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Capitolo quarto LA CITTÀ E LA CAMPAGNA La città Nel regno d'Italia, vale a dire l'Italia settentrionale e la Toscana, durante l'Impero c'erano stati alcune centinaia di municipia. Più di tre quarti di essi esistevano ancora funzionanti nel 1000. Ben pochi di quelli che erano stati abbandonati sembra siano stati sedi vescovili nel tardo Impero. Erano quindi probabilmente in un avanzato stato di decadenza ancor prima dell'inizio del periodo in esame. Dal 400 al 1000 si può notare una continuità urbana quasi completa, ininterrotta a tutt'oggi: di cinquanta capoluoghi di provincia moderni nella stessa area, trentacinque erano città sotto l'Impero. L'Italia settentrionale e centro-settentrionale nei due millenni passati è rimasta una società urbana senza interruzioni. Per tutto quel periodo le città predominavano politicamente, socialmente ed economicamente sui territori rurali. Si potrebbe obiettare, ed è stato obiettato, che si tratta solo di un problema di definizione. L'identità della città, sia nell'Impero sia nell'alto Medioevo, era definita amministrativamente: la presenza di un consiglio municipale, di un duca, di un conte, di un vescovo; la sola presenza di mura talvolta sembra abbia comportato la definizione giuridica di città. Tali città avrebbero potuto essere vuoti agglomerati, o piccoli insediamenti di contadini, come spesso furono (e talvolta sono ancora) nell'Italia del Sud e in quella centro-meridionale. Ma c'era forse una densità urbana in alcune zone meridionali quattro volte quella della pianura padana, in un contesto ben più povero. Una base territoriale così limitata spesso significava che tali città non erano che villaggi, con solo una cattedrale nel loro punto centrale. Offrivano poca resistenza in caso di guerra o di invasione. Meno della metà delle città romane del Sud continuarono ad esistere nei secoli VI e VII, anche come sedi vescovili (cfr. p. 192). La persistenza geografica delle città del Nord contrasta chiaramente con tutto ciò. Tuttavia ciò non indica solo una maggiore continuità amministrativa o ecclesiastica. Nel Nord si può vedere una vera società urbana che funziona per tutto il periodo nelle città delle quali si ha documentazione, come Ravenna, Lucca, o Milano, e si può pensare sia altrettanto per la maggior parte delle altre. Ciò ovviamente presuppone una chiara definizione economica di città. Suggerirei la seguente per il tipo di società mediterranea pre-industriale che stiamo analizzando: un centro abitato relativamente popolato, distinto funzionalmente dagli altri centri circostanti, con almeno tre delle caratteristiche che seguono: maestri e artigiani (specialmente), una concentrazione di proprietari terrieri, un ruolo amministrativo e religioso importante ed un mercato di rilievo. Queste caratteristiche saranno esaminate a fondo più oltre. Certamente, alcune città sono sparite. Talvolta furono distrutte in guerra e non più occupate (Brescello sul Po, dopo essere stata bruciata nel 586 e nel 603, fu probabilmente abbandonata per vari secoli ma ciò era insolito). Ben più tipico fu il lento decadimento e l'abbandono di città in aree marginali. Ad esempio, sulla costa ligure, quantunque capoluogo di contea e sede vescovile fino al X secolo ed oltre, Luni sembra fosse già in fase di decadenza nel tardo Impero, quando il suo foro fu spogliato dei marmi. Uno scavo recente ha dimostrato l'esistenza di capanne in legno sul foro e nella zona monumentale circostante e sembra che nell'VIII secolo la maggior parte delle attività fosse limitata alla zona circostante la cattedrale. Questo

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Capitolo quartoLA CITTÀ E LA CAMPAGNA

La città

Nel regno d'Italia, vale a dire l'Italia settentrionale e la Toscana, durante l'Imperoc'erano stati alcune centinaia di municipia. Più di tre quarti di essi esistevano ancorafunzionanti nel 1000. Ben pochi di quelli che erano stati abbandonati sembra sianostati sedi vescovili nel tardo Impero. Erano quindi probabilmente in un avanzato statodi decadenza ancor prima dell'inizio del periodo in esame. Dal 400 al 1000 si puònotare una continuità urbana quasi completa, ininterrotta a tutt'oggi: di cinquantacapoluoghi di provincia moderni nella stessa area, trentacinque erano città sottol'Impero. L'Italia settentrionale e centro-settentrionale nei due millenni passati èrimasta una società urbana senza interruzioni. Per tutto quel periodo le cittàpredominavano politicamente, socialmente ed economicamente sui territori rurali.

Si potrebbe obiettare, ed è stato obiettato, che si tratta solo di un problema didefinizione. L'identità della città, sia nell'Impero sia nell'alto Medioevo, era definitaamministrativamente: la presenza di un consiglio municipale, di un duca, di un conte,di un vescovo; la sola presenza di mura talvolta sembra abbia comportato ladefinizione giuridica di città. Tali città avrebbero potuto essere vuoti agglomerati, opiccoli insediamenti di contadini, come spesso furono (e talvolta sono ancora)nell'Italia del Sud e in quella centro-meridionale. Ma c'era forse una densità urbana inalcune zone meridionali quattro volte quella della pianura padana, in un contesto benpiù povero. Una base territoriale così limitata spesso significava che tali città nonerano che villaggi, con solo una cattedrale nel loro punto centrale. Offrivano pocaresistenza in caso di guerra o di invasione. Meno della metà delle città romane del Sudcontinuarono ad esistere nei secoli VI e VII, anche come sedi vescovili (cfr. p. 192).La persistenza geografica delle città del Nord contrasta chiaramente con tutto ciò.Tuttavia ciò non indica solo una maggiore continuità amministrativa o ecclesiastica.Nel Nord si può vedere una vera società urbana che funziona per tutto il periodo nellecittà delle quali si ha documentazione, come Ravenna, Lucca, o Milano, e si puòpensare sia altrettanto per la maggior parte delle altre. Ciò ovviamente presupponeuna chiara definizione economica di città. Suggerirei la seguente per il tipo di societàmediterranea pre-industriale che stiamo analizzando: un centro abitato relativamentepopolato, distinto funzionalmente dagli altri centri circostanti, con almeno tre dellecaratteristiche che seguono: maestri e artigiani (specialmente), una concentrazione diproprietari terrieri, un ruolo amministrativo e religioso importante ed un mercato dirilievo. Queste caratteristiche saranno esaminate a fondo più oltre.

Certamente, alcune città sono sparite. Talvolta furono distrutte in guerra e non piùoccupate (Brescello sul Po, dopo essere stata bruciata nel 586 e nel 603, fuprobabilmente abbandonata per vari secoli ma ciò era insolito). Ben più tipico fu illento decadimento e l'abbandono di città in aree marginali. Ad esempio, sulla costaligure, quantunque capoluogo di contea e sede vescovile fino al X secolo ed oltre,Luni sembra fosse già in fase di decadenza nel tardo Impero, quando il suo foro fuspogliato dei marmi. Uno scavo recente ha dimostrato l'esistenza di capanne in legnosul foro e nella zona monumentale circostante e sembra che nell'VIII secolo lamaggior parte delle attività fosse limitata alla zona circostante la cattedrale. Questo

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declino colpisce ancor più se si pensa che Luni era per i romani il punto d'arrivo e dismercio di quello che chiamiamo oggi marmo di Carrara. Ma nel tardo Impero sismise di tagliare marmo quando si resero disponibili molti blocchi dei templi ormai indisuso delle città romane. Luni era situata su una fascia costiera paludosa direttamentecomunicante con un territorio formato da valli isolate e da ripide colline, retroterratroppo povero e scarsamente popolato per fungere da base adeguata per la vita dellacittà a meno che non vi fosse il supporto di qualche altra attività economica. Quando iLongobardi, che non conquistarono Luni fino a circa il 640, occuparono la maggiorparte del suo retroterra e mutarono il sistema viario in modo da evitare la città, lediedero il colpo di grazia. Alcune città decaddero come Luni. Altre cambiaronoubicazione, come Ventimiglia o Altino, i cui abitanti si trasferirono a Torcello e poi aVenezia. Ma furono casi atipici. La tipica città romana sopravvisse; e sopravviveancora 1.

L'aspetto fisico delle città del primo medioevo è in se stesso una prova della lorocontinuità. Indubbiamente, non erano troppo appariscenti. La monumentalità e l'altolivello tecnologico dell'architettura tardo-romana dopo il VI secolo non ebbe segruto.I templi e gli edifici civici tardo-romani furono per lo più lasciati andare in rovina, ousati come cave. Le chiese che furono costruite dopo il 600 erano piccole, anche leopere di grande prestigio come S. Salvatore in Brescia o S. Maria in Cosmedin aRoma, sebbene questo possa essere almeno parzialmente addebitato ad uncambiamento nello stile architettonico, poiché esse erano di certo ricche negli interni.Sembra che l'edilizia privata spesso sia stata realizzata in legno, arretrata rispetto allastrada, con un cortile anteriore e un giardino posteriore, forse più simile ad una cittàgiardino in sfacelo che non agli isolati di Pompei. In molte città esistono tracce dicolture agricole interne alle mura (in particolare vigne). Alcuni storici hannoriconosciuto in questo la 'ruralizzazione' della città. Tuttavia ciò è un'esagerazione.Città e campagna non erano certamente del tutto differenziate, i contadini potevano`vivere nella città e uscire per andare a coltivare la campagna, come ancora avvienenell'Italia meridionale. Ma le città fungevano da punti focali della campagna, e la vitaurbana era in genere del tutto diversa dalla vita rurale, molto similmente a quantosuccedeva nell'antichità.

I1 primo elemento che definisce la città è la cinta muraria. Erano mura romane,quantunque conservate dai re Longobardi e successivamente dalle stesseamministrazioni cittadine. Nel 739 un autore anonimo scrisse un panegirico della cittàdi Milano, descrivendone le glorie. In primo luogo venivano le mura:

Attorno al perimetro ci sono torri con alte guglie, rifinite all'esterno con grande cura, eall'interno abbellite da edifici. Le mura sono larghe dodici piedi; l'immensafondazione è fatta di blocchi squadrati, completati elegantemente nella parte superioreda mattoni. Lungo le mura ci sono nove cancelli meravigliosi, ben protetti dacatenacci e chiavi, davanti ai quali si ergono le torri dei ponti levatoi.

Con simili difese, non sorprende molto che la gente abitasse nelle città durante leguerre del VI secolo, né che i governi successivi le abbiano mantenute. Le mura

1 Per Luni: B. Ward-Perkins, Luni (A5-b); cir. G. Schmidt, Città scomparse e città di nuova formazionein Italia, Sett., XXI (1973), pp. 503-617, per molti dati comparativi.

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davano identità alla città sotto ogni aspetto. Le davano anche una configurazionespecifica. La disposizione romana delle strade era in genere ad angolo retto (e spessoallineate con i campi squadrati della campagna); il quadrato formato dalle muracristallizzò quest'aspetto. Le due strade principali di queste città prevedevano duecancelli alle estremità e si incrodavano al centro, in genere al foro. La sempliceconservazione delle mura romane rese questa disposizione planimetrica permanente.Ma in molte città italiane è pervenuta fino ad oggi una disposizione planimetrica quasitotalmente quadrata: Torino, Albenga, Piacenza, Milano, Cremona, Brescia, Verona,Bologna, Firenze, Lucca sono solo alcune voci di un lungo elenco. E’ vero, ciò ètalora possibile in città con una popolazione abbastanza limitata (Aosta ne è unesempio), specialmente se le strade, come in Italia, sono ritenute una proprietàpubblica; ma da tanti esempi si possono trarre conclusioni più generali. A Luccanell'890 due contratti d'affitto ci mostrano una fila di cinque case, tutte che siaffacciano direttamente sulla strada, nel centro della città. Qui, almeno, la piantastradale mostra decisamente una continuità nella densità dell'insediamento2.

Milano non aveva soltanto le mura. « L'edificio nel foro è assai bello, e il sistemaviario ha pavimentazione solida; l'acqua per le terme scorre in un acquedotto ». Siamoqui riportati al mondo tardo-romano. L'acquedotto deve essere stato oggetto diparticolare orgoglio, dato che ne erano rimasti pochi nell'VIII secolo (a Roma, Napoli,forse Brescia, probabilmente a Pavia; e in pochi altri luoghi). D'altro canto il foro eraancora presente nella maggior parte delle città. Nell'antichità era stato il centropolitico, ove si riuniva il consiglio della città, ed il punto focale dell'edilizia civica.Nell'alto Medio Evo, aveva due antagonisti, il palazzo reale e la cattedrale, simbolidei due maggiori poteri di ogni città, lo stato e il vescovo. I1 foro perse il suo molopolitico diretto con la scomparsa del consiglio cittadino nel VI secolo, quantunque siarestato un centro economico, e ivi si svolgesse ancora il mercato. E’ ancora così oggi,in molte città. Tuttavia solo raramente il foro rimane al centro della città. I1 palazzo oresidenza reale spesso fu costruito su di esso o nelle vicinanze, ma l'importanza delpalazzo diminuì col crollo dello stato italiano nel x secolo. D'altro canto la cattedraleraramente era costruita nelle sue vicinanze: come ultimo edificio tardo-romanoimportante essa era, in genere, posta al limite della città romana. L'influenza telvescovo nella città fece crescere sempre di più l'importanza del complesso dellacattedrale. A Milano, la cattedrale fu costruita nel IV secolo, nella vasta area aperta anord-est della città, compresa entro le mura da un ampliamento recente delle murastesse Nel IX secolo era già diventato un punto politico importante: il primotestamento dell'arcivescovo Ansperto, nell'879, allude all'asemblatorio, puntod'incontro dei cittadini, posto di fronte alla cattedrale, ove oggi è ubicato il centrodella città moderna, la Piazza del Duomo. I1 vecchio foro continuò ad esistere, e funoto sotto il termine di mercatum; dal 952 aveva bancarelle fisse (per la maggior parteproprietà del principale monastero suburbano di S. Ambrogio). Nel X secolo e dopo,il prezzo delle case attorno al mercato e vicino alla zecca era elevato3. Ma Milano,come si vedrà in seguito, era un centro commerciale importante. Altrove, il forodiventò meno importante in un tempo più breve. A Brescia il foro è oggi in unatranquilla zona residenziale della città vecchia; perse la sua importanza prima che ilcapitolium romano, che ancor oggi lo domina, fosse destinato ad usi diversi

2 Versum de Mediolano civitate, in MGH Poetae, I, pp. 22-66 per Lucca, Barsocchini 965-6 (890). Cfr.P-A. Février, Permanence et héritages de l'antiquité dans la topographie des villes (Bs-b).3 Porro, 287 (879); MGH Dipl. Ottonis, I, n. 145 (952); G Violante (B3-f), pp. 109-15 per i prezzi.

