l’insanabile contraddizione tra democrazia e capitalismo · 2 l’economia friedrich august von...

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1 Lafinanzasulweb presenta ai suoi lettori un’anteprima assoluta: uno studio che rappresenta un ideale capitolo inedito e aggiornato del saggio “lavoro produttivo e improduttivo” del Prof. Vittorangelo Orati, che i nostri lettori ben conoscono, che affronta, in termini originali e anticonvenzionali per il “pensiero unico” dominante nella letteratura economica, il tema di assoluta attualità del difficile rapporto tra il capitalismo internazionale e una democrazia che non sia puramente formale. L’insanabile contraddizione tra democrazia e capitalismo Un corollario notevole della differenza tra lavoro “produttivo” e “improduttivo”: la contraddizione antagonista ( trade-off ) e il crescente divorzio tra capitalismo e la morente democrazia. Vittorangelo Orati ( [email protected]) Alcune premesse. Esistono molti teoremi sull’”impossibilità della democrazia” a partire da quello del marchese di Condorcet per finire con quello del premio Nobel per l’economia Kennet Arrow. 1 Ma non ce ne avvarremo nel contesto di questo contributo, risultando altrimenti ab ovo un nonsense il nostro successivo argomentare. Daremo per buona l’accezione di moderna democrazia, che vuole quest’ultima consistere (ancora ) in buona sostanza in: suffragio universale( one head, one vote); stato di diritto con eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, ; elevata e diffusa istruzione; welfare state ; soddisfazione crescente dei bisogni economici in presenza di una piena democrazia economica che soddisfi la condizione per cui ciascuno, grazie alle proprie capacità, goda i frutti del proprio lavoro ricevendo un reddito corrispondente al suo contributo alla produzione, insieme al diritto ad avere un lavoro e relative tutele ( “democrazia del lavoro” ). 2 Chiudendo un occhio, per sola esigenza argomentativa, sul fatto estremamente problematico per cui nel migliore dei casi la moderna democrazia esprime “la dittatura della maggioranza sulla minoranza”, secondo la espressione del più autorevole pensatore liberale del nostro tempo, il Nobel per 1 Una sintetica quanto utile carrellata su i molti teoremi che dimostrano la impossibilità della democrazia, ovvero dei risultati paradossali o contraddittori cui possono dar luogo i vari criteri di scelta politica democratica, vedi,P.Odifreddi, C’era una volta un paradosso, Einaudi, Torino, 2001. Cap. VII, p.205-221. 2 La teoria neoclassica che funge de facto da presidio economico-culturale del capitalismo ammette solo distinzioni funzionali ( versus il riconoscimento delle classi) tra i vari tipi di lavoro e dei corrispondenti lavoratori e dei corrispettivi redditi di questi ultimi, affidando al meccanismo dei prezzi di mercato e della libera e perfetta concorrenza il compito di allocazione ottima nel processo produttivo così assicurando: efficienza produttiva ( ottima combinazione dei fattori di produzione); equità distributiva o ottimalità distributiva ( ciascuno viene remunerato in ragione della produttività marginale del fattore produttivo - lavoro terra e capitale che gli corrisponde nel processo produttivo); nonché la massima soddisfazione di tutti in quanto consumatori ( ottimo dei consumatori).

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Lafinanzasulweb presenta ai suoi lettori un’anteprima assoluta: uno studio che rappresenta un ideale capitolo inedito e aggiornato del saggio “lavoro produttivo e improduttivo” del Prof. Vittorangelo Orati, che i nostri lettori ben conoscono, che affronta, in termini originali e anticonvenzionali per il “pensiero unico” dominante nella letteratura economica, il tema di assoluta attualità del difficile rapporto tra il capitalismo internazionale e una democrazia che non sia puramente formale.

L’insanabile contraddizione tra democrazia e

capitalismo

Un corollario notevole della differenza tra lavoro “produttivo” e “improduttivo”: la

contraddizione antagonista ( trade-off ) e il crescente divorzio tra capitalismo e la

morente democrazia.

Vittorangelo Orati ( [email protected])

Alcune premesse.

Esistono molti teoremi sull’”impossibilità della democrazia” a partire da quello del marchese di Condorcet per finire con quello del premio Nobel per l’economia Kennet Arrow.1 Ma non ce ne avvarremo nel contesto di questo contributo, risultando altrimenti ab ovo un nonsense il nostro successivo argomentare. Daremo per buona l’accezione di moderna democrazia, che vuole quest’ultima consistere (ancora ) in buona sostanza in: suffragio universale( one head, one vote); stato di diritto con eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, ; elevata e diffusa istruzione; welfare state ; soddisfazione crescente dei bisogni economici in presenza di una piena democrazia economica che soddisfi la condizione per cui ciascuno, grazie alle proprie capacità, goda i frutti del proprio lavoro ricevendo un reddito corrispondente al suo contributo alla produzione, insieme al diritto ad avere un lavoro e relative tutele ( “democrazia del lavoro” ).2 Chiudendo un occhio, per sola esigenza argomentativa, sul fatto estremamente problematico per cui nel migliore dei casi la moderna democrazia esprime “la dittatura della maggioranza sulla minoranza”, secondo la espressione del più autorevole pensatore liberale del nostro tempo, il Nobel per

1 Una sintetica quanto utile carrellata su i molti teoremi che dimostrano la impossibilità della democrazia, ovvero dei

risultati paradossali o contraddittori cui possono dar luogo i vari criteri di scelta politica democratica, vedi,P.Odifreddi, C’era una volta un paradosso, Einaudi, Torino, 2001. Cap. VII, p.205-221. 2 La teoria neoclassica che funge de facto da presidio economico-culturale del capitalismo ammette solo distinzioni

funzionali ( versus il riconoscimento delle classi) tra i vari tipi di lavoro e dei corrispondenti lavoratori e dei corrispettivi redditi di questi ultimi, affidando al meccanismo dei prezzi di mercato e della libera e perfetta concorrenza il compito di allocazione ottima nel processo produttivo così assicurando: efficienza produttiva ( ottima combinazione dei fattori di produzione); equità distributiva o ottimalità distributiva ( ciascuno viene remunerato in ragione della produttività marginale del fattore produttivo - lavoro terra e capitale – che gli corrisponde nel processo produttivo); nonché la massima soddisfazione di tutti in quanto consumatori ( ottimo dei consumatori).

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l’economia Friedrich August von Hayek3. Espressione quella hayekiana che declinata insieme alla filosofia individualista, che è parte ineliminabile del pensiero liberale, costituisce di bel nuovo un ennesimo caso di impossibilità della democrazia di stampo appunto liberale: palese risultando l’irriducibilità del conflitto tra “suffraggio universale” , filosofia dell’individualismo e la regola del governo democratico legittimato dal voto della maggioranza . In quanto quest’ultima solo per caso può dar luogo a una attività normativa che risponda alla “migliore”scelta degli elettori che l’individualismo vuole per definizione diseguali quanto ad attitudini e qualità, tra cui evidentemente quelle concernenti ottimizzazioni di scelta. E quindi tali anche nella capacità e nel giudizio di scelta politica. La regola “democratica” del governo della maggioranza sulla minoranza infatti può solo per caso corrispondere a una scelta politicamente ottimizzante.4 Per quanto attiene il capitalismo seguiremo la indiscussa sua accezione che lo vuole definito come modo di produzione , per sua ineliminabile natura, massimizzante nel breve come nel lungo periodo rispettivamente il profitto e il tasso di crescita del PIL e del PIL procapite, in un quadro di scelte economiche decentrate all’interno di mercati retti dalla libera e perfetta concorrenza. Dove le variabili da massimizzare predette richiedono la minimizzazione dei salari, da un lato e la massimizzazione dei tassi di investimento dei profitti. Con la concorrenza che impone una costante ricerca e attuazione di innovazioni tecnologiche atte ad aumentare la produttività del lavoro. Dove i salari nella loro configurazione “minima” assumono valore “storicamente” dato in ipotesi di assenza di scambi con l’estero ( “economia chiusa”) e quindi non necessariamente eguale alla mera sussistenza biologica. Sussistenza biologica che invece in caso di apertura agli scambi internazionali in regime di free trade o libero scambio di merci e libera trasferibilità dei capitali e di concorrenza internazionale, in presenza di un tendenzialmente omogeneo distribuirsi delle tecniche produttive, può a sua volta tendenzialmente rappresentare il salario di equilibrio. E ciò in totale aderenza alla dottrina ufficiale del commercio internazionale nelle sue fondamenta ricardiane, una volta rimossa l’ipostasi, rimossa dal concreto svolgersi della storia ( “Globalizzazione”), dell’intrasferibilità dei capitali tra paesi scambisti.5 Per non dire della libera trasferibilità della forza lavoro tra Stati o tra grandi aree con moneta comune, che ancorché negata in via di diritto viene di fatto formalmente subita ma sostanzialmente permessa nella quantità sufficiente a calmierare i salari interni lì dove il libero

3Vedi, V. Orati, Dalla denuncia di Salvemini alla Cocòpolis di oggi, Max Angelo, Roma, 2010,p.15 e sgg. E relative note.

4 Nella letteratura liberale la irriducibile “diversità” delle persone nella sottesa filosofia dell’individualismo si ritiene

essere controbilanciata in politica in termini “etici” dal suffragio universale e dalla sottolineatura per cui l’”eguaglianza” deve essere assicurata in regime democratico dal diritto alle “pari opportunità per tutti”. Rispetto a ciò resta insuperata la icastica critica di Rousseau per il quale una vera democrazia in presenza di stabilite primitive diseguaglianze dovrebbe prevedere non eguali o pari diritti ma diritti diseguali e quindi, equitativamente, compensatori o risarcitori. Come infatti anche la più elementare delle nozioni matematiche insegna, in presenza di una frazione non unitaria ( diseguaglianza tra i sui termini in rapporto) moltiplicare numeratore e denominatore per una medesima grandezza ( pari diritto) non altera il valore della frazione iniziale ( diseguaglianza dei suoi termini). L’unica traccia del principio di Rousseau appena visto si ha , almeno formalmente ( il che rimanda alla centrale differenza tra democrazia formale e sostanziale, con la collegata distinzione tra Costituzione formale e materiale) nel principio della “tassazione progressiva” (del reddito e, non sempre dei patrimoni e dei lasciti ereditari) affermatosi come ingrediente essenziale dei moderni regimi democratici. Principio di progressività che come è noto, pur con diverse incidenza del fenomeno, non ha minimamente alterato la diseguaglianza economica e sociale al loro interno. Diseguaglianza che è rimasta circoscritta in una banda di oscillazione data, con variazioni in più o in meno a seconda delle fasi storiche e del carattere più o meno “progressista” delle forze politiche al potere. Diseguaglianza che a partire dalla caduta del “muro di Berlino” e il conseguente dilagare della Globalizzazione sta crescendo sul piano internazionale e all’interno dei singoli Stati. In forme regressive e neobarbariche. Come dimostra l’istituzionalizzarsi nell’Occidente capitalistico delle multiformi varianti del lavoro precario. Che ad altro non corrisponde che al ritorno a modalità di sfruttamento dove si vuole e si teorizza con il sinonimo “foglia di fico” del “lavoro flessibile” ( in quanto, viene affermato, “ imposto dalla competizione globale” ) la riduzione del lavoratore a pura merce. Il cui valore di mercato in equilibrio corrisponde alla sua semplice riproducibilità materiale, che nel caso del lavoro e del lavoratore equivale alla mera riproducibilità biologica di quest’ultimo. 5 Sui caratteri e le implicazioni del fenomeno della Globalizzazione, ovvero sulla fallace teoria economica che la

teorizza e sostiene, nonché sulla previsione della sua implosione tendenziale, vedi, V. Orati, Globalizzazione

scientificamente infondata, Thyrus, Terni , 2008 , edizione ampliata, della prima edizione in lingua inglese di :Idem, Globalization Scientifically Unfounded, International Journal of Applied Economics and Econometrics, ( Special Edition),Bangalore, 2003;trad. it. Editori Riuniti, Roma, 2003.

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trasferimento dei capitali risulti bisognoso a tal fine di ausilio ( dunque dove si applica nella intera bivalenza il motto islamico per il quale “o Maometto va alla montagna o la montagna va da Maometto”). Tutto ciò posto e facendo astrazione delle molte dimostrazioni della impossibilità della sola democrazia -6 lasciando impregiudicata la centralissima questione se una diversa logica del modo di produzione che non quella capitalistica sia o meno in grado di ridefinire radicalmente il problema della democrazia attuandone l’accezione “sostanziale” versus quella “formale” -7 di seguito intendiamo dare rigore alla tesi del fatale tendenziale divorzio tra democrazia e capitalismo ( come più su definiti), assumendo per ipotesi la loro stretta interrelazione. Che è ormai condivisa, oltre che sull’indubitabile piano storico fattuale, in dottrina ( neanche a dirlo subitamente aderente al principio quietista “ s’adapter au miilieu). Risultando terreno logicamente irrinunciabile dell’ormai convergente richiamo ad una filosofia politica “riformista” da parte di quel che resta delle sedicenti formazioni politiche di “destra” e di “sinistra” nell’attuale e piattamente avvilente ed esaustivo panorama politico. Sia che ammettano l’esigenza di una qualche forma di interventismo “pubblico” a presidio o a complemento dell’”economia di mercato” o capitalismo tout

court, 8sia che si schierino a difesa della più radicale filosofia del laissez-faire.9 Per il seguito del discorso daremo per conosciuta la posizione di chi scrive in merito alla soluzione, dallo stesso recentemente proposta, al sin qui irrisolto e scandalosamente “rimosso” – da parte della sedicente “scienza economica”- problema della definizione ergo distinguibilità tra lavoro “produttivo” e “improduttivo”, non mancando di richiamare ove necessari e per l’essenziale gli snodi e i costrutti teorici che sono alla base della predetta soluzione.10 Richiamando immediatamente l’attenzione sulla cruciale impotenza della “scienza economica” codificata a poter distinguere tra settori e relativi lavoratori “produttivi” e settori e lavoratori“improduttivi”. Rivelando con ciò un inammissibile deficit scientifico dinanzi a una evidente ed elementare esigenza di giudizio ( “ragion pratica”), nonché in termini di coerenza : avendo l’intero paradigma ufficiale della economics la pretesa di fondarsi sul strumenti in grado dar conto della “logica” ( “ragion pura”) degli “spiriti animali” che animano il capitalismo in termini di

6 I teoremi sulla impossibilità della democrazia, come è già stato detto di passata nel testo, renderebbero inutile

questo elaborato: data per impossibile la democrazia, ogni indagine sulla sua tenuta di lunghissimo periodo in relazione alla logica del modo di produzione capitalistico costituirebbe un esercizio di stupidità in termini logico-matematici. Data la “falsità” di uno dei due termini in premessa di ragionamento questo perde ogni rigorosità, per l’appunto logica. 7 Di “democrazia socialista” non si parla praticamente più in sede “scientifica”, prestamente fasatasi ( in aderenza

more solito, al principio quietista “s’adapter au milieu ) al politically correct del momento storico, inverando la bestemmia logico-concettuale del capitalismo visto come “fine della storia”. In sede di economics ciò è equivalso alla riesumazione del più vetero e screditato carattere ” ideologico” ( “falsa coscienza” in Marx ) dell’”economia volgare” in quanto incapace di traguardare la vera natura in sé storicamente transeunte della dimensione propria dei modi di produzione sin qui sperimentati. 8 Una disamina complessiva della più recente e “autorevole” ( accademica) letteratura che si alimenta del

presupposto dell’interrelazione stringente tra capitalismo e democrazia - e che è inoltre al centro del fil rouge del suo pamphlet - è rinvenibile nel lavoro dell’antesignano dei pentiti “marxisti”italici, e naturalmente propugnatore del “riformismo”, M. Salvati, il cui testo in argomento è: Capitalismo, mercato e democrazia, il Mulino Bologna, 2009. Migrare dalla economia politica alla più “chiacchierona” politologia non può dare maggiori glorie autenticamente scientifiche, fin quando dalla prima non si riesca almeno a definire rigorosamente la presenza/ assenza “ottima” dello Stato nell’economia nell’ambito della logica di mercato. E tale esigenza è lungi dall’essere soddisfatta dalla “scienza triste”. Per una analisi del problema e una sua proposta soluzione vedi, V. Orati, Un ulteriore “buco nero” nella

“scienza triste”: l’indefinibilità dello “Stato” negli statuti della “scienza economica”, in Idem (Editor), Stato e/o mercato

nell’era della Globalizzazione, (Prefazione di S .Zamagni), IIAESS, Confindustria, J. Hopkins University; Viterbo, 2010. 9 J. A. Schumpeter oltre a essere il fondatore dell’approccio che traduce nei più sperimentati e formali algoritmi

dell’economics la politologia - ovvero quella parte di tale di disciplina che nel trattare della imponente e inesausta problematica della democrazia finisce per esaurire la più gran parte della letteratura relativa – ritiene tanto evidente l’interrelazione capitalismo/democrazia da assumerla ( certamente su base storico-fattuale) con valenza assiomatica nel senso causale che va dal capitalismo alla democrazia, vedi a tal proposito, J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Kompass , Milano, 1967, p. 282 e anche G. E. Rusconi, Voto, competizione, leadership.

