucata. Perde liquidità. Tracima, quando versate nella sua economia spesa, pub-blica o privata che sia. Perché dipende molto dalle importazioni, dal resto dell’Italia e dal resto del mondo, e non riesce ad esportare altrettanto, in Italia e nel resto del mondo. Ma, anche se immaginiamo che il Mezzogiorno debba importare il 40% della sua domanda effettiva – ed è una enormità – e che i meridionali risparmino solo il 10% del proprio reddito – essendo molto più po-veri del resto d’Italia e dell’Europa intera, nonostante l’avvenuto allargamento a chi non era certo ricco, come la Romania e la Bulgaria – aggiungere il 4% di investi-menti esogeni dovrebbe far crescere il prodotto interno lordo all’8% l’anno. Con una ipotesi fin troppo cauta si dovrebbe

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�0APPUNTI

SUL MEZZOGIORNOIN ALcUNI NUMERI

DELLA RIVISTA

avere una espansione di breve periodo mai realizzata negli ultimi due secoli! Questo banale esercizio di aritmetica economica ci mostra, purtroppo, quanto inefficace sia stata la spesa realizzata con Agenda 2000. Ma anche quanto essa sia stata inferiore alle dimensioni che diceva di poter conseguire. Il fatto è che gli effetti moltiplicativi, che abbiamo de-scritto, richiedono che la spesa si traduca in investimenti, e non in una pioggia di rendite e sussidi, e che – parallelamente alla spesa che si realizza – quegli inve-stimenti chiudano i fori della pentola meridionale. Espandano, cioè, l’offerta di beni e di servizi prodotta in loco, ed aumentino la produttività delle forza lavoro impegnata nelle produzioni locali. Perché, in questo modo, si ribalta la relazione negativa della dipendenza. Il Mezzogiorno produce per se, esporta e finanzia, in prospettiva, la propria accu-mulazione: senza dover più dipendere da flussi di spesa pubblica esogena. I nuovi investimenti dovrebbero andare in tre direzioni. Rafforzare la rete delle infra-strutture, che connettono tra loro le varie parti del Mezzogiorno, per creare un vero grande mercato di oltre venti milioni di consumatori: molto più grande di molti mercati domestici che si trovano negli Stati new comers nell’Unione Europea. La seconda direzio- ne è quella del risanamento del-le grandi città e dei possibili sistemi urbani di secondo livello. Napo-li e Palermo, cer tamente, ma anche le potenziali c o n u r -

bazioni tra Salerno ed Avelino; tra Bari, Brindisi e Lecce; tra Benevento, Campo-basso ed Isernia. Solo per fare qualche esempio. La terza direzione è quella dei sistemi di imprese: rinunciando alle microimprese ed ai capannoni delle grandi imprese esogene. Reti di imprese collegate tra loro; capaci di stringere relazioni e collegamenti con i mercati internazionali. Reti di impresa in cui riversare le competenze e le capacità di una forza lavoro che è ampiamente eccedente rispetto alle dimensioni della domanda che possono esprimere oggi le economie locali.

È evidente che tutto questo non si possa fare affidandone la realizzazione ed il coordinamento a sei regioni. Sono troppe, troppo piccole e troppo litigio-se contro la presunta invadenza delle burocrazie nazionali. Creino, invece, le regioni meridionali un proprio sistema di coordinamento per la regia politi-ca di questa prospettiva e diano vita – chiedendo fondi e com-petenze al sistema bancario ed agli organismi internazionali – ad una banca di sviluppo che sia per loro uno strumento prezioso: una struttura tecnica idonea per progettare, valutare e gestire investimenti capaci di creare valore, alimentare la crescita, riequilibrare il gap tra capacità di spesa e capacità di produrre. Assegnino le Regioni una fina-lità unica e condivisa all’ultimo ciclo delle politiche di coesione: mettere il Mezzogiorno in grado

di reggere la sfida per la creazione di un’area di libero scambio, un grande mercato unico nel Mediterraneo. Magari non 2010 – come si illuse l’Europa di po-ter fare, a Barcellona nel 1995 – ma nel 2014, come conclusione riconoscibile di una lunga parabola europea.

