interesse sociale e finanziatori insider
TRANSCRIPT
I
INTERESSE SOCIALE E FINANZIATORI INSIDER L’esperienza statunitense sui conflitti e le prospettive del diritto italiano Indice Abstract……………………………………………………………………...p. 1
Capitolo I
Linee evolutive del dibattito statunitense e italiano sull’interesse sociale
1. La convergenza di istituzionalismo e contrattualismo quale criterio di indagine dell’interesse sociale………………………………………………p. 7 2. Determinanti economiche e ideologiche, divergenze e convergenze nel dibattito statunitense e italiano sull’interesse sociale……………………….p. 8
Capitolo II Strumenti finanziari partecipativi e interesse sociale
Sezione I 1. La complessità della struttura finanziaria quale nuova variabile nel dibattito
sull’interesse sociale………………………………………… p. 31 2. Asimmetria informativa e incompletezza strutturale nel finanziamento
all’impresa……………………………………………………………..p. 32 3. Informazione, controllo, eterogestione………………………………...p. 36 Sezione II 1. La struttura finanziaria della s.p.a. riformata: l’autonomia statutaria e
l’incerta definizione delle partecipazioni sociali…………………….. p. 39 2. Presupposti e riflessi sistematici della diversificazione finanziaria….. p. 42 3. Profili di uniformità tra struttura finanziaria di s.p.a. e corporation…. p. 46 Sezione III
1. Tutela nel contratto o tutela nella governance......................................p. 52 2.1. Le garanzie risarcitorie quale incentivo legale all’allineamento informativo……………………………………………………………… p. 56 2.2. La parificazione tra azionisti e debitori: dall’omogeneità delle posizioni di rischio all’omogeneità delle tutele…………………………………… p. 58 2.3. La nozione di residual claimant tra solvenza e insolvenza…………..p. 61 2.4. Riscontri normativi e giurisprudenziali………………………………p. 63
II
3.1. La tutela come questione di contratto……………………………… p. 65 3.2. Le inefficienze della tutela risarcitoria……………………………... p. 71 3.3. Il superamento dell’incompletezza dei contratti: l’interazione … …..p. 73 3.4. (segue) e l’attribuzione di diritti amministrativi…………………….. p. 75 4. Amministratore indipendente e interessi secondari…………………..p. 76 5. La contendibilità del governo e il nucleo indisponibile della primazia degli azionisti…………………………………………………………p. 82 6. Negoziabilità del governo e negoziabilità dell’interesse sociale……..p. 91
Capitolo III
Profili di responsabilità connessi alla partecipazione alla governance
1. Il principio di correttezza nel finanziamento e la rilevanza della posizione soggettiva di controllo. ……………………………………p. 99
1.2. Dati normativi e spunti di comparazione a supporto dell’applicazione dell’art. 2467 c.c. ai titolari di strumenti finanziari partecipativi…..p. 104
2. La responsabilità gestoria dei titolari di strumenti finanziari partecipativi nel contesto della concezione antiformalistica dell’esercizio della funzione amministrativa……………………………………………p. 109
3.1. I contratti di finanziamento quali sindacati di gestione attratti al piano “sociale” in veste di strumenti finanziari partecipativi………………p. 115 3.2. La disciplina degli strumenti partecipativi quale parametro di meritevolezza di patti parasociali sul cogoverno di terzi………………...p. 119 3.3 Strumenti parasociali di governo e responsabilità gestoria………...p. 123
Capitolo IV
Gli strumenti finanziari partecipativi e la privatizzazione dell’insolvenza
1. Strumenti finanziari partecipativi e allineamento informativo tra solvenza e insolvenza. …………………………………………………………p. 128
2. L’antecedente storico delle attuali forme privatistiche di soluzione della crisi…………………………………………………………………...p. 130
3. La tecnica legislativa della“tipizzazione di principio” applicata agli accordi di ristrutturazione dei debiti e ai piani di risanamento……………….p. 132
4. La centralità del ruolo del giudice in relazione alla atipicità delle nuove fattispecie……………………………………………………………..p. 137
5. L’accesso a posizioni informative quale presupposto per le forme privatistiche di risanamento dell’impresa. …………………………...p. 140
III
6. Le convenzioni bancarie di salvataggio quali sindacati di gestione: problemi comuni agli strumenti finanziari partecipativi……………..p. 143
7. Tipizzazione di principio e valutazione di meritevolezza nella crisi di impresa alla luce dell’interesse sociale “alternativo”………………..p. 147
8. L’eterogestione nella crisi di impresa: discrezionalità e responsabilità degli amministratori di diritto nelle soluzioni tipiche e atipiche della crisi di impresa. ……………………………………………………………...p. 149
9. La responsabilità gestoria dei creditori. Applicabilità dell’art. 2476 co. 7 c.c. e rilevanza della previsione di forme tipiche di accordi privati per il risanamento dell’impresa……………………………………………p. 155
10. Spunti di sistema…………………………………………………….p. 160
Indici bibliografici
4
1
Abstract
Le pagine che seguono intendono offrire una rilettura dell’interesse sociale alla
luce degli strumenti con i quali le più recenti riforme legislative hanno voluto
consentire il coinvolgimento dei finanziatori nel governo della società dalla fase
di start up a quella di crisi.
Il primo capitolo opera una ricostruzione storica e comparata della
contrapposizione tra le due scuole di pensiero che tradizionalmente si misurano
sulla nozione di società e di interesse sociale: istituzionalismo e contrattualismo.
L’intento è fare emergere come questi due moduli interpretativi, sebbene
appaiano destinati ad una divergenza insuperabile perché radicata in ultima
analisi su approcci politici profondamente configgenti sui fondamenti stessi del
diritto societario, in un’altra prospettiva e specificamente nel contesto
dell’assetto normativo attuale, necessitano viceversa d’essere conciliati in un
quadro unitario. Ciò quantomeno perché le ragioni tradizionalmente addotte a
fondamento del divario interpretativo hanno per la più parte perso aderenza al
dato normativo dopo che questo è stato ridisegnato dalla riforma componendo in
una diversa pluralità di forme le relazioni contrattuali inerenti alla società. La
teoria della primazia dei soci – la quale ravvisa nella società una proprietà degli
azionisti e nella massimizzazione della ricchezza di questi ultimi l’interesse in
funzione del quale la società deve essere amministrata - non è soddisfacente sul
piano descrittivo, in particolare perché negando ogni considerazione alle istanze
dei non soci si mostra incoerente con il ruolo attivo che il legislatore ha
consentito ai creditori nella stessa corporate governance. L’osservazione di
questo nuovo elemento sposta dunque il baricentro dell’indagine sulla relazione
tra la complessità della struttura finanziaria della società e la titolarità di diritti di
controllo sulla stessa. La relativa analisi è condotta nel capitolo secondo, che
muove dalla considerazione per cui i contratti tra i vari finanziatori e la società
soffrono di un’incompletezza resa inevitabile dagli alti costi di transazione
associati alla pretesa di disciplinare in sede negoziale ogni possibile evenienza.
Gli strumenti ibridi di partecipazione trovano collocazione in questo contesto in
2
quanto meccanismo legale innovativo di promozione dell’efficienza economica
connessa alle istanze di competitività nell’accesso al finanziamento della piccola
o media impresa. Un’efficienza, questa auspicata, da valutarsi soprattutto con
riguardo al dibattito sul fondamento legale o contrattuale delle tutele da
riconoscere agli investitori non azionisti, la ricostruzione del quale dimostra
anzitutto che né il contratto di finanziamento né la tutela giudiziale successiva
possono considerarsi strumenti perfetti, e in secondo luogo che il contesto
normativo riformato impone di porre in discussione molti dei presupposti sui
quali è tracciata la distinzione in punto di tutela tra azionisti e non azionisti.
Rileva in tal senso l’argomento dottrinale secondo il quale le società dovrebbero
massimizzare il valore per i soli azionisti perché così facendo – in
considerazione delle pretese residuali di cui tale categoria è referente –
otterrebbe di massimizzare il valore per l’intero ente. Ebbene, tale assunto è
oggi posto in discussione dalla diversificazione degli strumenti di
finanziamento, che sollecita a ridefinire la relazione tra proprietà e controllo
nonché la nozione stessa di “residual claimant”, e supporta l’idea che anche
l’interesse sociale, così come il controllo sociale, si presti ad essere determinato
in via negoziale. Questa conclusione, a sua volta, induce a valutare la posizione
dei finanziatori con poteri di voice in termini di controllo sulla società e, di
conseguenza, ad esaminare l’ampio tema della responsabilità dei creditori nella
prospettiva che il contratto di finanziamento sia veicolo non solo di diritti ma
anche di oneri di condotta. Così procedendo, il terzo capitolo si prefigge di fare
luce, anzitutto, sulle implicazioni che l’attribuzione ai finanziatori del potere di
influenzare o controllare il processo decisionale della società esercita in tema di
responsabilità e, sotto un secondo profilo, sull’opportunità di riferire ai portatori
di strumenti partecipativi la disciplina recentemente dettata in seno al corpo
normativo delle s.r.l. con riguardo alla responsabilità patrimoniale e gestionale
dei soci. Premesso che raramente è da ritenere che i finanziatori istituzionali
possano trovare conforme ai loro interessi alterare in sede contrattuale il
principio residuale di primazia degli azionisti per svolgere in luogo di questi
ultimi un ruolo attivo nella governance della società, ciononostante non è da
3
escludere che in determinati contesti – e in specie in quello di crisi - le
valutazioni di convenienza possano essere diverse. Potrebbe quindi essere
rilevante trovare nella responsabilità (e nell’efficacia dell’intervento giudiziale)
un bilanciamento tra la rinnovata fiducia nell’autonomia contrattuale e
l’opportunità di prendere in considerazione anche i creditori privi di capacità di
conseguire in sede di negoziazione un livello idoneo di tutela (cd. finanziatori
“outsider”): ciò soprattutto in quanto il modello dominante in dottrina evidenzia
che le politiche di debito assunte dalle società in stato di crisi svantaggiano
sistematicamente la massa non organizzata dei creditori, che si trovano pertanto
esposti a comportamenti strategici del debitore o degli investitori istituzionali.
D’altro canto proprio la leva della responsabilità potrebbe dissuadere le banche
dall’investire negli strumenti ibridi di finanziamento, così vanificando
l’innovazione legislativa e con essa gli intenti di garantire maggiore
competitività al nostro ordinamento. In considerazione di questi diversi
elementi, il quarto capitolo si volge allo studio della recente riforma
fallimentare, per valutare la profittabilità delle nuove tecniche finanziarie nella
fase di crisi. In particolare, l’attenzione è riposta sulle soluzioni concordate alla
crisi dell’impresa e sul relativo impatto sul sistema di governance. Per un verso
emerge come evitare la procedura fallimentare nel più dei casi significhi
sottrarsi dall’essere convenuti in azioni di responsabilità; per altro verso si
delinea come ricorrendo a clausole contrattuali attributive di diritti di controllo i
creditori ottengano di indirizzare non solo le politiche di investimento ma anche
quelle di risanamento delle società finanziate, e con ciò dunque di poter
contenere il rischio dell’attivarsi delle responsabilità da eterogestione. Se si
considera come l’opzione per le soluzioni pre-fallimentari possa avvantaggiare
l’intera massa dei creditori, si è indotti a ritenere che l’efficienza economica
degli ibridi finanziari trovi realizzazione solo nell’intersezione di molteplici
prospettive, legate alla privatizzazione dell’insolvenza, al mercato del controllo
delle società, al coinvolgimento dei creditori negli assetti di governo delle
società finanziate. La comprensione unitaria di tali dinamiche, legate al
contempo alla solvenza e all’insolvenza, si pone quindi come momento
4
essenziale per l’interpretazione degli equilibri di governance in relazione al
complesso atteggiarsi dell’interesse sociale in relazione alle istanze di
finanziamento.
***
The research aims at studying the corporate interest in the framework of the
new financing techniques provided by the reform of company law in order to
implement the investors’ mentoring and monitorig activities in the start up as
well as in the corporate reorganization process.
Part I provides a comparative and historical overview of the two basic models
that have long competed in corporate law scholarship about the nature and the
purpose of a corporation: institutionalism and contractualism. The claim is to
underline that these two paradigms, which seem pointed in opposite directions
because ultimately rested on strongly conflicting political visions of the
appropriate foundations of corporate law, in another perspective, and
specifically in the context of contemporary corporate law, are to be reconciled
at least because the depth of the disagreement is not understandable in the light
of the existing complex set of the firm’s contractual relationships.
The shareholder primacy conception – which holds that a corporation is owned
by its stockholders and that managers have a duty to maximize stockholder
wealth - is unsatisfactory as a descriptive matter, in particular because to
disregard the claims of nonshareholder constituencies is inconsistent with the
positive role that creditors can play in the corporate governance. Under this
approach, the analysis of the complexity of capital structure in relation to
control rights becomes a central framework to inquiry. Part II sets out
underlying that the contracts between the various corporate financial claimants
and the corporation are inevitably incomplete because of the high transaction
costs of fully specifying state-contingent agreements that would cover all
possible circumstances. The hybrid securities are placed in this context as one
5
of the legal structures introduced to promote economic efficiency. The debate
over nonshareholder protection, with special regard to the question if
fiduciary duties run also to bondholders and preferred shareholders,
demonstrates, first, that while the bond indenture is an imperfect instrument,
fiduciary duty is not a panacea, second, that much of the basis for distinctions
between stockholder and bondholder remedies is outdated. Commentators posit
that corporations should maximize value for shareholders alone mainly for an
instrumental claim, that is because shareholders, as residual claimants, have the
greatest incentive to maximize the value of the society as a whole. However, the
diversification of the financial instruments leads to redefine the relation between
ownership and control besides the notion of “residual claimant”, and supports
the idea that, also the corporate interest, as like as the corporate control, is
subject to negotiation. This conclusion, in turn, induce to treat the bondholders
with voting rights as controlling the corporation and, thereby, to examine the
broad issue of creditors’ responsibility so that the bond contract serves as the
font of all rights and duties. In so doing, Part III attempts to shed some light, on
the one hand, upon the implications of the power to influence or control
corporate decisionmaking on the lender liability and, on the other hand, upon
the opportunity to refer to bondholders the rules recently enacted in the field of
s.r.l. In spite of nonshareholders rarely find it in their interest to contract with
shareholders to vary the shareholder-primacy default rule and to play an active
role in corporate governance, however, in certain contexts such as insolvency,
circumstances can change so it is important to find in the liability (and in the
confidence in the efficacy of judicial intervention) a balance between the
renewed faith in the institution of contract and the opportunity to take into
consideration also the creditors called “outsiders”. The dominant model in
today's scholarship suggests that voluntary debt adjustments by enterprises in
financial distress systematically disadvantage dispersed bondholders, that have
a little bargaining power and are subject to debtor or institutional investors
strategic behavior. The “liability lever”, nonetheless, could dissuade banks
from investing in hybrid securities. On account of this, Part IV focuses on the
6
bankruptcy law reform to evaluate the profitability of the new financing
techniques in financial distress. In particular, the attention is paid to the choice
between the two restructuring regimes (bankruptcy and out-of-court
restructuring) and its impact on the governance system. Impeding financial
distress as often as not means to avoid responsibility; at the same time using
covenants to contractually secure various control rights typically assigned to
equity holders creditors are enabled to address the restructuring perspective. In
this perspective, the economic efficiency of the "half-way" instruments between
shares and debentures is enhanced by the intersection of multiple mechanisms,
including private restructuring, the market for corporate control, management
incentives, creditor activism, and a host of others. An understanding of the
unique dynamics of bankruptcy and non bankruptcy legislation has become
essential to understand the fundamentals of corporate governance and its
balance with relation to the behavior of the corporate interest in front of the
borrowing claims.
7
Capitolo I Linee evolutive del dibattito statunitense e italiano sull’interesse sociale
1. La convergenza di istituzionalismo e contrattualismo quale criterio di
indagine dell’interesse sociale.
Affrontare il tema dell’interesse sociale ora che gli stessi protagonisti dell’antica
contrapposizione tra istituzionalismo e contrattualismo ammettono la verità
relativa di entrambe tali tesi1, significa poter considerare i termini in cui le due
posizioni sopravvivono nel nuovo contesto normativo con la libertà di non dover
aderire all’una o all’altra ma di poterne dare rilettura in un’ottica di convergenza
e coesistenza anziché di antitesi. Assumendo tale prospettiva la stessa
evoluzione storica del dibattito si presta a essere riconsiderata come una
contrapposizione a servizio più di una sistemazione dottrinale della materia che
di una fotografia della realtà. Se all’approccio teorico può risultare agevole
percorrere la logica delle posizioni nette piuttosto che dare spiegazione di un
conflitto latente e insuperabile, è solo quest’ultimo ad aversi negli ordinamenti
positivi. Ed è inevitabile che sia così, poiché nel tema dell’impresa “[S] sono in
gioco interessi più che principi astratti”, emerge “l’intensa carnalità del diritto,
una carnalità che è immediatamente conseguente al suo affondare nei fatti
economici” piuttosto che la “purezza delle forme giuridiche”2. Della verità di
tali osservazioni danno percezione sia i contatti che nel ripercorrere la letteratura
sull’interesse sociale si colgono tra idee e vicende economiche, sia l’incidenza
che sulle opzioni della riforma hanno avuto le istanze di competitività e di
accesso al finanziamento. Proprio le soluzioni offerte a tali esigenze,
caratterizzate dal sacrificio della tipicità dei modelli organizzativi in favore
dell’acquisita rilevanza “sociale” di una pluralità di interessi confliggenti,
possono rappresentare un piano privilegiato per indagare come al variare della
struttura finanziaria e di quella di governance assuma connotazioni mutevoli
anche la composizione reale e teorica delle posizioni di quanti a diverso titolo
1 Oppo, Le grandi opzioni della riforma e la società per azioni, in Riv. dir. civ., 2003, I, 471 ss.; Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo (Variazioni sul tema da uno spunto di Giorgio Oppo), in Riv. soc., 2005, II, 693 ss. 2 P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico. 1860-1950, Milano, 2000, 194.
8
partecipano alla società. Trova spiegazione in questa prospettiva anche la scelta
di sviluppare una riflessione comparata con l’esperienza statunitense, alla quale
è da tempo noto il difficile coordinamento tra un approccio unitario alla nozione
di interesse sociale e l’esistenza di una struttura finanziaria complessa perché
liberamente determinabile dai contraenti nell’attribuzione di diritti patrimoniali
e amministrativi.
2. Determinanti economiche e ideologiche, divergenze e convergenze nel
dibattito statunitense e italiano sull’interesse sociale.
Negli scritti giuridici statunitensi l’interesse sociale conquista lo spazio degno di
un interrogativo fondamentale grazie all’acceso scambio di opinioni tra due
scuole di pensiero contrapposte, note come “the property conception” e “the
social entity conception”3.
Per la prima la società è proprietà dei soci, funzionale agli scopi di questi e in
particolare ad aumentarne la ricchezza4. È nota la sintesi che la Corte Suprema
del Michigan ha dato a tale opinione imponendo a Henry Ford la distribuzione
3 Punto cardinale nello sviluppo del pensiero sull’interesse sociale è il dibattito tra il Prof. Berle e il Prof. Dodd, dispiegatosi in vari scritti tra i quali: A.A. Berle, Jr., Corporate powers as powers in trust, in 44 Harv.L.Rev., 1931, 1049 ss.; E. M. Dodd, Jr., For whom are corporate managers trustees?, in 45 Harv.L.Rev., 1932, 1145 ss.; A.A. Berle, Jr., For whom corporate managers are trustees: a note, in 45 Harv.L.Rev., 1932, 1365 ss.; A. A. Berle, Jr., G. C. Means, The modern corporation and private property, 1932; E. M. Dodd, Jr., The modern corporation and private property, in 81 U. Pa. L. Rev., 1933, 782 ss.; Id., Is effective enforcement of the fiduciary duties of corporate managers practicable?, in 2 U. Chi. L. Rev., 1934, 194 ss. A circa venti anni dal suo primo manifestarsi, il confronto tra Berle e Dodd tornò a esprimersi a seguito della pronuncia A.P. Smith Manufacturing Co. v. Barlow, in 98 A.2d, 581 ss., 590 (N.J. 1953), nella quale fu sostenuta una donazione della società alla Princeton University con queste parole: “[The donation] was voluntarily made in the reasonable belief that it would aid the public welfare and advance the interests of the plaintiff as a private corporation and as part of the community in which it operates”. La reazione di Berle fu ammettere che la tesi del Professor Dobb si era rivelata la più lungimirante (A. A. Berle, The 20th century capitalist revolution, Harcourt, Brace & Co., New York, 1954, 169, recensito da W. Bigiavi nel Bollettino Bibliografico di Riv. dir. civ., 1955, 969 ss.), per poi precisare che “It is one thing to agree that this is how social fact and judicial decisions turned out. It is another to admit this was the ‘right’ disposition; I am not convinced it was.”(Id., Foreword to the corporation in modern society xii, Edward S. Mason ed., 1959). La considerazione degli interessi dell’intera comunità nella quale una società opera è indicato dallo studioso come un intento apprezzabile, ma utopico. 4 Sono noti assertori di questa teoria R.H. Coase, The nature of the firm, in 4 Economica, 1937, 386 ss.; M. C. Jensen, W. H. Mecklin, Theory of the firm: managerial behavior, agency costs and ownership structure, in 3 J. Fin. Econ., 1976, 305 ss.; O. Williamson, Corporate governance, in 93 Yale L.J., 1984, 1197; M. M. Blair, L. A. Stout, A team production theory of corporate law, in 85 Va. L. Rev., 1999, 247 ss., 248-65; D. G. Smith, The shareholder primacy norm, in 23 J. Corp. L., 1998, 277 ss., 277-78.
9
anziché l’investimento degli utili: l’identificazione dello scopo sociale con la
creazione di profitto per gli azionisti, non già con l’incremento della produzione
a beneficio della clientela e dei lavoratori5, determina che a tale risultato sia
finalizzato anche il potere attribuito agli amministratori, ai quali di conseguenza
non compete la tutela degli interessi di soggetti estranei alla compagine sociale
se non nei limiti in cui esplicite previsioni contrattuali o legislative lo
impongano6. D’altronde l’inesistenza di una nozione univoca di bene pubblico
delegittimerebbe gli amministratori a impegnare in nome di essa risorse altrui7.
La creazione di ricchezza è peraltro l’obiettivo assunto a proclama anche dalla
seconda teoria che, meglio nota come “institutionalist”, si impone all’attenzione
sul finire del diciannovesimo secolo dietro sollecitazione di forze sociali
sensibili ai mutamenti occorsi nel settore industriale. È una nozione di ricchezza,
però, nutrita di più ampi contenuti in ragione dell’assunto per il quale l’interesse
del legislatore al bene collettivo avrebbe determinato non solo la disciplina di
favore per le società rappresentata dal riconoscimento della personalità giuridica
e della responsabilità limitata, ma anche l’attribuzione a tali entità di una ragion
d’essere ulteriore rispetto alla soddisfazione di istanze meramente private8. La
5 L’intento dichiarato da Henry Ford di “to spread the benefits of this industrial system to the greatest possible number, to help [people] build up their lives and their homes” è celebre quanto la risposta data dalla Michigan Supreme Court, Dodge v. Ford Motor Co., in 170 N.W., 1919, 668 ss., 684, ossia: “A business corporation is organized and carried on primarily for the profit of the stockholders. The powers of the directors are to be employed for that end.” Tale ultima opinione, sintetizzata come “shareholder primacy norm”, fu riaffermata in dottrina nel controverso A. A. Berle, Jr., G. C. Means, The modern corporation and private property, 1932. Quanto all’opinione per cui il precedente “Dodge” avrebbe ragione d’essere citato con riferimento ai rapporti tra minoranza e maggioranza, più che tra azionisti e non azionisti, cfr. D. Gordon Smith, The shareholder primacy norm, in 32 J. Corp. L., 1998, 277 ss., 279. 6 M. C. Jensen, R. S. Ruback, The market for corporate control: the scientific evidence, in 11 J. Fin. Econ., 1983, 5 ss., 29-30. 7 Tra gli economisti hanno supportato questa visione F. A. Hayek, The corporation in a democratic society: in whose interest ought it and will it be run?, in Management and Corporations, 1985, 99; K. J. Arrow, Social responsibility and economic efficiency, in 21 Pub. Policy, 1973, 303 ss., 303-07; E. V. Rostow, To whom and for what ends is corporate management responsible?, in The corporation in modern society, Edward S. Mason ed., 1959, 46, 67. 8 I primi teorici avanzarono quella che è nota come “concession theory”, in base alla quale le società esistono per tolleranza del governo, che ha come cambio atteso la responsabilità sociale della società (per una sintesi e per indicazioni bibliografiche si può fare riferimento a Paul G. Mahoney, Contract or concession? An essay on the history of corporate law, 34 Ga. L. Rev. 873 (2000). Tale impostazione aveva punti di contatto con la c.d. traditional view, condividendo la definizione dei soci quali proprietari della società, ma se ne differenziava nelle conclusioni tratte proprio in quanto ribadiva il diritto dello stato di imporre una responsabilità a tali enti (Michael
10
diffusione di società di grandi dimensioni, caratterizzate dalla dispersione della
proprietà, agevola nel percepire gli azionisti come investitori in un soggetto
autonomo, mosso da fini propri9 tra i quali fare rientrare la soddisfazione delle
attese economiche di chi ha investito nella società, ma anche la considerazione
delle esigenze di consumatori e lavoratori. Il contemperamento tra tali istanze è
affidato alla discrezionalità degli amministratori10, la competenza qualificata dei
quali consente di appagare tutti i soggetti coinvolti modulando le politiche di
investimento tra una logica a lungo termine, più adeguata a un’economia su
larga scala, e una logica a breve, che presiede all’interesse esclusivo degli
azionisti11.
E. De Bow & Dwight R. Lee, Shareholders, nonshareholders and corporate law: communitarianism and resource allocation, 18 Del. J. Corp. L. 393, 397 (1993); Ronald M. Green, Shareholders as stakeholders: changing metaphors of corporate governance, 50 Wash. & Lee L. Rev. 1409, 1416-17 (1993); Gary M. Anderson & Robert D. Tollison, The myth of the corporation as a creation of the state, 3 Int’l Rev. L. & Econ. 107, 109 (1983). G. Visentini, La teoria della personalità giuridica ed i problemi della società per azioni, in Riv. soc. 1999, 89 ss., nel ricostruire l’evoluzione della concezione della persona giuridica, dal diritto comune fino alla cultura moderna, coglie uniformità di percorsi e influenze reciproche tra civil law e common law. Da tale studio emerge come sia comune all’intera cultura giuridica occidentale la nascita della persona giuridica come “un istituto per fini generali, d’interesse sociale, perciò ente morale, non economico”, un istituto efficacemente definito “d’eccezione” in quanto derivante la sua esistenza “da un atto di autorità, che approva lo statuto e ne verifica l’utile sociale che ne giustifica i privilegi; è un ente che esprime una finzione giuridica, cioè che esiste in quanto il diritto lo crea e nei limiti di questa creazione”. 9 Sull’impatto che l’affermarsi di società di ampia dimensione ha avuto, in uno con le influenze germaniche, sull’approccio della dottrina americana al tema della natura delle società cfr. J. Dewey, The historic background of corporate legal personality, in 35 Yale L.J., 1926, 655. Sulle società quali soggetti distinti dai soci, capaci di assumere obbligazioni in proprio e di agire quali attori principali nel nuovo mercato v. R. E. Freeman, W. M. Evan, Corporate governance: a stakeholder interpretation, in 19 J. Behavioral Econ., 1990, 337 ss.; P. A. French, The corporation as a moral person, in16 Am. Philo. Q., 1979, 207 ss., 211-15; A. F. Conard, Beyond managerialism: investor capitalism?, in 22 U. Mich. J.L. Reform, 1988,117. 10 Per la c.d. “progressive school” i preposti all’amministrazione devono considerare gli interessi non solo degli azionisti ma anche di una “variety of constituencies”: in argomento ha fatto scuola Lawrence E. Mitchell, Progressive corporate law, 1995 . M. M. Blair, L. A. Stout, A team production theory of corporate law, in 85 Va. L. Rev., 1999, 247 ss., 248-65, valorizzano l’idoneità della sola visione progressista a dar conto della separazione tra proprietà e controllo, e riconoscono in capo al consiglio di amministrazione una funzione di mediazione in senso lato (“mediating hierarchy”) tra le istanze di coloro che a vario titolo interagiscono con la società. Per una critica a tale assunto v. R. A. Booth, Who owns a corporation and who cares?, in Chicago-Kent Law Rev., 2001, 147 ss., che pone in evidenza non solo la necessità di distinguere quantomeno tra azionisti attivi e passivi e tra azionisti di maggioranza e minoranza, ma anche la contraddittorietà latente nell’indicare quale mediatore un soggetto coinvolto in prima persona, con interessi specifici, nella vicenda controversa. 11 A. D. Chandler, Jr., Scale and scope: the dynamics of industrial capitalism, 1990, 594-605.
11
In quest’ottica la valorizzazione della produttività permane quale scopo
principale, solo letto con parametri differenti. Si può così affermare che la
distinzione tra logica di lungo e di breve termine si presta a superare in linea di
fatto il problema di assumere una posizione in merito alle due visioni della
società, tanto che – come si fa notare12 - persino operazioni di carità possono
conciliarsi con l’approccio contrattualistico alla società se giustificate
affermandone l’idoneità a incrementare nel lungo periodo il profitto degli
azionisti.
Di tale punto di convergenza paiono avvedersi le Corti statunitensi, che
rifuggono per lo più da posizioni nette sulla natura dell’interesse sociale
preferendo risolvere le questioni di merito sottoposte al vaglio giudiziale
ricorrendo al compromesso tra politiche di investimento. Del resto le stesse
divergenze dottrinali si ridimensionano in una meditazione a posteriori che
enuclea un punto di accordo tra le diverse posizioni nella volontà di considerare
congiuntamente gli interessi di azionisti e non azionisti e isola il motivo reale di
contrapposizione nella selezione delle modalità per attuare tale principio13. Il
precipitato più rilevante degli studi condotti a partire dagli anni ‘30 sembra
dunque l’emersione della necessità di rinvenire un coerente sistema di
conciliazione dei vari interessi. Appunto con tale problema continua a misurarsi
lo studio del fenomeno societario statunitense come di quello italiano, al quale
pure è noto il confronto tra concezione contrattualistica e concezione
istituzionalistica. La prima pone in equazione interesse sociale e interesse
comune dei soci, concependo “l’impresa sociale come oggetto della società,
ossia come attività organizzata dei soci, volta al conseguimento del loro comune
interesse economico”14; la seconda “identifica nell’impresa il vero scopo della
12 J. L. Weiner, The Berle-Dodd dialogue on the concept of the corporation, in 64 Colum. L.Rev., 1964, 1458 ss. 13 A. N. Licht, The maximands of corporate governance: a theory of values and cognitive style, in Delaware J. Corp. Law, 2004, 649 ss., 652 ridimensiona in questi termini la stessa contrapposizione tra gli approcci di Berle e di Dodd. 14 Questa sintesi, come quella che immediatamente segue sulla concezione istituzionale, è tratta da L. Mengoni, Appunti per una revisione della teoria sul conflitto di interessi nelle deliberazioni di assemblea della società per azioni, in Riv. soc., 1956, 434 ss., 437; similmente Jaeger, L’interesse sociale, Milano, 1964, 14, riferisce come tesi contrattualistiche “le opinioni di coloro i quali definiscono l’interesse sociale come l’interesse collettivo dei soci” e come
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società, e corrispondentemente identifica l’interesse dell’impresa con l’interesse
sociale, ravvisato perciò come interesse distinto e superiore all’interesse comune
dei soci”15. Secondo l’interpretazione maggioritaria16, il codice del 1942 avrebbe
rivelato l’adesione del legislatore alla tesi contrattualistica visto, tra l’altro, che
lo scopo di dividere gli utili di cui all’art. 2247 non avrebbe lasciato intravedere
alcun interesse superiore e ulteriore a quello che è comune ai soci e solo a
costoro17. Tale conclusione, peraltro, non si è mai potuta considerare definitiva,
vuoi perché il dibattito – pur assestato su un disequilibrio delle parti – non si è
sopito né in dottrina né in giurisprudenza18, vuoi perché anche adottandola
rimane il problema di dare contenuto alla nozione di “comune interesse”19
concezioni istituzionaliste “tutte le altre che indicano come titolari dell’interesse sociale soggetti (o anche soggetti) diversi dagli azionisti”. 15 Recentemente Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 695- 696, ricorda come le note influenze di Gierke, Hauriou e Santi Romano – ma l’Autore ravvisa la medesima impronta nell’opera di Berle - abbiano portato a concepire l’impresa come ordinamento giuridico, centro di affluenza di interessi anche ulteriori rispetto a quelli dei soci. Jaeger, L’interesse sociale, cit., 76-80, pone in evidenza le differenze tra le posizioni istituzionaliste manifestatesi in Germania e quelle accolte dalla dottrina italiana sotto la vigenza del codice di commercio e su sollecitazione dei fenomeni di intervento pubblico nell’economia successivi alla crisi del 1929. La prospettiva della seconda, in particolare, emerge nella ricostruzione dell’Autore come preoccupata di dare attenzione alle istanze di tutela della minoranza e solo in tale senso adusa a invocare – peraltro de iure condendo – la nozione di interesse sociale. 16 La critica più incisiva alla tesi istituzionale si deve ad Ascarelli, Interesse sociale ed interesse comune nel voto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1951, 1149 ss.; tra le più autorevoli voci dell’istituzionalismo si ricorda, invece, Mossa, Problemi attuali delle società per azioni, in Nuova riv. dir. comm., 1951, I, 1 ss. 17 Norme di ispirazione pubblicistica, possibili ancore della tesi istituzionale, sarebbero invece l’art. 41 Cost., gli artt. 2088-2091 e 2409 c.c.: v. Mignoli, L’interesse sociale, in Riv. soc., 1958, 725 ss., 744-745. 18 Cfr. Mignoli, L’interesse sociale, cit., 726, commentava con sorpresa un intervento col quale la Corte (Cass., 20 giugno 1958, in Mass. Giust. civ., 1958, 765), discostandosi dalla dottrina dominante, descriveva l’ente societario “come la personificazione di un interesse superiore distinto da quello dei singoli soci, oggetto come tale di una autonoma tutela giuridica”. Riteneva invece non motivato lo scalpore suscitato dalla pronuncia Asquini, I battelli del Reno, in Scritti giuridici, III, Padova, 1961, 221 ss., 224, visto che la fattispecie decisa riguardava i limiti della capacità giuridica della società in relazione al suo oggetto, ossia una questione non determinata dalla preferenza per la nozione istituzionale di società. La vitalità del dibattito negli anni ’60 emerge dai ricordi di Oppo, Le grandi opzioni della riforma, cit., 477, sulle discussioni che fecero concludere gli studi della Commissione Passatelli con due relazioni di orientamento opposto, sul successivo progetto De Gregorio e sull’acquisizione di nuovi spazi (anche normativi, considerata la disciplina delle azioni di risparmio) per la posizione istituzionale. 19 Interesse che, secondo la precisazione di Asquini, I battelli del Reno, cit., 222-223, non è da intendere in senso statico “poiché, pure prescindendo da ogni componente pubblicistica, l’interesse sociale deve tener conto della variabilità dei soci nel tempo, tipica della società per azioni, e comunque dell’interesse anche non attuale, perché a lungo termine, dei soci attuali”.
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tenendo in considerazione i conflitti potenziali tra soci e tra questi e la società.
La presa d’atto della difficile riducibilità ad unum delle diverse posizioni sociali
ha rappresentato anzitutto un passaggio fondamentale nella sistemazione teorica
in chiave contrattuale dei rapporti tra organi e all’interno di questi. Ha costituito
inoltre motivo di critica alla tesi istituzionale nella misura in cui questa appariva
negare il conflitto e prospettare un assetto armonico di interessi in nome della
solidarietà corporativa20. La ragione ultima dell’impossibilità si addivenire al
superamento definitivo dell’una tesi ad opera dell’altra era però che già l’assetto
originario del codice conteneva tracce di entrambe le posizioni, quasi a
fondamento di una possibile conciliazione che la forza ideologica delle vicende
storiche dell’epoca sembrava impedire di raggiungere. Quest’ultimo rilievo è
comune anche alle vicende d’oltreoceano.
Tra gli anni ’50 e ’70 l’interesse statunitense per la “corporate social
responsibility”, dunque per la tutela degli interessi degli stakeholders, si
rinnovò21. In quegli anni l’attenzione degli studiosi si concentrò sull’indiscussa
supremazia economica degli Stati Uniti, alla ricerca di una via per dirigere verso
fini sociali il relativo potere, peraltro concentrato in un numero esiguo di società
di grandi dimensioni. Erano forti del resto le sollecitazioni provenienti
dall’attualità di temi politico–sociali di ampio respiro, concernenti la guerra in
Vietnam come l’ambiente, i diritti civili come la tutela dei consumatori. Eugene
V. Rostow22 indicava così quale scopo “the economic welfare of the community
as a whole”, ma erano poche le voci in grado di indicare meccanismi idonei a
conseguirlo. Tra i suggerimenti che più interrompevano la tradizione vi era
quello23 di perseguire una totale separazione tra proprietà e gestione, vincolando
la composizione del consiglio di amministrazione alla presenza totalitaria di
20 Espone queste censure Mignoli, L’interesse sociale, cit., 736, che – avendo alla mente specialmente il sistema tedesco - paventa come conseguenza dell’affermarsi della tesi istituzionalistica un maggiore interventismo statale. 21 Per una disamina di dettaglio v. C.A. Harwell Wells, The cycles of corporate social responsibility: an historical retrospective for the twenty-first century, in 51 U. Kan. L. Rev., 2002, 77 ss. 22 Eugene V. Rostow, To whom and for what ends is corporate management responsible?, in The corporation in modern society 63 (Edward S. Mason ed., 1959). 23 Avanzato da Ralph Nader, Mark Green, and Joel Seligman in Ralph Nader et al., Taming the giant corporation 126 (1976).
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consiglieri indipendenti che rispondessero verso gli azionisti ma al contempo
verso tutti i constituencies e verso la generalità dei terzi, essendo ciascuno
responsabilizzato alla tutela di determinati centri di interesse, quali lavoratori,
consumatori e così dicendo. Si affacciavano così i primi tentativi di aprire
l’organizzazione corporativa a forme di condivisione delle posizioni di potere e
di controllo che in tempi successivi avrebbero conosciuto ampia diffusione ma
che allora, a fronte di aspre critiche in specie attinenti alla scarsa attuabilità di
forme di responsabilità pariteticamente dirette verso gruppi eterogenei di
interessi24, per lo più fallirono. Rimase comunque famosa la voce di Milton
Friedman, a sentire la quale “[A] corporate executive (...) has direct
responsibility to his employers. That responsibility is to conduct the business in
accordance with their desires, which generally will be to make as much money
as possible while conforming to the basic rules of the society, both those
embodied in law and those embodied in ethical custom.”25 Cosa si dovesse
intendere per “ethical custom” non era per il vero chiaro, nonostante la
precisazione per cui le c.d. “social responsibilities” includerebbero “providing
employment, eliminating discrimination, reducing pollution, preventing
inflation, and fighting poverty”. Del resto negli stessi anni la nostra più
autorevole dottrina condivideva analoghi dubbi sul corretto modo di intendere
espressioni di sempre maggior uso negli studi sulle società di capitali, quali
«interesse pubblico» o «interesse generale»26.
Anche la realtà imprenditoriale italiana – o quantomeno quella di grandi
dimensioni - faceva rilevare importanti mutamenti sia nelle relazioni interne sia
in quelle esterne alle società: nel primo verso si assisteva alla nascita del c.d.
azionista-investore, che si caratterizzava rispetto alla tradizionale figura di socio
per il disinteresse alla gestione; nella seconda direzione si assisteva viceversa al
manifestarsi di istanze per la partecipazione da parte di non-soci, in particolare
24 Robert a. Dahl, After the revolution? Authority in a good society (rev. ed. 1990); Christopher D. Stone, Where the law ends: the social control of corporate behavior (1975). 25 Milton Friedman, Capitalism and Freedom 133-36 (1962). 26 Cfr. W. Bigiavi, Interesse sociale e interesse pubblico, in Riv. dir. civ., 1956, 711-712.
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lavoratori27. Proprio questa comunanza di esperienze e di domande nel contesto
internazionale faceva parlare di una “crisi di rinnovamento” “collegata a ragioni
generali e profonde”28, che sul piano giuridico potevano essere ricondotte alla
necessità di definire il rapporto tra potere di gestione e assunzione di
responsabilità29, potendo intendere quest’ultima come rischio economico ma in
senso lato anche come responsabilità sociale. Nel codice civile al tempo vigente
la proporzione tra i due termini aveva chiari addentellati nella disciplina delle
società di persone, giusta la coincidenza tra amministratori e soci illimitatamente
responsabili, ma anche nelle società di capitali, nelle quali a determinare il peso
dei diritti amministrativi era la misura della partecipazione al capitale30.
Sennonché la linea evolutiva che sembrava imporsi nell’iniziativa economica
introduceva deroghe alla regola, dato che la disaffezione degli azionisti liberava
27 G. Ferri, Potere e responsabilità nell’evoluzione della società per azioni, in Riv. soc., 1956, 35, 41. L’Autore spiegava come il fenomeno dei “soci capitalisti”, in realtà non nuovo, avesse trovato particolare diffusione grazie a contingenze economiche quali la svalutazione monetaria, ma anche grazie alle politiche di favore per il piccolo risparmio fondate sulla stabilità dei dividendi e sugli acconti dividendo. Iniziava in quel contesto un processo di erosione delle differenze tra azioni e obbligazioni sul piano dei diritti patrimoniali. Quanto alla partecipazione dei prestatori d’opera alla gestione dell’impresa, Asquini, Nuove strutture dell’impresa, in Scritti giuridici, vol. III, Padova, 1961, 151 ss., 155 ss., collocava nella politica di Giolitti volta a contenere la crisi occupazionale il primo tentativo nella storia della legislazione italiana di penetrare la sfera dell’amministrazione aziendale con forme di intervento, eventualmente su un piano di mero controllo, da parte degli operai. Seguiva nel 1944 la legge sulla socializzazione, ispirata da una concezione dell’impresa come istituzione e pericolosamente utilizzabile, seppur contro gli intenti dei suoi promulgatori, per sostituire il governo pubblico a quello privato sull’impresa. Considerate queste esperienze – e altre che negli stessi tempi si registravano in Europa – Asquini concludeva affermando l’esistenza di “una vocazione sociale, la quale cerca una formula per permettere ai prestatori di lavoro, che sono gli artefici della fortuna dell’impresa, di poter esercitare un qualche controllo sulla gestione economica dell’impresa, almeno nei limiti in cui la gestione economica si ripercuote sulle condizioni di lavoro”, ma rilevava anche l’esistenza nell’impresa di “una logica economica la quale esige che l’imprenditore, cioè colui che assume l’iniziativa e sopporta il rischio della produzione, abbia una sufficiente sfera di autonomia”, la quale può certamente essere limitata nell’interesse generale e nell’interesse dei lavoratori, ma non fino al punto di sottrarre ai soci la sovranità concedendo il voto in assemblea a soggetti estranei. 28 G. Ferri, Ibidem. 29 Secondo la sintesi di Oppo, Le grandi opzioni della riforma, cit., 477, “Nell’una concezione l’apporto, con il quale si diventa soci, è misura del diritto e, compatibilmente con esso, strumento dell’attività sociale; nell’altra concezione è strumento dell’attività e, compatibilmente con essa, misura di un diritto”. 30 T. Ascarelli, Considerazioni in tema di società e personalità giuridica, in Riv. dir. comm., 1954, I, 245 ss., 254 collega la diversa misura dei poteri alla diversità dei rischi assunti, evidenziando come la prima conseguenza di tale interdipendenza sia il principio maggioritario e la seconda conseguenza, determinata dalla prima, sia il sorgere dei problemi attinenti alla tutela della minoranza.
16
di fatto posizioni di potere a favore di soggetti che non avevano contropartita
nell’assunzione di un corrispondente rischio economico, e dato che l’istanza –
forte peraltro dell’art. 46 Cost. - di coinvolgere la forza lavoro nei processi
decisionali mediante rappresentanti negli organi sociali prescindeva
dall’acquisto o dall’attribuzione di partecipazioni azionarie. Tali processi non
potevano allora che condurre ad un’ammissione implicita della possibilità di
dissociare potere e responsabilità, con preoccupazione degli interpreti per le
possibilità di abuso e per l’assenza di adeguati controlli31. Si negava, in
particolare, l’esistenza di una comunione di interessi tra tutti coloro che anche
indirettamente sono legati alla sorte dell’impresa: i lavoratori, mantenendo il
diritto alla retribuzione, hanno verso l’impresa lo stesso interesse che ogni
creditore nutre verso il patrimonio del debitore e che “non vale certo a far
sorgere una comunione di interessi tra le due parti contrapposte o a consentire al
creditore un potere di determinazione sulla attività del suo debitore”32.
Ammettere la non identità di posizioni supportava però un’ulteriore domanda,
ovvero quale interesse avrebbe dovuto perseguire il rappresentate dei lavoratori
nel consiglio di amministrazione: se quello di chi l’aveva designato, anche a
discapito della comunità dei soci33, o se quest’ultimo, con sacrificio dei
personali vantaggi dei lavoratori per un bene sociale che in definitiva essi non
condividono34.
Proprio il tema del conflitto di interessi ha acquisito concretezza storica
nell’ambiente statunitense. Nell’evoluzione del relativo dibattito sull’interesse
31 G. Ferri, Potere e responsabilità, cit., 37, 42, 44, il quale rintracciava i primi addentellati normativi a tale dissociazione nella previsione delle azioni a voto plurimo di cui all’art. 2351 c.c. e nei poteri di nomina attribuiti allo Stato o ad enti pubblici dall’art. 2459 c.c. Analoghi rilievi erano stati portati all’attenzione pochi anni prima da T. Ascarelli, Considerazioni in tema di società, cit., 247, il quale così si esprimeva: “In realtà, quando il controllo sia esercitato da una minoranza (o addirittura dal gruppo degli amministratori in quanto tale), viene meno il parallelismo tra rischio (seppure limitato alla perdita dell’investimento azionario) e potere che invece presiede alla disciplina della società e in generale all’organizzazione dell’attività economica e così vuoi le «remora» che il «rischio» sempre esercita sul «potere», vuoi il criterio per una distinzione tra dirigenti economici capaci ed incapaci.” 32 G. Ferri, Potere e responsabilità, cit., 47. 33 Così Asquini, Nuove strutture dell’impresa, cit., 161: “Il dirigente dell’impresa tende a consolidare l’impresa nel tempo, mentre le maestranze tendono naturalmente a realizzare le più alte remunerazioni, trascurando le esigenze dell’avvenire dell’impresa”. 34 G. Ferri, Ibidem.
17
sociale un momento cardine è rappresentato, infatti, dalla vicenda dei takeovers
degli anni ’80, quando la crescita degli investitori istituzionali e lo sviluppo del
mercato in un orizzonte globale portano all’emersione tensioni e antinomie
prima latenti nel tessuto delle società a ristretta base familiare35. Le dinamiche
che presiedono all’esercizio dell’impresa si fanno più rapide e al contempo
meno nitide, destando le discussioni sulla natura delle società dal sonno
intellettuale nel quale erano cadute nel ventennio precedente36. Pare che sia stata
soprattutto la cospicua perdita di posti di lavoro determinata da tali vicende
economiche a determinare legislatori e giudici all’assunzione di posizioni
definite.
Una risposta giunse anzitutto dagli stati che adottarono i c.d. “other constituency
statutes”, ossia misure legislative tese ad espandere lo scopo della
discrezionalità degli amministratori delle società fino a poter considerare gli
interessi dei non azionisti, peraltro non solo nel contesto di un takeover37. Il
primo stato fu, nel 1983, la Pennsylvania, seguito da altri 2838. In altri il
35 W. T. Allen, Our schizophrenic conception of the business corporation, in 14 Cardozo L. Rev., 1992, 261 ss., 264, parla di “tectonic forces of the 1980s takeover movement” e di una conseguente “crisis in corporate theory”. 36 Nel 1962 Bayless Manning, The shareholder's appraisal remedy: an essay for frank coker, in 72 Yale L.J., 1962, 223 ss., 245 n. 37 scriveva:“[C]orporation law, as a field of intellectual effort, is dead in the United States”. All’epoca, in effetti, l’esigenza di addivenire ad una nozione condivisa di “società” non era sentita come urgente giacché la relativa staticità del quadro macro economico non evidenziava implicazioni pratiche valide ad attribuire all’interrogativo una connotazione non meramente teorica. 37 Tra i molti che si occuparono dell’evento vanno menzionati E. W. Orts, Beyond shareholders: interpreting corporate constituency statutes, in 61 Geo. Wash. L. Rev., 1992, 14, 26-27; S. M. Bainbridge, Interpreting nonshareholder constituency statutes, in 19 Pepp. L. Rev., 1992, 971 ss.; W. J. Carney, Does defining constituencies matter?, in 59 U. Cin. L. Rev., 1990, 385 ss.; R. S. Davids, Constituency statutes: an appropriate vehicle for addressing transition costs?, in 28 Colum. J. L. & Soc. Probs., 1995, 145 ss.; M. W. McDaniel, Stockholders and stakeholders, in 21 Stetson L. Rev., 1991, 121; L. E. Mitchell, A theoretical and practical framework for enforcing corporate constituency statutes, in 70 Tex. L. Rev., 1991, 579; M. A. O’Connor, Restructuring the corporation’s nexus of contracts: recognizing a fiduciary duty to protect displaced workers, in 69 N.C.L. Rev., 1991, 1189; S. M.H. Wallman, The proper interpretation of corporate constituency statutes and formulation of director duties, in 21 Stetson L. Rev., 1991, 163; L. Johnson, D. Millon, Missing the point about state takeover statutes, 87 Mich. L. Rev. 846 (1989). 38 Per una ricostruzione dettagliata si rinvia a Eric W. Orts, beyond shareholders: interpreting corporate constituency statutes, 61 Geo. Wash. L. Rev. 14, 16-17 (1992); Wai Shun Wilson Leung, The inadequacy of shareholder primacy: a proposed corporate regime that recognizes non-shareholder interests, in 30 Colum. J.L. & Soc. Probs., 1997, 587 ss., 613, 620. Questi i riferimenti normativi: Conn. Gen. Stat. § 33-756(d) (2004); Fla. Stat. § 607.0830(3); Ga. Code Ann. § 14-2-202(b)(5) (2006); Haw. Rev. Stat. § 414-221(b) (2005); Idaho Code Ann.
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medesimo obiettivo si conseguì nelle sedi giudiziarie, grazie ad interventi quali
quelli della corte del Delaware favorevoli a consentire la considerazione di
interessi diversi da quelli degli azionisti anche senza una traccia normativa
esplicita39, in particolare legittimando gli amministratori delle società target ad
opporre resistenza a operazioni che pur apparivano avvantaggiare gli azionisti40.
Il supporto dei menzionati referenti legislativi, comunque, non trovò grande
peso in giurisprudenza, forse in considerazione del particolare frangente storico
nel quale le relative disposizioni erano state emanate, o forse per l’inidoneità
delle stesse a rispondere al quesito lasciato aperto dai confronti dottrinali, ossia
l’individuazione del sistema da adottare per conciliare in concreto le varie
istanze41.
Del resto, se si eccettua quale caso isolato il Connecticut, non vi era in tali
previsioni normative la costituzione di un vincolo giuridico a considerare gli
interessi dei non-azionisti, ma solo il riconoscimento della legittimità di una
scelta in tal senso42. Non vi era indicazione di quale peso si sarebbe dovuto dare
ai vari interessi o di quali azioni fossero concesse per fare valere la violazione
§§ 30-1602, 30-1702 (2006); 805 Ill. Comp. Stat. 5/8.85 (2006); Ind. Code § 23-1-35-1 (2006); Iowa Code § 491.101B (2006); Ky. Rev. Stat. Ann. § 271B.12-210(4) (West 2005); La. Rev. Stat. Ann. §12:92(G) (2006); Me. Rev. Stat. Ann. tit. 13-C, § 831(6) (2006); Mass. Gen. Laws ch. 156D, § 8.30 (2006); Minn. Stat. § 302A.251(5) (2006); Miss. Code Ann. § 79-4-8.30(f) (2006); Mo. Rev. Stat. § 351.347 (2006); Nev. Rev. Stat. § 78.138 (2005); N.J. Stat. Ann. § 14A:6-1 (2006); N.M. Stat. Ann. § 53-11-35(D) (West 2006); N.Y. Bus. Corp. Law § 717(b) (Consol. 2006); N.D. Cent. Code § 10-19.1-50(6) (2005); Ohio Rev. Code Ann. § 1701.59(E) (2006); Or. Rev. Stat. § 60.357(5) (2005); 15 Pa. Cons. Stat. §§ 515-17, 1711-12, 1715-17 (2006); R.I. Gen. Laws § 7-5.2-8 (2005); S.D. Codified Laws § 47-33-4 (2006); Tenn. Code Ann. § 48-103-204 (2006); Vt. Stat. ann. tit. 11A, § 8.30(a) (2005); Wis. Stat. § 180.0827 (2006); Wyo. Stat. Ann. § 17-16-830(e) (2005). Vanno inoltre annoverate talune legislazioni degli stati federati che autorizzano l’organo amministrativo a considerare gli interessi a lungo termine della società, ma senza fare riferimento specifico agli interessi di soggetti diversi dagli azionisti: Ariz. Rev. Stat. § 10-2702 (LexisNexis 2006); Tex. Bus. Corp. Act Ann. art. 13.06 (Vernon 2006); Va. Code Ann. §§ 13.1-727.1 (2006). Il Nebraska aveva varato uno “constituency statute”, poi abrogato (Neb. Rev. Stat. § 21-2035 (1994) (repealed 1995). 39 Unocal Corp. v. Mesa Petroleum Co., 493 A.2d 946, 955 (Del. 1985); Amanda Acquisition Corp. v. Universal Foods Corp., 708 F. Supp. 984, 1009, 1015-16 (E.D. Wis.), aff'd, 877 F.2d 496 (7th Cir. 1989); Mills Acquisition Co. v. MacMillan, Inc., 559 A.2d 1261, 1282 n.29, 1285 n.35 (Del. 1989). 40 Per una disamina critica della giurisprudenza del Delaware v. L. Johnson, The Delaware judiciary and the meaning of corporate life and corporate law, 68 Tex. L. Rev., 865 (1990). 41 Cfr. sul punto A. N. Licht, The maximands of corporate governance: a theory of values and cognitive style, cit., 703-705. 42 Jonathan D. Springer, Corporate constituency statutes: Hallow hopes and false fears, 1999 Ann. Surv. Am. L. 85 (1999).
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dei relativi diritti, né era in alcun modo inciso il diritto degli azionisti di
designare gli amministratori.
Pur a fronte della tendenza degli interpreti a sminuire la portata di questi
interventi, rimane il dato per cui gli hostile takeovers, che tanto sembravano
promettere agli azionisti, finirono per sollevare sul fondamento della
shareholders primacy dubbi destinati a sopravvivere al problema contingente
che li aveva determinati, ripresentandosi in termini generali e altresì nella veste
particolare di interrogativi sulla possibilità per gli investitori istituzionali di
acquisire un ruolo attivo nella corporate governance43. Il dibattito sulle
legislazioni degli stati federati, infatti, riaccese anche quello più ampio sugli
interessi rilevanti nell’adozione delle scelte di gestione.
Nel 1991 comparve il libro di Frank Easterbrook e Daniel Fischel, quale sintesi
dell’approccio c.d. “law and economics”44 ovvero “contractarian”. In linea con
la generale concezione contrattuale della società, tali autori svilupparono la loro
analisi a partire dalla nozione di “residual claimants”, ossia di coloro che hanno
titolo di trarre benefici dalla società solo dopo la soddisfazione di tutte le altre
pretese. Costoro sono identificati negli azionisti, gli unici che – a differenza di
creditori e dipendenti – vantano una pretesa determinabile solo ex post.
Massimizzare la ricchezza degli azionisti è allora la regola desiderabile perché si
traduce in tendenza a massimizzare la ricchezza della società in generale, e
43 A. D. Boyer, Activist shareholders, corporate directors, and institutional investment: some lessons from the robber barons, 50 Wash. & Lee L. Rev. 977 (1993). 44 F. H. Easterbrook, D. R. Fischel, The economic structure of corporate law, 1991. Le conclusioni espresse in tale opera furono accolte, tra gli altri, da Stephen M. Bainbridge, In defense of shareholder wealth maximization norm: a reply to professor Green, 50 Wash. & Lee L. Rev. 1423 (1993); Jonathan R. Macey, An economic analysis of the various rationales for making shareholders the exclusive beneficiaries of corporate fiduciary duties, 21 Stetson L. Rev. 23 (1991); Jonathan R. Macey & Geoffrey P. Miller, Corporate stakeholders: a contractual perspective, 43 U. Toronto L.J. 401 (1993); Alan J. Meese, The team production theory of corporate law: a critical assessment, 43 Wm. & Mary L. Rev. 1629 (2002); Oswald, supra note 203; Roberta Romano, Metapolitics and corporate law reform, 36 Stan. L. Rev. 923 (1984); Mark E. Van Der Weide, Against fiduciary duties to corporate stakeholders, 21 Del. J. Corp. L. 27 (1996). Non vi è in realtà una versione condivisa, tant’è che persino coloro che vi aderiscono si trovano in disaccordo su alcuni punti fondamentali. Offre una ricostruzione delle diverse correnti di pensiero William W. Bratton, Jr., The “nexus of contracts” corporation: a critical appraisal, 74 Cornell L. Rev. 407, 419 (1989).
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quindi tutela indirettamente anche gli altri constituencies45. Si sente in queste
conclusioni un’assonanza con le riflessioni della dottrina italiana sulla relazione
tra potere e responsabilità e sulla preferibile allocazione del primo in capo a chi,
essendo esposto a rischio economico per ogni scelta assunta, sia indotto a
ponderarne maggiormente l’assunzione.
L’adozione di questa prospettiva consente peraltro di superare la concezione dei
soci quali proprietari della società, cogliendo piuttosto nella titolarità di pretese
contrattuali verso la società uno status che non è dissimile da quello di altri
investitori se non per l’alea che circonda la pretesa al rimborso del capitale46.
45 Inoltre tale soluzione è l’unica praticabile se si condivide la teoria sviluppata dall’economista Oliver Hart (An economist's view of fiduciary duty, 43 U. Toronto. L.J., 1993, 299, 303), in base alla quale chiedere a un amministratore di tenere in considerazione gli interessi di tutti i constituencies è vago, e finisce per consentire di giustificare pressoché ogni azione con l’argomento che essa beneficerebbe un certo gruppo. 46 Fece scuola sul punto Armen A. Alchian & Harold Demsetz, Production, information costs, and economic organization, 62 Am. Econ. Rev. 777, 789 (1972), il quale analizzò diversi tipi di investitori distinguendoli a seconda della tipologia di rischio assunto per giungere alla conclusione che se si trattano bondholders, preferred e convertible preferred stockholders, common stockholders e warrant holders semplicemente come diverse classi di investitori, non vi è motivo di considerare solo gli stockholders come proprietari. La posizione fu ripresa da Eugene F. Fama, Agency problems and the theory of the firm, 88 J. Pol. Econ. 288, 289-90 (1980), il quale contribuì a togliere enfasi alla presunzione per cui una società abbia dei proprietari, distinguendo tra “ownership of capital” e “ownership of the firm”, traendo la conclusione che nella prospettiva del nexus of contracts la proprietà della società è un concetto irrilevante, giacchè “each factor in a firm is owned by somebody”. Lo stesso assunto si rinviene in alcune voci della communitarian conception: cfr. Paddy Ireland, Company law and the myth of shareholder ownership, 62 Mod. L. Rev. 32 (1999). Motiva sotto molteplici profili la critica a questa posizione M.A. Eisenberg, The conception that the corporation is a nexus of contracts, and the dual nature of the firm, in J. Corp. Law, University of Iowa,1999, 819 ss., 825-827, il quale sostiene il carattere duplice della natura della società descrivendolo – a pag. 829-830 – con la seguente metafora: “(…) the corporation has a dual nature. In the first quarter of the twentieth century, it was discovered that light, theretofore described and understood as a wave (a portion of the electromagnetic spectrum), can alternatively be described and understood as a particle (a photon) and that, correspondingly, the building-blocks of atoms, such as electrons, theretofore described and understood as particles, can alternatively be described and understood as waves. So too the firm can be described and understood either as a set of reciprocal arrangements or as a bureaucratic hierarchical organization. To describe and understand firms purely as bureaucratic hierarchical organizations misses the voluntary element of many of the arrangements that constitute a firm. To describe firms purely as a set of reciprocal arrangements misses the extent to which firms are organized by bureaucratic rules and operate by hierarchical directions issued by superiors to subordinates”. Lo stesso Autore evidenzia un difetto di coerenza nella teoria del nexus of contracts, proprio con riferimento alla nozione di nexus. Non è infatti chiaro quali contratti o obbligazioni siano rilevanti giacché non tutti sono connessi reciprocamente, ma ciascuno può essere connesso, direttamente o indirettamente, con un numero indefinito di altri. Alla stessa censura sembrano esporsi anche rivisitazioni della teoria originaria quali quelle suggerite da J.J. Lafont, D. Martimort, The firm as a multicontract organization, in 6 J. Econ. & Mgmt. Strategy, 1997, 201 ss., 207; H. Hansmann, The ownership of enterprise, 1996, 18.