L’Analisi politica di Schumpeter, in J. A. Schumpeter, Capitalismo. socialismo,democrazia, Etas, Milano,1994.p. XLVII . 10

V. Orati, Lavoro “produttivo” e “improduttivo”. Un altro fallimento della “scienza economica” con alcune riflessioni

sul falso problema delle pensioni, Editori Riuniti università press, Roma, 2010.

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massimizzazione dell’attività produttiva a livello sia macro che microeconomico . Paradigma “scientifico” che così impossibilitata ab imis a concepire e quindi a distinguere una assiologia dei vari tipi di lavoro in ordine alla loro maggiore o minore attitudine produttiva rivela immediatamente una incoerenza palmare ed eclatante; incoerenza decisamente “falsificante” il paradigma stesso.

Capitalismo versus democrazia: una prima approssimazione.

Possedendo solo la nozione di “prezzo”di mercato libero-concorrenziale - prezzo quale emerge dal gioco della domanda e dell’offerta, e tutt’al più potendo solo rimandare al concetto di utilità soggettiva ( utilitarismo individualista ) dei beni, che insieme alla loro scarsità e o disutilità nel produrli concorrerebbero a stabilirne il quantum di utilità e quindi di prezzo - si comprende come alla accreditata teoria economica” ufficiale” ( e meno “ufficiale”) manchi ex definitione una teoria oggettiva dei valori. Teoria che vada oltre la mera nozione di prezzo relativo ( eguale al rapporto di scambio con il prezzo di un’altra merce)11e la vincolante e asfittica ( gnoseologicamente) condizione definitoria che condanna il “prezzo di mercato” a non essere in ogni caso prevedibile in termini generali se non ex post o post festum che dir si voglia. Costituendo ogni previsione un attentato alla miriade di libere interrelazioni soggettive che conducono alla formazione dei prezzi : andare oltre una tale constatazione in senso cardinale ( quantificante) non è letteralmente concepibile per la incommensurabilità delle preferenze appunto definitoriamente soggettive dei singoli attori economici. Non si può mancare di sottolineare come scarsità e utilità costituiscano precondizioni della stessa dimensione problematica del regno dell’economia e perciò non possono essere poste al contempo come spiegazione dell’attività umana volta a risolvere i problemi che quella dimensione impone, se non per aberrazione logica: si produce ciò che è per ipotesi scarso e al contempo utile ma ciò non può costituire il demonstrandum del valore oggettivo dei beni. Tanto per esemplificare sul piano logico l’aberrazione in discorso equivale a quella che intendesse misurare la “paternità” attraverso la precondizione di essere maschio e biologicamente in grado di mettere incinta una donna. Alla luce di quanto fin qui detto siamo già in grado di poter formulare una prima ricaduta della sistematizzazione che ha permesso di discriminare tra lavoro “produttivo” e “improduttivo” sul nesso capitalismo/democrazia. Ancorché tale soluzione abbia stringentemente richiesto, tra l’altro, l’esigenza di superare l’ingenuità analitica sottesa al predetto semplificato e semplificante binomio e che attraversa l’intera letteratura che si è interessata invano della questione. Ma pur se si assume la validità di tale endiade - il che è del tutto legittimato a livello metodologico per quanto intendiamo qui dedurne in prima approssimazione - ; se insomma si suppone la semplice realtà binaria relativa all’esistenza del lavoro “produttivo” e di quello “improduttivo”, si comprende immediatamente il fatale venir meno in conseguenza di ciò della coesistenza di tale realtà con il centrale e irrinunciabile principio per la democrazia del suffragio universale ( “una testa, un voto” ). Oltre che con l’altrettanto irrinunciabile principio equitativo in sede distributiva del PIL – secondo i dettami della teoria economica “prescritta”- , che vuole la unicità in sede di teoria di un unico livello del salario di equilibrio per lavoro semplice e omogeneo nell’intera sistema economico e dunque del tutto indiscriminatamente sia per lavoratori “produttivi” che improduttivi”, di cui non possiede criterio di differenziazione. Con la non meno devastante conseguenza di divorzio ab ovo definitorio, come vedremo meglio più innanzi, tra democrazia e massimizzazione del tasso di crescita del capitalismo nel tempo: mancando di un principium individuationis adeguato sia del lavoro” produttivo” che di quello “improduttivo” sfugge alla rational choice degli agenti economici in veste di imprenditori di concentrare sul solo lavoro “produttivo” i loro investimenti e quindi la massimizzazione del processo capitalistico di accumulazione del capitale nel tempo. Risultando del tutto ingannevole e fuorviante in tal senso la semplice categoria del lavoro “utile”. Va naturalmente esplicitato a tal punto di questo primo avvicinamento alla nostra tesi di fondo, che l’unica esigenza che va ipotizzata è

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Una merce qualunque fungendo da numeraire, ovvero da moneta che riveste il ruolo di unità di misura dei prezzi convenzionalmente posta pari all’unità.

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quella di capitalisti che consumino merci diverse da quelle che rientrano tra i beni-salario spettanti a quanti scambiano lavoro contro capitale; merci cioè che in questa sede possiamo esaurire nella tipologia dei” beni di lusso”, altrimenti definiti dalla caratteristica che li vuole ricevere input dai settori che direttamente o indirettamente partecipano alla ricetta produttiva del “paniere salariale” senza fornire a loro volta input a tali settori. In altre parole il settore de “beni di lusso” domanda output degli altri settori senza a sua volta fornire i propri prodotti a fini produttivi al resto dei settori produttivi, avendo come unico sbocco del loro output il consumo dei capitalisti; che a tal fine utilizzano una parte più o meno grande del loro profitto. Con ciò sottraendo risorse agli investimenti netti che ipso facto risultano così inferiori al loro massimo potenziale, circostanza che abbassa altresì il massimo livello teoricamente possibile di performance di accumulazione del capitale e quindi di crescita nel tempo. Ipotesi , questa del consumo di risorse altrimenti destinate agli investimenti , a sostegno della quale al momento può bastare far riferimento al contributo di Thorstein Veblen su La classe agiata. Almeno per quella parte di quest’opera, diventata da tempo un “classico”, che attribuisce l’esigenza dell’ostentazione di “consumo vistoso” (“conspicuous consumption”) ovvero di “consumo improduttivo” ( sottratto all’accumulazione del capitale) di “beni di lusso” ( per definizione al di fuori della portata del reddito dei lavoratori “produttivi “e dell’operare della stessa libera concorrenza )a tutte le upper class nei sistemi economici che hanno superato lo stadio primitivo del baratto in presenza di economie monetarie, e massimamente in quella capitalistica. Dove la costante propensione all’accumulazione del capitale rimarrebbe priva di un adeguato utinam qualora mancasse di una corrispondente semiologia in termini di esclusivo “consumo opulento” di una parte del profitto. L’alternativa risultando assurda anche in termini marxiani, esaurendosi in semplice e irrazionale stimolo alla “produzione per amore della produzione” . In realtà anche sul piano storico-fattuale la presenza dell’oro o dell’argento come merce e al tempo stesso come moneta ( numeraire) suffraga la assunzione di una presenza altra dalle merci- salario in economie monetarie e a fortiori in quella capitalistica.12 Ma nel prosieguo andremo oltre una tale prima conclusione, appurando per via rigorosamente analitica la esigenza oggettiva di una crescente presenza di “lavoro improduttivo” nell’ambito della dinamica capitalistica ( in ipotesi di assenza di scambi con l’estero).

Capitalismo versus democrazia: seconda approssimazione.

Anche se la insostenibilità di un puro processo di accumulazione del capitale in assenza di” beni di lusso” ovvero di lavoratori “improduttivi” che tali merci producono - sulla base della considerazione che esso equivarrebbe ad ammettere il carattere sociale dei capitalisti e del profitto - appare incontestabile , oltre che storicamente suffragata, da parte degli ideologi del modo di produzione capitalistico, armati del paradigma neoclassico, tale insostenibilità si presterebbe in linea teorica ad essere opponibile: il”consumo opulento” per quanto significativo non può che rappresentare una quota decrescente del processo di crescita del capitalismo e quindi una quota trascurabile dell’accumulazione del capitale.

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T. Veblen, The Theory of Leisure Class, MacMillan, London 1899; trad. It , Einaudi, Torino, 1971. Circa Marx, basta fare riferimento alla sua posizione “antiquantitativista” in materia monetaria. Il metallo prezioso che funge anche da moneta connota per l’autore de Il Capitale l’offerta di moneta in termini di “variabile endogena” rispetto al resto dell’economia: aumentando/diminuendo la sua presenza in circolazione in funzione di un autonomo mutamento ( aumentando in caso di inflazione e diminuendo in quello di deflazione) del livello generale dei prezzi: ovvero trasformando (rispettivamente) all’occorrenza gioielli e monili in metalli preziosi in moneta; ovvero, viceversa, trasformando stock di tali metalli preziosi in flussi monetari. Su tale materia si rimanda a V. Orati Il (corto)circuito,

ovvero una moneta per l’economia, ISEDI, Torino, 1994. In realtà come ha dimostrato Karl Polany e la sua scuola di “antropologia economica”anche in economie primitive dove le conchiglie saldano i bilanci degli scambi in natura, tali eccedenze compensatorie fungono da ornamento forgiandosi in forma di collane, rivelando così una duplice natura di moneta e di merce da ostentare come simbolo di “consumo vistoso”..

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La prova potrebbe essere cercata paradossalmente negli stessi schemi di “riproduzione allargata” di Marx e in tonnellata di carta da tali schemi ispirate nei suoi seguaci. Dove la rappresentazione analitica dei suddetti “modelli” di riproduzione è stata lungamente e variamente sviluppata per dimostrare il fatale declino del capitalismo stesso; o per l’ampliarsi delle sue cicliche crisi, o per sostenere la fondatezza della nota tesi dell’autore di Das Kapital circa l’inesorabilità della caduta tendenziale del saggio del profitto a causa dell’altrettanto inesorabile tendenza “progressiva” del capitale all’automazione, con progresso tecnico incessantemente mosso dall’esigenza di sostituire capitale al lavoro. Ebbene, in tale imponente “letteratura” l’assunzione dell’ipotesi della trascurabilità matematica del consumo dei capitalisti – in confronto alle poderosa crescita del PIL e degli aggregati che lo compongono - in beni diversi da quelli in cui si sostanzia il salario d’equilibrio del sistema economico costituisce non solo una costante, ma una lecita ed “elegante” esigenza teorematica. Un’altra parallela obiezione potrebbe consistere nel ricordare la tesi di Max Weber circa l’ascesi che caratterizza la nascita del capitalismo e facente capo all’ethos calvinista dei suoi primi artefici. I quali avrebbero cercato nella estrema frugalità del loro stile di vita e nel successo mondano del loro agire economico - perseguito attraverso il totale reinvestimento del profitto - i segnali possibili di una loro salvezza ultraterrena dispensata da Dio a pochi eletti predestinati : consistendo la dannazione eterna per i più la conseguenza della irremissibilità delle colpe scaturenti dal “peccato originale”. Ebbene, successivamente Il venir meno di un tale comportamento, indulgendo i capitalisti a conspicous

consumption ciò non negherebbe la liceità di modelli di crescita capitalistica caratterizzati dalla sola presenza di “beni-salario”; dove la distanza con il modello “ideale”, realizzatosi in precedenza , segnalerebbe un allontanamento da una sorta di “regola aurea” del capitalismo, una sorta di umana “devianza” ( l’”uomo peccatore”) che non per questo falsificherebbe la tesi vetero-liberale (ancorché continuamente riproposta) che vuole il capitalista-imprenditore svolgere una funzione oggettivamente sociale: non potendo egli evidentemente godere l’insignificante valore d’uso e dei suoi enormi stock di capitale e dei suoi eventuali flussi di gigantesche quantità di beni finali prodotti dalle sue fabbriche. All’obiezione che tali “capitali” non sono altro che indispensabile mezzo per tradurre il tutto in moneta, viene solitamente e puntualmente opposta la versione moderna della vecchia e preanalitica “crematistica” aristotelica ( fatta propria dalla “scolastica”) 13: ossia la squalificata “moralistica” distinzione tra capitale industriale e capitale finanziario. Come è per l’ennesima volta capitato a proposito delle “colpe” o semplicemente cause ( per i liberali “laici”) della attuale crisi globale e della Globalizzazione. Immediatamente e superficialmente definita “crisi finanziaria”14 e quindi dovuta alla parte “insana”, quando non spudoratamente “( per quanto abbiamo detto circa l’impossibile distinzione nella economics) definita “improduttiva “ del capitalismo. Escamotage questo del tutto spuntato, per il semplice fatto che astrae dall’incontestabile connubio tra “profitto” e “interesse” . Che si distinguono solo funzionalmente , in una sorta di divisione del lavoro, ma non già in termini di centri di imputazione omogenei per classe sociale, a seconda delle varie fasi del l’andamento cicloide della dinamica capitalistica; ove al momento opportuno non v‘è capitalista industriale che non svolga il ruolo del capitalista finanziario e viceversa , rappresentando il saggio d’interesse e quello del profitto due facce di una medesima medaglia: il capitale

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L’influsso della “crematistica” è in realtà sotteso al manicheismo che caratterizza nel pensiero economico l’endiadi lavoro “produttivo/improduttivo”. 14

L’attuale crisi economica globale esplosa nell’ultima parte del primo decennio del primo secolo del terzo millennio non è più “finanziaria” di tutte le crisi cicliche che hanno scandito sin dalla nascita l’intera storia del capitalismo. Sentenziare che tale crisi è finanziaria non è meno superficiale ed errato di quanto dovesse diagnosticare l’intera anatomo-patologia circa la mancanza di ossigeno come causa di tutte le morti. Naturalmente ciò non implica affatto che il sistema creditizio-finanziario non ci possa mettere del suo nell’ampliare durata e vastità delle crisi cicliche – come è nel caso di quella contemporanea – ma è la corrispondente dimensione “monetaria” che va esclusa come loro causa. Per comprendere ciò occorre aver risolto il dilemma del tutto ancora aperto nella letteratura “canonizzata” riguardante la natura esogena o endogena della offerta di moneta. Ovvero se valga rispettivamente la teoria “quantitativa” o quella antiquantitativista. Abbiamo dimostrato quest’ultima opzione, ovvero l’”innocenza” della moneta quale causa efficiente delle crisi cicliche capitalistiche in, V. Orati, Il (corto) circuito, ovvero una moneta per

l’economia, op. cit.

