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Luoghi deLLa memoria
giornata dedicata
a SebaStiano addamoLentini, 1 Giugno 2012
Progetto Scuola-Città A.S. 2011 – 2012
Città di Lentini
IndIce
Messaggio del Sindaco………………...................................pag. 3
Intervento dell’Assessore alla Cultura e P.I............................pag. 5
Le Parole di Addamo...............................................................pag. 9
La cifra della doppiezza ………………......………….........pag. 17
La Piazza ………………………………………..................pag. 23
L’esperienza didattica …………………...............................pag. 27
“Un auteur sicilien à decouvrir d’urgence” ………..............pag. 31
La Mostra Fotografica………………………………...........pag. 34
Commiato……………………………….....……….............pag. 47
Lentini, 7 ottobre 2011
…Un anno fa, intervenendo qui su cortese invito della
signora Grazia Addamo e della professoressa Sarah Zappulla
Muscarà, dichiaravo il debito di riconoscenza culturale e
civile della comunità di Lentini nei confronti di Sebastiano
Addamo, e anticipavo la volontà dell’Amministrazione
Comunale di intitolargli uno spazio della Città centrale e
frequentato ieri e oggi da migliaia di giovani studenti.
Un segnale, dissi, di quella attenzione con la quale dobbiamo
promuovere l’incontro tra cultura e nuove generazioni, a
partire dalla scuola.
Dal 21 maggio di quest’anno Piazza degli Studi, su cui si
affaccia il Liceo Classico che guidò fino al settembre 1989,
porta il nome di Sebastiano Addamo. Non si è trattato di un
fatto formale, ma di un sentito dovere morale adempiuto. I
luoghi delle nostre città dovrebbero recare l’impronta di qualità
umane, culturali, professionali, delle personalità col nome
delle quali le identifichiamo, e conservarne una qualche
attualità, un valore incarnato nella memoria.
A Sebastiano Addamo dobbiamo la testimonianza vissuta
dell’attaccamento alla sua terra, di un impegno civile e
politico praticato con i fatti, di una appassionata dedizione
alla formazione dei suoi studenti.
Tocca a noi, attraverso occasioni prestigiose come questo
Premio Internazionale, e la diffusione della conoscenza delle
sue opere, non smarrire il significato della sua esperienza,
nel panorama sempre meno affollato di “maestri” degni di
questo nome…
IL SINDACO
Alfio Mangiameli
(Dal messaggio del Sindaco di Lentini, in occasione della 5a edizione del
“Premio Internazionale Sebastiano Addamo”, celebrato presso il Centro
Culturale “Le Ciminiere” di Catania)
3
Lentini, 1 giugno 2012
“Luoghi della memoria. Giornata dedicata a Sebastiano Addamo”
si colloca nel solco delle finalità che hanno ispirato
l’intitolazione di Piazza degli Studi allo scrittore Sebastiano
Addamo, ben rappresentate nelle parole del Sindaco Alfio
Mangiameli.
L’idea di fondo è quella di esaltare il valore educativo
dell’associazione del nome di Addamo allo spazio urbano a
Lui intitolato, attorno a cui si raccolgono sedi di importanti
istituzioni: il Liceo Classico “Gorgia”, dove Addamo insegnò,
il Museo Archeologico, l’Istituto Aletta, la scuola ex Vittorio
Veneto. Si è pensato di realizzarla con un progetto capace,
allo stesso tempo, di avvicinare gli studenti allo scrittore, con
un “viaggio” per le sue pagine letterarie, e di stimolare il
loro immaginario sullo spazio della piazza, a partire da
quelle pagine.
Ringrazio i docenti - Caterina Battiato, Silvia Calabrese,
Salvo Chiarenza, Elena Inserra, Sara Martello, Sebina Messina,
Domenico Zagami - per l’impegno intellettuale e la passione
con cui hanno lavorato al progetto, investendovi qualcosa di
sé che va oltre le professionalità messe in campo. Ringrazio
le studentesse e gli studenti che hanno cooperato con i docenti,
dando “corpo” ai pensieri e alle emozioni trasmesse dai testi
e cimentandosi con le progettazioni.
Un affettuoso e grato ringraziamento va alla signora Grazia
Cavallaro, che ha gioiosamente accolto la proposta progettuale,
accordando al gruppo di lavoro la sua piena fiducia.
Arricchiscono questa Giornata l’Associazione Sebastiano
Addamo, rappresentata dalla prof.ssa Maria Valeria Sanfilippo,
e il Kiwanis Club di Lentini, il cui Presidente dott. Antonino
Ardiri consegnerà, a chiusura dei lavori, il Premio “Sicilides
Musae” intitolato allo scrittore.
Quando ho intrapreso questo percorso, ho sentito il dovere
di interporre tra la mia esperienza di allieva del professore
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Addamo e la figura dello scrittore una “distanza” funzionale
all’obiettivo, centrato sulla promozione della sua opera.
Opera di cui Vincenzo Consolo parla come di “opera di pensiero
leopardiano”, in quanto “quello di Sebastiano Addamo era
un pensiero poetante o pensiero narrante, che dir si voglia”.
Non dimentichiamo che “pensiero poetante” è la definizione
che dell’opera di Leopardi dà il critico letterario Antonio
Prete.
Questo progetto vuole rendere disponibile per i ragazzi delle
nostre scuole, e non solo, il “pensiero poetante o narrante”
di Addamo, in virtù di una produzione - video e grafica - che
efficacemente registra le scelte comunicative operate dal
gruppo dei docenti, che hanno originato qualcosa di nuovo
rispetto a ciò che c’era. Se è vero, come dice Seneca, che
“anche se tutto fosse già stato trovato, rimangono sempre
ampie possibilità di innovazione; rimane comunque sempre
aperta, nella sfera della comunicazione, la possibilità di
riorganizzare messaggi in forma nuova”.
I messaggi che le pagine di Addamo ci restituiscono possono
erigere un argine resistente alla deriva massificante del nostro
tempo, a cui la scuola può e deve contrapporre una proposta
culturale alternativa. Il segreto per riuscirvi è racchiuso
appunto nella sfera della comunicazione, nella possibilità,
sempre aperta, di riorganizzare messaggi in forma nuova,
come insegna Seneca.
