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    LA GUIDA DEI PERPLESSI E

    L’ETICA MAIMONIDEA

    Manuela Girgenti

    QUADERNO n° 11/2012

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    LA GUIDA DEI PERPLESSI

    E L’ETICA MAIMONIDEA

    Manuela Girgenti

    Premessa

    Nessun’altra opera del pensiero ebraico classico ha avuto una risonanza paragonabile a quella della Guida dei perplessi di Maimonide. La proverbiale espressione: “da Mosè a Mosè, nessuno è grande come Mosè”, riassume la straordinaria ammirazione e l’eccezionale considerazione che, nell’ambito dell’ebraismo medievale, hanno da sempre accompagnato la figura di Mosè Maimonide.

    Maimonide, non solo fu un grande filosofo, ma anche teologo, fisico, medico e studioso del diritto e della Scrittura. Ciò nonostante, “di Maimonide filosofo i teologi cristiani si imporranno di tacere il nome, facendo di lui un grande assente dalla storia; così come di Maimonide medico, i medici non ebrei utilizzeranno i concetti e i valori senza mai citarlo”(1). In realtà, per molto tempo, e specialmente in Italia, la cultura filosofica medievale è stata appiattita su un’accezione sostanzialmente cristiana e occidentale del pensiero filosofico, dando l’impressione che i temi di filosofia ebraica ed araba medievali siano stati inizialmente visti dagli studiosi soprattutto come fonti dei pensatori cristiani e siano stati letti come precorrimenti o anticipazioni dei grandi autori della Scolastica del XIII secolo.

    Sotto questo profilo non possiamo non rilevare che c’è stato una specie di “Tommasocentrismo”, una tendenza, cioè, a vedere tutto in relazione al pensiero di Tommaso d’Aquino, dimenticando come anche per la Chiesa cattolica l’accettazione di questo autore come “dottore ufficiale” sia stata un processo tutt’altro che scontato o pacifico(2). L’accostamento, fra l’altro, non è peregrino, poiché va anche ricordato che l’aristotelismo napoletano, nel cui ambito si formò Tommaso d’Aquino, è maimonideo, mentre quello parigino con cui nella maturità si sarebbe misurato l’Aquinate, è averroista. Non a caso il primo commentatore del capolavoro filosofico di Maimonide, La guida dei perplessi, Mosè da Salerno, fu in rapporto con Pietro d’Irlanda, domenicano, professore nello Studium di Napoli e maestro di Tommaso. Quest’ultimo, fra l’altro, cita più volte Maimonide nei suoi scritti, nei quali si trovano ben ventiquattro rimandi.

    Nella realtà, il pensiero filosofico di Mosè Maimonide, considerato uno dei maggiori protagonisti nella storia del pensiero ebraico medievale, rappresenta una pietra miliare anche nella storia del pensiero filosofico occidentale. “Con lui - scrive

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    Sirat - si chiude un periodo e se ne apre un altro, che ha in lui il proprio termine di riferimento, come la Scolastica lo ebbe in Tommaso d’Aquino”(3). Ed, in effetti, tutti e due seguaci di Aristotele, edificarono una summa di religione e filosofia, che provocò una serie incessante di attacchi, ma che resta per sempre una fonte di ispirazione per gli adepti delle due religioni.

    Per comprendere meglio la figura di Maimonide bisogna innanzitutto liberarci da un pregiudizio, oggi molto in voga, nei confronti della filosofia ebraica medievale, vista come una sorta di intellettualizzazione o tradimento nei confronti di un supposto spirito ortopratico o etico, che costituirebbe l’essenza autentica di questa religione. In poche parole, occorrerebbe spogliare quest’ultima dalle incrostazioni che il logos di origine greca vi avrebbe depositato, ritornando all’antica concezione etica dell’ebraismo e mettendo tra parentesi l’intero periodo medievale, che si è, invece, basato proprio sull’idea di una armonia di fondo tra Atene e Gerusalemme, smentendo l’accusa secondo la quale la filosofia greca avrebbe inquinato in qualche modo l’originaria ortoprassi ebraica.

    A questo proposito, Maimonide avrebbe senz’altro detto che la “prassi” o gli atti di culto religiosi sono importanti e imprescindibili, ma che prima viene la “teoria” o contemplazione intellettuale delle verità fondamentali dell’ebraismo e cioè dell’esistenza, unicità e incorporeità di Dio e che queste verità vengono fondate su una base filosofica rigorosamente aristotelica.

    Maimonide, probabilmente, era dell’idea che l’ebraismo tradizionale rischiava di sclerotizzarsi se non fosse uscito fuori dai confini del midrash e del Talmud. L’ebraismo, quindi, poteva uscire rinvigorito da un confronto intellettuale con gli altri modi di pensare e credere, anche perché le sue dottrine, a suo parere, non contenevano niente che contraddicesse la razionalità di cui si vantavano gli altri sistemi. Niente, di conseguenza, poteva opporsi a un’impresa di rigenerazione dell’ebraismo tradizionale.

    Nella Guida dei perplessi, opera di maggiore riferimento per lo studio del suo pensiero filosofico, Maimonide è abbastanza chiaro nel sostenere che è appunto la “teoria”, la contemplazione delle verità intellettuali concernenti Dio, quella che fonda e dà un senso definitivo alla pratica degli atti di culto e all’etica religiosa. Nella Guida dei perplessi, è vero, c’è un’insistenza su temi e termini tipicamente biblici, ma, nella realtà, nel contesto del discorso, si scopre che la consapevolezza etica è fondata su un discorso aristotelico, sicuramente filosofico. Di conseguenza, di fronte allo smarrimento che prova l’ebreo religioso, fedele alla propria tradizione, ma seguace allo stesso tempo della ricerca filosofica, occorre fornire una “guida ai perplessi”. Da qui il titolo del libro. Ma, usando le parole di Hayoun, invece di praticare l’autarchia intellettuale e morale, ricorre a un pensiero certamente politeista, ma ben dotato dal punto di vista intellettuale. Prende, quindi, in prestito dai greci lo strumento del sillogismo e dagli arabi il metodo dell’interpretazione allegorica della Bibbia.

    La Guida, in sintesi, è un’opera elitaria che cerca di spiegare alcune verità teologiche con la metodologia filosofica. In realtà, la tendenza a giustificare le verità religiose in termini filosofici era nata all’interno dell’Islam, poco prima dell’VIII

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    secolo, nel tentativo di accordare i termini del Corano con quelli della filosofia aristotelica. Per tale scopo, all’interno del mondo islamico, era sorto il Kalam, un insieme di filosofia religiosa e di teologia razionale, che cercava di mettere d’accordo il dato della fede con quello della ragione.

    Maimonide si inserisce in questo filone, sostenendo che i dati del pensiero filosofico possono ritrovarsi all’interno della Torah e, per scoprirli e recuperarli, bisogna talvolta far ricorso ad una interpretazione allegorica. Affrontare le varie tematiche esposte da Maimonide nella Guida non è un lavoro facile. La Guida, come si è già detto, è un’opera elitaria e, proprio per questo, schermata tramite barriere di tipo espositivo. In alcuni punti è volutamente non chiara, al fine di rendere difficile la lettura e la comprensione ai non addetti ai lavori. La Guida si presenta, quindi, come un testo controverso, dove il ragionamento svolto è tutt’altro che lineare e la tessitura delle argomentazioni evidenziano parecchi punti oscuri e una sistematica presenza di contraddizioni.

    Lo stesso Sermoneta scrive che non è semplice presentare il pensiero di Maimonide, poiché “dietro la figura e gli scritti di Maimonide si cela un segreto, qualcosa che è difficile definire”(4). È innegabile che nell’opera di Maimonide ci sia una forte spinta filosofica-razionalistica, nel senso di dare a qualunque pensiero una veste concreta che riposi su una certezza, ma è pur vero che sia che affronti il problema della creazione del mondo, dell’esistenza o della conoscenza di Dio o, ancora del libero arbitrio, spesso indulge in una concezione del divino che, analizzata, mostra la mancanza di rispondenza tra quello che ci si immagina e quello che si pensa.

    “Se si dichiara – aggiunge Sermoneta – che Dio è uno, e questa dichiarazione non corrisponde a una verità razionale all’interno di sé, ad una propria convinzione razionale, è come se non si fosse dimostrato nulla, né detto nulla”(5).

    Nello studio del pensiero filosofico di Maimonide, oltre alle tortuosità del suo metodo, sorge, poi, un’altra difficoltà, che consiste nel rilevare che il filosofo di Cordova in molte questioni particolarmente importanti, come, ad esempio, il rapporto fra fede e ragione, non prende mai una posizione chiara, glissando sull’argomento. È esemplare, a questo proposito, quanto egli scrive riguardo ai contenuti dianoetici della legge “i quali – sostiene – sono ricevuti per tradizione e non dimostrati per via speculativa, mentre nei libri dei profeti e nel discorso dei sapienti la conoscenza della Legge costituisce una cosa e la sapienza in assoluto costituisce un’altra cosa”(6). E questo per volere affermare che la distinzione tra tradizione religiosa e la filosofia si trova già nella Bibbia e nella tradizione talmudica e che la seconda è intesa come uno strumento per dimostrare le verità enunciate dalla prima.

    Per Sermoneta non dovremmo assolutamente meravigliarci, poiché rileva che il grande successo di Maimonide nel mondo ebraico non è dovuto alla coincidenza che egli scorge tra fede e ragione, ma tra pratica e fede. Secondo il filosofo di Cordova, infatti, è essenziale che l’uomo, non potendo conoscere l’essenza di Dio, avverta una spinta verso una realtà che non è di questo mondo. In questo cammino quello che Maimonide chiede all’uomo è solamente di imitare Dio in ogni sua singola azione; una imitatio Dei, quindi, che si concretizza nelle mitzwot. È questo il significato

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    dell’imitatio Dei: ”tutta l’umanità può seguire tale cammino se ogni atto, compiuto dal singolo come dalla società, viene realizzato con la coscienza di tendere alla santità e con la consapevolezza che non vi è scissione alcuna tra l’atto e il pensiero che lo accompagna”(7).

    Maimonide stesso, infatti, sostiene che:

    “gli uomini passati e presenti hanno spiegato che Dio non viene percepito dagli intelletti, e solo Lui stesso percepisce che cosa Egli sia, e che la percezione di Lui consiste nell’incapacità di raggiungere il punto estremo di tale percezione stessa”(8), tanto che egli scrive che l’espressione più eloquente a questo fine è il detto dei Salmi: “Il silenzio, per Te, è lode”, giacché, e non a torto, “qualunque cosa noi diciamo con l’intenzione di magnificarlo e lodarlo, troveremo qualcosa che si applica in Lui, ma vedremo anche qualcosa di manchevole. Dunque è meglio mantenere il silenzio”(9).