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tout court.15 Non escludendo da tale “simbiosi” la “rendita”, dando così luogo ad una triade funzionale del

capitale come un unicum in termini di attribuzione proprietaria nel capitalismo: nel quale in ogni caso il capitalista “ è l’uomo degli scudi”, come ha avuto modo lapidariamente di affermare Marx. Per sgombrare il campo da ogni ambiguità è però possibile fondare su basi rigorosamente analitiche la esigenza per il capitalismo di dar luogo a settori “improduttivi” da intendere al momento come settori il cui output non entra né direttamente né indirettamente in tutto o in parte nella produzione di beni-salario ( ovvero beni che formano il “paniere salariale”) e che vengono quindi consumati esclusivamente dai capitalisti sotto forma di “beni di lusso”. Orbene, e malgrado le erronee ragioni che hanno fatto rivalutare Malthus da parte di Keynes16, il luogo logico che fonda oggettivamente la esigenza della dinamica capitalistica di dar luogo a “consumo vistoso”, sottratto cioè alla logica dell’investimento di tutto il profitto ( onde mantenere il saggio “aureo” o massimo teorico di crescita) non può che risiedere nella spiegazione di quanto resta un inspiegato arcano per la teoria economica canonizzata: la natura di sovrapproduzione assoluta delle cicliche crisi capitalistiche. Ebbene, pur prescindendo dalla concreta genesi storica del capitalismo che ha iniziato a incunearsi tra le pieghe precapitalistiche in presenza dunque della classe dei proprietari fondiari “improduttiva” sans phrase e consumatrice di “beni di lusso”, è anche stato dimostrato con un semplice modello ( dove le due merci rappresentate possono anche essere pensate come l’aggregato delle imprese che producono altre merci dei rispettivi settori) che prevede:

a) la presenza di due merci - un bene salario e un mezzo di produzione - senza quindi “beni di lusso”; merci, prodotte con diverse “composizione organiche del capitale” ( rapporto capitale /lavoro, maggiore nel caso del bene capitale); b)la presenza di forza lavoro disoccupata /inoccupata; c) date e costanti le ricette produttive; d) che i profitti siano interamente reinvestiti ad un ritmo costante che permette un tasso di crescita massimo, o tasso “aureo” e costante a sua volta del Pil e del Pil pro capite, crescita definita in letteratura come steady state growth ( assumendo eguale a zero il tasso di incremento demografico); e) che i salari risultino ancorati a un livello costante di sussistenza, ancorché storicamente tale e quindi non necessariamente equivalente alla pura possibilità di riproduzione biologica; f)non vi siano scambi con l’estero; g) che si faccia astrazione della terra e dei suoi proprietari; h) una “cornucopia” di potenziali tecniche produttive più avanzate di quelle in uso, in grado di aumentare la produttività del lavoro attraverso crescenti livelli di “intensità di capitale”, ovvero labour saving o evidentemente capital intensive ;

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Che poi singoli capitalisti (o alcuni settori industriali ) denuncino la chiusura dei rubinetti del credito e/o del costo del denaro ( come avviene ciclicamente durante le crisi), ovvero vadano falliti a beneficio del creditore settore bancario, non inficia la natura bifronte dell’interesse e del profitto. Si tratta di rese dei conti del tutto fisiologiche all’interno della classe dei capitalisti, e del tutto rispondenti alle “regole del gioco” del capitalismo, che prevedono, grazie al darwinismo insito nei meccanismi della libera concorrenza, la necessaria caduta dei pochi per la vittoria (conservazione del “sistema”) dei molti. Schumpeter ebbe a definire con efficacia figura retorica la classe dei capitalisti come la costante folla di un tram dal quale comunque salgono e scendono continuamente passeggeri. La essenziale distinzione tra saggio di interesse “consuntivo” e “produttivo” da parte di Schumpeter (già presente concettualmente in Marx) collegata alla storia della genesi storica del “capitale” è in grado di fare definitiva chiarezza sulla fusione-divisione del capitale finanziario e di quello industriale nel capitalismo completamente dispiegato ( fase del “dominio reale del capitale”, per Marx. Vedi a tal proposito, V. Orati, Il ciclo “monofase”. Saggio su gli esiti aporetici della

“dinamica” di J. A. Schumpeter, Liguori, Napoli, 1984;Idem, Lavoro “produttivo” e “improduttivo”, op. cit. 16

Malthus fonda la sua tesi sulla irrimediabile necessità della presenza della classe improduttiva dei proprietari terrieri nel costante e definitorio deficit di domanda effettiva ( con terminologia corrente, incrocio tra la curva di domanda globale con l’offerta globale). Oltre alla cornice “statica” ( e non “dinamica”, dunque) del suo “modello” (come quello di Keynes), l’errore di fondo di tale posizione risiede nel fatto che non può essere posta una causa costante a scaturigine di un fenomeno ciclico come le crisi capitalistiche che sono il quadro entro cui Malthus argomenta la sua predetta tesi. Per la critica particolareggiata a Malthus e alla presunta spiegazione delle crisi capitalistiche di Keynes, vedi V. Orati, Una teoria della teoria economica, UTET, Torino, 1997 ,voll. I e II. .

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i) per i loro piani di investimento i capitalisti trovino sempre adeguati finanziamenti nel settore creditizio ( l’offerta di moneta è una grandezza endogena);

ebbene, una steady state growth, nel quadro appena definito, prima o poi nel tempo finisce per far diminuire il numero dei senza lavoro, sino ad avvicinarsi a esaurire l’”esercito industriale di riserva” ( forza lavoro” libera” per il capitale) e ciò si manifesterà attraverso una fatale crescita dei salari con conseguente contemporanea caduta del saggio del profitto. A questo punto il più intraprendente e innovatore tra i capitalisti e/o il più prossimo ad aver ammortizzato i propri mezzi di produzione attingerà all’offerta che più gli appare conveniente tra le tecniche più progredite disponibili. I suoi investimenti con tecniche più avanzate non hanno ragione di eccedere il ritmo sin lì fissato dalla steady state growth coincidendo gli investimenti indotti ( basati sul prevedibile e sin lì fondatamente tasso di crescita della domanda ) con quelli autonomi ( attuati in funzione del “progresso tecnico”). In qualunque dei due settori produttivi si concentri l’innovazione produttiva essa comporterà una diminuzione della domanda del bene di consumo presente nel sistema. Il fenomeno si accentuerà appena gli “imitatori” in ragione della concorrenza seguiranno il capitalista innovatore nell’attuare la tecnica produttiva risparmiatrice di lavoro. Siccome gli output dei due settori non sono cambiati ma è relativamente diminuita la domanda del bene di consumo, il relativo settore accumulerà progressivi deficit a fronte di una crescente sovrapproduzione. La quale risulta sovrapproduzione assoluta : in quanto per definizione domanda e offerta del mezzo di produzione sono in equilibrio ( chi lo produce lo domanda a se stesso) e ( teoria dell’offerta di moneta endogena) la domanda e offerta di moneta per gli investimenti è per definizione in equilibrio.17 La crisi è così individuata e il suo “arcano” è spiegato: la caduta o recessione dell’attività economica è semplicemente affidata al momento e all’entità dei fallimenti che originano nel settore reale, e che evidentemente si riverberano nel mondo creditizio- finanziario . Non già per mancanza di offerta di moneta per fisiologica attività di investimento - come certamente e rimanendo alla superficie del fenomeno da secoli si è pronti a pervicacemente diagnosticare - ma perché si è semplicemente oggettivamente errato nel richiedere e attuare nonché finanziare, investimenti che risultano tanto “razionali” microeconomicamente quanto “irrazionali” (sbagliati) per l’equilibrio macroeconomico del sistema tutto. Appena le banche non sono più in grado - per trovarsi a loro volta con perdite di bilancio - di rinnovare il credito all’economia reale ( credito o moneta di cui c’è “fame” in conseguenza della causa reale della crisi e non già come causa della crisi stessa ), dunque per fronteggiare e rimandare gli inevitabili fallimenti che si propagano man mano a tutto il sistema, e non per continuare a investire, si perviene al fatale redde

rationem con la caduta del Pil e il rigonfiarsi dell’”esercito industriale di riserva “ ( disoccupazione di massa).18 Sulla base della spiegazione appena riassunta dei meccanismi che provocano le crisi cicliche di “sovrapproduzione assoluta”sub speciae capitalistica, molti corollari di grande rilevanza ne discendono.

1) Il primo corollario è quello che permette di evidenziare come dietro allo “scandalo pubblico della miseria nel mezzo dell’abbondanza”( Keynes), in conseguenza delle crisi cicliche si palesi la contraddizione per cui una scelta “razionale” per il singolo ( aumento della produttività del lavoro)

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La teoria delle crisi cicliche capitalistiche esposta nel testo oltre a essere l’unica che risolve l’ insoluto “arcano” della sovrapproduzione assoluta ha tra i suoi corollari notevoli quello che spiega il sin qui irrisolto “paradosso di Leontieff”. Che “falsifica” la teoria del commercio internazionale, architrave dell’Economia Internazionale. Ma una tale teoria delle crisi offre altresì la chiave per comprendere finalmente i meccanismi asimmetrici dello sviluppo su scala mondiale, cioè del fenomeno che lega lo sviluppo di alcuni e il sottosviluppo di altri: Ultima ma non meno importante conseguenza della soluzione all’arcano delle crisi di sovrapproduzione assoluta è quella che permette anche di dare una spiegazione alternativa del commercio internazionale criticando i fondamenti del libero scambio; cfr. V. Orati, Globalizzazione scientificamente infondata, seconda ed. cit. 18

La dimostrazione formale della teoria della crisi e della “innocenza” della moneta al suo interno si trova per la prima volta proposta in V. Orati Produzione di merci a mezzo lavoro, Liguori, Napoli, 1984, Dimostrazione ulteriormente affinata e completata per gli aspetti monetari rispettivamente in V. Orati, knowledge ( Information), Dynamics and

Crisis in Schumpeter and von Hayek. Critical Consideration and Theorethical Prescription for the Economic Science, In V. Orati S. B Dahiya ( editors), Economic Theory in the Light of Schumpeter’s Scientific Heritage ( 3 voll.), Vol, I; Spellbound Publications, Rothak, 2001 e in V. Orati, Il (corto)circuito, ovvero una moneta per l’economia, op. cit.

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e oggettivamente tale anche sul piano generale del “dividendo sociale”, si trasformi nella logica capitalistica in un esito “irrazionale”. Contraddizione che consiste nel fatto che nel capitalismo si produce obiettivamente in modo appunto sociale ( fabbrica e la divisione del lavoro tra i vari settori produttivi) ma si distribuisce con logica privata: traducendosi il tutto in tragedia generale in occasione delle crisi cicliche. Con la disoccupazione di massa e la caduta dell’attività economica , che al limite può riverberarsi negativamente sulle “fortune” dello stesso innovatore”. Che è come dire che l’apologia dell’imprenditore, tipica della cultura economica anche a livelli popolari, rivela la rozzezza profonda della corrispondente “scienza”: proprio lì ove si celebra la “eccezionalità” e i meriti sociali del capitalista-imprenditore, nella sua versione più fulgida di innovatore, si ignora la sua obiettiva potenziale pericolosità come stimolatore primo delle crisi.

2) Il secondo corollario è quello che riconosce “legittimità capitalistica” alle crisi cicliche. Legittimità che mostra come nella logica del modo di produzione capitalistico le crisi stesse sono l’unico modo con cui attraverso i mercati e la connessa guida affidata alla semiologia dei prezzi il capitalismo possa metabolizzare il progresso tecnico.

3) Altro corollario notevole è quello che mostra nelle crisi l’esigenza storica di superare gli sprechi e le sofferenze inutili del capitalismo; sofferenze e sprechi da addebitarsi immediatamente a ciò di cui i supporter di ogni tempo del capitalismo vanno fieri: l’inefficienza dei mercati a risolvere positivamente il fenomeno in sé progressivo e positivo dell’innovazione tecnologica e quindi del suo centrale ruolo nell’assicurare lo sviluppo economico.

4) La esigenza di una qualche logica di “piano” discende automaticamente dai punti precedenti.

5) Ma per quello che in questa sede più ci preme riguarda il fatto del carattere di “sovrapproduzione assoluta” in cui consistono le crisi cicliche, che individua come necessario un presidio dalle crisi stesse imposto oggettivamente: la presenza di un settore “improduttivo” in grado di per sé di atteggiarsi definitoriamente come controtendenza alle crisi, appunto di sovrapproduzione assoluta: esprimendo uno sbocco (domanda) a tale sovrapproduzione, senza minimamente alimentarla;19 un puro minuendo dunque all’eccesso assoluto di offerta rispetto alla domanda solvibile . Ed anche un obiettivo minuendo del surplus globale disponibile per il profitto che può così rimanere positivo, e quindi in ogni caso da preferirsi ai fallimenti, alle perdite, alla distruzione di capitale e alle sofferenze umane che le crisi cicliche inevitabilmente comportano.

