magzine 08

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Periodico di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore www.magzine.it » » A t t i l i o B o l z o n i , c h i h a u c c i s o d a v v e r o F a l c o n e ? » » M a u r i z i o T o r r e a l t a , u n i n c h i e s t a n u c l e a r e » » S p o t . U s r e i n v e n t a i l g i o r n a l i s m o p a r t e c i p a t i v o » » B a r b a g a l l o , d u e s e c o l i d i c a m o r r a n a p o l e t a n a » » T h e E m p t y H o u s e , w e b d o c s u g l i o r r o r i d e l l a K o s o v o » » A t t i l i o B o l z o n i , c h i h a u c c i s o d a v v e r o F a l c o n e ? » » M a u r i z i o T o r r e a l t a , u n i n c h i e s t a n u c l e a r e » » S p o t . U s r e i n v e n t a i l g i o r n a l i s m o p a r t e c i p a t i v o » » B a r b a g a l l o , d u e s e c o l i d i c a m o r r a n a p o l e t a n a » » T h e E m p t y H o u s e , w e b d o c s u g l i o r r o r i d e l K o s o v o Capolinea Balcani Mentre riapre la ferr ovia tra Serbia e Bosnia, Belgrado fatica a chiudere i conti col passato. Lo skyline della città bombardato nel 1999 è il simbolo di una pace incompleta Mentre ri apre la ferr ovia tra Serbia e Bosnia, Belgrado fatica a chiudere i conti col passato. Lo skyline della città bombardata nel 1999 è il simbolo di una pace incompleta

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Periodico di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

www.magzine.it

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»» Attilio Bolzoni,chi ha ucciso davvero Falcone?

»» Maurizio Torrealta,un’inchiesta nucleare

»» Spot.Us reinventail giornalismo partecipativo

»» Barbagallo, due secolidi camorra napoletana

»» “The Empty House”,webdoc sugli orrori della Kosovo

»» Attilio Bolzoni,chi ha ucciso davvero Falcone?

»» Maurizio Torrealta,un’inchiesta nucleare

»» Spot.Us reinventail giornalismo partecipativo

»» Barbagallo, due secolidi camorra napoletana

»» “The Empty House”,webdoc sugli orrori del Kosovo

C ap o l i n e aB a l c a n i

Mentre ri apre la ferr ovia tra Serbia e Bosnia, Belgradofatica a chiudere i conti col passato. Lo skyline della cittàbombardato nel 1999 è il simbolo di una pace incompleta

Mentre ri apre la ferr ovia tra Serbia e Bosnia, Belgradofatica a chiudere i conti col passato. Lo skyline della cittàbombardata nel 1999 è il simbolo di una pace incompleta

Page 2: magzine 08

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 20102

inchiesta

di Valerio Bassan

A undici anni dall’offensiva della Nato contro il regime di Milosevic a Belgra d o, i palazzi distrutti sono ancorav i s i b i l i . L’ E u ropa non è mai stata così lontana. R e p o rt a g eda un Paese che fatica a chiudere i conti col passato

ULLE CINQUE CORSIE di Kneza Milosa, la “stra-

da del potere” che conduce al centro di Belgrado, le

automobili eleganti dei parlamentari si mescolano

alle vecchie Yugo. A metà della grande arteria, tra il

ministero delle Finanze e le ambasciate di Germa-

nia e Usa, due edifici diroccati - speculari l’uno all’al-

tro - si ergono a porta di accesso al cuore della città.

Sono i palazzi che componevano il Generalstab di Milosevic, sede

del ministero della Difesa e dell’esercito federale, costruiti nel 1963

su progetto di Nikola Dobrovic, da molti considerato il più impor-

tante architetto serbo moderno. Il 7 maggio 1999 gli aerei della

Nato li hanno colpiti riducendoli a un cumulo di macerie: da allo-

ra sono trascorsi undici anni, ma i palazzi di Kneza Milosa, così

come gli altri edifici distrutti dalle forze alleate, sono rimasti in sta-

to di abbandono.

Dalle finestre si intravvedono ancora alcuni scaffali pieni di

documenti. L’area dei palazzi è recintata, l’accesso controllato gior-

no e notte dalla polizia. Èproibito persino fotografare i danni pro-

dotti dai bombardamenti, pena salatissime multe e la cancellazio-

ne degli scatti.

Ma cosa ha impedito, finora, la ristrutturazione di questi edi-

fici? Al di là dei problemi tecnici e della mancanza di denaro, è un

controsenso urbanistico che degli spazi così ben posizionati nel cen-

tro della città non riescano a essere venduti o riconvertiti.

«Sono state indette aste per costruirci alberghi, data la loro

collocazione interessante anche dal punto di vista turistico»,

racconta Francesco Mazzucchelli, studioso di architettu-

ra in zone di conflitto all’Università di Bologna e autore di un

libro Urbicidio. Il senso dei luoghi tra distruzioni e ricostruzioni

in ex Jugoslavia, in uscita per Bup -. «In realtà, non è mai stato rea-

lizzato nulla di concreto. Nel 2008 la facoltà di Architettura di Bel-

grado, in collaborazione con l’università “La Sapienza” di Roma,

aveva indetto un concorso con l’idea di recuperare queste struttu-

re: il bando è stato vinto da una coppia di architetti, un serbo e un

italiano. Il loro progetto, però, è finito nel dimenticatoio». Così gli

obiettivi colpiti nel 1999 sono diventati poco alla volta parte inte-

grante del paesaggio urbano della capitale serba.

Chi visita Belgrado per la prima volta,

però, non può rimanere indifferente al

contrasto quasi surreale tra queste cicatri-

ci del paesaggio urbano e l’architettura

neoclassica - in perfetto stile sovietico - che

disegna il resto del centro storico. «B e l g r a-

do è la città delle contraddizioni: aspira a

diventare una grande capitale europea e

mantiene intatte le rovine -prosegue Maz-

zucchelli -. Gli edifici bombardati dalla

Nato rappresentano il ricordo vivo di un

evento non metabolizzato, rispetto al qua-

le la società serba fatica ancora oggi a rap-

portarsi. Belgrado sembra possedere una

speciale predisposizione a registrare alcu-

ni tipi di segni prodotti dalla storia, come

una pellicola troppo sensibile. Al tempo

stesso, questi segni sembrano, più che

altrove, particolarmente resistenti alla

cancellazione, alla rimozione».

Negli ultimi anni, i palazzi colpiti dal-

l’operazione Allied Force sono diventati

oggetto di strumentalizzazione politica da parte dei partiti nazio-

nalisti. «Alcune forze estremiste hanno usato l’immagine

ancora vivida che questi edifici portano dei bombardamen-

ti per tracciare una narrazione, fortemente ideologizzata,

dell’aggressione subita da parte della Nato - osserva Maz-

zucchelli -. In questa chiave, i Serbi diventano, nella propa-

ganda di queste formazioni politiche, il popolo che per eccellen-

za è vittima della storia».

Una caratterizzazione politica che viene sottolineata spesso

anche dalle manifestazioni di protesta in città. Gli edifici progetta-

ti da Dobrovic svolgono infatti un ruolo fondamentale per la loro

visibilità, per la loro centralità, per il contrasto con l’ambiente cir-

costante. «Esiste una continua produzione mediatica di immagini

di proteste che hanno, per scenografia, l’aggressione della Nato.

