il granello di senape 169 n.1/2016- febbraio 2016

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169 n. 1 / 2016 i i l l g g r r a a n n e e l l l l o o d d i i s s e e n n a a p p e e "è il più piccolo di tutti i semi, ma, una volta cresciuto, è il più grande dei legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e fa nno i nidi fra i suoi rami” (Mt 13,32) REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE Str. S. Martino, 144 12022 BUSCA (CN) tel. 0171 943407 e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo Editore: Associazione La Cascina Direttore Responsabile: Gianluigi Martini Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN). Italia Libia Basta guerre! Siamo alla vigilia di un’altra guerra contro la Libia, “a guida italiana” questa volta. Sembra ormai assodato che le forze speciali SAS siano già in Libia, per preparare l’arrivo di mille soldati britannici. L’operazione complessiva, capitanata dall’Italia, dovrebbe coinvolgere seimila soldati americani ed europei per bloccare i cinquemila soldati dell’Isis. Il tutto verrà sdoganato come “un’operazione di peacekeeping e umanitaria”. L’Italia, dal canto suo, ha già trasferito a Trapani quattro cacciabombar- dieri AMX pronti a intervenire. Il nostro paese così sostiene il governo Renzi attende però per intervenire l’invito del governo libico di unità nazionale, presieduto da Fayez el Serray. Ealtrettanto chiaro che sia il ministro degli Esteri, Gentiloni, come la ministra della Difesa, Pinotti, premono invece per un rapido intervento. Sarebbe però ora che il popolo italiano tramite il Parlamento si interrogasse, prima di intraprendere un’altra guerra contro la Libia. Infatti, se c’è un popolo che la Libia odia, siamo proprio noi che, durante l’occupazione coloniale, abbiamo impiccato o fucilato centomila libici. A questo dobbiamo aggiungere la guerra del 2011 contro Gheddafi per “esportare la democrazia”, ma in realtà per mettere le mani sull’oro ‘nero’ di quel paese. Come conseguenza, abbiamo creato il disastro, facendo precipitare la Libia in una spaventosa guerra civile, di tutti contro tutti, dove hanno trovato un terreno fertile i nuclei fondamenta- listi islamici. Con questo passato, abbiamo, noi italiani, ancora il coraggio di intervenire alla testa di una coalizione militare? Il New York Times del 26 gennaio scorso afferma che gli USA da parte loro, sono pronti ad intervenire. Per cui possiamo ben presto aspettarci una guerra. Questo potrebbe anche spiegare perché in questo periodo gli USA stiano dando all’Italia armi che avevano dato solo all’Inghilterra. L’Italia sta infatti ricevendo dagli USA missili e bombe per armare i droni Predator MQ-9 Reaper, armi che ci costano centinaia di milioni di dollari. Non dimentichiamo che la base militare di Sigonella (Catania) è oggi la capitale mondiale dei droni usati oggi anche per spiare la Libia. L’Italia non solo riceve armi, ma a sua volta ne esporta tante soprattutto all’Arabia Saudita e al Qatar, che armano i gruppi fondamentalisti islamici come l’ISIS. I viaggi di Renzi lo scorso anno in quei due paesi hanno propiziato la vendita di armi. Questo in barba alla legge 185 che proibisce al governo italiano di vendere armi a paesi in guerra e che non rispettano i diritti umani. L’Arabia Saudita non rispetta i diritti umani e fa la guerra in Yemen. [prosegue a p. 14] Notiziario di comunità e gruppi febbraio 2016

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)

REDAZIONE: COMUNITÀ DI MAMBRE – Str. S. Martino, 144 – 12022 BUSCA (CN) – tel. 0171 943407 – e-mail: [email protected] - c.c.p. n. 17678129 intestato a IL GRANELLO DI SENAPE - Registrazione del Tribunale di Cuneo n. 433 del 30/1/1990 - Spedizione in abbonamento postale comma 20/C art. 2 Legge 662/’96 art. n. 819/DC/DCI/CN del 6/4/2001 Filiale di Cuneo – Editore: Associazione La Cascina – Direttore Responsabile: Gianluigi Martini – Ciclostilato in proprio: Associazione La Cascina, via S. Maurizio 72, S. Rocco Castagnaretta (CN).

Italia – Libia

Basta guerre! Siamo alla vigilia di un’altra guerra contro la Libia, “a guida italiana”

questa volta. Sembra ormai assodato che le forze speciali SAS siano già

in Libia, per preparare l’arrivo di mille soldati britannici. L’operazione

complessiva, capitanata dall’Italia, dovrebbe coinvolgere seimila soldati

americani ed europei per bloccare i cinquemila soldati dell’Isis. Il tutto

verrà sdoganato come “un’operazione di peacekeeping e umanitaria”.

L’Italia, dal canto suo, ha già trasferito a Trapani quattro cacciabombar-

dieri AMX pronti a intervenire. Il nostro paese – così sostiene il governo

Renzi – attende però per intervenire l’invito del governo libico di unità

nazionale, presieduto da Fayez el Serray. E’ altrettanto chiaro che sia il

ministro degli Esteri, Gentiloni, come la ministra della Difesa, Pinotti,

premono invece per un rapido intervento.

Sarebbe però ora che il popolo italiano – tramite il Parlamento – si

interrogasse, prima di intraprendere un’altra guerra contro la Libia.

Infatti, se c’è un popolo che la Libia odia, siamo proprio noi che,

durante l’occupazione coloniale, abbiamo impiccato o fucilato centomila

libici. A questo dobbiamo aggiungere la guerra del 2011 contro Gheddafi

per “esportare la democrazia”, ma in realtà per mettere le mani sull’oro

‘nero’ di quel paese. Come conseguenza, abbiamo creato il disastro,

facendo precipitare la Libia in una spaventosa guerra civile, di tutti

contro tutti, dove hanno trovato un terreno fertile i nuclei fondamenta-

listi islamici. Con questo passato, abbiamo, noi italiani, ancora il

coraggio di intervenire alla testa di una coalizione militare?

Il New York Times del 26 gennaio scorso afferma che gli USA da parte

loro, sono pronti ad intervenire. Per cui possiamo ben presto aspettarci

una guerra. Questo potrebbe anche spiegare perché in questo periodo gli

USA stiano dando all’Italia armi che avevano dato solo all’Inghilterra.

L’Italia sta infatti ricevendo dagli USA missili e bombe per armare i droni

Predator MQ-9 Reaper, armi che ci costano centinaia di milioni di dollari.

Non dimentichiamo che la base militare di Sigonella (Catania) è oggi la

capitale mondiale dei droni usati oggi anche per spiare la Libia. L’Italia

non solo riceve armi, ma a sua volta ne esporta tante soprattutto

all’Arabia Saudita e al Qatar, che armano i gruppi fondamentalisti

islamici come l’ISIS. I viaggi di Renzi lo scorso anno in quei due paesi

hanno propiziato la vendita di armi. Questo in barba alla legge 185 che

proibisce al governo italiano di vendere armi a paesi in guerra e che non

rispettano i diritti umani. L’Arabia Saudita non rispetta i diritti umani e

fa la guerra in Yemen. [prosegue a p. 14]

Notiziario di comunità e gruppi – febbraio 2016

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SOMMARIO ALEX ZANOTELLI, Italia – Libia, basta guerre! Forte denuncia della progressiva accondiscendenza politica italiana all’intervento armato in Libia contro

l’Isis e del contestuale appoggio alla vendita di armi a paesi in guerra e che non rispettano i diritti umani. Invito al movimento per la pace a coordinarsi e riorganizzarsi. ADRIANA LONGONI, Impercettibili segni di speranza per i diritti fondamentali in Medio Oriente La vicenda del blogger saudita Raif Badawi, condannato per reato di opinione e insignito del Premio Sacharov 2015, e l’incontro del papa con il presidente iraniano Rohani: due piccoli segni di speranza per la difesa e l’affermazione dei diritti fondamentali anche nel martoriato Medio Oriente. GIGI GARELLI, In ascolto degli Aborigeni. Dalla Laudato si’ di Papa Francesco una lezione di stile che va oltre il tema dell’ambiente Francesco, con una enciclica rivoluzionaria nei contenuti e nella forma, dialoga con “ogni persona che abita questo pianeta”. A tutti coloro che hanno a cuore le sorti della “casa comune” rivolge un pressante invito a vivere in modo responsabile e sobrio, nella ricerca di un positivo equilibrio tra uomo e natura. CLAUDIA FILIPPI, A volte resistere è restare, a volte resistere è andar via… Molti provvedimenti che si stanno prendendo in diversi paesi europei per contenere o rifiutare l’ingresso di profughi o migranti stanno delineando una frammenta-zione dell’UE, con derive in ogni senso: autoritarismo, populismo, xenofobia. ANGELO FRACCHIA, Ger 35. Racconto

Rispetto della legge o elasticità di fronte a situazioni nuove? Non è un dilemma soltanto contemporaneo… Un episodio non troppo conosciuto del libro di Geremia può diventare illuminante… E.P., Ricordo di Nanni Salio. E’ stato anche

per noi maestro e amico ANGELO FRACCHIA, L’adultera perdonata (e qualche confusione nei vangeli: Gv 8,2-11) Un brano che ci aiuta a superare serenamente la fissazione per la ricerca del suo autore. L’atteggiamento di Gesù, le parole usate, il tema stesso portano ad affermare che quasi sicuramente non è stato Giovanni a scrivere il passo... Tuttavia questo cambia la sostanza delle cose? Forse toglie forza al messaggio che il brano ci vuole comunicare? EVA MAIO, Così sia. Così possa avvenire, forse (IV) Una poesia ‘a puntate’, per rinnovare di volta in volta il desiderio e l’augurio di un cambiamento salutare, affidato alla fragile forza di una schiva speranza.

FLAVIO LUCIANO, Una serata sulla “tratta”

con Fredo OIivero La “tratta” esiste, in varie forme, e riguarda milioni di esseri umani. Resoconto di una serata con Fredo Olivero, nella quale si è cercato di conoscere il fenomeno e le iniziative da intraprendere per opporvisi. FRANCO CHITTOLINA, Incontro o scontro tra Europa e Islam? L'Europa ha nella sua lunga storia l'esperienza e l'eredità preziosa dei suoi scambi con l'Islam nello spazio euro-mediterraneo. E' stata anche una storia di conflitti, che oggi tornano a manifestarsi e che inducono a un nuovo impegno di dialogo, abbattendo steccati e paure, ma senza sottovalutare le molte differenze che ci separano. MICHELE BRONDINO E YVONNE FRACASSETTI, Quando nel Mediterraneo i migranti eravamo noi La trascrizione di un articolo del 5 luglio 1931, pubblicato su un giornale italiano di Tunisi, aiuta a riflettere sul fenomeno migratorio presente da sempre nel Mediterraneo. E a non dimenticare quando gli europei, e in particolare gli italiani, erano migranti verso sud ‘in cerca di Pane e Libertà’, proprio come i 5 protagonisti dell’articolo riportato. BEATRICE DI TULLIO, Il coraggioso viaggio di

Microba

Stavolta una storia tratta da un blog, non da un libro… Nina è una bambina “fuori standard”, affetta da una malattia talmente unica da essere ancora senza diagnosi. La sua mamma speciale, da quattro anni, racconta con ironia e leggerezza la disabilità in un blog dolcissimo, autentico e felice. ALBERTO BOSI, Appunti sulla vita e il pensiero di Mohandas Karamchand Gandhi (I) Un approfondito percorso attraverso la vita e le idee di uno dei più importanti tentativi moderni di rispondere alla domanda sul senso complessivo del vivere umano, mettendo in comunicazione tra loro etica, politica, economia e religione. Al centro del percorso sarà l’evo-luzione della teoria e della prassi della nonviolenza. GIANFRANCO CONFORTI, Nasce il Comitato per la Salute Mentale del Piemonte Oltre 150 persone - utenti, familiari, volontari, opera-tori, amministratori regionali – si sono incontrati a Torino per promuovere iniziative e un confronto permanente tra soggetti che condividono la stessa visione della Salute Mentale, con l’obiettivo di unire le forze e rompere il silenzio e l’isolamento. COSTANZA LERDA, “Come se mangiassi pietre”. Bosnia, reportage dal paese divenuto cimitero senza fine Libro appassionante e coinvolgente “Come se mangiassi pietre”, da leggere a piccole tappe, senza fretta. Racconto duro e pesante di una guerra e delle sue conseguenze. I conflitti lasciano strascichi: si possono curare e rimarginare tutte le ferite?

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Per qualsiasi problema di invio di questo nostro periodico, vi preghiamo gentilmente di rivolgervi ad uno dei due seguenti recapiti: Comunità di Mambre (tel. 0171 943407, strada S. Martino 144 - 12022 Busca; e-mail: [email protected]) oppure Associazione La Cascina (e-mail: [email protected]; tel. 0171 492441, c/o Cartoleria, via Demonte 15, San Rocco Castagnaretta - Cuneo).

Se il Granello vi interessa e vi fa piacere riceverlo, vi chiediamo di contribuire, se vi è possibile, alle spese per la carta, la stampa e la spedizione postale, con un contributo minimo di 10 euro, da versare sul c.c.p. n. 17678129, intestato a Il granello di senape, oppure da consegnare a mano alla Cascina o a qualcuno del gruppo redazionale (di Mambre, della Coop. Colibrì, ecc.). Ci sono graditi e utili suggerimenti, critiche, proposte (e magari anche apprezzamenti!).

“Il Granello di senape” è un notiziario di comunità e di gruppi. In particolare vi collaborano stabilmente: Comunità di Mambre, Ass. Ariaperta, La Cascina, Cooperativa Colibrì, Gruppo Oltre di Vernante, Libera, Orizzonti di pace, Tavolo delle Associazioni. A questo numero hanno contribuito anche: “i Cascinotteri”, Alberto Bosi, Federica Bosi, Michele Brondino, Claudio Califano, Anna Cattaneo, Franco Chittolina, Gianfranco Conforti, Sergio Dalmasso, Oreste Delfino, Cecilia Dematteis, Beatrice Di Tullio, Renzo Dutto, Gianni Fabris, Claudia Filippi, Yvonne Fracassetti, Angelo Fracchia, Gigi Garelli, Costanza Lerda, Adriana Longoni, Eva Maio, Carlo Masoero, Sergio Parola, Piera Peano, Enrico Peyretti, Grazia Quagliaroli, Paola Tonelli.

Questo numero è stato chiuso in redazione il 6/2/2016.

EVA, L’hanno chiamata “la mancetta”. Quando un dono ha in cuore serpi Il bonus dei 500 euro elargito agli insegnanti è l’occasione per richiamare alcuni concetti-chiave fondamentali per una scuola che ambisce ad essere ‘buona’: formazione e aggiornamento professionali, diritti dei lavoratori, ruolo dei docenti e dei dirigenti, democrazia e meritocrazia… CECILIA DEMATTEIS, Carnevale In versi il racconto di una sera di questo strano inverno che scende su una festa un po’ triste. PAOLA TONELLI, Anche i bambini si stancano L’organizzazione scolastica, e non solo, molto spesso non tiene conto della gerarchia dei bisogni dei bambini, trascurando quelli ‘inferiori’, e la conseguenza è un bambino stanco, che cioè ha precisi bisogni fisiolo-gici da soddisfare. La necessità in questi casi di “fermar-si”, per non aggiungere inutilmente fatica a fatica. SERGIO DALMASSO, Notizie in breve sul mondo dal Tavolo delle Associazioni del Cuneese FEDERICA BOSI (a cura di), Voci … dall’Albania Arrivare in Italia a vent'anni, seguendo l'amore. La splendida storia di una giovane donna albanese che, salendo su una nave per Brindisi, ha intrapreso un difficile percorso di crescita e trasformazione. MARIANNA CENTO, Il progetto FARO a Ragusa. Gocce di umanità nelle maglie del sistema di accoglienza italiano L'esperienza di una giovane psicoterapeuta nel progetto dell’associazione ‘Terre des Hommes’ a supporto dei minori stranieri e delle famiglie con bambini in arrivo in Sicilia. L’incontro con quell'impasto di umanità presente in ogni persona e in ogni cultura, in un sistema di accoglienza complesso e imperfetto. CARLO MASOERO, Avanti, ma piano. Un bilancio di 4 mesi di lotta per liberare il Puf Continua la lotta per ‘liberare il Puf’, il palazzo degli uffici finanziari di Cuneo, in stato di degrado e di sottoutilizzo; ‘ferita aperta’ per lo scandaloso spreco di denaro pubblico, mentre non si trovano risorse per soddisfare le richieste di alloggi popolari e cresce il numero degli sfratti. SERGIO DALMASSO, La resistenza contro le dighe dell’ENEL in Sudamerica Nell’America del Sud molti progetti di grandi dighe sono fermi (quando non abbandonati) grazie alle lotte popolari contro la sottrazione dei terreni, il trasferi-mento forzato, i danni ambientali. Con i bonus dell’energia idroelettrica prodotta in Sudamerica, l’ENEL potrà continuare a bruciare carbone qui in Italia. ORESTE DELFINO, Dove eravamo rimasti? Il punto sul difficile percorso per garantire in provincia di Cuneo la gestione totalmente pubblica dell’acqua, rispettando la volontà espressa dai cittadini nel referendum. La preoccupazione che le manife-stazioni di ‘buona volontà’ di molti amministratori locali non bastino a fronte delle normative nazionali (e degli interessi delle grandi aziende del settore)

Il Tribunale dei popoli condanna le grandi opere La sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli in merito alla realizzazione della TAV rappresenta un atto di grande portata, pur non avendo valore legale. Agli oppositori del progetto è riconosciuto il ruolo di “senti-nelle che lanciano l’allarme” su violazioni di diritto e di interessi non solo locali, ma di tutta la società. CARLO MASOERO, DANIELA ALFONZI, Un lavoro comune con realtà di Solidarity operanti in Grecia Incontro di una forte delegazione, da Cuneo e Torino, con alcuni centri di solidarietà che ad Atene svolgono un ruolo socio-sanitario, essenziale e di supplenza dello Stato, a sostegno sia dei residenti sia dei rifugiati. L’ attività più importante: parlare con le persone, ridare loro coscienza dello status di cittadini. COOPERATIVA COLIBRI’, Il Commercio Equo dice il suo no al TTIP Anche il mondo del commercio equo e solidale intende opporsi al trattato sul commercio in corso di nego-ziazione tra Stati Uniti e Europa perché non ne con-divide il modello economico; rivendica e difende, inve-ce, la libertà del consumatore di scegliere prodotti che non creano danni alle comunità umane e all’ambiente. I CASCINOTTERI, Le pagine della Cascina Cronache delle attività quotidiane, delle feste, degli appuntamenti, a cura dei protagonisti.

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Il Granello in internet Il Granello si mette al passo con i tempi… Grazie alla competenza e alla disponibilità di una giovane amica, il Granello può essere letto anche in formato elettronico all’indirizzo:

http://ilgranellodisenape.it/ Anche con Google è facilissimo trovarlo: basta

farne ricerca, per esempio con i termini “il granello di senape mambre”.

In questo momento si possono sfogliare anche i due numeri precedenti. Pian piano ci piacerebbe

archiviare tutta la raccolta del Granello (o almeno i numeri composti col computer e non più con la macchina da scrivere). Vorremmo

anche offrire la possibilità di trovare gli articoli divisi per temi e per autori.

Già ora le pagine possono essere ingrandite per migliorarne la vista, ed è facilissimo fare una ricerca interna a ciascun numero per trovare

immediatamente nomi o parole che interessino. Speriamo di offrire una possibilità e

un’opportunità in più di leggere, conservare e diffondere il Granello.

Come tutte le nuove esperienze, il progetto potrà nella fase di avvio presentare delle lacune, dei ritardi e delle imperfezioni, cui

cercheremo di ovviare, anche con l’aiuto degli amici lettori.

Fatelo sapere ai vostri amici. E mandateci pareri, osservazioni e proposte

La Redazione

Impercettibili segni di speranza per i diritti fondamentali in Medio Oriente

Sembra impossibile trovare qualche segno di riflessione e apertura sul rispetto dei diritti umani nella tormenta che si sta abbattendo su tutto il Medio Oriente. Guerre, terrorismo, conflitti etnici e religiosi, crollo delle Istituzioni e degli Stati e fuga in massa della popolazione verso l’Europa sono i vari aspetti di una estesa tragedia che sconvolge il Sud del Mediterraneo e allunga la sua ombra agghiacciante fino al cuore profondo dell’Africa. Eppure, in questo inferno di intolleranza, di negazione della libertà individuale e di espressione e dei minimi diritti fondamentali, non poche sono le voci di uomini e donne coraggiosi che, malgrado il carcere e le pesanti pene inflitte, non rinunciano a lottare proprio

per quelle libertà che garantiscono dignità all’uomo. Fra queste voci si è alzata in particolare quella di Raif Badawi, un blogger dell’Arabia Saudita, condannato a dieci anni di prigione e a mille frustate per un “reato d’opinione”. Per le autorità saudite un criminale. La sua dolorosa battaglia può essere interpretata con le parole di Ignazio Silone: “La libertà è la possibilità di dubitare, la possibilità di sbagliare, la possibilità di cercare, di sperimentare, di dire no a una qualsiasi autorità, letteraria, artistica, filosofica, religiosa, sociale e anche politica”. Ed è per questo suo credere in quella libertà, pagato a carissimo prezzo, che Raif Badawi ha ricevuto dal Parlamento Europeo, nel dicembre scorso, il Premio Sacharov 2015. Un premio, che dal 1988 viene assegnato a persone che abbiano contribuito in modo eccezionale alla lotta per i diritti umani in tutto il mondo, attira l’attenzione sulla loro violazione e sostiene i vincitori e la loro causa. Un premio quindi che vuole essere anche e soprattutto un messaggio di sostegno e di incoraggiamento per tutti coloro, donne e uomini, che in Arabia Saudita lottano nel silenzio e nell’ombra. L’Arabia Saudita è infatti un Paese dove la Sharia è applicata con rigore: nel 2015, ad esempio, sono state giustiziate ben 157 persone e il 2016 è iniziato con la condanna a morte di altre 47 persone. Il Paese, secondo i rapporti di Amnesty International è fra i primi nella lista, insieme all’Iran, dei Paesi che fanno ricorso alla pena di morte. Ed è proprio verso l’Iran, Paese che dopo l’accordo del luglio scorso sul nucleare si sta riaffacciando sulla scena internazionale, che corre il pensiero legato ad un’altra piccola goccia di speranza. E’ di pochi giorni fa infatti lo storico incontro fra Papa Francesco e il Presidente iraniano Hassan Rohani, un incontro di indubbia importanza se si considera il ruolo che l’Iran potrebbe avere nella ricerca di una soluzione diploma-tica e pacifica nella guerra in Siria e nell’insieme della regione. Ma, al di là del ruolo regionale e internaziona-le che l’Iran potrebbe apprestarsi a giocare, nonché del ruolo economico che già rappresenta, come dimo-strato dall’interesse senza veli dei politici e degli imprenditori incontrati, le parole rivolte al Papa dal Presidente Rohani interrogano sul futuro e sulla volontà politica di avviare nel Paese un percorso che non sia solo di corretta convivenza e tolleranza reli-giosa, ma anche di rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e della libertà di espressione e di pensiero. Due aspetti di uno stesso percorso, legati fra loro. E allora, il granello di speranza è forse in quella richiesta rivolta a Papa Francesco: “Padre, preghi per me.”?

