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1 La seconda accoglienza per richiedenti asilo nel territorio bolognese: lo studio di un Centro di Accoglienza Straordinaria Benedetta Gigante* Sessione 18 (a) - Il servizio sociale professionale al cospetto dell’utenza migrante: questioni organizzative, metodologiche e di prospettiva Paper for the IX ESPAnet Conference Welfare models and Varieties of Capitalism. The challenges to the socio- economic development in Italy and EuropeMacerata, 22-24 September 2016 *[email protected]

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La seconda accoglienza per richiedenti asilo nel territorio

bolognese:

lo studio di un Centro di Accoglienza Straordinaria

Benedetta Gigante*

Sessione 18 (a) - Il servizio sociale professionale al cospetto dell’utenza

migrante: questioni organizzative, metodologiche e di prospettiva

Paper for the IX ESPAnet Conference

“Welfare models and Varieties of Capitalism. The challenges to the socio-

economic development in Italy and Europe”

Macerata, 22-24 September 2016

*[email protected]

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1.1 Introduzione al caso studio

Questo paper cerca di descrivere la quotidianetà di un Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) per

richiedenti protezione internazionale situato a Bologna. Questa struttura, il Centro “Zaccarelli”, è

stata aperta il 15 aprile 2015 nell’ambito della cosiddetta “emergenza sbarchi”, con assegnazione

diretta della Prefettura nel giro di 48 ore, perché era una situazione di emergenza visto il “flusso non

programmato”1 di migranti arrivati nel nostro Paese.

Il lavoro è frutto della ricerca svolta come tirocinante, da luglio ad ottobre 2015, quando il mio ruolo

all’interno della struttura è stato quello di affiancare gli operatori. In particolare affiancavo

l’operatrice che si occupava della parte sanitaria e di accompagnare gli ospiti a visite mediche

specialistiche, e questo è stato anche un modo per avere un dialogo diretto con loro. Successivamente

sono diventata operatrice all’interno dello stesso Centro “Zaccarelli” ed ora mi occupo del percorso

legale degli ospiti. Le mie riflessioni sono il risultato di momenti e punti di vista diversi, prima come

tirocinante ed ora come operatrice.

La struttura presa in esame è gestita tramite convenzione tra Prefettura ed ente gestore. L’ex

coordinatrice del Centro racconta il suo arrivo in struttura, un mese dopo l’apertura: “Quando si apre

un centro così velocemente, si parte da zero. Le prime pratiche sono state accogliere le persone, dire

dove si trovavano, far firmare il modulo di registrazione e il regolamento di struttura”.

Il Centro è gestito da un’equipe formata da vari operatori, una coordinatrice operativa di struttura e

una coordinatrice tecnica. L’organizzazione delle diverse aree è ripartita tra gli operatori ed ognuno

si occupa di un settore ben preciso: sanitario, legale, scuole di italiano, formazione e volontariato.

Inoltre ogni operatore diurno è referente di un gruppo di ospiti, suddivisione basata sulle conoscenze

linguistiche degli operatori. La divisione di compiti e l’organizzazione di tutte le attività sono

coordinate dalla coordinatrice di struttura, supervisionata dalla coordinatrice tecnica. Alcuni

operatori hanno esperienze precedenti nel sociale, infatti lavoravano con i senza fissa dimora nella

struttura quando questa era un dormitorio. Quasi tutti hanno cominciato a lavorare nel settore

dell’accoglienza migranti quando ha aperto la struttura: è per così dire un’equipe “giovane” nel

settore. Tutta l’equipe si riunisce settimanalmente per fare il punto della situazione di eventuali

problemi riscontrati, per confrontarsi su proposte o parlare di qualche ospite che ha necessità

particolari.

1 Termine tecnico del Ministero dell’Interno per indicare un incremento di arrivi di migranti sulle coste italiane

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I servizi offerti dalla struttura sono vitto e alloggio, assistenza sanitaria, l’accompagnamento a visite

specialistiche e corsi di italiano. Gli ospiti hanno inoltre diritto al pocket money mensile, alla

distribuzione del kit igiene e del vestiario 2 . L’assistenza legale invece è delegata a un’equipe

specifica, esterna allo staff del Centro, che spesso si avvale di mediatori. Nei primi giorni

dall’apertura della struttura l’equipe legale ha dovuto occuparsi della compilazione del modello C33,

si occupa principalmente di assistere gli ospiti nella redazione delle loro memorie che verranno

presentate durante il colloquio presso la Commissione territoriale per il riconoscimento della

protezione internazionale.

Il Centro “Zaccarelli” accoglie cinquantaquattro richiedenti asilo, tutti uomini, attualmente

provenienti da Pakistan, Costa d’Avorio, Senegal, Ghana, Nigeria, Gambia, Mali ed hanno un’età

compresa tra i 18 e i 40 anni. La grande maggioranza di loro ha percorso la rotta del Mediterraneo

Centrale, ovvero quella che ha origine dall’Africa Occidentale, passando per la Libia e che, con

barconi di fortuna, ha fine con lo sbarco sulle coste europee. Molti di loro hanno passato in Libia

qualche anno lavorando, prima di partire per l’Europa. Citando un ospite: “Io ero andato in Libia a

lavorare per mandare i soldi alla mia famiglia. Poi è scoppiata la guerra4 ed è diventato un Paese

insicuro. Sono venuto in Italia perché qui c’è la securité”. La Libia, soprattutto per i Paesi dell’Africa

Occidentale, rappresenta, o meglio rappresentava una meta lavorativa, adesso è diventato soltanto un

Paese di transito dove l’immigrazione non è ben accetta, in special modo quella dall’Africa nera5.

Buona parte degli ospiti, come la maggior parte di migranti che attraversa la rotta centrale, è stata

imprigionata nelle carceri libiche6, riuscendo poi a uscire su cauzione o a scappare.