Quando giornali e televisioni mostrano le immagini delle manife-

S

La memoriab o m b a rd at a

Page 3: magzine 08

stazioni, le rovine stanno sempre sullo sfondo».

Per questo motivo gli edifici bombardati nel 1999 si sono tra-

sformati, nell’immaginario popolare, in simboli controversi. Edi-

fici che verranno ricordati forse più per la loro distruzione che per

la loro costruzione. «Credo che la memoria viva di una città non

vada cercata tanto nei monumenti, o nei posti progettati con l’in-

tento esplicito di conservare un ricordo- annotaMazzucchelli -,m a

nelle zone del paesaggio urbano dove essa si produce spontanea-

mente, in maniera autonoma. È quella che io chiamo la memoria

involontaria di una società».

I due edifici del Generalstab hanno subito di recente piccoli

lavori di ristrutturazione, opere “leggere” di risanamento e mes-

sa in sicurezza. «Dal bombardamento a oggi, solo in rarissimi casi

si era dovuti intervenire per arginare possibili cedimenti murari .

Lo scorso febbraio, l’amministrazione di Belgrado è corsa ai ripa-

ri a causa dell’ingente quantità di pioggia caduta sulla città duran-

te l’inverno - conferma il ricercatore dell’Università di Bologna -.

Laprecaria stabilità dei due palazzi rappresenta anche un perico-

lo per i passanti, e la scelta di non procedere a una ristrutturazio-

ne totale può essere letta come l’esempio più evidente delle diffi-

coltà di Belgrado di allontanarsi da alcune “ossessioni” della sua

m e m o r i a » .

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 3

I partiti più estremisti spesso utilizzanol’immagine ancora vivida dei palazzidistrutti per tracciare una narrazioneideologica dell’aggressione Nato

LA SCHEDA - Il 24 marzo 1999

s c a t t ava l’Operation Allied Force

della Nato contro la Repubblica Fe d e ra l e

di Jugoslavia gove rnata da Slobodan

M i l o s ev i c. Per oltre due mesi, una massic-

cia campagna di bombardamenti aerei a

c a ra t t e re strategico colpirono le sedi del

p o t e re politico, m i l i t a re e mediatico in

S e r b i a . La Nato accusava già da tempo il

g ove rno federale di perp e t ra re una fero-

ce pulizia etnica in Kosovo, regione al

c e n t ro di una rivendicazione terri t o ri a l e

da parte serba e albanese. I bombard a-

m e n t i , che term i n a rono il 10 giugno del

1 9 9 9 , p rovo c a rono oltre 500 morti fra i

c ivili da parte serba. I segni più ev i d e n t i

dell’attacco si trovano ancora oggi a

B e l gra d o, d ove gli ordigni della Nato

d i s t ru s s e ro i ministeri della Difesa,

d e l l ' I n t e rno e delle Finanze, la re s i d e n z a

p re s i d e n z i a l e, la sede della Te l ev i s i o n e

Serba Rts (sedici mort i ) , il ri p e t i t o re tele-

v i s ivo sul monte Ava l a , l ' o s p e d a l e, la sede

del Pa rtito socialista, l'Hotel Jugoslavija e

l'ambasciata cinese. La To rre Ava l a , u n o

dei simboli della città, è stata ri c o s t ru i t a

con l’aiuto del gove rno e di una sottoscri-

zione popolare, cui hanno partecipato un

milione di cittadini serbi e cinquecento

p e rsonalità dello spettacolo. I n a u g u rata lo

s c o rso 21 apri l e, è fi n o ra l’unico edifi c i o

completamente ri s t ru t t u rato a undici anni

dalla fine dei bombard a m e n t i .

Per sap e rne di più

Tre blog sull’urbanistica di Belgra d o :

b a l c a n s c a p e s . bl o g s p o t . c o m ;

t h e n a o. n e t / u f o - b / i n d ex . h t m ;

s a j k a c a . bl o g s p o t . c o m .

Page 4: magzine 08

N A L O C O M O T I V A traina tre

vagoni di colori diversi.

Quasi a voler ricordare che

le terre che attraversa sono

le stesse in cui si sono con-

sumati i sanguinosissimi conflitti tra tre

popoli e tre etnie differenti. Il primo vagone

appartiene all'entità serba della Bosnia, l’al-

tro alla Federazione croato-musulmana di

Bosnia, il terzo alla Serbia. Nel dicembre

2009 è stata riaperta la linea ferroviaria

Sarajevo-Belgrado interrotta nel 1992, dopo

lo scoppio delle guerre jugoslave, che fino al

1995 hanno insanguinato la zona, fino alla

dissoluzione della Repubblica Socialista

Federale.

Dopo 17 anni, Serbia e Bosnia tornano a

comunicare e tentano un riavvicinamento. É

un fatto storico, segno che i due Paesi hanno

la volontà di dialogare. «Si sta riaprendo un

varco interrotto durante la guerra - sostiene

Stevan Ubovic, giornalista dell’agenzia

bosniaca Tanjug -. La maggior parte dei pas-

seggeri sono nostalgici dell’ex Jugoslavia, di

quelle terre in cui abitano ex amori, amici o

vecchie zie, terre in cui si viaggiava libera-

mente per raggiungere Padova o Trieste per

comprare vestiti di qualità a poco prezzo».

Ma la riappacificazione tra i due popoli è un

processo lungo e doloroso, che non

può compiersi in un attimo. Se è vero

che la tensione è molto scemata rispet-

to a dieci anni fa, i motivi di attrito non

mancano. «Una volta scesi a Sarajevo,

è preferibile evitare il tipico gesto serbo

con le tre dita alzate, utilizzato spesso

durante le proteste - osserva Stevan

Ubovic -. Questo per evitare tensioni».

Il riavvicinamento, comunque, sembra

ormai avviato, anche perché, oltre alla ria-

pertura della linea ferroviaria, pesa la risolu-

zione su Srebrenica emessa dal Parlamento

serbo, con la quale per la prima volta nella

storia, la Serbia si è assunta la responsabilità

per il massacro del 1995, in cui i militari

serbo-bosniaci, comandati dal generale

Mladic, trucidarono 8mila musulmani

bosniaci dai 15 anni in su. Secondo Stevan

Ubovic, ammettere i propri sbagli serve per

poter ricominciare da capo: «Il fatto che la

risoluzione confermi gli errori compiuti dal-

l’esercito è stato molto importante; la Serbia

avrebbe dovuto farlo molto prima». Un altro

atto che si inserisce nel progetto della Serbia

di riavvicinarsi alla Bosnia, ma che probabil-

mente fa parte di un disegno più ampio, che

prevede di entrare al più presto nell’Unione

E u r o p e a .

Il percorso tuttavia non sarà semplice.

Secondo Kanita Focak, che vive a

Sarajevo, questo riavvicinamento è un

falso, la risoluzione non è una dichiara-

zione sincera: «L’hanno approvata

perché sono stati costretti a farlo.

Anche il treno è una barzelletta. Le cose

funzionano male. In un’epoca in cui si

vuole viaggiare velocemente, non si

può cambiare quattro volte la locomotiva».

In effetti, il biglietto è scritto a mano e

costa 31 euro, ma il viaggio dura un’eternità:

8 ore per 480 chilometri intervallati da due

controlli di frontiera, tra Bosnia, Croazia e

Serbia. Sull’Espresso 451 ci sono pochi pas-

seggeri, la maggior parte dei viaggiatori pre-

ferisce restare fedele al vecchio e più efficien-

te pullman per spostarsi da una località all’al-

tra. I più anziani ricordano che i brutti vago-

ni di oggi sono molto diversi dalle eleganti

v e t t ure che un tempo univano le due città.