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Discendono da queste premesse la nozione di società quale nesso di relazioni
contrattuali volontarie47 e la convinzione che la legislazione in materia societaria
dovrebbe avere carattere derogabile48, così da agevolare le transazioni mediante
Per un’ulteriore disamina dei profili che rendono dubbia l’attendibilità della tesi del nexus of contracts v. D. Campbell, The role of monitoring and morality in corporate law: a criticism of the direction of present regulation, in 7 Austl. J. Corp. L., 1997, 343 ss. 47 La nota immagine della società quale “nexus of contracts” è attribuita a Armen A. Alchian & Harold Demsetz, Production, information costs, and economic organization, 62 Am. Econ. Rev. 777 (1972), e successivamnete a Michael C. Jensen & William H. Meckling, The theory of the firm: managerial behavior, agency costs and ownership structure, 3 J. Fin. Econ. 305 (1976), i quali portarono a compimento – dando seguito alle intuizioni di Ronald Coase, The nature of the firm, 4 Economica 386 (1937) - la formulazione della teoria che di tale metafora porta tutt’oggi il nome. È di Jensen e Meckling, in particolare, la nota definizione di società quale “a legal fiction which serves as a focus for a complex process in which the conflicting objectives of individuals are brought into equilibrium within a framework of contractual relations.” La società non è quindi individuata come un’entità, bensì come un aggregato di vari input che interagiscono per produrre beni e servizi: i lavoratori procurano la forza lavoro, i creditori i finanziamenti, i soci il capitale assumendo il relativo rischio; i soci controllano gli amministratori e questi i lavoratori e coordinano le attività della società. Tutti con un ritorno economico che si atteggia variamente. La stessa comunità contribuisce con vari servizi e infrastrutture in cambio del pagamento delle tasse e dell’offerta di posti di lavoro per i suoi cittadini (William J. Carney, Does defining constituencies matter?, 59 U. Cin. L. Rev. 385, 415-16 (1990). Si ebbero altri tentativi – criticati da The dual nature of the corporation, cit., at 830-31 - di definire la società, come “a set of bilateral contracts between each stakeholder ... and the manager, the common agent” (Jean Jacques Lafont & David Martimort, The firm as a multicontract organization, 6 J. Econ. & Mgmt. Strategy 201, 207 (1997)) o come “the common signatory to a group of contracts” (Henry Hansmann, The ownership of enterprise 18 (1996) o, ancora, come “a nexus of firm specific investments in which several different groups contribute unique and essential resources to the corporate enterprise, and who each find it difficult to protect their contributions through explicit contract” (Margaret Blair and Lynn Stout, The team production theory of corporate law 85 Va. L. Rev. 275 (1999). Tra i fautori di questa teoria si ricordano F. H. Easterbrook, D. R. Fischel, The corporate contract, 89 Colum. L. Rev. 1416 (1989); T. S. Ulen, The Coasean Firm in Law and Economics, 18 J. Corp. L. 301, 318-28 (1993); W. T. Allen, Contracts and communities in corporation Law, 50 Wash. & Lee L. Rev. 1395, 1400 (1993); F. S. McChesney, Economics, law, and science in the corporate field: a critique of eisenberg, 89 Colum. L. Rev. 1530 (1989); tra i critici V. Brudney, Corporate governance, agency costs, and the rhetoric of contract, 85 Colum. L. Rev. 1403 (1985); R. C. Clark, Contracts, elites, and traditions in the making of corporate law, 89 Colum. L. Rev. 1703 (1989); M. A. Eisenberg, The structure of corporation law, 89 Colum. L. Rev. 1461 (1989). Per un’analisi critica cfr. Melvin A. Eisenberg, The conception that the corporation is a nexus of contracts and the dual nature of the firm, 24 J. Corp. L. 819 (1999); William T. Allen, Our schizophrenic conception of the business corporation, 14 Cardozo L. Rev. 261 (1992); Jeffrey Nesteruk, Persons, property, and the corporation: a proposal for a new paradigm, 39 DePaul L. Rev. 543 (1990). 48 I. O. Bolodeoku, Contractarianism and corporate law: alternative explanations to the law's mandatory and enabling/default contents, in Cardozo J. Intern. Comp. Law, 2005, 433 ss, 486-496, rileva come la disciplina societaria dei paesi di common come di civil law sia caratterizzata dalla coesistenza di previsioni derogabili e imperative, e collega tale dato a fattori storici e culturali. Sostiene, in particolare, che l’alternarsi dell’una o dell’altra tipologia di interventi normativi è riconducibile a mutamenti nell’apprezzamento di valori o nell’attribuzione di priorità agli interessi pubblici coinvolti, dando quindi una ragione al fatto che Paesi
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regole di default che non ledano la libertà delle parti di adottare discipline più
adeguate al caso di specie49. L’incapacità delle parti di realizzare in autonomia
originariamente – o quantomeno a seguito della colonizzazione - dotati di legislazioni uniformi abbiano conosciuto evoluzioni differenti proprio con riguardo all’estensione della disciplina di default. L’esperienza statunitense è segnalata come esemplare. Caratterizzati inizialmente da un accentuato grado di inderogabilità, riconducibile alla necessità di proteggere da possibili abusi della forma societaria i tre poli di interesse rappresentati dai terzi, dai creditori e dai soci, gli Statutes elaborati dai singoli Stati conoscono una nuova fase a partire dal 1913, quando il New Jersey avviò l’era della concorrenza tra legislazioni volta a sollecitare tramite la liberalizzazione dell’attività di impresa e delle sue forme l’insediamento di attività commerciali in questo piuttosto che in quel territorio. L’origine della derogabilità delle norme viene quindi ricondotta alla concorrenza tra ordinamenti. 49 Per usare un’efficacie sintesi: “Again, the idea is not to regulate, but rather to facilitate” (J. Velasco, The fundamental rights of the shareholder, in U.C. Davis Law Review, 2006, 407 ss., 445). Si parla parla anche di favore per la c.d. “non-interventionist policy”: Fred McChesney, Economics, law, and science in the corporate field: a critique of eisenberg, 89 Colum. L. Rev. 1538 (1989); Jonathan R. Macey, Corporate law and corporate governance: a contractual perspective, 18 J. Corp. L. 185 (1993). Nell’opinione di Michael Bradley et al., The purposes and accountability of the corporation in contemporary society: corporate governance at a crossroads, 62 Law & Contemp. Probs. 9, 37 (1999), se da un punto di vista teorico la necessità di una corporate law potrebbe essere superata dalla valorizzazione della libertà contrattuale, storicamente essa non può che esistere per almeno due ordini di ragioni, ossia anzitutto perché consente di supplire all’incapacità negoziale dei privati, in secondo luogo in quanto riduce quei costi di transazione che renderebbero inefficiente, anche ove possibile, la redazione di contratti completi. Secondo Frank H. Easterbrook & Daniel R. Fischel, The economic structure of corporate law,1991, 34, la corporate law “fills in the blanks and oversights with the terms that people would have bargained for had they anticipated the problems and been able to transact without costs in advance”. Jeffrey N. Gordon, The mandatory structure of corporate law, 89 Colum. L. Rev. 1549, 1551-2, teorizzò due principi. In conformità al primo, detto“content principle”, “the content of corporate law, which includes both the statutory law and the common law of fiduciary duty, should ideally be the results that typical parties to the contract comprising the corporation would have reached if bargaining were costless”. Per il secondo, detto “opt out principle”, “corporate law should function as a sort of standard form contract, an off the rack set of terms that parties may use for their convenience but may also freely alter.” É limite evidente di tale teoria non considerare la desiderabilità, oltre che l’esistenza, di norme che sono inderogabili in ragione della loro idoneità a tutelare interessi pubblici (per una critica in questo senso v. W. Klein & John Coffee, Business organisation and finance: legal and economic principles 105-06 (3d ed. 1988). Assunto di base di tali posizioni è il c.d. “rational-actor model of psychology”, che riconosce ai contraenti la capacità, quali esseri razionali, di contrattare e concordare termini idonei a tutelare i loro interessi, ossia la massimizzazione delle loro utilità. Sul punto v. Melvin Eisenberg, Why there is no law of relational contracts, 94 NW. U.L. REV. 805, 808 (2000). Ad esso si somma, quale componente parimenti centrale della teoria, il c.d. “voluntarism”, ossia l’agire volontario e libero delle parti. Diventa in questa prospettiva ragionevole affermare che “because the corporation is a particular type of firm formed by individuals acting voluntarily and for their mutual benefit, it can far more reasonably be viewed as the product of private contract” (Daniel Fischel, The corporate governance movement, 35 Vand. L. Rev. 1274 (1982). Il mercato finanziario garantirebbe la validità generale di tali asserzioni, giacché gli investitori non qualificati godrebbero della tutela – la tesi fu evidentemente formulata prima dei noti scandali - rappresentata dall’intermediazione di banche o fondi pensionistici (Frank Easterbrook & Daniel Fischel, The economic structure of corporate law,1991, 24).
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regolamenti contrattuali perfetti, però, costituisce motivo non solo per invocare
a supplenza la legge, ma anche per criticare la solidità teorica dell’approccio
basato sulla nozione di residual claimant. Le corti hanno evidenziato, infatti,
come affidare la protezione dei creditori unicamente alle previsioni contrattuali50
renderebbe imprescindibile misurarsi con le evidenze sviluppate dalla teoria
economica circa l’inevitabile incompletezza delle composizioni pattizie degli
interessi51. Le parti non sono in grado di prevedere e disciplinare ogni futuro
accadimento per la percentuale di imprevisti che possono occorrere e perché,
anche se fossero in grado di farlo in linea teorica, non lo sarebbero in via pratica
per gli alti costi che ciò comporterebbe. Al contempo una parte potrebbe volersi
giovare dei vantaggi informativi di cui è in possesso evitando di rendere note
talune circostanze alla controparte, e potrebbe realizzare tale intento
ogniqualvolta sia impossibile o proibitivo monitorare l’altra parte (c.d. problem
of unobservability) o provarne la mala fede (c.d. problem of unverifiability).
Cosicché accordare tutela legale ai soli azionisti sulla base della differenza tra
pretese fisse e pretese residuali, affidando viceversa ai soli contratti le garanzie
per un’amministrazione attenta alle istanze degli stakeholders, equivarrebbe di
fatto a negare considerazione a questi ultimi. Vi è da aggiungere, a tal proposito,
che non è pacifico se la teoria delle pretese residuali sia connessa con quella che 50 Simons v. Cogan, in 542 A.2d, 785 ss., 785-791 (Del. Ch. 1987); W. W. Bratton, Jr., The economics and jurisprudence of convertible bonds, in Wis. L. Rev., 1984, 667 ss., 668; C. W. Smith, J. B. Warner, On financial contracting: an analysis of bond covenants, in17 J. Fin. Econ., 1979, 117 ss. 51 O. Hart, Firms, contracts and financial structure,1995. Critiche in questa direzione sono state formulate da Victor Brudney, Corporate governance, agency costs and the rhetoric of contract, 85 Colum. L. Rev. 1403 (1985); Melvin Eisenberg, The conception that the corporation is a nexus of contracts, and the dual nature of the corporation, 24 J. Corp. L. 819 (1999); Michael Whincop, Of fault and default: contractarianism as a theory of anglo-australian law, 21 Melbourne U.L. Rev. 187 (1997); Timothy L. Fort and James J. Noose, Banded contracts, mediating institutions, and corporate governance: a naturalist analysis of contractual theories of the firm, 62 LAW & CONTEMP. PROB. 163, 184 (1999), il quale ultimo sottolinea come quando un individuo contratta con un sistema ha solo un impatto marginale sui termini del contratto, cosicchè “notions of choice, consent, and freedom used to describe individual contract are no longer helpful.” Ancora in tema di asimmetrie informative Stephen M. Bainbridge, Community and statism: a conservative contractarian critique of progressive corporate law scholarship, 82 Cornell L. Rev. 856, 871 (1997) scriveva: “(...) the nexus-of-contracts model is properly viewed as a metaphor rather than as a positive account of economic reality. Contractarianism is analogous to Newtonian physics, which no longer claims to be an accurate representation of the laws of physics, but yet provides a simple model that adequately explains a large and important set of physical phenomena.”
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sostiene la shareholder primacy o con quella communitarian52. Il superamento
della concezione dei soci come proprietari (c.d. traditional view)53, infatti,
potrebbe di per sé aprire un varco alla valutazione degli interessi di altri
stakeholders, sul presupposto che la posizione di tutti sia pari eccetto che per i
peculiari diritti contemplati dai singoli contratti con la società54. Prevale
comunque l’idea che i punti di contatto siano maggiori con la traditional view,
non solo perché i contractarians generalmente non impiegano concetti quali
“social responsibility”55, ma soprattutto perché anche se possono essere
d’accordo sul fatto che la società esiste per il beneficio di tutti i suoi
stakeholders, finiscono comunque per collocarsi su una posizione non lontana
da quella della shareholder primacy. Arguendo che i benefici provengono
dall’abilità di ciascuno di entrare proficuamente in contrattazione con altri56, i
contractarians generalmente negano che la funzione degli amministratori sia
bilanciare gli interessi dei vari stakeholders57. Il che significa che, per quanto su
un piano astratto tali teorici preferiscano equiparare la massimizzazione
52 Tale termine è usato per tenere distinta la corrente di pensiero che dà rilievo agli interessi di tutti i constituencies da quella dei contractarians. Quale padre fondatore del communitarian movement, v. Amitai Etzioni, The moral dimension: toward a new economics (1988); Amitai Etzioni, The spirit of community: the reinvention of american society (1993). Per una critica: Stephen M. Bainbridge, Community and statism, cit., 856; Stephen M. Bainbridge, The bishops and the corporate stakeholder debate, 4 Vill. J.L. Investment Mgmt. 3 (2003). Per un approfondimento v. Michael E. DeBow & Dwight R. Lee, Shareholders, nonshareholders and corporate law, cit., 393; per uno studio dei rapporti tra le due teorie, cfr. M. Blair, L. Stout, A team production theory of corporate law, in 85 Va. L. Rev., 1999, 247 ss., 253-254; Melvin A. Eisenberg, The conception that the corporation is a nexus of contracts, and the dual nature of the firm, 24 J. Corp. L. 819, 833 (1999). 53 Dodge v. Ford Motor Co., 170 N.W. 668, 684 (Mich. 1919); E. Merrick Dodd, Jr., For whom are corporate managers trustees?, 45 Harv. L. Rev. 1145, 1145 (1932); Milton Friedman, A Friedman Doctrine--The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits, N.Y. Times, Sep. 13, 1970, at SM17. 54 Jonathan R. Macey, Fiduciary duties as residual claims: obligations to nonshareholder constituencies from a theory of the firm perspective, 84 Cornell L. Rev. 1266, 1267-68 (1999). 55 Daniel R. Fischel, The corporate governance movement, 35 Vand. L. Rev. 1259, 1268-73 (1982). 56 Kenneth J. Arrow, Social responsibility and economic efficiency, 21 Pub. Pol'y 303, 304-05 (1973). 57 Sul punto non vi è unanimità di vedute, come si evince leggendo Margaret M. Blair & Lynn A. Stout, A team production theory of corporate law, 85 Va. L. Rev. 247, 288-89 (1999). Posizione assai seguita è quella di Jonathan R. Macey, An economic analysis of the various rationales for making shareholders the exclusive beneficiaries of corporate fiduciary duties, 21 Stetson L. Rev. 23, 32 (1991), per il quale consentendo agli amministratori di bilanciare interessi concorrenti li si metterebbe nella condizione di soddisfare i loro propri interessi favorendo gli stakeholders di cui interessi sono più vicini ai loro.
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dell’interesse sociale alla massimizzazione della ricchezza complessiva di tutti
gli stakeholders, di fatto, a fronte della difficile traduzione nella realtà storica di
questa petizione, indicano una via mediata per conseguirla: la ricchezza dei soci.
Il supporto logico di tale affermazione è ancora una volta il carattere residuale
della pretesa economica degli azionisti, che traggono prospettive di vantaggio
dalla circostanza che la società sviluppi un potenziale maggiore a quello
sufficiente a restituire loro quanto dovuto. Il vincolo per gli amministratori di
perseguire gli interessi dei soci si giustifica pertanto in quanto strumentale alla
realizzazione dell’interesse sociale58. Parallelamente il diritto dei soci di
designare e di revocare gli amministratori, essendo volto a garantire che i
secondi tutelino gli interessi dei primi, risponde in definitiva all’interesse della
società59.
Si diceva che la soluzione così prospettata non è di molto lontana da quella alla
quale perviene la concezione patrimoniale della società, considerato che anche
secondo quest’ultima gli amministratori sono vincolati al perseguimento degli
interessi degli azionisti. Diverse sono, però, le argomentazioni che sorreggono
tale posizione. Anzitutto lo scopo così individuato per l’attività gestoria è inteso
come scopo ultimo, giacché l’interesse dei soci si ritiene esaurisca l’interesse
sociale, il quale non conoscerebbe componenti ulteriori nelle posizioni di “other
constituencies”60. Quanto, poi, all’attribuzione del potere di nomina e revoca
degli amministratori, si afferma che l’opportunità di concentrare il potere
58 Frank H. Easterbrook & Daniel R. Fischel, Voting in corporate law, 26 J.L. & Econ. 395, 403-406 (1983). 59 Eugene F. Fama, Agency problems and the theory of the firm, cit., 291; Easterbrook & Fischel, The corporate contract, 89 Colum. L. Rev. 1416, 1446-7 (1989); Id., Voting in corporate law, 26 J.L. & Econ. 395, 401-2 (1983); Stephen M. Bainbridge, In defense of the shareholder wealth maximization norm, cit., 1442-45 (1993); Jonathan R. Macey & Geoffrey P. Miller, Corporate stakeholders: a contractual perspective, 43 U. Toronto L.J. 401, 407 (1993). La spiegazione di come i diritti dei soci siano funzionali a rendere gli amministratori responsabili verso la società è svolta anche con riguardo al diritto di recedere o di alienare le azioni. Supposto un socio “rationally apathetic”, ossia disinteressato all’esercizio dei diritti amministrativi, l’insoddisfazione per l’amministrazione non può che tradursi nella scelta di cedere la partecipazione creando il cd. “market for corporate control”: la vendita delle azioni in un momento di insoddisfazione procura un calo del costo delle azioni ed espone la società a takeovers ostili e gli amministratori al rischio di essere sostituiti (Henry G. Manne, Some theoretical aspects of share voting, 64 Colum. L. Rev. 1427, 1431 (1964). Mancando un mercato attivo dei takeovers, l’effetto è più che altro deterrente. 60 Stephen M. Bainbridge, In defense of the shareholder wealth maximization norm, cit., 1443-1444.
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decisionale in capo ad un numero ristretto di persone dotate di adeguata
professionalità, giustifica la scelta di non attribuire direttamente ai soci i poteri
amministrativi, ma non può portare a spodestare coloro che sono i proprietari
della società, cosicché è dato loro il potere di eleggere i componenti degli organi
sociali61. Posto quindi che la separazione tra proprietà e controllo non è di per sé
contraria agli interessi dei soci, rimane il problema del controllo62, che sarebbe
coerente attribuire ai soci ma che non può essere diretto e continuativo in
ragione della discrezionalità da riconoscere nell’amministrazione per sfruttare a
pieno le potenzialità della società63. L’autorità degli amministratori è quindi
detta “original and undelegated”64, ma pur sempre diretta a beneficio dei soci.
61 At least, this is true as a default rule. See Del. Code Ann. tit. 8, § 141(a); Model Bus. Corp. Act § 8.01(b). It is as true for the closely held corporation as it is for the public corporation, although corporations organized pursuant to special close corporation statutes can avoid this rule. See Del. Code Ann. tit. 8, § 351; Model Statutory Close Corp. § 21 (Supp. 1997). 62 Lynne L. Dallas, Two models of corporate governance: beyond Berle and means, 22 U. Mich. J.L. Reform 19, 34-36 (1988). 63 Stephen M. Bainbridge, Participatory management within a theory of the firm, 21 J. Corp. L. 657, 665-66 (1996); Stephen M. Bainbridge, The politics of corporate governance, 18 Harv. J.L. & Pub. Pol'y 671, 675-77 (1995); Eugene F. Fama & Michael C. Jensen, Separation of ownership and control, 26 J.L. & Econ. 301, 307-11 (1983). 64 Assurance Co. v. Rachlin Clothes Shop, Inc., 125 A. 184, 188-89 (Del. 1924) (citing Hoyt v. Thompson's Ex'r, 19 N.Y. 207, 216 (1859)); Manson v. Curtis, 119 N.E. 559, 562 (N.Y. 1918). Ne è derivata la definizione degli amministratori quali “trustees” (Diamond v. Oreamuno, 287 N.Y.S.2d 300, 302 (N.Y. App. Div. 1968) piuttosto che quali “agents” (Michael C. Jensen & William H. Meckling, Theory of the firm: management behavior, agency costs and ownership structure, 3 J. Fin. Econ. 305, 309 (1976), o quali “sui generis fiduciaries” (Stegemeier v. Magness, 728 A.2d 557, 562-63 (Del. 1999). Proprio tale precipitato è stato oggetto di censura da parte di quanti hanno sottolineato come la promozione di un sistema di governance privo di disciplina avrebbe come esito affidare il controllo dei managers a “surrogate monitors”, quale è il mercato, con profondi dubbi di efficienza. Cfr. Victor Brudney, Corporate governance, agency costs and the rhetoric of contract 85 Colum. L. Rev. 1403 (1985), e, in tempi successivi allo scandalo Enron, I. O. Bolodeoku, Contractarianism and corporate law: alternative explanations to the law's mandatory and enabling/default contents, in Cardozo J. Intern. Comp. Law, 2005, 433 ss., 483. A partire da queste considerazioni si è sviluppato il movimento detto “progressive corporate law”, che preferisce che le responsabilità da gestione siano definite da un apparato normativo su un piano generale. In questo senso può essere letto Kent Greenfield, Using behavioral economics to show the power and efficiency of corporate law as a regulatory tool, 35 U.C. Davis L. Rev. 581, 599 (2002), ove: “even if one assumes that a maximization of utility should be the end goal, government intervention is often necessary to repair market defects and thereby to maximize utility. Externalities, collective action problems, ‘prisoners' dilemmas,‘ inadequate information, tragedies of the common, and natural monopolies may all result from market forces and can make it impossible to maximize social utility. Thus, government regulation of corporations is necessary even under a utilitarian social calculus.” La c.d. “contractarian perspective” è così superata dall’interno, trovando formulazione in una versione ulteriore che potremmo definire “impura”.
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Se si considera la definizione dei rapporti tra i diversi interessi sul piano della
governance, un punto di convergenza si coglie invece proprio tra l’approccio
tradizionale e quello dei communitarians, negando entrambi - l’uno per
l’asserita irrilevanza degli interessi non afferenti ai soci, l’altro per sfiducia
sull’efficacia delle tutele accordabili dallo strumento pattizio65 - che al contratto
possa essere riconosciuto un ruolo di rilievo. Sennonché i primi sono contrari
altresì ad interventi normativi che comprimano la libertà d’azione degli
amministratori, in specie se per volgere quest’ultima a favore di non soci, i
secondi confidano invece nella determinazione legislativa delle tutele. Nel
mezzo può collocarsi la posizione dei contractarians, che valorizzano
l’autonomia privata ma solo per la protezione dei nonshareholders66.
Tanto detto sui tratti caratterizzanti le diverse linee di pensiero, occorre
precisare che per quanto gli approcci socio-politici oltre che economici e
giuridici dai quali esse prendono origine siano tra loro lontani67, l’evolversi della
normativa e del contesto storico ha generato la tendenza comune a correggere
talune rigidità delle posizioni iniziali in un moto di avvicinamento tra le varie
65 Questa obiezione viene mossa anche al filone, detto dei progressive contractarians che presta maggiore attenzione alle istanze dei nonshareholders, ed in specie dei lavoratori, ma collocandole pur sempre la tutela su un piano contrattuale. V. al riguardo . O'Connor, Restructuring the corporation's nexus of contracts: recognizing a fiduciary duty to protect displaced workers, 69 N.C. L. Rev. 1189 (1991); Katherine Van Wezel Stone, Employees as stakeholders under state nonshareholder constituency statutes, 21 Stetson L. Rev. 45 (1991). 66 Tra i sostenitori di tale tesi possono peraltro distinguersi diverse posizioni circa il livello appropriato di intervento legislativo. Alcuni, come Easterbrook and Fischel, sembrerebbero propensi a tollerare un corpo di norme imperative se ciò fosse funzionale a contenere un fallimento del mercato. Per avere un quadro della discussione sul punto può essere utile la lettura di William W. Bratton, Jr., The economic structure of the post-contractual corporation, 87 Nw. L. Rev. 180, 191-97 (1992). Altri, tra i quali Larry E. Ribstein, The mandatory nature of the ali code, 61 Geo. Wash. L. Rev. 984 (1993), mostrano viceversa contrarietà a qualsiasi interferenza con l’autonomia privata. 67 A fondamento delle diverse posizioni assunte dai citati orientamenti è stato ravvisato un diverso approccio ideologico circa il modo stesso di intendere le esigenze dei cittadini. I contractarians pongono quale assunto di partenza l’istanza di libertà degli individui, che nella prospettiva del giurista si traduce in istanza di valorizzazione dell’autonomia privata. I communitarians enfatizzano invece il ruolo dello stato nel porre regole, anche di limitazione della libertà dei singoli, funzionali al vivere civile. Opera una distinzione in questi termini D. Millon, Communitarians, contractarians, and the crisis in corporate law, in Washington and Lee Law Review, 1993, 1373 ss., 1382-1383. Sulla contrapposizione ideologica sottesa ai diversi approcci, riducibile in sintesi e con approssimazione al binomio autorità e mercato, sono da ricordare le pagine di Mignoli, L’interesse sociale, cit., 725 ss.; G. Minervini, Contro la funzionalizzazione dell’impresa privata, in Riv. dir. civ., 1958, 618 ss.
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categorie che rende talora incerto il confine tra le medesime sussistente68 e in
qualche modo porta la convinzione che la soluzione più persuasiva si possa
trovare nella conciliazione anziché nella selezione delle tesi proposte. L’idea che
il quesito sulla natura dell’interesse sociale sia destinato a rimanere senza una
risposta univoca si affaccia in effetti tra gli studiosi statunitensi69 segnando un
punto di arrivo comune alle riflessioni svolte dalla dottrina italiana70
68 D. Millon, Communitarians, contractarians, and the crisis in corporate law, cit., 1373 ss., nt. 27, rileva come sulla ditocomia tra communitarians e progressive contractarians sia posta eccessiva enfasi, vista la difficoltà che spesso si incontra nel distinguere quando autori che invocano tutele legali per i nonshareholders mutuino il loro pensiero dall’una o dall’altra schiera. Sulla difficoltà di inquadrare entro rigide partizioni il pensiero dei vari Autori, cfr., con più specifico riferimento alla dottrina italiana afferente al contrattualismo, Jaeger, L’interesse sociale, cit., 86. 69 W. T. Allen, Our schizophrenic conception of the business corporation, cit., 280-281 a ragione affermava: “I suppose that there will be no final move in defining the nature or the purpose of the business corporation. It is perhaps asking too much to expect us, as a people-or our law-to have a single view of the purpose of an institution so large, pervasive, and important as our public corporations. These entities are too important to generate that sort of agreement. Within them exists the tension that a dynamic market system creates between the desire to achieve increases in total wealth and the desire to avoid the losses and injuries-the redistribution-that a dynamic system inevitably engenders. (...) Thus I conclude that we have been schizophrenic on the nature of the corporation, but as a society we will probably always be so to some extent. The questions “What is a corporation?” and “For whose benefit do directors hold power?” are legal questions only in the sense that legal institutions will be required at certain points to formulate or assume answers to them. But they are not simply technical questions of law capable of resolution through analytical rule manipulation. Even less are they technical questions of finance or economics. Rather in defining what we suppose a public corporation to be, we implicitly express our view of the nature and purpose of our social life. Since we do disagree on that, our law of corporate entities is bound itself to be contentious and controversial. It will be worked out, not deduced. In this process, efficiency concerns, ideology, and interest group politics will commingle with history (including our semi-autonomous corporation law) to produce an answer that will hold for here and now, only to be torn by some future stress and to be reformulated once more. And so on, and so on, evermore.” La medesima conclusione si ritrova in tempi più recenti in A. N. Licht, The maximands of corporate governance: a theory of values and cognitive style, cit., 651, ove: “(...) two hundred years has not been enough to resolve the debate over the maximands of corporate governance.” 70 Si ricorda – oltre agli Autori citati alla nota 1 – M. Cossu, Società aperte e interesse sociale, Torino, 2006, 282 ss., e spec. 289, ove ravvisa una “conferma dela natura mista del sostrato ideologico della riforma” la circostanza che quelle che definisce “interferenze di rango istituzionale” (sulle quali v. infra nt. 261) “sono in parte controbilanciate dalla riscoperta del ruolo dell’autonomia privata e in particolare del contratto, che appare depurato dai connotati di sacralità attribuitigli dalla dogmatica ottocentesca e rifondato, sul piano giuspolitico, per effetto di una prospettiva nuova, di (parziale) de formalizzazione della produzione giuridica”; Oppo, In tema di « libertà e responsabilità » nelle società di capitali riformate, in Riv. dir. civ. 2004, II, 861 ss., 861-862, ove rileva che “vi sono nella riforma aspetti sia di contrattualismo che di istituzionalismo e questo discende dal fatto che, nel nostro caso, l’impresa, almeno quella privata, è associativa e lucrativa, talchè l’interesse e l’azione dei singoli non possono essere ignorati” e ove fa conseguire a tale affermazione – con prospettiva alla quale si farà appello nelle pagine a seguire – quella ulteriore per cui “la corrispondenza tra libertà e responsabilità va
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sull’opportunità di riconsiderare istituzionalismo e contrattualismo nella
prospettiva non più della contrapposizione bensì della coesistenza e della
tensione a un fine comune. Da questi esiti prenderà avvio l’indagine sulle
innovazioni introdotte dalla riforma nella struttura finanziaria delle società per
azioni, al fine di coglierne le implicazioni sul piano sistematico.
indagata nella condizione del socio, vuoi come singolo, vuoi nell’operare collegialmente o congiuntamente con altri, e nella condizione degli amministratori e controllori: rispettivamente responsabilità patrimoniale, responsabilità gestoria, responsabilità professionale”.
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31
Capitolo II
Strumenti finanziari partecipativi e interesse sociale
Sezione I
1. La complessità della struttura finanziaria quale nuova variabile nel
dibattito sull’interesse sociale.
Le riflessioni sulla nozione di interesse sociale e sulle dinamiche di governo che
dalla stessa discendono si svilupparono assumendo a riferimento una struttura
finanziaria basica, caratterizzata da una netta distinzione tra titoli azionari e titoli
di debito. Ciò è di facile comprensione se si considera che gli strumenti ibridi
avevano una diffusione limitata e che era senz’altro condivisa l’opinione per la
quale l’attribuzione agli azionisti dei diritti amministrativi era la scelta allocativa
da privilegiare in ragione della qualità di residual claimant71 loro riconosciuta. Il
quadro odierno è però mutato, in Italia come oltreoceano. Se il legislatore del
2003 ha aperto l’assetto societario ad una varietà prima ignota di forme di
partecipazione, negli Stati Uniti il ricorso a veicoli di finanziamento atipici si è
imposto nella prassi fino a competere con gli strumenti puri, azionari od
obbligazionari. Queste due ultime categorie sono divenute complesse,
distinguendosi per il diverso combinarsi di diritti amministrativi ed economici.
Ha così ragione di porsi la questione su come queste nuove variabili incidano sui
modelli tradizionali di interpretazione della disciplina societaria ricostruiti nel
capitolo che precede. La riflessione, peraltro, trova utilmente avvio in un
momento che, sul piano logico oltre che storico, anticipa la configurazione delle
forme ibride di partecipazione, vale a dire le ragioni – o almeno alcune delle
ragioni - economiche che l’hanno sollecitata. Il riferimento è alle istanze legate
all’accesso dell’impresa a nuova finanza, le quali si prestano pertanto a
costituire, in uno con le diverse opzioni per soddisfarle, il primo oggetto della
disamina72.
71 F. Partnoy, Financial innovation in corporate law, in Journal of Corporation Law (University of Iowa), 2006, 799 ss., 799. 72 Gli Autori che per primi hanno indicato le linee di interpretazione della riforma del 2003 hanno condiviso l’osservazione per la quale il legislatore ha opportunamente valorizzato la società per azioni nei profili di funzionalità al finanziamento dell’impresa. In tal senso Tombari,
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2. Asimmetria informativa e incompletezza strutturale nel finanziamento
dell’impresa.
Sono due gli ostacoli principali con i quali il finanziamento dell’impresa si
confronta: l’asimmetria informativa originaria tra le parti e la possibilità che il
mutuatario fruisca dell’opacità circa la gestione delle risorse erogate per
assumere condotte in conflitto con gli interessi dell’investitore. Il fenomeno
assume evidenza massima nel campo della produzione legata all’innovazione,
ove lo svantaggio del creditore rispetto alle conoscenze tecniche necessarie a
valutare degli esiti attesi dei progetti si somma, specie nella fase del c.d. start
up, all’insufficienza di garanzie reali o personali alle quali assicurare il
rimborso73. Il nodo della materia sta nell’insuperabile incompletezza dei
contratti di finanziamento, inidonei a prevedere ogni possibile evoluzione
dell’intrapresa sovvenzionata e a contenere in clausole rigide le azioni da
imporre a fronte delle diverse evenienze74. D’altro canto, anche laddove si
potesse approntare una disciplina esauriente in relazione a ciascuno dei singoli
casi, affiorerebbe la difficoltà di conciliare due esigenze divergenti. Per un verso
la flessibilità nel modulare il rischio a seconda delle evoluzioni del quadro
economico è una risorsa preziosa tendenzialmente meglio allocata nelle mani di
La nuova struttura finanziaria della società per azioni (Corporate Governance e categorie rappresentative del fenomeno societario), cit., 1083; S. Fortunato, I principi ispiratori della riforma delle società di capitali, in Giur. comm. 2003, 728, il quale commenta i principi generali per la riforma delle società di capitali parlando di « “favor” legislativo per il carattere d’impresa della società, quale strumento privilegiato per l’esercizio collettivo delle attività economiche e quindi produttrici di nuova ricchezza »; G. Ferri jr ., Fattispecie societaria e strumenti finanziari, in C. Montagnani (a cura di), Profili patrimoniali e finanziari della riforma (Atti del convegno – Cassino, 9 ott. 2003), Milano, 2004, 69, ove a titolo di paragrafo significativamente si legge la descrizione della società per azioni come “disciplina del finanziamento dell’impresa”. 73 Si spiega in questi termini il particolare approfondimento che il punto in esame ha conosciuto nella letteratura sul venture capital. 74 Le riflessioni che i teorici dell’economia e del diritto hanno sviluppato sul tema dell’incompletezza necessaria dei contratti si trovano esposte, con ampi riferimenti bibliografici, in G. Bellantuono, I contratti incompleti nel diritto e nell’economia, Padova, 2000, passim, il quale – muovendo da una ricostruzione delle teorie economiche dello scambio - è attento a segnalare come la selezione degli strumenti giuridici per l’integrazione debba presupporre la comprensione delle ragioni economiche delle lacune, ma anche la ponderazione delle peculiarità anzitutto del ragionamento giuridico rispetto a quello econonimico, quindi dell’ordinamento di common law – nel quale il ragionamento ha preso avvio – rispetto a quello di civil law, specie per quel che attiene al diverso ruolo riservato all’autonomia privata, alla legge e alla giurisprudenza.
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chi sa fruire delle informazioni disponibili, ossia dell’imprenditore. Per altro
verso è latente il pericolo che la conseguente discrezionalità sia impiegata quale
strumento per massimizzare i benefici del solo finanziato75. Di qui la
convenienza che il finanziato conservi quale socio di maggioranza quella
paternità della società che responsabilizza alla migliore delle gestioni, ma al
contempo la necessità che il creditore trovi nella disponibilità di incisivi poteri
di controllo una compensazione all’essere soggetto esterno - o al più socio di
minoranza - rispetto alla compagine sociale.
Vari sono gli strumenti che la letteratura economica suggerisce, soprattutto
suggestionata dai riscontri positivi registrati nelle realtà estere. L’ingegneria
contrattuale traccia profili peculiari a misura del singolo progetto
imprenditoriale perseguito, giungendo a riservare al finanziatore poteri di veto
su determinate operazioni con l’intento di verificare e indirizzare la condotta
dell’imprenditore. A titolo esemplificativo si possono indicare quali argini alla
discrezionalità i patti che interdicono la liquidazione, od operazioni
straordinarie, trasferimenti di azioni76, richiesta o concessione di mutui,
pagamento di dividendi77: iniziative, queste e altre simili78, per le quali diventa
75 Palmieri, I bond covenants, in Banca, impresa, soc., 2006, 247, 256, scrive: “E’ evidente infatti come il capitale di rischio (o spesso quelle sole frazioni legate da un patto di controllo), soprattutto nelle società con uno scarso credito finanziario, sia naturalmente spinto ad intraprendere operazioni finanziarie che producano il maggior utile ottenibile al fine di una corresponsione dei dividendi, quasi sempre nel breve corso di pochi esercizi sociali. Tali politiche si scontrano nettamente con l’interesse dei creditori, teso alla salvaguardia di una costante redditività aziendale, nonché avverso ad un indirizzo di divisione degli attivi per l’intera durata del prestito accordato”. 76 Smith, The venture capital company: a contractarian rebuttal to the political theory of american corporate finance?, 65 Tenn. L. Rev. 79, 1997, 108, 119: “In order to protect their ownership of the companies in which they invest, venture capitalists often negotiate provisions forbidding all new issues of stock unless the issuance is approved by all, or some supermajority, of the shareholders”. 77 Smith, The venture capital company, cit., 112: “investment contracts between management and venture capitalists often contain a variety of covenants against managerial self-dealing, including limits on the sale of stock; payment of dividends; and loans to and repurchases of stock from insiders.” 78 Palmieri, I bond covenants, cit., 259 ss., offre un interessante quadro delle clausole contrattuali che nella prassi anglosassone si accompagnano ai contratti di finanziamento obbligazionario. Distingue, in particolare, tra tutela immediata e tutela mediata dell’integrità del patrimonio sociale, annoverando nel primo ambito le clausole di limitazione all’indebitamento, ai pagamenti verso taluni soggetti, soci o creditori, alle operazioni di lease back, alla vendita di asset; nel secondo ambito le clausole di limitazione alle operazioni di fusione, al cambiamento della compagine di controllo, alle transazioni con affiliate o controllanti, nonché le clausole contenenti un obbligo di informazione specifico a favore degli obbligazionisti.
34
vincolante la previa negoziazione con il creditore interessato e dunque una
valutazione di concerto con questo.
La gestione del potenziale conflitto di interessi tra azionisti e creditori tramite la
predisposizione di tali clausole presenta un duplice vantaggio, in quanto
consente ai creditori di limitare gli azionisti nella possibilità di condurre la
società a misura dei loro privati interessi, e alla società di ottenere risorse
finanziarie ad un tasso di interessi inversamente proporzionale all’incisività
delle cautele accordate e dunque al rischio connesso all’affare. Tale soluzione
trova, però, un limite di utilità nei costi che a essa inevitabilmente conseguono.
Non solo, infatti, la predisposizione e negoziazione continuative delle condizioni
contrattuali esigono competenze tecniche qualificate la retribuzione delle quali è
notoriamente non irrilevante, ma soprattutto possono determinare un
irrigidimento delle azioni della società a scapito di un amento del valore globale
della stessa79. Il contenimento del rischio sopportato dal finanziatore può, infatti,
impedire alla società d’avvantaggiarsi di occasioni di mercato favorevoli alla
crescita. Numero e rigidità dei vincoli non identificano perciò necessariamente il
modello ottimale, il quale risulterebbe piuttosto dal bilanciamento di tutti i costi
connessi alla singola previsione e alla rinegoziazione della stessa80.
Alla luce di questi limiti trova spiegazione la frequenza con cui nella prassi
all’intensità degli ostacoli informativi fa riscontro la suddivisione del
79 È da annotare fin d’ora – ma è questo un punto sul quale la trattazione nel prosieguo si soffermerà – come l’esito di tali pattuizioni potrebbe essere una deviazione dallo stesso interesse sociale. 80 Y. Amihud, K. Garbade, M. Kahan, A new governance structure for corporate bonds, 1999, 51 Stan. L. Rev., 447. M. W. McDaniel, Bondholders and stockholders, cit., 234, selezionando l’ipotesi più semplice di una società con una sola emissione di bond, individua cinque voci di costo: (1) contracting costs, per tali intendendo i costi legati alla negoziazione, alla formalizzazione e alla revisione delle condizioni del bond contract; (2) opportunity loss, allorquando l’ossequio alle pattuizioni preclude azioni che potrebbero aumentare il valore della società; (3) residual loss to bondholders, per l’ipotesi che gli amministratori non massimizzino il valore della società o addirittura lo riducano o lo trasferiscano a proprio favore; (4) residual loss to bondholders, per la diversa ipotesi che il valore della società venga volto a favore dei soli azionisti; (5) bankruptcy and reorganization costs. Per brevità, tali componenti sono usualmente riferite come contracting costs, opportunity loss, costs of management, expropriation loss, e bankruptcy costs. Queste due ultime componenti venivano analizzate già da Jensen & Meckling, Theory of the firm: managerial behavior, agency costs and ownership structure, 3 J.Fin.Econ., 1976, 305 ss., 342, che ne evidenziavano la correlazione sulla base del rilievo per cui il trasferimento di ricchezza dai bondholders agli stockholders invariabilmente implica un aumento del rischio di fallimento.
35
finanziamento in più stadi. Tale tecnica consente al creditore di circoscrivere gli
effetti riflessi di un’insolvenza della società, al debitore di ottenere tassi di
interesse ridotti in considerazione del conseguimento degli step intermedi
previamente concordati, a entrambe le parti di conservare la flessibilità del
rapporto fondandola sulla negoziazione continuativa dei termini – a livello di
costi e di garanzie - dello stesso. L’assunzione delle decisioni viene così
riservata al momento in cui, risoltesi talune delle incertezze iniziali, entrambi i
contraenti dispongano delle informazioni necessarie81. Permangono, però, sia il
problema dei costi legati alla revisione degli accordi sia un margine di opacità
nei periodi intermedi. Di qui l’opportunità che il controllo garantito
all’investitore si configuri come duplicemente connotato, essendo non solo per
tappe ma al contempo continuativo: nel primo senso si esplica nell’apposizione
di condizioni che correlano l’erogazione di finanza o la quantificazione della
remunerazione economica agli stadi di avanzamento del business plan; nel
secondo senso si traduce nella creazione di un canale interno di informazioni
che consenta verifiche in itinere sulla gestione delle risorse erogate, quale può
essere la nomina di almeno un componente dell’organo di gestione o di
controllo82. Sarebbero così congiuntamente garantite la libertà d’azione in capo
81 Un recente studio (Michael R. Roberts & Amir Sufi, Contingency and renegotiation of financial contracts: evidence from private credit agreements (2007), http:// ssrn.com/abstract=1017629) rileva che in un periodo di osservazione di oltre dieci anni oltre il 90% dei contratti di finanziamento a lungo termine di public companies sono rinegoziati già prima della scadenza prevista. 82 Ad attrarre attenzione sono principalmente le imprese che si occupano di tecnologia con ambizioni innovative: imprese in cui valutare la bontà del progetto presenta una difficoltà proporzionale alla centralità che ha l’imprenditore nel suo sviluppo. È proprio il settore high-tech quello in cui il venture capital ha conosciuto il maggior sviluppo. D. M. Del Colle, P. Finaldi Russo and A. Generale, The causes and consequences of venture capital financing. An analysis based on a sample of Italian firms, in Temi di discussione del Servizio Studi della Banca d’Italia, n. 584, 2006, 16, ove pure si rileva (p. 20) come una delle fasi elette per l’applicazione del venture capital sia quella successiva a una forte espansione negli investimenti, allorquando l’importante indebitamento a breve scadenza suggerisce l’utilità di un riassetto della struttura finanziaria, per lo più proiettato alla quotazione. V. Donativi, Varietà: strumenti di corporate governance nel rapporto tra fondi di private equity e pmi, in Banca borsa, 2008, 205 ss., pone correttamente in rilievo come al socio di s.p.a. sia riconosciuto un “diritto all’informazione” sull’amministrazione assai circoscritto, esercitabile solo in assemblea, in funzione delle materie all’ordine del giorno e compatibilmente con la riservatezza alla quale sono vincolati gli amministratori. Da tanto deriva che le istanze di monitoraggio dei finanziatori non possano essere soddisfatte per la sola acquisizione dello status di socio, dovendo piuttosto poggiare su apposite previsioni. Sennonché la validità di una clausola statutaria attributiva di simili prerogative è quantomeno dubbia, e la formulazione della
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alla società e la disponibilità di una pronta reazione ai mutamenti del rischio in
capo a chi concede finanza. Sennonché, individuato nei termini ora detti il punto
di equilibrio tra le opposte esigenze, gli interrogativi convergono sugli strumenti
giuridici idonei a realizzarlo.
3. Informazione, controllo, eterogestione.
La soddisfazione delle istanze di superamento delle asimmetrie informative nel
finanziamento pone all’interprete un problema che precede quello della
selezione delle forme giuridiche più idonee: l’ammissibilità dell’allocazione in
mani terze di un potere di controllo continuativo sulla gestione di una società.
La questione merita considerazione sia nella prospettiva della predisposizione di
clausole contrattuali di inibizione di talune iniziative imprenditoriali, sia
nell’ipotesi di assegnazione di una lente di verifica interna alla società. Già nel
primo caso, infatti, non si può non considerare come la predeterminazione
dell’azione sociale generi non solo le inefficienze economiche descritte nel
paragrafo che precede, ma ponga altresì il quesito sulla configurabilità, in
relazione alla stessa, di un’ipotesi di eterogestione. In questo ultimo senso il
riconoscimento della possibilità di nominare un membro degli organi sociali, se
si presta a essere letto come una tecnica per contenere le restrizioni alla
discrezionalità amministrativa del finanziato, sostituendole con la garanzia di
una verifica costante83, porta nella stessa misura a evocare le storiche
medesima in un patto parasociale, oltre a incontrare il limite temporale del quinquennio, difficilmente può vincolare direttamente gli ammi nitratori, in specie per il già menzionato dovere di riservatezza. Di qui l’utilità della nomina di componenti degli organi di amministrazione o controllo accompagnata – secondo indicazione di V. Donativi – “da una previsione che stabilisca cadenze più serrate (rispetto alla semestrale di legge) per l’informazione che gli organi delegati devono rendere al consiglio di amministrazione ai sensi dell’art. 2381, comma 5°, c.c. 83 In questo primo senso si può affermare che l’esigenza alla quale la previsione del potere di nomina mira non pare tanto garantire una partecipazione diretta all’assunzione di decisioni – al quale scopo parrebbero piuttosto idonee le clausole di veto su specifiche operazioni – quanto godere di un canale diretto di informazioni. A tale conclusione sembrerebbe di poter giungere pure scorrendo le clausole di maggior impiego nella contrattualistica dei venture capitalist. Lipman, Venture capital and junk bond financing, 1996, 256-57, riporta quale clausola tipo la seguente: “The Stockholders agree to vote their shares ... and otherwise to use their best efforts ... to set and maintain the number of directors of the Company at no more than six and to elect and maintain as members of the Board of Directors: (i) two designees of [the investors]; (ii) two designees of [the founders]; and (iii) two persons who are officers of the Company and who are
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disquisizioni sulle conseguenze di un coinvolgimento di terzi negli equilibri di
governo di una società. La materia offre più piani di osservazione. I primi spunti
sono offerti dalla concezione degli amministratori come espressione della
volontà dei soci. Tale schema, assecondato dal dato normativo anteriore alla
riforma84, rientra tra le chiavi di comprensione della correlazione tra proprietà,
intesa quale rischio nell’investimento, e potere gestionale, giacché la
dissociazione tra tali elementi, connaturata alla distribuzione organica delle
competenze, trova contemperamento nel potere di scegliere a chi affidare la
conduzione della società. È sufficiente questo rapido riferimento per cogliere un
primo punto di congiunzione con le riflessioni sull’interesse sociale, poichè
attivare meccanismi di trasparenza dell’iniziativa sociale a favore di taluni
creditori significa indirettamente alterare il ruolo che tradizionalmente compete
ai singoli protagonisti delle dinamiche societarie. Laddove, infatti, si colma
parte del dislivello informativo rispetto ai soci di maggioranza e agli
amministratori che ne sono l’espressione, lì si genera una situazione di
vantaggio informativo rispetto agli altri creditori ma potenzialmente anche
rispetto ai soci di minoranza. Se poi si considera che ciò cui mira questo
peculiare creditore non è una mera vigilanza sulla correttezza della gestione,
bensì una verifica dell’assonanza rispetto ad un business plan già concordato, si
coglie come l’alterazione appena detta possa arrivare a incidere sugli stessi
criteri di definizione dell’interesse sociale. In questo quadro, la scelta del
legislatore del 1942 di rimettere in via esclusiva alla volontà assembleare la
selezione degli amministratori e di mantenere così nettamente distinte sul piano
dei diritti amministrativi azioni e obbligazioni, presentava una coerenza evidente
rispetto al sistema. Non risultava, invece, adeguata alle sollecitazioni del
approved as directors by [the investors and the founders]. In the event of any vacancy on the Board of Directors, each stockholder covenants and agrees that it shall vote a sufficient number of shares of Voting Stock in accordance with the procedure described above in order to fill such a vacancy”. L’autore precisa però che accanto a questo modello, che consente all’investitore di approvare la nomina di quattro dei sei consiglieri, è frequente la previsione del mero diritto di presenziare alle riunioni del consiglio anche attraverso amministratori “honorary” o “advisory”, privi del diritto di voto. Assimilate a tali clausole, anche quanto a diffusione, sono quelle che attribuiscono il diritto di ricevere periodicamente dettagliate informazioni sulla società e, nello specifico, sulla situazione finanziaria della stessa. Sono così superati i deficit nel controllo esperibile dai soci di minoranza. 84 Sull’importante eccezione delle società a partecipazione pubblica si avrà modo di tornare.
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mercato, tanto che a lungo l’ordinamento italiano è stato accusato d’inidoneità a
far fronte alle esigenze di crescita di un tessuto economico che pareva ricevere
un trattamento deteriore rispetto a quello accordato dalla maggiore flessibilità
delle legislazioni straniere. Esclusa l’acquisizione di una partecipazione
maggioritaria, se non altro per l’utilità poc’anzi ricordata che tale posizione
permanga in capo al finanziato; appurata l’inidoneità delle tutele accordate alle
aliquote di minoranza rispetto alle istanze di controllo del mutuante; assenti
altresì strumenti di partecipazione diversi dalle azioni idonei a soddisfare tali
esigenze, fino ad anni recenti residuava all’investitore unicamente la
predisposizione di pattuizioni parasociali85. Ma si trattava e tuttora si tratta di
una soluzione anzitutto parzialmente soddisfacente, corredata com’è da
un’efficacia meramente obbligatoria, e soprattutto di incerta collocazione nel
sistema e nella disciplina degli istituti espressamente normati. Si impiegano due
tempi verbali, passato e presente, poiché è ancora all’esame degli interpreti se il
panorama degli strumenti finanziari ibridi disegnato dalla riforma del 2003
appaghi pienamente le esigenze sin qui dette, superando in toto la necessità e
insieme l’opportunità di ricorrere a vincoli “paralleli” al contratto sociale, o lasci
presumibilmente un margine di operatività a questi ultimi. Ancora da chiarire è,
inoltre, se e in quali termini il riconoscimento espresso della facoltà di attribuire
diritti amministrativi a non soci muti il sistema degli equilibri tra gli interessi
che interagiscono con quello sociale e tra questi e l’interesse sociale medesimo,
nonchè se, mutando, tale quadro sia idoneo a superare i dubbi interpretativi
legati al ricorso a strumenti parasociali di governo della società.
85 Per la letteratura in materia di limiti alla diffusione del venture capital nell’ordinamento giuridico italiano anteriore alla riforma si rinvia a Szego, Il venture capital come strumento per lo sviluppo delle piccole e medie imprese: un’analisi di adeguatezza dell’ordinamento italiano, Quad. ric. Giur. Banca d’Italia, 2002, passim.
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Sezione II
1. La struttura finanziaria della s.p.a. riformata: l’autonomia statutaria
e l’incerta definizione delle partecipazioni sociali.
Le innovazioni introdotte dalla riforma prefigurano la possibilità che le cautele
contrattuali volte a consentire un controllo sulle fluttuazioni del rischio nel
finanziamento trovino ospitalità nello statuto piuttosto che in pattuizioni
collaterali al contratto sociale86. Ne discende un evidente rafforzamento delle
tutele accordate ai finanziatori, ma anche l’opportunità di riconsiderare alla luce
di queste variabili l’armonia del sistema. Per quanto, infatti, la prassi
contrattuale già attribuisse ai creditori ampi poteri di monitorare la gestione
delle società, la circostanza che nell’ordinamento vigente sia la stessa autonomia
statutaria a poter aprire la struttura societaria a simili ingerenze non può non
incidere sulla posizione di chi si trova ad esercitarle e di chi vi acconsente.
La definizione legislativa degli strumenti finanziari ha contenuti in prevalenza
negativi, sia per quel che attiene all’identificazione della fattispecie rispetto ad
azioni e obbligazioni, sia per quel che riguarda i diritti attribuibili87. Sotto il
primo profilo il difficile coordinamento tra le disposizioni che si riferiscono a
tali titoli ha diviso la dottrina circa il rapporto tra i mezzi di investimento88,
86 La partecipazione alla società di finanziatori non azionisti era estranea al disegno originario del codice, ma non alla prassi applicativa, che aveva destinato tale ambito all’esercizio dell’autonomia privata: sul punto cfr. le osservazioni di D. Preite, Investitori istituzionali e riforma del diritto delle società per azioni, in Riv. soc., 1993, 492-493. Delle diverse forme di organizzazione del finanziamento davano già conto Ascarelli, Varietà di titoli di credito e investimento, in Problemi giuridici, Milano, 1959, II, 687 ss.; AA.VV., Il mercato dei titoli di debito privato, a cura di Banfi – Onado, Milano, 2002; Portale, I conferimenti in natura “atipici” nella s.p.a., Milano, 1974; Id., “Prestiti subordinati” e “prestitit irredimibili” (appunti) , in Banca borsa, 1996, I, 1 ss. 87 Rabitti Bedogni, Azioni, cit., 188, enuclea l’intenzione di “dettare i principi base e le norme inderogabili”, “definendo solo i confini normativi di dette figure, lasciando poi agli operatori economici la possibilità di creare gli strumenti più idonei a soddisfare le esigenze dell’impresa.” 88 Enriques, Quartum non datur: Appunti in tema di «strumenti finanziari partecipativi» in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Italia, in Banca borsa, 2005, I, 166 ss., 173-174, enuclea quattro “macro-categorie di strumenti finanziari”, vale a dire le azioni, le obbligazioni, gli strumenti finanziari c.d. ibridi di cui all’ultimo comma dell’art. 2411 c.c. (i quali condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società e sono sottoposti alla medesima disciplina delle obbligazioni), e gli strumenti finanziari partecipativi. Quanto alla fattispecie di cui all’art. 2346 co. 6 e a quella di cui all’art. 2411 c.c., talvolta composte nell’unica nozione di strumenti finanziari partecipativi (Spada, C’era una volta la società ..., in Riv. not., 2004, I, 9), si è indicato il tratto distintivo degli strumenti finanziari rispetto alle obbligazioni nel carattere aleatorio della remunerazione (Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma: l’autonomia statutaria e la risposta legislativa alle esigenze di
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consentendo di affermare con certezza solo che con gli strumenti in discorso non
si effettuano conferimenti bensì apporti89 e non si acquista la qualità di socio90.
Quanto alle prerogative riconoscibili in sede statutaria, è escluso il voto
nell’assemblea generale degli azionisti91, mentre è espressamente stabilita la
possibilità di attribuire il diritto di voto su argomenti specificamente indicati
nonchè di riservare la nomina di un componente indipendente degli organi di
gestione o di controllo. Si discute, peraltro, se si debbano desumere dal sistema
finanziamento dell’impresa, in Giur. comm., 2002, I, 645 ss.; ritengono invece che possano essere pattuiti interessi anche in caso di strumenti finanziari partecipativi Lamandini, Autonomia negoziale e vincoli di sistema, cit., 532; Notari, Azioni e strumenti finanziari: confini delle fattispecie e profili di disciplina, in Banca borsa, 2003, I, 549) o dello stesso rimborso del capitale (De Acutis, Il finanziamento dell’impresa, cit., 266). Per Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, cit., 12, “gli strumenti finanziari, partecipativi o meno, rientrano tutti nella categoria dei titoli di debito, e ricadono perciò nella disciplina delle obbligazioni”, col che troverebbe spiegazione (p. 9) pure la preclusione del voto nell’assemblea generale. Contra Mignone, Nuovi istituti per il finanziamento societario e associazione in partecipazione, in Riv. soc., 2006, 1030 ss., 1032, al quale “sembra preferibile lasciare il concetto di obbligazione legato a quello di mutuo ed implicante perciò, come requisito minimale, l’obbligo di restituzione”. Per Tombari, La nuova struttura finanziaria, cit., 1096: “(…) la figura degli strumenti «ibridi» - da intendersi non come fattispecie, ma come categoria dogmatica, con valore meramente descrittivo – non è utilizzabile solo con riferimento agli «strumenti finanziari partecipativi (e non)», ma può contribuire anche alla comprensione di alcune nuove figure speciali di «azioni» e di «obbligazioni»”. 89 Apporti anche di opere e servizi: per M. S. Spolidoro, Conferimenti e strumenti partecipativi nella riforma delle società di capitali, in Dir. banca e merc. finanz., 2003, 205 ss., 211, “il legislatore del 2003 verosimilmente pensa solo a questi ultimi apporti”. Condivisibile o meno questa affermazione, certo è che la non imputabilità a capitale vale quale criterio di facile distinzione tra strumenti finanziari e azioni: in questo senso Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova, 2003, 60 ss.; De Acutis, Il finanziamento dell’impresa societaria: i principali tratti caratterizzanti e gli «altri strumenti finanziari partecipativi», in Cian (a cura di), Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, Padova, 2004, 266; Lamandini, Autonomia negoziale e vincoli di sistema, cit., 521; Tombari, La nuova struttura finanziaria, cit., 1092. 90 Galgano, Il nuovo diritto societario, Padova, 2003, 90, ritiene che gli strumenti in questione attribuiscano la qualità di associato in partecipazione; per una critica a tale posizione cfr. M. S. Spolidoro, Conferimenti e strumenti partecipativi, cit., 214-215, il quale evidenzia che proprio il profilo dei diritti amministrativi rende incongrua la sovrapposizione dei due istituti, sia perché il voto in assemblea e nomina di un amministratore sono estranei alla disciplina dell’associazione in partecipazione, sia perché quest’ultima sottrae all’autonomia privata, rendendone imprescindibile l’attribuzione, quei diritti di controllo che invece nel nuovo istituto è mera facoltà statutaria riconoscere. 91 Si nega altresì la legittimazione a impugnare le delibere per le quali non sia attribuito il diritto di voto (M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 103 ss.; Rabitti Bedogni, Azioni, cit., 204; contra Miola, I conferimenti in natura, in Trattato Colombo-Portale, 1***, Torino, 2004, 292 ss.; Tombari, Studi e materiali, Quaderni del Cons. Naz. Not., 1/2005, 397); si ammette invece un intervento passivo a tale assemblea (Stagno d’Alcontres, Commento all’art. 2346 c.c., in Società di capitali, Commentario, a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, III, Napoli, 2004, 264).
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limiti ulteriori alla autoregolamentazione. Sono controversi, in particolare, la
sede nella quale il voto può essere espresso92, la facoltà di determinare
prerogative di veto rispetto alla volontà assembleare93, la possibilità che si abbia
un concorso alla nomina di tutti i componenti degli organi sociali nonostante il
riferimento espresso alla designazione di “un” membro indipendente94. Pacifico
sembrerebbe invece che la precisazione circa il carattere di specificità delle
materie sulle quali può essere riconosciuto il diritto di voto origina l’invalidità di
clausole volte a coprire, con indicazione sintetica ma anche con elencazione di
dettaglio, l’intero ambito di competenza dell’assemblea95.