    A questo punto, la conoscenza, cui dichiara di volere approdare Maimonide, più che di carattere razionale, si colora di misticismo, poiché la fede non è qualcosa che è possibile dichiarare, ma credere, sentire e credere nella costante presenza di Dio. È questo il motivo che corre attraverso tutta la Guida. L’uomo in ogni atto di pensiero deve imitare Dio: è questa la meta verso la quale il singolo e l’umanità sono, o dovrebbero essere, indirizzati. In questo Maimonide è abbastanza chiaro.

    “Occorre iniziare questa specie di culto - scrive - dopo aver avuto la concezione intellettuale di Dio; e, quindi, se tu hai percepito Dio e le Sue azioni come lo richiede l’intelletto, in seguito tu prenderai a concentrarti su di Lui, a sforzarti di avvicinarti a Lui e a ispessire la congiunzione tra te e Lui – ossia, l’intelletto[…] Questo è il culto proprio di coloro che percepiscono le verità; quanto più essi pensano a Dio e al fatto di stare presso di Lui, tanto più essi lo venerano”(10).

    La Guida, inoltre, commentando i dati della rivelazione con l’apporto di un metodo filosofico, si proponeva di gettare le basi che avrebbero consentito di sollevare il manto dell’allegoria divina e per questo motivo Maimonide fu accusato di avere inquinato il pensiero ebraico, contaminandolo con un impianto filosofico di impronta aristotelica. Nella realtà non fu così. Da Aristotele prese solamente il metodo logico e sistematico per procedere lungo un sentiero di speculazione filosofica, tanto è vero che, pur nutrendo per lui una stima sconfinata, non esita ad entrare in forte polemica, come nel caso della teoria cosmogonica.

    Maimonide, infatti, non ritiene che Aristotele non possa mai sbagliare. Lo dice nella sua Guida: il pensiero aristotelico è sicuramente giusto sino alla sfera della luna; di lì in poi (e cioè in relazione ai cieli e al problema dell’origine metafisica dell’universo) non è più tale. Va, inoltre, rilevato che per Maimonide il razionalismo non era sinonimo di “religione nei limiti della sola ragione” per dirla con Kant, ma significava piuttosto spingere l’intelletto al servizio della religione, adoperando la ragione per scopi di spiritualità e autorealizzazione, evitando di ridurre l’esperienza religiosa a una semplice routine priva di riflessione. Maimonide riteneva che la filosofia potesse fornire uno strumento interpretativo preziosissimo per far emergere

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    delle verità che sono sì presenti nella Bibbia, ma che senza la filosofia non emergerebbero o comunque verrebbero ritradotte in maniera erronea.

    La guida dei perplessi e l’interpretazione allegorica

    La Guida dei perplessi è dedicata a un suo allievo, Joseph Ibn-aknin, che si trovava in una situazione di perplessità: ebreo osservante e religioso era anche attratto dalla filosofia, ma il contrasto tra la Torah e le conclusioni aristoteliche gli creavano non poche perplessità. Con la Guida dei perplessi Maimonide vuole dimostrare al suo allievo che non c’è contraddizione tra i dogmi della fede e il razionalismo filosofico, perché si tratta di due piani diversi, che vertono sullo stesso oggetto: un piano più diretto è quello della rivelazione e un piano più indiretto è quello della filosofia. In poche parole, pur con qualche eccezione e con linguaggi diversi, sia la filosofia aristotelica sia la Torah affermano le stesse verità. È un concetto che Maimonide ribadisce più volte nella sua opera.

    “Sappi che in questa mia opera non è mia intenzione comporre un trattato di fisica, o sintetizzare alcuni concetti della metafisica ... Il fine di quest’opera è solo quello di spiegare le difficoltà della Legge ( la Torah) e di mostrare i veri significati dei suoi segreti che sono superiori alle menti del volgo … Il fine di quest’opera non è di far comprendere tutte queste cose al volgo, e nemmeno ai principianti, e neppure di insegnarle a chi non studia altro che la scienza della Legge … Il fine di quest’opera è di dare un avvertimento ad ogni uomo religioso che abbia conseguito una credenza certa nella nostra Legge, sia perfetto nella pratica religiosa e nella morale, ed abbia studiato le scienze filosofiche e i loro contenuti … ma al quale crea problemi il senso letterale della Legge”(11).

    La Guida dei perplessi è, in sintesi, un’opera che si rivolge a quelli che vengono chiamati gli uomini dell’èlite, che risultano perplessi in quanto sentono in uguale misura il fascino della fede ebraica e quello della filosofia e non riescono a superare le diversità o apparenti contraddizioni che esistono tra queste due visioni del mondo.

    Questi destinatari dell’opera sono quelli che hanno percorso un opportuno curriculum di studi logici e filosofici che li rende in grado di apprezzare adeguatamente i contenuti dell’opera. In altre parole, Maimonide non si rivolge a un pubblico ampio: il suo intento è quello di rivolgersi solo a chi ha compiuto un preciso percorso di iniziazione filosofica. Questo perché per Maimonide gli uomini non sono tutti allo steso livello quanto a possibilità di raggiungere la verità. Lo chiarisce con una parabola nella quale vuole mostrare come gli uomini abbiano gradi diversi di avvicinamento a Dio.

    “Un sovrano è nel suo palazzo, mentre i suoi sudditi stanno parte in città, parte fuori della città. Di quelli che stanno nella città, gli uni voltano le spalle alla dimora del sovrano, dirigendosi da un’altra parte; gli altri si volgono verso la dimora del sovrano e, dirigendosi verso di essa, cercano di entrare nella sua dimora e di comparire alla sua presenza, ma, finora, non hanno neppure scorto le mura del palazzo. Altri, tra quanti cercano di raggiungerlo, una volta giunti al palazzo, gli girano attorno per individuare

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    l’entrata; altri sono entrati e passeggiano nei vestiboli; altri, ancora, sono riusciti a penetrare nel cortile interno del palazzo, giungendo al luogo ove si trova il sovrano, ossia alla sua dimora. Tuttavia, per quanto arrivati a questa dimora, costoro non possono né vedere il re, né parlargli. Dopo essere giunti all’interno della sua dimora, devono ancora fare altri passi indispensabili, e solo allora potranno presentarsi al sovrano, vederlo da lontano o da vicino, ascoltare la sua parola, o parlargli.

    Ora spiegherò questa parabola che ho escogitato: Coloro che stanno al di fuori della città sono tutti gli uomini che non hanno alcuna

    fede religiosa, né speculativa, né tradizionale, come i Turchi più lontani dell’estremo Nord, i negri all’estremo Sud, e quanti sono come loro, nei nostri paesi. Costoro vanno considerati alla stregua di animali irrazionali. Non li colloco al livello degli uomini, perché, tra gli esseri, occupano un rango inferiore a quello dell’uomo nè superiore a quello della scimmia: hanno, infatti, la figura e i tratti dell’uomo e un discernimento superiore a quello della scimmia.

    Coloro che stanno nella città, ma voltano le spalle alla dimora del sovrano, sono gli uomini che hanno un’opinione e che pensano, ma hanno concepito idee contrarie alla verità, sia in conseguenza di un grave errore in cui sono incorsi nella loro speculazione, sia per avere seguito chi era in errore. Costoro, a motivo delle loro opinioni, quanto più procedono, tanto più si allontanano dalla dimora del sovrano. Essi sono ben peggio dei primi, e possono presentarsi occasioni in cui diventa addirittura necessario ucciderli, cancellando le tracce delle loro opinioni, affinchè non sviino gli altri.

    Coloro che si dirigono verso la dimora del sovrano e cercano di entrarvi, ma non hanno neppure scorto il muro del palazzo, sono la folla degli uomini religiosi, intendo dire gli ignoranti che osservano i precetti.

    Coloro che, giunti al palazzo, gli girano attorno, sono i giuristi che, per tradizione, ammettono le opinioni vere, che discutono sulle pratiche del culto, ma non si impegnano nella speculazione sui principi fondamentali della religione, né cercano, in qualche modo, di stabilire la verità di una qualche credenza.

    Coloro, invece, che si immergono nella speculazione sui principi fondamentali della religione, sono coloro che sono entrati nei vestiboli, ove gli uomini si trovano indubbiamente ammessi secondo ranghi diversi.

    Coloro che hanno compreso la dimostrazione di tutto ciò che è dimostrabile, che sono arrivati alla certezza nelle cose metafisiche, ovunque questo sia possibile, o che si sono avvicinati alla certezza, nei casi in cui non sia concesso andare oltre questa approssimazione, sono coloro che sono arrivati all’interno della dimora presso il sovrano.

    Sappi, figlio mio, che fino a quando ti occuperai solo di matematica e di logica, sarai come quelli che girano attorno alla dimora e ne cercano l’ingresso, come allegoricamente dicono i nostri saggi: “Ben Zoma è ancora fuori”. Quando avrai compreso gli argomenti della fisica, sarai entrato nella dimora e passeggerai per i vestiboli. Se avrai raggiunto la perfezione nelle cose fisiche ed anche in quelle metafisiche, sarai entrato in prossimità del sovrano, nel cortile interno, e ti troverai con lui nella stessa abitazione. Quest’ultimo grado è quello dei veri sapienti”(12).

    Tuttavia e pur con le dovute cautele, Maimonide non ritiene che quanti non riescano neanche a trovare le mura siano da lasciare a se stessi. Da questo punto di

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    vista non è un filosofo elitario, nel senso deteriore del termine, se in un capitolo della Guida scrive:

    “Per quanto riguarda la negazione della corporeità e il rifiuto di attribuire a Dio una somiglianza e delle affezioni, è una cosa che deve essere dichiarata e spiegata ad ognuno in ragione della sua natura, e trasmessa per tradizione ai bambini, alle donne, agli stupidi, ai deficienti, come si trasmette l’idea che Egli è uno, che è eterno, e che non si deve adorare nessun altro all’infuori di Lui. Infatti, non c’è unità di Dio se non si rifiuta la corporeità, perché il corpo non è uno, ma è composto di materia e forma, che per definizione sono due, ed è anche diviso e ripartibile. Quando la gente ha accettato questo, lo ha appreso e vi è stata educata, e quindi cresce e inizia a dubitare della lettura del testo dei libri profetici, le si spieghino i suoi significati: venga introdotta all’interpretazione allegorica di tali testi, e le si faccia notare il senso equivoco e metaforico dei termini che sono compresi nella presente opera, finché faccia perfettamente propria la corretta credenza circa l’unità di Dio e la veridicità dei libri profetici. Se, però, la mente di qualcuno rifiuta di comprendere l’interpretazione allegorica dei testi e la coincidenza di due nomi che hanno una differenza di significato, gli si dica: l’interpretazione allegorica di questo testo è compresa dagli uomini di scienza … con costui ci si fermi a questa misura”(13).