Ognuno di loro prima di arrivare al Centro Zaccarelli ha passato almeno qualche giorno all’hub

regionale dell’Emilia-Romagna7, dove arrivano i migranti direttamente da sbarco o trasferiti da altre

regioni. Dall’hub regionale i migranti vengono trasferiti in strutture di seconda accoglienza della

Regione, dove vengono accolti durante il loro iter di domanda di asilo che, secondo la legge, dovrebbe

essere un tempo limitato di sei mesi8 che nella realtà può variare, fino a 12 mesi circa. Di solito si

cerca di trasferire insieme gruppi che hanno condiviso il viaggio sul barcone, secondo l’intenzione

2 I servizi offerti sono determinati dalla convenzione tra Prefettura ed ente gestore 3 Il C3 è il documento in cui si richiede la protezione internazionale in Italia 4 Guerra civile in Libia nel 2011 e successivo intervento della coalizione Onu 5 “La Libia nel sistema migratorio mediterraneo. Dinamiche di mobilità e risposte politiche”, F. Pastore e L. Trinchieri, in Mondi Migranti n.2/2008 6 Favilli, 2011 7 A Bologna l’ex CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) nel luglio 2014 è stato riconvertito in Centro di primissima accoglienza e oggi funge da nodo di smistamento per l’Emilia-Romagna per i migranti in arrivo che poi vengono trasferiti in strutture di seconda accoglienza. Per maggiori informazioni si legga l’articolo: http://www.radiocittadelcapo.it/archives/come-funziona-hub-regionale-via-mattei-144923/ 8 D.Lgs. 142/2015

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delle cooperative che gestiscono l’accoglienza bolognese: “noi teniamo conto dei rapporti di amicizia

e parentela.”9 Alcuni di loro si chiamano “fratello” per sottolineare il fatto che la condivisione di

esperienze li ha fatti unire così tanto da diventare quasi una famiglia: “lui è mio figlio”, riferisce un

ospite indicando un altro più giovane di lui.

Quando sono entrati in struttura gli ospiti hanno dovuto firmare un contratto con l’ente gestore10, in

cui sono esplicitate le regole di convivenza, necessarie per far convivere tante persone, diverse per

provenienze, storie e culture. Nel contratto è disciplinato l’uso degli spazi e degli oggetti in comune,

le norme comportamentali come gli orari da rispettare, per esempio l’orario entro cui devono essere

presenti nelle ore notturne. L’assenza non comunicata allo staff per più di settantadue ore comporta

la caduta del diritto all’accoglienza, le assenze vengono controllate quotidianamente dagli operatori

nei turni notturni, per poi essere segnalate alla Prefettura. Esiste una “sanzione” per il mancato rispetto

del contratto: è il richiamo scritto, che avviene per una grave mancanza di rispetto delle regole da

parte di un utente, dopo una consultazione dell’equipe che decide di comune accordo. Al terzo

richiamo viene meno il diritto di usufruire dell’accoglienza, quindi l’ospite deve lasciare la struttura.

A volte accade che l’equipe decida di assegnare lettere di richiamo, anche se si cerca sempre di evitare

di ricorrere a questo mezzo per il bene degli ospiti, viste le conseguenze che i richiami comportano.

Come scritto da Pannarale nel suo studio sui CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo)

pugliesi “A testimonianza del suo ruolo prevalentemente “umanitario”, l’ente gestore non ha in

nessun caso prerogative di natura sanzionatoria”.11 Infatti in alcuni casi è stato possibile risolvere

tramite colloqui personali tra l’ospite e l’operatore di riferimento: questo è il caso di un ragazzo che

spesso usava tornare in struttura dopo l’orario permesso, nonostante le chiamate al telefono degli

operatori notturni. Così l’operatore di riferimento è dovuto intervenire e parlare col ragazzo per

ribadire l’importanza del rispetto delle regole in casi di convivenza come questo.

Dunque le regole scritte nel contratto che servono a disciplinare la vita quotidiana del Centro sono

molteplici. Ciò è dovuto sia a un motivo di organizzazione, al fine di evitare un’anarchia difficile da

gestire in una comunità e sia per ribadire la logica di base dei campi “care, cure and control”, ovvero

in un centro di accoglienza ci si prende cura delle persone, ma si effettua anche un controllo sulle loro

vite (Agier, 2009, p.28).

9 http://wp.coopcamelot.org/emilia-romagna-modello-di-accoglienza-video/ 10 Il regolamento e il contratto relativi alla struttura sono redatti dalla Prefettura insieme agli enti del Terzo settore che si occupano dell’accoglienza. 11 Pannarale, “Passaggi di frontiera. Osservatorio sulla detenzione amministrativa degli immigrati e l’accoglienza dei richiedenti asilo in Puglia”, Ed. Pacini, 2014

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1.2 Via del Lazzaretto, un non luogo

Per comprendere meglio il punto di vista di chi vive il Centro Zaccarelli, ospiti e operatori, si deve

contestualizzare il territorio in cui si trova. La struttura è situata in via del Lazzaretto 15, a circa

quattro km dal centro di Bologna. La distanza non è molta, ma quando ci si arriva, si capisce che oltre

la reale distanza geografica, c’è anche una distanza sociale che separa via del Lazzaretto con il resto

della città. La prima volta ci si perde, una disavventura che capita comunemente, poiché cercando su

Google maps è possibile confondersi dato che il numero 15 su Internet non corrisponde al punto dove

realmente si trova. A conferma di ciò, i fornitori del Centro di solito vengono guidati telefonicamente

dagli operatori in struttura per avere indicazioni su come arrivarvi.

Fino a qualche mese fa, venendo a piedi o in bici come gli ospiti del Centro, bisognava attraversare

un sottopasso. Attualmente il Comune di Bologna sta effettuando dei lavori per costruire il cosiddetto

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“People mover”12, un mezzo che permetterebbe di raggiungere l’aereoporto di Bologna direttamente

dalla stazione centrale dei treni. I lavori in corso hanno causato la chiusura del passaggio e non ne è

stato creato uno nuovo: ora gli stessi abitanti del Lazzaretto stanno usando un passaggio non

propriamente legittimo, che passa sui binari ferroviari, con tutti i pericoli che ciò comporta. Dall’altra

parte della strada è situata una delle sedi della Facoltà di Ingegneria e il vecchio deposito dei treni,

ma attorno non c’è nient’altro. La collocazione dell’area in questione influisce di certo anche sul

disagio delle persone che la vivono, soprattutto dopo che i lavori per il “people mover” hanno bloccato

il passaggio più usato. Difatti il percorso che bisogna fare a piedi diventa più lungo e l’area non è

neanche ben servita da mezzi pubblici. Il riferimento alle parole di Bauman viene naturale: “i rifugiati

vengono catapultati in un niente” (Bauman, 2004, p.189).

L’area di via del Lazzaretto è una realtà complessa: oltre ad essere situata in una zona periferica di

Bologna, ospita accoglienze eterogenee: i beneficiari provengono da percorsi differenti e la

convivenza non risulta sempre semplice. Al numero 15 di via del Lazzaretto, alla porta accanto del

CAS oggetto del mio studio, c’è un dormitorio per persone senza fissa dimora, i quali utenti

usufruiscono di un posto letto e dei servizi igienici; una cooperative locale gestisce il servizio.