92 Anche su questo profilo i pensieri sono diversi: per alcuni meriterebbe censura la previsione di un voto in assemblea dei soci (Santoro, art. 2351, in La riforma delle società, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, Torino, 2003, Tomo 1, 148; Rabitti Bedogni, Azioni, cit, 204), per altri una simile previsione non dovrebbe sollevare dubbi di invalidità (Associazione Disiano Preite, Il nuovo diritto delle società, Bologna, 2003, 100 ss.; Libertini, Riflessioni generali, in Cian (a cura di), Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, cit., 253; De Acutis, Il finanziamento dell’impresa societaria: i principali tratti caratterizzanti e gli «altri strumenti finanziari partecipativi», in Cian (a cura di), Le grandi opzioni della riforma, cit., 264; Oppo, Patto sociale, patti collaterali e qualità di socio nella società pe azioni riformata, in Riv.dir.civ., 2004, II, 57 ss., 63 (ove sostiene che “l’esclusione del voto nell’assemblea generale abbia riferimento non all’organo ma alla generalità delle sue competenze, sostituita dalla indicazione di argomenti specifici”); M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 83; Enriques, Quartum non datur, cit, 179- 180, ove sono richiamati quali argomenti a sostegno dell’interpretazione estensiva gli artt. 2506 ter, co. 4, art. 2526 co. 2 c.c., art. 106 co. 3 bis Tuif), per altri ancora sarebbe valida altresì la previsione di un’assemblea speciale o di una raccolta separata delle dichiarazioni (M. Cian, ibidem). 93 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 71 ss., 101 ss., il quale ammette al più la previsione di pareri non vincolanti; contra da ultimo Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, in Riv. dir. comm., 2007, 1 ss., 16-17, il quale ritiene che il riconoscimento di un diritto di veto su argomenti determinati (l’esempio portato è quello di un aumento di capitale) non solo sia “pienamente ammissibile”, ma sia anzi “il modello applicativo tipico” dell’art. 2351, co. 5, c.c., dal quale sarebbe desumibile l’intenzione legislativa di “eliminare l’esclusiva organizzativa dell’assemblea dei soci e di consentire prese di potere anche da parte di altri finanziatori in un contesto interattivo variegato se non polisemico”. 94 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 63 ss.; esprime un diverso avviso Enriques, Quartum non datur, cit., 179-180, ove scrive: “La lettera dell’art. 2351 non precluderebbe un’interpretazione estensiva, perché la competenza a nominare alcuni amministratori non è di per sé incompatibile con forme di concorso alla nomina di tutti gli amministratori: per prevedere tale competenza era infatti necessaria una disposizione esplicita, ma la presenza di simile disposizione esplicita non impone di giudicare inammissibile una diversa e più «fisiologica» forma di concorso alla nomina delle cariche sociali, che di per sé può costituire uno degli «argomenti specificamente indicati» dallo statuto.” Anche quanti ritengono che in caso di emissione di una pluralità di categorie di strumenti finanziari possa essere attribuito a ciascuna tale potere di nomina, pongono quale limite che la maggioranza dei membri sia nominata dai soci (Lamandini, Autonomia negoziale e vincoli di sistema nella emissione di strumenti finanziari da parte delle società per azioni e delle cooperative per azioni, in Banca borsa, 2003, I, 519, 536). 95 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 63 ss.; Pisani Massamormile, Azioni ed altri strumenti finanziari partecipativi, in Riv. soc., 2003, 1298.
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Ferme tali preclusioni, i diritti patrimoniali e quelli amministrativi possono
assumere il contenuto più vario96, eventualmente realizzando una condivisione
del rischio d’impresa o anche delle prerogative corporative dei soci. In tal caso
gli strumenti finanziari ricevono l’attributo – ancora non univocamente inteso -
di titoli “partecipativi”97, dovendo per taluno essere rimessi alla volontà
statutaria anziché a quella amministrativa sia per l’emissione sia per la
definizione nei contenuti98.
La tecnica normativa prescelta ha quindi contribuito a rendere mobili i confini
tra i titoli di partecipazione alla società. Sotto questo profilo l’intervento
riformatore della struttura finanziaria va letto come disegno unitario, nel quale
l’apertura a strumenti finanziari partecipativi e quella a categorie speciali di
azioni si prestano entrambe a essere colte come indici dell’avvenuta
cancellazione dei tratti che in precedenza distinguevano nitidamente le varie
figure di finanziatori99.
2. Presupposti e riflessi sistematici della diversificazione finanziaria.
96 Può essere previsto il diritto ad una remunerazione periodica, correlata o meno agli utili, il diritto ad ottenere una quota di liquidazione, o una conversione in azioni (Miola, I conferimenti in natura, cit., 281-282); possono essere riconosciuti diritti di informazione o di controllo, con accesso diretto alla documentazione di interesse o con obblighi di comunicazione (M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 100 ss.). Ci si domanda se possano essere riconosciuti diritti amministrativi differenti rispetto a quelli riferibili agli azionisti: v. sul punto Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, cit., 13 ss. 97 Sull’equivalenza tra “strumento finanziario partecipativo” e “strumento finanziario dotato di diritti amministrativi” v. Tombari, La nuova struttura finanziaria della società per azioni (Corporate Governance e categorie rappresentative del fenomeno societario), cit., 1094; Abriani, La struttura finanziaria delle società di capitali nella prospettiva della riforma, in Riv. dir. comm., 2002, I, 136 ss. Sulla possibilità di attribuire carattere partecipativo anche agli strumenti dotati di diritti sul solo piano patrimoniale cfr. Enriques, Quartum non datur, cit., 178. Il carattere partecipativo ha riflessi sulla disciplina, giacché le disposizioni dettate per le obbligazioni – ivi incluse quelle sull’organizzazione – trovano applicazione ex art. 2411, ult. co., anche agli strumenti finanziari che “condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società”, dunque a quelli che vincolando il prestito alla restituzione della somma capitale, non possono considerarsi partecipativi. Per questa categoria di strumenti (e per quelli di cui all’art. 2447 octies) si avrà quindi un’organizzazione di gruppo di fonte legale; per i titoli partecipativi potrà invece aversi al più un’analoga previsione nello statuto, ferma la cautela di cui all’art. 2376 c.c. L’applicazione dell’art. 2411, ult. co, importa altresì la soggezione ai limiti di cui all’art. 2412 c.c. 98 Sul punto si rinvia alla nota 167. 99 Rabitti Bedogni, Azioni, strumenti finanziari partecipativi e obbligazioni, in Dir. banca e merc. finanz., 2004, 185 ss., 188.
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La creazione di categorie speciali di azioni100, sin dalla riforma degli anni ’70, è
riconducibile alla necessità di far emergere sul piano normativo la varietà di
posizioni che la nozione di azionista può sottendere. L’utilità ricercata con tale
riconoscimento, che rafforza il potere dei soci nella misura in cui consente di
valorizzarne sul piano contrattuale le peculiari esigenze, è da sempre quella
prettamente economica di ottenere un maggiore afflusso di capitali a titolo di
investimento101. A tale rinnovata concezione della struttura finanziaria della
società si accompagna però, al contempo, un nuovo approccio al tema
dell’organizzazione corporativa, tanto che l’emersione della divergenza di
interessi tra i soci ha conosciuto un corso parallelo alla discussione sulla
sovranità dell’assemblea e all’affrancamento del consiglio di amministrazione
rispetto ad essa. Significativamente sia il processo di “autonomizzazione degli
amministratori dall’assemblea”102, sia quello di diversificazione degli strumenti
di finanziamento sono giunti a compimento con la riforma del 2003103. Per
100 In argomento Pavone La Rosa, Profili della tutela degli azionisti, in Riv. soc., 1965, 72, 82-83; Mignoli, Le assemblee speciali, Milano, 1960, 2 ss., ove l’iniziale resistenza dei legislatori a consentire una diversificazione delle azioni è spiegata alla luce della lesione che veniva per l’effetto a patire il principio di eguaglianza, caposaldo sul quale è stata costruita la società per azioni. 101 Abbadessa, La gestione dell’impresa nella società per azioni. Profili organizzativi, Milano, 1975, 7 ss. 102 Abbadessa, La gestione dell’impresa, cit. 10 ss. (e in tempi più recenti Id., La società per azioni fra passato e futuro: l’assemblea, in AA.VV., La riforma delle società per azioni non quotate, Milano, 2000, 61 ss.), ove è ricostruita l’evoluzione degli approcci legislativi anche sul piano della comparazione, assumendo a precedente storico l’ordinamento olandese, esemplare per aver fin dagli albori dato rilievo giuridico alla divergenza di interessi tra i soci e reso di conseguenza autonomo l’organo di amministrazione rispetto all’assemblea; una lettura in chiave storica dei rapporti tra assemblea e consiglio di amministrazione si rinviene anche in R. Lener, L’assemblea nelle società di capitali, in Le società di capitali, a cura di R. Lener – A. Tucci, Torino, 2000, 1 ss. 103 Fino a tale intervento legislativo il combinato disposto degli artt. 2384 co. 1 e 2364, co. 1 n. 4, c.c. poteva supportare due diverse interpretazioni, l’una per l’attribuzione esclusiva agli amministratori del potere di gestione (fermo quello assembleare di emettere pareri non vincolanti), l’altra per il carattere vincolante delle direttive assembleari. Si rinvia a G.F. Campobasso, Diritto commerciale, 2, Diritto delle società5, Torino, 2002, 369 ss., per una sintesi – corredata da riferimenti bibliografici - del dibattito. La riforma ha espressamente accolto il primo indirizzo, introducendo con l’art. 2380 bis la definizione in termini di esclusività delle competenze gestorie degli amministratori e sancendo all’art. 2364 n. 5 che le autorizzazioni assembleari possono essere previste sono in sede statutaria (contra Portale, Rapporti fra assemblea e organo gestorio nei sistemi di amministrazione, in Il nuovo diritto delle società – Liber amicorum Gian Franco Campobasso, vol. 2 Assemblea- Amministrazione, diretto da P. Abbadessa e G. P. Portale, Torino, Utet, 2006, 5 ss., 25-26, ove si ammette che anche gli amministratori possano chiedere interventi autorizzatori e ove si sottolinea come il diniego dell’autorizzazione “comporta una penetrante
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quanto la nozione di azione si fosse già allora si atteggiasse come plurima,
essendo ammesse accanto alle azioni ordinarie quelle privilegiate, a voto
limitato e di risparmio, non per questo tale concetto poteva ritenersi non
esattamente definito, visto che la specialità era pur sempre circoscritta dalla
volontà legislativa104. È dunque nuova la libertà riconosciuta dall’art. 2348 co. 2
c.c. allo statuto nel determinare i diversi diritti patrimoniali e amministrativi
attribuibili alle azioni105. Queste possono oggi assumere caratteri di specialità
tipici – accresciuti dalla previsione delle azioni postergate, privilegiate,
correlate, con soppressione o varia modulazione del diritto di voto, riscattabili –
ma anche atipici106. Il che può avere l’esito di dare alla società la flessibilità
idonea a rispondere alle istanze di finanziamento, ma senz’altro ha anche
l’effetto di superare la possibilità di riferirsi all’ “azionista” come ad una figura
dai connotati costantemente idonei a tracciare una netta distinzione rispetto agli
altri apportatori di risorse. Si è osservato che residua quale nucleo identificante
l’azione la partecipazione al capitale107, al quale ultimo non afferiscono invece
ingerenza in senso ostativo al potere gestorio dell’organo amministrativo”) e non valgono a sottrarre a responsabilità gli amministratori. Scrivono a tal proposito C. Malberti, F. Ghezzi, M. Ventoruzzo, Art. 2380 – Sistemi di amministrazione e di controllo, in Comm. rif. soc., dir. da Marchetti, Artt. 2380- 2396 c.c., Amministratori, a cura di F. Ghezzi, Giuffrè, Milano, 2005, 3 ss., 9: “Di fatto, viene sancito in modo esplicito e certamente enfatizzato il principio per il quale l’assemblea non ha competenze gestorie, ma può al più assumere decisioni e atti prodromici (come la designazione degli amministratori e le autorizzazioni) o consequenziali (si pensi alla revoca, all’azione di responsabilità) rispetto a tale attività.” 104 M. Bione, Le azioni, in Trattato Colombo-Portale, 2*, Torino, 1991, 51-52; C. Angelici, Le azioni, in Commentario Schlesinger, Milano, 1992, 62. 105 Martorano, Commento all’art. 2348, in Sandulli, Santoro (a cura di), La riforma delle società, I, Torino, 2003, 135 ss., 137, ritiene che “il principio dell’equilibrio tra poteri gestori e diritti patrimoniali esclude la possibilità di comprimere o escludere il diritto di voto per una parte delle azioni senza una corrispondente attribuzione di maggiori diritti patrimoniali”; a detta conclusione perviene anche Blandini, Le azioni a voto limitato nella riforma, in Giur. comm., 2004, I, 467 ss., 473, il quale argomenta a partire dal principio della parità di trattamento degli azionisti. Contra D’Attorre, Il principio di eguaglianza tra soci nelle società per azioni, Milano, 2007, 199, per il quale l’intervento riformatore del 2003 ha degradato la regola della proporzionalità tra potere e rischio da “principio immanente al sistema” a “mera regola suppletiva”, cosicché risulta vano “ogni tentativo di fondare su di essa il carattere cogente e inderogabile della regola che ne costituirebbe l’applicazione a valle, ovvero il principio di bilanciamento tra diritti amministrativi e patrimoniali”. 106 È nota la definizione di titoli tipici a contenuto atipico impiegata da Portale, Dal capitale assicurato alle tracking stocks, in Riv. soc., 2002, 146 ss.; per Rabitti Bedogni, Azioni, cit., 193, le categorie speciali di azioni sono sottoposte ad un “regime di tipicità formale e atipicità sostanziale”. 107 Rabitti Bedogni, Azioni, cit., 189, dopo aver descritto azioni, obbligazioni e strumenti finanziari quali modelli base “aperti a specificazioni molteplici”, aggiunge: “L’azione, però, è
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né gli strumenti finanziari né le obbligazioni. Sennonché, nel momento in cui si
consente un’allocazione dei diritti patrimoniali fino al limite di sistema
rappresentato dal divieto di patto leonino, si rende tanto sottile da essere
pressoché impercettibile in termini di partecipazione al rischio di impresa la
differenza tra l’azione e gli strumenti di finanziamento che ad essa sono attigui.
Sul piano patrimoniale sfuma, in altre parole, la nozione stessa di proprietà della
società108. Così come sul fronte dei diritti amministrativi, potendosi disegnare
azioni senza diritto di voto e ibridi con poteri di voice, si affievolisce il legame
tra proprietà e controllo109. Se si isolano, nella linea che si può immaginare
congiunga azioni e obbligazioni110, le fattispecie di trapasso da una categoria
all’altra, vale a dire l’ultima tra le azioni – per i minori diritti che la corredano –
e il primo – per i maggiori diritti ad esso riconosciuti – tra gli “altri” strumenti
finanziari, le ragioni che portano a riconoscere in capo ai portatori delle prime
rimasta, in fondo, quella che era e, cioè, l’espressione di una frazione del capitale sociale. Essa, pertanto, pur nella possibile varietà tipologica, resta la rappresentazione o indicazione di una posizione partecipativa in senso proprio, nel senso, cioè, che la sua titolarità è direttamente collegata all’esercizio in comune dell’attività economica.” In senso conforme si esprime A. Maffei Alberti, Considerazioni introduttive, in Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, cit., 243 ss., 245. 108 Come si possono configurare azioni privilegiate nel rimborso del capitale rispetto alle azioni ordinarie, così si possono avere strumenti finanziari postergati rispetto a queste ultime. Sul punto v. Enriques, Quartum non datur, cit., 178; ipotizzano apporti a fondo perduto, non rimborsabili ma legittimanti l’assegnazione di utili o di diritti amministrativi, Bartalena, Le nuove tipologie di strumenti finanziari, in Banca borsa, 2004, I, 293, 298; Lamandini, Autonomia negoziale e vincoli di sistema, cit., 533. 109 Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma, cit.¸ 645, parla di “crisi del rapporto tra conferimento e potere di partecipazione alla gestione dell’impresa”, pur continuando a ravvisare una “essenziale correlazione” tra i due termini limitatamente agli azionisti ordinari. Mostra preoccupazione Rabitti Bedogni, Azioni, cit., 197 per la maggiore propensione al rischio che tale dissociazione può comportare. Già con l’affacciarsi dei problemi teorici legati all’azionariato diffuso - vale a dire la compresenza soci-imprenditori e di soci-investitori - ci si era domandati (il dibattito è ricostruito da Sanfilippo, Funzione amministrativa e autonomia statutaria nelle società per azioni, Giappichelli, Torino, 2000, 116, nt. 81; Preite, Investitori istituzionali e riforma del diritto delle società per azioni, in Riv. soc., 1993, 476) se avesse ancora significato la regola maggioritaria a fronte della disomogeneità di interessi tra soci. Per alcuni era ancora valida nelle società ad azionariato ristretto (Ferri G., Potere e responsabilità nell’evoluzione della società per azioni, in Riv. soc., 1956, 35, 50 ss.); per altri il conflitto tra soci è presente in ogni società e il problema va visto nell’allentamento del principio della proporzionalità tra potere e rischio e nella necessità di garantire comunque poteri di controllo agli azionisti (Ascarelli, I problemi delle società anonime per azioni, in Riv. soc., 1956, 1, 3). 110 Le stesse obbligazioni possono, in virtù del riformulato art. 2411 c.c., acquisire il carattere della subordinazione ed in questo senso della condivisione del rischio, contribuendo – secondo le parole lette nella Relazione alla riforma - «ad assottigliare la linea di confine tra capitale di rischio e capitale di debito».
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un primato negli equilibri interni alla società sembrano dover essere
riconsiderate. Non potendo più essere enunciato come assioma che i diritti
amministrativi competono in via esclusiva ai soci, si pone il problema di
stabilire quali sono i limiti che la relativa attribuzione conosce e quali sono gli
effetti che la stessa implica in termini di responsabilità. Nel primo senso, proprio
facendo leva sull’omogeneità rispetto alle azioni sul piano del rischio
patrimoniale, si è sostenuta l’ammissibilità di un riconoscimento statutario di
“poteri di influenza deboli” “quanto meno ad «obbligazionisti» ad alto rischio,
quali, ad esempio, i titolari di obbligazioni subordinate”111. Nel secondo senso,
ossia quello della responsabilità, si può considerare se le norme che fanno
riferimento al socio, nella misura in cui hanno quale presupposto implicito la
posizione di controllo o di cogoverno propria di tale figura, possano interpretarsi
anche come riferite al portatore di strumenti finanziari che si trovi in identica
posizione.
3. Profili di uniformità tra struttura finanziaria di s.p.a. e corporation.
L’acquisita autonomia statutaria nell’assegnazione dei diritti amministrativi
costituisce un profilo di uniformità tra ordinamento italiano e statunitense, e
come tale può essere eletta a base per un ragionamento comune112. I primi
strumenti ibridi, mutuanti caratteristiche sia dai titoli azionari sia da quelli di
debito, divennero noti alla realtà americana già negli anni ’20, quando iniziarono
a diffondersi azioni prive di diritto di voto o con diritti fluttuanti sui dividendi
accanto ad un’ampia gamma di obbligazioni convertibili. Anche in tale cornice
storica, peraltro, la flessibilità nell’assegnazione del voto ha rappresentato l’esito
di un’evoluzione graduale per molti versi affine al percorso seguito dalla
111 Tombari, La nuova struttura finanziaria della società per azioni (Corporate Governance e categorie rappresentative del fenomeno societario), cit., 1095, il quale aggiunge: “Sullo sfondo vi è ovviamente il tramonto della utilità della distinzione tra «azionista-socio» ed «obbligazionista-creditore» e l’emergere, in tutta la sua rilevanza, della categoria dell’«investitore-finanziatore». 112 Enriques, Quartum non datur, cit., 171, impiega la formula con la quale intitola lo scritto per sintetizzare la struttura finanziaria statunitense e anglosassone: shares, bond e, a unire le due categorie, strumenti ibridi non delimitati in fattispecie autonome bensì creati per il tramite di una varietà di clausole che rende superflua la previsione di una categoria autonoma di strumenti partecipativi.
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legislazione italiana. La regola c.d. one share one vote è divenuta meramente di
default113, derogabile in sede statutaria con la creazione di categorie di azioni
113 Dalla ricostruzione rinvenibile in Ratner, The government of business corporations: critical reflections on the rule of “one share, one vote”, 56 Cornell L.Rev. 1 (1970), risulta che, nella common law, ciascun socio aveva un voto a prescindere dal numero di azioni possedute. Il primo approccio americano era quindi di limitare per via statutaria il diritto di voto di ogni singolo socio. Successivamente, la regola one share one vote divenne comune alle legislazioni dei vari stati. Sotto il primo Delaware Corporation Law, la determinazione dei diritti di voto fu lasciata ai singoli statuti societari, di modo che ciascuna società potesse determinare quale numero di azioni desse titolo per l’esercizio di uno o più voti. Questa regola fu cambiata dalla Delaware Constitution del 1897, che rispristinò la regola one vote one share. La stessa fu poi emendata nel 1901, anno in cui fu approvato il General Corporation Law (22 Del L Ch 166) che, precorrendo l’attuale § 212(a), prevedeva che tale regola fosse valida salva diversa previsione dell’atto costitutivo. Tale ultima soluzione fu accolta sia nel Model Business Corporation Act del 1969 (§ 33) sia nel Revised Model Bus. Corp. Act del 1984 (§ 7.21a) e, successivamente, da ogni legislazione statale. Tale percorso è segnato da posizioni giurisprudenziali e dottrinali di particolare interesse quanto alla definizione dei limiti dell’autonomia statutaria nell’allocazione dei poteri di voto e di riflesso di controllo della società. Per il Kentucky cfr. Williams v. Davis, 297 Ky 626, 180 SE 874, ove: “The general rule of corporate law is that in the absence of constitutional or statutory provisions, it is within the power of a corporation to provide in its charter or stock certificates that holders of the preferred stock shall have no voting power; particularly is this true where, as here, the charter may provide for preferences and priorities. Such provisions do not violate any rule of common law, nor are they contrary to public policy.”. Mckinney's Consolidated Laws of New York Annotated - Business Corporation Law - Chapter 4. Of the Consolidated Laws - Article 6. Shareholders - § 613. Limitations on right to vote: “The certificate of incorporation may provide, except as limited by section 501 (Authorized shares), either absolutely or conditionally, that the holders of any designated class or series of shares shall not be entitled to vote, or it may otherwise limit or define the respective voting powers of the several classes or series of shares, and, except as otherwise provided in this chapter, such provisions of such certificate shall prevail, according to their tenor, in all elections and in all proceedings, over the provisions of this chapter which authorizes any action by the shareholders.” Per il New Jersey cfr. General Inv. Co. v. Bethlehem Steel Corp., 87 NJ Eq 234, 100 A 347, di particolare interesse per la ricostruzione, anche dottrinale, sul potere di una società di emettere una classe di azioni aventi caratteristiche identiche alle azioni ordinarie, eccetto che per il diritto di voto, allo scopo di perpetuare il controllo della società. La Corte ha individuato quale punto d’avvio per trovare risposta al quesito l’interpretazione della eighteenth section of the Corporation Act. (Revision of 1896; Compiled Statutes, p. 1608). Asserisce che già da una prima lettura di tale previsione pare che azioni di ogni classe, indipendentemente dal nomen loro attribuito, possano essere creati con o senza privilegi di voto. Gli interpreti di diverso avviso (Cone v. Russell & Mason, 48 N. J. Eq. 208, 21 Atl. 847; White v. Thomas Inflatable Tire Company, 52 N. J. Eq. 178, 28 Atl. 75; Chapman v. Bates, 61 N. J. Eq. 658, 667, 47 Atl. 638, 88 Am. St. Rep. 459) sostengono che la detta sezione deve essere interpretata alla luce della c.d. public policy, ossia nel senso che gli azionisti ordinari hanno diritto come minimo ad essere consultati e ad essere informati al pari che gli altri azionisti ordinari, e che la policy of the law richiede che una società debba essere condotta dalla maggioranza dei suoi azionisti. In altri termini, il diritto di voto dovrebbe necessariamente inerire alle azioni ordinarie. Ad avviso della Corte, però, la questione non è se una persona dopo aver acquistato azioni con diritto di voto possa volontariamente separare il diritto di proprietà dal diritto di voto ponendo il controllo della società nelle mani di chi non abbia un interesse economico e privare gli azionisti dissenzienti di quei diritti di voice per i quali avevano contrattato. La questione è piuttosto se un azionista abbia titolo per richiedere che ogni azione di nuova emissione debba avere il diritto di voto. Ad avviso del giudicante è pressoché impossibile dare una definizione soddisfacente di “common stock” o
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caratterizzate dalla esclusione o dalla particolare modulazione del diritto di
voto114, solo a seguito del superamento dell’originaria proibizione115 delle c.d.
nonvoting shares. Dacchè il Revised Model Business Corporation Act ha
previsto che nell’atto costitutivo possono essere inserite variazioni
stabilire quali classi di azioni possano essere emesse e i diritti che alle stesse devono essere accordati. Thompson, § 3426, afferma che è regola generale che gli azionisti ordinari “are entitled to a pro rata dividend of profits, and to a pro rata participation in the management of the corporation; that the holders of common stock sometimes have a preference in the management of the corporation”. Lo stesso, nella Section 859, spiega: ‘The rule that a right to vote follows the ownership of stock means only that in the absence of any common restriction upon all the stock, or upon a class of stock, this right prevails. That is, the right of a stockholder to vote cannot be arbitrarily abridged and is not subject to universal restriction. But the rule is equally emphatic, if not so general, that restrictions may be placed upon the right to vote; or, as sometimes stated, the right to vote may be separated from the ownership of stock. It must be remembered, in this connection, that stockholders can make any agreement respecting their stock, or the voting of it, that they may see fit or deem wise, except agreements that are void as against public policy.” La statuizione trova un referente in Miller v. Ratterman, 47 Ohio St. 141, 24 N. E. 496, nel quale la Supreme Court of Ohio ha affermato che il diritto di voto non è un attributo essenziale delle azioni. La conseguenza, tratta da Thompson, § 859, è la legittimità delle restrizioni al diritto di voto dei preferred stockholders, a sua volta fondata non sulla teoria per cui tali azionisti sono comunque garantiti dalla percezione di un dividendo, “but rather on the inherent power of the corporation to restrict the voting power. It is simply a contract relation between two classes of stockholders, in which the public has no concern.” Lo stesso vale per i limiti al potere di voto delle azioni comuni. Il punto è che “There is no rule of public policy which forbids a corporation and its stockholders from making any contract they please in regard to restrictions on the voting power.” (Cook on Corporations, § 622B e, in termini analoghi, Machen, § 570; 3 Clark & Marshall, 1996). Esclusa l’esistenza di alcuna contraria public policy, l’attruibuzione del diritto di voto è rimessa all’autonomia contrattuale. A condizione che non si intacchino i diritti dei soci attuali, nulla osta all’emissione di ulteriori azioni prive del diritto di voto. Quanto alle ragioni sottese alla modulazione del diritto di voto, ossia la conservazione del controllo della società, la valutazione da fare attiene al piano della buona fede. Rileva sul punto il precedente Warren v. Pim, 66 N. J. Eq. 353, 408, 59 At. 773, 794, che portò a manifestarsi una posizione nel caso di specie rimasta minoritaria nel collegio giudicante, ma in seguito accolta con favore in molte pronunce anche di altri stati. In base ad essa non è ravvisabile ostacolo alcuno ad utilizzare tutti i mezzi autorizzati dallo statuto per garantire la conservazione dell’attuale gestione della società, nel migliore interesse di questa. Il mero fatto che uno dei risultati del progetto sia la conservazione del controllo nelle mani dei soci attuali non vizia il progetto stesso, giacché i soci hanno titolo per votare in conformità al loro proprio interesse. Anche la giurisprudenza del Texas (St. Regis Candies, Inc. v. Hovas, 117 Tex 313, 3 SW2d 429, 8 SW2d 574, ad esempio) e quella della Virginia (Bowman v. State Bank of Keysville, 229 Va 534, 331 SE2d 797) contano precedenti che escludono la contrarietà alla public policy o alla legislazione statuale delle clausole di atti costitutivi che limitino o escludano il diritto di voto. 114 Tra le azioni speciali tipizzate si annoverano le azioni called for redemption, le treasury shares, le redeemable shares, le preferred stock. Queste ultime, in particolare, hanno conosciuto una particolare diffusione nel venture capital proprio in ragione della peculiare flessibilità nell’attribuzione del diritto di voto, che a seconda delle previsioni statutarie può essere escluso, o subordinato al verificarsi di talune condizioni, quali ad esempio il mancato pagamento di dividendi, o in nulla limitato. 115 Si ricordano ad esempio le previsioni restrittive dell’Illinois.
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nell’attribuzione dei diritti di voto spettanti alle singole classi di azioni116, gli
stati federati hanno generalmente adottato il citato principio, salvo consentirne la
limitazione in particolari situazioni, ad esempio contenendo i diritti di voto delle
c.d. fractional shares117, o attribuendo ad esse un voto proporzionale118. Rimane
invece generalmente fermo che tutte le azioni, anche quelle indicate come
“nonvoting”, sono titolate a votare in presenza di mutamenti fondamentali o di
materie che intacchino i loro diritti119. Per alcune legislazioni statali, inoltre,
deve esservi sempre almeno una classe avente pieni diritti di voto120.
Il R.M.B.C.A. specifica che “only shares are entitled to vote”121, a significare
che, viceversa, i titoli di debito non attribuiscono diritto di voto. Accorda, però,
che apposite clausole contrattuali riconoscano anche a tale categoria prerogative
amministrative, financo di veto su specifiche operazioni o di nomina degli
amministratori122, purchè non ostino a ciò esplicite disposizioni contrarie
introdotte negli ordinamenti degli stati federati o nell’atto costitutuivo delle
società123. Quanto alle singole legislazioni, talune autorizzano espressamente le
116 Rev Model Bus Corp Act (1984) § 6.01. 117 District of Columbia Code Ann § 29-101.21: “A corporation may, but shall not be obliged to, issue fractions of a share, and, by action of its board of directors, may issue in lieu thereof scrip or other evidences of ownership (either represented by a certificate or uncertificated) which shall entitle the holder to receive a full share upon surrender of scrip or other evidence of ownership aggregating a full share, but which shall not, unless otherwise provided, entitle the holder to exercise any voting right, or to receive dividends or to participate in any of the assets of the corporation in the event of liquidation. The board of directors may cause scrip or other evidence of ownership to be issued subject to the condition that it shall become void if not exchanged for full shares before a specified date, or subject to the condition that the shares for which scrip or other evidence of ownership is exchangeable may be sold by the corporation and the proceeds distributed to the holders of scrip or other evidence of ownership, or subject to any other conditions that the board of directors may deem advisable.” 118Arizona Rev Stat Ann § 10-604; Colorado Rev Stat § 7-106-104; Massachusetts Gen L ch 156B § 41; Michigan MCL § 450.1338 subd (1); Ohio Rev Code Ann § 1701.24. 119 Model Bus. Corp. Act (1984) § 10.04(d). Non dissimili sono le previsioni a livello statuale, ove di frequente si trovano enumerati i mutamenti dello statuto per i quali è richiesta l’approvazione delle classi di azioni pregiudicate. 120 California Corp Code § 400(a); Maine Rev Stat Ann tit 13-A, § 501E(4); New York Bus Corp Law § 501(a); Tennessee Code Ann § 48-16-101. 121 Model Bus. Corp. Act (1984) § 7.21(a). 122 Ill. Bus. Corp. Act §740 (conferring voting rights on shares of stock); cf. Del. Corp. Law §221 (permitting corporation to confer voting rights on any debt to be issued by the corporation, but if the certificate of incorporation so provides, the debtholders “shall be deemed to be stockholders”). 123 L’Official Comment, tuttavia, annovera taluni metodi con i quali i creditori possono comunque ottenere il diritto di voto: “creating a special class of redeemable voting shares for them; creating a voting trust at the time credit is extended with power to name the voting
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società a prevedere che gli obbligazionisti e i portatori di altri strumenti
finanziari abbiano il diritto di voto124. È nota in particolare l’ampiezza con la
quale la legislazione del Delaware garantisce la possibilità di disegnare
discrezionalmente gli schemi di voto, sia mediante creazione di una pluralità di
classi azionarie125, sia mediante attribuzione espressa del diritto di voto ai titoli
trustees; registering the shares in the name of the creditors as pledgees with power to vote; or granting creditors a revocable or irrevocable proxy to vote some or all outstanding shares”. 124 Così è previsto per il Connecticut “(…) (e) A corporation may, by provision in its certificate of incorporation, confer upon holders of any debt securities issued or to be issued by the corporation, whether or not secured by mortgage or otherwise, such voting rights in respect of the corporate affairs and management of the corporation as may be therein provided”. 8 Del.C. 1953 § 221- West's Delaware Code Annotated Currentness - Title 8. Corporations - Chapter 1. General Corporation Law - Subchapter VII. Meetings, Elections, Voting, and Notice - § 221. Voting, inspection and other rights of bondholders and debenture holders: “Every corporation may in its certificate of incorporation confer upon the holders of any bonds, debentures or other obligations issued or to be issued by the corporation the power to vote in respect to the corporate affairs and management of the corporation to the extent and in the manner provided in the certificate of incorporation and may confer upon such holders of bonds, debentures or other obligations the same right of inspection of its books, accounts and other records, and also any other rights, which the stockholders of the corporation have or may have by reason of this chapter or of its certificate of incorporation. If the certificate of incorporation so provides, such holders of bonds, debentures or other obligations shall be deemed to be stockholders, and their bonds, debentures or other obligations shall be deemed to be shares of stock, for the purpose of any provision of this chapter which requires the vote of stockholders as a prerequisite to any corporate action and the certificate of incorporation may divest the holders of capital stock, in whole or in part, of their right to vote on any corporate matter whatsoever, except as set forth in paragraph (2) of subsection (b) of § 242 of this title.” 125 Del. Code Ann. tit. 8, §151(a): “(a) Every corporation may issue 1 or more classes of stock or 1 or more series of stock within any class thereof, any or all of which classes may be of stock with par value or stock without par value and which classes or series may have such voting powers, full or limited, or no voting powers, and such designations, preferences and relative, participating, optional or other special rights, and qualifications, limitations or restrictions thereof, as shall be stated and expressed in the certificate of incorporation or of any amendment thereto, or in the resolution or resolutions providing for the issue of such stock adopted by the board of directors pursuant to authority expressly vested in it by the provisions of its certificate of incorporation. Any of the voting powers, designations, preferences, rights and qualifications, limitations or restrictions of any such class or series of stock may be made dependent upon facts ascertainable outside the certificate of incorporation or of any amendment thereto, or outside the resolution or resolutions providing for the issue of such stock adopted by the board of directors pursuant to authority expressly vested in it by its certificate of incorporation, provided that the manner in which such facts shall operate upon the voting powers, designations, preferences, rights and qualifications, limitations or restrictions of such class or series of stock is clearly and expressly set forth in the certificate of incorporation or in the resolution or resolutions providing for the issue of such stock adopted by the board of directors. The term "facts," as used in this subsection, includes, but is not limited to, the occurrence of any event, including a determination or action by any person or body, including the corporation. The power to increase or decrease or otherwise adjust the capital stock as provided in this chapter shall apply to all or any such classes of stock.”
51
di debito126. Gli interventi giurisprudenziali hanno ulteriormente valorizzato tale
flessibilità, tanto che la Corte del Delaware ha sostenuto la legittimità di azioni
aventi diritti amministrativi e non diritti patrimoniali127; ha approvato sistemi di
voto su base azionaria128 ma anche modelli capitari129; ha ammesso altresì
clausole statutarie di voto cumulativo nell’elezione degli amministratori130.
Su tali presupposti la soluzione statunitense è divenuta il paradigma più
apprezzato e diversamente emulato di adeguatezza delle risposte giuridiche alle
esigenze del finanziamento, conoscendo la più ampia diffusione del fenomeno
del venture capital e generalmente dell’uso di strumenti ibridi di partecipazione
all’organizzazione societaria. Per questo l’analisi delle considerazioni dottrinali
e giurisprudenziali suggerite dall’osservazione della reale operatività di tali
strumenti può risultare di particolare interesse ai fini di una riflessione su istituti
che nel nostro ordinamento, viceversa, non hanno ancora il supporto né di prassi
né di giurisprudenza. L’utilità della comparazione può essere ricercata sul piano
teorico, per comprendere se e in quali limiti i modelli di composizione
sistematica suggeriti dalle ricerche statunitensi siano adeguati a descrivere
126 Del. Code Ann. tit. 8, §221: “Every corporation may in its certificate of incorporation confer upon the holders of any bonds, debentures or other obligations issued or to be issued by the corporation the power to vote in respect to the corporate affairs and management of the corporation to the extent and in the manner provided in the certificate of incorporation and may confer upon such holders of bonds, debentures or other obligations the same right of inspection of its books, accounts and other records, and also any other rights, which the stockholders of the corporation have or may have by reason of this chapter or of its certificate of incorporation. If the certificate of incorporation so provides, such holders of bonds, debentures or other obligations shall be deemed to be stockholders, and their bonds, debentures or other obligations shall be deemed to be shares of stock, for the purpose of any provision of this chapter which requires the vote of stockholders as a prerequisite to any corporate action and the certificate of incorporation may divest the holders of capital stock, in whole or in part, of their right to vote on any corporate matter whatsoever, except as set forth in paragraph (2) of subsection (b) of § 242 of this title.” 127 Lehrman v. Cohen, 222 A.2d 800 (Del. 1966). 128 Providence & Worchester Co. v. Baker, 378 A.2d 121 (Del. 1977). 129 Sagusa, Inc. v. Magellan Petroleum Corp., C.A. No. 12977, 1993 WL 512487 (Del. Ch. Dec. 1, 1993), aff'd, 650 A.2d 1306 (Del. 1994). 130 Del. Code Ann. tit. 8, §214: “The certificate of incorporation of any corporation may provide that at all elections of directors of the corporation, or at elections held under specified circumstances, each holder of stock or of any class or classes or of a series or series thereof shall be entitled to as many votes as shall equal the number of votes which (except for such provision as to cumulative voting) such holder would be entitled to cast for the election of directors with respect to such holder's shares of stock multiplied by the number of directors to be elected by such holder, and that such holder may cast all of such votes for a single director or may distribute them among the number to be voted for, or for any 2 or more of them as such holder may see fit.”
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l’attuale assetto della legislazione italiana, ma può essere apprezzata anche quale
occasione per prefigurare l’attuazione che le norme di nuovo conio potrebbero
conoscere. Si anticipa a tale ultimo proposito una questione che verrà meglio
considerata nel prosieguo, ossia se anche nel nostro tracciato normativo vi siano
le ragioni che hanno indotto gli operatori stranieri a fare un uso moderato
dell’autonomia negoziale loro concessa rifuggendo da quelle – pur possibili -
commistioni tra controllo e direzione che sarebbero idonee a supportare una
riqualificazione ex post del titolo di partecipazione alla società. È evidente che,
se così fosse, alla novità degli assetti di governo si accompagnerebbe
l’emersione di nuove posizioni di responsabilità, ma al contempo ai proclami
sulla forza innovativa delle disposizioni riformate si assocerebbe l’attesa di un
ricorso limitato alle stesse.
53
Sezione III
2. Tutela nel contratto o tutela nella governance? Il riconoscimento all’autonomia privata di un ampio spazio nella definizione
della struttura finanziaria sollecita a comprendere se e in quale misura da tale
fenomeno derivino alterazioni nei meccanismi di composizione degli interessi
interni alla società. L’interrogativo, più precisamente, è se la sede contrattuale
sia deputata, oltre che a caratterizzare nel contenuto gli strumenti di
partecipazione, anche a determinare le relative tutele o se queste siano piuttosto
affidate alle regole di corporate governance. A tale ultima espressione,
convenzionalmente riferita alle strutture legali ed economiche che presiedono
alle relazioni tra azionisti e amministratori, si verrebbe così ad attribuire il
significato ulteriore di complesso di regole di mediazione tra la società e i suoi
creditori.
Il dibattito è relativamente giovane nel nostro ordinamento131, ma ha trovato
incubazione nelle vicende dell’economia nordamericana dapprima negli anni
’20 e in seguito degli anni ’80, allorquando gli interpreti iniziarono a prendere
collocazione nelle due scuole di pensiero che ancora oggi vivacizzano il dialogo
131 L’innovazione legislativa sui canali di finanziamento ha sollecitato a riferire al nostro ordinamento gli stessi interrogativi attorno ai quali da tempo all’estero si svolge un animato dibattito. Così, nel commentare tra i primi la riforma, Tombari, La nuova struttura finanziaria della società per azioni (Corporate Governance e categorie rappresentative del fenomeno societario), cit., 1099, 1083, porta all’attenzione degli interpreti la necessità di chiarire come si atteggi “(…) il dovere degli amministratori di perseguire l’«interesse sociale»” quando una s.p.a. presenti una “struttura finanziaria «complessa»”, nonché “quali strumenti di tutela siano a disposizione di ciascuna tipologia di investitori”, indicando quali referenti letterari alcuni tra i maggiori interventi nelle riviste statunitensi di settore. Sempre nell’imminenza della riforma prospettavano analoghi dubbi Weigmann, Luci ed ombre del nuovo diritto azionario, in Soc., 2003, 277; Id., Dalla società per azioni alla società per carati, in Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, a cura di Benazzo, Patriarca e Presti, Milano, 2003, 169 ss., 172, ove sottolinea come la finalità di garantire alle società un afflusso di risorse possa realizzarsi solo assicurando a chi finanzia strumenti di tutela giuridica idoeni a “reagire alle scorrettezze e agli abusi di chi gestisce”, ma al contempo segnala che “(P)per gli strumenti diversi dalle azioni, la nuova disciplina rinvia l’individuazione delle tecniche di protezione alle clausole contrattuali, senza nemmeno individuare un insieme di regole suppletive”; F. D’Alessandro, «La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata». Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, in Riv. soc., 2003, 42-43; A. Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma: l’autonomia societaria e la risposta legislativa alle esigenze di finanziamento dell’impresa, in Giur. comm., 2002, I, 641 ss., 646-647; C. Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova, 2003, 3 ss.; Lamandini, Autonomia negoziale e vincoli di sistema, cit., 537; Pisani Massamormile, Azioni ed altri strumenti finanziari partecipativi, cit., 1314-1315; Enriques, Quartum non datur, cit., 177.
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sul punto. La prima, appurata l’inefficienza delle cautele contrattuali sia sul
piano dei risultati sia su quello dei costi, sostiene la necessità di interpretare le
responsabilità facenti capo agli amministratori in modo che essi garantiscano in
eguale misura gli interessi di apportatori di capitale di rischio e di debito. La
seconda posizione, muovendo dall’impossibilità e dall’inopportunità di
assimilare i creditori agli azionisti, confida invece nel rafforzamento delle forme
convenzionali di tutela preventiva. Nell’una e nell’altra prospettiva il rapporto
tra gli strumenti di finanziamento è colto anche in relazione al grado di
preferenza nella ripartizione in sede di liquidazione, con la conseguente
necessità di concepire le tutele con una flessibilità che consenta di adeguarle alla
capacità economica di provvedere ai rimborsi richiesti, ossia alla solvibilità della
società.
Nei paragrafi che seguono si considererà nel merito ciascuno di tali indirizzi,
con l’intento di valutare a quale di essi sia riconducibile la posizione assunta dal
legislatore della riforma132.
Occorre peraltro precisare in via preliminare che la ricerca di un punto di
equilibrio tra il ruolo della contrattazione privata e il ruolo della responsabilità
da amministrazione è stata in un primo tempo condotta con riferimento non ai
creditori bensì ai soci di minoranza. La riflessione è stata sollecitata dalla
partecipazione azionaria dei venture capitalist133, giacchè l’abilità dimostrata da
132 G. Forestieri, Emissioni obbligazionarie, strumenti finanziari, capitale di rischio: una alternativa reale al credito bancario?, in Bancaria, 2007, 2 ss., 4, accenna all’esistenza della problematica de qua nel nostro ordinamento scrivendo: “(…) l’ampliamento della gamma degli strumenti disponibili rende più delicato il tema degli assetti di governance. Una struttura finanziaria complessa deve graduare e modulare i diritti patrimoniali e amministrativi dei diversi partecipanti all’apporto di risorse; sono più probabili conflitti tra categorie di finanziatori/investitori; diventa più delicata la definizione dell’interesse sociale e della regolazione dei diritti e dei poteri. È verosimile che l’allargamento delle formule di finanziamento debba essere accompagnato da un aumento del grado di complessità del sistema di corporate governance.” 133 Douglas G. Smith, The venture capital company: a contractarian rebuttal to the political theory of american corporate finance?, 65 Tenn. L. Rev. 79, 87-89 (1997): “One salient example of shareholders exercising a large amount of influence over the governance and management of companies is found in the venture capital industry. Venture capital investment companies often negotiate rights that give them actual or potential control over the companies in which they invest – their "portfolio companies." Furthermore, venture capitalists also constrain managerial excesses through mechanisms other than the exercise of actual or potential control, such as contractual provisions that limit the activities of management ...”.
55
tali operatori nel convenire livelli adeguati di garanzia dell’investimento ha
consentito di rilevare come anche un socio di minoranza possa attivare
meccanismi di autotutela attraverso la negoziazione preventiva, e ha in tal modo
giustificato la contrarietà a estendere il regime di responsabilità degli
amministratori134. Proprio alla luce dell’esperienza maturata nei c.d. “relational
contracts”135 la soluzione ai problemi delle società chiuse è parsa infatti risiedere
nell’autonomia statutaria che a esse è connaturata e che consente di formalizzare
in clausole ad hoc diritti di controllo sulla gestione o di partecipazione a utili di
settore o diritti di exit. La valorizzazione di tali potenzialità potrebbe inoltre
anticipare forme di composizione dei conflitti di interesse, evitando di
esasperare con prospettive risarcitorie quegli “scenari litigiosi” di cui le società a
partecipazione ristretta sono sovente teatro.
Tanto precisato, occorre dire che le osservazioni appena svolte interessano in
questa sede quale criterio di analisi della posizione dei titolari di strumenti
finanziari più che come metodo al quale assicurare la gestione del conflitto tra
maggioranza e minoranza, atteso se non altro che raramente quest’ultima
dispone della capacità di contrattazione richiesta per l’elaborazione di clausole
che approntino una tutela esauriente136. Viceversa, proprio la forza negoziale di
Diffusamente sul punto S. W. Stevenson, The venture capital solution to the problem of close corporation shareholder fiduciary duties, in 51 Duke L.J., 2001, 1139. 134 Sennonché, pur a fronte dell’ampia capacità di contrattazione che contraddistingue questa peculiare categoria di investitori, non sono mancati rilievi circa l’insufficienza delle forme di controllo assicurabili in sede pattizia, sostenendo quindi l’opportunità di un’espansione di fiduciary duty: cfr. Jesse M. Fried & Mira Ganor, Agency costs of venture capitalist control in startups, 81 N.Y.U. L. Rev., 2006, 967, 1020-22. 135 William W. Bratton, Jr., Gaming Delaware, 40 Willamette L. Rev. 853, 854 (2004); D. Gordon Smith, Independent legal significance, good faith, and the interpretation of venture capital contracts, 40 Willamette L. Rev. 825 (2004). 136 Tale limite è stato ammesso già da chi ha elaborato il modello, riconosciuto a stento applicabile al di fuori dell’ipotesi che ne ha determinato l’elaborazione, ossia il coinvolgimento nella compagine sociale di un socio di minoranza tanto privilegiato nell’imporre la contrattazione quale è un venture capitalist. Non solo di regola chi fa ingresso quale socio di minoranza in una società non dispone di un potere contrattuale altrettanto incisivo, ma neppure si avvale dell’assistenza legale necessaria alla predisposizione di un assetto contrattuale adeguato ad una tutela piena, preferendo – anche in ragione del minor costo – confidare nei rimedi giudiziari successivi. La soluzione suggerita è che il legislatore provveda a predisporre una legislazione di default ispirata agli accordi di venture capital, così da ridurre la disparità delle parti in sede di negoziazione e rendendo omogenea sotto tale profilo la posizione del quivis de populo a quella del finanziatore di settore (S. W. Stevenson, The venture capital solution to the problem of close corporation shareholder fiduciary duties, in 51 Duke L.J., 2001, 1139, 1178-1179).
56
coloro che potranno verosimilmente essere maggiormente interessati alla
sottoscrizione di strumenti finanziari, vale a dire gli investitori istituzionali, può
agevolare nel riferire al nostro ordinamento le considerazioni appena ricordate.
Al riguardo è possibile rilevare che a fronte della considerevole produzione
sull’uso degli ibridi nel venture capital, la stessa letteratura americana ha
un’estensione più contenuta in merito a veicoli di investimento meno complessi,
a dispetto dell’ormai ampio uso che degli stessi è fatto. Ad ogni modo il
ragionamento della giurisprudenza, per quanto non espressamente riferito agli
ibridi, ha affrontato l’argomento che qui importa, ossia la possibilità di riferire ai
titoli di debito la disciplina dettata con riferimento alle azioni in ragione
dell’equiparabilità delle situazioni rappresentate dalle due categorie di strumenti.
Appunto a tale impostazione si intende fare riferimento.
2.1 Le garanzie risarcitorie quale incentivo legale all’allineamento
informativo.
La trattazione sugli strumenti finanziari ibridi ha preso avvio, nell’incipit del
presente capitolo, dalla constatazione dell’insuperabile incompletezza strutturale
dei contratti di finanziamento. Ebbene, la medesima osservazione ha
determinato a teorizzare in favore dei titoli di debito la necessità di forme di
tutela legale di natura risarcitoria137. Nel confronto con l’imperfezione delle
137 Può giovare ricordare, a tale riguardo, la precisazione sviluppata da Bellantuono, I contratti incompleti, cit., 241-242, 245-246, sulla diversa rilevanza che il riferimento al contratto incontra nella teoria dell’agenzia e in quella dell’incompletezza contrattuale. Mentre nella prima, infatti, “(L)la partecipazione volontaria all’impresa rappresenta la condizione che legittima la delega dei compiti di gestione agli amministratori”, nella seconda prospettiva “(I)il riferimento al contratto non è diretto a giustificare su base consensualistica la distribuzione dei diritti di controllo all’interno della società, ma serve piuttosto ad individuare con maggiore precisione i conflitti di interessi da cui dipende la scelta delle strutture societarie” nonché “ad identificare la relazione che intercorre fra organizzazione delle strutture societarie da parte dei privati e disciplina legale.” Per questo le possibili ragioni di critica alla concezione della società quale nexus of contracts non precludono l’adesione alla tesi dell’incompletezza patologica del contratto, ma solo possono indurre a proporre soluzioni alternative per il superamento dei limiti riscontrati. Vero è che l’influenza delle posizioni istituzionaliste sull’interpretazione giurisprudenziale ha indotto ad attribuire alla disciplina di fonte legale una rilevanza centrale nella definizione dei rapporti interni alla società, riconoscendo per lo più natura inderogabile alle regole codicistiche e dunque incentivando indirettamente il ricorso nella prassi a patti parasociali. L’approccio giureconomico alla società come contratto incompleto consente, però, di “ripensare il controllo pubblico sulle società mettendo a confronto i costi di forme alternative di regolamentazione” e a
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previsioni contrattuali, infatti, una sistemazione successiva al verificarsi della
condotta dannosa parrebbe preferibile sia per la capacità di eliminare incertezze
e rischi conseguenti, sia per la possibilità di misurare il risarcimento in funzione
di una situazione specifica138. Il meccanismo è stato individuato nell’estensione
della sfera degli obblighi e dunque delle responsabilità facenti capo agli
amministratori139. Operando quale garanzia ex lege, tale soluzione consentirebbe
di conseguire gli esiti di una contrattazione ottimale senza affrontarne i costi.
Non solo la predisposizione di contratti lunghi e complessi potrebbe essere
evitata o comunque portata a perfezione facendo rinvio alla disciplina societaria
residuale140, ma verrebbe meno la ragione stessa di contenere le opportunità di
crescita della società con clausole di preclusione formulate per categorie astratte
di operazioni, a prescindere dalla convenienza effettiva. Gli amministratori,
infatti, saprebbero misurare la libertà nella definizione dell’attività sociale per la
consapevolezza di dover personalmente rispondere dei danni derivanti da
condotte pregiudizievoli per i creditori.
Per effetto si avrebbe l’eliminazione di quella incertezza sulla condotta degli
amministratori che con espressione efficace è stata detta unproductive
uncertainty141, poiché sommandosi ai rischi e alle incertezze con le quali già si
concepire che l’intervento statale “assuma la forma di una regola di default o di una regola imperativa” a seconda dei casi. 138 Per Easterbrook, Two agency-cost explanations of dividends, 74 Am.Econ.Rev., 1984, 650 ss., 655: “[t]he future is always anticipated imperfectly in [financial] contracts, so there will always be some need for ex post adjustments (...)”; per Davis, Judicial review of fiduciary decisionmaking-some theoretical perspectives, 80 Nw.U.L.Rev. 1,1985,18-19 una sistemazione ex post “[i]t eliminates the riskiness inherent in ex ante discounting for events which are shrouded in substantial uncertainty and surcharges fiduciaries based upon their actual conduct rather than upon an ex ante forecast of their propensities.” 139 A.A. Berle jr., The 20th century capitalist revolution, Harcourt, Brace & Co., New York, 1954, 169, ricorda la ventennale polemica che lo contrapponeva al Prof. Dodd circa gli organi della società, che Egli riteneva dovessero agire quali fiduciari degli azionisti mentre il secondo quali fiduciari dell’intera comunità. 140 Fischel, The corporate governance movement, 35 Vand.L.Rev., 1982, 1259, 1264, scriveva: “Optimal fiduciary duties should approximate the bargain that investors and managers would reach if transaction costs were zero.” J. Cox, Compensation, deterrence, and the market as boundaries for derivative suit procedures, 52 Geo.Wash.L.Rev., 1984, 745 ss., 747, pone all’evidenza i riflessi sistematici di tale composizione sottolineando come il contenimento dei costi per la singola contrattazione abbia quale conseguenza indiretta la riduzione complessiva del costo del capitale di credito. 141 R. Clark, Corporate Law, 1986,156-57, ove pure: “This is a bad effect when the uncertainty is basically unnecessary and unproductive...” “[T]he thrust of corporate law rules should be, and
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confrontano gli investitori determina un aumento del costo del capitale e
deprime il livello di investimento nelle imprese produttive. Questo spiegherebbe
il declino del ricorso ad assetti contrattuali che, pur consentendo di ottenere tassi
di interesse agevolati142, contraggono la discrezionalità degli amministratori e
con essa la capacità di creare valore per la società143.
Così interpretata, la legge in generale – e la disciplina della corporate
governance in particolare - verrebbe quindi ad assolvere due fra le principali
funzioni che ad essa competono, vale a dire la correzione delle esternalità e la
riduzione dei costi di transazione.
2.2 La parificazione tra azionisti e debitori: dall’omogeneità delle
posizioni di rischio all’omogeneità delle tutele.
La premessa sulla quale la capacità espansiva della fiduciary duty poggia è che
gli amministratori debbano agire nell’interesse sia degli azionisti sia dei
portatori di titoli di debito, al fine di mediare tra le reciproche posizioni ed
evitare condotte che pregiudichino gli uni per il vantaggio degli altri144. Tale
affermazione ne ha peraltro in seno un’altra: l’identità di posizione tra azionisti
e titolari di strumenti finanziari di debito145. Proprio su tale assunto e sulle
often is, to prevent the creation of uncertainties which are not an essential aspect of some productive activity.” 142 Fons, The default premium and corporate bond experience, 42 J.Fin. 81, 87 (1987). 143 M. W. McDaniel, Bondholders and stockholders, cit., 236, il quale cita studi statistici al riguardo. 144 Potranno nel tempo riequilibrare la struttura del capitale così da riallineare le reciproche posizioni di rischio degli investitori e così da “to prevent one group of investors from gaining, relative to another, by changes in the firm's fortunes after financial instruments have been issued.” (Easterbrook, Two agency-cost explanations of dividends, 74 Am.Econ.Rev., 1984, 650, 655). Sul conflitto di interessi tra azionisti e finanziatori si vedano altresì: Alon Chaver & Jesse M. Fried, Managers' fiduciary duty upon the firm's insolvency: accounting for performance creditors, 55 Vand. L. Rev., 2002, 1813, 1815; Thomas A. Smith, The efficient norm for corporate law: a neotraditional interpretation of fiduciary duty, 98 Mich. L. Rev., 1999, 214, 217-19. 145 Easterbrook & Fischel, Close corporations and agency costs, 38 Stan.L.Rev., 1986, 271, 274-75 n. 8:“[t]here is no fundamental difference between debt and equity claims from an economic perspective.”
59
ragioni storiche ed economiche che lo sorreggono merita soffermare anzitutto
l’attenzione146.
La più compiuta formulazione della tesi in questione risale agli anni ’80,
allorché un numero crescente di società aumentava unilateralmente con
operazioni straordinarie sul capitale il rischio al quale i finanziatori erano
esposti, determinando aspettative di rimborso non dissimili da quelle degli
azionisti. L’omogeneità tra gli stati di rischio portava a ruota quella tra le istanze
di tutela, giacché bondholders e stockholders iniziavano ad apparire meritevoli
di pari protezione innanzi agli amministratori. Veniva così data rilettura ad
un’intuizione che alcune voci illustri avevano accennato già decenni prima:
“[m]ore and more, the position of the bondholder and of the stockholder of large
corporations are merging”147, accomunate nella realtà economica dalla
condivisione della sorte della società finanziata148 e dalla consimile soggezione
alle scelte del management149. Di qui la reiterazione dell’auspicio che in sede
interpretativa si prendesse atto del dato storico per il quale, in forza di un moto
di avvicinamento progressivo dei parametri di rischio connessi alle varie forme
di finanziamento, si era oramai determinato un superamento della netta
distinzione tra gli strumenti finanziari presupposta all’origine dal legislatore150.
146 Si farà a tal fine principalmente riferimento alla ricostruizione operata da M. W. McDaniel, Bondholders and stockholders, in Journal of Corporation Law, University of Iowa, 1988, 205 ss., 219. 147 J. Frank, Book Review, 42 Yale Law Journal, 1933, 989 ss., 992 (ma in modo non dissimile già si era espresso A. Berle, Jr. & G. Means, The modern corporation and private property, 1932, Chicago, Commerce Clearing House). 148 J. Hurst, The Legitimacy of the Business Corporation in the Law of the United States, 1970, 1780-1970, at 55, così si esprimeva: “Along with the broader recruitment of stockholders in the 1920's went a broader market in corporate bonds, creating a body of creditors who in substance were like the new investors in equities-individually weak, lacking knowledge, scattered, and in practice as committed for better or worse to the long-term fortunes of the debtor corporation as were its shareholders.” 149 A. Dewing, The financial policy of corporations, 1953 (5th ed.), 166-67, condivideva l’opinione secondo la quale la linea di demarcazione tra owners e creditors andava scomparendo, e approvava pertanto come maggiormente realistiche la giurisprudenza e la dottrina che ammettevano come i bondholders apparissero sempre più “as joint heirs in the corporate fortunes” (p. 236). Questa la conclusione tratta: “It is the definite trend of our current financial thinking to efface the legalistic distinction between the rights of the creditor and the rights of proprietor in the ownership of the corporate property.” (p. 190). 150 A. Berle, Jr., già nell’opera Studies in the law of corporation finance, 1928, 156, notava che la differenza tra stockholders e bondholders “is not nearly as great as that which the law presupposes.”; successivamente, in A. Berle & G. Means, The modern corporation and private property, 1968 (rev.ed.), 279, aggiungeva che dal punto di vista economico tali due posizioni
60
Non ha evidentemente carattere di mera coincidenza che tanti illustri Autori si
siano avveduti, a distanza d’anni ma non di prospettive, della stretta correlazione
tra capitale di rischio e di debito151. La Grande Depressione degli anni ’20,
quantomeno accelerata nel suo determinarsi dalle note politiche di
indebitamento ad alto tasso di rischio, aveva persuaso gli studiosi – oltre che gli
investitori – del fatto che i titoli obbligazionari non potevano considerarsi quello
strumento sicuro di investimento che si credeva, essendo esposti a pericolo di
perdita in misura non dissimile che le azioni. Analoghe contingenze storiche
avrebbero determinato negli anni ’80 la formulazione di analoghe conclusioni
giuridiche152.
