il granello di senape 170 n.2/2016 - aprile 2015

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170 n. 2 / 2016 i i l l g g r r a a n n e e l l l l o o d d i i s s e e n n a a p p e e "è il più piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è il più grande dei legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e fanno i nidi fra i suoi rami” (Mt 13,32) REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE Str. S. Martino, 144 12022 BUSCA (CN) – tel. 0171 943407 – e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo Editore: Associazione La Cascina Direttore Responsabile: Gianluigi Martini Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN). L’enciclica Laudato si’ Uno sguardo d’insieme ai punti salienti La Laudato si' (LS) di papa Francesco è un’enciclica davvero sorprendente nella sua attualità, aspettata e accolta con grande favore sia all’interno che all’esterno della Chiesa, nonostante quelle inevitabili critiche da parte di alcune frange legate a quel sistema economico e ideologico che l’enciclica fortemente denuncia. PASSAGGIO EPOCALE. Non ci sono dubbi che questa enciclica ha segnato un approfondimento nella riflessione del magistero sociale della Chiesa cattolica. Normalmente si stabilisce che il primo documento importante di riflessione sociale sia stata la Rerum novarum (1891) di Leone XIII, in cui la questione sociale era la questione operaia, con la richiesta di giustizia sul lavoro. Negli anni ’60 con l’enciclica Populorum Progressio (1967) di Paolo VI, la questione sociale si era trasformata in critica a un modello di sviluppo che stava provocando una contrapposizione feroce tra nord e sud del mondo, tra chi era impoverito perché sfruttato dall’occupazione e dal neocolonialismo e chi invece stava benissimo perché aveva sfruttato i territori coloniali. Oggi la Laudato si’ pone una domanda radicale a tutti gli uomini e tutte le donne: saremo in grado di garantire un futuro al nostro pianeta e quindi a quell’umanità che lo abita? Ma soprattutto l’enciclica opera, a detta di molti, una ‘rivoluzione copernicana’ a motivo del rovesciamento della prospettiva antropocen- trica, promuovendo un’idea di uomo in armonia col creato, fuori da una pretesa di dominio tra le creature e dentro una logica di cura e di servizio alla “casa comune”. Lo stile sinodale che guida questa enciclica - grazie alle tante citazioni di conferenze episcopali nazionali - , e il respiro ecumenico e interreli- gioso – novità assoluta in un documento pontificio - , sono grandi segni di speranza attesi da tempo da una buona parte di cristiani e fanno sperare per un rinnovato lavoro comune delle religioni per la giustizia e la pace nel mondo: “La maggior parte degli abitanti della terra si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità” (n. 201). CASA COMUNE. Quindi la Laudato sì’ chiarisce la concezione di papa Francesco sul rapporto tra Chiesa e mondo. La Chiesa è concepita come parte di un mondo più ampio, che l’enciclica chiama ‘casa comune’, di cui fa parte e con cui entra in relazione. Da questo scambio la Chiesa è Notiziario di comunità e gruppi – aprile 2016

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Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

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REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE – Str. S. Martino, 144 – 12022 BUSCA (CN) – tel. 0171 943407 – e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo – Editore: Associazione La Cascina – Direttore Responsabile: Gianluigi Martini – Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN).

L’enciclica Laudato si’ Uno sguardo d’insieme ai punti salienti

La Laudato si' (LS) di papa Francesco è un’enciclica davvero sorprendente nella sua attualità, aspettata e accolta con grande favore sia all’interno che all’esterno della Chiesa, nonostante quelle inevitabili critiche da parte di alcune frange legate a quel sistema economico e ideologico che l’enciclica fortemente denuncia.

PASSAGGIO EPOCALE. Non ci sono dubbi che questa enciclica ha segnato un approfondimento nella riflessione del magistero sociale della Chiesa cattolica. Normalmente si stabilisce che il primo documento importante di riflessione sociale sia stata la Rerum novarum (1891) di Leone XIII, in cui la questione sociale era la questione operaia, con la richiesta di giustizia sul lavoro. Negli anni ’60 con l’enciclica Populorum Progressio (1967) di Paolo VI, la questione sociale si era trasformata in critica a un modello di sviluppo che stava provocando una contrapposizione feroce tra nord e sud del mondo, tra chi era impoverito perché sfruttato dall’occupazione e dal neocolonialismo e chi invece stava benissimo perché aveva sfruttato i territori coloniali. Oggi la Laudato si’ pone una domanda radicale a tutti gli uomini e tutte le donne: saremo in grado di garantire un futuro al nostro pianeta e quindi a quell’umanità che lo abita? Ma soprattutto l’enciclica opera, a detta di molti, una ‘rivoluzione copernicana’ a motivo del rovesciamento della prospettiva antropocen-trica, promuovendo un’idea di uomo in armonia col creato, fuori da una pretesa di dominio tra le creature e dentro una logica di cura e di servizio alla “casa comune”. Lo stile sinodale che guida questa enciclica - grazie alle tante citazioni di conferenze episcopali nazionali - , e il respiro ecumenico e interreli-gioso – novità assoluta in un documento pontificio - , sono grandi segni di speranza attesi da tempo da una buona parte di cristiani e fanno sperare per un rinnovato lavoro comune delle religioni per la giustizia e la pace nel mondo: “La maggior parte degli abitanti della terra si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità” (n. 201).

CASA COMUNE. Quindi la Laudato sì’ chiarisce la concezione di papa Francesco sul rapporto tra Chiesa e mondo. La Chiesa è concepita come parte di un mondo più ampio, che l’enciclica chiama ‘casa comune’, di cui fa parte e con cui entra in relazione. Da questo scambio la Chiesa è

Notiziario di comunità e gruppi – aprile 2016

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arricchita (n. 7) e al mondo essa offre il proprio contributo (n. 216) a un’impresa che sta a cuore a tutti: la cura della casa comune (n. 14). Si tratta di un contributo prezioso, anzi indispensabile, al pari di quello di tutti i saperi e tutte le forme di saggezza che l’umanità ha elaborato (nn. 63 e 110), ma non è certo il solo a essere risolutivo. Anzi, è l’idea stessa che la soluzione possa venire da un unico punto di vista a costituire una parte del problema: «i problemi più complessi del mondo attuale, soprattutto quelli dell’ambiente e dei poveri, [...] non si possono affrontare a partire da un solo punto di vista o da un solo tipo di interessi» (n. 110). Se l’enciclica è chiara nell’af-fermare che scienza e tecnologia non possono ritenere di essere detentrici della chiave unica e ultima di accesso alla realtà, non lo fa certo per rivendicare quel ruolo alla teologia o alla Chiesa; infatti – aveva già affermato Evangelii Gaudium (EG) – «né il Papa né la Chiesa posseggono il mono-polio dell’interpretazione della realtà sociale o della proposta di soluzioni per i problemi contem-poranei» (EG, n. 184). Se la realtà è un poliedro, la Chiesa non può concepirsi se non come una delle facce che lo costituiscono. “Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro” aveva espresso papa Francesco nell’Evangelii Gaudium (n. 49). L’attenzione con cui la Laudato si’ si mette in ascolto della scienza e l’apprezzamento verso il lavoro svolto dai movimenti ambientalisti (n. 13) per tanti studiosi sono segni di una volontà di riconciliazione che fa sperare molto per il futuro. SGUARDO E ASCOLTO DEI POVERI. La Laudato si’ prende le mosse dallo sguardo sulla bellezza della creazione (n. 1) e dall’ascolto di un drammatico grido: la terra, nostra madre e nostra sorella, «protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei» (n. 2). L’intera enciclica può essere considerata un approfondimento, sotto una molteplicità di prospettive, delle radici e delle implicazioni di questo sguardo pieno di affetto che abbraccia ogni creatura e di questo ascolto, con l’obiettivo di convincere l’umanità intera ad assu-mere un atteggiamento contemplativo nei confron-ti della creazione e contemporaneamente a passa-re a una più decisa azione in risposta «tanto [al] grido della terra quanto [al] grido dei poveri» (n. 49). In fin dei conti si tratta dello stesso grido: da un parte, infatti, è sui poveri che si abbattono le conseguenze più catastrofiche del degrado ambien-tale (n. 25), dall’altra «fra i poveri più abbando-nati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e deva-stata terra» (n. 3). Francesco, quindi, ci rimanda a un’etica del volto, all’invito che il vangelo ci fa a correre il rischio dell’incontro responsabile (che dà risposta!) col volto dell’altro, perché è proprio nella dissolvenza dei volti che dobbiamo ricercare la causa di tutte le guerre e dei conflitti tra persone. L’etica del volto è vista come antidoto e

proposta per umanizzare questo mondo. Etica del volto, che è imparare a rileggere l’insieme delle cose muovendo dallo sguardo dei poveri, degli emarginati, di coloro che la società e l’economia “scartano” ritenendoli inutili. Questa è l’opzione preferenziale per i poveri (n. 158) che deve diventare prassi quotidiana di una Chiesa fedele al suo maestro. CURA E BELLEZZA. Per capire la profonda riflessione proposta dall’enciclica occorre quindi un salto di qualità: lasciare la prospettiva dell’ ‘usa e getta’ per imparare la bellezza della ‘gratuità’. Papa Francesco in più passaggi fa intendere che il grande miracolo della creazione consiste nel fatto che Dio ha creato qualcuno capace di esclamare “che bello”: l’uomo. C’è speranza che le cose cambino, perché questo uomo è capace di ricono-scere la bellezza, è capace di manualità per costruirla e di progettualità per sognarla! Ma soprattutto è capace di fraternità, che a ben guardare è già esperienza condivisa di bellezza. Il prendersi cura della creazione è allora la risposta gioiosa a questo mistero di bellezza in cui siamo inseriti. Una cura che non ha niente a vedere con l’antropocentrismo dispotico che promuove una umanità mediocre, capace solo di accaparrare, sfruttare e calpestare. Cura che si fa quindi denuncia decisa - senza se e senza ma - di quel sistema economico e tecnocratico che promuove la cultura dello scarto ambientale e di persone, che si alimenta del pensiero unico della finanziarizzazione e si affida a poteri estranei e lontani dalla realtà del popolo, che favoriscono un’economia non inclusiva ma esclusiva. BENE COMUNE, BENI COMUNI E POLITICA. La Chiesa non pretende di sostituirsi alla politica, ma il Papa invita ad un dibattito onesto e trasparente, perché le necessità particolari o le ideologie non ledano il bene comune. Il giudizio sul passato è severo: “I Vertici mondiali sull’ambiente degli ultimi anni non hanno risposto alle aspettative perché, per mancanza di decisione politica, non hanno raggiunto accordi ambientali globali realmente significativi ed efficaci” (n. 166). Il Papa si chiede perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo. Serve una governance mondiale: “abbiamo bisogno di un accordo sui regimi di governance per tutta la gamma dei cosiddetti beni comuni globali”, visto che “la protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente” (n. 174), scrive riprendendo le parole del Compendio della dottrina sociale della Chiesa. Papa Francesco insiste sullo sviluppo di processi decisionali onesti e trasparenti, per poter

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discernere quali politiche e iniziative impren-ditoriali potranno portare ad un vero sviluppo integrale. In particolare, lo studio dell’impatto ambientale di un nuovo progetto “richiede processi politici trasparenti e sottoposti al dialogo, mentre la corruzione, che nasconde il vero impatto ambientale di un progetto in cambio di favori, spesso porta ad accordi ambigui che sfuggono al dovere di informare e ad un dibattito appro-fondito” (n. 182). Particolarmente incisivo è l’appello rivolto a chi ricopre incarichi politici, affinché si sottragga “alla logica efficientista e “immediatista” oggi dominante: “se avrà il coraggio di farlo, potrà nuovamente riconoscere la dignità che Dio gli ha dato come persona e lascerà, dopo il suo passaggio in questa storia, una testimonianza di generosa responsabilità” (n. 181). CONSAPEVOLEZZA, EDUCAZIONE E NUOVI STILI DI VITA. C’è una costatazione fonte di forte preoccu-pazione: la gravità della situazione è sotto gli occhi di tutti, ma molti – forse la maggioranza – non sono disponibili a prenderne consapevolezza (n. 59)! La ricerca di soluzioni è ostacolata da atteggiamenti che «vanno dalla negazione del problema all’indif-ferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche» (n. 14). È un problema che riguarda anche i cristiani e vale la pena leggere queste parole così forti e chiare: “alcuni cristiani impegnati e dediti alla preghiera, con il pretesto del realismo e della pragmaticità, spesso si fanno beffe delle preoccupazioni per

l’ambiente. Altri sono passivi, non si decidono a cambiare le proprie abitudini e diventano incoe-renti. Manca loro dunque una conversione ecolo-gica, che comporta il lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che li circonda. Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana …”. Siamo chiamati quin-di ad una conversione ecologica personale ed ec-clesiale. Nell’ottica di fede significa “lasciar emer-gere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni col mondo che ci circonda” (n. 217), per arrivare alla “amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale” (n. 220). Queste conseguenze sono chiamate nuovi stili di vita, nuovi comportamenti, nuove pratiche, stili di vita alternativi, piccole azioni quotidiane; nascono dal basso e dal di dentro, cioè sono un frutto di una educazione che tira fuori da ogni persona il meglio di sé. IL QUOTIDIANO, LA SOBRIETA’ E LA TENEREZZA. Per poter avviare questo cambiamento degli stili di vita non bisogna pensare di fare cose straordinarie, fuori dalla nostra portata, ma occorre partire dalla nostra vita quotidiana, cercando di cambiare le nostre scelte quotidiane, da quando ci alziamo a quando andiamo a dormire. Fondamentale diventa scoprire il valore della sobrietà, che è metterci nella strada della liberazione e non della priva-zione. Liberarci da tutto quello che è superfluo e dai vari bisogni indotti, che ci ostacolano a vivere bene e a gustare le cose semplici della vita. Vivendo nella tenerezza, che è l’opposto della violenza, della prevaricazione, ma ci porta nel cuore di Dio Padre, perché “ogni creatura è oggetto della tenerezza del padre, che le assegna un posto nel mondo” (n. 77). Il tutto vissuto nella speranza: “Camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccu-pazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza” (n. 245).

Flavio Luciano [Questi miei brevi appunti tengono conto di tutto ciò che sull’enciclica già è stato scritto nel bell’articolo di Gigi Garelli sul Granello n. 169, pagg. 5-6.]

La vignetta di questa pagina ci è stata disegnata per l’occa-

sione da Paco, che ringraziamo affettuosamente. Tutte le

altre vignette, tratte dal web (www.irancartoon.ir , in parti-

colare) hanno per tema le migrazioni, i rifugiati, i morti in

mare, i respingimenti. Parecchie di esse fanno parte

dell’album “The Exibition of Cartoon about Drowned

Refugee Syrian Kids”. Le fonti da cui le abbiamo tratte ci

fanno ritenere che il loro uso sia non soltanto libero, ma

addirittura raccomandato. Da parte nostra non abbiamo

nessun intento commerciale, ma ci sentiamo uniti e solidali

con tutti quelli che difendono i diritti dei più deboli.

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SOMMARIO

FLAVIO LUCIANO, Laudato si’. Uno sguardo d’insieme ai punti salienti La scelta redazionale è stata di costruire questo numero attorno ai temi dell’enciclica e quindi ad essi fanno riferimento molti degli altri contributi. I drammatici fatti degli ultimi tempi ci hanno poi spinti ancora una volta a dare spazio al tema delle migrazioni, e in qualche articolo le due tematiche si sono anche incontrate.

GIGI GARELLI, Hai voluto il riconoscimento? Adesso pedala! La paradossale situazione dei richiedenti asilo. Hanno più probabilità di trovare una sistemazione finché sono in attesa di essere ascoltati dalla Commissione di valutazione. Dopodiché, specie se la loro domanda viene accolta, cominciano le difficoltà.

FRANCO CHITTOLINA, Migrazioni, tra memoria debole e futuro incerto Il dramma di migranti e profughi in questa difficile sta-gione dell’UE richiama alla mente le parole di Gianbatti-sta Vico: “Parean traversie ed erano opportunità”. E non solo perché l’Europa di domani ha bisogno di nuovi e più giovani cittadini, ma più ancora perché deve reinventare il suo progetto unificatore con il contributo di tutti.

ADRIANA LONGONI, Un addio e un ricordo per Berta Caceres. All’inizio di marzo questa donna honduregna è stata assassinata, a causa della lotta a tutela dell’ambiente in cui vive la sua comunità indigena. L’importanza di ricordare e onorare le tante umili ed eroiche vittime dell’impegno nella cura della casa comune, dovere richiamato con forza dall’enciclica di papa Francesco

EVA, E questo sarebbe lavoro?

L’esempio di generosità di un imprenditore ci aiuta a riflettere su come dovrebbe essere il lavoro ‘vero’, le cui modalità appaiono così diverse da quelle di un modello caratterizzato da occasionalità, precarietà, scarso rispetto per la dignità del lavoratore.

MICHELE BRONDINO E YVONNE FRACASSETTI, Il nostro male viene da più lontano

Capire e pensare: questi i due pilastri che ci propone l’interpretazione del mondo di oggi da parte di Alain Ba-diou e di Tiziano Terzani. In sintonia con il messaggio del-la Laudato si’ un forte invito all’impegno per un mondo pacificato e rispettoso della vita in tutte le sue forme.

ANGELO FRACCHIA, La preghiera A partire dalle indicazioni di Gesù sulla fede nella preghiera: Dio ascolta chiunque lo preghi con fede, o i miracoli sono un’illusione? L’invito ad accogliere diverse sensibilità, diverse impostazioni più o meno razionali, di fronte ad una domanda (sul comportamento di Dio) che rimane senza risposta piena.

COSTANZA, Ciao, suor Rosa Un saluto a suor Rosa Porello, nostra amica, collaboratrice del Granello da tanti anni, tragicamente scomparsa in un incidente stradale, nella convinzione, come sostiene Isabel Allende, che “non esiste separa-zione definitiva finché esiste il ricordo, perché il ricordo è sempre un luogo di incontro”.

EVA, Così sia... Così possa avvenire, forse (V) Una poesia ‘a puntate’, per rinnovare di volta in volta il desiderio e l’augurio di un cambiamento salutare, affidato alla fragile forza di una schiva speranza.

ANGELO FRACCHIA, Il viaggio del primo. Racconto

Per una volta, un piccolo gioco, senza alcun fonda-mento nella Bibbia (se non al limite argomentando a partire dal silenzio... ma è sempre argomentazione perico-losa). Un personaggio importante del Nuovo Testamento alle prese con una partenza: le cose andranno come aveva immaginato?

CARLO MASOERO, Grecia ma anche Italia Dibattito contro neoliberismo, guerre e razzismi, a fianco del popolo greco a Cuneo il 23 marzo: si struttura il gemellaggio con il Centro di Solidarity4all del Pireo. Dalla discussione una amara riflessione sulla situazione in Italia, ma anche la volontà di andare avanti continuando il dialogo tra diversi.

ALBERTO BOSI, Appunti sulla vita e il pensiero di Mohandas Karamchand Gandhi (II) Dopo avere in qualche modo tracciato (sul n. precedente del Granello) l’evoluzione del pensiero-azione di Gandhi, cerchiamo ora di affrontare il punto centrale, la sua concezione matura della nonviolenza. Essa non è e non vuole essere un sistema, ma una pratica in continua evoluzione anche se guidata da alcuni punti di riferimento ideali, sintetizzabili nel riferimento alla tradizione religiosa induista e cristiana, e nella critica della moderna società industriale. Quello di Gandhi è niente di-meno che uno dei principali tentativi moderni di rispondere alla domanda sul senso complessivo del vivere umano, mettendo in comunicazione tra loro etica, politica, economia e religione; quattro elementi che nella nostra modernità spesso non si parlano. L’art., come già quello della precedente puntata, viene pubblicato come inserto centrale, in modo tale da poter essere estratto e conservato a parte.

ALBERTO BOSI, C’è chi dice no alla violenza del potere Cosa spinge una persona di fronte ad una situazione di violenza ad opporsi, rischiando di persona, ed un’altra, al contrario, a girare la testa dall’altra parte? Nel libro di Amedeo Cottino la questione del riconoscimento dell’Altro come ‘altro se stesso’, e pertanto degno di compassione e solidarietà.

MST, C’è una situazione grave in Brasile Il comunicato della direzione nazionale del MST (Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra) in merito ai recenti fatti del Brasile, con il coinvolgimento dell’ex-presidente Lula, letti come un vero e proprio golpe della borghesia neoliberista.

CLAUDIA FILIPPI, Viaggio in Senegal, per ritrovare l'umanità. L'Africa così lontana da un' Europa senz'anima. Il resoconto del recente viaggio in Senegal per un progetto di formazione ed animazione della Caritas ci trasmette segnali positivi da un Paese che, dopo anni di dittatura, cerca il riscatto sociale. L’impegno a favore di migranti, in partenza e di ritorno: una bella lezione per noi europei.

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Per qualsiasi problema di invio di questo nostro periodico,

vi preghiamo gentilmente di rivolgervi ad uno dei due

seguenti recapiti: Comunità di Mambre (tel. 0171 943407,

strada S. Martino 144 - 12022 Busca; e-mail:

[email protected]) oppure Associazione La Cascina

(e-mail: [email protected]; tel. 0171 492441,

c/o Cartoleria, via Demonte 15, San Rocco Castagnaretta -

Cuneo).

Se il Granello vi interessa e vi fa piacere riceverlo, vi

chiediamo di contribuire, se vi è possibile, alle spese per la

carta, la stampa e la spedizione postale, con un contributo minimo di 10 euro, da versare sul c.c.p. n. 17678129,

intestato a Il granello di senape, oppure da consegnare a

mano alla Cascina o a qualcuno del gruppo redazionale (di

Mambre, della Coop. Colibrì, ecc.).

Ci sono graditi e utili suggerimenti, critiche, proposte (e

magari anche apprezzamenti!).

“Il Granello di senape” è un notiziario di comunità e di

gruppi. In particolare vi collaborano stabilmente: Comunità di

Mambre, Ass. Ariaperta, La Cascina, Cooperativa Colibrì,

Gruppo Oltre di Vernante, Libera, Orizzonti di pace,

Tavolo delle Associazioni. A questo numero hanno contribuito

anche: “i Cascinotteri”, Alberto Bosi, Michele Brondino,

Anna Cattaneo, Franco Chittolina, Gianfranco Conforti,

Sergio Dalmasso, Oreste Delfino, Cecilia Dematteis, Renzo

Dutto, Gianni Fabris, Claudia Filippi, Yvonne Fracassetti,

Angelo Fracchia, Gigi Garelli, Alessio Giaccone, Costanza

Lerda, Adriana Longoni, Flavio Luciano, Leonardo

Lucarini, Eva Maio, Carlo Masoero, Sergio Parola, Piera

Peano, Grazia Quagliaroli, Andrea Selleri.

Questo numero è stato chiuso in redazione il 7/4/2016.

SERGIO DALMASSO Notizie in breve sul mondo

dal Tavolo delle Associazioni del Cuneese

LEONARDO LUCARINI, Quale digiuno per il Signore? Dilatare il nostro presente, temperare ansietà e aspetta-tive, sapersi mettere in gioco, quando necessario, an-che in assenza delle condizioni ideali: una riflessione sull’op-portunità di esercitarci in alcune pratiche di “digiuno” che possano rivelarsi utili nel nostro cammino quotidiano.

Per noi è importante informarsi e partecipare. Referendum del 17 aprile per fermare le trivelle Il documento qui pubblicato, preparato dal Comitato referendario per il Sì, risponde in 18 punti alle questioni che vengono di solito buttate in faccia ai promotori del referen-dum. Riposte pacate, ricche di dati, senza insulti e senza retorica.

SERGIO DALMASSO, Un referendum tradito Alcuni recenti provvedimenti legislativi vanno in direzione opposta rispetto alla volontà espressa dai cittadini attraverso il referendum del 2011 e stravolgono il senso della Legge d’Iniziativa Popolare del 2007. Investimenti dei gestori delle reti idriche in provincia di Cuneo quasi sempre insufficienti e, a volte, discutibili.

ORESTE DELFINO, Responsabilità e cura Il Movimento dell’Acqua Bene Comune si sente in buona compagnia: l’invito di papa Francesco a prendersi cura di Madre Terra sostiene e incoraggia quanti hanno a cuore l’acqua e i Beni Comuni. A Trinità domenica 15 maggio si terrà la VI edizione della ‘Primavera dell’acqua’.

CECILIA DEMATTEIS, Divenendo L’invito ad aderire con consapevolezza al fluire della vita, che si manifesta in noi e nelle cose attorno a noi, accogliendo e non ostacolando le trasformazioni continue come occasioni, opportunità di essere in modo autentico.

ALESSIO GIACCONE, Buona Costituzione a tutti Buon avvio a Cuneo il 21 marzo della campagna referendaria per la difesa della costituzione e dei diritti ecologici e sociali. Di referendum in referendum: il per-corso della campagna che si protrarrà fino al 2017 e interesserà ambiente, lavoro, scuola, istituzioni.

CARLO MASOERO, Puf: non ci siamo ancora Si radicalizza la vicenda del Puf. Il sindaco Borgna cambia passo, anzi fa retromarcia. Il consigliere Nello Fierro occupa la sala del Consiglio Comunale e lo Sportello Casa mette le tende in piazza. In programma incontro con il Demanio a Torino e, al prossimo Consiglio Comunale, mozione sulla requisizione

ANDREA SELLERI, Giocare col clima Comprendere le sfide planetarie tramite un gioco di ruolo: le complesse dinamiche, regolate da interessi spesso contrapposti, che determinano il riscaldamento globale simulate in un campo estivo con 500 partecipanti.

CARLO MASOERO, Una Rosa che non appassisce Il 5 marzo a Cuneo, con una conferenza su Rosa Luxemburg, inaugurato con il botto il circolo Arci a lei intitolato. Sorpresa delle sorprese: nella tranquillissima Cuneo tanta gente, tanti giovani per ascoltare ed appas-sionarsi ad una visione anticapitalistica di ieri e di domani.

GIANFRANCO CONFORTI, I primi passi del Comi-tato per la salute mentale in Piemonte Continua la riflessione su significato e prospettive del

movimento nato sull’onda dell’opposizione al progetto regionale di riorganizzazione delle strutture territoriali psichiatriche. La volontà di andare oltre questa ‘verten-za’ e di proporsi come punto di riferimento per chiunque in Piemonte abbia a cuore la qualità della Psichiatria.

A CURA DELLA COOP. COLIBRÌ, Progetto Quid: moda etica e sostenibile Un gruppo di giovani, tessuti di recupero, donne in difficoltà: questi gli ingredienti di un successo. La Cooperativa QUID ospite della Cooperativa Colibrì a Cuneo e Mondovì racconta una premiata startup che unisce sostenibilità ambientale, mercato e integrazione lavorativa di donne in difficoltà. Un modello di business che guarda al futuro partendo dallo scarto per restituire dignità e speranza.

A CURA DELLA COOP. COLIBRÌ, Lavoro, donne e Bosnia A vent'anni dal conflitto nei Balcani la Cooperativa Colibrì ha incontrato a Fossano il fotoreporter Mario Boccia, inviato de "il manifesto" a Sarajevo, Belgrado, Pristina e Skopje, e Radmila Zarkovic, attivista per i diritti delle donne e presidente della Cooperativa agricola "Insieme" che nella Bosnia del dopoguerra ha offerto opportunità di lavoro e futuro alle vedove di guerra di diverse etnie, unite nella produzione di piccoli frutti per la produzione di marmellate e succhi venduti nel circuito del commercio equo.

I CASCINOTTERI, Le pagine della Cascina Cronache delle attività quotidiane, delle feste, degli appuntamenti, a cura dei protagonisti.

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Hai voluto il riconoscimento? Adesso pedala! La paradossale situazione dei richiedenti asilo

Sono in Italia da mesi. Hanno raggiunto il nostro Paese in mille modi, fuggendo perlopiù da situazioni di guerra e di persecuzioni, e, una volta rinfrancati in uno dei tanti centri di accoglienza allestiti nei pressi dei luoghi degli sbarchi, hanno chiesto una delle tre forme di protezione previste dal Diritto internazionale, l’asilo politico in senso stretto, la protezione sussidiaria o la protezione umanitaria. In attesa di essere ascoltati per sottoporre la loro situazione a una delle 40 Commissioni Territoriali dislocate sul territorio nazionale, costituite proprio per passare al vaglio racconti, documenti e testimonianze di profughi e richiedenti asilo, possono contare su una rete ormai collaudata di sostegno e accoglienza fatta di strutture di accoglienza, di nodi di smistamento, di destinazioni intermedie e finali che – al di là di ogni allarmismo messo in piedi da chi di allarmismo vive – complessivamente funziona. Il ministero dell’Interno, tramite le prefetture e con la collaborazione di enti locali e di centinaia di associazioni e comunità che da anni si occupano di immigrazione, ha avviato procedure pressoché standardizzate per accompagnare passo passo il percorso di chi arriva in Italia in cerca di protezione. Dopo un primo periodo-tampone di risposta alle emergenze e di assestamento, sono nate forme di accoglienza più strutturate e articolate, come la rete SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, gestito direttamente dai Comuni) che offre non solo vitto e alloggio, ma anche un contorno di attività che vanno dall’insegnamento della lingua alla frequenza di corsi di integrazione. Le stesse strutture di accoglienza hanno maturato col tempo forme di collaborazione capaci di rispondere in modo più adeguato alle esigenze di una situazione che va ormai oltre l’emergenza, come è accaduto in provincia di Cuneo, dove nel settembre scorso si è costituita “Rifugiati in rete”, una rete di cooperative sociali che si occupano di migranti, rifugiati, richiedenti asilo. Ne fanno parte le cooperative Fiordaliso e Momo di Cuneo, Insieme a Voi di Busca, Armonia di Revello, il Consorzio CIS di cui fanno parte le cooperative Alice e Orso di Alba, Cascina Martello di Mondovì, tutte aderenti a Confcooperative – Federsolidarietà Cuneo. Alla base dell’iniziativa è la condivisione di un cammino di anni, iniziato da alcune di queste realtà già da tempo con il Comune di Cuneo e con la Prefettura, per dare risposte più efficaci a un fenomeno sociale ormai di notevole impatto, ma anche per alimentare il dibattito sulle politiche dell’accoglienza. L’obiettivo è quello di lavorare, ognuno con le proprie peculiarità e specificità, in modo condiviso per una accoglienza digni-tosa e di qualità, per sensibilizzare il territorio e pensare e progettare l’integrazione secondo un

modello di accoglienza innovativo di piccoli nuclei, che metta in contratto la professionalità delle cooperative con il mondo del volontariato, con le parrocchie, con il privato, con le famiglie.

Il tempo dell’attesa

La prima accoglienza, quella di coloro che sono in attesa dell’esame in Commissione, può contare sul sostegno di competenze consolidate e sul supporto significativo di risorse economiche che hanno permesso di far nascere un po’ ovunque in Italia esperienze-pilota, alcune delle quali con risultati straordinari. È il caso di Rieti, dove è stato avviato il progetto “Terrae, un orto per l’inclusione sociale” promosso da SPRAR territoriale, Comunità Emmauel, Caritas diocesana, con il sostegno di un’azienda agricola locale per rivitalizzare l’economia reatina attraverso percorsi di inserimento lavorativo dei rifugiati e richiedenti asilo ospiti dello SPRAR. Su un terreno di circa un ettaro si è offerta ai richiedenti asilo la possibilità di sperimentare tecniche di agricoltura biologica, contribuendo al rilancio dei prodotti orticoli locali e al miglioramento delle tecniche colturali. L’attività, partita da un anno, è destinata a crescere e ad accogliere altri ragazzi, e il supporto dell’azienda agricola privata, per quanto prezioso, ha carattere transitorio, con l’obbiettivo finale di creare una cooperativa agricola del tutto autonoma. A due passi da casa nostra ha suscitato grande interesse un’esperienza analoga, predisposta dalla

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cooperativa CrescereInsieme Onlus di Acqui Terme, operante nel Sud Astigiano e in particolare nel Canellese. La cooperativa è ideatrice in questa parte della provincia di una serie di progetti volti all’integrazione dei propri ospiti ma anche alla formazione professionale. Da una parte ha attivato un corso di teatro aperto ai rifugiati e ai canellesi, per mettere in contatto le due realtà. Dall’altro, ha messo in piedi il progetto “Maramao” in un’azienda agricola in cui sei rifugiati, quasi tutti Africani, hanno appreso tecniche di coltivazione dell’agricoltura biologica vendendo poi i propri prodotti (farina e gallette di farro, verdura e frutta di stagione, marmellate, cugnà) al mercato. I sei ragazzi coinvolti hanno provveduto a lavorare la vigna, a coltivare l’orto e a preparare marmellate e conserve, con l’obiettivo di imparare un mestiere e costruirsi un futuro in Italia, magari facendo di “Maramao” una vera start up agricola, in cui gli ospiti possano formare a loro volta altri rifugiati provenienti da oltremare.

