lo sguardo l’intervista di nachtwey - eastwest.eu · finisce “un lupo solitario”, circondato...

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finisce “un lupo solitario”, circondato da “un mistero”. In molti si chiedono come questo professionista riesca a elaborare tanto dolore per poterlo poi raccontare. Ci si do- manda quale sia il percorso per diventare così brillanti, restando integri, semplici, senza filtri. La risposta è in un’incredibile determinazione e nel racconto molto per- sonale che segue, addirittura sorprendente quando Na- chtwey afferma apertamente di essere un autodidatta, un giovane uomo che, con pochi dollari, un giorno è partito verso New York City. Come ha trascorso la sua giovinezza prima di diventare fotoreporter? La mia famiglia girava molto e ben presto ho comincia- to a sentirmi senza radici. Al college di Dartmouth, nel New Hampshire, ho studiato Scienze politiche, Storia dell’arte e giocato a rugby. Dopo essermi laureato con la lode in una delle migliori scuole d’America, ho capito che la mia istruzione non era ancora iniziata. Sono salito su una nave mercantile come lavapiatti, trascorrendo sei mesi in mare. Dopo aver viaggiato per un altro mezzo an- no intorno all’Europa, ho deciso di studiare fotografia da solo, con l’obiettivo di diventare un reporter di guerra. Mi mantenevo guidando i camion di notte. Alla fine sono ar- rivati i primi lavori da freelance, anche se non erano suf- ficienti per vivere. Avevo però l’intenzione di lavorare sempre più duramente per crescere come giornalista e ot- tenere un impiego in un quotidiano del New Mexico. Quattro anni più tardi mi sono reso conto che avevo im- parato tutto quello che potevo da quel giornale. Ho ven- duto le poche cose che possedevo e guidato il mio Mag- C on passo veloce entra nell’antico salone dove sono esposte alcune delle sue foto più note. I capelli bian- chi illuminano il viso di ragazzo. Si muove invisibile e inconfondibile al tempo stesso. Indossa jeans chiari e una camicia leggera. Sorride. I suoi occhi scuri scattano istan- tanee. Per James Nachtwey – che a 63 anni è considerato il più grande fotoreporter contemporaneo, il maestro, l’erede di Henri Cartier-Bresson – la fotografia è un mez- zo per ripudiare guerra e ingiustizie. Nachtwey non si fer- ma mai: quando lo incontriamo è appena tornato dai vil- laggi devastati del Giappone. Da qualche tempo vive tra New York e Bangkok, il cuore urbano dell’Asia, dove il lusso più estremo stride con la povertà che affligge la mag- gior parte della gente. «Sono in mezzo all’alluvione», di- ce lui che è sempre al centro degli eventi che fanno la sto- ria. Dal 1980 ha documentato tutte le principali guerre e le crisi umanitarie. In trent’anni di lavoro, molti dei qua- li spesi come fotografo di riferimento della rivista Time, ha scelto il punto di vista della gente comune, di chi su- bisce e non ha una voce. Sarà per questo che le sue foto non solo hanno vinto i premi più prestigiosi, ma restano nella mente e nel cuore delle persone. Riescono in quel- lo che è il suo principale obiettivo: generare compassio- ne. In un universo giornalistico sempre più gridato, cini- co, invaso dai diktat della pubblicità, Nachtwey si muo- ve umilmente come un “servitore”. Nel documentario del 2001 a lui dedicato e candidato agli Oscar, War Photographer, una commossa Christiane Amanpour, la giornalista più influente della Cnn, lo de- aveva la capacità di creare consapevolezza sociale per- ché era un elemento essenziale nei processi di cambia- mento. Quando ho deciso di diventare fotografo, deside- ravo essere parte di questa tradizione. Da chi è stato ispirato? Accanto ai fotografi che allora si occupavano di guerra e diritti civili ho studiato i loro precursori. Poiché non avevo soldi ogni giorno passavo il tempo tra gli scaffali delle librerie per guardare i volumi di fotografia, senza avere la possibilità di comprarli. Era come frequentare un corso universitario gratuito. Nutrivo interessi vari: Atget, Alvarez Bravo, Koudelka, Evans, ma soprattutto Eugene Smith, Robert Frank, Cartier-Bresson e, tra i reporter di guerra, Larry Burrows. Non ho mai frequentato una scuo- la e non ho mai avuto un mentore, ma ho studiato con i più grandi maestri. La serie I disastri della guerra di Go- giolino fino a New York City per cercare un lavoro in una rivista. Sei mesi dopo ero su un volo diretto a Belfast per coprire la mia prima guerra. Come ha scoperto la fotografia? Ciò che provo per la fotografia è cresciuto lentamente e in una fase abbastanza avanzata della mia vita. Ero uno studente universitario ai tempi della guerra in Vietnam e del Movimento americano per i diritti civili. In questo pe- riodo di rivolte sociali le foto sui giornali avevano un im- patto profondo sulla coscienza della mia nazione e in par- ticolare su di me. Il nostro esercito e i nostri leader poli- tici dicevano una cosa, mentre i fotografi ne dicevano un’altra molto diversa. Io ho creduto ai fotografi. Ma an- che milioni di altri americani. Non solo i fotoreporter do- cumentavano la storia, ma ne influenzavano anche il cor- so degli eventi. Ho visto con i miei occhi che la fotografia C James Nachtwey al vernissage della sua mostra Struggle for Life all’Istituto Max Planck di Berlino, il 22 maggio del 2009. trent’anni i suoi scatti emozionano e raccontano le vicende di chi la storia la subisce. di Francesca Lancini Lo sguardo di Nachtwey Da lavapiatti a fotografo di guerra: Nachtwey racconta come ha iniziato e cosa lo spinge a continuare a gi- rare il mondo per raccontare la guerra con gli occhi delle vittime e le malattie dalla parte dei malati. Da L’INTERVISTA 95 numero 40 . febbraio 2012 94 east . europe and asia strategies Afp / Getty Images / M. Gottschalk