Adriana Longoni [email protected]

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In ascolto degli Aborigeni Dalla Laudato si’ di Papa Francesco una lezione di stile che va oltre il tema dell’ambiente

Non è il primo documento ecclesiale a parlare di ambiente e di ecologia, eppure la Laudato si’, l’enciclica di Papa Francesco “sulla cura della casa comune”, si presenta come un testo veramente originale, un nuovo capitolo nella storia del Magistero, destinato per molti aspetti a lasciare il segno, e non solo nell’ambito specifico dell’argomento cui è dedicata. La lettera del Papa sancisce certamente una vittoria significativa per l’ambientalismo sociale: milioni di militanti in tutto il mondo vedono riconosciuto nelle sue pagine il proprio impegno, da cui il Papa stesso riconosce di aver molto imparato. Un mondo spesso inascoltato, guardato con sospetto non solo dai guru dell’economia convenzionale ma anche dalla gente comune e non di rado da tanta parte della Chiesa, si sente da questa enciclica finalmente rispettato e valo-rizzato. Perché se un risultato questa lettera ha ottenuto è quello di aver messo al centro dell’approccio ai temi della dottrina sociale la salvaguardia del creato e la ricerca di un rapporto positivo tra uomo e natura, individuando nella crisi socio-ambientale la radice delle molteplici crisi che hanno costellato gli ultimi decenni su più fronti. Sono idee non certo nuove nella cerchia degli addetti ai lavori, che, fin dal rapporto della Commissione Brundt-land, consegnato nel 1987 all’Onu come piattaforma di discussione per la “Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo” di Rio de Janeiro del 1992, sono diventate capisaldi irrinunciabili del mondo ambientalista. Ma Papa Francesco le ha inserite in un quadro teorico organico e coerente, portando l’inestricabile connessio-ne tra ambiente e società umana agli orecchi di uditori altrimenti irraggiungibili. È un Papa schierato, quello della Laudato si’, che prende posizione e si gioca in prima persona. È quello che per sapere come vanno giustizia, economia e finanza ha convocato i movimenti popolari e non il gotha dei finanzieri; che ha chiamato in Vaticano i rappresentanti del Movimento dei Sem terra non graditi a molti dei vescovi sudamericani, i militanti ostracizzati del Leoncavallo, i campesinos e i cartoneros. Che l’intento dell’enciclica fosse quello di sparigliare le carte emerge chiaro fin dall’indicazione dei suoi destinatari. In quanto “lettera circolare” questa tipologia di documento è nata con l’intento esplicito di venire diffusa, così come lo sono sempre state quelle che l’hanno preceduta. Ma mentre tradizionalmente i messaggi magisteriali erano destinati a rimanere nel recinto della comunità ecclesiale – sia per indirizzo esplicito, sia per l’ecclesiastichese in cui erano scritti – questa volta destinatari sono tutti i popoli. “Di fronte al deterioramento globale dell’ambiente – dice Papa Francesco – voglio rivolgermi a ogni persona che abita

questo pianeta. In questa Enciclica, mi propongo di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune”. E ancora: “Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta. Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti”. Non quindi un documento magisteriale in senso stretto, quanto piuttosto l’avvio di un percorso che Francesco vuole condurre con tutti coloro che hanno a cuore le sorti del pianeta. Si colloca cioè nel solco tracciato da Papa Giovanni con la Pacem in terris, rivolta “a tutti gli uomini di buona volontà”, ma riprende e rinforza questa formula per invitare tutti a un dialogo franco e aperto, come a dire che la Chiesa è sì portatrice di una parola preziosa in materia di salvaguardia dell’ambiente, ma anche chi della Chiesa non fa parte ce l’ha. Ecco ciò che hanno colto molti laici che si sono sentiti ascoltati e compresi per il contributo che potevano portare alla costruzione di questo dialogo (1). Papa Francesco inaugura questo percorso innanzitutto raccogliendo e citando nell’enciclica pareri e riflessioni di chi da anni è impegnato sul fronte ambientalista, rompendo anche in questo la tradizione che nei testi pontifici voleva indicati di norma come rimandi autorevoli solo Bibbia, Patristica e Magistero. Qui invece troviamo citazioni del patriarca ortodosso Bartolomeo, di Paul Ricoeur, di Romano Guardini, ma addirittura di un maestro del Sufismo musulmano, il poeta Ali al-Khawas, che invita a cogliere il messaggio segreto di ogni elemento della natura: «C’è un segreto sottile in ciascuno dei movimenti e dei suoni di questo mondo. Gli iniziati arrivano a cogliere quello che dicono il vento che soffia, gli alberi che si piegano, l’acqua che scorre, le mosche che ronzano, le porte che cigolano, il canto degli uccelli, il pizzicar di corde, il fischio del flauto, il sospiro dei malati, il gemito dell’afflitto…» (2). Che un musulmano venga citato in un’enciclica a sostegno delle tesi del Papa è davvero originale e coraggioso, così come è curioso che vengano riportati brani di documenti di una ventina di Conferenze episcopali – dal Nord al Sud, dalle Filippine alla Bolivia – senza un cenno ai testi dei vescovi italiani, che pure al tema della salvaguardia del Creato hanno dedicato più di un lavoro in questi ultimi anni. È un messaggio evidente della volontà di inaugurare uno stile nuovo, o meglio di adottare con maggior determinazione il ben noto, ma poco praticato, stile sinodale. Si tratta di uscire dalla autoreferenzialità che ha spesso impedito di partecipare ai cammini di altri soggetti non ecclesiali, mettendo in discussione l’espressione “Chiesa esperta in umanità”, che – se non

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interpretata correttamente – rischia di essere fortemente fraintesa. Il Papa continua a sentirsi portatore di un messaggio prezioso per l’umanità, ma accetta di farsi compagno di viaggio di chi ha qualcosa da insegnare, ivi compresa l’antica sapienza delle comunità aborigene circa il rispetto degli equilibri naturali (3). Si incontrano nelle pagine dell’enciclica, molte voci che parlano: la scienza, il mondo del lavoro, l’ambien-talismo, ma tutte sono fatte dialogare per costruire un discorso che si spinga al di là della semplice riflessione ecologica aprendosi a un orizzonte più ampio e giungendo a toccare questioni nodali: “Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Questa domanda non riguarda solo l’ambiente in modo isolato, perché non si può porre la questione in maniera parziale. Quando ci interroghiamo circa il mondo che vogliamo lasciare ci riferiamo soprattutto al suo orientamento generale, al suo senso, ai suoi valori. Se non pulsa in esse questa domanda di fondo, non credo che le nostre preoccupazioni ecologiche possano ottenere effetti importanti. Ma se questa domanda viene posta con coraggio, ci conduce inesorabilmente ad altri interrogativi molto diretti: A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi?” (4). Quella circa il futuro che vogliamo affidare alle generazioni future è una domanda che viene rivolta a tutti, credenti e non credenti, e che esula dal confine dell’ambiente inteso come habitat per allargarsi al “mondo” in senso più ampio, innescando una serie di altri interrogativi che fanno di questo documento qualcosa di più di una enciclica “verde” o di una enciclica “sociale”. La Laudato si’ si presenta piuttosto come spunto per una pausa di riflessione, una sorta di discernimento che interrompa la corsa frenetica di un mondo che ha perso il senso e la direzione del proprio andare. Tutto è connesso nella prospettiva di questa “ecologia integrale”, e tutti i “saperi” vanno interrogati e fatti dialogare, comprese le ultime acquisizioni della scienza, che il Papa prende in seria considerazione, vista la serietà della situazione: “Data l’ampiezza dei cambia-menti, non è più possibile trovare una risposta specifica e indipendente per ogni singola parte del problema. È fondamentale cercare soluzioni integrali, che consi-derino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura”. Tutto è rela-zione, e nulla esiste fuori dalla relazione: in questo as-sunto traspare evidente l’umanesimo di Papa France-sco, un personalismo in cui sono costitutive per l’uomo tutte le relazioni, quella con Dio e con gli altri, ma anche quella con la Terra (6). E in questa prospettiva potrebbero essere riviste e ripensate la spiritualità e la

pastorale, recuperando una organicità che invece è stata smarrita nel timore di assumere un tenore troppo umano, banale, “terricolo”. A fronte di una denuncia della crisi strutturale del sistema economico-produttivo contemporaneo, troppo articolata per essere schematizzata qui senza rischi di semplificazione, due parole consentono di sintetizzare le prospettive di salvezza che l’enciclica lascia intrave-dere: consapevolezza e responsabilità. Sulla prima aveva lavorato già Giovanni XXIII, quando aveva evocato il pericolo della bomba atomica sostenendo la necessità di far sapere quali sarebbero state le conseguenze irreversibili di un conflitto nucleare. Papa Francesco la richiama, evidenziando come l’umanità si trovi oggi di fronte a una nuova “bomba atomica” rappresentata dall’economia impazzita. C’è un unico modello di produzione, un unico paradigma produttivo che uccide, che alimenta la cultura dello scarto, che crea e ingigantisce le disuguaglianze con tutto ciò che queste portano con sé: migrazioni, impoverimento di aree sempre più grandi del pianeta, masse di profughi ambientali… ed è compito degli educatori, in ogni ambito, far crescere la consapevolezza circa gli effetti deleteri di questo modello economico. E poi c’è il tema della responsabilità. La crisi socio-ambientale che attraversa il pianeta non è ineluttabile e figlia di un fato avverso. Ci sono precise scelte che l’hanno portata ai livelli attuali. C’è la ricchezza di 62 miliardari che possiedono la stessa ricchezza della metà più povera del mondo (7), c’è la fame di denaro delle multinazionali delle sementi e delle multinazionali farmaceutiche, il cinismo delle fabbriche di armi… Riflessioni che fanno intravedere la necessità di scegliere tra due paradigmi inconciliabili, quello della cura contro quello della rapina, e papa Francesco ricorda che il messaggio evangelico non permette dubbi al riguardo: “La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere osses-sionati dal consumo: il costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni momento. La spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di godere con poco. È un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a gustare le piccole cose. Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione”.

Gigi Garelli 1. Cfr ad esempio il parere articolato di Guido Viale [http://www.guidoviale.it/dellenciclica-laudato/] 2. Cfr Laudato si’, nota 159 al testo. 3. Laudato si’, n. 146. 4. Ivi, n. 160. 5. Cfr L’umanesimo di Papa Francesco. Per una cultura dell’incontro, a cura di A. Giovagnoli. Vita e pensiero. 6. Cfr il Rapporto Oxfam 2015, pubblicato in coinci-denza con l’annuale World Economic Forum di Davos.

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Una Rosa che non sfiorisce

sabato 5 marzo in coincidenza con la data della nascita di

Rosa Luxemburg

inaugurazione pubblica del neonato Circolo Arci di Cuneo

a lei dedicato.

L'appuntamento è per le ore 17 nel Salone d'onore del Municipio

in via Roma 28 - Cuneo.

Parteciperanno x il sindaco di Cuneo, x il prof. Sergio Dalmasso,

da sempre studioso ed estimatore della grande rivoluzionaria tedesca,

x Lidia Menapace, partigiana e pacifista.

A fine dibattito bicchierata nella sede di via Saluzzo 28

A volte resistere è restare, a volte resistere è andar via… L’Europa sulla strada del respingimento collettivo di profughi e migranti

"Parfois résister c'est rester, parfois résister c'est partir...”. A volte resistere è restare, a volte resistere è andar via. Queste sono state le parole di Christiane Taubira, a commento delle sue dimissioni da Ministro della Giustizia francese. Originaria della Guyana, donna di forti convincimenti politici e sociali, fedele al mandato che le era stato affidato, ha scelto di andarsene, non certo per arrendersi, come si capisce da questa dichiarazione. Da tempo in contrasto con il governo Valls (il premier francese) e con la politica del presidente della Repubblica Hollande, si è rifiutata di avvallare, rimanendo in carica, la deriva, autoritaria e secondo molti anticostituzionale, costituita dalle leggi speciali per la sicurezza, e soprattutto dal loro prolungamento nel tempo. E’ abbastanza chiaro a tutti, come lo è stato alla mini-stra, che queste normative si collocano nel più ampio scenario europeo di strumentalizzazione dell’insicu-rezza, della legittima paura della gente, dei pericoli oggettivi che oggi corre tutto il nostro mondo occi-dentale, per sprangare le porte del continente e respin-gere l’umanità ferita che chiede accoglienza e aiuto. In questi giorni, anche da voci insospettabili e inaspettate, si sta richiamando il pericolo che rappresenta per l’Unione Europea il superamento del trattato di Schengen. A grandi linee, lo spazio Schengen rappresenta un territorio dove la libera circolazione delle persone è garantita. Gli Stati firmatari del trattato hanno abolito tutte le frontiere interne sostituendole con un'unica frontiera esterna. Entro tale spazio si applicano regole e procedure comuni in materia di visti, soggiorni brevi, richieste d'asilo e controlli alle frontiere. Insieme alla moneta unica è un tratto d’identità fondamentale per l’Europa, che continua a mancare di una governance, cioè di un coordinamento di governo, collettivo, condiviso, nella sfera politica e sociale, con il predominio sempre più incontrollato della sfera economica. Questo già la dice lunga su quello che sta succedendo, a partire dalla drammatica crisi greca e dalla sua gestione deleteria. In una recente conferenza svoltasi a Bruxelles, nella sede del Parlamento Europeo, dal titolo: “The Shield of Europe: the EU Charter of Fundamental Rights” (Lo scudo d’Europa: la Carta europea dei diritti fondamen-tali), nel suo intervento, non a caso intitolato L’unione europea e il deficit di democrazia, l’europarlamentare Barbara Spinelli dice: “Quel che è accaduto dopo la vicenda greca conferma al tempo stesso la crisi del progetto e la cecità delle élites che guidano l’Europa. La mancata solidarietà sulla gestione dei rifugiati, le frontiere che si alzano ovunque e caoticamente dentro

lo spazio dell’Unione, la sistematica violazione delle Costituzioni nazionali e della Carta europea dei diritti fondamentali: ecco la risposta che viene data, non si sa più in nome di quale mandato, ai fenomeni migratori, al terrorismo, alle guerre che imperversano ai confini sud ed est dell’Europa. Siamo di nuovo e più che mai in una tempesta perfetta, e sono anni che l’Unione resta impigliata in una sua presunzione fatale: che le ricette adottate durante la crisi siano l’unica e ideale soluzione, che le istituzioni comuni-tarie non necessitino di cambiamenti radicali. O meglio: che le istituzioni vadano cambiate surrettizia-mente, dall’alto, dando vita appunto a un grande potere senza imputabilità. Che l’unica vera sfida sia quella di salvare il funzionamento dei mercati e la competitività …”. Stiamo assistendo a una frammentazione di fatto dell’Unione Europea, con i singoli Paesi che scelgono di reagire alla questione migratoria senza alcun coordinamento, ciascuno secondo i propri interessi, umori, esigenze elettorali, equilibri interni, assetti di governo, con derive di ogni genere: dall’autoritarismo, al populismo, alla xenofobia. E l’Unione non ha né l’autorevolezza né soprattutto gli strumenti per arginare questa diaspora.

non perdiamoci di vista… 11

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Il caso della Danimarca ne è un paradigma perfetto. Il governo di Copenhagen ha deciso di dare applicazione a una legge, già esistente, che stabiliva, da parte dei richiedenti asilo, un contributo agli oneri dello Stato nell’accoglienza, aggiungendo un nuovo emendamento, che dà alla polizia il potere di confiscare direttamente gli eventuali beni in loro possesso, senza ulteriori passaggi. Dal momento che qui qualcosa a livello di diritti umani non torna, era legittimo ipotizzare un rapido ricorso a strumenti giuridici internazionali per richiamare all’ordine il governo danese, e convincerlo a ripensarci. Ma c’è un ma, e non da poco. La legislazione europea in materia di asilo non si applica interamente in Danimarca, che ha semplicemente scelto di restare fuori dalla politica di asilo europea. Una procedura d’infrazione contro la Danimarca non è pertanto realistica. Sul confine nazionale si arresta il diritto comunitario. Così l’Olanda propone la deportazione forzata dei profughi verso la Turchia, buco nero nel quale nessuno ha interesse a guardare. La Svezia annuncia 80.000 espulsioni di profughi che non hanno ottenuto l’asilo, con speciali voli charter, una misura che ha l’acre sapore della deportazione. La Gran Bretagna è disposta ad accogliere solo qualche migliaio di minori non accompagnati, “filtrati” dall’Alto Commissariato ONU per i rifugiati.

Siamo sempre più lontani, come dice la Spinelli, da quella “Europa nata come un progetto politico di pace tra le nazioni, (perché) anche questa missione è scomparsa, sempre che sia mai nata. Se non fosse così, non assisterebbe passivamente alla politica di distruzione dei curdi operata dal regime turco, per non parlare dell’abbattimento dell’aereo russo avvenuto nel novembre scorso. Abbiamo bisogno della Turchia per tenere a bada e diminuire l’afflusso di rifugiati, e in cambio – come fossimo ricattati – siamo disposti a chiudere tutti e due gli occhi verso le politiche destabilizzanti di Erdogan in Siria e in Iraq. Se Erdogan rimpatria i rifugiati nelle zone di guerra riceve addirittura ricompense, sotto forma di un aiuto di “assistenza” pari a 3 miliardi di euro.” Eh già, diamo 3 miliardi alla Turchia perché si sporchi le mani al posto nostro, e niente alla Grecia, la reproba Grecia che si è permessa di eleggere, con libere e democratiche elezioni, un legittimo governo di “sini-stra radicale”, perché non rispetta le regole europee in ordine a identificazione e accoglienza, più volte richiamata e minacciata di ulteriori “punizioni”. Un Paese allo stremo, che a fronte di una popolazione di

11 milioni di abitanti, ha visto arrivare sulle sue coste 831.000 profughi in un anno! Dall’Austria si ammo-nisce che la marina greca non fa abbastanza per contrastare gli sbarchi! La risposta di Atene è stata chiara: “Che dovremmo fare, affondare le imbarca-zioni stracariche di rifugiati?”. Un’altra volta, in pochi mesi, è in Grecia che si manifesta la faccia ambigua e squilibrata di un’Europa che tradisce i popoli, perdendo la sua anima e la sua identità, rischiando di disgregarsi. Noi italiani riusciamo comunque a dare sempre il meglio. In cambio di 17 miliardi di futuri affari, abbiamo inscatolato alcune delle nostre statue più belle e antiche, che per loro disgrazia si sono trovate sul percorso della visita ufficiale del Presidente dell’Iran, Hassan Rouhani, per non urtare la sua sensibilità religiosa. Sarebbe bene ricordare che da quando questo sorridente e pacato signore è al potere, nel suo Paese sono state eseguite 2277 esecuzioni capitali per impiccagione, tramite l’uso di apposite gru che sono portate nei luoghi deputati. Ma, come dicevano i romani, “pecunia non olet”, o, in questo caso, non si macchia di sangue. L’Iran e la Turchia sono Paesi molto deficitari sul fronte dei diritti umani elementari, ma vengono accolti a braccia aperte dall’Europa. La stessa Europa che, in un’ottica di respingimento collettivo, continua a lasciar affogare bambini, uomini e donne nelle sue acque, quando si schiantano sulle sue coste, in un’ecatombe infinita.

Lo storico Alessandro Portelli, in un articolo pubblicato in occasione del Giorno della Memoria, che si celebra ogni anno il 27 gennaio per ricordare le vittime dell’Olocausto, ha scritto: “Più ancora della conoscenza storica, la memoria impone una relazione vissuta fra il passato ricordato e il presente che ricorda. La commemorazione smette di essere un rituale e diventa memoria vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve a orientare il nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe servire anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge i migranti è la stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il genocidio organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra cultura che ha prodotto e produce tutto questo.”.

Claudia Filippi

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Ger 35 racconto

L'aria della sera sembra più calda stasera, mentre rientriamo nelle nostre tende; o forse è ancora il ricordo dell’aria sacra del tempio, dove il profeta stesso ci ha fatto trascorrere la giornata. Guardo i bambini, le giovani ragazze intorno a noi, i guerrieri maturi, e mi chiedo che fine faremo, se l'Altissimo scaccerà ancora dinanzi a noi l'invasore terribile o se invece un giorno ci abbandonerà. Già una volta, raccontano i vecchi, la salvezza inattesa e improvvisa ci ha visitati, e perché non dovrebbe l'Onnipotente rinnovare i suoi prodigi? Ma tutto ciò che nel passato sembra credibile, sicuro, nel presente si avvolge di in-certezza, di bruma, di imperfezione. Chissà per quan-to tempo ancora si manterrà la nostra via di vita.

Già stamattina, peraltro, l'aria calda del deserto preannunciava un'altra giornata di arsura senza il conforto neppure di un poco di rugiada quando, uscendo dalle nostre tende, ci trovammo di fronte la figura così strana e inquietante del profeta. Lo avevo già visto in un paio di occasioni, in pellegrinaggio al tempio; soprattutto, altri dei nostri lo avevano già ascoltato parlare, e dicevano che sembrava uno degli antichi messaggeri, bruciante e ardito sebbene allo stesso tempo quasi insicuro. Così stamattina: stava lì, avvolto nel suo mantello nell'aria polverosa dell'esta-te, solenne come una statua, ma non ci aveva chiamati, aveva atteso che uscissimo per conto nostro dalle tende. Vedendolo, feci un cenno a mia nipote perché chiamasse gli altri anziani dell'accam-pamento. Quindi gli andammo incontro:

«Pace a te, uomo di Dio. È di buon augurio questa tua visita? In cosa possiamo compiacerti?».

«Venite con me al tempio», disse solo. Sentii dietro di me Maacà mormorare, ma per parte mia riconobbi in quello stile gli antichi profeti, ruvidi e diretti, come una voce proveniente dall'infanzia che ti richiama a situazioni ormai dimenticate. Mi assunsi quindi l'autorità che mi competeva, anche se tante volte non la volevo esercitare se non dopo essermi consultato con tutti:

«Vuoi con te solo gli uomini adulti o tutti i figli di Recab?».

«Forse che Giacobbe non si mosse con tutti i suoi figli, i suoi servi e le sue mogli?».

Sorrisi senza darlo a vedere. Capivo che Jirmijahu tentava di mostrarsi autorevole mentre dubitava lui per primo della propria parola, e proprio questo me la rendeva convincente, seducente, perché intuivo che stava eseguendo ciò che lui per primo non era sicuro essere davvero la parola di Dio, realmente mirata allo scopo. "Solo un messaggero, e non chi emette un ordine proprio, può insieme essere tanto insicuro e deciso".

«Saremo pronti non appena avrai gustato un poco di latte e una focaccia».

«Non mangerò né berrò nulla, finché non abbia eseguito quanto richiesto dal Signore nostro Dio. Ma attenderò qui che siate pronti a seguirmi».

Camminammo tutti insieme, compatti, come non

facciamo quasi mai, neppure in pellegrinaggio. Tra le tende restarono soltanto Minya, Malcà, Gut e Rimmon, troppo anziani per riuscire a camminare con noi: il profeta, peraltro, fu informato della nostra decisione e la approvò. Lungo la via uscivano a guardarci, a mano a mano che ci avvicinavamo a Gerusalemme. Non erano abituati a vederci allon-tanare dal nostro accampamento, e quasi mai mar-ciavamo tutti insieme in questo modo. Ma anche chi non ci conoscesse sarebbe stato colpito dal gruppo da noi costituito, una cinquantina di persone di tutte le età, senza un bagaglio o un animale, in cammino sulle orme di un uomo temuto e disprezzato da tanti e sicuramente più noto di noi.

Ci fece entrare nella cinta delle mura, nel cortile del tempio, ci fece salire al piano superiore del porti-cato ed entrare in una sala ampia e affrescata (non sapevo esistessero nel tempio sale del genere), al cen-tro della quale qualcuno aveva allestito un tavolo con focacce, pane, orzo e diverse brocche. Di fronte a noi dalle finestre si vedeva il panorama delle colli-ne occidentali. In fondo alla sala, da una parte e dal-l'altra, addossati contro le mura, stavano diversi di-gnitari del tempio, sacerdoti e leviti. Ne conoscevo di vista alcuni, ma nessuno ci spiegò perché fossero lì.

«Qui, nel luogo che l'Altissimo ha scelto dove porre la sua dimora in mezzo agli uomini, lasciate che si rallegri il vostro cuore. Prendete, mangiate e bevete ciò che il Signore vi dona».

Guardai intorno a me la mia gente, che teneva gli occhi fissi su di me per sapere come comportarsi. Eravamo abituati a recarci al tempio, ma mai avevamo goduto di un trattamento del genere. Con la recente guerra e carestia, poi, era diventato ancora più difficile sperare in banchetti, tanto più se gratuiti e senza alcuna motivazione. Mi avvicinai al tavolo: al centro, da lontano poco visibili, c'erano anche dei canestri con grappoli d'uva. Ne fui indispettito e andai ancora più vicino: nelle brocche era raccolto del vino, incantevole a giudicare dal profumo.

Mi voltai a guardare Jirmijahu, perplesso e quasi urtato, sicuramente con uno sguardo che doveva essere corrucciato:

«Nobile uomo di Dio, perché ci poni di fronte a questa tentazione? Tu sai bene chi siamo, gente di Recab, stabiliti là dove ci hai chiamati fin dal tempo

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di Jonadab nostro padre, il quale ci diede da risiedere nella regione a patto di rispettare tutte le regole della legge del Dio di Giacobbe vostro padre, e inoltre le cinque parole donate in particolare a noi. Disse infatti Jonadab, figlio di Rekab, ai suoi figli e a tutta la loro discendenza: “Non case, non vigna, non campo, non semente, non bevanda fermentata; così saranno lunghi i vostri giorni in questa terra”. Noi tutte queste norme abbiamo sempre rispettato, dai tempi antichi fino ad oggi, e non ci allontaneremo dalla via che ci è stata indicata perché vivessimo a lungo noi e i nostri figli dopo di noi».

«Nobile Ja'azania figlio di Germiahu, tu menti, giacché nei giorni di Nabucodonosor re di Babilonia, quando l'esercito dei caldei mosse contro il nostro popolo, voi veniste a rifugiarvi tra le mura della città di Gerusalemme, violando la legge data dal vostro padre di non risiedere in case fatte di mura di mattoni o pietre».

«Dici bene, maestro Jirmijahu, ma la legge ci è stata data perché vivessimo, non la vita per rispettare la legge. Noi capivamo bene che continuare a risiedere in tende quando intorno imperversa una tempesta portata da mani d'uomo comportava di mettere a repentaglio la vita nostra, dei nostri figli e delle nostre donne. Questa vita non era garantita tra le mura della città, ma vi poteva essere meglio protetta. Quando il tremendo invasore lasciò la regione, tornammo nella nostra valle, sia pure devastata dall'esercito. Quello che però tu oggi ci chiedi è diverso. Nessuna delle minacce che incom-bono su di noi potrà essere allontanata se ralle-grassimo il nostro cuore con il vino, così come ci chiedi. Piuttosto, in questo modo tradiremmo ciò che dal nostro padre ci è stato consegnato come strumento per ottenere la vita».

«Siete ospiti nella casa dell'Altissimo, e un suo pro-feta vi invita a bere e mangiare. Come potete ritene-re che ciò sia contro la volontà dell'Onnipotente?»

«Perdona se il tuo servo insiste, nobile profeta. Abbiamo imparato ad apprezzare il tuo messaggio, sia pure tanto spaventoso e scoraggiante. Abbiamo imparato ad ascoltare le tue parole e ritenerle ispirate dall'alto. Per questo, quando ci hai chiamati, siamo venuti senza discutere, senza obiettarti nulla,

benché non sapessimo per che cosa ci convocavi. Ma se tu insisti che noi abbandoniamo la via della vita per una via diversa, che potrebbe anche non essere di morte ma non è quella indicataci dal nostro padre, ci spingi a credere che l'Altissimo, benedetto Egli sia, possa averti in questo caso ingannato, o che forse tu voglia condurci su una strada scivolosa».

«Basta!», urlò Jirmijahu girandosi verso gli spettatori che assistevano dai due angoli della stanza. «Vedete con quanta insistenza queste persone, pezzenti affamati e assetati, convocati nella casa del Signore da un uomo di Dio, si mantengono fedeli a una tradizione che è solo umana, all'ordine di un progenitore cui l'Altissimo non aveva parlato. E voi, custodi di una tradizione divina, osate metterne in discussione l'autorità, vi affannate a trovare giusti-ficazioni e scuse per non seguirla? I figli di Recab sono stati capaci di violare la legge quando questa non portava alla vita, ma di essere rigorosi nel rispet-tarla quando solleticava soltanto la loro fame e sete!»

Batté poi le mani e fece condurre via dagli inservienti i cesti di uva e le brocche di vino, sostituendole con altre d'acqua. Ci ha fatto mangiare e bere, si è fermato con noi a ridere e danzare, come non avevamo più fatto dall’invasione dei caldei. Mi ha chiesto perdono per aver parlato con tanto apparente disprezzo della nostra tradizione. Ha spiegato, più ai bambini che a noi adulti, che quello era il disprezzo con cui eravamo guardati dalle autorità del tempio, e che anche per questo il nostro esempio li aveva tanto umiliati, ma che lui, per parte sua, ci considerava semplicemente un esempio da seguire. Ci ha invitati, se possibile, ad allontanarci dalla Giudea, in quanto si dice convinto che l’Altissimo abbandonerà il suo tempio nelle mani dei caldei. Mentre si dice altrettanto sicuro che l’Onni-potente si compiace di noi e vuole che continuiamo a vivere generazione dopo generazione.