Non bisogna avere paura di pensa-re in grande se si vuole trasformare il Mezzogiorno in un paese normale ed europeo.

Nord e Sud non sono la medesima cosa e le due questioni politiche – troppo Stato e troppo poco Stato – da risolvere sono un grande problema.

Ma con la nascita di istituzioni nuove, capaci di alimentare spinte di liberaliz-zazione e di coordinamento, nelle due sezioni del paese, si avrebbero certa-mente effetti migliori dell’attuale confusa reciproca diffidenza tra i due corni del nostro dualismo.

Il cambiamento sarà tanto più effi-cace quanto più si annunci come una novità radicale, come una comprovata diversità dal passato.

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Un programma eUropeo per le elezioni italiane

Se l’Unione europea non interferisce sulle elezioni negli Stati membri, è pur vero che le sue azioni hanno, ovviamente, effetti diretti sulla vita di ciascuno Stato membro e, se se ne vuole trarre beneficio, sui programmi elettorali dei partiti che si presentano. Non saranno certo le “euronote” che si soffermeranno su questi programmi, anche se corre l’obbligo di segnalare la debolezza del tema europeo nel dibattito elettorale. È un po’ come discutere di rifiuti senza prendere in conto le leggi europee in materia (ab-bondantemente violate, secondo la Commissione europea, che ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, ahimé soprattutto in ragione della crisi campana), di sviluppo, senza prendere in conto i fondi strutturali (una grande dose di denaro immesso nelle regioni più deboli, in particolare del mezzogiorno), di Mediterraneo, senza prendere in conto la politica mediterranea o, ancora di economia e finanza senza tenere in conto che al livello internazionale è l’Euro che può far legge e che, al livello europeo, è la “strategia di Lisbona” che fornisce i principali orientamenti.

lisbona, e poi? Proprio su questi ultimi due temi, economia e finanza, conviene

riferire dei risultati del Consiglio europeo del 13 e 14 marzo, che li ha, appunto, sviscerati. Quanto alla finanza, il Consiglio europeo si preoccupa della crisi finanziaria internazionale, dando però l’impressione di essere certo di controllarla pienamente e di avere delle strategie per le nuove sfide, per esempio quella dei fondi sovrani per l’investimento internazionale (pare che la Cina ne abbia messo a punto uno da qualche centinaio di miliardi di dollari!), che, senza regole, rischiano di non svolgere nel mercato interna-zionale una chiara funzione di trasparenza. Invece, per quel che concerne l’aumento dei prezzi, i governi non sembrano terribilmente preoccupati e sembrano escludere qualunque forma di “calmiere”. Per il resto, i Governi confermano la fiducia nella Banca centrale e nell’Euro – effettivamente, in periodo di aumenti drammatici del prezzo del petrolio, l’Euro è stato un vero baluardo contro una crisi incontrollabile – ed insistono sulla riduzione dei disavanzi e del debito pubblico. L’Italia è stata ultimamente un buon allievo, anche se le nostre performances restano insufficienti: un problema per il prossimo governo (e per tutti noi!). Quanto alla strategia di Lisbona, per la prima volta, il Consiglio europeo ha posto il problema di studiare quale strategia preparare per il “dopo Lisbona” cioè a partire dal 2010, anno di conclusione di questa strategia. Se qualcuno (Stato, regioni, autorità locali, forze sociali, mondo accademico) volesse avere qualche cosa da dire a questo proposito, sarebbe bene cominciare adesso! Anche perché il 2010 è proprio alle porte e poco dopo, nel 2013, scadrà il periodo di program-

mazione dei fondi strutturali e non sta scritto da nessuna parte che le regioni italiane ne beneficeranno ancora pienamente. Successivamente sarà difficile lamentarsi o avere un’influenza sulle decisioni. Parallelamente, il Consiglio europeo ha espresso un parere chiaramente po-sitivo sui risultati della sua strategia: 6,5 milioni di nuovi posti di 2 lavoro negli

ultimi anni sono stati creati anche grazie alle riforme introdotte negli Stati membri