Poi arriva il riconoscimento

Se tuttavia le cose vanno bene per coloro che sono in attesa di essere ascoltati dalla Commissione Territo-riale, paradossalmente la situazione si complica per coloro che al vaglio della Commissione già ci sono passati. Lasciando da parte la spinosissima questione di coloro che hanno ricevuto il temutissimo “diniego”, ovvero il mancato riconoscimento di una qualche forma di protezione internazionale, per i quali si apre - dopo qualche tentativo di ricorso - la prospettiva del rimpatrio o della permanenza clandestina in Italia, anche la situazione di quelli che la protezione l’hanno ottenuta si complica non poco, perché devono lasciare le strutture di accoglienza che li hanno ospitati durante il periodo dell’attesa e perdono il diritto ad usufruire del sostegno economico previsto per chi li accoglie. Viene meno quindi il loro appeal come fonte di reddito per chi ha fatto dell’accoglienza profughi un business, ma anche coloro che l’accoglienza la operano con spirito di solidarietà e con coscienza si vedono costretti a chiuder loro le porte, incalzati dalle prefetture che chiedono continuamente disponibilità di posti per i nuovi arrivi. I richiedenti asilo si trovano quindi ad assumere lo scomodo ruolo di rifugiati, che se da una parte offre loro la possibilità di soggiornare legalmente con un regolare permesso di soggiorno, dall’altra li priva di quella che era stato fino al giorno prima la loro copertura economica. Alcuni hanno la fortuna di poter usufruire di una rete informale di sostegno da parte di famigliari o di amici già presenti in Italia, qualcuno trova accoglienza in comunità che si occupano specificamente di queste situazioni, qualcun altro emigra verso il nord Europa. Chi è stato ospite in strutture gestite da associazioni o realtà che hanno dimensioni nazionali, come la Papa Giovanni XXIII o la Comunità Emmaus, può sperare di trovar posto in qualcuna delle loro sedi e continuare a risiedervi. Ancora, chi ha avuto la fortuna di essere accolto da

Cooperative che hanno provveduto non solo a vitto e alloggio ma anche a preparare l’uscita, può sperare in un accompagnamento nella fase di inserimento. Ma chi esce da strutture ricettive messe in piedi senza troppi scrupoli e senza alcun interesse per le prospettive degli ospiti si trova quasi sempre a finire nel gorgo dell’assistenzialismo di bassa soglia, fatto di notti nei dormitori e di pasti in mensa senza prospettive di inserimento sociale.

È necessario intervenire al più presto

Purtroppo, e paradossalmente, queste situazioni hanno cominciato a moltiplicarsi proprio perché le commis-sioni territoriali hanno iniziato a lavorare in modo più efficiente, riducendo progressivamente i tempi di atte-sa. Cosa fare, visto il disinteresse delle istituzioni che di questi casi non si occupano più, proprio perché sfor-niti del “tesoretto” che fino al giorno prima li garantiva economicamente e li tutelava? Proprio nei loro con-fronti, e a pieno titolo, vale l’appello di Papa Fran-cesco alle comunità cristiane perché si muovano come apripista e mettano in atto iniziative di accoglienza, facendosi carico di queste situazioni di disagio. Anche in questo caso non mancano esperienze-pilota, anche a casa nostra. Esemplare il caso di Verzuolo, dove sono stati accolti nella casa parrocchiale di San Filippo e Giacomo di Verzuolo, tre ragazzi africani cui è stato riconosciuto il diritto di asilo per motivi umanitari, che, avendo finito il percorso di ricono-scimento in Italia, non avrebbero più ricevuto alcuna forma di aiuto. La comunità locale si è fatta carico in modo autonomo della loro accoglienza, nata da un progetto condiviso nel Consiglio Pastorale e coordinato da un gruppo di volontari con il parroco, per andare nella direzione indicata da Papa Francesco a tutti i cristiani, quella di aprire ai poveri le case parrocchiali e le strutture poco utilizzate. Alcune famiglie, su mandato dei Parroci, si sono incontrate settimanalmente per valutare la possibilità di accogliere alcuni rifugiati contattando i rappresentanti di diversi enti e associazioni territoriali (Comune, Caritas, Comunità Papa Giovanni…) al fine di determinare la soluzione più idonea rispetto alle risorse a disposizione. Si è giunti, quindi, alla decisione di accogliere i tre giovani africani in possesso di permesso di soggiorno per motivi umanitari, che sono arrivati a Verzuolo il 22 febbraio scorso. Il progetto di accoglienza è stato messo a punto con la Comunità Papa Giovanni XXIII, da tempo impegnata anche a Saluzzo nell’ambito del campo solidale dei migranti stagionali al Foro Boario, che si farà carico dei tre giovani garantendo il proprio supporto. Il progetto è esemplare: accoglienza di un piccolo gruppo di rifugiati, sostegno economico da parte di una rete di famiglie che garantiscono anche la propria vicinanza in termini di relazioni positive, ospitalità in una struttura messa a disposizione della Chiesa locale, supporto e accompagnamento da parte di un’associa-zione esperta. Questo dovrebbe essere il modello da

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adottare, e il numero crescente di persone in uscita dalle prime accoglienze rende viepiù urgente la necessità di fare in fretta per realizzarlo anche altrove. L’appello di Papa Francesco è stato lanciato, famiglie generose ce ne sono tante, comunità parrocchiali coraggiose anche. Occorre solo che la voce venga fatta

circolare, e che al più presto si mettano in piedi cabine di regia coordinate dagli enti locali per mettere in moto iniziative che possano sperare di essere efficaci anche sul lungo periodo.

Gigi Garelli [email protected]

Per saperne di più

Chiunque giunga sul territorio nazionale italiano proveniente da paesi in cui rischia persecuzioni di tipo religioso, politico o etnico ha diritto a richiedere una delle forme di protezione previste dalle leggi internazionali. Può essere una persona entrata in Italia illegalmente, come tramite gli sbarchi, oppure legalmente con un visto turistico. Una volta registrate le generalità presso le autorità competenti, può presentare richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, ottenendo così un permesso di sei mesi di soggiorno in attesa della definizione del proprio status. Nei primi 60 giorni il richiedente è soggetto ad alcune restrizioni ed obblighi, come il fatto di non poter lavorare, poi è tenuto a presentarsi a una Commissione territoriale che verifica la sua storia e i suoi requisiti. 1) Se emerge una situazione di persecuzione personale gli viene rilasciato lo status di rifugiato, con il relativo permesso di soggiorno per asilo politico che risponde a rigidi requisiti: è necessario dimostrare che il ritorno in patria comporti un rischio per la propria vita, mentre generici motivi economici non sono contemplati. 2) Chi non ottiene lo status di rifugiato può sperare di ottenere un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, nel caso in cui il Paese di origine sia politicamente instabile o insicuro a causa di un conflitto. 3) Ci sono infine i casi dove viene concesso un permesso di soggiorno per protezione umanitaria: il richiedente non ha i requisiti per ottenere lo status di rifugiato ma la sua situazione presenta condizioni di tale eccezionalità che necessita della protezione internazionale. Nel caso in cui il richiedente si veda negato il riconoscimento di una di queste tre casistiche, può fare ricorso. Se al termine dei tre gradi di giudizio non vedrà riconosciuta la condizione per l’emissione di un permesso di soggiorno dovrà lasciare il nostro Paese. I tempi di attesa sono molto lunghi. La procedura standard per la richiesta del riconoscimento dello status di rifugiato è nell’ordine di sei mesi. In alcuni casi però, il responso non arriva prima di un anno e mezzo.

Tipologie di permesso di soggiorno e relativi benefici

Permesso di soggiorno per asilo politico

Permesso di soggiorno per protezione sussidiaria

Permesso di soggiorno per protezione umanitaria

Durata 5 anni, rinnovabile, consente accesso allo studio e al lavoro, convertibile in permesso di soggiorno per lavoro.

Diritto al ricongiungimento dei famigliari.

Mantenimento dell’unità del nucleo famigliare.

Rilascio del titolo di viaggio equiparato al passaporto, di validità quinquennale, rinnovabile.

Accesso all’occupazione alle mede-sime condizioni del cittadino italiano.

Diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale, sanitaria e di accesso all’edilizia pubblica.

Durata 5 anni, rinnovabile, consente accesso allo studio e al lavoro, convertibile in permesso di soggiorno per lavoro.

Diritto al ricongiungimento dei famigliari.

Mantenimento dell’unità del nucleo famigliare.

Rilascio del titolo di viaggio per stra-nieri, in caso di impossibilità di otte-nere il passaporto dagli uffici consolari.

Accesso all’occupazione alle mede-sime condizioni del cittadino italiano.

Diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale, sanitaria e di accesso all’edilizia pubblica.

Durata 2 anni, rinnovabile, consente accesso allo studio e al lavoro, convertibile in permesso di soggiorno per lavoro.

Diritto al ricongiungimento dei famigliari in presenza dei requisiti di alloggio e reddito previsti dal D.lgs. 286/98.

Mantenimento dell’unità del nucleo famigliare.

Diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale, sanitaria e di accesso all’edilizia pubblica.

Fonte: Rapporto sull’accoglienza di migranti e rifugiati in Italia, a cura del Gruppo di studio del Ministero dell’interno, Roma, ott. 2015, p. 12.

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Migrazioni tra memoria debole e futuro incerto

Nella confusione di questi giorni, in cui si intrecciano le

notizie di guerre ai confini d’Europa e di attentati terroristici all’interno dell’Unione Europea, sta perdendo visibilità il dramma irrisolto dei flussi migratori che

mettono paura all’Europa, dove politici irresponsabili non esitano a produrre un amalgama tra migranti e terroristi.

In un simile contesto è opportuno tentare di fissare alcuni

punti chiari seguendo il filo della storia per non

dimenticare il passato e ricordando qualche numero.

Memoria del passato

La storia delle migrazioni è realtà antica, come antica è

l’inquietudine e la volontà di ricerca degli uomini che da sempre si muovono per trovare migliori condizioni di

vita, generando flussi imponenti di migrazioni che hanno

ridisegnato man mano la mappa del pianeta. Senza andare

troppo indietro nel tempo basterebbe ricordare le

“invasioni barbariche” a cui dobbiamo grandi rimesco-

lamenti etnici e nuovi contributi culturali che la civiltà

occidentale di allora – e quella romana in particolare –

seppe integrare, non senza importanti difficoltà ma anche

con geniali invenzioni politiche e culturali. Sarebbe

almeno altrettanto interessante rileggere la cultura

dell’antica Grecia, un’eredità da non dimenticare, con la

sua concezione dello straniero e dell’ospite, generatrice di una cultura dell’accoglienza di cui l’Europa di oggi sembra non avere grande memoria.

Come sembra aver perso memoria del suo non lontano

passato anche molta parte della popolazione italiana,

magari ancora nipote di generazioni che non molto più di

un secolo fa lasciarono le nostre terre per cercare lavoro

in Paesi spesso inospitali, accolte da cartelli “vietato agli stranieri” affissi su case dove cercavano provvisoria dimora. Purtroppo dimenticare il passato non aiuta a

capire il presente e a prepararsi per il futuro.

La realtà oggi

Oltre alla memoria, possono aiutare a capire meglio il

presente anche i numeri delle migrazioni. L’ONU stima a poco meno di 250 milioni gli immigrati nel mondo,

nell’Unione Europea ne risiedono appena una trentina di milioni, una presenza molto più importante è ospitata in

una delle regioni più povere del mondo, nell’Africa subsahariana. Se si limitano i numeri ai profughi dell’area mediterranea, spiccano la massa di profughi in Turchia,

con circa 2 milioni e mezzo di persone, e il piccolo

Libano, con un milione e duecentomila profughi.

Nell’UE ne sono stati contati, a fine 2014, circa un milione e mezzo.

A fronte di questi numeri viene da chiedersi che senso

abbia la “gigantografia” che dipingono i “media” del

fenomeno migratorio in Europa, la regione più ricca del

mondo e, tra tutte, la più impaurita per percentuali di

profughi che non raggiungono le due cifre. Il sospetto

fondato è che la dilatazione mediatica alla quale assi-

stiamo riguardi un fenomeno ordinario della storia, oggi

con dimensioni straordinarie rispetto al recente passato,

ma ingigantito all’inverosimile: da una parte, ad opera di politici che cercano consenso approfittando delle paure

degli elettori e, dall’altra, da una popolazione installata in condizioni di relativo benessere, che si sente minacciata

da “barbari”, accusati di attentare alla sicurezza e a un lavoro spesso precario.

Questa falsa rappresentazione del fenomeno migratorio si

intreccia con l’ipocrisia e l’irresponsabilità delle politiche attivate su questo versante dai Paesi di un’Unione Europea, giudicata incapace di un’azione coordinata e di una strategia di lungo periodo.

Delle politiche nazionali nell’UE in materia di

immigrazione è presto detto. In questi ultimi tempi

assistiamo a un crescendo di chiusure con frontiere che si

cerca di sigillare con effetto domino, ciascun Paese

credendo così di proteggersi più efficacemente dalle

chiusure realizzate o minacciate dal Paese vicino. Si tratta

di una dinamica che si espande a pelle di leopardo, come

testimoniano le deroghe, solo apparentemente provviso-

rie, al Trattato di Schengen sulla libera circolazione alle

frontiere interne dell’UE. Hanno cominciato i Paesi dell’Europa centrale, come Ungheria e Polonia, dimostrando una memoria corta sulle

costrizioni subite ai loro confini di nemmeno una ventina

di anni fa. A questi si sono aggiunti Paesi di lunga tradi-

zione democratica, come Svezia e Finlandia e, a tratti, la

Francia, mentre hanno meritevolmente resistito alla

tentazione di chiudere le frontiere Paesi particolarmente

esposti, come l’Italia e la Grecia. Analogamente a questi due Paesi ha mantenuto una disponibilità alla politica di

accoglienza dei rifugiati la Cancelliera tedesca, Angela

Merkel, non senza difficoltà a fronte del malumore

crescente nel suo partito e dopo i recenti insuccessi nelle

recenti elezioni in tre Laender tedeschi.

E qui si chiariscono i motivi delle ipocrisie e dell’irre-

sponsabilità di molti governanti europei, vittime di una

diffusa paura per le pressioni ai “sacri confini” della patria e di politiche socio-economiche responsabili di una

crescita debole e di progressive rotture di coesione

sociale, in particolare nello spazio fragile del welfare.

Basti pensare alle posizioni rivendicate dalla Gran

Bretagna, alla vigilia di un azzardato referendum sulla

permanenza o meno nell’UE, a proposito della libera circolazione non solo degli stranieri, ma anche di cittadini

comunitari per i quali si prospettano pesanti riduzioni di

accesso alle protezioni sociali nazionali e nuove

precarietà nel mercato del lavoro.

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Di questi ingredienti è fatta la miscela esplosiva, la cui

miccia accesa negli Stati cosiddetti “sovrani” dell’UE rischia di esplodere nel cuore delle Istituzioni

comunitarie, accusate di non farsi carico dei problemi

provocati dalle migrazioni e di non trovare soluzioni

efficaci e darne rapida esecuzione, fingendo tutti di

dimenticare che tale responsabilità non le è stata affidata

dai Paesi membri nei Trattati UE.

Le sfide future

E’ probabilmente questo il punto centrale da chiarire, il “male oscuro” da diagnosticare, se si vuole veramente attivare una terapia efficace. Con almeno due premesse: il

fenomeno migratorio non è una vicenda congiunturale,

ma una realtà strutturale di lungo periodo, per almeno

un’altra ventina d’anni, e cresce l’indebolimento demografico dell’Europa, rispetto al resto del mondo - a

causa dei differenti tassi di natalità - che esigerà per il

nostro continente un “supplemento” di popolazione per sostenere economia e welfare.

Partendo da queste due premesse bisognerà provare a

disegnare la futura politica comune europea delle

migrazioni, cominciando col ricordare che oggi questa

non esiste e che costruirne una è impresa complessa,

contrastata da pretese “sovranità” politiche nazionali e da miopi interessi egoistici anche da parte di importanti

attori economici, “globali” per gli affari e “nazionali” – se

non addirittura “aziendali” – per i diritti.

Non c’è dubbio infatti che il “mito della sovranità” –

come lo chiamava Luigi Einaudi – pesi come un macigno

sull’elaborazione di una politica comune europea delle migrazioni.

Resiste, nonostante le esperienze tragiche delle guerre

europee, l’immaginario di quelle “sacre frontiere” che non ci protessero allora e ancor meno ci proteggeranno

nel mondo globale di oggi. Un mito usato anche per

politiche regressive del mercato del lavoro che adattano i

flussi migratori agli immediati fabbisogni di manodopera,

grazie a un “esercito di riserva” dei migranti da far entrare e uscire a piacere dallo spazio nazionale, com-

pensando con queste “flessibilità umane” le “rigidità monetarie” e i vincoli della competizione internazionale. La complessità della materia esige che contempora-

neamente si mettano in moto altre fondamentali politiche

comuni che aspettano da tempo di essere avviate: la

politica economica, la politica estera e di sicurezza,

integrata dalla cooperazione internazionale, e una politica

fiscale, in attesa che prenda forma anche uno strutturato

welfare europeo, progressivamente europeo.

L’Unione Europea che verrà

Come si vede si tratta di scelte impegnative che im-

pongono agli Stati membri, impegnati nella costru-

zione di un’Europa politica, di delegare pezzi impor-tanti di sovranità ad un’Autorità federale, così come in parte è già avvenuto per altre politiche, in particolare

con la moneta unica e la Banca centrale

europea.

Tutto questo però non potrà avvenire senza un

contestuale riposizionamento culturale che aiuti a

chiarire la visione degli europei sul loro futuro e le

loro relazioni con gli “altri”, gli stranieri presenti o in arrivo tra noi. Indispensabile è credere al futuro

dell’Europa, ancor prima di individuarne il profilo. Lo diceva già, il secolo scorso, Antoine de Saint-Exupéry:

“Quanto al futuro, ciò che conta non è prevederlo, ma assicurarsi che ci sia”. Troppi europei oggi hanno paura che il futuro non ci sia o che, per lo meno, non ci

sia per l’Unione Europea, vista la sua attuale debolezza. Dimenticano la lunga e ricca storia

dell’Europa, il suo patrimonio culturale, la sua forza economica e commerciale, le recenti lezioni che le

hanno impartito i due ultimi conflitti mondiali e la sua

provvidenziale mancanza di alternative: o aggregarsi o

declinare fino a morire.

Una volta alimentata questa fiducia nel futuro si può

mettere mano ad una visione equilibrata di orientamenti

nell’attuale labirinto di posizioni culturali e politiche, proprio a partire dal nostro atteggiamento verso i

migranti, sul quale fare leva per disegnare la nuova

Europa, trasformando il dramma delle migrazioni da

un’occasione per la costruzione di nuovi muri in una “levatrice” della nuova Unione Europea. Di queste diverse posizioni culturali in materia di

migrazioni in Europa è possibile disegnare una mappa

costruita su un quadrante ricco di stimoli diversificati.

Nella parte alta del quadrante, quello della solidarietà, le

proposte vanno dall’ospitalità senza condizioni e dall’accoglienza in nome del diritto europeo all’apertura delle frontiere e alla considerazione della nazionalità

come un residuo di diritto feudale. Nella parte bassa del

quadrante, quello della difesa dell’identità, gli orientamenti muovono dalla necessità di proteggere gli

autoctoni contro gli stranieri e dalla salvaguardia di

un’Europa cristiana al diritto di selezionare i migranti fino alla proposta di aiutarli a distanza, controllandone

più severamente l’ingresso tra di noi. Siamo probabilmente a una svolta della storia

dell’Europa e del mondo, non alla vigilia della fine

dell’Europa e del mondo, ma alla fine di un’Europa e di un mondo certamente sì. E’ l’occasione per i cittadini europei di riappropriarsi di un progetto di integrazione

europea inventato da una generazione di politici

coraggiosi all’inizio degli anni ’50, troppo poco partecipato negli anni successivi dalla popolazione

europea e ancor meno negli anni recenti, dopo il grande

allargamento del 2004. Da una partecipazione di

cittadini informati e responsabili e da un’iniezione di fiducia in Istituzioni comunitarie profondamente

rinnovate, guidate da una nuova generazione di politici

coraggiosi – e perché no, anche visionari come quelli di

settant’anni fa – potrà nascere un’altra Unione Europea della quale “noi” e “gli altri”, meglio se “noialtri” insieme, saremo i protagonisti.

Franco Chittolina [email protected]

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 11

E questo sarebbe lavoro? Riflessioni sul lavoro oggi di una

cittadina non addetta ai lavori

Tra i tanti luccichii dell’ultimo Natale, avevamo subìto anche quello della propaganda sfacciata sui dati relativi al lavoro, come se il job act fosse stato il tocco magico che tutti può rasserenare. Se accettiamo che il lavoro sia un misto di occasionalità, precarietà e “usa e getta” del lavoratore, allora sì, qualche numerino in più c’è. Se accettiamo che le statistiche sulla disoccupazione trattino i dati col metro per cui bastano due o tre ore di lavoro settimanali per non entrare nella lista dei disoccupati, allora sì, qualche numerino in più c’è. Il problema sta proprio nel “se accettiamo”. Accettare i dati del lavoro occasionale e non di quello vero significa portare sempre più acqua al mulino del liberismo più sfrenato. E purtroppo sembra che tutti siano rassegnati ad accettare. Molto brutalmente ciò vuol dire che i cittadini stanno accettando di essere come schiavi stretti nella morsa tra la precarietà e il ricatto di essere peren-nemente disoccupati. Un esempio di lavoro vero, indirettamente ci è dato dal caso di quell’imprenditore varesino che ha destinato una parte della sua eredità ai dipendenti della sua fabbrica. Tutti i giornali hanno letto il fatto sottolineando giustamente l’etica, anzi la generosità imprenditoriale del signor Macchi. Questo fatto può anche essere letto come un buon esempio del tipo di lavoro che si vuole affossare: quello continuativo, che crea esperienza, professionalità, buone relazioni, collaborazione e quindi profitto. Profitto per tutti. Ed il vero profitto per tutti è quello che innanzi tutto sal-va la dignità di entrambe le parti: di chi “crea” lavoro e di chi al lavoro si dedica con mani, cervello, fantasia, impegno. L’Enoplastic di Bodio Lomnago avrebbe avuto lo stesso successo con l’ottica attuale dei lavoratori “usa e getta”?

Eva [email protected]

Un addio e un ricordo per Berta Caceres

Era una giovane donna honduregna, appartenente alla

Comunità indigena dei Lenca. Aveva 44 anni, di cui

più della metà trascorsi a lottare per il rispetto dei

diritti dei popoli amerindi e, in particolare, per la

difesa dell’ambiente in cui vive la sua Comunità. Per questo suo tenace impegno, Berta aveva ricevuto nel

2015, insieme ad altri attivisti, il Premio Goldman per

l’ambiente, il riconoscimento mondiale più importante in campo ambientale.

Il 3 marzo scorso, Berta, mentre rientrava a casa nella

sua città di “La Esperanza”, veniva barbaramente uccisa con 3 colpi di pistola alla testa. Veniva così

ridotta al silenzio una delle donne più determinate

nella lotta contro la depredazione sistematica del

territorio della sua comunità, una autentica

“luchadora” e una leader amata e incontestata. L’Honduras è un piccolo Stato dell’America centrale, ricchissimo di risorse naturali. Fin dagli inizi del 1900,

il Paese ha attirato gli interessi economici delle grandi

multinazionali per lo sfruttamento di tali risorse, in

particolare minerarie, idriche e fossili. Da sempre

questo sfruttamento genera conflitti con le popolazioni

indigene, le cui proteste sono spesso represse con la

forza e la violenza e, non raramente, anche nel sangue.

Berta è stata uccisa infatti nel bel mezzo della sua

ultima battaglia: sostenuta da tutta la sua Comunità, si

opponeva alla costruzione di una diga sul fiume

Gualcarque da parte di un’importante industria idroelettrica cinese. Berta difendeva in prima persona

gli interessi di almeno 600 famiglie, situate nella

foresta pluviale e alle quali la realizzazione del

progetto avrebbe impedito l’approvvigionamento di acqua potabile. Berta era diventata quindi un bersaglio

per i poteri politici ed economici e, paradossalmente, è

stata vittima di una politica di sviluppo che purtroppo,

in America centrale, in America Latina in particolare,

continua ad imporsi attraverso la violenza politica.

Berta spiegava che “(…) il popolo Lenca ha un concetto proprio di sviluppo. Si tratta di un progetto

basato sulla dignità umana, sul rispetto della Madre

Terra, sul benessere delle Comunità, sul delicato

equilibrio fra gli esseri umani e i beni comuni,

partendo da una visione di giustizia sociale ed

economica. Ciò che non accettiamo è la logica di

privatizzazione e depredazione delle nostre risorse per

ottenere maggior profitto. Ciò che non accettiamo è la

logica estrattivista del capitalismo (…)”. Spiegava

inoltre che la difesa del territorio – della terra, del

grano e dell’acqua – è la difesa dell’identità, cioè è la difesa del corpo e del pensiero, è la difesa dello spazio

per l’umanità. Berta Caceres è solo l’ultima di una lunga catena di vittime ambientali. Secondo un rapporto del Global

Witness, sono state 116 gli omicidi ambientali fra il

2002 e il 2014; il 40% delle vittime sono indigeni, con

il numero più alto in Honduras e in Brasile.

Sono vittime ed eroi che non possiamo dimenticare,

soprattutto dopo il forte richiamo di Papa Francesco

nella sua “Laudato si’ ” sulla cura della casa comune.

Un richiamo che porta una luce ancora più intensa sul

coraggio e la lotta di molti uomini e donne che hanno

dato la vita per difendere la Terra, a partire dal vivido

ricordo di quel Chico Mendes ucciso in Brasile 25 anni

fa fino ad oggi, fino a Berta Caceres, la “luchadora” senza paura.

Adriana Longoni [email protected]

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 12

Il nostro male viene da più lontano

In questo momento in cui il terrorismo islamista ha

colpito il cuore dell’Europa a Bruxelles, e in cui l’esplosione delle migrazioni nel Mediterraneo diventa incontrollabile e viene finalmente letta come un feno-

meno mondiale e non locale che sta destabilizzando

l’Europa, ci è parso interessante fare dialogare il teori-co marxista inveterato Alain Badiou con un giornalista

sul campo, il più spirituale dei liberi pensatori, Tiziano

Terzani, le cui Lettere contro la guerra (Milano,

Longanesi, 2002), scritte subito dopo l’11 settembre 2001, continuano a rivelarsi non solo attualissime

come analisi ma pure inascoltate e profetiche, viste le

sabbie mobili in cui sprofonda il mondo di oggi. Due

voci che sono espressione di visioni del mondo molto

diverse, ma che convergono verso il messaggio

dell’enciclica Laudato si’, la quale richiama gli uomini

di ogni fede al bene comune.

Ambedue, il teorico e il giornalista, ci mettono in

guardia contro alcuni errori che, dopo anni di lotta al

terrorismo e di derive della geopolitica, non hanno

fatto che peggiorare la situazione, e ci invitano a

capire e a pensare che Notre mal vient de plus loin

(titolo del saggio di Badiou, Paris, 2016). Capire e

pensare sono i due pilastri della loro interpretazione:

capire, non nel senso di giustificare ma in quello di

individuare e comprendere i meccanismi che ci hanno

portati ai crimini di massa perpetrati dal terrorismo, e

pensare, nel senso di un vero e proprio ripensamento

del nostro modo di gestire il mondo globale e i rapporti

tra l’Occidente e il resto del pianeta. Dai loro rispettivi discorsi, molto articolati e circostanziati, possiamo

enucleare quattro punti focali molto pertinenti per

inquadrare l’impasse in cui ci troviamo: 1) la necessità di fare una lettura globale dei mali del mondo invece

di continuare a guardarli da una ristretta angolatura

nazionale o identitaria; 2) la consapevolezza del

funzionamento del sistema-mondo come mercato

globalizzato con le sue derive e le sue ricadute sui

popoli; 3) l’immensa frustrazione di tutti gli esclusi che assistono allo spettacolo dell’agiatezza e dell’ar-roganza occidentale; 4) il fallimento della guerra come

risposta al terrorismo e l’invito a fermarci, a riflettere, a cercare soluzioni alternative che non si limitino a

rispondere alla violenza con altra violenza in una

spirale senza fine, ma realizzino un futuro di giustizia

e di pace.

Guardare il mondo come un tutt’uno

Continuare a percepire e a interpretare quanto avviene

attorno a noi e nel mondo, positivo o drammatico che

sia, dal nostro angolino regionale o nazionale, comun-

que da uno spazio ristretto, mentre le sorti dei popoli

sono gestite da scelte e decisioni prese a livello

mondiale, è sicuramente fuorviante. Fuorviante da un

punto di vista umano in quanto “la sofferenza va colta a livello dell’umanità intera” - scrive Badiou -, in

quanto il rinvio a “pulsioni identitarie” per piangere morti francesi o italiani è certo comprensibile, ma non

può ignorare che ciò succede ogni giorno in ogni parte

del mondo (Nigeria, Mali, Siria, Libia …) senza che ci si commuova più di tanto, come se ci fossero parti

dell’umanità più umane di altre. E’ indubbio che l’Oc-

cidente ha tendenza a percepirsi come rappresentante

dell’umanità intera. “Per favore - aggiunge Terzani -

vuole spiegarmi qualcuno esperto in definizioni che

differenza c’è tra l’innocenza di un bambino morto a World Trade Center e quello di uno morto sotto le

nostre bombe a Kabul?”. Ma c’è di più. Oltre ad un limite sul piano umano, questa visuale ristretta è pure un handicap a livello del

pensiero critico: che senso ha pensare a livello

nazionale, restringere la visuale a un’identità regionale mentre tutto il mondo gira con regole mondializzate?

Occorre, raccomanda Badiou, “essere capaci di avere

una rappresentazione mondializzata dei problemi” per capire i nessi tra le varie realtà, per non fare come la

rana del proverbio cinese - ci racconta Terzani - che

guarda un quadrato di cielo dal fondo del pozzo

pensando che si tratti di tutto il cielo.

Il sistema-mondo: uno spietato mercato

globale dominato dalla tecno-scienza

La caduta del muro di Berlino e il fallimento del

comunismo hanno dato via libera al trionfo del neo-

liberalismo che si espande senza più limiti e di cui la

mondializzazione del mercato è l’espressione più evidente. Purtroppo, ciò che doveva garantire il

progresso infinito dell’umanità, e addirittura, secondo i

teorici del liberalismo, la fine della storia (Francis

Fukuyama), si sta rivelando un processo aggressivo e

difficilmente controllabile che, avendo come unico

scopo il profitto, riduce il mondo a mercato globale.

Sono soltanto un ricordo i tentativi del secolo scorso di

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 13

arginare gli eccessi del capitalismo, anzi di costruire

un capitalismo dal volto umano che fece la fortuna del

modello europeo. Stiamo assistendo, scrive Badiou,

alla distruzione sistematica di questi argini che

avevano come obiettivo di difendere la posizione

dell’uomo e del benessere delle società al centro del

sistema: dai diritti sociali alle leggi antitrust, dai

controlli statali alle nazionalizzazioni, ogni tentativo di

introdurre logiche diverse dal profitto viene spazzato

via per dare spazio al mercato senza confini, dalle

delocalizzazioni alle multinazionali: “il liberalismo è

liberato”. Mentre assistiamo ogni giorno, ognuno nel

proprio paese, allo sgretolamento dello stato sociale, a

livello mondiale le disuguaglianze crescono in modo

impressionante e ci sono dati fondamentali, conferma

Badiou, che tutti devono conoscere prima di parlare di

democrazia: l’1% della popolazione mondiale possiede il 46% delle risorse mondiali disponibili; il 10% della

popolazione mondiale possiede l’86% delle risorse; il 50% della popolazione mondiale non possiede nulla.

Resta circa il 40% della popolazione mondiale, la

classe media, che si batte per non lasciarsi sfuggire le

briciole, il 14% delle risorse disponibili. Lasciamo da

parte le oligarchie quasi invisibili e guardiamo agli

altri due gruppi: il 50% che non possiede nulla, di cui

due miliardi di persone che non contano nulla per il

mercato (non essendo né consumatori né salariati) e

che il sistema-mercato non è in grado di assorbire, e il

14% della classe media, cioè noi, cittadini dei paesi

sviluppati e democratici, impauriti all’idea di vedere ancora ridursi il nostro modesto patrimonio e impauriti

dai due miliardi di nullatenenti che errano e talora

premono alle frontiere dei nostri Stati indeboliti.