    Maimonide, quindi, in linea di massima non esclude la possibilità di una educazione della moltitudine, ma, nella realtà, l’obiettivo resta così alto che solo pochi riescono a motivarlo e fondarlo filosoficamente. Un aspetto del pensiero maimonideo, quest’ultimo, che richiama quello platonico, poiché, se egli riteneva che bisognasse portare progressivamente gli uomini semplici di fede a un culto di natura intellettuale, attraverso un cammino filosofico molto forte, è fuor di dubbio che il suo elitarismo è paragonabile al prigioniero del mito platonico della caverna, che lascia in un primo tempo i suoi compagni di prigionia per contemplare da solo le verità intellettuali e ridiscendere poi nella caverna per portarvi il suo messaggio di liberazione.

    In ogni caso non possiamo non rilevare che, leggendo la Guida dei perplessi , si ha una sensazione di disagio e di ambiguità. A prima vista, quest’opera ha una base biblica tradizionale ben individuabile, ma nello stesso tempo esplicita le premesse filosofiche o teoretiche dell’autore nell’approccio all’ebraismo della tradizione. Da un lato si rivolge – su sua stessa ammissione – a quelli che vengono chiamati gli uomini dell’èlite, dall’altro c’è la volontà di educare gli uomini semplici di fede ad un culto di natura intellettuale. Da un lato Maimonide si rendeva conto che la filosofia aristotelica poteva rappresentare uno strumento di purificazione o universalizzazione della fede ebraica, ma dall’altro era anche consapevole dei rischi impliciti in una simile operazione di rilettura dell’ebraismo alla luce della filosofia.

    “Insomma – come rileva Roberto Gatti – prima che alla categoria privilegiata di lettori per cui l’opera è stata scritta, la definizione di “perplesso” si applicherebbe al suo autore”(14).

    Maimonide stesso avverte il suo lettore che il libro è scritto in maniera complessa e dispersa:

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    “Io posso iniziare a parlare di un tema in un capitolo, riprenderlo poi in un’altra parte dell’opera, senza però indicarti quale sia questa parte che affronta in maniera diversa lo stesso tema; pertanto, sta attento, perché può darsi che io presenti in quest’ultima parte un’opinione diversa e persino contraddittoria rispetto a quella annunciata in quell’altra parte”. E più avanti aggiunge:

    “Quest’opera ha anche un secondo fine: quello di spiegare le metafore oscure che occorrono spesso nei libri profetici e che, non presentandosi chiaramente come metafore, appaiono evidenti e senza significati esoterici all’ignorante e al distratto”(15).

    È evidente che per riuscire in tale intento egli deve spesso ricorrere ai metodi dell’esegesi allegorica. “Non tuttavia – precisa Laras – un’esegesi allegorica generalizzata e indiscriminata come quella, ad esempio, praticata da Filone di Alessandria, per il quale il testo sacro della Torah è, nel suo complesso, un criptogramma da sciogliere e da interpretare in maniera extra-letterale, ma un’esegesi giudiziosamente misurata e selezionata, praticata secondo regole e principi ben definiti, solo laddove il testo non si possa manifestamente prestare ad un’interpretazione letterale. La Guida per la sua complessità strutturale e contenutistica, non si presenta di facile lettura e, fin dal suo apparire, ha dato luogo a un gran numero di interpretazioni. Uno dei principali motivi di tale difficoltà di lettura risiede nella nebulosità e nel disordine espositivo, riscontrabili in taluni passi dell’opera. Questa ambiguità è voluta dallo stesso autore, che si serve di una metodologia espositiva non lineare per celare al lettore, non sufficientemente preparato, la verità profonda di taluni fondamenti della Religione”(16). Maimonide stesso, come abbiamo già visto, non ne fa un mistero.

    “Quando vuoi cogliere – scrive nell’introduzione alla Guida - il senso complessivo del contenuto di quest’opera, così da non lasciarti sfuggire nulla, collega i suoi capitoli gli uni con gli altri, e non porti come fine quello di comprendere, di un capitolo, solo il complesso del suo significato, ma anche ogni parola che si trovi nel corso del discorso, anche se non fa parte dell’argomento principale del capitolo .Infatti, il discorso di quest’opera non procede a caso, ma con molta accuratezza e con abbondante precisione, facendo attenzione a non omettere di spiegare un punto difficile. Di una cosa non si parla fuori posto, se non per spiegare qualche altra cosa che è al proprio posto. Non seguire questi discorsi fantasticandoci sopra, perché mi faresti un torto e non gioveresti a te stesso; bisogna invece che tu apprenda tutto ciò che bisogna apprendere e continui a studiarlo, e allora ti saranno chiare le grandi oscurità della Legge, che sono difficili per qualunque studioso … Quanto, invece, a coloro che sono confusi, i quali hanno già confuso i loro cervelli con opinioni non vere e seguendo metodi fallaci e pensano che queste loro conoscenze siano corrette, e pretendono di essere gente di studio mentre non sanno nulla di ciò che si chiama davvero scienza, saranno disgustati da molti capitoli; e a renderli loro oscuri sarà il fatto che essi non ne comprenderanno il significato, e che questi capitoli faranno loro capire chiaramente che hanno in mano una falsa moneta, la quale è il loro tesoro e il capitale pronto per aiutarli nelle loro avversità”(17).

    Nella realtà – precisa Mauro Zonta – la Guida dei perplessi “non rappresenta certamente nelle intenzioni stesse dell’autore, un trattato sistematico di filosofia; si

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    tratta piuttosto di un’opera letteraria di carattere eclettico che, per i suoi contenuti, sarebbe semmai ascrivibile al genere dell’esegesi biblica”(18).

    È importante tener presente che il punto di partenza di Maimonide, diversamente da Saadia Gaon (filosofo ebreo del X secolo), che si limitava a cercare dei punti in comune tra religione e filosofia, affinchè non risultassero inevitabilmente in contrasto, era quello di mostrare come la filosofia stessa fosse già contenuta all’interno del testo biblico. Maimonide tenterà in tutti i suoi testi esegetico-filosofici, ed attraverso l’interpretazione del testo sacro, di mostrare questa affinità di verità e di contenuto, che accomuna quelli che per lui erano, come per ogni ebreo colto del tempo, i pilastri di tutto lo scibile umano: la Torah e Aristotele. Di quest’ultimo, Maimonide mostra di avere grande stima. Lo definiva il “principe dei filosofi”, un uomo dotato di qualità divine e con un intelletto di natura superiore, la cui speculazione è giunta sino ai limiti estremi della saggezza umana.

    In una lettera inviata a Samuel Ibn Tibbon si legge testualmente: “Non c’è bisogno di occuparmi di libri scritti dai suoi predecessori, perché il suo intelletto è il grado supremo dell’intelletto umano, se si eccettuano coloro che hanno ricevuto l’ispirazione divina … gli scritti, invece, del maestro di Aristotele, Platone, sono difficili da capire, ma se ne può fare a meno ( in realtà, per quanto concerne il suo pensiero politico e sociale, come vedremo, subirà notevolmente l’influsso di Platone, più di quanto egli non voglia ammettere), perché l’opera di Aristotele è sufficiente”(19).

    Lo scopo di Maimonide, dunque, nella Guida dei perplessi è quello di interpretare allegoricamente la Torah in modo da mostrare le verità filosofiche, ed in particolare quelle aristoteliche, in essa contenute. Solo così egli potrà aiutare i suoi lettori, coloro che appunto conoscendo le verità della tradizione ebraica, in quanto ebrei, e conoscendo le verità del pensiero aristotelico, poiché studiosi, rimangono perplessi ed incerti sulla via da seguire. Quindi il solo modo per sciogliere l’incertezza dei suoi discepoli, derivante dalla conoscenza di questa apparente duplice verità, è quello di interpretare e spiegare, per quanto possibile con chiarezza, sia i termini difficili contenuti nel testo sacro, sia le metafore stesse. Il primo scopo, quindi, di Maimonide è quello di svelare i significati di quelle locuzioni, la cui comprensione risulta impossibile, con una semplice interpretazione letterale del testo.

    A tal fine distingue questi termini in equivoci, traslati ed anfiboli e così li descrive nella Guida dei perplessi: “Quest’opera ha come suo primo fine, la spiegazione dei significati di termini che si trovano nei libri profetici. Tra di essi, ve ne sono alcuni equivoci, e gli ignoranti li adoperano solo per alcuni dei significati per i quali si usano quei termini equivoci, altri sono traslati, ed essi li adoperano solo per i significati primitivi dai quali sono stati derivati, altri sono anfiboli, sicchè a volte si pensa che siano semplici nomi comuni, a volte si pensa che siano termini equivoci”(20). Ma non è una impresa semplice, poiché per Maimonide solamente l’ermeneuta può distinguere tra questi termini e indicare il corretto significato e la esatta sfumatura semantica che essi assumono nelle varie parti del testo sacro.

    L’altro elemento testuale da interpretare sono le metafore presenti nella Torah. Ma perché il testo sacro userebbe delle allegorie, degli esempi, per enunciare le verità

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    importanti in esso contenute? Perché nascondere quelle conoscenze che, se appunto conosciute, renderebbero perfetti gli uomini? Maimonide risponde a questa domanda, riprendendo un motivo, come abbiamo visto, molto caro al pensiero ebraico antico: poiché tra gli esseri umani vi è una differenza nella capacità conoscitiva, le verità debbono essere trasmesse solamente a chi è in grado di capire senza fraintenderle; poiché secondo gli antichi rabbini esse dovevano essere trasmesse oralmente da maestro ad allievo, per poter essere messe per iscritto esse devono venire camuffate, sotto forma di metafore. Ciò che viene messo per iscritto, infatti, da un lato viene reso disponibile alla totalità dei lettori, dall’altro, e proprio perché reso pubblico, può venire frainteso e le verità religioso-filosofiche in esso contenute possono essere stravolte da chi non è in grado di capirne l’importanza.

    Da qui la necessità dell’esoterismo: non solo le verità vengono nascoste ed esposte solo sotto forma di metafore, ma quest’ultime vengono anch’esse celate e mostrate al lettore ingenuo, non come parte metaforica del testo da interpretare allegoricamente, ma come parte narrativa da interpretare in maniera letterale. Il lettore, che non è in grado di capire il significato della metafora, non si accorgerà neanche della sua presenza e leggendo il testo, riuscirà comunque ad imparare ciò che il senso letterale permette. Sarà compito dell’ermeneuta mostrare agli allievi che lo meritano la presenza della metafora nel testo e a metterli in guardia circa il significato da attribuire al brano.