Il riferimento alle determinati economiche non è fine a se stesso, ma rileva in
quanto porta all’evidenza i supporti giuridici alla chiave interpretativa in
discorso. Le coincidenze temporali sollecitano a considerare congiuntamente il
dibattito sulla complessità della struttura finanziaria delle società e quello, pure
sviluppatosi negli anni ’20 e ’80, sulla nozione di interesse sociale, entrambi
cimentatisi prima nella comprensione poi nel contemperamento della pluralità di
posizioni che possono variamente afferire ad un medesimo ente. Il rebus sta
nell’interazione tra le singole variabili, poiché l’assetto degli interessi muta al
variare della condizione finanziaria della società e in relazione alle
interdipendenze che di volta in volta si creano. Proprio sotto quest’ultimo
profilo, intesa la società quale entità composta di vari gruppi di interesse
reciprocamente collegati, ciascuno rappresentante niente più che un modo di
investimento, perde di razionalità privilegiare una categoria a discapito dell’altra
e risulta invece congruo responsabilizzare gli amministratori a massimizzare il
all’inetrno della società “have drawn together”, e che “Every banker knows this; there is no reason why courts should ignore it.” È analoga la posizione di Llewellyn, What price contract?- An essay in perspective, 40 Yale L.J., 1931, 704, 721, ove afferma che in relazione ai business purposes la plurimenzionata distinzione “tends definitely to disappear.”\ “My eyes may be blinded, but to me men do not seem to regard as cutting to the essence”. 151 L’osservazione è di M. W. McDaniel, Bondholders and stockholders, cit., 220. 152 Easterbrook & Fischel, Close corporations and agency costs, 38 Stan.L.Rev., 1986, 271, 274-75 n. 8: “There is no fundamental difference between debt and equity claims from an economic perspective. Both may bear risk, which makes both 'residual' claims in the sense that the payoff turns on the fortunes of the firm. We conventionally call some claims “debt” and others “equity,” but nothing turns on this.”
61
valore della società nella prospettiva combinata di tutti i suoi esponenti153. Tra
questi compaiono gli azionisti, ma senza privilegi nel trattamento e senza che la
previsione di duty nei loro confronti abbia valore ulteriore rispetto a colmare le
lacune che un contratto che volesse disciplinarne i rapporti con gli
amministratori inevitabilmente avrebbe154. La tradizionale “shareholder primacy
norm”, a lungo dominante tra giudici e commentatori, è per tale via rimessa in
discussione innanzi al fondamentale interrogativo sugli scopi ai quali deve
rivolgersi la gestione155.
2.3 La nozione di residual claimant tra solvenza e insolvenza.
La shareholder primacy richiede che la gestione della società assuma quale fine
il conseguimento della ricchezza massima per i soci. Tutti concordano
nell’affermare che in generale questa regola è efficiente, poiché a giustificarla è
l’identificabilità dei soci quali “residual claimants”, ossia quali soggetti che,
potendo vantare pretese sul patrimonio sociale solo una volta soddisfatti tutti i
creditori, soffrono ogni perdita e si giovano di ogni aumento di valore della
società. In questo senso si afferma che massimizzando il valore delle azioni
altrettanto si fa per il valore della società, e conseguentemente per il benessere
dell’intero contesto economico di riferimento156. Per queste ragioni i soci sono
ritenuti a riferimento per la gestione sociale157.
Le opinioni sono unanimi altresì nel ritenere che la prospettiva debba mutare in
ipotesi di insolvenza, poiché una volta che gli azionisti abbiano perduto la
prospettiva di ottenere la liquidazione della quota ogni ulteriore operazione non
può che avvenire a pregiudizio delle attese di rimborso dei creditori, le pretese
dei quali devono quindi dirsi residuali. È alla tutela di tali soggetti che deve
153 William W. Bratton, Jr., The economics and jurisprudence of convertible bonds, 1984 Wis. L. Rev. 667 (1984). 154 Frank H. Easterbrook & Daniel R. Fischel, Contract and fiduciary duty, 36 J. L. & Econ., 1993, 425, 427. 155 F. Tung, The new death of contract: creeping corporate fiduciary duties for creditors, Emory Law Journal, 2008, 809, 814 pone il problema in questi termini: “But Expanded Duty revisits the fundamental question: for whom should corporate managers manage?” 156 Frank H. Easterbrook & Daniel R. Fischel, The economic structure of corporate law, 1991, 92. 157 J. R. Macey, Fiduciary duties as residual claims: obligations to nonshareholder constituencies from a theory of the firm perspective, 84 Cornell L. Rev., 1999, 1266, 1273.
62
pertanto volgersi l’impegno degli amministratori158, tenuti a non dare seguito
alla propensione al rischio che negli azionisti è motivata dall’assenza di
pregiudizio economico in caso di esito negativo.
Le Corti hanno fatto un passo innanzi rispetto a questa ricostruzione,
affermando che l’incentivo per gli amministratori a perseguire politiche ad alto
rischio vantaggiose per gli azionisti ma pregiudizievoli per i creditori può
operare non solo quando l’insolvenza sia in atto, ma anche nella c.d. zone of
insolvency. Non si tratta, d’altronde, di uno stato che tenda a maturare
istantaneamente, ma che si determina gradualmente così come gradualmente si
possono alterare le politiche di governo della società. Si comprendono allora le
ragioni per le quali anche in tale contesto gli amministratori, come statuito dal
famoso precedente Credit Lyonnais, maturano responsabilità “to the corporate
enterprise”, ossia verso quella “community of interests” della quale sono parte i
creditori al pari dei soci159. Come scriveva il Giudice Posner, “[a]n efficient
corporation law is not one that maximizes creditor protection on the one hand or
corporate freedom on the other, but one that mediates between those goals in a
fashion that minimizes the costs of raising money for investment”.
158 Margaret M. Blair & Lynn A. Stout, Director accountability and the mediating role of the corporate board, 79 Wash. U. L.Q., 2001, 403, 404; Laura Lin, Shift of fiduciary duty upon corporate insolvency: proper scope of directors' duty to creditors, 46 Vand. L. Rev., 1993, 1485, 1512, ove numerosi riferimenti giurisprudenziali. L’assunto, pur generalmente condiviso, è stato criticato dalla più recente dottrina con un’accusa, si potrebbe dire, di ingenuità. Si è posto in dubbio, infatti, che gli amministratori perseguano sempre con lealtà gli interessi di coloro, soci o creditori, che siano indicati quali destinatari delle duties. Cfr. Stephen M. Bainbridge, Much ado about little? Directors' fiduciary duties in the vicinity of insolvency, 1 J. Bus. & Tech. L. 335, 358 & n.113 (2007), ove ci si domanda quando gli amministratori favoriranno realmente i creditori; Henry T.C. Hu & Jay Lawrence Westbrook, Abolition of the corporate duty to creditors, 107 Colum. L. Rev. 1321, 1351 (2007), per il quale l’avversione al rischio degli amministratori in generale e nelle fasi di dissesto in particolare, val di per sè quale disincentivo a perseguire politiche ad alto rischio seppur ottimali per gli azionisti; Lynn M. LoPucki & William C. Whitford, Corporate governance in the bankruptcy reorganization of large, publicly held companies, 141 U. Pa. L. Rev. 669, 684 (1993), apertamente sul fatto che gli amministratori non favoriscono necessariamente né soci né creditori. 159 Credit Lyonnais Bank Nederland, N.V. v. Pathe Commc'ns Corp., No. 12, 1240, 17 Del. J. Corp. L. 1099, 1155, 1991 WL 277613 (Del. Ch. 1991) (“[W]here a corporation is operating in the vicinity of insolvency, a board of directors ... owes its duty to the corporate enterprise.”); In re Healthco Int'l, Inc., 208 B.R. 288 (Bankr. D. Mass. 1997) (recognizing perverse incentives for a manager operating while the corporation had “unreasonably small capital” but was not yet insolvent).
63
Di tale teoria, pur criticata e superata da successive impostazioni anche
giurisprudenziali160, parte della dottrina ha invocato una ulteriore estensione
invocando quale argomento principe la circostanza che la divergenza tra
interesse dei soci e dei creditori non può essere circoscritta alla sola area di
prossimità all’insolvenza. Quest’ultima, peraltro, si presta a essere identificata
solo in ragione di una connotazione quantitativa, ossia la misura del rischio
economico capace di rendere attuale l’insolvenza della società, con la duplice
conseguenza che ogni società può sempre considerarsi in tale limbo e che la
shareholder primacy è sempre inefficiente161. Vero questo, sarebbe scelta
coerente generalizzare il criterio del perseguimento del valore massimo per tutti
coloro che pur a diverso titolo finanziano la società, senza modulare le regole di
condotta degli amministratori in base a parametri di incerta definizione.
È interessante notare che la formulazione della tesi da ultimo detta muove pur
sempre da un’assimilazione di azionisti e creditori, accomunati
dall’imperfezione dei diritti contrattuali e dall’essere “owners of a firm”, solo
diversamente graduati nella pretesa al rimborso162.
2.4 Riscontri normativi e giurisprudenziali.
La tesi che accorda ai finanziatori il diritto di ricevere dagli amministratori una
tutela pari agli azionisti, trova nella realtà statunitense riscontri normativi e
giurisprudenziali.
160 N. Am. Catholic Educ. Programming Found. v. Gheewalla, 930 A.2d 92 (Del. 2007); Rutheford B. Campbell, Jr. & Christopher W. Frost, Managers' fiduciary duties in financially distressed corporations: chaos in Delaware (and elsewhere), 32 J. Corp. L. 491, 504 (2007) (discussing possible interpretations of Credit Lyonnais duty); Frederick Tung, Gap filling in the zone of insolvency, 1 J. Bus. & Tech. L. 607, 623 n.63 (2007). 161 Thomas A. Smith, The efficient norm for corporate law, cit., 223. L’Autore correda la tesi ricordata assumendo che gli investitori sono indotti dalla razionalità che li connota a diversificare i titoli di partecipazione alle società finanziate. Tale dato potrebbe spiegare l’indifferenza alla tutela dell’una o dell’altra classe di strumenti, e la attenzione piuttosto a che sia massimizzato il valore della somma di tutti gli strumenti di finanziamento dell’impresa (parla a tal proposito di financial value maximization – F.V.M.). 162 Baird & Jackson, Corporate reorganizations and the treatment of diverse ownership interests: a comment on adequate protection of secured creditors in bankruptcy, 51 U.Chi.L.Rev. 97, 105 n. 28 (1984): “These various groups of owners are alike in that all have some sort of claim to the firm's assets.”
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In ossequio ad essa, infatti, le legislazioni di taluni stati hanno autorizzato gli
amministratori a considerare gli interessi dei constituencies oltre che dei soci163.
A partire dagli anni ’20 e con maggiore frequenza dal finire degli anni ’70,
inoltre, si è assistito alla creazione di un corpo di principi giurisprudenziali164 a
protezione dei finanziatori mediante appello ai principi di diritto societario, ma
anche a quelli che presiedono più in generale alla teoria del contratto e a quella
sull’illecito165. Comuni alle diverse prospettive sono l’affermazione del
principio dell’ingiusto arricchimento, in ragione del quale non sarebbe dato agli
amministratori favorire gli azionisti a danno dei finanziatori, e la statuizione
della necessità di una full disclosure, che responsabilizza gli amministratori a
163 Può valere ad esempio Ohio Rev. Code Ann. § 1701.59(E): “(E) For purposes of this section, a director, in determining what the director reasonably believes to be in the best interests of the corporation, shall consider the interests of the corporation’s shareholders and, in the director’s discretion, may consider any of the following: (1) The interests of the corporation’s employees, suppliers, creditors, and customers; (2) The economy of the state and nation; (3) Community and societal considerations; (4) The long-term as well as short-term interests of the corporation and its shareholders, including the possibility that these interests may be best served by the continued independence of the corporation.” 164 308 U.S. 295, 60 S.Ct. 238, 84 L.Ed. 281- Supreme Court of the United States. PEPPER v. LITTON. Decided Dec. 4, 1939, è capostipite di questo filone giurisprudenziale e referente per le Corti ove statuisce: “[A fiduciary] cannot use his power for his personal advantage and to the detriment of the stockholders and creditors no matter how absolute in terms that power may be and no matter how meticulous he is to satisfy technical requirements. For that power is at all times subject to the equitable limitation that it may not be exercised for the aggrandizement, preference, or advantage of the fiduciary to the exclusion or detriment of the [beneficiaries].” La stessa pronuncia chiarisce che le fiduciary obligations sussistono nei confronti di “the corporation, its stockholders and creditors” e sono votate “for the protection of the entire community of interests in the corporation-creditors as well as stockholders.” In termini non dissimili avrebbe avuto a pronunciarsi, tra le altre, 200 Colo. 180, 613 P.2d 873 - Supreme Court of Colorado, En Banc. - Great Western Producers Cooperative, petitioner, v. Great Western United Corporation, respondent. No. C-1763. June 30, 1980, secondo la quale le fiduciary duties sono dirette “to all of the corporation’s securityholders: common stockholders, preferred stockholders and bondholders”. “These duties,” per la Corte, “include fidelity, good faith, and prudence with respect to the interests of security holders (...)”. 165 Più precisamente, vennero invocate tre teorie: (1) breach of fiduciary duty (corporate law), (2) breach of implied covenant of good faith and fair dealing (contract law), e (3) fraud (tort law). Quanto alla prima: “Bondholders are owed two general duties, a duty of care and a duty of loyalty. The general duty of loyalty to bondholders includes three specific duties-a duty to refrain from self-dealing at bondholder expense, a duty to deal fairly with bondholders, and a duty to make full disclosure to bondholders. Those three duties may be called the duty of no self-dealing, the duty of fair dealing, and the duty of full disclosure.” Riemenrge dunque, sotto forma di vincolo a soddisfarla, l’esigenza di allineamento informativo caratterizzante i rapporti di finanziamento. In argomento cfr.: M. W. McDaniel, Bondholders and corporate governance, 41 Bus. Law., 1986, 413, 449 (favorevole all’individuazione di “fiduciary duties to bondholders”); L. E. Mitchell, The fairness rights of corporate bondholders, 65 N.Y.U. L. Rev., 1990, 1165, 1222-25 (a sostegno dell’individuazione di “fairness rights for bondholders”).
65
rendere tempestivamente note le circostanze che potrebbero generare indebiti
vantaggi per una delle due categorie. Quel flusso continuativo di informazioni,
che si è visto essere costosamente ricercato ma difficilmente realizzato in sede
contrattuale, verrebbe in tal modo garantito imponendo agli amministratori una
condotta attiva di promozione dell’allineamento conoscitivo.
Volendo cogliere una prospettiva omologa nel nostro ordinamento, il pensiero
corre alla novella in materia di obblighi di motivazione, di cause di invalidità e
di legittimazione all’impugnazione delle delibere del consiglio di
amministrazione. Contrappeso all’attribuzione esclusiva del potere gestionale,
tale disciplina è stata indicata quale punto di emersione di una impostazione
istituzionale penetrata nella struttura cosicistica quale concetto “neutro”, priva
dello spirito di solidarietà che ne ha animato le prime espressioni166. Gli
obiettivi sono la crescita e l’agilità nell’accesso al credito, e rispetto ad essi la
partecipazione alla società non viene in considerazione per la connotazione
contrattuale, bensì per la posizione all’interno dell’organizzazione.
3.1 La tutela come questione di contratto.
Su posizioni antitetiche rispetto a quella sin qui considerata sono quanti
ritengono che i diritti di un bondholder siano primariamente una “questione di
contratto”167. Occorre chiarire che la disparità di vedute non attiene all’esistenza
di un potenziale conflitto di interessi tra azionisti e finanziatori, perché anzi
166 Così Libertini, Riflessioni generali, in Le grandi opzioni della riforma, cit., 249 ss., 251, riflettendo sulla maggiore ampiezza della tutela invalidativa delle delibere consiliari e in particolare sul potere-dovere di impugnazione del collegio sindacale e sulla legittimazione del socio in caso di rifiuto del gradimento, o di limitazione del diritto di opzione, o di creazione di un patrimonio dedicato. Per una riflessione sulla possibilità di individuare nell’art. 2395 c.c. una traccia normativa della responsabilità degli amministratori verso il pubblico dei risparmiatori per difetto di informazione al mercato cfr. S. Bruno, Amministratori « fiduciari » della trasparenza del mercato finanziario? Un confronto tra diritto inglese e italiano, in Amministratori fiduciari: di chi?, a cura di D’Angelo, Milano, 2001, 164 ss. 167 American Bar Foundation, Commentaries on Indentures 1-2,1971, esordiva nella parte introduttiva statuendo: “bondholder rights are largely a matter of contract” e, ancora, “There is no governing body of statutory or common law that protects the holder of unsecured debt securities against harmful acts by the debtor except in the most extreme situations.” Su tali basi proponeva modelli contrattuali per facilitare finanziamenti a lungo termine e per promuovere la protezione di coloro che concedevano credito attraverso clausole standardizzate.
66
entrambi gli orientamenti ne predicano la probabilità oltre che la possibilità168,
bensì al modo da preferire per fronteggiare tale ostacolo con la tutela più
efficace. In questa prospettiva va dunque colta l’affermazione per la quale,
mentre i diritti di un azionista sono determinati dai principi fluidi del fiduciary
duty oltre che dalle previsioni contenute nell’atto costitutivo, i diritti di un
debtholder devono intendersi come limitati a quelli specificati nel contratto che
presiede all’emissione del relativo titolo169. Con tale conclusione, in altri
termini, non si vogliono interporre preclusioni al riconoscimento di garanzie,
bensì invitare a rivalutare quale fonte di queste l’autonomia privata. Proprio tale
intento si trova realizzato nelle pronunce delle Corti del Delaware170 che hanno
condiviso tale impostazione e perciò sostenuto che generalmente non ci sono
fiduciary duty verso i portatori di strumenti finanziari, ma non per questo hanno
negato la tutela richiesta. La lettura dei relativi dispositivi persuade anzi a
ritenere che un’interpretazione delle clausole contrattuali attenta ai principi
generali di buona fede e correttezza171 sia idonea ad accordare una tutela non
168 William W. Bratton, Jr., Corporate debt relationships: legal theory in a time of restructuring, 1989 Duke L.J. 92; Victor Brudney, Corporate bondholders and debtor opportunism: in bad times and good, 105 Harv. L. Rev. 1821 (1992); Marcel Kahan & Michael Klausner, Antitakeover provisions in bonds: bondholder protection or management entrenchment?, 40 UCLA L. Rev. 931 (1993); Morey W. McDaniel, Bondholders and corporate governance, 41 Bus. Law. 413 (1986); Morey W. McDaniel, Bondholders and Stockholders, 13 J. Corp. L. 205 (1988); Lawrence E. Mitchell, The fairness rights of corporate bondholders, 65 N.Y.U. L. Rev. 1165 (1990). Gli stessi precedenti, peraltro, sottolineano come la considerazione degli interessi dei debtholders non importi necessariamente una lesione dei diritti dei soci, e come anzi la soddisfazione dei creditori sia, sebbene indirettamente, riferibile anche all’interesse dei soci valendo da sollecitazione a successive aperture di credito. 169 324 A.2d 215, Court of Chancery of Delaware, New Castle County. Philip HARFF and Stephanie Harff, Plaintiffs, v. Kirk KERKORIAN et al., Defendants. July 23, 1974. “Unless there are special circumstances which affect the rights of the debenture holders as creditors of the corporation, e. g., fraud, insolvency or a violation of a statute, the rights of the debenture holders are confined to the terms of the indenture agreement pursuant to which the debentures were issued.” Kahan & B. Tuckman, Do bondholders lose from junk bond covenant changes?, 66 J. Bus., 1993, 499, 513 (ove si sostiene la capacità dei titolari di titoli di debito di predisporre forme adeguate di autotutela); M. Kahan, The qualified case against mandatory terms in bonds, 89 Nw. U. L. Rev., 1995, 565, 621-622 (ove è argomentata la necessità che la struttura della governance sia determinata in sede contrattuale, non attraverso norme imperative). 170 Geren v. Quantum Chemical Corp., 99 F.3d 401, C.A.2 (N.Y.), Dec. 13, 1995. 171 Può valere quale esempio Chicago Title and Trust Co. v. Telco Capital Corp., 292 Ill. App. 3d 553, 226 Ill. Dec. 497, 685 N.E.2d 952 (1st Dist. 1997), in tema di municipal bond, così massimata: “indenture trustee could obtain judgment against issuer of debentures despite
67
inferiore a quella che potrebbe garantire un’azione di responsabilità fondata
sugli obblighi di protezione degli amministratori nei confronti dei creditori.
La volontà non è quindi cristallizzare come necessaria la primazia dei soci, bensì
indicare nella contrattazione privata la sede più idonea a derogare a tale regola.
Come accennato, è presupposto condiviso che l’assunzione dell’azionista quale
riferimento per orientare il governo della società sia il criterio residuale
preferibile in quanto quello che meglio consente di avvicinare la gestione ad un
livello di efficienza. Possono a tal fine essere richiamati i rilievi già svolti
sull’influenza che la graduazione nelle pretese alla ricchezza residua esercita
sulla selezione del grado di rischio accettabile. Allorquando, però, nel caso
concreto questa regola si allontani dall’efficienza desiderabile, si ritiene che
l’introduzione di correttivi debba avvenire in via contrattuale, non ex lege.
Questo approccio è coerente con la concezione della società quale nexus of
contracts, in base alla quale non vi sono profili di unicità nella relazione tra
società e soci, i quali ultimi non sono “proprietari” della società, ma
semplicemente un gruppo di partecipanti legati da un complesso di contratti il
provision in indenture that expressly precluded judgment if issuer had outstanding senior indebtedness; contrary interpretation would make obligation to pay illusory”. Tanto è rilevante l’estensione in via interpretativa delle tutele contrattuali che nella riflessione di Bratton, The economics and jurisprudence of convertible bonds, Wis.L.Rev., 1984, 667, 734, abitualmente citata come la prima analisi completa del tema, è posto l’interrogativo se la tendenza ad impiegare fiduciary principles per vincere a volte il dato letterale dei contratti, non generi il rischio opposto di “overprotecting bondholders”. La sensibilità della giurisprudenza americana per un uso dei principi generali funzionale a contenere possibili abusi della libertà concessa nella definizione dei rapporti societari va sottolineata anche nel senso evidenziato da Sacchi, Autonomia statutaria, competizione fra ordinamenti e giurisprudenza comunitaria, in Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, a cura di G. Cian, Cedam, Padova, 2004, 157 ss., 162, ossia affinchè si acquisisca consapevolezza della circostanza che gli ambiti che anche nel nostro ordinamento sono stati sottratti alla disciplina inderogabile attendono di trovare idonea composizione in sede pattizia ma al contempo anche in sede giurisprudenziale, di modo che l’adesione al modello anglo-americano non avvenga in carenza di quella parte di esso che costituisce un nucleo essenziale di tutela, ossia il ruolo del giudice. È facile peraltro immaginare come tale auspicio si scontri sul piano storico con l’atteggiamento – che Bellantuono, I contratti incompleti, cit., 193-194, efficacemente attribuisce ai giudici ma ancora prima a chi ne sollecita l’intervento evitando di prospettare lacune quanto piuttosto differenti possibili significati giuridici dei termini contrattuali – di chiusura a qualsivoglia attività di integrazione della volontà dei paciscenti, anziché di mera interpretazione della stessa. Ciò ferma restando l’ambiguità della linea di confine tra i due tipi di intervento, ancora più accentuata dall’approccio giureconomico per il quale ogni scelta sulla regola interpretativa da adottare ha implicita una valutazione sull’esistenza di una lacuna che rispecchia “le opinioni dei giudici sui costi della contrattazione e sulle modalità del suo svolgimento”, dando attenzione “alle risorse e alle posizioni delle parti nel processo di contrattazione.”
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nesso tra i quali è considerato dalla legge come centro autonomo di imputazione
di rapporti giuridici. Di qui la negoziabilità del primato in società.
Sempre in coerenza con tale prospettazione, il ruolo dell’autoregolametazione
emerge non solo nel momento genetico della società, ma anche nel corso
dell’esistenza di questa, quale strumento per l’efficienza delle scelte
economiche.
In questo senso sembrerebbe deporre l’opzione del legislatore della riforma per
una disciplina “privata” delle forme di accesso alle risorse economiche: lo
spazio acquisito dall’autonomia statutaria può essere inteso come lo spazio che
lo Stato ha ceduto alle regole del mercato172. Duplice appare allora la prospettiva
nella quale poter intendere lo stesso ruolo della legge: nell’ottica prima riferita
dell’estensione delle tutele legali, ad essa è assegnata la funzione di individuare
un punto di equilibrio tra i contrapposti interessi; dal punto di vista di chi
valorizza il contratto, la posizione del legislatore dovrebbe essere recessiva.
Nell’oscillazione tra questi due atteggiamenti può sintetizzarsi l’evoluzione
della normativa societaria173: il codice civile comprime rispetto al codice del
1882 gli ambiti di autonomia dei privati, ritenendo di bilanciare la responsabilità
172 Così F. Galgano, Diritto commerciale. Le società, XIII ed., Bologna, 2003, 216, commenta il nuovo panorama di categorie speciali di azioni: “L’introduzione del principio di atipicità è frutto della mutata filosofia economica che ha ispirato il legislatore, tesa al riconoscimento di una più estesa autonomia statutaria ed alla massima valorizzazione del mercato. Non spetta al legislatore decidere, secondo i postulati della più antica e dirigistica visione del diritto regolatore dell’economia, che cosa sia utile e che cosa non sia utile per le imprese, che cosa sia vantaggioso e che cosa non sia vantaggioso per gli investitori. La decisione è rimessa alle imprese, che faranno libere valutazioni al riguardo, e l’ultima parola spetta al mercato, che renderà palese se determinate categorie di azioni incontrino o non incontrino il gradimento degli investitori.” Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma, cit., 654, preferisce distinguere tra ragioni del mercato e ragioni dell’impresa ravvisando nell’assetto complessivo della riforma la volontà di dare prevalenza alle seconde. “Sul piano ermeneutico” – scrive l’Autore – “il metodo dell’analisi economica del diritto, riferito al postulato delle negoziazioni libere in un mercato efficiente nel cui ambito determinare le modalità di riduzione dei costi transattivi, con le ben note complicazioni della valutazione delle esternalità e con l’altrettanto noto teorema della indifferenza degli strumenti di finanziamento dell’impresa in mercati perfetti, cede il posto al tradizionale metodo europeo, fondato sulla Interessenjurisprudenz, con la valutazione degli interessi, anche contrapposti e in conflitto, presenti nella realtà economica dell’impresa.” 173 La prima prospettiva ha senz’altro informato la stesura originaria del codice civile, nel quale la rigida determinazione legale dei tipi faceva da contrappeso alla concessione della limitazione della responsabilità, senza che istanze di finanziamento e di competitività dell’ordinamento potessero all’epoca valorizzare il ruolo dell’autonomia privata. In questi termini sintetizza “l’evoluzione del finanziamento societario” Rabitti Bedogni, Azioni, strumenti finanziari partecipativi e obbligazioni, in Dir. banca e merc. finanz., 2004, 185.
69
limitata concessa alle società con il carattere imperativo delle tutele poste a
favore dei terzi174; da tale rigore si torna poi progressivamente verso posizioni di
apertura a spazi di autodeterminazione, dapprima timidamente, grazie ad
aperture giurisprudenziali sulla validità – seppur solo obbligatoria – dei patti
parasociali, poi vigorosamente con la nota riforma175. La stessa scelta di
innovare la geometria delle partecipazioni in società segnandone solo il
perimetro rispetto alle fattispecie tipiche e valorizzando all’interno di tali confini
l’iniziativa negoziale dei privati può essere letta come un’adesione
174 F. D’Alessandro, «La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata», cit., 37, collega il carattere imperativo delle norme sull’organizzazione societaria al rilievo ultra partes che le stesse presentano e che si pone quale deroga ai principi sui quali si regge l’autonomia privata. 175 Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma, cit., 642-643. S. Fortunato, I principi ispiratori della riforma, cit., 728, sottolinea che, se la valorizzazione del «carattere d’impresa della società» «è probabilmente operazione neutra rispetto alla individuazione degli interessi coinvolti, e che possono essere apprezzati come meritevoli di tutela preferenziale», invero «l’operazione diventa più selettiva quando dell’impresa societaria si accentuano i caratteri di “libertà”». A fronte del riferimento nella legge delega (art. 2 lett. d, g, h) all’esigenza di tutelare i “diversi interessi coinvolti”, non accompagnato da indicazioni sulle modalità per soddisfarla, il “criterio direttivo cardine resta” – per l’Autore - «il “favor libertatis” dei soggetti che costituiscono e organizzano l’impresa-società rispetto ai terzi nei cui confronti comunque quella iniziativa è destinata ad assumere un rilievo reale», conseguendone la legittimità della dilatazione degli spazi consentiti all’autoregolamentazione ma parimenti un’evidente attenuazione delle tutele dei terzi. Proprio a quest’ultimo riguardo anche le riflessioni sviluppate da G. Rossi, A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole: appunti a margine della riforma del diritto societario, in Riv. soc. 2003, 1 ss., sono critiche circa l’assetto disegnato dalla riforma, in particolare quanto alle modalità con le quali si è scelto di implementare la sfera di incidenza dell’autonomia contrattuale. La comparazione tra la più recente disciplina italiana e le linee dell’evoluzione che il diritto societario conosce nella realtà europea e statunitense, sconforta al punto da fare dichiarare agli Autori la “sensazione che, più che di una riforma, si tratti di una pericolosa quanto squilibrata controriforma”. È ritenuta censurabile, in particolare, la non sufficiente cura per la tutela rappresentata dalle responsabilità gestorie, al centro invece delle attenzioni legislative estere. Si osserva, infatti, che “mentre altrove si riflette sulla necessità di individuare presidi normativi a tutela dei diversi interessi, anche diffusi e quindi eminentemente pubblici, che il fenomeno societario coinvolge, il nuovo quadro legislativo nazionale presenta la società per azioni come un affare sostanzialmente privato, nel quale il ruolo del legislatore è soprattutto quello di agevolare la conduzione dell’impresa da parte di chi detiene il potere di gestirla, mentre la tutela degli interessi che vi si contrappongono viene in principio affidata alla dimensione privatistica della contrattazione, così implicitamente consacrando il principio per cui la violazione delle regole lede solo interessi privati, e viene sanzionata nella misura in cui i privati ritengono conveniente (o sono in grado di) sanzionarla”. Per quanto, quindi, il potenziamento dell’autonomia contrattuale vanti “modelli concettuali illustri” – e il riferimento è a Law & Economics - “la bandiera dell’autonomia statutaria non pare trovare, nelle linee direttrici dell’intervento riformatore, alcun serio contrappeso in termini di responsabilità e presidi di tutela degli interessi coinvolti”, di contro a un’attenzione per tali profili che si fa sempre più sentita anche nel contesto statunitense, specie a fronte delle delusioni procurate dal mercato.
70
all’impostazione statunitense che valorizza la deregulation176 considerando il
contratto la sede capace d’offrire la composizione più efficiente degli
interessi177. L’inderogabilità della disciplina è stata isolata in alcuni nuclei,
attorno ai quali il tipo “società per azioni” può essere modellato per incontrare le
esigenze di finanziamento delle singole imprese. Proprio la sfera dell’atipicità
può configurarsi come il luogo nel quale dare ingresso a istanze prima
necessariamente considerate extrasociali e nel quale usufruire delle peculiarità
della disciplina societaria rispetto a quella generale dei contratti per consentire la
coesistenza delle varie posizioni.
La comprensione delle ragioni della centralità del contratto richiede al
ragionamento di articolarsi in due fasi, la prima dedicata a individuare i limiti
dell’estensione delle tutele legali, la seconda dedicata ai metodi che possono
conferire alle tutele contrattuali quella completezza che con comunione di
intenti si tende a realizzare.
176 Sacchi, Autonomia statutaria, competizione fra ordinamenti, cit., 158-159, percepisce la valorizzazione dell’autonomia statutaria come tratto caratterizzante di un “movimento riformatore” espressosi nel T.U.F. e nel Progetto Mirone prima ancora che nella legge delega del 2001, avente radici nelle “suggestioni della cultura giuridica statunitense” in tema di deregulation e per questo contrapponibile alla preferenza tipica dell’impostazione «renana» per le norme inderogabili quali fonti idonee ad “assicurare l’eterotutela degli interessi dei soci di minoranza e degli stakeholders, in particolare dei creditori sociali”. 177 Oppo, Le grandi opzioni della riforma, cit., 479-480, posto il quesito se il legislatore abbia effettuato una scelta “in termini contrattuali o istituzionali”, afferma che il “nuovo assetto delle partecipazioni sociali depone certo per l’ampliamento dell’ «ambito dell’autonomia» ma non per una persistente e meno che mai costante contrattualità del rapporto”. Per l’Autore lo squilibrio tra rischio e potere “può trovare giustificazione solo in un interesse diverso, nel caso quello (istituzionale) alla pluralità di fonti di sostegno finanziario dell’impresa con svincolo dal finanziamento bancario”. Altri profili della disciplina delle società per azioni difficilmente si accorderebbero con la tesi contrattualistica: tra questi le innovazioni riguardanti l’invalidità delle delibere assembleari e la trasformazione eterogenea. Parlano di “marcato contrattualismo e di altrettanto marcato scetticismo nei confronti delle regole inderogabili”, invece, G. Rossi, A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole, cit., 1 ss., che peraltro collegano a tale considerazione le critiche già viste (cfr. nt. 175) sull’opportunità della prospettiva adottata dal legislatore della riforma. S. Fortunato, I principi ispiratori della riforma, cit., 728, “considerata la varietà con cui la partecipazione sociale può essere in concreto regolata dai patti statutari tanto sul piano dei diritti amministrativi quanto sul piano dei diritti patrimoniali”, ravvisa nella s.p.a. riformata – in consonanza con R. Weigmann – “una noteole frantumazione dell’interesse sociale” conseguente alla creazione all’interno della società di “molteplici e differenziate comunità di interesse”. In questo senso – come già rilevato da D’Alessandro – il nostro ordinamento positivo sembra avvalorare la concezione della società quale nexus of contracts, intendendosi per nessi contrattuali afferenti alla persona giuridica i contratti volti a disciplinare le modalità di finanziamento.
71
3.2 Le inefficienze della tutela risarcitoria.
La prima obiezione mossa alla teoria dell’estensione delle tutele legali è che
richiedere ai gerenti di servire due interessi discordanti equivarrebbe nei fatti a
consentire loro di sciogliersi da qualsiasi referente178. Il che vanificherebbe
altresì l’aspettativa179 di trovare nei controlli interni dell’azione degli
amministratori la chiave per garantire che questi perseguano l’interesse sociale
in luogo di vantaggi egoistici. L’area problematica che fa perno sulla pluralità
degli strumenti di partecipazione all’impresa mostra in questi termini di poter
essere collocata nella più ampia riflessione sulla nozione di interesse sociale. È
facile, infatti, sentire l’assonanza tra le valutazioni ora riferite e le ragioni di
critica all’approccio istituzionalistico, padre di una nozione incerta di interesse
sociale e perciò foriero di arbitrarietà nella gestione.
Tali argomenti hanno trovato adesioni anche nella nostra letteratura, che
condivide sia la previsione di conflitti “orizzontali” tra interessi, sia la
preoccupazione che l’appello a «servire più padroni» determini “il rischio di una
paralisi nei comportamenti o, all’opposto, di una eccessiva discrezionalità
nell’azione”180. Per questo si dichiara l’opportunità di individuare un “unico
referente per l’organo amministrativo”, vale a dire la categoria degli azionisti
178 Coffee & Schwartz, The survival of the derivative suit: an evaluation and a proposal for legislative reform, 81 Colum.L.Rev., 1981, 261, 313, negarono la legittimazione dei portatori di titoli di debito a esercitare l’azione sociale di responsabilità adducendo, tra altri argomenti, l’impossibilità per gli amministratori di perseguire al contempo interessi configgenti quali quelli riconducibili ad azionisti e finanziatori. 179 Di tali aspettative si è avuto occasione di discutere nel primo capitolo, in sede di considerazione degli equilibri di governance funzionali al perseguimento dell’interesse sociale. 180 Tombari, La nuova struttura finanziaria della società per azioni, cit., 1100, il quale dà seguito alle speculazioni degli statunitensi riferendo i rischi menzionati non solo alla teoria istituzionalistica, ma anche a quella “neoistituzionalistica” (il riferimento è a Montalenti, Amministrazione e amministratori nella riforma del diritto societario, in M. Rescigno, A. Sciarrone Alibrandi, Il nuovo diritto delle società di capitali e delle società cooperative, Milano, 2004, 62). Il medesimo Autore poco oltre (p. 1104) scrive: “In sostanza, sembra potersi affermare che la società per azioni che ha implementato una struttura finanziaria « complessa » può essere rappresentata, nella regola dei casi, come un « contratto principale » - il contratto di società come « contratto organizzativo » (…) – e una serie di « contratti collegati unilateralmente », mediante i quali si finanzia l’attività d’impresa.” Invita su questi presupposti a riconsiderare la definizione della s.p.a. quale contratto associativo.
72
ordinari181, rimettendo al contratto di finanziamento l’individuazione delle tutele
più idonee per gli altri finanziatori182.
Altro aspetto negativo sarebbe ravvisabile nel dato storico per il quale i principi
di fiduciary duty sono stati interpretati negli anni avendo alla mente gli azionisti,
cosicché l’applicazione degli stessi ai finanziatori verrebbe ad assumere i
connotati di un accomodamento ex post meno soddisfacente rispetto a quello che
può essere operato dalle parti in sede di stipulazione del contratto di
finanziamento, visto che prassi vuole che le singole clausole siano elaborate e
attentamente negoziate avendo a parametro proprio le protezioni accordate ai
soci nell’interpretazione offerta dalla migliore giurisprudenza.
Ciò senza contare che l’estensione della fiduciary duty presenta limiti, oltre che
teorici, anche in termini di costi: moltiplica, infatti, il contenzioso e per effetto
riflesso complica il processo di assunzione delle decisioni, potendo indurre gli
amministratori a rinunciare a occasioni di crescita ove queste potrebbero
generare contestazioni. Col che si arriverebbe a generare le stesse inefficienze
che si imputa ai contratti di non essere in grado di risolvere.
Diversa per impostazione, ma sempre diretta a sostenere la sufficienza delle
cautele pattizie, è l’affermazione per la quale l’eventuale insufficienza delle
previsioni convenute troverebbe l’ultima protezione nei pesi imposti per la
concessione di finanza: tale espediente compenserebbe sul piano economico gli
erogatori, ma sarebbe al contempo un valido incentivo per le società a contenere
abusi idonei a precludere in futuro, per eccessiva onerosità, l’accesso al
credito183.
Il convincimento che colloca agli antipodi le due teorie in esame attiene però
alla possibilità di assimilare la posizione dei finanziatori a quella degli azionisti,
181 Tombari, La nuova struttura finanziaria della società per azioni, cit., 1100; anche Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma, cit., 647, stima sussistere un rapporto fiduciario unicamente tra amministratori e azionisti ordinari, nella partecipazione dei quali, peraltro, egli (p. 646) coglie “il connotato distintivo della società per azioni italiana”. 182 Tombari, La nuova struttura finanziaria della società per azioni, cit., 1104; Id., Azioni di risparmio e tutela dell’investitore (verso nuove forme rappresentative della società con azioni quotate), in Riv. soc., 2002, 1114 ss.; Miola, I conferimenti in natura, cit., 294. 183 Oesterle, The negotiation model of tender offer defenses and the Delaware Supreme Court, 72 Cornell L.Rev. 117, 140 (1986).
73
giacché tale facoltà è asserita dall’una tesi con la stessa fermezza con la quale è
negata dall’altra.
3.3 Il superamento dell’incompletezza dei contratti: l’interazione …
Secondo i rilievi svolti dai teorici delle garanzie legali, giacchè i costi della
negoziazione precludono la redazione di contratti completi a disciplina dei
rapporti tra soci e amministratori come anche tra questi e i finanziatori, il ruolo
del legislatore dovrebbe consistere nel replicare l’accordo che le parti
raggiungerebbero se i costi della trattativa fossero nulli. L’argomento contrario è
che le premesse concettuali dalle quali tale teoria prende le mosse – ossia che
tutti i contratti di finanziamento sono ontologicamente incompleti e che tutti i
creditori concorderebbero nell’integrare il contratto così come avviene grazie
all’estensione dei vincoli di condotta se questo fosse a costo zero – sono
censurabili in quanto non considerano né l’eterogeneità dei creditori né
l’interdipendenza tra di essi184.
Quanto al primo punto, la considerazione del solo conflitto debt-equity trascura
la circostanza che specie nella fase dell’insolvenza i creditori sono più
verosimilmente raffigurabili quali rivali anziché quali alleati185, non potendo di
conseguenza essere omologati in un’unica categoria. A tale assimilazione osta
peraltro il diverso atteggiarsi della propensione al rischio, che varia da creditore
a creditore in dipendenza della rilevanza della relativa esposizione, della
garanzia che l’assiste, del ruolo istituzionale nella concessione del credito. Ne
consegue che la stessa incompletezza dei contratti conosce diverse gradazioni,
poichè come muta la posizione rispetto al debitore, così muta l’interesse a
monitorare la condotta di quest’ultimo. Sennonché l’attività di controllo
realizzata per motivi opportunistici da uno dei creditori può giovare anche agli
184 Questa è in sintesi l’analisi di F. Tung, The new death of contract, cit., 827 ss. 185 Sudheer Chava & Michael R. Roberts, How does financing impact investment? The role of debt covenants, 2007, http://ssrn.com/abstract=854324; Greg Nini et al., Creditor control rights and firm investment policy, 2007, http:// ssrn.com/abstract=928688.; Mark J. Roe, The voting prohibition in bond workouts, 97 Yale L.J. 232, 251, 1987.
74
altri186, non fosse altro perché vi sono politiche gestionali, di distribuzione degli
utili come di indebitamento, capaci di arrecare pregiudizio indifferentemente a
tutti i finanziatori. Tra questi sono le banche a poter esercitare al minor costo e
con il miglior risultato l’attività di verifica, tanto che le stesse sono tipicamente
indicate nel ruolo di delegated monitor187. Le convenzioni di credito bancario, in
effetti, spesso riproducono la protezione che tramite la duty-shifting le corti
statuiscono a vantaggio della generalità dei creditori, imponendo una
proporzione minima tra capitale di rischio e di debito, e sottoponendo a
condizioni la libertà di impiego nel reinvestimento delle somme erogate. Tale
ruolo delle banche permane anche nella fase di insolvenza, giacchè per quanto il
conflitto tra le singole posizioni creditorie si faccia in tale momento
massimamente acuta, le iniziative assunte dalle prime quantomeno mettono gli
altri creditori nella condizione di potersi avvedere con relativa tempestività della
situazione della società188.
Queste ragioni inducono ad affermare che l’interazione tra i creditori può
supplire alle carenze delle stipulazioni singolarmente considerate, fino a rendere
di fatto completo anche il meno complesso degli accordi. Tale impostazione
assume decisivo rilievo anche nell’ambito dell’ordinamento italiano, ove
parimenti la dottrina ha applicato la distinzione tra controllori forti e deboli189 e
ove sviluppando la teoria dell’interazione si potrebbe affermare che gli
strumenti finanziari partecipativi, nella misura in cui agevolano l’acquisizione di
posizioni di controllo, si rendono funzionali ad approssimare livelli ottimali di
trasparenza, e dunque di tutela, a vantaggio anche dei creditori che non ne siano
portatori. 186 Sudip Datta et al., Bank monitoring and the pricing of corporate public debt, 51 J. Fin. Econ. 435, 448-449 (1999): stando a tale studio il rischio per i titolari di strumenti finanziari sarebbe minore nei casi in cui una banca monitora già una società. 187 Douglas W. Diamond, Financial intermediation and delegated monitoring, 51 Rev. Econ. Stud. 393, 409-410 (1984); George G. Triantis & Ronald J. Daniels, The role of debt in interactive corporate governance, 83 Cal. L. Rev. 1073, 1090 (1995). 188 Secondo Triantis & Daniels, The role of debt, cit., 1095-1096, lo stesso esercizio della facoltà di exit può agire quale segnale per gli altri creditori. 189 L. Stanghellini, Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, cit., 1057-8; Id., Creditori “forti” e governo della crisi d’impresa nelle nuove procedure concorsuali, in Fall., 2006, 377 ss. Sacchi, Autonomia statutaria, cit., 170, nt. 18, sviluppando un appunto di Denozza al Progetto Mirone, sottolinea come i patrimoni separati incidano negativamente sull’efficacia del “meccanismo di monitoraggio collettivo”, limitandone i riflessi a solo alcuni dei creditori.
75
3.4 (segue) e l’attribuzione di diritti amministrativi.
Neppure in tale filone di pensiero, basato sulla centralità del contratto, è esente
da considerazione l’incidenza che il moltiplicarsi degli strumenti di
partecipazione alla società può determinare sulla governance. L’accento viene
però posto non sulla posizione passiva dei possibili destinatari delle tutele, bensì
sull’opportunità di un coinvolgimento attivo dei portatori dei relativi titoli
mediante accesso a poteri di controllo o di governo. In questa prospettiva la
condivisione del rischio è ritenuta idonea a giustificare la condivisione dei mezzi
idonei a prevederlo e possibilmente a contenerlo190, e la titolarità di diritti di
voice è considerata quale via ulteriore per supplire all’incompletezza delle
previsioni contrattuali. Di non dissimile avviso si è mostrata la scuola italiana
che, appurata dall’un lato la congerie di interessi acquisiti all’organizzazione
corporativa per effetto della riforma, e dall’altro lato l’inattuabilità di una
composizione a opera dei soli amministratori, fiduciari degli azionisti ordinari,
ha indicato nel “monitoraggio e controllo” i fattori essenziali al raggiungimento
di un equilibrio191. Consequenziale a questa impostazione è l’istanza di
valorizzazione in sede applicativa del ruolo del collegio sindacale e degli altri
“generali strumenti normativi di informazione, di controllo giudiziario e di tutela
degli azionisti e dei terzi dai conflitti di interessi gestionali”192. Proprio su
questo piano si può registrare un mutamento di prospettiva rispetto alla versione
precedente del codice: si desiste dal confidare nel ricorso alla tipicità quale
forma di “indifferenziata tutela dei terzi”, per favorire - “in una più ampia
visione schiettamente privatistica” – quanti concedano finanziamento alla
società aprendo la governance a strumenti di controllo della gestione193.
190 Coffee, Shareholders versus managers: the strain in the corporate web, 85 Mich.L.Rev. 1, 1986, 49-50 con riguardo all’attribuzione di poteri di voice ai creditori, scrive di questi ultimi che “as a party unavoidably subject to residual risk they should also share in control decisions” (nel prosieguo – alle pagg. 69-70 – prospetta quale alternativa ai diritti partecipativi il rafforzamento dei poteri di “exit”, nella forma di strumenti di debito a più breve termine). 191 Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma, cit., 647. 192 Gambino, ibidem. 193 Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma, cit., 651, che colloca in questo quadro anche la delegittimazione del pubblico ministero ad attivare il controllo ex art. 2409 c.c. per le società chiuse e l’attribuzione del relativo potere al collegio sindacale.
76
È appunto in tale quadro che possono inserirsi le riserve statutarie del diritto di
nominare un rappresentante negli organi sociali, note alla prassi statunitense194
e, come accennato, introdotte nel nostro ordinamento quale diritto
amministrativo attribuibile ai portatori di strumenti finanziari. L’individuazione
delle ragioni economiche adducibili a sostegno dell’attribuzione di tali diritti
non presenta in sé profili di problematicità, giacché è immediatamente intuibile
la rilevanza che la gestione riveste per i finanziatori. Per quanto vero che essi
possono avere diritto d’essere soddisfatti con priorità rispetto ai soci, è pur vero
che l’ammontare delle risorse residue non è indifferente al fine di rendere
possibile la loro soddisfazione. Altrettanto evidente è, inoltre, che una riduzione
di valore delle azioni imputabile a negligenza nell’amministrazione avrebbe per
effetto riflesso l’aumento del quoziente di indebitamento e, in ultima istanza,
una maggiore probabilità di insolvenza. Agli incrementi di valore della società,
per converso, fa seguito una minore incidenza relativa del debito, i titoli
rappresentativi del quale si accrescono della maggiore sicurezza che assiste la
prospettiva del rimborso. Sennonché, anche a ritenere appurato che per tale via
sarebbe possibile neutralizzare i costi connessi al rischio di una gestione a danno
dei creditori, non si può prescindere dalla considerazione dei riverberi che il
riconoscimento di strumenti di controllo endosocietari può determinare sul piano
degli assetti di governance anzitutto, ma anche su quello della responsabilità. Su
tali profili procederà dunque l’analisi.
4. Amministratore indipendente e interessi secondari
194 In Randall S. Kroszner & Philip E. Strahan, Bankers on boards: monitoring, conflicts of interest, and lender liability, 62 J. Fin. Econ. 415, 416 (2001), si riferisce che un terzo delle società statunitensi di grandi dimensioni ha un esponente del mondo bancario nell’organo di amministrazione. Già Eisenberg, Legal models of management structure in the modern corporation: officers, directors, and accountants, 63 Calif.L.Rev. 375, 393-96 (1975) considerava la rappresentanza nell’organo di amministrazione «as a “modality” to influence or control corporate decisionmaking», affermandone la sicura utilità per gli azionisti e per i maggiori creditori, ma formulando dubbi circa l’utilizzabilità per “groups such as employees, suppliers and consumers”. L’importanza dello strumento è considerata come direttamente proporzionale all’inadeguatezza dei c.d. restrictive covenants.
77
Il ragionamento sul governo della società può prendere avvio dalla
giurisprudenza statunitense secondo la quale non sono censurabili le decisioni
assunte dagli amministratori nell’interesse dei creditori che li hanno nominati195.
La statuizione si può ritenere converga con l’esegesi suggerita dall’ultimo
comma dell’art. 2351 c.c. ove precisa l’attributo di indipendenza che deve essere
proprio del consigliere (di amministrazione o di sorveglianza, ovvero del
sindaco) nominato dai portatori di strumenti finanziari. Si è rilevato, infatti,
come tale aggettivo evochi non solo l’assenza di vincoli rispetto agli azionisti di
controllo e agli amministratori dagli stessi nominati, ma al contempo valga a
ribadire il nesso - che è invece di dipendenza - rispetto alla categoria che ne ha
operato la designazione196. Tale espressione troverebbe coerenza, dunque, nel
riconoscimento in capo a tali soggetti della funzione di perseguire l’interesse
particolare del gruppo designante, anziché la più ampia correttezza gestionale197.
Non dissimili argomenti erano stati addotti nel nostro ordinamento con
riferimento agli amministratori prescelti dalla minoranza o di nomina pubblica.
Si è ritenuto, infatti, che rispetto alle due funzioni alle quali tradizionalmente si
associa la collegialità, ovverosia la “ponderazione” e la “composizione”, la
compresenza nell’organo di amministrazione di tali figure porti l’accento sulla
seconda, rendendosi strumentale, più che a realizzare giudizi maggiormente
avveduti sulle scelte da assumere, a gestire il conflitto tra gli interessi di cui i
195 Un esempio di tale giurisprudenza è proprio il noto Credit Lyonnais case, che sebbene invocato dai sostenitori della estensione della duty (dapprima nella fase della prossimità all’insolvenza, poi anche al di fuori di tale ipotesi), in realtà si limita a contemplare un caso in cui erano per contratto previsti poteri di voice a taluni creditori: così Amir N. Licht, The maximands of corporate governance: a theory of values and cognitive style, 29 Del. J. Corp. L. 649, 710 (2004), ripreso da F. Tung, The new death of contract: creeping corporate fiduciary duties for creditors, cit., 857, il quale cita ad ulteriore comprova due precedenti della Corte del Delaware, che affermando - in un contesto di venture capital - la discrezionalità degli amministratori nominati dai titolari di azioni preferred nel favorire gli interessi di questi ultimi, similmente illustrerebbero il rispetto della giurisprudenza per le determinazioni raggiunte nell’esercizio dell’autonomia privata. 196 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 111 ss., ove ampi riferimenti bibliografici sulla nozione di indipendenza anche per come recepita nei sistemi alternativi di governance introdotti dalla riforma. 197 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 116, sottolinea come attribuire tale incombente ad amministratori così nominati sarebbe irragionevole sia perché costoro verrebbero resi custodi di un interesse che esula da quello di cui hanno immediata esperienza, sia perché il carattere saltuario e comunque non necessario della garanzia non soddisferebbe l’istanza di una tutela costante e confacente ad un’esigenza tanto urgente.
78
singoli consiglieri si fanno relatori. Tale ricostruzione evidentemente
presuppone un giudizio di compatibilità198 tra la disciplina dell’attività di
amministrazione e la possibilità che quanti esercitano tale funzione operino in
linea di fatto quali “portatori di eterogenei interessi secondari, per conto proprio
o di terzi, ed in specie dei soci che li hanno eletti”, “interessi che possono ora
presentare natura extrasociale tout court, ora tendere verso il perseguimento di
una data politica aziendale; ora limitarsi ad attuare forme di “controllo” per
conto degli investitori sulla correttezza dei comportamenti gestori”199. Prevedere
tale elezione non avrebbe, del resto, utilità se non per la possibilità di introdurre
nella dialettica degli organi sociali la considerazione degli interessi del gruppo
votante200.
198 Giudizio rispetto al quale l’attribuzione espressa della facoltà di nomina statale ha rappresentato senz’altro un argomento di conforto, consentendo di riconoscere rilievo endosocietario all’interesse pubblico ad operare un controllo generale sull’amministrazione o una verifica specifica circa l’ossequio ad una determinata politica aziendale (Cirenei, Le società per azioni a partecipazione pubblica, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. 8, Società di diritto speciale, Utet, 1992, 1 ss., 140 ss.). 199 Sanfilippo, Funzione amministrativa, cit., 98. 200 Donativi, Esperienze applicative in tema di nomina pubblica «diretta» alle cariche sociali (artt. 2458-2459 c.c.), in Riv. soc., 1998, 1258 ss., 1278 ss., 1292, ove ulteriori indicazioni bibliografiche; riferendosi ai soggetti nominati ai sensi dell’art. 2351, ult. co., M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 116, afferma che non operano quale “strumento di moralizzazione, bensì di potenziale pluralismo nella gestione societaria” e descrive la relativa elezione come avente “istituzionalmente moventi egoistici”. M. Belcredi, Amministratori indipendenti, amministratori di minoranza, e dintorni, in Riv. soc. 2005, 853 ss., analizzando in comparazione modelli di governance con voto di lista e con nomina di amministratori indipendenti, dà evidenza alla peculiarità delle compagini societarie “a proprietà concentrata”: considerato che nelle stesse il problema di agency si configura come “conflitto non tra management e azionisti, ma tra coalizione azionista di controllo-management e soci di minoranza”, ritiene esistente “un rischio maggiore di cattura degli amministratori indipendenti da parte dell’azionista di controllo” e in questo senso ravvisa nel voto di lista un sistema idoneo ad “offrire maggiori garanzie di effettiva indipendenza almeno di una parte dei consiglieri dal soggetto di controllo”. Il medesimo Autore ammette, però, che l’affermazione della coincidenza tra amministratori di minoranza e amministratori indipendenti non potrebbe essere considerata incondizionatamente corretta, dipendendo la verità della stessa dal comportamento degli azionisti di minoranza. Soprattutto quando questi ultimi sono titolari di partecipazioni rilevanti si affaccia, infatti, la diversa ipotesi che gli amministratori di minoranza rappresentino gli interessi particolari di chi li ha eletti, anziché essere “indipendenti”. Oltretutto, proprio in ragione delle minori risorse investite si può temere un “disallineamento” tra interessi dei soci designanti e interesse sociale, cosicché potrebbe risultare privo di significato confidare negli amministratori di minoranza quali “garanti della fairness”, dovendosi piuttosto preoccupare di possibili comportamenti opportunistici. È indicata a conferma l’esperienza tedesca, dove al sistema di governo “parlamentare”, basato sulla codeterminazione, non si parla di amministratori indipendenti bensì di amministratori portatori di interessi particolari. L’Autore da ultimo citato, dunque, non giunge ad esprimere una preferenza incondizionata per l’uno o l’altro dei modelli considerati, evidenziando piuttosto i limiti di entrambi. Più netta
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Già prima della riforma si riteneva che lo statuto - prevedendo diritti di nomina
in capo alla minoranza, imponendo requisiti di indipendenza per i consiglieri e
rendendo effettiva la presenza di costoro con apposite modifiche delle regole di
funzionamento dell’organo - svolgesse il compito di supplire alle insufficienze
degli strumenti legali per la tutela di tale categoria. Inadeguate erano
considerate, in particolare, sia la disciplina della responsabilità degli
amministratori, sia la creazione di ambiti di competenza esclusiva degli
amministratori giacchè, anche se per taluno quest’ultima soluzione avrebbe
favorito i soci di minoranza201, si è osservato che proprio in tale autonomia
formale poteva cogliersi un incentivo ad accentuare il ricorso della maggioranza
a direttive “confidenziali” su scelte aziendali dalle quali gli altri soci rimanevano
così totalmente estranei202. Si tratta di rilievi che, pur alimentandosi di
argomenti diversi a seguito degli interventi legislativi sul T.U.F.203 e sul codice
civile, conservano attualità e idoneità a costituire un ponte interpretativo con il
tema degli strumenti finanziari. Concesso, infatti, che la posizione che questi
ultimi possono attribuire circa la titolarità di diritti amministrativi non è
esattamente sovrapponibile a quella prevista per i soci di minoranza204, in
appare invece la posizione espressa da G. Presti e F. F. Maccabruni, Gli amministratori indipendenti: mito e realtà nelle esperienze anglosassoni, in An. Giur. Econ., 2003, 97 ss., 100-101, 112, che all’esito delle ricerche sull’esperienza americana circa la composizione dei consigli di amministrazione, concludono che “la concreta impossibilità, in presenza di concentrazione del capitale, di ottenere una duratura indipendenza dei soggetti deputati alla vigilanza sull’operato degli esecutivi debba indurre a sostituirla con la nomina da parte dei soggetti (una categoria organizzata di azionisti) nel cui interesse il monitoraggio sull’attività gestoria deve eseguirsi”. 201 Pavone La Rosa, Profili della tutela degli azionisti, in Riv. soc., 1965, 72, 108 ss.; Calandra Buonaura, Gestione dell’impresa e competenze dell’assemblea nella società per azioni, Milano, 1985, 53, 93, 261, ove ampi riferimenti alla letteratura statunitense. 202 Abbadessa, La gestione dell’impresa nella società per azioni. Profili organizzativi, Milano, 1975, 59 ss.; Calandra Buonaura, Gestione dell’impresa, cit., 261. 203 Sulle modifiche apportate dal d.lgs. n. 303/2006 v. F. Carbonetti, Amministratori e sindaci di minoranza e «rapporti di collegamento», in Soc., 2007, 1186; Salafia, Sindaci e amministratori di minoranza: sostituzione, in Soc., 2007, 525 ss. 204 Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 105-106, ravvisa maggiore incisività alla tutela da ultimo introdotta rispetto a quella assicurata alla minoranza, giacché mentre per quest’ultima il punto di incisione dell’autonomia statutaria attiene ai quorum deliberativi, i titolari di strumenti finanziari sono individuati quale “gruppo stabile e preindividuato” al quale garantire la rappresentanza negli organi sociali. Tale considerazione può valere quale tratto distintivo anche rispetto alle azioni speciali, che pure sono connotate dall’atipicità dei diritti attribuibili, ma che incontrano le note preclusioni in tema di voto plurimo, patto leonino, integrità del capitale sociale, libera trasferibilità, diritto di recesso, nonché potere di nominare nell’assemblea speciale – dunque in deroga all’art. 2383 -
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entrambe le situazioni il potere d’investitura diretta conferisce rilevanza
organizzativa alle istanze di vigilanza sulla correttezza nella gestione. Ciò non
perché l’inosservanza di tale canone non possa essere fatta valere in difetto di un
diritto di nomina, ma perché si è riconosciuto che il carattere endosocietario
della tutela può valere a supplire alle ragioni di inidoneità che, come visto,
caratterizzano le garanzie contrattuali per i finanziatori e per i soci di
minoranza205. Proprio la possibilità di allineare queste due categorie sotto il
profilo della composizione eterogenea degli organi, però, sollecita a riferire
anche agli strumenti finanziari una ulteriore opzione interpretativa prospettata in
dottrina in tempi anteriori alla riforma. Taluno, infatti, negava il vincolo per gli
amministratori di perseguire l’interesse particolare degli elettori, non
riconoscendo valenza sociale all’interesse individuale ad ottener tale genere di
tutela206. All’autonomia statutaria si riteneva consentito differenziare le fonti di
nomina dei consiglieri, ma non derogare alla disciplina sui conflitto di interessi
stabilendo a priori la compatibilità degli interessi “secondari”, ossia di ciascuno
componenti degli organi sociali (Stagno D’Alcontres, Commento all’art. 2351 c.c., in Società di capitali, Commentario, a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, cit., 305; M. Cian, Strumenti finanziari partecipativi e poteri di voice, 119; contra Monelli, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma, 70; in posizione intermedia N. Abriani, Commento sub art. 2348, in Commentario Cottino, 2004, 263). 205 A. Pericu, Il ruolo degli amministratori indipendenti nei paesi dell’Europa continentale, in An. Giur. Econ. 2003, 115 ss., 116-117, 121 123, analizzando l’incidenza che la scelta tra debit e equity quale forma di finanziamento esercita sulla governance, e più in generale i limiti che in termini di tutela presentano, seppure in diverse vesti, sia i c.d. outsider systems (basati sulla liquidità dei mercati e sull’efficienza dei meccanismi di informazione e di riallocazione delle risorse, ma esposti alla discrezionalità dei gerenti l’impresa) sia i c.d. insider systems (prevalentemente diffusi in Europa e detti anche chiusi in quanto basati sulla concentrazione azionaria in danno alla liquidità del mercato e con rischio per le componenti di minoranza), considera la nomina di amministratori indipendenti tra le tecniche di “internalizzazione dei controlli in seno ai consigli”. Tiene a sottolineare, in particolare, come non si tratti di una “inutile duplicazione di strumenti di controllo esterni già esistenti e già richiesti di operare in condizioni di autonomia ed indipendenza”, dovendosi cogliere il tratto distintivo “nella potenziale capacità degli amministratori non esecutivi di incidere – valutandole criticamente – sul merito delle scelte gestionali”. La funzione di tali figure è, in questo senso, riferita come “controllo di secondo grado (o di validazione) di come i non esecutivi «proprietari» disimpegnino le funzioni di loro competenza”. 206 Sanfilippo, Funzione amministrativa, cit., 111. Per l’obbligo per gli amministratori di perseguire l’interesse sociale restano di riferimento le pagine di Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, 188 ss.; per l’orientamento contrario, fondato sull’art. 2391 c.c. e dunque sul solo obbligo di non agire in conflitto di interessi, cfr. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. 4, Amministratori – Direttore generale, Torino, 1991, 321, 372 ss.