sulla base del comune orientamento. Il Consiglio europeo non dice nulla, tuttavia, sul

precariato o sull’effettiva distribuzione dei posti stessi. Temo, in effetti, che questi nuovi posti non

siano uniformemente distribuiti! Certo, il Consiglio europeo sottolinea il problema della disoccupazione

giovanile sempre presente, questa volta sì, dappertutto. Vero è che questo problema tocca eminentemente le regioni

del sud e la Campania e Napoli in primo luogo. Il Consiglio eu-ropeo propone alcune piste. La prima è quella dell’istruzione. Devo

dire che mai come questa volta i governi hanno posto l’accento su questo problema: università, istruzione superiore, formazione sono i temi trattati. La seconda pista riguarda l’innovazione tecnologica (ancora le università ed il rafforzamento della loro relazione col mondo imprenditoriale). La terza riguarda i servizi: senza asili, per esempio, è difficile che i giovani genitori possano andare a lavorare. E, infine, il Consiglio europeo mette l’accento sulle piccole e medie imprese, strumento essenziale di sviluppo e d’innovazione. (Meno “drammatico”, diversamente dalle attese, è, invece, l’appello alla “flessisicurezza” per la quale si mette l’accento più sulla di-versità delle situazioni che sull’unitarietà della strategia.) La ricetta è, credo, ottima. Bisogna uscire dall’economia della buona volontà (che comunque serve!) per entrare nell’economia della conoscenza e dell’innovazione. Ma, certo, ogni Stato membro ed ogni regione, debbono svolgere il loro ruolo e risolvere i problemi specifici. Per esempio, questa strategia può funzionare se la criminalità è sotto controllo, altrimenti il racket distrugge qualsiasi seria possibilità di sviluppo della piccola e media impresa. Per esempio, la qualità dell’amministrazione pubblica nazionale, regionale e locale (ma questo lo segnala lo stesso Consiglio europeo) sarà una condizione di sviluppo. O, ancora, ne sarà una condizione la qualità dell’ambiente, l’altro grande tema trattato dal Consiglio europeo. Infatti, le questioni dell’energia, del cambiamento climatico sembrano essere ormai il problema nodale del-l’Unione europea. In pratica, il Consiglio europeo dà il suo “viatico” alle proposte della Commissione europea presentate in dicembre che insistono sulla lotta agli sprechi, sulla definizione di valori appropriati e sul cambia-mento dei comportamenti dei cittadini e delle imprese. Ormai lo sviluppo si dovrebbe fare senza incrementare, anzi riducendolo, l’inquinamento. Si tratta di un messaggio fondamentale, tanto più che l’Unione ne fa un elemento centrale della sua politica estera. Certo, questo significa qualcosa in particolare per le regioni in ritardo di sviluppo ed anche per le nostre regioni del sud. Il nostro mezzogiorno è particolarmente interessato perché ormai i Fondi strutturali 2007-2013 (una delle politiche comunitarie che riscuote il maggiore successo, secondo l’ultimo eurobarometro) dovranno essere utilizzati per rispondere alle priorità della strategia di Lisbona, delle quali l’ambiente e l’energia sono parte importante. Per chi volesse fare un programma per lo sviluppo delle nostre regioni c’è abbastanza carne al fuoco. Come approfittarne? Naturalmente, possiamo non tenerne conto. Quanto ci potrà costare, quanti benefici ci farà perdere?

Euronotedi Andrea Pierucci

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il Comitato eConomiCo e soCiale eUropeo (Cese) ed i “Cnel” nazionali per la strategia di lisbona