    Quindi, secondo Maimonide, non solo la Torah contiene parti narrative e parti allegoriche, ma le metafore stesse possono essere spiegate, sia nel loro senso letterale essoterico, sia nel loro senso nascosto o esoterico. In entrambi i casi esse insegneranno qualcosa e, allo stesso tempo, eviteranno di essere fraintese. Solo il lettore attento e preparato, leggendo letteralmente il testo e ritrovandovi delle incongruenze, capirà di essere di fronte a una metafora e la interpreterà in maniera corretta. Per l’ermeneuta, quindi, il significato essoterico deve essere un lume, una spia che lo mette in allerta e gli fa comprendere la reale profondità del testo. Per far comprendere meglio il suo concetto, Maimonide paragona la metafora ad un pomo d’oro rivestito d’argento e con dei piccoli buchi.

    “Disse il sapiente: una parola detta ammodo è come pomi d’oro in ornati d’argento. Ora, ascolta la spiegazione di ciò che ho detto: gli ornati sono ceselli intrecciati, ossia quelli nei quali si trovano aperture molto piccole, come certi oggetti prodotti dai gioiellieri; li si chiama così perché lo sguardo riesce a penetrarli. Dice, dunque, che come un pomo d’oro in un ornato d’argento con fori molto piccoli è il discorso che si fa in due sensi. Ora, vedi quant’è meraviglioso questo discorso nel caratterizzare la metafora chiara. Dice infatti che nel discorso dotato di due sensi, ossia in quello che ne ha uno letterale e uno esoterico, bisogna che il senso letterale sia bello come l’argento, e che quello esoterico sia ancora più bello di quello esteriore, al punto che il primo deve stare al secondo come l’oro sta all’argento, e bisogna che nel senso letterale vi sia qualcosa che guida colui che lo osserva attentamente a comprendere il senso esoterico, com’è il caso di questo pomo d’oro, che è rivestito di un ornato d’argento con fori molto piccoli: quando lo si guarda da una certa distanza e senza esaminarlo bene si pensa che

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    sia un pomo d’argento, mentre, quando lo si osserva con vista acuta e molto attentamente, appare con evidenza ciò che c’è dentro, e si capisce che è d’oro”(21).

    Inutile dire che i due metalli rappresentano i due sensi del testo sacro. L’oro è più prezioso, ma solo l’attenzione prestata all’argento permetterà di scoprire la sua presenza.

    “Lo stesso vale – precisa Maimonide – per le allegorie dei profeti: le loro parole esteriori racchiudono una saggezza utile per molte cose, ma il loro senso interno è una saggezza utile per le credenze che hanno per oggetto il vero in tutta la sua realtà”(22).

    La metafora nella Torah ha dunque lo scopo di celare le verità filosofiche che sono presenti nel testo sacro e che per non essere fraintese devono essere nascoste al volgo. Maimonide è convinto che queste ultime siano presenti in particolare in due libri della scrittura: nel “Racconto dell’Origine” e nel “ Racconto del Carro”, che conterrebbero rispettivamente, nascoste al loro interno, la fisica e la metafisica aristotelica. La metafora, quindi, lungi dall’essere un mero espediente letterario, diventa un elemento indispensabile non solo per capire il testo sacro, ma anche per vivere senza incorrere nella perdizione, come Maimonide stesso si premura di dire:

    “Se noi non accogliessimo mai un’opinione per il canale dell’autorità tradizionale, se non fossimo guidati per qualche aspetto dall’allegoria, ma fossimo obbligati a formarci di ogni cosa un’idea perfetta per mezzo di definizioni essenziali, dichiarando vero solo ciò che può essere dichiarato vero in virtù di una dimostrazione – cosa impossibile, senza lunghi studi preparatori -, ne risulterebbe che gli uomini, in generale, morirebbero senza nemmeno sapere se esista un Dio per l’universo oppure no e, meno ancora, potrebbero affermare un qualcosa a suo riguardo o negargli un’imperfezione. Nessuno potrebbe mai sfuggire alla perdizione”(23).

    Secondo Laras, l’originalità della Guida consiste proprio “nell’avere ridotto la complessa dottrina dell’ebraismo in una concezione filosofica da contrapporre al sistema filosofico aristotelico, al fine di mostrarne la superiorità”(24).

    E nella realtà, anche ad una superficiale lettura della Guida, si evince chiaramente che per Maimonide nessun tipo di analogia è possibile tra il nostro mondo materiale e il mondo spirituale e che, inoltre, le leggi che, attraverso l’indagine speculativa, l’uomo ha scoperto nel mondo della natura, valgono esclusivamente nel loro ambito, ma non possono essere applicate per una realtà che è fuori dal mondo della natura.

    “È proprio una simile incapacità di distinguere fra i due ambiti – aggiunge Laras – fu quella che indusse Aristotele in errore. Mentre, infatti, questi - per stessa ammissione di Maimonide – aveva svelato la verità in ordine ai principi e alle leggi che governano il mondo della natura, nel pretendere di estendere quegli stessi principi e quelle stesse leggi a una realtà che trascende e supera tale mondo, non poteva non giungere a delle conclusioni oggettivamente inadeguate e non convincenti”(25).

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    Non, quindi, con la forza dell’intelletto, sostiene Maimonide, si potranno conoscere le leggi e i principi che regolano il mondo metafisico, ma attraverso lo strumento della profezia, che attinge i dati della verità direttamente dalla volontà divina. Non a torto Leo Strauss rileva che si può cominciare a comprendere la Guida “se si intende come essa non sia un libro filosofico, e cioè un’opera scritta da un filosofo per altri filosofi, ma un libro ebraico, un libro scritto da un ebreo per altri ebrei. La prima premessa di questo libro è l’antica premessa ebraica che essere ebrei ed essere filosofi sono due situazioni incompatibili. I filosofi tendono a spiegare la totalità partendo da ciò che è accessibile all’uomo. Maimonide inizia con l’accettazione della Torah. Un ebreo può fare filosofia, e infatti Maimonide fa ampio uso della filosofia; in quanto ebreo, però, dà il suo assenso quando come filosofo dovrebbe negarlo”(26).

    In Maimonide vi è la convinzione che il linguaggio della Scrittura vada interpretato in modo allegorico, in quanto, se preso alla lettera, sfocerebbe in una inaccettabile visione antropomorfica di Dio. E intento di Maimonide era proprio quello di purificare l’idea di Dio da ogni sospetto di corporeità che le scritture rischiavano di far nascere nel lettore. Se, quindi, la Bibbia è stata scritta con un linguaggio sensibile per accomodarsi alle incapacità del volgo, Maimonide, al contrario, scrive la Guida, come abbiamo già detto, destinandola a pochi eletti e cercando di spiegare loro alcune verità teologiche con la metodologia filosofica.

    Maimonide sostiene, in sostanza, che i dati del pensiero possono ritrovarsi all’interno della Torah e, per scoprirli e recuperarli, bisogna talvolta fare ricorso ad un’interpretazione allegorica. Sulla stessa scia si inserisce Ja’aqov Ben Abba Mari Anatoli, di origine provenzale, che intorno al 1230 giunse alla corte di Federico II in qualità di medico e traduttore, noto per aver collaborato con Michele Scoto e per avere tradotto dall’arabo in ebraico parte del commento di Averroè alle opere di Aristotele. Anatoli, che si considera un discepolo diretto di Maimonide e che sente come sua missione la diffusione delle dottrine dello stesso, seguendo l’esempio del suo maestro, distingue nel testo biblico un significato manifesto, chiaro e uno nascosto, oscuro(27). Per Anatoli, in sintesi, la Torah è profonda e difficile e l’uomo che vuole giungere ad una vera comprensione dei suoi reconditi significati, dei sensi riposti, deve compiere un approfondito studio e, proprio per la sua profondità, viene paragonata alle acque profonde. L’autore del Pungolo dei discepoli afferma, infatti, “che ogni qualvolta nel testo biblico troviamo il termine acqua dobbiamo intendere la Torah. Solo per fare un esempio, riguardo il versetto “come acqua fresca per una gola riarsa è una buona notizia da un paese lontano”, egli spiega che sia il termine “acqua” che “buona notizia” alludono alla Torah e che l’espressione “da un paese lontano” significa “dopo molte ricerche”, e, dunque, viene così interpretato il versetto: alla vera comprensione della Torah si giunge dopo molte ricerche. Questa stessa analogia “acqua-torah” la troviamo nel capitolo 34 della prima parte della Guida dei perplessi, dove fra l’altro il Maimonide sottolinea che essa è propria della tradizione ebraica. Il vero uomo di fede, dunque, non deve semplicemente accettare le verità di fede che gli vengono tramandate per tradizione, ma deve studiare, indagare e comprendere il testo rivelato. A questo proposito, Anatoli critica aspramente sia il

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    poco studio, la lettura non profonda della Scrittura, sia il rispetto, solo esteriore, del culto. Qualsiasi atto di culto, come la lettura della Torah, la preghiera e la pratica di qualsiasi precetto, è vano se non si riflette e non si comprende il senso dell’atto in sé”(28).

    Ma perché, dunque, nei testi sacri si è preferito adottare un linguaggio sensibile, la cui forma di comunicazione risulta alla fine particolarmente insidiosa? Come abbiamo già detto, l’ignoranza del volgo non consente di cogliere “l’altro”, che c’è dietro le immagini sensibili, ma è, pur sempre, l’unica via per riuscire a trasmettere contenuti trascendenti. Lo stesso Tommaso d’Aquino, che nella sua formazione culturale ha sicuramente incontrato Maimonide, tanto è vero che nei suoi scritti lo cita più volte, affermò che è conveniente alla Sacra Scrittura comunicare attraverso immagini sensibili le realtà spirituali, “perché è naturale che l’uomo giunga all’intelligibile attraverso i sensibili, poiché ogni nostra conoscenza ha inizio dal senso”(29).

    Qui la nota massima scolastica nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu giuoca un ruolo di vasta portata spirituale. Almeno potenzialmente ci si riferisce a qualcosa di più alto dell’incapacità del volgo. Ogni conoscenza comincia dai sensi, ma non tutto termina in essi. Anche le immagini della Scrittura iniziano dal sensibile, ma devono condurre altrove. Quando la Bibbia parla di “braccio di Dio” (Lc 1,51), “l’espressione non va intesa come se Dio avesse un membro corporeo di tal fatta, ma bisogna cogliervi quel che vi è significato, vale a dire una virtù operativa”(30).

    Così pure la vista va compresa in maniera non sensibile, ma intelligibile e ciò vale per tutte le altre membra(31). Di fronte a queste considerazioni sembra necessario concludere che le immagini corporee riferite a Dio sono profondamente legate alla sfera dell’azione e della comunicazione. L’uomo può agire solo attraverso il corpo e la relazione interpersonale ha luogo unicamente attraverso la corporeità; a parti rovesciate il discorso vale anche in riferimento a Dio: le sue membra sono le sue opere.