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finisce “un lupo solitario”, circondato da “un mistero”.In molti si chiedono come questo professionista riesca aelaborare tanto dolore per poterlo poi raccontare. Ci si do-manda quale sia il percorso per diventare così brillanti,restando integri, semplici, senza filtri. La risposta è inun’incredibile determinazione e nel racconto molto per-sonale che segue, addirittura sorprendente quando Na-chtwey afferma apertamente di essere un autodidatta, ungiovane uomo che, con pochi dollari, un giorno è partitoverso New York City.

Come ha trascorso la sua giovinezzaprima di diventare fotoreporter?La mia famiglia girava molto e ben presto ho comincia-

to a sentirmi senza radici. Al college di Dartmouth, nelNew Hampshire, ho studiato Scienze politiche, Storiadell’arte e giocato a rugby. Dopo essermi laureato con lalode in una delle migliori scuole d’America, ho capito chela mia istruzione non era ancora iniziata. Sono salito suuna nave mercantile come lavapiatti, trascorrendo seimesi in mare. Dopo aver viaggiato per un altro mezzo an-no intorno all’Europa, ho deciso di studiare fotografia dasolo, con l’obiettivo di diventare un reporter di guerra. Mimantenevo guidando i camion di notte. Alla fine sono ar-rivati i primi lavori da freelance, anche se non erano suf-ficienti per vivere. Avevo però l’intenzione di lavoraresempre più duramente per crescere come giornalista e ot-tenere un impiego in un quotidiano del New Mexico.Quattro anni più tardi mi sono reso conto che avevo im-parato tutto quello che potevo da quel giornale. Ho ven-duto le poche cose che possedevo e guidato il mio Mag-

C on passo veloce entra nell’antico salone dove sonoesposte alcune delle sue foto più note. I capelli bian-

chi illuminano il viso di ragazzo. Si muove invisibile einconfondibile al tempo stesso. Indossa jeans chiari e unacamicia leggera. Sorride. I suoi occhi scuri scattano istan-tanee. Per James Nachtwey – che a 63 anni è consideratoil più grande fotoreporter contemporaneo, il maestro,l’erede di Henri Cartier-Bresson – la fotografia è un mez-zo per ripudiare guerra e ingiustizie. Nachtwey non si fer-ma mai: quando lo incontriamo è appena tornato dai vil-laggi devastati del Giappone. Da qualche tempo vive traNew York e Bangkok, il cuore urbano dell’Asia, dove illusso più estremo stride con la povertà che affligge la mag-gior parte della gente. «Sono in mezzo all’alluvione», di-ce lui che è sempre al centro degli eventi che fanno la sto-ria. Dal 1980 ha documentato tutte le principali guerre ele crisi umanitarie. In trent’anni di lavoro, molti dei qua-li spesi come fotografo di riferimento della rivista Time,ha scelto il punto di vista della gente comune, di chi su-bisce e non ha una voce. Sarà per questo che le sue fotonon solo hanno vinto i premi più prestigiosi, ma restanonella mente e nel cuore delle persone. Riescono in quel-lo che è il suo principale obiettivo: generare compassio-ne. In un universo giornalistico sempre più gridato, cini-co, invaso dai diktat della pubblicità, Nachtwey si muo-ve umilmente come un “servitore”.

