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N. 13 - maggio 2019 – Stampato in prop AFR Frammenti d GIORNATA MO DEL RIFUGIATO Sembra tutto apparente- mente uguale, eppure qualcosa è cambiato, e non può lasciarci indiffe- renti. C’è chi la chiama inva- sione. A conti fatti sono qualche centinaio di gio- vani uomini e donne che cammino per le strade della città. Li osserviamo passare e ci inter difficile pensare di fermarsi e chie sa. Potremmo scoprire storie dure, tri ribili. Rientrare a casa la sera div ficile perché il pensiero, come un ne andrebbe via, inquinandoci il s Ascoltare diventa allora una scelta ché l’ascolto implica necessariam il dialogo apre al confronto e il c dula i presupposti su cui tutti ci pre ancorati. Prendere tempo, ferm orecchie, sintonizzarsi e lasciars diventa un atto concreto di presen e di resistenza,oltre che di umanit La Cooperativa Nuovi Vicini ta ed accoglie storie di uomini e d partiti. In collaborazione con l’ins Chiara Caccia, ha scelto di dare v Associazio prio 1 RICAR di cultura, società e … sentim LA FOTO D Con il con ONDIALE rrogano. Ma è edergli qualco- isti, a volte ter- venterebbe dif- n tarlo, non se sonno a. Precisa. Per- mente il dialogo, confronto rimo- siamo da sem- marsi, aprire le si coinvolgere, nza, di apertura tà. i da anni ascol- donne che sono segnante Maria voce ad alcune NELLE PAGIN Intervista con Ivana La I nuovi versi di Soyink Chiunque nel giustifica Le odierne Eneidi Homo sum "Il progetto Giovani, nuov finanziato dalla Regione F risorse statali del Ministero che sociali ai sensi dell'art. Codice del Terzo Settore" one "Hapa Tuko" RE mento DEL MESE ntributo del NE INTERNE atrofa ka Storie d'Africa ato timore ve ali per il volontariato è Friuli Venezia Giulia con o del lavoro e delle Politi- .72 del D.Lgs. 117/2017 -

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N. 13 - maggio 2019 – Stampato in proprio

AFRIFrammenti di cultura, società e …

GIORNATA MONDIALE

DEL RIFUGIATO Sembra tutto apparente-

mente uguale, eppure

qualcosa è cambiato, e

non può lasciarci indiffe-

renti.

C’è chi la chiama inva-

sione. A conti fatti sono

qualche centinaio di gio-

vani uomini e donne che

cammino per le strade

della città.

Li osserviamo passare e ci interrogano. Ma è

difficile pensare di fermarsi e chiedergli qualc

sa.

Potremmo scoprire storie dure, tristi, a volte te

ribili. Rientrare a casa la sera diventerebbe di

ficile perché il pensiero, come un tarlo, non se

ne andrebbe via, inquinandoci il sonno

Ascoltare diventa allora una scelta. Precisa. Pe

ché l’ascolto implica necessariamente il dialogo,

il dialogo apre al confronto e il confronto rim

dula i presupposti su cui tutti ci siamo da se

pre ancorati. Prendere tempo, fermarsi, aprire le

orecchie, sintonizzarsi e lasciarsi coinvolgere,

diventa un atto concreto di presenza, di apertura

e di resistenza,oltre che di umanità.

La Cooperativa Nuovi Vicini da anni asco

ta ed accoglie storie di uomini e donne che sono

partiti. In collaborazione con l’insegnante Maria

Chiara Caccia, ha scelto di dare voce ad alcune

Associazione "Hapa Tuko"

Stampato in proprio

1

AFRICAREFrammenti di cultura, società e … sentimento

LA FOTO DEL

Con il contributo del

GIORNATA MONDIALE

Li osserviamo passare e ci interrogano. Ma è

difficile pensare di fermarsi e chiedergli qualco-

Potremmo scoprire storie dure, tristi, a volte ter-

i. Rientrare a casa la sera diventerebbe dif-

ficile perché il pensiero, come un tarlo, non se

ne andrebbe via, inquinandoci il sonno

Ascoltare diventa allora una scelta. Precisa. Per-

ché l’ascolto implica necessariamente il dialogo,

nto e il confronto rimo-

dula i presupposti su cui tutti ci siamo da sem-

pre ancorati. Prendere tempo, fermarsi, aprire le

orecchie, sintonizzarsi e lasciarsi coinvolgere,

diventa un atto concreto di presenza, di apertura

e di resistenza,oltre che di umanità.

La Cooperativa Nuovi Vicini da anni ascol-

ta ed accoglie storie di uomini e donne che sono

partiti. In collaborazione con l’insegnante Maria

Chiara Caccia, ha scelto di dare voce ad alcune

NELLE PAGINE INTERNE

Intervista con Ivana Latrofa

I nuovi versi di Soyinka

Chiunque nel giustificato timore

Le odierne Eneidi

Homo sum

"Il progetto Giovani, nuove ali per il volontariato è finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia con risorse statali del Ministero del lche sociali ai sensi dell'art.72 del D.Lgs. 117/2Codice del Terzo Settore"

Associazione "Hapa Tuko"

CARE entimento

OTO DEL MESE

Con il contributo del

NELLE PAGINE INTERNE

Ivana Latrofa

I nuovi versi di Soyinka Storie d'Africa

Chiunque nel giustificato timore

"Il progetto Giovani, nuove ali per il volontariato è finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia con risorse statali del Ministero del lavoro e delle Politi-che sociali ai sensi dell'art.72 del D.Lgs. 117/2017 -

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

“ALIMENTANO L’ODIO, IL RIFIUTO;

rispondiamo con la solidarietà e l’accoglienza”

Intervista con Ivana Latrofa

presidente della cooperativa Nuovi vicini

Con parole dure, sferzanti, pre-

occupate Ivana Latrofa, presi-

dente della cooperativa Nuovi

Vicini , ci descrive la situazione

che si sta creando in seguito ai

provvedimenti, agli atteggia-

menti del nuovo governo italia-

no:

“Si sta cavalcando l’odio, si

vuole fomentare l’odio; tutti

sappiamo come sono trattati i

migranti in Libia e tuttavia si af-

fida alla polizia libica il compito

di raccogliere i naufraghi per

riportarli nei campi di detenzio-

storie migranti raccogliendole in una mostra di fotografie e testi che raccontano storie di viaggio e di

fuga. Si è deciso di intitolare la mostra “Chiunque nel giustificato timore”, a ricordare che nell’art. 1

della Convenzione di Ginevra(che vede più di 140 stati contraenti)si è sottoscritto che “chiun-

que”,nella paura d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua ap-

partenenza a un gruppo sociale o le sue opinioni politiche, ha diritto di chiedere protezione.

Ed è proprio quel “chiunque” che viene spesso dimenticato. I richiedenti asilo, come categoria ad uso

e consumo delle più diverse definizioni, sembrano infatti non esistere come individui ma solo come

massa, invadente e fastidiosa, dimenticando che "ciascuno" di loro, nel gruppo del "chiunque" bussa

alle porte dell’Europa, ha un personalissimo motivo per andarsene e che forse giustifica il suo ritrovar-

si qui a vivere nell' attesa di poter ricominciare.

Il 20 giugno si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale del Rifugiato, appuntamento annuale

voluto dalle Nazioni Unite per sensibilizzazione l’opinione pubblica sulla condizione di milioni di ri-

fugiati e richiedenti asilo e soprattutto invitare a non dimenticare che dietro ognuno di loro c’è una sto-

ria che merita di essere ascoltata.

Nel chiostro della Madonna Pellegrina, a partire dalle ore 18.30 la Cooperativa Nuova Vicini si unisce

a questa celebrazione mondiale inaugurando la mostra che non solo raccoglie storie migranti, ma spie-

ga anche il lungo e complesso percorso burocratico che devono affrontare i richiedenti una volta arri-

vati in Italia. Il “Canto sconfinato”, coro multietnico composto da 40 elementi provenienti da diversi

Paesi e regioni del mondo e dell’Italia, accompagnerà la serata con canti e musiche che evocano tradi-

zioni vicine e lontane e che la memoria dei viaggiatori ha portato con sé insieme alle loro storie di vita.

Celebrare assieme la Giornata Mondiale del Rifugiato significa scegliere di esserci, voler ascoltare e

non dimenticare. Vi aspettiamo.

Maria Chiara Caccia

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

ne. Non c’è stata la capacità, la

volontà di organizzare una ra-

gionevole e realistica politica

dei flussi dei migranti per sot-

trarre agli scafisti la gestione

dei viaggi in mare che comporta

un esborso esoso di danaro da

parte dei migranti e un imbarco

su mezzi inadatti, destinati

spesso al naufragio se non in-

tervengono i soccorsi. Quello

che si sta facendo in questo pe-

riodo è criminale”.

La cooperativa Nuovi Vicini ge-

stisce in varie modalità

l’accoglienza e l’integrazione di

profughi richiedenti asilo e di

altra categorie di persone in

gravi difficoltà.

“Abbiamo scelto di collocare i

profughi in piccoli gruppi, in

appartamenti sparsi in tutto il

territorio provinciale; abbiamo

dei contratti frutto di appalti con

la Prefettura e con alcuni comu-

ni. Forniamo i servizi essenziali

di vitto e alloggio ed anche so-

stegno burocratico, ma soprat-

tutto interventi formativi, sup-

porto di carattere sia psicologico

che materiale.”

“Cosa è cambiato in questo

ambito con i nuovi provvedi-

menti del governo?” abbiamo

chiesto.

“L’intervento più radicale com-

porta la riduzione del contributo

giornaliero per l’accoglienza ai

richiedenti asilo da 35 euro a 21

euro. Va precisato che dei 35

euro solo 2,50 euro al giorno e-

rano dati direttamente a ciascun

profugo, il resto serviva per or-

ganizzare tutti i servizi di acco-

glienza materiale (vitto e allog-

gio), di sostegno e inserimento

burocratico, formativo, educati-

vo, globalmente assistenziale.

La riduzione a 21 euro significa

che non si intende sostenere al-

cun intervento di integrazione,

di assistenza per limitarsi alla

pura e semplice fornitura di vit-

to e alloggio. Ci sono cooperati-

ve che si orientano a non parte-

cipare più ai bandi gestiti dalle

Prefetture, perché non si garan-

tiscono più accoglienza e inte-

grazione dignitose. “

“Quali conseguenze ne deriva-

no per i profughi, per le comu-

nità dei nostri paesi?”