Il 21 maggio del 2011 Piazza degli Studi, intitolata a Sebastiano
Addamo - Scrittore, diveniva un luogo della memoria per
eccellenza. Una memoria che non si fossilizza nella nostalgia
del tempo andato, ma sa essere vitale ed evolutiva, sa stimolare le
giovani menti e generare una visione positiva. Perché una città
può essere interpretata e vissuta in molti modi diversi e
contradditori tra di loro, ma in nessun caso possiamo rinunciare
a credere che la “bianca città” abbia la forza di evacuare da
sè “il guasto, il rigettato”, per conficcarsi felicemente “nella
dura terra dove è nata”. E’ questo il messaggio che si è inteso
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esaltare accostando la parola poetica di Sebastiano Addamo
alla “Nazareth” del pittore Franco Condorelli.
Spetta ai soggetti coinvolti - al Comune, alle scuole, alle
associazioni, agli artisti, la cui vista sa andare oltre le
apparenze - indirizzare gli sforzi collettivi in questa direzione.
Nuccia Tronco
Assessore alla Cultura e alla P.I.
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Anzitutto le trovi d’improvviso, sembrano allegre. Salgono
dal basso, da qualche parte, dal lato oscuro. L’inclemenza
del giorno a volte le mette in fuga, d’inverno spariscono. Folle
flora animata. Le grandi ale già cautamente annunciano l’ombra
che sono.
Sono multiple e dialettiche. Il fuoco fatuo, il lampo azzurro e
fulmineo della notte. Ciò che passa.
Il fiore più alto è il più maturo, il più bello. Il più mortale.
In fondo non puoi ignorarle. Seriche folate sorvolano il
giorno, l’arcobaleno. Irrompono vive e disperate. Rovistano
la testa come mani sottili.
Poeta sarà colui che almeno una volta avrà avuto vergogna
di diventarlo.
Eppure, proprio perché impotente, la poesia può parlare.
Si rivolge anche all’uomo.
Tanto, non ha nulla da dirgli.
L’uomo è il luogo più lontano. La poesia qualche volta riesce
a raggiungerlo.
Ma se ne dimentica spesso.
Un’orma rapida di fuga, cristallo che balena al guizzo del
sole, l’incantato orrore del bambino che trasale alla prima
diffidenza del buio. Dove saranno condotti?
Come la sera indefinita viene avanti col suo carico di neon e
sepolcri, come i vecchi ricordi ti sorprendono nel momento
9
Le ParoLe dI addamo
più inopportuno, come la vecchiaia che ti scoraggia, come il
futuro che non sai guardare, come i tuoi passi incerti
d’improvviso si muovono sul selciato sconnesso della strada
che pure conosci, come le tue ore gli istanti le pieghe del viso
le borse sotto gli occhi e cerchi qualcosa che riempia il tempo,
come il tram che hai perso, come una casa deserta coi suoi
gemiti inascoltati....
La mia casa era stata costruita con sorprendente disarmonia,
un giro di stanze e di porte, d’improvvisi scoscendimenti, una
sorta di mezza ruota che s’avvallava, finiva di sorpresa nel
grande orifizio della cucina. L’antro vivo e molteplice dove
tutto avveniva e tutto conteneva e vi cominciava. Quasi di
fronte all’ingresso, il forno, l’idolo mostruoso per cuocere il
pane, un ventre gonfio e scurito dagli anni e dall’uso.
Era una grande casa, fatta per ricevere e per contenere.
Tutto veniva accatastato in uno stanzino intramato a canne,
eretto nel fondo più lontano della cucina, isola d’ammarraggio
e asilo per ogni tipo di oggetto, dalle bottiglie, alle pentole in
rame, ai vecchi arnesi contadini.
Un passato senza memoria.
Mia madre la ricordo dappertutto. Assorbivo sensazioni e
emozioni quasi tutte da lei filtrate, che forse è il modo della
madre a perdurare nella generazione.
Possedeva un piccolo libro del quale ogni tanto scorreva qualche
pagina: sottile e nitido di scrittura, con un segnalibro di seta
la copertina di pelle verde.
A me piaceva, nascostamente, prenderlo, toccarlo poroso e
madido, metterlo in tasca. Più tardi lo estraevo ancora nel calore
del mio corpo. Passavo la mano sul dorso, lungo i bordi:
erano tiepidi, mi parevano una guancia.
Veniva spesso a guardare i miei disegni. Non le importava il
disegno, ma forse me che disegnavo. Respirava leggermente
dietro di me. Mi dava fastidio il suo sguardo che non vedevo,
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il ritmo del fiato sul mio collo.
Eppure, se d’improvviso era chiamata altrove, con la sua
veste che spariva dietro la porta fisicamente avvertivo la
violenza del vuoto, una sottrazione di realtà.
Una volta s’era chinata a guardare il disegno che stavo
terminando. Era una grande margherita e la coloravo in rosso
lacca. Infine prese il foglio tra le mani, lo rigirò variamente,
finché si fermò.
Così è più bello, disse. Era lo stesso, tutte le sue parti uniformi.
Ma la luce da cui guardava era diversa.
Nel tempo della prima scuola avevo paura degli altri.
Mia madre ruppe gli indugi, venne a scuola assieme a me.
Parlava nel cortile con qualcuno, o ricamava seduta a uno sgabello.
Ascoltavo da lontano i suoi discorsi, o i suoi silenzi.
La trovavo all’uscita, franca e sorridente. Fui io stesso a chiederle
di non venire più.
Mi sorrise, senza nulla rispondere.
Si spogliava nella sua stanza che era subito dietro la mia,
accanto al lume. La porta veniva lasciata aperta finché non
avessi preso sonno.
Disteso nel letto, guardavo sul soffitto l’ombra ingrandita e
veloce dei suoi gesti. Vagamente avvertivo che l’ombra non
nasconde nulla, che il mistero è lei stessa.
Dicevano che era stata molto bella. Che qualcosa in paese
fosse accaduto a causa sua.
Le cose di cui nessuno parla in una casa.
Da una foto di giovinezza casualmente una volta spuntata da
un cassetto, mi apparve un giovane volto irrigidito da un’ansia
senza causa. Le dita toccavano un uccello impagliato sopra
un piccolo tavolo liberty, il cappellino velava la luce degli
occhi.