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(quantunque sia rimasto certamente un mercato). I1 centro della città moderna emedioevale è a cavallo dell'asse delle mura romane, a fianco e di fronte alla cattedrale.

Questi spostamenti del centro all'interno delle città dell'alto MedioEvo mostranochiaramente la stretta relazione fra potere politico, status sociale, ed edifici. Di per séera una tradizione romana. Cassiodoro scrisse, a proposito dello splendore dei palazzidi Teodorico: « Sono i piaceri del nostro potere, l'immagine appropriata dell'Impero...sono in mostra perché ricevano l'ammirazione degli ambasciatori, e dal loro aspetto sigiudica il loro signore ». Tre secoli più tardi, Lodovico II diceva più o meno la stessacosa: « Gli edifici pubblidci che in ogni città erano stati costruiti da molto tempo peradornare il nostro stato, devono essere ricostruiti per i nostri scopi, decorosi e adattialle ambasciate straniere che vengono alla nostra presenza »4. Ben lo sapevano icostruttori di chiese. L'edificio ecclesiastico fu il diretto successore della costruzione ericostruzione monumentale della città romana. Nel I secolo Agrippa pose il suo nomesul portico del Pantheon a Roma. Così nel tardo Impero i donatori dei pavimentimusivi nelle chiese avevano il loro nome posto nell'elenco all'interno della portaassieme alla misura, espressa in piedi, del mosaico donato. Alcune chiese preseropersino nome dal loro fondatore, come S. Maria Theodota a Pavia e San PietroSomaldi da Sumuald, a Lucca. Agnello scrisse gran parte della sua storia di Ravennaunicamente partendo dalle iscrizioni dei donatori presenti nelle chiese della città. I1vescovo Giacomo di Lucca (m. 818) pensò che sul suo epitaffio bastasse ricordaresolo le fondazioni e donazioni di cui era autore; nessuna frase piamente retorica. Ivescovi facevano le donazioni maggiori, come era giusto, non solo per le lororesponsabilità religiose, ma poichè in genere erano, nella città, i proprietari terrieri piùricchi. I1 numero delle chiese di nuova costruzione nelle città, nel periodo in esame, èuno dei segni più chiari della prosperità degli abitanti e della loro disponibilità a speseingenti. A Pavia si sa dell'esistenza di circa quarantacinque chiese prima che fossesaccheggiata nel 924 dagli Ungari. Prima del 900 a Lucca se ne sono ricordatecinquantasette. Chiunque volesse affermare il proprio status sociale, lo facevacostruendo una chiesa. L'Imperatore Giustiniano si lamentava nel contesto bizantinoche gli uomini erano così desiderosi di essere ricordati come fondatori di chiese chespesso non provvedevano neppure agli addobbi o alla manutenzione delle chiesestesse 5. Le uniche differenze rilevanti tra questo comportamento e la munificenzacivica tardo-romana risiedevano nel fatto che un campo sociale ben più vasto, nonsolo le autorità civiche, poteva partecipare alla dotazione delle chiese nell'alto MedioEvo, e che furono costruite più chiese allora che edifici civici nella tardaromanità. Neconsegue che, anche per minor ricchezza degli aristocratici dell'alto Medio Evo, lechiese erano piuttosto piccole e non appariscenti in paragone ai monumenti tardo-romani.

Lucca, la città alto-medievale italiana meglio documentata, mostra chiaramente questecaratteristiche. La conservazione della sua pianta romana pressoché perfetta e lefacciate dei suoi edifici della fine del IX secolo, indicano che conservò almeno ad uncerto livello la densità di costruzione romana. Le sue chiese erano distribuite in modoabbastanza uniforme nella città; non c'erano aree aperte evidenti; esistono 4 Variae, 7. 5; MGH Capitularia, II, 213 c. 7.

5 D.A. Bullough, Urban change in Early Mediaeval Italy (A5-h), pp. 99ss., 119-29; Barsocchini 1759(818); Giustiniano, Novella 67 (Corprus Iuris Civilis, nı); cir. M. Mauss, The Gift (Londra, 1951), pp.3145; T. Veblen, The Theory of the Leisurc Class (Londra, 1924) capitolo quarto.

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testimonianze che le case fossero costruite in legno, mattoni e pietra; la pietra è ilmateriale da costruzione più evidenziato. Tra il 700 e il 1100 le case a due pianiaumentano sempre più; e nel x secolo, persino la sporadica casa-torre. I1 palazzo reale(curtis regia) e la zecca erano vicini al foro, nel centro; il complesso della cattedraleera nell'angolo sud-est della città. A Lucca, tuttavia, la capitale della Toscana, ilpalazzo del duca (curtis ducalis) fuori le mura diventò ben più splendido, sollevandola gelosia di Lodovico III nel 905; quando re Ugo depose il marchese verso il 930,pose li il palazzo reale. I1 palazzo ducale non era l'unico edificio di Lucca fuori dallemura. Oltre un terzo delle chiese e metà delle case citate nei documenti di Luccaanteriori al 1000 risultavano essere all'esterno della cerchia muraria. Secondo idocumenti una fascia suburbana circondava Lucca fin dall'inizio dell'VIII secolo;alcuni agglomerati, nel X secolo, avevano preso il nome di borgo (burgus). Un'elevatapercentuale della popolazione di Lucca viveva fuori mura e tali insediamentirisalgono alle prime tracce storiche. Lucca era un centro importante, e cresciuto forsetroppo in fretta, ma molte altre città devono essersi espanse fuori dalle mura benprima della fine del periodo in esame6,

Elemento chiarificatore sono anche le attività degli abitanti di Lucca. Sempre daiprimi testi in nostro possesso rileviamo la presenza di una serie di mercanti edartigiani di generi di lusso, orefici, calderai, dottori, sarti, costruttori, monetieri. Tuttisono citati come residenti nella città stessa e nelle sue immediate vicinanze. Alcunierano anche proprietari terrieri, come, ad esempio, Giusto l'orefice di porta S. Gervasinel 729, il quartiere della porta di S. Gervasio (molte città conoscevano suddivisioniinterne; i quartieri di Ravenna si scontravano persino in battaglie simboliche ognidomenica pomeriggio. Un mastro costruttore dell'Italia settentrionale, Natale, acquistòdei terreni a sud di Lucca nel 787-8, e nell'805 diventò cosi ricco da fondare unachiesa urbana7. Tuttavia nella città non abitavano solo mercanti e artigiani, vi eranoanche aristocratici. Nell'VIII secolo oltre metà dei venti maggiori proprietari terrieripresenti a Lucca e nel suo territorio sembra abitassero in città. E ciò esclude i terrenidelle chiese urbane, e soprattutto la cattedrale, che con tutta probabilità possedeva lamaggior parte dei terreni della zona. Anche le terre dello stato erano amministrate dadentro la città. I terreni sotto il controllo di cittadini o di istituzioni dovevano già—oancora—costituire una parte rilevante dell'intera Lucchesia. In un contesto geograficopiù limitato, la popolazione rurale forse si serviva del mercato di Lucca anche per loscambio delle sue eccedenze. Lucca predominava socialmente ed economicamente sulsuo territorio sotto qualsiasi aspetto, in modi sostanzialmente invariati rispetto a quellidel mondo romano, e che in seguito non sarebbero cambiati granché.

Sottolineo qui la proprietà terriera urbana piuttosto che il commercio urbano, e lofaccio deliberatamente. Le città romane non erano principalmente centri commerciali;erano centri politico-amministrativi fondati sulla tassazione delle campagne, edavevano peso socio-economico in quanto i grossi proprietari terrieri dell'Imperovivevano quasi tutti all'interno di esse. Solo così, col potere d'acquisto dello stato edell'aristocrazia, iniziarono ad essere presenti gli interessi commerciali. In pochissimecittà occidentali, in genere grandi porti come Ostia, e forse in nessun'altro posto, ilcommercio era cosi preponderante sotto ogni aspetto, e in linea di massima, questo 6 Cfr. H.E Schwarzmaier (83-f), pp. 14-70, I. Belli Bersali, La topografia di Lucca nei ss 8-11 (B5-b).Lodovico III: Liutprando da cremona, Antapodosis (MGH S.S. der Germ., nuova edizione a cura di J.secker), 2. 39.7 Schiaparelli, 69 (739); Barsocchini, 216, 221, 322 per Natalis. Per Ravenna: Agnello, cc. 12-9.

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valeva per l'Italia anche nei secoli XII e XIII. Genova e Venezia erano, ovviamente,centri quasi esclusivamente commerciali, ma si trattava di eccezioni. Città più piccoledell'interno, più tipiche dei comuni, come Mantova, Arezzo o Parma, erano semprecontrollate dai proprietari terrieri. E anche centri commerciali come Milano eCremona, con traffici fiorenti, erano città basate in egual misura sulla proprietàfondiaria. Non dobbiamo di conseguenza identificare una rottura storica nella baseeconomica delle nostre città, ora proprietà fondiaria ora commercio (nonconsideriamo qui l'industria (ora aristocrazia ora borghesia. Le città antiche (secondoWeber) erano centri di consumo, non di produzione e gravavano sulla campagna; lostesso vale, entro limiti più ridotti, per le città dei secoli XII e XIII. Il commercio nelperiodo centrale del Medio Evo, quantunque avesse smesso di essere del tuttodipendente dal potere d'acquisto dei proprietari terrieri italiani, era per lo più scambiointernazionale di generi di lusso. Di certo la maggior parte della popolazioneraramente acquistava tali merci, non vi fu mai grande commercializzazionenell'agricoltura dell'Italia medievale, e la popolazione della campagna era coinvoltanel commercio solo in quanto ultimo destinatario di pratiche monopolistiche erelativarnente alla determinazione dei prezzi, che erano calcolati a scapito dellacampagna per giovare ai mercati e alle botteghe urbani.

Si è già visto ampiamente come la struttura politica ed amministrativa del regnolongobardo e di quello carolingio che gli successe sia rimasta urbana, anche perconseguenza della tradizione romana della pubblica amministrazione. La Chiesa pureera nettamente urbana, con l'eccezione del sistema dei monasteri rurali, alcuni diquesti corredati di tenute estese, che cominciarono a sorgere nell'VIII secolo.Anch'essi venivano volutamente fondati in zone remote al fine di evitare il contattocon la società secolare, cioè, per eccellenza, la società urbana. I proprietari terrieririmasero, come abbiamo visto a Lucca, cittadini; è il caso di Taldo, il gasindio(dipendente) del re, figlio di Teuderolfo, cittadino di Bergamo che fece testamento nel774 (mentre Desiderio assediava Pavia). I1 suo essere cittadino (o quello di suo padre)sembra sia stato un titolo, proprio come il suo status di gasindio. Distribuì una lungaserie di proprietà a tredici chiese (le donazioni maggiori a due chiese urbane) e ordinòal vescovo di vendere tutto il resto alla sua morte8.

Può non sembrare inevitabile che i proprietari terrieri dovessero abitare nelle città; ivantaggi materiali dell'appartenenza istituzionale al corpo cittadino erano scomparsicon la centralizzazione del sistema fiscale alla fine del III secolo. I1 sistemalongobardo di patrocinio statale su base urbana quantunque forte, non potevagareggiare con quello centralizzato, basato sulle tasse, del tardo Impero. E qualsiasistudente dell'Europa dell'inizio del Medio Evo conosce bene la deurbanizzazione digran parte dell'occidente durante i regni germanici. Lellia Ruggini ha sostenuto che iproprietari terrieri italiani lasciarono le città anche durante le dominazioni ostrogote,tuttavia la sua documentazione, si riferisce solo al Bruzio (moderna Calabria), zonamarginale da sempre9. La deurbanizzazione della parte occidentale fu per lo piùlimitata a quelle regioni, come la Britannia e la Gallia settentrionale, che menoavevano subito l'influsso di Roma. La Gallia meridionale, almeno nelle sue partiagricole fiorenti, rimase urbana; cosl fu per gran parte della Spagna; Le classisuperiori, romane e germaniche, della frangia mediterranea dell'Europa occidentale

8 Schiaparelli, 293.9 Variae, 8. 31; Ruggini, Italia annonaria, pp. 301-11, 350-9.

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continuarono a pensare che la vita urbana fosse il principale obiettivo sociale. Si èvisto che i Longobardi si erano insediati in città già nel VI secolo, senza dubbio sottol'influenza romana, che era meglio rappresentata dalla autorità ininterrottadell'episcopato. Continuità amministrativa significava che tutte le cariche importantirimanessero cittadine, quantunque non fossero diminuite dall'epoca del tardo Impero.E l'attrattiva della vita cittadina era essa stessa una forza che si perpetuava da sé.L'occasione per gli aristocratici di misurarsi con i loro pari era più facile in uncontesto urbano—se qualcuno costruiva una chiesa in città, altra gente potevamaterialmente vederla. Non vi erano più ragioni economiche determinanti per abitarein città, ma il vivervi per tutta una serie di valori che continuavano a sussistere, avevaun suo fascino. La preminenza ideologica della vita urbana in Italia nell'alto MedioEvo e chiara, e il soprawivere di istituzioni dello stato e della chiesa nelle cittàcontribul a dare solidità all'attività economica, anche se questa aveva basi meno solideche non sotto l'Impero. C'erano nobili di campagna, particolarmente negli Appennini,che non erano mai stati del tutto romanizzati nell'antichità. Al decadere dello statoitaliano nel nord, anche alcune delle più forti famiglie aristocratiche si ruralizzaronocome si vedrà. In un certo senso l’XI secolo in Italia, malgrado il suo fiorireeconomico e l'espansione urbana, vide al livello più basso la supremazia politica dellecittà, ma di per sé ciò mostra l'importanza della persistenza delle città come centroamministrativo dello stato fino ad almeno il x secolo. E anche nell'XI secolo, comedimostra il sorgere dei comuni, il bilancio è a favore della città.