Sempre al numero 15 di via del Lazzaretto, ma nel cancello adiacente, vi sono dei container che

ospitano nuclei familiari rom e persone senza fissa dimora, ugualmente gestiti da cooperative locali.

Di fronte al Centro Zaccarelli è ubicato il complesso di via del Lazzaretto 11-13, formato da

appartamenti “di servizio” o “di transizione”, abitati da famiglie straniere e adulti, dei quali qualcuno

proveniente da percorsi del vecchio servizio immigrati del Comune, alcuni uscenti da progetti SPRAR

(Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati13), altri da alloggi abitativi per stranieri. Questi

appartamenti appartengono al Comune, ma sono gestiti da Asp-Città di Bologna14. Inoltre vi è un

Centro Sprar i cui beneficiari sono richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale.

Spesso gli ospiti si sono confrontati con gli utenti del dormitorio di fianco, che coinvolgono nelle loro

liti o problemi gli operatori e gli ospiti stessi del CAS. Gli ospiti, il più delle volte, non si sono

immischiati nelle loro vicende, anzi si sono comportati come a “difendere” quella che per loro è casa

e quindi hanno rimandato indietro gli utenti del dormitorio. Anche gli operatori, non sapendo dare

loro soluzioni ai loro problemi o non volendo intromettersi in questioni che non li competono hanno

cercato, sempre con il dialogo, di rimandare gli utenti al personale di riferimento. In questo lavoro, e

12 http://bologna.repubblica.it/cronaca/2016/07/10/news/piloni_alti_fino_a_18_metri_ecco_il_people_mover-143765558/ 13 Sistema di accoglienza nazionale per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, esistente dal 2002. http://www.sprar.it 14 http://www.aspbologna.it/

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specialmente in questo contesto, è richiesta una grande opera di mediazione e di dialogo con e tra le

persone. In aggiunta, vi sono le persone che abitano nei container dietro la struttura, quindi famiglie

rom e altre persone senza fissa dimora. Più volte si sono create diatribe tra loro e gli ospiti dello

Zaccarelli, gli uni accusavano gli altri di piccoli furti o di fare troppo chiasso oppure è capitato che

alcuni abitanti dei container volessero venire in struttura per il servizio doccia e gli ospiti li

guardavano come estranei in “casa loro”. E’ interessante notare come gli ospiti percepiscono la

struttura, la considerano come la loro abitazione, seppur temporanea e nonostante il contesto non li

porti ad essere liberi come a casa loro. Per loro il Centro rappresenta anche altro, un luogo dove

elaborare il loro vissuto e dove cominciare a ri-immaginare la propria vita, il loro futuro, un posto

dove dovranno costruirsi un percorso di integrazione.

L’integrazione passa anche dalla conoscenza della lingua e del territorio di inserimento, ma molti

ospiti del Centro non conoscono ancora bene la città e preferiscono passare il loro tempo all’interno

della struttura. Una volta un ragazzo mi chiese persino come arrivare in Piazza Maggiore, la piazza

principale di Bologna. In alcuni questo è segno di un disagio più profondo: “Non voglio uscire, italiani

razzisti. Non piace loro persona nera.” Come a dire che via del Lazzaretto sia un’isola felice perché

avere la pelle scura non è un problema, visto che attorno ce ne sono altri. Gli ospiti sembrano ancora

perplessi sul fatto che gli italiani li possano accettare, un ospite a riguardo mi disse “Appena arrivato

in Italia avevo barba lunga e qualcuno mi disse Tu Boko Haram allora io ho dovuto tagliare la

barba!”. Alcuni si sono iscritti a laboratori di teatro, entusiasti: due di loro mi hanno raccontato di

aver conosciuto ragazzi italiani, con cui poter parlare ed esercitarsi con l’italiano. Per altri l’unica

forma di interazione con il territorio rimane il luogo religioso di riferimento, la moschea o la chiesa.

Dalle parole dell’ex coordinatrice di struttura emerge che: “Essere in tanti può aiutare, può aiutare le

persone ad aiutarsi tra di loro. Senza mettere dell’oro sul ghetto, perché resta un ghetto, c’è troppa

alta concentrazione di persone in difficoltà. Però siamo nel quartiere Navile, dove c’è un alto tasso di

immigrazione da sempre, se loro girano possono sentirsi a loro agio, perché vedono qualcosa che può

rassomigliare alla loro presenza qui. Magari invece se sei in un contesto dove sei l’unico con la pelle

di un altro colore, è più difficile.” Proprio quello che esprimeva l’ospite citato precedentemente, il

contesto influenza determina la vita delle persone.

Inoltre i referenti degli enti che gestiscono le strutture del cosiddetto “quadrilatero del Lazzaretto”

(dal numero 11 al 15), stanno costruendo una rete di collaborazione, un dialogo per organizzare

attività di “vicinato”, che portino prima di tutto a conoscere le persone che vi abitano tra loro.

L’obiettivo è quello di costruire un canale di dialogo con i vicini che potrebbe avere risvolti positivi

per “rilanciare” l’area del Lazzaretto, inventare e costruire qualcosa per trasformare e riqualificare

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questo posto in un polo di attrazione, come si augura la coordinatrice: “Quello che sarebbe bello è

trasformarlo in un polo di attrazione piuttosto che di dimenticanza”. Durante il mio periodo di lavoro

finora ho vissuto due di feste di vicinato, che sono state vere e proprie occasioni per conoscere le

persone che abitano nella “porta accanto”. La prima è stata la festa di fine Ramadan, a cui hanno

partecipato buona parte degli abitanti del Lazzaretto, nonostante in origine fosse una festa religiosa.

