africare · la foto del con il contributo del o-r-f-r-o-m-l-nelle pagine interne intervista con...
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N. 13 - maggio 2019 – Stampato in proprio
AFRIFrammenti di cultura, società e …
GIORNATA MONDIALE
DEL RIFUGIATO Sembra tutto apparente-
mente uguale, eppure
qualcosa è cambiato, e
non può lasciarci indiffe-
renti.
C’è chi la chiama inva-
sione. A conti fatti sono
qualche centinaio di gio-
vani uomini e donne che
cammino per le strade
della città.
Li osserviamo passare e ci interrogano. Ma è
difficile pensare di fermarsi e chiedergli qualc
sa.
Potremmo scoprire storie dure, tristi, a volte te
ribili. Rientrare a casa la sera diventerebbe di
ficile perché il pensiero, come un tarlo, non se
ne andrebbe via, inquinandoci il sonno
Ascoltare diventa allora una scelta. Precisa. Pe
ché l’ascolto implica necessariamente il dialogo,
il dialogo apre al confronto e il confronto rim
dula i presupposti su cui tutti ci siamo da se
pre ancorati. Prendere tempo, fermarsi, aprire le
orecchie, sintonizzarsi e lasciarsi coinvolgere,
diventa un atto concreto di presenza, di apertura
e di resistenza,oltre che di umanità.
La Cooperativa Nuovi Vicini da anni asco
ta ed accoglie storie di uomini e donne che sono
partiti. In collaborazione con l’insegnante Maria
Chiara Caccia, ha scelto di dare voce ad alcune
Associazione "Hapa Tuko"
Stampato in proprio
1
AFRICAREFrammenti di cultura, società e … sentimento
LA FOTO DEL
Con il contributo del
GIORNATA MONDIALE
Li osserviamo passare e ci interrogano. Ma è
difficile pensare di fermarsi e chiedergli qualco-
Potremmo scoprire storie dure, tristi, a volte ter-
i. Rientrare a casa la sera diventerebbe dif-
ficile perché il pensiero, come un tarlo, non se
ne andrebbe via, inquinandoci il sonno
Ascoltare diventa allora una scelta. Precisa. Per-
ché l’ascolto implica necessariamente il dialogo,
nto e il confronto rimo-
dula i presupposti su cui tutti ci siamo da sem-
pre ancorati. Prendere tempo, fermarsi, aprire le
orecchie, sintonizzarsi e lasciarsi coinvolgere,
diventa un atto concreto di presenza, di apertura
e di resistenza,oltre che di umanità.
La Cooperativa Nuovi Vicini da anni ascol-
ta ed accoglie storie di uomini e donne che sono
partiti. In collaborazione con l’insegnante Maria
Chiara Caccia, ha scelto di dare voce ad alcune
NELLE PAGINE INTERNE
Intervista con Ivana Latrofa
I nuovi versi di Soyinka
Chiunque nel giustificato timore
Le odierne Eneidi
Homo sum
"Il progetto Giovani, nuove ali per il volontariato è finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia con risorse statali del Ministero del lche sociali ai sensi dell'art.72 del D.Lgs. 117/2Codice del Terzo Settore"
Associazione "Hapa Tuko"
CARE entimento
OTO DEL MESE
Con il contributo del
NELLE PAGINE INTERNE
Ivana Latrofa
I nuovi versi di Soyinka Storie d'Africa
Chiunque nel giustificato timore
"Il progetto Giovani, nuove ali per il volontariato è finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia con risorse statali del Ministero del lavoro e delle Politi-che sociali ai sensi dell'art.72 del D.Lgs. 117/2017 -
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
“ALIMENTANO L’ODIO, IL RIFIUTO;
rispondiamo con la solidarietà e l’accoglienza”
Intervista con Ivana Latrofa
presidente della cooperativa Nuovi vicini
Con parole dure, sferzanti, pre-
occupate Ivana Latrofa, presi-
dente della cooperativa Nuovi
Vicini , ci descrive la situazione
che si sta creando in seguito ai
provvedimenti, agli atteggia-
menti del nuovo governo italia-
no:
“Si sta cavalcando l’odio, si
vuole fomentare l’odio; tutti
sappiamo come sono trattati i
migranti in Libia e tuttavia si af-
fida alla polizia libica il compito
di raccogliere i naufraghi per
riportarli nei campi di detenzio-
storie migranti raccogliendole in una mostra di fotografie e testi che raccontano storie di viaggio e di
fuga. Si è deciso di intitolare la mostra “Chiunque nel giustificato timore”, a ricordare che nell’art. 1
della Convenzione di Ginevra(che vede più di 140 stati contraenti)si è sottoscritto che “chiun-
que”,nella paura d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua ap-
partenenza a un gruppo sociale o le sue opinioni politiche, ha diritto di chiedere protezione.
Ed è proprio quel “chiunque” che viene spesso dimenticato. I richiedenti asilo, come categoria ad uso
e consumo delle più diverse definizioni, sembrano infatti non esistere come individui ma solo come
massa, invadente e fastidiosa, dimenticando che "ciascuno" di loro, nel gruppo del "chiunque" bussa
alle porte dell’Europa, ha un personalissimo motivo per andarsene e che forse giustifica il suo ritrovar-
si qui a vivere nell' attesa di poter ricominciare.
Il 20 giugno si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale del Rifugiato, appuntamento annuale
voluto dalle Nazioni Unite per sensibilizzazione l’opinione pubblica sulla condizione di milioni di ri-
fugiati e richiedenti asilo e soprattutto invitare a non dimenticare che dietro ognuno di loro c’è una sto-
ria che merita di essere ascoltata.
Nel chiostro della Madonna Pellegrina, a partire dalle ore 18.30 la Cooperativa Nuova Vicini si unisce
a questa celebrazione mondiale inaugurando la mostra che non solo raccoglie storie migranti, ma spie-
ga anche il lungo e complesso percorso burocratico che devono affrontare i richiedenti una volta arri-
vati in Italia. Il “Canto sconfinato”, coro multietnico composto da 40 elementi provenienti da diversi
Paesi e regioni del mondo e dell’Italia, accompagnerà la serata con canti e musiche che evocano tradi-
zioni vicine e lontane e che la memoria dei viaggiatori ha portato con sé insieme alle loro storie di vita.
Celebrare assieme la Giornata Mondiale del Rifugiato significa scegliere di esserci, voler ascoltare e
non dimenticare. Vi aspettiamo.
Maria Chiara Caccia
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
ne. Non c’è stata la capacità, la
volontà di organizzare una ra-
gionevole e realistica politica
dei flussi dei migranti per sot-
trarre agli scafisti la gestione
dei viaggi in mare che comporta
un esborso esoso di danaro da
parte dei migranti e un imbarco
su mezzi inadatti, destinati
spesso al naufragio se non in-
tervengono i soccorsi. Quello
che si sta facendo in questo pe-
riodo è criminale”.
La cooperativa Nuovi Vicini ge-
stisce in varie modalità
l’accoglienza e l’integrazione di
profughi richiedenti asilo e di
altra categorie di persone in
gravi difficoltà.
“Abbiamo scelto di collocare i
profughi in piccoli gruppi, in
appartamenti sparsi in tutto il
territorio provinciale; abbiamo
dei contratti frutto di appalti con
la Prefettura e con alcuni comu-
ni. Forniamo i servizi essenziali
di vitto e alloggio ed anche so-
stegno burocratico, ma soprat-
tutto interventi formativi, sup-
porto di carattere sia psicologico
che materiale.”
“Cosa è cambiato in questo
ambito con i nuovi provvedi-
menti del governo?” abbiamo
chiesto.
“L’intervento più radicale com-
porta la riduzione del contributo
giornaliero per l’accoglienza ai
richiedenti asilo da 35 euro a 21
euro. Va precisato che dei 35
euro solo 2,50 euro al giorno e-
rano dati direttamente a ciascun
profugo, il resto serviva per or-
ganizzare tutti i servizi di acco-
glienza materiale (vitto e allog-
gio), di sostegno e inserimento
burocratico, formativo, educati-
vo, globalmente assistenziale.
La riduzione a 21 euro significa
che non si intende sostenere al-
cun intervento di integrazione,
di assistenza per limitarsi alla
pura e semplice fornitura di vit-
to e alloggio. Ci sono cooperati-
ve che si orientano a non parte-
cipare più ai bandi gestiti dalle
Prefetture, perché non si garan-
tiscono più accoglienza e inte-
grazione dignitose. “
“Quali conseguenze ne deriva-
no per i profughi, per le comu-
nità dei nostri paesi?”
“Questi atteggiamenti, questa
politica dell’accoglienza aveva
come ipotesi la volontà di ripor-
tare tutti i profughi che non ot-
tenevano il diritto di asilo nei
paesi di provenienza e nello
stesso tempo
non offre alcun percorso di reale
integrazione a coloro che, otte-
nuto il permesso di asilo, non
hanno più diritto ad alcun tipo
di sostegno. Come è noto a tutti
il rimpatrio dei profughi nei pa-
esi di provenienza riguarda un
numero assolutamente minorita-
rio di persone. Va fatto rilevare
inoltre che è stato tolto il diritto
di “accoglienza umanitaria” per
coloro che non ottenevano il di-
ritto di asilo. Dall’insieme di
questi provvedimenti ne deriva
che molte persone usciranno dai
percorsi, dai progetti di acco-
glienza e integrazione e si trove-
ranno abbandonati a se stessi,
vittime di chi offre lavoro nero,
di chi potrebbe coinvolgerli in
attività illegali o andranno va-
ganti senza dimora nelle nostre
comunità. Sarà allora veramente
aggravata da una parte la condi-
zione dei profughi ma anche il
disagio della nostra gente. Quei
cittadini (‘Prima gli italiani’)
che avrebbero dovuto essere i
beneficiari di questi provvedi-
menti ne subiranno le conse-
guenze negative.”
“Quali sono le prospettive futu-
re per la cooperativa Nuovi Vi-
cini, per le persone che vi lavo-
rano?”