Nel documentario del 2001 a lui dedicato e candidatoagli Oscar, War Photographer, una commossa ChristianeAmanpour, la giornalista più influente della Cnn, lo de-

aveva la capacità di creare consapevolezza sociale per-ché era un elemento essenziale nei processi di cambia-mento. Quando ho deciso di diventare fotografo, deside-ravo essere parte di questa tradizione.

Da chi è stato ispirato?Accanto ai fotografi che allora si occupavano di guerra

e diritti civili ho studiato i loro precursori. Poiché nonavevo soldi ogni giorno passavo il tempo tra gli scaffalidelle librerie per guardare i volumi di fotografia, senzaavere la possibilità di comprarli. Era come frequentare uncorso universitario gratuito. Nutrivo interessi vari: Atget,Alvarez Bravo, Koudelka, Evans, ma soprattutto EugeneSmith, Robert Frank, Cartier-Bresson e, tra i reporter diguerra, Larry Burrows. Non ho mai frequentato una scuo-la e non ho mai avuto un mentore, ma ho studiato con ipiù grandi maestri. La serie I disastri della guerra di Go-

giolino fino a New York City per cercare un lavoro in unarivista. Sei mesi dopo ero su un volo diretto a Belfast percoprire la mia prima guerra.

Come ha scoperto la fotografia?Ciò che provo per la fotografia è cresciuto lentamente e

in una fase abbastanza avanzata della mia vita. Ero unostudente universitario ai tempi della guerra in Vietnam edel Movimento americano per i diritti civili. In questo pe-riodo di rivolte sociali le foto sui giornali avevano un im-patto profondo sulla coscienza della mia nazione e in par-ticolare su di me. Il nostro esercito e i nostri leader poli-tici dicevano una cosa, mentre i fotografi ne dicevanoun’altra molto diversa. Io ho creduto ai fotografi. Ma an-che milioni di altri americani. Non solo i fotoreporter do-cumentavano la storia, ma ne influenzavano anche il cor-so degli eventi. Ho visto con i miei occhi che la fotografia

C

James Nachtwey al vernissage

della sua mostra Struggle for Life

all’Istituto Max Planck di Berlino, il 22 maggio del 2009.

trent’anni i suoi scatti emozionano e raccontano le

vicende di chi la storia la subisce.

di Francesca Lancini

Lo sguardodi NachtweyDa lavapiatti a fotografo di guerra: Nachtwey racconta come ha iniziato e cosa lo spinge a continuare a gi-

rare il mondo per raccontare la guerra con gli occhi delle vittime e le malattie dalla parte dei malati. Da

L’INTERVISTA

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James Nachtwey

alla prima mondiale di Wish

al Lincoln Center di New York, il 3 ottobre 2008.

dignazione che mi guida sul lavoro. Innanzitutto vorreiche i miei spettatori provassero, oltre l’indignazione, lacompassione. Devo calibrare i miei sentimenti per guida-re chi guarda dentro le mie opere. Cerco l’innegabile uma-nità in cui gli altri si possono riconoscere a uno stadio piùprofondo. È questo processo a erigere un ponte di com-prensione.

Dove trova la forza per superare le difficoltà emotive,pratiche e fisiche che si incontrano in contesti drammatici?La determinazione nasce da ciò che ci lega all’obietti-

vo: la progettualità. Quando la posta in gioco è così altaper tante persone non puoi voltare le spalle e andartene.

Lei ha ammesso di non avere tempo libero o una vita privataperché la fotografia è tutta la sua vita. La solitudine è mai stataun ostacolo per lei? C’è un prezzo da pagare nel suo lavoro?Non vorrei essere frainteso. La fotografia è solo il mez-

Lei ha conosciuto l’inferno in terra: dal genocidio del Ruandaalla mattanza di civili in Bosnia, dalla distruzione totaledi Grozny in Cecenia al dolore delle vedove in Afghanistan.Si è mai sentito impotente?La prima cosa che ho imparato, molto velocemente, è

che qualunque storia io stia fotografando è molto, moltopiù grande di me. L’idea quindi di essere “potente” da-vanti a un’enorme tragedia o distruzione non mi puònemmeno sfiorare. Mi penso più come un servitore. Leemozioni più forti che provo, tuttavia, sono certamentepotenti, così potenti che possono divenire un ostacolo,ma devo superarle per realizzare bene un reportage. Rab-bia, angoscia, tristezza si fondono in un sentimento di in-

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tirocinio che avevano preceduto questo mio primo batte-simo di fuoco erano risultati una preparazione necessa-ria per poter dare un valido contributo. Avevo preso la de-cisione giusta su cosa fare nella vita.