Il risultato finale fu che le persone si mischiarono tra loro durante il banchetto, portando ognuno una

pietanza diversa e rivelandosi come occasione di arricchimento reciproco. Il secondo evento fu

“ZacBaum!”, un progetto nato dalla collaborazione di vari attori, in primis l’ex coordinatrice di

struttura, che racconta: “Quando ho visto che per arrivare in via del Lazzaretto vi era un sotto

passaggio su cui vi erano disegnate delle svastiche, ho pensato subito che non fosse accettabile. Così

parlando con l’allora vice prefetto venne fuori l’idea di ricoprirle attraverso un progetto che potesse

coinvolgere gli ospiti del centro. Da lì il progetto si è articolato man mano coinvolgendo gli insegnanti

di italiano del Centro, i quali hanno dedicato parte del loro corso a mettere giù delle idee con gli

ospiti, il collettivo BAUM (Bolognina Arti Urbane in Movimento) che si è proposto volenteroso, Fx,

un artista che venne appositamente da fuori città per ridipingere il muro insieme ai ragazzi a titolo

completamente gratuito, e poi tutto il contesto attorno, fino al Quartiere Navile. Ho percepito un

contesto attorno recettivo e questo si è potuto realizzare proprio perché eravamo qui, in via del

Lazzaretto”. Anche in quest’occasione si coinvolsero tutti i vicini del Lazzaretto, allargando l’invito

al quartiere e all’intera cittadinanza. Un’opportunità importante per cercare di far conoscere realtà

come questa ai cittadini bolognesi, i quali probabilmente non ne sarebbero venuti a conoscenza in

altro modo. Il progetto si concluse con un dibattito in cui intervenne un antropologo, a titolo gratuito

anche lui, e una festa finale. Gli abitanti del Lazzaretto furono uniti per un giorno in cui sembrava

che via del Lazzaretto fosse un luogo di festa e non il “ghetto di Bologna”.

Come descritto, via del Lazzaretto presenta una molteplicità di strutture di accoglienza che danno

origine a un’utenza altrettanto differente, ma accomunate da situazioni di disagio, tanto che qualcuno

lo chiama il “ghetto”. La condizione di soggetti come richiedenti asilo e beneficiari di protezione

internazionale è già relegata a uno stato di limbo, di esclusione di diritti, in questo contesto si accentua

il loro malessere. Un operatore una volta mi confidò la sua preoccupazione “Sembra che li abbiano

messi tutti qua, profughi, rom, senza tetto…” e poi ancora “Loro (gli ospiti del Centro Zaccarelli)

come fanno a integrarsi se vivono una realtà del genere?”. Difatti la mia considerazione è stata la

medesima, cioè il fatto che relazionarsi con altre persone che sono a loro volta in una condizione di

disagio probabilmente non può portare al suo superamento. Lo scopo finale dell’accoglienza è

l’integrazione dell’utente nel territorio locale, ma in un contesto come quello del Lazzaretto rimane

difficile venire a contatto con il resto del territorio.

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Rahola definirebbe via del Lazzaretto come luogo di “umanità in eccesso”, cioè si ha la “volontà di

presidiare confini di status, cultura, civiltà, percepiti come minacciati e nel farlo si elimina ogni

elemento, appunto, in eccesso” (Rahola, 2003, p.31). In conclusione il “quadrilatero del Lazzaretto”,

si può dire che sia un non-luogo15, nel senso che è uno spazio costituito in rapporto a certi fini (in

questo caso “accogliere”) e il rapporto che gli individui intrattengono con quegli spazi è sospeso dal

tempo.

1.3 “O tutti o nessuno”

Come si è già notato, la vita di un centro di accoglienza, questo come in altri, è scandita da regole di

comportamento per qualsiasi attività quotidiana degli utenti, dagli orari dei pasti e indirettamente

anche l’igiene personale. Questa scansione delle attività in tempi ben precisi ricorda le parole di

Goffman a proposito delle istituzioni totali:

“Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa e unica autorità.

Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di

persone, trattate tutto allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse

fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito che le porta

dall’una all’altra, dato che il complesso di attività è imposto dall’alto da un sistema di regole formali

esplicite e da un corpo di addetti alla loro esecuzione” (Goffman, p. 35-36, 2003)

Le istituzioni globali sono delle istituzioni sociali che tendono a inglobare ogni aspetto della vita della

persona. Leggendo questo passaggio dell’opera di Goffman, il riferimento a un centro di accoglienza

viene naturale, sebbene non possa definirsi propriamente un’istituzione totale. Nella realtà dei fatti

tutte le attività si svolgono nello stesso luogo, Goffman scrive che esistono tre sfere principale nella

vita dell’uomo, dormire, lavorare e divertirsi e queste tre sfere normalmente si realizzano in luoghi

diversi e con persone diverse. Il paragone con gli ospiti del Centro forse non può calzare

perfettamente, ma comunque passano gran parte del loro tempo nello stesso luogo: mangiano,

dormono e si intrattengono sempre all’interno della struttura, spesso anche nella stessa stanza. Il

secondo punto coincide: in un Centro con cinquantaquattro persone per forza di cose ogni attività è a

stretto contatto con il resto della collettività, mangiare, dormire tutti insieme, con tutte le conseguenze

che questo comporta. In questo caso lo stare a contatto sempre con tante persone e sempre con le

stesse, porta all’esasperazione: “Non mi piace condividere la stanza con tutti, vorrei un po’ di

privacy”, sono le parole di un ospite. A volte l’esasperazione può portare a scontri diretti tra gli ospiti

15 Augé, Nonluoghi, 2009

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come quando un ragazzo litigò con i suoi compagni di stanza perché, in un caldo giorno d’estate, non

gli permettevano di girare il ventilatore verso di sè, per cui lo prese con forza e lo ruppe. Sempre

all’interno della stessa camera, può capitare che ci siano persone di differente nazionalità e con

diverse usanze e modi di fare. Un episodio che rappresenta bene il disagio di una convivenza forzata

fu quando un ragazzo venne in ufficio quasi piangendo, lamentandosi di una situazione in stanza

insostenibile perché alcuni suoi compagni non avevano rispetto degli altri, accendendo la musica a

tutto volume durante le ore notturne, svegliando gli altri nella stanza. “Sono tutti trattati allo stesso

modo” scrive Goffman: nel Centro vige il principio “O tutti o nessuno”, nel senso che non si possono

fare preferenze e bisogna offrire a tutti gli stessi aiuti, le stesse opportunità, altrimenti si rischia di

creare scontento che a sua volta può portare a un clima di instabilità. Mi è capitato che, mentre ero di

turno in struttura, non ci fossero abbastanza kit igiene per tutti, così l’operatore che era con me disse

che era meglio non distribuirlo a nessuno, “Se non ci sono kit igiene per tutti, allora non possiamo

distribuirli a nessuno. Non possiamo fare eccezioni perché se lo fai per uno lo devi fare per tutti” si

raccomandò un operatore.