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
“Stiamo vivendo un momento di
preoccupazione, quasi di smar-
rimento: dovrà diminuire
l’impegno lavorativo sia in
quantità che in qualità. In questi
anni abbiamo coinvolto molti
giovani non solo in una attività
organizzative ma anche e so-
prattutto nella capacità di in-
staurare relazioni, di confrontar-
si con la diversità, di scoprire
nelle persone, pur caratterizzate
da costumi, valori etici, compor-
tamenti molto diversi, una co-
mune radice di umanità. E’ pro-
prio il mancato, il voluto non ri-
conoscimento di questa comune
umanità che sta alla radice delle
scelte attuali del governo; da qui
sorgono gli atteggiamenti di ri-
fiuto, di disprezzo, di negazione
della cultura della solidarietà
(’E’ finita la pacchia’). Certa-
mente la mia preoccupazione
immediata deriva dalla necessità
di licenziare molte persone, di
disperdere un patrimonio di
competenze umane e sociali che
si stavano accumulando. Ma in
una prospettiva più ampia una
profonda inquietudine si lega al-
la prospettiva che nella società,
nelle nostre comunità, si diffon-
da un modo di sentire e di ra-
gionare legato all’egoismo indi-
viduale, all’intolleranza, alla
progressiva esclusione dell’etica
della solidarietà.”
A conclusione del nostro collo-
quio, al di là di queste riflessio-
ni molto pessimistiche, ho rico-
nosciuto in Ivana Latrofa una
sostanziale serenità per il lavo-
ro svolto, per le relazioni co-
struite e quindi anche una non
superficiale fiducia nel futuro,
nella seppur parziale e difficile
vittoria del senso di umanità
capace di attenuare se non di
distruggere i germi che alcuni
vorrebbero diffondere di una ir-
razionale e distruttiva disuma-
nità.
A cura di Sergio Chiarotto
DA MANDELA A LEAH I nuovi versi di Soyinka contro violenza e fanatismo.
Lo scorso marzo il Corriere della
Sera ha pubblicato nel supple-
mento La Lettura alcuni versi i-
nediti del premio Nobel nigeria-
no Wole Soyinka. L’ autore è
noto a noi pordenonesi, che lo
abbiamo ospitato prima nel
2012, come protagonista della
rassegna Dedica e poi nel 2017,
come assegnatario del Premio
Friuladria, abbinato al festival
del libro. Ricordiamo bene la fi-
gura carismatica del grande vec-
chio che tanto ha visto e sofferto,
l’autorevolezza dell’intellettuale
dotato di una visione profonda
delle vicende umane passate e
presenti, la passione civile dello
strenuo difensore della libertà
contro ogni fanatismo e la statura
del poeta dalla voce ferma e po-
tente. Non possiamo inoltre di-
menticare la generosità da lui
dimostrata con gli studenti che
hanno potuto intervistarlo.
I versi pubblicati su La Lettura-
sono tratti da un componimento
scritto da Soyinka per la Giorna-
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
ta mondiale della Poesia. Trac-
ciando una breve e folgorante
parabola,l’autore evoca due figu-
re impresse nella memoria collet-
tiva e le associa a un’altra molto
meno nota, ma non meno esem-
plare. Inizia con Nelson Mande-
la, indomito prigioniero a Rob-
ben Island, dove quello che sa-
rebbe divenuto il primo presi-
dente nero del Sudafrica ripeté
per 27anni il suo NO a compro-
messi sul tema della libertà e dei
diritti civili. Prosegue evocando
il NO pronunciato da Malala, la
studentessa pakistana che rischiò
la vita per difendere il diritto del-
le donne all’istruzione di fronte
al fanatismo dei talebani. Termi-
na con Leah Shabiru, alunna tut-
tora prigioniera di Boko Haram,
che oppone il suo NO
all’imposizione di abiurare la
propria fede per adeguarsi a
un’altra in cui non crede.
Quei NO sono legati da un filo
rosso che attraversa il tempo per
svolgere il ruolo di testimonian-
za coraggiosa contro ogni fanati-
smo e trova nei versi potenti
dell’autore la luce di “una fiam-
ma splendente che brucia per il-
luminare daccapo il mondo”.Con
i suoi versi Soyinka smaschera la
vergogna di “un mondo alla
mercé di fedi bugiarde”, indica la
strada della resistenza e del per-
dono e incarna l’alta funzione
della poesia civile.
«No» he said, «Freedom is never conditioned» And shackles clamped on the veteran of Robben Island. «No» she said, «Knowledge permits no exclusion» - Scarred, but unscared, the face of the Maid of Pakistan. «No» she said, «Faith is not on compulsion» - A captive voice, demure but defiant in Dapchi, Her torch undimmed in the den of zealots. Thus, across time, testamentary voice recurrent - Mandela, Malala, Leah Sharibu - the torch of «No, said Prometheus», flame and anthem, Finds fissures, a lustrous flame bursts through Chibok and Dapchi, to re-illuminate the world. «No» she said, and «No!» he said, a choric -«No! I am no prisoner of this rock….I toiled, Precedent on all earth, a mortal shard Thrust whole from the marsh of creation». Leah, this trial of your youth is cruel, Unjust. You may falter but, the shame is Ours, a nation’s, and a world in thrall To lying faiths. A timeless host Precedes. Through heart and mind They’ll lead you. Their voices join In supplication from our enfeebled space That only seems abandonment: Survive, Leah. Forgive.
«No», disse, «La libertà non accetta condizioni» E le catene si strinsero sul veterano di Robben Island. «No», disse, «La conoscenza non ammette esclusioni» Sfregiato ma sereno il volto della giovane pakistana. «No», disse, «La fede non è costrizione» Pacata ma ferma la voce catturata a Dapchi, Fiamma viva nel covo dei fanatici. Così, nel tempo, la voce ritorna testimone, Mandela, Malala, Leah Sharibu, la fiamma accesa Di Prometeo che disse «No», fuoco e canto, Si insinua tra le crepe, fuoco lucente Che brucia da Chibok a Dapchi E illumina daccapo il mondo. «No», disse lei, e «No», disse lui, un coro di «No!» Questa roccia non mi è prigione... Ho faticato Primo esempio su questa terra, scheggia mortale Spinta con furia dal fango della creazione. Leah, mettere alla prova la tua giovinezza è crudele, Ingiusto. Se vacilli, la vergogna è nostra, della nazione, di un mondo alla mercé di false fedi. Un oste senza tempo Si fa avanti. Ti guideranno, cuore e mente. Voci unite In supplica si alzano dal fragile spazio Che sa solo di abbandono: Sopravvivi, Leah. Perdona.
(traduzione di Alessandra Di Maio) Il componimento è da poco disponibile in versione integrale con il titolo Ode Umanista per Chibock, ed. Jaca Book. , è acquistabile presso quasi tutte le librerie online.
Nella Maccarrone
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
CHIUNQUE,
NEL GIUSTIFICATO TIMORE
Secondo l’Art. 1 Convenzione di Ginevra del 1951 il termine “rifugiato” è applicabile a “…chiunque, per
causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua
razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue
opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore,
non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori
dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole
ritornarvi.”
"Chiunque nel giustificato
timore" è una narrazione fotogra-
fica in cui ritratti di richiedenti
asilo si accompagnano alle loro
storie di viaggio e di fuga. L'in-
timità del dolore, della speranza,
della volontà e della rabbia, per
un passato da allontanare ed un
futuro incerto, trovano nelle sto-
rie raccolte uno spazio di visibi-
lità concreta che restituisce a cia-
scuno di loro una identità indivi-
duale e non collettiva. I richie-
denti asilo, come categoria ad
uso e consumo delle più diverse
definizioni, sembrano non esi-
stere come individui ma solo
come massa, dimenticando che
"ciascuno" di loro, nel gruppo
del "chiunque" bussa alle porte
dell’Europa, ha un personalissi-
mo motivo per andarsene e che
forse giustifica il suo ritrovarsi
qui a vivere nell' attesa di poter
ricominciare.
(Foto e testi di Maria Chiara Caccia)
HOMS Quando resti per ore rinchiuso in
una cantina, mentre fuori conti-
nuano a sparare, ti restano solo
due cose da fare: piangere e pre-
gare.
Mi piaceva passare il pomeriggio
con le amiche. Chiacchierare per
ore bevendo il te, raccontarsi pet-
tegolezzi, scoprire come si diven-
ta grandi e immaginare il futuro.
Pomeriggi lunghi, frivoli, leggeri,
dove tutto era ancora possibile e
l’immaginazione ti portava oltre i
confini del quartiere. Mi piaceva
tornare a casa da mia madre, mio
padre, i miei fratelli e giocare con
loro, imparare a cucinare, raccon-
tarsi la giornata, ridere. Tutto il
mio mondo era a portata di mano
e in quel piccolo mondo ero feli-
ce.
Quando la guerra ha iniziato a
farsi sentire anche a Homs, ogni
forma di leggerezza se ne è anda-
ta con la prima raffica di proietti-
li. Le risate, i pettegolezzi, i lun-
ghi pomeriggi si sono trasformati
in ore di attesa lenta dove tutto
poteva accadere, dove la paura
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
era l’unica compagnia possibile.
Da quel giorno la vita è diventata
un estenuante singhiozzo, tra
momenti di tregua e giorni im-
pazziti, solcati da cingoli di car-
rarmato e pesanti colpi di morta-
io.
Al primo sparo, in lontananza, ci
precipitavamo giù per le scale del
condominio. I bambini piangeva-
no, i vecchi pregavano, gli uomi-
ni imprecavano e le madri na-
scondevano la paura dietro ai fou-
lard. In pochi minuti ci ritrova-
vamo a decine rinchiusi nei se-
minterrati stipati a piangere e
pregare. I carri armati passavano
sopra le nostre esistenze, i kala-
shnikov sparavano dentro le no-
stre vite e a noi non restavano che
lunghe ore di silenzio trattenuto e
soffocato. Poi iniziava la risalita,
da sotto la terra, per scoprire cosa
era rimasto e riappropriarci della
quotidianità. Un giorno, per mia
zia, la risalita è stata peggiore
della discesa e la quotidianità è
diventata il suo calvario. Dietro le
porte del suo appartamento ha
trovato i corpi dei suoi tre figli.
Non avevano voluto scendere con
noi. Troppa stanchezza, forse abi-
tudine, un’irrazionale eccesso di
sicurezza, voglia di difendere
quattro mura. Si erano voluti
fermare a guardare la guerra e la
guerra se li era portati via. Non è
mai più ritornata quella che era.
Sono stati anni sospesi, tra paure,
ipotesi, attese. Anni indecisi tra
restare e partire, decidere cosa te-
nere e cosa lasciare, chi salutare e
chi portare oltre confine. Senza
sapere cosa c’era oltre il confine.
Siamo partiti, un mattino come
un altro, senza averci pensato,
senza aver salutato, senza aver
deciso cosa tenere e cosa lasciare.