In un Paese che porta visibili i segni

della guerra e piange ancora le sue vittime,

non è scontato che la fiducia attecchisca. Per

Kanita la strada da percorrere è ancora

lunga. Ma una speranza c’è: «Mio marito era

musulmano, di Sarajevo, io sono cattolica, di

Spalato. Mio figlio si è innamorato di una

ragazza di Belgrado. È lui il futuro. Io credo

nei giovani, non nei politici».

S a r a j e v o - B e l g r a d o ,il treno della nostalgia

Nel dicembre 2009 è stata ri a p e rta la linea tra ledue capitali balcaniche interrotta con lo scoppiodella guerra . Un tentativo di sfi d a re il confine cheha diviso amici, famiglie e amori per diciotto anni

U

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 20104

inchiesta

di CHIARA AVESANI, ANDREA LEGNI, SIMONA PEVERELLI

Per sap e rne di più

Jan Willem Honig,S re b re n i c a ,a war

c ri m e ( Pa p e r b a c k ) ;b a l c a n i c a u c a s o. o rg.

Page 5: magzine 08

u g o n o s t a l g i j a, chi

l’avrebbe detto. Nella

Serbia del 2010 c’é

anche questo: il rim-

pianto dei “bei tempi

andati” in cui la Jugoslavia era

un Paese solido e politicamente

influente, in grado di garantire

una sopravvivenza dignitosa ai

propri cittadini anche sul piano

economico.

Il movimento degli J u g o -

n o s t a l g i c i, che si esprime a un

livello più emotivo che politico,

è comunque il segnale di una

scontentezza diffusa tra i serbi

rispetto alla situazione attuale.

In primo luogo, per i crescenti

problemi economici: la disoccu-

pazione si attesta attorno al 30

per cento e i cittadini che vivono

sotto la soglia di povertà sono

600 mila su una popolazione

totale di 10 milioni. Ma le cause

vanno rintracciate anche nelle

difficoltà del governo di Boris

Tadic, che incontra difficoltà a

realizzare una vera apertura ver-

so il resto d’Europa, rallentato

dalla situazione del Kosovo,

vero nodo delle relazioni inter-

nazionali del Paese.

«Sono trascorsi quattro

anni dal referendum che sanci-

va l’indipendenza del Montene-

gro e due dal distacco unilatera-

le del Kosovo: la Serbia si con-

ferma sotto molti aspetti uno dei

punti caldi dell’Europa». D r a-

gan Petrovic, giornalista del-

l’Ansa e storico corrispondente

di Radio Popolare, traccia un

quadro tutt’altro che incorag-

giante dello Stato balcanico.

Le recenti statistiche

parlano di una difficile

situazione economica

nel Paese. Come si vive,

oggi, in Serbia?

La situazione economica attuale

è forse la peggiore degli ultimi

decenni. Gli stipendi medi si

aggirano sui 300 euro, ma il

costo della vita è sensibilmente

aumentato. Per esempio, una

confezione di pasta al supermer-

cato a Belgrado costa il triplo

che in Italia, una bottiglia di olio

che da voi viene quattro euro da

noi è venduta a dieci. Questa

sproporzione tra salari e spesa

sta diventando una piaga grave,

soprattutto se si pensa che una

famiglia di quattro persone

spende in media 470 euro al

mese, affitto escluso. Per

sopravvivere con dignità si è

costretti a fare uno o due lavori

“extra”, ovviamente in nero.

Il 4 maggio scorso si è

celebrato il trentenna -

le della scomparsa di

Tito. Quali sono oggi i

rapporti tra i Paesi del -

l’ex Jugoslavia e Bel -

grado, che ne era la

c a p i t a l e ?

Le relazioni stanno migliorando

rispetto al decennio passato, ma

rimangono problemi insoluti. Il

primo è l’indipendenza del

Kosovo, che è stata riconosciuta

da Macedonia, Montenegro,

Croazia, Ungheria, Bulgaria, ma

non da Bosnia e Romania. È u n

tema che irrita molto il governo

serbo. Con la Croazia ci sono

stati consistenti passi avanti: i

due premier, Tadic e Josipovic,

hanno ritirato le reciproche

accuse di genocidio dal Tribuna-

le penale internazionale e hanno

sottoscritto accordi economici.

Anche con la Macedonia si stan-

no ricucendo i rapporti, mentre

col Montenegro c’è poca comu-

nicazione, l’indipendenza del

2006 brucia ancora nel ricordo

serbo. Per quanto riguarda la

Bosnia, dal riconoscimento ser-

bo del massacro di Srebrenica

c’è stato un riavvicinamento,

anche se nella risoluzione il Par-

lamento serbo non ha usato il

termine “genocidio”, e questo ha

causato ulteriori polemiche.

Entro tre mesi, però, dovrebbe

essere approvata dal Parlamen-

to una nuova risoluzione per

superare il problema.

Un serbo può viaggia -

re senza problemi negli

altri Paesi balcanici?

Oggi possiamo dire di sì, è suffi-

ciente evitare le provocazioni.

Fino a qualche anno fa la situa-

zione era peggiore: entrare in

Croazia o in Bosnia con un’auto

serba avrebbe scatenato il

sospetto e talvolta le ire degli

abitanti del luogo. Chi viaggiava

doveva nascondersi e cammuf-

fare il proprio accento. Oggi

rimane qualche contrasto solo

in Croazia, nelle zone di Spalato

e Zara, e in Montenegro. A parte

questo, i rapporti con gli altri

Stati stanno rinascendo a poco a

poco. Io stesso nei Paesi dell’ex

Jugoslavia ho molti “carissimi

n e m i c i ” .

Stipendi al minimostorico e 600 milapersone sotto lasoglia di povertà.Ecco perché neibalcani del 2010c’è chi rivorrebbela Jugoslavia

S o p rav v ive re in Serbiacon 300 euro al mese

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 5

inchiesta

Jdi Valerio Bassan

Page 6: magzine 08

E L L’A P P L A U D I R E il superboss

della ’ndrangheta Giovanni

Tegano, la folla non acclama il

criminale, ma un imprendito-

re del territorio che dà lavoro,

benessere e stabilità, contra-

stando la disoccupazione endemica del Meri-

dione. «Perché - spiega Francesco Barba-

g a l l o, studioso di Storia contemporanea

all’Università di Napoli - negli ultimi decenni le

mafie sono diventate il potere centrale in molte

aree del Mezzogiorno». Dalla fine degli anni

Ottanta, Barbagallo è impegnato in un minuzio-

so lavoro di ricostruzione della storia dell’orga-

nizzazione criminale campana. Il suo ultimo

studio, Storia della camorra, è il primo tentati-

vo di raccontare la camorra nella sua evoluzio-

ne storica, dall’inizio dell’Ottocento fino ai

nostri giorni. Una narrazione ricca di fonti, che

scioglie gli snodi fondamentali in cui la camor-

ra cambia volto. «All’inizio del Novecento - spie-

ga Barbagallo - si assiste al passaggio da una

“camorra plebea”, fatta di piccoli criminali, a

una “camorra elegante”. I camorristi si avvici-

nano alle classi borghesi e aristocratiche ini-

ziando a operare in settori come l’usura e le case

da gioco». La camorra contemporanea invece

vive un trionfo radicale durante gli anni Sessan-

ta, quando il porto di Napoli diventa il principa-

le centro di smistamento per il contrabbando

del tabacco. Napoli è controllata da Cosa

Nostra, che si impone sulla criminalità napole-

tana. Negli anni Settanta si arriva così a una sor-

ta di “mafizzazione” della camorra, con nuove

forme di alleanza».