A tal riguardo bisogna premettere che questa omologazione dell’utenza è avvalorata nel momento in

cui c’è una nazionalità preponderante. Infatti nel Centro Zaccarelli ci sono venticinque persone di

nazionalità pakistana, circa la metà dell’intero gruppo, mentre il resto degli ospiti proviene da Paesi

dell’Africa Occidentale. Questa divisione etnica porta costantemente a dispute tra i due gruppi,

nonostante gli sforzi da parte dell’equipe di favorire il dialogo e l’integrazione tra le due parti, anche

con l’atteggiamento del “Per noi (operatori) siete tutti uguali”. Effettivamente nel caso dello

Zaccarelli, quello che Harrell-Bond chiama “aiuto standardizzato”16, cioè soddisfare i bisogni delle

persone meccanicamente, considerarli come un unicum senza l’individualità di ognuno, qui sembra

che sia piuttosto un’esigenza gestionale, in modo che nessuno rimanga scontento del trattamento

diverso che l’altro riceve (l’altro qui inteso come pakistano o africano). E’ tenendo a mente la

questione dei due gruppi che lo staff lavora, non dimenticando mai di non far trasparire preferenze o

attuare favoritismi. Ricordo un episodio accaduto all’inizio del mio periodo di ricerca, quando ancora

non avevo avuto modo di rendermi conto di questo conflitto. Ero di turno con un operatore e per quel

giorno dovevamo occuparci della distribuzione dei vestiti, facendo entrare quattro persone alla volta

per la consegna del vestiario. Caso ha voluto che entrò per primo un gruppetto di ospiti africani e

subito dopo aspettavano il loro turno un gruppo di pakistani, che una volta entrati, dopo un’occhiata

veloce ai vestiti, esclamarono che avevamo dato i vestiti migliori ai “black people” e “you prefer

Africans!”. Cercammo di spiegare anche in quel caso che lo staff non faceva preferenze, era solo

16 Harrell-Bond, L’esperienza dei rifugiati come beneficiari di aiuto, 2005.

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capitato che non c’era molta scelta di vestiti e che il giorno seguente sarebbe arrivato un altro ordine

di vestiti, ma un ragazzo rimase diffidente davanti a quell’affermazione “Tomorrow, always

tomorrow!”, pensando probabilmente che quel domani non sarebbe mai arrivato, insieme ai suoi

vestiti. In fin dei conti procurare vestiti è un atto in più che si fa verso di loro, perché la convenzione

che regge il Centro obbliga il gestore all’assistenza sanitaria e legale e un kit di vestiti iniziale, se gli

ospiti ne vogliono altri non sarebbe compito dello staff procurarglieli, mi spiegò l’operatore.

L’episodio è esplicativo della diffidenza che un gruppo di utenti pakistani provava verso lo staff:

secondo loro gli operatori usavano fare preferenze e favoritismi verso gli ospiti africani. Quanto

accaduto venne riportato nella seguente riunione settimanale dell’equipe, si ribadì che gli operatori

devono comportarsi ugualmente con tutti e se c’è questo sentimento di diffidenza verso di loro vuol

dire che forse gli operatori non hanno lavorato bene. Qualcosa di vero c’è, nel senso che gli operatori

dialogano meno con i pakistani per il semplice fatto che molti di loro parlano solo urdu e solo un

operatore del Centro parla la loro stessa lingua. Infatti nell’episodio riportato sopra era uno di loro

che parlava inglese a mediare tra noi e loro, mentre con i ragazzi africani si può parlare tramite lingue

veicolari come inglese e francese. Dunque l’ostacolo della lingua ha creato un muro di diffidenza,

irrigidendo alcuni ospiti sulla loro posizione. La coordinatrice spiegò agli operatori che il concetto

che deve arrivare agli ospiti, non è tanto quello di regola in quanto tale, quanto norma di convivenza,

come qualcosa che indichi anche il rispetto dell’altro, prima di tutto per il benessere degli ospiti.

“Dobbiamo trasmettergli che ci preoccupiamo per loro, che le regole sono per il loro bene, dobbiamo

parlargli con passione e non con compassione!”. Di solito, da quanto risulta scritto da Van Aken sui

centri di accoglienza a Milano e che può valere anche in questo caso, alla base dei centri c’è un intento

educativo, il personale che vi lavora cerca di preparare i richiedenti asilo al nuovo contesto sociale

che li accoglie e quindi dare delle raccomandazioni per quando il loro percorso sarà finito e dovranno

affrontare da soli la realtà locale.

Van Aken aggiunge poi che nelle politiche di accoglienza le categorie o le etichette prendono il posto

delle storie, cioè i richiedenti asilo diventano persone appartententi ad una specifica categoria, di

genere, di nazionalità, di etnica. Il processo di etichettamento e auto-etichettamento che teorizza

Zetter17 trova qui la sua applicazione: gli ospiti abbandonano la vecchia identità per acquisirne una

nuova, le persone accolte sono i “pakistani”, gli “africani”, non sono più i singoli individui. A

conferma di ciò, un ospite usa chiamare un altro “Malien”, indicando la nazionalità piuttosto che il

nome vero oppure un altro “africano” rivolgendosi al gruppo di pakistani con “Pakistan”,

indistintamente da chi sia, per lui tutti i pakistani hanno quello stesso appellativo, giustificandosi con

17 Zetter, “More labels, fewer refugees”, 2007, p.172-192

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il fatto che “Nomi pakistani troppo difficili”. Un altro esempio è un ospite che tutti gli altri all’interno

del Centro chiamano “bambino”, perché più gracile degli altri, ma in pochi sanno come si chiama

realmente. Interessante notare come gli ospiti della struttura si chiamano tra loro, in un processo di

etichettamento incosciente: oltre alla nazionalità, alcuni si sono dati dei soprannomi o dei nuovi nomi,

come a significare una nuova vita e marcare la distanza con la vita precedente. Altri invece si

chiamano l’un l’altro con il nome e cognome, ribadendo la propria identità.