Un mattino di sole, dopo
l’ennesima notte di spari, sibili,
botti, urla, paura, lacrime e pre-
ghiere, un mattino di sole e di
stanchezza. Abbiamo messo
qualche vestito in una borsa, sia-
mo saliti tutti in una macchina e
abbiamo guidato fino in Libano,
senza parlare, tra il rumore della
macchina e il pianto ininterrotto
di mio fratello.
Non è rimasto più niente a Homs,
solo cemento e polvere. Una città
vuota, senza voci. Ho buttato via
tutte le foto che avevo. Ricordi
chiusi dentro a un telefono di una
vita che non esiste più. E che non
ho più bisogno di rivedere.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
TRIPOLI Sono clandestino ormai da sei
mesi e ho disperatamente bisogno
di un lavoro. Cammino tra le
strade di Tripoli cercando nei
cantieri, nel retro dei ristoranti,
nelle cave di sabbia, nel fondo di
qualsiasi anfratto sporco di sudo-
re dove un negro, clandestino,
senza famiglia possa elemosinare
qualche dinaro al giorno. Sono
disposto a tutto, a portare qualsia-
si peso, immergermi in qualsiasi
melma, nascondermi in qualsiasi
retrobottega dove solo gli immi-
grati clandestini possono lavorare
ai limiti dello sfinimento.
Cammino tra le strade di Tripoli e
mi ferma la fortuna. Un uomo di
mezza età, il viso bianco libico, i
baffi neri, l’aria pulita. Mi offre
un lavoro. Lo seguo.
Salgo in macchina. Dopo aver at-
traversato il deserto, aver seppel-
lito amici, essermi nascosto nel
bagagliaio di una macchina per
24 ore soffocato dal caldo e
dall’odore di gasolio, penso di
aver trovato anche io la mia for-
tuna.
Pochi chilometri dopo, tra strade
nascoste, un vicolo cieco. Ecco la
mia fortuna: soddisfare le sue
perversioni o finire in carcere.
Sono agghiacciato. Paralizzato.
Incapace di pensare.
Non sono disposto a tutto. Non
sono disposto a vendermi per
qualche dinaro. Non ce la faccio.
Sento l’odio che sale, più forte
della paura, più forte di qualsiasi
sopravvivenza, più forte della vi-
ta.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
Scelgo la morte. Perché dietro le
sbarre libiche ti aspettano solo
violenza e morte.
Scelgo la morte, perché morire da
uomo integro è meglio che vivere
da uomo indegno.
Mi infilano per due mesi in una
gabbia di 4 metri per 3. Ci vivia-
mo in quindici, a volte venti.
Uomini e donne, giovani e vec-
chi. Ci mettono ai lavori forzati
per 8 ore al giorno. E’ aprile, fa
freddo e piove tutti i giorni.
Non c’è riposo, non c’è pausa,
non c’è tempo per la fatica. Ci
sputano addosso, ci insultano, ci
frustano. Più sei stanco, più ti pe-
stano. Più ti pestano, più ti sfini-
scono. Fino a sfinirti. Fino a
quando la morte ti libera.
La cella è piena di insetti, piccoli
insetti bastardi che nella penom-
bra entrano in qualsiasi orifizio.
Siamo tutti pieni di scabbia, ci
grattiamo come cani pieni di pul-
ci, fino a sanguinare per trovare
pace. Nessun latrato. Solo un si-
lenzio pesante come l’odio.
In un angolo della cella c’è un
secchio. Mi ritrovo a pisciare da-
vanti a tutti. Nessuno fiata, nes-
suno parla, nessuno mi guarda. E
io non guardo nessuno. L’intimità
violata diventa sempre più umi-
liante, più disgustosa, più disu-
mana. A turno portano fuori dalla
cella uomini e donne. Ammanet-
tati al tavolo e violentati nel si-
lenzio dell’anima muta, il cuore
che batte a mille, tra le risa di chi
sfoga senza pietà le sue perver-
sioni. Una giovane nigeriana par-
torisce in cella, davanti a tutti.
Aprono la gabbia, portano via il
bambino. Nessuno fiata.
L’odio e l’umiliazione aumentano
notte dopo notte. Più mi umilia-
no, più cresce l’odio. Più cresce
l’odio più mi sento umiliato. Il
mio animo è morto.
ZWARA
Poi una sera ci hanno caricati
dentro ad un camion, nascosti
sotto un telo, e ci hanno portati a
bordo mare.
Quando abbiamo visto la barca
che doveva farci attraversare era-
vamo tutti sgomenti. Il mare nero
ci riempiva la mente di immagini
di morte, inghiottite dalla notte
scura ancor prima di entrarci den-
tro. Nascondevo la paura dove
nessuno potesse vederla, dove
nessuno potesse sentirla. Non
guardavo in faccia nessuno e pen-
savo solo a non farmi divorare
dall’angoscia. Mi avrebbe ucciso.
C’era chi non voleva più partire,
piangeva, pregava e urlava il no-
me di sua madre, che gli tenesse
la mano prima di affogare nelle
acque gelide. Era aprile, il vento
soffiava freddo.
Eravamo più di settanta, asfissiati
dall’odore della paura che puzza-
va di carne gonfia e bagnata, di
terrore e singhiozzi. Asfissiati
dall’odore dell’orrore che ci im-
pediva quasi di respirare.
Ci hanno spinti dentro come be-
stie al macello.
Due sacchi di biscotti e quattro
taniche di benzina. Hanno acceso
il motore e ci hanno spinto in ma-
re. Senza autista.
Abbiamo cercato di tenere una
rotta che non conoscevamo. Di
entrare nel mare aperto. Poi le
onde ci hanno vinto.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
Abbiamo vagato per sei giorni
senza vedere nient’altro che ma-
re. Fino a rimanere senza benzi-
na, senza cibo, senza acqua. Ba-
gnati fradici, paralizzati dal fred-
do, dall’acqua, dal vento bastardo
che entrava nelle orecchie fino a
farti diventare pazzo. Pazzo.
C’era chi era impazzito. Delirava,
vedeva cose che non c’erano,
sentiva rumori che nessuno senti-
va, urlava contro spiriti che nes-
suno vedeva. Gli tenevamo a tur-
no la testa, le mani, i piedi perché
non si buttassero come schegge
impazzite nel mare nero. C’era
chi vomitava tutta la violenza che
gli avevano cacciato dentro a viva
forza. Vomitava per giorni. Vo-
mitava l’acqua di mare che ognu-
no raccoglieva tra le mani e mi-
schiava con l’urina per renderla
più dolce. E bere.
Abbiamo vagato per giorni cer-
cando di tenere una rotta che non
conoscevamo.
Fino a quando una mattina ci
hanno salvati.
AFGHANISTAN –
Quando sentivo i racconti di mio
padre, mi sembrava che parlasse
di un altro mondo. Continuavo a
stupirmi di quanto l’Afghanistan
fosse cambiato e ogni dettaglio
mi sembrava distante anni luce da
quello che stavo vivendo. Sentivo
la nostalgia e la rabbia per un pa-
ese stuprato, dove democrazia,
diritto e libertà erano state prese
d’assalto dalla furia cieca di un
fondamentalismo che non per-
metteva alcun diritto di replica.
Mi guardavo attorno e vedevo so-
lo un paese alla deriva, senza
strade, scuole, elettricità, ospeda-
li. Anche partorire sembrava una
condanna.
Tanti abbandonavano il paese.
Lasciavano terra e polvere per ri-
cominciare a respirare oltre con-
fine, tra gente straniera, lontani
da tutto. Un esodo nascosto e si-
lenzioso che spezzava legami,
creava abbandono, lasciava vuoto
e solitudine. C’era solo spazio per
la paura.
In quel momento capivo poco di
tutto quello che stava succeden-
do. Sapevo solo che la mia vita,
quella della mia famiglie, della
mia gente non ci apparteneva più,
che nessuno apparteneva più ne-
anche a se stesso; eravamo solo
merce di scambio in mano a forze
più grandi di noi. Avrei voluto
trattenerli. Urlare a pieni polmoni
di restare, di non scappare, di
fermarsi, combattere e ritornare
ad essere quello che eravamo. Un
paese libero.
Con la forza spavalda dei
vent’anni mi arruolavo volontario
nell’esercito Afghano, disposto
ad andare in qualsiasi campo,
confine, anfratto del paese che
avesse bisogno della mia sete di
libertà. Pochi mesi dopo mi ritro-
vavo faccia a faccia con i taleba-
ni, fianco a fianco degli america-
ni, pronto per combattere al fron-
te.
Sono stati anni intensi, violenti e
adrenalinici. Il nemico era uno e
tutti eravamo uniti, compatti, so-
lidali e vincenti. Ogni sparo, a-
zione, rappresaglia erano un pas-
so indietro per chi opprimeva e
un passo avanti verso la libertà.
Mentre combattevo sentivo che
stavo ricostruendo il futuro, ri-
conquistando terreno, riedifican-
do il paese. Sentivo che
l’Afghanistan stava risorgendo e
che stavo facendo l’unica cosa
che aveva senso fare. Ogni vitti-
ma era per la causa, ogni nuovo
giorno una nuova speranza. Mi
sentivo forte, anche davanti alla
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
morte.
Di tutti quegli anni, ho ricordi ta-
tuati su tutto il corpo. Una mappa
marchiata a fuoco da proiettili,
mine, dolore e fatiche. Di quegli
anni ho la mente impressa di cor-
pi lacerati, amici scomparsi, urla
e spari.
Il giorno in cui gli americani se
ne andarono, il retrogusto della
vittoria iniziò a diventare amaro.
Mi ero messo in pericolo, avevo
messo la mia famiglia in pericolo,
mi ero esposto al nemico. Mi a-
vevano promesso protezione per
aver combattuto fianco a fianco,
ma gli anni passati assieme spari-
rono con il loro ultimo cargo e a
me rimase solo una medaglia al
valore da chiudere in un cassetto.
Nessuna ricompensa, nessun pro-
gramma per i veterani. Un sentito
grazie, nient’altro. Mi sentivo ab-
bandonato, da loro e dal mio stes-
so paese, che dopo la distruzione
iniziava la sua lenta ricostruzione.
Entrai in Polizia. Mi fecero subito
Capo Distretto, con 500 uomini
sottoposti. Avevo imparato a
combattere la paura e a destreg-
giarmi nell’imprevisto, sapevo
gestire il rischio e motivare le
truppe. L’avevo imparato libe-
rando il paese, ora lo usavo per
difendere quello che era rimasto.
La mia nuova parola d’ordine era
proteggere e accompagnare il
nuovo Afghanistan nella sicurez-
za e nella legalità. Non avrei mai
dovuto accettare.