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dei soci, con l’interesse sociale che, ex art. 2391 c.c., si identifica invece
nell’interesse comune ai soci in quanto tali207. Secondo tale prospettazione
l’interesse sociale non potrebbe essere inteso come mera sommatoria di interessi
di secondo grado trattandosi di una nozione preesistente208, che gli
amministratori non contribuiscono a determinare ma che informa sotto il profilo
funzionale il loro potere. Diversamente si darebbe ingresso al principio della
“rappresentanza di interessi”, ritenuto invece estraneo alla disciplina delle
società per azioni209.
Negando al consiglio di amministrazione il ruolo di composizione degli interessi
dei soci non si intende però trascurare il rilievo che a tali posizioni lo stesso
legislatore ha riconosciuto. La creazione delle categorie speciali di azioni210 è
indice evidente della volontà di dare emersione sul piano normativo alla varietà
di posizioni che la nozione di azionista può sottendere, facendo conseguire sul
piano organizzativo la progressiva separazione tra competenze assembleari e
competenze amministrative e, all’interno dei rispettivi organi, tra posizioni di
gestione attiva e posizioni di mero controllo. A fronte di tale struttura si ritiene
si debba distinguere tra gli interessi che fanno capo ai singoli soci, giacché a
taluni – e particolarmente l’interesse al “controllo” sulla correttezza della
gestione e alla partecipazione in tale attività – non può essere negata la “natura
sociale” 211 e quindi la considerazione degli amministratori. L’assetto composito
del c.d.a., in questa prospettiva, non tenderebbe quindi a conciliare interessi
secondari, bensì interessi sociali212.
207 Oppo, Amministratori e sindaci di fronte alle deliberazioni assembleari invalide, in Riv. dir. comm., 1957, I, 225; Preite, Abuso di maggioranza e conflitto di interessi del socio nella società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. 3**, Assemblea, Utet, Torino, 1993, 1 ss, 21. 208 Angelici, In tema di società unipersonale e conflitto di interessi, in G. B. Ferri – C. Angelici, Studi sull’autonomia dei privati, Utet, Torino, 1997, 433 ss., 443 ss. 209 Sanfilippo, Funzione amministrativa, cit., 114. 210 In argomento Pavone La Rosa, Profili della tutela degli azionisti, in Riv. soc., 1965, 72, 82-83; Mignoli, Le assemblee speciali, Giuffrè, Milano, 1960, 2 ss., ove l’iniziale resistenza dei legislatori a consentire una diversificazione delle azioni è spiegata alla luce della lesione che veniva per l’effetto a patire il principio di eguaglianza, caposaldo sul quale è stata costruita la società per azioni. 211 Sanfilippo, Funzione amministrativa, cit., 117. 212 Sanfilippo, Funzione amministrativa, cit., 122.
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La conclusione appena detta non incontra di per sé ostacoli a essere predicata
pure con riguardo agli strumenti finanziari, per i quali è particolarmente agevole
tracciare l’ingresso sul piano sociale a istanze che fino al 2003 potevano trovare
espressione solo in contratti laterali rispetto a quello di società. La stessa
posizione pare anzi uniforme alla lettura che dopo la riforma si dà all’art. 2391
in combinato disposto con l’ultimo comma dell’art. 2351, poiché si ritiene che
gli interessi contemplati dalla prima norma siano solo quelli estranei alla società
e che tali non possano considerarsi gli interessi di cui un amministratore è
portatore per il solo fatto di avere ricevuto la nomina dai titolari di strumenti
finanziari in forza di apposita previsione staturaria.
Il profilo da verificare è, piuttosto, entro quali limiti l’autonomia statutaria possa
incidere il primato dei soci dando peso ad aspettative a essi non riconducibili.
5. La contendibilità del governo e il nucleo indisponibile della primazia
degli azionisti.
Il percorso sin qui seguito ha portato ad affermare che le tutele contrattuali alle
istanze dei finanziatori possono acquisire efficienza mediante l’accesso a un
ruolo attivo nella governance, modulabile in termini di partecipazione o di
controllo. Tali considerazioni appaiono coerenti altresì con il nostro attuale
contesto normativo, nel quale lo spazio riconosciuto all’autonomia statutaria
nella definizione della struttura finanziaria delle società può essere colto quale
apertura normativa all’accennata soluzione.
Ciò che può risultare utile comprendere è l’impostazione sottesa alla selezione
delle disposizioni da considerare tassative. A tal fine ci si può giovare di quanto
rilevato in sede di introduzione alla disciplina degli strumenti finanziari, in
specie ove nel richiamare l’ultimo comma degli artt. 2346 e 2351 c.c. si sono
ricordati i limiti, espressi o impliciti nel sistema, che l’autonomia privata
incontra nel dare contenuto a tali titoli. Proprio le note restrizioni, infatti, sono
interpretate213 quali indici della volontà legislativa di conservare in capo agli
213 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., parla di “argine allo spostamento del baricentro decisionale”, riconducibile alla “volontà di non sottrarre agli azionisti il ruolo di primazia nel governo assembleare”.
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azionisti un ruolo di sovranità. Avrebbero tale significato la riserva del voto in
assemblea generale, la specificità degli argomenti sui quali ammettere un
coinvolgimento dei non soci, la necessità che la maggioranza dei componenti
degli organi di gestione e di controllo siano riferibili – nel modello tradizionale
di governance – alla volontà della maggioranza assembleare. Più in generale,
proprio la considerazione di tale intento legislativo rappresenterebbe una guida
nell’individuazione dei diritti attribuibili agli strumenti finanziari. Così, se
l’ampio riferimento ai diritti amministrativi non preclude di stimare realizzabili
posizioni di cogestione oltre che di controllo, nell’ottica della conservazione del
primato dei soci solo le seconde appaiono essere state nella mente del legislatore
con la conseguenza di dovere ritenere esclusa la partecipazione alla nomina di
consiglieri ulteriori rispetto a quello indipendente214. Proprio il riconoscimento
di questi limiti, peraltro, induce ad affermare che il moto di avvicinamento alle
esperienze estere non ha portato ad una piena sovrapponibilità con le stesse. Non
sembrerebbe, infatti, potersi sostenere l’idoneità delle formule legislative a
consentire un coinvolgimento effettivo nella gestione, quanto piuttosto una
presenza volta, seppur con diversi gradi di incisività, “alla difesa
dell’investimento partecipativo, di fronte a decisioni strutturali della società,
incidenti sui suoi caratteri economici”215. Una funzione, questa, che non sarebbe
invece necessitata dalle formule legislative che all’estero non pongono limiti
all’incidenza nei processi decisionali dei voti attribuibili a non soci216. Proprio in
questa scelta risiederebbe uno dei profili caratterizzanti la nostra legislazione nel
panorama di diritto comparato: tra modelli aperti ad una condivisione della
gestione e altri orientati a consentire un mero accesso a posizioni di controllo,
quello desumibile dal dato codicistico sembrerebbe presentare la peculiarità di
affidare all’autonomia statutaria la scelta se orientare le partecipazioni non
azionarie all’una o all’altra forma217, ferme però le dette preclusioni.
214 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 46. 215 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 68; similmente Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, cit., 20, afferma che “il coinvolgimento di non soci nell’organizzazione ha sempre carattere difensivo piuttosto che propriamente costruttivo”. 216 M. Cian, ibidem. 217 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 37-41, traccia i segni distintivi rispetto al paradigma americano, che definisce “vigorosamente, nella direzione dell’apertura al cogoverno
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Si dice questo non nella convinzione che una fattispecie di effettiva cogestione
risponda alla convenienza auspicata, perché anzi le considerazioni sulle ragioni
di economia218 che potrebbero sollecitare il ricorso ai titoli ibridi di
partecipazione inducono a ritenere che corrisponda al migliore interesse di tutte
le parti che la gestione, soprattutto nella fase di attuazione, si conservi nel potere
di chi fa l’impresa anziché di chi la sovvenziona219. Del resto, proprio
recuperando la prospettiva iniziale del presente lavoro, ossia l’attenzione
all’incompletezza patologica dei contratti di finanziamento quale motivo di
ricerca di strumenti idonei ad assicurare un monitoraggio continuativo e al
contempo non penalizzante per la crescita della società, si è indotti a condividere
la conclusione per la quale la funzione cui con maggiori probabilità si prestano
gli strumenti finanziari è quella del controllo, non del cogoverno. Si è anzi
sollecitati a precisare che neppure la limitazione del voto ad argomenti specifici
sembra deludere le istanze della peculiare categoria di finanziatori presa in
esame, considerato che lo scopo che muove costoro non è il dominio
dell’assemblea, bensì la possibilità di attribuire valore “sociale” al contenuto che
tradizionalmente confluisce nei c.d. bond covenant e di ottenere così voce sulle
delle diverse categorie di investitori” in considerazione dell’ampiezza impiegata dalle formule normative “sia con riferimento alle materie su cui il potere di voto può essere attribuito, sia in relazione al peso del voto stesso rispetto a quello espresso dagli shareholders” (eccezion fatta per le legislazioni di Virginia e Maine: v. supra). 218 Come scrive V. Donativi, Varietà strumenti di corporate governance nel rapporto tra fondi di private equity e pmi, cit., 205 ss., “il fondo di private equity chiede l’investitura di diritti di governance non perché persegua un disegno di tipo industriale, ma per due ragioni, strettamente connesse alla peculiarità dell’operazione (pur sempre finanziaria) posta in essere, e segnatamente: perché si dichiara disponibile ad accollarsi un rischio di impresa (in senso giuridico) che è estraneo a tutte le tipologie di finanziamento ordinario, quand’anche junior o mezzanine; e perché la remunerazione dell’operazione (e del rischio che il fondo di private equity si accolla) è data da un’aspettativa di elevato capital gain, che tuttavia presuppone che nell’arco temporale negoziato si realizzi un significativo incremento di valore della portfolio company (il che, a sua volta ancora, presuppone che l’amministrazione della società medesima sia avvenuta nel rispetto di una logica di continuità con la gestione pregressa, su cui il fondo di private equity ha fatto affidamento, di elevati standards qualitativi, nonché di un business plan prenegoziato per lo meno nelle sue linee strategiche fondamentali)”. Per questo l’interesse è unicamente a strumenti di “monitoraggio” e di “partecipazione” (lato sensu) alla gestione. D’altronde il gruppo di controllo è disposto a cedere solo “porzioni di sovranità (…) limitate e temporanee”. 219 Obiettivo più consono, in quest’ottica, ai titolari di strumenti finanziari parrebbe essere la partecipazione al consiglio di amministrazione nella funzione di “centro dei flussi informativi dell’impresa” che, proprio in considerazione dell’istituto delle deleghe, è stata riconosciuta a tale organo (C. Malberti, F. Ghezzi, M. Ventoruzzo, Art. 2380 – Sistemi di amministrazione e di controllo, cit., 13).
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operazioni, in specie straordinarie, che potrebbero pregiudicare i ritorni attesi.
L’alternativa suggerita dal legislatore tra l’elezione di un membro del consiglio
di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o del collegio sindacale
potrebbe dunque essere utilmente praticata in relazione alle esigenze dei casi di
specie220, per adeguare gli strumenti di interazione al grado di interessamento
rispettivamente al governo o al controllo.
Intervenuta la riforma, la sovranità del socio di società per azioni si può dire
rafforzata per effetto dei più ampi spazi concessi all’autonomia statutaria nella
definizione delle regole di funzionamento della società, ma al contempo si può
dire moderata dall’adozione di una politica - eloquentemente definita meno
dominicale e più imprenditoriale221 - di riduzione degli ambiti di interferenza
dell’assemblea nella gestione sociale. L’autonomia contrattuale sembrerebbe
interrompersi proprio innanzi al carattere imperativo della disciplina sulla
competenza al governo della società222. La prima osservazione da fare al
riguardo è che fin dai primi commenti ai nuovi dati normativi la dottrina si è
mostrata poco persuasa circa la possibilità di considerare totalmente
“spodestata” l’assemblea e ha rinvenuto numerose tracce testuali del permanere
in capo a tale organo di un potere di interferire nella gestione: gli artt. 2364 n. 5,
2365 co. 2, 2410 co. 1, 2443 co. 2, 2361, 2497 septies c.c. varrebbero ad
220 Potrebbe risultare apprezzabile, in particolare, il potere-dovere nascente dall’art. 2403 c.c. di vigilare sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, formula alla quale gli interpreti (Rigotti, Comm. art. 2403, Comm. rif. soc. Marchetti, cit., 170 ss.) hanno ricondotto la verificabilità delle scelte gestionali alla luce dei principi di razionalità economica. Questi ultimi, enucleati dalla scienza aziendalistica, responsabilizzano gli amministratori a tutelare l’integrità del patrimonio e la continuità della società, riconoscendo al contempo ai sindaci il potere di controllare che quantomeno le decisioni gestorie ad alto tasso di rischio – ossia quelle che si teme potrebbero essere assunte per favorire gli azionisti a danno dei finanziatori – siano adottate sulla base di piani economici adeguati. Neppure trascurabile è la legittimazione dei sindaci ad agire ex art. 2409 c.c. 221 Rordorf, Dell’amministrazione e del controllo, in Codice commentato Ipsoa, 2004, 340; critico circa tale scelta legislativa è S. Fortunato, La nuova disciplina dei controlli delle società per azioni: il punto di vista del giurista, cit., 90; per una lettura dell’art. 2380 bis quale sintomo della “eminente connotazione finanziaria assegnata alla società azionaria dalla novella” v. N. Abriani, Le regole di governance delle società per azioni: introduzione alla nuova disciplina, in La riforma delle società di capitali. Aziendalisti e giuristi a confronto, a cura di N. Abriani – T. Onesti, Milano, 2004, 13. 222 Si è parlato a tal proposito di «aberrazione» di stampo istituzionalistico (Calandra Bonaura, I modelli di amministrazione e controllo nella riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2003, I, 539).
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esempi223. Si è parlato a tal proposito di “poteri gestori non scritti”224: non solo
l’ampiezza della nozione di “opportuni provvedimenti” di cui all’art. 2446 co. 1
potrebbe includere misure gestorie, come pure potrebbero fare gli artt. 2406 co.
2 e 2409 co. 4 c.c., ma una interpretazione analogica fondata sull’art. 2361 c.c. o
sul sistema di norme che regolano le attribuzioni dell’assemblea potrebbe
consentire di “riconoscere eccezionalmente […] all’assemblea di s.p.a. una
competenza gestoria in presenza di operazioni che – pur potendo anche
astrattamente rientrare nella competenza dell’organo amministrativo – per la
loro rilevanza economica e per la loro capacità di incidere in profondità sulla
struttura organizzativa dell’impresa sociale e dei diritti dei soci (anche solo
rendendoli mediati) si avvicinano a materie di competenza propria
dell’assemblea (fusione, scissione e scorporo di elementi essenziali,
trasformazione della società operativa in holding)” 225. Tale quadro
evidentemente importa ai portatori di strumenti finanziari, atteso che più è
incisivo il potere gestionale attribuito all’assemblea, più la preclusione a votare
in tale organo è indice della volontà legislativa di escludere i non-soci da ruoli di
cogoverno. La rigida organizzazione corporativa, inoltre, preclude oltre che agli
azionisti anche ai portatori di strumenti finanziari un coinvolgimento nella
gestione, essendo da ritenere che gli argomenti specifici ai quali si riferisce l’art.
223 Cfr. Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova, 2003, 92 ss.; Calandra Bonaura, I modelli di amministrazione e controllo, cit., 543; Pinto, Brevi osservazioni in tema di deliberazioni assembleari e gestione dell’impresa nella società per azioni, in Riv. dir. impr., 2004, 451; A. Tucci, Gestione dell’impresa sociale e «supervisione» degli azionisti, Milano, 2003, 213 ss. G. Rossi, A. Stabilini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole, cit., 1 ss., interpretano l’art. 2380 bis come espressione della scelta “di perseguire l’interesse imprenditoriale incarnato dalla maggioranza, garantendo da un lato la speditezza della gestione e la stabilità delle decisioni da essa assunte, e consacrando dall’altro il suo potere di vincolare tutti i soci a decisioni che incidono profondamente sulla struttura e gli scopi della società”; a ulteriore conferma di tale disegno legislativo vengono indicate la disciplina dell’invalidità delle delibere assembleari, nonché l’attribuzione alla maggioranza del potere di assumere, salvo il diritto di recesso, decisioni che mutano profondamente la struttura e addirittura lo scopo sociale, quali la revoca dello stato di liquidazione e la delibera di trasformazione, finanche eterogenea, della società. 224 Portale, Rapporti fra assemblea e organo gestorio, cit., 29-33. 225 Portale, Rapporti fra assemblea e organo gestorio, cit., 30.
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2351 c.c. siano da individuare tra quelli di competenza dell’assemblea, avuto
riferimento alla configurazione che di fatto essa assume226.
Sennonché la prospettiva d’indagine adottata dalla dottrina per lo studio dei
rapporti tra assemblea e consiglio di amministrazione può dirsi opposta a quella
legata alla verifica delle opportunità di tutela contrattuale mediante strumenti
endosocietari: la prima impostazione mira a individuare ogni via accessibile
all’autonomia privata per attrarre ai soci la gestione, la seconda a enucleare i soli
ambiti che a tale libertà sono preclusi. Per questo sembra ora di dover portare
l’attenzione non sul potere della maggioranza di evitare a monte o di revocare in
itinere forme di partecipazione idonee a usurpare il potere di governare la
società, ma sul potere inverso della stessa maggioranza di realizzare tali scenari
nell’esercizio di un’autonomia statutaria che potremmo qualificare come
“abdicazione” alla sovranità sulla società227. Se si ragiona in termini di
226 M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 62-65, ove peraltro si propone un’interpretazione restrittiva dell’art. 2364 co. 1 n. 5, che non darebbe facoltà di riferire in via esclusiva agli strumenti finanziari il potere di esprimere autorizzazioni su atti gestori. 227 Per quel che attiene alla competenza all’emissione di strumenti finanziari, si ritiene che essa spetti all’assemblea in sede di modifica statutaria qualora vi sia attribuzione di poteri corporativi, mentre quando gli strumenti siano irrilevanti sotto il profilo del governo della società – per essere privi di diritti amministrativi o per godere, nel caso di strumenti di partecipazione ad un affare, di meri diritti di controllo – la relativa decisione sia da riferire agli amministratori. Cfr. in tal senso M. Cian, Strumenti finanziari e poteri di voice, cit., 31, il quale risolve l’apparente contraddizione in rapporto all’associazione in partecipazione - alla quale possono accompagnarsi posizioni di controllo corrispondenti a quelle dei titolari di strumenti finanziari ma che, ciononostante, rientra tra le competenze degli amministratori - adducendo che la diversa previsione è dovuta all’asserita necessaria serialità degli strumenti finanziari. Di diverso avviso è De Acutis, Il finanziamento dell’impresa, cit., 260-261, che colloca la competenza a emettere gli strumenti finanziari partecipativi nella “progressiva e rilevante dislocazione della competenza a decidere relativamente all’acquisizione dei mezzi finanziari, in senso lato, dall’assemblea - e, quindi, dai soci – all’organo di gestione, che diviene, quindi, il depositario privilegiato del relativo potere”. Conferma dell’assunto sarebbe la scelta normativa di individuare analiticamente le attribuzioni dell’assemblea riconoscendo invece genericamente il potere gestorio in capo agli amministratori, poiché alla luce di tale impostazione sarebbe ragionevole attribuire ai secondi le funzioni non espressamente disciplinate; oltreciò varrebbe considerare che tutti gli altri strumenti non azionari, ivi inclusi gli strumenti partecipativi ai patrimoni destinati, hanno ricevuto espressamente tale allocazione. Per quanto la scelta dello statuto quale sede deputata a definire nel contenuto i diritti amministrativi attribuibili agli strumenti finanziari paia supportare la prima tesi, sembra di dover altresì considerare il potere degli amministratori di stipulare contratti di finanziamento corredati da clausole di garanzia idonee a condizionare le politiche di investimento della società fino a precludere progetti che sarebbero rispondenti all’interesse degli azionisti. La supremazia di questi in tal caso è messa in discussione senza che si possa ravvisare una volontà conforme dei diretti interessati, salvo dover ritenere che accettando tali condizioni gli amministratori abbiano considerato le varie alternative e concluso che quelle pattuizioni erano nel migliore interesse dei soci.
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negoziabilità delle tutele corporative e con esse della c.d. shareholder primacy,
ciò che conta comprendere è quale sia il nucleo da reputare indisponibile per la
stessa maggioranza degli azionisti228.
In tale percorso può essere di supporto un riferimento alle riflessioni sollecitate
ancor prima della riforma dalla presenza di amministratori di minoranza o
indipendenti nel consiglio e nei comitati costituiti in seno ad esso. Valutata la
possibilità che tali figure acquistino un ruolo preminente, ci si è domandati “se
rimanga ancora integro il principio che vuole la maggioranza assembleare
titolare del potere di nomina della componente prevalente in consiglio di
amministrazione”229. Se in punto di deleghe la sussistenza di una competenza
concorrente del consiglio porta a propendere per la risposta affermativa, la
soluzione è meno immediata se si considera l’esercizio della facoltà di elevare i
quorum costitutivi e deliberativi al fine di rafforzare i poteri di controllo e di
partecipazione dei membri di minoranza. La problematicità attiene alla
possibilità che per tale via sia acquisito alla minoranza il potere di porre
228 Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, cit., 19, accennando al variegato quadro che in assenza di previsione legislativa specifica potrebbe porsi circa la definizione dei criteri di attribuzione del voto in caso di emissione di una pluralità di strumenti finanziari, riconosce la centralità della volontà degli azionisti nella determinazione dei limiti entro i quali potrà essere incisa la regola della primazia nell’organizzazione societaria. Il medesimo autore aggiunge, però, che sarà probabilmente inevitabile verificare la coerenza dell’assetto statutariamente prescelto rispetto “agli interessi che si vogliano tassativamente tutelati”. Lo stesso autore però risponde in senso negativo al quesito se ai portatori di strumenti finanziari possa essere attribuita un’ingerenza nell’amministrazione preclusa ai soci, affermando che “I portatori di strumenti finanziari si immettono nell’organizzazione societaria a fianco dei soci, nell’obiettivo di arricchire la platea dei legittimati a parteciparvi (come enunzia lo stesso nomen enunciato nella Sezione V); ma nella legge la struttura operativa dell’organizzazione societaria non subisce modifiche, i diritti amministrativi conservandosi quelli che sono.” 229 Sanfilippo, Funzione amministrativa, cit., 231- 232. Il quesito è quanto mai attuale a seguito della riforma, non solo per quel che attiene alla possibilità che i portatori di strumenti finanziari nominino più di un consigliere, ma anche per stabilire la liceità di clausole che attribuiscano a categorie speciali di azioni il diritto di designare un dato numero di amministratori. L’ostacolo interpretativo è l’asserita non superabilità del principio per il quale spetterebbe in via esclusiva alla maggioranza azionaria riunita in assemblea il potere di nominare la maggioranza degli amministratori. Una sintesi del dibattito – anche con riferimento all’interferenza con il riconoscimento della legittimità dei sindacati di voto – si trova in M. L. Montagnani, Nomina e revoca degli amministratori – Art. 2383, in Comm. rif. soc., dir. da Marchetti, Artt. 2380- 2396 c.c., Amministratori, cit., 139 ss.; N. Abriani, Commento sub art. 2351, in Commentario Cottino, 2004, 324; tra coloro che si sono occupati del tema prima della riforma di ricordano Spada, Autorità e libertà nel diritto delle società per azioni, in Riv. dir. civ., 1996, I, 703; Jaeger, Nomina degli amministratori: norme inderogabili, regole «generali» e autonomia delle società, in Giur. comm., 1986, II, 875; Leozappa, Nomina delle cariche sociali e categorie azionarie, in Giur. comm., 1996, I, 801.
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volontariamente la società in un impasse idoneo a cagionarne lo scioglimento
perché non superabile per intervento della maggioranza. Per tali ipotesi è
decisivo il principio che assegna alla sola maggioranza la disponibilità delle
cause volontarie di scioglimento della società, perché l’ossequio ad esso impone
di negare agli amministratori “di minoranza” di poter disporre di quorum che,
precludendo l’approvazione di deliberazioni consiliari, possano eludere il
principio medesimo230. Sempre tale principio è stato evocato con riguardo a
clausole simul stabunt simul cadent, la validità delle quali – rimasta incerta fino
alla recente riforma – era esclusa per la possibilità che la minoranza, anziché
giovarsene per evitare che la cooptazione frustrasse la riserva di nomina a suo
favore, ricorresse a ciclo continuo all’istituto delle dimissioni per pregiudicare la
funzionalità dell’intero consiglio fino a costringere la società allo
scioglimento231.
Appurato che la decisione se conservare o liquidare la società compete solo agli
azionisti, con le previste maggioranze, anche con riferimento agli strumenti
finanziari può affermarsi che il limite al carattere partecipativo degli stessi è
dato dall’indisponibilità relativa del principio di conservazione della società232.
Tale conclusione non è di trascurabile rilevanza se si considera che le operazioni
di finanziamento, specialmente se di venture capital, trovano generalmente
coronamento in un exit che gli operatori del settore auspicano il più agevole,
tempestivo e remunerativo possibile, e che potrebbe risultare allettante
realizzare costringendo la società allo scioglimento233. Si potrebbe a tal riguardo
osservare che la valorizzazione dell’istituto del recesso operata dalla riforma, se
giova al finanziamento in quanto potenzia - per modalità di esercizio e per
230Sanfilippo, Funzione amministrativa, cit., 205. Sul principio di conservazione Enriques, Quartum non datur, 181 scrive: “Si tratta di un principio della cui sopravvivenza alla riforma potrebbe ragionevolmente dubitarsi, ma che potrebbe sostenersi trovare tuttora un riscontro positivo nell’art. 2369, co. 4, c.c.” 231 Ferri, La società per azioni di due soci, in Riv. not., 1966, I, 3, 13 ss. 232 Sull’incidenza della riforma sull’affermazione di tale principio cfr. Marasà, Prime note sulle modifiche dell’atto costitutivo della s.p.a. nella riforma, in Giur. comm., 2003, I, 135 ss.; Angelici, Introduzione alla riforma delle società di capitali, in Liber amicorum, cit., vol. 1, 12 ss. 233 S. W. Stevenson, The venture capital solution to the problem of close corporation shareholder fiduciary duties, in 51 Duke L.J., 2001, 1139, si sofferma sulle clausole drag-along e tag-along, indicando ulteriori fonti bibliografiche.
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remuneratività - le prospettive di disinvestimento, rischia di sacrificare a tali
ragioni proprio la sopravvivenza della società234, potendo lo scioglimento essere
la conseguenza dell’incapacità di liquidazione della partecipazione. È pur vero,
però, che anche per tale evenienza il legislatore ha predisposto un apparato
normativo idoneo a ricondurre pur sempre alla volontà sociale l’opzione dello
scioglimento.
Il riferimento all’istituto delle deleghe nel consiglio di amministrazione può
essere condiviso quale chiave di studio della materia anche nella prospettiva
degli strumenti finanziari, non foss’altro perché la differenziazione all’interno
dell’organo tra incarichi pienamente gestori e altri prossimi al controllo puro è
l’antecedente storico235 della struttura consigliare eterogenea nel tempo
evolutasi fino alle forme ora in considerazione di “composizione mista”. Il
profilo merita d’essere approfondito se si considerano non ravvisabili ostacoli
normativi a che l’amministratore nominato ai sensi dell’art. 2351 c.c. - ferme le
funzioni generalmente non delegabili - assuma un ruolo esecutivo
nell’attuazione del business plan concordato in sede di erogazione del
finanziamento a fronte del quale si è avuta l’emissione degli strumenti
partecipativi. In tal caso la sovranità dei soci non potrebbe essere messa in
discussione dal fatto che all’amministratore di nomina riservata siano applicabili
le medesime norme – dunque anche quelle sui poteri decisionali - previste per
gli altri componenti dell’organo cui partecipa, giacché anche un’eventuale
delega sarebbe pur sempre riferibile alla volontà dei consiglieri eletti dai soci.
Più delicato è forse in tal caso il problema che precede logicamente quello
appena esposto, attenendo alla nozione alla quale ricondurre l’indipendenza di
cui all’art. 2351 c.c.: può infatti con tale espressione intendersi un
amministrazione nominato dalla minoranza, oppure un amministratore privo di
234 In ragione di tale profilo – al quale si accompagna il potenziale pregiudizio per gli interessi dei creditori – De Angelis L., Dal capitale leggero al capitale « sottile »: si abbassa il livello di tutela dei creditori, in Soc., 2002, 1456 ss., 1461, descrive l’istituto del recesso delineato dal « progetto Vietti » come “mina vagante per le società di capitali”. 235 Abbadessa, Il direttore generale, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, vol. 4, Amministratori – Direttore generale, Torino, 1991, 459, 469, parla di «brillante anticipazione di quell’idea della composizione “mista” dell’organo amministrativo su cui oggi da più parti si punta per dare maggiore pregnanza alla funzione di controllo».
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relazioni con la società o con gli altri consiglieri così come stabilito per i
sindaci, o un non-esecutivo236. Quest’ultima interpretazione evidentemente
agevola nell’individuare la ratio di garantire strumenti di controllo anziché di
condivisione della gestione237.
Il punto è che, anche a voler accogliere la tesi più elastica in tema di deleghe,
supponendo che nessuno degli spazi di interferenza nella gestione – né quelli
riconosciuti dall’unanimità degli Autori, né quelli ipotizzati da alcuni di essi -
venga utilizzato dall’assemblea, la quale al contrario si avvalga di ogni facoltà di
deferimento di poteri agli amministratori, si approda allo stesso punto al quale si
era giunti ragionando sulla partecipazione alla governance da parte della
minoranza, ovverosia alla sovranità dell’assemblea nello stabilire l’inizio e la
cessazione della società. Proprio in questo ambito dovrebbe considerarsi
concentrata la sfera indisponibile di potere nella quale si enuclea l’egemonia
della maggioranza azionaria e attorno alla quale si può articolare una
condivisione dei diritti amministrativi da parte dei titolari di strumenti finanziari.
6. Negoziabilità del governo e negoziabilità dell’interesse sociale.
Si legge nelle riviste statunitensi di un singolare dibattito tra chi sostiene essere
ancora in vita e chi sostiene essere invece ormai sepolta la storia del modello
americano di corporate governance.
A dire di molti238 le opinioni si sarebbero assestate su due punti di convengenza,
noti come shareholder primacy e dispersed shareholding, verso i quali
236 M. Belcredi, Amministratori indipendenti, amministratori di minoranza e dintorni, in Riv. soc., 2005, 855 ss. 237 Mostra favore a questa soluzione Mignone, Nuovi istituti per il finanziamento societario e associazione in partecipazione, cit., 1041, che vi ravvisa un motivo di coerenza con l’istituto dell’associazione in partecipazione – i titoli rappresentativi del quale sono per l’autore una “sottospecie” degli strumenti di cui all’art. 2346 co. 6 - e, in particolare, con i poteri di mero controllo attribuibili all’associato. 238 Ronald J. Gilson, Controlling shareholders and corporate governance, 119 Harv. L. Revv. 1641, 1647 (2006), sulla dispersed shareholding; Stephen M. Bainbridge, Director v. Shareholder Primacy in the Convergence Debate, 16 Transnat'l Law 45, 45 (2002), sulla shareholder primacy; Ronald J. Gilson, Globalizing corporate governance: convergence of form or function, 49 AM. J. COMP. L. 329, 331 (2001), sul modello Americano quale “apparent endpoint of corporate governance evolution”; Henry Hansmann & Reinier Kraakman, The end of history for corporate law, 89 GEO. L.J. 439, 439 (2001), sulla convergenza del dibattito mondiale in tema di corporate governance.
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dovrebbero confluire anche gli altri ordinamenti quasi come ad un approdo
nell’evoluzione della riflessione dottrinale.
Stando alle ragioni evidenziate da altri, all’opposto, tale modello conoscerebbe
trasformazioni continue e solo riferendosi alla sua versione originaria si
potrebbe convenire che non esiste più239. Secondo questo orientamento la stessa
premessa per la quale i soci detengono il controllo ultimo sulla società in forza
del potere di eleggere gli amministratori vacillerebbe a fronte al gran numero di
tecniche per comprimere il diritto di voto degli azionisti, tanto da potersi
dubitare che gli stessi prendano parte alla corporate governance240. Del resto
anche gli hostile takeovers, intesi quale tecnica di controllo alternativa al diritto
di voto, ricevendo una sempre minore considerazione nel tessuto economico
avrebbero cessato di rappresentare il maggiore meccanismo di monitoraggio.
L’ingresso degli investitori istituzionali nei processi di controllo interno, inoltre,
avrebbe determinato una diminuzione sensibile del fenomeno dell’azionariato
diffuso241. Ebbene, tutti questi elementi parrebbero essere un nuovo inizio
anziché la fine di un dibattito che anche in Italia, come negli Stati Uniti, è
destinato a rinnovarsi nella considerazione delle dinamiche di negoziazione
delle posizioni di controllo interno e di governo delle società.
239 D. W. Puchniak, The japanization of american corporate governance? Evidence of the never-ending history for corporate law, in Asian-Pacific Law and Policy Journal, 2007, 7 ss., 11: “While all eyes remain focused on whether the world is moving towards the American model, America has moved away from it.” 240 Stephen M. Bainbridge, Director v. shareholder primacy in the convergence debate, cit., 48-49. 241 La crescita della presenza degli investitori instituzionali nell’azionariato Americano si colloca tra il 1980 ed il 1996, anni nei quail passò da meno del 30% a più del 50% (Paul A. Gompers & Andrew Metric, Institutional investors and equity prices, 116 Q.J. Econ. 229, 239 (2001). Che il fenomeno abbia determinato un incremento del potere e del controllo degli azionisti individuali non è però una deduzione piana, giacché è innegabile che le banche siano portatrici di interessi loro propri che non necessariamente riflettono quelli degli azionisti e non è scontato che essi procurino agli azionisti individuali un maggior controllo (cfr. Bainbridge, Director v. shareholder primacy in the convergence debate, cit., 50-59; Bernard S. Black, Shareholder activism and corporate governance in the United States, in The New Palgrave Dictionary of Economics and the Law 459, 461-62 (1998), che porta evidenze empiriche del fatto che le banche non supportano nel controllo gli azionisti; Scheherazade S. Rehman, Can financial institutional investors legally safeguard American stockholders?, 2 N.Y.U. J. L. & BUS. 683 (2006); sostiene invece che il controllo dell’azionista risulterebbe maggiore in presenza di investitori istituzionali Mark J. Roe, Strong managers, weak owners: the political roots of American corporate finance (1994).
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I rilievi svolti sull’antitesi tra imperatività e ampia deregolamentazione nella
definizione dei rapporti tra la società e le diverse categorie di finanziatori,
consentono di affermare il superamento non solo della netta bipartizione tra soci
e obbligazionisti, ma anche dello status di sovranità o proprietà a lungo
conferito alla figura dell’azionista. Quest’ultimo conserva un primato
nell’organizzazione societaria in ragione della “titolarità non disponibile di
alcuni poteri”242 ma, quantomeno per coerenza con la scelta di affidare in via
esclusiva la gestione all’organo amministrativo e con la definitiva affermazione
del principio di maggioranza, cessa di poter essere definito dominus della
società243. In questa luce la stessa previsione di cui all’art. 2351, co. 5, si mostra
strumentale a rendere contendibili i poteri che un tempo erano prerogativa dei
soci in assemblea, rappresentando il presupposto normativo per l’apertura a
forme di interazione dei finanziatori nel governo sociale. Tale conclusione ne
sollecita un’altra, giacchè fa cogliere il carattere innovativo dell’istituto non
tanto nell’attribuzione in sé di diritti amministrativi a non soci244, quanto
nell’idoneità a incidere a livello di sistema sul tipo “società per azioni”. Dalla
previsione degli strumenti partecipativi trapela un modo nuovo di intendere
l’organizzazione della società in rapporto alle tecniche di finanziamento: il
modello precedente è stato liberato dalle rigidità che limitavano lo sviluppo
delle società, ed è divenuto plurimo proprio perchè capace di dare riscontro alle
diverse istanze che provengono dal mercato dei capitali accogliendo nell’atto
costitutivo lo schema organizzativo di volta in volta più idoneo245. Così
242 Poteri che Libertini, Riflessioni generali, cit., 250 individua così: “il potere normativo all’interno della società, l’esercizio dell’autonomia statutaria in senso proprio, il potere di scelta di chi governerà l’impresa, il potere di controllo in senso lato che si esprime anche attraverso l’approvazione del bilancio”. 243 Libertini, Ibidem. 244 Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, cit., 26-27, persuaso della possibilità che già prima della riforma l’emissione di obbligazioni potesse avvenire per apporti di ogni genere e potesse accompagnarsi alla titolarità di diritti amministrativi, circoscrive la novità degli strumenti finanziari – pur sempre, secondo l’Autore, da annoverare tra i titoli di debito – al novero dei diritti attribuibili, difficilmente potendosi riconoscere prima del 2003 riserve di nomina o prerogative di veto in favore dei portatori di titoli di debito. 245 Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, cit., 28 parla di apertura “verso un modello polisemico di organizzazione, ex atto costitutivo, del finanziamento di impresa” e coglie una continuità rispetto a figure già accolte nel notro ordinamento, quale la società unipersonale, e rispetto alla scelta di diversificare in categorie le azioni.
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operando si è superata l’unicità del contratto di società e con essa l’unicità
dell’interesse sociale, e si è resa possibile la “coesistenza di più contratti di
società” e “conseguentemente di più interessi sociali”246. Si è sostituita un’unica
organizzazione con una pluralità di organizzazioni247 o, se così si preferisce dire,
si è creata “un’organizzazione complessa, comprensiva di suborganizzazioni”248.
La chiave del ragionamento sta nel fatto che il consenso legislativo ad
accogliere nello statuto le istanze prima affidate ai contratti di finanziamento ha
reso possibile che non solo i conferimenti ma tutti gli apporti acquistino rilievo
endosocietario e che la struttura societaria si adegui di conseguenza alle
esigenze dei singoli finanziatori, alcuni interessati altri meno ad essere coinvolti
nel governo sociale. Tale meccanismo è un fattore di evidente complicazione,
ma al contempo di sintesi delle diverse posizioni di coloro che interagiscono con
l’impresa, poiché l’ingresso nell’organizzazione avviene in nome dell’obiettivo
comune rappresentato dal finanziamento della medesima impresa249.
246 A. Zoppini, Due note in tema di interesse sociale e finanziamento delle società per azioni, in Le grandi opzioni, cit., 275. Weigmann, Dalla società per azioni alla società per carati, cit., 169, ritiene “non casuale” che nel progetto governativo di riforma non si ricorra - eccettuati gli artt. 2373 co. 1 e 2441 – alla nozione di interesse sociale, notando anzi una corrispondenza tra tale elemento formale e “(al)l’appannarsi della distinzione tra soci e terzi, i quali sono ormai accomunati nel ruolo di finanziatori dell’impresa sociale”. Nel contesto di una società per azioni popolata “di creature ibride” (p. 170), in cui alla netta distinzione del “capitale di rischio (…) da quello imprestato” si sovrappone “uno spettro multicolore di strumenti finanziari, disposti in un ordine crescente di adesione alla società”, secondo l’Autore “ben si comprende che l’idea di un interesse sociale unitario, da perseguire in comune, si frantumi”. Evidentemente “questo sgretolamento non è indolore: l’interesse sociale ha avuto un forte valore ideologico, di attaccamento e di coesione all’impresa comune, che storicamente ha corrisposto allo sviluppo industriale. La caduta di questo mito riflette la transizione verso un modello puramente finanziario dell’impresa e dell’investimento di risparmio, che aspira a transitare dall’uno all’altro settore senza rimpianti emotivi.” (p. 171). Questo può significare che “avvenuta ormai l’accumulazione originaria indispensabile per industrializzare il paese” sia venuto meno il bisogno di riferirsi all’interesse sociale quale “vessillo” che “ha svolto probabilmente anche una funzione ideologica, quella di far credere nell’organizzazione e nello scopo comuni e di convogliare in essi anche le risorse dei più piccoli”. Sennonché è proprio alla luce di ciò che gli interpreti devono sentirsi investiti del compito di “cercare di contemperare, con più aderenza al vero rispetto a quanto non dicano i nomi e gli enunciati, i futuri equilibri immaginabili tra gli interessi in gioco” (p. 178). 247 Pisani Massamormile, Azioni ed altri strumenti finanziari partecipativi, cit., 1268, 1314. 248 Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, cit., 4, nt. 9. 249 Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, cit., 9, il quale tiene comunque a distinguere (p. 6) “fra organizzazione dei soci e organizzazione dell’impresa, entrambe riconducibili all’atto costitutivo di società ma riconoscendosi allora profili di regolazione (negoziale) di azioni umane diversi”, e ravvisa l’esclusione degli strumenti finanziari dal voto nell’assemblea generale degli azionisti come una comprova di tale differenza; sul rapporto tra pluralità di organizzazione e pluralità di interessi v. anche Pisani Massamormile, ibidem.
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La scelta di posare l’accento sull’organizzazione e sulla strumentalità di questa
alle istanze di finanziamento consente di collocare l’acquisita distonia tra rischio
e potere250 in un disegno legislativo organico nel quale non è automatica
l’identificazione dell’interesse sociale con l’interesse dell’azionista, né
l’individuazione del secondo come nozione unitaria. Appurato come solo il
collegamento con il capitale sociale residui quale tratto caratterizzante la
partecipazione azionaria, la nozione di interesse sociale perderebbe la sua
unitarietà anche qualora lo si volesse identificare unicamente con quello di cui
sono portatori i soci, giacchè una comunanza tra questi ultimi non si potrebbe
ravvisare se non a costo di sottacere i potenziali conflitti tra le diverse categorie
alle quali essi possono appartenere251. La moltiplicazione degli interessi
coinvolti nella società e l’impossibilità di individuare un referente unico – quale
poteva essere, appunto, l’azionista – per l’enucleazione dell’interesse sociale
rende necessario indicare uno strumento di conciliazione quantomeno tra la
pluralità di istanze ammesse a far parte dell’organizzazione. Tale strumento, se
per le singole categorie può essere rappresentato dal relativo organo
assembleare252, a livello generale si ritiene incarnato dagli amministratori,
“chiamati, per dovere inerente alla funzione esercitata, a comporre l’interesse
alla continuità dell’azienda con gli interessi delle diverse categorie di titolari di
strumenti finanziari partecipativi e non partecipativi” 253. Su questo punto sembra
di dover soffermare l’attenzione, poiché in esso si può rinvenire la congiuntura
tra la tesi che assegna agli amministratori la tutela dei finanziatori e la tesi che
confida nel contratto quale fonte capace di offrire le garanzie richieste. L’unione
tra le due impostazioni si ha nella scelta di rimettere alla forza negoziale delle
parti la definizione delle condizioni di ingresso nell’organizzazione sociale e,
una volta che gli interessi dei finanziatori abbiano acquisito carattere
endosocietario, di responsabilizzare gli amministratori a perseguirne la
250 C. Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova, 2003, 60, 66. Sull’irrilevanza della distinzione tra capitale di credito e capitale di rischio v. M. Miola, Gli strumenti finanziari nella società per azioni e la raccolta del risparmio tra il pubblico, cit., 438-439. 251 Gambino, Riflessioni generali, in Le grandi opzioni, cit., 449, 453. 252 Ci si riferisce alle assemblee speciali, ma l’argomento evoca altresì le disquisizioni dottrinali sulla funzione “compositoria” dell’assemblea ordinaria degli azionisti. 253 Gambino, ibidem.
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conciliazione con gli altri interessi riferibili al medesimo ente. Di questo dovere
di composizione è espressione e insieme garanzia la già vista composizione
eterogenea del consiglio di amministrazione. Proprio quest’ultimo profilo offre
peraltro l’occasione per sottolineare l’uniformità tra il metodo prescelto per dare
voce alle istanze dei finanziatori e quello suggerito dai teorici dell’
istituzionalismo per dare rilevanza sociale agli interessi dei lavoratori, ma al
contempo per ribadire la distanza tra le due prospettive254. Per quanto la rigida
assegnazione delle competenze gestorie all’organo amministrativo abbia
accentuato la separazione fra potere e rischio, per quanto la nozione di interesse
sociale non possa più ritenersi unitaria, il dato per cui a ottenere considerazione
giuridica sono solo gli interessi di coloro che a vario titolo partecipano alla
società basta di per sé a non potere ritenere accolta una concezione neo-
istituzionalistica255. Neppure l’innegabile presenza nel nostro ordinamento di
quelli che sono stati definiti “virus istituzionalitici”256 vale del resto a
considerare adottata tale impostazione ideologica, quanto piuttosto a fare
ritenere sussistente una commistione tra essa e l’altrettanto largamente
proclamata concezione contrattualistica. Si tratta di una mediazione che può per
taluni profili apparire contraddittoria. È questo il caso dell’accrescimento del
ruolo dei gestori, che si inserisce come accennato nella politica di
254 Libonati, I “nuovi” strumenti finanziari partecipativi, cit., 6. 255 R. Costi, Riflessioni generali, in Le grandi opzioni, cit., 467, per il quale si sarebbe potuta considerare penetrata nell’ordinamento una concezione istituzionalistica solo se il legislatore avesse dato riscontro alle teorie sulla responsabilità sociale dell’impresa vincolando gli amministratori al perseguimento di interessi esterni all’organizzazione, quale quello dei dipendenti o dei consumatori. 256 Così Cottino, Contrattualismo e istituzionalismo, cit., 706-707, il quale conclude per il superamento delle ragioni di una netta contrapposizione tra i due noti approcci alla nozione di società. Sul punto v. anche M. Cossu, Società aperte e interesse sociale, cit., 282-283, 290 ss., che annovera tra gli “elementi che svelano un istituzionalismo di stampo oggettivo”, “il riconoscimento dell’unilateralità e uni personalità costitutive; la stessa ammissione esplicita dei patti parasociali (…) e di poteri extra assembleari in genere; la direzione unitaria nei gruppi societari; la riduzione drastica delle cause di nullità della società-persona giuridica come l’incremento dei rimedi risarcitori in luogo di quelli reali nella disciplina dell’invalidità delle delibere; la scarsità dei poteri attribuiti alle minoranze organizzate; la trasformazione in diritto delle minoranze organizzate del diritto individuale all’impugnazione delle delibere assembleari; la disciplina delle trasformazioni e di talune fusioni eterogenee”; individua invece quale indice di una “nuona concezione della contrattualità” la valorizzazione dei “« formanti » informali (ma solo) nello spazio lasciato libero dalle norme imperative”, indicando, in questa differente veste, la disciplina del parasociale, dell’assemblea e del recesso.
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funzionalizzazione della società alle ragioni del finanziamento ma che rischia di
consolidare anziché di rendere contendibilile la posizione del gruppo di
controllo di cui la maggioranza dei consiglieri è espressione257. È il caso anche
dell’istituto del recesso, che può valere quale incentivo all’investimento per il
potere negoziale che la riforma, rideterminando i criteri di valutazione della
quota, vi ha collegato, ma può al contempo porsi quale facile alternativa alla
voice e quindi deludere l’aspettativa di fidelizzare il finanziatore alla società258.
Una conciliazione tra i profili che seppure discordanti si trovano a convivere nel
nuovo assetto sembra, però, si possa e si debba trovare in una variabile che può
al contempo guidare nell’impiego degli spazi di autonomia concessi dal
legislatore per la distribuzione di rischi e poteri: il fattore responsabilità.
257 S. Fortunato, Riflessioni generali, in Le grandi opzioni della riforma, cit., 267- 268. 258 S. Fortunato, Riflessioni generali, cit., 269. Sul recesso quale istituto polivalente v. Granelli, Il recesso del socio nelle società di capitali alla luce della riforma societaria, in Soc., 2004, 143 ss., 144; sempre con riferimento a tale disciplina – e segnatamente alla scelta del legislatore della riforma di “(D)differire la cessazione dello status socii ad un momento successivo alla ricezione, da parte della società trasformata, della sua dichiarazione di recesso” – De Angelis L., Dichiarazione di recesso e credito per la liquidazione della quota, in Soc., 2004, 1368 ss., 1384, sostiene essere stata reintrodotta “una connotazione neo-istituzionalistica in certo senso deviante, o comunque dissonante, dalla intensa concezione contrattualistica” caratterizzante l’assetto complessivo della riforma.
98
99
Capitolo III
Profili di responsabilità connessi alla partecipazione alla governance
1. 1 Il principio di correttezza nel finanziamento e la rilevanza della
posizione soggettiva di controllo.
L’ampliamento degli spazi consentiti all’autonomia negoziale nella definizione
dei diritti patrimoniali e amministrativi riferibili agli strumenti di finanziamento
voleva rispondere negli intenti della riforma all’istanza di agevolare l’accesso al
credito e la competitività dell’impresa italiana. Ammessa l’idoneità del mezzo al
fine, sono ora da considerare i possibili effetti indiretti dell’uso o dell’abuso
degli strumenti partecipativi quali titoli concorrenti delle azioni per l’apporto di
risorse.
Le ragioni sottese all’opzione per il capitale di credito anziché di rischio come
noto possono essere molteplici, venendo in considerazione i vantaggi di natura
fiscale, il diverso trattamento riconosciuto in caso di insolvenza, l’interesse a
un’immediata liquidità piuttosto che alla crescita della società. A tali incentivi
oggi si somma la possibilità di modellare anche i titoli non azionari in relazione
alle esigenze di controllo, cosicché i residui motivi in funzione dei quali si
potrebbe preferire la tecnica del conferimento sembrerebbero ridotti ai soli casi
di interesse per i privilegi amministrativi poche pagine fa indicati come nucleo
inderogabile della sovranità dei soci. La convenienza dell’istituto, però,
potrebbe portare un esito inatteso, ossia un aggravamento del problema della
sottocapitalizzazione delle società italiane. La preoccupazione per tale ultimo
fenomeno già prima della riforma era particolarmente avvertita per le s.r.l.,
considerata la singolare esiguità del capitale minimo richiesto. Proprio per tale
tipo sociale si è quindi ritenuto di intervenire esplicitamente, dando con l’art.
2467 c.c. una risposta normativa alla prassi di procurare risorse alla società per il
tramite di finanziamenti anziché di conferimenti. Fin dai primi commenti è stata
considerata la possibilità di individuare nella nuova disposizione l’enunciazione
di un principio generale di correttezza nel finanziamento applicabile alle società
per azioni anche al di fuori dell’ipotesi di direzione e coordinamento, per la
100
quale l’art. 2497 quinquies opera un rinvio espresso all’art. 2467 c.c. Le
opinioni non sono uniformi, giacché se taluni sostengono l’applicabilità
analogica della regola259, taltri la negano fermamente ritenendo intenzionale la
collocazione in seno alla disciplina della s.r.l.260, e altri ancora ammettono
l’analogia per i soli azionisti che abbiano una posizione in concreto omologa a
quella di un socio di s.r.l.261. Una considerazione è però comune ai tre indirizzi:
il ruolo che il socio di s.r.l. può svolgere in termini di controllo sulla gestione
deve essere stato un elemento determinante nella formazione della volontà
legislativa262. Quest’ultima, infatti, pare derivare dalla consapevole
ponderazione della possibilità che i soci si avvalgano dei privilegi informativi di
259 Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Tratt. Colombo-Portale, cit., 1**, 151, nt. 273 bis, ove la norma in questione è annoverata tra i “principi generali di diritto delle imprese” e per l’effetto considerata applicabile a tutte le società di capitali; Nigro, La società a responsabilità limitata nel nuovo diritto societario: profili generali, in Santoro (a cura di), La nuova disciplina della società a responsabilità limitata, Milano, 2003, 20; M. Rescigno, Problemi aperti in tema di s.r.l.: i finanziamenti dei soci, la responsabilità, in Soc., 2005, 15. 260 Irace, Commento sub art. 2497 quinquies, in Sandulli, Santoro (a cura di), La riforma delle società, 3, 2003, artt. 2462-2510 c.c., Torino, 2003, 342; Bartalena, I finanziamenti dei soci nella s.r.l., in Anal.giur. econ., 2003, 388 ss. 261 Angelici, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto commerciale, Padova, 2003, 47 ss.; Vassalli, Sottocapitalizzazione delle società e finanziamenti dei soci,in Riv. dir. impr., 2005, 270. 262 Maugeri, Finanziamenti “anomali” dei soci e tutela del patrimonio nelle società di capitali, Milano, 2005, 9 ss.; M. Simeon, La postergazione dei finanziamenti dei soci nella s.p.a., in Giur. comm. 2007, 69 ss. considera implicito nella norma un “requisito soggettivo costituito da una sorta di presunzione di conoscibilità del rischio al quale il finanziamento concesso in circostanze di precarietà finanziaria della società esponeva i creditori sociali”, con la precisazione – che vale a tenere distinta la disciplina in esame da quella dell’azione revocatoria fallimentare – per cui “non viene direttamente in rilievo uno stato di “conoscenza” del pregiudizio arrecato ai creditori sociali o del corrispondente vantaggio derivante dal ricorso a strumenti di capitalizzazione surrettizia della società: gli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c., infatti, sembrano prendere in considerazione il soggetto autore del finanziamento in quanto incardinato in una struttura corporativa (come la s.r.l.) o, in senso lato, organizzativa (come il gruppo), in cui esso sia “istituzionalmente” investito di poteri di gestione e di controllo che, in sostanza, ne presuppongono sia un diretto coinvolgimento nell'esercizio dell’attività di impresa, che la possibilità di attingere alle informazioni relative alla situazione finanziaria della società. Di conoscenza o conoscibilità del pregiudizio può parlarsi, quindi, solo nella misura in cui ciò rappresenta il riflesso della peculiare posizione ricoperta dal finanziatore nell'ambito della società o del gruppo (…)”. Proprio in forza di queste considerazioni l’Autore da ultimo citato ritiene che “[N] nonostante il superamento dell’ostacolo costituito da una pretesa incompatibilità dell’art. 2467 c.c. col “tipo” della s.p.a., ogni tentativo di applicazione estensiva sembra precluso dalla radicale irriducibilità del ruolo e della posizione del socio di s.p.a. al modello rappresentato dal socio di s.r.l.”, salvo “verificare il criterio dell’appartenenza dell’autore del finanziamento ad una realtà corporativa organizzata in cui il suo ruolo sia riconducibile a quello del socio che partecipa alle scelte, condivide le informazioni, collabora attivamente allo svolgimento dell’attività d’impresa.”
101
cui dispongono per conseguire, a danno dei creditori, una garanzia di rimborso o
un ritardo nella dichiarazione dello stato di crisi. La considerazione dell’id quod
plerumque si è tradotta nella formulazione di un’implicita presunzione di
conoscenza della situazione finanziaria della società e di volontaria alterazione
dello stato di rischio dell’investimento. Per parte della dottrina tale presunzione
è meramente relativa, con possibilità per i soci di s.r.l. privi di controllo di
evitare l’applicazione della norma offrendo prova contraria263. La soluzione
lascia però perplessi se si considera la norma come orientata a dare tutela ai terzi
e si valorizza in tale prospettiva l’enunciazione espressa dei presupposti
oggettivi attinenti all’equilibrio finanziario della società. Proprio ponendosi in
un’ottica garantista si giunge viceversa a ritenere che l’introduzione della
ricordata previsione sia stata determinata dall’intento di agevolare sul piano
probatorio i terzi, ai quali sarebbe comunque consentito provare la ricorrenza dei
medesimi presupposti in altre ipotesi. Per questa via, seppure con onere della
prova a carico dell’attore, si potrebbe applicare l’art. 2467 c.c. anche ai
finanziamenti concessi da terzi264 ad una s.r.l. o, nell’ambito della s.p.a., da
azionisti o da terzi. Per quel che qui interessa, sempre su tale presupposto
sembra potersi ammettere l’applicazione analogica agli strumenti finanziari con
diritti amministrativi di partecipazione, tant’è che l’autonomia statutaria può
configurare questi ultimi fino a ricalcare la figura del socio di s.r.l.
263 Angelici, La riforma delle società di capitali, cit., 49; contra Terranova, Sub art. 2467, cit., 1477. 264 V. sul punto Portale, Capitale sociale e società, cit., 149. Vittone, Questioni in tema di postergazione dei finanziamenti soci, in Giur. comm. 2006, 896 ss., si è interrogato sull’applicabilità della norma in esame ai finanziamenti effettuati da non soci, soffermandosi in particolare sulle erogazioni bancarie. Oltre ai casi in cui l’operazione sia posta in essere con intenti meramente elusivi della disciplina legale, realizzando in linea indiretta un finanziamento ad opera dei soci, hanno costituito oggetto di riflessione i contratti di finanziamento corredati da clausole volte a garantire alla banca flussi informativi costanti sull’assetto contabile nonché su talune scelte gestionali. Proprio con riguardo a tale fattispecie l’Autore sottolinea l’opportunità di valutare l’applicazione analogica dell’art. 2467, visto che “la banca, all’atto di concedere ulteriori finanziamenti - ovvero, se i covenants sono inseriti in un contratto di apertura di credito, al momento dell’erogazione dei singoli utilizzi della linea di credito - si viene a trovare in una chiara posizione di vantaggio rispetto ad altri creditori sociali (erario, dipendenti, fornitori, etc.). Si determina così la stessa situazione che il legislatore ha voluto sanzionare con la postergazione dei finanziamenti effettuati dai soci”. In questa prospettiva l’art. 2467 “segnerebbe dunque l’emersione di un principio secondo cui la conoscenza della situazione economico-finanziaria di una società, unita ad una significativa influenza sulle sue scelte di gestione determina una ri-allocazione del rischio d’impresa (tra soci - e, forse, le banche - da una parte, e gli altri creditori sociali, dall’altra) che prevale sulla volontà espressa delle parti”.
102
Il riferimento congiunto alla libertà contrattuale e alla tutela dei terzi consente di
aggiungere un’annotazione complementare, riguardante l’opportunità di
contenere inter partes l’efficacia delle relative convenzioni. Se si conviene sul
carattere intenzionale della collocazione sistematica dell’art. 2467 e
sull’identificazione dei poteri di controllo del socio di s.r.l. quale elemento
determinante la scelta legislativa, allora si deve pure ammettere che la
previsione della postergazione o del rimborso risponde alla volontà di realizzare
un allineamento tra potere e rischio265. È vero che tale correlazione, come visto,
è oggi ampiamente derogabile. Non bisogna dimenticare, però, la ragione che
principalmente ha indotto ad ammettere tale possibilità, vale a dire la necessità
di ampliare i canali di finanziamento valorizzando ora l’interesse ora
l’indifferenza degli investitori rispetto a posizioni di controllo. Avendo alla
mente tale fine la scelta di consentire agli azionisti di condividere se non di
traslare i poteri che di regola loro competerebbero appare apprezzabile. Non
altrettanto potrebbe dirsi di tale scelta, però, se essa consentisse di spostare su di
un livello di inefficienza le scelte sociali, giacchè la correttezza nel
procedimento di determinazione delle iniziative imprenditoriali coinvolge tutti
quanti operino con la società. Il punto può essere chiarito evidenziando il
seguente parallelismo. L’opzione per il finanziamento anziché per il
conferimento consente ai soci di mantenere il potere decisionale circa le
modalità di azione della società, ma senza esporsi a un rischio proporzionato. Il
che vuol dire che si determina una situazione analoga a quella vista per l’ipotesi
di una società che operi nonostante un’insolvenza in atto, poiché il rischio di
insuccesso delle operazioni intraprese verrebbe posto a carico dei creditori
postergati rispetto alle istanze di rimborso vantate dai soci per i versamenti a
titolo di finanziamento. Ebbene, fenomeno corrispondente si avrebbe nel caso di
titolari di strumenti finanziari che decidessero di concedere credito alla società
265 Tra gli interventi dottrinali che evidenziano tale profilo si ricorda quello recente di G. Balp, I finanziamenti dei soci “sostitutivi” del capitale di rischio: ricostruzione della fattispecie e questioni interpretative, in Riv. soc. 2007, 345, che ascrive all’art. 2467 la funzione di ripristinare “in capo ai soci un rapporto equilibrato tra benefici e rischio associati alla partecipazione alla società, imponendo loro la sopportazione prioritaria del rischio rispetto ai creditori”.