I1 sistema clientelare amministrativo, ecclesiastico e aristacratico, basato sullaproprietà terriera, è sotteso a tutte le altre attività urbane. Anche i poveri della città nepotevano usufruire: dar da mangiare ai poveri era, fin dal tempo dei Romani, unaprova di munificenza civica, e questo ruolo fu assunto in vasta misura dai vescovi.Gregorio Magno e i suoi successori a Roma nell'VIII secolo, la consideravano unadelle destinazioni privilegiate delle rendite derivate dalle loro tenute10. Ma ilcommercio e il lavoro artigianale, basati sulla domanda aristocratica, erano unprocesso più vitale, e, nel suo sviluppo mercantile, l'Italia del primo Medio Evo eraben più progredita di ogni altra parte dell'occidente cristiano eccetto il sud arabo dellaSpagna.

I commerci presero l'avvio in modo deciso sotto la protezione e con la mediazionedello stato—altra tradizione romana. Rotari pose i mercati stranieri sotto la propriaprotezione. Liutprando (o Grimoaldo) sanci regole dettagliate, fissando i prezzi per lacorporazione dei costruttori, i magistri commacini, riguardo lavori specifici: coperturadei tetti, costruzione di muri, dipintura a calce, costruzioni di tramezze e finestre,scavo di pozzi. Ratchis e Astolfo imposero la licenza a tutti i mercanti— i mercantierano inaffidabili e privi di vere radici; potevano commerciare con i nemici e le loromerci potevano essere rubate. I re indubbiamente consideravano fissi i valori dei beni,quantunque la gente fosse spesso incline ad aumentarne i prezzi, specie in tempi dicarestia o al passaggio degli eserciti. I Carolingi emanarono leggi per salvaguardare ilgiusto prezzo delle merci, in particolare delle derrate alimentari. Queste erano usanzeben radicate nella società medievale, anche i comuni conservarono tali leggi. Di certoi prezzi cambiarono, ed anche il prezzo del terreno aumentò enormemente alla fine del

10 Giovanni Diacono, Vita Gregorii, 2. 24-30 (Migne, PL 75); Liber Pont., I, p. 502; cfr. « Papers of theBritish School at Rome », XLVI (1978), pp. 173-7.

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x secolo, ma il concetto di prezzo di mercato 'liberamente determinato', non eraaccettabile per la maggior parte degli italiani. Per prineipio i prezzi erano legati aibisogni sociali11.

Lo stato non s'interessava al commercio solo per via della pace sociale. I mercantipotevano far la guerra; nel 750 Astolfo promulgò una Iegge per determinare quali tipidi armi i mercanti più o meno importanti dovessero portare quando fossero chiamati aservire nell'esercito. E i mercanti pagavano dazi al governo, che poteva ricavarne ungettito notevole. Liutprando e i re che gli successero stipularono trattati con le gentidei territori bizantini lungo l'Adriatico, prima con quelli di Comacchio, poi conVenezia, determinando quanto dovessero pagare ad ogni porto lungo il Po ed ai suoiaffluenti: a Mantova, alla bocca del Mincio, ai porti di Brescia, Parma, Cremona, allaconduenza dell'Adda, Piacenza, e a quella del Lambro12. Anche i luoghi di mercatodovevano pagare dazi. Infatti quasi tutto ciò che si sa dei mercati nel periodo in esamederiva da donazioni dei dazi sui mercati fatte alle chiese sotto gli ultimi Carolingi e iloro successori. Prima dei Carolingi dobbiamo ipotizzarne l'esistenza. I1 resocontopiù dettagliato di tali entrate è in un testo dell'inizio dell'XI secolo noto col titolo diHonorantiae Civitatis Papiae, in cui si descrive una situazione dell'inizio del X secolo,quantunque alcuni dettagli debbano essere successivi. Elenca le tasse dovute daimercanti venuti in Italia attraverso le Alpi; le regalie particolari dovute alle autorità eal palazzo di Pavia dal re d'Inghilterra e dal doge di Venezia per compensarle con idazi dovuti dai loro mercanti; le percentuali da pagare ai monetieri pavesi e milanesiin cambio delle operazioni di conio, e le quote che essi dovevano al palazzo; le tassedovute dai cercatori d'oro dei fiumi dell'Italia settentrionale, dai pescatori, cuoiai, daifabbricanti di sapone di Pavia, e così di seguito13. Queste professioni sono tutteorganizzate in ministeria che a molti storici sono sembrati discendere dallecorporazioni dell'Impero o dalle schelae dell'Italia bizantina. Ciò non è mai statodimostrato e non v'è continuità nel contesto sociale di tali organizzazioni: lo statocontrollava tutta la struttura amministrativa delle corporazioni sotto l'Impero, ed èmolto opinabile lo abbia fatto anche dopo il 568. Ci deve essere stata almeno lacontinuità dell'addestramento sistematico e della qualificazione dell'artigianato nelperiodo che analizziamo, e già nell'VIII secolo si trova documentazione sui magistri,maestri artigiani, in diversi settori-costruzioni, ferro, notariato. Ciò che sappiamodell'artigianato proviene da fonti disparate, sempre in via indiretta: cessione di dirittida parte dello stato, acquisizione di terreni da parte di artigiani affermati, liste ditestimoni. Tuttavia abbiamo testimonianza di una vasta gamma di commerci già neisecoli VIII-IX: artigiani dell'oro, argento, rame, ferro; fabbricanti di pellami, sapone,stoffe, costruttorì civili e navali. C'erano anche estrazioni minerarie: sale, oro (come siè già visto) e argento al vescovo di Volterra furono dati nell'896 dal marchese diToscana i proventi fiscali derivanti dalle miniere di Montieri14.

11 Rotari 367, Grimoaldo/Liutprando, Memoratorium de mercedibus magistri Commacinorum, Ratchis13, Astolfo 4-6; MGH Capitularia, I, 28 c. 4, 88, II, 217 c. 10 Cfr. G. Duby (B5-a), pp. 48-70; K.Polanyi, CM. Arensberg, H.W. Pearson, Trade and Market in the Early Empires (Glencoe, Illinois,1957), pp. 243-7012 Astolfo 3; L.M. Hartmann (B5-b), pp. 1234; MGH Dipl. Karol., I, n. 132 Capitularia, II, 233-41.

13 Honorantiae, MGH S.S., 30. 2, pp. 1450-9; per i meseieri, U. Monneret de Villard, L'organizzazioneindustriale nell'Italia longobarda (B5-6) rimane ancora un classico; per i mercati: F. Carli (B5-a).14 l testo è andato perduto; cfr. F. Schneider (B3-b), p. 268 n., e ibid., Bistum und Geldwirtschalt, QF,VIII ( 1905), pp. 81-2.

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Le linee fondamentali dell'attività commerciale italiana erano probabilmente statedelineate in vista del commercio del sale poiché il sale è la merce più antica. E’sempre stata un bene necessario, specie nei climi caldi. I1 sale italiano veniva dallacosta: le lagune adriatiche, le piane di Vada a sud di Pisa, la foce del Tevere. I1traffico da Vada a Lucca e Pisa può essere ricostruito hn dal 760 (esistono anchetestimonianze nel v secolo) e fu all'origine dell'attività marittima di Pisa. Ma ilcommercio del sale adriatico, ben più visibilmente, era la base di tutto il commerciodell'alto Medio Evo nel Nord. La gente di Comacchio alla foce del Po, nell'VIIIsecolo, portava sale nel Nord. All'inizio del IX secolo i cremonesi cominciarono aprendere parte a tale attività, e presto comprarono barche per commerciare in proprio.Lo si sa in quanto nell'852 reclamarono senza successo l'esenzione dei dazi a favoredel vescovo nel porto di Cremona, esordio di due secoli di dispute sempre più accesefra il vescovo e i cittadini di Cremona15. Altre città hanno forse avuto uguale sviluppo.Comacchio, piccola città dipendente dal suo monopolio, forse ne risentì. I1 centro chene beneficiò fu Venezia, l'isola di Rialto, ove il duca bizantino della costa adriaticaaveva trasferito di recente la propria residenza. All'inizio del IX secolo i venezianicominciarono ad assumere il controllo del tratto terminale della rotta commercialebizantina, assicurandoselo nell'889 quando assediarono e diedero alle fiammeComacchio. Ma Venezia, ultimo collegamento del Nord Italia con Bisanzio, era inposizione favorevole per far entrare in Italià ben numerose merci oltre il sale. Prestoqueste aumentarono di volume ed importanza. I mercanti veneziani a Pavia al tempodelle Honorantiae presentavano doni ufficiali al ciambellano del re, doni cherispecchiavano la varietà delle loro mercanzie: una libbra di pepe, cannella, galanga(una radice aromatica) e zenzero; e un pettine d'avorio, uno specchio o accessori dibellezza per la sua sposa. Importavano anche oggetti d'arte e stoffe bizantine; lacontroparte comperava schiavi, grano e tessuti italiani. Gran parte di questi scambiavevano base a Pavia. Metà dei vescovi del regno vi avevano casa, e questafunzionava come deposito delle merci oltre che come base per accedere a corte.

I Veneziani, anche la più alta aristocrazia, privi di entroterra agricolo, eranopraticamente forzati ad esercitare il commercio. Già nell'829 il doge di Venezia,Justinianus (Giustiniano Partecipazio) quantunque proprietario terriero in terrafermanel regno d'Italia, fece riferimento nel suo testamento ad un investimento di 1.200libbre di solidi « liquidi, se non vanno perduti lungo il viaggio per mare », primoriferimento nella storia medievale all'investimento di capitali. Su di esso i Venezianisi basarono nei secoli successivi. Nel 992 avevano occupato la maggior parte dellacosta dell'Adriatico ed avevano ottenuto privilegi commerciali immensidall'imperatore d'oriente. Dal 995 erano in posizione da poter bloccare gli sbocchisull'Adriatico delle altre città d'Italia. I1 loro futuro aveva solide basi16.

I porti principali del regno d'Italia, Pisa e Genova, divennero tali nell'XI secolo,quantunque almeno Pisa vantasse una ininterrotta tradizione marinara a partire dal VIIsecolo e anche da prima. Le città dell'interno offrono indici migliori dello sviluppocommerciale ed urbano dei secoli IX e X, in particolare Milano. Milano non èparticolarmente ben documentata prima dell'ottocento, ma di lì in poi, in gran parte

15 Manaresi, 56.16 Honorantiae c. 5; Colice diplomatico Padovano, a cura di A. Gloria (Venezia, 1877), n. 7 (829); cfr.G. Luzzatto (Bs-b), pp. 4-16.

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attraverso gli archivi del monastero di S. Ambrogio, la documentazione inízia adaumentare velocemente. Nel IX secolo osserviamo all'opera lo stesso modello disviluppo di Lucca, con artigiani benestanti e mercanti che acquistano terreni. Alcunimercanti erano protetti dal monastero di S. Ambrogio e citati come tali nei documenti(anche S. Giulia di Brescia aveva simili protetti, ed aveva anche ottenuto da LodovicoII l'esenzione fiscale per uno di loro, Januarius, nell'861). Dalla fine del IX secolo inpoi tali menzioni crescono di numero. Nel 900, il commercio a Milano fioriva; dopola metà del X secolo i prezzi degli immobili aumentarono vertiginosamente. Accadeora che famiglie rurali si trasferiscano in città: due famiglie da Cologno, ad est dellacittà, nella prima metà del X secolo; una di Trivulzio, a sud, i discendenti di Ingo, dal970 in poi. Gli 'Ingonidi' persero il controllo della maggior parte delle loro terre afavore di mercanti e monetieri della città, non appena vi si stabilirono. Talemutamento di situazione venne perfezionato attraverso i matrimoni, essi infatti sisposarono all'interno di quei gruppi sociali: ancora mercanti, giudici, le classiprofessionali17. Il mescolarsi di attività professionali e commerciali—possiamoaggiungere anche ecclesiastichc era caratteristica di tutto lo strato medio nellapopolazione della città, fascia che divenne capace di azione autonoma nel secolosuccessivo associandosi con la classe ben più potente dell'aristocrazia terriera. I1commercio non era la base principale del cambiamento sociale di Milano, ma di certoaveva maggior peso che a Lucca. Era per lo meno un elemento nella crescita dellostatus della città, che sottendeva un'espansione abbastanza rapida della popolazione diMilano. La nuova importanza sociale dei mercanti indicava tuttavia meno ilriconoscimento dell'esistenza di un benessere commmerciale come fonte di statussociale, che non l'abilità e il desiderio di mercanti affermati di acquistare terreni. Laterra era ancora la base del potere politico.

In questa discussione, in un certo senso siamo andati troppo in là. La Milano dellafine del x secolo era situata in un contesto assai diverso da quello di un secolo prima:l'intera struttura politica era mutata. Gli interessi del nuovo strato sociale, quello deimercanti (non si poteva ancora parlare di classe) potevano in alcune città,specialmente Cremona, inddere sull'equilibrio fra vescovi e aristocrazia laica nelmondo carolingio e post-carolingio, ma lo si capirà meglio nell'ultimo capitolo,quando le vicende saranno esaminate in un contesto politico. Ciò è importante inquanto fra gli storici c'è una forte tendenza ad isolare la crescita commerciale e leattività dei mercanti dalla società che li circonda; a considerare, per così dire, la pulaanziché il grano. Ma l'attività dei membri di un gruppo marginale, a prescindere daquanto abbiano in mano il mondo futuro, è incomprensibile al di fuori del contestosociale globale. Artigiani e mercanti erano strettamente inseriti nella società e nesubivano il controllo, dal momento che essa comperava i loro prodotti. E, ancora allafìne del x secolo, avevano stretti legami con lo stato. I monetieri, ad esempio, la cuiattività era uno dei ministeria delle Honorantiae, non erano artigiani indipendenti:rappresentavano lo stato, battendo moneta per esso sotto licenza, soggetti a regolerigide in merito al peso e all'autenticità delle loro coniazioni. La concentrazionedell'attività commerciale a Pavia, in particolare nel secolo a cavallo dell'anno 900, erasolo il risultato degli interessi e delle necessità dell'apparato amministrativo statale, edopo che il palazzo venne incendiato nel 1024 la città perse velocemente terrenorispetto a Milano, che forse era rimasta la più grande città del Nord sin dall'antichità, e

17 Violante (B3-f), pp. 115-34; G. Rossetti, Società e istituzioni nel contado Lombardo (B3-t), pp. 172-82; Porro, 211 per Brescia.