“Questi atteggiamenti, questa

politica dell’accoglienza aveva

come ipotesi la volontà di ripor-

tare tutti i profughi che non ot-

tenevano il diritto di asilo nei

paesi di provenienza e nello

stesso tempo

non offre alcun percorso di reale

integrazione a coloro che, otte-

nuto il permesso di asilo, non

hanno più diritto ad alcun tipo

di sostegno. Come è noto a tutti

il rimpatrio dei profughi nei pa-

esi di provenienza riguarda un

numero assolutamente minorita-

rio di persone. Va fatto rilevare

inoltre che è stato tolto il diritto

di “accoglienza umanitaria” per

coloro che non ottenevano il di-

ritto di asilo. Dall’insieme di

questi provvedimenti ne deriva

che molte persone usciranno dai

percorsi, dai progetti di acco-

glienza e integrazione e si trove-

ranno abbandonati a se stessi,

vittime di chi offre lavoro nero,

di chi potrebbe coinvolgerli in

attività illegali o andranno va-

ganti senza dimora nelle nostre

comunità. Sarà allora veramente

aggravata da una parte la condi-

zione dei profughi ma anche il

disagio della nostra gente. Quei

cittadini (‘Prima gli italiani’)

che avrebbero dovuto essere i

beneficiari di questi provvedi-

menti ne subiranno le conse-

guenze negative.”

“Quali sono le prospettive futu-

re per la cooperativa Nuovi Vi-

cini, per le persone che vi lavo-

rano?”

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

“Stiamo vivendo un momento di

preoccupazione, quasi di smar-

rimento: dovrà diminuire

l’impegno lavorativo sia in

quantità che in qualità. In questi

anni abbiamo coinvolto molti

giovani non solo in una attività

organizzative ma anche e so-

prattutto nella capacità di in-

staurare relazioni, di confrontar-

si con la diversità, di scoprire

nelle persone, pur caratterizzate

da costumi, valori etici, compor-

tamenti molto diversi, una co-

mune radice di umanità. E’ pro-

prio il mancato, il voluto non ri-

conoscimento di questa comune

umanità che sta alla radice delle

scelte attuali del governo; da qui

sorgono gli atteggiamenti di ri-

fiuto, di disprezzo, di negazione

della cultura della solidarietà

(’E’ finita la pacchia’). Certa-

mente la mia preoccupazione

immediata deriva dalla necessità

di licenziare molte persone, di

disperdere un patrimonio di

competenze umane e sociali che

si stavano accumulando. Ma in

una prospettiva più ampia una

profonda inquietudine si lega al-

la prospettiva che nella società,

nelle nostre comunità, si diffon-

da un modo di sentire e di ra-

gionare legato all’egoismo indi-

viduale, all’intolleranza, alla

progressiva esclusione dell’etica

della solidarietà.”

A conclusione del nostro collo-

quio, al di là di queste riflessio-

ni molto pessimistiche, ho rico-

nosciuto in Ivana Latrofa una

sostanziale serenità per il lavo-

ro svolto, per le relazioni co-

struite e quindi anche una non

superficiale fiducia nel futuro,

nella seppur parziale e difficile

vittoria del senso di umanità

capace di attenuare se non di

distruggere i germi che alcuni

vorrebbero diffondere di una ir-

razionale e distruttiva disuma-

nità.

A cura di Sergio Chiarotto

DA MANDELA A LEAH I nuovi versi di Soyinka contro violenza e fanatismo.

Lo scorso marzo il Corriere della

Sera ha pubblicato nel supple-

mento La Lettura alcuni versi i-

nediti del premio Nobel nigeria-

no Wole Soyinka. L’ autore è

noto a noi pordenonesi, che lo

abbiamo ospitato prima nel

2012, come protagonista della

rassegna Dedica e poi nel 2017,

come assegnatario del Premio

Friuladria, abbinato al festival

del libro. Ricordiamo bene la fi-

gura carismatica del grande vec-

chio che tanto ha visto e sofferto,

l’autorevolezza dell’intellettuale

dotato di una visione profonda

delle vicende umane passate e

presenti, la passione civile dello

strenuo difensore della libertà

contro ogni fanatismo e la statura

del poeta dalla voce ferma e po-

tente. Non possiamo inoltre di-

menticare la generosità da lui

dimostrata con gli studenti che

hanno potuto intervistarlo.

I versi pubblicati su La Lettura-

sono tratti da un componimento

scritto da Soyinka per la Giorna-

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

ta mondiale della Poesia. Trac-

ciando una breve e folgorante

parabola,l’autore evoca due figu-

re impresse nella memoria collet-

tiva e le associa a un’altra molto

meno nota, ma non meno esem-

plare. Inizia con Nelson Mande-

la, indomito prigioniero a Rob-

ben Island, dove quello che sa-

rebbe divenuto il primo presi-

dente nero del Sudafrica ripeté

per 27anni il suo NO a compro-

messi sul tema della libertà e dei

diritti civili. Prosegue evocando

il NO pronunciato da Malala, la

studentessa pakistana che rischiò

la vita per difendere il diritto del-

le donne all’istruzione di fronte

al fanatismo dei talebani. Termi-

na con Leah Shabiru, alunna tut-

tora prigioniera di Boko Haram,

che oppone il suo NO

all’imposizione di abiurare la

propria fede per adeguarsi a

un’altra in cui non crede.

Quei NO sono legati da un filo

rosso che attraversa il tempo per

svolgere il ruolo di testimonian-

za coraggiosa contro ogni fanati-

smo e trova nei versi potenti

dell’autore la luce di “una fiam-

ma splendente che brucia per il-

luminare daccapo il mondo”.Con

i suoi versi Soyinka smaschera la

vergogna di “un mondo alla

mercé di fedi bugiarde”, indica la

strada della resistenza e del per-

dono e incarna l’alta funzione

della poesia civile.

«No» he said, «Freedom is never conditioned» And shackles clamped on the veteran of Robben Island. «No» she said, «Knowledge permits no exclusion» - Scarred, but unscared, the face of the Maid of Pakistan. «No» she said, «Faith is not on compulsion» - A captive voice, demure but defiant in Dapchi, Her torch undimmed in the den of zealots. Thus, across time, testamentary voice recurrent - Mandela, Malala, Leah Sharibu - the torch of «No, said Prometheus», flame and anthem, Finds fissures, a lustrous flame bursts through Chibok and Dapchi, to re-illuminate the world. «No» she said, and «No!» he said, a choric -«No! I am no prisoner of this rock….I toiled, Precedent on all earth, a mortal shard Thrust whole from the marsh of creation». Leah, this trial of your youth is cruel, Unjust. You may falter but, the shame is Ours, a nation’s, and a world in thrall To lying faiths. A timeless host Precedes. Through heart and mind They’ll lead you. Their voices join In supplication from our enfeebled space That only seems abandonment: Survive, Leah. Forgive.

«No», disse, «La libertà non accetta condizioni» E le catene si strinsero sul veterano di Robben Island. «No», disse, «La conoscenza non ammette esclusioni» Sfregiato ma sereno il volto della giovane pakistana. «No», disse, «La fede non è costrizione» Pacata ma ferma la voce catturata a Dapchi, Fiamma viva nel covo dei fanatici. Così, nel tempo, la voce ritorna testimone, Mandela, Malala, Leah Sharibu, la fiamma accesa Di Prometeo che disse «No», fuoco e canto, Si insinua tra le crepe, fuoco lucente Che brucia da Chibok a Dapchi E illumina daccapo il mondo. «No», disse lei, e «No», disse lui, un coro di «No!» Questa roccia non mi è prigione... Ho faticato Primo esempio su questa terra, scheggia mortale Spinta con furia dal fango della creazione. Leah, mettere alla prova la tua giovinezza è crudele, Ingiusto. Se vacilli, la vergogna è nostra, della nazione, di un mondo alla mercé di false fedi. Un oste senza tempo Si fa avanti. Ti guideranno, cuore e mente. Voci unite In supplica si alzano dal fragile spazio Che sa solo di abbandono: Sopravvivi, Leah. Perdona.

(traduzione di Alessandra Di Maio) Il componimento è da poco disponibile in versione integrale con il titolo Ode Umanista per Chibock, ed. Jaca Book. , è acquistabile presso quasi tutte le librerie online.

Nella Maccarrone

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

CHIUNQUE,

NEL GIUSTIFICATO TIMORE

Secondo l’Art. 1 Convenzione di Ginevra del 1951 il termine “rifugiato” è applicabile a “…chiunque, per

causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua

razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue

opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore,

non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori

dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole

ritornarvi.”

"Chiunque nel giustificato

timore" è una narrazione fotogra-

fica in cui ritratti di richiedenti

asilo si accompagnano alle loro

storie di viaggio e di fuga. L'in-

timità del dolore, della speranza,

della volontà e della rabbia, per

un passato da allontanare ed un

futuro incerto, trovano nelle sto-

rie raccolte uno spazio di visibi-

lità concreta che restituisce a cia-

scuno di loro una identità indivi-

duale e non collettiva. I richie-

denti asilo, come categoria ad

uso e consumo delle più diverse

definizioni, sembrano non esi-

stere come individui ma solo

come massa, dimenticando che

"ciascuno" di loro, nel gruppo

del "chiunque" bussa alle porte

dell’Europa, ha un personalissi-

mo motivo per andarsene e che

forse giustifica il suo ritrovarsi

qui a vivere nell' attesa di poter

ricominciare.

(Foto e testi di Maria Chiara Caccia)

HOMS Quando resti per ore rinchiuso in

una cantina, mentre fuori conti-

nuano a sparare, ti restano solo

due cose da fare: piangere e pre-

gare.

Mi piaceva passare il pomeriggio

con le amiche. Chiacchierare per

ore bevendo il te, raccontarsi pet-

tegolezzi, scoprire come si diven-

ta grandi e immaginare il futuro.

Pomeriggi lunghi, frivoli, leggeri,

dove tutto era ancora possibile e

l’immaginazione ti portava oltre i

confini del quartiere. Mi piaceva

tornare a casa da mia madre, mio

padre, i miei fratelli e giocare con

loro, imparare a cucinare, raccon-

tarsi la giornata, ridere. Tutto il

mio mondo era a portata di mano

e in quel piccolo mondo ero feli-

ce.

Quando la guerra ha iniziato a

farsi sentire anche a Homs, ogni

forma di leggerezza se ne è anda-

ta con la prima raffica di proietti-

li. Le risate, i pettegolezzi, i lun-

ghi pomeriggi si sono trasformati

in ore di attesa lenta dove tutto

poteva accadere, dove la paura

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

era l’unica compagnia possibile.

Da quel giorno la vita è diventata

un estenuante singhiozzo, tra

momenti di tregua e giorni im-

pazziti, solcati da cingoli di car-

rarmato e pesanti colpi di morta-

io.