Questa è la situazione del mondo contemporaneo e di

lì bisogna partire per capire le dinamiche che muovono

guerre e migrazioni (vedi il cap. V Iniquità planetaria

in Laudato si’) Come si fa a tener in piedi un sistema così squilibrato?

Il filosofo francese e il giornalista italiano rispondono

concordi a questa domanda elementare: queste disu-

guaglianze esplosive sono non solo prodotte dalla

struttura del nostro mondo contemporaneo ma gli sono

funzionali. Non è cambiato quasi nulla da quando

l’Occidente si assicurava la padronanza delle ricchezze del mondo attraverso la colonizzazione diretta delle

regioni ricche in materie prime. Dopo la decoloniz-

zazione, sono solo cambiate le modalità di dominio e

alla colonizzazione diretta dei territori è succeduta

“un’attività incessante degli Stati occidentali per continuare a controllare i circuiti delle materie prime e

delle fonti di energie”. Per assicurarsi questa padro-

nanza occorre indebolire o distruggere gli Stati che

potrebbero ostacolare gli interessi occidentali,

sostituirli con “accordi fragili tra minoranze, religioni, ecc.”, cioè creare zone geografiche deboli e instabili

dove dormono queste risorse e dove operare facendo

affari tra poteri locali complici e bande armate di ogni

tipo. E’ un’accusa grave, ma guardiamo agli esempi più vicini a noi: la Libia destabilizzata dall’intervento

prepotente di Francia e Gran Bretagna per aprirsi un

varco verso l’Africa, ridotta oggi a striscia di passag-

gio per ogni delinquenza ma dove gli affari conti-

nuano, e la Siria abbandonata alle violenze perché

contesa tra Stati Uniti, Russia e le potenze regionali,

tanto che occorre aspettare l’accordo tra Obama e Putin per sperare nella fine della guerra e nel frattempo

la Russia sta pianificando una Siria divisa in tre,

secondo linee di confini etnico-religiose.

Terzani, che è uomo concreto e accorto, ce lo dice con

le parole di un vecchio accademico della Berkeley

University, certo non sospetto di anti-americanismo,

Christopher Johnson, il quale, dopo aver fatto l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di stato, perse-

cuzioni, assassini, … interventi a favore dei regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli USA sono stati

coinvolti in America Latina, in Africa ... e nel Medio

Oriente dalla fine della seconda guerra mondiale ad

oggi, conclude con queste parole: “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America, ma

la politica estera americana … ed è questa politica a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico

che gli USA sono un implacabile nemico”. Non c’è quindi da stupirsi se prima Bin Laden con Al Qaeda

poi Al Baghdadi con l’ISIS fanno appello a tutti i

musulmani del mondo per ridisegnare la mappa del

Medio Oriente, non più secondo le frontiere coloniali

di Sykes Picot, ma secondo linee di antica tradizione

che corrispondono al Califfato. L’Europa, divenuta cinghia di trasmissione della politica economica

mondiale, ha seguito e affiancato gli USA in questo

progetto di dominio del mondo, dimentica della sua

storia e del fatto che i suoi dirimpettai mediterranei

aspettavano da lei il sostegno di una potenza civile,

modello di sviluppo e di democrazia per i popoli della

riva sud. Ora, con l’impatto del terrorismo e ondate migratorie epocali provocate da questa destabilizza-

zione del Medio Oriente e delle zone nevralgiche, è

l’Europa stessa ad essere fragilizzata e quindi vulnerabile sullo scacchiere mondiale.

La frustrazione degli esclusi e la crescita dell’odio

Gli esclusi, i due miliardi che per il sistema neo-libe-

rale non contano nulla, cercano di emigrare ad ogni

costo avendo intuito che non c’è futuro nei loro paesi o trovano rifugio nell’irrigidimento della tradizione,

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 14

nell’Islam che, a questo punto, rimane l’unica ideolo-

gia a proporre un’alternativa “al progetto ‘diabolico’ dell’Occidente di incorporare l’intera umanità in un uni-co sistema globale il quale, grazie alla tecnologia, dà

all’Occidente il controllo di tutte le risorse del mondo”. Terzani, ci ha scritto da Peshawar, da Kabul, da Delhi,

dove ha trascorso lunghi periodi della sua vita per stare

con la gente, per capire come percepiscono l’Occi-dente laggiù e come intravedono il loro futuro. Cosa

aspettarsi da queste popolazioni? “Dal 1983, gli USA hanno bombardato nel Medio Oriente paesi come il

Libano, la Libia, l’Iran, l’Iraq. Dal 1991 l’embargo imposto dagli USA all’Iraq di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane,

circa mezzo milione di morti… E cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera in Iraq… una rabbia simile a quella che l’ecatombe di New York ha generato nell’America. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste un legame”. Non c’è da stupir-si se l’istruttore della scuola coranica, in un villaggio di fango del Pakistan ripetutamente colpito, gli confer-

ma, con lo sguardo invasato, che “Se non smettono di bombardare, costituiremo piccole squadre di uomini

che andranno a mettere bombe e a piantare la bandiera

dell’Islam in America. Se verranno presi dal FBI, si suicideranno”. Se si tiene conto che questa frustrazione, dovuta al

senso di impotenza di fronte alle bombe occidentali

che da anni mietono morti fra le popolazioni civili nel

Medio Oriente (per 10 persone prese di mira, un drone

colpisce 90 innocenti), si aggiunge ad una frustrazione

di fondo che ha le sue radici nelle difficoltà del mondo

arabo ad entrare nella modernità, si coglie la misura

dell’abisso che separa Oriente e Occidente, abisso in

cui non possono crescere che odio e fanatismo. Su

queste colonne, abbiamo già dedicato molto spazio a

La malattia dell’Islam (Granello n. 5, 2015), come la

definiscono gli intellettuali arabi che si battono per

uscire dalla paralisi culturale in cui stagnano le società

arabo-musulmane, dove il fanatismo religioso e non la

ragione o il senso critico fanno da riferimento. Fa bene

Terzani a ricordare che i piccoli alunni delle scuole

coraniche imparano a memoria il Corano, spesso senza

nemmeno capirne la lingua, convinti di guadagnarsi

così il paradiso per sette generazioni e fa bene a

sottolineare che “è appunto questa accecante mistura di ignoranza e di fede ad essere esplosiva e a creare,

attraverso la più semplicistica e fondamentalista

versione dell’Islam, quella devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po’ troppo avventatamente, di venirci a confrontare”. Allora, noi Occidentali, convinti di appartenere ad una

civiltà superiore basata sulla ragione e la scienza oltre

che sui valori universali e i diritti umani, come mai

non abbiamo imboccato la via della pace e della

chiaroveggenza? Perché gli interessi del mercato

hanno sempre la meglio su qualsiasi altro principio e

perché “oggi, il paradigma tecnocratico è diventato

così dominante che è molto difficile prescindere dalle

sue risorse, e ancora più difficile è utilizzare le sue

risorse senza essere dominati dalla sua logica” (Laudato si’, p. 108)

La guerra, risposta sbagliata

Con queste analisi, lo ripetono a vicenda sia Badiou,

sia Terzani (che fanno eco allo spirito dell’enciclica di Papa Francesco), non si tratta di giustificare, ma di

capire che il problema del terrorismo come risposta ad

una situazione asimmetrica, “non si risolve uccidendo i

terroristi ma eliminando le ragioni che lo rendono

tale”. Il nostro male viene da più lontano ripete il filo-

sofo, da oltre l’Islam, da oltre l’emigrazione, dall’in-

capacità dell’economia globalizzata di creare un mon-

do per tutti, da una visione binaria (bene/male, noi/lo-

ro...) che semplifica, mutila e impedisce di pensare.

Non saranno le guerre ad avere il sopravvento sul

terrorismo, ma un’idea nuova per gestire il mondo in modo alternativo al liberalismo globalizzato della tecno-

scienza, “il ritorno a una politica di emancipazione che si scosti dall’attuale struttura del mondo contemporaneo”. Terzani chiude citando il preambolo della costituzione

dell’Unesco: “le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini che bisogna

costruire la difesa della pace”. Capire e poi pensare,

osare pensare che questa è la strada sbagliata e che

dobbiamo inventarci un altro modo di gestire il mondo

“sulla base di più moralità e meno interesse. Facendo

più quello che è giusto, invece di quello che ci

conviene. Educando i figli ad essere onesti, non

furbi… Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a

volte tutti assieme. Questa è la buona occasione”, invocava Terzani all’indomani dell’11 settembre. Ascoltiamolo, ora che si è ripetuta la tragedia e che la

guerra ha dimostrato di essere inutile. E Laudato si’ si

rifà alla Carta della Terra (dichiarazione di principi

etici fondamentali per il XXI secolo ad opera di

istituzioni e singoli cittadini) che auspica: “possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una

nuova riverenza per la vita, per la risolutezza per

raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa

celebrazione della vita”. Michele Brondino e Yvonne Fracassetti

([email protected])

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 15

bibblando

La preghiera

Chi legge ha diritto ad almeno due premesse, oggi. La

prima è che il Bibblando di questo mese sarà ben più

ampio del solito, anche se già lo vede a occhio:

diciamo che ne sono consapevole fin dall'inizio. La

seconda è che alcuni particolari di vicende reali che

narro sono leggermente cambiati, per non infastidire

chi preferirebbe non essere troppo facilmente

identificabile. D'altronde, molti potrebbero testimo-

niare esperienze simili.

Le fonti della mia riflessione sono due. Da una parte,

come di consueto, il testo evangelico. Al capitolo 21

del vangelo di Matteo, Gesù passa accanto a un fico

cercando (peraltro fuori stagione) dei frutti e, non

trovandone, maledice quella pianta, che il mattino

dopo risulta secca. A importare, nel passo in questione,

è un giudizio simbolico sul tempio, ma intanto in quel

contesto Gesù istruisce i discepoli sulla preghiera, con

le seguenti parole:

«In verità io vi dico: se avrete fede e non dubiterete,

non solo potrete fare ciò che ho fatto a quest'albero,

ma, anche se direte a questo monte:

Lèvati e gèttati el are , ciò avverrà.

E tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo

otterrete». (Mt 21,21-22)

«Tutto quello che chiederete» è un'affermazione

pesante, sia pure con tutte le precisazioni che si

possono fare sul contesto antico, sulle formulazioni

pensate in "modo semita"... D'altronde, almeno un

altro paio di passi del vangelo di Marco sono

altrettanto decisi:

Rispose loro Gesù:

«Abbiate fede in Dio!

In verità io vi dico:

se uno dicesse a questo monte:

Lèvati e gèttati el are , senza dubitare in cuor suo,

ma credendo che quanto dice avviene,

ciò gli avverrà.

Per questo vi dico:

tutto quello che chiederete nella preghiera,

abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà.

Quando vi mettete a pregare,

se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate,

perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a

voi le vostre colpe». (Mc 11,22-25)

In modo simile, più come promessa e sia pure in una

conclusione del vangelo che non è originaria, Gesù

risorto promette di essere presente tra i suoi in modo

estremamente tangibile:

«Andate in tutto il mondo

e proclamate il Vangelo a ogni creatura.

Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato,

ma chi non crederà sarà condannato.

Questi saranno i segni che accompagneranno

quelli che credono:

nel mio nome scacceranno demòni,

parleranno lingue nuove,

prenderanno in mano serpenti

e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno;

imporranno le mani ai malati e questi guariranno».

(Mc 16,15-18)

Sono brani che solitamente si relativizzano, sostenendo

che si tratta di promesse e presentazioni estremizzate e

che di certo non possono essere lette da sole. Senza

affrontare nella sua completezza la questione, basta

ricordare che Luca, in un contesto simile, in cui invita

a confidare nella preghiera, perché il Padre è buono e

darà cose buone a chi gliele chiede, concentra poi le

cose buone nello Spirito Santo, che non comporta

necessariamente la guarigione (Lc 11,13). D'altronde,

Gesù nel Getsemani prega con forza il Padre di essere

liberato dal calice che deve bere, eppure non sarà

liberato dalla morte.

Nel commentare la preghiera di Gesù nell'orto degli

ulivi si fa spesso giustamente notare che Gesù non

prega propriamente di essere liberato dalla morte, ma

dal "calice", che nell'Antico Testamento indica sempre

una punizione che il castigato deve collaborare ad

assumere (mentre chi viene bastonato può anche non

far niente, un calice amaro deve essere bevuto...) e che

il calice a cui Gesù si riferisce potrebbe essere meglio

inteso come la fatica di decidere (se restare,

testimoniando fino in fondo l'amore del Padre, o

scappare, come peraltro aveva già fatto nella sua

esistenza senza che, in quelle altre situazioni, ciò

significasse tradire la propria vocazione). Insomma, il

calice che Gesù sente come pesante e amaro sarebbe

soprattutto la fatica della scelta, esattamente come

nell'esperienza di ogni essere umano. E il fatto che

Gesù si alzi da quella sua angosciante preghiera sereno

e sicuro è il segno che il Padre gli ha risposto,

donandogli la forza di vivere la croce. La risposta del

Padre, concentrata nell'intimo della persona (appunto,

nella forza di affrontare la croce) e oltre la storia (nella

risurrezione) sarebbe esattamente il segno del tipo di

intervento di Dio, che non si impone in modo

coercitivo nella storia ma chiede di essere visto, colto,

sempre con la possibilità di non vederlo, di attribuire

ad altro il cambiamento. In questo modo, ciò che il

credente in Gesù potrebbe chiedere sarebbe soltanto la

forza di vivere la fatica e l'esito buono quando tutto il

mondo avrà finito di parlare, nella risurrezione.

Questo, in fondo, sarebbe con più concretezza la

richiesta di avere lo Spirito Santo.

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 16

Tutto ciò continua per me a essere vero ed è ciò che

continuo a spiegare e a vivere.

Ma non ci si può nascondere che a volte c'è altro.

C'è l'esperienza di un caro amico, cristiano credente,

che, con fraterna e delicata insistenza, si è offerto di

pregare Dio in nome di Gesù Cristo imponendo le

mani per la guarigione di una persona che mi è cara e

che vive in una situazione di salute faticosa, e mi ha

anche di recente incoraggiato, confidando nella mia

fede, a pregare io stesso in questo modo per questa

persona. Mi ha raccontato, con grande entusiasmo, la

sua esperienza di preghiera, attualmente ancora in

corso, con imposizione delle mani a una signora,

bloccata a letto da metastasi ormai diffuse, che in

meno di un mese si rimette in piedi, senza più dolori e

con ogni probabilità ora guarita. C'è poi la diversa

esperienza di una famiglia, che io so, per conoscenza,

essere logorata dalla cattiveria di un fratello, i cui

genitori si presentano da un noto sensitivo cuneese e si

sentono chiamare e dire che il figlio più piccolo sta

rovinando famiglia, lavoro e tutto, e che la smetta. E

tutto ciò solo nel giro di poche ore. E ci sono tutte le

esperienze di miracolo che nella storia della Chiesa

sono tanto ricordate.

Da una parte, percepisco in questa seconda

impostazione qualcosa di pericoloso, a rischio di

diventare una religione esteriore, superstiziosa, in cui

Dio interviene a liberare dagli affanni storici, un po'

come un talismano. Dall'altra, quando il bisogno è di

salute, non si può negare che la preghiera sia sensata,

sia fondata. Peraltro, nei vangeli Gesù è ricordato

soprattutto come guaritore. Ma, per proseguire in

questo gioco di ping-pong del pensiero, sostenere che

Dio ascolta chi lo prega con fede non significherebbe

dire anche che, laddove la guarigione non c'è, manca

anche una fede sufficiente? Altrimenti dovremmo dire

che Dio di certe sofferenze decide di non accorgersi, e

sappiamo quanto siano lancinanti le sofferenze di

genitori che vedono appassire dei bambini in lunghe e

dolorose malattie, per non fermarci che ad un caso

solo, in qualche modo più estremo.

Per una volta almeno, svesto gli abiti del professore,

che non vuole essere ma forse molto spesso sembra

presuntuoso e saccente, per ammettere di non trovare

delle vie d'uscita piene.

Intuisco soltanto una strada non per risolvere la

questione, ma forse per renderla (quanto?) sostenibile.

Si danno, anche tra credenti, sensibilità diverse. Chi mi

parlava dei successi della preghiera a Dio con

l'imposizione delle mani mi citava anche una sua certa

distanza e cautela nei confronti di certi movimenti

carismatici e pentecostali che sembrano confondere

quello che è e deve rimanere una preghiera a Dio con

una sorta di auto-convincimento, invece, di "possesso"

di Dio e del suo Spirito, con tutta una serie di frequenti

e spiacevoli conseguenze, come la perdita di umiltà e

l'acquisizione di un senso di infallibilità personale.

Non c'è dubbio, io sono soprattutto teologo, con studi

biblici sostenuti da un'analisi storico-critica che ritengo

ineliminabile, perché ciò che è accaduto nella storia

umana va affrontato e letto in modo pienamente

umano, perché il Dio che diventa uomo non sopporta

di impostare il suo rapporto con l'uomo in modo non

umano. Perché, diciamocela tutta, la normalità del

rapporto con Dio nella preghiera non si dà in modo

straordinario. La Chiesa della prima generazione,

quella narrata dagli Atti degli Apostoli, faceva ancora

gesti di guarigione straordinari, ma sempre meno, e

una colonna come l'apostolo Paolo si mostrava molto

duro nei confronti dei doni straordinari dello Spirito (1

Corinzi 12-14).

Però ritenere discutibile o censurabile la guarigione di

una persona buona e "meritevole" (per ciò che

riusciamo a giudicare noi...) sarebbe un'offesa

all'umanità altrettanto grande.

Forse il cammino ecumenico, come intuiva Paolo VI,

inizia da qui. Non inizia dal mettere insieme le grandi

chiese, la cattolica, l'ortodossa e le varie protestanti,

perché viene richiesto un cammino insieme, accettando

le differenze, anche all'interno delle diverse chiese, e

anzi nelle singole, piccole, comunità, dove le

sensibilità umane sono diverse. Camminare insieme

accettando le differenze significa proprio ammettere

che si è diversi e non vivere questa diversità come un

ostacolo alla comunione. Siamo diversi, ma

camminiamo insieme, sia pure zoppicando ognuno in

un modo peculiare. La mia impostazione più "razio-

nale", più storico-critica anche nel leggere la Bibbia (il

testo non ci dice immediatamente ciò che leggiamo,

ma ciò che voleva dire per gli uomini che lo hanno

scritto e letto all'inizio... e noi dobbiamo fare la fatica

di risituarlo nel contesto d'oggi), non considererà in-

fantile o ingenua la fede di chi si attende una risposta

nella storia, percepibile, concreta, da parte di Dio. E

questi fratelli e sorelle non riterranno segno di poca

fede o poco amore il mio astenermi dall'imporre le mani

o dal cercare una guarigione miracolosa alle infermità.

Il rischio di considerarsi reciprocamente di poca fede o

ingenui comporterebbe il non trattarsi più da fratelli,

che in tutto il Nuovo Testamento pare essere la vera

tentazione per la Chiesa.

In tutto ciò, ci sarà anche da mantenere libero il

comportamento di Dio, che troppo spesso sembra non

rispondere, non intervenire; e che se intervenisse

regolarmente, efficacemente, ad ogni nostra richiesta

tornerebbe ad essere un amuleto di cui mi servo per i

miei problemi più spiccioli, un Signore che impone

con la forza la propria presenza, non mantenendoci

liberi di fidarci o meno di lui.

Almeno in questo, può darsi che la mia impostazione

più "razionale", che può essere più facilmente accusata

di "poca fede", salvi comunque meglio la libertà di

Dio. Il quale rimane altrettanto libero di intervenire

nella storia.

Angelo Fracchia [email protected]

Page 17: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 17

“... Tu hai già visto dall’alto del tuo volo

la luce che torna ogni mattina”.

da una poesia - intitolata Gioia - di

don Gianni Beraudo, 25.2.1994.

Ciao, suor Rosa...

Il 15 marzo 2016, al mattino, è

mancata suor Rosa Porello, della

Congregazione delle Suore Giu-

seppine di Cuneo, da anni amica

ed affezionata collaboratrice del

Granello, amica nostra...

Un tragico incidente - investita da

un’auto - ha concluso il suo

percorso con noi, trovandoci

prima increduli e lasciandoci

tristissimi ed indifesi di fronte al

tanto dolore.

Il Consiglio della sua

Congregazione - di cui era

componente - ha così intitolato

l’annuncio sul sito: Rimane

l’amore che ha donato, cogliendo

l’essenziale del suo cammino di 65 anni, spesi in Italia ed in

missione, in Argentina, esperienza

forte che certamente l’ha toccata nel profondo determinandone

scelte e prese di posizione chiare a

favore delle persone più deboli ed

impoverite.

Scorrendo i numeri del Granello si

possono incrociare i reportage che

arrivavano dalla comunità del-

l’Argentina, prima a nord e poi vicino alla capitale, impegnata

con le sue compagne a tutela dei

diritti del popolo che era diventato

il “suo popolo”, di fianco alle

comunità attive nella salvaguardia

delle terre, delle coltivazioni, sostentamento per quelle

popolazioni, lontane dai centri del potere ma “preda” di chi persegue solo il profitto.

E proprio questa era la caratteristica di Rosa,

un’accoglienza incondizionata dell’altro, che sapeva mettere a proprio agio qualunque fosse la sua

posizione nella società, nella comunità ecclesiale,

nell’occasione dell’incontro. Aveva però idee salde, certe, su “dove stare” e da che parte, le sapeva comunicare in modo chiaro, con fermezza, ma sempre

rispettosa delle persone e delle opinioni altrui, non

negandosi al confronto. Mi sembra di poter dire quanto

fosse “adeguata” ad ogni persona, che si sentiva accolta, capìta ed in relazione. E’ passata volendo bene a coloro che incontrava... ha percorso la sua strada

coinvolgendosi, mettendosi al fianco, stando vicino....

“... Percorrendo un vasto territorio dell’Argentina nel mio viaggio da Buenos Aires a Misiones, ho

contemplato a lungo queste terre sconfinate, la vera

ricchezza della nazione. E’ forse uno dei veri problemi che sono causa di

povertà e potrebbero trasformarsi in

soluzione. Si è sempre data ampia

libertà alle imprese, nazionali e

soprattutto internazionali, di com-

prare grandi estensioni di terra in

tutte le latitudini. La soia ha invaso

e distrutto zone intere dell’Ar-

gentina. Comunità intere “vendute”, costrette a emigrare, nutrendo così

il fenomeno dell’urbanizzazione disordinata e degli insediamenti

precari. In alcune province, abitate

da secoli da popoli originari, c’è la persecuzione e la morte degli indios

che resistono alle invasioni. Ho

conosciuto da vicino questi popoli

che solo chiedono di essere rispettati

nel loro diritto di possedere la terra

per coltivarla con rispetto, per

abitarla e goderla, popoli che hanno

molto da insegnarci: loro si sentono

figli della terra, non proprietari, ma

gli interessi e il denaro usano altri

criteri che distruggono e uccidono

la terra e i suoi abitanti.

Tornando in Italia in questo

momento di grave crisi economica,

ho pensato più volte che tutti

abbiamo bisogno di fermarci e

riflettere sui veri valori della vita, su

nuovi stili di vita che ci permettano

di vivere in un modo più umano e

giusto.

Desidero mantenere vivo in me ciò che ho imparato in

questi anni dal popolo: la grande capacità di

condividere, di accogliere, di fare posto a tavola a chi

arriva… e la capacità di godere delle piccole cose

senza crearsi dei problemi inutili, delle esigenze

superflue...” scriveva così per Il Granello nel 2012.

“Nulla va perduto” è la frase che voglio ricordare del suo partecipato funerale ... niente va perduto

dell’affetto che ci ha legati, della condivisione di valori ed ideali, della vicinanza ...

Il Granello ringrazia Madre Maria Nives che ci

permette di pubblicare (nella pagina seguente) la

lettera delle consorelle Giuseppine dell’Argentina, letta in chiesa al funerale, scritto che ripercorre e

tratteggia in modo chiaro e significativo il cammino di

Rosa in quella missione, il suo amore per quel popolo

e l’impegno profuso nella causa dei più poveri.

Costanza

[email protected]

Page 18: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 18

Cara Maria Nives e sorelle tutte, in questo momento siamo attraversate dal dolore della partenza della nostra cara sorella Rosa, che ha camminato con noi in Argentina per 29 anni. La sua presenza tra noi ci ha permesso di conoscerla e amarla, farla parte della nostra vita e della vita del nostro popolo; è divenuta una di noi, ha fatto propria la nostra cultura, il nostro modo di vedere la vita, la nostra religiosità; ci ha contagiate con la sua passione per il Piccolo Disegno, da lei abbiamo imparato ad amarlo e incarnarlo. Non comprendiamo la sua partenza, sentiamo che ci è stato strappato un pezzo della nostra vita, della nostra storia personale e di Delegazione… però accettiamo la sua morte nella certezza che è promessa di Vita Nuova. Abbiamo da poco celebrato con lei la gioia dei 50 anni di presenza della Congregazione in Argentina. Nel suo passaggio nella nostra patria ha potuto vederci, abbracciarci, ascoltarci; ci ha consolate, ha conosciuto le nostre necessità, i nostri sogni, le nostre stanchezze e difficoltà; ha portato con sé l’intensità delle nostre vite e gli aneliti delle nostre ricerche. La sua presenza continuerà facendo strada con noi, la vedremo e sentiremo con gli occhi del cuore e della fede. Oggi pur nella distanza, ci sentiamo in comunione con tutte le persone che Rosa amava, specialmente con la sua famiglia: Giovanni, Carmen, Andrea, Valeria e i suoi figli; con molte persone del nostro popolo vorremmo essere lì; però siamo certe che lei è qui con noi e con la nostra gente. Sentiremo molto la sua mancanza, ma sappiamo che ci accompagnerà sempre e sarà complice dei nostri sogni. Per questo le diciamo: Rosa ti amiamo molto e finché non torneremo ad incontrarci Dio ti custodisca nel palmo della sua mano.

Le tue sorelle dell’Argentina: Ladi, Renza, Pascui, Mari,

Paulina, Viviana, Isabel.

Così sia

Così possa avvenire… forse (5)

Così possa avvenire

forse

che sappiamo di nuovo scrivere

su fogli e sabbia con mani e dita

senza vergogna :

le nostre esistenze sono piccole

ed in prossimità assoluta

con la polvere e il vento.

Così possa avvenire

forse

che i ciabattini siano poeti

e i danzatori sui crinali del tempo

spalmino unguenti

sui piedi avvezzi alle salite

e i tagliatori di pietre

disegnino lampi nei templi del cuore.

Così possa avvenire

forse

che ogni passaggio e transito

dalle pieghe di animi stanchi

fino alla stagione del volo

sia riconosciuto nominato cantato

dipinto messo in circolo e a disposizione

come pane e vino ad un banchetto.

Così possa avvenire

forse

che piccoli fuochi e poca luce

siano cibo nel combattimento audace

contro ogni effimera apparenza

e il rotolare vorticoso di parole.

Torni caldo il desiderio

del contatto con l’anima del mondo.

Così possa avvenire

forse

che l’intelaiatura dei nostri orecchi travasi visioni agli occhi

e l’intelaiatura dei nostri occhi stilli rugiada sulla pelle del mondo

e chi ha fame di bellezza

ne raccolga gratis.

eva

Page 19: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 19

Il viaggio del primo racconto

Per entrare dovetti farmi largo tra bauli e varie

cianfrusaglie accumulate in ogni dove:

«Maestro! Mi fate pensare che non vogliate più

fare ritorno a Gerusalemme!»

«Shimshon, quante volte ti devo ricordare che

non sono il tuo maestro? Il Signore non gradirebbe

certo che tu mi chiami così»

«Come volete, ma siete voi ad avermi insegnato

tanto. Mi hanno detto che partivate, ma non

sapevano per dove, e nessuno, credo, pensava a un

viaggio del genere. Quanto pensate di restare fuori?»

«Shimshon, non so se tornerò mai a Geru-

salemme»

«Come? E perché? Avete paura del sommo

sacerdote? C'è un governatore romano, adesso, non

oserà farci niente!»

«No, non è paura della morte. In fondo, comin-

cio ad essere già vecchio e di sicuro non verrebbero a

disturbare noi. Io vado al tempio tutti i giorni, è

chiaro a tutti che sono un buon giudeo. Non faranno

mai del male a chi va ogni giorno nel tempio»

«Non ditemi che avete visto la missione che è

stata organizzata ad Antiochia e volete anche voi

andare in viaggio ad annunciare la bella notizia!»

«Lo ammetto, mi è parsa un'idea interessante e

nuova, che sicuramente sarebbe piaciuta al Signore.

Ma sono troppo vecchio per prendermi i fastidi e i

rischi che si sono presi Shaul e Barnaba»

«Ma allora? Maestro mio, che intenzioni avete?»

Sospirò, prima di sedersi su uno sgabello, fare

posto a me perché mi sedessi accanto a lui, e

guardarmi stanco e forse irritato dalla mia scarsa

comprensione.

«Shimshon, tu… entrato nella via tra i primi»

«Il giorno della Pentecoste, voi avevate iniziato a

predicare di mattina, e dicevate di non essere

ubriaco»

«Sì. Dunque ricordi bene come eravamo organiz-

zati in quei primi giorni»

«Tutti venivano, anzi venivamo, a voi per avere

nuove informazioni, per scoprire altro. Eravate

sempre insieme, voi undici e poi dodici, e tutti

chiedevano consigli a voi»

«Già. Poi la comunità è cresciuta, non tutti

riuscivano a venire da noi, iniziammo a incontrarci

tutti i primi giorni della settimana per ricordare il

Signore, ma non riuscivamo a trovare un ambiente

che ci raccogliesse tutti, e iniziammo a spezzare il

pane in case private, in diverse case private»

«Ricordo bene! Tutti volevamo avervi al nostro

incontro, e voi iniziaste a dividervi, per raggiungere

più comunità possibili»

«Vero. E quando c'erano decisioni da prendere, ci

trovavamo noi undici più Mattia, e cercavamo di

trovare la strada ideale per tutti. Poi però diverse

comunità iniziarono ad avere sempre la stessa guida

per la frazione del pane, quasi sempre un fratello che

era stato con Gesù fin dal principio o che era entrato

molto presto nella via. E questi fratelli iniziarono a

incontrarsi per prendere decisioni, e tra loro iniziò a

crescere sempre più il nome del fratello del Signore»

«Da diverso tempo, ormai, è lui a guidarci e a

parlare a nome della comunità»

«E non noi dodici»

«Per questo ve ne andate? Vi sentite defraudato?»

«Al contrario, ho insistito perché accadesse così. I

primi tempi pensavo che Gesù sarebbe tornato

presto, poi mi è stato sempre più chiaro che i tempi

si allungheranno. E non sono capace di essere sempre

una guida, uno che decide a nome degli altri e per gli

altri. Il fratello del Signore ha queste doti, io no. Ma

un paio di mesi fa in una comunità si è iniziato a

lamentarsi della gestione di Giacomo, si è iniziato a

dire che ha preteso il suo ruolo per via della sua

parentela con il Signore (benché io sappia con

certezza che non è così), a chiedere che sia di nuovo

io a guidare la comunità. Io, non i dodici.

Ebbene, io non voglio entrare in queste lotte che

sembrano fare di noi dei commercianti o dei soldati.

Ho guidato i dodici perché Gesù me lo aveva chiesto

e perché sembrava che, nel poco tempo che aveva-

mo a disposizione, non fosse necessario cambiare

organizzazione.

Ora ci sono comunità varie e ben organizzate, c'è

un capo capace di guidare... e non voglio che si usi il

mio nome per agevolare gelosie e antipatie. Non

voglio essere un capo, e ancor meno voglio esserlo

contro un altro capo»

«Quindi? Tornate a Cafarnao?»

«No. Sarebbe peggio. Di certo i seguaci della via

di quel paese mi vorrebbero alla loro guida, e

approfitterebbero probabilmente per porsi contro

Gerusalemme. Io non voglio essere guida da nessuna

parte. Non voglio esserlo qui né a Cafarnao.

Ho pensato di trovare una città in cui io possa

serenamente nascondermi, una città in cui io possa

parlare del Signore ma senza dover prendere nessuna

decisione per gli altri, in cui possa vivere serena-

mente fuori da ogni sospetto di intrighi o gerarchie.