    La rivelazione biblica, dunque, parla la lingua degli uomini, nel senso che viene attribuito a Dio quanto tutti possono cogliere nell’immediato. Dio viene descritto con attributi corporei per indicare che esiste. Lo stesso ragionamento vale per la perfezione. Tutto quanto la gente ritiene perfetto gli viene attribuito, mentre non gli è mai riferito quel che è ritenuto manchevole. Per questo non lo si presenta malato o ingiusto o cose simili. A tal proposito Maimonide scrive: “Tutto ciò che il volgo pensa che sia perfetto viene a Lui attribuito, anche se tale cosa è perfetta solo per quanto riguarda noi; infatti, per quanto riguarda Lui, tutte quelle cose che noi riteniamo perfette sono il massimo della manchevolezza. Tuttavia, se la gente immaginasse che Egli fosse privo di qualche perfezione umana, questo fatto per loro sarebbe davvero una manchevolezza”(32).

    Si tratta, dunque, di un linguaggio eminentemente pedagogico che va sottoposto a un processo di progressiva purificazione al fine di giungere a gradi di speculazione sempre più elevati. Ma, secondo Maimonide, come abbiamo già rilevato, è un processo che deve andare avanti molto lentamente, perché è pericoloso affrettare i

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    tempi, così come è sconveniente nutrire un lattante con pane e acqua(33). Quelle proposte dalla Bibbia, dunque, non sono le formulazioni più perfette; sono quelle che tutti possono comprendere, ma, anche, potenzialmente, equivocare. La ragione di questa scelta si trova nella difficoltà e nella lunghezza del cammino che porta alla perfezione intellettuale. Sotto questo aspetto, gli ostacoli sono numerosi e, in particolare, essi dipendono dalla sottigliezza e profondità degli argomenti e dalla pochezza di tutte le menti ai loro inizi.

    Più particolarmente, Maimonide sostiene che “in ogni individuo che disponga di qualcosa in potenza, questa cosa deve necessariamente diventare in atto. Talora, però, essa resta incompleta o perché vi sono ostacoli, o per lo scarso esercizio in ciò che fa diventare in atto questa potenza”(34).

    Ci sono, poi, altri ostacoli, fra cui la lunghezza degli studi preliminari, la predisposizione e il temperamento naturale, il fatto di poter pervenire alle virtù dianoetiche solo dopo aver esercitato quelle etiche, senza trascurare la necessità di occuparsi delle necessità del proprio corpo. Sullo sfondo appare con evidenza il retaggio aristotelico, in cui l’ideale della perfezione sta nel vivere umanamente, tenendo però conto dell’eccellenza dell’intelletto. Rispetto al linguaggio della Scrittura, l’opzione di Maimonide appare perciò a un tempo pedagogica ed elitaria.

    La dottrina dell’etica

    All’interno della riflessione maimonidea l’etica occupa un posto di rilievo. Anzi, per Giuseppe Laras, “la dottrina etica rappresenta la parte più originale, valida e duratura del suo sistema”(35). Non a caso, infatti, Maimonide colloca la moralità dell’uomo al di sopra del suo intelletto, escludendo categoricamente che chi sia carente di virtù morali possa pervenire a livelli elevati di perfezione intellettuale. Non solo, ma addirittura sostiene che l’immortalità, pur essendo possibile per tutti, nella realtà tocca solo a coloro che saranno riusciti ad elevarsi molto in alto sia sul piano intellettuale che morale. La perfezione intellettuale, dunque, passa attraverso la perfezione morale; quella senza questa non solo sarebbe insufficiente, ma impossibile. Va rilevato, ancora, che proprio, attraverso lo studio del pensiero etico maimonideo, anche la teoria degli attributi acquista maggiore chiarezza. Questi ultimi, secondo Maimonide, non possono in nessun caso, tranne quelli di azione, essere attribuiti a Dio, rendendo così vano ogni sforzo dell’uomo di potere pervenire alla sua conoscenza.

    Ma sorge, qui, un dilemma di non poco conto. Se il fine di ogni ebreo è quello di attuare la somiglianza originaria a Dio, come sarà possibile l’Imitatio Dei senza una profonda conoscenza di Dio? Se “l’uomo viene distinto dagli altri esseri per il fatto di essere riconosciuto come colui che si trova al cospetto di Dio”(36), come può stare al cospetto di Dio se, in realtà, non può conoscere la sua reale natura?

    Secondo Maimonide, l’uomo può avere una percezione di Dio che progredisce lungo il sentiero della teologia negativa, attribuendogli o la negazione della privazione di un attributo o un attributo d’azione. Attraverso questo percorso, l’uomo può solamente conoscere le azioni di Dio, che sono un riflesso della sua assoluta

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    semplicità e profondamente diverse dalle nostre azioni. Ma, pur essendo profondamente diverse, possono in qualche modo essere imitate, poiché, chiarisce Maimonide, “il massimo della virtù umana sta nell’assimilarsi a Dio secondo le possibilità dell’uomo, ossia nel rendere i nostri atti simili ai Suoi”(37).

    Per dare forza al suo discorso, Maimonide si rifà a un commento talmudico e, in particolare, all’episodio narrato in Esodo (33-34), quello in cui Mosè domanda a Dio di mostrargli il suo volto. Dio dice allora a Mosè che lo nasconderà nella cavità di una roccia: Dio passa davanti a Mosè che, dunque, non può vederlo, e Mosè guarda infine solo la traccia che il passaggio di Dio ha lasciato, una volta che egli si è allontanato. Nel testo biblico, dopo il passaggio divino, così sono enumerate le qualità divine che Mosè percepisce nella traccia che è davanti a lui: Il Signore è il Signore, misericordioso, longanime, tardivo nella collera, pieno di bontà, verace nel mantenere le promesse. Conserva il favore fino a mille generazioni, è proclive al perdono della colpa, della ribellione, del peccato; ma, quanto ad assolvere, non assolve, esigendo conto dei peccati dei padri da parte dei figli e dei nipoti fino alla terza e quarta discendenza. Dio punisce, a causa della giustizia, il peccatore che persiste nella colpa, ma egli è paziente e buono con coloro che commettono il male e sono disposti a tornare sulla retta via, e cancella le loro mancanze.

    Nel commento talmudico(38) queste qualità divine, menzionate nel testo biblico, vengono considerate in numero di tredici: esse sono le “misure” o middoth. Queste qualità, che sono esclusivamente morali, secondo Maimonide sono appunto gli attributi d’azione. Gli attributi, dunque, indicano un’attività divina, e questa è una attività di tipo morale. Gli attributi non indicano, però, tanto, per Maimonide, caratteri propri dell’azione di Dio, quanto modelli per l’uomo: quello che interessa non è tanto il fatto che Dio possieda certi attributi in modo che noi possiamo determinare esattamente quello che Dio sia, ma il fatto che essi sono norme per l’agire umano; rappresentano, cioè, modelli ed esempi per gli uomini. Sono questi, dunque, gli unici attributi che si possono assegnare a Dio in senso positivo. Si può dire di Dio quello che egli è solo nel momento in cui agisce in senso etico nei nostri confronti, altrimenti non si ha la possibilità di dare attributi positivi a Dio. Non si può fare, perché la nostra capacità intellettuale non è in grado di determinare esattamente la natura divina in se stessa. Si può capire il modo in cui Dio agisce per noi, quello che egli ci dà, quello che abbiamo ottenuto da lui, ma non si può sapere quello che egli è in se stesso.

    Hermann Cohen, che ha mostrato l’attualità di Maimonide nel pensiero ebraico del Novecento, ritiene che tutti gli attributi d’azione possano essere ricondotti a due soli attributi: la giustizia e l’amore, che, a loro volta, si sintetizzano nella santità di Dio. È interessante il fatto che Cohen non cerchi di ridurre a unità queste due qualità divine: la giustizia senza l’amore sarebbe manchevole, ma lo sarebbe anche l’amore assoluto senza giustizia. Per Cohen è necessario che tutti gli attributi etici di Dio siano riassunti in questi due attributi: la santità li comprende ambedue, non però conciliabili tra loro, ma nella loro tensione, in quanto connessi ma non riducibili a identità(39). Riassumendo, riguardo al pensiero di Maimonide, Cohen mette in rilievo

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    soprattutto l’aspetto etico: gli attributi morali di Dio e, attraverso il riferimento alla produttività divina, la capacità di Dio di entrare in contatto con l’uomo.

    “Nel monoteismo – afferma Cohen – il problema della creazione non si esaurisce nella creazione del mondo. Nella filosofia greca la questione riguarda solo l’origine del cosmo. Qui, invece, assume una posizione privilegiata l’uomo come portatore della ragione e come essere la cui ragione si riferisce all’eticità”(40). Quindi, è come se la creazione presupponesse la Torah.

    Questo è un tema che Cohen riprende da commenti tradizionali alla Torah: prima della creazione bisogna pensare che Dio dà all’uomo una legge. In termini coheniani, così appunto come Cohen illustra il rapporto tra creazione, legge e ragione umana, si dovrebbe dire: Dio crea l’uomo nella ragione, e soltanto perché ha creato l’uomo nella ragione vi è anche il mondo. Dunque, ancora una volta, in Cohen l’etica precede la nozione dell’essere, del cosmo. C’è un primato dell’etica sulla cosmologia e sull’ontologia, come dovremmo dire se volessimo utilizzare termini filosofici.

    Ora, se è attraverso l’azione che l’uomo conosce Dio, possiamo, proprio attraverso l’azione, portare a compimento la missione per cui siamo stati creati: imitare e assimilarci a Dio. L’azione, infatti, per il popolo ebraico è fondamentale. A tal proposito, Lattes rileva che “la religione ebraica è la religione dell’atto, dell’azione, non la religione del dogma, della teoria”(41). L’azione ricopre, così, un ruolo superiore a quello svolto dalla teologia con i suoi dogmi, poiché “conoscere Dio non vuol dire capirne intellettualmente l’essenza, ma seguirlo nelle sue vie, fare quello che Egli fa o che ordina si faccia”(42). Sotto questo aspetto, è il caso di rilevare che l’importanza di Maimonide nel pensiero contemporaneo viene ribadita anche da Heschel, quando rileva che oggi “la religione è decaduta non perché sia stata confutata, ma perché è divenuta trascurabile, noiosa, oppressiva, insipida”(43). La ragione è da ricercare, quindi, sempre secondo Heschel, nella sostituzione del pensiero concettuale al pensiero situazionale, della credenza alla fede, della disciplina al culto, dell’abitudine all’amore, dell’autorità alla voce della compassione. Tutto questo ha fatto sì che il messaggio della religione divenisse privo di significato; il suo è diventato un pensiero morto, una serie di risposte senza domande. Una religione priva di vita può entrare nell’intelletto, non nell’anima, può diventare parte del nostro sapere, non forza creativa e ispiratrice della vita e della cultura. La fede non è un accettare, come la credenza, un concetto, un giudizio, ma è un rapporto con Dio non con un concetto o con un dogma. “Diversamente dalla credenza, che accompagna la conoscenza o la percezione ed esprime l’assenso a ciò che conosciamo, la fede nasce al di là della conoscenza e della percezione; non si riferisce al conoscibile ma a ciò che trascende la conoscenza”(44). La religione, invece, sembra oggi, come una parte della filosofia contemporanea, aver perduto non solo l’arte di porre le domande giuste, ma anche di calarsi nella situazione esistenziale e totale dell’uomo e, soprattutto, di cogliere lo stretto legame tra Dio e l’uomo, riflessione, quest’ultima, he ci porta a prendere coscienza, come prima immediata conseguenza, che la fede non è soltanto l’assenso a una proposizione, ma “il fondare una vita intera sulla verità di una realtà invisibile”(45). Seguire Dio nelle sue vie presuppone, dunque, che l’uomo possegga un grande spessore morale e che la sua azione scaturisca da una

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    volontà altamente etica. “Conoscere Dio, infatti, vuol dire adempiere al bene, amare Dio vuol dire amare gli uomini”(46).