6) I corollari della teoria delle crisi cicliche esposta per l’essenziale più su vanno oltre quelli sin qui elencati che, ricordiamolo, rispondono alla ipotesi di una economia chiusa. Rimuovendo quest’ultima e muovendoci dunque in una “economia aperta” trovano soluzione annose e irrisolte questioni di cruciale rilevanza scientifica, tra queste: la spiegazione del fenomeno che lega lo sviluppo di alcune aree e il sottosviluppo (teoria generale dello sviluppo/sottosviluppo) grazie anche alla possibilità di dare infine soluzione al “paradosso di Leontieff” . La critica radicale alla teoria del libero scambio, vero architrave della intera Economia Internazionale, si accompagna a quanto precede permettendo altresì la formulazione di una teoria alternativa del commercio internazionale, ovvero di una teoria alternativa a quella “canonica” della “divisione internazionale del lavoro”. 20

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Al di là di puri e parassitari rentier che per definizione vivono solo “staccando cedole”, e in senso più ampio, dei soli frutti economici della sola proprietà di capitale finanziario ( saggio d’interesse) o di terra (rendita) senza lavorare, anche il settore che produce beni di “lusso” non partecipa all’eccesso di offerta globale sulla domanda globale. Qui, sempre per definizione, la offerta viene eguagliata dalla domanda in quanto quest’ultima è rigida in ogni circostanza ciclica. Nel mentre i lavoratori che producono beni di lusso esprimono domanda di beni-salario, fungendo per tal verso come variabile anticiclica permanente. Consistendo la crisi di produzione assoluta al suo primo manifestarsi in eccesso di offerta di beni-salario: causata dalla rottura dell’equilibrio dinamico della steady state growth a seguito di investimenti risparmiatori di lavoro( labour saving). 20

Vedi nota 17.

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Sulla base del penultimo punto appena visto, si è dunque individuata la necessarietà sul piano logico della presenza di lavoratori “improduttivi” a fronte dell’ ineluttabile appuntamento con le crisi cicliche di sovrapproduzione assoluta. Crisi legate al carattere obiettivamente progressivo del capitalismo ( la costante pulsione ad attuare progresso tecnico per aumentare la produttività del lavoro). E con tale sistematizzazione si è altresì individuata la necessarietà logica per cui il capitalismo confligge ( causa sui ) con la possibilità che gli viene di contro riconosciuta dai suoi teorizzatori e supporter di poter declinare al massimo delle sue potenzialità la crescita economica con la democrazia. La appurata “legittimità” capitalistica delle crisi cicliche- di cui conosciamo le implicazioni falsificanti il concetto di democrazia economica - discende dall’unica modalità con cui il capitalismo “risolve” la contraddizione che gli è insita: tra pulsione massimizzante il surplus sociale e il profitto, attraverso la costante pulsione ad aumentare la produttività del lavoro, stimolando endogenamente il progresso tecnico e la modalità di distribuzione dei frutti di tali pulsioni in modo privato. Passare dalla mera dimensione della necessarietà logica di lavoratori ( settori) “improduttivi” alla loro effettuale e sistematica necessaria presenza nel concreto svolgersi del modo di produzione capitalistico, in realtà è di una semplicità sconcertante. Basta in tal senso ricordare la concreta genesi storica del capitalismo, incuneatosi in un contesto feudale-precapitalistico, al fine di rimuovere la irrealistica ipotesi di un contesto sociale fondato sulla sola presenza binaria di capitalisti e di forza lavoro priva di mezzi di produzione; per includervi quindi i proprietari terrieri. Classe sociale quest’ultima definita, a partire dai “classici”, come percettori di pura rendita, a loro spettante a fronte della cessione in uso a terzi ( fittavoli o imprenditori del settore agricolo) dei loro terreni , e quindi percettori di reddito solo grazie al rapporto di proprietà privata della terra stessa ( senza alcun lavoro) . Rendita che agisce, a costanza di tecniche produttive, in irrimediabile contrasto ( trade-off ) con il profitto di cui costituisce ex definitione un crescente minuendo , insieme al salario che però ne costituisce, a sua volta, un defalco costante ( in costanza del livello “storico” di sussistenza dei lavoratori). Rendita non rimovibile dal modo di produzione capitalistico per il fatto che essa sancisce quanto è indispensabile al profitto stesso; espressione di un reddito ricavabile dalla proprietà privata del capitale. Capitale di cui la terra non è che un caso di specie ancorché insieme al lavoro sia da catalogare come fattore produttivo “primitivo” (in quanto entrambi facenti capo a fattori produttivi naturali) rispetto al capitale industriale. Capitale industriale che si è invece soltanto storicamente generato. Pertanto pensare a un capitalismo mondato dalla rendita fondiaria e dalla connessa classe improduttiva dei proprietari terrieri è tanto infondato quanto pensare un capitalismo senza capitalisti in quanto proprietari privati di capitale. E se ciò non bastasse a soddisfare i dettami della teoria occorre precisare quanto la ricerca ha definitivamente appurato a proposito della impossibilità di far funzionare un “modello” come quello dell’Equilibrio Economico Generale (EEG) di Walras, compresi i suoi più recenti e sofisticati derivati, in chiave dinamica: una economia capitalistica in equilibrio statico-riproduttivo ( in assenza di un contorno precapitalistico) è impossibilitata letteralmente a dar luogo a un fenomeno di crescita. Perciò il suo debutto storico, dove la proprietà privata della terra è un presupposto non completa semplicemente in termini di verosimiglianza un suo adeguato modello teorico, ma lo definisce e vincola in modo stringente e irrinunciabile.21 E vista la impossibilità da parte del profitto

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La”scienza economica”, sia nella sua componente “ortodossa” sia in quella così detta e sedicente “eterodossa” è molto lungi dall’aver compreso questo snodo concettuale ed epistemologico. L’unico ad averne compreso l’irrinunciabilità è stato Schumpeter, che però non è stato in grado di dare una soluzione ai problemi che al suddetto snodo fanno capo. La individuazione del problema in discorso, la cui mancata soluzione condanna la “scienza triste” al suo sostanziale fallimento scientifico, e anche la soluzione al problema stesso è fornita da in una serie nutrita di contributi cui si rimanda: V. Orati, Produzione di merci a mezzo lavoro, op. cit.; Idem, Il ciclo monofase.Saggio sugli

esiti aporetici della “dinamica” di J.A.Schumpeter, op. cit., Idem, Kreislauf and Great Aggregates: the Missing Link in

the Work of Professor Samuelson, << International Journal of Applied Economics and Econometrics>>, Vol.9, n.1, 2001 e in K. Puttaswamaiah ( Editor), Paul Samuelson & the Foundation of Modern Economics, Transaction Publisher, New Bruswick (U.S.A.) and London ( U. K.), 2001; Idem Rescuing Schumpeter’s Legacy, in V. Orati (Editor), Sary Levy-Carciente, Financial Innovations, Endogenous Money and Crises: A Schumpeter’s Insight iX International Schumpeter Lectures Series, IIAESS, J.Hopkins, Confindustria, Viterbo, 2007.

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di liberarsi dal vincolo e dal peso improduttivo della rendita, a meno di non negarsi attraverso l’annullamento della proprietà privata, resta dimostrato come ab ovo e in modo definitorio il capitalismo non possa astrarre dalla presenza nei suoi gangli operativi di una intera classe di lavoratori(?) improduttivi per antonomasia, connessi alla presenza dei proprietari fondiari, segnatamente legati ai “consumi vistosi” o “opulenti” caratteristici di questa classe sociale. Con il che resta dimostrata la rilevante circostanza che il capitalismo non può definitoriamente mantenere ciò che si vuole possa almeno in teoria permettere e promettere: assicurare il massimo tasso di crescita economica potenziale insieme alle ricadute di ciò sul concetto e la supposta realizzazione della sottostante democrazia. Non ci resta che tentare ora una diagnosi della dinamica di lunghissimo periodo ( su scala storica) circa l’interrelazione tra “lavoro produttivo” e “lavoro improduttivo” e ai suoi esiti circa le sorti e del capitalismo e della moderna democrazia nell’ambito dell’Occidente. Occidente che di entrambi i termini di un tale epocale binomio è stato in modo indiscusso progenitore, e nel bene come nel male, mallevadore dinanzi alla storia. Verificando inoltre se un tale approccio offra lumi per comprendere l’evidente e indiscutibile stato di crisi che caratterizza in tale contesto entrambi tali pilastri della più recente “Modernità”. 22

Capitalismo versus democrazia: le ignorate ragioni di una conclamata crisi storica

Abbiamo fornito la spiegazione del più recente declino economico delle economie capitalisticamente mature alla luce della nostra indagine relativa all’infondatezza scientifica della Globalizzazione. Oltre che sul piano del fallimento della teoria economica anche su quella del concreto svolgersi delle dinamiche sottese alla Globalizzazione stessa ; ovvero alle conseguenze della libera competizione sul mercato internazionale ( libero scambio) tra aree di più antica e declinante industrializzazione e quelle provenienti da un recentissimo passato di conclamato sottosviluppo. Analisi dunque inquadrata sotto l’ipotesi di una “ economia aperta”.23

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Dal 2007 a oggi gennaio del 2011 siamo dinanzi all’ irrisolto deflagrare della crisi globale e della Globalizzazione. Crisi che ha semplicemente accelerato in Occidente, sede delle economie capitalistiche “mature”, un crescente arretramento delle conquiste del mondo del lavoro dipendente , non solo in termini economici e materiali ma anche in termini di diritti. Regresso iniziato all’indomani dell’abbandono dei” trent’anni gloriosi” che hanno caratterizzato il secondo dopoguerra fino agli anni ’70 del XX secolo, ispirati ai precetti keynesiani del “pieno impiego” e del welfare

state; oggetto entrambi di costante e progressivo ridimensionamento al fine di sostenere la competizione internazionale con i last comer . I quali partendo da posizioni di sottosviluppo impongono attraverso la cinica logica del free trade ( libero scambio) il dumping sociale sotteso alla concorrenzialità delle loro merci . Così il full

employment ha lasciato il posto alla neobarbarie delle multiformi vesti del”lavoro precario” sotto lo scacco della disoccupazione/inoccupazione permanente specie per le nuove generazioni . Il tutto in una ripresa crescente della distribuzione regressiva del reddito alle diverse scale “statuali” e tra grandi aree a livello mondiale. Nel mentre dalla tranquillità delle pensioni sociali sostenute con solidarietà intergenerazionale dai lavoratori in servizio si è man mano passati alla privatizzazione dei sistemi pensionistici e quindi alle “pensioni fai da te” . Alimentando una falsa conflittualità tra genitori e figli che è tra gli ingredienti con cui la decadente democrazia distrae i cittadini dalla natura vera dei drammatici problemi da essa creati in un crescente deficit tra democrazia formale e sostanziale. Lo stesso sacrosanto principio per cui “pacta sunt servanda” che è alla base di ogni statuto democratico fondato sulla certezza del diritto è, molto più che minacciato, attuato in nome di “sacrifici” cui tutti saremmo chiamati, in nome di una logica dove il darwinismo economico e sociale quotidianamente ha ragione sullo stato di diritto. Basti pensare alla cittadinanza ufficiale conquistata dal “principio” della “flessibilità del lavoro” con il quale si intende convincere i lavoratori della loro equivalenza quanto a mobilità e mobilizzabilità delle cose-merci in funzione degli alterni andamenti dei mercati. Alla cui logica ci si dovrebbe definitivamente votare o arrendere. Sulla allarmante situazione del mercato del lavoro su scala globale, vedi, Ilo, Global Employment Trends, Annual Report, Press Release, January 24, 2011. 23

Rimandiamo alla più recente e ampliata versione del nostro lavoro rispetto alla prima edizione dello stesso ( lavoro pubblicato contemporaneamente in inglese e italiano nel 2003) : V. Orati, Globalizzazione scientificamente infondata, Thyrus, Terni, 2008.

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In questa sede quel che intendiamo tentare riguarda invece, in ipotesi di “economia chiusa” e in ragione della possibilità raggiunta di utilizzare il concetto di “lavoro improduttivo”,24 la possibilità di valutare il declino economico del capitalismo una volta privato di ogni sbocco sul mercato internazionale; con il conseguente venir meno delle “aspettative crescenti” che hanno sostanziato ( fino alla fine dell’”era keynesiana”) l’illusione di un progressivo ampliarsi della dimensione della moderna democrazia. Ampliamento che ha di fatto acquisito, quando non riconosciuto in chiave di “Magna Charta”, che la libertà di cui la democrazia moderna si sostanzia è legata alla “libertà dai bisogni” e quindi a un crescente livello di benessere economico. E’ illustre il riferimento da cui è opportuno prendere le mosse: Davide Ricardo. Nel suo “elegante” modello “ a tutto grano” ( ove il grano opera sia come bene di consumo sia come bene di investimento) il “grande “economista classico perveniva alla individuazione di uno stato stazionario quale necessaria tendenza storica del capitalismo, tendenza causata dal progressivo abbassarsi del saggio del profitto a favore della rendita, una volta fissato il saggio salariale di equilibrio a livello della mera riproduzione dei salariati.25 Privato della vis motrix dei capitalisti-imprenditori e della loro propensione a investire, con il surplus economico interamente nelle mani della classe “improduttiva” dei proprietari terrieri ( “improduttiva per antonomasia, vivendo parassitariamente del semplice diritto di proprietà della terra la cui rendita tale classe interamente avrebbe continuato a spendere in “beni di lusso” e servitù ), il Pil consistendo di mero consumo e assenza di investimenti netti aggiuntivi sarebbe stato per definizione fissato a livello di pura riproduzione semplice ( equilibrio statico-stazionario). Il ragionamento di Ricardo era affidato alla semplice supposizione ( diventata poi un opportuno topos della intera teoria economica) della “razionalità” dell’homo oeconomicus: sotto la spinta della crescita della popolazione si sarebbero messe a coltura terreni via via meno produttivi, appunto nella supposizione che all’inizio si sarebbe partiti da quelli più feraci. Dunque sottratto il salario al surplus dell’ultima terra messa a coltura - dove Ricardo ipotizza l’assenza di oneri al proprietario fondiario ( rendita assoluta) in quanto altrimenti si sarebbe passati a lavorare terre libere e disponibili di pari produttività – ciò avrebbe determinato l’assotigliarsi del profitto a causa della progressiva caduta della produttività agricola e l’impossibilità di abbassare il salario. Assottigliarsi del profitto a tutto favore della rendita differenziale che a misura della relativamente maggiore produttività delle terre messe a coltura prima dell’ultima avrebbe visto l’aumento progressivo del Pil nelle mani dei proprietari fondiari in termini di rendita complessiva ( la massima rendita differenziale spettando alla prima terra lavorata, rendita differenziale via via relativamente minore sulle terre man mano meno produttive). Per il fatto che il saggio del profitto non può che essere unico in tutto il sistema economico - anche al di fuori del settore agricolo - la sua crescente diminuzione sino alla sua scomparsa - ove l’ultima terra avrebbe dato surplus appena sufficiente per il solo salario - non poteva che condurre Ricardo al suo famoso”pessimismo” ( “ pessimismo ricardiano” ) circa le sorti storiche del capitalismo. Il reddito netto soltanto consumato non può che semplicemente riprodursi, dando luogo allo stadio finale dello “stato stazionario”. Ma il “modello” di Ricardo testé sintetizzato è irrimediabilmente fallace in alcuni suoi presupposti, sia espliciti che impliciti. L’errore maggiore rientra fra quest’ultimi e consiste nel paralogismo che

24

V. Orati, Lavoro “produttivo” e “improduttivo”, op. cit. 25

Una trattazione formale del “modello” ricardiano inquadrato nella più ampia problematica della teoria del valore lavoro si trova in, V. Orati, Una teoria della teoria economica, vol. I, op. cit.