Voglio essere un discepolo tra tanti, senza

privilegi, senza che si guardi a me come a un

simbolo. I dodici sono stati importanti per un tempo,

ma oggi lo Spirito chiede alla via un'organizzazione

nuova. Io non sono capace di pensarla né di

Page 20: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 20

Grecia, ma anche Italia Dibattito sulla Grecia e sui profughi, a Cuneo, mercoledì 23 marzo, alla saletta della Guida in via Bono. A partire dal gemellaggio con il centro di Solidarity 4all del Pireo, suggellato a fine gennaio dal viaggio ad Atene di una quindicina di compagni di Cuneo, Torino e Ivrea, parte una proposta ambiziosa di solidarietà dal basso. La tavola rotonda, incentrata sul tema “Contro guerre, xenofobia, neoliberismo, solidarietà dal basso per un'Europa dei popoli", ha visto la partecipazione di Argyris Panagopoulus, Carlo Masoero di Italia-Grecia e Claudio Mezzavilla della Caritas. Con occhio attento alle condizioni del popolo greco sotto la scure impietosa del memorandum e in piena crisi profughi, con la consapevolezza che la Grecia è, nonostante la sconfitta subita, il punto di maggiore contrasto delle politiche neoliberiste e xenofobe che stanno portando l'Europa al suicidio morale e politico, dalla discussione è emersa la necessità di cambiare le cose, e le persone, anche in Italia. Gli interventi hanno presentato le proposte operative che il gemellaggio con il Pireo sta mettendo in campo (la dimensione regionale, la raccolta di medicine, il viaggio politico-turistico di quest'estate, la proposta di gemellaggio di città, la partecipazione a un bando europeo), tenendo conto nello specifico delle diverse caratteristiche delle associazioni di volontariato cui i relatori fanno riferimento: Caritas in Italia (di matrice ecclesiale) e Solidarity4all in Grecia (laica e apolitica, anche se i volontari sono nella loro quasi totalità legatissimi a Syriza), che questo tipo di situazioni cercano, spesso con successo, di alleviare. Ma soprattutto sono state sottolineate le condizioni delle popolazioni, schiacciate dalle politiche di austerità, e quelle dei profughi, presi in mezzo tra guerre ed egoismo dell'Europa. Grande rispetto ed ammirazione merita il popolo greco su cui oggi grava gran parte del flusso dei profughi, che si riversano in Europa, e che reagisce con atteggiamenti di solidarietà e accoglienza senza cedere a xenofobia e razzismo. Un dato significativo va evidenziato: il deperimento dei consensi dei razzisti di ‘Alba dorata’ in piena emergenza profughi. Con amarezza invece si è riflettuto sulla situazione italiana nella quale, mentre alcuni si spendono con generosità, una parte significativa della popolazione cede alla paura e al ricatto dei potenti e scarica la sua rabbia ed impotenza contro migranti e rifugiati. Ed è stata ribadita la necessità di aiutare la Grecia, ma di farlo a partire principalmente da noi stessi, dalla creazione in Italia di una cultura, di un'azione sociale, di una politica in grado di interloquire con quanti in Europa si battono "contro neoliberismo, guerre, razzismi".

Carlo Masoero

[email protected]

condurla avanti. Altri comanderanno, io sarò

uno dei molti»

«Perdonate, maestro, ma dove potreste

trovare una comunità del genere? Ovunque voi

andiate, sarete sempre guardato come alla

roccia, a colui che il Signore aveva posto a capo

della sua comunità di discepoli»

«Ovunque, sì, o quasi. Dovrei trovare una

comunità abbastanza grande, fondata da

abbastanza tempo da avere ormai le proprie

guide, e credo di doverla trovare composta

principalmente da ebrei. Altrimenti troppi

continuerebbero a guardare a me come si

guarda ad un dio»

«Quindi ad Alessandria?»

«No, sono ancora troppo pochi i seguaci

della via ad Alessandria. Ho trovato di meglio,

una comunità che mi accoglierà e nella quale

potrò nascondermi, perdermi, perché grande,

già solida, composta quasi solo da ebrei, e in

grado di ospitarmi senza chiedermi nulla, senza

vedere in me nulla più di uno dei tanti discepoli.

Non una guida come Giacomo, non un

capopopolo come Shaul. Ma un semplice

seguace della via come tutti gli altri. Andrò a

Roma, Shimshon, per essere semplicemente un

credente nel Signore»

Angelo Fracchia

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. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 21

Appunti sulla vita ed il pensiero di

Mohandas Karamchand Gandhi (II) (1869-1948)

La nonviolenza gandhiana, sintesi di

pensiero e di azione

Dopo avere in qualche modo tracciato (sul n.

precedente del Granello) l’evoluzione del pensiero-

azione di Gandhi, a cominciare dalla sua formazione

famigliare nell’India di fine Ottocento sotto la dominazione inglese, proseguendo con i suoi studi da

avvocato a Londra per finire con il suo ventennale

soggiorno in Sud Africa e con le prime lotte non

violente, fino al ritorno in India nel 1915, cerchiamo

ora di affrontare il punto centrale, la sua concezione

matura della nonviolenza.

Ricordiamo che con la fine della guerra si accentua lo

scontro tra l’Impero britannico e il movimento indipendentista; Gandhi mette alla prova la sua

metodologia di lotta nel Champaran, in difesa dei

coltivatori di indaco vergognosamente sfruttati dai

proprietari terrieri; nel 1919 primo sciopero generale

e reazione violentissima dell’impero (massacro di Amritsarnel Punjab). Gandhi perde definitivamente la

propria fiducia nell’Impero britannico: l’Impero (non gli uomini che lo servono, sostanzialmente non miglio-

ri né peggiori degli indiani) è ora il nemico, una realtà

negativa che va distrutta.

D’ora in poi abbandoneremo in parte l’approccio

storico per uno più filosofico, rimandando al film di

Attenborough per alcuni passaggi storici principali.

Dicevamo all’inizio che quello di Gandhi è nientedi-meno che uno dei principali tentativi moderni di

rispondere alla domanda sul senso complessivo del

vivere umano, mettendo in comunicazione tra loro

etica, politica, economia e religione; quattro elementi

che nella nostra modernità spesso non si parlano.

Abbiamo anche detto che la nonviolenza gandhiana

non è e non vuole essere un sistema, ma una pratica in

continua evoluzione (non per nulla “esperimenti con la verità” è il titolo dato da Gandhi alla propria autobiografia) anche se guidata da alcuni punti di

riferimento ideali, sintetizzabili nel riferimento alla

tradizione religiosa induista e cristiana, e nella critica

della moderna società industriale.

Etica e politica: il fine giustifica i mezzi?

Ora prendiamo per così dire il toro per le corna,

soffermandoci su quello che per Gandhi, e non solo

per lui, è il problema dei problemi: il rapporto tra fine

e mezzi, in particolare a proposito del rapporto tra

etica e politica. Qui i nomi che ci vengono per primi in

mente sono quelli di Machiavelli e di Max Weber.

Sappiamo che si suole riassumere il pensiero di

Machiavelli con una frase che Machiavelli non ha mai

scritto, “il fine giustifica i mezzi”. Più precisamente, il governante, il “principe” cui è dedicata la sua opera più nota, non deve esitare, se la salvezza dello Stato lo

richiede, a “entrare nel male se necessitato” cioè a compiere delle azioni che giudicate dal punto di vista

dell’etica individuale sono considerate non solo immorali, ma dei veri e propri delitti, come mentire

spudoratamente, uccidere degli innocenti eccetera.

Max Weber all’inizio del Novecento si limita a constatare un insuperabile contrasto tra quella che

chiama “etica dell’intenzione” o dei princìpi (quella che dice: fai ciò che è giusto, avvenga che può) e

l’”etica della responsabilità”, che mette in conto le conseguenze delle azioni e si regola su di esse, in base

al principio della massima utilità e del male minore. Si

noti che qui non si parla di azioni compiute per un

tornaconto personale ma nell’interesse pubblico dello Stato e dei cittadini verso i quali il politico è

responsabile (anche se è molto difficile tracciare una

linea netta di divisione tra i due campi, e questo pone

già un grosso punto interrogativo sull’intera questione). Non a caso abbiamo citato i casi più

clamorosi ed emergenti, quelli della menzogna e della

violenza (la volpe e il leone, nel linguaggio del

Principe), del resto strettamente legati tra di loro. Si

pensi in particolare alla guerra, ai servizi segreti

eccetera; osserva acutamente Freud che lo Stato non ha

mai cercato di eliminare questi aspetti, ma piuttosto di

farsene un monopolio, come ha fatto per il sale e i

tabacchi. In particolare lo Stato ha sempre avocato a sé

il diritto di coazione, particolarmente lo jus vitae et

necis, il diritto di decidere sulla vita dei propri sudditi,

escludendone i sudditi stessi (onde il divieto di farsi

giustizia da sé, tuttavia “carsicamente” presente in diverse civiltà giuridiche). A questo punto ci si può

porre un problema radicale, se cioè il potere - in

particolare il potere politico - non sia inscindibile dalla

violenza e dalla menzogna, se non abbia in sé un

elemento ineliminabile di male morale. In questo senso

il detto comune “il potere corrompe” è suscettibile di una lettura molto più inquietante di quella corrente:

Grandi esperienze spirituali (6)

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. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 22

non si tratta solo di un onesto che viene corrotto dalle

seduzioni del potere diventando un mascalzone (cosa

che indubbiamente può succedere) ma di chi pur

restando personalmente onesto è costretto a compiere

(per “ragion di Stato” o di partito) azioni che dal punto di vista etico non possono essere considerate che

delitti. La cosa vale sia per il difensore dell’assetto presente che per il rivoluzionario che vuole cambiarlo:

entrambi ricorrono al principio del male minore per

giustificare la violenza della propria parte. Certo,

l’esecutore di un ordine criminale può, in certi casi, rifiutarsi; ma questo, se gli salva la coscienza, non

risolve il problema, perché sarà probabilmente

sostituito. Ciò che conta non sono tanti i singoli,

quanto la forza della macchina del quale essi

costituiscono gli ingranaggi (non a caso Giovanni

Paolo II aveva parlato di “strutture di peccato”, di strutture che producono e riproducono il male al di là

della volontà dei singoli).

Da questo angoscioso vicolo cieco non si può forse

uscire veramente senza il “colpo d’ala” di una scommessa di fede, religiosa o laica. Ma questo non

può costituire un alibi: in pratica un’alternativa alla violenza è quasi sempre possibile (il caso estremo di

una guerra nella quale il torto è tutto da una parte è

altrettanto raro di quello del pazzo che spara ai

passanti, e che non si può fermare che uccidendolo).

Se non viene percorsa l’alternativa nonviolenta di solito le ragioni sono altre: a) l’alternativa violenta è più “facile”, più immediata, anche perché non si tengono in conto le conseguenze a lungo termine, ma

solo quelle a breve o brevissimo termine. A questo

riguardo Gandhi negli anni 20 aveva previsto che il

potere bolscevico, fondato sulla violenza, nonostante

le sue spettacolari vittorie nell’immediato, non sarebbe potuto durare a lungo; b) la soluzione violenta è per

così dire inscritta nel DNA delle civiltà “evolute”, che storicamente hanno messo la violenza al servizio delle

istituzioni e hanno identificato il coraggio con la

capacità di affrontare la lotta per la vita e per la morte;

c) infine, la soluzione violenta offre a chi la pratica

(l’aspirante Principe) una scorciatoia verso il potere (in molti casi il Nemico, esterno o interno, viene inventato

di sana pianta oppure “coltivato” per consolidare il potere, per deviare l’attenzione dell’opinione pubbli-ca); d) la decisione di ricorrere alla violenza viene

solitamente “forzata” con due considerazioni: in primo luogo, che non c’è alternativa, in secondo luogo, che bisogna fare presto, al limite anticipando le mosse

dell’avversario (guerra preventiva). Sul rapporto tra mezzi e fini Gandhi ha detto una delle

sue parole più incisive: “E’ perfettamente vero che gli inglesi usano la forza bruta e che per noi è possibile

fare altrettanto, ma usando i loro stessi mezzi,

otterremo solo ciò che hanno ottenuto gli inglesi (…). I mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine

all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero. Non è possibile che io raggiunga il fine ispiratomi dalla

venerazione di Dio prostrandomi davanti a Satana” (Pontara, p. 45). Il mezzo non è neutrale rispetto al

fine, ma lo precondiziona o predetermina.

Si può fare a meno del potere?

Il dilemma etico-politico del potere si può descrivere

come un circolo vizioso tra guardie e ladri, tra potere e

crimine. Da un primo punto di vista si può infatti

sostenere che il potere è indispensabile per una

convivenza minimamente ordinata; esso si giustifica

appunto perché non tutti gli uomini obbediscono alle

regole; in molti, forse in tutti, c’è una certa tendenza

alla trasgressione, a non rispettare le regole, anche le

più ovvie e neutrali, come quelle di circolazione

stradale (del resto spesso le regole sono variamente

interpretabili, talora chiaramente ingiuste). Se il potere

non reprimesse la trasgressione, tanto varrebbe abolire

le leggi: ma questo significherebbe accettare la legge

della giungla, il debole non avrebbe difesa nei

confronti del più forte: un rimedio peggiore del male.

Ma esiste anche un punto di vista opposto: si può

sostenere – è questa la posizione anarchica nelle sue

varie declinazioni – che bisogna rovesciare il rapporto

causa-effetto: la trasgressione delle leggi, anche

violenta, non è che una risposta alla violenza del

potere statale. In altri termini, non è vero che le

guardie esistono perché ci sono i ladri: l’anarchico rovescia il rapporto causale, sostenendo (semplifico

brutalmente) che al contrario i ladri esistono perché ci

sono le guardie. Una posizione paradossale ma non del

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. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 23

tutto insostenibile: ad esempio, non è vero che le

guardie difendono una distribuzione dei beni che

spesso è fortemente ingiusta? E se al limite non

esistesse una proprietà da custodire, cosa ci starebbero

a fare le guardie? Un celebre passo di Rousseau (nel

Discorso sull’origine della diseguaglianza) sembra

dire proprio questo: “Il primo che recinse un terreno e dichiarò questo è mio, e trovò persone tanto semplici

da prestargli fede, fu il vero fondatore della società

civile”. In questa prospettiva, la “violenza diretta” del criminale sarebbe una risposta alla “violenza strutturale” dello Stato. Che dire di questa discussione tra anarchici e difensori

dell’ordine? Mi pare un tipico circolo vizioso, in cui ciascuna delle due parti legittima l’altra con la sua unilateralità. Da un lato è vero che l’uomo è “peccatore”, per usare un’espressione religiosa, dall’altra è vero, come dice san Paolo, che la legge è in un certo senso “causa di peccato”: non solo lo reprime ma reprimendolo lo riproduce. La violenza della legge

insieme limita e alimenta il crimine: pensiamo

all’America, luogo dello scatenamento massimo delle pulsioni trasgressive e di quelle repressive (purtroppo

non solo nei films). Un elemento fondamentale di

complicazione del problema è che, per usare un

celebre detto di Kant, “l’uomo ha bisogno di un padrone, ma questo padrone non può essere altri che

un uomo”. Ha bisogno di qualcuno che lo controlli e disciplini, ma quest’ultimo è egli stesso un essere pieno di limiti e difetti e che quindi può confondere il

proprio tornaconto con il bene di chi gli è affidato. Un

vicolo cieco, al quale non si vede altro rimedio fuori di

quello di evitare un’eccessiva concentrazione del potere limitando un potere con un altro potere: una

soluzione a sua volta tutt’altro che priva di rischi come dimostra l’attuale crisi delle democrazie. E’ troppo ardito ipotizzare nella nonviolenza gandhiana il

“supplemento d’anima” capace di sollevare le democrazie al di sopra dell’attuale palude?

Etica, politica e religione

La situazione si complica ancora se facciamo

intervenire la religione, un altro dei quattro elementi

sopra ricordati. In particolare, se prendiamo i Vangeli,

sembra che qui ci troviamo davanti all’assoluta proibizione della violenza (non solo i detti paradossali

sul porgere l’altra guancia, ma anche il comportamento

di Gesù davanti al potere al momento dell’arresto: “riponi la tua spada nel fodero”). Sappiamo che le prime generazioni cristiane erano fortemente impron-

tate dalla nonviolenza, fino al rifiuto di prestare

servizio militare, mentre col tempo e con il crescente

intreccio col potere politico le posizioni ufficiali delle

chiese si sono spostate sempre più, soprattutto dopo

Costantino, verso la funzione di sostegno o di legitti-

mazione del potere, quale che fosse questo potere: in

particolare san Paolo aveva posto delle premesse in

questa direzione. Più di millecinquecento anni di

cristianità hanno visto uno stretto intreccio tra potere

politico e religioso, certo con una oscillazione tra

cesaropapismo e teocrazia, il primo più forte nel-

l’oriente europeo (chiesa ortodossa), la seconda più

attiva in occidente (cattolicesimo, ma anche alcune

chiese protestanti). La religione più fortemente conno-

tata in senso nonviolento, il buddhismo, è stata

anch’essa coinvolta nelle dinamiche del potere nella misura in cui non è riuscita ad evitare l’intreccio di religione e politica. Nei nostri anni la fusione dei due

elementi nella forma del fondamentalismo è una delle

maggiori minacce per la pace mondiale. Se il pensiero

corre in primo luogo al fondamentalismo islamico, non

dimentichiamo – ad esempio - la presenza di forti

componenti fondamentaliste nel cristianesimo degli

USA, e nell’induismo che nelle ultime elezioni ha portato al potere l’inquietante nazionalismo del BJP. Se Gandhi è contro il fondamentalismo, non è affatto

per la separazione di religione e politica: “La mia

devozione alla Verità mi ha condotto alla politica, e

posso dire senza alcuna esitazione, anche se con

assoluta umiltà, che coloro che affermano che la

religione non ha nulla a che fare con la politica non

sanno che cosa significa religione” (Pontara p. 44). Il problema sarà allora quello di reinterpretare

radicalmente il significato di entrambi i termini: un

compito più che mai urgente anche per noi, che

nell’attuale situazione di pluralismo oscilliamo tra lo

Scilla del fondamentalismo religioso (che vuole

imporre a tutti le norme della propria religione) e il

Cariddi del fondamentalismo laico (che vuole

escludere del tutto la religione e i suoi simboli dallo

spazio pubblico, rischiando con ciò di atrofizzare le

radici stesse dell’etica pubblica). Un compito che implica anche un radicale ripensamento dell’idea di Dio, cui Gandhi ha contribuito dichiarando di preferire

alla formula “Dio è la verità” l’altra formula “La verità è Dio”: la prima infatti identifica implicitamente Dio

con l’idea che ne ha la mia religione, nella seconda invece “Dio è quella verità che sta più avanti di tutte le nostre limitate concezioni” (E. Peyretti, op. cit., p. 60).

L’anarchismo nonviolento cristiano: dagli anabattisti a Tolstoj

Si direbbe che i filoni del mondo cristiano più fedeli

alla nonviolenza evangelica siano quei movimenti

minoritari che, come gli anabattisti del Cinquecento, si

sono rifiutati a qualunque complicità con il potere

politico, in quanto irrimediabilmente compromesso

con il male. Gli anabattisti non chiedono nulla allo

Stato se non di essere lasciati in pace a vivere la

propria vita secondo i dettami delle Scritture. Questo

però è precisamente quello che lo Stato difficilmente

può concedere, visto il principio di sovranità che

rivendica, specie dopo la costituzione delle monarchie

nazionali europee; e infatti la storia degli anabattisti è

una storia di persecuzioni da parte sia dei cattolici che

dei protestanti, salvo poi trovare – come è avvenuto

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. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 24

anche agli Ebrei – rifugio e protezione nell’Europa orientale e in particolare in Russia attraverso accordi

diretti con i sovrani. Ma le persecuzioni ricomince-

ranno quando anche la Russia tra Sette e Ottocento si

metterà sulla strada di una costruzione statale di tipo

europeo; a questo punto però si aprirà la prospettiva

delle Americhe, dove attualmente vive la maggior

parte di queste pacifiche comunità (la più nota è quella

degli Amish della Pennsylvania). E a questo punto

ritorniamo a Tolstoj, perché la sua posizione, molto

vicina a quella degli anabattisti, è definibile come un

radicalismo cristiano anarchico, slegato dalle Chiese e

critico nei loro confronti (e infatti la chiesa russa lo

scomunica). Al di là di tutti i discutibili dogmi e

superstizioni che nel corso della storia sono state iden-

tificate con il cristianesimo, egli riconosce il nucleo

vivo del messaggio cristiano nella legge dell’amore, dalla quale deriva come esigenza immediata ed

assoluta il comandamento della nonviolenza (implicito

nel “non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto

a te”). Il cristianesimo quindi proibisce in particolare di partecipare alle organizzazioni che legittimano e

organizzano la violenza, a cominciare dall’esercito (si noti che Tolstoj è stato militare ed ha combattuto,

quindi sa bene di cosa parla) nei confronti del quale

l’obiezione di coscienza degli anabattisti Duchobory è

pienamente legittimata (non a caso egli si impegna con

ingenti risorse finanziarie per permettere a questi

pacifici settari vittime delle persecuzioni zariste di

emigrare in Canada, dove attualmente ancora vivono i

loro discendenti). Ma non basta: anche ad esempio

partecipare come giurato ad un processo criminale

(come fa il protagonista di Resurrezione, Nechljudov)

è qualcosa che va contro la legge dell’amore, che impone di non collaborare in nessun modo all’orga-

nizzazione della violenza: lo stesso diritto di punire

non è un diritto che si possa riconoscere ad uomini

rispetto ad altri uomini. In sostanza, Tolstoj sostiene

che in nessun caso è lecito rispondere al male col male

(“non resistere al male” significa appunto non

rispondere al male col male, non significa affatto

starsene passivi senza far nulla per evitare che il male

trionfi: un equivoco che Gandhi non si stancherà di

segnalare), neppure per evitare un male preteso

maggiore (questa è appunto la consueta ricorrente

motivazione della violenza “giusta” da parte del potere). Un radicalismo che non può non suscitare forti

interrogativi: ad esempio nel caso classico del pazzo o

del delinquente che sta uccidendo dei passanti,

neppure in questo caso sarebbe secondo Tolstoj lecito

ucciderlo, se non c’è altro modo per fermarlo. Su questo punto, sappiamo che tutte le morali sia religiose

che laiche elaborate nel corso dei secoli prevedono il

diritto-dovere di difendersi e di difendere anche

uccidendo. Non sarebbero d’accordo neppure dei dichiarati nonviolenti come Bonhoeffer, o come lo

stesso Gandhi: sulla base del “minor male” Bonhoeffer legittima la sua partecipazione al complotto contro

Hitler, Gandhi a diverse campagne militari dell’impero

britannico (sia pure non come combattente). Da questo

punto di vista, Gandhi e Tolstoj vanno in direzioni

diverse, pur attingendo alle stesse fonti: parados-

salmente, saremmo tentati di dire molto più

“orientale”, cioè contemplativo, assoluto, mistico, proprio Tolstoj, mentre Gandhi sembrerebbe più

“occidentale”, più pragmatico e orientato all’azione e alla trasformazione del mondo.

Il paradosso dell’obbedienza

In realtà, è vero che Gandhi dà gambe e incidenza

pratica e politica al principio della nonviolenza, che in

Tolstoj rischia di rimanere qualcosa di astratto e di

impraticabile. Ma prima di ritornare a Gandhi, vorrei

sottolineare un elemento che si trova chiaramente

espresso nella Lettera a un Indù di Tolstoj, alla quale

abbiamo già fatto riferimento, e che è centrale anche in

Gandhi. Per illustrarlo conviene citare un nome non

molto noto al di fuori degli addetti ai lavori, quello di

Etienne de la Boethie, un intimo amico di Montaigne

morto molto giovane, il quale in uno scritto di poche

paginette generalmente noto col titolo “De la servitude

volontaire” si sofferma su quello che in seguito è stato chiamato “il paradosso dell’obbedienza”. E’ uno di quei pensieri che, come l’uovo di Colombo, sembrano

ovvi dopo che qualcuno li ha enunciati, ma la difficoltà

sta proprio nel vederli quando nessuno li nota, pur

essendo sotto gli occhi di tutti. La Boethie si chiede in

sostanza come sia possibile che una singola persona

possa esercitare un potere tirannico, un potere di vita e

di morte, su una enorme maggioranza: basterebbe che

anche pochi si unissero contro di lui per sopprimerlo

fisicamente. In sostanza si vuole dimostrare un fatto

ovvio ma fondamentale e poco approfondito: mentre

spesso si vede il potere come una proprietà intrinseca

“posseduta” o propria di certe persone, in realtà esso è relazione: nessun potere esiste se coloro sui quali il

potere si esercita non sono disposti ad obbedire.

Naturalmente la questione nei dettagli è complessa,

perché chi comanda cerca sempre di legare a sé,

attraverso carisma, promesse o minacce, una serie di

persone che già possiedono potere per farsene una

base; e questi ultimi a loro volta legano a sé nello

stesso modo una cerchia più o meno ampia (in realtà i

teorici dell’elitismo del 900, come Gaetano Mosca e

Vilfredo Pareto, non hanno avuto torto a sostenere che

il potere più determinante non è mai di uno solo e

neppure della maggioranza, ma in genere di un’élite, di una minoranza organizzata appunto per conquistare e

conservare il potere). Che il potere si basi sull’ob-

bedienza esplicita o implicita lo si tocca con mano in

certi momenti storici in cui il potere perde legittimità

di fronte ai propri sudditi: si parla allora di vuoto di

potere (ed è questo un crinale sottilissimo, in cui basta

un niente per determinare una svolta in un senso o

nell’altro: verso il rafforzamento come nel fascismo nel 1924-25 dopo il delitto Matteotti, o verso la

rivoluzione come nel governo russo della rivoluzione

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di febbraio 1917, destinato ad essere spazzato via dalla

rivoluzione d’ottobre). Ora, una cosa è analizzare queste cose da un punto di

vista teorico come stiamo facendo noi, un’altra è avercele nel sangue come può averle un politico di

razza, quale appunto era Gandhi. Egli aveva una

percezione acutissima dei legami spesso invisibili che

reggevano una struttura di potere come l’Impero britannico, nel quale un’infima minoranza di colonialisti, molti dei quali non particolarmente

brillanti per cultura e capacità, dominava un’immensa

maggioranza di indiani: cosa talmente paradossale da

richiedere una spiegazione approfondita. Gandhi

sapeva come questo potere in apparenza invincibile

poggiasse su basi in realtà assai incerte, su una infinita

sommatoria di piccole paure, piccole viltà, piccoli

compromessi, e come il tempo lavorasse ad erodere le

basi del consenso dell’impero, quindi in favore dell’indipendenza. Ma il suo scopo supremo - a

differenza di molti suoi collaboratori - non era

l’indipendenza politica, ma una riforma morale della

società, addirittura la costruzione di una nuova civiltà

su nuove basi spirituali, alternative rispetto al

materialismo occidentale. Non bastava sostituirsi agli

inglesi al vertice del potere per poi comportarsi come

loro: molto più importante era preparare un nuovo

mondo di rapporti sociali e politici, un nuovo modo di

produrre, di distribuire beni e servizi, un nuovo

rapporto democratico con il potere.

Alcune parole chiave: ahimsa, satyagraha

Cercherò di condensare in alcune parole chiave il

senso del discorso di Gandhi. La prima parola è anche

la più nota, ahimsa, il cui significato letterale è anche

il più vicino all’espressione italiana “nonviolenza”. In effetti questo è vero alla lettera: himsa significa

violenza, la iniziale è un alfa privativo come in greco.

Già sappiamo che è un mantra del jainismo e del

buddhismo, le religioni della rinuncia fiorite sul ceppo

dell’induismo (ma anche contro di esso), e che in seguito l’hanno a loro volta profondamente influen-

zato. Si noti però che non è facile mettersi d’accordo con ciò che s’intende per violenza, a seconda che si metta in rilievo l’aspetto fisico, materiale, oppure quello morale, a seconda che prenda in considerazione

il livello personale oppure quello istituzionale. Ad

esempio, spesso si confonde la violenza vera e propria

con la rozzezza o la brutalità, che dipendono da fattori

caratteriali e culturali e non da una scelta etica. I

teorici contemporanei come Johann Galtung

distinguono tra violenza fisica diretta (criminalità,

terrorismo, guerra), violenza strutturale (pensiamo ai

disastri dell’attuale sistema economico) e violenza culturale (pensiamo all’espropriazione di lingua e costumi di molte società primitive, di molte

minoranze). Un primo abbozzo molto generico di

definizione potrebbe essere: tutto ciò che spegne,

coarta, umilia la vita, non solo la vita umana, ma in

generale qualsiasi forma di vita. Una definizione del

genere rischia però di portarci fuori strada. Si pensi ai

monaci jaina, che vanno in giro con una garza sulla

bocca per evitare d’ingoiare qualche moscerino: un’immagine che denuncia l’impraticabilità e diciamo pure la futilità dell’ahimsa intesa in questo senso

ingenuamente letterale: non solo noi viviamo della

distruzione della vita (almeno di quella vegetale) ma

continuamente conviviamo con un’infinità di esseri viventi dei quali neppure ci accorgiamo, sia che li

alimentiamo sia che li sterminiamo, perché sono

invisibili ad occhio nudo. Ricordiamo Albert

Schweitzer, il medico alsaziano missionario in Africa

che ha coniato la formula del “rispetto per la vita” per definire il principio fondamentale di ogni etica, un

principio senza dubbio altissimo ma non privo di punti

interrogativi (Eugenio Montale in una sua poesia ha

voluto coglierlo in contraddizione osservando che il

suo pellicano, da lui amorevolmente curato, era nutrito

di pesci vivi). In sostanza, se vogliamo essere seri,

dobbiamo puntare allo spirito più che alla lettera; per

ora limitiamoci a sottolineare questo spirito fonda-

mentale del rispetto per le forme anche più basse di

vita: ogni vita ha in sé qualcosa di meraviglioso, di

sacro.

Non si tratta però di un principio assoluto, ma di un

principio che va continuamente composto con altri non

meno importanti. Mi pare interessante il tentativo di

Giuliano Pontara, di ridurre (nell’Introduzione

all’antologia gandhiana da lui curata) il principio della nonviolenza gandhiana non all’esclusione aprioristica di qualsiasi forma di violenza, ma alla massima

riduzione possibile della violenza. E Pontara propone

una definizione di violenza è molto più precisa e

ristretta di quella data sopra: con la parola egli intende

“l’intenzionale e coatta uccisione o inflizione di sofferenze ad una o più persone (e più in generale a

uno o più esseri senzienti” (Introduz. cit., p. XLI).

Ricordiamo una polemica di Gandhi a proposito di

certi cani randagi che egli aveva autorizzato a

sopprimere: accusato di non essere fedele alla

nonviolenza (ricordiamo il contesto induista legato alla

lettera dell’ahimsa) aveva risposto che era meglio

sopprimerli che mantenerli in un’esistenza miserabile, specialmente poi in quanto rappresentavano un grave

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pericolo per la popolazione (la rabbia). A questo

proposito, pochi sanno che Gandhi era dichiaratamente

a favore dell’eutanasia anche per le persone, nel caso

di malati inguaribili afflitti da gravi sofferenze.

Ashram: la comunità intenzionale

Ashram è un termine indiano che potremmo tradurre

con comunità spirituale, comunità intenzionale (oggi si

direbbe anche ecovillaggio). Ricordiamo la grande

esperienza comunitaria dei kibbutz israeliani, piuttosto

annacquata negli ultimi decenni. Ashram è una parola

che nel pensiero di Gandhi va molto d’accordo con l’ahimsa. Non è infatti facile praticare l’ahimsa in un

normale contesto “mondano”, caratterizzato da un

tasso più o meno alto di violenza. Si capisce a questo

riguardo come il monachesimo abbia giocato un ruolo

di primo piano in molte religioni, tra le quali il

buddhismo e l’induismo, ma anche il cristianesimo. La pratica della religione sarà molto più possibile, si

ritiene, nel contesto di una comunità che pone a

fondamento appunto quel messaggio, traducendolo in

regole pratiche di comportamento, o, come si dice

oggi, in uno “stile di vita”. Gandhi stesso, dalle

esperienze comunitarie sudafricane in poi, ha sempre

vissuto sia pure con molta libertà in un contesto

comunitario, certo sempre con la moglie al fianco (ma

ormai aveva fatto voto di castità). Povertà e castità

come nei monaci cristiani, obbedienza meno – si

potrebbe insinuare – perché comunque, per quanto

umile e nonviolento, era pur sempre lui il capo

(l’obbedienza è notoriamente la prova più dura dei monaci). Ricordiamo una graziosa scena del film di

Attenborough: una lezione di umiltà che i coniugi

Gandhi si sono data a vicenda, ma che era per così dire

imposta dal contesto comunitario (l’impegno di pulire a turno le latrine non andava a genio alla moglie di

Gandhi, anche perché era considerato un lavoro

proprio degli intoccabili). Lanza del Vasto nelle sue

comunità riservava a sé questo incarico, seguendo

appunto l’esempio di Gandhi; per quest’ultimo c’era anche il concreto motivo di sorvegliare il livello di

igiene, notoriamente assai basso in India. Ma l’ashram

aveva anche un altro aspetto (e con questo accenniamo

all’importantissimo rapporto tra etica, politica ed

economia): essendo una comunità in larga misura

autosufficiente, garantiva un basso impatto ambientale,

quella che oggi chiamiamo impronta ecologica.