    L’azione, quindi, presuppone un atteggiamento etico dell’uomo, rivolto non esclusivamente a Dio, ma a tutto il creato e, in particolar modo agli uomini.

    Anche Lévinas, facendo riferimento agli attributi d’azione di Maimonide, rileva che essi esprimono qualità elusivamente di tipo etico che, proprio per ciò, indicano non tanto un essere, quanto un dover essere.

    Nel saggio Una religione di adulti, Lèvinas scrive:

    “La relazione morale riunisce, nello stesso tempo, la coscienza di sé e la coscienza di Dio. L’etica non è un corollario della visione di Dio: è questa stessa visione. L’etica è un’ottica. Di modo che tutto ciò che io so di Dio e tutto ciò che io posso capire della sua parola e dirgli ragionevolmente, deve trovare un’espressione etica. Nell’arca santa da cui Mosé ascolta la voce di Dio non vi è alcuna altra cosa che le tavole della legge. La conoscenza di Dio che noi possiamo avere e che si esprime – secondo Maimonide – sotto forma di attributi negativi, riceve un senso positivo a partire dalla morale. “Dio è misericordioso” significa “ siate misericordiosi come lui”. Gli attributi di Dio sono dati non all’indicativo, ma all’imperativo; la conoscenza di Dio ci viene come un comandamento, come una mizwà”(47).

    Tali attributi, quindi, suonano per l’uomo come imperativi: essi non gli danno tanto una conoscenza come descrizione di una realtà, quanto una conoscenza pratica rivolta all’azione. Inoltre, ricorda ancora Lèvinas, la stessa visione di Dio per Maimonide, come del resto per l’intero ebraismo, è prevalentemente di tipo etico: tutto ciò che si sa di Dio è espresso appunto in senso morale. Anche quelli che possono essere gli attributi che vanno al di là dell’etica – Dio è creatore, onnipotente, onnisciente – dovrebbero essere ricondotti ad attributi di carattere morale: anche riguardo a tali attributi bisognerebbe sottolineare il loro legame con la giustizia e la bontà divina. In altre parole, e richiamandosi sempre a Maimonide, quello che Lèvinas intravede è l’auspicio dell’affermarsi di un “umanesimo ebraico”.

    “Moses Mendelssohn – scrive Lèvinas – ha suggerito ai moderni una veduta che Spinoza aveva ripreso da Maimonide. Il più antico dei monoteismi non sarebbe una religione rivelata, ma una legge rivelata: la sua verità sarebbe universale come la ragione; la sua regola e le sue istituzioni morali, apporto particolare dell’ebraismo, preserverebbero questa verità dalla corruzione. L’eccellenza dell’ebraismo consisterebbe già nel non sostituirsi alla ragione, nel non far violenza allo spirito; ma il suo genio sarebbe pratico”(48).

    Lévinas vuole, quindi, sottolineare che la conoscenza di Dio non è rivolta a un Essere, non è dunque una dottrina, bensì la conoscenza di una legge comunicata dal profeta e che questa legge ha, di conseguenza, un significato etico. È necessario che la legge sia conosciuta affinchè le stesse verità teoretiche, accessibili alla ragione, trovino espressione e una conferma in senso pratico: soltanto in tale modo queste ultime verità si mantengono vive nella storia. Se, invece, queste verità vengono enunciate soltanto nella dottrina, esse sono destinate a deperire, a esaurirsi. Esse vivono soltanto se affermate attraverso le azioni, nella vita reale, nella concretezza

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    della realtà umana: così le pure idee della ragione trovano un’attuazione nel campo della pratica. Ecco perché il monoteismo ebraico, il più antico dei monoteismi, come scrive Lévinas, si configura come una legge rivelata. Questa legge viene accolta nella libertà: non si tratta di una violenza fatta allo spirito, non si tratta di comandamenti che vengono imposti alla volontà, ma di comandamenti che sono accettati liberamente. Questa libertà dell’uomo ha il suo presupposto, d’altro lato, nella capacità razionale umana di conoscere l’Essere divino. Ma il genio dell’ebraismo è soprattutto pratico perché la ragione, rivolta al sovrasensibile, diviene veramente operante solo attraverso la prassi.

    La vera conoscenza di Dio – afferma più volte Maimonide – è la conoscenza non del suo essere, ma della sua attività: l’uomo può conoscere di Dio, in senso positivo, soltanto quegli attributi che sono definibili come “attributi d’azione”, cioè il fatto che egli ama gli uomini ed esercita giustizia verso di loro. La conoscenza di Dio non isola, dunque, soltanto l’uomo nella contemplazione, ma lo spinge anche a tornare tra gli uomini per vivere con loro e per insegnare loro la verità, ovvero che vi è un Dio amante e che compie il giusto. Dio rappresenta il modello delle azioni umane: l’uomo assume Dio come suo modello quando, amandolo più di ogni altra cosa, agisce nel mondo amando le sue creature e praticando la giustizia verso di esse. L’anima umana è immortale perché essa è in grado, amando-conoscendo Dio, di giungere fino a lui: l’individuo ama in Dio colui che l’ha amato di un amore infinito nel momento in cui gli ha dato una legge da osservare attraverso la preghiera e l’agire nel mondo. È solo attraverso l’osservanza di questa legge, animata dalla conoscenza-amore di Dio, che gli esseri umani possono contribuire all’attuazione di un’età in cui il nome divino sarà riconosciuto da ogni popolo e da ogni individuo: ogni essere umano che agisce secondo carità ed equità nei confronti degli altri uomini, innanzi tutto coloro che gli sono prossimi, affretta, secondo Maimonide, quell’era messianica che riguarderà, infine, tutta l’umanità. Chiunque, viceversa, non agisce eticamente, nega la stessa esistenza di Dio.

    “Nega Iddio unico – afferma Lattes – chi non lo abbia presente nella sua attività quotidiana, chi non lo senta vivente nella società degli uomini, chi non ne celebri nella terra la volontà e l’idea, chi non ne concreti nella propria immagine la somiglianza, chi non ne faccia discendere nell’unità degli uomini, nell’armonia della società la sua Shekhinà “(49).

    L’agire non eticamente è, dunque, al contrario, un grave peccato. “Per l’ebraismo ogni azione cattiva è una profanazione del nome di Dio. Ogni

    atto nobile e buono è una santificazione del Suo nome fra gli uomini, poiché la religione non è in sostanza che l’imperativo morale di Dio, rivelatosi come la più alta personalità etica, come Colui che fa il bene”(50). Di conseguenza, attraverso l’atto morale, l’uomo compie ciò che Dio stesso chiede, poiché “questo Dio vuol essere conosciuto e amato. La sapienza d’Israele è la conoscenza di Dio, cioè della Sua volontà, che è l’atto morale”(51).

    La conoscenza, così, non viene più impiegata e indirizzata nei confronti della natura, come nel pensiero aristotelico, ma, al contrario, è indirizzata e orientata nei confronti di Dio, e in ciò viene a configurarsi come conoscenza metafisica. Così,

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    anche nei confronti dell’etica, Maimonide segue Aristotele fino a un certo punto. Mentre per lo Stagirita il fine ultimo dell’etica è essenzialmente un fine sociale, per Maimonide l’obiettivo finale è di ordine metafisico: “l’atto etico, oltreché essere impregnato e sospinto da elementi religiosi, è altresì strumento di elevazione spirituale”(52).

    Religione ed etica, dunque, sono un binomio inscindibile e questo stretto rapporto chiarisce il motivo per cui l’agire morale rappresenta un elemento fondamentale e insostituibile della religione ebraica.

    Infatti, rileva opportunamente Lattes, “la religione ebraica vuole una vita morale; la dottrina in tanto è grande in quanto conduce all’azione e quello che costituisce l’elemento fondamentale del pensiero ebraico non è la coscienza o la confessione teorica del bene, ma l’opera del bene”(53).

    Mediante l’azione, quindi, l’uomo rende manifesta l’esistenza di Dio e, nello stesso tempo, nel suo atto etico, attesta la presenza di Dio, che è eticità. Difatti, la religione ebraica “non è soltanto una somma di principi dogmatici; è eticità in atto, non eticità in principio”(54).

    L’ebraismo, infatti, non separa l’essere dall’agire. Ciò che è, agisce. “Il Dio di Israele è un Dio che agisce, un Dio di grandi opere. La Bibbia non dice come Egli è, ma come agisce. Parla dei suoi atti di pathos e dei Suoi gesti nella storia; Dio non è concepito come “vero essere”, ma come il semper agens. Qui la categoria fondamentale è l’azione invece che l’immobilità. Movimento, creazione della natura, azione all’interno della storia, più che assoluta trascendenza e distacco dagli eventi della storia, sono gli attributi dell’Essere Supremo”(55).

    “Israele - scrive Levi - interpretando il senso della sua “elezione”, il merito storico che ha avuto il popolo eletto, e sottolineando la sua obbedienza a Dio senza preliminari o condizioni “unica tra tutte le nazioni, si risolve a “fare” e poi a “ascoltare”; a fare cioè prima di sapere che cosa occorra fare, a agire assolutamente prima di intendere relativamente”(56).

    Per l’ebreo, infatti, l’esistenza non è il frutto della volontà di esistere, ma rinvia alla volontà di Dio. Essere è, dunque, obbedienza al comandamento di esistere: è una risposta. “Vivere implica accettazione di un significato, obbedienza e impegno”(57). Chi si comporta con “costante fedeltà” afferma la verità. Il contrario della verità non è l’errore, la falsità, ma l’infedeltà, la menzogna. La verità di Dio è la sua fedeltà a ciò che misericordiosamente promette, è la sua “costante clemenza”. “La verità ebraica – afferma Quinzio – non è qualcosa che si conosce, ma qualcosa che si pratica, osservando la Legge che è espressione della verità-fedeltà di Dio … Il primato dell’azione lo si può rilevare anche nel significato di “parola” (davar). In greco “parola” e “idea” s’identificano (un unico termine: logos), mentre in ebraico s’identificano parola e cosa (un unico termine: davar). La “parola” greca, in quanto idea, ha riferimento alla conoscenza; la “parola” ebraica, in quanto cosa, ha riferimento invece all’azione. La parola ebraica è cosa nel senso che suscita la cosa, come nel “fiat” genesiaco: la parola ordina che la cosa corrispondente sia fatta”(58).