Al primo sparo, in lontananza, ci

precipitavamo giù per le scale del

condominio. I bambini piangeva-

no, i vecchi pregavano, gli uomi-

ni imprecavano e le madri na-

scondevano la paura dietro ai fou-

lard. In pochi minuti ci ritrova-

vamo a decine rinchiusi nei se-

minterrati stipati a piangere e

pregare. I carri armati passavano

sopra le nostre esistenze, i kala-

shnikov sparavano dentro le no-

stre vite e a noi non restavano che

lunghe ore di silenzio trattenuto e

soffocato. Poi iniziava la risalita,

da sotto la terra, per scoprire cosa

era rimasto e riappropriarci della

quotidianità. Un giorno, per mia

zia, la risalita è stata peggiore

della discesa e la quotidianità è

diventata il suo calvario. Dietro le

porte del suo appartamento ha

trovato i corpi dei suoi tre figli.

Non avevano voluto scendere con

noi. Troppa stanchezza, forse abi-

tudine, un’irrazionale eccesso di

sicurezza, voglia di difendere

quattro mura. Si erano voluti

fermare a guardare la guerra e la

guerra se li era portati via. Non è

mai più ritornata quella che era.

Sono stati anni sospesi, tra paure,

ipotesi, attese. Anni indecisi tra

restare e partire, decidere cosa te-

nere e cosa lasciare, chi salutare e

chi portare oltre confine. Senza

sapere cosa c’era oltre il confine.

Siamo partiti, un mattino come

un altro, senza averci pensato,

senza aver salutato, senza aver

deciso cosa tenere e cosa lasciare.

Un mattino di sole, dopo

l’ennesima notte di spari, sibili,

botti, urla, paura, lacrime e pre-

ghiere, un mattino di sole e di

stanchezza. Abbiamo messo

qualche vestito in una borsa, sia-

mo saliti tutti in una macchina e

abbiamo guidato fino in Libano,

senza parlare, tra il rumore della

macchina e il pianto ininterrotto

di mio fratello.

Non è rimasto più niente a Homs,

solo cemento e polvere. Una città

vuota, senza voci. Ho buttato via

tutte le foto che avevo. Ricordi

chiusi dentro a un telefono di una

vita che non esiste più. E che non

ho più bisogno di rivedere.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

TRIPOLI Sono clandestino ormai da sei

mesi e ho disperatamente bisogno

di un lavoro. Cammino tra le

strade di Tripoli cercando nei

cantieri, nel retro dei ristoranti,

nelle cave di sabbia, nel fondo di

qualsiasi anfratto sporco di sudo-

re dove un negro, clandestino,

senza famiglia possa elemosinare

qualche dinaro al giorno. Sono

disposto a tutto, a portare qualsia-

si peso, immergermi in qualsiasi

melma, nascondermi in qualsiasi

retrobottega dove solo gli immi-

grati clandestini possono lavorare

ai limiti dello sfinimento.

Cammino tra le strade di Tripoli e

mi ferma la fortuna. Un uomo di

mezza età, il viso bianco libico, i

baffi neri, l’aria pulita. Mi offre

un lavoro. Lo seguo.

Salgo in macchina. Dopo aver at-

traversato il deserto, aver seppel-

lito amici, essermi nascosto nel

bagagliaio di una macchina per

24 ore soffocato dal caldo e

dall’odore di gasolio, penso di

aver trovato anche io la mia for-

tuna.

Pochi chilometri dopo, tra strade

nascoste, un vicolo cieco. Ecco la

mia fortuna: soddisfare le sue

perversioni o finire in carcere.

Sono agghiacciato. Paralizzato.

Incapace di pensare.

Non sono disposto a tutto. Non

sono disposto a vendermi per

qualche dinaro. Non ce la faccio.

Sento l’odio che sale, più forte

della paura, più forte di qualsiasi

sopravvivenza, più forte della vi-

ta.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

Scelgo la morte. Perché dietro le

sbarre libiche ti aspettano solo

violenza e morte.

Scelgo la morte, perché morire da

uomo integro è meglio che vivere

da uomo indegno.

Mi infilano per due mesi in una

gabbia di 4 metri per 3. Ci vivia-

mo in quindici, a volte venti.

Uomini e donne, giovani e vec-

chi. Ci mettono ai lavori forzati

per 8 ore al giorno. E’ aprile, fa

freddo e piove tutti i giorni.

Non c’è riposo, non c’è pausa,

non c’è tempo per la fatica. Ci

sputano addosso, ci insultano, ci

frustano. Più sei stanco, più ti pe-

stano. Più ti pestano, più ti sfini-

scono. Fino a sfinirti. Fino a

quando la morte ti libera.

La cella è piena di insetti, piccoli

insetti bastardi che nella penom-

bra entrano in qualsiasi orifizio.

Siamo tutti pieni di scabbia, ci

grattiamo come cani pieni di pul-

ci, fino a sanguinare per trovare

pace. Nessun latrato. Solo un si-

lenzio pesante come l’odio.

In un angolo della cella c’è un

secchio. Mi ritrovo a pisciare da-

vanti a tutti. Nessuno fiata, nes-

suno parla, nessuno mi guarda. E

io non guardo nessuno. L’intimità

violata diventa sempre più umi-

liante, più disgustosa, più disu-

mana. A turno portano fuori dalla

cella uomini e donne. Ammanet-

tati al tavolo e violentati nel si-

lenzio dell’anima muta, il cuore

che batte a mille, tra le risa di chi

sfoga senza pietà le sue perver-

sioni. Una giovane nigeriana par-

torisce in cella, davanti a tutti.

Aprono la gabbia, portano via il

bambino. Nessuno fiata.

L’odio e l’umiliazione aumentano

notte dopo notte. Più mi umilia-

no, più cresce l’odio. Più cresce

l’odio più mi sento umiliato. Il

mio animo è morto.

ZWARA

Poi una sera ci hanno caricati

dentro ad un camion, nascosti

sotto un telo, e ci hanno portati a

bordo mare.

Quando abbiamo visto la barca

che doveva farci attraversare era-

vamo tutti sgomenti. Il mare nero

ci riempiva la mente di immagini

di morte, inghiottite dalla notte

scura ancor prima di entrarci den-

tro. Nascondevo la paura dove

nessuno potesse vederla, dove

nessuno potesse sentirla. Non

guardavo in faccia nessuno e pen-

savo solo a non farmi divorare

dall’angoscia. Mi avrebbe ucciso.

C’era chi non voleva più partire,

piangeva, pregava e urlava il no-

me di sua madre, che gli tenesse

la mano prima di affogare nelle

acque gelide. Era aprile, il vento

soffiava freddo.

Eravamo più di settanta, asfissiati

dall’odore della paura che puzza-

va di carne gonfia e bagnata, di

terrore e singhiozzi. Asfissiati

dall’odore dell’orrore che ci im-

pediva quasi di respirare.

Ci hanno spinti dentro come be-

stie al macello.

Due sacchi di biscotti e quattro

taniche di benzina. Hanno acceso

il motore e ci hanno spinto in ma-

re. Senza autista.

Abbiamo cercato di tenere una

rotta che non conoscevamo. Di

entrare nel mare aperto. Poi le

onde ci hanno vinto.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

Abbiamo vagato per sei giorni

senza vedere nient’altro che ma-

re. Fino a rimanere senza benzi-

na, senza cibo, senza acqua. Ba-

gnati fradici, paralizzati dal fred-

do, dall’acqua, dal vento bastardo

che entrava nelle orecchie fino a

farti diventare pazzo. Pazzo.

C’era chi era impazzito. Delirava,

vedeva cose che non c’erano,

sentiva rumori che nessuno senti-

va, urlava contro spiriti che nes-

suno vedeva. Gli tenevamo a tur-

no la testa, le mani, i piedi perché

non si buttassero come schegge

impazzite nel mare nero. C’era

chi vomitava tutta la violenza che

gli avevano cacciato dentro a viva

forza. Vomitava per giorni. Vo-

mitava l’acqua di mare che ognu-

no raccoglieva tra le mani e mi-

schiava con l’urina per renderla

più dolce. E bere.

Abbiamo vagato per giorni cer-

cando di tenere una rotta che non

conoscevamo.

Fino a quando una mattina ci

hanno salvati.

AFGHANISTAN –

Quando sentivo i racconti di mio

padre, mi sembrava che parlasse

di un altro mondo. Continuavo a

stupirmi di quanto l’Afghanistan

fosse cambiato e ogni dettaglio

mi sembrava distante anni luce da

quello che stavo vivendo. Sentivo

la nostalgia e la rabbia per un pa-

ese stuprato, dove democrazia,

diritto e libertà erano state prese

d’assalto dalla furia cieca di un

fondamentalismo che non per-

metteva alcun diritto di replica.

Mi guardavo attorno e vedevo so-

lo un paese alla deriva, senza

strade, scuole, elettricità, ospeda-

li. Anche partorire sembrava una

condanna.

Tanti abbandonavano il paese.

Lasciavano terra e polvere per ri-

cominciare a respirare oltre con-

fine, tra gente straniera, lontani

da tutto. Un esodo nascosto e si-

lenzioso che spezzava legami,

creava abbandono, lasciava vuoto

e solitudine. C’era solo spazio per

la paura.

In quel momento capivo poco di

tutto quello che stava succeden-

do. Sapevo solo che la mia vita,

quella della mia famiglie, della

mia gente non ci apparteneva più,

che nessuno apparteneva più ne-

anche a se stesso; eravamo solo

merce di scambio in mano a forze

più grandi di noi. Avrei voluto

trattenerli. Urlare a pieni polmoni

di restare, di non scappare, di

fermarsi, combattere e ritornare

ad essere quello che eravamo. Un

paese libero.

Con la forza spavalda dei

vent’anni mi arruolavo volontario

nell’esercito Afghano, disposto

ad andare in qualsiasi campo,

confine, anfratto del paese che

avesse bisogno della mia sete di

libertà. Pochi mesi dopo mi ritro-

vavo faccia a faccia con i taleba-

ni, fianco a fianco degli america-

ni, pronto per combattere al fron-

te.

Sono stati anni intensi, violenti e

adrenalinici. Il nemico era uno e

tutti eravamo uniti, compatti, so-

lidali e vincenti. Ogni sparo, a-

zione, rappresaglia erano un pas-

so indietro per chi opprimeva e

un passo avanti verso la libertà.

Mentre combattevo sentivo che

stavo ricostruendo il futuro, ri-

conquistando terreno, riedifican-

do il paese. Sentivo che

l’Afghanistan stava risorgendo e

che stavo facendo l’unica cosa

che aveva senso fare. Ogni vitti-

ma era per la causa, ogni nuovo

giorno una nuova speranza. Mi

sentivo forte, anche davanti alla

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

morte.

Di tutti quegli anni, ho ricordi ta-

tuati su tutto il corpo. Una mappa

marchiata a fuoco da proiettili,

mine, dolore e fatiche. Di quegli

anni ho la mente impressa di cor-

pi lacerati, amici scomparsi, urla

e spari.