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fa da sfondo all’intero ragionamento: la costanza delle tecniche produttive in agricoltura, ovvero l’assenza di progresso tecnico più in generale . Sappiamo oggi come sia stato proprio l’agricoltura il più stupefacente campo di positiva sperimentazione e attuazione della scienza applicata ai processi produttivi. L’altra inammissibile ipotesi del “modello” è quella della compresenza del lavoro salariato e di terre “libere e disponibili”. Anche se Marx nell’opporre giustamente a Ricardo l’esistenza, oltre che della rendita differenziale, anche di una rendita assoluta - che va pagata su ogni terreno e anche sull’ultima terra messa a coltura ( “terra marginale”) - manca di dare il” colpo di grazia” al “modello” in questione. Non connettendolo alla sua critica alla “teoria moderna della colonizzazione” pur esposta sagacemente nel primo Libro de Il Capitale. 26 Sulla base di tale critica un tale “colpo di grazia” possiamo darlo noi. Ebbene, il fallimento della predetta “teoria moderna della colonizzazione” messa a punto da Edward Gibbon Wakefield e applicata ex lege dalla Corona inglese nella sua politica di popolamento dell’America del Nord, consisteva nella stessa rozza idea di esportabilità sic et simpliciter nelle colonie di popolamento del modo di produzione capitalistico; ivi spedendo dalla Madrepatria quanti qui in partenza rappresentavano la classe dei capitalisti e dei proletari. Appena giunti in America, con immense terre libere e disponibili ( inquadrabili nell’epopea della “frontiera” ), semplicemente spariva il proletariato; che riappropiandosi di quanto in precedenza espropriatogli - il mezzo di produzione “terra” – rendeva impossibile il capitalismo: in quanto definito quale rapporto storico di produzione tra proprietari del capitale e proprietari della sola loro forza lavoro ( proletari, appunto). Alla luce di ciò tutto il meccanismo del “modello” ricardiano “a tutto grano” crolla impietosamente. Non va neanche taciuta la rigidità della struttura di classe nel modello monomerce ricardiano, che assume una netta separazione e un altrettanto netto antagonismo tra rendita e profitto, nel mentre, come vedremo, tra rendita, interesse e profitto, il capitalismo dispiegato pone solo una differenziazione funzionale. Si potrebbe parlare a proposito di tale rigidità e antagonismo di ipostasi storico-sociologica, ancorata al panorama appunto storico-sociale del capitalismo “prima maniera” quale si mostrava ancora al tempo di Ricardo. Una fase in cui è ancora in atto la battaglia con i resti della struttura di classe del feudalesimo. In special modo nella monarchica Gran Bretagna, dove la Camera Alta ( Camera dei Lord) era espressione dell’aristocrazia che definire terriera è puro pleonasmo. Non va dimenticata la dura lotta tra protezionisti e fautori del libero scambio, cioè tra proprietari terrieri e industriali che si risolverà con l’ abrogazione delle “leggi sul grano” solo nel 1846 con la vittoria degli antiprotezionisti ( Cobden e la Lega di Manchester) ben 21 anni dopo la morte di Ricardo, teorizzatore riconosciuto anche della dottrina del free trade. Non a caso elaborata sotto la oggettiva “pressione ambientale”dell’acceso contrasto politico e sociale tra capitalisti industriali e Landlords. Ma va dato atto a Ricardo, nella circostanza, di una significativa raffinatezza intellettuale nel voler estrapolare una legge di tendenza di lunghissimo periodo del capitalismo che alla semplicità

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Marx approfondisce lungamente e rasentando la pedanteria la teoria di Ricardo della rendita differenziale opponendogli la necessaria esistenza della rendita assoluta sia nelle Teorie sul plusvalore (Storia delle teorie

economiche, nella versione emendata delle prime datane da Kautsky) sia, più succintamente nel III volume de Il Capitale; cfr. K Marx - F. Engels, Opere Complete, vol. XXXV ( Teorie sul plusvalore, vol II); K. Marx, Storia delle teorie

economiche, vol. II, Einaudi, Torino, 1955 Editori Riuniti, Roma, 1979. K. Marx Il Capitale, Libro III, Editori riuniti, Roma, 1965. La teoria moderna della colonizzazione conclude con tale titolo il XXIV e ultimo capitolo del I libro de Il Capitale (‘l’unico pubblicato, nel 1867, durante la vita di Marx). Specie nella traduzione più recente della UTET ( Torino, 1974) questo capitolo fonde con rara maestria efficacia letteraria e possanza scientifica.

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( “eleganza”) del “modello” appena discusso accoppiava la complessità della struttura di classe rinvenibile in tale modo di produzione ( percettori di salario, profitto e rendita). Lo stesso Marx, subendo indubbiamente il pericoloso e ingannevole fascino protopositivista dell’economista di origine portoghese, che lo contaminerà negativamente in momenti clou della sua indagine scientifica, allorché tenterà un esperimento analogo attraverso la formulazione della supposta “legge della caduta tendenziale del saggio del profitto”,27 prendendo atto della incompiutezza già allora diagnosticabile di una teoria del lavoro “produttivo” e del lavoro “improduttivo” vi si arrenderà . Articolando la predetta “legge” in ragione del solo rapporto tra capitale e lavoro salariato, lasciando completamente fuori gioco i percettori di rendita e quindi il “lavoro improduttivo” sottesovi. Nel mentre Ricardo lascia che il “lavoro improduttivo” sia presente nel suo modello “ a tutto grano” attraverso un caso di indiscutibile, palmare e di mai confutata evidenza. imputandolo a una classe come quella dei proprietari terrieri che come puri rentier dediti al consumo integrale e “vistoso” del loro reddito non possono che consegnarlo a settori ( dei “beni di lusso” ) che per definizione possono solo semplicemente riprodurlo, così sottraendolo alla precipua essenza del capitalismo: l’accumulazione del capitale.28 Ancora più importante è la circostanza che vede Ricardo, nel caso del modello “monomerce” in oggetto, errare nella dimostrazione, ma avvicinarsi oggettivamente a quanto è possibile sostenere - sulla base della nostra recente proposta teoria del lavoro “produttivo”/”improduttivo”- circa il ruolo rivestito dal “lavoro improduttivo”sul destino economico del capitalismo: la sua tendenziale crescita rispetto ai settori “produttivi” per l’appunto in un crescente effetto di depotenziamento del processo di accumulazione del capitale. Come passiamo subito a vedere. Una volta depurato il modello ricardiano della ipostasi della costanza delle tecniche produttive e dalla presenza della sola rendita differenziale per l’insostenibile ipotesi di terra libera e appropriabile in un contesto capitalistico. Ipotesi sostituita dalla incontestabile realtà del monopolio privato della terra stessa, non necessariamente tutta messa in valore, nella stessa guisa per cui i “tesori” svolgono continua trasmutazione in qualità di moneta (flusso) all’aumentare del livello generale dei prezzi, e viceversa, trasformando moneta in tesori (stock) in caso di deflazione ( anche così opera in analogia l’”esercito industriale di riserva”, assorbendo o cedendo lavoro a seconda delle fasi del ciclo capitalistico). Per cui la quantità di terra messa a coltura dipende dal mercuriale dei prezzi agricoli. Deve ora apparire evidente la centralità ai nostri fini della presenza e della variabilità della rendita assoluta quale discende dal rifiuto storico-logico di ammettere terra in veste di res nullius in un contesto capitalistico. Rendita assoluta da pagarsi,

27

Cfr, V. Orati, Una teoria della teoria economica, vol.I, op. cit. 28

Va da sé che nella misura in cui la rendita viene spesa per esempio in “servitù” i relativi lavoratori scambiando lavoro contro reddito, secondo la seminale definizione di Adam Smith condivisa da Marx, non possono , come il lavoro che si scambia contro capitale, dare luogo a plusvalore o surplus che dir si voglia. Inoltre, se è pur vero che i salari dei “servi” si sostanziano in “beni-salario” e ciò potrebbe dar adito a pensare che tali salari indirettamente stimolano gli investimenti in capitale a ciò necessari, va immediatamente opposto che, rappresentando la rendita da cui sono defalcati i salari della servitù in discorso un minuendo netto del plusvalore ( non rappresentando la rendita una componente genetica del valore-lavoro in cui consistono le merci, bensì una semplice sottrazione ex post di risorse a tale generato valore-lavoro ) questo recupero seppur indiretto di risorse da destinare a investimenti legati al consumo dei servitori, rappresenta un vizioso e inedificante detour logico-economico. Per quanto invece attiene al consumo di settori che producono merci di “lusso”, ancorché non esplicitata da Ricardo, vale la circostanza per cui ex definitione i “beni di lusso” sono prodotti da settori che sono fuori dalla concorrenza vendendo a “prezzi di affezione”, che si vogliono “giustificati” dalla assoluta rigidità della loro offerta rispetto alla domanda, ovvero dalla scarsità di tale offerta: una eventuale crescita della scala produttiva dei “beni di lusso” li depriva per definizione della loro peculiare “lussuosità”. In altri termini i beni di lusso sono tecnicamente esclusi dal processo di accumulazione dei relativi capitali.

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evidentemente insieme a quella differenziale, su ogni terreno messo in valore , e a prescindere dalla produttività dei terreni: fissandosi su quella marginale ( ultima terra messa a coltura) in funzione della domanda di prodotti agricoli o di trasformazione industriale degli stessi. La centralità della rendita assoluta e del suo saggio, frutto del puro diritto di proprietà di quel particolare capitale costante che è la terra, si evidenzia nella circostanza per cui, alla luce di quanto abbiamo visto, essa si pone nei confronti del saggio del profitto nel medesimo rapporto che si pone tra saggio d’interesse e saggio del profitto stesso. In entrambi i casi il tasso del profitto funge come limite teorico alla banda di oscillazione che può caratterizzare l’andamento del tasso di rendita assoluta. La circostanza è rilevante perché, per la mediazione del diritto di proprietà (privata) sui patrimoni fisicamente intesi e della loro cedibilità contro denaro, che, al di fuori del diritto di successione, rende omologhe sul piano delle classi sociali ad esse sottese le varie forme e funzioni del capitale, queste variabili o tassi di rendimento del “capitale” nelle sue tre diverse vesti non rappresentano che momenti funzionalmente distinti del “capitale” tout court . Che in realtà è composto in ogni momento e con pesi specifici diversi a seconda della fase ciclica della dinamica capitalistica dalla complessiva miscela delle componenti in discorso. Componenti distinte, come appena detto, innanzi tutto sulla base delle diverse fasi scandite dalla morfologia alterna del processo di accumulazione del capitale. E in secondo luogo, su basi temporalmente di lunghissimo periodo, in funzione della più o meno accentuata pressione demografica e/o diverso “disegno” che assume lo sviluppo spaziale del capitalismo stesso29 e i sottostanti modelli di vita, in relazione alle mutevolezza che assumono i comportamenti e le scelte in campo economico; avuto specialmente riguardo per il ruolo svolto dal prevalente profilo assunto dalle scelte di arbitraggio tra presente e futuro (risparmi/consumi/speculazione). Se nella genesi storica della rendita è inscritto il DNA dell’aristocrazia terriera di origine feudale - che coesiste giocoforza ( sacralità del diritto di proprietà privata sul “capitale”) con la nascita e le primi fasi del capitalismo - resta acclarato che nel progressivo sostituirsi della borghesia a tale aristocrazia ( o nella conversione-assimilazione dei suoi ultimi rampolli ai nouveaux riches) risulti ineluttabile la contaminazione-costanza dei modelli di vita e di consumo della classe decaduta su quelli dei “parvenu “ della classe in ascesa. E poiché con l’”urbanizzazione” della “campagna” ( estendersi progressivo dell’egemonia del processo capitalistico e dei suoi valori e modelli di vita dalla “città” alla “campagna”) la rendita assoluta, con la sua autonomia da quella differenziale, strettamente legata alle diverse feracità dei terreni, si modulerà in funzione del saggio del profitto di equilibrio del sistema, ciò non mancherà anche per tal verso di connotare i capitalisti-imprenditori quali consumatori “vistosi” che alimentano i così settori “improduttivi”. Ma l’”effetto di dimostrazione” (nei limiti in cui ci si può permettere di emulare i consumi più elevati delle classi più abbienti della propria) non si ferma lungo la piramide sociale alla borghesia. Non va dimenticato che ci muoviamo in ipotesi di “economia chiusa” e di capitalismo dispiegato nella sua epoca di indiscusso carattere progressivo; e nelle sue performance di crescita e quindi di allentamento della tensione del conflitto latente e definitorio con il salario. Conflittualità antagonista quella tra profitto e salario sublimata e “governata” attraverso l’estensione della democrazia economica ( prevalentemente con l’aumento dei salari al di sopra del livello di sussistenza o pura riproduzione biologica) oltre che politica ( i vari stadi che dai criteri elettorali

29

Va ricordato che lo “spazio capitalistico” è caratterizzato da una progressiva urbanizzazione- industrializzazione

capitalistica della campagna; ciò in contrapposizione al carattere agrario ( di appendice o dipendenza dall’agricoltura))

della “città” che ha caratterizzato lo “spazio”precapitalistico.