    Abraham Heschel, generalmente critico nei confronti della filosofia maimonidea, mostra una certa sintonia con quest’ultima, quando sostiene che “la

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    conoscenza di Dio nell’ebraismo è conoscenza di vita con Dio. L’esistenza religiosa di Israele è fondata su tre atteggiamenti interiori: “l’impegno verso Dio vivente davanti al quale siamo responsabili; l’impegno verso la Torah nella quale si può udire la sua voce e l’impegno di comunicare con lui attraverso le miz-voth”(59).

    La costante di questi tre atteggiamenti è l’impegno, il darsi in-pegno, l’obbligarsi – a, il legarsi –a, l’assunzione pienamente responsabile del proprio debito. L’ebraismo è una religione della responsabilità e, di conseguenza, è nell’agire che si rivela e si avverte la volontà divina. L’ebreo è chiamato a compiere un salto nell’azione più che nel pensiero. All’ebreo “viene chiesto di trascendere le sue necessità, di fare più di quello che comprende per poter comprendere più di quello che fa. Mettendo in pratica la parola della Torah, egli si vede introdotto nel suo significato spirituale. Attraverso l’estasi degli atti, egli acquista la certezza della presenza di Dio. Vivere nel modo giusto porta a pensare nel modo giusto”(60).

    È nelle azioni che l’uomo si accorge della vera realtà della sua vita. Tra l’altro, se la verità si fa, è nel fare, nella scienza delle azioni che noi scopriamo la verità. È nella esplicazione della sua volontà, e non attraverso la riflessione, che l’uomo incontra il suo vero io. Nelle azioni l’uomo manifesta il suo cuore, esprime ciò che non osa neppure pensare. L’azione è il nostro banco di prova. Un atto produce una infinità di effetti incalcolabili, l’agire ci fa vedere quanto sia esteso il nostro potere. Le conseguenze, intenzionali e soprattutto non intenzionali, delle nostre azioni sono infinite, mentre il nostro sapere è finito.

    Come è possibile essere responsabili, riuscire a conciliare la responsabilità di tutto ciò che facciamo e di tutto ciò che tralasciamo di fare, le conseguenze infinite delle nostre azioni e il nostro sapere finito? La nostra infinita responsabilità senza un infinito sapere e una infinita potenza crea nell’uomo imbarazzo e dovrebbe sempre indurre l’uomo a considerarsi in parte colpevole e in parte meritevole. Quella biblica è un’etica della responsabilità teologicamente ispirata. “L’uomo è responsabile delle sue azioni – scrive Heschel – e Dio a sua volta è responsabile della responsabilità dell’uomo. Colui che dà la vita deve anche dare la legge. Egli partecipa alla nostra responsabilità e attende di penetrare nelle nostre azioni mediante la nostra lealtà alla sua legge. Egli può diventare il compagno delle nostre azioni. Dio e l’uomo hanno un compito in comune e anche una reciproca responsabilità”(61).

    Il legame tra l’uomo e Dio viene stabilito attraverso tutte le azioni della nostra vita. Oltre che di analogia dell’essenza (l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio) Heschel parla di analogia delle azioni: “L’uomo può agire a somiglianza di Dio. Ed è appunto la somiglianza delle azioni – camminare nelle sue vie – che stabilisce il vincolo per cui l’uomo può avvicinarsi a Dio. Vivendo in tale somiglianza si realizza la vera imitazione del Divino”(62).

    L’azione morale, dunque, dà senso alla religione ebraica, che non può più essere considerata, esclusivamente, come un insieme di principi e dogmi. L’ideale non può essere confinato solamente in una sfera metafisica, ma esige una realizzazione.

    “La religione ebraica, infatti – precisa Lattes – non è una specie di ideale che si conosce soltanto, ma un ideale che deve essere quotidianamente ed immediatamente attuato e che non può continuare ad essere un’entità astratta, d’ordine metafisico od

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    escatologico, ma deve essere una potenza che può e deve concretarsi”(63). La fede, pertanto, deve essere necessariamente accompagnata dall’azione, a dimostrazione della “profonda convinzione ebraica che il modo più autentico di conoscere Dio sta nel mettere in pratica la parola rivelata”(64).

    A questo punto è necessario chiarire come mai l’agire etico abbia acquistato una simile centralità nel pensiero religioso ebraico. La motivazione è da ricercare nella Torah, sia scritta che orale, poiché essa rappresenta la pienezza della rivelazione e, in quanto tale, è immutabile e irrevocabile. “Le settanta facce della Torah”, espressione spesso ricorrente tra i cabalisti, “sta proprio, simbolicamente, ad indicare l’inesausta totalità e pienezza di senso della parola di Dio”(65).

    Il termine “Legge”, però, adoperato nella traduzione dei LXX, non deve far pensare alla religione ebraica come una religione legalistica. Essendo nell’ebraismo la religione e la legge inseparabili, spesso l’ebraismo è stato identificato con il legalismo. Certamente per chi la religione è uno stato dell’anima piuttosto che un impegno totale, fede più che azione, atto spirituale più che atto concreto, un fatto interiore piuttosto che obbedienza e risposta a Dio, prova difficoltà a capire l’ebraismo. Senza negare l’importanza della partecipazione del cuore, dell’elemento interiore, dell’amore, della fede, il problema fondamentale dell’ebraismo non è quale sia l’azione giusta né quale sia l’intenzione giusta, ma qual è il modo di vivere giusto. L’ebraismo ha una visione integrale e individuale della vita e dell’uomo. La sfera interiore non è mai distaccata dalle azioni.

    “Azione e pensiero –chiarisce Heschel – sono collegati fra loro in un tutto unico. Tutto ciò che un individuo pensa e sente penetra in tutto ciò che fa, e tutto ciò che egli fa è coinvolto in ciò che egli pensa e sente. Le aspirazioni spirituali sono destinate a fallire quando cerchiamo di promuovere delle azioni a scapito dei pensieri o dei pensieri a scapito delle azioni. Vivere nella maniera giusta è come un’opera d’arte, è il prodotto di una visione e di una lotta legata a situazioni concrete”(66).

    L’ebraismo è nemico dell’indeterminato, dell’astratto. È importante l’intenzione, il come, ma anche l’azione, il che cosa. Non dimentica che “ l’inferno è lastricato di buone intenzioni”. Supera la dicotomia tra etica teleologica ed etica deontologica, tra autonomia ed eteronomia. Benché sia vero che noi dovremmo seguire il valore-giustizia per semplice amore della giustizia, è anche vero che tale valore non è fine a se stesso, ma esiste per il bene dell’uomo.

    “Definire la giustizia – precisa Heschel – come un valore da perseguire per se stesso vuol dire definire il motivo, invece che lo scopo. E’ vero il contrario: il bene, a differenza del giuoco, non viene mai fatto per se stesso, ma per uno scopo. Pensare in modo diverso significa trasformare un ideale in un idolo; è l’inizio del fanatismo. Se si definisce il bene con il solo motivo, mettendolo sullo stesso piano della buona intenzione, senza tener presente lo scopo e l’essenza dell’azione giusta, si dice solo una mezza verità”(67).

    Preoccuparsi solo del rapporto dell’uomo con i valori, del come, trascurando il rapporto dei valori con l’uomo, significa considerare soltanto il motivo e non lo scopo della religione e della morale, senza badare al che cosa, alle azioni che ne

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    possono scaturire né ai fini che si possono raggiungere. La propria rettitudine, il senso del dovere, la retta intenzione diventano più importanti del destino di tutti gli uomini. L’ebraismo mette l’accento sull’importanza intrinseca e sul valore delle azioni umane. Se l’intenzione non basta a determinare l’azione, la mancanza di una intenzione giusta non compromette necessariamente la bontà di un atto.

    “Le azioni buone di ogni uomo, a qualunque popolo o religione appartenga, - ribadisce Heschel – anche se provengono da una persona che non è mai stata raggiunta dalle parole di un profeta e che perciò agisce in base alla propria intuizione, saranno ricompensate da Dio”(68).

    L’ebraismo si oppone alla ricerca di un significato nella vita, di valori, di ideali, che siano staccati dall’agire, come se fossero delle entità separate. Nella religione e nella morale la ragione è simile alla pietra che, come dice un detto ebraico, affila il ferro, ma è incapace di segarlo.

    L’uomo può nutrire alti ideali e comportarsi come l’asino che, secondo il detto, “porta l’oro e mangia i cardi”. Il significato, i valori non potranno essere scoperti in concetti stagnanti, fissi e stabiliti una volta per sempre, ma devono essere gustati. Heschel sottolinea il binomio significato-sapere, che è simile al senso originario di sapienza-sapere (da sapio). “Un individuo, quando compie una mizvà, la quale a sua volta gli trasmette il suo significato, sente appunto il sapore”(69).

    Il binomio significato-sapore non si raggiunge attraverso semplici formulazioni, ma nasce dall’atto stesso dell’adempimento e, quanto più cresce la nostra esperienza, tanto più grande è in noi il riconoscimento del suo valore. Le mizvoth o precetti o comandamenti che organizzano ogni aspetto della vita sono “un modo di evocare continuamente nuovi significati. Essi sono atti di ispirazione più che di acquiescenza. Sono i canti con cui esprimiamo la nostra meraviglia”(70).

    La causa dell’insuccesso dell’etica nella vita individuale e sociale deriva dal fatto che, mentre ammiriamo gli ideali, tralasciamo di procurarci i relativi strumenti per raggiungerli. Le mizvoth sono i veicoli, gli strumenti con i quali avanziamo verso la realizzazione dei fini spirituali e dei valori. Le idee si devono convertire in azioni, le intuizioni metafisiche in disegni per l’azione, i principi più elevati devono essere rapportati alla condotta di tutti i giorni. Nella tradizione ebraica “l’astratto diviene concreto, l’assoluto diviene storico. Rappresentando il sacro sulla scena del vivere concreto, ci rendiamo conto della nostra affinità col divino, avvertiamo la presenza del divino; comprendiamo con le azioni ciò che può essere afferrato con la riflessione”(71).

    La Legge è, quindi, strumento propedeutico per il conseguimento di rette opinioni, in quanto le opinioni non durano se non sono accompagnate da azioni che le fortificano e le perpetuano nella massa. La Legge è, dunque, sia causa che conseguenza dell’amore di Dio. Maimonide conosce bene l’importanza dei precetti, tanto da dedicare loro molto spazio nella sua Guida e al ruolo che essi possiedono all’interno del pensiero ebraico.