Il giorno in cui gli americani se

ne andarono, il retrogusto della

vittoria iniziò a diventare amaro.

Mi ero messo in pericolo, avevo

messo la mia famiglia in pericolo,

mi ero esposto al nemico. Mi a-

vevano promesso protezione per

aver combattuto fianco a fianco,

ma gli anni passati assieme spari-

rono con il loro ultimo cargo e a

me rimase solo una medaglia al

valore da chiudere in un cassetto.

Nessuna ricompensa, nessun pro-

gramma per i veterani. Un sentito

grazie, nient’altro. Mi sentivo ab-

bandonato, da loro e dal mio stes-

so paese, che dopo la distruzione

iniziava la sua lenta ricostruzione.

Entrai in Polizia. Mi fecero subito

Capo Distretto, con 500 uomini

sottoposti. Avevo imparato a

combattere la paura e a destreg-

giarmi nell’imprevisto, sapevo

gestire il rischio e motivare le

truppe. L’avevo imparato libe-

rando il paese, ora lo usavo per

difendere quello che era rimasto.

La mia nuova parola d’ordine era

proteggere e accompagnare il

nuovo Afghanistan nella sicurez-

za e nella legalità. Non avrei mai

dovuto accettare.

Mi ero messo a servizio di un si-

stema politico invischiato in gio-

chi di potere complessi e difficili

da isolare. Ovunque andassi,

qualsiasi decisione prendessi,

qualunque azione decidessi di in-

traprendere veniva bloccata sul

nascere. Ogni abuso, ogni frode

era legata a uomini di potere con

un filo sottile difficile da tagliare.

C’era sempre qualcuno più forte

di me, più potente di me, che in

qualche modo mi obbligava a li-

berare e sotterrare qualsiasi indi-

zio, fatto o prova; bastava una

semplice telefonata.

Avevo le mani legate. Chi dove-

vo difendere era legato a doppio

filo con il potere entrante o i tale-

bani uscenti. Tutto era connesso.

Non c’era spazio per l’onestà.

Nel giro di poco tutte le denunce

fatte, e rigorosamente insabbiate,

mi avevano regalato più nemici di

quanti già ne avessi.

Poi, un giorno, mentre scortavo

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

un ministro, mi hanno sparato.

Una prima volta. Un lungo inter-

vento, la convalescenza e una let-

tera di apprezzamento. Poco do-

po, durante un meeting delle for-

ze dell’ordine, mi hanno sparato.

Una seconda volta. Sapevo che

non era successo a caso. Che

quella pallottola era diretta solo

ed unicamente a me.

Accumulavo gradi, medaglie, let-

tere, meriti, ma non cambiava

niente. Stavo combattendo contro

qualcosa di troppo grande, che

non avrei mai potuto vincere. Lo

stesso potere che volevo difende-

re non voleva la mia presenza,

non apprezzava il mio lavoro,

non sosteneva la mia voglia di si-

curezza. Tutto mi era impossibile.

Il mio telefono era finito sotto

controllo e un pomeriggio

d’inverno venivo direttamente

prelevato dalla vasca da bagno.

Sono rimasto in prigione giorni.

Non ho voluto andarmene, non

ho voluto andarmene anche se

mia moglie, i miei figli, la mia

famiglia mi chiedevano di partire.

Aspettavo. Qualcosa.

Ho aspettato troppo. Ho lasciato

che mio fratello uscisse di casa

con la mia macchina, per rientra-

re dentro ad una bara. Lo hanno

freddato al mio posto. Quando

l’ho visto mi si è dilaniato il cuo-

re. Mi sono dannato, maledetto,

massacrato nell’animo. Non ho

più trovato pace, né ragioni, né

senso.

Dal giorno in cui sono scappato

hanno ucciso molti di quelli che

avevano lavorato con me. La

guardia del corpo, l’informatore,

uno ad uno. Fino a quando hanno

ucciso il mio ultimo figlio.

Dormiva in giardino, dentro la

sua culla.

KARACHI

Brulicano le strade di Karachi,

come ogni mattina. Un fiume di

gente che cammina, si saluta, sor-

ride, va al lavoro, telefona, com-

pra, vende. Mi fermo un attimo

nel panificio del vicino, compro

una pasta, saluto e alzo la saraci-

nesca del mio negozio.

Riprendo in mano il computer su

cui sto lavorando da ieri, mi man-

cano ancora due tre piccoli pas-

saggi e dovrebbe riprendere a

funzionare. Poi mi interrompe un

tizio che mi recapita una lettera.

Apro.

25.000 rupie e un proiettile. Se

pago tengo il negozio aperto. Non

so che fare. Ritorno al panificio.

Chiedo consiglio. Mi rassegno.

Sono passati tre mesi. I clienti

sono stati pochi. Mia madre sta

male e le spese mediche sono al-

te. Aspetto all’entrata del negozio

qualcosa, qualcuno. Un piccolo

affare, per tirare avanti. Squilla il

telefono. Adesso vogliono 50.000

rupie. Chiedo tempo. Non riesco

a pagare così tanto. Sono stati

mesi difficili, nessuno può farmi

credito. Riaggancio. E aspetto.

Il telefono squilla. Squilla ogni

giorno. Per una intera settimana.

Ogni giorno a ricordarmi che a-

spettano le mie 50.000 rupie. Che

se non pago avrò vita breve. Ogni

squillo di telefono è la campana a

morte di tutto quello che ho. Il

mio negozio e me stesso.

La tensione sale, giorno dopo

giorno. Evito di rispondere. La-

scio il telefono squillare per gior-

ni. Mi chiudo dentro il negozio

aspettando qualcosa, qualcuno,

un piccolo affare per tirare avanti.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

Poi un mattino arrivano, due uo-

mini e una motocicletta. Uno

guida, l’altro ha un Kalashnikov

in mano. Fuoco. Il bancone del

negozio si disintegra sotto i miei

occhi. Lascio la saracinesca chiu-

sa per giorni.

Sono in bicicletta per le strade di

Karachi. Una grossa macchina mi

ferma. Scende un uomo. Con il

retro di una pistola mi spacca la

fronte e poi. Buio. Il mio ultimo

ricordo prima di essere rapito.

BUIO

Non riesco a capire dove sono.

Un odore acre mi circonda,

l’unica cosa che distinguo. Si in-

fila nelle narici, sfiora la lingua e

scivola nauseabondo nello stoma-

co. Cerco di aprire gli occhi, sono

bendato. Cerco di togliere la ben-

da, sono legato. La memoria ri-

trova l’ultimo ricordo, il retro di

una pistola che mi spacca la fron-

te e poi, buio.

Inizio a respirare in modo affan-

noso, il pensiero riprende forma,

chiedo dove sono ma sento solo il

silenzio di chi si muove lenta-

mente ed inizia a pestarmi con

violenza. Svengo.

Buio. Sono nelle loro mani. Non

mi lasceranno finché non cedo,

fino a quando non gli darò quello

che vogliono. Sento dell’alito vi-

cino all’orecchio, si avvicina e mi

sussura lentamente la mia fine,

carne a brandelli dentro ad un

grande sacco nero. Qualcosa di

appuntito mi scarnifica il piede

destro e si accanisce violento sul-

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

la caviglia e lungo il polpaccio.

Urlo. Supplico. Chiedo tempo.

Aspetto. Prego.

Buio. Una lunga scarica elettrica

mi attraversa la fronte. Un dolore

acuto e violento mi perfora il cer-

vello e mi ustiona il cranio. Perdo

conoscenza. Una seconda scarica

mi spacca le tempie. Svengo.

Sento del calore sulla schiena,

sempre più vicino, sempre più

forte. Sento la pelle che lenta-

mente va a fuoco mentre brucio,

fino a svenire.

Apro gli occhi. Eccoli, li vedo in

faccia. Mi stanno filmando.

Qualcuno digita un numero sul

cellulare. Risponde la voce di mia

madre. Chiedono 50 milioni di

rupie mentre io biascico dolore e

mia madre piange e urla e suppli-

ca e chiede tempo e prega e grida

il mio nome tra i rantoli di chi

non può fare niente tranne impaz-

zire.

Ridono, mentre mi marchiano a

fuoco vivo e filmano ogni insulto,

ogni sputo, ogni colpo.

Bevo. Pochi sorsi d’acqua dopo

due notti e due giorni legato ad

una sedia. Un’aria mefitica mi

circonda. Sporco, urina, sudore,

carne bruciata, sangue, mosche.

Ho finito tutti i pensieri. Non ho

più parole. Resto immerso nel

mio corpo esangue. Per una set-

timana.

ESTQuando la violenza è di casa, fi-

nisce per confondersi con

l’arredo, incorniciando pensieri,

gesti e parole dentro un confine

che sembra invalicabile. E anche

se decidi di andartene, silenziosa

ti insegue, senza che nemmeno tu

te ne accorga. Sono cresciuta con

un padre violento, che sfogava

tutta la sua rabbia con chi aveva

voluto e generato. Ho visto mia

madre tacere tutta la vita e invec-

chiare sotto il peso della stan-

chezza e della rassegnazione. Ho

imparato che la vita era silenzio e

sacrificio e che l’accettazione era

più facile della ribellione.

Solo nei sogni mi sentivo libera.

Libera di sognare un uomo since-

ro, con cui poter parlare, avere

dei figli, crescere e invecchiare in

una casa tranquilla.

Quando mia zia mi ha detto che

un ragazzo mi aveva vista e si era

interessato a me, mi è sembrato

che la vita si fosse finalmente ac-

corta che esistevo anche io. Ho

accettato di incontrarlo un pome-

riggio, davanti al cancello di casa.

Qualche parola, uno sguardo, la

voce rassicurante di mia zia e i

racconti di chi conosceva la sua

famiglia. Sembrava un ragazzo

tranquillo e questo mi bastava.

Dopo tre giorni da quello scam-

bio di sguardi, suo padre è venuto

a chiedermi in moglie e pochi

mesi dopo, vestita di bianco, mi

sono sposata, quasi senza cono-

scerlo.

Ero felice. Felice di lasciare casa

mia e quel padre che si era oppo-

sto con tutta la sua furia anche al

mio matrimonio. Ero una sua

proprietà, tradivo la sua fiducia,

ammutinavo, li abbandonavo

senza rispetto. A me sembrava

solo di inseguire un po’ di felici-

tà.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

Ma la felicità è rimasta fuori an-

che dalle mura della mia nuova

casa. L’uomo che avevo sposato

viveva rinchiuso tra gli alcolici

del suo negozio mentre io gratta-

vo la terra dei campi dal mattino

fino alla sera. Tornavo a casa e

trovavo un uomo inesistente e

sempre ubriaco, che beveva più

di quello che vendeva e che non

aveva senso del limite e della mi-

sura. Lo capivo da come infilava

la chiave nella porta, da come

camminava lungo il corridoio, da

come si avvicinava alla camera.