Quelle raccontate da Francesco Barbagal-

lo non sono storie di denuncia, non sono inchie-

ste giornalistiche e non suscitano l’avversione

dei camorristi. «Anzi - spiega -, di fronte ai miei

libri si sono dati un tono. Perché li faccio diven-

tare personaggi storici». Eppure il valore della

ricerca non si esaurisce nella memoria di avve-

nimenti e nomi: «La storia ha il pregio di offrire

uno sguardo globale sui fatti. Rispetto alla cro-

naca, riesce a comprendere quei processi di tra-

sformazione che, nell’immediatezza dell’attua-

lità, rimangono in ombra».

La lettura del quadro e dell’evoluzione sto-

rica diventa così necessaria per comprendere una

realtà criminale che non si può sconfiggere solo

con la repressione e con le azioni giudiziarie.

«L’attacco dello Stato alla criminalità può inflig-

gere colpi strategici - continua Barbagallo -, ma

n o nbasta. Il punto, drammatico, è che, a fronte

di questi successi delle forze dell’ordine, non si

assiste all’indebolimento del potere mafioso

campano. Ormai i camorristi sono imprendito-

ri moderni e di respiro internazionale con un

ruolo crescente nei tessuti sociali e lavorativi».

A Napoli la camorra presta soldi a tassi di

interesse più bassi rispetto a quelli bancari. In

Campania, e in modo particolare nel napoleta-

no e nel casertano, le imprese corrotte dalla cri-

minalità battono sul piano della concorrenza le

imprese oneste, soffocando l’economia pulita.

Questa situazione è il risultato di un pro-

cesso di lunga durata, che Barbagallo fa risalire

al 1973. «In quell’anno - spiega lo studioso - vie-

ne interrotto l’intervento straordinario dello

Stato per l’incremento economico e sociale del

Mezzogiorno. Il Sud viene abbandonato ai suoi

problemi irrisolti e, mentre finisce lo sviluppo

del Meridione, inizia quello della camorra. Non

ci sono soluzioni immediate per sconfiggere le

mafie. Perché alla repressione deve necessaria-

mente affiancarsi una trasformazione produt-

tiva e imprenditoriale del Mezzogiorno».

Camorra, due secoli di crimine organizzato

L’ultimo saggio dello storico Francesco Barbagalloanalizza le radici del potere mafioso in Campania.Inclusa la svolta degli anni Ottanta, quando i clansono diventati un sistema “ a l t e rn a t ivo ” allo Stato

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 20106

MAFIE

Di Cristina Lonigro

N

Per sap e rne di più

Francesco Barbagallo,S t o ria della

c a m o rra ( L a t e r z a ) .

Page 7: magzine 08

dal giugno 1989 che

Attilio Bolzoni

segue per R e p u b b l i c a

gli sviluppi del fallito

attentato dell’Addaura al giudice

Giovanni Falcone. A seguito del-

le rivelazioni di un funzionario

di polizia a cui Falcone aveva

raccontato la vicenda, Bolzoni,

con l’inchiesta apparsa sul quo-

tidiano lo scorso 7 maggio,

aggiunge nuovi tasselli al qua-

dro investigativo.

L’attentato sarebbe avvenu-

to il 20 giugno 1989 e non il 21,

come si era ritenuto finora. Inol-

tre, l’esplosione dell’ordigno

nascosto tra gli scogli di fronte

alla villa di Falcone, secondo le

rivelazioni, sarebbe stata sventa-

ta dai sommozzatori Emanuele

Piazza e Antonino Agostino.

Secondo la nuova versione, non

erano attentatori, ma avrebbero

salvato la vita a Falcone. Agosti-

no fu ucciso poco tempo dopo,

insieme alla moglie: secondo la

polizia, per motivi passionali.

Piazza, agente di Polizia che

lavorava per il Sisde, fu invece

strangolato il 15 marzo del 1990.

L’inchiesta rivela che nei

pressi della villa di Falcone, quel

giorno, erano presenti anche

uomini estranei alla criminalità

organizzata, tra cui un agente

dei servizi segreti con la “faccia

da mostro” implicato nell’ucci-

sione di Agostino. Falcone parlò

di un complotto ordito da menti

raffinatissime. A progettare l’at-

tentato, dunque, non fu solo la

m a f i a .

Bolzoni, su cosa si basa

la tesi sul fallito atten -

tato all’Addaura?

Sono ripartito dalle indiscrezio-

ni sulle indagini avviate un anno

fa dalla Procura nazionale anti-

mafia insieme a quelle di Calta-

nissetta e di Palermo. Nell’89 il

caso fu assegnato a Salvatore

Celesti, cui poi subentrò Giovan-

ni Tinebra: ora il fascicolo è nelle

mani del procuratore nisseno

Sergio Lari.

Oltre alle indiscrezioni,

su quali fonti si è basa -

ta questa inchiesta?

Ho ascoltato anche i padri delle

due vittime. Il padre di Agostino

mi ha raccontato di aver visto

“l’uomo con la faccia da mostro”

di cui parlo nell’articolo. E già

nel 1989 fece delle rivelazioni

alla squadra mobile di Palermo,

ma i verbali non si trovano più.

Mi ha anche parlato della per-

quisizione di un armadio a casa

di suo figlio. E anche di questa

rivelazione non c’è più traccia.

Quando è stata capo -

volta la dinamica del

fallito attentato?

Circa un anno fa. R e p u b b l i c a

riaprì il caso. Nel frattempo,

magistrati, poliziotti e investiga-

tori trovarono nuove testimo-

nianze. Per esempio, quella di

Angelo Fontana, della famiglia

dell’Acquasanta.

Giovanni Falcone

come commentò l’acca -

d u t o ?

Ci sono delle testimonianze

“sfumate” rilasciate da un com-

missario che non è più in Polizia.

Qualche mese fa ha dichiarato

agli inquirenti che la sera stessa,

o quella successiva l’omicidio

del sommozzatore Agostino,

Falcone parlò con il commissa-

rio e gli disse: «Noi dobbiamo la

vita, io e lei, a quell’uomo». L’ex

poliziotto andò a riferire imme-

diatamente all’autorità giudizia-

ria le parole di Falcone.

Gli attentatori avevano

altri obiettivi oltre al

m a g i s t r a t o ?

Quel giorno i magistrati svizzeri

Carla del Ponte e Claudio Leh-

mann erano ospiti nella villa di

Falcone, ma l’obiettivo era lui. E

lui si spaventò molto. Era un

uomo prudente anche a parole,

ma il giorno successivo disse: «A

volermi morto sono state delle

menti raffinatissime».

Che difficoltà ha incon -

trato, invece, a portare

avanti le indagini?

A Caltanissetta magistrati e

investigatori sono pochi. Inoltre,

le indagini sono intralciate dalla

trattativa Stato-mafia: una mole

enorme di materiale sul quale

indagare, ma con forze insuffi-

cienti.

Da giornalista, dove ha

trovato gli stimoli per

continuare a indagare

su questa vicenda?