103
nonostante la conoscenza dello stato di sottocapitalizzazione della stessa:
disponendo di poteri di controllo, potrebbero incidere sulle iniziative della
società in modo che questa assuma un rischio commisurato alla certezza di poter
pagare loro, indipendentemente dalla sorte di quanti siano postergati. Il punto è
che non può essere leso l’interesse a che il potere decisionale resti nelle mani di
chi non ha creditori postergati. Più precisamente, il fatto che altri acquistino tale
potere rimane indifferente solo nella misura in cui il capitale vincolato al
pagamento dei crediti sia sufficiente a garantire la soddisfazione di quanti si
trovino a essere creditori di grado successivo.
La necessaria correlazione tra potere e rischio sembrerebbe dunque riemergere
nella prospettiva dei creditori. Non a caso la discussione sul noto binomio
nasceva dalla necessità di dare loro tutela selezionando la scelta allocativa più
efficiente in quanto maggiormente garantista dell’assunzione di iniziative
ponderate sotto il profilo dei rischi. È pur vero che oggi è consentito alterare la
regola dell’attribuzione agli azionisti per ampliare i canali di finanziamento
della società, ma questo consente ai contraenti di definire in autonomia le
posizioni di rischio interne alla società nei soli limiti in cui non si pregiudichino
i creditori266. L’attribuzione di diritti amministrativi a titoli di debito consente di
alterare già in caso di solvenza la regola dell’allocazione del potere gestionale in
capo ai c.d. residual claimant e dunque il grado di efficienza dell’azione
economica. Così intesa, tale facoltà si presta a essere letta non solo come
strumentale alla creazione di un allineamento informativo idoneo a operare
quale garanzia endosocietaria, ma anche come funzionale ad un vantaggio
informativo rispetto agli altri creditori della società. Ne consegue che, se nel
primo senso consente di controllare il conflitto di interessi tra creditori e
azionisti arginando la possibilità che gli amministratori per tutelare gli azionisti
che li hanno designati distolgano le risorse finanziarie erogate dalla destinazione
economica convenuta nel contratto di mutuo o quantomeno rispetto al livello di
rischio previsto, nel secondo senso accentua invece il problema della
266 In questo senso può valere l’osservazione di G. Balp, I finanziamenti dei soci “sostitutivi” del capitale di rischio, ibidem, ove individua nell’art. 2467 c.c. “un limite indiretto all’autonomia privata” nella selezione delle forme di finanziamento delle società.
104
conflittualità tra creditori. Attribuendo poteri di controllo e di cogestione a una
particolare categoria di questi, si mette a disposizione uno strumento che
consente di modulare l’entità dell’esposizione verso la società e i tempi di
rimborso in base alla situazione in cui versa la società stessa, e questo a danno
degli altri creditori. Detto fenomeno può verificarsi sia verso i creditori muniti di
titoli di debito verso la società ma con condizioni contrattuali diverse, sia e
ancor più rispetto a fornitori e altri creditori le istanze dei quali siano consegnate
a meri contratti di diritto privato. In altri termini la creazione di posizioni di
privilegio informativo moltiplica i conflitti orizzontali, sommando a quelli tra
azionisti e creditori quelli tra diverse categorie di creditori267.
1.2 Dati normativi e spunti di comparazione a supporto
dell’applicazione dell’art. 2467 c.c. ai titolari di strumenti finanziari
partecipativi.
La logica sin qui sostenuta trova supporto nello stesso dato codicistico.
Può essere citato a conferma anzitutto lo stesso art. 2467 c.c., ove enuncia
l’irrilevanza della forma prescelta per provvedere al finanziamento268.
Può essere poi ricordato l’art. 2497 quinquies, che giustapponendo la disciplina
degli apporti anomali a quella della direzione e coordinamento indirettamente
conferma sia la connessione tra la responsabilità patrimoniale e titolarità di
poteri di amministrazione, sia la volontà di prescindere dalla forma anche nella
duplice considerazione del soggetto al quale le risorse economiche sono erogate
e dello status di chi si fa soggetto attivo della relativa operazione269.
267 R. P. Bartlett, Venture capital, agency costs, and the false dichotomy of the corporation, 54 UCLA L. Rev., 2006, 37, individua tale dimensione del conflitto – affiancandolo a quello verticale con gli amministratori e, a monte, con gli azionisti di maggioranza dalla volontà dei quali promanano il loro potere – al fine di superare la dicotomia tra società chiuse e società aperte in base alla quale tradizionalmente si connotano solo le seconde come portatrici del genere di conflitti in parola. L’esperienza del venture capital nella fase di start up costituisce per l’Autore un campo privilegiato di indagine, vuoi per la diffusa tendenza ad indirizzare al mercato le società così finanziate, vuoi per il caratteristico vantaggio conoscitivo di tali investitori. 268 Irace, Commento sub art. 2497 quinquies, cit., 344, ritiene riferibile all’art. 2467 “qualsiasi forma di trasferimento di disponibilità”. 269 In questo senso anche M. Simeon, La postergazione dei finanziamenti dei soci nella s.p.a., cit., 69 ss., il quale dall’osservazione per cui “una delle forme in cui tipicamente si esplica l’attività di direzione e coordinamento è proprio quella che consiste nell’eterodeterminazione
105
Il ragionamento sin qui sostenuto può inoltre consentire di comporre diversi
elementi prima facie incoenti con il quadro di sistema emergente dalla riforma.
La possibilità di riprodurre in veste di strumento finanziario la posizione
patrimoniale propria delle azioni senza alcun vincolo al rispetto delle norme che
tutelano il capitale sociale270 e che pongono in correlazione rischio e potere, ha
fatto supporre ai primi commentatori che probabili intenti elusivi nel ricorso a
tali figure potrebbero essere arginati applicando in via analogica le disposizioni
dettate per le azioni271. Si tratta di una soluzione, però, che rischia di sacrificare
alle istanze di garanzia il significato stesso dell’intervento legislativo,
trasformando l’esercizio dell’autonomia contrattuale in un’incognita circa la
disciplina applicabile. L’estensione del solo art. 2467 c.c., nei limiti della
ricorrenza del presupposto soggettivo del controllo e del presupposto oggettivo
dello squilibrio dell’indebitamento o della ragionevolezza di un conferimento,
responsabilizzerebbe invece chi fornisce alla società risorse per operare sul
mercato alla sola verifica della meritevolezza del credito così erogato. Si
tratterebbe peraltro di una soluzione non nuova al nostro ordinamento, il quale
basa anzi su di essa la disciplina della responsabilità per la sottoscrizione di
delle politiche di bilancio e delle scelte che presiedono il reperimento dei mezzi finanziari ed il loro conseguente utilizzo”, trae “l’ovvia constatazione che l’attività di direzione e coordinamento della capogruppo si accompagna ad una perfetta rappresentazione della situazione economica e finanziaria della società controllata: il finanziamento concesso in situazione di grave sottocapitalizzazione di quest’ultima, pertanto, presenta esattamente il medesimo disvalore del finanziamento concesso dal socio di s.r.l. ai sensi dell’art. 2467 c.c. L’estensione della regola della postergazione, cioè, trae fondamento anche in questa circostanza non solo dal fatto obiettivo del compimento di un atto potenzialmente idoneo a recare un pregiudizio ai creditori della società finanziata, ma anche dal ricorrere dell’ulteriore requisito soggettivo consistente in una sorta di presunzione di conoscibilità di tale situazione di pregiudizio.” Per Terranova, Sub art. 2467, cit., 1476, le due categorie di finanziatori sarebbero piuttosto assimilabili per la circostanza di poter “considerare realistica l’aspettativa di ricavare dal proprio investimento dei vantaggi aggiuntivi, rispetto alla remunerazione (per altro solo eventuale) del prestito”; dello stesso avviso dichiara d’essere G. Balp, I finanziamenti dei soci, ibidem, che sottolinea come nei rapporti di gruppo, essendo il vantaggio informativo dei finanziatori solo eventuale, non si possa fondare l’identità di ratio rispetto all’art. 2467 sulla possibilità di ponderare con certezza il rischio dell’erogazione effettuata. 270 Si pensi ad esempio alla disciplina sull’aumento del capitale, sull’acquisto di azioni proprie, sulla stima dei conferimenti. 271 Lamandini, Autonomia negoziale e vincoli di sistema, cit., 534 ss.; Miola, I conferimenti in natura, cit., 288; Enriques, Quartum non datur, cit., 175-176, scettico sul ricorso all’analogia per mancanza di una lacuna da colmare, possibilista circa un contrasto con la Seconda Direttiva in materia di società.
106
obbligazioni o di titoli di debito, nonché quella per concessione abusiva di
credito.
Una consonanza rispetto alle considerazioni sviluppate si può rinvenire inoltre
nei precedenti giurisprudenziali statunitensi272, pur essi misuratisi con la difficile
distinzione tra i titoli di partecipazione alla società273 e con la possibilità che il
ricorso al debt anziché all’equity sia dettato dalla finalità di eludere disposizioni
di legge. Appurata l’insufficienza di ogni definizione proposta per la nozione di
titolo di debito274, le Corti hanno individuato una serie di indici di distinzione tra
le due categorie275. Ciò che colpisce è che proprio i fattori così individuati
272 Sottolinea la consonanza rispetto all’esperienza statunitense anche Vittone, Questioni in tema di postergazione dei finanziamenti soci, in Giur. comm. 2006, 896 ss., nt. 89. Un’eco della cultura anglo-americana si coglie anche nel ricorso al criterio della ragionevolezza, come pone in evidenza la critica argomentata da De Angelis L., Dal capitale leggero al capitale « sottile »: si abbassa il livello di tutela dei creditori, cit., 1463, sulla relativa scelta legislativa, destinata a generare contenzioso giudiziario per l’estraneità di simili clausole generali alla cultura giuridica italiana. 273 Henry T.C. Hu, New financial products, the modern process of financial innovation, and the puzzle of shareholder welfare, 69 Tex. L. Rev., 1991, 1273, già notava come i potenziali conflitti tra le diverse classi di azioni determinasse difficoltà nella definizione degli interessi da perseguire; sul tema si diffonde Frank Partnoy, Financial innovation in corporate law, 31 J. Corp. L. 799, 2006, 810-11, ove discute in particolare l’odierna indeterminatezza della nozione di residual claimant. 274 Classiche definizioni di debito sono: “A classic “debt” is an unqualified obligation to pay a certain sum at a reasonably close fixed maturity date along with a fixed percentage in interest payable regardless of debtor's income or lack thereof (…)” (Gilbert v. C.I.R. 248 F.2d 399 (2d Cir. 1957): United States Court of Appeals Second Circuit. Benjamin D. and Madeline Prentice GILBERT, Petitioners, v. Commissioner of Internal Revenue, Respondent. No. 331, Docket 24469. Argued April 10, 1957. Decided Sept. 26, 1957) o “a written unconditional promise to pay on demand or on a specified date a sum certain in money in return for an adequate consideration in money or money's worth, and to pay a fixed rate of interest” (United States Code Annotated, Title 26. Internal Revenue Code, Section 385). 275 In particolare un noto precedente (Fin Hay Realty Co. v. U.S., 398 F.2d 694 (3d Cir. 1968)) invita a considerare quindici fattori: “1) The intent of parties; 2) The identity between creditors and shareholders; 3) The extent of participation in management by the holder of the instrument; 4) The ability of the corporation to obtain funds from outside sources; 5) The "thinness" of the capital structure in relation to debt; 6) The risk involved; 7) The formal indicia of the arrangement; 8) The relative position of the obligees as to other creditors; 9) The voting power of the holder of the instrument; 10) The provision of a fixed rate of interest; 11) A contingency on the obligation to repay; 12) The source of the interest payments; 13) The presence or absence of a fixed maturity date; 14) A provision for redemption by the corporation; 15) A provision for redemption at the option of the holder; and 16) The timing of the advance with reference to the organization of the corporation.” Il percorso volto a dipanare la difficile distinzione tra debt ed equità conta numerosi precedenti. Si ricordano, tra gli altri, Rowan v. United States, 219 F.2d 51 (5th Cir.1955); Montclair, Inc. v. Commissioner of Internal Revenue, 318 F.2d 38 (5th Cir.1963); United States v. Snyder Bros. Co., 367 F.2d 980 (5th Cir.1966); Tomlinson v. 1661 Corp., 377 F.2d 291 (5th Cir.1967); Berkowitz v. United States, 411 F.2d 818 (5th Cir.1969); Dillin v. United States, 433 F.2d 1097
107
presentino una pressochè totale sovrapponibilità rispetto ai criteri recepiti
nell’art. 2467 c.c. Ricorre, in particolare, la considerazione sia dell’adeguatezza
del patrimonio in rapporto all’attività sociale, sia della condivisione dei diritti
amministrativi276. Anche l’esito coincide con quello sancito nel disposto citato,
ossia la postergazione del credito277.
Sennonché proprio alla luce di tale uniformità sorge il problema di ponderare
quanto possa valere anche per il nostro ordinamento l’osservazione svolta dalla
dottrina americana circa la probabilità che le conseguenze che la giurisprudenza
fa discendere sul piano patrimoniale dall’esercizio del controllo riducano la
convenienza di ricorrere a quest’ultimo quale soluzione per superare in via
contrattuale le asimmetrie informative278.
Tale valutazione merita soprattutto d’essere svolta nell’ambito delle operazioni
di finanziamento del c.d. start up che, come accennato, si caratterizzano per
l’originaria inadeguatezza delle risorse imputabili a capitale rispetto alla
realizzazione dell’oggetto sociale. Ci si può giovare, a tal fine, di talune
considerazioni sviluppate in sede di studio delle forme giuridiche più idonee a
realizzare operazioni di venture capital. La s.r.l., in particolare, sembra rimanere
il tipo meno gradito279. Se prima della riforma rappresentavano ostacoli obiettivi
(5th Cir.1970); Estate of Mixon v. United States, 464 F.2d 394 (5th Cir.1972); Slappey Drive Industrial Park v. United States, 561 F.2d 572 (5th Cir.1977). 276 La rilevanza di questi ultimi è stata denunciata in particolare nel precedente In re Color Tile, Inc., 2000 WL 152129 (D. Del. 2000) nel quale la qualifica degli strumenti finanziari quali titoli azionari è stata motivata tra l’altro in ragione della previsione contrattuale che accordava ai portatori di tali strumenti diritti di voto parificati a quelli dei soci nell’ipotesi in cui la società non avesse adempiuto agli obblighi di pagamento entro le scadenze concordate. 277 Può a tale riguardo essere ricordata la considerazione di Tantini, I versamenti dei soci alla società, in Trattato delle s.p.a., diretto da Colombo e Portale, I, t. 3, Torino, 2004, 743 ss., 800, per cui “la scelta legislativa della postergazione (a parte il caso del fallimento) non è quella della riqualificazione (del finanziamento come apporto), ma il risultato è il medesimo, e cioè quello di (eventualmente) soddisfare i soci solo dopo tutti gli altri creditori sociali”. 278 La Porta, Rafael, Florencio Lopez-de-Silanes, Andrei Shleifer, and Robert W. Vishny, 1999, Investor protection and corporate governance, Working paper, Harvard University; Fischel D., 1989, The economics of lender liability, Yale Law Journal 99, 131-154; Gilson S., 1990, Bankruptcy, boards, banks, and blockholders: evidence on changes in corporate ownership and control when firms default, in Journal of Financial Economics 27, 355-388. 279 Occorre a tale proposito ricordare Donativi, Varietà: strumenti di corporate governance, cit., 205, ove osserva come “la s.r.l., pur essendo forma societaria che raramente si riscontra in società che fanno ricorso al private equity, sia sottoposta, per diversi aspetti, a una regolamentazione che sembra ritagliata su misura sulle esigenze specifiche degli assetti proprietari e di governo specifici di tale forma di intervento finanziario”. A deporre in tale senso sarebbe anzitutto l’ampiezza del diritto all’informazione di cui all’art. 2476 c.c., in forza del
108
al finanziamento il divieto di emettere obbligazioni, l’inammissibilità di
attribuire nello statuto poteri amministrativi al venture capitalist, la necessità di
passare per una trasformazione per arrivare alla quotazione, attualmente i dubbi
sull’utilizzabilità di tale modello organizzativo sono alimentati sia dalla
difficoltà di definire i limiti della nuova autonomia statutaria, sia
dall’introduzione di disposizioni che espressamente dettano una disciplina che
contrae le opportunità di vantaggio per l’investitore. È incerta, in particolare, la
compatibilità con la s.r.l. di quelle forme ibride di partecipazione cui ormai si è
aperta la s.p.a., soprattutto perché mancando indici normativi espliciti la dottrina
si basa sull’impronta lasciata dai principi interpretativi ereditati dal passato o
dagli intenti del legislatore delegante. Appunto su tali presupposti si asserisce
preclusa l’emissione di strumenti ibridi capaci di attribuire al finanziatore quei
poteri di controllo e di indirizzo che abbiamo detto essere connaturati agli
interventi in esame. L’esito non è di poco conto, visto che impone al venture
capitalist la scelta tra i privilegi patrimoniali garantiti dai titoli di debito e le
prerogative di partecipazione associate alla qualifica di socio. Meglio, impone di
continuare a consegnare all’alea del parasociale le prerogative che le regole
societarie non ammettono di concedere. Così almeno afferma una dottrina
pressoché unanime, che arriva a invocare un’incompatibilità di principio tra la
disciplina della s.r.l e l’attribuzione a non soci di poteri di voice. La
soddisfazione di entrambe le esigenze sarebbe oltretutto esposta alla regola della
postergazione di cui all’art. 2467 c.c.280. Si capisce come, arrivati a questo punto
del ragionamento, la possibilità prima argomentata di estendere per analogia tale
norma possa incidere sulle conclusioni da trarre. Quello che è stato prospettato
quale l’acquisto dello status di socio sarebbe di per sé bastevole a soddisfare le istanze di trasparenza tipica dei fondi di private equity, salva l’utilità di prevedere una “procedimentalizzazione” del diritto di informazione, nonché di riservare il relativo diritto al singolo finanziatore che lo ha negoziato avvalendosi dell’art. 2468, comma 3, c.c. Quest’ultima norma potrebbe inoltre rivelarsi funzionale a riconoscere diritti di veto su determinate operazioni amministrative, con ciò soddisfacendo un’ulteriore istanza della peculiare categoria di finanziatori considerata. 280 Occorre peraltro ricordare come la dottrina – in particolare G. Balp, I finanziamenti dei soci, cit., 345, - abbia mostrato un orientamento negativo circa l’applicabilità dell’art. 2467 c.c. ai titoli di debito emessi da s.r.l., facendo leva anzitutto sulla necessità che il finanziatore presenti la qualità di socio al momento dell’erogazione. Unica apertura è stata indicata nella possibilità di provare l’intento elusivo dell’operazione di finanziamento.
109
come un possibile motivo di “fuga” dalla s.r.l.281 potrebbe divenire al contempo
una ragione per evitare il ricorso agli strumenti finanziari partecipativi. In effetti,
su un piano più generale, il giudizio che vuole la s.p.a. riformata più consona
della s.r.l. a emulare il modello americano d’integrazione dell’investitore nella
governance è temperato da alcune cautele dovute al fatto che molte soluzioni
interpretative non si sono ancora consolidate, specialmente quelle che attengono
all’applicabilità analogica delle norme inserite nella disciplina di uno solo dei
due tipi sociali. Tra le disposizioni dubbie compare altresì l’art. 2476 co. 5 c.c.,
il riferimento al quale consente di introdurre l’ulteriore profilo di responsabilità
potenzialmente connessa alla titolarità di diritti amministrativi, vale a dire quella
risarcitoria da gestione.
2. La responsabilità gestoria dei titolari di strumenti finanziari
partecipativi nel contesto della concezione antiformalistica dell’esercizio della
funzione amministrativa.
La prospettiva dell’interazione dei finanziatori nel governo sociale porta a
considerare questi ultimi quali titolari oltre che quali destinatari degli obblighi di
correttezza nell’azione gestoria e delle conseguenti posizioni di responsabilità.
L’ambito di indagine non attiene all’assunzione formale della relativa carica,
perché in tale ipotesi la disciplina è ex lege uniforme per tutti i consiglieri, ma
riguarda la dissociazione tra investitura ed esercizio in concreto della relativa
funzione. Il tema, già diffuso con il nome di eterogestione282 e oggetto di ampie
riflessioni dottrinali, rileva in questa sede con specifico riguardo agli studi sui
rapporti tra soci e amministratori nella prospettiva di un’applicazione dei relativi
risultati ai rapporti tra finanziatori e amministratori.
281 Terranova, Sub art. 2467, in Niccolini, Stagno D’Alcontres (a cura di), Società di capitali. Commentario, 3, Napoli, 2004, 1451. 282 Mutuiamo la fortunata espressione da M. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria fra aperture ed incertezze: una prima riflessione, in Soc., 2003, 331 ss., che la spende per i soci gestori di s.r.l. ma anche per chi eserciti attività di direzione e coordinamento.
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I noti e quanto mai attuali283 dibattiti sul riparto di competenze tra gli organi
sociali portano a ritenere che l’assegnazione esclusiva dei poteri gestionali al
consiglio di amministrazione non valga nei fatti ad annullare l’interesse dei soci
alla gestione, quanto piuttosto a incrementare il ricorso a direttive riservate,
impartite lontano dall’ufficialità – e dalle garanzie - dei meccanismi
assembleari284. Tale prassi origina due ordini di problemi in tema di
responsabilità, ossia come si delinei quella degli amministratori che si siano
attenuti alle istruzioni ricevute e come l’attività di direzione si ripercuota sulla
posizione di coloro che l’hanno esercitata. Con la riforma della società per
azioni il legislatore si è espresso sul primo profilo e più precisamente
sull’annosa questione dell’esenzione da responsabilità degli amministratori che
diano esecuzione ad una delibera assembleare in materia gestoria. Vigente la
precedente formulazione dell’art. 2364 n. 4 c.c., la giurisprudenza aveva in
prevalenza escluso la responsabilità verso la società, ma non verso i creditori
sociali né verso i singoli soci285; il nuovo testo normativo, non solo ridimensiona
le ipotesi di intervento dell’assemblea, ma ribadisce altresì che gli
amministratori rimangono in toto responsabili per gli atti compiuti a prescindere
dall’intervento di una previa autorizzazione in tal senso da parte dell’assemblea.
La previsione è del resto coerente al rigido riparto di competenze tra gli organi e
alla conseguente facoltà per gli amministratori di non dare seguito alle
indicazione assembleari286.
283 Per quel che riguarda le s.r.l. - che è poi il tema di recente più percorso - si veda da ultimo Rordorf, Decisioni dei soci di s.r.l.: competenza e modi del decidere, in Soc., 2006, 1200 e ss. 284 Idea che già affiora, in epoca anteriore all’ultima riforma, nella ricostruzione dell’evoluzione conosciuta dal sistema organizzativo delle società di capitali operata da Galgano, Diritto commerciale, 2, Le società, Bologna, rist. 1992, § 7.1, p. 145 ss.; in tal senso si legga pure G. Sbisà, Patti parasociali e responsabilità degli amministratori, cit., 447. 285 Sbisà, Patti Parasociali, cit., 453-454. 286 Così la dottrina e per essa C. Ibba, La gestione dell’impresa sociale, cit., 423 ss., al quale si rinvia (nt. 3 pag. 424) per riferimenti bibliografici. Si è detto che l’art. 2380 bis, co.1, c.c. confermerebbe l’invalidità dei sindacati di gestione, per i quali non avrebbe più senso porsi il problema dell’applicabilità degli artt. 2341 bis e 2341 ter: sul punto si legga M. M. Pratelli, Problemi in tema di “sindacati di gestione”, cit., 118-120, anche per ulteriori riferimenti. Si legga però anche Portale, Rapporti fra assemblea e organo gestorio nei sistemi di amministrazione, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum G. F. Campobasso, cit., 27 ss., ove considera i “poteri gestori non scritti” dell’assemblea di società per azioni, segnalando
111
Nulla è detto, invece, circa una condivisione di responsabilità da parte degli
azionisti e ciò a differenza della scelta adottata per le s.r.l., nell’ambito delle
quali l’ampiezza riconosciuta all’autonomia statutaria in ordine alla ripartizione
delle funzioni gestorie tra amministratori e soci, in uno con l’enunciato generale
della rilevanza centrale del socio nella s.r.l., ha portato a ipotizzare che i soci, uti
singuli (ex art. 2468 co. 3) o come collettività (ex art. 2479), intervengano nella
gestione con incidenza anche generale ma che siano per l’effetto esposti a
responsabilità. Ai sensi del penultimo comma dell’art. 2476, infatti, i soci che
abbiano intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per
la società, i soci o i terzi, sono solidalmente responsabili con gli amministratori.
Neppure tale previsione, del resto, ha risolto ogni dubbio, tanto che ci si è
continuati a domandare se abbia senso chiamare in corresponsabilità
amministratori spogliati della gestione e tenuti unicamente a dare esecuzione a
decisioni assunte dai soci o se, piuttosto, si possa parlare di solidarietà senza
entrare in contraddizione solo lasciando agli amministratori facoltà di
“disobbedienza”. È per questa seconda via che si è arrivati a riconoscere ai soci
unicamente un potere autorizzatorio e ad affermare, di conseguenza, che la
responsabilità gestoria non è dissociabile dalla carica di amministratore287 e
neppure dall’esercizio di fatto delle relative prerogative. Nessuna approvazione
o autorizzazione, dunque, può escludere o limitare la responsabilità degli
amministratori288, valendo piuttosto a estendere l’applicazione del relativo
regime. Detto questo, però, si pone il problema di individuare i limiti entro i
quali rendere operativa tale estensione.
In proposito vi è da dire anzitutto che parte della dottrina ritiene di dover
applicare l’art. 2476 a ogni ipotesi di assunzione di decisioni gestorie da parte
(pp. 31-32) l’ulteriore complicazione che il ragionamento incontra quando si considerino le norme sui patti parasociali e sui gruppi. 287 Per un’esposizione più ampia della tematica, nonché per indicazioni bibliografiche, si rinvia ancora all’intervento da ultimo citato di C. Ibba, La gestione dell’impresa sociale fra amministratori e non amministratori, cit., 423 ss. ed in specie, per la conclusione ora indicata, p. 427, nonché a Di Amato, sub art. 2476 c.c., in La riforma del diritto societario, a cura di Lo Cascio, vol. 8, Milano, Giuffrè, 2003, 220; Cagnasso, sub art. 2476 c.c., in Il nuovo diritto societario, diretto da Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti, cit., 1890 ss. 288 Così anche M. M. Pratelli, Problemi in tema di “sindacati di gestione”, cit., 123.
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dei soci, a prescindere dal carattere espresso e formale delle stesse289. Questo sia
perché diversamente opinando si finirebbe per accentuare la già radicata
tendenza a lasciare nell’ombra i rapporti tra soci e amministratori290, sia perché
sembra in tal modo di assecondare la volontà legislativa di collegare la
responsabilità all’amministrazione anziché all’amministratore291. Il
289 Depongono per l’applicazione della norma ad ipotesi atipiche di ingerenza di fatto nell’amministrazione M. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria fra aperture ed incertezze: una prima riflessione, cit., 332; G. Capo, Il governo dell’impresa e la nuova era della società a responsabilità limitata, in Giur. comm., 2003, I, 516; Bartalini, La responsabilità dei soci e degli amministratori, in AA.VV., Le nuove s.r.l., dir. da M. Sarale, Bologna, 2008, 617 ss., 674, che individua come campo di applicazione anche “quello in cui possa dimostrare la sussistenza di autorizzazioni di fatto degli atti dannosi”; Abriani, Art. 2476, in Cod. comm. s.r.l., dir. da P. Benazzo e S. Patriarca, Milano, 2006, 360 ss., 380, il quale ritiene che analoga responsabilità sia “configurabile anche in capo ai soci che abbiano influenzato il compimento dell’operazione dannosa in assenza di una previsione statutaria che ne legittimasse l’intervento.”; Di Amato, Le azioni di responsabilità nella nuova disciplina della società a responsabilità limitata, in Giur. comm., 2003, I, 286, 303 ss.; Proto, Le azioni di responsabilità contro gli amministratori nella società a responsabilità limitata, in Fall., 2003, 1142; Perrino, La rilevanza del socio nella s.r.l.: recesso, diritti particolari, esclusione, in Giur. comm., 2003, I, 817; Salafia, Il muovo modello di società a responsabilità limitata, in Soc., 2003, 5, 9. Contra A. Irace, La responsabilità per atti di eterogestione, cit., 188-189, secondo la quale le voci “decisioni dei soci” ed “autorizzazioni” andrebbero intese alla luce dell’art. 2479 c.c. M. Cian, Le competenze decisorie dei soci, in Tratt. S.r.l. dir. da C. Ibba e G. Marasà, Padova, 2009, 3 ss., 5, descrive l’art. 2476 co. 7 quale disposizione “la cui specialità, lungi dal giustificarsi con il riferimento a situazioni « anormali » di ingerenza del socio nella gestione, sganciata da qualsiasi investitura formale (amministratore di fatto), si collega tipicamente e proprio all’istituzionalizzazione del suo (più o meno ampio, ma mai del tutto eliminabile) coinvolgimento nel governo dell’impresa, per effetto dei poteri riconosciutigli dalla legge o dallo statuto./ In tale prospettiva, nel quadro legislativo così profondamente rinnovato dalla riforma del 2003, diviene assai poco producente qualsiasi approccio di tipo comparativo, tra il ruolo del socio in seno all’organizzazione dell’ente, nella s.r.l., e quello assunto dagli azionisti, nella s.p.a. (…)”. 290 Così S. Rossi, Deformalizzazione delle funzioni gestorie, cit., 1064, nt. 11: “Proprio l’attribuzione di competenze gestorie a singoli soci o all’intera compagine sociale, in considerazione della collegata responsabilità, potrebbe finire per essere sancita in patti parasociali che, su tali materie, potrebbero continuare a trovare campo di applicazione anche nella nuova s.r.l., nonostante la più ampia libertà concessa ai partecipanti di regolare gli specifici rapporti e posizioni nello statuto sociale, proprio perché non soggetti ad obblighi di pubblicità”. 291 Così Abriani, Gli amministratori di fatto nelle società di capitali , Milano, 1998, 216. Questo passaggio della relazione ministeriale, in particolare, parrebbe avvalorare un’interpretazione attenta alla sostanza anziché alla forma della cogestione: “si tiene in tal modo conto delle caratteristiche del tipo societario in questione e della circostanza che nella concreta realtà in esso molto spesso l’effettivo potere di amministrazione non corrisponda all’assunzione della relativa veste formale e che, pertanto, la mancata assunzione della prima non può divenire facile strumento per eludere la responsabilità che deve incombere su chi la società effettivamente gestisce. Sarà naturalmente compito soprattutto dell’interprete, individuare, con riferimento alle specifiche circostanze del caso concreto, le caratteristiche che dovrà assumere il comportamento del socio per comportare l’assunzione della responsabilità prevista dalla disposizione”. M. Cian, Le competenze decisorie dei soci, cit., 39, 41, 44-45, coglie nell’estensione della responsabilità di cui al penultimo comma dell’art. 2476 la scelta legislativa di accordare agli
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riconoscimento di tale intento, però, sollecita un’estensione ulteriore della sfera
di applicazione della norma sulla responsabilità dei soci di s.r.l., consentendo di
riferirla altresì all’esercizio della funzione amministrativa nelle società per
azioni. Nell’ottica della “auspicata revisione in senso antiformalistico”292 delle
regole sulla correttezza gestoria, infatti, la collocazione della norma nella
disciplina della s.r.l. appare una scelta determinata esclusivamente
dall’osservazione dell’id quod plerumque accidit293, non già dalla volontà di
consentire che l’adozione della forma giuridica della s.p.a. rappresenti la via per
evitare che condotte degli azionisti sostanzialmente coincidenti con quelle dei
soci di s.r.l. possano fuggire dalle responsabilità che solo per i secondi sono
state espressamente previste.
È facile notare la coincidenza di argomenti rispetto all’analisi condotta con
riguardo all’art. 2467 c.c. In effetti sembra che nell’analisi comparata della
posizione del socio di s.p.a. e del socio di s.r.l. si reiteri attraverso più istituti un
medesimo problema, che è sintetizzabile in ultima istanza come una questione di
approccio interpretativo. Se l’assetto codicistico anteriore alla riforma ha reso
adusi a individuare un flusso di norme e principi dalla s.p.a. verso la s.r.l.,
l’attuale caratterizzazione autonoma delle seconde e soprattutto l’autonomia dei
privati nel forgiare fattispecie che pur sotto il nomen iuris di un tipo siano di
fatto assai prossime a quello limitrofo, sembrano costringere l’interprete a
concepire un flusso bidirezionale della disciplina, salvi ovviamente gli ambiti di
imperatività delle norme294. La prospettiva adottata nel presente scritto induce,
“interessi in generale protetti dall’edificio corporativo” una tutela certo sviluppata “in altre forme e ad altri livelli”, ma comunque sussistente e tale da potere ritenere compatibile con il sistema degli “interessi indisponibili del mercato” ad una sana e corretta gestione financo l’attribuzione integrale delle funzioni amministrative alla collettività dei soci (salvi, nel caso da ultimo detto, i doverosi presidi statutari volti ad “assicurare l’inaccessibilità a tali prerogative da parte di soggetti inidonei”). 292 Abriani, Art. 2476, cit., 381. 293 La soluzione è di V. Meli, La responsabilità dei soci nella s.r.l., cit., 684, il quale considera altresì l’affinità con la disciplina della responsabilità da attività di direzione e coordinamento, salvo evidenziare la possibilità di dare rilievo ai sensi dell’art. 2476 anche ad atti isolati di ingerenza. 294 S. Rossi, Deformalizzazione delle funzioni gestorie, ibidem, sottolinea che «proprio la creazione di un autonomo e organico complesso di norme destinato alla s.r.l. pone oggi un problema nuovo, quella della possibile applicazione analogica di norme della s.r.l. al modello azionario, problema che si è posto finora assai di rado per la particolare conformazione della disciplina, che giustificava un transito di disposizioni “a senso unico”», e giustifica «la
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anzi, a fare un passo successivo. Appurata la libertà non solo nel modellare i tipi
sociali295, ma anche nel disegnare le forme di partecipazione alle relative
organizzazioni, constatata più specificamente la polisemanticità del termine
“azione” piuttosto che del più recente “strumento finanziario”, sembra di dover
adeguare l’esegesi in modo da poter superare l’etichetta prescelta dalle parti e
considerare piuttosto gli assetti di governance in concreto realizzati. Così
pensando, l’estensione analogica del settimo comma dell’art. 2476 - come quella
dell’art. 2467 – non si attua rispetto all’azionista in quanto tale, ma rispetto a
colui che partecipa all’organizzazione sociale con una posizione omologa a
quella del socio di s.r.l., potendo quindi indifferentemente trattarsi di un
configurazione di una responsabilità dei soci-gestori anche nella s.p.a. (…) nell’ottica di garantire coerenza ed equilibrio complessivo al sistema», cogliendo «il vantaggio di allineare e riequilibrare la disciplina della responsabilità da gestione nella s.r.l. e nella s.p.a. a fronte di istanze di tutela che appaiono del tutto omogenee ed equivalenti, evitando usi “alternativi” dei modelli al solo scopo di eludere regimi che appaiono ingiustificatemente più severi. » Di simile avviso è Benazzo, La “nuova” s.r.l. tra rivoluzione e continuità: il ruolo degli interpreti, in Riv. soc. 2006, 647 ss., il quale invita dottrina e giurisprudenza ad «affrancarsi dalla suadente quanto però esiziale “apatia razionale” che ne aveva ottenebrato l’attività di interpretazione e di applicazione delle norme elaborate dal legislatore nel 1942 (…)» e ammette tra i riflessi dell’acquisita autonomia della s.r.l. nei confronti della s.p.a. «che si possano addirittura invertire i rapporti che tradizionalmente sono stati instaurati tra le due discipline, attribuendo così, ad entrambe, pari (e reciproca) dignità e aprendo in questo modo la possibilità di rinvenire in quella della s.r.l. norme e principî destinati a influenzare, se non anche a integrare, l’assetto normativo proprio del modello azionario». Gli artt. 2476, settimo comma, e 2467, entrambi letti alla luce della disciplina dettata per la direzione e coordinamento, sono colti dall’Autore quale espressione di principi generali e in quanto tali sono ritenuti interpretabili con il canone di flessibilità appena indicato. 295 S. Fortunato, I principi ispiratori della riforma, cit., 728, tratta della c.d. “neutralità” dei modelli organizzativi emergenti dalla riforma nel quadro della prevalza della “flessibilità” sulla tipicità, indicando la crisi della seconda in due profili, quello strutturale e quello funzionale. Rileva in tal senso l’ampia disponibilità riconosciuta nella definizione della struttura organizzativa, in ragione della quale all’interno del tipo il passaggio dal modello di default a quelli statutariamente eligibili – ovverosia, nella s.r.l., dal c.d. modello capitalistico attenuato, a quello personalistico o viceversa nettamente capitalistico - prescinde da alcun procedimento di trasformazione. Quest’ultimo istituto, del resto, testimonia a propria volta la suddetta neutralità, specialmente perché nella versione c.d. eterogenea dà prova del superamento degli ostacoli di carattere causale. C. Angelici, Note sulla responsabilità degli amministratori di società a responsabilità limitata, in Riv. soc. 2007, 1217, distingue la scelta legislativa operata per s.r.l. e s.p.a., sottolineando che nelle prime “la funzione amministrativa si colloca al centro di un rapporto tra i soci e tra essi e gli amministratori: sicché resta nella loro disponibilità e, per quanto concerne le sue modalità di svolgimento, diviene possibile intenderle come vicende rilevanti anche e soprattutto per siffatti rapporti, in definitiva contrattuali”, mentre nelle seconde l’organizzazione, e in particolare il riparto di funzioni, assumono rilevanza oggettiva, non meramente contrattuale, perché aventi finalità ulteriore rispetto alla disciplina dei rapporti tra soci e amministratori, il che “consente ed impone la considerazione analitica degli interessi con cui si entra in contatto nel mercato” e il riconoscimento come inderogabile della disciplina della responsabilità degli amministratori.
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azionista o di un titolare di strumenti finanziari, senza necessità di ricorrere a
una doppia analogia. In questo specifico caso, peraltro, la posizione associabile
agli strumenti finanziari e quella riferibile al socio di s.r.l. risultano agevolmente
sovrapponibili, visto il parallelismo tra i particolari diritti di cui all’art. 2468 co.
3 e quelli di cui all’art. 2351 c.c. In relazione ad entrambe le figure si può, in
particolare, rilevare la volontà legislativa di dare uno spazio formale
nell’organizzazione corporativa a fenomeni di ingerenza gestionale - nell’un
caso dei soci, nell’altro dei finanziatori – noti alla prassi e attratti dalla sfera
della patologia a quella normalità con il veicolo della soggezione alla
responsabilità risarcitoria 296.
3.1 I contratti di finanziamento quali sindacati di gestione attratti al
piano “sociale” in veste di strumenti finanziari partecipativi.
Collocati gli strumenti finanziari nel sistema delle tutele endosocietarie per la
partecipazione ai processi decisionali o quantomeno per la trasparenza di questi
ultimi, individuate in particolare le correlazioni tra controllo e responsabilità, si
può ora procedere all’analisi di uno degli interrogativi posti all’esordio della
presente trattazione, vale a dire quale verosimilmente sia l’incidenza delle
innovazioni apportate dalla riforma rispetto all’ammissibilità e all’utilità delle
garanzie parasociali per l’investimento.
L’esame delle tecniche di allineamento informativo nei contratti di
finanziamento interseca lo studio dei patti parasociali nel fulcro comune a
entrambe le tematiche: la traslazione del potere gestionale. Il riferimento va a
quei peculiari patti, noti come “sindacati di gestione”, nei quali “i soci sindacati
si impegnano a discutere e decidere i più rilevanti aspetti della gestione
societaria e a far sì che gli amministratori da essi designati diano attuazione alle
296 S. Rossi, Deformalizzazione, cit., 1064, scrive riferendosi all’art. 2476 c.c.: «La norma, paradossalmente, quasi liberalizza l’attività di immistione dei soci nella gestione poiché non prevede conseguenze “punitive”, come accade, invece, nella società in accomandita semplice in cui il socio accomandante che compia anche un solo atto di gestione si vede addossata la responsabilità per tutte le obbligazioni sociali (…). La responsabilità prevista in capo ai soci gestori di s.r.l. si manifesta invece come conseguenza “naturale” della assunzione di potere gestorio, per i danni che l'uso scorretto di tale potere possa provocare. »
116
decisioni gestorie assunte in sede parasociale”297. Dare ingresso nella fattispecie
a soggetti non soci, così da poter annoverare tra le convenzioni parasociali anche
i contratti di finanziamento contenenti clausole di cogestione o di controllo,
evidentemente non è un’estensione neutra rispetto al ragionamento, perché porta
anzi a sommare ulteriori profili di problematicità ai dubbi che pur dopo la
riforma continuano a corredare la rilevanza del “parasociale”298. Il confine fra
ciò che è “sociale” e ciò che tale non è, infatti, diviene incerto ogniqualvolta si
considerano pattuizioni stipulate al di fuori dell’organizzazione corporativa
eppure efficaci nel condizionare l’attività dell’ente, giacchè in tal caso può porsi
il dubbio che si tratti piuttosto di esercizio della capacità negoziale della società
stessa.
Il tema non è ignorato dalla dottrina, né anteriore299 né successiva alla riforma.
297 Così M. M. Pratelli, Problemi in tema di “sindacati di gestione”, in Giur. comm., 2005, 112; in tema pure Bochicchio, Gestione d’impresa e di interessi nelle società per azioni ordinarie ed in quelle speciali, in Contr. Imp., 1994, 304; Sbisà, Patti parasociali e responsabilità degli amministratori, in Contr. Imp., 1996, 448; Fiorio, sub artt. 2341 bis e 2341 ter c.c., in Il nuovo diritto societario, diretto da Cottino-Bonfante-Cagnasso-Montalenti, vol. I, Bologna, Zanichelli, 2004, 147; Semino, I patti parasociali nella riforma delle società di capitali: prime considerazioni, in Società, 2003, 348; Fontana, I patti parasociali, in Bortoluzzi (a cura di), La riforma delle società. Aspetti applicativi, Torino, Utet, 2004, 680; Galgano, Ghenghini, Il nuovo diritto societario, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da Galgano, vol. XXIX, I, Padova, Cedam, 2004, 90; Pavone La Rosa, I patti parasociali nella nuova disciplina delle società per azioni, in Giur. comm., 2004, I, 6. 298 Nell’ormai vasta bibliografia rimangono fondamentali sul tema gli interventi di Oppo, Contratti parasociali, Milano, Vallardi, 1942 (ripubblicato in Scritti Giuridici, II, Diritto delle Società, Padova, Cedam, 1992, 1 ss.); Bonelli e Jaeger, Sindacati di voto, cit.; Buonocore-Calandra Buonaura-Corsi-Costi-Gambino-Jaeger, Un revirement della Cassazione in materia di sindacati di voto?, in Giur. Comm., 1997, II, 50; Cottino, Le convenzioni di voto nelle società commerciali, Milano, Giuffrè, 1958; Cremasco-Lambertini, Governo delle imprese e patti parasociali, Padova, Cedam, 2004; Farenga, I contratti parasociali, Milano, Giuffrè, 1987; Rescio, I sindacati di voto, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, vol. 3°, Torino, Utet, 1994,483 ss; Riolfo, I contratti parasociali, Padova, Cedam, 2003; Torino, I contratti parasociali, Milano, Giuffrè, 2000; nonché le voci enciclopediche di Farenga, Patti parasociali, in Dig. Disc. Priv., sez. comm., XI, Torino, UTET, 1995, ad vocem, e Fauceglia, Patti parasociali, in Enc. dir., V Agg. Milano, Giuffrè, 2001, ad vocem. 299 Sostiene la soluzione negativa L. Farenga, I contratti parasociali, 1987, 132, che parla, in caso di stipulazione diretta da parte della società, di attività negoziale, non parasociale, con ricaduta diretta, non indiretta, sulla società medesima. Si è anche discusso dell’eventualità che una società dia accettazione espressa, con impegno di esecuzione, ad un patto di sindacato già stipulato dai suoi soci. Gli esempi sono frequenti all’estero (sulla prassi anglosassone di far partecipare la società al patto parasociale, si veda L. Simonetti, Gli “shareholders’agreements” in Inghilterra, nel volume Sindacati di voto e sindacati di blocco, a cura di Bonelli e Jaeger, Milano, 1993, 442, ove si trovano evidenziate la contraddizione rispetto all’esigenza di segretezza e la perdurante difficoltà di ottenere risarcimento in caso di violazione dell’accordo; al riguardo si possono leggere nel volume appena citato le Appendici IV.2 e IV.5 A.B.C.), meno in Italia (ha fama il caso Enimont,
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Questa seconda, in particolare, ha individuato a sostegno dell’interpretazione
estensiva della nozione di “patto parasociale” argomenti anzitutto letterali: l’art.
2341 bis c.c. fa parola di patti in qualunque forma stipulati, e indica quali
finalità alternative la stabilizzazione degli assetti proprietari o il governo della
società. Ebbene, si ritiene che, se gli assetti proprietari evocano i sindacati di
blocco e/o di voto tra soci, il riferimento al governo della società potrebbe
lasciare spazio anche a fattispecie che coinvolgano direttamente la società in
rapporto a un terzo estraneo300. In effetti, se si considerano le clausole che la
prassi suggerisce a completamento dei contratti di finanziamento non si fatica a
individuare lo scopo di stabilizzare il governo della società debitrice.
Quali soggetti possano stipulare un patto parasociale non è, però, l’unico profilo
oggetto di discussione. È opinata, inatti, anche la rilevanza della collocazione
“formale” delle convenzioni in discorso. L’espressione “patto parasociale” è
spesa da taluno per individuare non solo contratti materialmente separati dal
contratto sociale, ma anche particolari clausole nello stesso conglobate, eppure
rispetto ad esso distinguibili in forza di parametri di tipo sostanziale. Altri
promuovono piuttosto una soluzione di tipo formale, che considera se una
clausola è collocata o meno in seno allo statuto offrendo in tale modo una
definizione “negativa” di patto parasociale, confinato lì ove non c’è contratto
sociale301. Il punto non è trascurabile in generale, visto che ne deriva
l’applicazione della disciplina civilistica delle obbligazioni e dei contratti
riportato nel volume Sindacati di voto e sindacati di blocco a cura di Bonelli e Jaeger, cit., sub Appendice II.15). 300 G. Santoni, Dei patti parasociali, in La riforma delle società, a cura di M. Sandulli e V. Santoro, Torino, 2003, Tomo 1, 90. 301 Vari i criteri “sostanziali” proposti per tenere distinte le due categorie di clausole statutarie: “parasociali” sarebbero così, a seconda della filosofia sposata, quelle che disciplinano i rapporti fra soci, o piuttosto quelle che consentono ai soci di perseguire un interesse esclusivamente individuale, o quelle indifferenti all’organizzazione o, ancora, le norme che riguardano un socio in quanto tale, a prescindere dalla sua partecipazione alla società. Per un’analisi delle contraddizioni cui tali posizioni conducono si rinvia a R. Costi, I patti parasociali e il collegamento negoziale, Giur. comm., 2004, I, 200 ss., anticipando che la conclusione che ivi si legge è nel senso di escludere che possa esservi spazio per il parasociale all’interno del contratto sociale, giacché una clausola è sociale nel momento stesso in cui è collocata nello statuto sociale (d’avviso analogo anche Angelici, La costituzione della società per azioni, in Tratt. dir. priv., a cura di P. Rescigno, vol. XVI, Torino, 1985, 233; Galgano, Le società per azioni, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., VII, Padova, 1988, 95). La problematica è stata di recente riesaminata da Rescio, I patti parasociali nel quadro dei rapporti contrattuali dei soci, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum, I, cit., 447 ss.
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anziché di quella che presiede ai rapporti propriamente societari302, ed è anzi di
particolare significato nel caso che qui ci occupa. Va infatti notato come con
riferimento alla disciplina degli strumenti finanziari, che il legislatore ha
espressamente rimesso alla sede statutaria, si potrebbe parlare di un inserimento
del parasociale nel sociale303. L’osservazione sarebbe del resto in linea con
quella suggerita dall’apertura all’autoregolamentazione in materia di diritto di
voto e di circolazione delle azioni, ossia che è stata intenzione del legislatore
riconoscere un’efficacia reale ad accordi tradizionalmente parasociali304.
Similmente si può concludere con riguardo all’ampia autonomia statutaria della
s.r.l. e al mancato rinvio alla disciplina dei patti parasociali, poiché può ritenersi
che l’impiego di questi ultimi sia oramai superato dalla possibilità di dare,
tramite lo statuto, “effetti c.d. reali ai patti parasociali”305.
D’altro canto la distinzione tra parasociale ed extrasociale sortirebbe come unico
effetto una non auspicabile sottrazione ai vincoli pubblicitari e di durata imposti
dagli artt. 2341 bis e 2341 ter c.c.306.
La riforma, per parte sua, non ha aiutato nella risoluzione dei problemi
accennati307 visto che, a fronte di un’apparente definizione in positivo, l’art.
302 Fois, Sindacati di voto e corporate governance: un problema tra ordinamento e sistema della società per azioni, in Governo dell’impresa e mercato delle regole, Scritti giuridici per Guido Rossi, I, Milano, 2002, 235 ss. 303 Spada, C’era una volta la società…, in Riv. not., 2004, 1, 9, definisce la partecipazione del sottoscrittore di strumenti finanziari quale “partecipazione parasociale, onde descrivere – solo descrivere – che il rapporto società/sottoscrittori di strumenti finanziari è, per i suoi contenuti obbligatori ed organizzativi, contiguo al rapporto sociale; ma, pur, sempre, altro dal rapporto sociale. Quest’ultimo è il rapporto di cui l’ente è esponenziale; quello è rapporto che si instaura con l’ente (…)”. 304 Libertini, Riflessioni generali, cit., 252-253, il quale ravvisa in questa scelta legislativa la funzione di dare stabilità al gruppo di controllo, ma anche quella di sollecitare l’apporto di risorse rendendo accessibili “posizioni particolarmente appetibili anche nell’organizzazione sociale”. 305 Gambino, Spunti di riflessione sulla riforma, cit., 652. 306 Rescio, I patti parasociali nel quadro dei rapporti contrattuali dei soci, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum G.F. Campobasso, cit., 448, afferma che la “categoria concettuale degli «altri patti extrasociali» assolve, quindi, una funzione essenzialmente conoscitiva”. Egli peraltro distingue ulteriormente tra patti parasociali “in senso stretto” e “in senso lato”, ove i secondi sarebbero quelli parasociali per tradizione (quelli sulla ripartizione degli utili ad esempio) o per scelta di norma settoriale, eppure non rientranti nella fattispecie delineata dall’art. 2341 bis e dunque sottratti alla relativa disciplina. Conclude però sottolineando l’irrilevanza pratica, oltre che la difficoltà teorica, della diversificazione tra extrasociale e parasociale in senso lato. 307 Lo sottolinea Lombardi, I patti parasociali nelle società non quotate e la riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2003, I, 267 ss., ove dice “che – oggi più di ieri - appare
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2341 bis c.c. – come, d’altro canto, le norme speciali che l’hanno preceduto -
non solo contempla una parte ristretta dei patti noti alla dottrina e alla prassi, ma
fa ciò oltretutto fornendo una descrizione dai confini incerti. La chiave
d’identificazione è stata, infatti, prescelta sul piano dello scopo - “stabilizzare gli
assetti proprietari o il governo della società” - e la disciplina ha posto presidi
nell’interesse dei terzi più che dei contraenti.
Non rimane allora che osservare, con riguardo alla fattispecie che qui interessa,
la persistente utilità di un richiamo al senso etimologico dell’aggettivo
“parasociale”, che identifica i patti in discorso evocando un rapporto di
separazione ma anche di “coesistenza, di affiancamento, di collegamento”:
perché più che mai nel caso delle convenzioni volte a contenere il rischio del
finanziamento si nota la volontà di non confondere il patto con lo statuto eppure
di incidere fortemente su questo308.
3.2 La disciplina degli strumenti partecipativi quale parametro di
meritevolezza di patti parasociali sul cogoverno di terzi.
Quanto detto non esime dal partecipare ai dubbi sulla possibilità di parlare dei
patti parasociali in termini di contratti tipici, totalmente esclusi dal limite di
meritevolezza posto dall’art. 1322 c.c. Sembra anzi condivisibile
maggiormente difficile individuare, tra sociale e parasociale, un discrimen certo, fondato sui criteri della spettanza dell’interesse sotteso al patto, della c.d. direzione del vincolo, della natura organizzativa del patto”. Ripropone il problema pure S. Mazzamuto, I patti parasociali: una prima tipizzazione legislativa, in Contratto e impresa, 2004, 1097, che, interrogandosi sul nuovo ruolo riconosciuto all’autonomia privata, invita a rimeditare la distinzione tra sociale e parasociale soprattutto in tema di s.r.l., “proprio rispetto a quegli statuti che utilizzeranno gli spazi offerti dalla legge di riforma e si arricchiranno di clausole volte a disciplinare non solo l’interesse dell’ente, ma anche quello dei soci, dei creditori, dei dipendenti e, perché no, la c.d. «etica sociale dell’ente»”. 308 Quanto all’aggettivo “parasociale”, è nota la paternità di Oppo, Contratti parasociali, cit., 2 ss.; Id., Le convenzioni parasociali tra diritto delle obbligazioni e diritto delle società, in Riv. dir. civ., 1987, I, 541. Quanto, in particolare, al collegamento, riportiamo le parole di R. Costi, I patti parasociali e il collegamento negoziale, cit., 212: “Se si vuole continuare a parlare, in una chiave essenzialmente descrittiva, dei rapporti fra contratto sociale e convenzione di voto in termini di collegamento tra negozi, si deve allora dire che, sia pure sulla base di norme aventi collocazione diversa nel nostro sistema giuridico, il collegamento tra contratto sociale e convenzione di voto è un collegamento bilaterale e non unilaterale, dal momento che, almeno nelle società per azioni quotate e in quelle aperte, le vicende del rapporto parasociale incidono pesantemente sul rapporto sociale. Risulta così smentita la tesi secondo la quale le convenzioni di voto sarebbero irrilevanti per la società”.
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l’affermazione309 per cui la menzione legislativa, così come operata, non vale a
rendere tipiche le figure negoziali che contempla, ma al più a limitare, seppur
considerevolmente, la discrezionalità nel valutarne la meritevolezza. Si parla di
“tipizzazione di principio”, ferma la necessità di misurare la compatibilità con le
norme inderogabili.
È proprio da questa conclusione che l’analisi del coinvolgimento dei creditori
nei meccanismi di governance sembrerebbe poter trovare sviluppo. A tal
proposito il primo quesito da porre è se la duplice tipizzazione intervenuta con la
riforma, ossia dei patti parasociali da un lato e degli strumenti finanziari
dall’altro, abbia incidenza sul vaglio della meritevolezza. Emerge, in particolare,
una delle maggiori perplessità sollecitate dagli accordi in questione, ossia se è
coerente al sistema prevedere un’ingerenza diretta o indiretta di terzi nella
gestione sociale. La difficoltà consiste nell’ammettere l’ingresso nel processo
decisionale di un interesse estraneo a quello sociale, e complica quella già
delicata comparazione tra interessi che costituisce il cuore dell’indagine sui patti
parasociali. In effetti, l’apprezzamento del parasociale può ridursi in nuce a una
stima degli interessi coinvolti, come si può desumere dai toni che il dibattito ha
assunto con riguardo all’ipotesi di coinvolgimento dei creditori: a fronte di una
tesi minoritaria che esclude l’ingresso di qualsiasi interesse extrasociale a
prescindere da un’ipotetica compatibilità con quello sociale310, si è affermata
309 R. Costi, I patti parasociali e il collegamento negoziale, cit., 206-207; Lombardi, I patti parasociali, cit., 269; S. Mazzamuto, I patti parasociali: una prima tipizzazione legislativa, cit., 1090-1091, il quale sottolinea che: “Non sono, poi, ricompresi nella definizione normativa – e quindi non sono soggetti alla disciplina ivi prevista – tutti quei patti che la dottrina e la giurisprudenza, fino ad oggi, hanno denominato patti parasociali (in ragione della loro estraneità al contratto sociale) e che hanno per oggetto (…) la gestione della società e delle sue partecipate, le joint venture commerciali e la pianificazione di investimenti” e ancora, ai fini che qui nello specifico interessano: “Tuttavia, con riferimento alla dizione “governo della società” è legittimo il dubbio che tale dizione possa ricomprendere anche i patti di c.d. gestione, ove si prediliga una nozione ampia di corporate governance capace di estendersi a tutto lo spettro di rapporti che determinano il comportamento dell’ente”; sul punto anche Cremasco-Lambertini, Governo delle imprese e patti parasociali, cit., 92. 310 G. Sena, Il voto nell’assemblea della società per azioni, Giuffrè, Milano, 1961, 330 e 335 afferma la nullità del sindacato che importi l’attribuzione del voto a chi è estraneo alla società, ricorrendo a questi argomenti: “(…) il socio sindacato che vota secondo la decisione di chi è estraneo alla società, svolge un interesse extra-sociale; e non rileva, a mio avviso, che tale interesse extra-sociale possa anche essere solidale con l’interesse comune dei soci, rimane pur sempre un interesse extra-sociale. Non è infatti ammissibile una indagine sull’opportunità del voto o sulla coincidenza fra l’interesse di un terzo e l’interesse sociale nella singola ipotesi
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l’opinione che subordina invece a una previa verifica di tale compatibilità
l’ammissibilità di vincoli di voto a favore di terzi311. Questa seconda prospettiva
pare essere la stessa impiegata dal legislatore nel formulare i primi
riconoscimenti espressi dei patti parasociali312: nell’ambito nel quale questi
(…)”. In termini analoghi, con riguardo ad un accordo con cui si era previsto che, in caso di disaccordo tra le parti, indicazioni vincolanti dovessero pervenire da un collegio di esperti, App. Roma 24.1.1991, Giur. it., 1991, II, 266. Facciamo solo un breve appunto, ricollegandoci a quest’ultima sentenza citata, per segnalare che oggi si trova un’ipotesi di attribuzione esplicita del potere gestorio a soggetti esterni alla società nell’art. 37 D.lgs. n. 5/2003, che si riferisce ad atti costitutivi di s.r.l. o di società di persone che deferiscano ad uno o più terzi, c.d. arbitratori, i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società (cfr., sui dubbi relativi al riparto o concorso di responsabilità in presenza di danni conseguenti alla decisione infine assunta, C. Ibba, La gestione dell’impresa sociale fra amministratori e non amministratori, in Studium Iuris, 2005, 423-424 e 427). 311 Rimangono attuali le parole di Cottino, Le convenzioni di voto nelle società commerciali, Giuffrè, Milano, 1958, 221 e ss.: “Certamente, il terzo persegue scopi che solo occasionalmente possono essere quelli della società. Ciò non significa ancora però che, vincolandosi a votare in un certo modo – che è quello dal terzo voluto o richiesto - il socio si pieghi al soddisfacimento di un interesse in conflitto con quello della società, o avvantaggi un estraneo a danno di quest’ultima o dei consoci. Può osservarsi anzi – e lo si è ampiamente dimostrato in dottrina – coincidenza maggiore rispetto all’interesse comune dei soci nel patto con il terzo e quindi nell’identificazione tra l’interesse del socio nel voto e l’interesse di quest’ultimo (es. banca sovvenzionatrice) – e comunque minor possibilità di contrasto – che in quello tra soci (diretto ad esempio ad estromettere od opprimere una minoranza od attentante a diritti “individuali” dei consoci). Anche nel vincolarsi verso il terzo il socio compie un atto discrezionale: che non è extra o antisociale solo perché egli riconosce od afferma col patto una coincidenza tra il suo e l’interesse altrui ad una certa deliberazione. Ciò sembra particolarmente evidente là dove il patto riguardi l’elezione alle cariche sociali: in cui riuscirebbe tra l’altro difficile operare una distinzione tra estraneo candidato all’elezione e amministratore candidato alla rielezione”. Sostengono la necessità di una verifica in concreto della congruità con l’interesse sociale anche Libonati, Riflessioni critiche sui sindacati di voto, in Riv. dir. comm., 1989, 529 (il quale pensa alla disciplina del pegno e dell’usufrutto di azioni); Mastropaolo, Promessa del fatto altrui, garanzie personali e sindacati di voto, in Riv. dir. comm., I, 1992, 1026 (che parla di “mero motivo irrilevante del voto”); Rescio, I sindacati di voto, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, Utet, Torino, vol. 3**, 1994, 523. Ribadisce di recente questo orientamento Costi, I patti parasociali e il collegamento negoziale, cit., 212, ove afferma che “(…) l’interesse convenzionalmente regolato nell’ambito del patto parasociale (…) può inserirsi nell’ambito del rapporto sociale attraverso l’esercizio del diritto di voto del socio sindacato, naturalmente nei limiti in cui sia compatibile, ai sensi dell’art. 2373 c.c., con l’interesse sociale (…)”. 312 Si pensi agli obblighi pubblicitari imposti dalla legge n. 416/1981 sull’editoria, o da quella n. 223/1990 in materia di radio diffusione e televisione; si pensi ancora alla legge antitrust n. 287/1990, o alla legge n. 20/1991 sulle imprese di assicurazione; al d.lgs. n. 127/1991 sul bilancio consolidato, o al d. lgs. n. 385/1993 in materia bancaria; alla l. n. 142/1992 o alla l. n. 474/1994. Rinviando per approfondimenti a Riolfo, I patti parasociali, cit., 130 ss., ci limitiamo a segnalare l’art. 1 co. 3 d.l. 31 maggio 1994 n. 332, che prevede la costituzione di un “nucleo stabile di azionisti di riferimento” quale strumento per garantire alla società, di cui sono cedute le partecipazioni, “determinate condizioni finanziarie, economiche e gestionali”. Ad interessare è in particolare la qualificazione data al fenomeno da R. Costi, Privatizzazione e diritto delle
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furono introdotti, ossia gli interventi di privatizzazione, vi era palesemente
necessità di dare una regolamentazione capace di contemperare l’interesse
sociale con l’interesse di singoli azionisti, ma anche e soprattutto con interessi
estranei alla compagine, aventi carattere diffuso se non pubblico. Il problema, in
effetti, si pone in termini analoghi per l’accesso al finanziamento, nel quale
devono coniugarsi l’interesse sociale a ottenere sostegno economico al minor
costo, l’interesse degli investitori a delimitare i rischi legati all’erogazione, ma -
considerato il nesso tra investimento in nuovi progetti imprenditoriali e sviluppo
dell’economia latamente intesa - anche gli interessi, per così dire esterni, facenti
capo agli altri creditori e in genere alla collettività. Sennonché la novità della
riforma può essere colta proprio portando il ragionamento sul piano del raffronto
tra le posizioni dei soggetti a vario titolo coinvolti nelle vicende sociali. Il dato
esteriormente evidente è l’acquisita compatibilità con il nostro ordinamento
della previsione che un non socio nomini un amministratore. Il dato implicito si
collega alle riflessioni prima sviluppate sul processo di estensione della nozione
di interesse sociale. Tanto che si ritenga compito dell’interprete ricavare dal
sistema il nuovo significato da attribuire alla sfera del “sociale”, tanto che si
condivida la tesi sulla centralità della volontà delle parti nella “negoziazione”
della relativa definizione, l’esito al quale si perviene è la possibilità di
qualificare come sociale anche un interesse che faccia capo ad un non socio.
società per azioni, in Giur. comm., 1995, 77 ss., che così si esprime: “Siamo in presenza di due patti parasociali, fra loro funzionalmente collegati, dei quali l’uno (che normalmente comprenderà anche un sindacato di voto, del quale viene ancora una volta postulata la legittimità di principio) viene stipulato fra i soli partecipanti e l’altro vede come contraenti lo Stato o, comunque, il soggetto a controllo pubblico che cede la partecipazione, e l’insieme dei partecipanti medesimi che operano, «di concerto» (…). Entrambi i patti parasociali sono anche contratti a favore della società, che può vantare, verso i partecipanti al nucleo, il diritto a vedersi assicurate determinate condizioni finanziarie, economiche e gestionali”. La stessa tecnica si ritrova nell’art. 13 della delibera 30 dicembre 1992 – col quale il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) prevedeva che la dismissione delle partecipazioni statali in società per azioni avvenisse mediante la costituzione di nuclei stabili di azionisti di riferimento, attuata mediante la stipulazione di patti parasociali in grado di assicurare stabilità nell’assetto azionario e unità di indirizzi nella gestione, patti che venivano quindi impiegati al servizio dell’interesse pubblico – ed è stata poi recepita nella disciplina legislativa generale delle privatizzazioni (questo l’art. 1 co. 3 della L. n. 474/1994: “al fine di costituire un nucleo stabile di azionisti di riferimento, la cessione della partecipazione deve essere effettuata invitando potenziali acquirenti …ad avanzare, agendo di concerto, offerte comprensive dell’impegno …di garantire, mediante accordo fra i partecipanti al nucleo stabile, determinate condizioni finanziarie, economiche e gestionali”).