Siamo ripartiti in silenzio dal tempio, dopo la preghiera della sera, meditando su tutti gli avvenimenti della giornata. E improvvisamente mi sento custode di una fedeltà che non avevo mai colto come tanto preziosa.

Angelo Fracchia [email protected]

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Ricordo di Nanni Salio E’ stato anche per noi maestro e amico

Nanni Salio è scomparso dopo breve malattia il 1° febbraio. É stato un grande ricercatore e organizzatore della cultura di pace a Torino e in Italia. Oltre studi, scritti, interventi, la sua opera è stata l'istituzione del Centro Studi torinese intitolato a Domenico Sereno Regis (www.serenoregis.org), dai primi anni '80 fino ad oggi nella sede e biblioteca di via Garibaldi 13. Il Centro è impegnato per la pace, la nonviolenza, l'eco-logia, con attività articolate nel trinomio ricerca-educa-zione-azione. Nanni sapeva che senza strutture continua-tive, le buone volontà e le buone idee si disperdono. Gli studi per la pace nonviolenta (ci sono anche paci violente, imperiali), si sviluppano nel mondo su diver-se linee convergenti. Nanni Salio, docente di fisica, ha usato un metodo rigoroso e critico applicato alle scienze, alle politiche, all'economia, all'informazione, all'ambiente, con l'obiettivo di studiare i conflitti per trasformarli superando la violenza materiale, quella strutturale e soprattutto quella culturale. La nonviolen-za attiva consiste in comportamenti personali e sociali in cui energie umane autentiche possano comporre su un piano di maggiore bene e soddisfazione comune, gli interessi e le visuali in conflitto. Nanni dava, su queste basi, un severo giudizio sulle culture dominanti e le pratiche conseguenti, collocan-

dosi al margine delle posizioni sociali più evidenti. Vedeva in Gandhi il maestro di giustizia e pace, sia nel metodo di azione e di lotta, sia nella proposta costruttiva di strutture sociali profonde, validissime indicazioni proprio per i maggiori problemi delle società attuali. Partecipava allo sviluppo e diffusione dei lavori degli studiosi mondiali sulla linea gandhiana, in particolare di Johan Galtung, suo più recente maestro. Nel lavorare con lui, tanti di noi hanno vissuto l'esperienza dell'amicizia operante, uno dei maggiori beni umani: non solo una collaborazione pratica o di ricerca, ma una vicinanza creata dall'alto valore dell'obiettivo comune: la pace giusta, fondata nella sostanza umana e nelle spiritualità dei popoli. La scomparsa di un tale amico ci segna con una ferita e un dolore, come per un fratello, ma l'esempio e il lascito non sono perduti, e ci sospingono. Si soffre perché si vive, e si sente il male perché si conosce il bene!

e. p.

Una bella descrizione dell'opera nonviolenta di Nanni la si trova nella pagina wikipedia a lui dedicata, a cura di Paolo Macina, l'ultimo a raccogliere i suoi ricordi.

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bibblando ando

Così sia Così possa avvenire, forse (4)

Così possa avvenire forse che l’esperire gli opposti le discrepanze i contrasti chiami in causa il dipanare lento e tenace dell’umile pensare e del tacere discreto.

Così possa avvenire forse che alla domanda – Chi sei? - sospenda ogni pretesa e chiami a raccolta i tu della mia storia li convochi dove ora mi trovo a narrare di asimmetrie precarie certezze e balbettii d’amore.

Così possa avvenire forse che tersi ostinati fili ci leghino a sobrie epifanie di giustizia e l’altrui sguardo imprevisto ci chiami al buon agire senza profitto.

Così possa avvenire forse che negli immediati dintorni d’una rivolta a questo tempo stanco e ottuso il lessico e l’agire di noi sia intralcio al potere e si torni ad alzare gli occhi la schiena i volti.

eva

L'adultera perdonata (e qualche confusione nei vangeli: Gv 8,2-11)

Il vangelo secondo Giovanni è noto in quanto sarebbe il più teologico e simbolico tra i quattro, tanto è vero che non presenta i miracoli come prodigi, ma come "segni", a dire che in realtà la notizia non è tanto l'evento straordinario, bensì ciò che l'evento lascia trasparire su Dio e sull'uomo. Per questo spesso il Gesù del vangelo di Giovanni ci suona duro, persino un po' innaturale e disumano: è colui che ha tutto presente e tutto chiaro. Un brano fa però eccezione. Un brano in cui gli portano una donna presa in flagrante adulterio, per metterlo alla prova e vedere che cosa ne dirà. Gli mettono di fronte l'alternativa tra rispettare la legge mosaica oppure una donna. Comunque risponda, sarà nei pasticci. Non mancano episodi simili, ma si trova-no tutti nei vangeli sinottici. E non mancano brani in cui la risposta di Gesù ha un che di trovata arguta, ma anche questi tendono a non trovarsi in Giovanni (dove semmai troviamo tanti esempi di ironia, ossia di afferma-zioni che gli attori storici e il lettore interpretano in modo diverso, e questo può suscitare il sorriso). Pochissimo giovannea è poi anche la presentazione della misericordia di Gesù, oltre a non essere tipiche di Giovanni le parole utilizzate in questo brano. Tema e parole sembrerebbero, semmai, di Luca. A completare la frittata, tutti i manoscritti più antichi e autorevoli del vangelo di Giovanni non presentano questo brano. Dunque? Dovremmo toglierlo dal vangelo e non leggerlo più? Partiamo da una prima affermazione: quasi sicura-mente Giovanni non ha scritto queste righe. E allora? Le tagliamo? Altrettanto certamente, in qualche tempo nelle prime generazioni cristiane qualcuno ha creduto che questo brano dicesse qualcosa su Gesù, e meritasse di essere ricordato. Lo infilò quindi probabilmente nel vangelo ancora meno conosciuto e "congelato", nell'ultimo a essere stato scritto. Ma allora noi dovremmo ripristinare l'ordine del-l'origine? Forse sì, se solo i dodici discepoli potessero raccontarci di Gesù e solo loro avessero condotto a dei vangeli scritti. Non è così: anche nella tradizione Luca e Marco non fanno parte dei dodici, e le ricostruzioni moderne ci dicono, tra l'altro, che persino i nomi attribuiti agli evangelisti, o ciò che ne sappiamo, ci vengono da fonti troppo recenti... Ma in fondo, siamo finalmente liberi dall'ossessione dell'autore. Noi sappiamo che nella prima chiesa erano molti coloro che conoscevano in tutto o in parte la vicenda di Gesù, e molti ne avevano approfondito il messaggio, senza contare che non esistevano leggi sul

diritto d'autore. Più semplicemente, i lettori ricono-scevano nello scritto una coerenza con ciò che avevano sentito predicare, e questo bastava. Quelle parole potevano non essere precisamente di Gesù, ma ne trasmettevano il messaggio. A questo punto, non importa se non tutte le parole attribuite a Giovanni le abbia davvero scritte lui (chiunque peraltro lui sia).

Angelo Fracchia

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n. 1 (169) – febbraio 2016 il granello di senape pag. 13

Una serata sulla “tratta” con Fredo Olivero “Vi porto la mia testimonianza e quella di molti altri volontari (cristiani e non, italiani e stranieri) che con me o in rete hanno cercato di capire il fenomeno e di dare risposte umane coinvolgendo la Chiesa e la società civile”. Così ha iniziato la sua riflessione Fredo Olivero, sacerdote di Centallo che per molti anni ha accompa-gnato l’ufficio Migrantes della diocesi di Torino, venuto a Cuneo per partecipare alla celebrazione della Giornata di preghiera e di riflessione contro tutte le forme di schiavitù. Una ricorrenza alla sua seconda edizione, voluta fortemente da papa Francesco nel giorno del ricordo di Giuseppina Bakhita, donna nata in Sudan, rapita alla sua famiglia da bambina, venduta come schiava e che nel corso della sua tormentata vita incontrò chi la liberò e le diede opportunità per costruirsi una nuova vita nel segno dell’amore e della giustizia. Al suono solenne di un tamburo i numerosi presenti alla celebrazione, con un lumino in mano, hanno accolto la processione di alcuni adulti e giovani italiani e africani che, con solennità, hanno portato fino ai piedi dell’altare un grande cero e delle grosse catene. Inizio di una serata di riflessione e preghiera con l’obiettivo di conoscere meglio questo mondo oscuro e terribile della tratta umana, coscienti che la luce di una fede autentica vissuta nella solidarietà può illuminare e diradare anche l’oscurità di questa immensa tragedia, consapevoli che tutti abbiamo delle responsabilità e dobbiamo fare qualcosa per un cambiamento radicale.

Il fenomeno della tratta degli esseri umani è molto ampio e oggi è presente in tutto il mondo. Secondo le Nazioni Unite e la Caritas Internazionale le vittime dirette sono 21 milioni e ogni anno si aggiungono 1,5 milioni di sfruttati, soprattutto donne, vittime di sfrutta-mento sessuale, di emigrazioni forzate via mare o attra-verso il deserto pagate con alti costi, minori abusati in mille modi, lavoratori dei campi, dell’edilizia o nell’am-bito domestico in condizio-ni di quasi schiavitù. Il racconto di don Fredo snocciola numeri che fanno sempre impressione anche se già conosciuti, soprattut-to quando ricorda il dramma di chi oggi fugge per guerre, fame, problemi ambientali. I profughi e sfollati sono 60.000.000 nel mondo e nell’ Europa se ne contano meno di 2 milioni: in Italia nel 2015 sono stati 144.000 e 172.000 nel 2014. In

Grecia nel 2015 ne sono arrivati 720.000 contro le 50.000 del 2014. In nord Europa dalla via di terra sono entrati in 773.000 contro i 42.000 del 2014. Sovente i profughi e le persone sfruttate per sesso si identificano e si mescolano, vittime dei trafficanti.

La sua è una testimonianza forte e chiara dell’assurdità e della gravità della tratta umana e dell’ipocrisia di una società che con il silenzio, l’indifferenza e l’egoismo colpevole si fa complice. Il mercato del sesso commerciale esiste da sempre, ma cambia nel tempo il modo di consumarlo. Nel 1990 in Piemonte e in Italia si verifica un elevato allarme sociale nei confronti della prostituzione, non perché si sia presa coscienza, ma perché nuove figure si affacciano sul mercato. Sono meno rassicuranti, disturbano la quiete pubblica, creano ingorghi nei viali, sono molto più visibili (colorate, diverse), soprattutto nigeriane.

La testimonianza di Fredo si fa calda e coinvolgente nel ricordo delle sue lotte e dei suoi incontri in una Torino in cui qualcuno cerca di reagire. Il gruppo Abele con don Ciotti è uno dei più attivi con vari interventi e scritti nella denuncia di una prostituzione “trasversale a tutto”: a tutti gli ambienti, a tutti i ceti; punta il dito sulla difficoltà dei maschi di vivere la propria sessualità ed affettività per cui l’offerta a pagamento è diversa e risponde a questo bisogno molto allargato e diffuso. Furono anni in cui con coraggio si denunciò chi nelle istituzioni non solo chiudeva un occhio ma favoriva: “La prostituzione è organizzata da un racket “fai da te”, nato sul territorio nigeriano, ma con forti aderen-ze nel potentato locale ed anche nelle ambasciate. Ha fatto specie la condanna di due funzionarie dell’am-basciata italiana a Lagos che concedevano visti dietro

pagamento, cioè tangenti fino a 1.000 dollari. Si scoprì che furono concessi migliaia di visti in un anno, anche col-lettivi, fino a 30 ciascuno, per “pellegrinaggi ai luoghi santi”. Si nascondeva quanto avveniva nel paese di origine e in quello di arrivo: un “patto di sangue” con rito woodou - forma di rito ricat-tatorio con giuramento – fat-to con la ragazza e la sua famiglia, e la richiesta di garanzia dei beni familiari per il “servizio” che i media-tori facevano e che ammon-tava a 40-50.000 dollari.” Poi vennero le donne dall’est

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Europa, donne imbrogliate da protettori violenti e avidi di denaro, ragazze con la voglia dell’occidente ricco vi-sto solo in TV, senza coscienza dei rischi, mentre la camorra italiana offriva barche e basi logistiche in Puglia.

E la Chiesa istituzione? Dal 1996 finalmente, spinta dal lavoro di tanti suoi figli, la chiesa italiana prende coscienza e si lavora con un Coordinamento Tratta (Caritas, Migrantes e Istituti religiosi soprattutto femminili). Nasce così un cammino più articolato e efficiente che oggi vede grandi protagonisti anche la Comunità Papa Giovanni XXIII e il gruppo Abele.

Le sfide attuali sono tante, come tutti noi sappiamo, soprattutto per l’arrivo sui barconi e per strada di tante persone disperate. In mezzo a questi profughi ci sono tante organizzazioni criminali del Nord Africa, della Turchia, dei Paesi arabi che, dopo averli parcheggiati in Libia, organizzano questa nuova ondata di schiavi dall’Africa sub-sahariana all’Europa. In questo contesto terribile, cosa possiamo fare? Ai presenti, ai nostri gruppi e alle nostre comunità Fredo ha lasciato alcune indicazioni importanti, da assumere senza se e senza ma, se vogliamo dirci degni della nostra umanità e della nostra fede. Provo ad elencarle. Come cittadini:

• conoscere e combattere la tratta per la prostitu-zione: rendersi conto che con le nostre scelte sessuali collaboriamo alla loro schiavitù e allo sfruttamento di chi per noi le schiavizza, le fa arrivare, le gestisce e non nascondere la vergogna del “turismo sessuale”, ancora ben presente e a volte addirittura offerto da imprese come “premio aziendale”;

• denunciare con coraggio lo sfruttamento delle persone catturate per i “pezzi di ricambio” (organi)

delle persone ricche o dei paesi ricchi, o fatte schiave per il lavoro a basso costo nelle fattorie o nelle aziende, nella pesca e sulle navi, nelle costruzioni, nel lavoro domestico;

• fare pressione per l’apertura di canali legali dai paesi in guerra: ora ci sono i profughi, centinaia di mi-gliaia di persone, che ogni anno diventano merce per gli sfruttatori che spillano a ciascuno grandi somme. Come credenti cristiani:

• sensibilizzare le nostre comunità, anche attraverso serate di informazione o preghiera, perché si rendano conto di questa tremenda realtà;

• fornire rifugio alle persone trafficate nei paesi di transito e destinazione e proteggere le vittime degli sbarchi, valorizzando le tante esperienze positive che ci sono attorno a noi e ricordandoci che il rifugio “diffuso” nelle nostre case, in case di accoglienza piccole e responsabilizzanti è la forma migliore per l’integrazione;

• fare rete tra noi e mai camminare da soli, sapendo che si può lavorare insieme senza scontrarsi, per il bene delle persone;

• insistere con le istituzioni (Comune, Questure, Prefetture, Regione) perché sostengano il lavoro di accoglienza e si adoperino per aprire canali di accoglienza legali coordinati e permanenti; • lavorare con i preti delle comunità immigrate, con gli imam, i pope, ricordandoci che “fede e liberazione delle persone” devono convivere;

• liberarci dalla rassegnazione alla guerra che ci ruba tante risorse e la stessa vita, consapevoli che è possibile un mondo senza guerre. Grazie, Fredo!

Flavio Luciano

Prosegue da p. 1 : Italia – Libia Basta guerre! Per cui diventa pura ipocrisia per l’Italia intervenire militarmente in Libia per combattere l’Isis, quando appare chiaro che siamo noi ad armarlo. E’ così che siamo noi a creare i mostri e poi facciamo nuove guerre per distruggerli. “La guerra – ha detto recentemente Papa Francesco – è proprio la scelta per le ricchezze. Facciamo armi: così l’eco-nomia si bilancia un po’ e andiamo avanti con il nostro interesse. C’è una brutta parola del Signore. Maledetti coloro che operano per la guerra, che fanno le guerre: sono maledetti, sono delinquenti!”. Basandoci su questa lettura sapienziale, dobbiamo dire NO a questa nuova guerra contro la Libia. Quello che ai poteri forti interessa non è la tragica situazione del popolo libico, ma il petrolio di quel paese. Dobbiamo tutti mobilitarci! In questo momento così grave è triste vedere il movimento per la pace frantumato in mille rivoli. Oseremo metterci tutti insieme per esprimere con un’unica voce il nostro NO alla guerra contro la Libia, un NO a tutte le guerre che insanguinano il nostro mondo. E’ possibile un incontro a Roma di

tutte le realtà di base per costruire un coordina-mento o un Forum nazionale contro le guerre? E’ possibile pensare a una Manifestazione Nazionale contro tutte le guerre, contro la produzione bellica italiana, contro la vendita di armi all’Arabia Saudita e al Qatar, in barba alla legge 185? E contro le nuove bombe atomiche in arrivo all’Italia, le B61-12. E’ possibile pensare a una Perugia-Assisi 2016, retag-gio storico di Capitini, sostenuta e voluta da tutto il movimento per la pace? Smettiamola di ‘farci la guerra’ l’un con l’altro e impariamo a lavorare in rete contro questo Sistema di morte. “La guerra – ha detto recentemente Papa Francesco – è un affare. I terroristi fabbricano armi? Chi dà loro le armi? C’è tutta una rete di interessi, dove dietro ci sono i soldi o il potere. Io penso che le guerre sono un peccato, distruggono l’umanità, sono la causa di sfruttamento, traffici di persone. Si devono fermare”.

Napoli, 29 gennaio 2016 Alex Zanotelli

Tratto dal sito: http://serenoregis.org/

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n. 1 (169) – febbraio 2016 il granello di senape pag. 15

Incontro o scontro tra Europa e Islam? Riflettere sulle prospettive di dialogo tra Europa e Islam esige qualche chiarimento preliminare, trattan-dosi ad una prima lettura dei rapporti tra una regione geografica delimitata, anche se con qualche incertezza, e una religione diffusa in molte parti del mondo. Per non generare ulteriori confusioni può essere utile circoscrivere il tema considerando i rapporti tra la società europea e quella islamica, limitatamente allo spazio euro-mediterraneo, dove i musulmani sono il 20% della comunità islamica mondiale.

Società europea e islamica nello spazio euro-mediterraneo

Si incontrano e scontrano, da una parte, una società europea cresciuta in un orizzonte cristiano plurale e oggi fortemente sensibile ai valori della laicità, per la quasi totalità organizzata all’interno dell’Unione Euro-pea e articolata in strutture ecclesiali dotate di gerar-chie; dall’altra, una società islamica fortemente ancorata all’insegnamento del Corano e frammentata in Stati islamici o di ispirazione islamica (dall’Iran all’Arabia saudita fino alla Turchia), spesso in conflit-to tra di loro e profondamente divisa tra sunniti e sciiti, con i primi del tutto privi di strutture gerarchiche. Questo rapporto tra incontro/scontro attraversa tutta la storia delle due realtà, con alterne vicende, segnate anche dalle rispettive traiettorie cronologicamente differenziate: l’Islam nasce quando il cristianesimo è nel suo sesto secolo di vita, manifestandosi nella penisola araba (La Mecca) nel VII sec. d.C. e entrando fin dall’inizio in contatto, spesso conflittuale, con un’Europa che andava progressivamente connotandosi come cristiana fino al compimento medievale, che resisterà fino a tempi recenti, passando attraverso le vicende, per citarne solo alcune, della riforma protestante, delle guerre di religione - conclusesi con la pace di Vestfalia (1648) - delle persecuzioni antisemi-te, fino alle dinamiche di secolarizzazione del secolo scorso, che avevano contribuito a fare della fede una scelta individuale e a far prevedere che con il progres-so materiale e i risultati della ricerca scientifica la reli-gione si sarebbe ridotta a un residuo del passato. Nel corso del Medioevo europeo molte sono state le occasioni di incontro/scontro tra cristiani e musulmani, a partire dalle invasioni di questi ultimi nei Paesi europei dalla Spagna al sud della Francia e dell’Italia, con presenze anche di lunga durata e con forte impatto sulle comunità locali; seguiranno poi, nell’XI e XII sec., le ondate di crociate, lanciate per liberare i luoghi santi, ed è difficile dire quale sia in ognuna di queste vicende il tasso di scontro tra le due religioni, proba-bilmente minore da parte degli arabi in Europa, preoc-cupati di sviluppare i commerci e quindi attenti ad una convivenza relativamente pacifica nei territori invasi.

Da non dimenticare la lunga (1299-1922) esperienza dell’Impero Ottomano, la “Sublime Porta”, entrato in crisi dopo la Prima guerra Mondiale per approdare nel 1923 alla nuova Repubblica turca guidata da Ataturk, precedenti che contribuiscono a capire l’evoluzione attua-le della Turchia sotto la guida del neo-sultano Erdogan. Resta che, nel quadro di questi frequenti contatti, molto rilevanti furono gli scambi sia materiali che culturali, dalle scienze alla filosofia. Quest’ultima in particolare ha beneficiato di scambi intensi che contri-buiranno a far conoscere testi greci importanti (di Aristotele, soprattutto) e ad alimentare il dibattito nel XII e XIII sec. sui rapporti tra fede e ragione, grazie a grandi filosofi musulmani come Avicenna, persiano, e Averroé in Spagna e il filosofo ebreo Maimonide, a testimonianza di una comunità intellettuale intensa-mente impegnata in un dialogo, vitale per le rispettive religioni.

Società europea e islamica oggi

Per venire ai nostri giorni, una data di riferimento obbligato è il 1989, che segna in Europa, e non solo, una cesura con la storia politica precedente e provoca impatti significativi anche nei rapporti tra la società europea e quella islamica, che nella seconda metà del XX secolo si era andata installando anche nei Paesi europei, in particolare nell’epoca post-coloniale: in Francia (magrebini), Belgio (magrebini e turchi), Gran Bretagna (asiatici) e Germania (turchi). Per riassumere, nel periodo che prepara la caduta del Muro si assiste a un ritorno delle religioni sulla scena mondiale e al loro stesso mutamento in un contesto di nuove relazioni transnazionali, oggi fortemente segna-te da importanti flussi migratori, con le religioni spesso attive nei molti conflitti che stiamo vivendo. Si pensi alle vicende della Polonia tra il 1980 e il 1988 con il movimento di Solidarnosc, fortemente ispirato ai valori proposti dalla Chiesa Cattolica e da papa Wojtyla, o all’Iran, diventato nel 1979, con l’arrivo al potere di Khomeini, Repubblica islamica nella quale è sancita la subordinazione dello Stato all’autorità del clero sciita con al vertice la Guida religiosa nominata a vita dall’Assemblea degli esperti (86 teologi eletti dal popolo per 8 anni). In entrambi i casi, pur diversi tra loro e a cui oggi si potrebbe aggiungere in Europa la proposta dell’ “idea cristiano-nazionale” nell’Ungheria di Viktor Orban, la religione “tornava a essere una risorsa simbolica di mobilitazione collettiva, capace di rompere equilibri politici consolidati” (Enzo Pace, Atlante geopolitico Treccani 2012). Da non dimenticare nemmeno, fuori dalla nostra area di riferimento, il movimento neo-fondamentalista negli USA e la fioritura delle chiese evangeliche che hanno fortemente condizionato la politica americana (con Reagan e Bush jr): “Quando inizia il terzo millennio la

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Le immagini di questo n. del Granello appartengono tutte alla serie dei 7 Vizi Capitali (superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia), illustrati da Pieter Bruegel il Vecchio (1525/1530 – 1569). Si tratta di stampe, per le quali il celebre pittore olandese preparò solo i disegni, chiaramente influenzati da H. Bosch, di cui Bruegel aveva un'immensa ammirazione e una grande affinità intellettuale. Il committente fu H. Cock, lo stampatore più importante del secolo. In questi lavori Bruegel riflette sui vizi che affliggono l'umanità, attraverso la creazione di paesaggi fantastici pieni di creature mostruose, in parte ironiche, in parte intimidatorie. Al centro di ogni composizione spicca una figura femminile accompagnata da un animale emblematico del vizio. Così, la donna con il gallo è la lussuria, con l'asino è l'accidia, con il maiale è la gola, con l'orso è l'ira, con il cane è l'invidia, con il pavone è la superbia. Tutt'intorno un vortice di figure ad illustrare i variegati modi di esercitare i vizi: figure umane, vestite o ignude, con volti da maschera o da animale, con zampe o code animalesche, oppure senza arti o con la coda; animali veri o fantastici, con copricapi umani e code da vegetale, uccelli di ogni forma e pesci sulla terra o per aria, mostri di specie ibride; paesaggi fiabeschi, con fiumi, ponti, barche, mari; alberi spogli o ramificati in piumaggi; case e capanne, ma anche edifici di forme fantasiose, umane, floreali, vegetali o simili a damigiane, a vasi; strane macchine e aggeggi... Più si osservano queste stampe, più ci si incanta dei dettagli e più forse si colgono le allusioni del pittore al suo mondo politico, ecclesiale, sociale e la sua attrazione verso la base della piramide sociale, quella formata dai contadini, dai venditori ambulanti, dai miseri accattoni, dagli storpi, e persino dai lestofanti, dalle canaglie, dai giovani malviventi. Le riproduzioni sono tratte da wikipedia: in qualche caso se ne riporta l'intera immagine, più sovente qualche particolare. Qui di fianco, un autoritratto.

religione è ormai diventata una variabile da cui possono dipendere gli equilibri politici interni di una nazione così come le scelte in politica estera e nella definizione dei rapporti di forza fra Stati a livello mondiale” (ib.) La fine della guerra fredda aveva sollevato grandi speranze con la sua promessa dei “dividendi della pace”, ma è stata una speranza che è durata poco: “Lo scenario a livello geopolitico ha visto intensificarsi conflitti, a volte latenti e limitati territorialmente. Tali conflitti, fomentati spesso da ragioni di natura politica ed economica, hanno visto tuttavia un coinvolgimento diretto delle religioni” (ib.). Questo è apparso partico-larmente evidente nell’area mediorientale dove “il peso del fattore religioso nei conflitti interni a una nazione e il riflesso sullo scacchiere internazionale può essere misurato, per restare nel mondo musulmano, dalle differenze tra sunniti e sciiti” (ib.), che oggi esplodono tra i due principali attori dell’area, l’Arabia Saudita e l’Iran (si vedano le esecuzioni di sciiti a inizio 2016), senza dimenticare l’Iraq, la Siria, il Libano, lo Yemen; né è da trascurare quanto sta avvenendo in Turchia, dove è in corso un’involuzione autoritaria ispirata all’Islam. Non è stata immune da questi conflitti nemmeno l’Europa. Restano nella nostra memoria gli scontri tra cattolici e protestanti in Irlanda del nord (Ulster), che hanno trovato una composizione con l’accordo di