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che pertanto era un nodo commerciale più ricco. Forse il commercio sarebbe potutoesistere in forma abbastanza fiorente senza che lo stato vi partecipasse, specie agliinizi del commercio internazionale che prese awio nel x secolo con il diminuire dellescorrerie arabe; ma era ancora per la maggior parte, dipendente dal potere d'acquisto equindi dal rango sociale dell'aristocrazia. Non vi è alcun vantaggio nel trattare l'Italiadel x secolo come precursore della « rivoluzione commerciale » avulsa da ognicontesto sociale ed economico.. Non è neanche detto che aiuti la comprensionedefinire l'Italia una « economia del denaro », anche se il denaro era, almeno nel 700,facilmente ottenibile, ed usato per la maggior parte delle transazioni di cui esistetraccia. A1 di fuori del mercato urbano, la maggior parte dei commerci avveniva incontesti sociali entro i quali non era determinante l'uso del denaro come mezzo discambio, sia in mercati locali, sia, addirittura, al di fuori dei mercati. La maggior partedella popolazione era al di fuori di questo commercio internazionale; come i signoriterrieri, viveva esclusivamente della terra.

Agricoltura e mutamenti sociali nella campagna

La campagna era tanto primitiva quanto la città era sofisticata. Gli aratri appaionosolo occasionalmente nelle nostre fonti, ma zappe, vanghe, sarchie sembra siano statigli unici attrezzi accessibili alla maggior parte dei contadini. Buona parte dell'Italiaera ancora coperta da foreste o paludi e, sebbene il periodo fra l’VIII e l'XI secolo siastato il periodo del disboscamento medievale in Italia, non portò a variazioni delletecniche. Non ci furono grandi sviluppi tecnologici nell'agricoltura italiana alto-medievale, a parte il rapido affermarsi del muIino ad acqua, caratteristica tipica diogni villaggio dal 1100. L'unica eccezione di rilievo fu costituita dalla Sicilia araba, aldi fuori del campo di studio di questo libro, ove fra il IX e il XII secolo fu iniziatatutta una serie di nuove colture ed introdotta una sofisticata rete d'irrigazione.

Nel primo capitolo ho dato risalto alla diversità geografica dell'Italia romana. L'Italiaalto-medievale non era meno differenziata, e, dall'VIII secolo in poi la relativaprecisione dei documenti ne fa risaltare ai nostri occhi il contrasto. L'uso della terra,l'alimentazione, l'insediamento, il sopravvivere di contadini liberi, la condizione deipossessori, il cambiamento della struttura delle grandi aziende possono variaretotalmente fra i territori delle diverse città, fra zone montane e zone pianeggianti, fravalli vicine. Anche all'interno di un territorio le differenze sono enorrni—fra lepianure coltivate più elevate e le colline della provincia di Parma e le foreste diquercia delle paludi del Po a nord, o i pascoli di argilla e le foreste di faggio degli altiAppenníni a sud. Talvolta si hanno prove sufficienti per collegare a tali contrasti ledifferenze di struttura sociale. Gli storici e, ancor più, gli archeologi italiani hannolavorato parecchio su queste differenze, in particolare nell'ultimo decennio. Un brevestudio come questo non esaurirà l'argomento; voglio solo delineare il problema ncllesue linee fondamentali e nella sua evoluzione. Ma le eccezioni sono presenti, ad ogniistante. Alcune di queste analisi generali si applicano anche all'Italia meridionale, manel capitolo sesto verranno esaminate proprio le caratteristiche tipiche del sud.

L' effettivamente possibile che i contadini fossero la classe che meno risenti della finedell'Impero e delle guerre del VI secolo. L'aristocrazia romana dei proprietari terrierifu parzialmente sostituita da quella longobarda; i Longobardi di livello inferiore(compresi gli schiavi) s'insediarono sui terreni a fianco di schiavi romani e di coloni.

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Tuttavia essi erano relativamente pochi rispetto alle dassi agrarie romane; e, di frontealla realtà della vita economica in Italia, gli agricoltori longobardi persero la propriaidentità. Si è visto che i Longobardi avevano adottato le leggi romane sulla proprietàterriera; con 1'VIII secolo non v'è più modo di distinguere i Longobardi dai Romani inbase alle loro azioni. Queste realtà economiche furono semplicemente le reazionitradizionali dei contadini romani verso il loro ambiente. I contadini non si dedicano adesperimenti agricoli—hanno troppo da perdere. E anche la devastazione della guerranon sembra far gran differenza sul modo col quale i sopravvissuti coltivano la terra,una volta ricostruite le loro scorte di grano da semina o ripiantate le vigne distrutte.Guerre e catastrofi possono sminuire lo status di indipendenza dei contadini, se questisi pongono sotto la protezione dei signori (volontariamente o no) per avere da loro imezzi di sostentamento; ma essi continueranno a coltivare la terra nello stesso modo.E nel VI secolo, come si è visto, i proprietari terrieri erano anch'essi molto vulnerabili.it anche possibile che alcuni contadini siano sfuggiti al loro controllo. Letestimonianze dell'VIII secolo rivelano con certezza la presenza di piccoli proprietariterrieri in numero superiore a quanti in genere si pensi esistessero nel tardo Impero.Ovviamente alcune cose cambiarono. La tassa sul terreno, che aveva provocatol'abbandono delle campagne, cessò d'essere applicata nella maggior parte d'Italia, equei pochi progetti economici su vasta scala cui lo stato partecipava, scomparverodefinitivamente. I1 sistema di bonifica delle valli del Po e dell'Arno cessò; laceramica africana che domina nei siti archeologici tardo-romani, comprese lemasserie e i villaggi agricoli, non fu più disponibile in Italia subito dopo la fine del VIsecolo (con grande svantaggio per i nostri studi sugli insediamenti alto-medievali;finora abbiamo ben pochi tipi di ceramica come guida per i due secoli che seguono).Ma senza un calo improvviso e massiccio della popolazione, del quale non v'è prova ospiegazione possibile, non ci si possono aspettare grandi cambiamenti nell'agricolturacontadina del prisno periodo medievale18.L'agricoltura contadina consisteva, almeno nelle pianure italiane, nella triadefondamentale mediterranea formata da grano, vino e olio integrato da fagioli e fruttache in genere crescevano nei piccoli orti cintati che ogni contadino alto-medievalecoltivava. Questa struttura non era cambiata molto dai tempi romani; Cesare non siera preoccupato di dare carne alle sue truppe fino a quando, nel 52 a.C., esse nonstavano per morire di fame nella Gallia centrale. Da allora le cose non erano cambiatetanto. Che gli Italiani dell'alto medioevo vivessero in questo modo si vede bene datesti dell'VIII secolo scritti in luoghi diversi del Lazio, della Toscana e della pianuraPadana, che elencano le razioni giornaliere date ai poveri da associazioni benefichecollegate a chiese di fondazione privata. Tali scritti possono considerarsi esempi diuna specie di « norma» nelle diete dei contadini, almeno com'era idealizzata daiproprietari terrieri; l'inventario dei cibi è probabilmente accurato, quantunoue le dietevere abbiano potuto avere grandi variazioni nella quantità. A Lucca nel 764 Rixsolfoindicò come razione giornaliera per una persona un pane di frumento, un quartod'anfora di vino, e la stessa quantità di un miscuglio di fagioli e farina di panico « benpressata e condita con grasso o con olio ». Altre erano molto simili, sebbene spesso sipreferisse il lardo all'olio e il miscuglio (chiamato pulmentario) talvolta comprendesseanche un po' di carne. Questa alimentazione assunta per anni e anni, doveva risultarenoiosissima. Fra i poveri, l'uso della carne era limitato ad occasioni particolari, e perquesto scopo ogni famiglia contadina aveva qualche animale, forse un maiale, una

18 Guide generali si possono trovare nelle opere di P.J. Jones elencate nelle sezioni bibliografiche A5-a,Bs-c; più di recente, La storia economica (Bl), pp. 1555-1681.

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vacca e una gallina; ciò bastava anche per i regali annuali di animali vecchi di un annoche si solevano fare assieme ai canoni in natura o denaro nei contratti dei secoli VIII eIX19.

Queste diete sono l'unica testimonianza di ciò che la gente mangiava; ma abbiamo unadocumentazione maggiore riguardo la distribuzione dell'uso agricolo del suolo inItalia, e questa distribuzione come si vedrà era diretta principalmente a soddisfare lenecessità di una economia contadina. La struttura si perpetua: una preponderanzaassoluta di terreno arabile (specie nelle zone pianeggianti) e di vigne (specie nellecolline). I prodotti dei terreni arabili, come si può vedere nei canoni, erano per lo piùdiversi tipi di cereali. In Toscana predomiriava il frumento; nella pianura Padana, lasegale era più comune. I cereali inferiori erano molto meno diffusi, quantunque siapossibile che i signori si prendessero i migliori tipi di cereali, lasciando ai loroaffittuari quantità maggiori di avena e miglio. In genere gli Italiani seguivano ilsistema dell'alternanza delle colture, ma possono talora aver coltivato legumi (piselli efagioli) nell'anno del maggese. Se è così, è un uso abbastanza sofisticato del terreno,ma è in contrasto con i raccolti scarsi che si possono calcolare in base ad alcuniarchivi del x secolo dell'Italia settentrionale, specie da quelli di S. Tommaso diReggio, che non sempre raggiunsero il rapporto 3 ad 120.

Gli uliveti e la cultura specializzata dell'olivo in paragone erano rari, sebbene parecchimonasteri dell'Italia settentrionale avessero terreni sui laghi italiani dove hannocoltivato ulivi forse anche per la vendita sui fianchi delle colline rivolti a sud (inquantità forse maggiore che non oggi). Più comune, particolarmente in Toscana, era la« coltivazione promiscua »; la coltivazione di olive e cereali sullo stesso terreno,pratica che fino a poco tempo fa, per tutta una serie di motivi, veniva considerata unsegno distintivo della sofisticazione agricola. Anche le viti spesso devono essere statefatte crescere in modo promiscuo. L'e spressione terra vitata o terra cum vineissuperposita, terra arabile con vigneti, è comune, specialmente in Toscana e nel sud.La vite, tuttavia, era fatta crescere sola in tutta l'Italia, e dopo il x secolo, specienell'Italia centrale, si trovano contratti di pastinatio con gli affittuari che provocano uncambiamento nello sfruttamento agricolo, da terreno da cereali (o terra incolta) avigneti. In questi casi i proprietari terrieri devono aver considerato le viti comeraccolto commerciale. Tali contratti sono solo una piccola parte delle locazioni giuntefino a noi. Generalmente sembra che i proprietari si siano accontentati di avere unapercentuale dei tipi di prodotto che i contadini coltivavano per sé, base della loroalimentazione, e ciò significa che cereali e vino erano richiesti in quantità nontrascurabili.

I Longobardi, con l'esperienza di vita nelle foreste dell'Europa centrale, valutavanol'allevamento più della maggior parte dei contadini romani. I1 codice delle leggi diRotari, pur trattando anche i reati agricoli (furto di frutta, danneggiamento o taglio diviti, coltivazione di terreno altrui), tratta estesamente i problemi legali dell'economiaagricola mista e di quella puramente pastorale. Si trovano pene per ferite ad animali 19 Schiaparelli, 194; cfr. 218, 2g3; Barsocchini, 231, 273; Mem. de Mac. Com. S; Liber. Pont., I, pp.501-2; Cesare, Guerra Gallica, 7. 17.

20 M. Montanari, Cereali e legumi nell'alto medioevo (Bs-c); V. Fumagalli, Rapporto tra granoseminato e grano raccolto nel polittico del monastero di S. Tommaso di Reggio, R.S.A., vl (l966), pp.360-2.

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provocate da rami di siepi sporgenti, per furto di una cavezza, per morti provocate dacavalli, uccisione di vacca gravida, danni provocati da animali su terreno altrui o nellestrade del paese, furto di verro (con provvedimento speciale nel caso di sonorpair, ilcapobranco di un insieme di oltre trenta animali) e così via21. Da ciò si è spessoconcluso che il periodo longobardo fu l'epoca d'oro dell'allevamento e dell'economiasilvo-pastorale, e che il ritorno all'agricoltura si ebbe solo con i grandi riassetti deisuoli del IX secolo. Ciò è improbabile. Rotari legiferava per il suo popolo; ma pochierano i contadini longobardi, e questa parte del codice forse aveva poca importanzanel contesto generale dell'Italia. La maggior parte della pianura italiana continuava adessere coltivata allo stesso modo di prima, e ciò significava per i suoi abitanti unaalimentazione fondamentalmente vegetariana.

Tuttavia al di fuori delle zone coltivate d'Italia, nelle paludi del Po o negli altiAppennini, prevaleva un regime più pastorale. All'epoca romana le montagne e lepaludi erano collegate da transumanza sistematica fra i pascoli in quota estivi e quelliinvernali nella pianura. Ciò è meno evidente nel nostro periodo ma certamenteesisteva ancora il contrasto fra l'agricolutra e pastorizia. Nel 772 Desiderio donò a S.Salvatore in Brescia 4.000 iugera (1050 ettari) di foresta nella bassa emiliana,chiaramente delimitati da alberi contrassegnati; quale terreno incolto poteva averepoco valore se non per l'allevamento di porci. S. Salvatore, sotto il nuovo nome di S.Giulia, lasciò una documentazione sistematica delle rendite delle sue proprietà, un «polittico », che risale circa al 900. Calcoli recenti delle risorse agricole degli aílittuaridi S. GiuIia, assieme a quelli del monastero appenninico di Bobbio (i cui politticirisalgono all'862 e all'883) indicano rendite così basse che sembra probabile sianostati aiutati dalla pastorizia. La maggior parte degli affittuari pare esser vissuta conuna media di 100 chilogrammi di cereali all'anno—in alcuni casi meno di 64chilogrammi, ben al di sotto del minimo vitale. Questi dati possono essere visti comeindicativi di una minore importanza dei cereali nelle zone marginali, in montagna enella bassa pianura, ove la terra era per lo più proprietà di monasteri; ma ciò non puòspiegare tutti i risultati che ancora oggi non sono chiariti. Gli schiavi domestici di S.Giulia, tuttavia, il più delle volte insediati nella zona centrale coltivata dellaLombardia, venivano nutriti esclusivamente con cereali in quantità fino a sei voltequella degli aífittuari, se i dati del polittico son esatti22.