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Per il vero già prima della riforma l’istanza di partecipazione alla governance
poteva definirsi “sociale” anche se proveniente da soggetti che non detenevano
una partecipazione tale da far acquisire la loro volontà come volontà dell’ente.
Anche con riferimento al diritto dei soci di minoranza di nominare un
amministratore si era affermato, infatti, che la riflessione andava articolata non
asserendo un presunto riconoscimento di interessi extrasociali, bensì nella
prospettiva della “acquisita natura sociale dell’interesse al “controllo” e alla
“partecipazione” nella gestione”313. Così impostando il ragionamento si poteva
sostenere la validità di clausole statutarie sull’elezione di amministratori c.d. di
minoranza, ma anche la validità di convenzioni parasociali aventi tale contenuto,
e ciò in base al principio per il quale tutto ciò che può essere recepito in statuto
può essere oggetto di patti rispetto ad esso paralleli314.
A partire dal 2003 il ragionamento può completarsi di un passaggio ulteriore,
giacchè alla possibilità di considerare sociale l’interesse all’interazione nei
processi decisionali può sommarsi l’irrilevanza della circostanza che a portare
tale interesse siano finanziatori non azionisti. Tale indifferenza verso il titolo
prescelto per apportare risorse alla società, essendo stata rivelata dal legislatore
con un consenso esplicito ad attribuire nello statuto poteri amministrativi agli
strumenti finanziari, può con coerenza rispetto a quanto appena detto indurre a
sostenere che nulla osta ad una previsione parasociale di tali diritti. Potrebbe, in
altri termini, arguirsi dalla stessa disciplina codicistica degli strumenti
partecipativi la meritevolezza di patti parasociali che assicurino a particolari
categorie di creditori un ruolo nel governo della società.
3.3 Strumenti parasociali di governo e responsabilità gestoria.
Ammessa la coerenza di tale percorso, vi è però da svolgere un argomento
complementare a quanto sostenuto sulla c.d. eterogestione. Se, infatti, si ritiene
313 Sanfilippo, Funzione amministrativa, cit., 122 ss., spec. nt. 97. 314 Sugli accordi con “finanziatori aventi interesse a vigilare dall’interno la gestione della società finanziata” v. Oppo, Contratti parasociali, cit., 118 ss.; Abbadessa, La gestione dell’impresa nella società per azioni. Profili organizzativi, Giuffrè, Milano, 1975, 168, nt. 103; Jaeger, Nomina degli amministratori: norme inderogabili, cit., 875 ss.; Cottino, Le convenzioni di voto nelle società commerciali, cit., 257 ss., 261, nt. 118.
124
sussistere un principio generale che collega la responsabilità gestoria
all’esercizio di fatto dell’attività di amministrazione a prescindere dalla veste
formale del soggetto agente, allora si deve asserire pure l’irrilevanza della
collocazione formale, nello statuto o in un patto separato, dello strumento
impiegato per l’esercizio del relativo potere.
Il punto può essere esplicitato ricordando le considerazioni che i sindacati di
gestione hanno sollecitato in quanto strumenti di scissione tra titolarità ed
esercizio dei poteri gestionali.
Avendo ad oggetto la gestione stessa di una società, dalla scelta delle persone da
deputare all’amministrazione alla politica economica e finanziaria315, tali patti
sono stati posti in dubbio quanto a validità316. L’argomento invocato è che, se
l’interesse dei soci è un fattore innegabile nella vita di una società, è pure vero
che è connaturato a quest’ultima anche il regime di responsabilità che fa capo
agli amministratori in ragione dell’inderogabilità delle competenze gestorie loro
attribuite. E proprio il fatto che la responsabilità continui a far capo in sede
ultima agli amministratori, porterebbe a considerare intollerabile ogni restrizione
315 Possono essere letti, a titolo esemplificativo, alcuni dei patti di sindacato pubblicati in appendice al volume Sindacati di voto e sindacati di blocco a cura di Bonelli e Jaeger, cit., ed in particolare il Sindacato Ligure L., art. 8, p. 506, il Sindacato Montedison del 1975, artt. 11 e 13, p. 609; il Sindacato Gemina, art. 9, p. 617; il Sindacato Burgo, art. 11, p. 625; il Sindacato Enimont, art. 11, p. 690. 316 Su tale linea di rigore si assesta, tra gli altri, P. Schlesinger, Oggetto delle clausole dei sindacati di voto, nel volume Sindacati di voto e sindacati di blocco, Bonelli e Jaeger (a cura di), cit., 107-109, ove precisa che il potere del sindacato “di dare direttive agli amministratori va considerato sempre inammissibile, a prescindere dal loro contenuto o dalla loro convenienza o meno (…)”. Anche coloro che propendono per la validità, del resto, sostengono la compatibilità col principio della responsabilità dei gestori affermando che – per usare le parole di B. Libonati, Il problema della validità dei sindacati di voto, in Bonelli e Jaeger (a cura di), cit., 21 - “certamente, nessun comportamento potrà essere formalmente preteso dagli amministratori; i soci sindacati hanno nella sostanza garantito il comportamento degli amministratori da loro prescelti, ma questi sono liberi stante la loro discrezionalità in ordine alla gestione societaria, nella consapevole e responsabile tutela dell’interesse sociale. Si tratta dunque della promessa del fatto di un terzo, come tale consentita, anzi regolata dalla legge. L’efficacia del patto è evidentemente limitata, ma in quell’ambito non è contestabile”. Ad essere esclusa sarebbe, insomma, non la consultazione ma la sua efficacia vincolante. Si concentra sull’efficacia vincolante dei patti anche P. Trimarchi, Coercibilità dei sindacati di voto, in Bonelli e Jaeger (a cura di), cit., 116-117, che la esclude in un duplice senso: se gli amministratori sono estranei al patto, proprio per tale estraneità; se vi partecipano, perché “le responsabilità presuppongono l’autonomia giuridica e dunque, di nuovo, l’assenza di una soggezione a centri di decisione esterni”. Approfondisce le ragioni dell’una e dell’altra tesi, con dovizia di riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, M. M. Pratelli, Problemi in tema di “sindacati di gestione”, cit., 115-118.
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all’autonomia degli amministratori stessi nel perseguimento dell’interesse
sociale. Il che significa che, quand’anche fosse ammissibile un ruolo di guida, o
quantomeno di controllo della gestione, da parte dei creditori, comunque
andrebbe operato un contemperamento con gli interessi che competono agli
amministratori in ragione delle responsabilità alle quali sono esposti e andrebbe
pertanto escluso di poter riconoscere carattere vincolante alle direttive gestorie.
Quanto agli amministratori di diritto, ante riforma l’ossequio ad un patto di
gestione era considerato in analogia con l’ipotesi di esecuzione di una delibera
assembleare, sebbene in assenza di un atto immediatamente riferibile alla società
parlare di ossequio alla volontà di quest’ultima non fosse più automatico. Chi
identificava la volontà dei soci di maggioranza con quella della società diceva
che nella sostanza nulla mutava, salvo che il divieto di venire contra factum
proprium avrebbe operato nel primo caso verso la società - escludendo
un’azione di responsabilità fondata sull’ossequio alla delibera - nel secondo caso
verso i singoli soci consenzienti, con rischio a carico degli amministratori in
ipotesi di mutamento della compagine sociale. Sarebbe rimasta, naturalmente, la
responsabilità verso i terzi e verso i soci dissenzienti, responsabilità fondata
sulla competenza esclusiva degli amministratori per l’attuazione degli atti di
gestione317.
Il profilo che più in questa sede rileva, però, non è la sorte di chi è di diritto
amministratore, bensì quella di chi amministra senza rivestire tale funzione. È in
questa seconda prospettiva che merita, dunque, di essere sviluppata l’analogia
con l’attività gestoria svolta dai soci mediante strumenti endosocietari, così da
valutare se la relativa responsabilità possa costituire un limite alla rivisitazione
delle relazioni tra le posizioni di interesse legate all’impresa.
Appunto a tale ultimo riguardo vi è una considerazione da svolgere in via
preliminare, ossia che se la responsabilità patrimoniale e quella risarcitoria
dovessero riconoscersi – come pare debba farsi – in capo ai titolari di strumenti
317 Per indicazioni bibliografiche e conferme giurisprudenziali degli assunti esposti si veda Sbisà, Patti Parasociali e responsabilità degli amministratori, cit., 454-455; Picone, Consenso dei soci e responsabilità degli amministratori, nota ad App. Milano, 20 gennaio 1998, in Soc., 1998, 1043; Franzoni, Gli amministratori e i sindaci, in Società, Trattato diretto da Galgano, Torino, 2002, 13.
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finanziari per l’attività di partecipazione al governo sociale, ma non dovessero
riconoscersi in capo ai finanziatori che conoscono il medesimo grado di
coinvolgimento nella gestione per il solo fatto che i relativi poteri si fondano su
pattuizioni non incorporate nello statuto sociale, allora la scelta degli strumenti
finanziari sarebbe con ogni probabilità negletta a favore di pur meno efficaci
accordi parasociali. Questo argomento non è in sé giuridicamente decisivo, ma
tale può divenire se letto alla luce della costante interpretativa che collegando la
responsabilità all’attività e non alla carica gestoria vuole evitare che il ricorso
all’esercizio occulto dei poteri amministrativi possa eludere le tutele poste
dall’ordinamento a favore dei terzi. È facile fare riferimento, a tal fine,
all’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale in tema di amministratore di
fatto318. Va peraltro tenuto presente che il ricorso a tale figura non porta esiti
identici rispetto all’applicazione dell’art. 2476, co. 7, poiché presuppone il
compimento diretto e sistematico di atti di gestione, non già la mera decisione o
autorizzazione eventualmente anche isolata degli stessi, e prescinde di
conseguenza da qualsivoglia vincolo di accessorietà rispetto all’azione e dunque
alla responsabilità dell’amministratore di diritto319. Soprattutto vi è da
considerare che, mentre nulla osta a che un non socio sia qualificato
amministratore di fatto, l’applicazione dell’art. 2476 a terzi richiederebbe il
318 Un tempo dibattuto, oggi è considerato principio consolidato che l’esercizio sistematico delle funzioni amministrative è sufficiente, pur in assenza di investitura formale, a rendere applicabili agli amministratori di fatto le norme dettate a disciplina delle responsabilità degli amministratori di diritto. Tra gli interventi giurisprudenziali in materia si ricordano Cass., 27 febbr. 2002, n. 2906, in Giur. it., 2002, 1424; Cass., 6 marzo 1999, n. 1925, in Giur. it., 2000, 770 ss.; App. Milano, 4 maggio 2001, in Giur. it., 2002, 1229 ss.; tra gli autori Abriani, Gli amministratori di fatto delle società di capitali, Milano, 1998, 226 ss.; Spiotta, Fallimento, amministratore di fatto, responsabilità: osservazioni sul tema, in Giur.it., 2006, 979 ss. Sempre in tema di dissociazione tra titolarità ed esercizio dei poteri, appare significativo che la Relazione alla riforma abbia ricondotto la volontà legislativa sottesa all’art. 2476, co. 7, c.c. alla “circostanza che nella concreta realtà [in esso] molto spesso l’effettivo potere di amministrazione non corrisponde all’assunzione della relativa veste formale e che, pertanto, la mancata assunzione della prima non può divenire un facile strumento per eludere la responsabilità che deve incombere su chi la società effettivamente gestisce”. 319 V. Meli, La responsabilità dei soci nella s.r.l., in Liber amicorum, cit., 667 ss., 677-678. C. Angelici, Note sulla responsabilità degli amministratori di società a responsabilità limitata, cit., 1217, tiene distinta la responsabilità di cui al penultimo comma dell’art. 2476 da quella riferibile al c.d. “amministratore di fatto”, argomentando che “si tratta di una responsabilità che non si spiega per l’assunzione in fatto di compiti amministrativi (conseguente, in certo modo, ad una violazione delle regole organizzative della società), bensì per l’esercizio di poteri attribuiti al soggetto in quanto socio”.
127
ricorso all’analogia e darebbe luogo, almeno secondo un’accreditata opinione
dottrinale, a “gravi incongruenze”320. Si ritiene, infatti, che una simile estensione
della norma determinerebbe che un terzo stabimente ingeritosi
nell’amministrazione possa avvantaggiarsi di un regime di responsabilità che per
il requisito soggettivo dell’intenzionalità e per il presupposto oggettivo del
concorso dell’attività degli amministratori risulta di più difficile attuazione. Così
in effetti sarebbe se si considerasse l’applicazione della norma dettata per i soci
di s.r.l. alternativa rispetto alla figura dell’amministratore di fatto; ma se in nulla
si vuole considerare pregiudicata l’invocabilità della seconda disciplina ove ne
ricorrano i presupposti, allora il riferimento all’art. 2476 può rappresentare un
quid pluris in termini di tutela, consentendo di dichiarare responsabile un non
socio anche per il compimento di atti singoli di ingerenza produttivi di danno.
Sembra dunque che il profilo conclusivo della riflessione, applicabile anche al
ragionamento sulla fattispecie de qua, sia che un trattamento differenziato tra
soci e non soci finirebbe col contraddire il processo di deformalizzazione delle
responsabilità gestorie più volte evidenziato. Ciò non volendo, si deve escludere
che la scelta di strumenti parasociali per l’allocazione di poteri di governo possa
valere ad eludere le conseguenze giuridiche connesse all’esercizio di tali
prerogative.
320 V. Meli, ibidem.
128
Capitolo IV
Gli strumenti finanziari partecipativi e la privatizzazione dell’insolvenza
9. Strumenti finanziari partecipativi e allineamento informativo tra
solvenza e insolvenza.
L’integrazione degli investitori nell’organizzazione societaria è stata sin qui letta
nell’ottica della competitività, perché in tale prospettiva sembra essere stata
concepita la riforma della struttura finanziaria della società per azioni e in
particolare l’introduzione di strumenti ibridi. Sennonché, se si considera che
nell’assetto economico italiano la sottoscrizione e la gestione in chiave
partecipativa di tali titoli presuppongono quantomeno nella generalità dei casi
l’esercizio professionale del credito, le aperture legislative a forme di
coinvolgimento dei finanziatori nella governance si prestano a essere al
contempo interpretate quali indici del superamento del principio di separatezza
tra banca e industria. Un piano d’indagine, quest’ultimo, che introduce a
considerare i vantaggi che la detta integrazione potrebbe presentare non solo per
la crescita dimensionale e concorrenziale dell’impresa, ma anche per il
superamento di stati di crisi321. Gli strumenti finanziari avrebbero in questo
quadro il ruolo di congiunzione tra la disciplina della solvenza e quella
dell’insolvenza. L’allineamento informativo al quale essi sono funzionali
potrebbe, infatti, operare non solo come garanzia del corretto impiego delle
risorse erogate, ma anche per rendere tempestivamente avvertiti i finanziatori
circa eventuali sofferenze della società, consentendo in tal modo di superare uno
dei principali ostacoli all’efficacia degli interventi per il risanamento delle
imprese, ossia la conoscenza tardiva dell’opportunità di agire in tale senso. È
peraltro da credere che per i finanziatori vi sarebbe la convenienza oltre che la
321 Sul tema dei rapporti bidirezionali banche-imprese si vedano, ex multis, Associazione Disiano Preite, Un documento dell’associazione Disiano Preite sui rapporti fra banche e imprese, in Banca borsa, 2006, 233 ss.; intervento del Governatore della Banca d’Italia M. Draghi, Economia, mercati finanziari, banche, in www.bancaditalia.it/interventi_comunicati/integov/12072006/draghi_12_07_06.pdf- Stanghellini, Il ruolo dei finanziatori nella crisi d’impresa: nuove regole e opportunità di mercato, in Fall., 2008, 1075, descrive il finanziamento alla ristrutturazione stragiudiziale come un mercato “chiuso e difficile”, nel quale “le sole erogatrici di finanza sono le banche già esposte”.
129
concreta possibilità di evitare procedure concorsuali di liquidazione. A fronte
del rischio di un’applicazione dell’art. 2467 c.c., infatti, evitare che si manifesti
lo stato di insolvenza che di tale norma è il presupposto322 equivarrebbe a evitare
che i vantaggi derivanti dall’integrazione nella governance siano annullati da
una possibile postergazione o da una condanna alla restituzione delle somme
percepite. Alla medesima valutazione di convenienza condurrebbe del resto la
prospettiva di una condivisione delle responsabilità gestorie, anch’esse come
noto per lo più attivate in sede fallimentare.
Le utilità egoistiche non sarebbero però le uniche a prodursi. Nello studio della
privatizzazione del fallimento quale soluzione che giova all’intera collettività in
quanto efficiente nel consentire la conservazione delle imprese attive e
nell’ottica di un risparmio delle spese connesse alle procedure giudiziali, gli
strumenti finanziari paiono avere la potenzialità di rispondere a istanze più
estese di quelle riconducibili a coloro che se ne fanno formalmente sottoscrittori.
Col che la contrapposizione tra ragioni contrattualistiche e istituzionalistiche
appare ulteriormente sfumata. Torna, in diversa veste, la possibilità di ravvisare
nelle forme contrattuali e legali di tutela due percorsi distinti, tra loro in
concorrenza sul piano dell’efficacia ma diretti al medesimo risultato e costretti a
una coesistenza che riflette, anche nei diversi equilibri che nel tempo e nelle
circostanze la connotano, l’intrecciarsi di una pluralità di interessi sociali e
parasociali323. Ricorrono, nel quadro appena delineato, altri profili già
322 V. in argomento, per una sintesi dei diversi approcci, Presti, Art. 2467, cit., 98, 112 ss. Tra le voci a sostegno di una rilevanza non esclusivamente concorsuale della norma si ricorda G. Balp, I finanziamenti dei soci, cit., 345 ss., a cui si rinvia (nt. 35) anche per ulteriori riferimenti bibliografici; la posizione dell’Autrice appare, inoltre, di particolare interesse ove ipotizza di escludere dal campo applicativo dell’art. 2467 i finanziamenti effettuati da soci nel tentativo si superare una crisi prefallimentare, come anche quelli erogati da terzi sulla base di un piano di ristrutturazione, sottolineando la grave contraddizione nella quale diversamente ritenendo si incorrerebbe rispetto alla l’esplicita sottrazione alla revocatoria fallimentare, nonché rispetto all’implicita volontà legislativa di tutelare i creditori sociali favorendo operazioni di risanamento. 323 Fabiani, Autonomia ed eteronomia nella risoluzione dei conflitti nel nuovo diritto concorsuale, in Fall., 2008, 1098 ss., 1099, registra “la difficoltà di ricercare un sistema che vanti una coerenza di fondo” a fronte del rilievo per cui “la presenza di stakeholders impone – per necessità – che vi sia una eteroregolamentazione del mercato delle crisi, mentre per altro verso le suggestioni del diritto privato porterebbero ad una prefrenza per l’autoregolamentazione delle regole”, e auspica che il diritto dei privati si coniughi con quel “diritto che nasce dai principi” (nt. 11) e che è “immanente al nuovo sistema”.
130
considerati nell’analisi degli strumenti finanziari partecipativi: il problema del
confine tra controllo ed eterogestione; l’alternativa tra operare l’integrazione
nella governance in modo trasparenza o con patti collaterali; la prospettiva,
soprattutto, della responsabilità per lo svolgimento di attività gestoria. Alla
considerazione di tali aspetti, nel confronto tra gli esiti ravvisabili a partire
dall’indagine della solvenza o dell’insolvenza, saranno pertanto dedicate le
pagine che seguono.
2. L’antecedente storico delle attuali forme privatistiche di soluzione
della crisi.
Si diceva, nel paragrafo che precede, di come l’integrazione nel governo
societario possa rivelare il superamento del divieto assoluto di commistione tra
istituti di credito e mondo dell’industria. Aggiungiamo ora che nella linea che fa
contigui la crescita e il declino dell’impresa si incontra con regolarità il tema dei
rapporti banca-impresa, rinnovato dagli interessi che le svolte, ora economiche
ora politiche ora giuridiche, portano di volta in volta sotto i riflettori.
La storia del nostro paese è buona guida in un simile percorso, se si pensa a
come dopo la crisi del ’29 si sia passati dalla logica del “salvataggio statale” alla
riscoperta, sul finire degli anni Settanta, delle partecipazioni bancarie
strumentali al recupero crediti324, fino ad approdare alle Istruzioni della Banca
d’Italia del 1993325, al Codice di comportamento A.B.I.326, al T.U.B., alla
324 Per una ricostruzione storica di dettaglio e di interesse si rinvia a N. Irti, Dal salvataggio statale all’intervento bancario, in Riv. soc., 1996, 1081 ss., nonché a P. Schlesinger, Convenzioni bancarie di salvataggio, in Fall., 1997, 893 ss., a S. Bonfatti, L’intervento delle banche nel risanamento delle imprese in crisi, in Fall., 2003, 939 ss. ed a R. Santini, Il percorso delle soluzioni stragiudiziali alle crisi d’impresa, in Giur. comm., 1998, I, 609 ss.; A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, in Giur. comm., 1994, 510 ss.; P. Anello-S. Rizzino Bisinelli, Partecipazione delle banche e dei gruppi bancari in imprese industriali, in Soc., 1994, 19 ss. Più in generale, sull’economia mista in Italia, G. Visentini, Principi di diritto commerciale, Padova, 2006, 75 ss. 325 Le Istruzioni di vigilanza in materia di partecipazioni detenibili dalle banche e dai gruppi bancari (Titolo IV, cap. 9, sez. V) prevedono specifiche disposizioni per l’acquisizione di partecipazioni non finanziarie per recupero crediti o in imprese in temporanea difficoltà finanziaria nonché per la comunicazione delle predette iniziative all’Organo di Vigilanza. Su quest’ultimo aspetto, nell’agosto 2003, sono state modificate le modalità con cui le banche portano a conoscenza della Banca d’Italia le iniziative della specie. È stato previsto l’invio, in luogo della documentazione relativa
131
riforma delle società di capitali nonché a quelle sulle procedure di insolvenza e
sulla tutela del risparmio.
Ad accomunare le varie tappe v’è, come costante, una interessenza, ossia
un’implicazione dell’interesse della banca creditrice e dell’interesse
dell’impresa327. A variare è il ruolo della banca, che si alterna nel finanziamento
e nella gestione con un moto oscillatorio328 che sollecita l’interprete a definire il
regime applicabile quanto a responsabilità. Ma a variare è altresì la veste che
storicamente ed economicamente, prima ancora che giuridicamente, questi
rapporti banca-impresa assumono.
Se si pensa alla fase lato sensu di crisi, l’associazione con l’esperienza delle c.d.
convenzioni di salvataggio e con i relativi diverbi dottrinali è immediata. Non
altrettanto immediata è invece l’individuazione di una fattispecie
corrispondente.
La fluidità della materia in esame e l’irriducibilità delle varie convenzioni ad
uno schema tipico, del resto, sono note 329. Per quanto le Istruzioni della Banca
all’operazione - delibera del Consiglio di amministrazione, principali elementi caratterizzanti l’iniziativa (nel caso di interessenze per recupero crediti), piano di risanamento dell’impresa debitrice (con riguardo alle partecipazioni in imprese in temporanea difficoltà) - di una comunicazione successiva attestante il rispetto delle condizioni previste dalla normativa e recante gli elementi necessari ai fini della valutazione dei riflessi delle iniziative sugli equilibri tecnici delle banche (cfr. Bollettino di Vigilanza n. 8/2003). Alla luce dell’esperienza maturata, la suddetta procedura è stata (con provvedimento del 14 febbraio 2006) ulteriormente modificata in un’ottica di semplificazione operativa e riduzione degli oneri informativi in capo ai soggetti vigilati. In particolare, si è previsto che le iniziative della specie debbano essere comunicate alla Banca d’Italia successivamente alla loro realizzazione, non più con una specifica informativa, bensì nell’ambito dell’ordinaria segnalazione relativa agli «Assetti partecipativi Enti (APE)». 326 Pensato per crisi reversibili con esposizioni notevoli, volto ad accelerare i tempi dell’accordo, risale all’aprile 2000, porta la denominazione “Codice di comportamento tra banche per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare le crisi di impresa” e si può leggere in Banca, borsa e tit. cred. , 2000, I, 417 ss., con commento di F. Maimeri, Sistemazioni stragiudiziali delle crisi di impresa e codice di comportamento bancario. 327 N. Irti, Dal salvataggio statale all’intervento bancario, cit., 1084. 328 Di questo nuovo volto della banca parla R. Vivaldi, Soluzione negoziale dell’insolvenza: responsabilità civile delle banche nella crisi d’impresa, in Fall., 1998, 557, che pensa ad un coinvolgimento nella gestione derivante da attività di consulenza se non da effettiva partecipazione al capitale, ravvisando nella consacrazione legislativa di tale facoltà il passaggio progressivo dal principio della separatezza tra banca ed impresa al principio della loro integrazione. L’interrogativo conseguente è se questo nuovo assetto possa essere speso quale criterio interpretativo nella confusione di ruoli e di responsabilità che facilmente si intuisce. 329 Come ha evidenziato R. Santini, Il percorso delle soluzioni stragiudiziali alle crisi d’impresa, cit., 618, “non esiste una soluzione stragiudiziale tipica, ma una serie di possibili soluzioni caratterizzate ognuna da una certa specificità, pur con alcuni aspetti in comune”. In tal senso G. Domenichini, Convenzioni bancarie ed effetti sullo stato di insolvenza, in Il fall. , 1996, 841; F.
132
d’Italia e il Codice di comportamento ABI abbiano contribuito a individuare gli
elementi fondamentali di ogni accordo c.d. di salvataggio, la prassi ha poi
elaborato modalità alternative per aggirare i vincoli all’acquisizione diretta di
partecipazioni azionarie, se non per avvantaggiarsi di sgravi fiscali o per
confrontarsi con la realtà dei gruppi di imprese330.
Peraltro proprio tale mutevolezza nelle forme è di stimolo per chi si interessi
della materia, soprattutto se si trova a farlo leggendo gli ultimi dettami
legislativi in tema di piani di risanamento e di accordi di ristrutturazione dei
debiti con l’intento di misurare la forza dimostrata dalla prassi e dai suoi
interpreti nell’imporsi all’attenzione del legislatore. Al di là delle dichiarazioni,
ora d’intenti ora di soddisfazione, che vedono nei nuovi istituti l’ossequio
legislativo alla politica di privatizzazione dell’insolvenza, sembra in effetti di
poter dire che progenitrice di tali accordi sia proprio l’esperienza delle
convenzioni di salvataggio. A fare la somiglianza sono non solo il campo
d’applicazione e i soggetti coinvolti, ma anche i problemi che fanno da
contorno. Problemi di forma e di contenuto, ma soprattutto di qualificazione e di
collocazione sistematica, che rimangono, per lo più irrisolti, a fare da trait de
union tra le note convenzioni e i neo-accordi, ma anche a porre il dubbio
sull’effettiva portata tipizzante della novella e sull’effettiva incidenza della
stessa nella prospettiva di una coesistenza di vecchi e nuovi moduli piuttosto che
di un loro superamento reciproco. Di qui l’importanza di ricostruire il
salvataggio delle imprese in crisi recuperando brevemente, nell’ottica della
continuità, il dibattito recente e non su questi temi, per poi soffermarsi sulla
qualificazione e sulla rilevanza sistematica del fenomeno stesso nell’ottica, già
evidenziata, della continuità con gli interventi di riforma della struttura
finanziaria delle società per azioni.
Bonelli, Nuove esperienze nella soluzione stragiudiziale della crisi delle imprese, in Giur. comm., I, 1997, 488. 330 Questo, semplificando, il metodo di ricapitalizzazione impiegato nel caso Belleli e descritto in F. Bonelli, Nuove esperienze nella soluzione stragiudiziale della crisi delle imprese, cit., 490: viene costituita una nuova società, cessionaria dei crediti delle banche che ne ottengono in pegno le azioni; convertendo i crediti ceduti, tale società diviene azionista della società in crisi, che vede così reintegrato il suo capitale.
133
3. La tecnica legislativa della“tipizzazione di principio” applicata agli
accordi di ristrutturazione dei debiti e ai piani di risanamento.
L’ingresso delle convenzioni di salvataggio nella sfera del “legislativamente
previsto” è avvenuto secondo due differenti tecniche.
La prima si connota nel tollerare la sopravvivenza di forme di opacità dello stato
di crisi e delle iniziative per superarlo. I piani di risanamento, infatti, non
presuppongono una contrattazione col ceto creditorio, potendo essere predisposti
unilateralmente, e non sono soggetti a pubblicità, essendo condizionati
nell’effetto di escludere da revocatoria gli atti di esecuzione solamente dalla
necessaria presenza di un’attestazione di un esperto.
La seconda tecnica, già sperimentata con la riforma delle società - quotate
prima, di capitali in genere poi - ha viceversa quale nota caratterizzante la
volontà di portare all’emersione quelle prassi che, procedendo nel nome
dell’autonomia privata, all’ombra e al limite degli assetti giuridici precostituiti,
sono nel tempo divenute fenomeni economici prepotenti e difficilmente gestibili
proprio in ragione della vocazione a essere tenuti quanto più possibile nascosti.
Basta pensare ai patti parasociali e ai gruppi: segreti per tradizione, trovano un
incentivo alla pubblicità nel premio, codificato, della stabilità e della liceità.
Oggi possono avere posto tra gli esempi anche gli accordi di ristrutturazione,
attratti nella sfera del giudiziale dalla possibilità di ottenere, per mano dei
Giudici, protezione ad almeno alcuni dei punti deboli che una procedura
totalmente stragiudiziale lascia inevitabilmente scoperti.
L’ iter dettato dall’art. 182 bis l. fall. in apparenza è semplice. L’accordo già
concluso con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti va
depositato in Tribunale unitamente a una relazione redatta da un esperto
sull’attuabilità dell’accordo stesso, nonché pubblicato presso il registro delle
imprese. La data della pubblicazione segna l’acquisto dell’efficacia331
331 Il Tribunale di Brescia, con decr. 22 febbraio 2006, in Fall., 2006, 669-670, annotato da G.B. Nardecchia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, 670 ss., ha affermato dell’accordo in discorso: “per il principio di cui all’art. 1326 codice civile, esso si conclude nel momento in cui l’ultima accettazione giunge a conoscenza di tutte le altre parti, che nel caso di specie si presume con il deposito e la pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese”. Per una rassegna delle diverse posizioni dottrinali sull’efficacia dell’accordo, si vedano Presti, Gli accordi di
134
dell’accordo e il decorrere del termine di trenta giorni assegnato per le eventuali
opposizioni dei creditori e di ogni altro interessato. Il Tribunale, decise le
opposizioni, procede all’omologazione con decreto motivato, eventualmente
reclamabile. Atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione
dell’accordo omologato sono esenti dall’azione revocatoria (art. 67 co. 3 lett. e),
l. fall.). In realtà, i dubbi che la lettera della norma legittima sono più d’uno e
sulla più parte di essi, dopo i primi eppure già diffusi interventi dottrinali, non
rimane forse che attendere la giurisprudenza332.
Comune alla formulazione dei due istituti è la scelta di concentrare l’attenzione
solo sugli esiti premiali, trascurando - con evidenti le simmetrie rispetto agli
strumenti finanziari - un’identificazione rigorosa delle fattispecie. Tant’è che né
l’art. 67 co. 3 lett. d) nè l’art. 182 bis offrono alcuna indicazione sul contenuto
del piano o degli accordi. Certo, al silenzio si può supplire con
un’interpretazione sistematica, ma l’ampiezza dello spazio riconosciuto
all’autonomia privata appare piuttosto dover essere letto quale incentivo a
investire nel risanamento dell’impresa accordato dal legislatore al ceto creditizio
attraverso il riconoscimento della facoltà di procedere in completa autonomia
sui contenuti, fino a contemplare ipotesi risolutive della crisi ma lesive della par
condicio creditorum333. È in tale flessibilità che si tenta di delineare le note
distintive degli accordi di ristrutturazione rispetto ai piani concordatari334 e a
ristrutturazione dei debiti, in Banca, borsa e tit. cred., 2006, 37; A. Bello, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella riforma della legge fallimentare, in Riv. not., 2005, 340. 332 Valgano ad esempio le divergenze sul contenuto della “dichiarazione” di cui all’art. 182 bis - ma che non compare nell’art. 161 – e che per alcuni è la dichiarazione di raggiungimento dell’accordo che si chiede sia omologato (Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005, 126), per altri è l’attestazione di veridicità dei dati impiegati (Canale, Le nuove norme sul concordato preventivo e sugli accordi di ristrutturazione, in Punzi C., Ricci E.F. (a cura di), Le nuove norme processuali e fallimentari, Padova, 2005, 219), per altri ancora ha la funzione di ricorso introduttivo della procedura (Fortunato, L’incerta riforma della legge fallimentare, in Corriere giur., 2005, 597; Panzani, Il D.L. 35/05, la legge 14 maggio 2005, n. 80 e la riforma della legge fallimentare, in www.fallimento.ipsoa.it, 2005, 15; Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 16). 333 Sulla par condicio creditorum quale principio cardine del fallimento, nonché sulla sua progressiva erosione, si veda A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, Giur. comm., 1994, 500 ss. 334 Il rapporto tra accordi di ristrutturazione e concordato preventivo divide chi vede nei primi una sottospecie del secondo (una sorta di concordato semplificato possibile solo in presenza di uno stato di crisi, vincolante anche per i creditori estranei, con paralisi delle azioni esecutive e con idoneità a rendere prededucibili in caso di successivo fallimento i crediti esecutivi
135
quelli di risanamento335. Il limite discende dagli stessi principi contrattualistici
dell’unanimità336 e della relatività dei vincoli negoziali337, traducendosi
nell’intangibilità dei diritti dei creditori estranei. È a presidio di questi che sono
dispiegate la professionalità e la responsabilità dell’esperto incaricato di redigere
il piano – che l’art. 182 bis menziona portando alla mente, oltre a non pochi
dell’accordo: di questa opinione, tra gli altri, Ferro, I nuovi strumenti di regolazione negoziale dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori: storia italiana della timidezza competitiva, in Fall., 2005, 595; Id., Art. 182 bis, la nuova ristrutturazione dei debiti, in Il nuovo diritto delle società, 2005, 56; Valensise, Accordi di ristrutturazione dei debiti, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, I, 1088) e chi – i più - preferisce considerare le due fattispecie come pienamente autonome tra loro (E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182 bis legge fall.) e gli effetti per coobbligati e fideiussori del debitore, in Dir. fall. , 2005, I, 857; Lo Cascio, La nuova legge fallimentare: dal progetto di legge delega alla miniriforma per decreto legge, in Fall., 2005, 362; G. Fauceglia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge n. 80/2005, in Fall., 2005, 1448; Fortunato, L’incerta riforma della legge fallimentare, in Corriere giur., 2005, 599; G. Giannelli, Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti, piani di risanamento dell’impresa nella riforma delle procedure concorsuali. Prime riflessioni, in Dir. fall ., 2005, I, 1170; A. Jorio, Le soluzioni concordate delle crisi d’impresa tra “privatizzazione” e tutela giudiziaria, in Fall., 2005, 1457; Panzani, Il D.L. 35/05, la legge 14 maggio 2005, n. 80 e la riforma della legge fallimentare, in www.fallimento.ipsoa.it, 2005, 15; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 16 ss.; C. Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Fall., 2006, 129). Le prime pronunce di merito hanno mostrato di considerare l’accordo di cui all’art. 182 bis un istituto “autonomo rispetto al concordato, trattandosi di un contratto consensuale plurilaterale, di natura sostanzialmente privatistica, per cui non sono applicabili né estensivamente né analogicamente le norme stabilite per il concordato preventivo” (Tribunale di Brescia 22 febbraio 2006, cit.; Tribunale di Bari 21 novembre 2005, cit.). 335 Sulla polifunzionalità degli accordi di ristrutturazione, potenzialmente utilizzabili per la liquidazione se non per la continuazione dell’impresa, alla quale ultima sono invece vincolati i piani di risanamento, cfr. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 29; Ferro, I nuovi strumenti di regolazione negoziale dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori: storia italiana della timidezza competitiva, cit., 596; P. Valensise, Accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 1093. 336 Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 20, nonché Id., L’art. 182 bis al primo vaglio giurisprudenziale, cit., 173, individua quale differenza fondamentale tra concordato preventivo e accordi di ristrutturazione il fatto che per questi ultimi il requisito del 60% è condizione non già per l’esistenza giuridica, ma solo per l’omologa dell’accordo, e va calcolato sull’intera esposizione debitoria, compresa quella privilegiata. Nega quindi che vi sia una maggioranza superiore a quella concordataria, anzi, nega che vi sia un’aliquota ad indicare una maggioranza, visto che l’accordo di ristrutturazione è un contratto di diritto privato, retto dal principio dell’unanimità delle parti contraenti. Semplicemente, a Suo giudizio, il legislatore avrebbe ritenuto che solo gli accordi che riguardino almeno il 60% dell’esposizione complessiva siano idonei ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei e quindi meritevoli di un trattamento di favore. Di qui il carattere meramente eventuale di un coinvolgimento dei creditori. 337 Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, ibidem - ma è di questa idea anche C. Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 140 - sottolinea che dall’inquadramento nel diritto dei contratti discende l’applicazione del principio di relatività, per cui il contratto ha forza di legge tra le parti ex art. 1372 c.c., ma non può intaccare le posizioni degli estranei.
136
dubbi338, l’advisor delle convenzioni bancarie – ma anche il vaglio giudiziale in
sede di omologa339.
D’altronde il piano di ristrutturazione, per quanto idoneo al soddisfacimento
esatto degli estranei340, produce inevitabilmente esternalità: positive in caso di
superamento della crisi, visto che i creditori estranei all’accordo otterranno
338 Superato con l’intervento del 2007 il problema dei requisiti di professionalità dell’esperto, rimane quello determinato dalla mancanza di una richiesta espressa di un’attestazione di veridicità dei dati aziendali assunti a riferimento. Un giudizio di attendibilità di tali dati pare però ineludibile, se si considera che tra i maggiori profili di criticità nel rapporto debitore-creditori vi è l’asimmetria informativa: l’intermediazione di un terzo avrebbe quindi senso non solo per il giudizio da lui espresso, ma anche per garantire l’attendibilità delle notizie su cui poggia il piano (in questi termini Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 34; U. De Crescienzo e L. Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, cit., 71 e ss.; Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, cit., 126; critico è C. Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 133, il quale esclude che l’esperto possa recepire acriticamente dati palesemente non credibili o contraddittori, ma ritiene che il controllo debba essere documentale e da operarsi sul presupposto della veridicità delle scritture, e conclude affermando la superfluità del deposito, vista la valutazione previa di fattibilità dell’accordo effettuata da debitore e creditori). 339 Così, tra gli altri, V. Vitalone, Al debutto gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Dir. e prat. fall., 2006, 28 ss. Si ritiene che il Tribunale debba anzitutto verificare la conformità a legge della documentazione depositata, quindi la sussistenza e l’attuabilità dell’accordo e dell’allegato piano, eventualmente disponendo c.t.u. e assumendo anche d’ufficio tutte le prove e informazioni necessarie (cfr. Ambrosini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella nuova legge fallimentare, in Fall., 2005, 951, il quale è però aperto alla sola c.t.u.; Ferro, Ristrutturazione dei debiti (accordi di), in M. Ferro (a cura di) Le insinuazioni al passivo, I, Padova, 2005, 700; Fabiani, Ristrutturazione dei debiti con omologazione obbligatoria, in Il Sole 24 Ore del 6 gennaio 2006). Il silenzio del legislatore ha peraltro lasciato spazio per sostenere che, per quanto il giudizio di omologazione debba avvenire pur in assenza di opposizioni, in tal caso si atteggi quale mero controllo di legittimità formale, senza indagine in merito all’attuabilità dell’accordo (De Crescienzo e Panzani, Il nuovo diritto fallimentare. Dal maxiemendamento alla legge n. 80 del 2005, cit., 74; Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 138). 340 È opinione ormai pressoché condivisa che per pagamento “regolare” debba intendersi quello integrale e tempestivo. Sul punto, per una ricostruzione di dettaglio delle varie posizioni, si fa rinvio a P. Valensise, Accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 1093, nota 54, nonché a Presti, L’art. 182 bis al primo vaglio giurisprudenziale, cit., 175, ove sottolinea che, visto che il regolare pagamento dei creditori estranei fa parte ex lege del contenuto del piano, in caso di successivo fallimento anche essi andranno esenti da revoca (ecco perché il piano deve essere analitico: per distinguere le operazioni che ne sono l’esecuzione). Le prima giurisprudenza ha dato conforto alla dottrina affermando che “per regolare pagamento dei «creditori estranei» (dissenzienti, privilegiati per cui si prevede il regolare pagamento, ed estranei veri e propri) si deve intendere l’esatto pagamento del debito alla sua scadenza e non il pagamento secondo le regole concordate tra il debitore e i creditori aderenti all’accordo” (Trib. Brescia, 22 febbraio 2006, cit.; contra però decr. Trib. Milano 21 dicembre 2005 - pubblicato e commentato, con tono critico, in uno con il decreto del Tribunale di Brescia appena citato; nel primo senso, più di recente, App. Trieste, 4 sett. 2007, in Dir. Fall. , 2008, II, 297 ss., con nota di Manente, Non omologabilità degli accordi ex art. 182 bis legge fallim. e procedimento per dichiarazione di fallimento del debitore, 297 ss. ).
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piena soddisfazione341; negative in caso di successivo fallimento, considerata
l’esenzione da revocatoria delle garanzie che siano state eventualmente concesse
agli aderenti all’accordo. Sono non da ultime queste esternalità a richiamare
l’attenzione sul ruolo dell’autorità giudiziaria.
4. La centralità del ruolo del giudice in relazione alla atipicità delle
nuove fattispecie.
Il tema della pervasività dell’intervento giudiziario in sede di giudizio di
omologazione degli accordi di ristrutturazione o di vaglio successivo del piano
attestato è per più profili delicato. Oltre all’incertezza se un sindacato di merito
sull’attuabilità dell’accordo debba esservi solo in caso di opposizioni ex art. 182
bis342 o sempre343, oltre al rischio che il rifiuto dell’omologazione si traduca in
341 Così Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 26, che si pone il problema del c.d. free riding, che lui chiama “prendere un passaggio gratis”: ossia il rischio che alcuni creditori speculino sul maggiore interesse di altri alla ristrutturazione, contando che questi vi procederanno comunque. Egli ritiene che la soglia del 60% tenda a scoraggiare l’opportunismo dei creditori non piccoli, e aggiunge che probabilmente è economicamente più efficiente che i piccoli creditori commerciali si comportino da parassiti a spese di quelli maggiori, visto che questi ultimi hanno maggiori strumenti per valutare ex ante il rischio del credito e gestirlo professionalmente, monitorare la situazione economica e finanziaria del comune debitore, vagliare le concrete possibilità di ristrutturazione e negoziarla. 342 Di tale avviso pare C. Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Fall., 2006, 138, che osserva come, nell’analogo caso del concordato preventivo, il Tribunale abbia il dovere di controllare solo la “completezza e regolarità della documentazione”, senza avere il potere di esercitare un controllo di merito, eccetto nel caso di contestazioni o di dissenso di classi di minoranza. Ritiene pertanto che in mancanza di opposizioni non possa essere esercitato alcun controllo di merito, salvo il rifiuto di omologa ove non sia raggiunta la soglia del 60% o vi sia manifesta contraddittorietà, anche con i documenti prodotti, della relazione. Il punto, invero, si è rivelato problematico fin dai lavori preparatori, dividendo i commissari su due fronti: da un lato coloro che volevano riservare al tribunale il potere di valutare autonomamente il piano, se non altro per garantire tutela ai creditori estranei o dissenzienti; dall’altro coloro che escludevano un sindacato di merito sulla convenienza o fattibilità del piano, quanto meno in assenza di opposizioni e dunque di elementi nuovi su cui fondare una valutazione divergente da quella espressa dalla maggioranza dei creditori (G. Santoni, La tempestività dell’intervento giudiziario e il ruolo del giudice nella crisi anticipatoria, in Dir Fall., 2004, I, 743 ss.). 343 Così U. De Crescienzo e L. Panzani, Il nuovo diritto fallimentare. Dal maxiemendamento alla legge n. 80 del 2005, Ipsoa, Milano, 2005, 71 ss.; L. Panzani, Il D.L. 35/2005 e la riforma della legge fallimentare, tratto da www.fallimento.ipsoa.it; V. Vitalone, Al debutto gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Dir. e prat. fall., 2006, 31. Una conferma giurisprudenziale sembra possa oggi essere letta nel decr. Trib. Bari 21 novembre 2005, in Fall., 2006, 169, con nota di G. Presti, L’art. 182 bis al primo vaglio giurisprudenziale, il quale, a pag. 175, scrive: “La delicata valutazione sull’attuabilità dell’accordo e la sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei, a cui è connesso il salvacondotto dalla revocatoria, non può essere lasciata al caso dell’opposizione dei soggetti interessati il cui termine di esercizio decorre da un evento (la pubblicazione nel registro delle imprese) la cui
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una dichiarazione di fallimento d’ufficio344, è più in generale l’approccio agli
spazi lasciati in bianco nella nuova disciplina a condizionare il successo di
quest’ultima. Anche in questo senso si riconosce ai giudici un ruolo cardine
nella gestione dell’insolvenza e si ritiene condivisibile l’affermazione per la
quale la soluzione privatistica è divenuta concepibile e attuabile nel nostro
ordinamento grazie a un cambiamento che ha negli anni coinvolto non solo
l’impresa e la banca, ma anche e innanzitutto “la mentalità del giudice, che non
è più un mero liquidatore di patrimoni, ma il mediatore di tutta quella congerie
rovente di interessi confliggenti che si coagulano intorno all’impresa in
crisi” 345.
Questo nuovo atteggiamento, che si è dapprima mostrato nelle sue potenzialità
come “interpretazione evolutiva”, orientata a leggere le pur rigide norme
procedural-concorsuali con la filosofia della riorganizzazione piuttosto che della
liquidazione346, oggi potrebbe farsi – in uno con l’esenzione dalla revocatoria –
conoscenza non è affatto agevole per chi non abbia le risorse e le competenze per tenere costantemente sotto controllo il registro. Il tribunale, dunque, dovrà procedere sempre alla verifica dell’attuabilità dell’accordo con particolare riguardo alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei, se del caso anche mediante la disposizione di apposita consulenza tecnica”. 344 Questo ovviamente ove sia ravvisabile, alla luce della documentazione allegata o delle opposizioni svolte, uno stato di insolvenza già in atto e non superabile. Sul punto cfr.: S. Bonfatti, La promozione e la tutela delle procedure di composizione negoziale della crisi d’impresa nella riforma della legge fallimentare, in www.iudicium.it, 15; A. Bello, Gli accordi di ristrutturazione, cit., 340. Sul presupposto della crisi, nel senso che, per quanto non richiesta espressamente, è inverosimile che il debitore proponga – e che i creditori accettino - un accordo indipendentemente da essa, cfr. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 31; Id., L’art. 182 bis al primo vaglio giurisprudenziale, cit., 174, ove, comunque, si mostra perplesso innanzi all’ipotesi che un tribunale neghi l’omologazione ad un accordo perché “eccessivamente anticipatore della situazione di pericolo”. Ancora, in argomento, R. Gismondi, La nuova disciplina del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in www.dircomm.it/2005/n.7.8/03.html, 7. 345 R.Vivaldi, Soluzione negoziale dell’insolvenza: responsabilità civile delle banche nella crisi d’impresa, cit., 557. In tal senso pure G. Sansone, La tempestività dell’intervento giudiziario e il ruolo del giudice nella crisi anticipatoria, in Dir. Fall ., 2004, I, 743, ove sottolinea che “l’efficienza della gestione delle crisi d’impresa non passa unicamente attraverso una modifica legislativa, ma soprattutto attraverso un processo culturale di tutti coloro che ne sono interessati”. 346 Sulla forza delle valutazioni dei giudici nell’orientare lo svolgimento delle procedure, cfr. G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, in Riv. soc., 1996 , 321 ss., in particolare ove (nt. 14 pag. 326) riporta il caso della Serafino Ferruzzi s.r.l., esemplare per l’attenzione mostrata dal Tribunale nel calibrare i tempi della procedura sui tempi delle trattative stragiudiziali, in modo da favorire il raggiungimento di un accordo pur senza pretesa di
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elemento trainante e fondamentale nell’affermazione di questa nuova chiave di
risoluzione dell’insolvenza.
La tecnica legislativa prescelta per la definizione dei nuovi istituti rende difficile
parlare di una vera tipicità sostitutiva del vaglio giudiziale di meritevolezza. Con
ciò non si vuole negare che questo prodotto legislativo sia l’esito della fluidità
che già caratterizzava l’esperienza stragiudiziale delle convenzioni di
salvataggio, né si vuole negare il vantaggio di un più ampio raggio
d’applicazione per la nuova disciplina; si intende piuttosto ribadire la centralità e
insieme la delicatezza del ruolo del giudice e in genere dell’interprete. In queste
considerazioni vi è l’occasione per ricordare quanto già rilevato sulla necessità
che si acquisti consapevolezza del nuovo ruolo di cui la giurisprudenza è
richiesta nella gestione della possibilità che l’acquisita complessità finanziaria
della società per azioni, in uno con l’ampia autonomia statutaria, determini una
alterazione degli equilibri tra interessi interni ed esterni alla singola società e
una prossimità tra tipi sociali che un’interpretazione meramente letterale delle
norme non sarebbe in grado di fronteggiare. Si ripropone, in altri termini, anche
per disciplina delle procedure concorsuali la duplice esigenza di registrare il
favor per le forme di autoregolamentazione ma al contempo di collocare le
innovazioni normative in un quadro di promozione, non già di elusione, della
tutela dei diritti. Rispetto a quest’ultima può aversi un atteggiamento recessivo
del legislatore dettato dalla fiducia per le fonti di disciplina che presentino un
maggiore grado di vicinanza rispetto ai conflitti da risolvere; non può aversi
invece un arretramento dell’autorità giudiziaria che, pur intervenendo ora ex
post ora ex ante a seconda delle fattispecie, rimane – anche nella gerarchia delle
fonti – il presidio ultimo della conformità del diritto applicato alla ratio che lo
deve animare. In questo senso l’opzione per la privatizzazione – così come
quella per il contrattualismo – non è una verità assoluta, sia perché coesiste con
profili della disciplina (si pensi, ad esempio, agli spazi residui di presenza del
pubblico ministero) che rivelano la volontà dello Stato di non trascurare
totalmente i profili pubblicistici dell’insolvenza, sia perché essendo stata per lo
vagliarne il merito. In argomento pure A. Patti, Istruttoria prefallimentare e poteri di controllo sulla crisi dell’impresa, in Fall., 1998, 939.
140
più disegnata con flessibilità nei contenuti ma con rigore nei fini da perseguire,
va monitorata nella congruità rispetto a questi ultimi347. Al contempo, peraltro, il
rispetto del volere legislativo impone di prendere distanza dai precedenti moduli
interpretativi, per evitare che gli stessi precludano di fatto l’applicazione degli
istituti che sono figli di una forma mentis rinnovata.
Il maggior impegno potrebbe derivare proprio da quel contenuto degli accordi di
cui il legislatore non si è espressamente occupato e che pure ha in potenza, a
seconda della reazione giurisprudenziale, forza d’incidere su alcune categorie
concettuali di sistema.
5. L’accesso a posizioni informative quale presupposto per le forme
privatistiche di risanamento dell’impresa.
I commentatori348, come del resto l’esperienza delle convenzioni stragiudiziali
di salvataggio349, suggeriscono che l’opzione portata dall’art. 182 bis ha
maggiori probabilità di risultare interessante laddove vi siano creditori
sufficientemente informati e qualificati da minimizzare i rischi insiti nello
347 Si condivide pertanto la posizione di Fabiani, Autonomia ed eteronomia, cit., 1101, ove afferma che le “suggestioni privatistiche, indubbiamente pregnanti e largamente condivisibili, non possono peraltro far ombra al tema della tutela dei diritti”, precisando che “il contratto quale espressione della negozialità [sia] è soltanto un mezzo per raggiungere un fine” e giustificando la permanenza di un giudizio di omologazione mediante “la configurazione dell’autonomia privata come esercizio di una delega di competenze e non già come una vera devoluzione di attribuzioni” (p. 1103). 348 Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 24, che individua in ciò la differenza – di contenuto e di soggetti - rispetto al piano concordatario. 349 Proprio riferendosi agli accordi stragiudiziali P. Guerra, Ristrutturazione del debito e assistenza finanziaria all’impresa: il c.d. consolidamento dei crediti bancari, in Banca borsa, 1995, I, 808, così scrive: “É infatti molto difficile (e faticosamente lungo) raggiungere un accordo con i creditori quando l’importo dei debiti vede prevalenti i fornitori, soprattutto se il loro numero è elevato ed ancor più quando gli importi dei singoli crediti non siano rilevanti (…). Il colloquio tra imprenditore e banche è più agevole perché esse hanno oramai una tradizione di collegamento e sono più pronte ad un reciproco coordinamento; d’altronde l’entità dei loro crediti ne fa spesso i principali interessati (unitamente ai principali creditori fornitori) alla soluzione dei problemi dell’impresa”. Anche S. Bonfatti, L’intervento delle banche nel risanamento delle imprese in crisi, cit., 940, prende atto di come “l’attivazione di procedure interbancarie di carattere stragiudiziale (…) ha rappresentato negli anni più recenti una valida alternativa alla risoluzione delle crisi di impresa, esclusivamente in favore di grandi gruppi industriali e finanziari”. Analogamente G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, cit., 337, arriva alla conclusione che la crisi finanziaria della grande impresa può avere una soluzione stragiudiziale soltanto quando il creditore principale e dominante sia il sistema bancario, che è il vero protagonista, visto che anche in base al piano i crediti non finanziari devono sempre essere soddisfatti alla scadenza.
141
svantaggio conoscitivo rispetto al debitore e tanto esposti da ammortizzare i
costi del negoziato. Di qui uno degli argomenti a sostegno della tesi per la quale
gli strumenti finanziari possono essere il preludio per gli accordi in questione,
risolvendo al contempo le due principali cause di insuccesso delle soluzione
privatizzate alla crisi, ossia l’insufficienza delle informazioni sulla sussistenza
della stessa e la mancanza di organizzazione dei creditori. La prospettiva già
analizzata dell’interazione tra gruppi di creditori, mutuanti l’uno dalla condotta
dell’altro vantaggi informativi che singolarmente non avrebbero la capacità
contrattuale di ottenere, potrebbe consentire di trasformarli da “controllanti
deboli” in “controllanti forti”, capaci di reagire alla crisi dell’impresa. I
medesimi strumenti potrebbero peraltro agevolare la stessa iniziativa di cui
all’art. 67 co. 3 lett. b), che sarebbe dunque solo formalmente unilaterale, perché
di fatto concordata con i finanziatori insider. Emerge da questo quadro una
doppia valenza degli ibridi finanziari. Essi potrebbero, infatti, essere prescelti
quale tecnica di investimento per le ragioni esposte nel capitolo secondo di
questo elaborato, ovverosia a prescindere dal sentore di una crisi in atto o
eventualmente a titolo meramente precauzionale per l’ipotesi in cui una simile
situazione dovesse nel futuro realizzarsi; potrebbero però parimenti essere
impiegati quali forme di realizzazione dei piani di risanamento ed essere in tale
veste preferiti o sommati alle azioni quali titoli per la partecipazione delle
banche alle imprese e dunque per il superamento della separatezza tra le prime e
le seconde.
Va a tal proposito ricordato che tra le aspirazioni all’origine della legislazione
dell’insolvenza vi è proprio l’esigenza di approntare un’organizzazione
funzionale a riallocare il controllo dell’impresa in crisi, a prescindere dal fatto
che poi la risposta data sia stata ampiamente criticata, per aver dato ingresso alla
tutela di interessi diversi da quelli dei creditori350 e per aver affidato la gestione
350 Se la nostra attenzione è concentrata sulla convergenza-divergenza degli interessi dei creditori e dei soci in vista di una definizione dell’interesse sociale, è pur vero che la crisi di impresa da sempre porta alla luce un ulteriore e macroscopico problema: quello dell’alternativa tra difesa dei diritti dei creditori e tutela dei posti di lavoro. Non lo nega A. Jorio, Le procedure concorsuali tra tutela del credito e salvaguardia dei complessi produttivi, cit., 546 ss., che pur conclude in un senso dai più condiviso, ossia affermando che “le procedure concorsuali non possono essere utilizzate come strumento di stemperamento dei problemi occupazionali”.