Belfast nel 1998, e la tragedia della ex-Jugoslavia dove “le élites politiche croate e serbe, imitate poi da quelle bosniache, riscoprirono le diversità religiose come marcatori di identità, esaltate perciò come incom-patibili fra loro” (ib.) e capaci di mobilitare alla lotta contro il nemico. Nel breve periodo che va dalla caduta del Muro di Berlino (1989) all’attentato alle Torri Gemelle di New York (2001), le politiche dell’identità hanno contri-buito a far risorgere gli etno-nazionalismi così come i nazionalismi religiosi, contribuendo direttamente o indirettamente alla costruzione di muri (ad esempio, tra gli altri, in Israele e Ungheria)

La nuova mappa religiosa del mondo

Sono inoltre forti le dinamiche di cambiamento che in questo mondo globalizzato coinvolgono le religioni: il baricentro del cristianesimo (che resta la religione con i fedeli più numerosi, circa il 33%, a fronte di circa il 23% di musulmani) sta scivolando progressivamente fuori dall’Europa verso l’Africa, l’Asia e l’America latina dove già vive circa il 70% dei cristiani, mentre si stima che nel 2025 saranno cristiani in Europa due abitanti su dieci (erano sette su dieci un secolo fa) e che cresceranno nel mondo le nuove chiese pente-costali e carismatiche che si stima contino oggi 600 milioni di fedeli. Cambiano quindi significativamente le mappe religiose

del mondo e non fa eccezione, anche se con caratteristiche particolari, il Vecchio Continente: “L’Europa è da tempo investita dal fenomeno, che la sta trasformando, dal punto di vista religioso, da società dominata o dal monopolio cattolico o dal duopolio confessionale cattolico e protestante in

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società religiosamente pluralista. Tale cambiamento pone nuove sfide al modello di Stati non confessionali, da quelli fondati sul principio della netta separazione fra chiese e Stato sino alle varie forme di coabitazione, cooperazione e compromesso tra le due istituzioni” (ib.). A fronte di queste dinamiche europee di individua-lizzazione e laicità da una parte e di società multicul-turale dall’altra, l’area mediorientale sembra caratte-rizzata da movimenti opposti, tendenti a rafforzare nazionalismi etnici in contrasto con diritti individuali e a discriminare culture e religioni prive di radici locali. Dinamiche che non impediscono di sperare che, nel caos che caratterizza il mondo di oggi, le religioni, compresa quella islamica, possano nel tempo evolvere verso la modernità. Né i cattolici possono dimenticare che ancora nel 1864 la modernità venne esorcizzata con il Sillabo di Pio IX e bisognerà aspettare la Rerum Novarum di Leone XIII nel 1891 per l’ingresso nella modernità sociale da parte della Chiesa cattolica. In un contesto come quello descritto, un sano realismo impone di valutare le prospettive di dialogo tra le due società, quella europea multiculturale e tendenzial-mente laica e quella islamica dove religione e politica si sovrappongono fino a confondersi, prescindendo dalle ali estreme delle due parti: quelle islamofobiche in Europa (si veda PEGIDA in Germania e movimenti populisti in Gran Bretagna, Olanda, Francia, con frange rumorose anche in Italia, senza dimenticare Israele) e quelle dei fondamentalisti islamici forte-mente presenti in Medioriente, con la punta estrema del terrorismo dell’ISIS. In entrambe queste ali si ragiona poco e si mescolano religione, etnie, nazionalismi con tutto il loro corteo di discriminazioni. Concentriamoci realisticamente sulle componenti democratiche europee e su quelle del cosiddetto “islam moderato”, da alcuni identificato con l’islam europeo o di alcune aree del Mediterraneo meridionale (Tunisia, Marocco ed Egitto, con molti distinguo).

Le prospettive di dialogo tra Europa e Islam

Tra questi soggetti il dialogo è avviato e si può sperare che si sviluppi, anche se in tempi medio-lunghi. Ma per-ché questo avvenga sono necessarie alcune condizioni. Tra queste, oltre la buona fede e il rispetto dell’altro come persona, il superamento dei rischi insiti nelle religioni monoteistiche, il rispetto in Europa della laicità dello Stato e nell’Unione Europea la necessità di politiche di accoglienza nel quadro di diritti fondamentali per tutti.

I rischi corsi dai monoteismi

Nello spazio euro-mediterraneo si confrontano tre religioni derivate da una radice comune - le religioni del Libro - e caratterizzate da un forte profilo monotei-sta, diversamente interpretato da ciascuna di esse e assente in altre grandi religioni. Si tratta di una conver-genza religiosa che non solo non genera naturalmente convergenze tra le comunità dei credenti, ma rischia di

essere occasione di conflitti difficilmente sanabili. La fede in un unico Dio da parte di ebraismo, cristia-nesimo e islam può indurre concezioni esasperata-mente assolute dell’unico “vero Dio” che ciascuno è tentato di considerare il proprio, ad esclusione di quello di altre credenze religiose. Questo finisce spes-so per trascinare con sé una concezione di “verità” altrettanto assoluta, considerata una “proprietà” piut-tosto che un “orizzonte”: una verità che si ritiene di avere, invece di una verità che si spera. Se il mio Dio è unico ed è il solo vero Dio, non c’è spazio per il Dio degli altri e lo stesso vale per la verità. Si è voluto vedere in questa visione di Dio e della verità l’origine dei fondamentalismi che si affrontano tra le tre religio-ni monoteiste, non sempre limitati alla sola fede religiosa. Di qui forme più o meno pronunciate di proselitismo e di spinte alla “conversione” anche vio-lenta, come è avvenuto spesso nella storia, tanto per il cristianesimo che per l’islam, con una sostanziale ecce-zione per l’ebraismo. Ne è derivato un forte rischio di trasferimento di questa concezione assoluta dalla sfera religiosa personale a quella della vita civile e di quella politica, giustificando violenze e guerre e rendendo difficile il dialogo anche in presenza di una pacifica convivenza quotidiana tra persone di diversa religione. E’ innegabile che delle tre religioni monoteiste, l’islam sia quella ancora oggi caratterizzata da una maggiore chiusura verso le altre due, la cui più lunga storia e le vicende anche drammatiche vissute hanno spinto a una maggiore disponibilità alla convivenza, almeno in ambito religioso. In particolare la cristianità europea, segnata dalle molteplici fratture conosciute al proprio interno fin dalle sue origini e poi esplose nel XVI sec., è stata spinta verso concezioni pluralistiche grazie anche alla cultura illuminista e ai processi di individualizzazione e secolarizzazione che hanno interessato l’intero mondo occidentale. Un esito di cui ha tenuto conto il Concilio Vaticano II nel suo impegno ad incontrare la modernità, diventato l’impegno quotidiano e insistente di papa Francesco sul versante pastorale.

La laicità dello Stato in Europa

I musulmani che si sono stabiliti, e si stabiliranno in Europa, devono fare i conti con forme differenziate di laicità dello Stato e dello spazio pubblico (giustizia, educazione…), da quest’ultimo organizzato e governato. Gli Stati europei, formazione recente nella storia pluri-millenaria dell’Europa (tra il XV e il XIX sec.), hanno segnato con il loro ingresso, e poi consolidato nel tem-po, una frattura tra politica e religione: in alcuni casi producendo una netta separazione tra Stato e Chiesa, in altri elaborando strumenti concordatari e simili per delimitare il campo di intervento del potere civile da quello religioso, lasciandosi alle spalle l’eredità delle guerre di religione e della regola del “cuius regio eius et religio”. Negli Stati europei la laicità ha anche significato una tutela più forte della libertà di religione, una condizione che è lontana dall’essere realizzata

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nello spazio-mediorientale, dove sfera religiosa e politica si sovrappongono, dando vita tra l’altro alla “sharia” e segnando una grande distanza di quei regimi politici dalle nostre forme di democrazia (si pensi in particolare a una teocrazia come quella iraniana). La conseguenza di questa concezione si traduce, nei Paesi a dominante islamica, in una limitazione, quando non in una soppressione, della libertà religiosa e, nei Paesi europei, in una difficile compatibilità tra le regole di vita degli autoctoni e quelle dei fedeli musulmani: si pensi all’esercizio comunitario islamico della giustizia ispirato alla “sharia” con la “vexata quaestio” del velo, con i matrimoni forzati, le mutilazioni sessuali e via seguitando.

L’Unione Europea e i diritti fondamentali

Un’ultima riflessione sull’atteggiamento adottato dal-l’Unione Europea nel suo insieme sul versante del dialogo con le realtà religiose, nella prospettiva di salvaguardare in Europa lo Stato di diritto e il suo profilo laico. Una prima indicazione è fornita dal Preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea adottata nel 2000, quando raccomanda l’impegno per “un futuro di pace fondato su valori comuni” da salvaguardare e sviluppare “nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa” e ricorda che “a tal fine è necessario rafforzare la tutela dei diritti fondamentali, alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici”. La Carta passa poi in rassegna i grandi capitoli dei diritti (dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia). In particolare nel capitolo “Libertà” si legge che “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale

diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individual-mente o collettivamente, in pubblico o in privato, median-te il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti” (art. 10). Principio ripreso all’art. 21, che vieta “qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione…” e all’art. 22: “L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica”. Ricchi di spunti per la nostra riflessione sono anche due passaggi del Trattato di Lisbona, in vigore a partire dal dicembre 2009. Nel Preambolo si ricordano in apertura “le eredità culturali, religiose e umaniste dell’Europa, a partire dalle quali si sono sviluppati i valori universali che costituiscono i diritti inviolabili e inalienabili della persona umana, quali la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo Stato di diritto”. E all’art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea si afferma che “l’Unione rispetta e non pregiu-dica lo statuto di cui beneficiano, in virtù del diritto nazionale, le chiese e le associazioni o comunità religio-se negli Stati membri… L’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con queste chiese e organizzazioni”. Si tratta di princìpi ispirati alla libertà religiosa ma nel rispetto dello Stato di diritto e della condivisione di valori universali, tra i quali la democrazia. Queste sono per l’UE le condizioni per il dialogo tra le culture che la abitano, con la speranza che si facciano strada anche nei Paesi terzi forme di reciprocità che rendano possibile un dialogo equilibrato, condizione per la pace nel mondo.

Franco Chittolina [email protected]

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Quando nel Mediterraneo i migranti eravamo noi La giornata mondiale del migrante celebrata il 17 gennaio scorso ha visto numerose istituzioni, fra cui il Vaticano attraverso la voce di Papa Francesco, interpellarci sul carattere planetario delle migrazioni e sulle cause - non soltanto sugli effetti - dell’enorme crescita di questo fenomeno a livello globale. Vorremmo aggiungere che non si tratta di un fenomeno né nuovo né recente, che esso supera le frontiere dello spazio ma pure quelle del tempo. Ce lo ricordano le vicende storiche del Mediterraneo, dove non è difficile incappare in storie di emigrati italiani (ed altri popoli europei come i greci, i maltesi, gli spagnoli, ecc.) molto simili a quelle che scorrono ormai quotidianamente sui nostri media, anche se diverse per il contesto storico, il numero e la direzione dei flussi, le condizioni in cui si svolgevano e venivano accolti questi migranti. Nelle nostre ricerche sulla stampa italiana in Tunisia (abbiamo reperito oltre 130 testate di giornali italiani in Tunisia e il primo giornale ivi stampato era in lingua italiana, esattamente il 21 marzo 1838; vedi M. Brondino, La stampa italiana in Tunisia, Milano 1998) ci siamo sovente imbattuti in storie di emigrazione

italiana come quella che viene qui riprodotta, per non dimenticarci che anche noi europei, in primis noi italiani, siamo stati dei migranti verso le terre del sud dove, all’inizio del secolo scorso in un contesto storico contrassegnato dalla colonizzazione europea, c’era a Tunisi una comunità italiana di oltre centomila persone, ad Alessandria d’Egitto un’altra con più di sessantamila e parecchie altre sparse lungo le sponde mediterranee. In quest’ottica appunto trascriviamo, qui appresso, il testo dell’articolo L’odissea di cinque operai siciliani in cerca di Pane e Libertà, apparso sul giornale trisettimanale “La Voce Nuova” del 5 luglio 1931, che si pubblicava a Tunisi, perché ci aiuta a capire meglio l’attuale magmatico trend migratorio che oggi inquieta tutti nel mondo globalizzato. Nelle vicende dei cinque migranti siciliani narrate in questo racconto sono espresse le luci e le ombre del sempiterno problema delle migrazioni che coinvolge coloro che migrano e coloro che accolgono, poiché per lo più il pane non va verso chi ha fame, ma viceversa. Perciò vale sempre la massima: conoscere il passato per capire il presente e preparare il futuro.

L’odissea di cinque operai siciliani in cerca di Pane e Libertà da LA VOCE NUOVA, Tunisi, 5 luglio 1931

E’ sera alta. Una luce diffusa di stelle sullo specchio del porto piccolo di Siracusa. Silenzio e afa estiva. Cinque uomini scendono giù sulla spiaggia bassa dove sonnecchia una barca. Ad uno ad uno vi montano su spiando furtiva-mente intorno. Nessuno. Il luogo è deserto. Tutto era stato diligentemente approntato per l’ora dell’ “eva-sione”. Una barca da pesca era stata acquistata da uno dei cinque, dal marinaio Politi col poco dena-ro che aveva potuto racimolare soldo a soldo. Il meccanico Burgio Giuseppe vi aveva applicato un motorino di sua proprietà di cinque cavalli. Vela, remi, benzina, pane, gallette, un barile d’acqua, qualche scatola di latte, una bottiglia di marsala erano tutte le cose che quella sera stessa, 18 giugno, vennero caricate a bordo a poco a poco assieme a qualche indumento personale che ciascuno aveva infagottato alla rinfusa. Politi era al comando della barca;

gli altri quattro compagni, Vella Natale, Miceli Luciano, Marcello Cicero e Burgio Giuseppe erano ai remi. Una sola volontà li domina-

va, un solo ardente desiderio li spingeva: fuggire. Niente motore per ora e niente vela. La barca si muove silenzio-

samente sotto lo sforzo iniziale dei vogatori trepidanti e prende il largo nell’ampio porto siracusano. Si raggiunge in breve la colorata lanterna della bocca; si rema an-cora per altre due miglia in mare aperto, poi si sciolgono le vele al buon vento di terra e Burgio, il meccanico, dà il via al motore. La barca fila verso la libertà e verso l’ignoto coi cinque fuggitivi.

CHI SONO?

Sono cinque uomini, cinque operai siciliani che fuggono nottetempo il suolo della patria come si fugge da una vigilata galera. Due di essi erano sotto una imminente con-danna di deportazione, gli altri tre segnalati dalla polizia come peri-colosi e irreducibili antifascisti. Da parecchi mesi essi avevano concertato la fuga e non avevano vissuto che di quel pensiero, di quella speranza. Sovraeccitati da un sogno di libertà, nessun perico-lo pareva ad essi grave per realizzarlo. E difatti, gettati su di

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un guscio in balia del grande mare, eccoli affrontare le incognite di un viaggio verso la terra di Tunisi dove essi contavano di approdare, decisi però a prosegui-re non importa verso quale altra costa straniera se l’approdo a Tunisi fosse loro impedito. Navigazione fortunosa. Già due incidenti si erano prodotti alla messa in moto del motore. Politi aveva avuto strappato un pezzo di carne del polpaccio da un ingranaggio del motore e Burgio era stato colpito alla coscia destra e al ginocchio da un ritorno della manovella. Cose da nulla, purché andasse. La navigazione non subì sosta per questo. La barca filava ora nella notte lungo la costa montuosa di capo Passaro. Ma ecco che ad un tratto il motore dà segni inquietanti d’ir-regolarità. Burgio osserva. Poca cosa: una semplice saldatura da fare. Si improvvisa allora un for-nello a benzina per riscaldare il saldatore. La saldatura è presto fatta. Ma l’imprevisto si produce terribile e improvviso. Un’inavver-tenza e una latta di benzina si rovescia e s’accende al contatto col fornello. La barca fiammeggia. Gli uomini non si perdono d’animo e soffocano il rogo incipiente con la tenda del battello.

IN BOCCA AL LUPO

Si riparte un poco sconfortati per un’avaria subita dalla bussola e per la rovina dei pochi effetti personali. Ci si affida alla sorte. Si viaggia tutta la notte su di una rotta di fortuna. Alle prime luci del giorno avvistano una terra. Cap Bon! Sospirano. Non potevano es-sere meglio assistiti dalla fortuna. V’è un dio per i fuggitivi. Cercano un approdo e filano a pochi metri dalla costa nuda e rocciosa. E’ mezzogiorno. Finalmente vedono profilarsi una casetta entro terra. Pensano di scendere colà e driz-zano la prora a quella parte. In quel mentre scorgono una barca a remi con due pescatori. L’abbor-dano per domandare in qual punto della costa si trovassero. A Lampe-dusa – risposero i due pescatori.

I cinque si scambiarono uno sguar-do di terrore. Per fortuna non un “mas”, non una vedetta intorno. Probabilmente era quello il tratto di quell’isola di deportazione me-no vigilato dalla polizia fascista. Spiegarono tutte le vele e diedero tutto il motore: la barca a sobbal-zo sulle onde si allontanò come una freccia dall’isola che per poco non rappresentò il termine pietoso dalla loro drammatica avventura.

A DISCREZIONE DEL MARE

Eccoli di nuovo in alto mare. L’isola paurosa è scomparsa all’orizzonte. Si naviga senza una giusta direzione, quasi a caso pel Mediterraneo. Passano quasi 48 ore. Intanto incominciavano a man-care i viveri, quel che era più gra-ve, incominciava a mancare la ben-zina. Già avevano provveduto ad aumentare la dotazione d’acqua aggiungendovi l’acqua … di mare. L’alba del giorno 24 li trovò in pieno Mediterraneo. Il tempo, che fino ad allora era stato abbastanza buono, cambiò improvvisamente. Un gran vento gonfiò il mare ed essi fecero appena in tempo di ammai-nare la vela e ridurre il motore. La navigazione diventa difficilissi-ma e pericolosa. Si combatte tutto il giorno con le onde. Al calare della notte, il temporale incalza. Si giudica prudente spegnere il motore e affidarsi alla discrezione del mare in attesa della bonaccia. Al mattino il vento cadde e il mare si placò. La navigazione poté essere ripresa.

SULLA COSTA TUNISINA

Finalmente a mezzogiorno del giorno ventisei i fuggiaschi esausti avvistarono la costa della Tunisia. Questa volta non ci furono sgra-dite sorprese. Alle ore diciotto approdarono a Sellakta. Non mangiavano e non bevevano da due giorni. Un arabo del luogo, Mohammed-men-Abdalla Bukris di cui i cinque serbano grata memo-ria, li accolse umanamente offren-do loro da bere e una zuppa per rifocillarsi. Ritornati alla barca e sicuri oramai di essere al riparo di ogni

sorpresa, i cinque compagni, stan-chi e affaticati, vi si riposarono passando tutta la notte a secco presso la spiaggia. Il mattino appresso, non avendo più benzina, e non essendovi vento per le vele per proseguire per Mekdia che l’arabo aveva loro indicato, due di essi decisero di raggiungere a piedi questa località mentre gli altri tre avrebbero proseguito a remi lentamente. Fortuna volle che i due incontra-rono due gendarmi francesi, i quali, saputo che si trattava di due profughi politici, li accolsero bene-volmente e inviarono una moto-barca incontro al battello dei fuggitivi per farlo rimorchiare fino a Mekdia. Da Mekdia gli agenti li tradussero in autobus al Commis-sariato di polizia di Susa dove ebbero l’onore di una visita di quel viceconsole fascista il quale li consigliò “fraternamente” di ritor-nare in Italia dove si sarebbero potuto giustificare dicendo di avere voluto fare una gita di piacere e di aver perso la via del ritorno. Attualmente questi cinque profughi si trovano a Tunisi in attesa di regolarizzare la loro situazione di fronte alle autorità francesi della Reggenza. Tre di essi sono operai specializzati: Burgio Giuseppe meccanico, Marcello Cicero verni-ciatore e costruttore di sedie, Miceli Luciano elettricista. Il Politi Giuseppe è marinaio navigante e Vella Natale barbiere.

QUALCHE NOTIZIA

Abbiamo fedelmente riprodotto il racconto che i cinque operai ci hanno fatto della loro rischiosa impresa e come noi, così tutti i lettori si indugeranno pensare sul-le cause che hanno spinto questi uomini ad abbandonare clande-stinamente e in circostanze dram-matiche il suolo della patria. Questi uomini ci offrono con la loro fuga dall’Italia una prova di più di quelle che sono le condizioni attuali del popolo italiano sotto il regime fascista. Come loro sono migliaia quelli che vorrebbero lasciare l’Italia dove ormai non si

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vive più non si respira più. La situazione della media è particolarmente spaventosa dal punto di vista politico che morale ed economico. La narrazione che i cinque profughi descrivono è un quadro di una tristezza desolante. Il lavoro è divenuto un mito. Quel che c’è di vero e reale è l’oppressione politi-ca ed il peso schiacciante della miseria e della fame. … E’ una catena di rovine che trovano nelle implacabili necessità

della vita le più impensate risorse. Le cause economiche si riducono anch’esse ad una lustra. E sono un mezzo di illeciti guadagni per gli organizzatori. Esse danno una cucchiaiata di zuppa e un pezzo di pane ma neppure tutti i giorni e soltanto dopo reiterate domande e raccomandazioni. Tutto è immobile. Tutto è come cristallizzato. A Siracusa si vedono intere famiglie aggirarsi sulle ban-chine del porto sperando qualche soccorso dai piroscafi che attrac-

cano e dai quali spesso ottengono i residui della cucina. I contadini che abitano nelle campagne non guadagnano più di quattro lire al giorno lavorando dall’alba al tramonto. Quelli della città sono pagati con una decina di lire. … Si vive senza domani in una incertezza che ha del tragico. Ed in questa atmosfera triste e soffo-cante l’ombra della polizia che non dà tregua e le smanie dei fanatici che riempono i muri di scritti guerrieri.

Oggi invero il fenomeno delle migrazioni nella regione euro-mediterranea ha raggiunto misure bibliche, come quotidianamente ci ricordano i mass media: abbiamo raggiunto circa un milione di profughi con già oltre tremilasettecento morti alla fine del 2015; per cui il Mare Nostrum sta drammaticamente diventando un “cimitero liquido”, a detta di molti osservatori. Inoltre in questo mare, il fenomeno migratorio, ingigantitosi in misura inattesa in queste ultime decine d’anni, soprattutto dopo la decolonizzazione degli anni cinquanta e sessanta, ha preso direzioni del tutto opposte. Il flusso migratorio che prima andava da Nord a Sud si è completamente invertito: dalle sponde sud-est del mondo arabo-musulmano - dal Marocco al Medio Oriente - le folle dei migranti vanno verso Nord, cioè verso l’Europa che si presenta come la terra della speranza e della libertà. Ma questa Europa, ricettacolo dei valori universali, esempio di sviluppo e democrazie nonostante tutto, fa fatica a risolvere il problema dell’accoglienza. I paesi dell’UE che hanno conosciuto i peggiori totalitarismi, la follia dello sterminio e i drammi della segregazione, che sono riusciti dopo due guerre mondiali micidiali ad unirsi per non dimenticare e costruire un mondo civile e responsabile, si dibattono oggi tra coloro che erigono muri contro l’immigrazione e quelli che accolgono positivamente queste masse di profughi, memori dei valori della loro civiltà improntata al rispetto dei diritti umani. Nell’articolo qui riportato, attiriamo l’attenzione del lettore su alcuni particolari del racconto fatti dal cronista di allora e che rimangono delle costanti del fenomeno migratorio: le cause della partenza dei profughi “che fuggono nottetempo il suolo della patria

come si fugge da una vigilata galera”, e l’aiuto dato dall’arabo tunisino ai cinque siciliani nonché l’atten-zione delle istituzioni nei loro confronti: “un arabo del luogo … li accolse umanamente offrendo loro da bere e una zuppa per rifocillarsi ... i gendarmi francesi li accolsero benevolmente …”. Riprendendo le parole di Papa Francesco in occasione della giornata mondiale del migrante, occorre sottolineare che se la solidarietà, ieri come oggi, rimane una via di salvezza, è da inten-dersi non soltanto come comportamento individuale ma come volontà di capire e risolvere il fenomeno delle migrazioni quale realtà strutturale del mondo globale, cioè come “superamento della fase di emer-genza per dare spazio a programmi che tengano conto delle cause delle migrazioni, dei cambiamenti che si producono e delle conseguenze che imprimono volti nuovi alle società e ai popoli. … Così si conferma che la solidarietà, la cooperazione, l’interdipendenza inter-nazionale e l’equa distribuzione dei beni della terra sono elementi fondamentali per operare in profondità nelle aree di partenza dei flussi migratori, affinché cessino quegli scompensi che inducono le persone ad abbandonare il proprio ambiente naturale e culturale”. Ieri come oggi la storia degli uomini c’insegna che l’Altro, lo straniero, il diverso fa parte della nostra umanità, come ci ricorda il sociologo F. Cassano quando afferma che “Il nostro noi è solo uno dei tanti noi esistenti” (Un ‘pensiero mediterraneo’ che ama le differenze, www.resetdoc.org/story). Non ci stanchiamo quindi di ripetere, insieme al grande storico di questo mare, F. Braudel, che “la Méditerranée est telle que la font les hommes”.