Mi ero messo a servizio di un si-
stema politico invischiato in gio-
chi di potere complessi e difficili
da isolare. Ovunque andassi,
qualsiasi decisione prendessi,
qualunque azione decidessi di in-
traprendere veniva bloccata sul
nascere. Ogni abuso, ogni frode
era legata a uomini di potere con
un filo sottile difficile da tagliare.
C’era sempre qualcuno più forte
di me, più potente di me, che in
qualche modo mi obbligava a li-
berare e sotterrare qualsiasi indi-
zio, fatto o prova; bastava una
semplice telefonata.
Avevo le mani legate. Chi dove-
vo difendere era legato a doppio
filo con il potere entrante o i tale-
bani uscenti. Tutto era connesso.
Non c’era spazio per l’onestà.
Nel giro di poco tutte le denunce
fatte, e rigorosamente insabbiate,
mi avevano regalato più nemici di
quanti già ne avessi.
Poi, un giorno, mentre scortavo
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
un ministro, mi hanno sparato.
Una prima volta. Un lungo inter-
vento, la convalescenza e una let-
tera di apprezzamento. Poco do-
po, durante un meeting delle for-
ze dell’ordine, mi hanno sparato.
Una seconda volta. Sapevo che
non era successo a caso. Che
quella pallottola era diretta solo
ed unicamente a me.
Accumulavo gradi, medaglie, let-
tere, meriti, ma non cambiava
niente. Stavo combattendo contro
qualcosa di troppo grande, che
non avrei mai potuto vincere. Lo
stesso potere che volevo difende-
re non voleva la mia presenza,
non apprezzava il mio lavoro,
non sosteneva la mia voglia di si-
curezza. Tutto mi era impossibile.
Il mio telefono era finito sotto
controllo e un pomeriggio
d’inverno venivo direttamente
prelevato dalla vasca da bagno.
Sono rimasto in prigione giorni.
Non ho voluto andarmene, non
ho voluto andarmene anche se
mia moglie, i miei figli, la mia
famiglia mi chiedevano di partire.
Aspettavo. Qualcosa.
Ho aspettato troppo. Ho lasciato
che mio fratello uscisse di casa
con la mia macchina, per rientra-
re dentro ad una bara. Lo hanno
freddato al mio posto. Quando
l’ho visto mi si è dilaniato il cuo-
re. Mi sono dannato, maledetto,
massacrato nell’animo. Non ho
più trovato pace, né ragioni, né
senso.
Dal giorno in cui sono scappato
hanno ucciso molti di quelli che
avevano lavorato con me. La
guardia del corpo, l’informatore,
uno ad uno. Fino a quando hanno
ucciso il mio ultimo figlio.
Dormiva in giardino, dentro la
sua culla.
KARACHI
Brulicano le strade di Karachi,
come ogni mattina. Un fiume di
gente che cammina, si saluta, sor-
ride, va al lavoro, telefona, com-
pra, vende. Mi fermo un attimo
nel panificio del vicino, compro
una pasta, saluto e alzo la saraci-
nesca del mio negozio.
Riprendo in mano il computer su
cui sto lavorando da ieri, mi man-
cano ancora due tre piccoli pas-
saggi e dovrebbe riprendere a
funzionare. Poi mi interrompe un
tizio che mi recapita una lettera.
Apro.
25.000 rupie e un proiettile. Se
pago tengo il negozio aperto. Non
so che fare. Ritorno al panificio.
Chiedo consiglio. Mi rassegno.
Sono passati tre mesi. I clienti
sono stati pochi. Mia madre sta
male e le spese mediche sono al-
te. Aspetto all’entrata del negozio
qualcosa, qualcuno. Un piccolo
affare, per tirare avanti. Squilla il
telefono. Adesso vogliono 50.000
rupie. Chiedo tempo. Non riesco
a pagare così tanto. Sono stati
mesi difficili, nessuno può farmi
credito. Riaggancio. E aspetto.
Il telefono squilla. Squilla ogni
giorno. Per una intera settimana.
Ogni giorno a ricordarmi che a-
spettano le mie 50.000 rupie. Che
se non pago avrò vita breve. Ogni
squillo di telefono è la campana a
morte di tutto quello che ho. Il
mio negozio e me stesso.
La tensione sale, giorno dopo
giorno. Evito di rispondere. La-
scio il telefono squillare per gior-
ni. Mi chiudo dentro il negozio
aspettando qualcosa, qualcuno,
un piccolo affare per tirare avanti.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
Poi un mattino arrivano, due uo-
mini e una motocicletta. Uno
guida, l’altro ha un Kalashnikov
in mano. Fuoco. Il bancone del
negozio si disintegra sotto i miei
occhi. Lascio la saracinesca chiu-
sa per giorni.
Sono in bicicletta per le strade di
Karachi. Una grossa macchina mi
ferma. Scende un uomo. Con il
retro di una pistola mi spacca la
fronte e poi. Buio. Il mio ultimo
ricordo prima di essere rapito.
BUIO
Non riesco a capire dove sono.
Un odore acre mi circonda,
l’unica cosa che distinguo. Si in-
fila nelle narici, sfiora la lingua e
scivola nauseabondo nello stoma-
co. Cerco di aprire gli occhi, sono
bendato. Cerco di togliere la ben-
da, sono legato. La memoria ri-
trova l’ultimo ricordo, il retro di
una pistola che mi spacca la fron-
te e poi, buio.
Inizio a respirare in modo affan-
noso, il pensiero riprende forma,
chiedo dove sono ma sento solo il
silenzio di chi si muove lenta-
mente ed inizia a pestarmi con
violenza. Svengo.
Buio. Sono nelle loro mani. Non
mi lasceranno finché non cedo,
fino a quando non gli darò quello
che vogliono. Sento dell’alito vi-
cino all’orecchio, si avvicina e mi
sussura lentamente la mia fine,
carne a brandelli dentro ad un
grande sacco nero. Qualcosa di
appuntito mi scarnifica il piede
destro e si accanisce violento sul-
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
la caviglia e lungo il polpaccio.
Urlo. Supplico. Chiedo tempo.
Aspetto. Prego.
Buio. Una lunga scarica elettrica
mi attraversa la fronte. Un dolore
acuto e violento mi perfora il cer-
vello e mi ustiona il cranio. Perdo
conoscenza. Una seconda scarica
mi spacca le tempie. Svengo.
Sento del calore sulla schiena,
sempre più vicino, sempre più
forte. Sento la pelle che lenta-
mente va a fuoco mentre brucio,
fino a svenire.
Apro gli occhi. Eccoli, li vedo in
faccia. Mi stanno filmando.
Qualcuno digita un numero sul
cellulare. Risponde la voce di mia
madre. Chiedono 50 milioni di
rupie mentre io biascico dolore e
mia madre piange e urla e suppli-
ca e chiede tempo e prega e grida
il mio nome tra i rantoli di chi
non può fare niente tranne impaz-
zire.
Ridono, mentre mi marchiano a
fuoco vivo e filmano ogni insulto,
ogni sputo, ogni colpo.
Bevo. Pochi sorsi d’acqua dopo
due notti e due giorni legato ad
una sedia. Un’aria mefitica mi
circonda. Sporco, urina, sudore,
carne bruciata, sangue, mosche.
Ho finito tutti i pensieri. Non ho
più parole. Resto immerso nel
mio corpo esangue. Per una set-
timana.
ESTQuando la violenza è di casa, fi-
nisce per confondersi con
l’arredo, incorniciando pensieri,
gesti e parole dentro un confine
che sembra invalicabile. E anche
se decidi di andartene, silenziosa
ti insegue, senza che nemmeno tu
te ne accorga. Sono cresciuta con
un padre violento, che sfogava
tutta la sua rabbia con chi aveva
voluto e generato. Ho visto mia
madre tacere tutta la vita e invec-
chiare sotto il peso della stan-
chezza e della rassegnazione. Ho
imparato che la vita era silenzio e
sacrificio e che l’accettazione era
più facile della ribellione.
Solo nei sogni mi sentivo libera.
Libera di sognare un uomo since-
ro, con cui poter parlare, avere
dei figli, crescere e invecchiare in
una casa tranquilla.
Quando mia zia mi ha detto che
un ragazzo mi aveva vista e si era
interessato a me, mi è sembrato
che la vita si fosse finalmente ac-
corta che esistevo anche io. Ho
accettato di incontrarlo un pome-
riggio, davanti al cancello di casa.
Qualche parola, uno sguardo, la
voce rassicurante di mia zia e i
racconti di chi conosceva la sua
famiglia. Sembrava un ragazzo
tranquillo e questo mi bastava.
Dopo tre giorni da quello scam-
bio di sguardi, suo padre è venuto
a chiedermi in moglie e pochi
mesi dopo, vestita di bianco, mi
sono sposata, quasi senza cono-
scerlo.
Ero felice. Felice di lasciare casa
mia e quel padre che si era oppo-
sto con tutta la sua furia anche al
mio matrimonio. Ero una sua
proprietà, tradivo la sua fiducia,
ammutinavo, li abbandonavo
senza rispetto. A me sembrava
solo di inseguire un po’ di felici-
tà.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
Ma la felicità è rimasta fuori an-
che dalle mura della mia nuova
casa. L’uomo che avevo sposato
viveva rinchiuso tra gli alcolici
del suo negozio mentre io gratta-
vo la terra dei campi dal mattino
fino alla sera. Tornavo a casa e
trovavo un uomo inesistente e
sempre ubriaco, che beveva più
di quello che vendeva e che non
aveva senso del limite e della mi-
sura. Lo capivo da come infilava
la chiave nella porta, da come
camminava lungo il corridoio, da
come si avvicinava alla camera.
Ero finita in una casa piena di su-
perbia, indifferenza e debiti, con
dei suoceri che avevano nascosto
a tutti la verità su loro figlio e che
mi avevano scelta solo perché
remissiva e capace di sopportare.
L’unica arte che avevo imparato
alla perfezione.
Partire con lui per andare in Italia
mi era sembrata l’unica via per-
corribile per poter ricominciare,
lontana dalle montagne che mi
avevano imprigionata, che ave-
vano richiuso la mia anima e la
mia mente in una accettazione
passiva. Mi sentivo come un mor-
to che aveva l’occasione di ritor-
nare a vivere, ricominciare a rico-
struire, liberarsi, emanciparsi e
trovare un po’ di felicità. Vedevo
le donne che camminavano da so-
le, la gente che usciva di notte, le
ragazze che indossavano le mani-
che corte, tutto mi sembrava pos-
sibile. Respiravo un grande senso
di libertà. Ma la libertà esisteva
solo fuori dalle mie finestre, esi-
steva solo per gli altri, a me ri-
manevano solo briciole di tran-
quillità durante le ore di sonno.