Ero finita in una casa piena di su-

perbia, indifferenza e debiti, con

dei suoceri che avevano nascosto

a tutti la verità su loro figlio e che

mi avevano scelta solo perché

remissiva e capace di sopportare.

L’unica arte che avevo imparato

alla perfezione.

Partire con lui per andare in Italia

mi era sembrata l’unica via per-

corribile per poter ricominciare,

lontana dalle montagne che mi

avevano imprigionata, che ave-

vano richiuso la mia anima e la

mia mente in una accettazione

passiva. Mi sentivo come un mor-

to che aveva l’occasione di ritor-

nare a vivere, ricominciare a rico-

struire, liberarsi, emanciparsi e

trovare un po’ di felicità. Vedevo

le donne che camminavano da so-

le, la gente che usciva di notte, le

ragazze che indossavano le mani-

che corte, tutto mi sembrava pos-

sibile. Respiravo un grande senso

di libertà. Ma la libertà esisteva

solo fuori dalle mie finestre, esi-

steva solo per gli altri, a me ri-

manevano solo briciole di tran-

quillità durante le ore di sonno.

Mio marito ha ripreso veloce-

mente a bere, a giocare d’azzardo

e dilapidare i pochi soldi che riu-

scivo a mettere assieme

Di giorno ero la badante di due

anziani, che lavavo, vestivo, ac-

cudivo, sfamavo, curavo e ascol-

tavo; la sera lavoravo in un risto-

rante tra gli amici che ridevano,

le famiglie che chiacchieravano,

le coppie che si conoscevano.

Lavoravo instancabilmente dalle

8 del mattino alle 2 di notte, sen-

za pause, senza sosta. Le ore del

giorno si erano così dilatate che

mi sentivo dentro una giostra da

cui non riuscivo più a scendere.

Lavoravo senza un contratto, sen-

za un’assicurazione, senza una

busta paga, senza un conto in

banca e senza un documento. Ar-

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

ricchivo tutti, chi mi assumeva e

chi mi sfruttava, ma non vedevo

un centesimo di tutto quello che

guadagnavo. Non pagavano me,

ma chi decideva per me dove,

come e quando. Mi facevano la-

vorare, parlavano con me, mi ve-

devano ma di fatto ero inesisten-

te, una macchina da lavoro senza

possibilità di risposta. Se stavo

male, se avevo bisogno di andare

in farmacia, di essere vista da un

dottore, non potevo permetterme-

lo perché io, ufficialmente, non

esistevo. Mi leccavo ogni ferita,

del corpo e dell’anima, e andavo

avanti. Ero una schiava, con pa-

droni diversi, venduta a mio ma-

rito, venduta sul lavoro, venduta

per sopportare, accudire e servire.

E quando provavo a sussurrare la

mia storia, a chiedere aiuto sotto-

voce, quando cercavo una possi-

bile via di fuga, incontravo solo

una sincera commozione, qualche

attimo di compassione e sguardi

dispiaciuti, ma nessuno disposto a

rendermi visibile. Restavo forza

lavoro sotto traccia.

Mi sentivo trasparente, consuma-

ta, vuota. Mi sentivo rifiutata,

umiliata e così stanca da non es-

sere neanche più capace di sogna-

re. Sarei rimasta invisibile a vita

se una sera, rientrando a casa,

non mi avessero fermata i carabi-

nieri. Per loro esistevo, per il

semplice fatto che non avevo un

documento da esibire.

In pochi giorni ho perso ogni la-

voro. Ho chiesto, supplicato di

essere regolarmente assunta, di

avere un documento, di darmi un

nome e un cognome scritto e non

solo pronunciato. Improvvisa-

mente non ero più utile a nessu-

no. Dopo anni di lavoro.

Sono rimasta chiusa in casa per

un mese. Nascosta da tutti. Sola,

inutile, insistente, anche a me

stessa. Fino a quando, una notte,

mi sono ritrovata in mezzo ad una

strada, buttata fuori casa come un

cane fastidioso.

Da allora, sono libera. Libera di

continuare a cercare un po’ di fe-

licità.

2013 Tra il migliore dei mondi possibi-

li, c’era il mio. Ed era perfetto.

Avevo un marito, due figli, una

casa, un lavoro e uno stipendio.

Avevo una vita. E mai avrei volu-

to lasciarla.

Dirigevo una scuola di 600 bam-

bine, con la responsabilità di chi

educa e il prestigio di chi insegna.

Credevo nell’istruzione come mio

marito credeva nella politica, e

assieme custodivamo l’idea di un

Pakistan migliore.

Mai avremmo pensato di perdere

l’illusione, mai avremmo pensato

che la politica potesse tradirci co-

sì vigliaccamente.

Il giorno dopo le ultime elezioni,

i capi di partito, sconfitti, saluta-

vano il popolo dalle poltrone di

un aereo, pronti a dimenticarsi di

chi per anni li aveva sostenuti.

Chi li aveva sostenuti era rimasto

a prendersi in faccia tutti gli in-

sulti e la violenza dei nuovi vinci-

tori. A chi era stato per anni al

governo restavano briciole di glo-

ria.

Non c’era più spazio per nessuno,

nemmeno per mio marito e per

tutti gli anni che aveva dedicato

al partito. I compagni rinnegava-

no il passato, gli amici dimenti-

cavano i favori, l’opposizione lo

perseguitava con tutta la sua sete

di vendetta. Colpe ed accuse, o-

dio e violenza. Pochi mesi dopo

la sconfitta, un fuoco di fila lo at-

traversava mentre era in macchi-

na. E’ sopravvissuto solo per mi-

racolo.

Strana la mente di una madre.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

Davanti al letto di ospedale, il

primo pensiero è stato per i miei

figli. In una frazione di secondo

non esisteva più niente. Non esi-

steva la casa, non esisteva il lavo-

ro, non esistevano gli ideali, non

esisteva lui e neanche più io. Esi-

stevano solo loro. E il loro respi-

ro.

2016

Ho venduto tutto quello che pote-

vo e ho lasciato mio marito scap-

pare verso ovest.

Per mesi non ho avuto sue noti-

zie. Sapevo solo che era partito e

che un giorno lo avremmo rag-

giunto. Cercavo nell’attesa di re-

sistere alla vita, lontano dalle

paure. Una nuova città, un nuovo

lavoro, una nuova casa, i miei fi-

gli. Chiudevo l’ansia a doppia

mandata, ma prepotente tornava a

suggerirmi scenari di morte. Non

mi fidavo di nessuno ed avevo

paura di tutto. La politica corrotta

e malata era diventata la mia ma-

lattia. La mia ossessione.

Accompagnavo i miei figli al

cancello della scuola e non vole-

vo che nessuno andasse a pren-

derli. Poi, un giorno, ci hanno

trovati. Dopo due anni. Sapevano

dov’ero, dov’era la mia casa,

dov’erano i miei figli e dov’era la

loro scuola. Erano entrati e ave-

vano chiesto di loro. Mi avevano

aspettato fuori dal cancello per ri-

cordarmi la fine che avrebbero

fatto e che non avrei potuto ri-

sparmiargli. Mi avevano imbrat-

tata di insulti, violata nell’animo,

trafitta nella dignità, paralizzata

dall’orrore. Rientravo verso casa

inseguita dall’angoscia.

Da quella casa i miei figli non

sono più usciti. Per mesi li ho te-

nuti prigionieri, segregati, rin-

chiusi dove nessuno li potesse

avvicinare, dove nessuno li potes-

se trovare. Mi addormentavo sen-

tendoli respirare e mi svegliavo

cercando il loro respiro. Viveva-

mo in un tempo immobile e so-

speso, dove ogni giorno era ugua-

le all’altro. Dove vivere era sem-

plicemente esistere e resistere.

2017

Ho aspettato fino all’ultimo. Ho

cercato disperatamente una via di

uscita, per farli crescere dove li

avevo partoriti. Non l’ho trovata.

Ho sacrificato tutto quello che

avevo costruito. Gli anni di stu-

dio, i sogni di una vita, un lavoro.

Ho abbandonato tutto e sono par-

tita, per ritornare ad essere noi:

un marito, una moglie, due figli.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

KASHMIR

Amo il mio paese. E amo la mia

gente. Un mondo silenzioso e

calmo immerso nelle montagne,

le acque fredde dei laghi e il pro-

fumo caldo del tè al cardamomo.

Amo quel paese che nessuno ha

riconosciuto ma che tutti hanno

voluto, sfruttato e divorato: il

frutto di un peccato originale co-

stato tre guerre e più di un milioni

di morti.

Amo quel paese che non c’è più,

un pezzo di carne fatto a brandelli

da chi ha avuto la forza di uccide-

re con più ferocia.

Amo la mia famiglia che hanno

distrutto in un solo pomeriggio:

mio padre, mio zio, mio fratello, i

miei cugini, esplosi tra gli alberi

da frutto sotto una bomba atterra-

ta nel giardino di casa.

Avevo quasi 30 anni e stavo co-

struendo il mio futuro. Avevo il

mio ufficio, la mia macchina, la

mia casa. Non mi mancava niente

e non avevo nessun motivo per

andarmene lontano a mendicare

ospitalità.

Avevo tutto, ma non avevo più

una patria. Non mi riconoscevo in

un governo che occupava la no-

stra terra, sfruttava le nostre ri-

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

sorse, rubava la nostra acqua co-

stringendoci a pagare fino

all’ultima goccia. Non mi ricono-

scevo in un governo che calpe-

stava i nostri diritti, la nostra sto-

ria, la nostra eredità. Non mi ri-

conoscevo in un governo che ci

lasciava senza sanità, senza istru-

zione e non mi riconoscevo

quando guardavo una bandiera

che non era la mia, sotto cui tace-

re e obbedire. Non mi riconosce-

vo per il semplice fatto che non

ero libero.

La mia militanza politica è nata

per bisogno. Bisogno di libertà, di

identità. Come si ha bisogno

dell’aria e dell’acqua io avevo bi-

sogno di dare voce alla mia gente.

Anni di proteste, fiumi di parole,

riunioni, riflessioni, reclami e ri-

chieste. Organizzavamo seminari,

congressi, convegni ma ad ogni

azione seguiva solo repressione.

E la smania di reprimere ha colpi-

to anche me, quando, mentre par-

lavo in un comizio, mi hanno pre-

levato davanti a tutti. Prelevato,

infilato in una macchina, incap-

pucciato e richiuso non so dove

in una stanza di pochi metri. Sono

rimasto dentro per cinque giorni,

nudo come un verme, un bicchie-

re di latte e un pezzo di pane al

giorno. La sola voce che sentivo

era di chi mi obbligava a ripetere

continuamente ”Il Kashmir non

esiste” e mi ordinava di racco-

gliere a mani nude gli escrementi

che avevo lasciato in un angolo.