142
del patrimonio a soggetti quasi interamente privi di incentivi e di controlli, con
gravissimi effetti in termini di inefficienza e di costi di delega351. A queste
carenze – e in specie all’incapacità dei legislatori di offrire soluzioni gestionali
capaci di scongiurare la frantumazione, e dunque la dispersione, dell’impresa - è
dovuta la tendenza del sistema capitalistico alla privatizzazione del
fallimento352. E alle stesse – così come ai vuoti di tutela di cui le soluzioni
stragiudiziali a loro volta soffrono – è riferibile la recente riforma, deputata dalla
relazione che l’accompagna a portare alla fase dell’atto quella prospettiva di
conservazione dell’impresa che da tempo si va proclamando.
La centralità del ruolo dei creditori negli accordi di ristrutturazione - nella veste
particolare di gestori delle scelte da adottare e delle modalità per attuarle -
Impostazione privatistica ed impostazione pubblicistica della crisi, del resto, continuano a contendersi la preferenza dei legislatori, avendo la meglio l’una o l’altra a seconda delle contingenze storiche o politiche, come ben spiega R. Santini, Il percorso delle soluzioni stragiudiziali alle crisi d’impresa, cit., 610 ss. 351 Si possono cogliere le ragioni storiche dei limiti della legislazione italiana leggendo G. Santini, Soluzioni giuridiche allo stato di crisi dell’impresa nei sistemi di economia di mercato, in Giur. it., IV, 1981, 1641 e ss.; per un quadro delle insufficienze della legge fallimentare del 1942 si segnalano invece P. Valensise, Accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 1082, con riferimenti bibliografici alla nota 3; A. Bonsignori, Il fallimento sempre più inattuale, in Dir. fall., 1996, I, 697 ss. Sul problema specifico dell’allocazione del controllo ricordiamo quanto scriveva G. Santoni, La tempestività dell’intervento giudiziario e il ruolo del giudice nella crisi anticipatoria, in Dir Fall., 2004, I, 743 ss., ove auspicava una “(…) procedura in cui l’intervento del giudice sia limitato alla soluzione delle controversie insorte e non si sovrapponga alle decisioni prese dalle parti coinvolte nella crisi. Una procedura, in sostanza, che veda protagonisti il debitore e i suoi creditori e riservi al giudice un ruolo defilato. Queste considerazioni muovono dal principio che il rischio economico deve gravare su chi esercita l’iniziativa economica (è per questo, infatti, che la gestione dell’impresa compete a chi fornisce il capitale di rischio) sicché allorquando i risultati negativi hanno bruciato il capitale di rischio, la legittimazione alla gestione dell’impresa, ormai in crisi perché incapace di produrre reddito per soddisfare nella naturale sequenza economica i debiti assunti, passa ai fornitori di capitale di credito in quanto è su di loro che adesso grava anzitutto – ed esclusivamente – il rischio di prosecuzione dell’attività economica. Pertanto ogni decisione sulla sorte, complessivamente intesa, dell’impresa non può che competere ai creditori ed un intervento del giudice si giustifica solo se c’è contrasto tra creditori e imprenditore circa l’insolvenza di quest’ultimo o fra creditori sul c.d. surplus di liquidazione (…)”. 352 Anche la soluzione stragiudiziale all’insolvenza mira anzitutto a contenere la discrezionalità gestionale del management in carica, trasferendola a chi paia più affidabile (R. Vivaldi, Soluzione negoziale dell’insolvenza: responsabilità civile delle banche nella crisi d’impresa, cit., 562, fa riferimento all’amministrazione controllata o alla reorganization americana e parla di “intima rispondenza di fini tra moduli pubblicistici e moduli privatistici della crisi d’impresa”): la diversità rispetto alla soluzione giudiziale sta nei soggetti prescelti.
143
parrebbe essere, in effetti, un passo avanti in questa direzione, oltre che un
incentivo all’organizzazione353.
6. Le convenzioni bancarie di salvataggio quali sindacati di gestione:
problemi comuni agli strumenti finanziari partecipativi.
Altro punto di contatto tra la prospettiva degli strumenti finanziari e quella delle
soluzioni privatistiche alla crisi di impresa è la funzione dell’informazione quale
garanzia gestionale.
L’esperienza delle convenzioni stragiudiziali ha mostrato come nella crisi di
impresa le garanzie patrimoniali tradizionali si rivelino insufficienti, cedendo il
passo a forme alternative di cautela. La necessità di rifuggire ogni ulteriore
paralisi delle già residue forza vitali dell’impresa, porta ad affidare la
salvaguardia dei crediti a meccanismi negoziali idonei ad attribuire ai creditori
poteri di controllo preventivo sui singoli atti di gestione o comunque altre forme
di condivisione del potere di amministrare, almeno fintanto che questo rimane
nelle mani del vecchio management354.
Una volta steso il piano di risanamento, infatti, la salvezza dell’impresa e con
essa la soddisfazione dell’interesse dei creditori al recupero degli esborsi e alla
conservazione dell’avviamento residuo, sono affidate alla bontà del piano
medesimo355, ma evidentemente anche alla sua corretta esecuzione. Di qui
l’esigenza di presidiare a quest’ultima: si parla, a proposito, di “garanzia
collettiva sul patrimonio del debitore realizzata per il tramite di una garanzia
sulla gestione dell’impresa”. Se è prevista una conversione del credito in
capitale, tale esigenza sarà temporanea356; diversamente persisterà nel tempo,
353 per quanto, come si è già rilevato, gli accordi si rivolgano tendenzialmente a creditori capaci di organizzazione autonoma. 354 Sulle “garanzie negative” quali “garanzie contro l’insolvenza” alternative alla tradizionale nozione di garanzia di pagamento, merita lettura G. Piepoli, Le “garanzie negative”, in Banca borsa, 2001, I, 405 ss. 355 Sulla centralità del programma, come sulla sua necessaria tempestività, ha insistito P. Guerra, Ristrutturazione del debito e assistenza finanziaria all’impresa: il c.d. consolidamento dei crediti bancari, cit., 809, sottolineando pure l’identità di logica rispetto all’amministrazione controllata. 356 R. Vivaldi, Soluzione negoziale dell’insolvenza: responsabilità civile delle banche nella crisi d’impresa, cit., 559.
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peraltro acuita dall’eventuale erogazione di nuova finanza357.
Il silenzio sul contenuto dei piani merita dunque attenzione anche per
quest’ulteriore ragione, che si può cogliere soffermandosi sulla duplice
vocazione dei piani in discorso, finanziaria anzitutto e gestionale di
conseguenza. Si traduce, infatti, in interventi sul passivo e sull’attivo giocati sui
tassi di interesse, sulle dilazioni, sulle conversione dei crediti in capitale, ma
contempla pure cessioni o affitti d’azienda, se non operazioni di trasformazione,
fusione o scissione358. Contempla soprattutto, ed è su questo profilo che si
intende soffermarsi, un controllo gestionale.
Il fenomeno non è passato inosservato e, chi più di recente si fa leggere359, parla
di patto parasociale tra creditori, azionisti di controllo e amministratori del
gruppo, avente ad oggetto la gestione di quest’ultimo.
Già N. Irti, Dal salvataggio statale all’intervento bancario, cit., 1086 ss. teneva a distinguere una fase preparatoria ed esterna (“in cui le banche si organizzano, e redigono il piano, ed ottengono le «autorizzazioni» della Banca d’Italia, e individuano il soggetto deputato alla verifica ed al controllo”) ed una fase interna, in cui le banche, ormai socie, agiscono negli organi della società (“ma vi agiscono con incidenza correlativa alla misura della partecipazione, e perciò in posizione di maggioranza o di minoranza”). Per l’Autore nella fase preparatoria le banche “non gestiscono né amministrano, ma, confidando nella convergenza di interessi, svolgono dall’esterno opera di consiglio e di orientamento”. 357 De Sensi, Convenzioni stragiudiziali per il salvataggio delle imprese e patti parasociali, in Dir. fall ., 2005, 61, distingue a seconda che la convenzione stragiudiziale preveda o meno una conversione dei crediti in capitale giacché, mentre nel primo caso la garanzia gestionale sarebbe riconducibile alla stessa partecipazione azionaria della banca, nel secondo dipenderebbe da accordi tra la banca e gli organi amministrativi della società o i soci di maggioranza. 358 G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, cit., 332 ss.; Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 31 ss. 359 R. Vivaldi, Soluzione negoziale dell’insolvenza: responsabilità civile delle banche nella crisi d’impresa, cit., 560. La prima definizione in realtà fu suggerita (da N. Irti, Dal salvataggio statale all’intervento bancario, cit., 1081 ss.) in termini di contratto di consulenza tecnica, ad effetti obbligatori unilaterali: obbligatori, cioè, per le banche - tenute a redigere un piano di risanamento e a verificarne l’esecuzione - ma non per le imprese, indotte all’osservanza degli impegni assunti dalla convenienza economica degli stessi anziché da una sanzionabilità giuridica dell’eventuale inosservanza. Più d’una le obiezioni sollevate (cfr. R. Vivaldi, Soluzione negoziale dell’insolvenza: responsabilità civile delle banche nella crisi d’impresa, cit., 558-559): dalla genericità della categoria “contratto di lavoro autonomo”, alla mancanza di retribuzione, elemento invece essenziale ai contratti rientranti in tale genus; dall’inidoneità a giustificare la disciplina dei rapporti banca-impresa nella fase antecedente la stesura del piano, alla difformità della realtà economica, che vede la forza contrattuale far capo al creditore non già al debitore; dall’irrilevanza delle difficoltà di computazione del danno al fine di stabilire la giuridicità o meno degli impegni assunti dall’impresa debitrice, alla contraddittorietà in cui si inciampa quando si prospetta la convenzione banca-impresa quale risposta stragiudiziale alla crisi d’impresa e poi si finisce per garantire le ragioni dei creditori con obbligazioni metagiuridiche.
145
A suggerire l’associazione con i sindacati azionari è la traslazione del potere
gestionale che si ha in entrambe le ipotesi360. Sennonché, data in questi termini,
la qualificazione delle convenzioni di salvataggio pone gli stessi quesiti già
considerati con riguardo ai contratti di finanziamento corredati da clausole di
garanzia gestionale. Possono riferirsi a tale tema, infatti, i medesimi dubbi sulla
possibilità di estendere l’area del parasociale a patti stipulati con non-soci e sul
confine tra tale area e quella che attiene alla sfera dell’autonomia negoziale della
società stessa. In effetti indurrebbe a percorrere questa seconda via la querelle
sulla definizione delle convenzioni – e ora degli accordi di ristrutturazione –
come “fasci” di negozi bilaterali tra il debitore e il singolo creditore361 o come
contratti plurilaterali con comunione di scopo, visto che entrambe le opzioni
parrebbero individuare nella società il soggetto contraente362. Del resto,
tornando all’attributo “parasociale” quale formula espressiva di un rapporto di
separazione ma anche di “coesistenza, di affiancamento, di collegamento”, si
nota come più che mai nel caso delle convenzioni di salvataggio sia ravvisabile
la volontà di non confondere il patto con lo statuto eppure di incidere fortemente
360 Secondo R. Vivaldi, Soluzione negoziale dell’insolvenza: responsabilità civile delle banche nella crisi d’impresa, cit., 560 come i sindacati azionari sono patti parasociali volti a formare ed organizzare il voto in assemblea, così le convenzioni di salvataggio sarebbero patti parasociali strumentali alla formazione ed alla manifestazione della volontà assembleare, alla nomina dei membri del c.d.a. e –medio tempore - alla formazione delle decisioni attinenti la gestione. Esclude invece che si possa parlare di mandato in rem propriam al compimento di atti di gestione, considerato che il compimento degli atti, ad efficacia interna quanto esterna, rimane agli amministratori formali e che sono questi ultimi anzi ad assumere obblighi di ottemperanza agli input gestionali impartiti dai creditori. 361 G. Domenichini, Convenzioni bancarie ed effetti sullo stato di insolvenza, in Fall., 1996, 840 ss.; D. Perrone, Insolvenza, pactum de non petendo e creditori pretermessi, in Fall., 1992, 661 ss. 362 P. Oliva, Privatizzazione dell’insolvenza: inquadramento giuridico delle operazioni di ristrutturazione, in Fall., 1999, 825. Quanto agli accordi di ristrutturazione, tra le tante opinioni si ricorda quella di C. Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 131, il quale spiega che l’accordo può estrinsecarsi in un contratto unico plurilaterale con comunione di scopo, ma anche in un fascio di contratti: mancando disposizione contraria, ben potrebbe essere depositato ed omologato un complesso di accordi bilaterali tra loro autonomi. Tuttavia, visto che oggetto della richiesta di omologa è l’accordo unitario, normalmente l’accordo sarà un contratto plurilaterale con comunione di scopo, con quel che ne consegue però in termini di applicazione delle norme civilistiche sulla validità (art. 1420 e 1446 c.c.) e sullo scioglimento (artt. 1459 e 1466) del vincolo tra il debitore ed uno dei creditori (il venir meno dell’accordo con una sola parte potrebbe caducare l’intero accordo ove venisse dimostrata l’essenzialità della partecipazione di quel creditore).
146
su questo363, così come, d’altra parte, si coglie l’interesse all’emersione, quindi
alla pubblicità, di questo particolare fenomeno.
È proprio da questa conclusione che si può sviluppare un ragionamento sugli
accordi di ristrutturazione dei debiti, domandandosi se l’eredità che gli stessi
vorrebbero raccogliere comprenda pure la qualifica in termini di patti parasociali
e, in tal caso, se valga parlare di una “tipizzazione di principio”. Si potrebbe in
tal caso dire che, come gli strumenti finanziari possono considerarsi tipizzazioni
di principio delle clausole di garanzia gestionale inserite nei contratti di
finanziamento, così le neo-introdotte forme private di soluzione della crisi
d’impresa sono tipizzazioni di principio delle convenzioni bancarie di
salvataggio. Affermazione, questa, che porterebbe l’attenzione sul vaglio
giudiziale di meritevolezza e che investirebbe un altro, anzi, il principale, profilo
problematico della fattispecie all’esame, ossia il coinvolgimento dei creditori
nell’assunzione diretta o indiretta di scelte gestorie con il conseguente l’ingresso
nel procedimento decisionale di un interesse distinto da quello dei soci eppure
attratto al piano del “sociale”.
In questo quadro la previsione espressa dei piani di risanamento in assenza di un
vincolo alla pubblicità costituisce un elemento di complicazione in quanto
fattore di discontinuità nella tecnica legislativa. Mentre la disciplina degli
strumenti finanziari e degli accordi di cui all’art. 182 bis determina la
compatibilità con il nostro ordinamento di determinate forme di coinvolgimento
nella gestione rendendo conoscibili ai terzi – e dunque trasparenti anche ai fini
di un’eventuale azione di responsabilità a vocazione risarcitoria – i relativi
rapporti, i piani attestati non esigono d’essere iscritti nel registro delle imprese.
363 Quanto all’aggettivo “parasociale”, è nota la paternità di Oppo, Contratti parasociali, cit., 2 ss.; Id., Le convenzioni parasociali tra diritto delle obbligazioni e diritto delle società, in Riv. dir. civ., 1987, I, 541. Quanto, in particolare, al collegamento, riportiamo le parole di R. Costi, I patti parasociali e il collegamento negoziale, cit., 212: “Se si vuole continuare a parlare, in una chiave essenzialmente descrittiva, dei rapporti fra contratto sociale e convenzione di voto in termini di collegamento tra negozi, si deve allora dire che, sia pure sulla base di norme aventi collocazione diversa nel nostro sistema giuridico, il collegamento tra contratto sociale e convenzione di voto è un collegamento bilaterale e non unilaterale, dal momento che, almeno nelle società per azioni quotate e in quelle aperte, le vicende del rapporto parasociale incidono pesantemente sul rapporto sociale. Risulta così smentita la tesi secondo la quale le convenzioni di voto sarebbero irrilevanti per la società”.
147
Per un verso si può essere indotti a ritenere che la predisposizione unilaterale del
programma di superamento della crisi attenga alla sfera dell’attività gestoria e,
non presupponendo alcun coinvolgimento dei soci né alcuna ingerenza dei
creditori, non ha ragione di essere portato a conoscenza dei terzi. Per altro verso
non si può non percepire come ipotesi largamente più frequente la necessità per
l’imprenditore di raggiungere un accordo con creditori compiacenti a concedere
una dilazione dei pagamenti e, soprattutto, nuove risorse. Sennonchè, in tale
seconda ipotesi l’omesso riferimento alla pubblicità non potrebbe sollevare dal
relativo onere già previsto nel codice per l’ipotesi di patti parasociali, ove di
questi ultimo vi fossero gli estremi. Qualora, poi, la compartecipazione dei
finanziatori avvenisse per il tramite di strumenti finanziari, l’esternazione
quantomeno dei poteri di influenza di particolari esponenti del ceto creditorio
avverrebbe ex lege. Ferma rimarrebbe, invece, tanto nel caso della pubblicità del
patto tanto in quella degli strumenti finanziari, la conoscibilità del rapporto ma
non quella del contenuto del piano attestato. Tale differenza peraltro non
sarebbe neutra, considerato anzi il carattere fortemente premiale della protezione
– inserita con il correttivo del 2007 – da azioni cautelari o esecutive, nonché
della maggiore sicurezza dell’esenzione da revocatoria derivante dalla
valutazione giudiziale immediata anziché successiva del piano.
7. Tipizzazione di principio e valutazione di meritevolezza nella crisi di
impresa alla luce dell’interesse sociale “alternativo”.
Premesso che il problema della meritevolezza del parasociale si presta a essere
letto, in definitiva, come un problema di interessi, si tratta di stabilire come nelle
soluzioni concordate delle crisi di impresa debbano contemperarsi l’interesse
sociale, quello dei creditori – partecipanti e non all’accordo – e quello che
potremmo dire in senso lato pubblico, volendo con ciò riferirci alla congerie di
interessi che ruotano normalmente attorno a un’impresa e che non possono non
essere riguardati da una crisi della stessa.
È proprio quest’ultima condizione a complicare il già difficile raffronto con
l’interesse sociale.
148
Occorre a tale riguardo fare riferimento alle tesi già riferite per le quali la
sovranità dei soci trova giustificazione nell’essere costoro “residual claimants”,
titolari di una pretesa finanziaria postergata e dunque interessati alla migliore
gestione possibile in quanto tutelati dall’acume gestionale prima ancora che
dalla legge364. È pacifico che in stato di crisi tale situazione muti. La struttura
finanziaria diventa a prevalenza di debito e ogni ulteriore perdita ha prospettiva
di ricadere solo sui creditori. La propensione al rischio dei soci – incentivati al
recupero dall’impossibilità di aggravare la perdita già da loro patita - si fa
massima, mentre i creditori rimangono impotenti (il recupero forzato
aggraverebbe la loro posizione determinando la perdita dell’avviamento),
“prigionieri” di una situazione che non avrebbero mai accettato. È in questa
prospettiva che l’interesse sociale cessa di poter essere semplicisticamente
identificato con l’interesse comune dei soci, o per lo meno cessa di poter essere,
così inteso, il punto di riferimento principe per la corretta gestione dell’impresa
sociale. L’interesse dei creditori si presenta come interesse sociale alternativo365.
Ebbene, se di tale ricostruzione può rinvenirsi traccia normativa nell’art. 2486
c.c., che a fronte del verificarsi di una causa di scioglimento – e precisamente,
per quel che qui più interessa, una volta perduto il capitale sociale – impone agli
amministratori di perseguire la mera conservazione dell’integrità e del valore del
patrimonio sociale, non poche difficoltà si prospettano per la fase che si è visto
essere nota all’estero come area di prossimità all’insolvenza. Non univocamente
identificabile, la stessa pone infatti il problema di superare l’influenza che
l’attribuzione ai soci del potere di nomina e revoca degli amministratori fa
registrare sulle scelte di condotta di questi ultimi.
Si tratta ora di considerare le ragioni di tali ostacoli, per valutare se i recenti
interventi legislativi siano valsi in qualche modo a superarle.
364 L. Stanghellini, Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, in Riv. dir. civ., 2004, 1041 ss., il quale precisa che “La comparsa (artt. 2346 ss. e 2411 co. 3 c.c.) di categorie intermedie tra soci e creditori complica l’equazione, ma non la rivoluziona: emerge infatti una sorta di linea continua che ha ad un estremo i titolari di una pretesa fissa (e perciò di regola privi di poteri gestionali) e all’altro i titolari di una mera aspettativa non coercibile (e perciò di regola titolari di voice), lungo la quale la carenza di tutela ex post (il diritto ad una remunerazione garantita) tende ad essere compensata da un potere ex ante (il diritto di scegliere i gestori)”. 365 In questi termini G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, cit., 328.
149
8. L’eterogestione nella crisi di impresa: discrezionalità e responsabilità
degli amministratori di diritto nelle soluzioni tipiche e atipiche della crisi di
impresa.
La responsabilità gestoria opera come variabile decisiva per il successo e per
l’interazione di strumenti partecipativi e soluzioni privatistiche alla crisi di
impresa. Se il timore di incorrervi, infatti, può dissuadere gli apportatori di
finanza dall’integrarsi nell’organizzazione sociale pur a fronte della prospettiva
di ottenere un rafforzamento delle garanzie di rimborso, la possibilità di evitare
procedure concorsuali tramite accordi può non solo assicurare soluzioni più
efficienti, ma anche contenere il rischio di azioni di responsabilità. Può generarsi
in tale modo una catena virtuosa, per la quale l’accesso al finanziamento è reso
più agevole dal ricorso agli strumenti ibridi, i quali consentono altresì di
avvedersi più tempestivamente degli stati di crisi e dunque di superarli tramite
intese che, evitando situazioni conclamate di insolvenza a gestione pubblicistica,
a loro volta arginano quel rischio di responsabilità che potrebbe scoraggiare a
monte il finanziamento nelle forme innovative già descritte. L’ultimo anello è
fondamentale, perché in mancanza di esso quelli che lo precedono vengono a
cadere; su tale profilo pertanto occorre soffermarsi, acquisendo consapevolezza
che il silenzio del legislatore sul punto affida all’interpretazione la fortuna della
riforma. La prospettiva dalla quale muovere – in coerenza con l’approccio
prescelto per considerare le novità della disciplina societaria sostanziale – è
duplice, connessa per un verso alla posizione formale di amministratore, per
altro verso all’esercizio di fatto della relativa funzione. Prima di procedere in tal
senso si ritiene, però, di aprire una rapida parentesi per avvalorare anche con
spunti di comparazione la centralità del tema “responsabilità” rispetto alla scelta
di supportare finanziariamente lo sviluppo e la permanenza sul mercato delle
imprese.
Sembrano pertinenti, in particolare, i rilievi svolti dalla dottrina statunitense nel
registrare le posizioni assunte dagli istituti bancari a fronte del già accennato
rigore della giurisprudenza nel renderli responsabili per l’influenza di fatto
150
esercitata sulle politiche di gestione delle società finanziate. Innanzi a un
pericolo di crisi di queste ultime, la reazione più frequente è evitare l’assunzione
di cariche gestorie o, a nomina avvenuta, astenersi per quanto possibile da
attività, anche di mero monitoraggio, che possano far emergere conflitti di
interessi366. Sennonché in tale modo non solo è frustrato lo scopo stesso
dell’integrazione del singolo finanziatore nell’organizzazione, ma vengono
meno anche i vantaggi che di riflesso si produrrebbero a favore dell’intero
sistema367. La conferma dell’ampio raggio degli interessi coinvolti è colta nei
numeri che descrivono in termini di frequenza la designazione di esponenti del
mondo bancario nei consigli di amministrazione dei soggetti economici privati:
la circostanza che un terzo delle maggiori società abbia un banker nell’organo di
gestione si ritiene non possa avere altra spiegazione se non la forza degli
interessi sottesi all’esercizio di un monitoraggio interno alla società debitrice368.
Si citano, a supplemento di prova, le più rilevanti presenze in Germania e
Giappone, paesi c.d. “bank oriented” nei quali al favore del legislatore e dei
giudici sotto il profilo delle responsabilità conseguono interventi attivi delle
banche nella gestione delle crisi369. L’atteggiamento assunto a modello dagli
studiosi statunitensi è quello che consiste nel sollecitare – specialmente con
l’apertura della struttura finanziaria a forme partecipative - una convergenza
degli interessi, anziché nell’esasperarne i conflitti. La prospettiva ricalca quella
già analizzata con riferimento al nostro ordinamento trattando dei diversi
approcci all’interesse sociale, e merita ora d’essere verificata alla luce della
riforma della legislazione sul fallimento.
In effetti, prima dei recenti interventi normativi il timore di incorrere in
responsabilità, civili e penali, compariva ai primi posti tra le inibizioni a
366 Kroszner, R. S., and P. E. Strahan, 2001, Bankers on boards: Monitoring, conflicts of interest, and lender liability, in Journal of Financial Economics 62, 415-452; Weissman, Michael, 1994, The consequences of a fiduciary relationship, in Journal of Commercial Lending (March), 42-47. 367 Booth, J. R., and D. N. Deli, 1999, On executives of financial institutions as outside directors, in Journal of Corporate Finance 5, 227-250. 368 Petersen Mitchell, Raghuram Rajan, The benefits of lending relationships: evidence from small business data, in Journal of Finance 49, 3-37 (1994). 369 Kaplan S., Minton B., Appointments of outsiders to Japanese boards: determinants and implications for managers, Journal of Financial Economics 36, 225-258 (1994).
151
percorrere soluzioni alternative alle procedure concorsuali. Ciò valeva anzitutto
per gli amministratori, combattuti tra la consapevolezza del carattere per lo più
sanzionatorio delle procedure concorsuali e il timore che il ricorso a rimedi
stragiudiziali potesse essere ex post interpretato come espediente dilatorio del
fallimento370. È vero che già si procedeva sulla base di un piano di
ristrutturazione che enunciava la prevalenza delle prospettive di vantaggio su
quelle di sacrificio sottese a determinate scelte di gestione371, ma è pur vero che
dell’adozione di ogni piano, così come delle soluzioni distributive nello stesso
elette, rispondevano comunque gli amministratori.
Presupposto per l’indagine potrebbe allora essere la considerazione che, se ad
avvalorare l’opportunità di clausole di garanzia gestionale è la sfiducia
nell’ottemperanza al piano, in realtà ad avvalorare una simile sfiducia è la
facoltà di “disobbedienza” al piano che gli amministratori conservano. È in ciò
evidente il parallelismo con le ragioni che inducono a inserire nei contratti di
finanziamento previsioni volte a contenere la discrezionalità nell’impiego delle
risorse erogate. Vale inoltre, anche a tale proposito, quanto detto sulle
competenze gestorie e sul carattere necessariamente non vincolante delle
istruzioni o autorizzazioni impartite agli amministratori. Dal momento, infatti,
che responsabili sono sempre questi ultimi, senza che il concorso solidale di altri
soggetti possa valere quale ragione di esonero, si deve ritenere ineliminabile la
facoltà di non dare seguito alle direttive ricevute, a prescindere dalla
provenienza delle stesse. Applicata alle linee sul governo dell’impresa contenute
nelle convenzioni di salvataggio, questa regola porta a ritenere che le stesse
abbiano efficacia meramente obbligatoria, rimanendo gli amministratori liberi di
non darvi esecuzione, salvo il risarcimento degli eventuali danni. Il punto è ora
comprendere come tali argomenti si riferiscano agli istituti di nuova
introduzione, dunque se anche per essi la disobbedienza si ponga quale
contrappeso alla responsabilità.
370 G. Rossi, Crisi delle imprese, cit., 321 ss. 371 G. Rossi, Crisi delle imprese, cit., 331, individua nel piano di ristrutturazione una sorta di stanza di compensazione di vantaggi e sacrifici.
152
L’ iter di cui all’art. 67 co. 3 lett. d) e all’art. 182 bis introduce nel ragionamento
un dato prima ignoto: l’esistenza di un piano non solo redatto da un esperto
(tratto che ricorre anche nelle convenzioni note alla prassi), ma anche da costui
sottoscritto con assunzione d’ogni conseguente responsabilità e, nel caso degli
accordi, omologato dal tribunale. La domanda è se a fronte di tale quadro
l’inosservanza del piano conservi la valenza appena detta.
Rispondere positivamente significherebbe introdurre un elemento di incertezza
pregiudizievole, oltre che per i creditori firmatari, anche per quelli estranei, che
scelgono se esercitare la facoltà di agire o di opporsi in relazione ad un progetto
preciso e trovano comunque protezione nel vaglio effettuato sullo stesso.
Porterebbe inoltre a tradire quell’aspettativa che è condivisa dalle vie giudiziali
e da quelle stragiudiziali di uscita dalla crisi, ossia il contenimento della
discrezionalità gestionale in capo agli amministratori in carica. Viceversa
aderire alla soluzione negativa, nel gioco dei contrappesi anzi visto,
implicherebbe associare all’ossequio al piano (salvi mutamenti non prevedili e
fermi i dubbi sul da farsi in tal caso372) un esonero da responsabilità
evidentemente capace di incrementare il grado di attrattività dei nuovi istituti e
di superare, sul piano teorico, l’incongruenza che si dovrebbe registrare “se
l’ordinamento potesse autorizzare un atto a certi fini e allo stesso tempo punire
chi lo compie” o “se l’attestazione del professionista (con la connessa sua
responsabilità) non avesse alcun valore”373.
La prospettazione di uno stato di soggezione al piano valutabile sotto il profilo
della diligenza sollecita il parallelo con i c.d. contratti di dominazione, noti alla
legislazione tedesca e dai più ritenuti incompatibili con il nostro ordinamento.
372 Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., passim, apre alcune questioni, tutte inerenti alla fase successiva all’omologa e tutte sollecitate dal silenzio del legislatore: se la revoca continui a valere anche quando il piano non sia più attuabile; se sia revocabile l’omologa; se un adeguamento del piano imponga nuova omologa; se possano esservi clausole risolutive e con quali effetti; se in caso di fallimento il credito possa tornare a vivere per come era prima della ristrutturazione. 373 Stanghellini, Il ruolo dei finanziatori, cit., 1077, il quale spiega le interpretazioni di segno opposto col rilievo che “[S] sessant’anni di attrazione per una mentalità sostanzialmente avversa all’operare del mercato nel campo della crisi d’impresa non vengono cancellati da una serie di tratti di penna del legislatore”.
153
Ancor prima dell’ultima riforma dominava in dottrina374 l’idea che i “particolari
vincoli contrattuali” di cui all’art. 2359 avessero ragione d’essere ammessi nel
nostro ordinamento solo in quanto clausole accessorie ad altri contratti tipici,
dovendosi invece considerare nulli ove consacrati in autonomi contratti atipici
detti di “dominazione”375. A suggerire questa espressione è, come accennato,
l’esperienza tedesca, che conosce la consacrazione normativa dei contratti con i
quali una società rimette ad un’altra la propria impresa, conferendole diritto di
impartire direttive gestionali all’organo amministrativo e vincolando
quest’ultimo all’ossequio delle relative disposizioni, con la conseguente
formazione di una struttura di “gruppo”. Piano esterno e interno si fanno quindi
distinti: nel primo continua a rilevare l’autonomia soggettiva delle singole
società, nel secondo la società “dominata” non è portatrice di un interesse
autonomo al quale commisurare le scelte imprenditoriali, né si espone ad un
rischio economico, visto che è assicurata la copertura di ogni perdita annuale376.
Ma anche nel rapporto con i terzi vi è incidenza: per il contratto di dominazione
tedesco è prevista un’apposita pubblicità che garantisce l’opponibilità ai terzi e
altera il regime di responsabilità cui sono soggetti gli amministratori. Quelli
della società dominata, essendo vincolati contrattualmente a eseguire le
istruzioni ricevute, non sono tenuti a rispondere per le conseguenze delle
374 V. Donativi, Impresa e gruppo nella legge antitrust, Giuffrè, Milano, 1996, 142 ss.; G. Sbisà, Società per azioni, Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Libro quarto, Obbligazioni, art. 2325-2409, sub art. 2359, 475 ss.; Id., Società controllate e società collegate, Contratto e impresa, 1997, 339; G. Scognamiglio, Autonomia e coordinamento nella disciplina dei gruppi di società, Torino, 1996, 114 ss. 375 Sulla rilevanza giuridica del contratto di dominazione quale “fatto” idoneo a produrre gli effetti di cui all’art. 2359 c.c., cfr. P. Abbadessa, I gruppi di società, a cura di A. Pavone La Rosa, Il Mulino, Bologna, 1982, 111. Sulla validità del contratto di dominazione quale contratto atipico, cfr. M. Lamandini, Il “controllo”: nozioni e “tipo” nella legislazione economica, Giuffrè, Milano, 1995, 172 ss.; Musso, Licenze di proprietà industriale e clausole di dominazione: alcuni recenti sviluppi sul controllo “contrattuale”, in Contratto e impresa, 1999, 351 ss. 376 Per una ricostruzione dell’istituto e per riferimenti normativi si rinvia a F. Galgano, Direzione e coordinamento di società, Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Libro quinto, Lavoro, art. 2497-2497 septies, sub art. 2497 sexies, 185 ss.; Tonello, Il contratto di dominio nei gruppi di società: e se ne ritentassimo l’esame di meritevolezza?, in Contratto e impresa, 1995, 1078.
154
istruzioni stesse, per le quali rimangono responsabili, in caso di violazione dei
doveri di corretta gestione, unicamente la dominante e i suoi amministratori377.
Il fatto che nel nostro ordinamento non sia prevista una pubblicità e quindi
un’opponibilità paragonabile al modello tedesco, ha da sempre portato a ritenere
che il contratto di dominazione, anche fosse considerato valido, non avrebbe
rilevanza esterna e dunque non varrebbe a esonerare da responsabilità gli
amministratori della dominata, risultando quindi privo di quei profili di interesse
che fanno la fortuna dell’istituto in Germania. È evidente infatti che gli
amministratori, rimanendo legati alle proprie responsabilità, rimarrebbero altresì
liberi di tutelarsi disattendendo le istruzioni che ritenessero pregiudizievoli.
L’argomento ad oggi è insuperato e si dice che tale sia destinato a rimanere
fintantoché permarrà il principio fondamentale in base al quale gli
amministratori conservano la responsabilità della gestione sociale378. A riaprire
il dibattito potrebbe forse essere l’esperienza giudiziale degli accordi di
ristrutturazione dei debiti, qualora essa confermasse la natura privatistica del
procedimento di cui all’art. 182 bis e la rilevanza dell’ossequio al piano per la
responsabilità degli amministratori.
Sempre nell’analisi del rapporto tra “disobbedienza” e rischio di responsabilità,
un ulteriore profilo da considerare è che l’adesione alla convenzione da parte dei
creditori verosimilmente ridurrebbe il novero dei soggetti interessati a rendere
attuale quel rischio: come i soci cogestori è da ritenere non agirebbero per far
valere una responsabilità nella quale sarebbero coinvolti con vincolo di
solidarietà, così è da credere che non agirebbero i creditori paciscenti. La
moltiplicazione dei soggetti responsabili, come rafforza la posizione di coloro
che patiscono un danno per le scelte assunte di concerto, così può di fatto
rafforzare la posizione di chi ha formalmente la facoltà di decidere di non dare
adempimento ai contratti stipulati, ma difficilmente la esercita, considerato il
prezzo che essa comporta. E, di riflesso, può confortare l’intento di pervenire ad
una soluzione massimamente condivisa della crisi. Per verificare la correttezza
di quest’ultima conclusione occorre però verificare l’applicazione del regime
377 Ove manchi un contratto di dominazione, la responsabilità suddetta opera in concorso. 378 Rordorf, I gruppi nella recente riforma del diritto societario, in Società, 2004, 540 ss.
155
dell’eterogestione anche nella prospettiva dei creditori che per effetto degli
accordi di ristrutturazione o dei piani di risanamento possono trovarsi esposti a
responsabilità gestoria, per considerare se una simile estensione possa trattenere
questi soggetti dal ricorrere alle forme oggi tipizzate di composizione della crisi.
9. La responsabilità gestoria dei creditori. Applicabilità dell’art. 2476
co. 7 c.c. e rilevanza della previsione di forme tipiche di accordi privati per il
risanamento dell’impresa.
Gli interrogativi sulle possibili corresponsabilità gestorie erano sollecitati già
dalle convenzioni stragiudiziali che abilitavano le banche a indicare
amministratori, a sovrintendere alla gestione o ad avere pronta informazione
sulla vita sociale.
Chi si è occupato di tali accordi, esclusa la possibilità di ravvisare gli estremi di
alcuna figura tipica379, ha posto l’attenzione sulla concentrazione di poteri dagli
stessi derivanti e, trattandosi potenzialmente di tutti i poteri vitali della società,
ha chiamato in causa l’art. 2359 co. 1 n. 3 c.c. e recuperato per tale via la
nozione di controllo. È alla luce di questi parametri normativi che si è ritenuta
sindacabile la responsabilità delle banche per i danni provocati
dall’ottemperanza alle direttive impartite all’impresa insolvente.
379 La posizione riportata è quella di R. Vivaldi, Soluzione negoziale dell’insolvenza: responsabilità civile delle banche nella crisi d’impresa, cit., 560, confidiamo sintetizzabile come segue. Che si possa considerare le banche azionisti di riferimento si escludeva già per i diritti di informativa, di autorizzazione e di veto loro attribuiti, diritti ben superiori a quelli spettanti ad un mero azionista. Che vi sia sovrapponibilità con il collegio sindacale era analogamente escluso dall’incomparabile pervasività ed assiduità dei poteri di controllo loro riconosciuti. Non sarebbero, del resto, amministratori né di diritto né di fatto. La prima ipotesi (che l’Autrice riteneva di dover prendere in considerazione visto che amministratore di diritto è chi esercita i poteri che la legge riconosce agli amministratori in forza di un titolo giuridico, e che nel caso delle convenzioni di salvataggio i poteri delle banche derivano appunto da una situazione di diritto data da atti negoziali, non già da una situazione di fatto) sarebbe smentita dall’assenza di doveri in corrispondenza dei poteri, dalla mancanza di nomina formale ad esito della procedura di legge, dall’inefficacia esterna della convenzione. La seconda lo sarebbe dall’impossibilità di affermare sia che le banche si trovino ad assumere la veste formale di amministratori in forza di un titolo astrattamente valido ma di fatto invalido, sia che le banche esercitino poteri tipici dell’amministratore senza averne titolo giuridico (neppure agiscono con i terzi). La circostanza che le banche, per impegnare con i terzi la società, abbiano bisogno di una longa manus – ossia gli amministratori di diritto - porterebbe a qualificarle piuttosto come amministratori indiretti.
156
Poiché però la prassi ha conosciuto la maggiore sperimentazione di queste forme
private di risoluzione dell’insolvenza laddove vi è il coinvolgimento di più
imprese, tra loro in rapporto di gruppo, si è sostenuto che lo scopo della
convenzione non sarebbe un controllo fine a sé stesso, quanto piuttosto il
conseguimento, in forza di tale controllo, di una direzione unitaria delle imprese
del gruppo. Proprio per questo, essendovi interazione tra controllo e direzione, si
è parlato di gruppo occulto, destinato a dissolversi con l’approvazione del piano
di ristrutturazione380.
Ad ogni modo i due percorsi si incontrano nella nozione di eterogestione, che
sembra animata da un medesimo principio a prescindere dall’eventualità che si
manifesti per ingerenza dei soci in una società singola o in una più ampia realtà
di gruppo: comunque chi assume, anche di fatto, funzioni gestorie si trova per
ciò stesso investito di un dovere fiduciario di agire secondo correttezza, la cui
violazione è fonte di responsabilità381.
Le conclusioni si possono quindi trarre unitariamente e si collegano alla
riflessione svolta con riguardo all’art. 2476 co. 7 c.c. e alla volontà legislativa di
collegare la responsabilità all’amministrazione anziché alla posizione formale di
chi la esercita. L’enucleazione di tale principio consente, come visto, di operare
un’applicazione estensiva della norma fino a comprendere nella relativa ratio la
considerazione di tutti coloro che esercitano un ruolo di partecipazione alla
380 R. Vivaldi, Soluzione negoziale dell’insolvenza: responsabilità civile delle banche nella crisi d’impresa, cit., 561. 381 M. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria fra aperture ed incertezze: una prima riflessione, cit., 333. Alla medesima conclusione perviene, proprio con riguardo ai sindacati di gestione, M. M. Pratelli, Problemi in tema di “sindacati di gestione”, cit., 123-125, che, rilevata la consonanza tra l’attività dei soci sindacati e quella degli amministratori della controllante – in entrambi i casi non si ha gestione bensì indirizzo della gestione - ma esclusa l’applicabilità immediata dell’art. 2497 per il riferimento che questo opera alle sole “società” o “enti”, osserva come “la soluzione al problema della responsabilità dei soci paciscenti debba comunque essere ravvisata nei principi che regolano la responsabilità per abuso di direzione unitaria”, e come le relative norme debbano quindi “applicarsi a chiunque eserciti un’attività di «gestione indiretta» (o «di indirizzo») della società, ivi compresi i soci aderenti ad un sindacato di gestione”. In parte differente è il pensiero di A. Irace, La responsabilità per atti di eterogestione, cit., 197-198, per la quale il combinato disposto degli artt. 2497 co. 2 e 2497 sexies ult. co. renderebbe applicabile l’art. 2497 sia al socio di s.r.l., sia al socio di s.p.a., sia a un extraneus che si sia ingerito nella gestione, con la precisazione che quando a controllare una o più società sia un socio di s.r.l. legittimato dallo statuto a intromettersi nella gestione (cfr. nota …), si applicherà l’art. 2476 co. 7 mentre, quando manchino poteri statutari, occorrerà accertare se si tratti di mera gestione della partecipazione o piuttosto di direzione e coordinamento.
157
governance equiparabile a quello che il legislatore consente ai soci di s.r.l. In
questo quadro non osterebbe la terzietà degli istituti di credito rispetto alla
compagine sociale, rilevando unicamente il governo realizzato. Basterebbe, in
altri termini, un coinvolgimento effettivo, pur esso sciolto da forme di
manifestazione tipiche, in singole scelte gestionali per poter applicare il regime
di responsabilità di cui all’art. 2476 co. 7 c.c. Sarebbe anzi indifferente parlare
di patto parasociale o extrasociale, piuttosto che di controllo o di dominio in
senso lato, visto che pare sia lo stesso principio a permeare la disciplina preposta
alle singole ipotesi. Sarebbe altrettanto indifferente sul piano degli effetti
configurare un accordo stipulato dai soci piuttosto che dagli amministratori,
parlare di accettazione da parte della società o di contratto a favore della società.
All’applicazione del suddetto articolo potrebbe peraltro giungere attraverso un
diverso approccio. Si potrebbe infatti sostenere che il presupposto della crisi382
legittimerebbe a leggere nei riferimenti codicistici ai soci un riferimento ai
creditori, ossia a coloro che rappresentano i residual claimant nella nuova
situazione nella quale versa la società.
Che si segua l’una come l’altra strada interpretativa l’esito è comunque una
possibile responsabilità dei creditori. È importante, però, ribadire i profili di
favore che l’applicazione dell’art. 2476 co. 7 presenta rispetto al regime previsto
per l’amministratore di fatto. Come già si è avuto modo di rilevare, si tratta di
una responsabilità che l’interprete può affrancare da una totale parificazione a
quella dell’amministratore e connettere piuttosto ai danni emergenti dai singoli
atti di mala gestio incentivati. D’altro canto c’è da dire che il vero pericolo da
sempre è rappresentato, per le soluzioni stragiudiziali, dalle azioni intraprese dai
creditori estranei anziché da quelli aderenti. Ed è un pericolo al quale, a quanto
pare, si trovano esposti anche gli accordi di ristrutturazione dei debiti383. Quando
382 Proprio questo presupposto potrebbe far superare la ritrosia dottrinale ad estendere l’art. 2476 co. 7 c.c. a chi si sia ingerito nella gestione senza essere socio (A. Irace, La responsabilità per atti di eterogestione, cit., 188). 383 I primi commentatori hanno additato come possibile ragione di insuccesso dell’istituto il fatto che, a differenza del concordato preventivo, persista la possibilità per i creditori estranei di avviare azioni esecutive nei confronti del debitore pur dopo la pubblicazione dell’accordo. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 40, sottolinea la differente scelta operata in Francia con la riforma del luglio 2005.
158
si traspone il ragionamento a questi ultimi, però, si rende necessario porre
alcune precisazioni.
Si può anzitutto rilevare che, se ragionare in termini di patto parasociale
potrebbe avere valore nelle convenzioni stragiudiziali perché, ritenendo che le
stesse rientrino nei patti finalizzati al governo della società e dunque nel campo
applicativo degli artt. 2341 bis e 2341 ter, se ne dovrebbe imporre la durata
limitata e la pubblicità, meno interesse potrebbe avere nel caso degli accordi di
ristrutturazione, che contemplano già entrambe le conseguenze. A parte la
considerazione che, qualora si ritenesse di estendere i vincoli pubblicitari,
l’ appeal rispetto ai novelli accordi di ristrutturazione dei debiti probabilmente
diminuirebbe, vi è da aggiungere che proprio l’introduzione di tale istituto
potrebbe non essere indifferente ai fini del giudizio di meritevolezza al quale le
soluzioni atipiche sono soggette. La previsione espressa di accordi con i
creditori per il risanamento dell’impresa potrebbe valere, infatti, quale
parametro normativo della compatibilità con il nostro ordinamento di forme di
partecipazione di terzi nella determinazione delle scelte gestionali da assumere
per il superamento della crisi.
Ulteriori osservazioni derivano dallo sviluppo degli argomenti emersi
analizzando i rapporti tra discrezionalità e responsabilità amministrativa alla
luce delle recenti innovazioni legislative. Superate le ragioni per temere
l’inosservanza del piano di salvataggio, infatti, ci si può chiedere se residui un
senso nella predisposizione di clausole di garanzia gestionale e, in caso di
risposta negativa, se possano comunque sussistere gli estremi di una
responsabilità da eterogestione.
Si potrebbe sostenere che l’omologa è comunque preceduta da una fase
totalmente stragiudiziale che presenta lo stesso tasso di rischiosità evidenziato
per la procedura c.d. bancaria, nella quale pure teoricamente le garanzie
gestionali possono soddisfare un’esigenza temporalmente limitata, ossia fino
all’eventuale conversione dei crediti in azioni. È però probabile che la
concessione di nuova finanza – che più giustifica il ricorso a tali garanzie - sia
sospensivamente condizionata all’omologa del piano. Inoltre, in base a quanto
159
emerso, la responsabilità per eterogestione è responsabilità per i danni nascenti
dai soli atti compiuti con il coinvolgimento, in questo caso, del creditore: ma è
francamente improbabile che prima dell’omologa venga concordato il
compimento di atti suscettibili di arrecare pregiudizio rilevante ai creditori
estranei.
Ci si potrebbe peraltro domandare se l’adesione al piano valga di per sé come
autorizzazione rilevante ai fini di una responsabilità per eterogestione,
indipendentemente dall’inserzione di clausole di garanzia gestionale.
In effetti prima si è parlato, come caratteristica della riforma e in specie dell’art.
182 bis, di un’allocazione del controllo in capo ai creditori quali soggetti
portatori dell’effettivo interesse alla conservazione dell’impresa o, comunque,
vista la possibile finalità liquidatoria, alla via più economica di risoluzione della
crisi. Ebbene, è pur vero che questo controllo potrebbe tradursi semplicemente
nella selezione delle scelte da assumere, la cui attuazione, una volta redatto il
piano e concluso l’iter previsto, ben potrebbe essere affidata agli amministratori
in carica, o comunque non riconducibili alla banca, ma è altrettanto vero che le
istruzioni possono valere quale forma di eterogestione ai sensi dell’art. 2476 co.
7 c.c.
Si assuma allora che la sottoscrizione è in sé eterogestione: rimane che questa è
sanzionata se contraria ai principi di corretta amministrazione e, soprattutto,
rimane la difficoltà di imputare tale violazione quando sia stato
pedissequamente eseguito un piano asseverato e omologato384.
Sotto questo profilo l’apertura ad un sindacato giudiziale di merito, attuato
tramite consulenza tecnica, non potrebbe certo risultare indifferente,
quantomeno ai fini della valutazione dell’elemento della colpevolezza lato sensu
intesa e in specie ove si deponesse per la natura extracontrattuale dell’eventuale
384 Se si ritenesse di assumere quale referente normativo l’art. 2476 c.c., sarebbe interessante considerare le riflessioni che l’avverbio “intenzionalmente”, inserito al comma settimo, ha sollecitato: si segnalano Ambrosini, Commento all’art. 2476 c.c., in Società di capitali, Commentario, a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, III, Napoli, 2004, 1604; Abriani, Commento all’art. 2476 c.c., in Codice commentato delle s.r.l., diretto da P. Benazzo e S. Patriarca, Utet, Milano, 2006, 380. Sempre in questa prospettiva, seppur per altro verso, sarebbe da recuperare la riflessione, nata oltreoceano, sulla c.d. business judgment rule.
160
illecito385. Ma una rilevanza simile non potrebbe forse essere negata alla
dichiarazione di fattibilità del piano operata dall’esperto di nomina privata:
perché né il limite di cui all’art. 2236 c.c., né la probabile insoddisfazione del
ceto bancario innanzi alla prospettiva di una solidarietà esterna e di un regresso
interno, priverebbero di interesse l’aspettativa di poter escludere, proprio in
forza di tale conforto professionale, l’elemento della colpa386.
Si potrebbe così avere un filtro all’origine per l’accesso alla procedura e, al
contempo, una chiave per incentivare senza rischi eccessivi una soluzione
concordata della crisi.
10. Spunti di sistema.
Se i percorsi alternativi al fallimento valessero da salvacondotto per gli
amministratori387, c’è da credere che varrebbero come tali pure per l’impresa.
385 Quanto alla responsabilità penale della banca, escludono la configurabilità di una concessione abusiva di credito, vista la riconosciuta liceità degli accordi: De Crescienzo e Panzani, Il nuovo diritto fallimentare. Dal maxiemendamento alla legge n. 80 del 2005, cit., 63, 72; Valensise, Accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 1107; contra Ferro, I nuovi strumenti di regolazione negoziale dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori: storia italiana della timidezza competitiva, cit., 596; Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 41. C. Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 139, afferma che la circostanza che l’accordo abbia superato il duplice vaglio dell’esperto e del tribunale in sede di omologa, varrebbe ad escludere il dolo di bancarotta (oltre a valere quale argomento di esonero da responsabilità anche per gli amministratori). 386 Anche Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., 35, che pur esclude che l’esperto, non essendo ausiliario di giustizia, sia chiamato a rispondere ex art. 64 c.p.c., afferma che “certamente (…) l’incarico professionale ricevuto lo espone a responsabilità contrattuale nei confronti di chi glielo ha conferito; nei confronti dei terzi è dubbio se la sua responsabilità vada qualificata come extracontrattuale ovvero come contrattuale per violazione di un dovere di protezione nei confronti dei terzi. Ancor più dubbio è se, in caso di fallimento, legittimato all’azione di responsabilità sia il curatore oppure se l’azione resti nella legittimazione individuale dei soggetti danneggiati”. Leggiamo però ne Il Sole 24Ore 11 novembre 2006, nella sintesi di G. Di Donfrancesco, Dubbi sul rito per la riforma del fallimento, che vi è preoccupazione per la mancata previsione di “responsabilità penali (o di altra natura) specifiche”: “Questo meccanismo rischia di produrre piani redatti con una certa leggerezza, esposti ad alte probabilità di insuccesso. Di fronte alla mancanza di una sanzione ad hoc, inoltre, le procure, in queste ipotesi, potrebbero essere tentate di estendere meccanismi previsti per altre condotte, come il falso e la bancarotta”. 387 L. Stanghellini, Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, cit., 1062 ss., considera gli incentivi alla collaborazione del debitore (prezioso se non altro per il patrimonio di conoscenze e informazioni di cui è titolare) come incentivi economici, riferendosi alla procedura di concordato preventivo con garanzia, alla chiusura del fallimento mediante concordato con garanzia, al concordato preventivo con cessione dei beni e al concordato con assunzione.
161
Gli amministratori, infatti, avrebbero l’interesse maggiore a ricorrevi laddove vi
fosse ancora spazio per rimediare alla sofferenza finanziaria388, e questo per due
ordini di ragioni. Anzitutto perché in tal modo sarebbe più agevole trovare un
professionista disposto ad esporsi attestando la fattibilità del piano proposto,
oltre che un ceto bancario pronto ad aderirvi. Ma anche perché il rischio di
imputazione di responsabilità sarebbe evidentemente ridotto, come lo sarebbe la
probabilità che il diniego di omologa sfoci nell’avvio di una procedura
concorsuale.
Si aggiunga che in uno con il fallimento si scongiura pure il prodursi di quel
complesso di esternalità negative che fa chiamare in causa l’interesse pubblico e
invocare l’intervento dell’autorità giudiziaria. E tanto avvalorerebbe ancor più il
ricorso agli accordi di ristrutturazione, visto che gli strumenti privatistici si
prestano a meglio risolvere la crisi laddove non vi sia pericolo di un suo
propagarsi.
Già questo significherebbe arginare uno dei deficit che da sempre si
manifestano, ossia l’intempestività delle iniziative di risanamento.
Il problema della crisi di impresa è riconducibile ad un difetto di informazione:
la reticenza delle imprese determina che lo stesso sistema bancario venga a
conoscenza della crisi sono quando la stessa presenti segni di riconoscibilità
esteriori e dunque necessiti di interventi di una certa complessità e di incerto
successo389. Ecco che incentivare il flusso delle informazioni va, in definitiva, a
vantaggio del risanamento.
In questo punto vediamo congiungersi la riforma del diritto fallimentare con
quella della società di capitali, che ha moltiplicato i moduli organizzativi
388 Sul punto si rinvia alla nota … e si richiama quanto scriveva G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, cit, nt. 1, 322, ove: “E’ peraltro ovvio che ogni discorso che riguardi procedure di ristrutturazione del debito e di soluzione delle crisi finanziarie dell’impresa al di fuori delle procedure concorsuali può prescindere dal presupposto oggettivo dell’insolvenza, poiché la ricerca deve essere condotta sulla diversa prospettiva delle possibilità di recupero del valore dell’impresa, sicché quest’ultimo diventa il criterio fondamentale ed unico per la valutazione dei piani di ristrutturazione”. 389 Guerra, Ristrutturazione del debito e assistenza finanziaria all’impresa: il c.d. consolidamento dei crediti bancari, cit., 807 ss., 808: “Il primo problema che si pone è quindi quello della tempestività dell’intervento, e purtroppo mentre l’imprenditore spesso nasconde, a se stesso prima ancora che ai creditori, la gravità della crisi le banche non sono in grado di constatare la crisi se non nel momento in cui emergono fatti esterni che la rivelino”.
162
consentendo forme differenziate di partecipazione all’impresa sotto il profilo del
rischio ma anche sotto il profilo della condivisione di posizioni di accesso alle
informazioni attinenti alla gestione nella prospettiva di una maggiore
trasparenza di questa. Coniugando l’integrazione nella governance con
l’interazione tra creditori, la riduzione delle asimmetrie informative produce
effetti non solo tra debitore e “controllanti forti”, ossia sostanzialmente con il
ceto bancario390, ma anche con gli altri creditori. Questo vale per gli strumenti
finanziari, ma altrettanto per le soluzioni privatistiche allo stato di crisi. La
pubblicazione del piano di per sé risponde, infatti, all’esigenza di far circolare le
informazioni sullo stato della società, dandone accesso anche ai creditori non
bancari e arginando il rischio di comportamenti opportunistici da parte di chi
gode di vantaggi informativi. E con ciò viene ad essere assolta la funzione che
tradizionalmente compete all’ufficio giudiziario, ossia eliminare o ridurre le
asimmetrie informative sulla situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa
attraverso la redazione tempestiva di una relazione contenente anche una
valutazione sulle prospettive di risanamento. Rendendo tutti i creditori nella
condizione di operare in piena consapevolezza, viene meno una ragione di
eterotutela da parte del tribunale.
Emerge la funzionalità bidirezionale dei due profili della riforma, giacchè
dall’un lato l’introduzione degli strumenti finanziari partecipativi agevola la
tempestività della cognizione dello stato di crisi e dunque il successo di
soluzioni privatistiche, dall’altro lato queste ultime, evitando il rischio di quelle
imputazioni di responsabilità che sono il limite della convenienza nel ricorso
agli strumenti finanziari, favorisce gli esiti positivi connessi a questi ultimi e
dunque la competitività delle imprese. Competitività che a sua volta si completa
nel profilo della permanenza sul mercato. Pertanto, se provocatoriamente si
potrebbe affermare che il vero incentivo all’ingresso dei finanziatori
nell’organizzazione è la garanzia dell’irresponsabilità, in realtà, poiché
quest’ultima opera quando si realizzi un risanamento della società, a beneficiare
di tale politica legislativa sono le società e tutti coloro che possono ottenere
390 Basilea 2 dà un ulteriore contributo in questa direzione.
163
soddisfacimento nelle pretese economiche verso queste. Si congiungono in tal
modo l’interesse della società, dei soci e dei creditori, ma anche l’interesse dei
terzi. Proprio quest’ultimo profilo va colto come la differenza emergente dalla
congiunzione tra prospettiva della solvenza e dell’insolvenza. Nel considerare
isolatamente la disciplina degli strumenti finanziari, si è ritenuto che la
consolidazione degli interessi dei non-soci sia avvenuta solo a favore di quelle
particolari categorie di imprenditori – principalmente bancari - che hanno una
capacità contrattuale tale da ottenere ingresso nell’organizzazione sociale.
Ebbene, nell’ottica di sistema da ultimo percorsa emerge la considerazione
seppure in via mediata anche di altri interessi, che appartengono
all’istituzionalismo nella versione più pura. Il risanamento e la conservazione
dell’impresa coinvolgono, infatti, anche lavoratori, fornitori e creditori
contrattualmente incapaci di autotutela.
È di particolare significato che si sia ravvisato questo profilo certamente
nell’ottica dell’insolvenza, ma non ipotizzando la necessaria attualità di questa,
bensì analizzando le soluzioni per evitarla o superarla. Dunque non quando
l’interesse sociale cessa per opinione unanime di identificarsi con l’interesse dei
soci non essendo più questi “residual claimants”, bensì in un momento che
prelude, precedendola, tale situazione. Può leggersi in ciò un passaggio di
conforto alla tesi americana che ritiene incongrua la distinzione tra area di
insolvenza e di prossimità alla stessa. In effetti, una simile distinzione non ha
senso e può essere condivisa la volontà di superarla, ma non con l’intento di dire
che la tutela di tutti gli interessi è sempre ex lege diretta appunto a tutti, bensì
per evidenziare l’esistenza di strumenti posti a disposizione dell’autonomia
contrattuale per modellare la protezione, diretta o riflessa in dipendenza della
situazione economico-finanziaria, dei diversi interessi riferibili alla società. Il
punto è che tali interessi coesistono in maniera latente, interagiscono in forme
distinte e differentemente ottengono tutela. Quest’ultima, in particolare, dipende
da una pluralità di fattori che si relazionano alle singole società e che, nel loro
imprevedibile atteggiarsi, rendono ragionevole la scelta di lasciare spazio e
libertà nei contenuti all’autonomia privata. Anche in questo senso si colgono la
164
condivisibilità e la condivisione da parte del nostro legislatore della tesi
americana sulla maggiore efficacia della tutela offerta dagli strumenti
contrattuali rispetto a quelli legali, fermi gli incentivi che, nella dimensione già
segnalata della coesistenza tra gli approcci normativi, sono stati accordati tanto
agli strumenti finanziari quanto alle soluzioni alla crisi alternative al fallimento.
Nel primo senso può essere ricodato il riconoscimento espresso di prerogative di
interazione nella governance; per la seconda categoria di istituti può essere
menzionata l’esenzione dalla revocatoria. Fondamentali saranno in ogni caso gli
orientamenti giurisprudenziali: nel caso degli strumenti, per evitare che ci si
possa avvantaggiare di interpretazioni letterali o legate a schemi tralatizi al fine
di eludere la legge e in particolare gli interessi dei terzi; nel caso delle
innovazioni in materia di insolvenza, per consacrarle quali valide alternative
rispetto ai moduli che le hanno preceduti. Dalle soluzioni interpretative prescelte
potrebbero dipendere la preferenza per la trasparenza o per l’opacità;
l’integrazione tra diritto societario, diritto fallimentare e ordinamento creditizio;
l’interazione, già nella fase che precede e scongiura la crisi, tra l’interesse
sociale e gli interessi che fanno ad esso da satelliti.
165
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