Non si può dire quanta parte d'Italia per esempio nell'800 fosse tenuta a pascolo,boscaglia, palude o bosco non coltivato; forse la maggior parte del terreno che si trovaa quota superiore ai 500 metri eccetto la maggior parte delle valli di montagna; al disotto di questa quota soltanto i terreni vicini ai grandi fiumi, e alcuni dei terreni piùsterili in collina, come nella Toscana centrale o nelle Murge in Puglia, sebbene cifossero certamente anche fasce di terra boschiva sulle zone di maggior insediamentodelle pianure particolarmente del nord. Tuttavia nel IX secolo, forse anche nell'VIII, sicominciano a vedere segni di dissodamento sistematico, per lo più ad opera deimonasteri, sebbene questa preminenza sia forse imputabile al miglior stato diconservazione dei loro archivi. Ad esempio Nonantola disboscò la foresta di Ostiglia 21 Rotari 284-358.

22 Per le foreste: Bruhl, 41 (cfr. anche Brahl 24). Per i polittici: Inventari (B21. Cfr. M. Montanari,L'alimentazione contadina nell'alto medioevo (Bs-c) per le cifre. L'archeologia aiuterà presto arisolvere questo problema; cfr., per esempio, G.A.M. Barker, Dry Bones, Papers in ItalianArchaeology, I (A5-c), pp. 35-49.

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sul Po a partire dall'inizio del IX secolo; a metà del secolo la gente tornava neidintorni della città di Brescello, e a partire dalla fine del x secolo troviamo ancoratraccia di una famiglia laica di proprietari terrieri, il casato di Canossa, che organizzòil disboscamento nella stessa area. Nell'Appennino centrale, a nord di Roma, ancheFarfa è impegnata nel disboscamento, forse in gran parte basato sul lavoro dicontadini pionieri indipendenti dei secoli VIIl e IX23. E' questa attività, diretta verso legrandi foreste o verso i boschi delle zone da tempo oggetto di insediamenti (ove ladocumentazione è pet lo più costituita da casuali riferimenti e occasionali toponimi),che segna il vero dinamismo economico dell'Italia alto medievale più che l'aumentodel commercio internazionale di lusso. Sembra che esso vada collegato con unacrescita demografica; per lo meno la suddivisione dei poderi in affitto, e l'aumento deiprezzi dei terreni comuni alla fine del X secolo hanno portato gli storici a concludereche la popolazione aumentava. E’ oggi impossibile dire se i contratti d'aíffittofavorevoli concessi ai coltivatori pionieri da parte dei monasteri—assieme ad unleggero sgravio dei gravami impo sti ai servi concessionari di quasi tuttal'Italia—fossero la causa di una maggiore prosperità e quindi di famiglie piùnumerose, e se la pressione della popolazione fosse essa stessa la spinta aldisboscamento che si rese visibile solo al suo diminuire (se fu così) dopo il 950.L'archeologia in futuro forse potrà darci indizi circa la pressione sulle risorse, maattualmente vi sono troppo pochi reperti per avere una risposta.

L'archeologia tuttavia ci è più utile ed è in grado di fornirci notizie sugli insediamentialtoınedievali, prima dei cambiamenti nell'habitat che presero l'avvio all'inizio del xsecolo, noti generalmente col termine incastellamento e che portarono allapreponderanza di insediamenti compatti in alcune parti d'Italia, e ad unaconcentrazione parziale di insediamenti entro e attorno centri fortificati, in altriluoghi. Si pensa che l'habitat dell'Italia romana sia stato sparso e ciò è avvalorato siada ricerche archeologiche, che riscoprono ville e masserie sparse, sia da ricerchestoriche, che descrivono la campagna romana come formata non da villaggi, ma daunità fondiarie, massae e fundi, insiemi frammentari di proprietà che in genereprendevano il nome da qualche precedente proprietario, come massa Firmidiana ofundus Domitianus. Non è chiaro come ciò funzionasse sotto l'aspettosociologico—ad esempio è difficile dire come i contadini inserissero le loro proprietàin questo contesto, a meno che i fundi non fossero molto piccoli. I1 latino classico hauna parola per villaggio, vicus, e nei nostri testi si possono trovare vici che mal siadattano a questa struttura, ma non è certo se fossero modi alternativi di organizzare ilterritorio o solo nuclei insediativi isolati (uno o due sono stati scoperti dagliarcheologi).

Sotto i Longobardi troviamo un quadro chiaro di villaggi in Italia, chiamatiindifferentemente vici, loci, casalia, villae e con altri nomi locali più tipici. Essi sisostituirono a massae e fundi come unità dell'organizzazione territoriale (quantunquequeste ultime abbiano continuato ad essere usate fino ai secoli X e XI nelle zone cheprima erano state bizantine nel centro e nel nord); i territori dei villaggi essendodefiniti geograficamente, furono certamente più flessibili e permanenti rispetto alleunità fondiarie. E' tuttavia assolutamente poco chiaro cosa significasse questo

23 Cfr. Ie opere di V. Fumagalli nella sezione bibliografica B5-c; P. Toubert (B3-f), pp. 339-48 e notecitate.

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cambiamento per i contadini. I villaggi potevano essere ad un capo o all'altro del piùampio spettro dei tipi di insediamento, da nuclei accentrati, anche fortificati, a casecosì sparse che i confini tra i territori dei villaggi erano diflicili da conservare; sembrache talvolta non si potessero neanche distinguere gli abitanti dei diversi villaggi.L'agricoltura mediterranea non richiede grande cooperazione, dato che sonorelativamente pochi gli animali da far pascolare liberi su terreno, fondamento usualedella cooperazione, ma un informale aiuto ad hoc era senza dubbio dato dagli abitantidel villaggio. Cesario d'Arles, negli anni attorno al 510, descrisse l'aiuto dato daivicini e dai congiunti ad un uomo che ripristinava un vigneto, in una parte della Galliamolto simile all'Italia. Tuttavia, in zone da pascolo l'azione comunitaria era piùimportante, e nel IX secolo si vedono diversi villaggi situati in tali zone agire in modocollettivo nelle cause.

Come questi villaggi si siano sviluppati dal periodo romano, o, anche, se sianorealmente sempre esistiti, è un problema che solo gli scavi archeologici ci potrannoaiutare a definire nell'immediato futuro24.

Possiamo essere sicuri sulle alterne fortune di diversi strati di contadini, e dei lororapporti con i proprietari terrieri, in quanto su tali argomenti la documentazione èricca: lo schema generale è abbastanza noto. Nel tardo Impero la produzioneschiavistica dei secoli I e II era già sparita, e sono documentati rapporti fraproprietario terriero e concessionario che diverranno caratteristici dei secolisuccessivi, assieme alla permanenza di coltivatori proprietari. I1 meccanismo diequilibrio fra le due forme è di didicile comprensione. Spesso si è pensato che icoltivatori proprietari siano stati assorbiti da grandi aziende, ma di certo alcunisopravvissero, particolarmente in montagna. I1 termine tardoromano colonus potevasignificare sia libero concessionario sia coltivatore proprietario, e spesso c'è ambiguitàfra le due accezioni. Lo stato tassava ambedue ed esigeva anche dai proprietariindipendenti che abitassero sul fondo. Tuttavia non vi era motivo che i coloniabitassero sempre sul fondo. La legislazione tardo-romana è piena di lamenteleriguardo alla partenza di coloni (ma per dove?) e il conseguente abbandono dei terreni(agri deserti) che erano un'alta percentuale della terra agricola che andava perduta allafine dell'Impero. Talora s'impiegavano ancora schiavi per coltivare direttamente ifondi dei loro padroni, ma erano allora casati, alloggiati nelle case coloniche comeconcessionari servili.

Sarebbe impossibile generalizzare in merito al modo di coltivazione dei fondi delperiodo tardo-romano. Nel territorio di Padova attorno al 550 gli affittuari (coloni)della Chiesa di Ravenna erano già obbligati ad eseguire pesanti lavori manuali suidominici dei loro padroni, da uno a tre giorni alla settimana (e pagavano un canone didenaro, e regalie di miele, lardo e pollame). Questa è la prima testimonianza che siconosca in qualsiasi luogo, e l'ultima per due secoli, del sistema bipartito, noto inInghilterra col termine « manorial system » e in Italia come sistema curtense:dominico coltivato col lavoro diretto degli affittuari e una serie di terreni coltivati daaffittuari tenuti a prestare opera oltre che a pagare il canone. Certo nell'Italia del VIsecolo non era un sistema universale. Gli amministratori dei beni pontifici in Sicilia al

24 C Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati... (Bs-c), pp. 317-26; « Archeologia Medievale», v (1978),pp. 495-503; Pap. Brit. Sch. Rome, XLVII (1979). Caesarius Arles, Sermones, I, 67, a cura di G. Morin(Corp. Christ. Ser. Lat., CIII, 1953).

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tempo di Gregorio Magno (590-604) non richiedevano prestazioni d'opera dai lororustici, quantunque pretendessero molte altre cose. Nei primi anni di pontificatoGregorio mandò parecchie lettere ai suoi rappresentanti onde correggerne gli abusi.Sembra che in Sicilia ai contadini venisse in genere richiesto di pagare come canonel'equivalente in cereali di una cifra fissa, che variava col prezzo dei cereali stessi. Gliamministratori erano disposti a mantenere artificiosamente bassi questi prezzi, e arichiedere misure esagerate di cereali in cambio del loro denaro, oltre a dirittisupplettivi e regali di nozze. Arrivavano fino ad espropriare i propri vicini. Tuttavia laprestazione obbligatoria di mano d'opera è totalmente assente; gli affittuari pagavanosolo canoni. Per parecchi secoli successivi questa sarebbe rimasta una caratteristicadel sud. Si deve qui infine valutare un altro aspetto connesso ai possedimenti diGregorio: gli affittuari dei fondi di Gregorio erano sia uomini liberi che schiavi, masembra che tutti fossero legati alle terre avute in concessione, ed avessero canonifissati da consuetudini. Già attorno al 590 anche all'esterno delle aree « curtensi »d'Italia, si riscontra la fusione fra liberi e non liberi, che viene generalmenteconsiderata la base dello strato di concessionari nella società contadina medievale25

I Longobardi, come si vede nell'editto di Rotari, avevano una triplice classificazionedella società: l'uomo libero, l'aldius, e lo schiavo. L’aldius in genere tradotto con vagotermine di « semi-liberò », era per sempre sotto la protezione del suo padrone, ed eravincolato a servirlo; lo schiavo era, almeno all'inizio, soltanto un bene. Questaclassificazione, come quella romana, cominciò a perdere vigore di fronte allarelazione economica fra proprietario terriero e affittuario. In particolare, gli aldiicominciarono a sparire. Vengono citati occasionalmente nei testi del IX secolo, comedipendenti privilegiati, specialmente come corrieri. Talora gli affittuari rivendicaronol'appartenenza alla categoria degli aldii di fronte alla giustizia (la miglior condizionedei non liberi) per salvaguardare la natura consuetudinaria del loro diritto. I liberi e glischiavi longobardi divennero molto simili a quelli romani, quantunque il liberolongobardo fosse molto più indipendente del colonas romano: non era legato al fondo,aveva la responsabilità di prestare servizio militare e di comparire in tribunale, ealmeno al tempo di Rotari era ancora, in teoria, su un piano di legale parità conl'aristocrazia. I1 termine colonus quindi significava solo affittuario.

Nel 727 gli sviluppi futuri già si palesano in una legge di Liutprando che esordisce:

Se un libero, che vive da libellarius (titolare di documento d'affitto) su un terrenoaltrui, si rende responsabile di omicidio e fugge, il proprietario del fondo sul qualevive l'omicida ha un mese di tempo per trovarlo; (se non lo trova deve pagare metàdel valore dei beni mobili dell'omicida)26.

I liberi longobardi si stavano trasformando in locatari, e ciò non aveva solo effettieconomici; era anche una diminuzione del loro status. I contratti dell'VIII secolospesso contenevano clausole che stabilivano che i locatari erano legati alla terra e, conquesta legge, i loro padroni gia si assumevano notevoli responsabilità nei lororiguardi. I1 loro status cominciava ad avvicinarsi a quello dei concessionari non liberi. 25 Tjader, Papyri Italiens, n. 3; Gregorio, Epp., 1. 39a, 42; 2. 38. J.C. Percival, Seigneurial aspects ofLate Roman estate management, « English Historical Review », LXXXIV (1969), pp. 449-73, proponeuna suggestiva analisi di tutto il materiale riguardante il periodo iniziale.

26 Liutprando 92; cfr. Rotari 41-137 per la triplice divisione sociale.

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Questo declino della posizione di molti liberi fu, come si vedrà, uno degli aspetticruciali dello sviluppo della società italiana dall'VIII secolo in poi. Al di fuori delcontesto delle leggi longobarde, ancora una volta, è impossibile dire se questa gentefosse longobarda o romana e la questione non sembra rilevante. Le suddivisionisociali dei Longobardi si amalgamarono completamente con quelle romane.

Nell'VIII secolo, quindi, ritroviamo le caratteristiche che esistevano nel tardo impero,quantunque esse siano ora meglio documentate. Troviamo, in gran quantità libericoltivatori proprietari. Sopra di loro troviamo proprietari terrieri di diversedimensioni, dal coltivatore con qualche appezzamento dato in affitto a terzi, fino allatifondista. Anche i più grandi, come Gisolfo strator di Lodi con una tenuta adAlfiano (in provincia di Cremona) del valore di qualche cosa come 9.000 solidi, nonerano paragonabili alle principali famiglie senatoriali del tardo impero27. Sotto di loroc'erano affittuari liberi a vari livelli di dipendenza: alcuni che avevano terreni inproprietà e anche in affitto; alcuni con obbligo di prestazione d'opera, altri senza;alcuni (almeno dopo l'800) soggetti alla giustizia privata del loro padrone. A1 livelloancora inferiore c'erano coloni non liberi con obblighi (nella maggior parte dei casi)più pesanti, quantunque fissati da consuetudini. Alla base della società alcuni schiavi,intesi come beni (servi praebendarii) che lavoravano sul dominico del padrone o inincarichi domestici, sebbene il loro numero andasse diminuendo. Conduttori e schiaviformavano la grande maggioranza della società italiana del periodo in esame. Tuttaviasono relativamente poco menzionati e per lo più presentati dal punto di vista dei loropadroni, esito inevitabile ma sfortunato delle lacune nella documentazione altomedievale.