Era inverno, faceva freddo e dopo

aver giurato che non avrei mai

più rivendicato un Kashmir libero

sono stato rilasciato.

Ma non ho smesso di militare.

Non ho smesso di manifestare,

parlare, rivendicare i miei diritti,

e non ho smesso di essere prele-

vato e sbattuto in una qualsiasi

cella per essere pestato e insultato

dalla polizia e rilasciato dopo

ventiquattro ore.

Non ho smesso mai. Perché quel-

lo che facevo era per me l’unica

cosa importante. Non ho smesso

di chiedere la libertà del Kashmir

neanche quando sono stato accu-

sato di cospirare contro la pace,

un’accusa che mi è costata sei

mesi di prigione.

Quando sono uscito e mi hanno

proposto di manifestare e parlare

davanti alla casa del Primo Mini-

stro ho solo pensato che era

un’occasione come un’altra per

urlare libertà. Eravamo in tanti,

uniti in un unico grido, un’unica

richiesta. Manifestavamo

all’unisono sotto la voce “Free

Kashmir” e mentre parlavo da-

vanti a tutti siamo stati travolti da

un’onda di violenza e repressione

feroce. Ci hanno aggrediti, pic-

chiati, insultati, hanno distrutto i

nostri simboli e le nostre bandie-

re. Non ci hanno lasciato neanche

più la voce per urlare.

Sulla mia testa è comparsa la

prima denuncia ufficiale. Insurre-

zionalista, cospiratore contro il

governo e contro l’esercito. Prima

che mi mettessero in prigione per

sempre, sono scappato per sem-

pre.

Il mio unico peccato è stato solo

quello di parlare.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

MASKHEL

Più mi avvicino, più mi chiedo co-

sa ci faccia così tanta gente am-

massata tra le rocce in una fredda

sera di novembre. Ci sono almeno

cinquecento persone sedute attor-

no a fuochi di fortuna che parlano,

dormono, mangiano. Per un attimo

penso ad un festival tradizionale

con gente che si ritrova da tutto il

Pakistan. Poi, quando mi avvicino

e scambio due parole resto ammu-

tolito: cinquecento persone aspet-

tano di attraversare la frontiera

con l’Iran. Uomini, donne, bambi-

ni, anziani, intere famiglie e gene-

razioni che aspettano il momento

del passaggio, dell’apertura, della

via verso i Balcani. Quando rea-

lizzo che siamo tutti in marcia

verso l’Europa inizio a guardarli,

uno a uno. Penso a chi di loro ce

la farà, chi arriverà, chi tornerà in-

dietro, chi morirà per strada, di-

menticato e sepolto lontano da tut-

ti. Un fiume di gente che si in-

cammina verso ovest senza sapere

se e quando arriverà. Una scena

surreale. E io, sono uno di loro.

Il giorno dopo, verso sera, inizia-

mo a camminare. Le guardie di

frontiera ci fermano, riscuotono il

prezzo pattuito e ci spingono oltre

il confine giù per una lunga scar-

pata. Ci gridano di fare veloci, di

muoverci, di andare avanti. Chi

rallenta viene spinto a forza, pic-

chiato con calci, bastoni. Sem-

briamo una transumanza di bestie

che corrono impazzite senza vol-

tarsi indietro con il solo pensiero

di arrivare senza cadere.

Poi a valle ci dividono in due

gruppi e ricominciamo a cammi-

nare. Dieci ore di marcia senza

acqua, senza cibo, senza sapere

dove e quando andare e arrivare.

Ci fermiamo solo quando ci indi-

cano una casa: un pezzo di pane,

dello yoghurt e qualche ore di ri-

poso. Qualcuno inizia già a cede-

re. Hanno paura. C’è chi sente di

non farcela, chi già pensa di torna-

re a casa. Avanti o indietro la tra-

gedia sembra la stessa.

Poi ci fanno ripartire. Un traffi-

cante mi nasconde dentro un'auto

assieme ad altre sedici persone.

Due davanti, quattro dietro, quat-

tro accucciati tra i sedili, quattro

nel bagagliaio. Ammassati dentro

un'auto viaggiamo per ore lungo le

strade nascoste dell'Iran.

Finiamo in una casa in costruzione

per due giorni e una notte. Nessu-

no di noi ha più acqua né cibo.

Qualsiasi cosa ci viene venduta a

prezzi folli, dieci volte superiore

al prezzo di mercato. Dormiamo

nel cemento gelido, dove capita,

senza un bagno, senza coperte e

con il divieto assoluto di accende-

re fuochi per non farci scoprire.

Non mangio niente e aspetto la

notte per rimettermi in marcia.

Ci stipano tutti dentro ad un ca-

mion, prima una settantina poi al-

tri quaranta. Siamo ammassati

come capre, tutti in piedi, uno

contro l’altro, ondeggiamo ad ogni

curva con l’aria che si fa irrespira-

bile fino quasi a soffocare.

Scendiamo di nuovo. Ci avvisano

di proseguire a piedi, da soli, nel

silenzio più assoluto. Non un so-

spiro, uno starnuto, un colpo di

tosse. Camminiamo per ore cir-

condati dal silenzio e dalla notte

scura, nel terrore di essere scoper-

ti, rispediti indietro o sequestrati

per chiedere poi un riscatto alle

famiglie. Camminiamo svelti e si-

lenziosi. Ognuno segue l'altro.

Non ci conosciamo, ma andiamo

tutti nella stessa direzione. Verso

il deserto.

Attraversiamo la sabbia dentro

una lunga fila di pick-up, cento di-

sperati che ormai si lasciano tra-

sportare senza più fare domande.

Ma ancora una volta ci fanno

scendere e ci lasciano in mezzo al

deserto con la promessa di ritorna-

re a cercarci durante la notte.

Venti giorni. Venti giorni per at-

traversare il paese passando di

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

mano in mano, di camion in pick

up, di casa in casa, camminando

nella notte per ore quando è trop-

po

rischioso essere avvistati e poter

arrivare al confine con la Turchia

dove la sabbia si trasforma in

montagne alte e rocciose.

Iniziamo ad attraversare il confine

alle tre del mattino. Siamo circa

duecento persone, portate dai traf-

ficanti ai piedi del monte Ararat e

iniziamo a camminare, per ore. La

montagna si fa sempre più alta e

rocciosa, i sentieri più difficili, la

terra si ghiaccia sotto i piedi e tut-

to sembra irraggiungibile e insor-

montabile. Mentre camminiamo

vediamo tre cadaveri avvolti nelle

coperte. La montagna li ha fermati

la notte prima. Gli passiamo ac-

canto mentre proseguiamo sfiniti

la nostra marcia disumana.

ADASEVCI CAMP

Non sopporto più il color verde. E

mi angosciano i boschi. Sentirsi

imprigionato in tutto quel foglia-

me, tra una distesa infinita di tron-

chi, rami, l’odore del muschio e

quella enorme gabbia che sembra

non finire mai.

Ho tentato per sette volte di attra-

versare i boschi della Serbia e

raggiungere il confine con la Cro-

azia e per sette volte mi hanno

trovato e rispedito indietro. Cono-

scevo il sottobosco a memoria,

ogni sentiero, ogni angolo, le vie

più nascoste e sicure ma era come

se il bosco mi tradisse sempre.

Avevo sentito che due ragazzi

prima di me erano riusciti a rag-

giungere l’Austria nascosti dentro

ad un camion, uno di quei camion

parcheggiati vicino al confine,

dentro ad una grande stazione di

benzina, alla fine del bosco. Non

avevo più soldi da dare ai traffi-

canti e non avevo intenzione di

fermarmi alle porte dell’Europa

dopo aver già attraversato mezza

Asia.

The Game, il gioco: chiamavamo

così ogni tentativo di oltrepassare

un confine, una roulette russa per

la libertà a duecento battiti al mi-

nuto e un’ansia adrenalinica più

forte della paura. Il gioco mi ave-

va fatto attraversare il confine

dell’Afghanistan, del Pakistan,

dell’Iran, della Turchia, della Bul-

garia. Non mi sarei fermato da-

vanti a quello Serbo.

Quel giorno di luglio, con uno

zainetto, un giaccone per la notte,

due bottiglie d’acqua ed un nuovo

percorso in testa, sono riuscito ad

uscire dal bosco e a raggiungere il

parcheggio. Tutti gli autisti dor-

mivano. La polizia non mi aveva

visto e la mia via di fuga era lì, a

portata di mano, dovevo solo tro-

vare il modo di salirci sopra e la-

sciarmi portare. Cerco di salire sul

tetto di un primo camion ma non

riesco a infilarmi sotto lo spoiler,

non riesco a nascondermi, non ci

entro. Passo ad un altro, salgo so-

pra la cabina ma l’autista di colpo

si sveglia, esce e mi scopre. Scen-

do velocissimo sapendo che a-

vrebbe chiamato la polizia e nel

giro di pochi minuti mi avrebbero

preso di nuovo. Ma non succede.

Non una voce, non una luce. Resto

nascosto per un po’ e poi ricomin-

cio a cercare. Trovo un camion di

targa belga. Penso che mi porterà

lontano e penso solo a come po-

terci salire. Mi infilo sotto il ca-

mion. Provo a sdraiarmi sopra la

ruota di scorta ma è troppo piccola

e non riesco a rannicchiarmici

dentro. Poi vedo l’asse. Un asse

lungo e largo. Mi sdraio sopra,

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

cerco con le mani un appiglio,

qualcosa a cui tenermi aggrappato,

mi infilo giaccone e cappuccio a-

spettando che il camionista si de-

cida a partire. Non avevo pensato

alle enormi sospensioni che tene-

vano assieme ruote, asse e rimor-

chio.

Dopo essere partito il camion ini-

zia a fare grandi sobbalzi e io ini-

zio a sbattere la testa e la schiena

tra l’asse e tutto quello che c’è so-

pra. Le mani iniziano subito a

farmi male, le braccia sono troppo

rigide e cerco di muovere almeno

le dita per allentare un po’ la pre-

sa. Non riesco a tenere i due piedi

sull’asse e lascio penzolare prima

uno poi l’altro cercando di stare in

equilibrio. Dopo una ventina di

minuti inizio a capire che non a-

vrei resistito a lungo. Sento le ma-

ni che lasciano la presa, la schiena

e la testa che sbattono in continua-

zione. Ho paura di svenire e im-

magino il mio corpo scivolare

sull’autostrada e farsi maciullare

dai camion che ci seguono. Inizio

a piangere. Piango e la mi testa i-

nizia a pregare e a ripetere sempre

la stessa frase “Dio, non c'è altro

Dio che Lui, il Vivente,

l’Assoluto”. Piango sempre più

forte, a singhiozzi violenti, piango

e urlo sperando che qualcuno da

fuori mi senta e fermi l’autista e

mi lascino scendere e mi conse-

gnino a chi vogliono e facciano di

me quello che vogliono ma non

voglio morire. Non adesso, non

così.