    “L’intenzione di tutta la Legge – spiega – consta di due cose: il benessere dell’anima e il benessere del corpo”ma “ di questi due intendimenti uno è

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    indubbiamente maggiore per nobiltà: è il benessere dell’anima, poiché è essa sola causa della sopravvivenza eterna”(72).

    Ogni precetto ha un motivo chiaro e un’utilità evidente, poiché non possiamo attribuire a Dio delle azioni prive di un effettivo senso. Dio compie esclusivamente azioni buone e, in modo assoluto, non compie azioni vane. A tal proposito, Maimonide chiarisce “che una persona dotata di intelletto non arriva a dire che una delle azioni compiute da Dio è vana, inutile e frivola; e secondo la nostra opinione[…] le sue azioni sono tutte buone e belle”(73).

    Di conseguenza, la Legge e i precetti non sono “una cosa vacua e senza fine vantaggioso, e se a voi sembra che in uno dei precetti le cose stiano così, la manchevolezza sta nella vostra comprensione”(74), e, pertanto, “il complesso dei precetti ha necessariamente una causa, ed è stato fissato in vista di una qualche utilità”(75).

    La legge, dunque, è di per sé una forza pedagogica che conduce alla perfezione etica ed intellettuale e, quindi, un efficace strumento di educazione e di edificazione. La Legge richiede, in quanto tale, di essere compresa ed apprezzata, obbedita e messa in pratica. Il Talmud stesso, ad esempio, distingue i precetti in chuqqim (non motivabili razionalmente: per esempio il divieto di indossare abiti confezionati con lana e lino insieme) e mishpatim (motivabili razionalmente: per esempio. non rubare). Questi ultimi, secondo Maimonide, sono i precetti la cui utilità è riconosciuta dalla massa, mentre quelli la cui utilità non è chiara ai più sono chiamati chuqqim. Anche questi ultimi, argomenta Maimonide, hanno in realtà una ragione profonda nella mente divina, ma essa ci sfugge, vuoi per incapacità del nostro intelletto, vuoi per mancanza di conoscenza. In ogni caso, la Torah ci dice che “nulla in essa è vuoto per voi” ( Dt. 32,47), volendo significare che se qualcosa noi reputiamo privo di senso, è a causa nostra.

    Secondo Maimonide, l’intelligenza e la sapienza del popolo ebraico è rappresentata proprio dal suo tenace attaccamento ai chuqqim, dal non riconoscere alcuna distinzione fra questi e i mishpatim. I chuqqim, in poche parole, devono avere una base razionale, altrimenti non potrebbero provare che la Torah nel suo complesso è basata sulla ragione e la sapienza. Ogni legge ha una funzione pedagogica, e in questo senso va interpretata.

    In particolare, nei 613 precetti Maimonide distingue tre finalità: principi di utilità e giustizia sociale per il conseguimento di una collettività civile, principi di bontà e amore del prossimo per lo sviluppo di una personalità individuale etica e, infine, principi di perfezione intellettuale per una vera conoscenza ed esperienza di Dio. Per Maimonide, dunque, il perfezionamento materiale e il miglioramento del livello della socialità sono indispensabili per il raggiungimento del livello ultimo della perfezione spirituale, perché, se non c’è la pace sociale, se non c’è una società ordinata e pacifica, l’individuo non può concentrarsi e acquisire la conoscenza metafisica.

    Sotto questo profilo è necessario, infatti, mettere in evidenza che quando Maimonide nella Guida dei perplessi si riferisce a Dio lo fa prevalentemente in termini etici. Dio non è per lui un oggetto del pensare, l’Assoluto come essere che

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    viene pensato, ma come persona. Non si tratta tanto di contemplare Dio in quanto Sommo Ente, ma di avere con Dio un rapporto da persona a persona, mediato da una conoscenza che nello stesso tempo si configura come amore. Infatti, se Dio non è oggetto, non è contenuto di pensiero, ma persona, entra allora in giuoco, nel momento in cui ci riferiamo a Dio, non soltanto l’attività intellettuale, ma anche la passione: la stessa attività intellettuale che conduce a Dio si configura come amare Dio.

    Dio, inoltre, viene concepito da Maimonide come abbiamo già visto, non come un essere dato, come una sostanza, ma come attività continua. Dio viene concepito nella sua attività, nel suo rapporto con il mondo in quanto essere agente, in quanto essere amante: in tal senso non si dovrebbe dire tanto, parlando di Dio, che egli è amore, quanto che egli è colui che ama, nel momento in cui rivolge il suo attivo amore verso un certo punto determinato della creazione. Infine, il rapporto che l’essere umano ha con Dio riguarda non la pura considerazione intellettuale, ma la considerazione intellettuale in quanto indirizzata all’azione pratica. Tale elemento è in un certo modo una conseguenza dei primi due: poiché l’uomo conosce Dio come persona nell’amore, ed egli considera Dio nella sua attività, allora la sua conoscenza non produce di per sé appagamento, ma è finalizzata all’azione avente un significato morale. Il Dio amato nella conoscenza come essere amante è anche il Dio la cui conoscenza si configura come conoscenza etica rivolta alla pratica.

    Per molti secoli, la Guida dei perplessi è stata letta come opera che avrebbe rappresentato la presenza aristotelica nel pensiero ebraico: cioè, Maimonide, è stato visto come il maggiore pensatore ebreo allievo di Aristotele. Molto spesso, infatti, nelle storie della filosofia o nei dizionari filosofici, si presenta Maimonide come rappresentante dell’aristotelismo ebraico.

    Invece, nel momento in cui, leggendo la Guida dei perplessi, si pone l’accento sul fatto che il rapporto tra uomo e Dio è rapporto da persona a persona, rapporto mediato dalla passione e dall’amore, e sul fatto che tale rapporto induce all’attività di carattere morale, il pensatore e il maestro importante per Maimonide viene ad essere non più Aristotele, ma Platone. Cambia allora la prospettiva di lettura di tale opera. Aristotele è il pensatore dell’Essere, è il pensatore della metafisica come dottrina che determina l’Essere, è il filosofo che ha messo in rilievo come Dio sia sommo Ente; il Platone della Repubblica è, invece, il pensatore che ha considerato l’Assoluto come Bene. Nella Repubblica di Platone l’idea somma, l’idea culminante nel mondo delle idee è l’idea del Bene, dunque un’idea morale. Nella Repubblica, inoltre, Platone mette in rilievo come colui che contempla l’idea del Bene non si fermi alla contemplazione, ma deve poi educare i suoi concittadini all’esercizio dell’attività morale. Colui che contempla l’Assoluto, il filosofo, è anche colui che poi ritorna nella città per educare i suoi concittadini.

    La contemplazione, nella Repubblica di Platone, diventa uno strumento per insegnare, per educare, per agire all’interno della comunità. Ecco perché Platone si delinea come il pensatore che Maimonide avrebbe avuto innanzi tutto come punto di riferimento: non più l’Aristotele metafisico, ma piuttosto il Platone della Repubblica. Sicuramente Maimonide conobbe Platone attraverso la lettura dei filosofi arabi e, in particolare di Al-farabi e Avicenna, due tra le fonti più importanti della Guida dei

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    perplessi, che avevano visto in Platone un filosofo della morale e della politica. Sotto il loro influsso Maimonide si interessò a Platone, spinto da un ben preciso interesse: quello morale e politico e è certamente ispirato da quest’ultimo nel momento in cui delinea l’idea del Bene e il rapporto tra uomo e Dio. Da qui la trasformazione della metafisica in etica e della conoscenza di Dio come conoscenza pratica di colui che agisce moralmente mosso dall’amore come continua attività.

    Lo stesso Cohen mette in evidenza come il senso della legge del Sinai, specialmente di quella parte di essa che consiste nelle prescrizioni di carattere sociale, sia quello di indirizzare l’uomo verso una condotta etica. Proprio perciò il Dio che dà tale legge è un Dio i cui caratteri fondamentali sono quelli di essere giusto e pietoso verso l’umanità. La rivelazione, che unisce l’umanità e Dio, implica il loro legame unicamente attraverso l’esercizio di tali virtù. Ciò spiega perché i comandamenti divini non siano descritti in Deuteronomio (30,11-14), come ciò che è in cielo o al di là del mare, come ciò che è nascosto o lontano, ma come ciò che è nella bocca e nel cuore dell’uomo: essere in contatto con Dio vuol dire mettere in pratica i suoi comandamenti, rivolti al bene.

    L’espressione “santo spirito” o “spirito di santità” è, infatti, in riferimento sia a Dio sia agli esseri umani. Tale spirito non è altro che la ragione pratica stessa, lo spirito di eticità. Tale spirito è nell’uomo anche quando egli compie il male: esso è il presupposto che permette ogni volta di nuovo la sua riconciliazione con Dio. Come Dio santifica l’umanità, così l’umanità dovrebbe santificare Dio: lo spirito di santità è il momento che li pone in relazione. Su tale argomento, così Cohen si esprime: “Attraverso lo spirito ogni uomo è chiamato alla santità; a ogni uomo si rivolge il comandamento della santità, e così anche Dio vuole essere santificato attraverso ogni uomo. La correlazione ha anche questo effetto reciproco come conseguenza. Il comandamento: “voi dovete essere santi” ha come conseguenza l’altro: ”e voi dovete santificarmi”. Ciò è analogo alla proposizione: “E io sarò santificato tra gli Israeliti”( Levitico 22,32). Dio raggiunge la sua santità attraverso l’uomo. Così esige la correlazione. E gli uomini soddisfano il loro tendere alla santità nel riconoscimento del modello originario della santità in Dio, nella cui emulazione essi stessi si santificano”(76).

    È per questa ragione che gli individui debbono essere singolarmente educati e abituati alla pace, alla creatività, all’accettazione dell’altro, affinché tutte queste individualità determinino la formazione di una società piena di tali idealità. Solo una società ordinata, tranquilla e pacifica secondo Maimonide, può consentire al singolo di accedere all’ultima perfezione. Le mitzvoth, di conseguenza, hanno lo scopo di consentire di arrivare solo alla perfezione prima, che è la socialità. Una tale impostazione, in un certo senso difforme dai testi canonici (Torah come mezzo e non come fine) fu aspramente criticata da molti ebrei contemporanei di Maimonide, in quanto suscettibile di far decadere l’osservanza pratica dei precetti.

    Maimonide rigettò le critiche, attribuendole, come al solito, alla scarsa capacità di molti uomini del giusto uso del proprio intelletto, poiché chiarì che l’intenzione delle mitzvoth risiede a diffondere tra gli uomini delle opinioni corrette e a indurli a

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    dei costumi nobili, eliminando l’ingiustizia, tramite azioni amministrative e politiche rette.

    In realtà – precisa Laras – la maggior parte di esse è finalizzata “a far acquisire al soggetto destinatario un alto livello di eticità come stadio int