Con i secoli VIII e IX la divisione in due parti delle curtes era diventata comune nellamaggior parte dell'Italia del Nord e del Centro (come si è fatto notare non fu maicaratteristica del sud ove gli affittuari si limitavano a pagare canoni). Alcune di questecurtes, in particolare quelle monastiche, godevano di una notevole organizzazione. Lastruttura interna della coltivazione in affitto (con o senza apporto di lavoro manuale)era la base di tutte le relazioni socio-economiche in quella che si può chiamare società'feudale'. Queste strutture erano diventate dominanti nell'intera società, eccetto inqualche parte dell'Appennino, ove la signoria terriera non era ancora del tuttoinsediata, e nell'Italia bizantina ove il sistema fiscale dello stato bizantino fornivamodi alternativi di assorbire le eccedenze agricole con vantaggio dei ricchi. Tuttaviacome funzionasse in realtà il sistema si vede meglio attraverso alcuni esempi concreti.

Si può cogliere la vera complessità di questi schemi analizzando le differenze locali.

Per cominciare, si osservi il villaggio di Varsi nell'Appennino Parmense, non troppodistante dalla città (circa quaranta chilometri da Parma), ma posto in collina, inposizione sicura. E’al centro di una serie di documenti fra loro collegati della metàdell'VIII secolo, conservatisi in quanto sono tutti transazioni riferite alla chiesa diVarsi, S. Pietro, e ai suoi rettori. Nel 735 sette persone donarono o vendettero piccoliappezzamenti a S. Pietro in casale Cavalloniano. I1 terreno più grande era circa diduemila metri quadrati, il più piccolo settanta metri quadrati. Due anni dopo, uno diquesti sette, Munari Eglio di Gemmolo, con due suoi fratelli, vendette altri due campi

27 Schiaparelli, 137, 155, 226.

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nella stessa località alla Chiesa. In modo simile la Chiesa accumulò per sé terrenonella stessa Varsi. Nel 736 Ansoaldo e sua moglie Teotconda vendettero treappezzamenti di terra arabile vicini al lago di Varsi, confinanti coi terreni di altriquattro gruppi di persone. Nel 737 i due figli di Godilani vendettero quattroappezzamenti 'con alberi' lungo la strada che conduceva al lago, anch'essi confinanticol terreno di altre cinque persone, alcune delle quali legate da parentela. Esistonodocumenti simili che risalgono al 742, 758 e 774; ogni volta S. Pietro o laici del luogoricevevano o acquistavano piccoli appezzamenti. Nel 753 Ambrogio, figlio diMarioni, confermò con un documento la libertà di Domoaldo, precedentementeschiavo, che era stato ricevuto in S. Pietro. Nel 762, Ansoaldo, zio di Lopoaldo rettoredi S. Pietro, riconobbe di aver occupato illegalmente alcune terre di Lopoaldo, maLopoaldo, « considerata la liberalità che si deve ai congiunti », non gli fece pagare lamulta di venti solidi. Ansoaldo gli diede due tremisses, ed un appezzamento con vignein regalo28.

Varsi non era una società particolarmente ricca. L'entità delle sue transazioni, come sipuò vedere, era modesta. Molti degli uomini citati nei documenti erano exercitales,longobardi liberi, ma sembra che siano stati tutti contadini proprietari; neanchecasualmente sono citati gli affittuari Come testimoni si presentano uomini dei villaggilimitrofi, ma nessuno di zone cosl lontane come la pianura. Fra i testimoni compaionoun artigiano, un costruttore e un notaio e la maggior parte dei documenti sono scrittida un chierico locale, Maurace. Era una società stabile. Molti villaggi simili a Varsidivennero maggiormente dipendenti dalla Chiesa nello spazio di una generazione, piùo meno, ma S. Pietro di Varsi, sebbene aumentasse in modo consistente i propriterreni, non ottenne mai più di uno o due appezzamenti alla volta. Questi terreni eranoin alcuni casi confinanti, segno chiaro di un certo tipo di accumulazione, ma spessonon lo erano. Nessuna famiglia cedeva tutte le sue terre alla Chiesa; molte famiglieappaiono discontinuamente in questi testi; non vi è traccia di alcuna che sia andata inrovina.

Varsi era una società degli Appennini; in contrasto ad essa si vede Gnignano nellapianura longobarda, a metà strada fra Milano e Pavia. Qui abbiamo una serie didocumenti interessanti che si estendono dal 798 all'856, conservati nell'archivio di S.Ambrogio di Milano. Nei documenti più antichi del 798 e 824, Walperto di Gnignanoe suo figlio Leone di Siziano (un villaggio vicino) cedettero alcuni appezzamenti alloro amico (o creditore), l'orefice Arifus di Pavia. Nell'833 queste praprietà, passate aVigilinda, moglie di Arifus come dono di nozze, furono vendute per quaranta denariiad un importante ecclesiastico milanese, Guntzo, che le cedette ad un cittadino suoamico, l'aristocratico alemanno Hunger, figlio di Hunoarch. Entrambi, Guntzo eHunger, si davano da fare per procurarsi terreni a Gnignano. In un documentodel1'836 Hunger elencò le case coloniche di Gnignano che aveva acquistato dapersone diverse, ed una vasta proprietà che Paolo, un notaio di Pavia, gli avevavenduto l'anno prima per diciassette libbre di argento coniato. La maggior parte diquesti terreni era destinata, dopo la morte dei parenti diretti di Hunger, a diventareproprietà del monastero di S. Ambrogio. Nell'840 ciò era in gran parte già avvenuto,malgrado le proteste di un abitante del luogo, Rodeperto, forse un protetto di Hunger,che in quell'anno riconobbe i diritti del monastero sulla terra. Verso l'850 Guntzo 28 Schiaparelli, 52, 54, 59, 60, 64, 79, 109, 129, 159, 291.

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possedeva ancora terreni a Gnignano, ma nell'856, dopo la sua morte, il monastero diS. Ambrogio (per conto del quale Guntzo aveva agito in qualità di patrocinatore) neaveva anch'esso riunito una notevole quantità.

A quel punto il monastero di S. Ambrogio era indubbiamente diventato il principaleproprietario a Gnignano. I documenti antichi che non menzionano Guntzo e Hunger siriferiscono a terreni che S. Ambrogio ottenne da altre famiglie, come quelli cheRachinfrit di Gnignano e suo fratello affittarono ad un ecclesiastico nell'832, e quelliche Teutpaldo di Gnignano, che non aveva figli, vendette nell'839. La terra di S.Ambrogio per la prima volta è documentata confinante con terreni di altri proprietarinell'832; in precedenza i confini portavano i nomi di piccoli proprietari terrieri laicicitati nei contratti precedenti. Verso 1'850, invece, sembra che la terra di S. Ambrogiosia stata onnipresente nel centro abitato, assieme alle terre di altre due chiese, S.Vittore in Meda e S. Stefano in Decimo. L'unico proprietario laico che ancorarimaneva nell'850 e del quale si abbia notizia era un certo Bavo, figlio di Rotari,affittuario di S. Vittore nell'856, ma anche proprietario terriero indipendente (con suoipropri affittuari) menzionato in tre atti dell'851-ó, forse l'ultimo che sia vissuto aGnignano29.

Le caratteristiche sociali di Gnignano ovviamente stavano mutando velocemente inquesto mezzo secolo tanto quanto quelle di Varsi erano state fisse. I possessi dellequattro o cinque famiglie proprietarie locali note erano dapprima mescolati con leterre di artigiani cittadini di Pavia, e nell'arco di una generazione, attraverso i buonioffici di due importanti aristocratici milanesi, queste quattro o cinque famiglie localisi ridussero ad una; il resto andò alle chiese. Ciò può non essere tipico di altri paesiattorno a Milano, in quanto la mole di documenti di Gnignano è insolita, e S.Ambrogio potrebbe non aver ottenuto altrettanti successi in paesi privi didocumentazione archivistica. Chiaramente, però, all'inizio del IX secolo, c'era latendenza alla costituzione di una notevole proprietà fondiaria ecclesiastica. Altrochiaro elemento di contrasto con Varsi è l'esistenza di affittuari. Non è chiara l'entità el'importanza sociale dei proprietari terrieri di Gnignano, sebbene, almeno alcuni,fossero collegati ad artigiani importanti. Bavo, l'ultimo che sopravvisse, appare in unruolo decisamente minore come conduttore-coltivatore di alcune sue terre. Ma questiproprietari locali, persino Bavo, avevano i propri conduttori, sia affittuari liberi cheavevano in affitto singoli terreni, sia (forse) conduttori servi nelle case coloniche(casae massariciae). Probabilmente la maggior parte della popolazione del villaggio fusempre formata da conduttori, frammisti a proprietari locali. Alcuni di lorodipendevano da questi proprietari, ed altri, in numero sempre crescente, da chieseesterne. E’ quindi realistico dire che dall'inizio del IX secolo in Gnignano i conduttori,invece di pagare canoni localmente, dovevano corrisponderli a proprietari esterni,quanto dire che i proprietari terrieri locali perdevano le loro terre a favore dellaChiesa.

Nel caso di Gnignano sono invece assenti i contratti di fitto fatti dai conduttori; dellaLombardia ne sono rimasti ben pochi di questo periodo. E’ soprattutto dai polittici chesi può vedere il tipo di canone che i conduttori pagavano in questa parte d'Italia. Ad 29 Porro, 66, 105, 114, 117, 120, 127, 128, 133, 135, 137, 172, 191, 197, 199. 137

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esempio cito di segruto parte di qucllo di Bobbio dell'862-883, canone della tenutaposta a Travo, trenta chilometri a sud-ovest di Piacenza.

(In dominico) 60 media di cereali possono essere seminati ogni anno, 18 anforas divino possono essere raccolte in una buona annata, ed 11 carri di fieno. C'è un boscoper 40 porci, ed un mulino... Ci sono 11 1ibellarii (conduttori per contratto) e 19massarii (affittuari per consuetudine); danno un terzo del loro grano, per un totale di223 modia, un terzo del loro vino (80 anforas), 7 solidi, 74 galline e uova. I libellariifanno 24 giornate lavorative obbligatorie all'anno; i massarii tutte quelle che vengonoloro ordinate.

Non si sa di alcun abitante di Travo che non fosse conduttore di terreni di Bobbio, eforse il paese era più omogeneo di Gnignano, ma non tutti i conduttori vivevano aTravo, poiché nell'835 i possedimenti venivano descritti come ‘Travo e i suoi territoridipendenti'. Le case coloniche erano probabilmente sparse attorno ai villaggi vicini. Icanoni sono certamente abbastanza tipici per fornire indicazioni di ciò che eranormale in Lombardia. Questi tre esempi mostranc la gamma di testimonianze che gliatti ci possono dare, ed evidenziano i contrasti che si possono trovare in zone diverse,ma anche nella stessa zona, in Italia. Comunque c'è una uniformità importante, ed ènorma quasi ovunque in Italia: la frammentazione della proprietà. Sia a Varsi che aGnignano, la proprietà era sparsa in vaste zone. Anche a Travo, un territorioapparentemente coerente, i conduttori abitavano anche in altri paesi. Per lo più iproprietari terrieri non avevano tenute poste in un unico lotto di terreno, checostituisse un unico villaggio o anche parte di esso. Invece tendevano ad avere, nelmigliore dei casi, il centro dei loro possedimenti in un villaggio, e le case deiconduttori sparpagliate in vari altri villaggi. I conduttori stessi, come i coltivatoridiretti di Varsi, avevano poderi- formati da diversi appezzamenti sparsi in uno stessovillaggio, o spesso in più d'uno, e molti di quest; campi solevano essere molto piccoli.Teuprando e sua moglie Gumpranda fondarono una chiesa urbana a Lucca nel 764 ele lasciarono una serie di proprietà che avrebbero dovuto essere una base fondiariasufficiente al suo mantenimento. Queste proprietà erano formate da una casa colonicacon terre annesse a Sesto, dieci chilometri a nord di Lucca, un'altra sulla costa, ventichilometri a nord-ovest, un'altra a circa settanta chilometri più in giù lungo la costacon un quarto delle terre (ci si domanda se i tre fratelli di Teuprando abbianoconservato il resto), un quarto di un'azienda a circa cinque chilometri a nord-ovest diLucca, un quarto di un bosco di ulivi sulle colline vicino a Sesto, ed altri tre campisparsi nelle pianure a nord e ad est della città. E’ una proprietà di questo tipo che icampi apparentemente sparsi di Varsi e Gnignano suggeriscono; e questadistribuzione casuale è il prodotto di molte generazioni di spartizioni ereditarie30.

La frammentazione ebbe molte conseguenze, la più ovvia che i contadini dovevanospostarsi maggiormente per coltivare i loro terreni. La terra veniva spartitascrupolosamente fra eredi dello stesso asse, fino al più piccolo campo. Ciò aveva delleimplicazioni sulla cooperazione economica all'interno della famiglia, come si vedrà.L'indebolirsi del controllo sugli affittuari se vivevano in case isolate a distanza diparecchi chilometri è un elemento che si ripresenta. La conseguenza che qui voglioevidenziare è la grande difficoltà insita in qualsiasi pianificazione economica. I

30 Per Travo: Inventari, pp. 136, 157-8, Codice diplomatico di S. Colombano di Bobbio, a cura di C.Cipolla (Roma 1918), n. 36. Per Teuprando: Schiapareli, 178.

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proprietari terrieri secolari non potevano tener unite le loro aziende per più di duegenerazioni al massimo, dato che ogni azienda era divisibile. Chiese e monasterividero aumentare le proprie tenute come prodotto di donazioni estemporanee e divendite, e anche a Gnignano, ove il monastero di S. Ambrogio raggiunse una certasupremazia, le sue terre erano frammiste ad altre di altri proprietari. I1consolidamento fu vana speranza, eccetto che nei casi poco frequenti in cui una chiesaera venuta in possesso della quasi totalità di una zona. I proprietari, per la maggiorparte, non potevano controllare ciò che i loro conduttori coltivavano sui lotti diterreno, in quanto non sempre questi lotti erano facilmente separabili dalle terre dialtre proprietà. E in una società eome quella di Gnignano, ove i singoli campi econduttori venivano trasferiti da un proprietario all'altro come merci, la rigidastruttura dell'azienda bipartita deve essere stata molto diflicile da conservare. Né fusempre facile reperire mano d'opera da conduttori che vivevano a distanze dell'ordinedi venti chilometri dal centro del fondo. il possibile che un piccolo proprietarioterriero con solo alcuni conduttori abbia coltivato il suo dominico da sé (o conschiavi), oppure si sia basato unicamente sui canoni, affittando il dominico in lotti.