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cetuali, censitari, e di genere portano al suffragio universale). Circostanze che fanno manifestare in modo concretamente rilevante il fenomeno del “consumo improduttivo”. Consumo improduttivo che oltre evidentemente a caratterizzare quanti hanno e consumano un reddito del tutto parassitariamente non svolgendo alcun lavoro, riguarda segnatamente i lavoratori “produttivi” e viene definito dalla differenza tra salario reale e salario di mera sussistenza. Differenza che risolvendo il minor profitto (maggior salario) in consumo, abbassa il potenziale di crescita del processo di accumulazione del capitale, sottraendo risorse agli investimenti. Va ricordato che il reddito consumato può solo semplicemente riprodursi mentre è solo al capitale in forma di investimenti che si combinano con lavoro vivo è lecito connettere surplus e crescita oltre che aumento dell’uno e dell’altra grazie al progresso tecnico. Con il che resta ribadita e appurata l’esistenza di un trade- off tra massimo potenziale di crescita capitalistica ed estensione del benessere alle basi della gerarchia dei percettori di reddito: i lavoratori salariati. Ma abbiamo più su visto come un vulnus letale al modello ricardiano “monomerce” sia rappresentato dall’implicita ipotesi della costanza delle tecniche produttive o assenza di progresso tecnico. In realtà l’incessante manifestarsi di quest’ultimo è tra i meriti indubbi del capitalismo e della sua obiettiva missione storica: spianare la strada per una tendenziale e potenziale affrancazione dal “mondo dei bisogni” e quindi dal lavoro ( beninteso lavoro alienato sub speciae capitalistica). In ogni caso fermo rimanendo la cornice del capitalismo a questa sua forza storica progressiva il Dioscuro della sottesa democrazia ha oggettivamente connesso la promessa di tradurla in progressiva soddisfazione dei bisogni per tutti. Ma assolvere sia pure gradualmente a un tale compito equivarrebbe a una variazione sul tema ricardiano dello stato stazionario quale esito ineludibile dell’accumulazione del capitale. Il trionfo finale della democrazia almeno di quella connessa alla sua essenza economica - di cui quella politica non può che concepirsi che come mezzo e quindi altrettanto realizzata con l’altra - sancirebbe in ogni caso lo scioglimento del connubio capitalismo/democrazia per l’esaurirsi del primo termine. Che non fosse perciò denuncerebbe la antistoricità e astoricità di quanti assumono esplicitamente o implicitamente quel binomio come “fine della storia” o sovrastorico o vero sub speciae aeternitatis. Ma se l‘incessante progresso tecnico è finalizzato alla progressiva soddisfazione di bisogni dati e costanti, assumerlo a sua volta come costante equivale nel panorama del modello ricardiano “monomerce”, e pur nel cinismo della sua categorizzazione classista, del tutto lecitamente a ritenere costantemente cumulativo l’effetto di un mezzo per il raggiungimento di un fine assegnato e costante cui tale mezzo intende: con la sola presenza di grano e la rigidità e esauribilità del suo bisogno il compito storico del capitalismo come modo di produzione verrebbe a cessare risolvendo in puro consumo e in pura logica meramente riproduttiva il Pil all’esaurirsi - o al saturasi dei sottostanti bisogni- della terra disponibile; in un permanente equilibrio anche tra uomo e natura in una cornice che si mostra come una sorta di messaggio protoecologico.30 E anche se con apparente sagacia analitica si passi a considerare che il grano non esaurisce il mondo dei bisogni - la cui complessità e gerarchia nonché suddivisione tra bisogni “fisici” o “primari” e bisogni “spirituali”” o “superiori” può ben esemplificarsi con la “piramide dei bisogni di Maslow” - e si ipotizzi che questi siano suscettibili di una precisa e costante individuazione e valutazione in termini economici, la sana e fisiologica dialettica tra capitalismo e democrazia

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Va da se che esauriti i bisogni e quindi la domanda delle merci a ciò necessari ogni processo di crescita dell’economia capitalistica si fermerebbe: non avendo eventuali investimenti netti aggiuntivi alcun fondamento razionale per essere attuati.

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( economica ergo politica, come si è detto prima) dovrebbe comportare la lenta autoeutanasia ( o lento e dolce suicidio) del capitalismo: man mano che all’attuazione piena della democrazia esso dovesse pervenire per mezzo della sua faculté maîtresse di sollecitare, produrre e attuare costante progresso tecnico, con aumento della produttività del lavoro. Ma questa maggiore ricchezza di determinazione dei bisogni non cambia nella sostanza e quindi la maggiore “eleganza”( semplicità) del ragionamento o teorema su cui si basa il “pessimismo ricardiano”. 31

Alla luce di quanto appena detto non può che discenderne che la permanenza ultrasecolare del capitalismo lungi dal rappresentare una progressiva soddisfazione dei bisogni per tutti, e quindi lungi dal realizzare la “democrazia”, ha sperperato la sua carica potenzialmente progressiva in termini di straordinaria crescita delle forze produttive , e per la gran parte di queste, ampliando a dismisura l’orizzonte dei bisogni da soddisfare attraverso la loro artificiale creazione. Con ciò trasformando in mitopoietica del capitalismo l’attuazione sempre più piena della democrazia, attraverso l’impossibile soddisfazione del sempre mobilie, mutevole, e ampliato confine-orizzonte dei bisogni. La soddisfazione dei quali è affidata all’inveramento del “lavoro di Sisifo” per raggiungerla, e non sempre provvedendo lavoro per tutti. E questa artificialità nella creazione di bisogni consiste nel ruolo strutturale che riveste l’offerta nell’indurli dall’alto, ovvero nel crearli da parte dei produttori , visto il ruolo passivo e subalterno in termini di qualità e quantità prodotte da parte della domanda. Appartiene infatti alla più ingenua delle credenze la così detta “sovranità del consumatore”, sbandierata dai “manuali” di economia con l’ imprimatur dell’ ortodossia. “Sovranità del consumatore” respinta alla radice da uno dei maggiori e strenui difensori del capitalismo, Schumpeter , che afferma - nel caso specifico quale riconosciuta autorità circa il ruolo delle “innovazioni” e degli imprenditori sulla dinamica del capitalismo e le sue implicazioni socio-comportamentali :

Assumeremo lungo la nostra indagine che l’iniziativa dei consumatori nel mutamento dei loro gusti - cioènel cambiamento dell’insieme di dati che in generale la teoria comprende nel concetto di “funzione di utilità” o di “curve d’indifferenza - è del tutto trascurabile e che tutto ciò che incide nel cambiamento dei gusti dei consumatori

31

Non sfuggirà che alla fine del suo percorso/”missione” storica nel modello “a tutto grano” di Ricardo vi sia un ritorno o un approdo arcadico: con accesso libero alle definitivamente ultime terre ancorché marginali, ove scompare il profitto, cadono le classi come vincolo al rapporto di produzione capitalistico. I capitalisti scompaiono insieme al profitto; la rendita differenziale per ottenerla i proprietari delle terre più fertili dovranno lavorarsele da soli; ciascuno avrà la sua terra ancorché di diversa feracità. E con il tempo ciò sarà solo percepibile come una conseguenza dell’ineguale manifestarsi della “matrigna” natura.

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sia provocato e dipenda dall’azione dei produttori.32

Ma molto più significtivamente, e al di là di questo singolo brano tra i molti, è l’intera teoria della ciclica dinamica economica del capitalismo del grande economista austro-americano - di assoluta e incompresa importanza, nonostante la grande considerazione di cui pur gode - a dare rilievo analitico ai nuovi investimenti decisi dall’imprenditore-innovatore, e per il resto trasformati in massa critica ai fini dello “sviluppo” pur sempre e ancora dagli imprenditori “imitatori”. Insomma nel modello della ciclico processo capitalistico la domanda e i consumi suscitati dallo sviluppo vedono quest’ultimo necessariamente innestato da “innovazioni” attuate autonomomamente dal lato dell’offerta , cioè dal mondo delle imprese.33 Che finisce per imporre , per così dire, dall’alto i bisogni connessi all’innovazione alla subordinata categoria dei consumatori. Per rendersi conto di quanto sia artificiale e irrazionale il debutto di “nuovi bisogni” sussunti alle “innovazioni” basta elencare la loro casistica fornitane dallo stesso Schumpeter:34

1.Produzione di un nuovo bene, vale a dire di un bene non ancora familiare alla cerchia dei consumatori, o di una nuova qualità di un bene. 2.Introduzione di un nuovo metodo di produzione, vale a dire non ancora Sperimentato nel ramo dell’industria in questione, che non ha affatto bisogno di fondarsi su una nuova scoperta scientifica e che può consistere anche in un nuovo modo di trattare commercialmente una merce. 3.Apertura di un nuovo mercato, vale a dire di un mercato in cui un particolare ramo dell’industria di un certo paese non era ancora penetrato, sia che questo mercato esistesse già prima oppure no. 4.Conquista di una nuova fonte di approvvigionamento di materie prime e di semilavorati, anche qui sia che questa fonte di approvvigionamento esistesse già prima sia che si debba innanzi tutto crearla. 5.Attuazione di una riorganizzazione di una qualsiasi industria come la creazione di un monopolio[…] o la sua distruzione.

Come può evincersi dai cinque casi di innovazione suddetti, esclusi quelli che implicano una “economia aperta” – e che tra l’altro escludono per definizione la creazione di un vero “nuovo bisogno” semplicemente “esportando” la merce ( o il servizio) che dovrebbe comportare un vero “nuovo bisogno” a chi tale merce (o servizio )non conosceva prima – ai fini dello sviluppo economico e quindi comportanti investimenti rilevanti la “novità” massima che viene prevista è quella che consiste nella “nuova qualità di un bene”. La quale quindi soddisfa, seppur in modo diverso, un “vecchio bisogno”. A meglio guardare dunque e pur sempre all’interno del solo primo caso - negli altri casi di “nuovi bisogni” non può neanche parlarsi - e sempre ai fini dello sviluppo economico i “nuovi bisogni” consistono nel trasferimento alla gran massa dei consumatori di ciò che prima riguardava solo “una più ristretta “cerchia”: si tratta cioè del

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“ We will, throughout, act on the assumption that consumers’ initiative in chanching their tastes - i.e., in chanching that set of our data which general theory comprises in the concept of “utility functions” or “ indifference varieties” - is negligeable and that all change in consumers’ tastes is incident to, and brought about by, producers’ action: cfr. J. A. Schumpeter, Business Cycles, A theoretical, Historical and Statistical Analysis of the Capitalist Process, vol. I McGrow-Hill, New York and London, 1939, p.73. 33

Vedi più diffusamente, V. Orati, Il ciclo monofase. Saggio sugli esiti aporetici della “dinamica” di J. A. Schumpeter, op. cit. 34

J. A: Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze, 1971, p. 76.

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declassamento di beni dapprima di “lusso” che debuttano come beni di “ largo consumo”. 35 “Beni di lusso” cui dunque è demandato il compito di innovarsi costantemente nei termini di “nuove qualità” degli stessi per una ristretta cerchia di consumatori che occupano la scala alta della classifica dei redditieri. “Beni di lusso” a cui necessariamente si sono aggiunti nel tempo servizi legati alla crescente immaterialità dei bisogni sottostanti e appartenenti alla zona alta della “piramide dei bisogni” del tipo esemplificato da Maslow. E tutto ciò nel quadro della nostra ipotesi di una “economia chiusa” comporta il fenomeno di grande momento che vede consegnato ai settori” improduttivi” dei” beni di lusso” e al loro sistematico declassamento a beni di largo consumo ( declassamento per quelle merci ove sia concepibile un passaggio alla produzione su larga scala) - secondo i meccanismi del “ ciclo vitale del prodotto” - e quindi all’aumento complessivo del “consumo improduttivo” la dinamica di lunghissimo periodo ( la tendenza o trend storico, che può fare astrazione dalla sua morfologia ciclica ) del capitalismo; in termini via via meno performanti quanto a tasso di crescita del Pil e del Pil pro capite . Per il progressivo scemare dei settori “produttivi”rispetto a quelli “improduttivi”. Settori che hanno ora bisogno di essere meglio identificati rispetto a questa loro primitiva e indecidibile differenziazione quale, pour cause, ha tentato di inutilmente interrogarsi la “scienza economica ortodossa e sedicente eterodossa: sino alla sconfitta e resa incondizionata finale. La soluzione da noi proposta recentemente al problema del lavoro “produttivo/improduttivo” può essere così molto succintamente riepilogata.36

1) Superamento dei tentativi di soluzione del problema che non hanno mai impostato in chiave di dinamica dell’accumulazione del capitale la questione; ancorandosi per così dire a livello statico microeconomico. Anche se l’obiettivo può essere stato in letteratura qui è là affrontato guardando ai suoi riflessi sulle performance di crescita del capitalismo, è solo in Ricardo che in maniera significativa e nei termini oggettivi che abbiamo visto che assume rilievo la tematica in oggetto in una prospettiva temporale di lunghissimo periodo o storica; che può essere resa con la domanda dove va ( nel senso di qual è il destino) del capitalismo?

2) Lo stesso Marx ha in tale campo deluso, seguendo Ricardo nella domanda del punto precedente ma affidando la risposta a un modello viziato da quello che potremmo definire “ottimismo operaista”: nella sua “legge della tendenza della caduta del saggio del profitto” la sottostante struttura di classe è solo binaria; capitalisti e proletariato, con assenza totale di settori “improduttivi”.37 Per “ il “Moro” l’accumulazione del capitale nel tempo non poteva che generare suo malgrado una crescente massa di lavoratori salariati e ( implicitamente) “produttivi “che dava fondamento alla certezza che fosse il capitalismo stesso a generare e alimentare fino a farne la stragrande maggioranza della popolazione quel proletariato che altro non era che il suo stesso “becchino”. Un tale “ottimismo socialista” per cui “il filosofo della rivoluzione” aveva la meglio sullo “scienziato sociale” era in fondo la cifra che doveva contrapporre la sua impostazione quale “critico dell’economia politica” alla massima espressione di quest’ultima rappresentata da Ricardo e al suo “pessimismo” che non dava alternativa all’uscita dell’ “uomo” dal “regno della necessità e dei bisogni”.

3) Momento fondamentale della soluzione proposta è stato quello di fondere per prima cosa i due criteri con cui Smith definisce il lavoro “produttivo”. Criteri universalmente ritenuti, e infondatamente, strettamente alternativi ( “disgiunzione esclusiva” in logica formale : o l’uno o

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Si tratta dei caratteri essenziali della “teoria del ciclo del prodotto” a cui è proprio Schumpeter ad aver dato gli ingredienti base. 36

Per ogni approfondimento si rimanda a V. Orati, Lavoro “produttivo” e “improduttivo”, op .cit. 37

Solo di passata va denunciato il “marxismo” dei “duri e puri, che” con atteggiamento religioso (compreso il fariseismo connessovi) - visti i successivi pentimenti o la cedola e pensione parlamentare staccata in nome degli” ideali eventualmente mai ripudiati” non hanno mai messo mano a intendere la necessità di sviluppare con intelligenza il monco perché incompiuto paradigma del fondatore del materialismo storico. Nel caso particolare il riferimento è a quella sbornia “intellettuale” fondata sull’idea appena abbozzata di Marx del “lavoratore collettivo” indubbiamente da questi inteso con i crismi del lavoratore “produttivo”.

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l’altro ma non entrambi) in quanto altrimenti insanabilmente contraddittori . Il primo criterio è quello che vuole “produttivo” il lavoro che si scambia con capitale e “improduttivo” quello che si scambia contro reddito. Il secondo è quello che definisce produttivo il lavoro che dà luogo a un prodotto materiale (definizione che lo stesso Marx adotta e critica contraddittoriamente).

4) La proposta fusione di cui al punto precedente è assunta come condizione necessaria ma non

sufficiente per individuare il lavoro “produttivo” . Per giungere a una condizione necessaria e

sufficiente, e partendo dalla considerazione che a) il surplus( plusvalore) è l’elemento esclusivo su cui riposa il carattere dinamico del capitalismo versus quello statico-riproduttivo dei modi di produzione precapitalistici; b) il surplus è ottenibile solo da lavoro subordinato al capitale e quindi che c)tale lavoro salariato è potenzialmente la “gallina dalle uova d’oro” del capitalismo, ne discende che; d) solo le merci che nutrono una tale “gallina” rappresentino “lavoro capitalisticamente produttivo”: in grado cioè di concorrere in tutto o in parte alla produzione di surplus destinabile all’accumulazione del capitale nel tempo. “Accumulazione” che richiede evidentemente in modo stringente e ineludibile che le risorse che la sostanziano siano materiali come gli investimenti fisicamente e concretamente intesi.