L’intralcio vero, in Italia, è rap-

presentato da certe centrali di

depistaggio che lavorano per

non farci mai avvicinare alla

verità. Ma ci sono ancora buoni

procuratori e investigatori osti-

nati. Alcuni sono stati uccisi,

altri continuano a operare.

Basta non perdere mai la tena-

c i a .

A dd a u ra , le nu ove ve r i t às u l l ’ at t e n t ato a Fa l c o n e

esteri

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 7

di Giuditta Ave l l i n a

Per sap e rne di più

Faq Mafia, l’ultimo libro di

B o l zo n i , edito da Bompiani,

p resenta un ri t ratto lucido di

Cosa Nostra e dei suoi intre c c i

con politica ed apparati stat a l i .

È

Page 8: magzine 08

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 20108

giornalismo

di Enrico Turcato

U C L E A R E ,

questo sco-

n o s c i u t o .

Tutti ne han-

no sentito

parlare, quasi nessuno sa bene di

cosa si tratti. Negli ultimi anni la

sperimentazione ha continuato a

produrre risultati, le potenze

nucleari hanno implementato i

propri investimenti, anche in

ambito militare. La ricerca prose-

gue, i test avanzano, nuove tecno-

logie vengono immesse in un

mercato che è nelle mani di

p o c h i .

Maurizio Torrealta, ca-

poredattore a R a i N e w s 2 4, nel

libro Il segreto delle tre pallotto -

le (Edizioni Ambiente), affronta

a tutto campo il tema del nuclea-

re, alternando fiction, documen-

ti, registrazioni, con interviste e

analisi concrete. Nel grande lavo-

ro di inchiesta, realizzato con il

team della trasmissione L ’ i n c h i e -

sta di Rainews24, emergono

prospettive allarmanti sulle rela-

zioni tra utilizzi civili e militari del

nucleare.

Prospettive che sono emerse

sia dalla collaborazione con il fisi-

co Emilio Del Giudice, che ha

fornito un contributo scientifico

fondamentale, sia dalla diffusio-

ne al pubblico di un documento

secretato fino al 1975. Si tratta del

famoso Memorandum Groves,

nel quale James B. Contant, pre-

sidente del National Research

Defence Council e per molti anni

anche rettore di Harvard, sugge-

riva ai responsabili dell’ammini-

strazione americana l'utilizzo

dell’uranio “sporco” per inquina-

re le città nemiche con nuvole di

particelle radioattive, preveden-

do con esattezza gli effetti sulla

salute delle persone coinvolte,

effetti poi verificatisi nella realtà

in Iraq, Kosovo, Afghanistan e

Libano. Vale a dire, aree di fatto

bombardate da tonnellate di ura-

nio appunto “sporco” dai cosidet-

ti paesi democratici.

Come è nato il vostro

l a v o r o ?

Seguendo un gruppo di ricercato-

ri all’Enea, l’Agenzia nazionale

per le nuove tecnologie, l’energia

e lo sviluppo economico sosteni-

bile, tra i quali, appunto, Emilio

Del Giudice. Questo gruppo ave-

va realizzato uno studio che

dimostrava che la fusione fredda

esisteva. All’improv-

viso però ha subito il

blocco dei finanzia-

menti. Non solo: il

Rapporto 41 redatto da

questi scienziati non è stato

pubblicato. Nessuno di loro riu-

sciva a capire il perché. Del Giudi-

ce ha avuto il coraggio di spiegar-

celo: questa scoperta fisica, se

applicata a un altro metallo

pesante come l’uranio, avrebbe

permesso di superare il problema

della massa critica per

l’innesco nucleare. La

massa critica di un

materiale fissile equi-

vale alla quantità di

materiale fissile giusta

e necessaria affinché

una reazione nucleare

a catena possa auto-

s o s t e n e r s i .

Come funzio -

na un innesco

n u c l e a r e ?

Un atomo di uranio, quando vie-

ne frammentato in neutroni e

incontra un altro atomo di ura-

nio, scatena un processo a catena,

liberando un’enorme quantità di

energia. Affinché un atomo, fran-

tumandosi, liberi energia, occor-

re una massa critica di almeno 8

chilogrammi, massa sotto la qua-

le il processo non avviene. Con

una massa critica di 8 chilogram-

mi la bomba nucleare è molto

potente. Diversamente,

il processo non entra in

funzione. Superare il

problema della massa

critica permette di creare

delle bombe nucleari, anche

piccole, della grandezza di una

pallottola. Questa è una scoperta

che rivoluziona tutti gli accordi di

non proliferazione ratificati, che

mette in discussione i trattati tra

gli Stati. È un problema che può

sconvolgere l’assetto attuale del

p i a n e t a .

Non è possibile che que -

sta scoperta sia stata

già fatta da altri e che

questi altri abbiano

deciso di mantenerla

s e g r e t a ?

Diverse volte, soprattutto in tea-

tri di guerra come il Libano meri-

dionale, dopo analisi e test sui ter-

reni, abbiamo rinvenuto la pre-

senza di crateri con uranio arric-

chito (a Khiam, ad esempio). Nel

nostro documentario televisivo

La terza bomba nucleare n e

mostriamo le prove. Trovare

l’uranio arricchito è come trovare

un diamante per strada. Ed è la

chiara traccia di un processo

nucleare specifico già consuma-

to. Ma, attenzione: non è quello

tradizionale, perché non ci sono

le tracce degli effetti devastanti

che può avere una bomba atomi-

ca. Ci sono effetti limitati in ter-

mini di distruzione, ma di eleva-

tissima radioattività. Ci sono

N

Ro m a n zoN u cl e a re

M a u rizio To rrealta fi rma una inquietante docu-fi c t i o nche racconta il business delle nu ove armi atomiche egli effetti devastanti dell’uranio arricchito sui civ i l i .Una storia di dossier segreti che inizia in Usa nel 1975

Page 9: magzine 08

armi nuove e sofisticate. Queste

analisi, che sono già in circolazio-

ne e sono già state utilizzate, lo

d i m o s t r a n o .

Perché nel libro rifiuta -

te la definizione di

“impoverito” per l'ura -

n i o ?

L’espressione “uranio impoveri-

to” è inappropriata. Tutte le ana-

lisi effettuate nei campi di batta-

glia hanno rilevato la presenza di

uranio leggermente arricchito o

tracce di altri elementi. L’uranio

impoverito è un materiale di

scarto, meno radioattivo del-

l’uranio naturale e si ottiene

quando si trasforma in gas l’ura-

nio naturale: il prodotto finale

contiene meno dello 0,7 % di iso-

topo 235. Un processo che non

avviene in un reattore nucleare,

ma nelle centrifughe nucleari.

Per utilizzare l’uranio nei reatto-

ri nucleari è necessario arricchire

l’uranio con gli isotopi fissili 234

e 235. Se si trovano delle presen-

ze di uranio con isotopo 236,

sono tracce di reazioni nucleari

avvenute: o sono avanzi di pallot-

tole che escono dalle centrali

nucleari, e quindi radioattive, o si

tratta di uranio arricchito. L’ura-

nio impoverito non ha questi

effetti. Micro e nano particelle di

uranio arricchito sono nocive e

radioattive. Rischiano di andare

a finire nei terreni, nelle coltiva-

zioni e, di conseguenza, di essere

ingerite dagli esseri umani.

L’unica certezza è che sui campi

di battaglia l’uranio impoverito

non esiste, anche perchè nessuno

controlla la percentuale di isoto-

po 235 contenuta all’interno del-

le pallottole. Finora ci siamo

bevuti una bugia, insomma. Ma

adesso basta. Chiamiamo queste

armi con il loro vero nome.