Michele Brondino e Yvonne Fracassetti

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cercatori/viaggiatori

Il coraggioso viaggio di Microba

«Era una notte di mezza estate. Una notte buia e tempestosa. Una notte che io, la mia mamma e il mio papà ricorderemo per sempre... dopo 10 ore estenuanti di travaglio, sono arrivata: tutta tumefatta a causa di un gomito davanti al viso, un cordone ombelicale cortissimo e un bel colorito bluastro». Il viaggio di Nina comincia così: l’11 luglio del 2011, una bimba con gli occhi nepalesi sbarca sulla terra, custode di un misterioso rebus genetico. Nina è infatti affetta da una sindrome poliformativa, attualmente sconosciuta, che comprende una lunga cartella clinica, ma che per fortuna non riguarda la sfera cognitiva. Nina, in poche parole, è un caso unico al mondo. Sua mamma Isabella, appresa la spiazzante notizia, decide di prendere di petto tutta la sua angoscia, anzi, decide di darle voce e di gridarla al mondo attraverso un blog. www.inviaggioconnina.blogspot.it doveva essere un modo per tenere aggiornati una ristretta cerchia di familiari sulle condizioni della bimba, ma a poco a poco è diventato il diario 2.0 della vita di Microba (così i genitori chiamano affettuosamente Nina). Il complicato “viaggio di Nina” è un blog seguitissimo e amato da ben 20.000 lettori, che trovano in questo racconto un confronto, e a volte anche un conforto. «A scrivermi sono tante donne con figli “fuori standard”, down, autistici, o bambini alimentati artificialmente» racconta Isabella Moreschi, «qualcuna mi confessa che aveva vergogna a uscire di casa, ma che leggendo la nostra storia, ha preso coraggio. Capisco che Nina è un ariete, spalanca le porte, libera la disabilità dal grigiore, e lo fa attraverso il web». In un’epoca in cui le dinamiche da reality ci hanno abituati ad una spettacolarizzazione continua del dolore, scegliere di sovraesporre mediaticamente la propria bimba malata risponde ad una esigenza ben precisa «parlare di Nina, fotografarla nei momenti più intimi, per esempio mentre fa terapia, o legge una fiaba prima di addormentarsi, significa abituare le persone alla sua diversità, aiutarla a integrarsi. In questo senso siamo molto grati al web e ai social. Non è una fuga dalla realtà, al contrario. Non perdiamo occasione per farle vivere nel quotidiano l’incontro con gli altri» racconta la mamma in un’intervista. L’ingrediente fondamentale di questa storia, il segreto della carica positiva e contagiosa del “viaggio di Nina”, è il taglio ironico del blog che sua mamma scrive per lei. Isabella scalza ogni luogo comune sulla malattia e sulla disabilità: il quotidiano

della famiglia e la vita della piccola Microba (che oggi ha quasi 5 anni) sono raccontati con onestà e con presenza di spirito. Non c’è mai alcuna auto commise-razione in quello che scrive Isabella, e probabilmente l’assenza di pietismo, i sorrisi, e il mondo coloratissimo (reale e virtuale) costruito intorno a questa bimba, hanno fatto in modo che Microba diventasse l’eroina di un piccolo universo, comunque luminoso. Fuori dalla fine-stra, tutti quelli che seguono le sue avventure attraverso il blog, fanno il tifo per lei, per le sue piccole e grandi conquiste (e tanti, anzi tantissimi, si danno da fare concretamente, e la aiutano a crescere con donazioni, e azioni concrete – i famosi “bavaglini”). L’inaspettata popolarità di Microba è diventata nel tempo anche l’occasione preziosa per una serie di progetti importanti. Su Facebook, per esempio, è nata la “banda del tubo”, un gruppo di aiuto per genitori che hanno figli alimentati in modo artificiale. Isabella, poi, sta lavorando a una task force di volontari per stilare una sorta di vademecum per mamme e papà di cuccioli fuori standard. Basandosi sulla sua personale esperienza Isabella sa che chi ha un figlio come Microba si trova completamente spiazzato e troppe volte completamente solo. «Non c’è alcun tipo di orientamento o di aiuto!». Racconta «per esempio, solo dopo anni ho scoperto di avere diritto ai pannolini gratis e allo sconto sulla bolletta elettrica per via del fatto che Nina è alimentata artificialmente. Sono troppe le cose di cui sono venuta a conoscenza per caso, magari navigando in internet. Non sarebbe meglio un prontuario?». Infine Isabella vorreb-be con altre mamme un’interrogazione parlamentare sul vuoto legislativo del sistema scolastico riguardo ai bambini alimentati artificialmente. Quella del pranzo a scuola è stata una battaglia molto dura, perché solo con grandi insistenze Isabella e il marito hanno ottenuto che una volontaria dell’Asl andasse a scuola per accendere il macchinario di Microba per il pasto. È una battaglia vinta parzialmente, perché purtroppo non tutti i bambini con le stesse problematiche di Nina possono godere della stessa opportunità. Di solito qui vi parlo di storie scritte sui libri... questa sto-ria, invece è scritta su un blog, ma io credo che il coraggio di Isabella, la tenacia della sua famiglia, gli occhietti dolci di Microba, e il cuore grande della rete meritino, per una volta, la stessa attenzione della carta stampata...

Beatrice Di Tullio [email protected]

Potete seguire Microba su www.inviaggioconnina.blogspot.it e sulla sua pagina Facebook: https://www.facebook.com/In-viaggio-con-Nina-261733680548355/

E’ inoltre disponibile una bella video intervista a Isabella Moreschi, fatta l’11 febbraio 2015 durante il programma di Tv2000 “Siamo Noi” in occasione della Giornata Mondiale del Malato, all’indirizzo:

http://www.tv2000.it/siamonoi/video/isabella-moreschi-mamma-di-nina-bimba-affetta-da-malattia-rara/

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Appunti sulla vita ed il pensiero di

Mohandas Karamchand Gandhi (I) (1869-1948)

Una biografia spirituale

Gandhi: un “fachiro seminudo” secondo la sprezzante definizione di Winston Churchill, oppure, secondo Einstein, un uomo che “le generazioni venture stente-ranno a credere sia mai esistito sulla faccia della terra”? A Churchill non poteva evidentemente piacere il protagonista della lotta contro l’Impero britannico, mentre Einstein vedeva in lui l’incarnazione del suo ideale di religione tollerante e non dogmatica. Pochi oggi sarebbero disposti a sottoscrivere il giudizio sprezzante di Churchill, anche perché l’impero inglese è ormai morto e sepolto. Ma forse oggi è il caso di stare in guardia anche contro il pericolo dell’agio-grafia che tende a trasformare gli uomini (in particolare i cosiddetti “grandi uomini”) in modelli ideali, superiori ad ogni debolezza (in fondo il bisogno adolescenziale di modelli sicuri, di punti di riferimento inattaccabili, che può rivolgersi quasi indifferente-mente a Gandhi o a Elvis Presley). Nelle pagine di questa serie di studi biografici abbiamo ripetuto più volte come a nostro parere le “grandi esperienze spirituali” non siano qualcosa di lontano dall’uomo comune, nella misura in cui questi cerca di vivere consapevolmente, senza cioè nascondere la testa in sabbie terrene o ultraterrene. Tuttavia, esistono sicu-ramente vite che si prestano, per profondità e vigore creativo, oltre che per le sfide che hanno fronteggiato, a mettere in rilievo i vari aspetti del cammino spirituale, le sue trappole e le sue lotte contro la paura, l’incertezza, la pigrizia e gli attaccamenti; e Gandhi è sicuramente una di queste. Il discorso su Gandhi si può affrontare in vari modi. L’approccio più ovvio – praticato dalla maggior parte degli storici puri – è quello che lo vede come il maggiore protagonista della lotta per l’indipendenza dell’India. Tuttavia, lo swaraj (libertà, autogoverno), se inteso come pura indipendenza politica, non era per lui lo scopo supremo, se non era accompagnato da una capacità di autogoverno dei cittadini. E satyagraha (alla lettera “forza della verità”: l’espres-sione preferita da Gandhi per designare la nonvio-lenza) non era solo il mezzo migliore per raggiungere l’indipendenza (come invece per molti suoi compagni di strada, anche per i migliori come Nehru) ma faceva parte integrante di quell’obiettivo. Questo ci pare il fondamentale titolo di merito di Gandhi, che lo colloca

a piena ragione nella nostra galleria di grandi espe-rienze spirituali: quello di avere non tanto o solo definito e formulato teoricamente, ma di avere incar-nato praticamente quel principio della nonviolenza attiva, che a molti è parsa una luce nelle tenebre di un secolo breve e per molti versi “maledetto”, caratte-rizzato da violenze e distruzioni mai viste in passato. Gli scritti di Giorgio Borsa (in particolare la sua biografia di Gandhi, pubblicata negli anni Quaranta e rivista nel 1983) e di Giuliano Pontara (ancor oggi utilissima la sua antologia gandhiana, Teoria e pratica della non violenza, Einaudi 1973, ripubblicata in seguito) hanno segnato il mio primo accostamento a Gandhi. Pontara, nella sua sostanziosa introduzione all’antologia citata, compie uno sforzo veramente eroico per dare rigore concettuale ad un pensiero in movimento, consegnato a centinaia di articoli d’occa-sione piuttosto che a testi teorici, e tuttavia dotato di una impressionante “coerenza vitale”; e distrugge alcuni degli equivoci più diffusi sulla nonviolenza, come quello che la associa alla passività e alla mancanza di coraggio, quando la verità per Gandhi è esattamente l’opposto (celebre la sua distinzione tra la “nonviolenza del forte”, la “nonviolenza del debo-le” e la “nonviolenza del codardo”). Borsa vede Gandhi anzitutto come un “eroe religioso”, e pensa che, con tutti i suoi errori e sconfitte, egli abbia contribuito alla causa dell’indipendenza soprattutto con il suo carisma etico-religioso piuttosto che con le sue indubbie capacità politiche e organizzative. Il mio amico Enrico Peyretti mi ha aiutato a conoscere Gandhi con numerosi scritti sui temi della pace, e in particolare con il saggio Esperimenti con la verità. Saggezza e politica in Gandhi (Pazzini 2005). Johann Galtung, che ho avuto la fortuna di ascoltare molti anni fa alla Scuola di Pace di Boves, mi ha introdotto al mondo dei Peace Studies, facendomi capire – sulle orme di Gandhi - come la ricerca della pace non coinvolga solo il cuore, ma richieda la più alta appli-cazione dell’intelligenza. Sintetizzando a mio modo il succo di questi autori, mi sentirei di affermare che quello di Gandhi è stato uno dei più importanti tenta-tivi moderni di rispondere alla domanda sul senso complessivo del vivere umano, mettendo in comuni-cazione tra loro etica, politica, economia e religione; quattro elementi che nella nostra modernità spesso non si parlano.

Grandi esperienze spirituali (6)

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La nonviolenza gandhiana non è e non vuole essere un sistema, ma una pratica in continua evoluzione (non per nulla “storia dei miei esperimenti con la verità” è il titolo dato da Gandhi alla propria Autobiografia, pubblicata in traduzione italiana dalla Newton Compton nel 1973), anche se guidata da alcuni punti di riferimento ideali. Ciò che più colpisce in lui non è l’originalità del pensiero teorico (egli ha sempre sostenuto che le sue verità erano “antiche come le montagne”), ma la straordinaria capacità di tradurre la teoria in una pratica inventiva, creativa, capace di rinnovarsi continuamente. Soprattutto, egli ha esteso la teoria e la prassi della nonviolenza dall’ambito privato (coltivato da sempre dalle grandi religioni, almeno a parole) a quello pubblico e politico; il suo dono è stato non tanto quello della ricerca della verità in senso puramente speculativo, quanto piuttosto quello di “fare verità”, vale a dire di portare un elemento di verità spesso dirompente nel regno della simulazione e del “doppio pensiero” qual è spesso l’arena politica. Non siamo del tutto nuovi a questi argomenti: nei numeri 162,163 e 164 del “Granello” (2014-2015) abbiamo parlato di Lanza del Vasto, che di Gandhi è stato forse il più coerente seguace in Occidente. Abbiamo seguito i principali momenti dell’incontro di Lanza con il mondo indiano (siamo nel 1936-37), il suo confronto con la millenaria sapienza dell’India, il suo lungo viaggio a piedi attraverso l’India fino all’incontro con Gandhi nell’ashram di Wardha, i suoi colloqui con lui e la sua “missione” in Occidente. Abbiamo già anche parlato, sia pur brevemente, delle idee dominanti di Gandhi, in particolare di quelle che riguardano il progresso tecnologico, sulle quali

torneremo brevemente, mentre qui ci concentreremo soprattutto sulla linea centrale dell’evoluzione della teoria e della prassi della nonviolenza (seguendo una tradizione iniziata dal filosofo gandhiano Capitini, preferiamo scrivere il termine senza trattino, per sotto-linearne il significato positivo). Qualche indicazione bibliografica sarà fornita volta per volta, mentre per una prima conoscenza delle tappe principali della biografia gandhiana è utilissimo il film di Richard Attenborough del 1986 (disponibile gratuitamente su Internet) che, pur obbedendo ad esigenze cinemato-grafiche di condensazione e di spettacolarizzazione, fornisce un’idea sostanzialmente corretta ed intuitiva-mente accessibile dell’impegno del Nostro. Ad alcuni episodi di tale film faremo riferimento più volte nelle pagine che seguono. Per capire Gandhi: qualche premessa sulla storia dell’India In primo luogo, lo stereotipo occidentale dell’India come paese votato alla spiritualità e al misticismo, in contrapposizione a un Occidente pragmatico e materialista, può facilmente portarci fuori strada, facendoci ad esempio vedere Gandhi quasi come un “prodotto naturale” del suolo indiano. Due errori in uno: da un lato, molti elementi della formazione di Gandhi sono occidentali; dall’altro, il suolo indiano, come vedremo, ha prodotto e continua a produrre movimenti politico-religiosi estremamente violenti. Inoltre, la cultura indiana ha un’altra faccia, meno nota ma non meno significativa, dialogica e dialettica, razionalistica e scettica, come ci ricorda un libro pieno d’intelligenza e di cultura del premio Nobel per l’economia Amartya Sen: L’altra India. La tradizione razionalistica e scettica alle radici della cultura indiana (Mondadori 2005). Nel secondo articolo su Lanza del Vasto (n. 163 del “Granello”) abbiamo cercato di fornire alcune informazioni di base sulla civiltà indiana e in particolare sulla religione induista: non molto di più di quanto si può trovare in una buona enciclopedia, e tuttavia cose che, se ignorate o non assimilate, rendono difficile capire anche il contesto dell’azione di Gandhi. Non potendo riprenderle, rimandiamo i più volonterosi a quel testo. Qui, chiedendo venia per le inevitabili semplificazioni, ci limitiamo ad aggiungere un brevissimo excursus sulle principali scansioni della millenaria storia del subcontinente indiano, sempre nell’intento di chiarire il contesto nel quale, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, si muove il pensiero e l’azione di Gandhi. Dopo l’antica, evoluta civiltà della valle dell’Indo nel terzo millennio a.C., l’invasione degli Arii del secondo millennio a. C. dà luogo a una civiltà guerriera, basata su sacrifici cruenti, della quale sono espressione i più antichi scritti sacri indiani (Rgveda). Il quinto secolo a.C. segna una drammatica discontinuità: due religioni monastiche, ascetiche e contemplative, fautrici del-

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l’ahimsa o nonviolenza, il Jainismo e il Buddhismo, ottengono per alcuni secoli (specie il Buddhismo) una specie di egemonia culturale ed anche politica, finché alla lunga l’induismo (non più la religione vedica) emerge come religione dominante, sempre legata ai Veda come libri sacri, ma radicalmente reinterpretati in chiave filosofica e devozionale, frutto anche del-l’assimilazione di importanti elementi dei “rinun-cianti” (in primo luogo l’ahimsa). Sotto il profilo della storia civile, l’India profonda sembra per millenni relativamente indifferente al succedersi di varie dominazioni di origine esterna o interna. Essa poggia su due colonne: il villaggio come comunità quasi autosufficiente e largamente autonoma (su questo punto la comunità di villaggio è forse un po’ idealizzata da Gandhi), e la casta, fondamento dell’identità personale e di gruppo, che regola la vocazione o dharma di ciascuno nel quadro generale di una società sostanzialmente immobile. Le caste principali o varna contemplate dai sacri testi sono quattro, in ordine di “purezza” (più i fuori casta o intoccabili); ma quello che più conta per la vita dei singoli è lo Jati o sottocasta: corporazione chiusa, che si regola sulla base dell’endogamia (è questa la ragione principale dei matrimoni precoci, come sarà appunto quello di Gandhi). Un altro elemento centrale dei rapporti di casta è la commensalità: importanza del cibo (chi può riceverlo e chi può darlo). Grande la difficoltà di superare il sistema castale perché esso è legato a tre articoli di fede indiscussi dell’induismo: il samsara (la ruota delle reincarnazioni), il karman, e la priorità degli obblighi di stato (su questo, si veda il citato articolo del “Granello”; vedremo che la radicale reinterpretazione delle caste da parte di Gandhi è uno dei punti più centrali ma anche più discussi del suo pensiero). Un’altra scansione epocale della storia indiana è il XVI secolo, che vede l’ascesa dell’impero Mogul (musulmano, ma in un primo periodo ampiamente tollerante) e l’inizio della penetrazione europea (prima portoghese, poi olandese) che tuttavia si limita ad alcune concessioni commerciali sulla costa. Sarà solo dopo la metà del Settecento che, con la decadenza dei Mogul, la Gran Bretagna metterà le mani sul subconti-nente indiano, iniziando un dominio bisecolare che cambierà radicalmente il destino dell’India. Il segreto della lunga dominazione britannica è stato probabil-mente anzitutto la frammentazione del subcontinente (si pensi solo alla presenza di più di duecento lingue anche diversissime tra di loro), che permetteva agli inglesi di giocare musulmani contro induisti, bengalesi contro punjabi, i numerosi staterelli principeschi formalmente indipendenti l’uno contro l’altro. A dire il vero il protagonista fino al 1858 non è direttamente il governo inglese, ma la Compagnia delle Indie, una società privata (ma con solidi appoggi politici in patria) che riesce a impadronirsi del potere economico facendo ampi profitti e orientando l’economia indiana nel senso di una crescente

dipendenza nei confronti della Gran Bretagna (quindi anche sconvolgendo in profondità i rapporti sociali). Fino all’inizio dell’Ottocento la Compagnia delle Indie agisce da potenza sovrana badando esclusivamente ai propri interessi, ma stando molto attenta a non toccare tradizioni e istituzioni, soprattutto religiose (ad esempio, non permetteva ai missionari britannici di stabilirsi in India). Con l’India Act del 1813, invece, il parlamento britannico affermava la sovranità della Corona sui territori controllati dalla Compagnia e riconosceva l’impegno morale di promuovere il benessere e il progresso civile del popolo indiano. Da un lato concedeva alle missioni di stabilirsi in India, dall’altro imponeva alla Compagnia di stanziare una somma per promuovere l’istruzione degli indigeni, e successivamente di emanare norme giuridiche nei territori da lei controllati, sancendo il principio della parità di diritti tra inglesi e indigeni. Un interventismo culturale e religioso, dietro il quale scorgiamo l’influsso di missionari cristiani e di riformisti laici. Come si può - chiedeva il Macaulay, il più autorevole rappresentante di questi ultimi - diffondere a pubbliche spese “una medicina indegna di un maniscalco, un’astronomia che avrebbe fatto ridere una scolaretta inglese, una storia piena di re alti trenta piedi e di regni vecchi di trentamila anni e una geografia a base di mari di latte e di burro?”. Questo “dispotismo illuminato” voleva formare rapidamente una classe colta occidentalizzata, attraverso la quale la cultura occidentale sarebbe filtrata sulle classi inferiori. Se poi insieme alla cultura arrivavano anche i prodotti occidentali (la Gran Bretagna era nel pieno della prima rivoluzione industriale) tanto meglio. Con la “Grande Rivolta” indiana del 1857 gli inglesi si resero però conto che l’occidentalizzazione era rimasta confinata in una ristretta élite lontana dalle masse e capirono che occorreva muoversi con maggiore prudenza abbandonando l’idea di una rapida occidentalizzazione (intanto però un crescente numero di indiani entrava nella macchina amministrativa e militare britannica, si moltiplicavano i giornali in inglese). Inoltre, nella seconda metà del secolo procede il rinnovamento religioso; continua l’opposizione tra filooccidentali e tradizionalisti, ma vi sono anche interessanti movimenti di rinnovamento autonomo dell’induismo, come quello di Ramakrishna, un tipico mistico indù dotato di straordinario fascino personale e di grande apertura verso tutte le religioni; il suo allievo prediletto, Vivekananda, elaborerà la dottrina Vedanta-advaita del maestro, proponendola con grande eloquenza anche in Occidente. La società teosofica della Blavatsky e poi della Besant (della quale abbiamo parlato in precedenti numeri del “Granello”a proposito di Krishnamurti), per quanto legata a un occultismo di marca occidentale, ha avuto una certa importanza (e anche un importante influsso su Gandhi) nel difendere in Occidente la validità della civiltà indiana e della sua religione (sostenendo anche attivamente la causa dell’indipendenza).

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Con la fine della “Grande Rivolta” il dominio dell’India passa nel 1858 dalla Compagnia delle Indie alla Corona. Un proclama della regina Vittoria, emanato in quella occasione, dichiara di assumere verso i suoi sudditi indiani “le stesse obbligazioni che ci legano a tutti gli altri nostri sudditi”. La frase fu interpretata da molti come un impegno ad estendere all’India le istituzioni rappresentative e le libertà politiche della costituzione inglese. E il Congresso (un organo rappresentativo con funzioni consultive), che si riunisce a partire dal 1885, ha una maggioranza moderata che intende perseguire riforme sociali e politiche senza rompere il legame con la Corona britannica, alla quale si riconosce il merito di avere modernizzato il paese. In effetti, qualche risultato viene ottenuto, si moltiplicano organi rappresentativi locali, ma nel 1904-5 un atto d’imperio del viceré lord Curzon delegittima i moderati di fronte all’opinione pubblica. I radicali escono dal Congresso, si scatena un’ondata di attentati e violenze; seguono dei viceré più concilianti e i moderati riprendono fiato (per quanto in concreto le concessioni ottenute siano piuttosto magre); allo scoppio della prima guerra mondiale essi sono nuovamente padroni del Congresso, e neppure gli estremisti osano boicottare lo sforzo bellico britannico. Ma alla fine della guerra la situazione si ribalta ancora: l’obiettivo del Congresso, nel quale sono rientrati gli estremisti, diventa la piena indipendenza dell’India. E’ la fine di un equivoco: gli amministratori britannici, per quanto illuminati, non potevano in ultima analisi evitare di piegarsi di fronte alla suprema ratio dell’interesse britannico. Gli anni del primo dopoguerra sono anni cruciali anche per Gandhi, il quale si convince dell’impossibilità di continuare la propria lotta nel quadro dell’impero, come aveva pensato durante la lunga permanenza in Sudafrica. Un ricercatore della verità per prove ed errori: formazione di Gandhi in India

Mohandas Karamchand Gandhi nasce nel 1869 nel Gujarat (nel nord ovest dell’India) in una rispettabile famiglia induista influenzata dal Jainismo: una religione, quest’ultima, portatrice di una morale molto austera e aliena da qualsiasi violenza su ogni vivente (ahimsa). Il Gandhi bambino e adolescente non fa presagire le doti straordinarie che dimostrerà in seguito; sembra piuttosto muoversi ( modalità da lui rivendicata anche in seguito) per tentativi, per prove ed errori. Servire la verità gli appare fin dalla prima giovinezza come l’ideale più bello, ma è proprio la passione per la verità che lo porta - come capita a molti – ad episodi di ribellione adolescenziale: propende per l’ateismo, mangia carne e fuma per “passione di rifor-ma” rispetto a quella che percepisce come l’arretra-tezza indiana. Matrimonio a 13 anni: un costume tradizionale imposto dall’appartenenza familiare e castale, che Gandhi non smetterà di contestare. Fedele

alla moglie sua coetanea, ma molto geloso (certamente non dev’essere stato facile essere la moglie di Gan-dhi!), continuerà per anni a sentirsi conteso tra sensua-lità e aspirazioni ascetiche, tra cura della famiglia e crescita personale, fino a quando nel 1906, in Sudafrica, si legherà insieme alla moglie al voto di castità (brahamacarya). I testi della tradizione induista - cui pure la famiglia d’origine, in spirito aperto e tollerante, fa riferimento - gli dicono poco, viene respinto dalle minuziose regole del culto e del compor-tamento contenute nel codice di Manu, summa del-l’ortodossia brahmanica. La cosa che più lo offende fin da bambino è il dogma dell’intoccabilità, che non perde occasione per contestare, nonostante i divieti della madre. “Cos’è la religione? Egli scriverà qualche anno più tardi (…) Non è ciò che uno può apprendere dalla lettura di tutte le scritture sacre del mondo intiero; né può essere una conquista dell’intelligenza, bensì del cuore. Non è qualcosa fuori di noi, ma un qualcosa che deve crescere e svilupparsi in noi, poiché è in tutti noi, anche se talvolta non ci se ne accorge” (in Borsa, p. 27). Uno strano gentleman, un singolare avvocato: Gandhi a Londra (1888-91) e in Sudafrica (1893-1914)

E’ questa, a Londra e poi in Sudafrica, la fase vera-mente formativa della sua vita, quella nella quale non solo avviene il suo incontro con la cultura occidentale, ma anche il suo recupero delle radici indiane, prima poco conosciute o disprezzate. Per questa parte, prendiamo spunto dal volume di Piercesare Bori e Gianni Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni (Il Mulino, 1985). Le citazioni virgolettate delle prossime pagine si riferiscono a quest’opera. Con il 1888 un Gandhi appena diciannovenne inizia, con tre anni di studi di legge a Londra, un lungo periodo (ventisei anni in tutto) nei quali egli risiederà quasi sempre fuori dall’India, salvo brevi periodi. Per andarsene ha dovuto affrontare un duro scontro con i notabili della sua sottocasta, che alla fine lo hanno formalmente “scomunicato”. La metropoli inglese accoglie senza scomporsi troppo questo strano gentleman, quale almeno Gandhi all’inizio aspira a diventare, anche nel vestire e nelle abitudini (ma presto smetterà di scimmiottare gli inglesi). Un giovanissimo aspirante avvocato ben disposto ad integrarsi, il quale tuttavia aveva lasciato in India la moglie e il primo figlio, e prima di partire aveva promesso solennemente alla madre di astenersi da carne, donne ed alcool (in sostanza, di non cedere alle seduzioni dell’Occidente, di rimanere un buon indù, nonostante Londra). Si può immaginare che l’integrazione non sarebbe stata tanto facile, anche per la timidezza e goffaggine del soggetto, e che Gandhi a Londra abbia attraversato una vera crisi d’identità. Eppure, come si è accennato, è proprio attraverso Londra e la cultura occidentale che Gandhi mentre studia diritto recupera le proprie radici, scopre

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l’orgoglio di essere indiano, e comincia ad approfon-dire con letture specifiche la tradizione religiosa indiana sulla quale ha vergogna di confessarsi igno-rante (due fratelli teosofi gli propongono di leggere insieme la Bhagavad Gita - uno dei testi più influenti della letteratura religiosa mondiale - in italiano Il canto del glorioso signore, ed. San Paolo 1994 - che egli stesso non aveva mai letto, e che diventerà uno dei suoi testi di riferimento). I suoi contatti più signifi-cativi non sono con la cultura mainstream i cui protagonisti verso la fine del secolo sono Darwin, Spencer, Huxley, ma con la galassia della variegata controcultura che prospera all’ombra del perbenismo vittoriano. Ma anche qui, sarà selettivo: ad esempio, in seguito accuserà Oscar Wilde di avere “abbellito l’immoralità”. Veramente, le sue letture più importanti risalgono per lo più al periodo sudafricano; ma è certo che la rivalorizzazione, se si vuole lo “sdoganamento”, della cultura indiana e induista sia già sostanzialmente realizzato nel periodo londinese, in particolare attra-verso il contatto con i circoli vegetariani, salutisti e animalisti (significativamente, il suo primo articolo compare su una rivista vegetariana e riguarda il vegetarianismo indiano). Tratti prevalenti di questa galassia di cultura “alternativa” sono l’estrazione alto-borghese, l’orientamento socialista non marxista, sottolineante il primato dei diritti dell’individuo rispetto alla lotta di classe (quindi visto con sospetto dalla corrente socialista laburista legata alle Trade Unions), la critica radicale della società industriale, la riscoperta della natura e dell’ecologia, la liberazione della donna come problema primario, l’attenzione alla cura del corpo, e infine il pacifismo e il rifiuto della violenza. Temi relegati in secondo piano dai principali movimenti politici del Novecento, ma che come sappiamo sono più che mai attuali nei nostri anni. Proprio per questo forse vale la pena di dedicare qualche riga ad alcuni autori il cui nome è oggi largamente dimenticato, ma la cui influenza (non solo su Gandhi) non è per nulla trascurabile.