Travo, in paragone, era chiaramente molto più organizzato; e invero sembra chel'eccezione ad un sistema cosl frammentato fosse la società dei polittici di Bobbio e S.Giulia, e di altri monasteri i cui polittici si conservarono solo in parte, o sparirono deltutto31, Qui, almeno, abbiamo notizie sistematiche del volume dei canoni, dei servizidi lavoro pesante, ed anche di raccolti destinati alla vendita; per non parlare dellavendita sistematica delle eccedenze. Bobbio da cinquantasei tenute ricavava 5679modia (forse 9.600 stai) di cereali, 1.640 anfore di vino, 2.886 libbre di olio, 1.590carri di fieno, 5.500 maiali ed una varietà di prodotti diversi come ferro, nocciole,pollame e canoni in denaro. Questi sono redditi di un certo livello, prodotti di tenuteorganizzate come Travo, con una curtis, centro della tenuta (in linguaggio monasticocella), punto focale del dominico nel quale i conduttori prestavano la loro opera, chevariava da parecchi giorni alla settimana ad alcune settimane all'anno. Gli uniciesempi reperibili di interi villaggi sotto un unico signore provengono da tali proprietàmonastiche (e più raramente episcopali). Questi paesi erano quasi certamente, per lamaggior parte, terre fiscali date alla Chiesa dal re, talvolta in zone boscose osottopopolate, che i monasteri del IX secolo cominciavano a dissodare. Tuttaviasarebbe eccessivo pretendere che questi monasteri avessero una visione d'insiemedell'organizzazione delle loro proprietà. I canoni di Bobbio variavano da paese apaese per tipo ed entità; e cosl le prestazioni d'opera. Esso aveva due tipi diversi diconduttori, libellarii e massarii, ognuno con obblighi diversi pur all'interno dellostesso fondo o villaggio. I tipi di canone, sebbene fossero un ammontare enorme perogni tipo di prodotto, sono chiaramente in ogni caso quelli tipici dell'agricoltura dellasussistenza della zona di provenienza. Anche i grandi monasteri si trovavano di frontead un compito quasi impossibile se volevano sistematizzare le loro proprietà, a menoche non avessero organizzato essi stessi il dissodamento della terra, situazione chetende sempre a produrre maggiore uniformità. E i grandi monasteri erano pochi. Lamaggior parte dei terreni era proprietà di istituzioni ben più piccole, o di nobili laici,che in genere avevano una proprietà terriera estremamente frammentata. Ne segue cheè più utile analizzare le strutture economiche di base della società come costituite nonda aziende, ma da unità di coltivazione contadina, case coloniche o casae massariciae,

31 Cfr. Hartmann (B5-b), pp. 42-73; G. Luzzatto, I servi delle grandi proprietà ecelesiastiche (B5-c),particolarmente pp. 47ss., 70-4.

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e da piccole proprietà di proprietari terrieri contadini. I canoni e gli obblighi deiconduttori, quantunque, fossero spesso pesanti, erano ben più estranei alla vita delconduttore di quanto non fossero in altre zone dell'Europa del Nord, ove interecollettività contadine avevano obblighi nei riguardi di un solo proprietario. In Italia, ilcentro amministrativo di un fondo poteva distare chilometri dai casali periferici.Anche se esisteva un diritto di esigere prestazioni d'opera all'interno del paese, spessoil diritto si riferiva a terreni tanto frazionati quanto quelli del conduttore stesso, espesso tali conduttori erano gli unici nel paese ad essere dipendenti dai loro padroniterrieri. La maggior parte dei paesi, come Gnignano all'inizio della serie dei suoi atti,era un miscuglio di proprietari contadini, piccoli proprietari fondiari, ed affittuari ditutta una serie di signori. Il paese stesso, e ancor più la famiglia erano punti focali benpiù importanti della maggior parte delle aziende. Di rado i proprietari terrieririuscivano ad influire sui processi di produzione; i canoni erano in genere fissati pertradizione, e rari i raccolti commerciali. Con alcune importanti eccezioni, quali adesempio l'organizzazione del dissodamento, l'agricoltura era attività dei soli contadini.

I1 periodo dalla fine dell'VIII alla fine del X secolo vide due processi contraddittori:l'indebolimento della posizione sociale e politica dei contadini liberi e l'indebolimentodelle strutture economiche delle aziende, e quindi della base economica della classedei proprietari terrieri. A conclusione del capitolo questi due fatti verranno esaminatiseparatamente.

Si è visto che i re dei secoli VIII o IX erano propensi a promulgare leggi control'oppressione dei poveri. Lo stato era occupato principalmente a conservare laposizione pubblica del libero, il suo accesso alla giustizia e (in particolare) il suoservizio nell'esercito. Questi diritti stavano già indebolendosi per i conduttori liberiche diventavano sempre più legati ai loro signori. Si è visto l'inizio di questo svilupponella legge di Liutprando sui libellarii. Nell'813 un capitolare diede ai proprietariterrieri la responsabilità di fare in modo che i loro dipendenti prestassero servizio allostato, schiavi, aldii, e libellarii, « che fossero sempre stati o fossero da poco diventaticonduttori », tutti allo stesso modo. Non tutti i libellarii erano ex-proprietari; la parolasignificava soltanto « conduttore, colui che ha diritto per contratto scritto », ed è solodopo 1'800 che diventa comune. Nell'Italia alto-medievale c’erano sempre staticonduttori liberi, ma solo col nono secolo diventò normale la conferma dei lorocontratti con i proprietari terrieri per mezzo di accordi scritti. I1 termine tradizionaledi conduttore nell'Italia longobarda, libero o no che fosse, era massarius, e questovocabolo continuò ad essere usato per tutto il periodo in esame (e dopo il 774,assieme al termine franco manens). I libellarii dovevano essere liberi, in quanto chinon era libero non poteva fare contratti; talvolta, come a Bobbio, erano contrapposti aimassarii debitori di maggior lavoro servile e, in qualche fondo, di canoni inferiori. Inaltre zone non si può distinguere fra i due: i massarii spesso appaiono come autori deicontratti, e i libellarii spesso dovevano canoni e obblighi pesanti pari ai massarii. I1contratto scritto dava forse ai conduttori garanzia maggiore dei diritti perconsuetudine, ma non necessariamente dava loro uno status superiore32,

Ma se non tutti i libellarii erano per nascita liberi, molti lo erano certamente. Anche ipolittici che in generale non si occupano dell'origine dei conduttori, fanno riferimenticasuali ad essi; cosi a Porzano a sud di Brescia, nelle tenute di S. Giulia, quattordici 32 MGH Capitularia, I, 93 c. 5 (813); P.S. Leicht, Livellario nomine (B5-c).

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uomini liberi avevano ceduto le loro proprietà alla curtis per riaverle in cambio di unagiornata lavorativa alla settimana. Anche i contratti, talvolta, lo dicono espressamente.Nel 765 nel territorio di Chiusi, Bonulus vendette tutte le sue proprietà a Guntefrido;le riprese in aílitto in cambio di dodici giornate lavorative all'anno in qualità diconduttore vincolato. I contratti del monastero toscano medievale di Monte Amiataerano quasi tutti di questo tipo, dall'804 in poi. Perché i proprietari liberi abbianoagito così non è mai chiaro; talvolta, certamente, a causa di dissesti economici,quando il cibo e la protezione di un signore sembrava valere la cessione delle loroterre; spesso, certamente, come risultato della violenza o della coercizione del signorein questione: Monte Amiata era di gran lunga il proprietario più potente nel raggio dimolte miglia di campagna intorno33.

La Chiesa ottenne anche terreni per motivi meno direttamente economici, per mezzodi pii lasciti. Re ed aristocratici fondavano chiese e monasteri, o donavano terreni aquelli già esistenti, per carità e col desiderio di salire in prestigio. Anche i meno ricchie perfino i poveri facevano elargizioni. Non è facile distinguere i motivi: carità,prestigio, disperazione, coercizione, ma si può tentarlo quando, come è comune, idonatori davano alla Chiesa una parte del loro terreno equivalente, sembra, alla quotache sarebbe spettata ad un ulteriore figlio. Quando i donatori davano tutta la loro terraspesso si può vedere dal testo che non avevano discendenti diretti, come nel caso diGuinifredo da Pistoia e dei suoi figli che, nel 767, lasciarono tutti i loro averi allaChiesa che avevano fondato « non avendo figli o figlie o parenti cui si possa lasciarela nostra proprietà o i nostri diritti ». Talora sbagliarono, come Goderisio di Rieti, chefu citato in tribunale nel 791 per aver occupato i terreni dei monaci di Farfa che eglistesso aveva loro donato. Egli spiegò: « E’ vero che ho donato questa proprietà almonastero, ma dopo ebbi figli ed ora né io né i miei figli possiamo vivere, l'indigenzami opprime ». L'VIII secolo fu l'epoca d'oro di queste donazioni, apparentementeautorizzate dalla legge di Liutprando che legalizzava le donazioni alla Chiesa nel71334. Dopo i primi decenni del IX secolo (in modo diverso da luogo a luogo) essediventarono molto meno comuni. Le ragioni non sono chiare, e alcuni storiciconcludono che ciò avvenne in quanto non c'erano più proprietari terrieri piccoli omedi; erano diven. tati tutti conduttori. Si tratta di una visione un po' pessimistica, inquanto gli autori delle donazioni più cospicue erano privi di prole, ed è difficilevedere come i loro eredi sarebbero diventati dei libellarii; è invece più probabile chele chiese d'Italia siano diventate così ricche, sommerse da queste donazioni, da nonvenire più considerate oggetto di lasciti. L'obbligo della corresponsione delle decimealla Chiesa, istituito da Carlomagno, può anche aver diminuito la popolarità dellaChiesa fra i poveri. Solo in alcune zone piuttosto remote, come Monte Amiata e neidintorni di Farfa, le donazioni continuarono. Qui, come è stato detto, si può pensaread una coercizione, e col 900 i due monasteri erano praticamente gli unici proprietarinelle vaste zone di campagna che li circondava.

La Chiesa accrebbe le sue proprietà come conseguenza fortuita di pie donazioni etramite deliberate espansioni; dal IX secolo poteva anche avválersi del diritto delledecime per indebolire l'indipendenza contadina. Anche gli aristocratici laici 33 Inventari, p. 63 per Porzano; Schiaparelli, 192; W. Kurze, Codex Diplomaticus Amiatinus (Tubinga,1974) e la recensione di B. Andreolli, R.S.A. XVII(1977), pp. 139-40.34 Schiaparelli, 206; Manaresi, 8; Liutprando 6.

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estorcevano la terra ai più deboli o la accettavano da coloro che soffrivano la fame, incambio di protezione. I piccoli proprietari divennero sempre più dipendenti dai lorovicini benestanti per tutto il IX secolo, e ancor più nel X, quando i signori siarrogarono alcune prerogative dello stato. Tuttavia non tutti vennero assorbiti senzacolpo ferire come accadde con i contadini dell'Amiata; alcuni si difesero, alcuni anchepassarono all'attacco. Infatti la resistenza contadina è vecchia quanto l'editto di Rotari,ove la cospirazione e la sedizione di 'gente rustica' e di schiavi è punita con condannepesanti35. Nel periodo carolingio, tuttavia, sono documentati una serie di casigiudiziari nei quali i contadini affermano i loro diritti, in genere senza successo.

Questi casi furono molto vari. A Milano nel 900, undici uomini di Cusago (diecichilometri ad ovest della città) reclamano di essere arimanni liberi, e non aldii, anchese prestavano opere per la curtis di Palazzolo, proprietà del conte di Milano; infattiavevano piccole proprietà a Bestazzo oltre a quelle per le quali prestavano lavoromanuale obbligatorio. I1 legale del conte chiamò tredici « uomini nobili e timorati diDio » per dimostrare che gli uomini di Cusago erano aldii, ma tutti giurarono che gliuomini di Cusago avevano ragione. Questo caso mostra chiaramente quantovuluerabili fossero i piccoli proprietari di fronte alle pretese dei loro vicini infiuenti edei signori terrieri; questo è uno dei pochissimi casi in cui vinsero. Nell'845, ilmonastero veronese di S. Maria in Organo portò in tribunale i suoi presunti schiavinella contea di Trento, che rifiutavano di pagare il canone e di lavorare, edaffermavano di essere liberi. Quando Lupus Suplaiopunio ed altri sette dissero diessere proprietari liberi secondo la legge e che prestavano opera tramite un accordo dicommendazione (protezione), S. Maria concesse loro la libertà ma con successo siappropriò della loro terra in base al fatto che i loro servizi venivano prestati per laterra stessa. In questo caso S. Maria aveva rinunciato ad ottenere lavoro manuale incambio di protezione, avvenimento assolutamente inconsueto, per ottenere laproprietà dei terreni dei suoi protetti, e per affermare (senza successo) che essi eranosuoi schiavi. A Pavia nell'880, due uomini di Oulx nelle Alpi piemontesi tentarono diriaprire un processo precedentemente abbandonato, che riguardava la loro libertàpersonale, affermando di « essere stati sottomessi con la forza », e non è dasorprendersi che anch'essi persero. Porse gli uomini di Oulx erano già affittuari delmonastero di Novalesa, e stavano tentando di porre un confine fra conduzione libera eservile, confine importante per quei conduttori che desideravano evitare imposizioni epunizioni arbitrarie. Ci sono parecchi casi giudiziari simili riguardanti Milano e Pisa36.Questi rappresentano, ovviamente, un diverso livello di resistenza rispetto a quello deiproprietari liberi di Cusago, o anche di Trento, ma i due gruppi hanno somiglianzeevidenti. È interessante che molti di questi casi provengano da zone montane, eparecchi vengano da zone ove i monasteri avevano di recente ottenuto terre da altriproprietari, specialmente dal fisco, e in un momento in cui pare tentassero di porre leloro terre in modo più deciso sotto un controllo centrale.

Quest'ultimo punto è chiarissimo nel caso della gente della Valle Trita, una zonamolto remota dell'Appennino abruzzese, dove alcuni valligiani furono rivendicaticome schiavi dal monasteto di S. Vincenzo al Volturno dopo la cessione ad esso diterreni fiscali da parte del re Desiderio. Gli uomini ribadirono il loro status, 35 Rotari 279-8036 Manaresi, 110, 112 (per cusago), 49 (per Trento), 89 (per Oulx), 9, 34; cfr. ariche i dati forniti da B.Andreolli, Contratti agrari e patti colonici nella Lucchesia (B5-c), pp. 12s-7. Per Limonea, cfr. n. 38.