Avete delle prove che

nessun produttore di

armi e nessun contin -

gente militare utilizzi

uranio cosidetto “impo -

v e r i t o ” ?

Dai teatri di guerra iracheni, a

Bassora, abbiamo ricavato dati

mostruosi. Nel ’91, l’anno succes-

sivo al crollo dell’Urss, era stato

usato un ordigno

nucleare molto

piccolo, di bassa

potenza, di circa 5

kilotoni. Per fare

un paragone, la bomba atomi-

ca a Hiroshima era pari a 15 kilo-

toni di potenza, quella di Nagasa-

ki a 21. Il direttore del reparto

oncologico dell’ospedale di Bas-

sora ci ha mostrato gli effetti di

questo piccolo ordigno nucleare:

patologie rarissime, effetti deva-

stanti, tumori nei bambini, mal-

formazioni. Una collezione

agghiacciante. Il cosiddetto ura-

nio impoverito, forse, è stato usa-

to per la prima volta proprio nel

’91, per coprire l’uso di questi

bunker busters, ordigni che usa-

no un nuovo processo nucleare:

sono molto piccoli, molto sottili e

vengono impiegati anche per

distruggere i rifugi sotterranei.

Ci sono nuove soluzioni

per lo smaltimento dei

rifiuti tossici nucleari?

Lo smaltimento dei rifiuti tossici

è il primo problema che si pone

per chi produce il nucleare.

Peraltro, ci sono diverse tipologie

di scorie. Ma lo stesso reattore,

dopo anni di attività, diventa

radioattivo. Bisogna mettersi in

testa che l’uranio non è una

materia rinnovabile e tutto l’ura-

nio prodotto resisterà per decine

e decine di migliaia di anni sul

pianeta.

Come giudica l’apertura

dell’Italia al nucleare?

In questo momento c’è solo gran-

de confusione. Gli Stati hanno

stipulato tre accordi diversi per

l’utilizzo di tre tecnologie diffe-

renti. Una è la tecnologia Epr, che

si avvale di un reattore non anco-

ra ultimato: noi siamo andati a

vedere le sperimentazioni ad

Olkiluoto, ma il progetto è stato

bloccato più volte per malfunzio-

namenti, materiale non confor-

me, controlli non riusciti. Poi c’è

la metodologia WestingHouse:

più tradizionale e sicura, usa

meccanismi passivi che possono

disinnescare eventuali malfun-

zionamenti del reattore. L’ultima

è una tecnologia russa piuttosto

interessante, anche perchè i rus-

si sono i più avanti nella speri-

mentazione, non avendo

mai smesso di utilizza-

re il nucleare. Peraltro i

russi offrirebbero agli

investitori anche il vantag-

gio di smaltire le scorie in

Siberia, un’opportunità inte-

ressante per l’Italia, dove non esi-

stono aree deputate a questo fine.

In ogni caso, questa è una falsa

soluzione: il problema non si

risolve con il trasferimento degli

elementi nocivi.

Oltre alla citata Rus -

sia, quali sono i Paesi

più preparati allo svi -

luppo nucleare?

Il nucleare è una tecnologia nelle

mani di pochissimi Stati: costi,

sofisticazione delle tecniche e dei

materiali, sviluppo continuo,

rendono questa tecnologia sfut-

tabile solo per una élite. Oltre alla

Russia, la Cina è un Paese

all’avanguardia in questo campo:

è già pronta a comprare reattori

sia Epr sia WestingHouse.

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 9

Superare il problema della massacritica permetterebbe di crearebombe nucleari anche piccole,della grandezza di una pallottola

Per sap e rne di più

w w w. v e rd e n e r o.it

Maurizio Torrealta, c a p o re d a t-

t o re a RaiNew s 2 4 , si occupa da

d ive rsi anni di nu c l e a re.

Nel 2008 ha pubb l i c a t o La terza

bomba nucleare, un documen-

t a rio telev i s ivo sull’arg o m e n t o

Page 10: magzine 08

libertà di stampa

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 201010

I P U Ò M O R I R E P E R l a

libertà di stampa in

un Paese che si dise-

gna democratico e

occidentale? Si può.

Sono 19 i giornalisti uccisi dal

2000 ad oggi nella Russia di

Putin e di Medvedev. Un quadro

drammatico per un Paese che

ha stretti rapporti politici ed eco-

nomici con l’Europa e che forse,

per questo, non vuole interveni-

re per supplire alla mancanza di

informazione. Anna Politkov-

skaja è stata vittima del “regime”

politico che vige in Russia - dice

Vitaly Yaroshevski ( n e l l a

f o t o ), vice-direttore di N o v a j a

G a z e t a, il giornale della reporter -.

Anna èstata uccisa da ignoti sica-

ri. E, come avviene nell’80 per

cento dei casi di omicidio di gior-

nalisti, la verità sulla sua morte

d i f f i c i lmente verrà a galla».

Secondo il Committee to

Protect Journalism (Jpg), la

Russia è al terzo posto nell’elen-

co dei Paesi più pericolosi per i

giornalisti, dietro a Iraq e Alge-

ria: «Il regime ha costruito un

muro grazie alla propaganda

ufficiale - continua Yaroshevski -.

La maggior parte dei cittadini

non vuole riflettere: un terzo del-

la popolazione si informa solo

attraverso la tv e quasi tutti i

canali sono sotto il controllo

diretto o indiretto del Cremlino.

Tra i giornalisti non c’è unione e

la maggior parte lavora per il

governo. Non c’è comunicazio-

ne: il potere non sa come vive la

società e la società non può sape-

re come vive il potere».

Nella Russia post-sovietica

sono stati oltre 70 i giornalisti

uccisi. Cinque lavoravano per

Vitaly Yaroshevski. Nella reda-

zione della Novaya Gazeta l e

postazioni lasciate vuole dai

reporter uccisi sul fronte della

cronaca sono come congelate.

Nessuno ha toccato nulla.

«Viviamo giorni simili allo stato

di guerra: ci sono perdite dirette

che non si possono sostituire.

Ma credo non sia possibile sve-

gliarsi la mattina, lavarsi, bere il

caffè e iniziare ad avere paura.

Andare a letto, dormire e avere

paura di nuovo. Nessuno di noi

ha tempo per avere paura: c’è il

dovere, l’onestà professionale.

Dopo l’ultimo omicidio, quello di

Natalia Estemirova, abbiamo

deciso di non inviare più nessu-

no in Cecenia. Non potevamo

permetterci di pagare un prezzo

così alto. Mi preoccupavo delle

giovani giornaliste che lavorano

presso di noi. Hanno reagito a

questa sfida: non è stato coraggio,

ma istinto naturale. Altrimenti

l’alternativa più semplice sarebbe

stata quella di abbandonare la

professione». Alla Novaja Gaze -

t anessuno si è licenziato. Hanno

c o n t i n u a to tutti a scrivere.

S

In Somalia i mediahanno perso la vo c e

R u s s i a ,il coraggiodi essereg i o r n a l i s t i

n Somalia esistono dieci

quotidiani, cinque canali

televisivi e decine di siti

internet d’informazione.

Eppure secondo

Freedom House, organiz-

zazione che promuove la libertà

nel mondo, è uno dei Paesi dove

meno si rispetta la libertà di

stampa e dove il lavoro del gior-

nalista è più difficile.