Un piede era collocato un po’ più avanti dell’altro, era un
cammino, uno slancio fermato.
La superficie della foto indicava un aspetto di mia madre che
non mi era chiaro. Si rivelava nella caparbietà dell’atteggiamento,
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nell’artificiale distacco dalle cose, e nella singolare certezza
del proprio essere. La propria definizione assoluta, fuori dai
limiti di spazio e tempo.
Era lei, a tavola, a tagliare il pane. Prendeva la forma, la
rivoltava, col coltello vi segnava velocemente la croce. Poi
cominciava a tagliare e a distribuire.
Quel che è bello mentre si consuma, il pane, l’amore, la parola.
Le piacevano i fiori di campo e tutte le piante umili: il basilico,
la menta, il rosmarino. Le coltivava in alcuni vasi collocati
sul piccolo terrazzo, sopra i tetti, con alcune piante di gelsomino
e garofani.
Usciva ad accudirle anche col freddo. Avanti negli anni, veniva
richiamata e non sempre udiva la voce, forse, diceva, a causa
del vento.
Spesso bisognava uscir fuori, prenderla per il braccio, costringerla
al caldo. Rientrava con riluttanza.
Quando era il tempo, adornava le stanze con grandi mazzi di
biancospino.
Non so, sorridendo diceva, se per il bianco ...
Nella stalla teneva pure un fornello a legna. Non si capiva se
per cuocere certi cibi, o per stare a guardare la fiamma.
Aveva i suoi traffici: potare le piante, preparare le conserve,
riassettare la casa. Solamente verso gli specchi manteneva
una sorta di apprensione.
Lei disse che era
notte fonda e invece
era già l’alba e quando
disse alba
il sole fu alto come destino.
Nulla si può trattenere
l’evento giunge in ritardo
gli specchi riflettono sempre
una sola immagine.
Ti sorprende, di colpo
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risvegliandoti,
l’oggetto fuori posto
il vaso in frantumi
lo specchio che ti guarda
allora cautamente ripercorri
la stanza, il bosco, il cosmo
la trama compatta delle figure
1’essere che permane
le superfici refrattarie
intransitive,
indifferenti alla tua assenza.
Le avevamo regalato una radio. Curiosamente, della radio le
piaceva ascoltare negli ultimi tempi le nenie di qualche emittente
araba.
Non è per il canto, diceva. È per il deserto.
Furono rinvenute alcune cose sue: due coltellini, uno dei quali
col manico in madreperla; alcuni piccoli oggetti d’ornamento
spaiati che nessuno aveva mai visto; una ampollina ancora a
metà piena di violetta di Parma; il turacciolo di una bottiglia
di spumante. Alcuni pacchettini avvolti in carta colorata e annodati
con spaghi anch’essi a colori. Sopra ciascuno c’era scritto in
larga grafia il nome delle nipoti più piccole e più care. Così
strettamente annodati che pareva una violenza, una cura
molto più simile allo strazio.
Contenevano il suo anello d’oro col rubino, che da anni non
portava, divenuto troppo largo per il suo dito; la sua collana,
anch’essa accantonata, ormai pesante, o inutile; una spilla
pure d’oro, e un’altra, di metallo comune, ma da lei più
frequentemente adoperata, raffigurava una gondola e due
sagome abbracciate; e un orologino appannato e rotto che lei
portava da ragazza, già con la cinghia tutta usurata.
E delle piccole scatole di vetro, di diversa grandezza e
formato, le cui parti venivano unite con nastri solitamente azzurri
ma di diverse sfumature.
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Su qualcuna aveva dipinto dei fiori: roselline, violette.
Vi riponeva qualche foulard, i suoi gomitoli, i fazzoletti di
batista, assieme a fiori di gelsomino.
Acquistammo delle pile nuove, le inserimmo e le provammo.
Funzionavano. Le lasciammo la radio. Venne accesa, prima
di abbandonarla.
Fuori c’era l’inferno: le sirene avevano smesso, ma l’aria era
lacerata da fischi e spari, c’erano scoppi e schianti, un tremito
di terremoto si comunicava al suolo e alle pareti, e grida lontane
risuonavano metalliche come sopra un abisso a cui si
aggiungevano le grida di coloro che mi stavano vicino; e,
sopra tutto, sopra i crolli e gli schianti, quel rombo d’aerei;
un suono uguale, solenne, ma cupo e senza amicizia. Finché
venne il silenzio.
Volli uscire, volevo guardare.
Fuori trovai una densa nube. Ma dovevo vedere, andare
avanti. Camminai adagio senza sapere verso dove; la via mi
sembrò di non conoscerla, e le case, il suono dei passi, miei
e di qualcuno che incontravo, il suono d’una parola o un
grido, il sorriso che scorgevo su una faccia ed era la fine d’una
paura, era come se esistessero per la prima volta. Imparavo il
mondo.
I panni ai balconi erano sporchi, penzolavano come stracci.
Più avanti, sul marciapiedi, scorsi un fornello intatto: la legna
ancora bruciava, la pentola bolliva. Fu quella vista a darmi il
senso esatto dell’accaduto, la sua tranquilla continuità, il suo
abbandono di cosa.
C’era silenzio, tutta Catania mi pareva avvolta nel silenzio.
Più avanti, tra il fumo, vidi le macerie di un palazzo, la folla
che si accalcava, alcune persone piangevano trattenute da
altri. Alcuni s’erano messi a scavare, a smuovere le rovine.
Improvvisamente accettavo tutto. Intorno, in quella luce
diversa del giorno e del mondo, non c’era che fumo grigio e
silenzio, gente intontita e un suono amaro di piccone.
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Ad un tratto mi sentii afferrare per il braccio.
Era il padre, erano i padri. Li riconobbi senza reagire.
Udii domande, capii che mi scuotevano. Vidi le loro valigie.
I tre padri come i tre santi mi guardavano e mi scuotevano: il
padre di Gianni, il padre di Pippo, il padre di Carletto, i vecchi
antichi padri coi loro visi stuporosi e storditi, le loro facce atterrite
e piene d’ansia.
Mi misi a ridere. Ricordo il fragore che percuotette le mie
orecchie mentre guardavo quei volti inermi, finché mi scossero,
a lungo, a lungo gridando il mio nome. E fui calmo; li guardai
calmo. Loro, i padri.