E’ difficile far convivere in così poco spazio tante persone diverse tra loro, nonostante le camere

siano divise per nazionalità. Il personale aveva provato a mischiare i due gruppi per i turni di pulizia,

ma non ha funzionato. Difatti gli ospiti comunque tendono a intrattenersi, a mangiare, parlare sempre

all’interno del gruppo della loro nazionalità, forse anche perché condividendo la stessa stanza si è

rafforzata l’unione tra loro. L’equipe, come già detto precedentemente, ha fatto dei tentativi per

mediare e per unire i gruppi, ma rimane già difficile spiegare e far conoscere loro la cultura italiana,

per di più riuscire a far convivere due culture così distanti. Uno dei tentativi messi in atto dall’equipe

fu l’organizzazione della prima festa di fine Ramadan, visto che la maggioranza degli ospiti è

musulmana. Per un giorno, i ragazzi hanno ballato, mangiato e festeggiato insieme, ma il giorno dopo

era di nuovo tutto come prima. Un operatore commenta “Io dall’inizio ho provato a parlare con

entrambe le parti, cercavo di farli dialogare tra loro, ma sia da una parte che dall’altra mi sono sentito

dire “sei una testa dura”, perché non volevano ascoltarmi e non volevano ascoltarsi tra di loro”. L’ex

responsabile di struttura a tal proposito aggiunge “Quando sono arrivata qui avevano proposto bagni

separati, uno per i pakistani e uno per gli africani, sono rimasta di stucco, impossibile! All’inizio

questo fu sicuramente una questione centrale e se non si possiedono la capacità di comunicare e

dialogare con gli ospiti potenzialmente può diventare un problema. E’ vero che ci sono delle

differenze culturali, dall’utilizzo del bagno al tipo di musica che ascoltano, ma credo si possa riuscire

a farle dialogare tra loro, questo può essere visto anche come punto di forza. Alla fine bisogna fare

molta attenzione a fare le cose pesandole bene.”

Anche se rimangono ancora degli ospiti diffidenti da una parte e dall’altra, con il passare del tempo

ho notato una certa apertura da entrambe le parti, un’immagine che credo racchiuda meglio questo

cambiamento è quando un pakistano una volta abbracciò un africano e lo bacia sulla guancia, dopo

che quest’ultimo gli aveva passato un pasto. Questo risultato è stato raggiunto forse dalla

rassegnazione di dover comunque condividere gli stessi spazi e lo stesso destino, o per una maggior

conoscenza dell’altro, di certo ha contribuito molto anche il lavoro dell’equipe, che ha sempre cercato

di mettere insieme le due parti. Dopo un anno di convivenza, gli ospiti appaiono come un solo gruppo:

il secondo Ramadan vissuto insieme ha unito i due gruppi nella preghiera, inoltre attualmente

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entrambi i gruppi si definiscono un’unica famiglia, “Il problema di uno è un problema di tutti. Non

ci sono Pakistani o africani, siamo tutti uguali” riferiscono più ospiti.

1.4 “L’uomo è ciò che mangia”

Questa espressione di Feurbach vuol significare che il cibo è un elemento identitario della vita

dell’uomo, specialmente dell’identità di una cultura di un popolo. A maggior ragione per i migranti,

il cibo è un simbolo di attaccamento alla patria ed è importante sentirsi aggrappati a qualcosa che ha

il sapore di casa. Nel Centro Zaccarelli il cibo è stato ed è tuttora una questione centrale: le critiche

poste sono che i pasti distribuiti non sono di buona qualità, non sono conditi e la quantità è poca. Dal

primo momento che sono entrata in struttura gli ospiti si lamentavano dei pasti, “Troppa pasta” mi

disse uno, “Pasta no buona, riso buono”. In questa situazione il malessere ha unito tutti, africani e

pakistani, abituati entrambi ad altri tipi di cucina. Spesso mi è capitato di vedere che i ragazzi non

mangiassero o buttassero il pasto, “Non voglio mangiare, sono stanco di questo cibo che non è buono,

non mangio”, frase ripetutami più volte da vari ospiti. Tali proteste sfociarono un giorno in uno

sciopero della fame, organizzato da gruppo consistente di ospiti, stufi di pasti non soddisfacenti che

cercarono di impedire la consegna dei pasti. Dopo questa manifestazione nella successiva riunione

settimanale l’equipe riuscì ad introdurre nel menù la carne halal,18 cibi più sostanziosi, ricchi di

condimento e più abbondanti. Nell’immediato ci fu un miglioramento, che però fu temporaneo. A

questo punto anche gli stessi operatori erano demotivati e si sentivano impotenti, tanto che un

operatore sfogandosi disse “Ho paura quando arriva il momento dei pasti, non voglio esserci. Tutti

vengono a lamentarsi e se la prendono con me e io non so che fare. Mi sento impotente”. Una

considerazione emblematica di un ragazzo “Se mangiamo male, staremo sempre male”: qui non è

solo una questione di alimentazione, ma è una questione più ampia. Se non si riesce a soddisfare un

bisogno primario come il mangiare bene, anche a livello psicologico si sta male, è un malessere

interiore. Harell-Bond nel suo lavoro descrive l’inutilità dell’aiuto quando non è adeguato o

appropriato al bisogno dei rifugiati: nel caso del cibo, se è distribuito un alimento a loro sconosciuto

o che non fa parte della loro cultura, loro non sapranno come mangiarlo o comunque non lo

apprezzeranno, come ad esempio in questo caso la pasta è un alimento prettamente italiano, “Il cibo

nei campi non solo è troppo poco per garantire la sopravvivenza, ma è spesso anche poco

conosciuto”.19 Difatti, anche se l’obiettivo finale dell’accoglienza è l’integrazione con la nuova

18 Un tipo di carne che segue un procedimento di macellazione permesso dalla religione islamica 19 Harrell-Bond, “L’esperienza dei rifugiati come beneficiari di aiuto”, in Antropologia n.5/2005

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cultura, nel frattempo un aiuto offerto in questo modo non fa altro che aumentare il malcontento degli

ospiti, non migliorandone la condizione. Qui entra in gioco anche la relazione tra utenti e operatori, i

quali comunque si preoccupano: “Se il cibo non può cambiare come si fa a mandare avanti la

relazione? Loro (gli ospiti) sanno che noi (operatori) non abbiamo potere su tutto, per esempio i

documenti o il lavoro, ma quello che possiamo cambiare dobbiamo cercare di farlo!”. Dalle parole di

sfogo di questo operatore viene fuori che è dalle piccole cose che si costruisce la relazione con gli

ospiti. Il rapporto di relazione si costruisce anche e soprattutto nel momento dei pasti, in cui si crea

un momento di scambio, convivialità e condivisione, nel caso del Centro Zaccarelli penso che sia

fondamentale. Infatti proprio questi frangenti ti permettono di conoscere qualcosa in più di un ospite,

perché in quell’occasione si sente più libero di aprirsi, di raccontarti qualcosa di sé, dalle sue abitudini

alimentari ai racconti riguardanti il suo Paese. Uno degli obiettivi finali dell’accoglienza è

l’integrazione con la nuova cultura e dunque ci si aspetta che la persona si adegui al nuovo contesto.