5) Da quanto precede se ne deduce . lo ribadiamo, che le risorse semplicemente consumate siano perciò di fatto sottratte all’accumulazione del capitale. E tra queste ricade ex definitione il settore dei servizi che risultino completamente indipendenti dagli input che concorrono alla produzione di beni-salario.

6) Ma all’inaccettabile miseria analitica della semplice e manichea distinzione dell’endiadi lavoro “produttivo /improduttivo” va sostituito un approccio più ricco e potenzialmente completamente modulabile ( misurabile) all’interno di una più ricca e adeguata categorizzazione del lavoro più o meno “produttivo/improduttivo”. Cominciamo quindi a riconoscere una classificazione che deve il suo tributo a Smith e a Marx. In base alla considerazione di Smith e condivisa da Marx che anche chi scambia lavoro contro reddito per un salario, pari evidentemente a quello di equilibrio del sistema, produce in qualche modo valore ( erogando tempo di lavoro), risulta lecita la individuazione del lavoro “semplicemente produttivo”, che non può dare luogo a plusvalore o surplus ma che è però in grado di semplicemente riprodursi. A questa tipologia si possono assimilare i lavoratori che svolgono libere “professioni “o “mestieri”, fornitori dei più vari servizi; compresi evidentemente quelli alla persona; in regime di libera e perfetta concorrenza . Regime cui è demandato il compito di annullare ogni remunerazione che vada oltre il livello di semplice riproduzione dei lavoratori: tenuto evidentemente conto della trasformazione del lavoro semplice in lavoro complesso. Sicché una prestazione che ha richiesto costi di apprendimento, formazione ecc. risulti un opportuno multiplo del salario d’equilibrio. 38

7) Sulla base della seminale e originale individuazione da parte di Marx del concetto di “difettosi

rapporti sociali” che danno luogo a “devianza” sociale, frutto potremmo dire di una “irrazionalità sistemica” che contraddice ( e sottrae risorse) all’attitudine “razionale” dei soggetti socialmente “sani” nell’attività di produzione, vi è un primo modo di individuare intere categorie assolutamente improduttive o improduttive tout court : avvocati, giudici, militari, poliziotti, secondini ecc. e il loro indotto. La cui remunerazione di fatto sottrae risorse e quindi sottrae valore all’accumulazione piuttosto che aggiungerlo al Pil. Tali categorie di lavoratori vanno considerate parassiti solo a livello oggettivo della “devianza sociale”, o del prezzo storico del loro eventuale ruolo obiettivamente “conservatore” dell’ordine richiesto dal modo di produzione capitalistico .39

38

Dato che sia il saggio del profitto d’equilibrio, questo permette di operare come saggio di sconto/interesse del capitale occorso per la formazione e del mancato salario per il periodo sotteso al tempo di formazione. 39

Naturalmente a parte i puri rentier che non lavorano affatto, ogni lavoratore che risulti in tutto o in parte “improduttivo” pur svolgendo lavoro subordinato non ha alcuna “colpa” soggettiva, rientrando la sua collocazione nella divisione sociale del lavoro tra le condizioni oggettive imposte dal sistema. Condizioni che lasciano poco o nullo spazio alla libertà di scelta del proprio tipo di lavoro. Naturalmente ciò è vero in generale, rientrando “raccomandazioni” e “eredità “ facilitata della professione o altra attività “privilegiata” e voluta dal “sistema” nel profilo specifico della realtà in cui tali fattispecie operano ( “difettosi rapporti sociali”).

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8) Infine una quarta tipologia riguarda i lavoratori capitalisticamente improduttivi, da individuare attraverso il criterio della loro produzione di ” beni di lusso”; produzione che facendo capo a una definitoria posizione oligomonopolistica sfugge a una formazione del prezzo in base al valore-lavoro oggettivamente contenuto nei relativi beni e in coerenza alla legge della libera concorrenza. Legge che altrimenti imporrebbe un profitto medio e d’equilibrio a livello di sistema. In tali settori monopolistici e/o oligopolistici con opportune metodiche che richiedono il concetto di ” valore ( lavoro)/opportunità” si può accertare di quanto il prezzo del” bene di lusso” ecceda il valore(lavoro) che in paragone alle stesse risorse da esso impiegate ( capitale e lavoro) richieda potenzialmente un settore “capitalisticamente produttivo” (soggetto quindi alla libera concorrenza). Siccome questa eccedenza del prezzo di mercato oligomonopolistico tra “prezzo” e valore(lavoro) la si dà per assiomaticamente esistente ( non si vede altrimenti in cosa consista la sottesa rendita da monopolio), il suo quantum va sottratto al suo valore( lavoro)/opportunità. È ciò può dar luogo a valori negativi ; in tal caso connotando di conseguenza il settore o l’azienda in oggetto come addirittura più nocivo all’accumulazione del capitale del lavoro “semplicemente improduttivo” come prima definito. Con conseguente oggettiva sottrazione a livello di Pil del predetto e accertato quantum. Nel mentre ove questo quantum o minuendo al valore(lavoro)/opportunità dia luogo a una grandezza positiva, questa è imputabile come tale alla formazione del Pil, assimilando pro tanto il tutto a un settore “semplicemente produttivo”.

La predetta categorizzazione a cui è pervenuta la nostra proposta soluzione al problema del lavoro “produttivo/improduttivo” è in grado di dare sostanza quantitativa a quanto abbiamo potuto teoricamente dedurre dalla assiologia delle “innovazioni “e dei relativi investimenti compiuta da Schumpeter. A conferma della nostra tesi circa il sempre più ampio divaricarsi della distanza tra capitalismo e democrazia, tale deduzione è in linea con la evidenziata intuizione ricardiana - per altri e sostantivi versi errata nelle sue basi analitiche - circa il ruolo negativo giocato sulla dinamica storica del capitalismo da parte del crescente rapporto lungo il tempo della categoria “ improduttiva” della rendita “agraria” con quella “produttiva” degli investimenti legati al profitto. Per nostra fortuna e di chi legge le proposte categorie di lavoro più o meno “produttivo/improduttivo” appena esemplificate assumono valore di posizione essenziale e dirimente per la nostra tesi per meglio avvalorarla dal punto di vista gnoseologico, interpretativo e probatorio, senza dover dar luogo a discutibili modelli cliometrici ( metodi statistici ed econometrici applicati alla ricerca storico.economica) su tali categorie articolati. Infatti la contabilità sociale ed economica relativa alla dinamica storicamente disegnata dal capitalismo nei termini per noi probanti è disponibile e indiscussa. Sino a poter dare la stura a una “legge” (“ legge di Colin Clark” o “legge dei tre settori”) solo empiricamente fondata ma teoricamente in cerca “pirandellianamente” di un “autore” che gli dia un’anima teorica, scientificamente significativa. “Anima” o valenza teorica che non richiede altro se non di far riempire con le proposte quattro categorie di lavoro “produttivo/improduttivo” i termini che sostanziano le categorie ( settori economici e i loro rapporti quantitativi nel percorso storico del capitalismo) della predette “legge”. La quale nella sua rilevanza ed evidenza meramente empirica – per la esigenza di tacere in assenza di una teoria in materia di lavoro “produttivo/improduttivo” e di una convincente “teoria dello sviluppo” che le impongono un carattere meramente descrittivo - 40 assurge però a formidabile prova di “laboratorio”del

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In realtà come per la così detta "teoria degli stadi di sviluppo” di Walter Rostow, nella versione di Jean Fourastié della “legge di Colin Clark”, la povertà teorica della economics ha contrabbandato con scorrettezza semantica una semplice evidenza empirico- descrittiva a rango di “legge” e quindi di “teoria dello sviluppo”. Per una critica penetrante a Rostow , che può applicarsi tranquillamente a Fourastié (et hoc genus omne), Vedi, P.A.Baran - E.J. Hobssbawm, The Stages of Economic Growth, <<Kyklos>>, vol. XIV, 1961. I testi originali degli altri autori sono:W. W. Rostow, The Stages of Economic Growth, A Non- Comunist Manifesto,

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demostrandum cui la nostra indagine intende dare rigoroso esito scientifico . Come passiamo subito a verificare.

Capitalismo versus democrazia: un mesto epilogo.

In estrema sintesi la “legge( o “teoria”) dei tre settori” individua tre stadi fondamentali che marcano l’”evoluzione” del capitalismo dalla sua nascita alla sua dispiegata maturità ( e che dovrebbero anche indicare le condizioni strutturali dello sviluppo economico stesso), a seconda che prevalga sugli altri come contributo al Pil e per numero di addetti , rispettivamente: 1) il settore primario ( agricoltura e settore estrattivo); il settore secondario ( industriale-manifatturiero); il settore terziario (servizi). Nella “elaborazione” di Fourastié che segue di un decennio (1949) circa quella di Clark (1940) le cifre che avrebbero contraddistinto, in termini di addetti, nell’ordine, i tre stadi dello sviluppo - indicati con “Civiità tradizionale”, “Periodo di transizione o intermedio” e “ Civiltà del terziario”- erano così indicate: Primo stadio Settore primario 70%, settore secondario 20%, settore terziario 10% Secondo stadio ,, 20%; 50%; ,, 30% Terzo stadio ,, 10% ,, 20% ,, 70% . Se si applicano molto grossolanamente le proposte quattro categorie atte a discernere tra lavoro “produttivo/Improduttivo” ai dati appena riportati: 1)assimilando i soli addetti al settore terziario - per il momento e molto benevolmente, sorvolando al loro interno sull’ampia genia dei lavoratori “assolutamente improduttivi” - alla categoria del lavoro “semplicemente produttivo “, cioè idoneo semplicemente a meramente riprodursi; 2)assimilando gli addetti degli altri due settori alla categoria del “lavoro capitalisticamente produttivo” - anche qui, al momento, con benevolenza, facendo astrazione dell’imponente presenza dell’ “industria dello spreco” e/o di quella dei “beni di lusso” nell’ambito del settore secondario; risulta di una evidenza incontestabile come una drasticamente declinante minoranza di lavoratori “capitalisticamente produttivi”, con l’indispensabile ’ausilio di uno stupefacente aumento della produttività del lavoro e del progresso tecnico ( deviato dal suo potenziale liberatorio), abbia provveduto ad assicurare lo sviluppo capitalistico nonostante abbia dovuto mantenere al contempo una crescente massa di lavoratori “semplicemente produttivi”. Infatti e solo sulle basi dei dati appena visti, se al suo primo stadio il capitalismo assommava il 90% dei lavoratori “capitalisticamente produttivi” e vedeva solo il 10% degli addetti corrispondere alla categoria dei lavoratori “semplicemente produttivi” , nello stadio della maturità quelle percentuali passano rispettivamente al 30% e al 70%. Ma i dati aggiornati rinforzano fortemente questa tendenza “involutiva ” del capitalismo in direzione di una sempre più marcata predominanza dei settori ”semplicemente produttivi ” su quelli “capitalisticamente produttivi”. Predominanza che non può non incidere sul tendenziale predominio di una logica stagnazionista su quella dello sviluppo.

Cambridge University Press, Cambridge,1960; C. Clark, The Conditions of Economic Progress, Macmillan, London, 1940; J.Fourastié, Le grand espoir du XX siècle, Presses Universitaire de France, Paris, 1949.

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Infatti se si guarda alle cifre del 2007 riportate dal Pocket World in Figures ( 2010 Edition)41 si assiste a quello che da tempo è una realtà consolidata del capitalismo nei paesi di più antica industrializzazione: la decimazione in termini di occupati dell’agricoltura ( il settore estrattivo è di per sé trascurabile) con assorbimento praticamente esclusivo di lavoratori espulsi dal settore primario da parte del settore dei servizi. Cosi per il Regno Unito, ( in rappresentanza emblematica di quanto caratterizza del tutto analogamente i paesi maggiormente “sviluppati”) gli addetti all’agricoltura risultano essere solo l’ 1 % del totale degli addetti , i servizi fanno registrare un 77% di analoga variabile mentre l’industria ne assorbe il 22%. Per l’agricoltura la medesima fonte statistica citata, nell’edizione del 2003, segnalava un 2% di addetti. Il che significa che il tasso di “mortalità” di occupati in tale settore anche nel breve periodo di sette anni ( un periodo molto breve) ne ha dimezzato la presenza, con l’industria che passa nel medesimo arco di tempo dal 25% al 22% e di addetti i servizi dal 73% al 77%. Appaiono del tutto scontati i frutti di una riflessione che si impone una volta che si vada oltre le semplificazioni appena adottate in materia di lavoro più o meno “produttivo/improduttivo”. Se si rimuove la assenza tra i lavoratori “capitalisticamente produttivi” di quelli capitalisticamente improduttivi” e la assenza nel settore dei servizi di lavoratori “assolutamente improduttivi” la nostra analisi risulta viepiù rafforzata ancorché non confortabile statisticamente, per la evidente mancanza di dati ufficiali e non che sfuggono completamente alla categorizzazione del lavoro nei termini da noi proposti . Sappiamo infatti che la possibilità di distinguere il lavoro nei termini di una possibile distinzione tra lavoratori “produttivi/improduttivi” è preclusa alla “scienza economica” ufficiale ( e non) e quindi a ogni rilevazione statistica conseguente. Così come deve essere chiaro il motivo che non ci ha portato a valutare in termini di Contabilità Nazionale il peso nella partecipazione al Pil, e il suo atteggiarsi nel tempo, dei vari settori economici ; risultando i dati ufficiali oltre che inservibili, fuorvianti ( notevolmente e fatalmente sopravvalutati). Come può evincersi dal carattere “edificante” che da Clark, Fourastié, a Rostow la “legge dei tre settori” e altre dello stesso genere hanno assunto, trasformandosi in Teorie dello “sviluppo” e conseguenti ricette per lo “sviluppo” stesso. Nell’ottica della dialettica tra sviluppo economico capitalistico, soddisfazione dei bisogni , inveramento progressivo della democrazia, questi dati confermano quanto abbiamo detto in precedenza a tal proposito circa l’esigenza dell’”artificiale” allargamento dei “falsi bisogni” eterodiretti e quindi sulla progressiva ed eclatante apertura della forbice che si è venuta a creare tra “suffragio universale” e contributo al “dividendo nazionale” dei singoli in quanto lavoratori più o meno “produttivi”.42 Ma tali dati fanno luce anche sulla circostanza, che così viene riempita di senso, circa il fatale esito della democrazia in termini di “dittatura della maggioranza sulla minoranza”. Con il corollario di quella convergenza verso il “centro” dell’elettorato nei paesi di più antica industrializzazione. Che va assumendo i caratteri di esito finale e “maturo” ( l’entelechia aristotelica) della democrazia, insieme a quell’altrettanto falsamente arcana coincidentia oppositorum delle ormai invertebrate “destra” e “sinistra” “reali” che a tale tendenza centripeta ampiamente concorrono nella “ illusoria” dimensione della politica. Convergenza che contraddistingue il capitalismo del nostro tempo e che segnala l’abisso crescente tra la realtà sociale e la sua rappresentazione nella “falsa dimensione della politica”.43 Con Marx dai “benpensanti” ritenuto

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Pocket World in Figures 2010 Edition, Profile Books, London, 2009. 42

E’ appena il caso di ricordare come il “suffragio universale” si sia storicamente affermato con molta lentezza per gradi, con allargamento via via più ampio delle categorie sociali con pieni diritti politici. E anche se non si tratta di perfette coincidenze temporali, una tale estensione della platea elettorale ha coinciso con l’obiettiva crescita del peso del “lavoro improduttivo”. Nell’ottica della esigenza di artificialmente espandere la sfera dei bisogni. Così sfuggendo all’altrimenti inevitabile appuntamento “ricardiano” con la stagnazione economica permanente, ovvero con l’exit storico del capitalismo stesso. 43

Il principio per cui non c’è rivoluzione sociale che non implichi necessariamente una rivoluzione politica, nel mentre è illusorio ritenere che da una sola rivoluzione politica possa derivare una rivoluzione sociale, rappresenta un obiter

dictum di Marx. Il suo lavoro sulla “Comune di Parigi” (1871) è il luogo ove tale principio fa da guida all’intera sua analisi e spiegazione del fallimento di quell’importante episodio rivoluzionario. Vedi: K. Marx, 1871 La Comune di

Parigi . La guerra Civile in Francia, Edizioni International - La Vecchia Talpa , Savon –Napoli, 1971..