Il camion si ferma. Sto per scende-

re ma capisco che sono ad un po-

sto di blocco. Improvvisamente la

paura di essere rispedito indietro

diventa più forte di quella di esse-

re travolto. Trattengo il respiro.

Non fiato. Sento che controllano

sopra il camion, dentro al rimor-

chio ma nessuno guarda sotto.

Non penso. Resisto. E nel giro di

pochi minuti il camion riparte.

Riprendo la mia corsa, la mia fati-

ca e la mia paura. Cerco di restare

saldo, con le mani, i piedi, la men-

te. Resto attaccato al fondo del

camion con tutto me stesso, con

tutta la mia forza, con tutta la mia

faccia nera, sporca, sudata e ba-

gnata di lacrime ma continuo la

mia roulette per altre sette ore, fi-

no ad un nuovo confine. Il gioco

più angosciante di tutta la mia vi-

ta.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

LE ODIERNE ENEIDI

Camminava lungo le strade im-

polverate di una città scono-

sciuta che stava tuttavia impa-

rando a esplorare nelle sue lun-

ghe e vuote giornate colmate

solo dallo scandire dei suoi pas-

si, dal suono che emettevano a

contatto con l'asfalto; persino il

cielo sembrava differente ri-

spetto quello che avvolgeva la

sua città natale.

Tuttavia quel giorno i suoi passi

l'avrebbero portato a una desti-

nazione: parimenti a ogni mer-

coledì stava dirigendosi presso

la scuola cui andava al fine

d'imparare l'italiano mediante

un'associazione.

Ogni mercoledì i suoi passi non

dovevano attendere sere fosco-

liane onde ottenere una “casa”

in cui tornare: lo stabile presso

cui viveva con molti altri sco-

nosciuti.

Il suo nome, firma della sua

storia, era Amir che costituiva

null'altro che la perpetuazione

del ricordo di chi fosse.

Usualmente Amir sedeva a par-

lare o con una ragazza dai ca-

pelli biondi similmente a spighe

di grano nella loro piena fioritu-

ra o, se riusciva, con una ragaz-

za il cui nome la descriveva e-

saustivamente: Fosca.

Dialogava solo con costoro poi-

ché “negli occhi delle altre c'è

solo falsità”.

Con Fosca si sentiva libero di

esplicitare i suoi pensieri fosse

stato anche solo per sentire la

sua voce o poter vedere che v'e-

ra qualcun altro in grado di u-

dirlo; troppe le grida rimaste ta-

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

ciute.

Il compito che era stato loro as-

segnato era quello d'inventare

una storia: i volontari sarebbero

stati il braccio e gli studenti la

mente, tuttavia, sebbene Fosca

avanzasse esempi di racconti

fantastici, Amir sembrava non

conoscere la parola “immagina-

zione".

Pertanto Fosca decise di rac-

contare la storia di Amir; in

quell'occasione ella venne a sa-

pere delle sue esperienze, del

viaggio iniziato e non ancora

concluso perché non aveva ot-

tenuto ciò per cui era partito:

una casa in cui la pace regnasse

sovrana, un lavoro e una fami-

glia.

Amir condivise inoltre i tradi-

menti, vissuti lungo il viaggio,

delle persone considerate ami-

che e gli sguardi ostili e sospet-

tosi dei residenti dei vari paesi e

come tutto ciò gl'insegnò a non

fidarsi di nessuno.

Ciononostante confessò anche

che trovò, riecheggiando parole

ariostesche, un “sicuro, secreto

e fidel porto, dove, fuor di gran

pelago, due stelle, le più chiare

del cielo e le più belle, dopo

una lunga e cieca via lo scova-

rono".

Lei e la ragazza dai capelli di

messi erano state quelle stelle.

Inoltre disse che vedeva, in

quell'aula, le sue vesti

d’immigrato ornarsi di colori

simili a quelli di una qualunque

altra persona.

Fosca decise di trascrivere quel-

la storia in modo tale da render-

la vicina alla nostra cultura,

poiché spesso le persone temo-

no la distanza, l'ignoto, in tal

modo avrebbe avvicinato gli

occhi del lettore a quelli pro-

fondi e vissuti di Amir.

Pertanto Fosca scelse la storia

secondo lei più assomigliava ai

racconti sentiti e narrò al suo

studente un riassunto dell'Enei-

de.

“Si ferma per sempre in Italia,

oppure per un periodo questo

Enea?”

Fosca sorrise.

“Per sempre.”

Si guardarono negli occhi e la

voce di Amir guidò la mano di

Fosca disegnando nel quaderno

di lei, lettere simili a frastaglia-

te montagne.

Amir avvisò poco prima la fa-

miglia della sua partenza.

Amir avrebbe lasciato l'Afgha-

nistan, patria afflitta da diciotto

anni da una guerra iniziata dagli

americani al fine di vendicarsi

di Al Qaeda per l'attentato alle

torri gemelle.

Cercava pace. Cercava una ca-

sa. Cercava una famiglia.

Serbando nella memoria tali

pensieri scrutava, immerso nel-

la marea di persone che atten-

devano, come lui, la speranza

giungere all'orizzonte, il mare.

Lo zaino gravava sulle spalle e

una valigia in mano.

Sarebbe stato sufficiente che da

quello zaino si fossero bipartite

delle gambe tarde, segnate dal

tempo e dalle fatiche, e che il

manico della valigia avesse ad-

ditato la sua mano, dita di una

pargoletta mano, per riconosce-

re un passato in fiamme e un

destino da adempiere.

Trascorsi dei giorni, videro una

barca sorgere a oriente.

Una città che non sia soffocata

dalla traiettoria dei proiettili;

una città in cui le case non fos-

sero il ricordo di un insieme di

macerie; fu il pensiero per resi-

stere a quel viaggio.

“Quando si acquietarono le alte

acque lasciarono il porto e na-

vigarono a vele spiegate;

un'aura spirava nella notte e la

Luna non rinnegava la candida

luce al viaggio e il mare splen-

deva sotto il suo tremolo lume.”

[...] E già il mare rosseggiava

per i raggi e nell'alto dell'etere

l'aurora lutea sfolgorava nella

rosea biga; quando i venti si

posarono e ogni soffio repenti-

namente si stabilizzò sulla

marmorea superficie i" motori

“lottavano. E” Amir “intrave-

deva dalle acque un grande bo-

sco. In mezzo a quello, fluendo

in modo ameno” l'Oreto “con

rapidi vortici, giallo per la mol-

la sabbia, prorompeva nel ma-

re. Vari volatili assuefatti alle

rive e all'alveo del fiume col

canto accarezzavano l'etere e

volavano nel bosco.” [Eneide

VII 6-9; 24-34]

Sbarcò, tuttavia non si fermò a

lungo in Sicilia; viaggiò in di-

verse città italiane in una delle

quali accadde una vicenda che

gli rimase scolpito nella memo-

ria.

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

Viaggiando in treno scorse una

scena: un controllore s'accostò a

un'anziana signora e le chiese

con voce gentile:

“Biglietto, per favore.”

Ella glielo porse guardandolo a

mala pena, venne ringraziata

dal controllore il quale le rese il

biglietto.

In seguito raggiunse Amir al

quale disse:

“Biglietto.” Questi glielo porse:

“Prego.”

Il controllore glielo restituì e se

ne andò lasciandolo con un gra-

zie pietrificato tra le labbra.

Giunse a Pordenone ove incon-

trò una ragazza.

Le poche volte in cui si trova-

vano, poiché lei era molto im-

pegnata, era perfetta: la luce

che emanava dagli occhi, il suo

profumo, il suono armonioso

della sua voce, il modo in cui

gli prestava ascolto.

Fu così che un venerdì pome-

riggio alle 14:37 arrivò un mes-

saggio a quella ragazza nel qua-

le poteva leggere l'amore di

Amir.

Scrisse una risposta concisa e

non si parlarono più.

Un mercoledì camminando per

la piazza popolata dal mercato,

la rivide e “sentì nel petto

un'eccitazione come baccante.

Alla fine spontaneamente l'af-

frontò con queste parole:

“Di dissimulare sperasti, o per-

fida, di poter, nefanda e tacita

abbandonarmi? O forse me

fuggi? Io per queste lacrime e

per la destra te, quando a me

già misero nulla lasciai, per il

connubio nostro, per gli imenei

iniziati, se per te qualche bene

meritai o di me qualcosa ti fu

dolce, abbi pietà della casa che

sta per crollare e abbandona, ti

prego, se c’è qualche luogo per

le preghiere questa fuga.” Dis-

se. Ella premeva nel core la

preoccupazione. Finalmente ri-

spose poche parole:

“Io mai negherò che tu hai me-

riti, né mi pentirò di ricordarti

mentre io stessa sarò memore

di me, mentre lo spirito reggerà

i miei arti. Per la situazione

parlerò poco. Non speravo di

nascondermi furtivamente, non

crederlo, né mai protesi le fiac-

cole coniugali o giunsi a tali

patti.”

[Eneide IV 305-339]

Si arrestarono. Fosca vide i suoi

occhi letti di fiume divenire e

pensò:

“Troverà la sua Lavinia.”

Iniziò poco dopo il corso e la

conoscenza delle sue due stelle.

Terminò la storia con una frase

che Amir tempo addietro le a-

veva dedicato.

“Scusa se parlo un po' seria-

mente, ma sei una dei miei mi-

gliori amici e ti vedo come la

mia famiglia.”

Fosca alzò il capo e vide nei di

Amir occhi il passato del pro-

prio popolo, nello stesso modo

in cui lui vedeva nelle di lei iri-

di il suo futuro.

In quella stanza due persone

che mai s'erano cercate, si ritro-

varono.

Tatiana Marta

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

Homo sum

Essere umani nel mondo antico di Maurizio Bettini, ed. Einaudi 2019

Lo so, qualcuno si chiederà se

abbia sbagliato rivista, se pub-

blicare una recensione allo

splendido libretto di Maurizio

Bettini su una rivista che si oc-

cupa di profughi sia un errore

grossolano o una deformazione

professionale. Eppure questo li-

bro che parla di Enea, Cicerone,

byzugoi e simile roba vecchia,

in realtà parla di oggi, delle tra-

gedie che avvengono sotto i no-

stri occhi, e ne parla con quella

lucidità e a tratti con quella vena

oracolare che deriva ed è giusti-

ficata da un fondamento di stu-

dio assoluto, da una convivenza

con i classici durata una vita in-

tera.