Mio marito ha ripreso veloce-
mente a bere, a giocare d’azzardo
e dilapidare i pochi soldi che riu-
scivo a mettere assieme
Di giorno ero la badante di due
anziani, che lavavo, vestivo, ac-
cudivo, sfamavo, curavo e ascol-
tavo; la sera lavoravo in un risto-
rante tra gli amici che ridevano,
le famiglie che chiacchieravano,
le coppie che si conoscevano.
Lavoravo instancabilmente dalle
8 del mattino alle 2 di notte, sen-
za pause, senza sosta. Le ore del
giorno si erano così dilatate che
mi sentivo dentro una giostra da
cui non riuscivo più a scendere.
Lavoravo senza un contratto, sen-
za un’assicurazione, senza una
busta paga, senza un conto in
banca e senza un documento. Ar-
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
ricchivo tutti, chi mi assumeva e
chi mi sfruttava, ma non vedevo
un centesimo di tutto quello che
guadagnavo. Non pagavano me,
ma chi decideva per me dove,
come e quando. Mi facevano la-
vorare, parlavano con me, mi ve-
devano ma di fatto ero inesisten-
te, una macchina da lavoro senza
possibilità di risposta. Se stavo
male, se avevo bisogno di andare
in farmacia, di essere vista da un
dottore, non potevo permetterme-
lo perché io, ufficialmente, non
esistevo. Mi leccavo ogni ferita,
del corpo e dell’anima, e andavo
avanti. Ero una schiava, con pa-
droni diversi, venduta a mio ma-
rito, venduta sul lavoro, venduta
per sopportare, accudire e servire.
E quando provavo a sussurrare la
mia storia, a chiedere aiuto sotto-
voce, quando cercavo una possi-
bile via di fuga, incontravo solo
una sincera commozione, qualche
attimo di compassione e sguardi
dispiaciuti, ma nessuno disposto a
rendermi visibile. Restavo forza
lavoro sotto traccia.
Mi sentivo trasparente, consuma-
ta, vuota. Mi sentivo rifiutata,
umiliata e così stanca da non es-
sere neanche più capace di sogna-
re. Sarei rimasta invisibile a vita
se una sera, rientrando a casa,
non mi avessero fermata i carabi-
nieri. Per loro esistevo, per il
semplice fatto che non avevo un
documento da esibire.
In pochi giorni ho perso ogni la-
voro. Ho chiesto, supplicato di
essere regolarmente assunta, di
avere un documento, di darmi un
nome e un cognome scritto e non
solo pronunciato. Improvvisa-
mente non ero più utile a nessu-
no. Dopo anni di lavoro.
Sono rimasta chiusa in casa per
un mese. Nascosta da tutti. Sola,
inutile, insistente, anche a me
stessa. Fino a quando, una notte,
mi sono ritrovata in mezzo ad una
strada, buttata fuori casa come un
cane fastidioso.
Da allora, sono libera. Libera di
continuare a cercare un po’ di fe-
licità.
2013 Tra il migliore dei mondi possibi-
li, c’era il mio. Ed era perfetto.
Avevo un marito, due figli, una
casa, un lavoro e uno stipendio.
Avevo una vita. E mai avrei volu-
to lasciarla.
Dirigevo una scuola di 600 bam-
bine, con la responsabilità di chi
educa e il prestigio di chi insegna.
Credevo nell’istruzione come mio
marito credeva nella politica, e
assieme custodivamo l’idea di un
Pakistan migliore.
Mai avremmo pensato di perdere
l’illusione, mai avremmo pensato
che la politica potesse tradirci co-
sì vigliaccamente.
Il giorno dopo le ultime elezioni,
i capi di partito, sconfitti, saluta-
vano il popolo dalle poltrone di
un aereo, pronti a dimenticarsi di
chi per anni li aveva sostenuti.
Chi li aveva sostenuti era rimasto
a prendersi in faccia tutti gli in-
sulti e la violenza dei nuovi vinci-
tori. A chi era stato per anni al
governo restavano briciole di glo-
ria.
Non c’era più spazio per nessuno,
nemmeno per mio marito e per
tutti gli anni che aveva dedicato
al partito. I compagni rinnegava-
no il passato, gli amici dimenti-
cavano i favori, l’opposizione lo
perseguitava con tutta la sua sete
di vendetta. Colpe ed accuse, o-
dio e violenza. Pochi mesi dopo
la sconfitta, un fuoco di fila lo at-
traversava mentre era in macchi-
na. E’ sopravvissuto solo per mi-
racolo.
Strana la mente di una madre.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
Davanti al letto di ospedale, il
primo pensiero è stato per i miei
figli. In una frazione di secondo
non esisteva più niente. Non esi-
steva la casa, non esisteva il lavo-
ro, non esistevano gli ideali, non
esisteva lui e neanche più io. Esi-
stevano solo loro. E il loro respi-
ro.
2016
Ho venduto tutto quello che pote-
vo e ho lasciato mio marito scap-
pare verso ovest.
Per mesi non ho avuto sue noti-
zie. Sapevo solo che era partito e
che un giorno lo avremmo rag-
giunto. Cercavo nell’attesa di re-
sistere alla vita, lontano dalle
paure. Una nuova città, un nuovo
lavoro, una nuova casa, i miei fi-
gli. Chiudevo l’ansia a doppia
mandata, ma prepotente tornava a
suggerirmi scenari di morte. Non
mi fidavo di nessuno ed avevo
paura di tutto. La politica corrotta
e malata era diventata la mia ma-
lattia. La mia ossessione.
Accompagnavo i miei figli al
cancello della scuola e non vole-
vo che nessuno andasse a pren-
derli. Poi, un giorno, ci hanno
trovati. Dopo due anni. Sapevano
dov’ero, dov’era la mia casa,
dov’erano i miei figli e dov’era la
loro scuola. Erano entrati e ave-
vano chiesto di loro. Mi avevano
aspettato fuori dal cancello per ri-
cordarmi la fine che avrebbero
fatto e che non avrei potuto ri-
sparmiargli. Mi avevano imbrat-
tata di insulti, violata nell’animo,
trafitta nella dignità, paralizzata
dall’orrore. Rientravo verso casa
inseguita dall’angoscia.
Da quella casa i miei figli non
sono più usciti. Per mesi li ho te-
nuti prigionieri, segregati, rin-
chiusi dove nessuno li potesse
avvicinare, dove nessuno li potes-
se trovare. Mi addormentavo sen-
tendoli respirare e mi svegliavo
cercando il loro respiro. Viveva-
mo in un tempo immobile e so-
speso, dove ogni giorno era ugua-
le all’altro. Dove vivere era sem-
plicemente esistere e resistere.
2017
Ho aspettato fino all’ultimo. Ho
cercato disperatamente una via di
uscita, per farli crescere dove li
avevo partoriti. Non l’ho trovata.
Ho sacrificato tutto quello che
avevo costruito. Gli anni di stu-
dio, i sogni di una vita, un lavoro.
Ho abbandonato tutto e sono par-
tita, per ritornare ad essere noi:
un marito, una moglie, due figli.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
KASHMIR
Amo il mio paese. E amo la mia
gente. Un mondo silenzioso e
calmo immerso nelle montagne,
le acque fredde dei laghi e il pro-
fumo caldo del tè al cardamomo.
Amo quel paese che nessuno ha
riconosciuto ma che tutti hanno
voluto, sfruttato e divorato: il
frutto di un peccato originale co-
stato tre guerre e più di un milioni
di morti.
Amo quel paese che non c’è più,
un pezzo di carne fatto a brandelli
da chi ha avuto la forza di uccide-
re con più ferocia.
Amo la mia famiglia che hanno
distrutto in un solo pomeriggio:
mio padre, mio zio, mio fratello, i
miei cugini, esplosi tra gli alberi
da frutto sotto una bomba atterra-
ta nel giardino di casa.
Avevo quasi 30 anni e stavo co-
struendo il mio futuro. Avevo il
mio ufficio, la mia macchina, la
mia casa. Non mi mancava niente
e non avevo nessun motivo per
andarmene lontano a mendicare
ospitalità.
Avevo tutto, ma non avevo più
una patria. Non mi riconoscevo in
un governo che occupava la no-
stra terra, sfruttava le nostre ri-
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
sorse, rubava la nostra acqua co-
stringendoci a pagare fino
all’ultima goccia. Non mi ricono-
scevo in un governo che calpe-
stava i nostri diritti, la nostra sto-
ria, la nostra eredità. Non mi ri-
conoscevo in un governo che ci
lasciava senza sanità, senza istru-
zione e non mi riconoscevo
quando guardavo una bandiera
che non era la mia, sotto cui tace-
re e obbedire. Non mi riconosce-
vo per il semplice fatto che non
ero libero.
La mia militanza politica è nata
per bisogno. Bisogno di libertà, di
identità. Come si ha bisogno
dell’aria e dell’acqua io avevo bi-
sogno di dare voce alla mia gente.
Anni di proteste, fiumi di parole,
riunioni, riflessioni, reclami e ri-
chieste. Organizzavamo seminari,
congressi, convegni ma ad ogni
azione seguiva solo repressione.
E la smania di reprimere ha colpi-
to anche me, quando, mentre par-
lavo in un comizio, mi hanno pre-
levato davanti a tutti. Prelevato,
infilato in una macchina, incap-
pucciato e richiuso non so dove
in una stanza di pochi metri. Sono
rimasto dentro per cinque giorni,
nudo come un verme, un bicchie-
re di latte e un pezzo di pane al
giorno. La sola voce che sentivo
era di chi mi obbligava a ripetere
continuamente ”Il Kashmir non
esiste” e mi ordinava di racco-
gliere a mani nude gli escrementi
che avevo lasciato in un angolo.
Era inverno, faceva freddo e dopo
aver giurato che non avrei mai
più rivendicato un Kashmir libero
sono stato rilasciato.
Ma non ho smesso di militare.
Non ho smesso di manifestare,
parlare, rivendicare i miei diritti,
e non ho smesso di essere prele-
vato e sbattuto in una qualsiasi
cella per essere pestato e insultato
dalla polizia e rilasciato dopo
ventiquattro ore.
Non ho smesso mai. Perché quel-
lo che facevo era per me l’unica
cosa importante. Non ho smesso
di chiedere la libertà del Kashmir
neanche quando sono stato accu-
sato di cospirare contro la pace,
un’accusa che mi è costata sei
mesi di prigione.