Tuttavia come l’apprendimento della lingua, anche integrarsi a nuovi usi, costumi e abitudini

alimentari richiede tempo e comprensione, sia da parte di chi arriva e sia dalla parte di chi accoglie.

Integrazione non significa adeguarsi alla nuova cultura, ma conoscerla e affiancarla alla propria,

l’integrazione prevede reciprocità, come mi ha detto una volta un ospite “Come io mangio pasta,

anche tu devi mangiare il riso come lo cucino io”. Come conferma l’ex coordinatrice: “l’operatore

costruisce rapporti di fiducia nel lavoro quotidiano, la distribuzione dei pasti, del kit igiene…

sembrano lavori devalorizzanti, ma è in quei momenti che si costruisce il rapporto.” Alcuni ospiti,

invece, non erano d’accordo sul fatto che anche noi operatori mangiassimo lo stesso cibo: “This food

is for the immigrant in the camp, not for the operator. We are the migrants and this food is only for

us!”. Questo da un lato produceva negli operatori sconcerto, in quella frase si ribadiva il concetto di

proprietà, come precedentemente accennato al senso di appartenenza del luogo come proprio, anche

se di casa non si può veramente parlare. Presente in quella stessa frase è anche il processo di auto-

etichettamento, l’ospite si identificava in “migrante del centro” e in quanto tale bisognoso di aiuto, in

questo caso di cibo, e assimilabile all’etichetta di vittima. Inoltre ribadisce la differenza tra “noi”

(ospiti) e “voi” (staff), i needy e gli helpers (Marchetti, 2006, p. 67).

1.5 Assistiti e assistenti

“Nelle istituzioni totali c’è una distinzione fondamentale tra un grande gruppo di persone, chiamate

internati e un piccolo staff che controlla. Gli internati vivono generalmente nell’istituzione con

limitati contatti con il mondo da cui sono separati, mentre lo staff presenta un servizio giornaliero di

otto ore ed è socialmente integrato col mondo esterno. Ogni gruppo tende a farsi un’idea dell’altro

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secondo stereotipi: lo staff spesso giudica gli internati malevoli, diffidenti e non degni di fiducia;

mentre gli internati ritengono spesso che il personale si conceda dall’alto, che sia di mano lesta e

spregevole. Lo staff tende a sentirsi superiore e a pensare di avere sempre ragione; mentre gli internati,

almeno in parte, tendono a sentirsi inferiori, deboli e degni di biasimo.”

(Goffman, Asylum, 2003, p. 37)

Quella tra i due gruppi contrapposti da Goffman è una relazione di aiuto, definite da Rogers come

“una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell'altro la crescita,

lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato” (Rogers,

1951). La relazione di aiuto è asimmetrica, è lo staff che dona in maniera unilaterale agli ospiti,

distribuisce beni materiali, amministra i suoi documenti; ciò può provocare nell’altra parte una

sensazione di svilimento e di dipendenza. Dalle osservazioni sul campo di Harrell-Bond e di

Marchetti, risulta infatti che se il richiedente asilo o rifugiato da una parte diventa riconoscente per

l’aiuto ricevuto, dall’altra diventa dipendente, perde fiducia in sé stesso perché non può provvedere

da solo alla sua vita, questa continua sensazione di sentirsi in debito può portare anche ad aperte

azioni di ostilità o aggressione. Una volta portavo in struttura dei vestiti vecchi per i ragazzi e uno di

loro, appena mi vide esclamò: “Non voglio i tuoi vestiti, non ne ho bisogno, puoi tenerli!”. Davanti a

quella frase capii che avevo scaturito in lui quella stessa sensazione e compresi che io in quel caso

ero l’erogatrice d’aiuto, ponendomi in una posizione di superiorità rispetto a lui, il quale non poteva

contraccambiare il mio “aiuto”. Dal punto di vista dell’ospite che rifiutò i vestiti, c’era la volontà di

riaffermare che è ancora una persona con una dignità, quindi non accetta doni che non può

contraccambiare. Per alcuni degli ospiti lo staff è solo un erogatore di aiuto a cui rivolgersi per

lamentele o per ottenere qualcosa, assumendo un atteggiamento di diffidenza e con queste

convinzioni è difficile costruire un rapporto di fiducia. Per altri ospiti, invece, gli operatori assumono

un ruolo simile a quello genitoriale, vengono presi come punto di riferimento, quindi si rivolgono a

loro quando hanno dei problemi, fiduciosi che li possano aiutare a risolverli, generando una relazione

di tipo paternalistica. Questo accade dato che gli ospiti non hanno persone di riferimento una volta

arrivati in Italia e tendono ad associare la figura dell’operatore a figure familiari, come testimoniano

le parole di alcuni ospiti che si rivolgono agli operatori con appellativi quali “petit sœur”, “mama”,

“zio”. Gli operatori dal canto loro possono instaurare un rapporto che “infantilizza” gli ospiti,

occupandosi di quasi tutti gli aspetti della loro vita, di qualsiasi cosa abbiano bisogno gli ospiti, dal

kit igiene, ai vestiti, al medico20. Questo atteggiamento ricorda l’affermazione di Verdirame secondo

20 Urru, Pratiche dell’accoglienza in “Etnografia dell’accoglienza” di Sorgoni, 2011

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cui il sistema assistenziale si basa su “l’idea coloniale che alcuni individui siano sempre bambini”

(Verdirame, 1999, p.68).

Come già visto per il cibo, gli operatori vorrebbero risolvere i loro problemi, come osservato anche

negli studi di Harrell-Bond, ma nel caso della burocrazia non possono fare molto, un operatore

confessa le sue sensazioni: “Questo lavoro è pesante psicologicamente, vedi i ragazzi tutto il giorno

lì a non fare niente, sto male per loro, mi sento impotente!”. E’ molto difficile riuscire a gestire il

rapporto con gli ospiti anche per questo motivo, perché se da un lato gli operatori attuano una

relazione di aiuto cercando di soddisfare i loro bisogni primari (cibo, vestiti), dall’altra non riescono

a trovare una soluzione per le questioni di lungo periodo (documenti, lavoro) e possono offrire solo

opportunità e non soluzioni definitive. Guardando al futuro un altro operatore dice “Cosa succede ai

ragazzi una volta usciti di qui? Cosa possiamo fare per loro? E se non trovano lavoro?” e un altro