«I pochi che partono anco-

ra, viaggiano con due scorte al

seguito», racconta S t e f a n o

M a r c e l l i, inviato Rai e presi-

dente onorario di Information

safety freedom, osservatorio

sulla sicurezza dei giornalisti nel

mondo. Dal 2005 a oggi, sono

23 i reporter che hanno perso la

vita a Mogadiscio. Con la caduta

del regime di Siad Barre nel

1992, la Somalia ha conosciuto

solo anarchia. Al Shaabab,

un’organizzazione terroristica

cha ha legami con Al Qaeda,

tiene in scacco il Paese dal 2007.

«Per il terrorismo islamico,

il controllo dei media significa

propaganda e proselitismo -

spiega Marcelli -. È per questo

che sono così contesi in

Somalia». Radio Mogadiscio,

Radio Free Somalia, l’agenzia

stampa Somani, sono fra i pochi

organi d’informazione locali

davvero indipendenti. Per il

resto, l’informazione è veicolata

dai media occidentali. Da quei

pochi che resistono.

A metà aprile i terroristi di

Al Shaabab hanno sequestrato i

mezzi di Voice of America e Bbc

Somali, impedendo alle due

emittenti di continuare le tra-

smissioni. Erano accusate di

propaganda cristiana.

Inutilmente si sono levate le

grida di protesta di O m a r

Farouk Osman, segretario del

National union of Somali jour-

nalists (Nusoj), un’associazione

che s’appoggia a Reporters sans

f r o n t i e r s e che rappresenta uno

dei baluardi a difesa dei giornali-

sti stretti nella morsa della guer-

ra. I due canali occidentali sono

stati banditi dal Paese. «Ormai

la Somalia è un Paese abbando-

nato al suo destino - prosegue

Marcelli -. Se non si mantiene

un canale informativo, non ci

può essere solidarietà e aiuto

i n t e r n a z i o n a l e » .

Da maggio, il fragile gover-

no di transizione federale (Tfg)

sta attraversando una delle crisi

più profonde dall’ascesa del pre-

sidente Sheick Sharif Sheick

Ahmed, nell’ottobre 2009. Sono

mesi che il governo non paga i

soldati, che spesso passano nelle

file delle milizie d’opposizione.

Così, il 18 maggio, mentre il pre-

sidente del Parlamento Adan

Mohamed Nuur Madobe votava

la sfiducia al primo ministro

Omar Abdirashid Ali

Sharmarke, Al Shaabab cercava

di occupare la sede del governo.

«E il potere resta in mano ai

signori della guerra», chiosa l’in-

viato Rai.

Dal 2005 a oggi,sono ventitréi reporter chehanno perso la vita a Mogadiscio. I terroristi di AlShaabab usano i giornalisti comemegafoni per laloro propagandap o l i t i c a

di Giulia Dedionigi

di Lorenzo Bagnoli

i

Per sap e rne di più

w w w. i s f re e d o m . o rg

Page 11: magzine 08

AP U B B L I C I T Àn o n

basta a sostene-

re i costi del-

l’editoria che,

sempre più in

crisi, è costretta a ridurre

mezzi e giornalisti. Come si fa

allora a convincere il cittadi-

no a contribuire di tasca pro-

pria all’informazione?

S p o t . u s sembra esserci

riuscito. Il progetto nasce nel

2008 a San Francisco, da

un’idea di David Cohn.

Ventisette anni, una laurea in

Giornalismo alla Columbia

University, ha realizzato il

suo progetto grazie al sup-

porto del Center for Media

Change e a un contributo del

Knight News Challenge,

destinato a progetti di giorna-

lismo innovativo.

S p o t . u s è una piattafor-

ma in rete dove i cittadini

finanziano con una donazio-

ne libera inchieste di giorna-

listi freelance. Le proposte di

reportage possono arrivare

dai giornalisti oppure dai cit-

tadini stessi. Se si raggiunge

la cifra necessaria per il pro-

getto, il giornalista realizza

l’inchiesta, che viene poi pub-

blicata sul sito. I contributi

degli utenti sono micro-

donazioni a partire da 25 dol-

lari che si possono detrarre

dalle tasse. È il c r o w d f u n -

d i n g, ovvero il “finanziamen-

to delle folle”. Se entro il limi-

te di tempo non si raggiunge

la quota necessaria a far par-

tire l’inchiesta, i soldi vengo-

no restituiti ai donatori. Le

inchieste possono anche

essere ripubblicate da testate

ufficiali perché hanno licenza

Creative Commons. Se però

una testata vuole acquistare i

diritti di un servizio e pubbli-

carlo in anteprima, deve

finanziare il 50 per cento del-

l’inchiesta, oppure pagarne i

diritti. I soldi ottenuti vengo-

no reinvestiti dalla c o m m u -

n i t y in altre inchieste o resti-

tuiti ai donatori.

I progetti realizzati nel

2008 sono una settantina e il

più importante è costato 10

mila dollari. I free lance che

collaborano regolarmente

con Spot.us sono 55. «Garan-

tiamo trasparenza e controllo

sia riguardo alla destinazione

dei soldi, sia al lavoro dei

reporter che viene visionato

dalla redazione - spiega David

Cohn -. Chi propone un’in-

chiesta è stimolato dal fatto di

poterne seguire la realizzazio-

ne e di vedere il prodotto fina-

le. Gli argomenti più richiesti

sono tematiche civiche che

riguardano il territorio, anche

perché facciamo un tipo di

informazione strettamente

l o c a l e » .

S p o t . u s copre le aree di

San Francisco, Los Angeles e

Seattle: «L’importante è che

il progetto si diffonda -

aggiunge Cohn -. In futuro

speriamo di avere più stru-

menti e più reporter».

S p o t . u s è arrivato anche in

Italia con una piattaforma

attiva da aprile. «Ci siamo

interessati al progetto par-

tendo dalla constatazione

che manca un’informazione

“dura e pura”- racconta

Antonio Badalamenti,

economista e fondatore del

progetto insieme a F e d e r i-

co Bo, ingegnere, e A n t o-

nella Napolitano, s o c i a l

media consultant -. Abbia-

mo contattato David e cerca-

to di realizzare un modello

simile al suo. Anche se il

nome è lo stesso, non c’è un

collegamento giuridico con

S p o t . u sAmerica».

I contenuti possono esse-

re articoli, foto o video repor-

tage e anche il progetto italia-

no, con sede a Roma, si con-

centra sull’informazione loca-

le: «Lo scopo è quello di aggre-

gare micro comunità che por-

tino alla luce situazioni pro-

blematiche», spiegano a

Spot.us Italia. La differenza

sostanziale con il progetto

a mericano è di essere for pro -

f i t. «Non siamo finanziati da

una fondazione come avviene

invece negli Usa. Alcuni han-

no contestato la nostra scelta,

ma è l’unico modo per soste-

nerci e incentivare il nostro

lavoro e quello dei freelance. Il

70 per cento dei ricavi prove-

nienti dal progetto e dalle

pubblicità lo reinvestiamo

nella realizzazione di altre

inchieste» .

erché si parlasse di Birmania

è stato necessario che acca-

dessero tre cose. In primo

luogo, la rivolta pacifica di

centinaia di monaci tibetani.