Quando sono uscito e mi hanno
proposto di manifestare e parlare
davanti alla casa del Primo Mini-
stro ho solo pensato che era
un’occasione come un’altra per
urlare libertà. Eravamo in tanti,
uniti in un unico grido, un’unica
richiesta. Manifestavamo
all’unisono sotto la voce “Free
Kashmir” e mentre parlavo da-
vanti a tutti siamo stati travolti da
un’onda di violenza e repressione
feroce. Ci hanno aggrediti, pic-
chiati, insultati, hanno distrutto i
nostri simboli e le nostre bandie-
re. Non ci hanno lasciato neanche
più la voce per urlare.
Sulla mia testa è comparsa la
prima denuncia ufficiale. Insurre-
zionalista, cospiratore contro il
governo e contro l’esercito. Prima
che mi mettessero in prigione per
sempre, sono scappato per sem-
pre.
Il mio unico peccato è stato solo
quello di parlare.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
MASKHEL
Più mi avvicino, più mi chiedo co-
sa ci faccia così tanta gente am-
massata tra le rocce in una fredda
sera di novembre. Ci sono almeno
cinquecento persone sedute attor-
no a fuochi di fortuna che parlano,
dormono, mangiano. Per un attimo
penso ad un festival tradizionale
con gente che si ritrova da tutto il
Pakistan. Poi, quando mi avvicino
e scambio due parole resto ammu-
tolito: cinquecento persone aspet-
tano di attraversare la frontiera
con l’Iran. Uomini, donne, bambi-
ni, anziani, intere famiglie e gene-
razioni che aspettano il momento
del passaggio, dell’apertura, della
via verso i Balcani. Quando rea-
lizzo che siamo tutti in marcia
verso l’Europa inizio a guardarli,
uno a uno. Penso a chi di loro ce
la farà, chi arriverà, chi tornerà in-
dietro, chi morirà per strada, di-
menticato e sepolto lontano da tut-
ti. Un fiume di gente che si in-
cammina verso ovest senza sapere
se e quando arriverà. Una scena
surreale. E io, sono uno di loro.
Il giorno dopo, verso sera, inizia-
mo a camminare. Le guardie di
frontiera ci fermano, riscuotono il
prezzo pattuito e ci spingono oltre
il confine giù per una lunga scar-
pata. Ci gridano di fare veloci, di
muoverci, di andare avanti. Chi
rallenta viene spinto a forza, pic-
chiato con calci, bastoni. Sem-
briamo una transumanza di bestie
che corrono impazzite senza vol-
tarsi indietro con il solo pensiero
di arrivare senza cadere.
Poi a valle ci dividono in due
gruppi e ricominciamo a cammi-
nare. Dieci ore di marcia senza
acqua, senza cibo, senza sapere
dove e quando andare e arrivare.
Ci fermiamo solo quando ci indi-
cano una casa: un pezzo di pane,
dello yoghurt e qualche ore di ri-
poso. Qualcuno inizia già a cede-
re. Hanno paura. C’è chi sente di
non farcela, chi già pensa di torna-
re a casa. Avanti o indietro la tra-
gedia sembra la stessa.
Poi ci fanno ripartire. Un traffi-
cante mi nasconde dentro un'auto
assieme ad altre sedici persone.
Due davanti, quattro dietro, quat-
tro accucciati tra i sedili, quattro
nel bagagliaio. Ammassati dentro
un'auto viaggiamo per ore lungo le
strade nascoste dell'Iran.
Finiamo in una casa in costruzione
per due giorni e una notte. Nessu-
no di noi ha più acqua né cibo.
Qualsiasi cosa ci viene venduta a
prezzi folli, dieci volte superiore
al prezzo di mercato. Dormiamo
nel cemento gelido, dove capita,
senza un bagno, senza coperte e
con il divieto assoluto di accende-
re fuochi per non farci scoprire.
Non mangio niente e aspetto la
notte per rimettermi in marcia.
Ci stipano tutti dentro ad un ca-
mion, prima una settantina poi al-
tri quaranta. Siamo ammassati
come capre, tutti in piedi, uno
contro l’altro, ondeggiamo ad ogni
curva con l’aria che si fa irrespira-
bile fino quasi a soffocare.
Scendiamo di nuovo. Ci avvisano
di proseguire a piedi, da soli, nel
silenzio più assoluto. Non un so-
spiro, uno starnuto, un colpo di
tosse. Camminiamo per ore cir-
condati dal silenzio e dalla notte
scura, nel terrore di essere scoper-
ti, rispediti indietro o sequestrati
per chiedere poi un riscatto alle
famiglie. Camminiamo svelti e si-
lenziosi. Ognuno segue l'altro.
Non ci conosciamo, ma andiamo
tutti nella stessa direzione. Verso
il deserto.
Attraversiamo la sabbia dentro
una lunga fila di pick-up, cento di-
sperati che ormai si lasciano tra-
sportare senza più fare domande.
Ma ancora una volta ci fanno
scendere e ci lasciano in mezzo al
deserto con la promessa di ritorna-
re a cercarci durante la notte.
Venti giorni. Venti giorni per at-
traversare il paese passando di
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
mano in mano, di camion in pick
up, di casa in casa, camminando
nella notte per ore quando è trop-
po
rischioso essere avvistati e poter
arrivare al confine con la Turchia
dove la sabbia si trasforma in
montagne alte e rocciose.
Iniziamo ad attraversare il confine
alle tre del mattino. Siamo circa
duecento persone, portate dai traf-
ficanti ai piedi del monte Ararat e
iniziamo a camminare, per ore. La
montagna si fa sempre più alta e
rocciosa, i sentieri più difficili, la
terra si ghiaccia sotto i piedi e tut-
to sembra irraggiungibile e insor-
montabile. Mentre camminiamo
vediamo tre cadaveri avvolti nelle
coperte. La montagna li ha fermati
la notte prima. Gli passiamo ac-
canto mentre proseguiamo sfiniti
la nostra marcia disumana.
ADASEVCI CAMP
Non sopporto più il color verde. E
mi angosciano i boschi. Sentirsi
imprigionato in tutto quel foglia-
me, tra una distesa infinita di tron-
chi, rami, l’odore del muschio e
quella enorme gabbia che sembra
non finire mai.
Ho tentato per sette volte di attra-
versare i boschi della Serbia e
raggiungere il confine con la Cro-
azia e per sette volte mi hanno
trovato e rispedito indietro. Cono-
scevo il sottobosco a memoria,
ogni sentiero, ogni angolo, le vie
più nascoste e sicure ma era come
se il bosco mi tradisse sempre.
Avevo sentito che due ragazzi
prima di me erano riusciti a rag-
giungere l’Austria nascosti dentro
ad un camion, uno di quei camion
parcheggiati vicino al confine,
dentro ad una grande stazione di
benzina, alla fine del bosco. Non
avevo più soldi da dare ai traffi-
canti e non avevo intenzione di
fermarmi alle porte dell’Europa
dopo aver già attraversato mezza
Asia.
The Game, il gioco: chiamavamo
così ogni tentativo di oltrepassare
un confine, una roulette russa per
la libertà a duecento battiti al mi-
nuto e un’ansia adrenalinica più
forte della paura. Il gioco mi ave-
va fatto attraversare il confine
dell’Afghanistan, del Pakistan,
dell’Iran, della Turchia, della Bul-
garia. Non mi sarei fermato da-
vanti a quello Serbo.
Quel giorno di luglio, con uno
zainetto, un giaccone per la notte,
due bottiglie d’acqua ed un nuovo
percorso in testa, sono riuscito ad
uscire dal bosco e a raggiungere il
parcheggio. Tutti gli autisti dor-
mivano. La polizia non mi aveva
visto e la mia via di fuga era lì, a
portata di mano, dovevo solo tro-
vare il modo di salirci sopra e la-
sciarmi portare. Cerco di salire sul
tetto di un primo camion ma non
riesco a infilarmi sotto lo spoiler,
non riesco a nascondermi, non ci
entro. Passo ad un altro, salgo so-
pra la cabina ma l’autista di colpo
si sveglia, esce e mi scopre. Scen-
do velocissimo sapendo che a-
vrebbe chiamato la polizia e nel
giro di pochi minuti mi avrebbero
preso di nuovo. Ma non succede.
Non una voce, non una luce. Resto
nascosto per un po’ e poi ricomin-
cio a cercare. Trovo un camion di
targa belga. Penso che mi porterà
lontano e penso solo a come po-
terci salire. Mi infilo sotto il ca-
mion. Provo a sdraiarmi sopra la
ruota di scorta ma è troppo piccola
e non riesco a rannicchiarmici
dentro. Poi vedo l’asse. Un asse
lungo e largo. Mi sdraio sopra,
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
cerco con le mani un appiglio,
qualcosa a cui tenermi aggrappato,
mi infilo giaccone e cappuccio a-
spettando che il camionista si de-
cida a partire. Non avevo pensato
alle enormi sospensioni che tene-
vano assieme ruote, asse e rimor-
chio.
Dopo essere partito il camion ini-
zia a fare grandi sobbalzi e io ini-
zio a sbattere la testa e la schiena
tra l’asse e tutto quello che c’è so-
pra. Le mani iniziano subito a
farmi male, le braccia sono troppo
rigide e cerco di muovere almeno
le dita per allentare un po’ la pre-
sa. Non riesco a tenere i due piedi
sull’asse e lascio penzolare prima
uno poi l’altro cercando di stare in
equilibrio. Dopo una ventina di
minuti inizio a capire che non a-
vrei resistito a lungo. Sento le ma-
ni che lasciano la presa, la schiena
e la testa che sbattono in continua-
zione. Ho paura di svenire e im-
magino il mio corpo scivolare
sull’autostrada e farsi maciullare
dai camion che ci seguono. Inizio
a piangere. Piango e la mi testa i-
nizia a pregare e a ripetere sempre
la stessa frase “Dio, non c'è altro
Dio che Lui, il Vivente,
l’Assoluto”. Piango sempre più
forte, a singhiozzi violenti, piango
e urlo sperando che qualcuno da
fuori mi senta e fermi l’autista e
mi lascino scendere e mi conse-
gnino a chi vogliono e facciano di
me quello che vogliono ma non
voglio morire. Non adesso, non
così.
Il camion si ferma. Sto per scende-
re ma capisco che sono ad un po-
sto di blocco. Improvvisamente la
paura di essere rispedito indietro
diventa più forte di quella di esse-
re travolto. Trattengo il respiro.