A un certo punto lei ha voluto usare la fotografiacome strumento per ripudiare la guerra.È sempre stato così. Nella mia mente la sola vera foto-

grafia di guerra è quella contro la guerra. Continuando agirare il mondo, anno dopo anno, da un conflitto all’al-tro, questo pensiero è diventato una convinzione profon-da che ha improntato di sé ogni mio comportamento.

ya mi aveva colpito nel profondo. Questo artista è il pa-triarca dei fotografi di guerra, pur essendo vissuto primadell’invenzione della macchina fotografica.

È vero che in un primo momentoè stato affascinato dalla guerra?All’inizio la fotografia di guerra era l’unica cosa che mi

interessasse. Fin da bambino ero stato attratto dalla guer-ra, ma durante il conflitto del Vietnam ho capito che nonvolevo combattere. Il mio forte interesse per l’arte e la pit-tura, inoltre, non era formale: mi piacevano perché pote-vano far conoscere le tragedie e le sofferenze del mondo.Lo stesso vale per la fotografia: gli aspetti formali fini a sestessi sono la cosa che mi interessa di meno.

Cosa ha provato la prima volta in guerra?Trovarmi in mezzo alla violenza incontrollata di Bel-

fast e Derry è stato naturale. I dieci anni di duro lavoro e

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Ramallah, West Bank.

Scontri tra palestinesi e israeliani (22 ottobre 2000).

Nella foto, da sinistra a destra:

Steve Connors, James Nachtwey e Albert Facelly.

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James Nachtwey al Festival del cinema di Cannes, nel maggio 2010.

La scrittrice e critica fotografica Susan Sontag ha scrittoche “il dolore degli altri è diventato uno spettacoloquotidiano a cui ci siamo abituati”. Oggi la fotografiaha perso la grande influenzache ha avuto ai tempi del Vietnam?Anche se sono stato testimone di molte guerre, conflit-

ti e ingiustizie, non sono diventato cinico come suggeri-scono le idee della signora Sontag. Non posso pensare cheun giorno percepirò la sofferenza come uno spettacolo.C’è una dura realtà di cui stiamo diventando sempre piùconsapevoli, ma che non potremo mai accettare. Sonoconvinto che le persone intelligenti, con una coscienza,non smetteranno di preoccuparsi. I tempi cambiano, lenostre capacità sono messe alla prova, ma continuiamo aevolvere. Dobbiamo imparare a elaborare in modo effica-ce la vasta quantità di informazioni cui possiamo accede-re e ad agire di conseguenza. Darsi per vinti o abbando-narsi all’autocompiacimento non è un’opzione valida.

Oggigiorno è più complicato raccontare le guerre?È sempre stato difficile. Alcune, poi, sono più comples-

se di altre. Molto dipende dall’accesso. Ad esempio, peri reporter stranieri la guerra fra Iran e Iraq è stata pratica-mente impossibile da coprire, come del resto l’attuale cri-si in Siria. Allo stesso tempo, la guerra in Libia è statacompletamente aperta a dozzine di fotografi e giornalisti.

C’è una tendenza nella fotografia che si concentrasui dettagli più cruenti e sanguinosi dell’attualitào rende i conflitti epici e dotati di una loro bellezza.Come si evitano questi rischi? È una questione di equilibrio?Non sono d’accordo. La mia percezione, dal di dentro,

è che le immagini più disturbanti non vengano mostrateal pubblico e che noi possiamo vedere solo un quadro bi-lanciato e aggiustato della guerra.

Perché lei, che si muove sempre da solo, comeun cane sciolto, ha accettato di andare embedded in Iraq? Il mio primo viaggio in Iraq non lo feci da embedded.