E non sapevo, non sapevo che un’età era finita per sempre,
che in quel momento finiva l’era dei Padri e un’altra stava
cominciando, un’altra senza nome e senza scampo; entravo -
senza averlo voluto, senza ancora saperlo - definitivamente
entravo nell’età violenta, nella ferrea, dura, chiara età del parricidio.
... come gli incubi dei sonni, come le premonizioni i terrori
oscuri e senza causa il pianto che afferra alla nuca quasi il dio
senza volto ti tirasse i capelli, come il pozzo nel quale una
volta hai guardato e ancora ti resta l’orrido istante del nulla,
come la Vita ti balza addosso aspra bellissima tenera e
molteplice; come infine a notte nel bar gli assorti avventori
con le nostre facce quando si tratta di varcar la soglia per
arrivare a casa e intanto si resta si resta fissi nel silenzio poiché il
terrore è la via non il luogo dove - comunque - si giunge.
La poltiglia la mucillagine ardente
qui la bianca città ha evacuato
plastiche distrutte
ossa calcinate
l’accumulo nero, il guasto, il rigettato,
e tutto il resto che fermenta
le terrose ossidazioni
i cicli, i cupi fuochi taciturni
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la mente tumefatta
immagini già vuote
il volto dalla memoria sfilacciato
1’ameba turgida e sconfinata
felicemente la bianca città
si conficca
nella dura terra dove è nata.
La creazione può ricominciare.
Testi di Sebastiano addamo variamente tratti da:
Il giudizio della sera, Garzanti, Milano 1974La metafora dietro a noi, Spirali, Milano 1980
Le abitudini e l’assenza, Sellerio, Palermo 1982Le linee della mano, Garzanti, Milano 1990
Alternative di memoria, Scheiwiller, Milano 1995
L’idea di allestire una giornata dedicata a S. Addamo
giunse a Gennaio di quest’anno per la necessità di
sciogliere l’eccessiva timidezza legata all’evento che l’anno
precedente aveva visto intitolare al poeta la piazza antistante
il Liceo Gorgia di Lentini.
Non poco trasporto ma troppa fretta; non poca dedizione ma
troppo discreto omaggio; Addamo merita di più.
Se è vero - come viene scritto nella Prefazione agli Atti del
Convegno organizzato nell’anno 2001 dal Kiwanis Club di
Lentini - che il poeta nel Luglio dell’anno 2000 ebbe un
funerale senza alcun tocco di campana perché egli stesso
aveva voluto che della sua morte si desse notizia dopo e quasi
in sordina, è altrettanto vero che non si può essere celebrati
senza alcuna celebrazione.
E’ pertanto opportuno ringraziare il sindaco Alfio Mangiameli
e l’assessore prof.ssa Nuccia Tronco che, con la presente
iniziativa, hanno voluto risarcire la trascorsa e innocente leggerezza.
È questo un sentito tributo, timido ancora, ma così lo avrebbe
voluto Addamo.
Durante i mesi di lavoro che ha accomunato alunni e
insegnanti di scuole diverse, ogni qual volta fosse nata una
nota leggermente più forte e colorata a raccontare lo scrittore,
Nuccia Tronco, che più di noi tutti lo aveva conosciuto,
ammoniva, facendosi sempre garante di quella compostezza
che al meglio e al vero lo avrebbe rappresentato.
Tanti altri degni eventi sono stati consacrati a Sebastiano Addamo
e per questo è sorto il desiderio di un’iniziativa diversa, insolita,
scevra da ogni noiosa, inutile e pleonastica replicazione;
bisognava soltanto che noi adulti rileggessimo il Poeta attraverso
gli occhi dei giovani, lo riguardassimo e lo riguadagnassimo
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... La cIfra deLLa doPPIezza
di Caterina Battiato
attraverso la mente limpida, tersa dei nostri alunni, non ancora
dogmaticamente storpiata o viziata da alcune ingombranti
sovrastrutture dei preposti ai lavori.
L’attività ha previsto l’assemblaggio di diversi brani tratti da
alcune opere del Nostro quali Alternative di memoria, Le
linee della mano, La metafora dietro a noi, Le abitudini e
l’assenza, Il giudizio della sera. Variando e arricchendo il
logos di suoni, colori, volumi e visività, dando concretezza a
ciò che concreto non è, siamo giunti ad una sorta di teatraliz-
zazione del pensiero poetante dello scrittore, veste irrituale
ed inusuale per la poesia ma di risultato efficace. Abbiamo
originato, con ritagli della sostanza poetica di Addamo, senza
ledere o offendere, un prodotto nuovo, un testo, un’esile
costruzione narrativa in cui la parola del poeta è stata scortata
dalle plurime espressioni della moderna multimedialità.
...la cifra della doppiezza
La narrazione si apre con alcune liriche, tratte dalla raccolta
poetica Le linee della mano, intitolate Farfalle, spettrali creature
che l’ossimoro governa; non sono in volo ma salgono dal
basso, da qualche parte, dal lato oscuro. Il salire dal basso
svela la loro contraddittoria essenza tra l’essere e il voler
essere: il basso, il buio, l’oscurità è la loro condizione,
quando invece la vocazione è il salire, la luce, il giorno che
inclemente le mette in fuga. Anche il loro colorato manto è
latore contemporaneamente di trionfo e annientamento:
quelle grandi ali che annunciano l’ombra che sono mentre le
innalzano anche le adombrano, occultando, dissimulando ed
imboscando la loro esile, minima corporeità; e quel volo,
talmente immateriale, incorporeo, trasparente diventa solo
immaginazione, fantasticheria, sogno, cosicché facilmente,
in un incessante gioco di metamorfosi, esse non sono più
farfalle ma folle flora animata... Il fiore più alto...il più bello.
Il più mortale. Ed ancora, non più fiore ma seriche folate...
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che temerarie... sorvolano il giorno; ma proprio quando la
loro natura diventa visione onirica, allucinazione, miraggio,
quando sembrano perdere definitivamente, irrimediabilmente
ogni minimo residuo di tangibilità, proprio allora irrompono
vive e disperate. Rovistano la testa come mani sottili.