Non fiato. Sento che controllano
sopra il camion, dentro al rimor-
chio ma nessuno guarda sotto.
Non penso. Resisto. E nel giro di
pochi minuti il camion riparte.
Riprendo la mia corsa, la mia fati-
ca e la mia paura. Cerco di restare
saldo, con le mani, i piedi, la men-
te. Resto attaccato al fondo del
camion con tutto me stesso, con
tutta la mia forza, con tutta la mia
faccia nera, sporca, sudata e ba-
gnata di lacrime ma continuo la
mia roulette per altre sette ore, fi-
no ad un nuovo confine. Il gioco
più angosciante di tutta la mia vi-
ta.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
LE ODIERNE ENEIDI
Camminava lungo le strade im-
polverate di una città scono-
sciuta che stava tuttavia impa-
rando a esplorare nelle sue lun-
ghe e vuote giornate colmate
solo dallo scandire dei suoi pas-
si, dal suono che emettevano a
contatto con l'asfalto; persino il
cielo sembrava differente ri-
spetto quello che avvolgeva la
sua città natale.
Tuttavia quel giorno i suoi passi
l'avrebbero portato a una desti-
nazione: parimenti a ogni mer-
coledì stava dirigendosi presso
la scuola cui andava al fine
d'imparare l'italiano mediante
un'associazione.
Ogni mercoledì i suoi passi non
dovevano attendere sere fosco-
liane onde ottenere una “casa”
in cui tornare: lo stabile presso
cui viveva con molti altri sco-
nosciuti.
Il suo nome, firma della sua
storia, era Amir che costituiva
null'altro che la perpetuazione
del ricordo di chi fosse.
Usualmente Amir sedeva a par-
lare o con una ragazza dai ca-
pelli biondi similmente a spighe
di grano nella loro piena fioritu-
ra o, se riusciva, con una ragaz-
za il cui nome la descriveva e-
saustivamente: Fosca.
Dialogava solo con costoro poi-
ché “negli occhi delle altre c'è
solo falsità”.
Con Fosca si sentiva libero di
esplicitare i suoi pensieri fosse
stato anche solo per sentire la
sua voce o poter vedere che v'e-
ra qualcun altro in grado di u-
dirlo; troppe le grida rimaste ta-
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
ciute.
Il compito che era stato loro as-
segnato era quello d'inventare
una storia: i volontari sarebbero
stati il braccio e gli studenti la
mente, tuttavia, sebbene Fosca
avanzasse esempi di racconti
fantastici, Amir sembrava non
conoscere la parola “immagina-
zione".
Pertanto Fosca decise di rac-
contare la storia di Amir; in
quell'occasione ella venne a sa-
pere delle sue esperienze, del
viaggio iniziato e non ancora
concluso perché non aveva ot-
tenuto ciò per cui era partito:
una casa in cui la pace regnasse
sovrana, un lavoro e una fami-
glia.
Amir condivise inoltre i tradi-
menti, vissuti lungo il viaggio,
delle persone considerate ami-
che e gli sguardi ostili e sospet-
tosi dei residenti dei vari paesi e
come tutto ciò gl'insegnò a non
fidarsi di nessuno.
Ciononostante confessò anche
che trovò, riecheggiando parole
ariostesche, un “sicuro, secreto
e fidel porto, dove, fuor di gran
pelago, due stelle, le più chiare
del cielo e le più belle, dopo
una lunga e cieca via lo scova-
rono".
Lei e la ragazza dai capelli di
messi erano state quelle stelle.
Inoltre disse che vedeva, in
quell'aula, le sue vesti
d’immigrato ornarsi di colori
simili a quelli di una qualunque
altra persona.
Fosca decise di trascrivere quel-
la storia in modo tale da render-
la vicina alla nostra cultura,
poiché spesso le persone temo-
no la distanza, l'ignoto, in tal
modo avrebbe avvicinato gli
occhi del lettore a quelli pro-
fondi e vissuti di Amir.
Pertanto Fosca scelse la storia
secondo lei più assomigliava ai
racconti sentiti e narrò al suo
studente un riassunto dell'Enei-
de.
“Si ferma per sempre in Italia,
oppure per un periodo questo
Enea?”
Fosca sorrise.
“Per sempre.”
Si guardarono negli occhi e la
voce di Amir guidò la mano di
Fosca disegnando nel quaderno
di lei, lettere simili a frastaglia-
te montagne.
Amir avvisò poco prima la fa-
miglia della sua partenza.
Amir avrebbe lasciato l'Afgha-
nistan, patria afflitta da diciotto
anni da una guerra iniziata dagli
americani al fine di vendicarsi
di Al Qaeda per l'attentato alle
torri gemelle.
Cercava pace. Cercava una ca-
sa. Cercava una famiglia.
Serbando nella memoria tali
pensieri scrutava, immerso nel-
la marea di persone che atten-
devano, come lui, la speranza
giungere all'orizzonte, il mare.
Lo zaino gravava sulle spalle e
una valigia in mano.
Sarebbe stato sufficiente che da
quello zaino si fossero bipartite
delle gambe tarde, segnate dal
tempo e dalle fatiche, e che il
manico della valigia avesse ad-
ditato la sua mano, dita di una
pargoletta mano, per riconosce-
re un passato in fiamme e un
destino da adempiere.
Trascorsi dei giorni, videro una
barca sorgere a oriente.
Una città che non sia soffocata
dalla traiettoria dei proiettili;
una città in cui le case non fos-
sero il ricordo di un insieme di
macerie; fu il pensiero per resi-
stere a quel viaggio.
“Quando si acquietarono le alte
acque lasciarono il porto e na-
vigarono a vele spiegate;
un'aura spirava nella notte e la
Luna non rinnegava la candida
luce al viaggio e il mare splen-
deva sotto il suo tremolo lume.”
[...] E già il mare rosseggiava
per i raggi e nell'alto dell'etere
l'aurora lutea sfolgorava nella
rosea biga; quando i venti si
posarono e ogni soffio repenti-
namente si stabilizzò sulla
marmorea superficie i" motori
“lottavano. E” Amir “intrave-
deva dalle acque un grande bo-
sco. In mezzo a quello, fluendo
in modo ameno” l'Oreto “con
rapidi vortici, giallo per la mol-
la sabbia, prorompeva nel ma-
re. Vari volatili assuefatti alle
rive e all'alveo del fiume col
canto accarezzavano l'etere e
volavano nel bosco.” [Eneide
VII 6-9; 24-34]
Sbarcò, tuttavia non si fermò a
lungo in Sicilia; viaggiò in di-
verse città italiane in una delle
quali accadde una vicenda che
gli rimase scolpito nella memo-
ria.
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
Viaggiando in treno scorse una
scena: un controllore s'accostò a
un'anziana signora e le chiese
con voce gentile:
“Biglietto, per favore.”
Ella glielo porse guardandolo a
mala pena, venne ringraziata
dal controllore il quale le rese il
biglietto.
In seguito raggiunse Amir al
quale disse:
“Biglietto.” Questi glielo porse:
“Prego.”
Il controllore glielo restituì e se
ne andò lasciandolo con un gra-
zie pietrificato tra le labbra.
Giunse a Pordenone ove incon-
trò una ragazza.
Le poche volte in cui si trova-
vano, poiché lei era molto im-
pegnata, era perfetta: la luce
che emanava dagli occhi, il suo
profumo, il suono armonioso
della sua voce, il modo in cui
gli prestava ascolto.
Fu così che un venerdì pome-
riggio alle 14:37 arrivò un mes-
saggio a quella ragazza nel qua-
le poteva leggere l'amore di
Amir.
Scrisse una risposta concisa e
non si parlarono più.
Un mercoledì camminando per
la piazza popolata dal mercato,
la rivide e “sentì nel petto
un'eccitazione come baccante.
Alla fine spontaneamente l'af-
frontò con queste parole:
“Di dissimulare sperasti, o per-
fida, di poter, nefanda e tacita
abbandonarmi? O forse me
fuggi? Io per queste lacrime e
per la destra te, quando a me
già misero nulla lasciai, per il
connubio nostro, per gli imenei
iniziati, se per te qualche bene
meritai o di me qualcosa ti fu
dolce, abbi pietà della casa che
sta per crollare e abbandona, ti
prego, se c’è qualche luogo per
le preghiere questa fuga.” Dis-
se. Ella premeva nel core la
preoccupazione. Finalmente ri-
spose poche parole:
“Io mai negherò che tu hai me-
riti, né mi pentirò di ricordarti
mentre io stessa sarò memore
di me, mentre lo spirito reggerà
i miei arti. Per la situazione
parlerò poco. Non speravo di
nascondermi furtivamente, non
crederlo, né mai protesi le fiac-
cole coniugali o giunsi a tali
patti.”
[Eneide IV 305-339]
Si arrestarono. Fosca vide i suoi
occhi letti di fiume divenire e
pensò:
“Troverà la sua Lavinia.”
Iniziò poco dopo il corso e la
conoscenza delle sue due stelle.
Terminò la storia con una frase
che Amir tempo addietro le a-
veva dedicato.
“Scusa se parlo un po' seria-
mente, ma sei una dei miei mi-
gliori amici e ti vedo come la
mia famiglia.”
Fosca alzò il capo e vide nei di
Amir occhi il passato del pro-
prio popolo, nello stesso modo
in cui lui vedeva nelle di lei iri-
di il suo futuro.
In quella stanza due persone
che mai s'erano cercate, si ritro-
varono.
Tatiana Marta
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
Homo sum
Essere umani nel mondo antico di Maurizio Bettini, ed. Einaudi 2019
Lo so, qualcuno si chiederà se
abbia sbagliato rivista, se pub-
blicare una recensione allo
splendido libretto di Maurizio
Bettini su una rivista che si oc-
cupa di profughi sia un errore
grossolano o una deformazione
professionale. Eppure questo li-
bro che parla di Enea, Cicerone,
byzugoi e simile roba vecchia,
in realtà parla di oggi, delle tra-
gedie che avvengono sotto i no-
stri occhi, e ne parla con quella
lucidità e a tratti con quella vena
oracolare che deriva ed è giusti-
ficata da un fondamento di stu-
dio assoluto, da una convivenza
con i classici durata una vita in-
tera.