Il libro parte da una di quelle

domande impertinenti, inoppor-

tune e indecenti che finiscono

per aprire prospettive mai son-

date: “Il senso di umanità dei

Greci e dei Romani era migliore

del nostro? Quale posto occu-

perebbe nel mondo antico la di-

chiarazione universale del

1948? Intanto nel canale di Si-

cilia non si soccorrono i nau-

fraghi. Nel medesimo luogo ove

Enea, diretto in Italia fu soccor-

so da Didone”. Come si vede, in

otto righe che riempiono la co-

pertina si buttano sul tappeto le

carte, tutte. Enea, profugo, in-

nanzitutto. Questo era uno dei

motivi quasi ovvi che gli studio-

si di lettere classiche fin

dall’inizio dell’emergenza pro-

fughi hanno usato per invitare

all’accoglienza. Ma poi è arriva-

ta la filologica e maliziosa os-

servazione di Casa Pound et si-

milia che osservavano come in

effetti no, Enea non era profugo,

stava semplicemente tornando a

casa visto che un suo antenato,

Dardano, il fondatore di Troia,

secondo la leggenda proprio dal

Lazio era partito (Aen. IX, 10).

E dunque ripartiamo da capo,

usciamo dalle secche di una fi-

lologia d’accatto a senso unico e

nuotiamo seriamente, allargan-

do il raggio.

Il saggio, come si diceva, parte

proprio dal naufragio di Enea

ma Bettini sa usare la filologia

adattandola al presente: “Gli or-

rori del Mediterraneo hanno

tolto all’Eneide ogni innocenza

letteraria” dice a pag. 4… “e

conclude che “ormai lontano è

il tempo in cui l’Eneide era fatta

di figure poetiche; ma so che se

mi ostinassi a perpetuare quel

tempo, nonostante ciò che ac-

cade intorno a noi, mi sentirei

colpevole.” (5). Con il che la fi-

lologia si fa etica, azione civile,

senza ritorno.

Enea, come è noto, arrivato a

Cartagine vede su un frontone le

vicende dolorose della guerra di

Troia, in tempo quasi reale, co-

me oggi dagli schermi delle no-

stre televisioni: oggi cosa ve-

drebbe? si chiede Bettini. “Una

bambola strappata, una scarpa

spaiata, un cassetto bruciato o

insanguinato. Anche queste sunt

lacrimae rerum, e la realtà dei

fatti chiarisce senz’ombra di

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

dubbio il senso di questa espres-

sione tanto discussa.

Bettini non allude, con coraggio

esplicita il suo pensiero:

l’Eneide non è un classico per-

ché letto e amato, ma perché ha

contribuito a nutrire il pensiero

di chi ha fatto l’Europa,

l’illuminismo, la dichiarazione

dei diritti del ’48. Ma “come re-

agirebbe oggi Ilioneo vedendo

l’atteggiamento che non solo un

buon numero di Italiani, ma

purtroppo anche chi li governa,

sta sviluppando nei confronti

dei profughi e dei naufraghi che

tentano di raggiunger le nostre

coste?” (23). Eppure le parole di

Virgilio, di Didone, di Enea so-

no tutte nell’art. 10 della Costi-

tuzione: “Lo straniero al quale

sia impedito nel suo paese

l’effettivo esercizio delle libertà

democratiche garantite dalla

Costituzione italiana, ha diritto

d’asilo nel territorio della Re-

pubblica, secondo le condizioni

stabilite dalla legge”. E qui il

percorso di Bettini si fa più

complesso, lo scavo è triplice,

alle radici del pensiero antico,

misurando gli scarti, le ugua-

glianze o le alternative. Non se-

guiremo tutte le tappe perché il

libro merita una lettura diretta e

attenta. Lo studioso non fa scon-

ti, è chiaro, nemmeno al mondo

classico, perché è bene sgombe-

rare subito il campo da un equi-

voco: i classici non sono perfet-

ti, la loro democrazia esclude le

donne, gli schiavi, i barbari, an-

zi questi non sono nemmeno

“uguali”. Del resto l’unico mo-

do intelligente di ritornare a loro

è aver ben presente che loro non

sono altro che noi, sono i nostri

primi esperimenti. Il fatto è che

avremmo il dovere di andare ol-

tre…

Dopo aver toccato il tema

dell’affinità linguistica (diritti

umani-ius humanum), in tre

densi capitoli Bettini parla dun-

que di schiavi, donne, barbari:

“i diritti dell’uomo non solo a-

vrebbero causato la rovina di

Atene o di Lacedemone, ma

quella dell’intera civiltà antica”

denuncia citando Saint-Juste.

Ma la sezione importante è la

terza, quella che parte

dall’individuazione di uno ius

naturale, un diritto comune a

tutti gli uomini, che viene prima

rispetto alle norme delle diverse

comunità. E qui compare una

figura poco nota, ma illuminan-

te, quella dei Bouzyges. Si tratta

di una famiglia sacerdotale

dell’Atene antica addetti a

compiere un’aratura annuale sa-

cra. In quest’occasione essi sca-

gliavano una maledizione ritua-

le contro tre categorie di azioni

che violavano lo ius naturale:

contro chi nega fuoco o acqua,

chi si rifiuta di mostrare la stra-

da agli erranti, chi lascia inse-

polto un cadavere. Si tratta, va

sottolineato, di doveri precisi,

non di interdizioni o di diritti, e

che gli elementi attorno cui ruo-

tano attengono all’umanità in

generale, quella societas homi-

num che supera ogni collettività

geograficamente determinata. Il

fatto che si tratti di doveri è

fondamentale, perché concentra

il focus su chi viola, fa riflettere

sulla forza della maledizione.

Questo “oggi dovrebbe farci

particolarmente riflettere. Non

si pensa mai infatti alla Erinni

che, invisibile, potrebbe udire i

lamenti che si levano fra i tortu-

rati nei campi di Libia o fra i

naufraghi che annegano di fron-

te a una costa che li respinge.

Siamo laici, non crediamo più

alle punizioni divine… Forse

però la nostra fede

nell’impunità.. potrebbe essere

scossa se solo alle Erinni /Arài

sostituissimo la storia: con i

suoi ritorni, i suoi giudizi, le sue

ripercussioni… Anche la storia

a volte cammina nelle tenebre, e

ascolta “ (65). Questo percorso

aiuta a capire anche dettagli che

abbiamo sotto gli occhi e che,

stupidi, non capiamo: Perché

punire chi non indica la strada,

per esempio?... “Quando si mi-

gra, si fugge, si vaga, orientarsi

è quasi più importante che nu-

trirsi” , e possedere un cellulare

è importante come avere la bus-

sola nel deserto (67). Ma per-

ché, e quando intervengono gli

dei? Quando l’invocazione, la

richiesta non può venir nemme-

no pronunciata, come nel caso

di un cadavere, quando la ri-

chiesta è muta (kophèn, come

dice un enigmatico verso a Ilia-

de 24,54). Di questa richiesta si

rendono garanti gli dei, in que-

sto caso l’offesa (e la punizione)

riguarda loro.

Poi nel terreno della pratica,

dell’amministrazione civile, lo

stesso Cicerone nel De officiis,

la Bibbia di tanta intellighenzia

occidentale, ammonisce che la

n. 14 MAGGIO 2019 AFRICARE

generosità comune deve arre-

starsi quando viola quella che

dobbiamo dedicare ai nostri, an-

teponendo, per dirla con la Nus-

sbaum “la preoccupazione per il

forziere a quella per la giusti-

zia”.

La riflessione di Bettini si dipa-

na con puntualità e acutezza fra

Seneca e Diogene di Enoanda,

fra i complessi significati di

humanitas, philanthropia, fra

Terenzio e i Vangeli, in una let-

tura bella e illuminante di cui

qui è difficile rendere conto in-

teramente.

Ma ci piace concludere con

quella opposizione netta che

viene indagata negli ultimi capi-

toli, quella fra il concetto di au-

toctonia ateniese, e greca in ge-

nerale, e il mito di fondazione

romano. Racconta Plutarco nella

Vita di Romolo che egli scavò

una fossa al centro della nuova

città in cui gettò zolle delle di-

verse terre di provenienza degli

uomini che si erano uniti a lui

(interessante che sia i bouzygoi

che Romolo siano aratori cioè

legati alla terra: ce li aspette-

remmo “sovranisti” ma si vede

che chi ara la terra sa che essa è

così grande e faticosa che c’è

spazio e lavoro per tutti…)..

Fondare una nuova città è creare

la proprio terra, dunque, è un at-

to squisitamente culturale. Si

evidenzia il carattere di apertura

della città stessa: “per i Romani

le origini non potevano che

coincidere con il loro contrario,

ossia il mutamento, il movimen-

to, il sopraggiungere”. In altre

parole “l’identità dei Romani,

se ne ebbero una, è di natura

“eccentrica”, per questo la loro

civiltà pu ancora costituire un

modello valido per un’Europa

che, tutto al contrario, cerca te-

stardamente di trovare se stessa

spezzettandosi in una pluralità

di (presunte) nazioni “sovra-

ne”” (120).

Concludo con un’ultima imma-

gine e con un consiglio ulteriore

di lettura. Il libro è Naufraghi

senza volto, di Cristina Cattane-

o. L’autrice è insegnante di Me-

dicina legale a Milano e si è

occupata di ridare un nome a

centinaia di cadaveri recuperati

dai barconi affondati. “Dare una

sepoltura ai morti”, dunque e in

questo caso un’identità, quel

dovere di cui parlavano i bou-

zygoi ateniesi… Ma ad un certo

punto un dettaglio suggestivo e

commovente: durante le autop-

sie si scoprono certi rigonfia-

menti nelle magliette indossate

dai migranti morti. “Droga?” è

il primo pensiero della dottores-

sa Cattaneo, ma non si tratta di

droga. Si tratta di terra, quella

terra che portano con sè, legata

addosso, per ricordare la propria

terra, ma forse anche per versar-

la in questa nuova fondazione

che il nostro disgraziato mondo

civile sembra richiedere con ur-

genza.

Paolo Venti

Nota di redazione: ci perdonerete anche questa volta errori e impaginazioni approssimative. In molti casi abbiamo saltato volutamente i nomi per tu-

telare la riservatezza degli amici che ci hanno raccontato le loro storie.

Una nota per gli articolisti: chiunque può inviare del materiale alla redazione all’indirizzo [email protected] (stile giornalistico, e magari una o due im-

magini). Ci raccomandiamo però che il materiale sia … personale, cioè rielaborato da fonti che inevitabilmente ciascuno deve consultare. Non è accettabile

materiale scaricato da Internet e non rielaborato!! In ogni caso è onesto citare la fonte, magari riportandola all'interno del testo. Ricordatevi di allegare

sempre anche una foto o due relative all'argomento in questione, se si tratta di interviste magari una foto della persona intervistata. Grazie a chiunque vorrà

partecipare a questa piccola impresa! A presto!!