Tre autori di riferimento

Tra gli oppositori dell’industrialismo in nome di una concezione organica della società, ma ancor più della bellezza offesa dallo squallore della società industriale, spicca un personaggio singolare di storico dell’arte come John Ruskin (1919-1900). Del suo libro di critica sociale più famoso, Unto this Last (Fino a quest’ultimo: il titolo si riferisce alla parabola evange-lica dei lavoratori dell’ultima ora) Gandhi, che nel 1904 lo lesse d’un fiato in Sudafrica, durante un viaggio in treno, dice che “influenzò immediatamente e in modo pratico la mia vita… più tardi lo tradussi in gujarati con il titolo sarvodaya (ossia: il benessere di tutti)”. E ne sintetizza il contenuto, che riflette le sue più profonde convinzioni, in tre punti: 1. il bene individuale è parte integrante del bene comune; 2. l’opera dell’avvocato vale quanto quella del

barbiere, in quanto tutti hanno il medesimo diritto di guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro;

3. una vita dedita al lavoro, come quella del contadino e dell’artigiano, è la sola degna di essere vissuta.

Non pare un caso che poco dopo aver letto il libro di Ruskin, Gandhi acquistasse in Sudafrica un terreno fondandovi un’azienda agricola, che era anche una specie di comune (un ashram), e trasferendovi la tipografia del suo giornale “Indian Opinion”. Un personaggio ancora più colorito di Ruskin, anch’egli destinato ad esercitare una notevole influen-za su Gandhi, fu Edward Carpenter (1844-1929), autore, con Civilization, its cause and cure (1889), di una spietata analisi critica della società industriale, assimilata ad una “malattia” dalla quale l’umanità doveva curarsi. Di quest’opera Gandhi, che la legge nel 1909, dice che “la sua condanna, benché molto severa, è, a parer mio, del tutto meritata” (p.40). Socialista ricco, finanziatore di riviste e movimenti, negli anni ottanta Carpenter acquistò vicino a Sheffield una fattoria, dedicandosi alla coltivazione di alberi da frutto e alla fabbricazione di sandali. La ricerca di possibili alternative alla società industriale era già stata trattata da uno scrittore americano della generazione precedente, Henry Thoreau (1917-1862), in particolare in un libro che è stato uno dei testi sacri della controcultura americana degli anni sessanta, Walden o la vita nei boschi, (1854) che racconta un’esperienza reale della vita dell’autore, il quale verso la metà del secolo sperimentò in una capanna in un bosco la possibilità di una vita autosufficiente e basata sul lavoro manuale. Thoreau è

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anche noto per un altro scritto, Civil disobedience (1849), anch’esso legato ad un’esperienza reale in quanto l’autore si rifiutò di pagare le tasse nel momen-to in cui gli Stati Uniti combattevano una guerra da lui ritenuta illegittima contro il Messico. Arrestato, fu presto liberato su cauzione di un amico. Troviamo in lui il concetto centrale di “non resistere al male” ripreso da Tolstoj con il concetto di non collaborazione e con la difesa dell’obiezione di coscienza.

Gandhi e Tolstoj

Fu sicuramente Tolstoj l’autore non indiano che esercitò la massima influenza su Gandhi; ma non in quanto autore dei grandi romanzi ancor oggi letti e studiati in tutto il mondo. Fu invece il Tolstoj impegnato, riformatore e predicatore, largamente dimenticato per buona parte del Novecento. Il primo vero incontro di Gandhi con Tolstoj tuttavia risale al 1894, quando in Sudafrica un amico gli regalò una copia in traduzione inglese de Il regno di Dio è dentro di voi, pubblicato l’anno precedente. In occasione del centenario della nascita di Tolstoj (1928) Gandhi sottolineerà l’importanza cruciale di questa lettura: “A quel tempo io credevo nella violenza. La sua lettura mi curò del mio scetticismo, e fece di me un fermo cre-dente nell’ahimsa”. Forse anche per la circostanza Gandhi è portato ad esagerare la radicalità della svolta, e infatti corresse il tiro in un’intervista del 1931: “Gli debbo molto, e lo vanto come uno dei miei maestri. Ma con tutta umiltà posso dire che Tolstoj non mi ha arrecato qualcosa di nuovo, ma egli mi ha fortificato in certe cose confuse in me” (p. 47). In sostanza, ciò che lo attraeva in Tolstoj era il radicalismo cristiano, mo-dellato sul Sermone della montagna che lo aveva già appassionato a Londra; la riduzione del cristianesimo a religione dell’amore, con il conseguente corollario della non violenza: non solo il rifiuto di uccidere, ma anche il rifiuto di collaborare in qualsiasi modo con la violenza delle istituzioni (disobbedienza civile, obie-zione di coscienza): in poche parole, tutto ciò che egli designava come “non resistere al male”. S’intende: non resistere al male col male (altrimenti la non resi-stenza s’identificherebbe con la passività per non dire la vigliaccheria). Per questo Gandhi col tempo rifiuterà la definizione di “resistenza passiva” e preferirà parla-re, sulle tracce di Thoreau, di “disobbedienza civile” o di “resistenza civile”, espressioni che traducono i metodi della nonviolenza, mentre l’espressione satya-graha (forza della verità) ne traduce l’intimo spirito. Nel 1908 Taraknath Das, un giovane rivoluzionario bengalese rifugiato negli Stati Uniti, scrisse una lettera a Tolstoj sostenendo che la situazione indiana era talmente drammatica da richiedere mezzi anche violenti per ottenere l’indipendenza. Tolstoj nella sua risposta (la Lettera ad un indù del 1909) ribadiva la superiorità della resistenza passiva e sosteneva che se gli indiani – enorme maggioranza rispetto ad un ristretto manipolo di inglesi – si fossero rifiutati di

collaborare con l’impero, questo sarebbe crollato senza bisogno di violenza. La risposta deluse Das, ma entusiasmò Gandhi, che vi trovò una conferma delle proprie idee. Egli scrisse a sua volta a Tolstoj, ricevendone una risposta di stima e di incoraggiamento (la corrispondenza fu troncata dalla morte di Tolstoj nel novembre del 1910).

Gandhi tra induismo e cristianesimo

A questo proposito ci si può chiedere come mai Gandhi, che si sentiva molto vicino al cristianesimo, e che nei primi anni del Sudafrica era circondato da cristiani evangelici che pregavano per la sua conversione, non abbia fatto un passo più deciso in quella direzione. In realtà, se l’attrazione era forte, forti erano anche le riserve di Gandhi, da lui chiaramente espresse, non nei confronti di Gesù, ma in quelli della teologia cristiana tradizionale, specie riguardo all’unicità della figliolanza divina e della mediazione salvifica. Negli anni del Sudafrica Gandhi ebbe inoltre modo di approfondire le proprie radici religiose attraverso la corrispondenza con un personaggio di profonda spiritualità, il poeta-gioielliere jainista di Bombay, Rajchandbhai, del quale Gandhi confessa di essere stato tentato di fare il proprio guru. Alla fine, anche grazie alla sua influenza, Gandhi troverà il proprio baricentro interiore in un’interpretazione molto ampia e tollerante dell’induismo: il quale del resto si presta alle interpretazioni più varie e anche opposte (proprio nei nostri anni assistiamo ad una deriva politico-religiosa fondamentalista dell’induismo, del resto già operante ai tempi di Gandhi, come vedremo). Quanto all’essenza dell’induismo, ecco come Gandhi la sintetizza: “La cosa principale che distingue gli indù è la loro fede che il Brahman o anima universale pervade tutto. Ciò che noi tutti dobbiamo raggiungere è il moksha o liberazione, per moksha intendendosi il liberare se stessi dal male delle nascite e delle morti e l’immergersi nel Brahman… La via per conseguire il moksha è rappresentata dal compiere azioni pure e buone; dall’avere compassione per ogni essere vivente, e dal vivere nella verità” (p.52). Vivere nella verità è vivere in Dio, perché una delle affermazioni più ripetute di Gandhi è che Dio è la verità, o ancor meglio: la verità è Dio. Gandhi non crede nella verità assoluta ed esclusiva delle religioni e neppure della propria. Sua è la formula famosa: “ciascuno si converta alla propria religione”. Ogni religione ha uno stretto rapporto con il popolo nel quale sorse, con la sua storia, con la sua mentalità. Egli tuttavia accetta in parte la critica occidentale nei confronti dell’Oriente accusato di pigrizia e fatalismo; ma la sintesi tra azione e contemplazione Gandhi la vede già disegnata nel Baghavad Gita e consiste nel-l’agire in maniera disinteressata e in purezza di cuore. Un tema strettamente legato all’Occidente è la riva-lutazione dell’importanza e della dignità del lavoro

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manuale, che gli permette di accettare la divisione in caste svincolandola da ogni significato gerarchico. Egli considera l’intoccabilità una vergogna nazionale e pone il suo superamento come un obiettivo irrinuncia-bile, anche al di sopra della stessa indipendenza, ma ritiene che le caste in senso stretto, i varna, possano essere reinterpretate in senso non di superiorità, ma di una diversità di vocazioni e di funzioni nell’ambito di una società organica che fa della diversità una forza. Sappiamo che questa posizione è stata più volte contestata sia durante la vita di Gandhi sia in seguito. Anche recentemente: la scrittrice indiana Arundati Roy (autrice del bestseller mondiale Il dio delle piccole cose ) è tornata a contrapporre a Gandhi un altro perso-naggio indiano a lui contemporaneo, B. R. Ambedkar, anch’egli avvocato e uomo politico ma di origine paria, che riteneva sostanzialmente non riformabile l’induismo proprio per la questione delle caste, profon-damente radicata nei concetti principali di tale religione (rimandiamo ancora all’articolo del n. 163 su Lanza del Vasto per dettagli).

Formazione del Satyagraha in Sudafrica

Il satyagraha (alla lettera, forza della verità), insieme strategia politica e fede etico-religiosa, prende forma in Sudafrica nei primi anni del Novecento, come risul-tato delle influenze sia indiane che occidentali di cui si è parlato ma soprattutto delle esperienze di lotta di Gandhi contro la discriminazione nei confronti degli Indiani. Non è qui il caso di riassumere neppure per sommi capi le vicende per molti versi singolari della storia del Sudafrica, risultato dell’innesto di consistenti popola-zioni bianche (prima boeri olandesi, poi inglesi) nei territori dell’estrema punta meridionale del “Conti-nente nero”. Una storia tutta intessuta di violenza, la cui espressione più clamorosa è stata nel nostro secolo il lungo periodo del regime di apartheid, infine crollato nel 1993 sotto la spinta delle pressioni sia esterne che interne. Basti ricordare i nomi di Nelson Mandela e di Desmond Tutu, la cui opera nello spirito della nonviolenza gandhiana ha reso possibile il passaggio quasi incruento dal regime oppressivo di una minoranza ad un normale regime parlamentare che garantisce l’eguaglianza (se non altro giuridica) a tutti i cittadini (in particolare meriterebbe una speciale menzione l’originale processo di riconciliazione isti-tuito in Sudafrica attraverso appositi tribunali, che non comminano pene, ma chiedono agli autori di delitti durante l’apartheid di riconoscere pubblicamente le loro colpe). Al tempo di Gandhi il problema che ai nostri occhi sarebbe parso già allora centrale, il proble-ma del rapporto con la maggioritaria popolazione nera sudafricana, non si era ancora affacciato all’orizzonte politico, venendo trattato come un problema militare e di ordine pubblico (bastava qualche spedizione punitiva ogni tanto per “rimettere a posto” le tribù indisciplinate). I principali problemi in agenda erano

anzitutto quello del rapporto tra Afrikaaner (boeri) e britannici (che a cavallo del secolo porterà alla lunga e devastante guerra anglo-boera). Spinoso anche quello del rapporto con l’immigrazione indiana, prevalen-temente costituita da lavoratori “contrattisti” in condi-zione di semischiavitù, ma anche da commercianti, alcuni dei quali facoltosi ed influenti sul piano sociale, come quello che nel 1893 aveva “ingaggiato” Gandhi per una complessa causa civile nei confronti di un suo collega in affari: Gandhi – rara avis tra gli avvocati – invece di esasperare il conflitto riesce a trovare le vie di una riconciliazione che riscuote il consenso di entrambe le parti. Eppure anche i facoltosi commercianti indiani erano discriminati, come Gandhi stesso (allora un elegante avvocato occidentalizzato) dovette presto imparare a proprie spese (nel primo episodio del film di Atten-borough, viene buttato fuori dallo scompartimento per le proteste di un bianco che non vuole un compagno “cafro”). Questa ed altre angherie più o meno meschi-ne dovevano ricordare costantemente agli indiani che essi non erano cittadini come gli altri, ma “ospiti” che potevano essere rimpatriati in qualsiasi momento. Ora, il fatto che Gandhi fosse avvocato gli dà una “marcia in più” per difendere i diritti dei suoi connazionali, in quanto anch’essi sudditi di un unico impero retto da principi giuridici almeno formalmente liberali. E’ questo il periodo del Gandhi “lealista” nei confronti dell’Impero: egli capisce che può far leva sul divario tra i princìpi giuridici proclamati ufficialmente dall’Impero e le norme locali vessatorie, per allargare gli spazi di libertà dei suoi connazionali. La lotta si

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svolge in varie fasi abbastanza complesse, che nel film vengono riassunte e condensate, necessariamente senza molto rispetto per la precisione storica, ma con aderenza alla sostanza dei fatti. Si veda ad esempio la gustosa scena nella quale Gandhi appena scarcerato riesce a farsi imprestare i soldi per il taxi dal suo fiero avversario di tante battaglie, il presidente sudafricano generale Jan Smuts: i dettagli non sono precisi, ma la sostanza dei fatti è quella, come pure il valore simbolico, in particolare la “conversione” del generale, che finisce per esprimere stima e rispetto per il suo avversario. Quella di Gandhi non è, come si è detto, una semplice “resistenza passiva”, tanto meno una generica insubor-dinazione e ribellione. Bisogna obbedire scrupolosa-mente alle leggi non ingiuste, violare deliberatamente e pubblicamente quelle che si ritengono veramente ingiuste, e accettare di buon grado la pena. E’ stato detto giustamente che il satyagrahi collabora col legi-slatore mettendo alla prova la sua legge, in sostanza costringendolo ad applicare la legge fino alle conse-guenze estreme, in modo da evidenziarne l’ingiustizia e l’inutilità. La lotta per i diritti civili offesi dalla legge del 1906 sulla registrazione riempie le prigioni del Transvaal di indiani tra cui lo stesso Gandhi, e proseguirà con alterne vicende fino al 1913, quando buona parte delle leggi discriminatorie viene abolita.

Politica e violenza: il nazionalismo indù

A cavallo del secolo, mentre Gandhi ormai è in Sudafrica da anni, Londra diventa il centro di un nazionalismo indiano molto aggressivo e tutt’altro che nonviolento. Tra i giovani indiani nazionalisti emerge V. D. Savarkar, deciso fautore della violenza rivolu-zionaria, il quale si butta subito nel traffico d’armi per la causa indiana; su suo mandato (come risulterà in seguito), il 2 luglio 1909, Dhingra, un altro giovane indiano, uccide a colpi di pistola sir William Curzon Willie, capo gabinetto del segretario di Stato per l’India. Gandhi, che arrivò a Londra pochi giorni dopo l’attentato e nel pieno della polemica su quanto era accaduto, non ebbe esitazioni nel condannare Dhingra. Certo, aveva agito mosso dall’ideale dell’indipen-denza, ma aveva commesso un delitto; secondo Gandhi, non si trattava neppure di vero coraggio, ma di uno “stato di intossicazione”, più che di matura e responsabile riflessione. Analisi che non è difficile applicare all’oggi: l’odio e il fanatismo, specie se combinati con una base di disperazione esistenziale, possono spingere ad atti che sembrano eroici solo se si prescinde da un’analisi approfondita delle valutazioni (pensiamo ai tanti attentatori suicidi ormai diventati parte normale delle cronache quotidiane). Anche gli ubriachi e i drogati possono compiere prodezze che ci sembrano incredibili, nel momento in cui non hanno una chiara coscienza di quello che stanno facendo. Nel suo soggiorno londinese del 1909, Gandhi ebbe modo di conoscere personalmente numerosi esponenti

dell’estremismo indiano, ad alcuni dei quali riconobbe “alta moralità e spirito di sacrificio”. Nel novembre di quell’anno, a bordo del piroscafo che lo riporta in Sudafrica, Gandhi scrive di getto un breve opuscolo intitolato Hind Swaraj o Indian Home Rule, che verrà pubblicato alla fine dell’anno in gujarati e l’anno successivo in inglese. Il libretto si presenta come la summa delle conclusioni cui Gandhi era giunto, in dialogo con i suoi antagonisti nazionalisti estremisti. In un certo senso è più radicale di loro: nella sua prospettiva infatti il nemico da combattere non sono gli inglesi, ma la civiltà che essi hanno portato. Gli estremisti vogliono sostituirsi agli inglesi, ma sempre nell’ambito dello stesso paradigma dell’accettazione della società moderna, quando il problema è proprio la moderna società industriale, materialista e volta al profitto. Ferrovie, macchine e nuovi costumi non sono segno di liberazione ma di schiavitù sia per gli indiani che per gli europei. Il problema principale dell’India non è di liberarsi dell’Impero, ma della civiltà occidentale, recuperando la storia, i valori, le tradizioni indiane. La gente ha ormai capito che le petizioni non bastano (e in questo i moderati sono superati): per ottenere l’indipendenza ci vuole la forza, ma non la forza delle armi (come vogliono gli estremisti, che non fanno che alimentare la spirale della repressione), bensì la forza morale che impone il rispetto all’avversario. Il radicalismo di questo libretto causerà non pochi imbarazzi in quei seguaci di Gandhi che, come Nehru, non erano affatto disposti a rinunciare ai vantaggi della civiltà industriale, e che nella nonviolenza vedevano più un mezzo che un fine. Ma l’estremismo utopistico di Hind Swaraj non fu mai ripudiato da Gandhi, come abbiamo potuto costatare studiando Lanza del Vasto, che lo frequentò verso la fine degli anni trenta. Resta tuttavia da chiedersi se la critica di Gandhi della civiltà europea si può liquidare con l’accusa di oscurantismo e di idealizzazione di un’India mai esistita (la pacifica India dei villaggi), o se in questo radicalismo non ci sia l’anticipazione di molti problemi – in particolare di quello ecologico – con i quali ci stiamo attualmente confrontando. Su questo punto rimando alle considerazioni sviluppate nel saggio su Lanza del Vasto. Savarkar, il maggiore esponente della tendenza nazionalista violenta, sopravviverà di quasi vent’anni a Gandhi, morendo nel 1966, onorato dall’India intera come uno dei padri della patria. Gandhi era stato ucciso il 30 gennaio 1948. “I suoi assassini, presto arrestati, sono quasi tutti bramini chitpavan, membri della setta fondata da Savarkar, suoi stretti collabora-tori e fanatici seguaci” (p. 81-82). Savarkar si difese dall’accusa di essere il mandante dell’assassinio con ostinazione e abilità, e venne assolto per insufficienza di prove (ancor oggi gli storici sono divisi sulle sue responsabilità). (continua)

Alberto Bosi [email protected]

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Nasce il Comitato per la salute mentale del Piemonte

Mercoledì 13 gennaio, a Torino, si è svolta un’affollata riunione di utenti, familiari, associazioni di volon-tariato ed operatori della salute mentale. Vista la numerosa partecipazione (oltre 150 persone), la riunione si è svolta presso il Teatro “L’Espace” invece che svolgersi, come previsto, presso il “Caffè Basaglia”. Alla riunione hanno partecipato anche alcuni Consiglieri regionali. I lavori sono stati introdotti dallo psichiatra Enrico Di Croce, dell’ASL TO4, il quale ha sintetizzato le varie tappe precedenti quella riunione. L’origine di tutto è stata l’unanime opposizione alla Delibera della Giunta Regionale n. 30 sul riordino della residenzialità psichiatrica (di cui si è già parlato nel precedente numero del Granello). Diversi incontri, tenutisi in occasione delle “Giornate Basagliane”, in ottobre, hanno fatto crescere l’esigenza non solo di formalizzare la contrarietà alla delibera, ma anche di creare un appuntamento periodico in cui dibattere le varie tematiche inerenti le buone pratiche in psichiatria. Secondo le parole del dr. Di Croce tale appuntamento dovrebbe e potrebbe diventare una sorta di Scuola di Formazione Permanente, un’occasione per tornare allo scoperto affinché di psichiatria non si parli solo in negativo, in occasione di fatti di cronaca nera (come avvenuto questa estate per il caso della morte di un paziente in occasione di un Trattamento Sanitario Obbligatorio). Occorrerebbe, infatti, “fare opinione” su questi temi spinosi e controversi. È stata data lettura di un breve documento, servito per convocare la riunione e come base di discussione. In tale scritto si leggono le motivazioni che hanno portato alla costituzione del Comitato che “mira a promuovere iniziative comuni e il confronto permanente fra soggetti diversi che condividono alcune posizioni di fondo sulla salute mentale. L’obiettivo è unire le forze e rompere il silenzio. A fronte di una necessità di riordino dei servizi, da tutti riconosciuta, nella società piemontese domina una sconcertante assenza di confronto e pubblico dibattito, che ha probabilmente favorito l’elaborazione autoreferenziale di provvedimenti legislativi inadeguati” (come la DGR n. 30 – n.d.r.). I soggetti aderenti al Comitato, pur nel rispetto delle reciproche autono-mie e differenze “condivi-dono i seguenti principi fondamentali: • al centro sta la persona e non la malattia; i percorsi di cura non riguardano so-lo il controllo dei sintomi e dei comportamenti: mirano alla guarigione e all’evoluzione personale, a garantire la qualità di vita, il rispetto della

soggettività e dignità, l’inclusione sociale, il rifiuto dell’emarginazione e dell’istituzionalizzazione; • la priorità va ai giovani che attraversano le prime fasi del malessere, in un’ottica di prevenzione; alle persone più gravemente sofferenti, bisognose di sostegno e cure protratte nel tempo; • i servizi sono orientati dai bisogni e dalle preferenze degli utenti e dei loro famigliari; • le cure non possono limitarsi alla “collocazione” in contenitori fra loro non integrati ed avulsi dal mondo circostante. Occorre garantire percorsi personalizzati e flessibili, costruiti attraverso la co-progettazione e il dia-logo tra utenti, servizi delle diverse agenzie e familiari; • il coordinamento dei percorsi nell’ottica della conti-nuità, dall’esordio, alle crisi, al trattamento a lungo termine, spetta al Centro di salute mentale pubblico; • l’azione dei servizi pubblici deve articolarsi con quella del privato in un rapporto trasparente di partnership e co-progettazione; • è doverosa una costante riflessione critica sul ricorso alle pratiche coercitive (tso, contenzione meccanica, ecc.); • è da respingere ogni forma di istituzionalizzazione mascherata da terapia per i pazienti autori di reato; • è indispensabile il pieno rispetto dei diritti e della dignità professionale dei lavoratori impegnati in salute mentale, inscindibile dal rispetto dei diritti degli utenti. Il lavoro sulla relazione non può prescindere dalla serenità e dal benessere di chi lavora. Il comitato si pone anche l’obiettivo di sostenere la richiesta, già giunta da più parti, alla Regione di istituire una Consulta o Osservatorio permanente sulla Salute Mentale, che comprenda tutti gli attori coin-volti, e in primo luogo le associazioni di utenti e fami-liari, per monitorare la qualità dei servizi, gli esiti dei trattamenti e la soddisfazione di utenti e familiari.” Nel corso del dibattito è stata sottolineata la positività della numerosa partecipazione, che rimarca quanto sia sentita l’esigenza di dibattere tali argomenti, con l’intento di evitare altre decisioni normative che passino sopra la testa degli operatori e degli utenti e

familiari coinvolti. C’è da augurarsi che tale parteci-pazione si mantenga e cre-sca non solo per l’aspetto quantitativo, ma anche qualitativo e, soprattutto, propositivo e che riesca a coinvolgere l’opinione pub-blica, spezzando l’isola-mento che aumenta il pregiudizio nei confronti dei malati psichiatrici e delle loro famiglie.