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affermando che le terre erano di loro proprietà, in cinque cause fra il 779 e 1'872;talvolta fu necessaria tutta la forza dello stato carolingio per farli comparire alprocesso37. Non si può affermare che il monastero abbia sempre vinto; le decisioni deltribunale venivano chiaramente disattese in modo sistematico e la fine della serie didispute coincide con un secolo di debolezza del controllo su tutte le proprietà delmonastero. Qui, poi fallì un tentativo da parte del monastero di S. Vincenzo disottomettere contatini di zone remote, che erano debitori al re di una dipendenza forsesolo molto formale, alla struttura fondiaria della proprietà terriera monastica. NelNord questi monasteri ebbero maggior súccesso: S. Maria in Organo a Trento; S.Ambrogio nelle vertenze in Valtellina e a Limonta sul lago di Como; Novalesa in Valdi Susa. Queste cause sono parallele a quella di Cusago in quanto mostranoopposizioni precostituite all'aumentO del potere dei latifondisti e della organizzazionedel fondo. Può darsi che riguardino per lo più casi di zone montane in quanto icontadini di zone marginali hanno relazioni economiche più strette e quindi sono ingrado di opporre maggior resistenza. Ma persero, eccetto il caso di Cusago e forsequello di Valle Trita: i monasteri aumentarono i loro terreni, i proprietari liberidivennero conduttori, i conduttori liberi persero la libertà. E nel x secolo, anche iproprietari liberi ancora esistenti spesso divennero soggetti alla giurisdizione dei lorovicini ricchi, come si vedrà.

Mentre questi processi un po' alla volta diminuivano i diritti dei liberi, la strutturainterna delle grandi aziende in espansione stava anch'essa mutando. Come altrove inEuropa, alla posizione dell'uomo libero che andava indebolendosi corrispondeva unmiglioramento della posizione dei servi. Nelle cause di Limonta dell'882-957, glischiavi pretesero dal monastero di S. Ambrogio la libertà, o almeno lo status di aldii,come gli uomini di Oulx avevano già richiesto. Concesso lo status, si lamentarono cheil monastero di S. Ambrogio aveva aumentato i doveri fissati dalle consuetudini,aggiungendo, in particolare, l'obbligo di raccogliere e frangere le olive. I1 monasterodi S. Ambrogio, significativamente, non affermò di avere il diritto di aumentare glioneri che gli dovevano gli schiavi; portò invece come testimoni i notabili locali perdimostrare che gli obblighi erano sempre esistiti. Le consuetudini, almeno in teoria,erano fisse, anche per gli schiavi. La schiavitù stessa stava sparendo. La fusione diliberi e schiavi nella vasta gamma della classe dei conduttori portò alla fine ad unprevalere di uomini liberi, diversamente che in altre zone d'Europa, ove i conduttoripersero la loro libertà. Molti dei contratti del IX secolo sembra siano fatti conconduttori schiavi che erano stati liberati. Le manomissioni diventarono più frequenti;sempre più spesso gli schiavi comperarono la loro libertà. Alla fine degli anni 990,Ottone III tentò di limitare questi cambiamenti con un capitolare speciale « suglischiavi che agognano la libertà », ma ciò ha certo esercitato scarsa influenza.Dall'inizio dell'XI secolo la schiavitù divenne sempre meno comune38.

I1 motivo per il quale i conduttori come classe divennero liberi, e non restaronoschiavi, era senza dubbio dovuto al fatto che i proprietari terrieri cominciarono adaffittare le loro proprietà senza richiedere lavoro manuale; sparirono i legami 37 In Manaresi, ma con maggiore completezza in « Chronicon Valturnense », a cura di v. Federici(Rorna, 1925-38), n. 23, 24, 25, 26, 55, 71, 72.

38 Per Limonta: Porro, 314, 417, 427 (Manaresi, 117, 122), 625; cfr. A. Casta gnetti, Dominico emassaricio a Limonta (B5-c); per il contesto europeo: RH. Hilton, Bondmen Made Free (Londra,1973), pp. 66ss. Per Ottone MGH Constitutiones, I, n. 21.

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personali diretti che rafforzavano la posizione di servitù. Lo sviluppo è già visibile inToscana alla fine del IX secolo, e anche in alcune tenute di Bobbio e S. Giulia. Col Xsecolo, la corvée servile fu ovunque rara. Nelle grandi tenute monastiche esso potevacontinuare, causa la volontà dei monasteri che volevano impie gare concessionari peril dissodamento. Altrove, era la conclusione lo gica dell'incoerenzadell'organizzazione di territori molto frammentari proprietà di laici e di vescovi.Quando i modelli esistenti venivano tra sformati incessantemente dalle divisioniereditarie fra l'aristocrazia laica: e dalle donazioni casuali che ancora venivano fattealle chiese, e co gli inizi di cessioni di fondi della Chiesa su vasta scala a piccolinobili i legami necessari per il lavoro dei domini signorili non poterono più esseremantenuti. Le aziende divennero ora gruppi di case di conduttori, e nulla di più. Icontratti con conduttori liberi per la durata di una vita, tre generazioni, o perpetui,comuni nell'VIII secolo, divennero meno frequenti, e sempre più vennero stipulati perperiodi fissi in particolare per ventinove anni. Ciò anche evidenziava e aiutava l'indipendenza sempre maggiore dei conduttori. E sempre più i proprietari terrierivolevano canoni in denaro. Nell'VIII secolo già molti canoni erano in denaro, assiemea canoni in natura (cereali, vino, olio, uova, animali) e lavoro—quantunque i canoniin denaro, che rappresentavano uno status superiore per i conduttori, venisserorichiesti meno frequentemente assieme alle prestazioni d'opera. Nel IX secolo, eancora più nel X, i canoni erano sempre più in denaro, spesso assieme a un canoneparziario in vino e olio, ma quasi mai in altre merci39.

I canoni in denaro, ovviamente, erano generati da necessità specifiche dei proprietariterrieri, dato che il commercio con zone lontane diventava sempre più comune, maindicano anche altri due fatti: l'abilità dei contadini che vivevano dei prodotti dellaterra di ottenere denaro in cambio delle eccedenze, e l'esclusione totale dei proprietariterrieri da qualsiasi controllo su ciò che veniva fatto sulle campagne. I1 contadino,fino a che riusciva ad ottenere tre, o otto, o dodici denari all'anno, li Lero o no chefosse, poteva da allora sfruttare la sua terra senza chieder nulla al padrone. Con la finedel X secolo, c'è qualche testimonianza per cui egli poteva vendere terreni già affittatiad altri conduttori. A questo punto, il 'sistema curtense' era evidentemente spezzato.Anche se i coltivatori liberi erano ancora costretti e assorbiti in grandi aziende, questeriguardo al territorio erano diventate soltanto organizzazioni sparse ad ombrello per lariscossione dei canoni. Sembra che alla fine del X secolo nell'Italia centrale esettentrionale i proprietari terrieri avessero perso il controllo economico reale sullacampagna, a livello del suolo.

L'attività dei contadini nello scambio delle eccedenze è difficile da documentare, main qualche modo deve essere esistita a lungo. Si è visto che l'unità economicafondamentale in Italia era la piccola proprietà. Ogni famiglia contadina coltivava, perquanto poteva, un'ampia gamma di prodotti base nell'ambito di quanto riusciva a fareda sola. Ma geograficamente l'Italia non è omogenea e raccolti diversi megliocrescevano in zone diverse, in particolare le vigne in collina e i cereali in pianura.Malgrado l'esistenza di una agricoltura promiscua si possono già notare questedifferenze nel periodo alto medievale. Gli squilibri dovevano essere compensati conlo scambio. Alcuni prodotti dell'artigianato, come la ceramica e il cuoio, venivano 39 Violante (B3-f), pp. 76ss., 91ss.; Andreolli, art. cit.; G. Rossetti, Società e istituzioniPisa, Volterra, Populonia, 5° Congresso cit., pp. 259-72, P.J. Jones in Italian Estate(A5-c) G. Cherubini, Qualche considerazione... (B5-c), pp. 55-63.

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quasi certamente acquistati, sebbene se ne abbiano scarse prove; cosi, avveniva,naturalmente, anche per il sale. E’ per questi motivi che i proprietari terrieri trovanoconveniente nel x secolo farsi pagare diritti per piccoli mercati locali, che ilcommercio di lusso difficilmente avrebbe raggiunto. Non sempre si usava denaro inqueste operazioni. I Longobardi per la maggior parte coniarono un solo tipo di monetad'oro, il tremissis (la terza parte del solidus) che certamente valeva troppo rispetto alvalore delle merci oggetto della maggior parte degli scambi locali. Alla fine dell'VIIIsecolo, i Carolingi lo sostituiscono col denarius d'argento (un dodicesimo del solidus)in teoria più adeguato a scambi su piccola scala (in Lucchesia nel IX secolo sembrache un maiale valesse dodici denarii, e un montone sei denarii; in Francia nel 794, seil paragone è utile, il prezzo del pane era fissato ad un denarius per dodici pagnotte difrumento da due libbre, o quindici di segale, venti di orzo, o venticinque di avena).Anche così, un'unica moneta di tale taglio è troppo scomoda per le transazioni indenaro corrente, quali possiamo figurarceli. Le transazioni economiche devono essersisvolte facendo riferimento al denaro piuttosto che servendosene come mezzo discambio. In una società tradizionale ove le relazioni sociali ed economiche sonomolto strette, all'interno delle quali gli scam bi avvengono fra persone che siconoscono, ciò non è difficile come sembra40. I1 denaro era facilmente accessibile allepopolazioni italiche di tutti i livelli sociali; non era però poi tanto utile. Forse icontadini consideravano le monete merce ottenuta vendendo prodotti cheprobabilmente sarebbero finiti sui mercati cittadini; le monete sarebbero poi stateusate per pagare i canoni. D'altro canto i proprietari terrieri, operando sui mercaticittadini su scala ben più ampia, senza dubbio si sarebbero serviti del denaro in modopiù chiaramente 'commerciale'.

Tutto ciò è assolutamente teorico. Ma si può riconoscere come la societàconsuetudinaria basata su rapporti economici tradizionali, all'interno della quale erainserito lo scambio locale, esercitasse il suo controllo sui valori. Si è visto che i revolevano mantenere 'prezzi equi'. In alcuni casi erano anche pronti ad intervenire edeliminare vendite 'inique', come dopo la carestia italiana del 776. I valori potevanodiventar molto stabili, con considerevoli divari da regione a regione. Lo si vide, adesempio, nell'813, nell'imbarazzo dei periti che stavano trattando uno scambio diterreni fra i monasteri di Nonantola e S. Salvatore di Brescia; il costume di Brescia eradi valutare la terra meno di otto denarii per iugum, ma quella di Nonantola la valutavaalmeno tre solidi per iugum. Si dovette chiamare Adalardo di Corbie per raggiungereun compromesso. Nessuno pensò che le forze di mercato potessero venir usate, o cheesistessero quanto meno forze di mercato riguardo alla valutazione della terra,malgrado le vendite dei terreni fossero frequenti41. In Italia lo scambio erastrettamente connesso al contesto sociale nel quale avveniva. Simili legami socio-economici fra contadini a livello di scambi, sono anch'essi un altro elemento dellaseparazione fra proprieri terrieri e società contadina.

40 Per i prezzi: Andreolli, art. cit., p. 118, MGH Capitularia, I, 28 c. 4. Cfr. K. Polanyi, Primitive,archaic and modern economics (New York, 1968), pp. 175203; M. Godelier, Rationality andirrationality in economics (Londra, 1972), pp. 252-303; W.A. Christian, Person and God in a SpanishValley (Londra, 1972), Pp. 168-171; P. Grierson, Problemi monetari nell'alto medioevo, «Boll. dellasocieta pavese di stor. pat. », LIV (1954), pp. 67-82.41 MGH Capitularia, T, 88; Porro, 88.

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Questa separazione raggiunse il massimo attorno al 1000, quando le prestazionid'opera erano in pratica sparite, lasciando per lo più una classe di conduttori chedovevano quasi ovunque canoni solo in denaro, e a volte in natura. L'azienda bipartitaera pressoché scomparsa. I grandi proprietari terrieri non erano capaci di stabilizzare edi concentrare, e ancor meno di razionalizzare, le loro proprietà. Infatti con la crescitadi una nuova classe di piccoli nobili basata sull'affitto di vasti terreni, spesso ad uncanone nominale, i proprietari maggiori (specie le chiese) avevano meno controllo diprima sulle proprie terre. Nella campagna iniziò la violenza, non appena i più piccolifra questi signori tentarono d'imporre i loro poteri sui contadini. I contadini, come isignori, talora furono capaci di utilizzare diritti giurisdizionali secondari e di usarenuove unità territoriali fortificate dei secoli X e XI, i castelli, per rafforzare il propriopotere e fondare dei 'comuni rurali' a fianco di quelli urbani. Ma di nuovo andiamooltre ciò che ci eravamo prefissati; questi sono sviluppi che sarebbero potuti avveniresolo alla caduta dello stato, come si vedrà nel capitolo settimo. Solo a metà dell'XIsecolo, nel contesto del movimento di riforma, le chiese sarebbero riuscite a ristabilireil controllo sulle proprietà rurali, e col sorgere dei comuni urbani esse ed altriproprietari cittadini cominciarono a farsi strada si stematicamente nella campagna,agendo da mediatori fra i contadini e il mercato cittadino, e servendosi di quelleposizioni per riguadagnare il controllo sui contadini. Dai secoli XII e XIII i contadinipagarono nuovamente i canoni in natura, cosicché il guadagno derivantedall'espansione dei mercati urbani andava ai proprietari terrieri. Le città non avevanobisogno di relazioni commerciali con la campagna; solo di cibo. Lo sviluppo deiprogressi commerciali dei secoli XII e XIII, infatti, significherà il capovolgimentoanche della più modesta penetrazione degli scambi commerciali nella società rurale42.

42 Cfr. C. Violante, Stadi sulla cristianità medioevale (Milano, 1975), pp. 328-39; L.A.Kotel'nikova, Mondo contadino e civiltà in Italia (Bologna, 1975), pp. l9ss.