Produrre i beni che si consumano, a partire dal cibo,

proseguendo con il vestito e l’abitazione (non dimentichiamo che il clima indiano è ben diverso da

quello europeo) significava autoproduzione e autocon-

sumo, indipendenza economica, (swadeshi), necessario

fondamento e completamento dell’indipendenza politi-ca (swaraj). Una cosa che faremmo bene a ricordare in

un momento in cui una globalizzazione selvaggia,

coprendoci di beni per lo più superflui, ci rende in

realtà vulnerabili in ciò che più conta, nel controllo

sulle risorse essenziali della vita, sui beni comuni

primari quali la terra, l’acqua e l’aria (si veda il discorso sulla sovranità alimentare svolto da varie parti

lo scorso anno in margine all’esperienza per molti versi ambigua dell’Expo milanese).

Askesis, ascesi, esercizio

Askesis (esercizio) non è un termine indiano ma greco;

ma non ne conosco un altro che esprima con altrettanta

precisione il “lavoro su se stessi” necessario per superare l’egocentrismo e quindi per accedere non solo alla lettera ma anche allo spirito dell’ahimsa (posso

rispettare le bestioline e intanto essere sfacciatamente

egocentrico, come posso esibire la mia nonviolenza

come elemento di superiorità). Studiando la vita e il

pensiero di Simone Weil, abbiamo scoperto una

tentazione ancora più sottile: un suo amico notava

ch’era distaccata da ogni interesse egoistico, ma non

dal proprio stesso distacco. Per progredire su questo

sentiero la millenaria pratica spirituale delle varie

religioni e filosofie ha tracciato un cammino

abbastanza ampiamente condiviso, una serie appunto

di “esercizi” di purificazione volti alla liberazione

dalla schiavitù delle passioni egoistiche, specie in

quanto queste si tramutano in vere e proprie

dipendenze (si pensi all’elenco dei vizi capitali). Naturalmente si tratta di un sentiero scivoloso e pieno

di trappole, in quanto facilmente lo sforzo ascetico si

trasforma esso stesso in schiavitù, ad esempio con

l’esibizionismo che alimenta la vanità (si pensi agli stiliti, ai fachiri indiani eccetera) o con varie forme che

rientrano nella storia delle patologie psichiche

piuttosto che in quella della spiritualità (in passato

l’anoressia si appoggiava alla religione, oggi alla moda). Ciò detto, l’abuso non squalifica l’uso corretto della rinuncia e della disciplina: certo il digiuno può

diventare esibizionismo (o peggio una vera e propria

patologia), ma sta di fatto che ad esempio chi pensa

solo al mangiare e al bere difficilmente potrà fare

molta strada sul cammino spirituale: questo non perché

mangiare e bere non siano sani e necessari, ma perché

abbiamo un solo sistema nervoso, perché il giorno è

sempre di ventiquattro ore, e se pensiamo solo a quello

non ci rimane più molto spazio per altro. In sostanza,

l’ascetismo rettamente inteso è volto a liberare l’uomo e non a farlo schiavo: liberarlo dall’attaccamento agli interessi egoistici per permettergli di dedicarsi alle

dimensioni più alte dell’umano. Ma in Gandhi non c’è solo l’ascesi del “lavoro su se stessi”; c’è un forte e ripetuto accento sulla necessità

del sacrificio, della sofferenza come metodo sia di

purificazione personale che di lotta politica: non si

può essere nonviolenti senza essere disposti a grandi

sacrifici per gli obiettivi essenziali. Parole dure agli

orecchi di una cultura che detesta il sacrificio non

immediatamente finalizzato a un risultato (reagendo,

anche giustamente, ad una tradizionale tendenza

all’autoflagellazione) e che accusa di masochismo o di complesso sacrificale chi faccia discorsi del genere. E

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. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 27

anche Peyretti ammette che si tratta di idee non prive

di rischi: “Un’enfasi sul proprio sacrificio, che non sia

solo un trepidante coraggio per amore della vita,

rischia di condurre il soggetto a richiedere facilmente o

ad esigere da altri i massimi sacrifici (…) L’idea di sacrificio va analizzata, distinguendone il senso auto-

distruttivo e eterodistruttivo dal senso di donazione di

sé, anche a rischio totale, per soccorrere altri: classico

esempio la persona che annega nel tentativo generoso

di salvare altri. Qui sentiamo bene che non c’è volontà distruttiva, ma salvifica, e in quell’azione “sacrificio” ha il senso di “azione sacra”, grande, superiore, per amore e non per odio della vita” (E. Peyretti, op. cit.,

p.63). E considerazioni analoghe si possono fare a

proposito dell’ “arte di morire” e del “sopportare i più alti sacrifici allo scopo di liberarsi dalla paura” (op.

cit., p. 64). Per Gandhi la libertà più alta, in fondo

l’unica veramente importante, è la libertà dalla paura, sulla quale continuamente insisteva anche nel corso

delle azioni di massa (Peyretti a p. 64-65 accosta

questi pensieri di Gandhi a una splendida pagina di

Etty Hillesum sul superamento della paura della morte

come condizione della libertà).

Satyagraha: la forza della verità

Altra parola chiave, tra tutte la più vicina al nucleo più

profondo della nonviolenza gandhiana, è non a caso

quella ch’egli stesso scelse per indicare il proprio movimento: satyagraha, traducibile con “forza della verità”. In realtà la parola consta dell’intima fusione di due idee apparentemente abbastanza lontane, satya

(verità, ma anche amore, secondo la proposta di

Gandhi: equivalenza per noi paradossale che ci

dovrebbe mettere sull’avviso rispetto al significato di tutto il discorso) e agraha (forza).

Cominciamo con la prima.

Anzitutto satya non coincide affatto con ciò che noi

occidentali per lo più intendiamo con la parola

“verità”. Significati abbastanza variegati, i nostri, ma che in sostanza

gravitano attorno al concetto di verità

scientifica, oggettiva: dire le cose come

stanno nella loro indipendente realtà. A

questa visione “scientifica” corrisponde

in teologia e in filosofia un’idea ingenuamente dogmatica della verità,

che pretende di rinchiudere il mistero in

formule fisse, chiaramente definite,

sulla base delle quali – vista l’assoluta importanza di conservare la verità nella

sua purezza – si può anche uccidere o

farsi uccidere, come è avvenuto

innumerevoli volte nel corso delle

guerre di religione sia cristiane che

islamiche. Non che Gandhi ignori il

valore dell’aderenza ai fatti, al contrario: ad esempio, la sua campagna

a favore dei coltivatori del Champaran

(1917) era basata su un’ampia inchiesta mirante ad accertare i fatti da un punto di vista rigorosamente

neutrale. Ma in una prospettiva più ampia, che sembra

cogliere un atteggiamento di fondo della cultura

indiana, invece, non solo il punto di partenza ma anche

il punto d’arrivo è il “sapere di non sapere”; il mistero

rimane mistero, in sé la verità è inaccessibile in

termini di oggettività scientifica. Eppure, con questo

siamo ben lontani dallo scetticismo (altro polo

dell’oscillazione del pensiero occidentale, opposto al

dogmatismo). Piuttosto, della verità non si può parlare

se non in termini umani, dal punto di vista dell’uomo, e soprattutto con un forte e diretto riferimento

all’esperienza vissuta. Colpisce qui l’analogia con la fisica moderna, che col principio di indeterminazione

include l’osservatore nel fenomeno osservato. La verità si rivela a ciascuno in modo diverso: è il singolo

individuo l’organo della verità, la sua misura. Nessun relativismo; la verità non è condizionata, ma è

condizionato il nostro modo di cercarla e di scoprirla.

A questo punto si capisce meglio l’importanza del discorso precedentemente svolto sull’ahimsa e

sull’askesis: solo attraverso una purificazione interiore,

solo attraverso il distacco, il superamento del nostro

iniziale ristretto punto di vista egoistico ed

egocentrico, solo coltivando un’autentica purezza dello sguardo (cosa che è molto più facile in una

dimensione comunitaria, in cui la mia visione si

confronta continuamente con quella altrui) possiamo

andare al di là dell’auto-inganno, delle storie che noi

stessi ci raccontiamo, sotto l’influsso della paura e del desiderio. A forza di mentire, non ci rendiamo neppure

più conto che stiamo mentendo, come avviene quando

ci arrampichiamo sui vetri per sostenere privilegi

ingiustificabili con argomenti ideologici, o dividiamo

il mondo in buoni e cattivi ponendoci ovviamente dalla

parte dei buoni. Non per nulla uno dei vertici della

filosofia occidentale, Kant, nella sua vertiginosa

esplorazione sulla natura del “male radicale”, lo ha

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. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 28

definito in termini di menzogna piuttosto che di

violenza come siamo in genere tentati di fare. Qui

infatti si tratta di cogliere non la pianta del male nel

suo pieno sviluppo e fioritura, ma la sua radice etica

nella volontà dell’uomo: quella che chiamiamo violenza infatti spesso non è che rozzezza e

irresponsabile brutalità, certo deleteria ma poco o nulla

colpevole sotto il profilo morale; mentre la

considerazione etica entra appunto dove compare la

volontà, e precisamente la volontà di appannare la

purezza dello sguardo per tentare di legittimare

(raccontandoci delle storie) ciò che nella piena

trasparenza dello sguardo non sarebbe sostenibile.

Agraha: la verità può diventare forza?

Siamo all’ultima parola chiave. Come può la verità

diventare forza? Noi siamo abituati a riconoscere la

forza all’apparenza piuttosto che alla verità. Una verità che non si manifesta, non s’impone, non fa colpo, non ha forza e non serve a nulla. In effetti, la pubblicità sia

commerciale che politica (in fondo la stessa cosa, si

tratta di vendere un prodotto, sia un’automobile che una scatola di biscotti che un gruppo dirigente) si basa

sulle più raffinate strategie della retorica (cioè appunto

dell’arte dell’apparenza) per muovere la paura e il desiderio delle masse. Qui la verità non c’entra, è per così dire ininfluente: ciò che importa è presentare

un’immagine che smuova le passioni e orienti la gente nella direzione desiderata. Nel regno della menzogna

la verità fa la figura di un marziano; ma proprio per

questo talora può anche destare un salutare choc, e con

questo intravediamo anche una prima risposta alla

domanda di come la verità possa diventare forza. Chi

dice la verità in un mondo di bugiardi spariglia il gioco

delle bugie, causa per forza uno choc, esattamente

come avviene nella favola di Andersen “I vestiti

dell’imperatore”. Il bambino esclama “L’imperatore è nudo” in mezzo alla folla nella quale per conformismo tutti continuano a lodare gli splendidi vestiti del-

l’imperatore (secondo quello che avevano raccontato

gli astuti sedicenti sarti, i vestiti dell’imperatore erano invisibili agli stupidi, per cui tutti facevano finta di

vederli per evitare una brutta figura).

Ricordiamo la scena del film di Attenborough, di

Gandhi che dialoga con i notabili indiani all’inizio della lotta per l’indipendenza: il gesto di Gandhi, di togliere il vassoio al cameriere prendendo il suo posto,

è una tipica “predica coi fatti”: come a dire, di che stiamo parlando? Ci ribelliamo agli inglesi perché non

vogliamo essere servi di nessuno, e poi? Gesti simili li

troviamo nei Vangeli - l’episodio dell’adultera, la lavanda dei piedi - o nella vita di san Francesco. Anche

in politica il meccanismo di base è sostanzialmente lo

stesso. Anche qui si tratta di fare emergere in modo

choccante e paradossale quella verità di fondo della

politica della quale parlavamo a proposito di La

Boethie, e che si può esprimere in questa semplice

proposizione: “Tu comandi se noi obbediamo”. Qui, in

sede politica, lo choc deriva dalla sorpresa, dallo

spiazzamento dell’antagonista, cui viene imposta una lotta asimmetrica (egli si aspettava una risposta

violenta da spezzare mediante una superiore violenza,

mentre ora si trova di fronte a una non resistenza e può

facilmente sbilanciarsi come nella lotta giapponese,

che usa appunto la forza dell’avversario per vincere). In sostanza, si tratta di riprendersi il potere

inizialmente delegato ad un governo, invitandolo a

portare all’estremo e infine all’assurdo la logica della repressione; in ultima istanza evidenziandone non solo

l’ingiustizia, ma la stessa inutilità.

Alcune forme della lotta non violenta

Giuliano Pontara, nella sua Introduzione all’antologia gandhiana più volte citata (p. XCIII e segg.), riconduce

a sei regole fondamentali (rinuncia all’uso e alla minaccia di violenza, attenersi alla verità, disponibilità

al sacrificio in vista degli obiettivi essenziali,

flessibilità su quelli non essenziali, costruttività del

programma, gradualità nelle forme di lotta) i caratteri

dell’azione nonviolenta.

A questo punto è forse però meglio, piuttosto che

analizzare in profondità questi caratteri come fa

Pontara, fare degli esempi concreti per illustrare senza

pretesa di completezza alcune delle molte forme nelle

quali si può articolare la lotta non violenta di Gandhi o

degli altri che hanno seguito il suo esempio. Gene

Sharp, uno studioso americano, autore di una poderosa

opera sulla Politica dell’azione nonviolenta (ed. Abele,

1985 e segg.) ha analizzato molte di queste forme con

grande acume analitico (il fatto che le sue formule

siano state applicate nell’Est europeo per ampliare la zona d’influenza americana dovrebbe indurre a qualche riflessione sul pericolo di staccare le tecniche

della nonviolenza dallo spirito che le sottende).

Una prima forma è la disobbedienza civile. Nella

nostra tradizione occidentale la disobbedienza civile ha

un antico, altissimo esempio nella figura di Socrate.

Socrate è un buon cittadino, obbediente e rispettoso

delle leggi della sua città (tra l’altro, è stato un

valoroso combattente); che Socrate mantenga il suo

rispetto per le leggi ateniesi lo dimostra il fatto che,

condannato, si rifiuti di fuggire nonostante l’ampia possibilità di farlo. Ma, quando i giudici vogliono

impedirgli di fare quello che ritiene il suo dovere, in

obbedienza ad un comando divino (di continuare a

filosofare in pubblico), egli dichiara: “Preferisco

obbedire al dio che a voi”. La disobbedienza civile è stata messa a punto e largamente usata da Gandhi nella

sua esperienza sudafricana nella lotta per i diritti civili

e politici degli indiani (ad esempio bruciando le carte

d’identità, rifiutandosi di rilasciare le proprie impronte digitali ecc.). Essenziale è qui la violazione deliberata

e pubblica di un particolare provvedimento ritenuto

ingiusto (da parte di persone che dichiarano il proprio

rispetto per la legge come tale), dichiaratamente

accettando anzi invocando la punizione (spesso

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. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 29

Gandhi invocava il massimo della pena, anche in

questo spiazzando i giudici, come vediamo nel film

nelle due scene di processo da lui subito in India).

Diversissima dalla posizione del criminale (che viola

la legge per i suoi interessi e cercando di non farsi

scoprire) la posizione di Gandhi è anche lontana da

quella dell’anarchico, che contesta il potere e la legge

in quanto tali, per quanto l’obiettivo ideale della democrazia radicale gandhiana (che uno studioso

italiano di Gandhi, Capitini, ha chiamato onnicrazia)

sia anche molto vicina all’ideale anarchico (ma lo stesso si può dire della maggioranza dei pensatori

utopisti).

Da questo si vede anche come mai Gandhi rifiutasse

fin dalle esperienze del Sudafrica la definizione di

“resistenza passiva”: in realtà la sua è una resistenza quanto mai attiva, anche se asimmetrica (e proprio in

questo consiste, come si è detto, l’elemento di sorpresa e di spiazzamento).

Un elemento centrale di disobbedienza civile è

presente nella” marcia del sale” di Gandhi nel 1930 per protestare contro una tassa quanto mai impopolare,

(che impediva agli indiani l’autoproduzione del sale) e

che anche per questo ha mobilitato grandi folle ed ha

segnato un vero punto di svolta nella storia dell’India. Ma il significato della marcia era molto più complesso,

perché – a parte l’aspetto di violazione di una legge –

diceva in sostanza la stessa cosa della celebre

campagna del khadi (tessuto di cotone grezzo) e del

charka (arcolaio) nonché dei roghi di abiti occidentali

(roghi contestati anche da molti seguaci di Gandhi).

Cosa diceva? Riprendiamoci le nostre risorse naturali

e culturali; l’indipendenza politica non significa nulla

se non è accompagnata dall’indipendenza economica, e per raggiungere questa dobbiamo non solo

riappropriarci delle nostre risorse, ma anche

reimparare il modo di utilizzarle e lavorarle (ad

esempio appunto la lavorazione artigianale del cotone).

Siamo qui vicini ad ulteriori modalità di lotta

nonviolenta che si possono riunire sotto l’etichetta di “non collaborazione e boicottaggio”. Mentre c’era una legge che vietava di estrarre il sale, non c’erano leggi contro l’uso dell’arcolaio e la filatura a mano; inoltre non c’era nulla di illegale nel fatto che avvocati e funzionari indiani dessero le dimissioni, rifiutando di

collaborare con la macchina amministrativa

dell’impero britannico (caso mai, questo imponeva a molti pesanti sacrifici personali). Così, in sé non era

illegale bruciare tessuti occidentali e mettere dei

picchetti pacifici davanti agli spacci di liquori (altro

elemento della corruzione occidentale che stava molto

a cuore a Gandhi). L’obiezione fiscale (praticata talora

con successo) e l’obiezione di coscienza rientrano invece piuttosto nella disobbedienza civile della quale

si è parlato.

La forma più diffusa di lotta non violenta storicamente

ben conosciuta e praticata in Occidente come punta di

diamante delle lotte operaie, fino alla mitizzazione

operatane da Sorel, è ovviamente lo sciopero,

l’astensione dal lavoro nelle sue varie forme

(compreso lo sciopero bianco). Gandhi l’ha largamente usato già in Sudafrica, ma, da come emerge anche in

una scena del film di Attenborugh, lo hartal da lui

promosso in India nel 1919 non corrisponde

esattamente alla concezione occidentale di sciopero,

consistendo in “una giornata di preghiera e di digiuno” connessa ovviamente con l’astensione dal lavoro, ma con una radice religiosa bene in vista (una radice

religiosa che inoltre poteva unire induisti e musulmani,

con un’importante valenza di pace sia politica che religiosa). Ripetiamo qui che le forme della lotta non

violenta, se sganciate dalla loro radice etico-politica,

possono facilmente essere rivolte contro gli ideali

stessi di Gandhi. Un esempio tra i tanti: lo sciopero dei

camionisti cileni del 1973 è stato solo formalmente

un’azione nonviolenta perché in sostanza è stato la premessa indispensabile di un violentissimo colpo di

Stato che ha posto fine alla democrazia di Allende e ha

portato al potere il sanguinario dittatore Pinochet.

Rimane la forma di lotta più famosa, cui è

inscindibilmente legato il nome di Gandhi: il digiuno.

Bisogna subito dire che è un’arma molto particolare,

legata alla tradizione religiosa, anch’essa facilmente soggetta a banalizzazioni e distorsioni, (come sappia-

mo bene in Italia, dove, in certi casi, il digiuno è stato

percepito come un tentativo di ricatto opportunistico,

slegato da motivazioni profonde). Bisogna dire che il

significato e la garanzia di serietà del digiuno di

Gandhi stava nella personalità di Gandhi, nel suo

carisma capace di suscitare nelle folle indiane - nella

sostanza non molto diverse dalle altre - le emozioni più

nobili, al di là della paura e del desiderio di rivalsa. Il

momento più alto toccato dai suoi numerosi digiuni (e

forse la sua vittoria più limpida) lo troviamo pochi

mesi prima della morte, nel corso del conflitto

sanguinoso tra indù e musulmani. L’indipendenza,

finalmente raggiunta nell’agosto del 1947, diede luogo non ad un’India unita nella convivenza pacifica di indù e musulmani, ma a due paesi divisi e nemici, ciascuno

segnato da furiosi contrasti interni. Eppure, in questa

catastrofe generale di tutte le speranze del movimento

di Gandhi, sembra quasi una favola che i fautori delle

due fazioni, pronti a scontrarsi a Calcutta in una

sanguinosa guerra civile (l’anno precedente c’erano già stati in quella città tumulti con migliaia di morti),

abbiano rinunciato alla violenza perché preoccupati

della salute di un fragile vecchietto che minacciava di

lasciarsi morire se non la smettevano. Cogliamo qui

forse il nucleo più profondo della nonviolenza, che è

però implicito in tutte le altre forme di lotta: la lotta

nonviolenta ribalta le regole del gioco perché è una

lotta anzitutto con se stessi, prima che con l’antago-

nista; una lotta contro la propria violenza. In sostanza

Gandhi voleva espiare simbolicamente la propria parte

di responsabilità nel disastro generale, conformemente

ad un leitmotiv tipicamente orientale, secondo il quale

tutto è connesso a tutto, e nessuno è del tutto innocente

di ciò che avviene; con questo è riuscito a sollecitare

Page 30: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 30

un esame di coscienza, una presa di distanza e

un’assunzione di responsabilità da parte di coloro che

erano più o meno direttamente responsabili delle

violenze, e che comunque sono stati in grado di

bloccarle. Due sono secondo Gandhi le condizioni

perché il digiuno abbia effetto: anzitutto deve essere

usato in senso costruttivo, per indurre un individuo a

rivedere la propria posizione, evocando la sua parte

migliore, facendo appello alla sua coscienza, così

come la vendetta invece evocherebbe la sua parte

peggiore. Una seconda condizione è che il digiuno

dev’essere fatto “contro chi ti vuol bene” ossia contro chi condivide con te magari a livello inconscio una

solidarietà di fondo, una stima di fondo per i tuoi

scopi. Non potrebbe funzionare ad esempio contro un

tiranno. Parte essenziale dello spiazzamento di cui si

parlava deve essere, da parte dell’antagonista, la percezione di trovarsi di fronte ad una superiorità

morale: il comportamento del nonviolento deve venir

percepito come vero coraggio, frutto di una lucida

scelta morale e non di pura passività, testardaggine o

fanatismo.

A questo proposito Gandhi traccia una celebre

distinzione tra la nonviolenza del codardo (che di

fronte all’ingiustizia si defila e batte in ritirata, senza tentare una resistenza), e la nonviolenza del coraggio-

so (che accetta la sfida, e combatte l’ingiustizia senza ricorrere alla violenza ma facendo leva - come si è

detto - sulla parte migliore presente nell’animo dell’an-

tagonista). Tra i due, si situa chi reagisce all’ingiustizia con la violenza, scelta che -come sappiamo - hanno

fatto molti patrioti indiani in lotta contro l’impero. Gandhi afferma ripetutamente che se non si riesce a

praticare coerentemente la nonviolenza, la violenza è

pur sempre infinitamente migliore della codardia. “La non-violenza non è una giustificazione per il codardo,

ma la suprema virtù del coraggioso. La pratica della

non-violenza richiede molto più coraggio della pratica

delle armi. La codardia è assolutamente incompatibile

con la non-violenza.” (Pontara, op. cit., p. 23).

La nonviolenza vera e propria presuppone dunque

intima persuasione, maturità e addestramento: come

può dunque muovere le masse? Di fatto lo può fare

attraverso il “contagio” di una minoranza veramente nonviolenta, capace di trascinare una maggioranza

sensibile soprattutto ai risultati pratici (in questo senso

Gandhi contrappone alla nonviolenza autentica o “del forte” la opportunistica “nonviolenza del debole”). Riassumendo, in ordine di valore crescente: nonviolen-

za del codardo, violenza, nonviolenza del debole,

nonviolenza del forte o del coraggioso.

Le reazioni della controparte

E’ interessante vedere quali potevano essere le reazioni della controparte davanti alla strategia paradossale di

Gandhi. Dennis Dalton, nel suo libro su Gandhi, il

Mahatma : Il potere della nonviolenza (ECIG 1998),

analizza in profondità le discussioni che si svolsero in

seno al gruppo dirigente imperiale britannico al tempo

della marcia del sale (annunciata in anticipo da Gandhi

stesso al viceré Irwin; nel film troviamo una scena che

sintetizza tali discussioni). In sostanza il viceré e i suoi

collaboratori non sapevano che pesci pigliare: se

arrestavano Gandhi, rischiavano di scatenare l’indigna-

zione delle masse (e anche di molti indiani moderati);

se lo lasciavano libero, davano l’impressione di averne paura e di perdere la faccia di fronte ad un’aperta sfida al loro potere. Tutto sommato, i britannici si trovavano

meglio sul terreno a loro famigliare dello scontro

violento con i “terroristi”, mentre erano in difficoltà di fronte ad un potere disarmato che faceva appello alla

coscienza individuale. In particolare il viceré Irwin, un

fervente cristiano conservatore, esitava davanti all’ar-resto di un uomo che molti consideravano – e forse

egli stesso sospettava fosse – un autentico uomo di

Dio.

Non meno interessanti sono le memorie di un

funzionario della polizia inglese impegnato nella

repressione delle dimostrazioni all’epoca della marcia del sale del 1930:

“Fin dall’inizio avevo provato una forte avversione per l’ordine di disperdere quelle folle nonviolente… era

molto diverso usare la forza contro uomini come

quelli, rispetto ad adoperarla giustamente contro i

rivoltosi violenti… man mano che il tempo passava,

scoprivo con sgomento che la mia intensa avversione

per l’intera procedura era aumentata a tal punto che ogniqualvolta il Congresso organizzava una grossa

manifestazione, provavo un forte senso di nausea che

mi impediva di assumere cibo fino a quando la crisi

non fosse passata” (p. 175-176).

Alcune pagine di Dalton documentano la posizione di

Gandhi sulla questione della persecuzione nazista nei

confronti degli ebrei. In un articolo del 1939 Gandhi

sostenne che il satyagraha “può funzionare e funziona di fronte alla più feroce opposizione… è risaputo che

le sofferenze dei nonviolenti riescono a sciogliere i

cuori più duri...”(p.178). Alcuni intellettuali ebrei tra cui il filosofo Martin Buber gli scrissero facendogli

rispettosamente notare che le situazioni erano troppo

diverse, sia quanto al carattere tirannico e violento del

nazismo, sia riguardo alla debolezza degli ebrei, una

piccola minoranza circondata dall’odio dei più. Certo, per quanto l’impero britannico fosse tutt’altro che tenero con gli indiani che non collaboravano, non c’era paragone tra lo spazio di manovra goduto da Gandhi e

collaboratori, rispetto a quello degli ebrei tedeschi,

specie riguardo alla possibilità di far leva sull’opinione pubblica, totalmente asservita nella Germania nazista

come del resto in tutti i paesi a regime totalitario.

Eppure, anche di fronte allo spietato totalitarismo

nazista, alcune forme di resistenza nonviolenta hanno

avuto effettivamente successo, come documenta il

saggio di Jacques Semelin, Senz’armi di fronte a Hitler, Sonda 1993.

Alberto Bosi [email protected]

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 31

AMEDEO COTTINO,

C’è chi dice no.

Cittadini comuni che hanno rifiutato la violenza del potere, Zambon Editore, 2015, pp. 191, € 12,00

C’è chi dice no alla violenza del potere

Claude C. Eatherly, uno dei piloti del

bombardiere che ha sganciato la bomba

atomica su Hiroshima (agosto 1945),

tornato in patria, viene accolto ed

esaltato come un eroe, mentre la sua

coscienza lo opprime con profondi sensi

di colpa. Egli si sente un criminale e

non ha remore ad dichiararlo pubbli-

camente: cosa che gli costerà anni

d’internamento in un ospedale psichiatrico. Nel suo carteggio con il filosofo tedesco Gunther Anders,

Eatherly mette il dito sulla piaga quando osserva: “La

verità è che la società non può accettare il fatto della

mia colpa senza riconoscere al tempo stesso la sua

colpa ben più profonda”. Eatherly è uno dei protagonisti del libro di Amedeo

Cottino, che allinea una serie di casi umani sia

personali che collettivi interrogandosi sui fattori che

conducono una persona o un gruppo testimone di una

situazione di violenza a “dire di no”, cioè a solidarizzare con le vittime, ed eventualmente a darsi

da fare per aiutarle, spesso rischiando di persona, o

viceversa – secondo i casi – a “non vedere” oppure a girare la testa dall’altra parte, pur avendo visto. C’è qui qualcosa di non ancora sufficientemente indagato da

nessuna psicologia: le ragioni per cui persone comuni,

non particolarmente politicizzate o colte, si trovano

quasi senza pensarci a compiere gesti di grande

coraggio affrontando rischi mortali per aiutare uno

sconosciuto (è la famosa “banalità del bene” di

personaggi come il nostro Perlasca) mentre altri,

apparentemente molto simili, non fanno nulla o

addirittura si uniscono ai persecutori. Il punto più

delicato e anche più misterioso di questo processo è il

punto iniziale, quello che Cottino chiama del

riconoscimento: quello cioè per il quale il soggetto

riconosce l’Altro come un “altro se stesso”, come un essere umano con suoi propositi, sentimenti, dignità;

diventa consapevole della sua sofferenza, e – talora

attraverso un’improvvisa illuminazione, talora invece attraverso un processo lento e tormentato – lascia

entrare in sé la compassione (che in fondo è tutt’uno con il riconoscimento) e si muove per venirgli

incontro.

Tra i casi più insigni di questa capacità di venire

incontro all’Altro sfidando le minacce del potere,

Cottino analizza due casi relativi agli ebrei perseguitati

durante la seconda guerra mondiale. Il primo riguarda

Le Chambon, un piccolo villaggio francese ai piedi dei

Pirenei, dove la comunità, formata di protestanti, certo

memori delle persecuzioni subite in passato, si adopera

per accogliere e nascondere ebrei e rifugiati politici.

Un altro caso, molto noto, è quello della Danimarca

occupata dalle truppe naziste, dove la popolazione, a

cominciare dalle autorità, si adopera per far fallire il

piano di deportazione degli ebrei messo

in atto dai comandi tedeschi. Il fatto

che oggi proprio la Danimarca sia tra i

paesi che cercano di erigere muri

contro l’ “invasione” dei profughi fa ri-flettere su come sia facile perdere la

memoria storica, su come sia comodo

volgere la testa dall’altra parte di fronte all’attuale emergenza umanitaria,

nonostante lo shock dei tanti bambini e adulti rigettati

dalle onde sulle rive del nostro Mediterraneo (e

nonostante l’impegno di tante persone di buona volontà testimoniato dal recente film di Rosi su

Lampedusa).

Il libro di Cottino (non per nulla sociologo del diritto)

riguarda anche la “miseria” del diritto, il principale strumento col quale l’uomo pretende di individuare e punire i presunti colpevoli dei mali del mondo. In larga

misura si tratta di un’illusione, perché il diritto cerca responsabilità puntuali e personali (chi ha rubato

quell’auto, chi ha ferito o ucciso quella persona ecc.). La violenza diretta (della criminalità e della guerra)

non è l’unica e neppure forse la più grave forma di violenza: giustamente si dà oggi importanza ancora

maggiore alla violenza strutturale (quella di un sistema

economico che, speculando sui prezzi delle materie

prime più indispensabili, uccide migliaia di persone

dall’altra parte del mondo) e alla violenza culturale (quella che delegittima i valori di una cultura,

determinando crisi d’identità in un popolo, per spingerlo a comportamenti e consumi estranei). La

maggior parte dei mali di cui soffre attualmente il

mondo dipende da meccanismi complessi, da reti o

circoli causali, da responsabilità collettive che il diritto

ha solo di rado gli strumenti per individuare e colpire

(si pensi all’amianto di Casale, alle conseguenze mortali per migliaia di persone nei tempi lunghi, alla

difficoltà di un processo che pure rappresenta una

punta avanzatissima nel campo del diritto ambientale).

Alberto Bosi

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 32

C'è una situazione grave in Brasile

Tramite Antonio Lupo, del Comitato Amigos del MST Italia, abbiamo ricevuto e pubblichiamo il comunicato della Direzione Nazionale del MST (Movimen-

to dos Trabalhadores Rurais Sem Terra, noto da noi come Movimento dei Senza Terra), che parlano di un golpe in atto da parte dei media brasiliani, quelli stessi

che hanno favorito il golpe del 1964, la feroce dittatura in Brasile durata 20 anni, più lunga ma meno conosciuta in Italia di quella in Argentina.