È interessante ricordare che il CESE e le analoghe istituzioni nazio-nali hanno ricevuto dal Consiglio europeo dal 2005 il compito di esprimersi sulla strategia di Lisbona. Quest’anno hanno presentato un corposo docu-mento (relatore Mario SEPI) su tutti gli aspetti della strategia, che varrebbe la pena di leggere. Qui mi limiterò a riferire l’accento che essi hanno messo sulla questione dell’applicazione nazionale, regionale e locale della strategia stessa, nonché, ovviamente, da parte delle forze sociali. Tocca riflettere su questi due aspetti. Per quel che riguarda il ruolo delle regioni e delle autorità locali, il CESE fa eco ad un’analoga posizione del Comitato delle Regioni. Pare un’evidenza ad una persona attenta alle dinamiche politiche ed economiche, salvo, talora alle autorità stesse! Mi pare, invece, che si tratti della grande intuizione del tempo, confermata dal Trattato (anch’esso di Lisbona) la cui ratifica è in corso. La filosofia che vi sta dietro (quella della sussidiarietà responsabile) sostiene l’impossibilità di fare una politica utile senza che tutti i livelli facciano la loro parte. Nel clima elettorale bisognerebbe farci attenzione. Quanto alle forze sociali, bisognerebbe che queste ultime, a tutti i livelli vi facessero riferimento. Ad un dialogo sociale europeo e nazionale manifestamente debole e occasionale, si potrebbe sostituire, credo con van-taggio di tutti, un dialogo sui temi proposti dai comitati economici e sociali, nei quali, appunto, sono presenti imprenditori e sindacati. Ovviamente, in questo contesto, ciascuno deve poi fare il suo mestiere.

il mediterraneo torna di sCena? Con molta acqua nel suo vino, il progetto francese di Unione me-

diterranea fa un po’ di strada, grazie ad una formula di (super) compromesso: “Processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo”. I Capi di Stato e di governo ne ridiscuteranno al Consiglio europeo del 13 luglio (sotto presiden-za francese…) sulla base di proposte presentate dalla Commissione europea. Certo, il seguito del rilancio dell’iniziativa euromediterranea è ancora del

tutto imprevedibile. Si tratta comunque di un tema centrale per le regioni del sud (e non solo) dell’Italia. Possiamo lasciare agli altri la produzione delle idee? Qualcuno vorrebbe dare dei consigli alla Commissione? Mah, sarebbe proprio necessario, se vogliamo che il futuro delle relazioni euromediterranee corrisponda ai valori ed agli interessi delle nostre regioni.

esame di salUte per la paC

Il Parlamento europeo si è espresso sullo stato di salute della politica agricola nella sessione di marzo. La risoluzione, preparata dal-l’on. Goepel, mette l’accento sul radicale cambiamento della situazione del settore (aumento dei prezzi internazionali, biocarburanti, effetti delle recenti riforme della politica comunitaria). Ormai una politica europea dev’essere orientata alla qualità ed alla salubrità dei prodotti (mozzarella…), piuttosto che al sostegno dei prezzi, che sembra non più necessario. Ma la qualità dev’essere assicurata non solo per i prodotti europei (l’Agenzia di 4 Parma ha certamente questo compito), ma dev’essere anche protetta rispetto al mercato internazionale. Un’altra riforma si profila dunque all’orizzonte: un’occasione d’oro per far valere i “diritti” delle produzioni mediterranee e dei prodotti di alta qualità.

CinqUant’anni non sono poChi: l’anniversario della demoCrazia in eUropa

Con molta sobrietà il Parlamento europeo ed il Comitato econo-mico e sociale europeo celebrano il loro cinquantesimo anniversario. Sono cinquant’anni che l’Europa prova a costruire una democrazia sopranazionale. È stata ed è una sfida senza precedenti ed anche un modello per il resto del mondo. È anche una grande fortuna per tutti i paesi europei, le cui strutture democratiche sono radicalmente ancorate al sistema europeo. Ed è anche una grande sfida per ciascuno Stato membro: come migliorare la nostra democrazia, ancora troppo lontana dai cittadini?

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Mezzogiorno EuropaPeriodico della Fondazione

Mezzogiorno Europa – onlusN. 2 – Anno IX – Marzo/Aprile 2008

Registrazione al Tribunale di Napolin. 5112 del 24/02/2000

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Direttore responsabile:Andrea Geremicca

Redazione:Osvaldo C­ammarota,

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GraficaLuciano Pennino (Napoli)

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Le opere di Luciano Pennino, che illustrano questo numero, sono parte di una produzione artigianale per arredamento d’[email protected]

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 LA RIVISTA

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