ancora espone la sua riflessione, “Una volta finito il percorso qui dove finiranno? Il nostro progetto

non da’ ulteriore assistenza, devono arrangiarsi da soli. La soluzione ideale, secondo me, sarebbe se

già conoscessero qualcuno del loro Paese che si è già sistemato qui. Prima di tutto devono imparare

la lingua, altrimenti come fanno a trovare lavoro?”. Oltre lo stress emotivo e psicologico che viene

fuori da queste riflessioni, si evince la preoccupazione per gli ospiti, il timore di non rispettare le loro

aspettative sul futuro in Italia. Un altro operatore racchiude così il suo pensiero: “Questo lavoro

implica molto stress, per me è come se non staccassi mai, quando torno a casa penso: ho lasciato tizio

con un problema, caio con un altro…”. Per quanto da me osservato e vissuto, gli operatori mettono

al primo posto gli ospiti, cercando di stimolarli a imparare l’italiano, spronarli ad uscire, a cercare di

conoscere persone, posti, attività, “agganci” che poi permetteranno loro di trovare una rete fuori dalla

struttura. Al di là della relazione di aiuto, gli operatori cercano comunque di instaurare un rapporto

di fiducia con i ragazzi, come afferma un operatore: “E’ importante che non ci sia troppa distanza tra

te e gli ospiti, non devono vederti come un loro superiore ma come qualcuno in cui riporre fiducia,

devono sapere che possono fidarsi e affidarsi, per esempio mi è capitato delle volte che facessi le

pulizie con loro”, inoltre continua lo stesso operatore, “E’ importante il dialogo, parlare sempre con

loro, non solo regole, ma anche perdere del tempo per sapere come stanno. Se non fai vedere che sei

dalla loro parte, non ti daranno mai fiducia e per me è questo alla base di questo lavoro. Senza fiducia

gli ospiti verranno da te solo per arrabbiarsi o lamentarsi”. Le difficoltà del mestiere emergono anche

dal fatto che gli operatori hanno anche pratiche burocratiche e altre attività da svolgere e nello stesso

turno sono spesso da soli. “La difficoltà di un solo operatore a turno è che se perdi un’ora a parlare

con uno, nel frattempo non c’è nessun’altro che può sostituirti in ufficio in quel momento”, è

l’affermazione di un operatore, oppure “Io sto sempre fuori l’ufficio a parlare coi ragazzi, ci parlo

sempre con loro, quando sto in ufficio è perché ho da fare altre cose”, “Mi intrattengo con loro a fare

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due chiacchere ma non posso neanche passare otto ore così, anche per me stesso, devo staccare un

po’”. Quest’ultimo operatore mette in luce un altro aspetto del lavoro di relazione, tutelare sé stessi:

per quanto descritto finora il lavoro dell’operatore è soprattutto un lavoro di relazione con l’altro, una

relazione asimettrica ma che presuppone fiducia. L’operatore non è solo l’erogatore di aiuto, ma

anche una persona di riferimento a cui si possono confidare le proprie sensazioni o problematiche.

Questo può provocare stress, impotenza e frustrazione nell’operatore che, come in questo caso, cerca

di tutelare sé stesso, ponendosi in una posizione di equilibrio tra la giusta dose di empatia e distacco

allo stesso tempo, cercando di comprendere gli ospiti, ma senza addossarsi sensi di colpa.

1.6 Conclusioni

Da quanto emerge finora si possono individuare dei limiti al sistema di accoglienza italiano,

quantomeno al sistema dei CAS: in centri di questo tipo la permanenza delle persone accolte dovrebbe

essere temporanea, mentre nei fatti si aggira intorno ai 12 mesi. Questo porta a un’infantilizzazione

delle persone, che rallenta il raggiungimento dell’autonomia. Un caso esemplificativo che ho vissuto

è stato quando un ospite, durante un incontro con gli operatori in cui si parlava dell’uscita

dall’accoglienza, chiese se l’operatore poteva continuarlo a seguire anche una volta uscito dalla

struttura. Ciò dimostra la forte dipendenza degli ospiti nei confronti degli operatori. In centri collettivi

come questo non si hanno gli strumenti per accompagnare gli individui in percorsi strutturati e

personalizzati di integrazione a lungo termine, trattandosi di un sistema emergenziale, che si

sperimenta giorno per giorno. Tuttavia, come afferma l’ex coordinatrice del Centro preso in analisi,

“uno dei vantaggi di lavorare nell’emergenza è che hai la possibilità di creare, sperimentare, se hai

idee e buona volontà”. Questa volontà si è concretizzata dal progetto che gli ospiti del Centro hanno

realizzato insieme agli operatori e a un’associazione di volontari: una rivista che raccontasse la

quotidianetà del Centro. La rivista è stata anche un’occasione di collaborazione tra ospiti ed operatori,

rafforzando la relazione attraverso la stesura di articoli insieme.

L’ex coordinatrice di struttura si è mostrata speranzosa riguardo al recepimento nel territorio locale

dei richiedenti asilo accolti: “a Bologna c’è un minimo di presa in carico collettiva e consapevolezza

sul fatto che c’è bisogno di attivare dei servizi e delle reti per queste persone, probabilmente anche

per un impatto mediatico rilevante che quindi sta facendo muovere le cose, dall’alto ma anche dalla

coscienza delle persone…”. Nei fatti il Comune di Bologna, per esempio, ha aperto la possibilità

anche ai richiedenti asilo domiciliati nelle strutture temporanee di partecipare a tirocini formativi,

questo prima non era possibile. Anche ottenere la residenza è una novità dell’ultimo anno, senza non

era possibile avere: la carta d’identità, l’Isee, la tessera sanitaria e di conseguenza non poter accedere

alle visite mediche specialistiche, dunque rappresenta un grosso miglioramento. Altri enti locali

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stanno cambiando le loro prassi: l’azienda locale per i trasporti ha concesso abbonamenti gratuiti per

richiedenti asilo e l’Università di Bologna ha aperto le iscrizioni per loro ai corsi di laurea.

Infine credo che, come all’interno della struttura, sia stata possibile l’integrazione tra persone

provenienti da culture molto diverse tra loro, così nel territorio locale è possibile non solo il

recepimento ma anche un’integrazione delle persone accolte. Questo è parte dell’essere operatore

dell’accoglienza, lavorare non solo all’interno della stuttura, ma anche al di fuori, per sensibilizzare

e far conoscere la realtà dei centri di accoglienza nei quartieri e nelle città al fine di superare la

diffidenza dello straniero.

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