Gianfranco Conforti

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“Come se mangiassi pietre” Bosnia, reportage dal paese divenuto cimitero senza fine

Che cosa consente, dopo una guerra, di sopravvivere? Dove stanno le risorse per cercare, trovare, vedere in un sacchetto di ossa il proprio figlio morto e buttato in una fossa comune? Perché lavorare per anni in questa ricerca? Sono stufa della memoria... a che serve la memoria? Alla scuola media ho letto “Il diario di Anna Frank”, poi resoconti e diari di altre guerre, ora questo “Come se mangiassi pietre” (scritto da Wojciech L. Tochman, giornalista e scrittore polacco; edito da Keller nel 2015), il pellegrinaggio nei Balcani alla ricerca dei resti dei propri cari morti, in terre confuse, dove lo strazio per la perdita umana si aggiunge alla conse-guenze di vedere contrade e paese delimitati da troppi confini, la propria casa abitata da altri. E’ un piccolo libro, che però richiede tempo perché non lo puoi leggere tutto d’un fiato, ti toglie il respiro... La chiamano resilienza la forza che ognuno ha per tirare avanti dopo un grave trauma, la fiducia nelle proprie risorse di potersi riprendere o forse è anche l’istinto di sopravvivenza... “Resilienza è un termine derivato dalla scienza dei materiali e indica la proprietà che alcuni materiali han-no di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia conno-ta proprio la capacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in

maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà”. “Come se mangiassi pietre” dice il figlio alla madre al mattino dopo averla sentita nella notte, nel sonno, stridere i denti, come le capita sovente... Una storia dietro l’altra, incalzanti, talmente collegate nel dolore e nello strazio di chi ha vissuto in quelle contrade, da faticare nella ricerca del collegamento dell’una con l’altra. Ci sono le stragi che maggiormente sono balzate sui giornali, ci sono quello più nascoste, meno note... ma ogni angolo ha la sua. Il libro racconta l’esperienza della dottoressa Eva Klo-nowski, polacca, che mette insieme i resti dei ritro-vamenti nelle fosse comuni, con lavoro certosino, metico-loso. Scientificamente sicura, si cala nei pozzi, tira fuori i resti dalle grotte, da una discarica o da una accozzaglia di ossa suine, li separa, li cataloga, li conserva in sacchi bianchi in capannoni a ciò adibiti e li studia, li studia fino a consegnarli alle madri, alle mogli, ai figli dei loro cari scomparsi in quegli anni terribili. “Se si volessero rias-semblare le ossa di tutti i riesumati con la stessa scrupolosità con cui lo fa la dottoressa Eva, ci sarebbe abbastanza lavoro per parecchi antropologi per un centi-naio di anni” [...] “Il capannone – dove sono raccolti i resti – è ben arieggiato, non si avverte alcun odore. [...] Oltre ai resti ossei i sacchi contengono gli effetti perso-nali: vestiti, accendini, portafogli, foto di feste in fami-glia, elastici. I parenti sopraggiunti da fuori [...] cammi-nano passo passo fra le file, contemplano. Si soffermano sopra un corpo o l’altro, riprendono il cammino, scam-biano qualche parola con la dottoressa Eva (delle volte lei li accompagna sottobraccio), scuotono piano la testa, recitano preghiere, piangono. Capita che qualcuno venga colto da malore, e allora Eva chiama l’ambulanza”. Ci sono i racconti delle donne che ritrovano i resti dei cari: “A chiunque l’abbia fatto, auguro di provare un giorno quello che provo io. Ogni volta che vedo i figli o i nipoti di qualcuno, piango. Non ho avuto figlie femmine, solo due maschi. Non ho più marito, non ho nessuno. Un figlio, me l’hanno già trovato. Mia nuora venne al suo funerale dalla Svezia. Mi disse che stava per risposarsi. Mia nipote avrà un nuovo padre. E’ giusto così...” Ho letto da qualche parte che “Per ricordare non occor-rono più date: occorre fare di ogni giorno occasione di memoria”. Ci credo, come reputo fondamentale conti-nuare a conoscere, sapere e poi agire, agire nel posto do-ve siamo, convinta da una parte della resilienza delle per-sone e dall’altra dell’importanza anche delle minime azioni quotidiane, dell’impegno immane ma necessa-rio e condiviso con altri affinché tutto questo non accada più.

Costanza Lerda

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L’hanno chiamata “la mancetta” Quando un dono ha in cuore serpi

I famosi 500 euro agli insegnanti sono una come una mancetta, uno di quei doni che racchiudono una sorta di perversione. Quando il potere vuole sottomettere, ma non perdere il suo “charme”, quando progetta di incrinare o liquefare diritti, prepara la strada con un’elargizione. E’ questo il senso vero del bonus per l’aggiornamento, previsto solo per i docenti di ruolo. Il lato economico della beffa sta sinteticamente in questi termini: ai lavoratori della scuola sono stati sottratti con un blocco contrattuale che dura dal 2009, mediamente, 400 euro lordi mensili. Blocco che la Consulta ha rilevato essere illegittimo. Per calcolare quanto è stato rapinato ci vuole poco: 400 per ciascuno dei 12 mesi di ben 6 anni di lavoro. Il versante dei diritti è – per certi versi – più serio ancora: a fronte dell’elargizione di 381 milioni per l’aggiornamento dei docenti di ruolo c’è il rinnovo contrattuale del pubblico impiego, nella forma del “prendere o lasciare”, nel più rigido ed insipiente decisionismo spacciato per efficacia. Le serpi più insidiose stanno proprio nel metodo falsamente democratico e in alcuni contenuti “non negoziabili”: libertà d’insegnamento messa tra paren-tesi, figura enfatizzata del dirigente, collegialità svilita, meritocrazia sotto l’insegna dell’improvvisazione.

Però… davanti … tutta un’aura di serietà

I 500 euro sono stati erogati a tutti i docenti assunti a tempo indeterminato. Il bonus riguarda anche i neoassunti e coloro che nella fase C sono stati assunti a novembre. La cifra è stata erogata con lo stipendio di ottobre. Secondo quanto scritto nel comma 121 della legge 107, detta “La Buona Scuola”, i 500 euro potranno essere così spesi: acquisto di libri e di testi, anche in formato digitale, di pubblicazioni e di riviste comun-que utili all’aggiornamento professionale; acquisto di hardware e software; iscrizione a corsi per attività di aggiornamento e di qualificazione delle competenze professionali, svolti da enti accreditati presso il ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca; iscrizione a corsi di laurea, di laurea magistrale, specialistica o a ciclo unico, inerenti al

profilo professionale; iscrizione a corsi post lauream o a master universitari inerenti al profilo professionale; partecipazione a rappresentazioni teatrali e cinema-tografiche, per l’ingresso a musei, mostre ed eventi culturali e spettacoli dal vivo; iniziative coerenti con le attività individuate nell’ambito del piano dell’offerta formativa delle scuole e del Piano nazionale di formazione. I docenti dovranno dimostrare, con scontrini e ricevute, che i soldi sono stati spesi effettivamente per l’autoformazione. A tal fine dovranno presentare la documentazione che comprovi l’utilizzo secondo normativa del bonus entro il 31 agosto 2016. Per coloro che non rendiconteranno, le somme non giustificate verranno recuperate l’anno successivo.

Sotto sotto… di quale aggiornamento si tratta?

Gli insegnanti che prendono sul serio la crescita della loro professionalità hanno memoria di ciò che è successo con “l’aggiornamento obbligatorio”, quello che nel CCNL (contratto collettivo nazionale di lavoro) del 1994-1997 prevedeva che, in cinque anni, il docente dovesse dimostrare di aver frequentato “attività formative” per un numero di ore non inferiore a cento, pena il mancato passaggio al “gradone” retributivo successivo. Dal corso di cucito alla grafologia, dietro ogni angolo spuntavano enti accreditati a sfornare corsi e corsetti, molti a pagamento. In seguito, nel CCNL 1998-2001, l’aggiornamento diventò un “diritto” e non più un diritto – dovere. Lo si chiamò “leva strategica”. Oggi, quando la legge del mercato è ancora più sfacciata, non ci si meraviglia che ci siano inserzioni pubblicitarie che esortano ad usare il bonus per i più vari corsi di aggiornamento. Naturalmente dietro le varie inserzioni ci sono imprese che “campano” alla grande. E campano alla grande anche grazie alla precarizzazione del lavoro. Nel merito di quale aggiornamento si tratti, paradossalmente nessuna idea; solo un elenco del cosa fare, cosa poter comprare e cosa no. E ciascun docente comprerà questo o quello scollegato dal collega con cui interagisce giorno dopo giorno sulle stesse classi,

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con gli stessi alunni/studenti… In compenso un’enfasi sulla valutazione degli insegnanti. Non si dice come migliorarne la professionalità, si enfatizza che vanno quantificate le loro performance. Questa è una delle contraddizioni più nefaste. Un’enfasi che ha del comico, considerato che minimamente si mettono sul tavolo le domande più serie: “Cosa vuol dire valutare i docenti? Cosa comporta? E, posto che si possa intraprendere questa delicata e stratificata operazione, cosa succede una volta che li abbiamo valutati? Li paghiamo diversamente; e in nome di quale principio di giustizia poi stabiliamo che alcuni alunni-cittadini si meritano i docenti migliori, altri quelli mediocri? Li licenziamo tutti? Li destiniamo ad altro incarico dentro l'amministrazione pubblica? E i professori migliori che faranno, conti-nueranno ad insegnare o verranno pro-mossi, e promossi a cosa? Nessuno dà una risposta a queste semplici domande. Cosa vuol dire per un insegnante fare car-riera? Uscire dall'aula, smettere di insegna-re, formare i suoi colleghi più giovani e ine-sperti? Ma quanti sono, quante potrebbero essere verosimilmente queste posizioni di ec-cellenza nel quadro dell'amministrazione? Facciamo un gran discorrere della valuta-zione, ma lasciamo che i percorsi di formazione e di selezione degli insegnanti diventino sempre più deboli, abbandonati all'arbitrio di un sistema estremamente frammentato, da una regione all' altra, da una università all' altra… Invece occorrerebbe di nuovo pensare seriamente che cosa vuol dire formarsi ed aggiornarsi …” (da un’intervista ad Adolfo Scotto di Luzio, docente di storia delle istituzioni scolastiche ed educative all’U-niversità di Bergamo, autore del saggio “Senza educazione. I rischi della scuola 2.0”, edito da Il Mulino nel 2015).

Dal sud una nota di intelligente ironia

Per fortuna c’è chi sa fare della fine ironia e non dispera: gli insegnanti calabresi – PSP, Partigiani della Scuola Pubblica”, delusi dalla dannosa Riforma della Scuola e indignati per l’elargizione bonus spediranno un libro per l’aggiornamento professionale al Ministero e lanciano lo slogan: “Fai buon uso dei 500 euro di bonus: regala un libro al governo perché si aggiorni sulla vera buona scuola!”

Eva [email protected]

Carnevale L'alba della luna gialla, tagliata a metà da una striscia di nubi, sottile e nera, un padellone rotondo e pieno che sale adagio sollevato da un filo invisibile muovendo su di uno sfondo di cartone non buio e piatto, sta sorgendo questa sera ad apparecchiare lo spettacolo che continua. Allieta con un bacio seducente il manto di coriandoli d'argento caduti a terra ed ora sollevati da uno sbuffo di vento dopo un attimo di capogiro e confusione dopo lo sfarfallare di musiche, un misto di brani e note che si sono sovrapposti

in una cacofonia di rumori, suoni sparati insieme alla pioggia di stelle filanti e caramelle, nello sfilare di carri animati da formicai di adulti in costume disegnati a volte con cattivo gusto oppure afflitti da una gioia sguaiata, ostentata e forse finta. Prima che la luce si spenga dalla parte opposta della valle prima che la volta sia del tutto scura mentre ancora un azzurro soffuso corona i profili delle montagne, perfetti nella loro immobilità, il nostro satellite opaco si sta accendendo ed illumina con intensità crescente gli spazi e i silenzi, i vuoti lasciati da una folla inneggiante l'arrivo di una nuova stagione primaverile senza che nemmeno si sia compiuto l'inverno, in un capovolgimento innaturale del corso del tempo, in una totale inconsapevolezza del dramma. Oggi la regina della notte osa competere col sole nei riverberi dei piccoli specchi rimasti sulla via maestra a sottolineare la coesistenza di astri e pianeti sotto lo stesso cielo nello stesso momento, straordinaria beffa di antitesi conciliazione forzata degli opposti assurda negazione delle diversità in una sarabanda giocosa della gente che non vuole guardare in faccia le cose e preferisce nascondersi dietro una maschera di ingenuità o ipocrisia. E' il carnevale che impazza quando invece una solitudine dilagante esaspera la manifesta fatica del vivere.

Cecilia Dematteis

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Anche i bambini si stancano Molte volte gli adulti non si rendono conto di quando i bambini sono affaticati. Ci si “desta” quando il problema esplode gravemente. Non è colpa nostra: anche noi corriamo, siamo bombardati e stanchi. Qualcosa tuttavia si può fare, si può cominciare ad evidenziare il problema, a metterlo a fuoco, a diventarne più consapevoli, riflettendoci su. Quando l’adulto, genitore o educatore/insegnante, si ferma a riflettere il bambino ne ricava già un vantaggio. Cominciamo dunque a pensare che anche i bambini si stancano, anche loro risentono dello stress causato dai frenetici ritmi quotidiani. Sono così piccoli, così pieni di vita e di energie che spesso ci traggono in inganno e ci portano a pensare: “loro non si stancano mai ”. Non è così, e lo dimostrano tutti i problemi che via via emergono con il trascorrere del tempo e con il salire del livello scolastico. Spesso si sottovaluta il fatto che alcuni bambini permangono nella scuola anche dieci ore consecutive. Il tempo pieno è certamente una grande ricchezza se di buona qualità. Richiede infatti, da parte degli insegnanti, un’alta professionalità e una grande capacità di saper lavorare in gruppo. Dove queste condizioni mancano si trasforma solo in un tempo “occupato” e spesso faticoso. Chi lavora con i bambini certamente si è reso conto, negli ultimi anni, di quanto sia presente la “stanchezza” nelle scuole e nei nidi. I nostri bambini sono, infatti, nella stragrande maggioranza, figli di genitori che lavorano tutto il giorno, che corrono, che hanno fretta, che non hanno tempo, che a loro volta sono stanchi, che… che… Quante volte si accolgono bambini che già all’arrivo a scuola mostrano i segni della stanchezza? A questi bambini non serve una scuola/una giornata che ricalchi le nevrosi ed i problemi della città. Questi bambini hanno bisogno di calma, di andare piano, di spazi sereni, di essere ascoltati e visti uno per uno, di essere aiutati a vivere bene insieme. Per questi motivi, in molte realtà, “l’affaticamento” è ben lungi dall’essere il problema dell’ultima ora, della fine giornata, delle ore considerate meno importanti, l’ultimo di cui preoccuparsi. È un problema che, riguardando la “qualità della vita” dei bambini, deve essere il primo di cui ci dobbiamo occupare, perché è il primo in ordine di importanza. A cosa serve spendere energie per organizzare attività su attività se non ci preoccupiamo di organizzare la qualità della vita dei nostri bambini? Per fare questo occorre fare molta attenzione ai loro “bisogni”. E quali sono questi bisogni? Se si rivolgesse la domanda ai genitori si potrebbe

chiedere: il vostro bambino ha bisogno della piscina? della scuola di danza? dell’inglese? del calcetto? Se si rivolgesse la domanda agli insegnanti o agli educatori si potrebbero ipotizzare altri interrogativi (secondo l’età ed il livello di scuola): in queste condizioni è proprio necessario parlare loro di … , trascinarli a fare … , seguire il progetto prestabilito senza un momento di tregua? Per orientarci in questa selva di interrogativi, per prendere decisioni sagge, per organizzarci bene in favore dei bambini, la teoria di Maslow e la sua gerarchia dei bisogni può essere di grande aiuto.

Il principio fondamentale su cui Maslow basa la sua teoria è il seguente: “Emergono i bisogni più elevati (tra cui il desiderio di conoscere e capire) quando vengono gratificati i bisogni inferiori (tra cui quelli fisiologici e di sicurezza); quindi per promuovere la crescita dobbiamo fare tutto il possibile per gratificare i bisogni di base o inferiori.” E’ quindi evidente che gli adulti, genitori-insegnanti-educatori, devono fare il possibile affinché i bisogni di livello meno elevato dei bambini siano soddisfatti. Questo per aiutarli a “muoversi” verso i livelli più elevati. Più avranno successo nell’aiutarli a soddisfare i loro bisogni da mancanza, cioè di base, più è

Bambini

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Abiti non ancora puliti Il 24 aprile del 2013 nel crollo del Rana Plaza in Bangladesh, rimasero uccisi 1.138 lavoratori e più di 2.500 riportarono ferite e gravi danni psicologici. Alla tragedia seguì la firma di un accordo per la messa in sicurezza delle fabbriche nate per fornire le grandi multina-zionali della moda. Il documento venne firmato da più di 200 imprese. H&M, il più grande acquirente nel paese asiatico, secondo più grande colosso della moda, e primo firmatario dell'accordo, ha dichiarato che "in seguito alle ispezioni previste dall'accordo per la prevenzione degli incendi e la sicurezza in Bangladesh, le azioni correttive previste dal Programma di Ispezione dell'Ac-cordo sono state concluse". Tutto falso, secondo le ong firmatarie dell'ac-cordo in qualità di osservatori (Clean Clothes Campaign, ILRF, MSN and WRC) che hanno ispezionato una serie di stabilimenti in cui si produce per H&M. Concentrandosi sulle fabbriche che l'impresa ha indicato come le migliori in tema di lavoro e ambiente, le verifiche dimostrano come tutte queste fabbriche non siano state in grado di rispettare le scadenze previste per le riparazioni e come la maggior parte delle ristrutturazioni non siano ancora state ultimate nonostante i termini scaduti. “Dato il suo peso nel settore tessile in quel paese e data l’opportunità offerta dallo storico accordo siglato dopo la tragedia del Rana Plaza, H&M può giocare un ruolo chiave per mettere in sicurezza l’intero settore in Bangladesh ”, dichiara Deborah Lucchetti della ‘Campagna Abiti Puliti’. Per protestare contro H&M: www.abitipuliti.org.

Sergio Dalmasso Tavolo delle Associazioni - Cuneo

probabile che essi svilupperanno motivazioni alla crescita. Quando ci si rivolge ai genitori, occorre metterli in guardia: anche loro possono involontariamente, ma pericolosamente, dedicare attenzione ed energia solo per soddisfare i bisogni superiori. Per avere un futuro brillante devi conoscere le lingue, devi andare a scuola di danza, devi essere un bravo sportivo, devi … devi… Vi è poi una caratteristica, estremamente interessante per il nostro discorso, che differenzia i “bisogni da mancanza” dai “bisogni di crescita”: per un bambino che ha un bisogno da mancanza l’adulto è necessario, indispensabile. Mentre un bambino spinto da bisogni di crescita è più autonomo, più in grado di badare a se stesso. Potremmo dire che, in questo secondo caso, l’adulto è meno necessario, può rimanere di più sullo sfondo. Alla luce di queste semplici ma preziose conside-razioni possiamo individuare gli “errori” più comuni che noi adulti, genitori e insegnanti, commettiamo. Questo non per compiaciuta auto-fustigazione ma per ricavarne utili indicazioni organizzative. La gerarchia dei bisogni proposta da Maslow e da lui presentata utilizzando l’immagine di una piramide, pur non considerandola in modo rigido, ci può aiutare a fare alcune riflessioni: ! Il desiderio di conoscenza appare molto alto sulla piramide. Possiamo osservare che appare tra gli ultimi gradini. Quindi sarà soddisfatto in un secondo momento. Prima dovremmo occuparci degli altri. ! Possiamo convenire che più piccola è l’età dell’individuo che sta crescendo più tendono a prevalere i bisogni che si trovano all’inizio della scala, dove alla base si trovano quelli fisiologici, seguiti da quelli di sicurezza e in successione, a salire, da quelli di appartenenza e d’amore, di stima.

! Un bambino stanco è un bambino che ha precisi bisogni fisiologici da soddisfare; quindi è inutile, se non dannoso, coinvolgerlo in proposte che rispondono a bisogni di livello superiore.

! Se andiamo con la mente all’organizzazione di molte scuole, a volte anche dei nidi, o all’orga-nizzazione di certi pomeriggi, ci accorgiamo che la maggior parte del tempo è invece dedicata a rispondere ai bisogni di conoscenza o comunque a quelli di livello più elevato.

! Perché si lavora essenzialmente a questo livello? si dà forse per scontato che gli altri bisogni siano già stati soddisfatti? Si crede che richiedano meno tempo organizzativo? E’ proprio questo il punto che fa “saltare” molte belle, apparentemente perfette, programmazioni o molti pomeriggi in piscina o a scuola di ballo: quando

operiamo con bambini “provati” da bisogni da mancanza dobbiamo farcene carico, dobbiamo sospendere i progetti che si basano sul desiderio di conoscere e capire. Se non siamo in grado di fare questa operazione, il clima si guasterà, perché avremo aggiunto fatica a fatica: inconsapevolmente avremo contribuito ad aumentare il loro stress. Quando un bambino è stanco che cosa lo disturba? Le stesse cose che disturbano un adulto: le origini della stanchezza non sono molto diverse; solo che non siamo abituati a pensare ai bambini in questi termini. A questo proposito può essere molto utile riflettere su ciò che disturba noi adulti e ciò che ci aiuta quando ci sentiamo affaticati.

Paola Tonelli [email protected]

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n. 1 (169) – febbraio 2016 il granello di senape pag. 37

E' un motivo ricorrente, ormai, il tentativo di "dare voce a chi non ce l'ha". Scrittori, organizzazioni benefiche, istituzioni religiose. Si tenta di essere mezzo di espressione e di denuncia, di utilizzare la propria voce per esprimere la frustrazione, la gioia, il dolore di qualcun altro. Il nostro tentativo è

ancora più ardito, poiché abbiamo provato a tacere per ascoltare quelle voci che, di solito, vengono soffocate dal guazzabuglio di rumore, urla, parole. Ciò che segue è il risultato: una serie di "voci" - in questo numero del Granello, la terza - che non sono quelle di chi scrive, che hanno un timbro e una

cadenza, un lessico e uno stile propri. Voci belle più che disperate, sagge più che bisognose. Voci che hanno vissuto e conosciuto, voci diverse, che hanno avuto la forza di partire, trascinandosi dietro le proprie radici.

(A cura di Federica Bosi) [email protected]

… dall’Albania

È stato un incidente, o qualcosa del genere. Facevo il terzo anno di ingegneria, quando sono partita. Stavo insieme a un ragazzo da un anno, aveva appena finito l’università e in Albania non vedeva futuro. Siamo scappati di notte, senza dire nulla ai nostri genitori. Niente di quanto veramente volevamo fare, almeno. Ho detto “Vado a dormire da un’amica”, e sono uscita di casa. Ma sono andata al porto e mi sono imbarcata per Brindisi. Non mi mancava nulla, mio padre era militare, mia madre stava a casa e aggiustava piccoli elettrodomestici. È stata una follia, lo so, ero innamo-rata. Non mi sarei mai immaginata che la mia vita prendesse quella piega. Andavo all’università, uscivo con le amiche, andavo al cinema con il mio ragazzo, leggevo moltissimo. Amavo le maglie di cashmere e le camicette. Non ero disperata, non volevo andare via. Il viaggio è stato terribile. Non abbiamo pagato per salire a bordo, ma a un certo punto i poliziotti hanno iniziato a sparare in aria, la nave ha preso fuoco e ci siamo spostati su un’altra. Il viaggio è durato trenta ore, nessuno sapeva davvero come condurre una nave. Io piangevo. Quando ci siamo avvicinati alle coste italiane la Marina ci ha scortati in porto. Siamo stati tre giorni lì, a dormire in terra coprendoci con sacchi di nylon, avevo ventun anni e mi è venuta la bronchite. Dopo tre giorni ci hanno trasferiti in una scuola e ci siamo lavati per la prima volta, da quando eravamo in Italia. Abbiamo parlato con alcuni volontari dell’AVIS di Lecce, sapevamo qualche parola di italiano grazie alla tv. Non avevamo un soldo, sulla nave ce li avevano presi tutti, durante il viaggio. Abbiamo trovato lavoro in una fabbrica di cravatte, ci pagavano poco e lavoravamo tutto il giorno. Ci siamo trasferiti in un garage, abbiamo iniziato a imparare la lingua e finalmente siamo riusciti a telefonare ai nostri genitori. La prima cosa che mi hanno detto è stata “Non ti preoccupare, ti abbiamo già perdonata”. Io piangevo, mi mancavano da morire. “L’importante è che tu sia felice, che sia convinta di stare con lui”, mi hanno detto. Io ero convinta. Ho iniziato a lavorare in una gioielleria, ma lo stipendio era basso. Mi chiedevo, perché tutti vogliono

venire in Italia? Io stavo meglio in Albania. Poco dopo mi hanno ricoverata in ospedale, per la bronchite, e mi sono venuti a trovare in tanti, anche italiani. Mi portavano fiori, libri da leggere. Ho un bel ricordo di quei giorni. Uscita dall’ospedale, abbiamo deciso di andare in Svizzera. Avevo un’amica che lavorava come tradut-trice per la polizia e, arrivati a Chiasso, ci ha aiutati a passare la frontiera. Siamo andati a Ginevra, il nostro progetto era chiedere asilo politico e iscriverci all’uni-versità utilizzando gli aiuti per gli extracomunitari. Mentre aspettavamo una risposta ci hanno trasferiti a Basilea e ci hanno dato una stanza, un documento provvisorio e un assegno di mantenimento. Ogni giorno un funzionario passava da noi (abitavamo insieme ad altri in attesa del permesso) e chiedeva chi volesse lavorare. Abbiamo iniziato a fare i turni in una cioccolateria, dal lunedì al venerdì. Lì ho conosciuto una coppia di Foggia, sono diventata come una figlia per loro. La sera andavo a fare pulizie negli uffici. Guadagnavamo bene, in sei mesi abbiamo messo su un bel gruzzoletto. Abbiamo celebrato una specie di matrimonio con i nostri colleghi della fabbrica. Ci hanno regalato un servizio di porcellana e mi sono comprata una maglia di cashmere. Nel frattempo è arrivata la risposta per il permesso di soggiorno: negativa. Nel giro di un mese dovevamo lasciare la Svizzera. Io sarei potuta rimanere, per frequentare l’università: gli esami che avevo sostenuto in Albania erano stati riconosciuti da Ginevra, quelli del mio ragazzo no. Ma l’avevo seguito fin lì e avrei continuato a farlo. Abbiamo deciso di tornare in Italia, avevamo un amico in Piemonte. Lui è partito subito, io sono rimasta ancora un mese per fare un po’ di soldi. Il giorno della partenza mi tremavano le gambe. Ho preso un treno per Milano con tredici milioni di lire nascosti nel reggiseno. Non avevo il passaporto ma non mi hanno fermata, non avevo la faccia da clandestina. Il mio ragazzo mi aspettava a Milano, aveva messo a posto i permessi di soggiorno e trovato un lavoro nella verniciatura delle bici, in questo paese della provincia di Cuneo. Non sapevo dove fosse. Fino

voci voci voci

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n. 1 (169) – febbraio 2016 il granello di senape pag. 38

Aprire corridoi umanitari Secondo François Crépeau, relatore speciale delle Nazioni Unite, “Le persone vogliono spostarsi e i trafficanti offrono servizi di mobilità. Se tali servizi fossero offerti dagli stati, i trafficanti sarebbero fuori dal mercato. Negli anni cinquanta e sessanta, milioni di persone sono emigrate in Europa. Nessuno è morto, non esisteva la tratta e tutti avevano il diritto di poter entrare in Europa. Ottenevano il visto nelle ambasciate e acquistavano normali biglietti aerei. Se si consentisse la libera circolazione, i trafficanti non esisterebbero perché le persone sceglierebbero il modo più economico e sicuro per spostarsi, invece che pagare diecimila euro e mettere a rischio la vita dei propri figli”. Per la prima volta in Europa saranno aperti dei corridoi umanitari per salvare le vite dei migranti in fuga. La Federazione delle Chiese Evangeli- che in Italia e la Comunità di Sant’Egidio lanciano un progetto pilota finanziato attraverso l'8 per mille. Un protocollo firmato con i Ministeri degli Interni e degli Esteri prevede il rilascio di circa mille visti umanitari a migranti e richiedenti asilo in condizioni di vulnerabilità, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri mille. La selezione e l’identificazione dei beneficiari saranno condotte dalle associazioni partner presenti nei paesi di origine, secondo i requisiti concordati con il governo italiano, senza alcuna discriminazione religiosa e/o nazionale. La due organizzazioni, si faranno carico del viaggio, dell’accoglienza e delle attività d’integrazione dei profughi una volta giunti in Italia.