Cari compagni/e

1. Certamente tutti/e state seguendo con attenzione gli svolgimenti della crisi politica nel paese. C'è un clima di tensione, di scontri e di grande manipolazione dell'informazione da parte delle reti sociali e di incitamento sociale.

2. In nome della Direzione Nazionale del nostro movimento, vogliamo arrivare a ciascuno di voi, per condividere alcuni elementi di riflessione su questo momento e alcuni orientamenti politici.

3. Il Brasile vive una grave crisi economica, sociale, politica e ambientale, che colpisce tutta la società e che è collegata al contesto della crisi mondiale del capitalismo, alla situazione di dipendenza del nostro paese, agli errori del governo in politica economica e all'avidità dei capitalisti che vogliono solo lucro facile, senza preoccuparsi dei destini del paese e della soluzione dei problemi del popolo.

4. Di fronte alla crisi c'è una disputa permanente di progetti per uscirne. I settori della borghesia, che dominano l'economia e sono allineati con il capitale straniero, vogliono il ritorno del neoliberismo. Tuttavia non possono dire esplicitamente al popolo che vogliono privatizzare la Petrobras, diminuire le risorse pubbliche per la soluzione dei problemi del popolo stesso. E non hanno ottenuto di poterlo fare attraverso il voto nelle ultime presidenziali.

5. Così, un pezzo della società, la cosiddetta piccola borghesia è andata in strada, a gridare il suo odio per spingere la popolazione a manifestare contro il governo, predicando chiaramente il golpe. Travolgere Dilma è una loro necessità per tornare al progetto del neoliberismo, per tornare ad avere il controllo anche dell'esecutivo, delle leggi.

6. Dall'altra parte si è formata una triplice alleanza tra settori del Pubblico Ministero Federale, con l'appoggio esplicito della Rete Globo, per creare eventi politici manipolati e condannare in anticipo l'ex-presidente Lula, creando una situazione di illegalità e persecuzione politica. Selezionano, manipolano e diffondono le informazioni che riguardano unicamente le persone di sinistra. Vogliono alla fine, travolgere il governo Dilma, rendere impossibile la candidatura di Lula e sconfiggere politicamente le idee di sinistra nel paese.

7. La Globo è stata il principale strumento golpista, che manipola e agita l'opinione pubblica, distorcendo i fatti e creando un clima di odio. E' il DNA golpista della Globo che si manifesta ancora una volta.

8. Per le forze popolari, per la sinistra in generale, c'è solo una possibilità: scendere in strada. Lottare per difendere la

democrazia, per difendere i diritti dei lavoratori, per esigere cambiamenti nella politica economica, per difendere la Petrobras e dimostrare al popolo quali sono i veri nemici del paese.

9. Il MST partecipa attivamente al Frente Brasil Popular, che ha deciso un calendario di mobilitazioni in tutto il paese. […]

10. Il 31 marzo, giorno che ci ricorda la triste data del golpe militare, dobbiamo fare assemblee plenarie, mobilitazioni in tutti i comuni dell'interno, per portare questa discussione al maggior numero possibile di persone, alla popolazione in genere. Dobbiamo approfittarne per discutere sulla natura della crisi e su quelle che sarebbero le vere vie d'uscita, combattendo contro il golpe e sostenendo i cambiamenti per migliorare le condizioni di vita del popolo. Difenderemo la democrazia e il mandato della Presidente Dilma, ma vogliamo cambiamenti nella politica economica.

11. Il Nostro Movimento, in particolare, insieme con altri movimenti delle campagne, si mobiliterà durante tutto il mese di aprile per ricollocare nel dibattito politico la riforma agraria. Vogliamo che si riprendano le politiche pubbliche per l'agricoltura familiare e gli insediamenti.

12. Invitiamo ognuno a riunirsi nei gruppi di base, […] per ricordare il massacro dei 21 compagni assassinati. Ancora, a distanza di 20 anni, regna l'impunità.

13. Il nostro futuro è la lotta. Vince solo chi lotta. Per questo non è il momento di restare fermi, nonostante le incertezze di una congiuntura che muta continuamente.

14. Raccomandiamo anche che, con l'aumento della tensione, restiamo in allerta, non cadiamo nelle provocazioni della destra, dobbiamo sempre agire collettivamente. Dobbiamo avere una speciale attenzione nel salvaguardare la sicurezza delle persone, dei militanti e delle nostre strutture collettive.

15. Questo è il momento di stare in allerta, riunendoci con il popolo, portando le nostre analisi, provocando la discussione sulle vie d'uscita dalla crisi, organizzando mobilitazioni nei nostri comuni e partecipando alle attività nelle capitali.

Andiamo alla Lotta! Un forte abbraccio a tutti e tutte

Coletivo da Direção Nacional - São Paulo, 17 marzo 2016

Per ulteriori informazioni raccomandiamo il sito

amico di Quarrata (Pistoia)

www.comitatomst.it/

Questo Comitato fa parte della Rete Radié Resch

(fondata da Ettore Massina – v. www.reterr.it)

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 33

Viaggio in Senegal, per ritrovare l'umanità L'Africa così lontana da un' Europa senz'anima

Il sole africano e l’aria di Dakar ci accolgono: un

sole potente, mitigato da un’aria insolitamente fresca, che spesso diventa vento tagliente. Mi sono ammalata

di tosse e gola. Qui i tassisti non concepiscono

finestrini chiusi… quelli che li hanno … Il viaggio è stato faticoso. Per risparmiare abbiamo

scelto un volo della Compagnia di bandiera turca,

abbiamo volato di notte, per molte ore, con scalo a

Istanbul e a Nouakchott, capitale della Mauritania;

scoperto il nome e la città quando, rimbambite dal-

l’interminabile volo notturno, stavamo per scendere, pensando che fosse Dakar! Occhiata di benevola

irrisione da parte delle hostess - che parlano turco o un

inglese incomprensibile, e capiscono poco l’inglese “normale”- mentre ci riaccompagnano ai nostri posti,

come bambine dell’asilo sfuggite al controllo. Meno male che la maggior parte dei passeggeri dormiva! Ma

l’assistenza a bordo è super. Colazione, pranzo, cena,

abbondanti e gradevoli, che si scelgono su un menù

come al ristorante; bevande, the e caffè quando si

vuole. Tutti a dire che era una pazzia scegliere Turkish

AirLines, con ancora scalo a Istanbul! In effetti, al

ritorno, siamo transitate all’aeroporto la domenica

dell’attentato ad Ankara. E siamo arrivate a casa qualche giorno prima di quello di Bruxelles, scalo del

volo belga, scartato per ragioni economiche, rotta

finora ritenuta la più sicura per l’Africa Occidentale! E’ volare ai tempi del terrorismo, bellezza! Controlli

su controlli, foto di biglietto e passaporto a ogni

ingresso, impronte digitali, domande ripetute,

perquisizioni, poliziotti, militari in armi ovunque, fin

all’ingresso dei bagni! La sensazione è ambivalente: da una parte ti senti più sicuro, protetto, ma insieme senti

l’ansia e l’angoscia dell’ineluttabile, del caso, del destino, del disegno di Dio, come si vuole. Paura no,

piuttosto il pensiero recondito dell’inutilità del tutto, in un misto di rabbia e ribellione per chi cerca di limitare

la mia libertà, la mia gioiosa e orgogliosa indipendenza

di cittadina del mondo, con il terrore da una parte e

con la repressione dall’altra. Prima tappa: Thies, la terza città più grande in

Senegal. Città sul mare, clima delizioso, caldo e

ventilato. Qui è già estate, a casa nevica. Appena

arrivata, sentivo già la malinconia della partenza …

Siamo qui per il nostro progetto di formazione e

animazione, “Migrazione e Sviluppo”, progetto regio-

nale sostenuto da Caritas Italiana, con una delegazione

di tre componenti del Gruppo Regionale di Educazione

alla Mondialità, provenienti da tre Caritas piemontesi:

Cuneo, Fossano, Mondovì. E siamo tre donne!

L’accoglienza senegalese è leggendaria, ma supera

sempre l’esperienza e le aspettative. Ci si sente “a casa” come a volte non capita quando lo si è davvero. Il programma che ci è stato preparato è molto intenso,

affollato d’incontri e visite; ma per prima cosa ci portano a pranzo, in un ristorante di cucina locale,

dove dopo quasi due giorni di cibo buono ma precotto,

i piatti che ci vengono serviti sono la risposta ai nostri

desideri, nella consolazione del corpo e dello spirito.

Comincia il tour e subito capisco che questo sarà un viaggio sorprendente e memorabile. Le prime avvisaglie le avevamo avute nella trasferta

dall’aeroporto di Dakar a Thies, con passaggio obbligato sulla superstrada che passa dalla capitale.

Due di noi erano già state in Senegal, pochi anni fa.

Erano i tempi duri di Abdoulaye Wade, “eletto” nel

2000 e rimasto al potere, con indegne manovre

golpiste e pugno di ferro, fino al 26 febbraio 2012,

dopo una sollevazione di popolo e sanguinosi disordini

in tutto il Paese, contro l’ottantaseienne dittatore. Io ho visto Wade, nel 2011, quando già il Senegal era in

fermento e si respirava aria di rivolta: un uomo tetro,

sguardo sfuggente ma feroce, gesti ieratici, circondato

da altissime e palestrate guardie del corpo, vistosa-

mente armate, e soldati in assetto di guerra, arrivato sul

luogo del Convegno, al quale partecipavo, con una

lunga colonna di enormi fuoristrada neri e corazzati.

L’impressione era stata sinistra e inquietante, anche per l’avversione tangibile che si respirava intorno a lui nella sala e fuori. Ora, il nuovo Presidente è Macky

Sall, 55 anni, progressista e supportato dalla società

civile, alleata preziosa per la sua vittoria alle elezioni,

finalmente libere e molto partecipate, del 2012.

Ripercorrendo lo stesso percorso delle volte prece-

denti, ai lati di quella che in Senegal può essere

ritenuta a buon titolo un’autostrada, scorrono chilo-

metri di cantieri, nuove costruzioni, gru ovunque,

mucchi di mattoni, cataste di legno, tubi di ferro, cubi

di cemento. E un brulicare di operai al lavoro. E poi

uomini, con giacche catarifrangenti, che riparano e

ripuliscono il bordo della carreggiata. Cose mai viste,

né immaginate!

Un’altra città, un altro Paese, in tre anni, soltanto tre anni di “buon governo”! Certo di strada ne resta ancora tanta da fare, mentre i

poteri forti e gli interessi multinazionali cercano una

riscossa, con i soliti mezzi di sempre. Ma intanto le

persone stanno rialzando la testa, si muovono, si

uniscono, cercano il loro riscatto, immaginano un

futuro diverso.

E’ come se un respiro profondo e collettivo si stesse

non perdiamoci di vista…

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 34

levando da mille gole e mille cuori, diventando un’aria tagliente che ripulisce e risana, un vento vigoroso di

rinnovamento.

E’ dalla società civile che arrivano le novità più interessanti. Novità per noi, che ci ostiniamo a

guardare all’Africa, come a tanti altri luoghi del mondo, che consideriamo periferie invisibili e senza

futuro, con lo sguardo pigro e supponente della nostra

civiltà superiore, del nostro modello di vita sacro e non

negoziabile.

Abbiamo incontrato tante realtà, gruppi, associazioni,

organizzazioni, di varia identità, appartenenza, riferi-

mento politico o religioso, ma tutte che si muovono sul

terreno comune del riscatto sociale e del recupero di

una dignità negata.

Abbiamo incontrato uomini e donne di una cultura

che ci ha incantato, capaci di aggregazione, di

coinvolgimento, di condivisione. Ci siamo immerse in

un’umanità generosa, che non odia, non coltiva rabbia, rancore o desiderio di vendetta, che vuole rispetto e

giustizia; non li chiede ma non li pretende, lavora e

lotta per affermarli con le sue risorse, le sue forze, per

la quale la solidarietà è un valore primario.

Questo è il Senegal, oggi. Se continuerà a esserlo do-

mani, ci riguarda da vicino, dipende anche da noi. Per

parafrasare un famoso slogan sulla mafia: se noi sare-

mo abbastanza vivi da permettere agli altri di vivere.

Di questo processo fa parte integrante la migrazione, enorme fraintendimento riconducibile

sempre al nostro atteggiamento di cui sopra, oltre che

funzionale agli stessi interessi.

Ci sarebbe tanto da raccontare di questo fenomeno

visto dall’altra parte del mare, per scoprire quanto sia diversa la narrazione vista con gli occhi dei

“protagonisti”. Perché l’Africa non è il bacino inerme di esseri umani alla deriva, nei nostri mari e sulle

nostre rotte di terra. L’Africa sta combattendo una

durissima lotta contro l’abbandono dei suoi figli, la maggior parte giovani. Lo sta facendo con determi-

nazione, come con la stessa determinazione si prende

cura dei migranti cosiddetti di ritorno, dei profughi

interni che migrano da Paesi invivibili. In Senegal

come in tanti altri Paesi africani, il primo obiettivo è

creare occupazione e lavoro, condizione fondamentale

per disincentivare la fuga verso “i paradisi” occi-

dentali, in primis l’Europa. Se c’è possibilità di futuro a casa, molti scelgono di

rimanere, e volentieri.

Siamo state ospiti per una mattinata di lavoro ordinario

presso un’associazione che si occupa di accoglienza. I locali sono modestissimi ma accoglienti, con piccoli

uffici/scatola indipendenti per ogni operatore, corredati

di tutto il necessario. Le persone sono ricevute e

ascoltate per il tempo che serve, calma e pazienza,

anche se sono tante. I colloqui più impegnativi si

svolgono sotto un grande albero nel cortile, dove

l’ombra e il verde creano un luogo di quiete e

riservatezza, dove è forse meno difficile raccontare la

propria storia di sofferenza, di tragedia, spesso di

orrore. La dimensione umana di chi chiede aiuto, è al

primo posto, poi verrà tutto il resto. Non ci sono

“utenti”, ci sono solo fratelli in difficoltà ai quali

offrire solidarietà e restituire dignità.

Come il ragazzo che arriva dal Gambia, universitario e

con buone prospettive di vita e di lavoro. Ma con un

“ma”. E’ omosessuale, e viveva la sua condizione in assoluto segreto, finché una soffiata anonima l’ha sma-

scherato. E ha dovuto fuggire da un’ora all’altra, senza il tempo per portarsi via niente, con i poliziotti quasi

alla porta di casa, per salvare se stesso e proteggere la

sua famiglia e i suoi amici da ritorsioni e violenza.

Perché in Gambia l’omosessualità è un reato capitale, cioè è punito con la condanna a morte, solitamente

dopo un processo sommario, o anche senza.

Molto del lavoro si svolge con i migranti di ritorno, i

senegalesi che sono emigrati all’estero, ci sono stati a lungo ma, complici la devastante crisi europea e la no-

stalgia per il loro Paese, decidono di tornare a casa.

Come l’uomo di mezza età che sta cercando di com-

prarsi un taxi qui a Dakar, dopo 30 anni di lavoro fra

Italia e Germania, ed è venuto qui perché possono aiu-

tarlo a trovare un prestito e per le pratiche per la

licenza.

Uno degli ultimi incontri è cruciale. Andiamo a

Pikine, l'immensa e incontrollata città alle porte di

Dakar, talmente priva di servizi da risultare la sua

naturale periferia, che si sviluppa in fasce sempre più

degradate spostandosi verso il centro. Centinaia di

migliaia di persone ammassate in una “città” di

macerie abitate, baracche, ricoveri di fortuna, prati

aridi punteggiati da pecore macilente e affamate,

stagni maleodoranti, strade di sabbia, che si allaga

rovinosamente tutti gli anni nella stagione delle

piogge. C’è un progetto per abbandonare quest’area irrecuperabile, per costruire nuovi quartieri lontano

Page 35: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 35

Beneficenza tanta, ma guastata

La Fondazione Bill e Melinda Gates (Bmgf), con un patrimonio di 43,5 miliardi di dollari, è la più grande fondazione di beneficenza del mondo. Attualmente distribuisce più aiuti per la salute globale rispetto a qualsiasi governo. Un rapporto di Global Justice Now intitolato “Gated development”, che potrebbe tradursi “Sviluppo guastato” pone molti dubbi sull'operato dell'or-ganizzazione creata dall'uomo più ricco del mondo e da sua moglie. Secondo l'Ong britannica, la strategia della Fon-dazione mira a rafforzare il ruolo delle imprese multinazionali, anche se queste imprese sono in gran parte responsabili della povertà e delle ingiustizie che affliggono il sud del mondo. Bmgf promuove l'agricoltura industriale in tutta l'Africa, spingendo per l'adozione di Ogm, di sistemi di semi brevettati e fertilizzanti chimici. Incoraggia un sistema in cui poche grandi imprese control-lano la ricerca e lo sviluppo, la produzione e la distribuzione di sementi; minando, così, l'agri-coltura di sussistenza contadina esistente, che assicura la maggior parte della sicurezza alimentare del continente. I suoi finanziamenti spingono in direzione della privatizzazione di sanità e istruzione, una scelta che rende ancora più difficile la copertura universale dei bisogni fondamentali. I ricercatori ricordano che nel 2012 una relazione del Senato ha scoperto che il ricorso di Microsoft a società off-shore gli ha permesso di evadere le tasse per 4,5 miliardi di dollari, una somma superiore alla somma annuale di sovvenzioni erogate dalla Bmgf (3,6 milliardi di dollari nel 2014).

S. D.

Il Servizio Civile nei Corpi Civili di Pace

“Agirà portando messaggi da una comunità all’altra. Faciliterà il dialogo all’interno della comunità al fine di far diminuire la densità della disputa. Proverà a rimuovere l’incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. Negozierà con le autorità locali e le per-sonalità di spicco. Faciliterà il ritorno dei rifugiati, cercherà di evitare con il dialogo la distruzione delle case, il saccheggio e la persecuzione delle persone. Promuoverà l’educazione e la comuni-cazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l’odio. Incoraggerà il mutuo rispetto fra gli individui. Cercherà di restaurare la cultura dell’ascolto reciproco. E la cosa più importante: sfrutterà al massimo le capacità di coloro che nella comunità non sono implicati nel conflitto (gli anziani, le donne, i bambini)”. Questo sareb-be stato il corpo civile di pace europeo secondo il documento elaborato dal Parlamentare Euro-peo Alex Langer, nel 1995, nel pieno della tragedia jugoslava. Anche in Italia, dopo la Germania, i giovani potranno scegliere di svolgere il Servizio civile nei Corpi Civili di Pace. Il governo ha pubblicato il bando aperto agli enti per presentare progetti per attività di pacificazione in aree di conflitto. A giugno, ci sarà il bando per selezionare i primi duecento volontari e avviare un percorso di formazione. L’importo finanziario, 3 milioni all’anno, è esiguo se paragonato ai 17 miliardi che lo stato spende per le forze armate, ma può rappresentare l’inizio di un capovolgimento nel modo di intendere la risoluzione dei conflitti.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni - Cuneo

dalle alluvioni, su terreni sani e sicuri. I lavori sono già

cominciati. Ce la farà l’amministrazione pubblica a sostenere un impegno economico enorme come quello

richiesto? Qui vive una splendida signora da Premio

Nobel. Ha fondato un’associazione per le donne che hanno perso i loro figli e fratelli nel tentativo di

migrare. Ha aperto per loro un centro per l’educazione e il lavoro, dove possano studiare e imparare un

mestiere, per uscire dalla disperazione, aiutare le loro

famiglie e soprattutto prevenire e impedire la

migrazione, che avviene con i terribili viaggi in piroga.

Sono imbarcazioni lunghe e strette, caratteristiche del

Senegal. Pescano pochissimo in acqua e si

capovolgono con estrema facilità, in mare aperto

durano poco. Ci hanno detto che su sette che

s’imbarcano, ne sopravvive uno. Un’ecatombe annunciata, perché tutti lo sanno. Un’ecatombe che queste donne s’impegnano a fermare, ogni giorno, dopo che il mare si è portato via qualcuno che

amavano e ameranno per sempre.

Dopo la visita al suo Centro, ci chiede di accom-

pagnarla sulla spiaggia vicina. Ci fa vedere quelli che

stanno aspettando di partire, accoccolati sulla sabbia

con uno zaino o un borsone accanto, lo sguardo

lontano.

Sono di meno, ma ce ne sono sempre, ci dice. Poi va

sulla riva, s’inginocchia e si lava il viso con l’acqua di mare. E’ il saluto a suo figlio, morto partendo da quel-

la spiaggia; un gesto che ripete ogni volta che viene lì.

Guardo verso il mare. Vedo poco, perché sto

piangendo. Oltre quel mare c’è il mio Paese, c’è l’Europa, una tetra fortezza che sta deportando i figli di questa e altre terre in Turchia, consegnandoli a un

destino senza speranza. E’ un marchio d’infamia che segnerà nella storia il nostro tempo, il nostro

continente, e la mia generazione.

Claudia Filippi [email protected]

Page 36: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 36

Quale digiuno per il Signore?

E’ appena trascorsa la Quaresima: una delle pratiche tradizionali proposte abitualmente in questo momento

liturgico è quella del digiuno. Nella maggior parte di

noi i ritmi e gli usi del tempo in cui viviamo hanno

fatto cadere nel disuso questa consuetudine che nella

nostra giovinezza abitava le nostre famiglie. Al di là

del momento rituale resta il fatto che concederci dei

momenti di pausa o quanto meno di un cambio di

marcia era e sarebbe tuttora una pratica utile. Vorrei

con questo breve scritto proporre una riflessione su

alcune opportunità di vivere comunque nella nostra

vita di tutti i giorni la possibilità di esercitarci nella

pratica di un “digiuno” che possa rivelarsi utile al

nostro cammino quotidiano.

• Il digiuno delle ansietà e delle aspettative...

Ho già avuto occasione di riferire uno dei “guadagni" che ho riportato dal mettermi a fianco delle

popolazioni africane: nel condividere con tante

persone di una cultura così diversa i loro momenti

difficili ho potuto apprezzare a fondo la loro capacità

di dilatare il presente e riuscire a viverlo intensamente

come unico spazio sicuramente disponibile.

Immersi come siamo nella nostra tensione verso ciò

che sarà, noi siamo portati a cogliere in questo loro

atteggiamento assenza di progettualità e fatalismo.

Conoscendoli più a fondo si arriva a comprendere quan-

to avremmo invece da imparare per acquistare in sere-

nità nell’unico momento che ci appartiene palpabil-

mente e cogliere il meglio di ciò che stiamo vivendo.

Non è facile e non è detto che si possa concretamente

riuscire a farlo quotidianamente nel presente compres-

so che il nostro tipo di civiltà ci concede, ma credo che

può tornare utile pensarci di quando in quando e

tentare di esercitarsi in tal senso: è una sorta di

“training autogeno” che non può che giovarci ben più di qualunque ansiolitico.

Per questo, anche se può sembrare un controsenso,

ogni volta che ci scambiamo un augurio per qualcosa

che aspettiamo è proprio un presente ampio ciò che

dovremmo augurarci come migliore futuro possibile.

• Il digiuno dei “diritti acquisiti”

Siamo abituati nel nostro mondo occidentale ad agire

solo in presenza di garanzie ritenute indispensabili ed

irrinunciabili: occorre avere tutto il necessario e

mettersi nelle condizioni più opportune per assicurare

un buon esito alle nostre azioni. Questo atteggiamento

talvolta può arrivare a costituire l’alibi per la nostra astensione dall’agire persino di fronte ad una necessità

razionalmente incontrovertibile. Nel cosiddetto buon

senso comune ed anche rispetto alla legge un

comportamento diverso può di fatto correre il rischio

di essere valutato a seconda delle circostanze e,

soprattutto dell’esito del nostro agire, alternativamente

o come un temerario atto di “altruismo” o come un gesto incosciente.

La capacità di mettersi in gioco anche in assenza delle

condizioni ideali, il “digiuno di ciò che ormai

riteniamo un diritto-dovere acquisito, è l’unico stato d’animo che, in alcune occasioni non preordinate, ci

può mettere in grado di riconoscere l’ “altro” nella veste di prossimo in stato di necessità e determinarci

nella scelta di rinunciare alle pur possibili

giustificazioni a sostegno di un’astensione. Tra queste per i meno giovani spesso quella dell’età appare la più solida anche quando potrebbe non esserlo, tanto che,

nei fatti, la dimentichiamo volentieri se si tratta di

concederci attività ed azioni comunque gradite.

In queste disposizioni d’animo, pensando all’ineso-

rabile trascorrere degli anni, mi diverte dire di me

stesso, come un amico più anziano di me una volta mi

disse: “non sono vecchio… sono solo giovane da più

tempo… da tanto tempo”; è un’espressione più profonda di quanto il suo intento ilare non lascerebbe

trasparire. Lo è se la si usa non per millantare una

qualche forma di giovanilismo o per rifiutare o

nascondere la propria età, ma per darle invece il suo

vero valore: quello di un presente aggiunto a tanti

presenti trascorsi che fanno di me il mio presente di

questo momento. In analogia con questo modo di

pensare io credo che vivere, costruire, ricavare il

meglio di/da me stesso nel mio presente sia il miglior

modo di prepararmi ad un’eventuale aldilà: inteso in tal senso, se ci sarà, potrebbe essere un’altra occasione di “presente” da cogliere e vivere intensamente. Perché

allora non essere al meglio per affrontarla? Si può ri-

leggere così l’invito all' “Estote parati” del messaggio evangelico: essere pronti… al presente!

Leonardo Lucarini [email protected]

Page 37: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 37

Referendum del 17 aprile per fermare le trivelle

Per noi è importante informarsi e partecipare … e poi votare Sì! Avremmo desiderato offrire un contributo originale, sul Granello, rispetto alle tematiche sollevate dal referendum; ma l’informazione di cui disponevamo fino a pochi giorni fa per prepararlo ci sembrava scarsa e spesso superficiale. In questi ultimi giorni l’informazione comincia ad ampliarsi, ma noi non abbiamo più tempo di esaminarla, perché il Granello deve essere stampato e spedito entra la data del referendum. Ci accontentiamo dunque di riproporre un documento, elaborato dal Comitato per il Sì, che a noi sembra serio, ricco di informazioni, non retorico.

Invitiamo chi volesse approfondire le questioni a leggere documenti sui siti ufficiali dei promotori del referendum: www.fermaletrivelle.it e www.notriv.com. Articoli importanti si trovano nei siti (facilmente rintracciabili) di Legambiente, Greenpeace Italia, Sbilanciamoci!, WWF, il Manifesto… A chi vuole approfondire la questione anche sul versante del mondo cattolico, ovviamente innanzitutto raccomandiamo la lettura dell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, ma anche dell’appello di padre Alex Zanotelli per il Sì al referendum sulle trivelle.

Ci sembra poi opportuno segnalare l’interessante articolo di Chiara Tintori sul n. 4 (aprile 2016) della rivista dei gesuiti “Aggiornamenti sociali”: l’articolo è liberamente accessibile anche ai non abbonati sul sito del periodico. Infine non vogliamo dimenticare il documento dell’Ufficio Piemontese Pastorale Sociale e del Lavoro, del 21 marzo scorso, che termina con un invito nient’affatto diplomatico, anche se scherzoso: “Se amate il mare, domenica 17 aprile non andate al mare, andate a votare!”. Invito accettato! Noi a nostra volta lo giriamo a tutti i nostri lettori.

1 - Il referendum è inutile? Il referendum serve a cancellare l’ennesimo regalo fatto alle compagnie petrolifere con l’approvazione della Legge di Stabilità 2016, che permette loro di estrarre petrolio e gas entro le dodici miglia nei nostri mari, senza alcun limite di tempo, ripristinando quanto prevedeva la norma per ogni altra concessione di ricerca ed estrazione, ovvero una sca-denza temporale (6 e 30 anni a seconda delle concessioni). Il referendum del 17 aprile è stato ritenuto necessario dalle Corti di Cassazione e Costituzionale per entrare nel merito della durata delle concessioni entro le dodici miglia. Nessuna concessione di un bene dello stato infatti, può essere affidata a un privato senza limiti di tempo, fino a che convenga a quest’ultimo. 2 - Il referendum è ideologico? Il movimento referendario ha già costretto il Governo a importanti passi indietro nella sua politica pro trivelle. Il percorso referendario si è già contraddistinto per aver portato a casa risultati concreti molto importanti. In particolare con la legge di Stabilità 2016 il Governo è stato costretto a fare dietrofront su tre aspetti molto rilevanti: le attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio nel nostro Paese non sono più strategiche (lo erano diventate con l’approvazione dello Sblocca Italia a fine 2014); ha ridato voce ai territori, riportando le decisioni per le attività a terra in capo alle Regioni e agli enti locali (sempre lo Sblocca Italia aveva avocato tutte le decisioni allo Stato centrale) e infine ha reso operativo il divieto al rilascio di nuovi titoli abilitativi entro le dodici miglia nel mare italiano. Un divieto previsto già dal Dlgs 128/2010 ma che i Governi che si sono

succeduti negli ultimi anni hanno sempre provveduto a smontare. 3 - Il referendum è inutile perché non ci saranno più nuove trivelle entro le dodici miglia Attualmente, la legge non consente che entro le 12 miglia marine siano rilasciate nuove concessioni, ma non impedisce, invece, che nell’ambito delle concessioni già rilasciate, dove il programma di sfruttamento lo preveda, siano installate nuove piattaforme e perforati nuovi pozzi, come nel caso della piattaforma Vega B nel canale di Sicilia. Se vince il Si il titolo andrà a scadenza nel 2022 e la piattaforma sarà fermata, se vince il No molto probabilmente sarà realizzato anche questo secondo impianto nell’ambito della concessione esistente. La stessa situazione vale per la concessione Rospo mare di fronte le coste abruzzesi, dove nel programma di sfruttamento sono previsti nuovi pozzi. Nel caso vinca il Sì verrebbe ripristinata la scadenza del marzo 2018 e quindi non ci sarebbero ulteriori ampliamenti. Rimane infine in sospeso il caso di Ombrina mare, il progetto di una nuova piattaforma petrolifera a sole 3 miglia dalla costa che in questo momento è tenuto in sospeso fino a fine 2016. Inoltre è bene ricordare che con l’attuale formulazione della norma sono fatti salvi sine die anche alcuni titoli di ricerca che un domani potrebbero trasformarsi in nuove attività (questa ad esempio è una delle contraddizioni della durata illimitata dei titoli abilitativi già rilasciati). 4 - Se l’Italia non trivella, trivellerà qualcun altro, ad esempio la Croazia? In Adriatico l’Italia è l’unico paese ad avere decine di

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 38

concessioni e piattaforme in mare anche a ridosso della costa. La Croazia, l’altro Paese ad avere piattaforme instal-late nel mar Adriatico, ha solo 19 piattaforme per l’estrazione di gas localizzate al centro dell’Adriatico, a ridosso del confi-ne delle acque di sua competenza. Inoltre il Governo croato ha di recente firmato una moratoria contro le nuove trivel-lazioni. La moratoria segue di qualche mese la rinuncia da parte di due compagnie petrolifere a proseguire le attività di ricerca di giacimenti in acque croate su 7 delle 10 aree che il Governo aveva dato in concessione. Non è l’unica rinuncia, visto che qualche settimana fa la Petroceltic ha fatto dietro-front rispetto a un permesso di ricerca a largo delle isole Tre-miti e la Shell per le sue attività nello Ionio. In conclusione, sono le stesse compagnie petrolifere a non ritenere conve-niente puntare su nuove attività estrattive nel mare italiano. 5 - Se vince il Sì, si perderanno molti posti di lavoro? Nessun posto di lavoro è a rischio per colpa del referendum. A mettere in pericolo quei posti di lavoro, semmai, sono la crisi del settore, la riduzione dei consumi nazionali di gas (-21,6%) e petrolio ( -33%) e la mancanza di una seria politica energetica nazionale. Inoltre se vince il Sì, le piattaforme non chiuderanno il 18 aprile ma saranno ripristinate le scadenze delle concessioni rilasciate, esattamente come previsto prima della Legge di Stabilità 2016. Si ripristinerà quindi la durata della concessione sottoscritte da Governo e compagnie petrolifere. Inoltre, lo smantellamento delle piattaforme potrà creare nuova occupazione. Assomineraria parla di 13mila occupati nel settore estrattivo in tutta Italia (tra attività a terra e a mare, dentro e fuori le dodici miglia) e 5mila posti di lavoro a rischio con il referendum. Il ministro Galletti fa riferimento alla cifra di 10mila posti di lavoro in meno e la Filctem Cgil sostiene che i lavoratori che rimarrebbero a casa sono 10mila solo a Ravenna e in Sicilia. Le stime ufficiali riguardanti l’intero settore di estrazione di petrolio e gas in Italia (fonte Isfol – Ente pubblico di ricerca sui temi della formazione, delle politiche sociali e del lavoro) parlano invece di 9mila impiegati in tutta Italia e di un settore già in crisi da tempo. Elemento quest’ultimo molto importante. A dimostrarlo i rapporti del settore degli ultimi anni a livello nazionale e internazionale o il tavolo di crisi aperto presso la regione Emilia Romagna, già prima dell’istituzione del referendum. Ad esempio secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie petrolifere a causa del crollo del prezzo del petrolio è ad alto rischio di fallimento nel 2016, con un debito accumulato comples-sivamente di 150 miliardi di dollari. Al contrario, il settore delle rinnovabili e dell’efficienza sono in forte crescita e con norme e politiche adeguate potrebbero generare almeno 600mila posti di lavoro: 100mila al 2030 nel solo settore delle energie rinnovabili – circa il triplo di quanto occupa oggi Fiat Auto in Italia – mentre, al contrario, nel 2015 se ne sono persi circa 4 mila nel solo settore dell’eolico e 10mila in tutto il settore. 6 - Se vince il Sì, il nostro paese aumenterà l’importazione di petrolio e gas e il traffico marittimo?