Il libro parte da una di quelle
domande impertinenti, inoppor-
tune e indecenti che finiscono
per aprire prospettive mai son-
date: “Il senso di umanità dei
Greci e dei Romani era migliore
del nostro? Quale posto occu-
perebbe nel mondo antico la di-
chiarazione universale del
1948? Intanto nel canale di Si-
cilia non si soccorrono i nau-
fraghi. Nel medesimo luogo ove
Enea, diretto in Italia fu soccor-
so da Didone”. Come si vede, in
otto righe che riempiono la co-
pertina si buttano sul tappeto le
carte, tutte. Enea, profugo, in-
nanzitutto. Questo era uno dei
motivi quasi ovvi che gli studio-
si di lettere classiche fin
dall’inizio dell’emergenza pro-
fughi hanno usato per invitare
all’accoglienza. Ma poi è arriva-
ta la filologica e maliziosa os-
servazione di Casa Pound et si-
milia che osservavano come in
effetti no, Enea non era profugo,
stava semplicemente tornando a
casa visto che un suo antenato,
Dardano, il fondatore di Troia,
secondo la leggenda proprio dal
Lazio era partito (Aen. IX, 10).
E dunque ripartiamo da capo,
usciamo dalle secche di una fi-
lologia d’accatto a senso unico e
nuotiamo seriamente, allargan-
do il raggio.
Il saggio, come si diceva, parte
proprio dal naufragio di Enea
ma Bettini sa usare la filologia
adattandola al presente: “Gli or-
rori del Mediterraneo hanno
tolto all’Eneide ogni innocenza
letteraria” dice a pag. 4… “e
conclude che “ormai lontano è
il tempo in cui l’Eneide era fatta
di figure poetiche; ma so che se
mi ostinassi a perpetuare quel
tempo, nonostante ciò che ac-
cade intorno a noi, mi sentirei
colpevole.” (5). Con il che la fi-
lologia si fa etica, azione civile,
senza ritorno.
Enea, come è noto, arrivato a
Cartagine vede su un frontone le
vicende dolorose della guerra di
Troia, in tempo quasi reale, co-
me oggi dagli schermi delle no-
stre televisioni: oggi cosa ve-
drebbe? si chiede Bettini. “Una
bambola strappata, una scarpa
spaiata, un cassetto bruciato o
insanguinato. Anche queste sunt
lacrimae rerum, e la realtà dei
fatti chiarisce senz’ombra di
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
dubbio il senso di questa espres-
sione tanto discussa.
Bettini non allude, con coraggio
esplicita il suo pensiero:
l’Eneide non è un classico per-
ché letto e amato, ma perché ha
contribuito a nutrire il pensiero
di chi ha fatto l’Europa,
l’illuminismo, la dichiarazione
dei diritti del ’48. Ma “come re-
agirebbe oggi Ilioneo vedendo
l’atteggiamento che non solo un
buon numero di Italiani, ma
purtroppo anche chi li governa,
sta sviluppando nei confronti
dei profughi e dei naufraghi che
tentano di raggiunger le nostre
coste?” (23). Eppure le parole di
Virgilio, di Didone, di Enea so-
no tutte nell’art. 10 della Costi-
tuzione: “Lo straniero al quale
sia impedito nel suo paese
l’effettivo esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla
Costituzione italiana, ha diritto
d’asilo nel territorio della Re-
pubblica, secondo le condizioni
stabilite dalla legge”. E qui il
percorso di Bettini si fa più
complesso, lo scavo è triplice,
alle radici del pensiero antico,
misurando gli scarti, le ugua-
glianze o le alternative. Non se-
guiremo tutte le tappe perché il
libro merita una lettura diretta e
attenta. Lo studioso non fa scon-
ti, è chiaro, nemmeno al mondo
classico, perché è bene sgombe-
rare subito il campo da un equi-
voco: i classici non sono perfet-
ti, la loro democrazia esclude le
donne, gli schiavi, i barbari, an-
zi questi non sono nemmeno
“uguali”. Del resto l’unico mo-
do intelligente di ritornare a loro
è aver ben presente che loro non
sono altro che noi, sono i nostri
primi esperimenti. Il fatto è che
avremmo il dovere di andare ol-
tre…
Dopo aver toccato il tema
dell’affinità linguistica (diritti
umani-ius humanum), in tre
densi capitoli Bettini parla dun-
que di schiavi, donne, barbari:
“i diritti dell’uomo non solo a-
vrebbero causato la rovina di
Atene o di Lacedemone, ma
quella dell’intera civiltà antica”
denuncia citando Saint-Juste.
Ma la sezione importante è la
terza, quella che parte
dall’individuazione di uno ius
naturale, un diritto comune a
tutti gli uomini, che viene prima
rispetto alle norme delle diverse
comunità. E qui compare una
figura poco nota, ma illuminan-
te, quella dei Bouzyges. Si tratta
di una famiglia sacerdotale
dell’Atene antica addetti a
compiere un’aratura annuale sa-
cra. In quest’occasione essi sca-
gliavano una maledizione ritua-
le contro tre categorie di azioni
che violavano lo ius naturale:
contro chi nega fuoco o acqua,
chi si rifiuta di mostrare la stra-
da agli erranti, chi lascia inse-
polto un cadavere. Si tratta, va
sottolineato, di doveri precisi,
non di interdizioni o di diritti, e
che gli elementi attorno cui ruo-
tano attengono all’umanità in
generale, quella societas homi-
num che supera ogni collettività
geograficamente determinata. Il
fatto che si tratti di doveri è
fondamentale, perché concentra
il focus su chi viola, fa riflettere
sulla forza della maledizione.
Questo “oggi dovrebbe farci
particolarmente riflettere. Non
si pensa mai infatti alla Erinni
che, invisibile, potrebbe udire i
lamenti che si levano fra i tortu-
rati nei campi di Libia o fra i
naufraghi che annegano di fron-
te a una costa che li respinge.
Siamo laici, non crediamo più
alle punizioni divine… Forse
però la nostra fede
nell’impunità.. potrebbe essere
scossa se solo alle Erinni /Arài
sostituissimo la storia: con i
suoi ritorni, i suoi giudizi, le sue
ripercussioni… Anche la storia
a volte cammina nelle tenebre, e
ascolta “ (65). Questo percorso
aiuta a capire anche dettagli che
abbiamo sotto gli occhi e che,
stupidi, non capiamo: Perché
punire chi non indica la strada,
per esempio?... “Quando si mi-
gra, si fugge, si vaga, orientarsi
è quasi più importante che nu-
trirsi” , e possedere un cellulare
è importante come avere la bus-
sola nel deserto (67). Ma per-
ché, e quando intervengono gli
dei? Quando l’invocazione, la
richiesta non può venir nemme-
no pronunciata, come nel caso
di un cadavere, quando la ri-
chiesta è muta (kophèn, come
dice un enigmatico verso a Ilia-
de 24,54). Di questa richiesta si
rendono garanti gli dei, in que-
sto caso l’offesa (e la punizione)
riguarda loro.
Poi nel terreno della pratica,
dell’amministrazione civile, lo
stesso Cicerone nel De officiis,
la Bibbia di tanta intellighenzia
occidentale, ammonisce che la
n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE
generosità comune deve arre-
starsi quando viola quella che
dobbiamo dedicare ai nostri, an-
teponendo, per dirla con la Nus-
sbaum “la preoccupazione per il
forziere a quella per la giusti-
zia”.
La riflessione di Bettini si dipa-
na con puntualità e acutezza fra
Seneca e Diogene di Enoanda,
fra i complessi significati di
humanitas, philanthropia, fra
Terenzio e i Vangeli, in una let-
tura bella e illuminante di cui
qui è difficile rendere conto in-
teramente.
Ma ci piace concludere con
quella opposizione netta che
viene indagata negli ultimi capi-
toli, quella fra il concetto di au-
toctonia ateniese, e greca in ge-
nerale, e il mito di fondazione
romano. Racconta Plutarco nella
Vita di Romolo che egli scavò
una fossa al centro della nuova
città in cui gettò zolle delle di-
verse terre di provenienza degli
uomini che si erano uniti a lui
(interessante che sia i bouzygoi
che Romolo siano aratori cioè
legati alla terra: ce li aspette-
remmo “sovranisti” ma si vede
che chi ara la terra sa che essa è
così grande e faticosa che c’è
spazio e lavoro per tutti…)..
Fondare una nuova città è creare
la proprio terra, dunque, è un at-
to squisitamente culturale. Si
evidenzia il carattere di apertura
della città stessa: “per i Romani
le origini non potevano che
coincidere con il loro contrario,
ossia il mutamento, il movimen-
to, il sopraggiungere”. In altre
parole “l’identità dei Romani,
se ne ebbero una, è di natura
“eccentrica”, per questo la loro
civiltà pu ancora costituire un
modello valido per un’Europa
che, tutto al contrario, cerca te-
stardamente di trovare se stessa
spezzettandosi in una pluralità
di (presunte) nazioni “sovra-
ne”” (120).
Concludo con un’ultima imma-
gine e con un consiglio ulteriore
di lettura. Il libro è Naufraghi
senza volto, di Cristina Cattane-
o. L’autrice è insegnante di Me-
dicina legale a Milano e si è
occupata di ridare un nome a
centinaia di cadaveri recuperati
dai barconi affondati. “Dare una
sepoltura ai morti”, dunque e in
questo caso un’identità, quel
dovere di cui parlavano i bou-
zygoi ateniesi… Ma ad un certo
punto un dettaglio suggestivo e
commovente: durante le autop-
sie si scoprono certi rigonfia-
menti nelle magliette indossate
dai migranti morti. “Droga?” è
il primo pensiero della dottores-
sa Cattaneo, ma non si tratta di
droga. Si tratta di terra, quella
terra che portano con sè, legata
addosso, per ricordare la propria
terra, ma forse anche per versar-
la in questa nuova fondazione
che il nostro disgraziato mondo
civile sembra richiedere con ur-
genza.
Paolo Venti
Nota di redazione: ci perdonerete anche questa volta errori e impaginazioni approssimative. In molti casi abbiamo saltato volutamente i nomi per tu-
telare la riservatezza degli amici che ci hanno raccontato le loro storie.
Una nota per gli articolisti: chiunque può inviare del materiale alla redazione all’indirizzo [email protected] (stile giornalistico, e magari una o due im-
magini). Ci raccomandiamo però che il materiale sia … personale, cioè rielaborato da fonti che inevitabilmente ciascuno deve consultare. Non è accettabile
materiale scaricato da Internet e non rielaborato!! In ogni caso è onesto citare la fonte, magari riportandola all'interno del testo. Ricordatevi di allegare
sempre anche una foto o due relative all'argomento in questione, se si tratta di interviste magari una foto della persona intervistata. Grazie a chiunque vorrà
partecipare a questa piccola impresa! A presto!!