La contraddizione, la dualità, l’ossimoro, propri della natura
delle farfalle, Addamo li riconosce e li assegna alla Poesia,
al parlare muto della Parola poetica, al suo problematico ed
ambiguo destino di esistere nel silenzio: quando c’è la parola
non c’è ascolto; quando ci sarà ascolto non ci sarà la parola...
La parola vera è silenziosa... nulla in quanto segno. Ed è
solo in questo nulla che la Bellezza può sussistere. Anzi: essa
è, in quanto non è (60 Proposizioni da La metafora dietro a
noi). La stessa cifra di doppiezza, per usare un’espressione
di Sciascia, si riscontra nella natura, nella vita e nel destino
di Addamo, uomo di grande tenerezza, come lo descriveva
Consolo, ma anche di immensa e titanica forza, dal momento
in cui aveva eletto la solitudine e l’isolamento, come compagne
della sua vita, quella vita che assale aspra bellissima tenera
e molteplice simile ad un selciato sconnesso che, seppure
familiare, si percorre a passi incerti, consapevoli che il terrore
è la via non il luogo dove – comunque - si giunge.
Il dualismo è l’origine stessa dell’Uomo, il suo principiare,
simultaneamente, come distacco e accoglimento, come
abdicazione dal padre, polo di rifiuto e dimenticanza, ed
emancipazione da esso attraverso la mediazione del ventre
materno, spazio di trasformazione e progresso, in cui la
causa si fa effetto, risultato, spazio in cui il possibile, l’eventuale
progredisce nel prodotto. Le abitudini e l’assenza e Il giudizio
della sera sono i due romanzi di Addamo in cui gli universi
genitoriali si trincerano, separandosi e definendosi uno
antiteticamente all’altro. Nel primo componimento narrativo
vige la figura materna, sua madre, singolarmente ed unicamente
sua: mia madre possedeva un piccolo libro…mia madre si
chinava a guardare il disegno che stavo terminando.
Il romanzo inizia con l’esplosione dell’aggettivo possessivo
che insistentemente dilaga, tracima e abbonda. Entro il secondo
romanzo, Il giudizio della sera, si barrica indistinto l’universo
paterno, non di suo padre, non unico, non solo ma dei padri
dei tre padri come i tre santi…i vecchi antichi padri coi loro
visi stuporosi e storditi, le loro facce atterrite e piene d’ansia.
L’ansia che la virile egemonia paterna potesse essere
detronizzata dal figlio, quello stesso orrore che spingeva Cronos
a fagocitare i suoi nati perché di essi uno lo avrebbe ucciso.
L’inquietudine, l’angoscia dei padri coscienti dell’inevitabilità
del parricidio, atto necessario perché il futuro possa essere ed
il passato possa trascorrere, come garanzia del regolare divenire,
del perpetuarsi della storia e quindi della stessa vita. Alla fine
del romanzo anche Gino, il protagonista, dopo la deflagrazione,
dopo la distruzione di Catania in seguito al bombardamento,
entrava irrimediabilmente…senza averlo voluto, senza
ancora saperlo…nella ferrea, dura, chiara età del parricidio.
Antitetica la progettualità circa la figura materna. In Le abitudini
e l’assenza è custodita la smania di eternare la madre attraverso
la forza analogica ed evocativa degli oggetti per scampare a
quella violenza del vuoto, una sottrazione della realtà se
all’improvviso era chiamata altrove con la sua veste che spariva
dietro la porta.
Acquista valore taumaturgico l’elenco degli oggetti appartenuti
alla madre, stilato dal poeta... un’ampollina ancora a metà
piena di violetta di Parma, il turacciolo di una bottiglia di
spumante, alcuni pacchettini avvolti in carta colorata…
l’anello d’oro con rubino, la sua collana… una spilla…
’orologino appannato e rotto, foulard, gomitoli, fazzoletti di
battista ed una radio.
Una radio, ed il pensiero corre subito a quella testimonianza
che la scrittrice D. Maraini ha lasciato su Addamo in quei già
citati Atti del Convegno di Studio sul poeta del 2001.
Ricordo il suo passaggio a Roma, anni fa per una operazione
agli occhi. Doveva essere il 1975... Gli ho chiesto se avesse
20
21
bisogno di qualcosa. “una radio”mi ha risposto... Mi ha
ringraziato con un sorriso gentile che sembrava dire “sapevo
di potermi fidare”.
Forse quella piccola radio da tenere vicino al cuscino, in un
letto di ospedale, in quel momento di bisogno, quella radio,
dalla quale alla madre piaceva ascoltare il canto delle emittenti
arabe... non per il canto ma per il deserto, come diceva ai
figli, quella stessa radio, a Roma, in quel lontano 1975, servì
a popolare il deserto di Addamo e, in virtù di quella radio, la
madre gli fu vicina al capezzale. E allora, quasi in una
corrispondenza di amorosi sensi tra poeti, sentì di ringraziare
la Maraini, con un sorriso gentile, perché di lei, poeta, come
della Poesia, era certo di potersi fidare.
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d’A studio - arch. Domenico Zagami
L’iniziativa trae spunto dal primo anniversario dell’intitolazione
di Piazza degli Studi a Sebastiano Addamo, una delle
anime più armoniosamente complesse che la nostra comunità
abbia mai ospitato. La piazza è il “luogo” che
dovrebbe dare impulso al ricordo di un uomo grande senza
enfasi, capace di svelare la miserabile bellezza dell’individuo
e dei tempi.
“Luogo”, appunto. Ma riscontrare, nell’attuale piazza, motivi
caratterizzanti, qualità emergenti, peculiarità rilevanti è
talmente difficile ed improbabile da poterla serenamente
definire come un “non – luogo”, una faccia senza volto, un
violino senza corde; il “pensiero poetante” di Addamo e il suo canto
amaro e penetrante meriterebbero ben altro teatro!
Ecco allora che la riuscita di questa giornata della memoria
si misurerà anche con la capacità che si avrà di far scricchiolare
il “Moloch” della volgarità e della superficialità, per insinuare
il germe della bellezza che Addamo ha dolorosamente ma
titanicamente perseguito.