Ho coperto il bombardamento di Baghdad e l’invasionedell’Iraq dall’interno della capitale irachena senza i sol-dati americani. Solo più tardi sono tornato a Baghdad perlavorare a una storia su di un singolo plotone statuniten-se che pattugliava la parte più ostile della città. Durantequesto reportage fui ferito da una granata e il mio colle-ga, Mike Weisskopf, perse la mano destra. Due anni dopo

zo attraverso il quale svolgo il mio lavoro, che consisteappunto nel creare consapevolezza. Uso le immagini perappellarmi ai migliori istinti della gente. Il lavoro si pren-de tutto quello che ho. Riesco a malapena a stare al pas-so. Ogni sacrificio, però, è stato una libera decisione. Nes-suno mi ha mai forzato. Ho amici molto cari, non sono so-lo. Ci sono delle cose che mi mancano, ma spero che ilmio percorso sia ancora abbastanza lungo per raggiunger-le. Sono in forma, in salute, molto motivato. E non potreiessere più grato per aver trovato un senso alla mia esisten-za. È difficile chiedere di più.

È credente?Credo nella gente. Tutto ciò che abbiamo è il rapporto fra

noi e gli altri. Se riusciamo a scoprire il meglio in noi stes-si e un modo per esternarlo, non sbaglieremo di molto.

Si impara qualcosa dalla guerra?La guerra si trova sulla sponda più estrema dell’esisten-

za umana. Da essa emergono sia le persone peggiori chele migliori. Crudeltà, follia, sofferenza, passioni distrut-tive si manifestano in guerra a un livello più elevato chein qualsiasi altra situazione. Ma ciò vale anche per corag-gio, generosità e gentilezza. Queste ultime qualità uma-ne, assieme a tolleranza, rispetto, compassione, perdono,integrità, sono i valori che dovrebbero prevenire un nuo-vo conflitto.

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Da qualche anno si sta concentrando sempre piùsulla povertà e temi a essa legati. Ha realizzato un reportagesui malati di tubercolosi in diversi Paesi in via di sviluppo,come la Thailandia, dove vive in certi periodi dell’anno. Le malattie provocano persino più vittime e causano

più sofferenza della guerra. Poiché influiscono sulla vitaquotidiana di tante persone non attirano l’attenzione del-la maggior parte dei media. Molte malattie si possono pre-venire e curare e, con maggiore attenzione a ricerca e svi-luppo, ulteriori fondi e soprattutto più volontà politica,molta sofferenza e morte possono essere evitate. Per que-sto motivo ho deciso di dedicare il mio contributo allaTed Conference e molti mesi di tempo per creare una cam-pagna di pubblica consapevolezza sulle cause e gli effet-ti dell’Xdr-Tb, un ceppo di tubercolosi estremamente pe-ricoloso, causato in gran parte da cure inadeguate.

Immagini di essere di fronte a un pubblico di giovani:quali caratteristiche dovrebbe avere un ottimo fotoreporter?Progettualità, perseveranza, ingegno, integrità, corag-

gio, compassione, ambizione. Usare la mente. Seguire ilcuore. .

sono andato nuovamente in Iraq come embedded per rac-contare una storia sulla medicina di guerra. In nessun ca-so ho subito censure o mi è stato detto cosa fare. Ero com-pletamente libero, persino di documentare le più terribi-li conseguenze sulle truppe. Da allora, mi sono recato daembedded due volte in Afghanistan, dove ancora una vol-ta non mi sono stati imposti limiti.

I reportage sull’Iraq realizzati dagli embedded hannocambiato la percezione della guerra nella maggior partedegli americani. Questa campagna militare era comincia-ta con un consenso fortissimo, ma dopo pochi anni i son-daggi sono mutati drasticamente, grazie alla continua co-pertura di notizie consentita dalla politica degli embed-ded. Che un’informazione libera sia indispensabile inuna società libera è un principio che pesa sulle agendemilitari statunitensi. Questa stessa politica ha cambiatola percezione della guerra in Vietnam. In molti posti delpianeta tali principi sarebbero impensabili.

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WAR PHOTOGRAPHER

Un villaggio brucia mentre James Nachtwey registratutto con la sua macchina fotografica e una telecame-

ra montata su di essa. Si sentono i suoi sospiri, i suoi pas-si, ma soprattutto si guarda con i suoi occhi l’orrore delmondo. Questa è l’idea – e la prima incredibile scena – cheha ispirato il regista svizzero Christian Frei nella realizza-zione di War photographer, il documentario su James Na-chtwey. Frei segue “indirettamente” il fotoreporter in di-verse missioni – Kosovo, Indonesia, Palestina – ma aggiun-ge anche interviste ai suoi colleghi e amici più stretti. Na-chtwey stesso parla, dai luoghi in cui vive e lavora, rivelan-do la sua concezione di fotogiornalismo. Intenso e mini-male, questo docu-reportage è stato candidato all’Oscarnel 2002 e ha vinto 16 premi internazionali.war-photographer.com

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