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“superato”, con il suo aiuto sostanziale, vista la contaminazione positivistico-deterministica della sua “filosofia rivoluzionario-evoluzianistica della storia”. Visione che sta obiettivamente dietro la sua visione binaria del capitalismo. Per il “Moro” esclusivamente incentrata sul solo rapporto tra “Capitale” e lavoro salariato. Rapporto che avrebbe fatto si che il capitalismo, per la sua insaziabile e definitoria sete di profitto, avrebbe fatalmente generato, partorito e , e nutrito causa sui il suo stesso becchino: il proletariato, in quanto tendenzialmente classe egemone quantitativamente e qualitativamente, data la sua indiscussa qualità “produttiva”, della demografia del capitalismo stesso.44 Circostanza quest’ultima che dava fondamento etico-scientifico sul piano storico al socialismo quale “dittatura della maggioranza sulla minoranza”. Principio totalmente ribaltato eticamente nella doppiamente falsa ideologia e nella prassi del “diritto pubblico” ( dimensione della politica) e del “diritto privato” ( posto a base dell’eguaglianza formale dei cittadini e dei loro rapporti economici e non) vista la “dittatura” di fatto in cui è sboccato il modo di produzione capitalistico e la sua sottesa democrazia: la “dittatura” della maggioranza “improduttiva” sulla minoranza “produttiva” .” Dittatura” mascherata dal generalizzarsi del lavoro dipendente ; soggettivamente reso dovunque omologo dall’ideologia sottesa al cardine dell’ideologia tutta del capitalismo: che rende tutti falsamente socialmente “eguali” dietro la fable convenu dell’eguaglianza politica ( “una testa, un voto” ) che la fa da padrona come falsa dimensione del cambiamento sociale. Abbandonato alla logica della sua decadenza economica ergo sociale, il capitalismo sul piano logico affidando la gestione di tale dimensione a quella ipostatica della politica, alimenta l’aporia e la perdita progressiva di senso del tutto sociale di cui le cronache della “cultura” danno conto cogliendo lo “smarrimento” dei contemporanei. “Smarrimento” che è la versione tragicomica del “disincantamento” weberiano, in quanto fondato sul falso economico dell’eguaglianza indiscriminata di ogni persona, e su esso declinando l’eterno presente del il capitalismo che sopravvive a se stesso; però costretto a fare i conti con la legge di Duns Scoto: “ex falso sequitur quodlibet” , da cui può discendere di tutto tranne, se non per caso, la “verità”: nella circostanza, la esigenza della”Ragione” malamente simulata ed esiliata da quella sua degenerazione secolare che è la mera “ragione strumentale”.45 “Ragione” la cui epifania è sempre più remota . Non da ultimo a causa dell’erroneità dell’ingegneria sociale positivistica che voleva che il capitalismo morisse causa sui per mano dei “becchini”che esso stesso sarebbe stato tenuto a rendere maggioranza egemone, anche eticamente, della popolazione ( e quindi anche attraverso la via democratica del “cretinismo parlamentare”); e ciò a misura della insaziabilità della ricerca del profitto legato evidentemente all’estensione massima del proletariato confuso con il generalizzarsi del lavoro dipendente e del salario. Che una sciocca genia di esegeti “religiosi” ha elevato a rango di “lavoratore collettivo”, che non rappresenta che la quintessenza della contaminazione sansimoniana (positivista) e comprensibile dello stesso Marx . Ben al contrario, il capitalismo per sopravvivere a se stesso, insieme alla perdita di ogni progressività in termini di resa sociale della sua obiettiva capacità di suscitare progresso tecnico, ha finito per sperperare questa sua attitudine facendo dei “lavoratari improduttivi “ I veri “becchini” della sua democrazia: giocoforza legata alle performance dell’accumulazione del capitale,

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“ Ma con lo sviluppo dell’industria il proletariato non cresce soltanto di numero […] Gli interessi, le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si livellano sempre più, perché la macchina cancella sempre più le differenze del lavoro [ …] di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino. […] Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono egualmente inevitabili.”: K. Marx- F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, in AA.VV., Il Manifesto del Partito Comunista e i suoi interpreti, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp.38 e 41. Non è solo il linguaggio didascalico de “il Manifesto” del 1848 a rivelare una visione dicotomica delle classi nella dinamica storica del capitalismo. Nella sua formulazione della “legge della caduta tendenziale del saggio del profitto” ( p= 1 – c/c+v ) sono presenti solo capitalisti (c ) e lavoro salariato (v) implicitamente “produttivo”. 45

Non è un caso che il trionfo della ideologia ( “falsa coscienza”) si affidi e si affermi grazie alla più eclatante aporia logica : la proclamata “fine dell’ideologie. Proclamazione che si costituisce di per sé immediatamente come ideologia definitiva e finale. Sul piano della “cultura” il decretato imporsi del “pensiero debole”, con l’affermata “ fine della storia” e l’autobattesimo (mai un’epoca si è autodefinita) del sedicente “postmodernismo” costituiscono au fond sintomo inequivocabile di decadenza e deriva storico-sociale.

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fatalmente compromessa nel lungo periodo da questo tendenziale predominio della logica stagnazionista della riproduzione semplice. Svanita l’illusione - dinanzi al monstrum della stagflazione come esito finale delle sue “cure”-46 dell’utopia keynesiana , fondata sulla convinzione una crescita indefinita in assenza di crisi cicliche di sovrapproduzione assoluta finalmente domate (?). Utopia che nel breve periodo ha funzionato quanto più comprometteva la dinamica di lungo periodo, per essersi affidata ai miracoli meramente sintomatici del “moltiplicatore” la cui virtù terapeutica anticiclica comporta l’equiparazione tra consumo e investimenti . Il che ha comportato una cura da cavallo in termini di iniezione di lavoratori “improduttivi” e “consumo improduttivo” irreversibile in quanto connesso alla certezza della costanza della “piena occupazione”. Ravvedutosi delle cattive conseguenze dell’”era keynesiana”, dunque, Il capitalismo ha dovuto rimangiarsi tutte le “conquiste” ( dai piedi di argilla) della finalmente raggiunta promessa della “civiltà del lavoro” o “democrazia economica”. Tornando alle sue ciniche perché autentiche vesti del liberal-liberismo delle origini. La “caduta del muro di Berlino”- che ha infine disvelato l’altro falso storico del “socialismo realizzato” - ha poi trasformato questo salto all’indietro nella neobarbarie applicata al mondo del lavoro. La reazione all’interventismo statale nell’economia ha significato la rivincita del laissez-faire all’interno delle singole “cattedrali” capitalistiche e il rilancio del free trade sul mercato internazionale. Libertà di movimento dei capitali e delocalizzazione ( e conseguente deindustrializzazione in Madrepatria ) nei paesi “sottosviluppati” insieme al dominio delle multinazionali ha fatto da alibi alla logica “naturale” del libero mercato che deve convincere tutti dell’insostenibilità di salari e costi sociali non legittimati dal sacro fuoco in ogni dove della “salvifica” legge di libera concorrenza . Smantellamento progressivo del welfare state e precarietà temporale e legale del lavoro sono il succo di tutto ciò che passa come “prezzo necessario” della Globalizzazione e della sua ineluttabilità e “convenienza per tutti”: carattere e virtù del tutto infondate scientificamente;47 e circa la “convenienza” questa è palesemente confutata dal laboratorio della realtà.48 La “cura da cavallo” della Globalizzazione non ha funzionato. Non da ultimo perché si è ritenuto che la “legge dei tre settori “ suggerisse una specializzazione internazionale del lavoro ai paesi di più antica industrializzazione nel settore dei “servizi” e tale da passare questo antico connotato industriale(“anticaglia”). ai paesi “in via di sviluppo”, così anche per sempre bloccarli in costante subordinazione alla fase “intermedia” dello sviluppo capitalistico. A parte il conto salatissimo dell’assenza di una teoria delle crisi di sovrapproduzione assoluta - e quindi di una terapia in grado di evitarla e/o curarla - è evidente altresì lo scotto, collegato epistemologicamente al

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Sulla stag-flation e le sue implicazioni teoriche che hanno condotto alla “rivincita del mercato”, si rimanda a V. Orati, L’anomalia della stag-flation e la crisi dei paradigmi economici, Liguori, Napoli, 1984. E’ con imbarazzato e costernazione che apprendiamo da il “Domenicale” de <<Il Sole 24 Ore>> del 16 Gennaio 2011, p. 27 che il “foglio” rosa di Viale Dell’Astronomia, oltre un quarto di secolo dopo il lavoro appena citato, attendeva il parto della ricerca statunitense ( M.N. Luzzetti & E. Lee, The General Theory of Employment, Intersest and Money After 75 Years, Ohaniann, Dicembre, 2010) per accorgersi e segnalare anonimamente ( la fortuna della teoria) che è stata la stag-

flation a falsificare il paradigma keynesiano! Come rinforzare le nostre esportazioni con la dipendenza conclamata verso l’estero dell’intellighenzia che sta dietro al nostro mondo degli industriali? 47 Topos ricorrente, con precisione da orologio atomico, tra i propagandisti akkademici della Globalizzazione è la citazione “colta” della ascendenza ricardiana della teoria che la sostiene. Rivelatore del bluff scientifico di tanta prosopopea e di mancate letture dei “classici” è il fatto rilevante che è Ricardo stesso che evidenzia come la sua teoria del libero scambio convenga a tutti meno che ai salariati che non vedranno minimamente aumentare i loro salari di “sussistenza”. Evidentemente in presenza di differenze salariali e libertà di movimento dei capitali e parzialmente – quel tanto che basata per calmierare i salari all’interno delle “cittadelle” del capitalismo “maturo” – di “migranti”, oltre che delle merci, nel suo “modello” la precedenza notazione ricardiana implica un tendenziale assestarsi del” salario internazionale” intorno ai suoi valori minori. Su questo e altro sulla Globalizzazione si rimanda a V. Orati, Globalizzazione

scientificamente infondata, op. cit. e Idem, Le eresie logiche spacciate per verità rivelata : la fandonia dei

guadagni per tutti con il libero scambio, <<La Finanza>>, n.2, marzo-aprile, 2011 48

Vedi nota 22.

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vuoto teorico precedente, di una assenza di una teoria del lavoro “produttivo/improduttivo” per il capitalismo occidentale ( con Giappone incluso) e delle sue conseguenze pratiche. Che rendono la crisi conclamata della Globalizzazione priva di prospettive, al di fuori di una stagnazione più o meno permanente del processo di crescita economica. Crescita economica e dispiegarsi della democrazia di cui solo gli “ultimi soldati giapponesi” - attestati sull’”atollo” della compatibilità capitalismo/democrazia - possono imperterriti continuare a propagandare la sodale tenuta e salute. Ovvero, nel caso italiano, a difendere a parole una Costituzione sempre più costretta a registrare l’ampliarsi della forbice tra il suo contenuto formale e sostanziale in termini di “democrazia progressiva” e tale in nome della centralità del lavoro. “Astratto interminato” quest’ultimo sin quando non ispirato dal rilancio della Critica dell’Economia Politica e dal suo inverarsi in autentico progresso storico.

*********************************** Vittorangelo Orati. Ha insegnato in università italiane e straniere. Ha fondato: l’International Institute of Advanced Economic and Social Studies (IIAESS) e le International Schumpeter Lectures di cui è Editor (IIAESS & J. Hoipkins University). È nel comitato scientifico di prestigiose riviste internazionali ove sono presenti numerosi Premi Nobel. Con Klein e Solow, tra questi ultimi, è tra gli autori che hanno licenziato il primo dei quattro numeri speciali (v. anche, Paul Samuelson & the Foundation of Modern Economics, K. Puttaswamaiah, Editor, Transaction Publisher, New Brunswick, USA, London, UK, 2001) con cui l’«International Journal of Applied Economics and Econometrics» (IJAEE) ha inteso onorare P.A. Samuelson. Qui ha trovato analiticamente inconseguente quest’ultimo come interprete del suo maestro Schumpeter; contestandogli inoltre il carattere scientifico della Macroeconomia, formulando una alternativa teorica che sbocca nella Dynamic Discriminating Equation. Orati ha fornito l’unica spiegazione non confutata del paradosso della stag-flation con cui si sono cimentati i più blasonati economisti. Il recente libro Globalization Scientifically Unfounded, Special Issue dell’IJAEE, Bangalore e Roma 2003, gli ha permesso di criticare i fondamenti della secolare teoria ricardiana dei costi comparati. Tutt’ora architrave «scientifico» della Globalizzazione, di cui ha anche previsto la tendenziale implosione, formulando una teoria radicalmente nuova del Commercio Internazionale. Sono anche da segnalare: Una teoria della teoria economica, UTET, Torino, 1999 (2 voll.); Produzione di merci a mezzo lavoro, Liguori, Napoli, 1984; L’anomalia della stag-flation e la crisi dei paradigmi economici, Liguori, Napoli, 1984; Il (corto)circuito ovvero una moneta per l’economia, ISEDI, Torino,1992 (ove Orati risolve l’imbarazzante stallo che in materia monetaria affligge la teoria economica ufficiale: che non sa e non può risolvere il dilemma relativo alla natura «endogena» o «esogena» e al ruolo della quantità di moneta offerta nell’ ambito dell’alterna e ciclica dinamica capitalistica). Ha curato con S.B. Dahiya i tre volumi dell’opera Economic Theory in the Light of Schumpeter’s Scientific Heritage, Spellbound Pubblications, Rohtak, 2001. Qui, nel suo saggio d’apertura arricchisce la sua interpretazione del lascito scientifico di Schumpeter, anticipata in Il ciclo monofase. Saggio sugli esiti aporeteci della «dinamica» di J.A. Schumpeter, Liguori, Napoli, 1988, che mostra come la invalsa manieristica «lettura» dell’opera del grande economista moravo, pour cause, rappresenti uno dei sintomi dell’ormai cronico stato di crisi e di stallo della «scienza economica».