Questa giornata ci ha quindi offerto la preziosa possibilità di
immaginare solo alcune tra le mille soluzioni possibili alla
risoluzione del problema, col proficuo coinvolgimento sia
La PIazza
di Domenico Zagami
d’A studio - arch. Domenico Zagami
degli adulti addetti ai lavori che dei giovani, caratterizzati da
fresche energie, non ancora corrotte o deviate dall’ “esperienza”:
proprio loro sarebbero i primi fruitori del luogo ritrovato.
Uno dei progetti esposti è quello da me redatto nel 2007, per
essere donato al Comune di Lentini. Ispirato alla figura del
filosofo Gorgia – ma l’ispiratore sarebbe potuto essere
Sebastiano Addamo, senza che ciò implicasse alterazioni
nella struttura compositiva – il progetto della piazza è stato
improntato al dialogo e al confronto, alla meditazione e alla
comunicazione. Constatata la presenza del Museo archeologico
e di antiche Istituzioni scolastiche - tra cui il Liceo Classico
“Gorgia”, sede dell’operare di Sebastiano Addamo per molti
anni – mi è sembrato inevitabile assecondare il “genius loci”,
mettendo in campo un continuo rimando tra passato e presente,
tra tradizione e innovazione, tra la cultura contemporanea e
le sue radici. Tale dialettica si traduce, di fatto, in un percorso
ideale tra il Liceo ed il Museo che si articola tra “eventi”
architettonici preposti alla formulazione e alla divulgazione del
pensiero: le panche, il portico, l’anfiteatro, costruiti con materiali
della tradizione commisti a materiali innovativi.
Il progetto redatto dall’amministrazione comunale (citando
direttamente la relazione di progetto) si prefigge lo scopo di
dare chiara e immediata identità alla piazza e di farla rivivere
attraverso la creazione di differenti percorsi, spazi e sedute.
Il progetto si è orientato verso la scelta di materiali di finitura
24
Comune di Lentini
“poveri”, valorizzati con tecniche di messa in opera che ne
esaltano la qualità espressiva. L’intervento cerca di restituire
uno spazio di relazione al contesto urbano a cui appartiene,
creando percorsi interni che tracciano “isole artificiali” (create
con terreno di riporto e ricoperte da pietrisco) delimitate da
siepi che contengono la vegetazione arborea preesistente.
Lo spazio così progettato è concepito essenzialmente come
elemento naturalistico che consenta un fruire più libero (sosta,
gioco, spazi di aggregazione e getti d’acqua).Si vuol chiudere
questa breve presentazione della “sezione progettuale” per la
Giornata in memoria di Sebastiano Addamo citando
l’importante contributo degli alunni del Liceo Artistico di
Lentini che, di certo ingenui profani, ma felicemente svincolati
dalle visioni del chierico talvolta discorsive, hanno svelato
invenzioni spaziali fresche e dirette, vitali e fantasiose,
preziose quindi per comprendere quel che i giovani si aspettano
da uno spazio pubblico rivisitato. Il turbinio di fontane
zampillanti, le trame fiorite, le parole poetiche incastonate, i
libri tramutati in macrostrutture ricreative sembrano urlare
all’unisono un solo bisogno, pur declinato in tanti linguaggi:
quello del rifiorire della vita e della creazione di un ambito
di lei degno.
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Comune di Lentini
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L’anniversario dell’intitolazione della piazza a Sebastiano
Addamo è stata l’occasione per riflettere, attraverso gli
occhi degli studenti, sulla figura dello scrittore e sullo spazio
cittadino a lui intitolato.
Sono stati realizzati due lavori: il primo parte dalla parola
dell’autore per giungere alla realizzazione del video; il
secondo, di natura “tecnico-sperimentale”, vuole invece partire
dall’artista per giungere al luogo a lui dedicato: la piazza. Il
legame inscindibile tra i due lavori è la mostra che ha introdotto
questa giornata attraverso i suoni e le immagini, e ha legato
le parole allo spazio fisico della piazza e alle
riflessioni progettuali fatte su di essa.
Il lavoro ha sempre avuto al centro gli studenti, con le loro
incertezze ma anche con il loro entusiasmo a cimentarsi in
qualcosa di totalmente nuovo: sono stati progettisti, disegnatori,
“attori” e voci narranti.
La collaborazione vera tra docenti di diversa formazione, che
operano in contesti differenti, e la cooperazione di questi con
gli studenti, ha consentito, altresì, di osservare l’opera di Addamo
da diversi punti di vista, dando vita ad una interessante
contaminazione tra i diversi linguaggi e tra le arti. In quest’ottica
il video è stato concepito come un’evocazione: non una
celebrazione o il racconto di una storia, dunque, ma un
incontro puro tra parola e immagine. Proprio sul concetto di
immagine è interessante soffermarsi. La scelta è stata quella
di considerare l’immagine alla stregua della “pittura” intesa
come segno e composizione. In questo senso l’immagine è
fotografia, è video e può esserlo attraverso lo “still life”,
quell’attimo che in pittura resta sospeso nel tempo tra il presente
e l’infinito, l’immanente. Lo still life è l’espressione poetica
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L’eSPerIenza dIdaTTIca
di Sebastiana Messina
che si fa pittura e non è infatti casuale il richiamo a Guttuso,
con la citazione dei limoni, e a Morandi, a mio avviso il più
grande pittore/poeta della modernità. In quest’ottica anche i
movimenti di camera e le scelte delle scene in cui sono
protagonisti i ragazzi richiamano al silenzio, alla memoria e
alla meditazione sulle parole. Il risultato è dunque un video
in cui il silenzio delle immagini e dei luoghi si sposa con la
forza delle parole per renderle universali. La scelta dei luoghi
segue lo stesso schema: la selezione non è ricaduta sui luoghi
fisici realmente o necessariamente appartenuti alla vita dello
scrittore, ma su quei “luoghi dell’anima” che hanno la forza
di evocare le sue parole. E così ad esempio Metapiccola e
Colle S. Mauro diventano lo scenario poetico, così come il
Museo dello sbarco il luogo in cui i ragazzi possono provare
a sentire le sensazioni della guerra descritte da Addamo.