Difficilmente chiudendo queste attività, che comunque arriverebbero al termine previsto dalla concessione come prevedeva la normativa fino a fine 2015, ci sarà un incremento di traffico di navi per il trasporto di idrocarburi. Il totale del petrolio oggi estratto da queste piattaforme corrisponde al carico di tre navi petroliere in un anno. Il gas viene trasportato (importato o esportato) prevalentemente attraverso i tubi dei gasdotti e non via mare. Infine già oggi il petrolio estratto dalle piattaforme (presenti prevalentemente entro le dodici miglia marine) viene trasportato a terra tramite oleodotti e da qui, il più delle volte, caricato sulle petroliere per essere trasportato agli impianti di raffinazione e trattamento. Tutto questo traffico sarebbe, al contrario, eliminato grazie al Si al referendum. 7 - Le piattaforme sono sicure e non ci espongono a rischi ambientali? Nessuno può garantire che non si verifichino incidenti, come è successo ultimamente in Tunisia, nel Mar Caspio e nel Golfo del Messico, con un danno ambientale incalcolabile e irreversibile. Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni smisurati. In particolare, è importante sottolineare come secondo il “Piano di pronto intervento nazionale per la difesa da inquinamenti di idrocarburi o di altre sostanze nocive causati da incidenti marini” di Ispra, le tecniche di rimozione delle sostanze sversate consentirebbero di recuperare, al massimo, il 30% del totale. 8 - Le piattaforme oggetto del referendum non inquinano e non hanno impatto sull’ambiente? Le piattaforme sono delle attività industriali a tutti gli effetti con tutti gli impatti e i rischi connessi. Le attività di ricerca e di estrazione di idrocarburi possono avere un impatto rilevante sull’ecosistema marino e costiero. A prescindere che siano di gas o petrolio, possono rilasciare sostanze chimiche inquinanti e pericolose nell’ecosistema, come oli, greggio, metalli pesanti o altre sostanze contaminanti, con gravi conseguenze sull’ambiente circostante. Anche la ricerca del gas e del petrolio che utilizza la tecnica dell’airgun (esplosioni di aria compressa) incide sulla fauna marina e su attività produttive come la pesca, che potrebbe registrare una diminuzione del pescato fino al 50%. Infine, non bisogna sottovalutare anche il fenomeno della subsidenza. L’estrazione di gas sotto costa non è l’unica causa ma resta il principale fenomeno antropico che causa la perdita di volume del sedimento nel sottosuolo generando un abbassamento della superficie topografica. La subsidenza aumenta inoltre l’impatto delle mareggiate e delle piene fluviali, favorendo l’erosione costiera, con perdita di spiaggia ed effetto negativo sulle attività turistiche rivierasche. Una conferma arriva dall’ordine del giorno appena approvato dal Comune di Ravenna che chiede all’Eni di fermare prima del tempo l’attività della piattaforma Angela Angelina, molto vicina alla costa di Lido

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 39

di Dante, proprio a causa dell’elevata subsidenza riscontrata nella zona. 9 - Le piattaforme oggetto del referendum non estraggono petrolio? Le piattaforme soggette a referendum oggi producono il 27% del totale del gas e il 9% di greggio estratti in Italia. In particolare il petrolio viene estratto nell’ambito di 5 concessioni che comprendono 11 piattaforme dislocate tra Adriatico centrale – di fronte a Marche e Abruzzo – e nel Canale di Sicilia. Il 72% del petrolio estratto in mare nel 2015 deriva dalle aree marine più vicine alla costa. 10 - Se vince il SI, non si potranno più sfruttare giacimenti di petrolio e gas ancora attivi? Gli impianti non saranno dismessi il 18 aprile ma arriveranno alla loro scadenza, cosi come previsto dal loro contratto di concessione (30 anni). Si tratta comunque di attività già di per sé in forte calo dopo il picco raggiunto negli anni ‘80-‘90. La produzione del gas è diminuita del 43% negli ultimi 10 anni e anche il petrolio è in fase discendente come produzione, con un picco raggiunto nel 1988, e oggi stabilizzata a livelli 4 volte inferiori a tale valore. a produzione delle piattaforme attive entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di Smc (Standardmetri cubi) di gas; i consumi di petrolio in Italia nel 2014 sono stati di circa 57,3 milioni di tep (ovvero milioni di tonnellate) e quindi l’incidenza della produzione delle piattaforme a mare entro le 12 miglia è stata di meno dell’1% rispetto al fabbisogno nazionale (0,95%). Per il gas i consumi nel 2014 sono stati di 50,7 milioni di tep corrispondenti a 62 miliardi di Smc; l’incidenza della produzione di gas dalle piattaforme entro le 12 miglia è stata del 3% del fabbisogno nazionale. I consumi di gas negli ultimi dieci anni sono diminuiti del 21,6%, passando dai 86.171 milioni di metri cubi del 2005 ai 67.523 del 2015 mentre il petrolio ha subito una riduzione del 33% passando da 85,2 a 57,3 Mtep ed è previsto un ulteriore abbattimento dei consumi nei prossimi anni. Infine, è utile rimarcare la totale insensatezza di puntare sull’estrazione di gas e petrolio e su questi giacimenti per garantire la nostra indipendenza energetica. I dati forniti dall’Unmig, l’ufficio minerario per gli idrocarburi e le georisorse del MISE, e da Assomineraria, stimano infatti riserve certe sotto i fondali italiani che sarebbero sufficienti (nel caso dovessimo far leva solo su di esse) a soddisfare il fabbisogno di petrolio per sole 7 settimane e quello di gas per appena 6 mesi. 11 - Il nostro paese può contare sulle sole energie rinnovabili? Il 40% di energia prodotta da fonti rinnovabili ha fatto crollare il prezzo come mai al mercato dell’energia e dovremmo ringraziarle per questo. Oggi il solare potrebbe andare avanti anche senza incentivi (che in Germania ci saranno fino al 2024) basterebbe aprire all’autoproduzione e alla

distribuzione locale da FER, che però in Italia sono, rispettivamente, penalizzata e vietate. Inoltre, le rinnovabili oggi sono sempre più efficienti, mature e rappresentano la prima voce di investimento nel mondo. Non solo il solare ha ridotto il costo ad un decimo di dieci anni fa, ma nei prossimi anni è previsto che si ridurrà ancora, insieme al costo delle batterie per l’accumulo di elettricità. E se non fosse matura e affidabile, sarebbe difficile comprendere perché Enel sta investendo sul solare in tutto il mondo. Negli ultimi dieci anni infatti, le fonti rinnovabili hanno contribuito a cambiare il sistema energetico italiano. Complessivamente coprono il 40% dei consumi elettrici complessivi (nel 2005 si era al 15,4) e il16% dei consumi energetici finali (quando nel 2005 eravamo al 5,3%). Oggi l’Italia è il primo Paese al mondo per incidenza del solare rispetto ai consumi elettrici (ad aprile 2015 oltre l’11%), e si è sfatata così la convinzione che queste fonti avrebbero sempre e comunque avuto un ruolo marginale nel sistema energetico italiano e che un loro eccessivo sviluppo avrebbe creato rilevantissimi problemi di gestione della rete. A impressionare sono da un lato i numeri della produzione da fonti rinnovabili passata in tre anni da 84,8 a 118 TWh, e dall’altro quelli di distribuzione degli impianti da fonti rinnovabili: circa 800mila, tra elettrici e termici, distribuiti nel territorio e nelle città. Attraverso il contributo di questi impianti e il calo dei consumi energetici, l’Italia ha ridotto le importazioni dall’estero di fonti fossili, la produzione dagli impianti più inquinanti e dannosi per il clima (nel termoelettrico -34,2% dal 2005) e si è ridotto anche il costo dell’energia elettrica. 12 - Le attività di estrazione di petrolio e gas ostacolano il turismo? Si stima che le presenze complessive nelle destinazioni marine italiane siano state circa 253 milioni nel corso del 2013, con un impatto economico stimato inoltre 19 miliardi e 149 milioni di euro. Secondo il rapporto “Impresa Turismo 2013” (Unioncamere) il patrimonio naturalistico delle nostre destinazioni balneari è la prima motivazione di visita per i turisti stranieri (il 30% dei turisti), ed è il secondo motivo di scelta, invece, (24,9%) dei turisti italiani. Un patrimonio importantissimo per l’economia italiana e degli altri Paesi adriatici, il cui motore principale sono le bellezze naturali dei luoghi. Categoria in cui di certo non rientrano le piattaforme. 13 - Il referendum farà chiudere le piattaforme e i pozzi,che resteranno in mezzo al mare, anche se inattive? Le compagnie che estraggono petrolio e gas hanno l’obbligo di legge di provvedere al decomissioning e quindi allo smantellamento delle piattaforme, dei pozzi e delle infrastrutture connesse con la loro attività. Se vince il Sì abbiamo molte più garanzie che ciò avvenga, perché le compagnie allo scadere delle concessioni sono obbligate al ripristino dei luoghi. Se vince il No invece, visto che le attività andranno avanti fino a quando di fatto lo vorranno loro (fino a vita utile del giacimento), rischiamo di trovarci le strutture

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in mare ancora per tantissimi anni, perché a quel punto potrebbero sempre dire che non hanno ancora finito di sfruttare il giacimento e lasciarle lì. Il Sì serve anche ad avere garanzia e controllo su questo aspetto. 14 - Le entrate derivanti dalle royalties sono in calo per colpa del referendum? La normativa italiana prevede l’esenzione dal pagamento di aliquote per l’estrazione, per ogni concessione, delle prime 20mila tonnellate di petrolio estratte in terraferma e le prime 50mila tonnellate estratte in mare, così come per i primi 25milioni di Smc di gas estratti in terra e i primi 80milioni estratti in mare. Addirittura sono gratis le produzioni in regime di permesso di ricerca. A questo si aggiungono le detrazioni fiscali che le compagnie hanno sulle royalties versate alle Regioni. Delle 26 concessioni oggetto del referendum che sono state produttive nel 2015, solo 5 concessioni di gas e 4 di petrolio hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto un quantitativo minore della franchigia prevista dalla legge e quindi non hanno versato nulla. 15 - I soldi degli idrocarburi servono per sviluppo, ricerca e rinnovabili? Oggi il settore degli idrocarburi riceve sussidi diretti e indiretti dallo Stato per circa 2,1 miliardi di euro all’anno e gode di privilegi che non sono dati ad altri comparti industriali (esenzioni, agevolazioni fiscali, canoni irrisori, royalties molto vantaggiose). Oltre all’esenzione dal pagamento (vedi sopra) ci sono le irrisorie royalties previste per trivellare, che sono pari al 10%per il gas e del 7% per il petrolio in mare. Tanto vantaggiose da attirare appunto le compagnie straniere che vengono a svolgere la loro attività in Italia. Al contrario, in questi anni, nulla è stato fatto per promuovere le fonti rinnovabili che – ribadiamo - sono state ostacolate nel loro sviluppo, portando alla perdita di almeno 10mila posti di lavoro nell’ultimo anno. Basti pensare che tra il 2011 e 2014 le installazioni di solare fotovoltaico e eolico, sono passate da 10.663 MW a 733 MW. Per il solare fotovoltaico le barriere sono cominciate nel 2013, con il Governo Letta, che ha cancellato gli incentivi in conto energia (che in Germania invece sono ancora in vigore) togliendoli perfino per le famiglie e per la sostituzione dei tetti in amianto. Per le altre fonti rinnovabili i tagli sono cominciati nel 2012 (Governo Monti) e allora non vi è stato un solo provvedimento da parte dei vari Governi italiani che ne abbia aiutato lo sviluppo. Il Governo Renzi addirittura ha prodotto il decreto “Spalma incentivi” intervenendo in maniera retroattiva sugli incentivi, con nuove tasse per l’autoproduzione da fonti rinnovabili, regole penalizzanti per gli oneri di dispacciamento giustificate con la non programmabilità delle energie pulite: un nuovo decreto di incentivi alle rinnovabili non fotovoltaiche che, ancora prima di entrare in vigore, ha già determinato uno stop degli investimenti, grazie alle scelte che prevede. 16 - Le rinnovabili sono belle ma aumentano troppo il costo dell’energia?

Le rinnovabili non sono belle e gli incentivi alle rinnovabili pesano per lo 0,3% nel bilancio di una famiglia media italiana contro il 5,2% di incidenza della spesa per il riscaldamento. Inoltre il 40% di energia elettrica e il 17% di energia primaria prodotta da fonti rinnovabili sta contribuendo a cambiare modello energico, dove le fonti fossili entrano in sofferenza, con una contrazione dei prezzi del 67% per il petrolio e una forte riduzione degli investimenti. Metà della nuova potenza elettrica mondiale è venuta da eolico e fotovoltaico. Nel 2015 gli investimenti in fonti rinnovabili sono stati 6 volte quelli del 2004 e la crescita è continuata nonostante 4 fattori che l’hanno frenata: il crollo dei prezzi delle energie fossili, la riduzione dei costi del fotovoltaico, che fa scendere gli investimenti a parità di installato, la ripresa del dollaro e il rallentamento dell’economia europea. 17 - La costruzione entro le 12 miglia è vietata per legge dal 2006? Non è vero che le nuove attività sono vietate dal 2006. La Legge 152/2006 è stata modificata nel dicembre 2015. Ed il divieto entro le dodici miglia è stato posto per la prima volta da un decreto del 2010 (Dlgs 128/2010) e non nel 2006, poi rimosso dal decreto sviluppo (cosiddetto decreto Passera) nel giugno 2012 (in particolare a rivedere il vincolo è l’articolo 35), quindi reso vigente e attuato (per le nuove attività e le richieste in corso) solo con la modifica alla legge di stabilità 2016. Il divieto è quindi vigente dal 1 gennaio 2016 a tutti gli effetti e solo grazie alla pressione del movimento referendario. 18 -Abbiamo veramente bisogno di quel gas? Sarebbe uno spreco lasciarlo lì (serve un periodo di transizione)? Nelle piattaforme oggetto del referendum viene estratto gas e petrolio pari al 3 e all’1% del nostro fabbisogno nazionale. Una quantità irrisoria ai nostri fino energetici, considerando il calo dei consumi di gas del 21,6% e di petrolio del 33% negli ultimi anni. Non solo. Già oggi in Italia si produce elettricità con impianti a biogas che garantiscono il 7% dei consumi, e il potenziale per il biometano, ottenuto come upgrading del biogas e che può essere immesso nella rete Snam per sostituire nei diversi usi il gas tradizionale, è di oltre 8miliardi di metri cubi. Ossia il 13% del fabbisogno nazionale e oltre quattro volte la quantità di gas estratta nelle piattaforme entro le 12 miglia oggetto del referendum. Gli investimenti in questo settore però sono bloccati da barriere assurde di cui la più incredibile riguarda il fatto che il biometano non può essere immesso nella rete Snam. Da anni, infatti, si attende l’approvazione di un decreto che dovrebbe permettere qualcosa di assolutamente scontato e nell’interesse generale. Uno stop che ha come unica motivazione quella di non aprire alla concorrenza nei confronti di quei gruppi che distribuiscono gas, come Eni, che sono proprio coloro che possiedono larga parte delle concessioni di gas nei nostri mari.

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 41

Il referendum tradito

C'è un chiaro colpevole nel tradimento del referendum

che si sta consumando in Parlamento: il Partito

Democratico. E questo nonostante il fatto che molti

esponenti e militanti di quel partito abbiano condiviso

l'impegno nella campagna referendaria. Nel 2007 il

Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua raccolse

406mila firme per una Legge di Iniziativa Popolare, un

numero mai raggiunto. Il provvedimento ora

ripresentato da un gruppo interparlamentare avrebbe

attuato la volontà espressa dai cittadini nella

consultazione del 2011: estromettere i privati ed

eliminare i profitti dalla gestione del servizio idrico.

Nel corso della discussione della legge in

Commissione Ambiente il Pd ha presentato una serie

di emendamenti che ne hanno stravolto il testo e il

significato eliminando ogni riferimento alla

ripubblicizzazione del servizio idrico integrato.

Il tradimento è completato da due dei decreti attuativi

della legge Madia sulla Pubblica Amministrazione.

Uno di questi ha riscritto totalmente la normativa sulla

gestione dei Servizi Pubblici Locali. proponendosi a

breve periodo di “ridurre la gestione pubblica dei servizi ai soli casi di stretta necessità” e con obiettivo

finale quello di “valorizzare il principio della concorrenza... in un'ottica di rafforzamento del ruolo

dei soggetti privati”. Inoltre ripropone “l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito” proprio la dicitura abrogata dal secondo quesito, ma aggiunge

pure che essa deve essere “coerente con le prevalenti condizioni di mercato”. Il secondo decreto impone

norme sulle società partecipate che incentivano i

comuni a vendere sul mercato importanti quote di

proprietà pubblica.

Sempre che ce ne sia ancora bisogno, il nostro

comitato ha raccolto altri elementi sulle conseguenze

negative che può portare una gestione in mano a

soggetti che hanno come obiettivo il profitto e su

quanto risulti inefficace il controllo pubblico. Esso

dovrebbe essere esercitato dall'Ente di Governo

dell'Ambito Idrico n.4 del Cuneese (Egato4), ma

dall'esame del bilancio emerge in modo evidente la sua

impotenza. Sulle bollette dell'acqua si paga un

supplemento dell'1,5% destinato al funzionamento

dell'Egato e un altro dell'8% destinato all'attività di

protezione idrogeo-logica dei territori montani,

sull'entità di queste cifre esistono rilevanti discordanze

tra le cifre indicate nel bilancio dell'Egato e quelle

fornite dai gestori. Pesantissimi i debiti accumulati da

questi ultimi negli anni, nonostante la convenzione

imponga precisi tempi per i versamenti, mentre in

questi anni l'Egato si è sempre lamentato di non avere

sufficienti risorse per ben funzionare. Fatto ancora più

grave, dalla relazione allegata al bilancio di Egato4 si

evidenzia che gli investimenti previsti eseguiti dai

gestori sono stati nel 2013 per meno del 60%, nel 2014

per circa il 70% e nel 2015 per meno del 30%; la

relazione non fornisce il dettaglio per ogni singolo

gestore. Grazie ad un approfondito esame dei bilanci

dei gestori siamo riusciti a scoprire che Alpi Acque

(che agisce nel Fossanese, Saviglianese e Saluzzese),

Tecnoedil (Albese e Braidese), Acque Potabili

(Racconigi) e Mondoacqua (Monregalese) sono

fortemente sotto il 60%, mentre Acda (Cuneese) ne

eseguirebbe addirittura più del 100%. Alcuni gestori,

oltre a non adempiere agli impegni programmati nel

Piano d'Ambito, realizzano investimenti piuttosto

discutibili. E' il caso di due società del Gruppo Egea:

Alpi Acque e Tecnoedil. Nel caso della prima risulta

un investimento nel capitale sociale della controllata

Alpi Ambiente che ha come unica attività la gestione

di un impianto di depurazione a smaltimento di reflui

solidi e liquidi. L'azienda ha anche acceso a favore di

Alpi Ambiente un leasing di cui il bilancio non riporta

l'ammontare. Ancora più sorprendente è quanto

emerge dall'esame del bilancio di Tecnoedil che ha

investito in Roero Park Hotel, che gestisce una

struttura alberghiera nel comune di Sommariva Perno,

più di 1 milione di € nel capitale sociale e quasi 1,5 milioni in prestiti, ricavandone perdite per oltre 2

milioni di €. Gli investimenti nel settore idrico sono

interamente coperti dalle bollette pagate dagli utenti,

quindi quanto incassato dai gestori andrebbe speso

esclusivamente nel settore idrico e non altrove. Tra

l'altro il Decreto Madia prevede che le funzioni svolte

dall'Egato ritornino all'Ente di Area Vasta (ex

provincia) riducendo così ulteriormente le possibilità

di controllo, gli spazi di democrazia e partecipazione.

Tutto conferma che l'acqua necessita di una gestione

pubblica e partecipata, ma chi ha il potere di decidere

agisce in direzione opposta. Perché?

Sergio Dalmasso,

per il Comitato Cuneese Acqua Bene Comune

[email protected]

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 42

Divenendo

Nulla si crea, ma si trasforma. Le cose sono, prima e dopo, perché se ne colga il loro mutamento, lento o non lento, continuo per tutto il tempo in cui noi siamo. Ogni attimo è rinascita di opportunità, seppur inesorabile sia la dissolvenza, lenta o non lenta, del suo riflesso in noi che attendiamo a ostacolarne lo sgretolamento illusi di poterlo contrastare. Cecilia Dematteis

Responsabilità e cura

Ho accolto con molto piacere l'invito a confrontarsi

con la Laudato si’ per questo numero del Granello e l'ho portato all'interno del nostro Comitato. Luisa

giustamente mi ha fatto notare che sarebbe errato

attribuire a papa Francesco la paternità sui temi

climatici. Da molti anni studiosi e semplici persone

stanno sollevando il tema in tutto il mondo, molto

prima che il papa pensasse ad affrontarlo.

Perfettamente vero! Nel testo non ho però trovato

alcun accenno a volersi attribuire la paternità. Piuttosto

un accorato invito a responsabilizzarsi per cercarne

soluzioni non più rimandabili. Eravamo abituati negli

anni passati ad encicliche che si rivolgevano ai

cattolici, ai cristiani o al più agli uomini di “buona volontà”: papa Francesco si rivolge a “tutti gli uomini che egli ama”. Cioè proprio a tutti, compresi i migranti, i carcerati, i poveri e gli impoveriti, i

governanti e gli operatori finanziari, ma non perché li

ritenga tutti complici alla pari dei disastri in corso.

No, solo perché li ritiene tutti ugualmente attori

primari nella costruzione della partecipazione che vede

come strada maestra per uscire dal giogo del profitto

che sta accecando l'intera umanità.

Questo a mio avviso è il messaggio nuovo: non ci sarà

alcun passo in avanti se non saranno le persone che lo

imporranno con la loro partecipazione collettiva alla

costruzione della cura di Madre Terra.

Mi fermo qui perché le mie capacità di esegesi sono

davvero limitate e correrei il rischio di dire castronerie.

Ma dal mio

punto di vista

vorrei proprio

comunicarvi che

anche di que-

sto messaggio

sentivo di aver

bisogno, oggi

in un momen-

to in cui il Mo-

vimento dell'

acqua si trova

a combattere

con forze così preponderanti da scoraggiare anche i più

forti tra noi. La più cieca volontà di soggiogare l'acqua

alle regole mercantilistiche, imposta dalla finanziariz-

zazione della politica, ci ha posti in una condizione di

impotenza tangibile e contemporaneamente fatti

bersaglio dell’accusa di essere polemizzatori incalliti, non disposti a cercare una via “percorribile” all'interno di una legislazione europea e nazionale che qualifica

l'acqua come “servizio di interesse economico”. Ma è proprio contro quella concezione che la Laudato si’ ci

invita ad agire. Se non altro ci sentiremo ora in buona

compagnia nel nostro cammino! Cammino che intanto

stiamo alacremente proseguendo sia a livello locale

che nazionale.

Lo scorso 13 marzo ci siamo convintamente

riconosciuti in un percorso di condivisione con altri

movimenti che ha portato al lancio di una nuova

campagna referendaria sociale che vedrà la raccolta

firme per diversi quesiti: dalla buona scuola, al no a

nuovi inceneritori; dall'opzione “trivelle zero” ad una nostra petizione popolare al parlamento contro

l'applicazione del decreto Madia che ha reintrodotto il

tema della privatizzazione dei servizi pubblici locali,

compresa l'acqua.

Questa sarà la tematica che inseriremo all'interno della

nostra consueta giornata dedicata alla PRIMAVERA

DELL'ACQUA che è giunta alla sua VI^ edizione.

L'evento si svolgerà a Trinità, nelle vicinanze di

Fossano, domenica 15 maggio 2016 a partire dalle ore

9,30, con conclusione prevista verso le 18. Ci sarà una

bella camminata alla scoperta del territorio trinitese, un

pranzo insieme con le specialità della cucina di Rosa

ed amiche, un convegno al pomeriggio incentrato

proprio su “COME PRENDERSI CURA DI MADRE TERRA”. Invitiamo tutti a partecipare, in seguito comu-

nicheremo il programma dettagliato. Informazioni

potranno comunque essere chieste ai numeri

3893455739, 3495372854, 3201425545.

Oreste Delfino,

per il Comitato Cuneese Acqua Bene Comune

[email protected]

Page 43: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 43

Buona Costituzione a tutti

Lunedì 21 marzo si è svolta, presso la sala comunale

Barbero in via Schiaparelli a Cuneo, una serata di

approfondimento sulla riforma del Senato e sulla legge

elettorale Italicum.

Relatore della serata l’avvocato ed ex-difensore civico

regionale Antonio Caputo, coordinatore e

vicepresidente del Comitato piemontese e valdostano a

difesa della Costituzione, che ha spiegato le

incongruenze e le possibili conseguenze del combinato

disposto tra la riforma costituzionale targata

Renzi/Boschi e la nuova legge elettorale Italicum.

La prima andrà a intervenire prevalentemente su quel

che riguarda il Senato, che non sarà più votato dai

cittadini e perderà molte delle sue funzioni. La seconda

darebbe al partito che ottiene anche solo un voto in più

del secondo (ad esempio il 21% contro il 20%) un

premio di maggioranza del 54%.

Caputo ha ricordato che un’analoga legge in Italia c’è già stata: la legge Acerbo, voluta da Mussolini. Infine,

la modifica della Carta fondamentale è opera di una

maggioranza che siede in un Parlamento eletto con una

legge, il c.d. Porcellum, dichiarata incostituzionale

dalla Corte costituzionale.

Durante la serata è intervenuta anche Mirella

Ramonda, autrice dell’originale e interessante volume a fumetti “Buona Costituzione a tutti”, che ha sottolineato quanto sia preziosa e indispensabile la

nostra Carta Costituzionale e quanto troppo spesso sia

poco conosciuta.

Si sono ricordati infine i prossimi impegni del

Comitato, tra i quali la raccolta, da aprile a giugno,

delle 500.000 firme necessarie per depositare i due

quesiti referendari abrogativi dei passi più negativi e

meno democratici della legge elettorale – capilista

bloccati e abnorme premio di maggioranza. Al

comitato nazionale hanno aderito diverse realtà

associative, prima tra tutte l’ANPI che, con un’adesione pressoché unanime dei suoi delegati nazionali, si è costituita supporto indispensabile, pur

nella sua indipendenza, per l’attività di informazione e diffusione delle ragioni che condivide con il comitato

referendario.

Anche a livello locale un folto gruppo di cittadini –

con Arci, Comunità di Mambre, Fiom CGIL Cuneo,

Filctem CGIL Cuneo, Forum Acqua Pubblica, Prima

Le Persone, Comitato NoTriv tra le altre, e il supporto

di SEL, Possibile e Rifondazione Comunista – prevede

una capillare organizzazione per l’allestimento dei banchetti di informazione/raccolta firme e per la

campagna per il NO al referendum confermativo sulla

riforma costituzionale previsto per il prossimo

autunno.

I prossimi mesi saranno molto impegnativi per quanto

riguarda il fronte referendario. Il primo impegno sarà

domenica 17 aprile, quando si svolgerà il referendum

sulle trivellazioni. A rafforzare la campagna

referendaria si aggiungono il movimento per la scuola

pubblica, la campagna Stop devastazioni, il comitato

Blocca Inceneritori. Il 17 marzo hanno rispettivamente

depositato i quesiti referendari contro alcune parti della

legge 107/2015 (meglio conosciuta col nome di

“Buona scuola”), a favore dell’opzione Trivelle zero in terraferma e oltre le 12 miglia in mare, contro

l’articolo 35 del decreto Sblocca Italia che eleva gli inceneritori a “interesse strategico”, promuovendone la realizzazione in diverse regioni. A questi si è aggiunta

nei giorni scorsi la CGIL, che ha presentato 3 quesiti

contro il Jobs Act, che avranno come oggetto i

voucher, gli appalti e i licenziamenti. La campagna di

raccolta firme partirà il 9 e il 10 aprile e si chiuderà il 9

luglio.

Una campagna referendaria a tutto tondo, che

riguarderà lavoro, ambiente, scuola, istituzioni e che si

protrarrà fino al 2017, quando si voterà per i

referendum di cui si saranno raccolte le 500.000 firme

necessarie.

Alessio Giaccone

[email protected]

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 44

Puf: non ci siamo ancora

Il sindaco fa il gambero. Lo sportello casa indurisce la

lotta. La requisizione della palazzina degli Uffici

Finanziari (Puf) si fa sempre più indispensabile se si

vuole davvero risolvere la vicenda e togliere 18

famiglie (tra le tante che a Cuneo sono senza casa) da

ricoveri di fortuna e talora persino da forzate divisioni

del nucleo famigliare. Questa la sintesi della vicenda

che si è sviluppata tra lunedì e martedì 21 e 22 marzo

nella città di Cuneo.

Il sindaco gambero. Hanno aperto le danze lo

Sportello casa e il gruppo consigliare dei Beni Comuni

con una conferenza stampa e una interrogazione in

consiglio sui tempi della sbandierata azione del

sindaco (peraltro assai distratto dalle nomine dei

consiglieri della Fondazione della CRC) per portare a

casa la “liberazione del Puf”. Borgna, dichiaratosi in precedenza assai prossimo all'acquisizione della

palazzina (non pochi in città quelli ci chiedevano come

fare ad avere un appartamento), in una comunicazione

tanto retorica quanto priva di contenuti riproponeva

ritardi e inciampi che si ritenevano superati da tempo.

Fierro occupa. Pronta la replica dei consiglieri di

minoranza; in particolare Nello Fierro, brandendo il

suo sacco a pelo, dichiarava subito di voler occupare la

sala del consiglio comunale. In via Roma intanto,

proprio sotto il palazzo comunale, i militanti dello

Sportello Casa cominciavano a montare le tende in cui

avrebbero passato la notte a sostegno della vertenza

del Puf. Al di là del consenso manifestato da cittadini e

media, una battuta d'arresto per lo Sportello Casa

(attivissimo) e soprattutto per la liberazione dei 18

alloggi, e il porsi come ormai indifferibile la

requisizione del Puf.

Necessaria la requisizione. La rendono indispensabile

l'intrico dei problemi burocratici, veri o rappresentati

come tali, e la manifesta inerzia dell'amministrazione

cittadina, per non parlare della totale latitanza nella

vicenda dei parlamentari cittadini anni fa tanto attivi

invece… sui giornali. La rendono indifferibile la fame

di case e il numero degli sfratti in città. La

requisizione, se lo si vuole, non è impossibile, tenuto

conto tra l'altro al vincolo sociale cui la Costituzione

lega la proprietà privata. La procedura, in questo caso,

prevede che il sindaco motivi la richiesta con i gravi

elementi sociali (riconosciuti tali da tutti) che la

rendono necessaria e li rappresenti al Prefetto cui è

demandato il potere di farla.