Poi, la presenza a Rangoon di un pool di

video-reporter in incognito, giornalisti

del sito internet Democratic Voice of

B u r m a. Infine, la repressione brutale

del regime. Eppure, anche prima del

settembre 2007, il malcontento dei cit-

tadini costretti alla dittatura esplodeva

ciclicamente, seminando morte e

oppressione. La copertura mediatica è

sempre stata scarsa. Dal 1992, un grup-

po di attivisti Birmani in esilio a Oslo ha

costituito un nucleo di reporter indi-

pendenti, con l’intento di far filtrare

informazioni dentro il loro paese d’ori-

gine. Nel corso degli anni Dvb è appro-

dato su internet e su satellite, racco-

gliendo le testimonianze dei giornalisti

in incognito presenti a Rangoon. Nel

2007, per la prima volta, le immagini di

Dvb hanno fatto il giro del mondo e, tra-

smesse dai più importanti network pla-

netari, hanno contribuito a rendere

nota la situazione di Myanmar (questo

il nome di “Burma” imposto dal gover-

no militare). Un regista danese, Anders

Østergaard, nel 2009 ha raccolto e

montato le sequenze catturate dalle

handycam dei reporter di strada. Il film,

intitolato Burma Vj, reporting from a

closed Country, ha sfiorato l’Oscar

come miglior documentario. Da quan-

do è sotto l’occhio del ciclone mediatico,

la giunta militare ha promesso riforme

democratiche e nuove elezioni. Non è

affatto scontato che trasparenza e legali-

tà verranno rispettate. Tuttavia, è certo

che i giornalisti di Dvb saranno sul cam-

po per raccontare questa nuova stagio-

ne della storia birmana.

Spot.us, finanziala tua inchiesta

David Cohn ha creato un sito dove i cittadiniscelgono e finanziano le inchieste dei f r e e l a n c e.Dagli Usa, il c r o w d f u n d i n g è arrivato in Italia

multimedia

D v b, rep o rt i n gda Oslo a Burma

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 2010 11

di Carlotta Garancini

di Gregorio Ro m e o

Per sap e rne di più

w w w. s p o t . u s

w w w. s p o t u s . i t

bl o g. d i g i d av e . o rg

Lp

Page 12: magzine 08

’È U N A C A S A a

Burrel, Albania, al

confine con la

foresta. È poco più

che una baracca

gialla: la chiamavano Casa Gialla.

Durante la primavera del 1999

più di 300 cittadini serbi vi sono

stati deportati e sottoposti ad

espianto degli organi, che sono

stati contrabbandati illegalmen-

te. Ora la casa è stata ridipinta di

bianco. Ma, scandagliata col

luminol, porta i segni della mat-

tanza: macchie di sangue e mate-

riale sanitario. Questo il racconto

di Carla Del Ponte, oggi ex-procu-

ratore del Tribunale internazio-

nale de l’Aja, nel libro La Caccia.

Un testo che attinge da fonti gior-

nalistiche affidabili e dall’espe-

rienza degli anni del Processo

Milosevic.

The empty house, il web-doc

di P e a c e r e p o r t e r realizzato da

Christian Elia e Nicola Sessa,

con il coordinamento di A n g e l o

M i o t t o, parte da queste testimo-

nianze e scandaglia i risvolti pro-

cessuali della vicenda. «Tutto

nasce un anno fa - spiega Elia -,

quando il figlio di un deportato

serbo riconosce il cadavere del

padre in una foto con un guerri-

gliero dell’Uck: è l’inizio di un

clima nuovo tra Serbia e

Albania».

Come la storia del figlio che

riconosce il padre, il doc presenta

una serie di racconti “interrotti”:

«Abbiamo deciso di raccogliere

storie senza un finale perché ci

sono decine di famiglie a cui

manca un sepolcro. Siamo entra-

ti nelle case, trovando, appunto,

case vuote. Abbiamo iniziato con-

tattando l’Associazione delle

famiglie delle vittime serbe a

Belgrado. Poi siamo partiti da

Milano per incontrare a Banja

Luka, Antonio Evangelista, ex

comandante del contingente ita-

liano Onu in Kosovo. Da lì abbia-

mo proseguito per Belgrado,

dove abbiamo intervistato

Vladimir Vukcevic, sostituto pro-

curatore per i crimini di guerra.

Infine abbiamo raggiunto

Pristina, Tirana e Burrel per

vedere cosa resta della Casa

Gialla».

The empty house è un docu-

mentario che chiede giustizia: «Il

web ci ha consentito di trattare

queste storie sullo sfondo di un

contesto storico-politico oscuro,

ma senza la necessità di legarle

narrativamente. La comunità

internazionale, ha chiuso gli

occhi di fronte agli avvenimenti

degli ultimi mesi del ’99.

L’Unmik, la missione Onu invia-

ta dopo la guerra, era presente: la

sua inerzia non può che colpire».

Sotto il profilo processuale le

cose cominciano a muoversi solo

ora, conferma Elia: «La maggio-

ranza delle ispezioni nella zona

nord dell’Albania sono avvenute

dopo la guerra, e vere indagini

sulla Casa Gialla non sono state

nemmeno svolte. Solo dopo anni,

con l’uscita del libro della Del

Ponte, la prova del luminol ha

confermato i timori peggiori: il

ritrovamento della fossa comune

con 250 cadaveri albanesi in

Serbia e l’arrivo in Kosovo di Dick

Marty, inviato del Consiglio

d’Europa, per incontri con alti

esponenti del governo kosovaro.

La riapertura della fossa comune

è un passaggio emblematico. Le

forze di polizia di Albania e Serbia

hanno lavorato insieme, scaval-

cando le autorità kosovare».

“ The empty house” ri c o s t ruisce le terribili vicendedei cittadini serbi deportati e uccisi in Albania d u rante la guerra del Kosovo. Una testimonianza cherompe un silenzio che durava da più di un decennio

Periodico realizzato

dal Master in Giornalismo

dell’Università Cattolica - Almed

© 2009 - Università Cattolica

del Sacro Cuore

d i r e t t o r e

Matteo Scanni

c o o r d i n a t o r i

Laura Silvia Battaglia,

Ornella Sinigaglia

r e d a z i o n e

Fabrizio Aurilia, Giuditta

Avellina, Chiara Avesani,

Lorenzo Bagnoli, Valerio

Bassan, Marco Billeci, Raffaele

Buscemi, Salvo Catalano,

Francesco Cremonesi, Giulia

Dedionigi, Tiziana De Giorgio,

Viviana D’Introno, Fabio Di

Todaro, Tatiana Donno, Roberto

Dupplicato, Fabio Forlano,

Carlotta Garancini, Ivica

Graziani, Andrea Legni, Floriana

Liuni, Cristina Lonigro,

Pierfrancesco Loreto, Alessia

Lucchese, Daniela Maggi, Paolo

Massa, Daniele Monaco,

Michela Nana, Ambra Notari,

Tancredi Palmeri, Cinzia Petito,

Simona Peverelli, Gregorio

Romeo, Alessia Scurati, Luigi

Serenelli, Alessandro Socini,

Andrea Torrente, Enrico

Turcato, Roberto Usai, Cesare

Zanotto, Vesna Zujovic

a m m i n i s t r a z i o n e

Università Cattolica

del Sacro Cuore

largo Gemelli, 1

20123 - Milano

tel. 0272342802

fax 0272342881

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progetto grafico

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Autorizzazione del Tribunale

di Milano n. 81 del 20 febbraio

2 0 0 9

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di Fabrizio Aurilia

MAGZINE 8 | 1 aprile - 30 aprile 201012

C

La Casa Gialla

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