Questi luoghi forti, evocativi, si combinano con quelli che
potremmo definire i “paesaggi della memoria”: la casa e gli
oggetti. Non si tratta di semplici oggetti, sono piuttosto le
“ancore” di un passato non più reale eppure sempre forte e
presente negli scritti di Addamo. Ai luoghi della memoria del
video, si affianca la piazza in quanto luogo decisamente
fisico, oggetto della sperimentazione realizzata con gli studenti
del Liceo Artistico. Questa piazza è stata fortemente inserita
nel percorso della giornata proprio per sottolineare l’esigenza
che sia un “luogo” anziché un “non luogo”. Le considerazioni
sulla Piazza sono nate dalla lettura della Convenzione Europea
del Paesaggio che definisce il Paesaggio come “una zona o
un territorio, quale viene percepito dagli abitanti del luogo o dai
visitatori, (…)”, e ancora “Il paesaggio deve diventare un tema
politico di interesse generale, poiché contribuisce in modo
molto rilevante al benessere dei cittadini Europei che non
possono più accettare di “subire i loro paesaggi”, quale il
risultato di evoluzioni tecniche ed economiche decise senza
di loro (…)”. Il cambio di prospettiva è interessante: si passa
dal concetto di “luogo” a quello di “percezione del luogo” da
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parte di chi vive (attivamente) e non di chi subisce il paesaggio.
La differenza è sostanziale. Spesso siamo abituati a considerare
il verde pubblico un luogo di nessuno, il degrado che lo
contraddistingue nelle nostre città lo dimostra; confinato in
aiuole con barriere ben definite come se si temesse un qualche
contagio, spesso lascia spazio a pavimentazioni dalle fogge
più varie. Nessuno mette in discussione la valenza architettonica
di questo tipo di interventi, ma spesso si perdono di vista, o
si dimenticano, le funzioni del verde come spazio
aggregante/sociale e come spazio ecologico/culturale.
La realtà di oggi è ancora più difficile se mettiamo in conto
che non solo il verde, ma i luoghi pubblici vengono disertati
in favore dei più “facili”, ma al contempo inquietanti, “spazi
virtuali”, divenuti unici veri luoghi di incontro per quelli che
vengono definiti i nativi digitali, i nostri ragazzi.
Le considerazioni di natura teorica e la rinnovata attenzione
allo spazio della piazza sono stati, dunque, gli spunti per una
provocazione fatta agli studenti che hanno accettato di cimentarsi
in un’operazione che richiama, senza pretese, quello che il
design partecipativo si proponeva di fare tra gli anni ’60 e gli
anni ’80 negli Stati Uniti e negli illuminati paesi del Nord Europa:
far partecipare gli utenti finali nella progettazione degli spazi
a loro destinati. Trattandosi di una piazza sulla quale insiste
una scuola è stata data la parola ai ragazzi fornendo loro come
strumento conoscitivo non le capacità tecniche progettuali,
ma le parole di Addamo e le immagini di parchi e interventi
sul verde realizzati in Italia e soprattutto all’estero. Si è trattato
chiaramente di una “sfida colta”, non si pretendeva alcuna
competenza architettonica e si era coscienti di una carenza
tecnica di base che però, con grande sorpresa, si è rivelata un
punto di forza piuttosto che un punto di debolezza.
Gli improvvisati progettisti, scevri da qualsiasi imbrigliamento
tecnico, si sono posti di fronte allo spazio prima con timore,
poi con la creatività che li contraddistingue dando libero
sfogo alla fantasia e disegnando soluzioni che legano in maniera
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estremamente esplicita lo scrittore allo spazio della piazza:
anfiteatri con le parole di Addamo, sedute e fontane che
ricordano i libri, lo studio e la cultura, giochi per bambini che
ricordano matite…. dietro ad ogni idea, diversa per forma e
realizzazione: il verde e poche pavimentazioni. L’obiettivo
dell’esperimento non era chiaramente un concorso di
progettazione, si chiedeva ai ragazzi di interrogarsi su uno
spazio e loro lo hanno fatto. Al di là della fattibilità, o della
valenza estetica urbanistica o architettonica delle scelte fatte,
ciò che si legge è l’esigenza di creare uno spazio che possa
essere vivibile, fruibile e giocoso. Uno spazio in cui bambini,
giovani e adulti possano riconoscersi, uno spazio di cui
riappropriarsi in maniera creativa.
Le tavole in appendice sono il frutto di questo lavoro che si è
concretizzato nel video e nella mostra che ha accompagnato
il convegno.
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“Un aUTeUr SIcILIen
à decoUvrIr d’Urgence”
di Maria Valeria SanfilippoUniversità degli Studi di Catania
Sono uno scrittore di grande insuccesso”. Così soleva definirsi
Sebastiano Addamo. Eppure questo scrittore siciliano di
“grande insuccesso” pubblica con prestigiose case editrici
(Mondadori, Garzanti, Scheiwiller, Sellerio), intessendo
rapporti con riviste di respiro internazionale quali “Spirali”,
“Poesia”, “Nuovi Argomenti”, quest’ultima diretta nel corso
del tempo da Pasolini, Carocci, Moravia, Siciliano, Bertolucci,
Sciascia. Riceve attestazioni di stima da parte di esponenti di
spicco dell’intellighènzia coeva: Vittorini, Calvino, Sciascia,
Porta, Bufalino, Bonaviri, Consolo, D’Arrigo, Cattafi, Bo,
Raboni. È tradotto in Francia, Bulgaria e nella Germania
dell’Est. Ma la penna del critico di turno non manca quasi
mai di segnalare l’incomprensibile silenzio, l’assenza di clamori,
di una maggiore diffusione delle sue opere.
Sul quotidiano palermitano “L’Ora” del 29 giugno 1978, in
occasione dell’uscita del suo secondo romanzo (L’uomo fi-
dato), Leonardo Sciascia osserva: “È un libro di cui nessuno
parla. Ed è forse, nel campo della narrativa, il libro più
interessante che sia stato pubblicato quest’anno in Italia”.
Qualche tempo dopo, sul “Corriere della Sera” del 2 gennaio
1983, Enzo Siciliano torna a riflettere sulla paradossale sorte
toccata allo scrittore: “Mi chiedo perché si è taciuto, in
quest’anno, con singolare pertinacia, di un libro, un lungo
racconto stampato da Sellerio, la cui scabra nudità di stile mi
sembra esemplare, Le abitudini e l’assenza, di Sebastiano
Addamo. Basterebbe rimandare ad esso per far tacere la nenia
sconfortante di chi teorizza la negazione di ogni vita espressiva”.