Rovesciare le priorità. Non se ne fa una questione

ideologica di requisizione per la requisizione - sapendo

tra l'altro quanto la sola parola sia ostica per una giunta

moderata come quella cuneese - ma si vuole anche

andare al di là di essa. Lo dimostra il fatto che, per

ottenere l'unanimità del consiglio comunale sulla

mozione a riguardo degli alloggi inutilizzati del Puf, lo

Sportello Casa accettò di stralciare dalla mozione

stessa la richiesta della requisizione, anche se questa

era stata centrale nella petizione firmata da 1200

cittadini. La requisizione è necessaria e la richiediamo

con forza perché è l'unico provvedimento in grado di

rovesciare l'attuale ordine delle priorità che non sta

riuscendo a sbloccare la situazione. Non più prima la

risoluzione dei problemi tecnici che ci vengono addotti

uno dopo l'altro e, solo dopo, l'assegnazione delle case

a chi ne ha bisogno. Al contrario prima si sistemino le

famiglie e poi burocrazia e politica si diano una mossa

a risolvere i problemi da loro stessi creati.

Le prossime mosse. Comunque, per provarle proprio

tutte, martedì 5 aprile incontro con il Demanio a

Torino, nella vulgata corrente il luogo incriminato,

quello dove sembrano annidarsi i principali ostacoli

alla liberazione del Puf. Al prossimo consiglio

comunale verrà presentata la mozione sulla

requisizione e si vedrà fino in fondo chi vuole liberare

il Puf e chi fa solo propaganda. Nel prossimo numero

vi aggiorneremo su queste due iniziative e, comunque,

sugli ulteriori sviluppi.

Carlo Masoero [email protected]

Page 45: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 45

Giocare col clima

Il tema doveva essere la legalità. Gianni Bianco,

giornalista, e Giuseppe Gatti, magistrato antimafia, da

tempo girano l'Italia per raccontare il libro scritto a due

mani: “La legalità del noi – le mafie si sconfiggono

solo insieme”, e a me avevano chiesto di preparare un

Gioco di Ruolo (GdR) sul tema, da effettuarsi in

occasione dei loro laboratori. Invece nel giugno scorso

mi avvertono che ad un campo estivo, in cui avrebbero

svolto il loro tema, a me era

richiesto di organizzare un GdR a

tema ambientale: la Laudato si di

Papa Francesco era appena uscita, e

la Mariapoli del Movimento dei

Focolari che si sarebbe svolta il

mese successivo sulle pendici del

Gran Sasso era l'occasione giusta

per rilanciare ai 500 partecipanti le

provocazioni dell'Enciclica.

Così insieme ad Andrea, un

giovane papà di Pescara attivo sui

temi ambientali, ci siamo buttati a

creare da zero un GdR incentrato

sul riscaldamento globale, che si-

mulasse, anche se in maniera

schematica, i meccanismi econo-

mici e geopolitici che lo provocano,

su scala planetaria.

Per le modalità di svolgimento si

sono riprese quelle già utilizzate in

GdR precedenti: ciascuno dei

partecipanti riceve all’inizio un documento che spiega in dettaglio

il proprio ruolo, ovvero la parte che

dovrà recitare, il proprio obiettivo

ed alcuni suggerimenti. La vicenda

che ne segue è tutta in mano ai

partecipanti, che interagiscono tra

loro seguendo la traccia indicata,

ma anche usando la fantasia,

orientando le proprie azioni in

modo da raggiungere gli obiettivi

assegnati. Non si chiede agli

organizzatori se una cosa si può

fare... se non è contraria allo spirito

del gioco, allora si può fare. La

realtà che è oggetto del gioco viene

così simulata, e insieme si indaga sui meccanismi nel

mondo reale. Siamo a metà tra un gioco e una rap-

presentazione scenica. Il segreto è l'immedesimazione

nel proprio ruolo, lasciandosi coinvolgere.

Dato che il gioco ha anche lo scopo di sperimentare

situazioni nuove e diverse, si chiede a ciascuno di farsi

guidare dal proprio ruolo e non da logiche

forzatamente “ottimistiche” o “catastrofiste” (solo per

fare degli esempi).

Quella che segue è la descrizione della struttura che è

stata data al GdR sul riscaldamento globale.

I partecipanti fanno parte di un continente (una sorta di

macro-nazione): il comportamento è pertanto guidato

dall'appartenenza al proprio luogo, ma questo non

esclude, in un mondo globalizzato, i rapporti con gli

altri continenti.

Ad ogni partecipante è assegnato un

ruolo. In ogni continente ci sono

ruoli di governo (presidente e

ministri, politici dell'opposizione),

manager d'azienda (proprietari, indu-

striali, petrolieri e produttori di

energia rinnovabile), operai, consu-

matori, ecologisti. A livello

internazionale sono invece presenti:

commissari ONU, giornalisti, trader

del mercato globale.

Ogni continente ha, in proporzione

diversa, miniere e fabbriche. Le

prime producono materie prime

(MP) ed energia da fonte fossile

(EF), le seconde prodotti finiti (PF).

Entrambe consumano energia, che

acquistano dai trader, e se questa

energia è EF producono CO2. Le

fabbriche devono comprare dal

mercato internazionale anche le MP;

in compenso sono le sole ad avere le

tecnologie. Per produrre entrambe

assumono lavoratori. Sia le MP che i

PF sono venduti ai consumatori di

ogni continente. Alcuni PF sono

energivori, pertanto producono CO2.

Alternative alle EF sono le energie

rinnovabili (ER), che non producono

CO2, però: 1) consumano risorse

naturali (RN) del continente 2)

costano di più, anche se il governo

può contribuire al costo con propri

incentivi. I consumatori pagano le

tasse al governo per ripianare il

debito pubblico. Ogni continente ha

una dotazione iniziale di CO2 e di

RN, che rappresentano la CO2 non

emessa e le risorse naturali ancora intatte, le cui

quantità durante il gioco inevitabilmente diminuiranno:

ogni continente deve cercare di conservare quanta più

possibile CO2 se vuole rispettare gli obblighi fissati

dall'ONU in fase iniziale, e RN per evitare scontri con

gli ecologisti e soprattutto giudizi negativi dalla

stampa (che avrà il compito di mettere a confronto i

dati dei diversi continenti), e conseguente perdita

Che cosa sono i GdR

Giocare è un'attività essenziale per l'uomo. Da quando è bam-bino, ma anche fino alla terza età e oltre. Con modalità e obiettivi differenti, tutti noi ne abbiamo bisogno. Il bambino apprende con il gioco, l'anziano lo pratica per socializzare, l'adulto ci trova un'occasione di distensione. Ma vi è una categoria di giochi, quella dei Giochi di Ruolo, praticata in modo trasversale da persone di ogni età, che ha uno scopo particolare, cioè quello di riflet-tere su una determinata realtà: il GdR ha un'efficacia formida-bile, perché fa entrare le perso-ne in quel contesto, provando su di sé tutte le tensioni, le problematiche e i contrasti che lo caratterizzano. Inoltre l'effet-to complessivo consente di comprendere le dinamiche che regolano i vari fenomeni; in genere ciò avviene in un mo-mento di riflessione, collettivo o a gruppi, immediatamente suc-cessivo al gioco. Questa tecnica di gioco è stata sperimentata con successo su tematiche molto diverse fra loro quali il divario economico nord-sud, il tema del lavoro, l'ambiente, la legalità e la mafia, la politica.

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 46

Una Rosa che non appassisce

Neanch'io, che ero tra i promotori del Conferenza su Rosa Luxemburg, potevo sperare in un successo così. Non tanto per la partecipazione, numericamente straordinaria e attentissima, e per la grossa presenza giovanile a quello che era pur sempre un appuntamento culturale (e anche assai impegnativo); nemmeno per la capacità organizza-tiva e di interlocuzione con le istituzioni che si è saputa sviluppare. Forse neppure per lo straordinario valore delle relazioni, in fondo prevedibile visto la caratura dei prota-gonisti (Sergio Dalmasso, Lidia Menapace e Maria Lucia Villani). Quello che mi ha impressionato e, diciamolo pure, inor-goglito, è stata una discussione che, senza raccontarsi frottole sul presente o pietose bugie sul passato, ha tenuto dritta la barra su un indirizzo di analisi e di ricer-ca, per passato, presente e futuro, schiettamente anti-capitalistico, diciamola senza giri di parole, schiettamente comunista. Direi di più: era palpabile la percezione che proprio per questo la gran parte del pubblico era venuta e che anche di questo fosse permeata la tanto gioiosa e partecipata festa che in serata ha fatto seguito alla conferenza. Certo questo vuol dire che i promotori hanno segnato un punto, grosso, in città e che il lavoro del Centro sociale e di Rifondazione - che lo appoggia ventre a terra - non è stato invano. Ma più in generale la conferenza su Rosa Luxemburg è un grosso, grosso segnale di speranza. Lo interpretano a fondo le parole di Olga Bertaina, la compagna del diret-tivo del Circolo che tanto si è spesa per la riuscita della manifestazione: in un post su Facebook, interpretando un po' il pensiero di tutti, ha scritto “dopo un successo di questo tipo oggi posso solo sorridere e continuare a credere che tutto, faticando, si possa ancora cambiare.…”

Carlo Masoero

[email protected]

Alcune citazioni di politica, morale e non solo

di Rosa Luxemburg

Socialismo o barbarie.

Chi non si muove, non può rendersi conto delle proprie catene.

La libertà è sempre la libertà di dissentire.

La storia è la sola vera insegnante, la rivoluzione la miglior

scuola per il proletariato.

Il Marxismo è un punto di vista mondiale rivoluzionario che

deve sempre lottare per le nuove verità.

Solo estirpando alla radice la consuetudine all'obbedienza e

al servilismo, la classe lavoratrice acquisterà la compren-

sione di una nuova forma di disciplina, l'autodisciplina,

originata dal libero consenso.

Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e

proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un

altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento

molto più a casa mia in un pezzetto di giardino, oppure in un

a po tra i ala ro i e l'er a, he o … a un congresso di

partito.

di consenso col rischio di perdere le

elezioni.

Come è andata? Dalla descrizione si

comprende che il gioco non era “facile”, pertanto all'inizio si è creata una situazione

di stallo, perché i partecipanti non capivano

bene come muoversi.

A poco a poco, anche grazie alla

suddivisione in ruoli (che assegna ad ogni

partecipante un compito semplice e preciso)

il gioco ha cominciato a svilupparsi. Ne

sono risultate dinamiche complessissime,

che non è possibile riassumere in poche

righe. Si può dire che ogni partecipante

abbia avuto una propria esperienza di gioco,

diversa per ciascuno. A livello globale si è

assistito ad una sorta di “rappresentazione” dei contrasti che determinano l'attuale crisi

ambientale: interesse economico/tutela am-

bientale; benessere individuale/beni comuni

(collettivi); sviluppo/decrescita felice;

interesse politico/interesse dei cittadini;

diminuzione tasse/diminuzione CO2; fonti

rinnovabili/tutela risorse naturali.

Al termine del gioco si è svolta una discus-

sione/riflessione a gruppi sui meccanismi

che si sono autogenerati nel GdR:

ripartendo da quanto successo i partecipanti

hanno cercato di capire meglio e insieme le

dinamiche che hanno portato alla situazione

attuale del pianeta. Poi si è passati a tentare

di definire alcune buone pratiche da

adottare per migliorare la situazione.

Per tutti, alla fine, una maggiore consape-

volezza di cosa abbiamo nelle nostre mani.

Andrea Selleri

[email protected]

Page 47: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 47

I primi passi del Comitato per la Salute Mentale in Piemonte

Ho già parlato del Comitato per la Salute Mentale in

Piemonte (http://www.csmpiemonte.it/). Ora vorrei

fare alcune riflessioni sulla base degli incontri

succedutisi dal mese di gennaio ad oggi e sul dibattito

che ha animato i vari componenti per mezzo di

facebook o via mail.

Prima considerazione: il Comitato si è formato

sull’onda della mobilitazione che ha coinvolto associazioni di familiari di utenti psichiatrici, operatori

della psichiatria, utenti e volontari contro la

riorganizzazione delle strutture territoriali psichiatriche

prevista dalla Delibera della Giunta Regionale n. 30

del 3 giugno 2015. Malgrado ciò, sta cercando di

affrontare, giustamente, non solo la “vertenza” nei confronti della Regione Piemonte ma, anche e

soprattutto, la situazione della salute mentale,

perlomeno per quanto riguarda l’ambito regionale.

Seconda considerazione: in tempi di decisionismo,

d’insofferenza verso l’inconcludente verbosità della

politica mi urtarono inizialmente l’eccessivo numero di mail che arrivavano e che mi sembravano più un

voler “marcare il territorio”, affermando esagerata-

mente la propria esistenza e la propria voglia di esserci

e di esporre le proprie opinioni. Eppure, proprio grazie

alla pazienza di leggere le varie opinioni, mi sono

convinto di quanto sia utile confrontarsi, fra operatori,

utenti, familiari e volontari di associazioni o

rappresentanti di organizzazioni. Ad esempio già solo

per decidere il logo, che è nato gradualmente e

collegialmente. A proposito, la discussione si svolge

utilizzando sia il metodo tradizionale delle riunioni che

quello tecnologico delle e-mail e dei social forum,

essendoci una specifica pagina facebook.

Terza considerazione: il coinvolgimento degli utenti.

Un rischio, apparso subito chiaro ai promotori del

Comitato, è che categorie professionali o singoli

dirigenti possano voler utilizzare questo nuovo

organismo per poter contare di più nei confronti della

Regione Piemonte, malgrado ci siano già organismi

preposti ai rapporti con essa (vedi ordini professionali,

sindacati, federazioni, ecc.). La partecipazione degli

utenti (e ovviamente anche dei familiari, anche se

spesso le sensibilità non sono le stesse, anzi) richiede,

come spesso sottolineato da parecchi membri del

Comitato, l’ascolto dei loro vissuti, delle loro esigenze accettando la loro modalità espressiva ed i loro tempi.

Come ha giustamente sottolineato, con una domanda

provocatoria, uno degli organizzatori della pagina face

book: gli utenti sono comparse o attori protagonisti?

Penso che ora gli utenti, almeno in molte realtà, siano

comparse. Certo è che il motivo per cui è nato il

Comitato è di renderli protagonisti.

Qui vado alla quarta considerazione: quale

psichiatria vuole il Comitato? O esiste solo una

psichiatria degna di questo nome e cioè quella

disciplina scientifica, facente parte della medicina e

che studia il comportamento del cervello e le sue

anomalie che determinano la patologia psichiatrica? Il

pensiero basagliano, pur avendo tolto la psichiatria dal

prevalente ambito dell’ordine pubblico e della decenza per inserirla a pieno titolo nell’ambito medico, ha sempre privilegiato l’ottica socio-familiare (ed in

ultima analisi politica) per comprendere la malattia

mentale. Non mi dilungo, ma un’ottica riduzionistica mirata solo alla diagnosi ed alla farmacoterapia, seppur

legittima, pare a chi fa parte del Comitato, e parimenti

a me ovviamente, non affrontare le premesse

ambientali (ambiente, lavoro, famiglia, ecc.) che hanno

determinato la malattia. Ciò nasce dalla convinzione

che tutti noi siamo fragili; dipende da molti fattori che

tali fragilità si possano trasformare in sofferenza

mentale. Inoltre stessi comportamenti in contesti

diversi assumono spesso valenze opposte. Per questo

nelle varie discussioni si è sottolineata la necessità di

uscire all’esterno, di coinvolgere la comunità anche (ma non solo) per contrastare i pregiudizi nei confronti

della malattia psichiatrica (e anche l’autostigma che

condiziona l’autostima di chi fa parte del mondo psichiatrico, come operatore o come utente/familiare),

per fare aggiornamento e quindi cultura.

La quinta ed ultima considerazione riguarda il peso

del Comitato (inteso come capacità di incidere).

Intanto occorre chiarire nei confronti di chi vuole

misurare il proprio peso. Nei confronti degli attori

della psichiatria (operatori, utenti e familiari) il peso

della sua influenza dipenderà da quanto sarà in grado

di percepire le loro esigenze, di affrontare ed eliminare

le conflittualità, di essere uno strumento utile per supe-

rare schemi mentali e favorire l’autorealizzazione. Nei confronti dei decisori politici dipenderà dalla capacità

di cercare la sintesi nelle proposte (e già ne hanno dato

ottima prova coloro che hanno contribuito a stilare le

proposte da avanzare alla IV Commissione regionale)

ma anche dalla rappresentanza, affinché questa non si

limiti solo all’area di Torino ma cerchi di allargarsi il più possibile, coinvolgendo le varie realtà della

regione.

L’importante è che il Comitato sappia reggere nel

tempo, sappia superare l’iniziale entusiasmo, sappia organizzarsi in modo tale da far convivere la

spontaneità con la funzionalità. Chi ha a cuore la

qualità dell’assistenza psichiatrica guarda ad esso con

fiducia, seppur disincantata. Una prima apparizione

pubblica il Comitato l’ha avuta in occasione del

Seminario organizzato dalla CGIL Piemonte sulla

psichiatria, svoltosi il 23 marzo scorso a Torino.

Gianfranco Conforti ([email protected])

Page 48: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 48

COLIBRÌ

società cooperativa sociale ONLUS

Via Monsignor Peano, 8 - 12100 CUNEO

tel. e fax : 0171/64589

www.coopcolibri.it

Le botteghe della Colibrì si trovano a :

CUNEO Corso Dante 33

BORGO SAN DALMAZZO Via Garibaldi 19

FOSSANO Via Garibaldi 8

MONDOVI’ Via S. Arnolfo 4

SALUZZO Via A. Volta 10

Progetto Quid: moda etica e sostenibile

“Siamo partiti dagli scarti per creare qualcosa che potesse diventare il nostro lavoro, ma anche aiutare qualcuno” così Marco Penazzi, ospite dell’evento “Questione di gusti” che la Cooperativa Colibrì ha organizzato nel weekend del 18 e 19 aprile a Cuneo e Mondovì. Moda,

etica, sostenibilità: questo il filo conduttore dell’iniziativa con la presentazione della nuova collezione di

abbigliamento equosolidale “Auteurs du monde” di Altromercato e la preziosa presenza di un ospite

proveniente dalla Cooperativa sociale QUID di Verona.

Una storia singolare quella di Marco, 27enne lughese che

dopo esperienze di lavoro negli Stati Uniti e in Cina ha

mollato tutto per seguire un esperimento ardito ma

vincente, ideato da Anna Fiscale, 25 anni e una laurea in

economia e marketing. QUID è una cooperativa sociale,

una realtà giovane (perché nata nel 2012 e fondata da

cinque under 40), già premiata in Europa come miglior

start-up italiana per l’innovazione sociale. “Se ci avessero detto che ci saremmo occupati di moda probabilmente

nessuno di noi lo avrebbe

immaginato e invece eccoci qui” racconta Marco a proposito di una

realtà nata un po’ per scommessa (unire rispetto per l’ambiente, moda e business), un po’ per necessità di lavoro (per chi l’ha fondata e per le donne che

cuciono i capi con il logo di una

molletta), un po’ per sfida nei confronti di un Paese avvolto

nella depressione della crisi di cui

pochi sanno cogliere le

opportunità.

“C’è un sistema che ci vuole tutti uguali, etichettati, messi dentro categorie che in fondo non ci appartengono – dice

Marco agli studenti dell’Istituto “Grandis” e del “Bonelli” che ha incontrato a Cuneo - un sistema che ci fa vedere

solo una realtà, dove dobbiamo comprare e comportarci

in un certo modo per essere accettati dagli altri altrimenti

siamo ‘fuori’. Ma le nostre comodità, il nostro girare per negozi dove sono in vendita magliette a 5 euro ha un

costo elevatissimo che va oltre lo scontino… sono le morti in Bangladesh dove crollano le fabbriche tessili,

sono le vite a 24 centesimi l’ora delle operaie cinesi che cuciono i nostri jeans …”. E da questo paradosso nasce questa Cooperativa che oggi collabora con grandi brand

come Carrera e Calzedonia ma anche con una linea

dedicata al commercio equo per Altromercato.

“Quid – spiega Marco Penazzi - significa ‘qualcosa in più’, ciò in cui crediamo, quella molla che ci permette di dare un valore aggiunto al nostro prodotto. Il nostro logo,

la molletta, è il simbolo dell'unione di aspetti

sociali/ambientali e di mercato. Nel nostro intento, ci

avvaliamo della solidarietà e dell’esperienza di aziende di abbigliamento, istituti professionali di moda e

cooperative sociali che si occupano di inserimento

lavorativo. Tramite diverse cooperative sociali (per

esempio Vita, Santa Maddalena di Canossa e Comunità

dei Giovani) impieghiamo a tempo pieno una trentina di

ragazze e donne socialmente svantaggiate per la

realizzazione dei capi”. Anche l’aspetto ambientale non è secondario: Marco infatti si occupa del contatto con grandi aziende del

“made in Italy” che attraverso un accordo con QUID offrono tessuti scartati che altrimenti andrebbero al

macero. Da queste stoffe

recuperate nascono magliette,

pantaloni, cardigans e pochette

unici e irripetibili. Così come le

etichette dei capi, tutte scritte a

mano, dalle detenute del secondo

laboratorio sartoriale che la

Cooperativa QUID ha aperto nel

carcere femminile di Verona.

Un progetto che per la sua

validità sociale e di sostenibilità

anche il commercio equo, con

Altromercato, ha voluto so-

stenere, nell’ottica di aprirsi sempre di più anche a quelle realtà italiane che ne

rispecchiano i canoni. E la moda di QUID è certamente la

dimostrazione che il mondo della moda può cogliere la

sfida di una rivoluzione ormai necessaria perché sempre

più consumatori chiedono capi belli per chi li indossa, ma

anche capaci di rispettare l’ambiente e generare lavoro dignitoso. Una sfida che sarà ulteriormente richiesta e

ribadita anche dal 18 al 24 aprile durante la settimana

internazionale del movimento “Fashion Revolution” che in 70 Paesi ripropone attività di informazione e

sensibilizzazione sugli altissimi costi umani e ambientali

dietro la cosiddetta “fast fashion”. (Per informazioni: www.fashionrevolution.org, www.auteursdumonde.it)

Page 49: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 49

Lavoro, donne e Bosnia

Sabato 19 marzo, in collaborazione con il Circolo

“Arci” Valletti e la Consulta per le Pari Opportunità del Comune, la Cooperativa Colibrì con la sua Bottega

di Fossano hanno organizzato al Castello degli Acaja

un incontro su donne, lavoro e il conflitto nei Balcani

con Radmila Zarkovic della Cooperativa agricola

“Insieme“ e Mario Boccia, fotoreporter. La Cooperativa “Insieme”, nata a giugno del 2003 per iniziativa di dieci soci fondatori, in maggioranza

donne, rappresenta un progetto innovativo per il

commercio equo già a partire dalla regione in cui ha

preso vita, quella di Bratunac e Srebrenica (Bosnia),

all’indomani della guerra nei Balcani. Lo scopo di questo progetto è stato fin dall’inizio quello di sostenere e facilitare il ritorno dei rifugiati e la

riappacificazione fra le popolazioni attraverso la

riattivazione di un sistema microeconomico basato

sulla coltivazione di piccoli frutti in fattorie di famiglia

unite in cooperativa.

Il comune di Bratunac si trova infatti sulla riva

occidentale del fiume Drina, al confine tra la Bosnia

Erzegovina e Serbia, a pochi chilometri da Srebrenica.

Come quest’ultima, fa parte della Republika Srpska, una delle entità che costituiscono la Bosnia Erzegovina

di oggi. Dal 1992 l’area è stata teatro di scontri durissimi e stragi di dimensioni inaudite, ben

documentate dal lavoro giornalistico di Mario Boccia

che per il quotidiano “Il Manifesto” attraversò i principali teatri degli scontri che lacerarono questo

pezzo di Europa.

Nell’area della Bosnia il ritorno di chi è stato costretto a fuggire durante la guerra è stato più agevole che

nelle zone circostanti. Si stima infatti che il 30% della

popolazione bosniaca presente prima della guerra sia

rientrata nel Comune. I nuclei familiari sono spesso

formati da donne come capofamiglia, insieme ad

anziani e giovani di cui hanno dovuto farsi carico dopo

la vedovanza causata dal conflitto. Per questo motivo

creare nuove opportunità di lavoro, soprattutto per le

donne, si è rivelata la chiave vincente del progetto nato

attorno alla Cooperativa “Insieme”. In una situazione

economicamente depressa è difficile ricostruire

relazioni tra i differenti gruppi umani che la guerra ha

artificialmente contrapposto. Al contrario, lavorando

uniti per poter restare nella propria terra, è stato

possibile per queste donne ricominciare a vivere

insieme e rappresentare un esempio per l’intera Bosnia Erzegovina. A guidare questo riuscito esperimento è

Radmila Zarkovic, storica femminista e pacifista

jugoslava con il movimento delle “Donne in nero”, intervenuta in videoconferenza. «Prima della guerra

non avevo amicizie multietniche - ha raccontato -

avevo amicizie e basta. Ora ci chiedono quante sono le

serbe e quante le musulmane e dobbiamo piegarci a

specificare, ma noi siamo sempre le stesse».

Quattro le idee-forza alla base della Cooperativa

“Insieme”: centralità del lavoro, rifiuto del vittimismo, rispetto dei diritti e dell’ambiente, crescita economica. «Bisognava rimettere la realtà in piedi, dopo che la

guerra etno-nazionalista l’aveva capovolta – interviene

Radmila -. Riunire chi la guerra aveva diviso,

riportandoli a vivere non uno accanto all’altro, ma insieme – dice Rada – e questo non si può fare con

convegni sulla multietnicità, perché in questo modo

tutto è falso. In una situazione di crisi economica, è

facile scaricare le responsabilità sugli “altri” (i diversi, le minoranze) e la propaganda etno-nazionalista

riparte». E insiste: «Dobbiamo ripartire dal lavoro,

questa è la chiave».

E così ha fatto la Cooperativa “Insieme” che riesce a sostenere i suoi contadini (più di 500 famiglie) dalla

fase di produzione e raccolta dei piccoli frutti (mirtilli

e lamponi) fino alla loro trasformazione in marmellate

e succhi di frutti che vengono poi rivenduti, anche

attraverso la rete del commercio equo e solidale grazie

al supporto di Altromercato e del suo circuito di

Botteghe. La scelta dei piccoli frutti è anche un

indirizzo coerente con la storia dell’agricoltura tradizionale dell’area di Bratunac e Srebrenica, favorita da buone condizioni climatiche e dalla scelta

della Cooperativa di utilizzare un metodo biologico per

preservare la biodiversità e la fertilità del suolo.

I prodotti della Cooperativa “Insieme”, marmellate e

succhi, si posso trovare anche nelle Botteghe Colibrì.

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 50

Domenica 14 Giugno

Ore 13.00 : Pranzo

Ore 15.00 : Animazione con i clown di Côni Vip

Ore 7.3 : The e poi… a casa

Prenotarsi in cartoleria al numero 0171492441

il 25 e il 26 maggio

In occasione della denuncia dei redditi è nuovamente

possibile devolvere il 5 ‰ ad associazioni ed enti di volontariato o no profit.

Chi desidera destinarlo alla Cascina deve

semplicemente scrivere il nostro numero di Codice

Fiscale che è: 02289480044

Grazie a chi lo farà e a quelli che l’hanno fatto gli anni scorsi.

La Cooperativa Sociale “La Cascina” onlus, con sede a San Rocco Castagnaretta in via San Maurizio n. 72, gestisce un Centro Diurno con persone diversamente abili, cercando di valorizzarne al massimo le capacità offrendo loro la possibilità di lavorare (lavori agricoli - raccolta e divisione della carta da macero – gestione di un piccolo negozio di cartolibreria – laboratorio di ricamo e stampa articoli promozionali).

Un bel gruppo di volontari/e fornisce un prezioso aiuto, anche solo per qualche ora la settimana, e permette attività sempre più diversificate oltre ad una bellissima ed indispensabile integrazione sociale.

Noi ci impegniamo:

a rendere pubblico il contributo che arriverà

ad non utilizzarlo per l’ordinaria amministrazione del Centro (la gestione corrente de “La Cascina” deve funzionare con il proprio lavoro e con le convenzioni in essere con il C.S.A.C. ) ma per interventi di carattere straordinario o per creare nuove opportunità di lavoro e di inserimento.

Il 5 ‰ degli anni scorsi In tutti questi ultimi anni il Vostro contributo del 5 per mille (€ 73.697,00) è stato destinato alla costruzione di un capannone per il ricovero dei mezzi agricoli e della carta, costato € 96.211,91 e, lo scorso anno, a lavori di manutenzione straordinaria della struttura (sostituzione piastrelle rotte nel capannone dove lavoriamo la carta, tre rampe di

accesso al capannone stesso, due scivoli per eliminare le barriere architettoniche

agli altri locali e sistemazione di alcune spaccature e distacchi di intonaco, per un totale di € 5.739,00.

Il contributo di quest’anno sarà invece utilizzato per l’acquisto di una ricamatrice in modo da poter offrire più possibilità di lavoro ai ragazzi.

La Cascina

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n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 51

Il nuoto è il mio sport preferito,

quando nuoto mi sento bene.

In piscina vado due giorni a

settimana, il venerdì e il sabato.

Il mio stile preferito è nuotare a

dorso.

E’ uno sport che consiglio a tante persone in quanto fa star

bene e

divertire!

Claudio

Il 21 febbraio è nato Francesco il bimbo della nostra collega

Enrica siamo stati tutti molto felici, anche se purtroppo non è

potuta venire subito a farcelo conoscere perché dopo un

inverno caldo e senza neve in questi giorni ha nevicato e

piovuto tantissimo e con un bimbo cosi piccolo non è il caso

che lo porti fuori.

Speriamo che la settimana prossima venga a farci visita e ci

porti a conoscere Francesco.

Ai miei colleghi ho dato io la notizia perché Enrica la

domenica mi ha mandato un messaggio, il lunedì io ho messo

al corrente i nostri colleghi.

Tanti auguri Enrica e benvenuto Francesco.

Enrico

Io e Martina prima di pasqua abbiamo iniziato l’uovo di Pasqua. Abbiamo usato: un palloncino,la carta di giornale, la vinavil e

i colori a tempera. Per la prima cosa abbiamo gonfiato il palloncino, poi io con la cola vinavil ho incollato vari strati di giornale. Dopo due settimane abbiamo colorato con i pastelli a tempera, usando il rosso, verde, giallo,viola.

Mi sono divertito molto anche con Nadia,Elisa,Paolo,Claudio. Luciano

Mercoledì 19 febbraio siamo andati in gita nelle Langhe.

In particolare sono stato colpito dalla panchina gigante quando siamo

stati

a Piozzo.

Ci siamo divertiti molto e sono andato a fare una piccola ricerca su

internet per saperne di più.

La prima grande panchina fu realizzata nel 2010 da Chris Bangle a

Clavesana.

Sono state costruite in totale 11 panchine nella zona delle langhe tutte

in punti panoramici.

“Sedersi su queste panchine ci fa sentire come un bambino capace di meravigliarsi della bellezza del paesaggio con uno sguardo nuovo”.

Matteo

Page 52: Il granello di senape 170 n.2/2016 - Aprile 2015

n. 2 (170) – aprile 2016 il granello di senape pag. 52

Mercoledì 2 marzo siamo andati a piedi dalla

Cascina fino a Cuneo. Volevamo vedere la

nuova piazza del Foro Boario dove una volta

c’era il mercato del bestiame. Siamo partiti alle 9 e 30 e siamo tornati in Cascina all’una a mangiare.

Ci siamo divertiti molto e vicino al Foro Boario

abbiamo preso il caffè.

Saluti da Paolo C.

IL GIORNO DI PASQUA Il giorno di Pasqua sono andato a messa con mio papà. Mia mamma e’ rimasta a casa per preparare pranzo: abbiamo mangiato gli gnocchi e l’agnello con le patate. Era

veramente buono.

Abbiamo pranzato con i parenti e nel pomeriggio abbiamo fatto una passeggiata per

Borgo. Ero un po’ triste perché non mi e’ arrivato niente per Pasqua, ma e’ stata comunque una bella giornata.

Samuele

Lunedì mattina con Serena e Samuele siamo

andati a fare la spesa alla Coop, di solito non

tocca mai a me perché il lunedì mattina sono

sempre in negozio, però questa volta ho

cambiato il turno e cosi sono andato a fare la

spesa, abbiamo presso un carrello e siamo

entrati.

Per prima cosa ci siamo recati al reparto di

frutta e verdura dove abbiamo presso cavolfiori,

finocchi, insalata e banane, mozzarelle,

formaggi vari e pesce fresco quindi ci siamo

messi in coda per pagare.

Usciti abbiamo preso il caffè e poi abbiamo

caricato la spesa sul pulmino, rimesso il carrello

al suo posto e abbiamo fatto ritorno in Cascina.

A me è piaciuta come esperienza visto che non

vado mai a fare la spesa perché a casa ci pensa

la mia mamma.

Enrico