Se Sciascia, sottolineandone la singolarità, suole definire
Addamo “un fratello diverso”, Sereni lo ritiene “del tutto
fuori da ogni sospetto di meridionalismo stantìo”, Pasolini gli
“
conferisce l’appellativo di “russo d’Italia, nuovo Goncarov”,
Calvino lo stima “il più fedele critico” dei suoi libri.
Pur celebrato dagli addetti ai lavori, però, il suo nome non fa
capolino fra quelli che comunemente vengono additati come
rappresentanti della letteratura siciliana del Secondo Novecento.
“Uno scrittore per pochi” hanno titolato note testate
giornalistiche. E ciò può trovare in parte giustificazione: il
temperamento austero e appartato dello scrittore, l’indole refrattaria
alle luci della ribalta, ricusatrice di arene televisive e
mondane, le scelte compromissorie mai compiute, il
verghiano attaccamento allo scoglio (l’amata Sicilia), la scrittura
che si fa – per dirla con Pirandello – discordante voce “fuori
di chiave”, stonata nel generale concerto di un mondo
convenzionale.
Figura intrigante e dal multiforme ingegno, che spazia dalla
narrativa alla poesia, dalla saggistica al giornalismo,
Sebastiano Addamo è intellettuale a tutto tondo.
I temi affrontati nel suo itinerario artistico sono complessi,
talora scomodi: la malattia, la vecchiaia, la diversità, la
solitudine, la morte, l’incomunicabilità, la denuncia del
conformismo, la condanna di ogni guerra, la difesa degli
emarginati, lo smarrimento ideologico, la noia, l’indolenza
isolana, la sessualità, la mercificazione di ogni ordine e grado,
i media e le loro dinamiche tentacolari. La prosa di Addamo,
però, non fa ricorso ad una smielata retorica. “A ciglio
asciutto” ebbe giustamente a definirla Giovanni Raboni.
Una fitta selva di temi che, pur eleggendolo erede di De Roberto,
Verga, Pirandello, Brancati, Patti, Sciascia, disegna una
fisionomia del tutto autonoma dello scrittore di Lentini, che
filtra il reale con modalità proprie, riaprendo persino scenari
pascaliani, proustiani, hessiani, ascrivibili alla cultura
internazionale. A cominciare dal capolavoro, Il giudizio della sera,
romanzo edito da Garzanti nel 1974, la cui ripubblicazione, curata
da Sarah Zappulla Muscarà, ha visto di recente la luce per i tipi di
Bompiani.
In un tempo come il nostro, contrassegnato dalla continua
diaspora degli ideali, la scrittura di questo autore non fornisce
soluzioni ma categorie e strumenti – lente e microscopio –
per decodificare la realtà circostante. E c’è bisogno di leggere
autori della Sicilia colta e raffinata come Sebastiano Addamo,
punto di partenza per un’autentica rinascita intellettuale.
“Un auteur sicilien à decouvrir d’urgence” titolavano, e non
a torto, alcuni giornali francesi in occasione della traduzione
de Le abitudini e l’assenza. Un autore da scoprire
urgentemente per le ricadute che la sua opera ha su di un’intera
generazione, la nostra, quanto mai smaniosa di ideali cui
appigliarsi, in balia di un intellettualismo mercenario.
APPENDICE - LA MOSTRA
APPENDICE - LA MOSTRA
APPENDICE - LA MOSTRA
APPENDICE - LA MOSTRA
APPENDICE - LA MOSTRA
APPENDICE - LA MOSTRA
Franco Condorelli, Nazareth, olio su tela
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Sebastiano Addamo. Chi era costui?” . Immaginiamo che
sia stata questa la domanda di manzoniana memoria che
si sono posti i nostri alunni, nel momento in cui noi docenti
abbiamo proposto loro di partecipare al progetto.
L’incontro con l’assessore Nuccia Tronco e il suo progetto ci
ha subito entusiasmato. Non tutti gli insegnanti ci conoscevamo
tra di noi o conoscevamo lo scrittore Addamo: alcuni avevano
conosciuto il professore Addamo, pochi lo scrittore, e questo
sarebbe stato un modo per non farlo in solitudine, ma anche
un’occasione d’incontro e di confronto tra esperienze e
generazioni diverse.
Successivamente ci siamo confrontati per vedere cosa ci
aveva colpito e cosa proporre per i nostri alunni: ognuno di
noi aveva scoperto qualcosa, ma tutti concordavamo sui testi
di Addamo su cui focalizzare l’attenzione dei giovani.
Molti ragazzi, che sono intervenuti al primo incontro un po’
per curiosità un po’ perché spinti dai loro docenti, si sono
subito resi conto che si offriva loro l’opportunità di studiare
un autore contemporaneo da un’angolazione diversa da quella
abituale. Un modo nuovo di avvicinarsi alla letteratura, non
tra i banchi di scuola, dove, troppo spesso, gli alunni assistono,
taciti spettatori, ad anacronistiche e sterili rappresentazioni
messe in scena da noi docenti, ma attraverso la rivisitazione
di luoghi fisici e luoghi dell’anima quanto mai pregnanti di
significato e cari al poeta, scenari ideali in cui muoversi con
naturalezza e con la consapevolezza che la conoscenza e il
sapere altro non sono che assi portanti dell’esistenza di
ognuno di noi.
Gli alunni sono stati fantastici, assumendo ben presto il ruolo
di principali attori e protagonisti attivi. Hanno lavorato con
lo spirito di un team che doveva realizzare qualcosa di inedito,
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commIaTo
di Silvia Calabrese, Elena Inserra e Sara Martello
“
doveva far uscire dalle parole quasi come per magia la realtà,
i luoghi, le esperienze e gli affetti che sono stati i loro, ma
che in fondo sono di tutti noi, sono delle donne e degli uomini
di ieri, di oggi e di domani.
Una sinergia d’intenti ha accompagnato per tutta la durata del
percorso docenti provenienti da background diversi, spingendoli
a lavorare con entusiasmo e passione. Quella stessa passione
che ha visto alunni di scuole diverse essere uniti per la
realizzazione di un prodotto innovativo, scevro da ogni
nozionismo e banale informazione, perché anche questo è
quello che dobbiamo al valore del messaggio poetico di
Sebastiano Addamo.
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