Sergio Dalmasso Tavolo delle associazioni - Cuneo

a Torino il viaggio è andato bene, ma più ci avvicinavamo a Cuneo e più saliva l’ansia, quando siamo arrivati mi sentivo soffocare. Siamo andati ad abitare con l’amico di mio marito, la chiesa gli aveva assegnato un alloggio per pochi soldi. Spesso mi veniva da piangere, mi chiedevo cosa fossi venuta a fare qui, i miei avevano fatto tanti sacrifici per farmi studiare e ora non avevo nemmeno un lavo-ro. La casa era piccola e brutta, c’era un solo bagno, sul balcone. A cena mangiavamo due scatolette di ton-no con un pomodoro. Quando sentivo i miei al telefo-no, però, facevo finta di niente, dicevo di stare bene. Ho capito di dovermi abituare alla situazione, anche se la differenza dalla vita in Svizzera era enorme. Ho iniziato a prendermi cura di un’anziana ma non è stato facile, non ero abituata. In casa ero sempre stata coccolata, il mio dovere era studiare. Non riuscivo a vederla soffrire, vomitavo in continuazione. Ho cercato altri lavoretti: facevo gli orli ai vestiti, le pulizie, guardavo i bambini. Volevo integrarmi, conoscere persone nuove. Nel frattempo mi arrivavano notizie dalle mie amiche rimaste in Albania: avevano finito gli studi ed erano state assunte in posti importanti, ben retribuiti. Dopo tre mesi abbiamo cambiato casa e preso la patente. Appena i documenti sono stati a posto, siamo tornati in Albania per sposarci. I nostri genitori non appoggiavano le nostre idee, ciò che avevamo fatto, anche se alla fine l’avevano accettato. Avevamo un po’ paura di tornare, così abbiamo comprato dei regali. È stata una bella festa, lunga. Di nuovo tutti insieme. Tornati in Italia sono iniziati i problemi, ci siamo allontanati: mio marito lavorava anche nel fine settimana, ha preso a uscire da solo. È venuta meno la fiducia, tra noi; io ci vedevo ancora come un tutt’uno, ma capivo che per lui era diverso, che non era più così. Dopo sette anni insieme mi sono resa conto che le nostre strade stavano per dividersi, nonostante tutto l’amore che c’era stato, avevamo deciso di prendere direzioni diverse. Ne abbiamo parlato, sentivo che separarsi era la cosa giusta da fare, ma in fondo speravo che lui cambiasse idea, che cercasse di recuperare. Invece no, ha deciso di trasferirsi in

un’altra casa. Ho sofferto molto ma il rispetto tra noi non è mai mancato, dopo un mese siamo andati in Albania e abbiamo divorziato. È stato un periodo terribile, piangevo in continuazione. Ho iniziato a lavorare a tempo pieno come sarta, il sabato e la domenica facevo la barista. Dopo un anno ho incontrato il mio attuale marito, nel caffè in cui lavoravo. Abbiamo parlato molto e devo avergli detto che il giorno dopo sarebbe stato il mio compleanno perché si è presentato con un mazzo di fiori. Io ormai ero abituata a stare sola; avevo i miei libri, la mia casa. Mi piaceva la mia nuova vita, ma avevamo entrambi voglia di famiglia: lui si è trasferito da me e un po’ di tempo dopo sono rimasta incinta. Abbiamo avuto due figli. Ogni tanto la vita ti sorprende, ti sorprende proprio. Sono qui da molti anni, mi sento a casa. Guardo mia figlia e sembra me: chissà se un giorno anche lei andrà lontano. Mi guardo e sono felice, non cambierei una virgola di quello che è stato.

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L'esperienza del progetto FARO a Ragusa Gocce di umanità nelle maglie del sistema di accoglienza italiano

Il progetto FARO di ‘Terre des Hommes Italia’, finalizzato all'accoglienza dei Minori Stranieri Non Accompagnati e delle famiglie con bambini in arrivo in Sicilia, prende vita a Lampedusa nel 2011, a fronte dell'emergenza Nord Africana. In seguito, al fine di tutelare i diritti dei minori migranti che continuavano e continuano ad approdare nella Sicilia orientale, si è esteso alla provincia di Siracusa e, a giugno del 2015, a quella di Ragusa. Nel contesto del ragusano, l'intervento di ‘Terre des Hommes’ si articola, come collaborazione esterna, all'interno di tre differenti contesti emergenziali: il Centro di Primo Soccorso e Accoglienza (CPSA) di Pozzallo, attualmente gestito dalla cooperativa ‘Azione Sociale’; ‘La Casa delle Culture’ di Scicli, nata nel dicembre del 2014 ad opera della Chiesa Valdese, all'interno del progetto ‘Mediterranean Hope’ promosso dalla FCEI (Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia). Inoltre, l'équipe offre un servizio di sostegno psicologico e psicosociale in un terzo contesto, sulla banchina di Pozzallo, in coordinamento con l'ASP (Azienda Sanitaria Provinciale), con le forze di polizia presenti e con le altre ONG (dall'avvio del progetto ‘Terre Des Hommes’ ha collaborato con “Medici senza Frontiere” - che attualmente ha presentato le proprie dimissioni dal CPSA di Pozzallo - con ‘Save The Children’ e con l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). I due centri hanno una diversa destinazione d'uso. Nel centro di Pozzallo, adibito alla prima accoglienza, è previsto che i migranti trascorrano un periodo massimo di 72 ore, il tempo necessario per essere identificati e trovare una risposta ai loro bisogni primari (sanitari, igienici, alimentari, psico-sociali, di informativa legale). Recentemente è divenuto un “hot spot”, un centro ad alto smistamento, con conseguenze sul piano delle procedure di identificazione e di respingimento segnalate da ‘Terre des Hommes’. ‘La Casa delle Culture’ di Scicli è, invece, una “struttura ponte” fra la prima e la seconda accoglienza, nella quale i minori soggiornano per un periodo compreso fra una settimana ed alcuni mesi, in attesa di essere trasferiti in strutture di seconda accoglienza per poter intraprendere un percorso di integrazione sociale o di conseguire un ricongiungimento familiare con parenti in Italia e all'estero. L'équipe multiprofessionale di ‘Terre Des Hommes’ è formata da una psicoterapeuta, un sociologo e una mediatrice arabofona, data la prevalenza di migranti che parlano la lingua araba (conoscenza che, a prescindere dai migranti per i quali l'arabo costituisce la lingua madre, viene acquisita da molti a seguito della protratta permanenza in Libia, in condizioni di

frequente sfruttamento lavorativo, violenza fisica e sessuale, incarcerazione e torture). I colloqui con parlanti non arabofoni vengono svolti in inglese e francese. In questi primi sei mesi di lavoro sul campo, ‘Terre Des Hommes’ ha registrato la presenza di migranti di disparati paesi: Siria, Nord Africa (gli egiziani spesso emigrano via mare direttamente dall'Egitto, senza passare per la Libia), Eritrea, Somalia, Etiopia, Nigeria, Gambia, Mali, Senegal, Sierra Leone, Camerun, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Costa d'Avorio, Bangladesh, ecc. L'intervento dell'équipe di ‘Terre des Hommes’, che ha come mandato prioritario la tutela dei diritti dei minori e, nello specifico del progetto FARO, l'obiettivo di offrire loro sostegno psicologico e psicosociale, si radica nel fornire una risposta a quelli che sono i bisogni reali, prioritari, delle persone migranti, nei limiti dei contesti concreti nei quali ci troviamo ad operare. All'interno del CPSA di Pozzallo ‘Terre des Hommes’ ha denunciato le condizioni di protratta reclusione dei migranti (autoblindati della questura sbarrano perennemente la porta di uscita dello stanzone principale), di promiscuità e sovraffollamento, così come ha promosso la creazione di un coordinamento fra le diverse ONG in materia di buone prassi da realizzare in risposta ai bisogni primari dei soggetti. Le temperature estive sono elevate, in assenza di porte e finestre aperte e in condizioni di sovraffollamento nel centro, che è arrivato a contenere 400 migranti a fronte dei 180 posti disponibili e l'aria che si respira è pesante e malsana. Ma il limite, la presa di consapevolezza del reale contesto e funzionamento dell'accoglienza, costituisce nello stesso tempo una possibilità di intessere gocce di umanità, che prendono corpo in un tempo e in un luogo “altri”. Lo spazio “conquistato” dall'équipe, in mancanza di una sede all'interno del centro, è una piccola striscia asfaltata nell'area esterna, delimitata dagli autoblindati della polizia. Talvolta, nei momenti di minor affollamento, quando rimane libero, quello che in gergo viene definito lo “stanzone delle donne”, una stanza collocata nell'ala laterale del CPSA. Distendiamo il nostro tappeto giallo, in gomma, lavabile, e ci apprestiamo a svolgere dei gruppi con i bambini. Il materiale è volutamente di base: colori, matite, album con disegni da colorare (un foglio bianco può costituire una richiesta di prestazione ansiogena, se richiesto di default a tutti i bambini), fogli bianchi per chi desidera spingersi oltre, narrando qualcosa della propria storia... Un bambino siriano disegna un carro

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armato - “l'ho visto vicino a casa mia” -, un'angoscia che chiede di essere raccolta e riconosciuta. Lo ascoltiamo, rassicurandolo che adesso è fuori pericolo, in Italia non ci sono i carri armati per le strade. Cosa mi sta insegnando il “profondo” sud? A fermarmi. A ridurre le proposte, le idee per ascoltare quelli che sono i bisogni concreti dei bambini e delle loro famiglie appena sbarcati, dei Minori Stranieri Non Accompagnati. Come professionista psicoterapeuta, operare in questi contesti significa ridurre il proprio intervento a ciò che è essenziale. Ricordo alcuni gruppi realizzati dall'équipe con bambini siriani sbarcati da un paio di giorni. L'obiettivo prioritario del nostro intervento è stato quello di far prendere loro una boccata d'aria, di accoglierli con gesti caldi, di tenerezza e rispetto, osservando le loro espressioni e il linguaggio dei loro corpi. Alcuni coloravano, trovando uno spazio di espressione e di contenimento dell'angoscia nel ritmo regolare dell'incedere del pennarello. Altri disegnavano, desiderosi di condividere i loro mondi interiori, la famiglia con la quale erano emigrati, la casa lasciata al paese d'origine, lo spaesamento e la confusione di essere in un contesto nuovo senza comprenderne la motivazione. Mi ritornano in mente le parole di un bambino nigeriano seguito individualmente: “Quando torno a casa mia?”. Parole che celano il dolore e la lacerazione di perdere i propri punti di riferimento. Durante i gruppi svolti con i siriani, alcuni bambini restavano semplicemente ad osservare i coetanei. Altri si sono addormentati, nel calore dei corpi che è il linguaggio più potente per accogliere e prendersi cura dei traumi, delle ferite dell'anima che alcuni percorsi migratori possono arrecare. Un calore umano che arriva dove le parole non trovano ancora significati. Lenisce paure, angosce, orrori, rabbie che hanno sequestrato la possibilità di rimanere lucidi. Essere lì con loro è stata la nostra scelta, anche nel silenzio. Accogliendo i loro bisogni e proponendo loro piccole essenziali attività, che possono scegliere liberamente di svolgere o no, soggetti attivi. Con la fiducia, da parte della nostra équipe, che sappiano scegliere come rispondere meglio ai bisogni del proprio organismo: riposare, trovare un calore umano, socializzare fra di loro o con un adulto, esprimersi, non esprimersi, piangere. Operiamo sostenendo i genitori nell'assunzione del ruolo genitoriale, rinforzandoli in merito alle capacità di leggere i bisogni dei figli, anche a fronte di momenti di oggettiva difficoltà delle madri, spesso sole, in gravidanza e con figli molto piccoli, che potrebbero sfociare in scivolamenti depressivi o in altri disturbi psicologici. Lo stesso discorso vale per i minori, che abbiamo la possibilità di seguire per un periodo di tempo

maggiormente continuativo presso ‘La Casa delle Culture’. Sono soggetti attivi, spesso arrivano portando con sé idee chiare in merito al proprio percorso migratorio. Partono bambini e nel viaggio diventano adulti. Molti hanno competenze professionali, hanno lavorato al paese d'origine o durante il proprio percorso migratorio, per pagarsi il viaggio. Chi emigra per lo più è una persona con risorse, capace di orientarsi, che ha attraversato diversi paesi per giungere in Italia, trovando il modo per pagare il proprio viaggio, spesso emigrato con la finalità di trovare il prima possibile un lavoro per inviare il denaro alla famiglia d'origine. ‘Terre Des Hommes’ mette a disposizione del centro di Scicli uno sportello di sostegno psicologico, un corso di alfabetizzazione nella lingua italiana, laboratori di orientamento geografico, un servizio di apertura account e-mail e facebook che consenta ai minori di tener vive le proprie reti amicali in Italia e all'estero e di mantenere i contatti con i familiari. Inoltre l'équipe gestisce un servizio di prestito libri (durante i colloqui di sostegno psicologico con persone musulmane, talvolta chiedo ai ragazzi se possono recitare una sura del Corano per proteggersi, dinnanzi a situazione di sofferenza manifesta, per aprire uno spazio simbolico e spirituale che possa riconnetterli alla loro religione e, qualora lo desiderino, hanno la possibilità di prendere in prestito un Corano). In questi sei mesi alcuni ragazzi hanno abbandonato il centro, senza preavviso, e con esso i percorsi che seguivano con ‘Terre Des Hommes’. Ad un primo sguardo sembra un fallimento, ma forse, abbandonando quella prospettiva etnocentrica che ci portiamo inconsapevolmente incollata alla pelle, per alcuni può costituire un'assunzione di potere personale, un rendersi protagonisti del proprio progetto migratorio. Il nostro compito è di proteggerli, di accompagnarli per un tratto di strada, di sostenerli nel realizzare i loro progetti, di metterli in guardia dai rischi che possono incontrare se non imparano la lingua italiana, se non attendono i documenti ed emigrano illegalmente verso le loro mete. Senza però sostituirci a loro; nella complessità di accogliere strategie migratorie che possono implicare anche la manipolazione e la pretesa di ottenere vantaggi immediati senza tollerare l’attesa, aprendo spazi di dialogo, confronto, consapevolezza e promozione dell'autonomia personale. Accettando quell'impasto di umanità che si declina all'interno di ogni persona e di ogni cultura fra le maglie di un sistema di accoglienza complesso e imperfetto. Nel quale, ciò nonostante, è possibile costruire temporanei percorsi di umanità e senso.

Marianna Cento

[email protected]

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n. 1 (169) – febbraio 2016 il granello di senape pag. 41

Avanti, ma piano Un bilancio di 4 mesi di lotta per liberare il Puf

Nel Consiglio comunale di Cuneo di lunedì 25 gennaio è tornata la questione del Puf (Palazzo degli Uffici Finanziari) attraverso la discussione (e la successiva approvazione all’unanimità) di un ordine del giorno che impegna sindaco e amministrazione a “esigere [dal Demanio] la destinazione dei 18 alloggi inutilizzati per far fronte a qualcuna delle numerose richieste di alloggi popolari e alle esigenze degli sfrattati”. I fatti nuovi: il Sindaco Borgna all'ingresso del Consiglio comunale, prontamente ripreso dal fotografo della Stampa, ha firmato la petizione “Liberiamo il Puf” e ha dichiarato che sono a buon punto i contatti con il Demanio per l'acquisizione dei 18 alloggi ma anche che ci vuole ancora tempo. Lo ha ribadito poi in Consiglio definendo il Puf una ferita aperta per la città (basti ricordare le condizioni di degrado strutturale sotto gli occhi di tutti e di spreco di risorse: il 40% dell’immobile non è utilizzato e il costo del riscalda-mento per questa parte ammonta a 400mila euro l’anno!). I consiglieri di opposizione Fierro e Garelli hanno rilanciato, proponendo che la prossima giunta e/o il prossimo Consiglio comunale si svolgano in zona Puf, anche qui con consenso diffuso. E' ovvio che è assai diverso se questa iniziativa avvenga dentro il Puf o davanti al Puf. Prendendosi cioè la respon-sabilità di un “reato” o facendo solo un'iniziativa propagandistica. Al di là di particolari, pur importanti (l'acclarata buona fede del Sindaco, le modalità dell'iniziativa futura del Consiglio comunale), una prima fase della lotta per liberare il Puf si è conclusa. Il bilancio è semplice, quanto è complicato andare avanti. In quattro mesi di lotta intensissima e, tenuto conto della nostra realtà, di grandi successi, siamo a metà del guado. Abbiamo messo la campagna “Liberiamo il Puf” (legandola al tema dello sperpero di denaro pubblico e a quello del diritto alla casa) al centro della vita

politica cittadina. Abbiamo incassato l'appoggio della stampa e il sostegno dei cittadini e di firme “eccellenti” alla nostra petizione, messo in campo una rete sociale e politica non indifferente (Fiom, Caritas, Case popolari, associazioni), coinvolto Prefetto e Vescovo, ottenuto il voto all'unanimità del Consiglio comunale e l’impegno del Sindaco. Siamo al dunque: la liberazione del Puf si gioca sui risvolti economici della trattativa con il Demanio e sulle condizioni dei 18 appartamenti. 15 anni di abbandono, a riprova ulteriore della giustezza della nostra iniziativa, hanno portato a danni per 70.000/80.000 euro. Probabilmente potrebbe in parte risolvere la questione l'intervento di alcune associa-zioni impegnate nella campagna; non escludiamo nemmeno di coinvolgere la Fondazione della Cassa di Risparmio. Il nocciolo della questione è però che il Demanio chiede troppi soldi per vendere gli alloggi al Comune e il Sindaco, a ragione, ne vuole la concessione in comodato gratuito. Si rischia che in vista dell'obbiettivo tutto si impantani e poi evapori con il passar del tempo. A questo punto il pallino passa alla “grande” politica, intendiamo parlamentari e ministri; con possibilità di adozione da parte delle istituzioni di misure inconsuete (requisizione), ma contemplate nel nostro ordinamento giuridico, e da parte della cittadinanza di forme di lotta di resistenza civile. Come ‘Sportello casa’ faremo ancora la nostra parte, ma siamo consapevoli di non potercela fare da soli. Facciamo appello a tutti, in primo luogo alle forze e alle persone che hanno condiviso con noi questa campagna, a continuare insieme l'ultimo tratto di questa lotta, a sanare questa “ferita” alla città e a liberare finalmente il Puf.

Per lo Sportello casa di Cuneo Carlo Masoero

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n. 1 (169) – febbraio 2016 il granello di senape pag. 42

La resistenza contro le dighe dell'Enel in Sudamerica Il 5 maggio 2013 circa 200 persone parteciparono all'edizione della Primavera dell'Acqua svoltasi a Moiola. Ebbero la possibilità di ascoltare i racconti dei movimenti che in Sudamerica si oppongono alle megadighe dell'Enel (realizzate attraverso la controllata Emgesa), quel giorno ospiti del Comitato Cuneese Acqua Bene Comune, del Comune e della Pro-loco di Moiola, anch'essi impegnati contro un progetto che se realizzato sconvolgerebbe l'attuale fisionomia della Valle Stura. Ci sembra importante comunicare a coloro che parteciparono a quella bella giornata di festa e di solidarietà, ma anche a tutte le persone solidali con le popolazioni del Sudamerica, gli sviluppi delle loro lotte. Per quanto riguarda la costruzione della diga Pajo Veio, avvenuta in Guatemala, all'interno di un'immensa piantagione di caffè messa insieme attraverso la progressiva sottrazione di terre ai municipi limitrofi, alle comunità indigene e ai contadini, le rivendicazioni riguardano le giuste compensazioni per i danni subiti; negli altri casi le mobilitazioni hanno come obiettivo la rinuncia alla realizzazione dell'opera. In Colombia, le comunità della regione di Huila resistono contro la costruzione della centrale idro-elettrica El Quimbo. Sono convinti che la diga rappresenterà una catastrofe per la loro economia, con lo sfollamento di 1.466 persone. Il 10 dicembre scorso la Corte Costituzionale ha sospeso il progetto dando ragione alle comunità locali, ma a distanza di un mese le pressioni del governo sono riuscite ad ottenere che un tribunale locale intervenisse consentendo la ripartenza dei lavori. Miller Dussán Calderón, che testimoniò a Moiola, è stato denunciato da Emgesa con l’accusa di istigazione all’occupazione di terre e danni all’ambiente. In difesa di Dussán, sono già intervenuti l’Osservatorio mondiale contro le torture e la Federazione internazionale dei diritti umani, che hanno manifestato la loro preoccupazione per la “persecuzione giudiziaria”. In Cile, patria delle privatizzazioni dell'acqua e dei fiumi da parte di Pinochet, delle quali anche Enel ha beneficiato, le cose si stanno mettendo male per l'impresa italiana, nonostante le donazioni, dichiarate dall'amministratore delegato Francesco Starace, di 3,5 milioni di dollari, elargite dall'azienda ai politici cileni nella campagna elettorale. Già l'anno scorso il governo cileno aveva deciso la revoca della licenza ambientale di Hidroaysen, il megaprogetto idroelettrico che prevedeva la costruzione di cinque dighe ed una linea di trasmissione di 2.500 km per portare elettricità alle miniere. Il 2015 si è concluso con l'annuncio, da parte dell'Enel, del ritiro del progetto della centrale idroelettrica del lago Neltume. I presenti a Moiola ricorderanno in

merito il brillante intervento di Humberto Manquel Millaguir del Parlamento Mapuche Koz Koz. Si trattava, dopo l'abbandono di Hydroaysen, del progetto più grande di Enel in Cile. Non ha superato la Valutazione di Impatto Ambientale. Non va dimenticato che le grandi opere di questo genere non hanno conseguenze solo sull'ambiente del sud del mondo. Grazie all'energia idroelettrica prodotta Enel acquisisce permessi di emissioni che le consentono di continuare a produrre energia in Italia bruciando carbone, il maggior responsabile delle emissioni di polveri sottili!

Sergio Dalmasso per il Comitato Cuneese Acqua Bene Comune

[email protected]

Fare affari con le armi Laurent Collet-Billon, delegato generale sugli armamenti presso la Commissione Difesa francese, lo aveva previsto prima degli attacchi terroristici di Parigi. Il 2015 sarà un anno record per le esportazioni di armi francesi: per un valore di 15 miliardi di euro. Diversi specialisti sono concordi nell’affermare, non senza un certo imbarazzo, che, con l’attentato e la nuova coalizione internazionale in chiave anti-Daesh, gli affari della Francia nel settore degli armamenti andranno ancora più a gonfie vele. Recentemente sono stati firmati contratti di fornitura con l'Egitto e il Qatar per un valore che, in entrambi i casi, supera i 6 miliardi di euro. Mentre la preparazione e la logistica degli attacchi al Bataclan erano oramai a buon punto, Jaber Al-Moubarak Al-Ahmad Al-Sabah, primo ministro del Kuwait, calcava le strade di Parigi per firmare un triplice contratto per esercito, aeronautica, marina: un totale di 2,5 miliardi di euro. Anche l'Italia non se la cava male nella vendita delle armi. Negli ultimi 25 anni ne ha fornite per 54 miliardi di euro. 12,5 miliardi di euro arrivano grazie agli affari con paesi di zone calde del Medio Oriente e Nord Africa. Tra gli accompagnatori del Premier Matteo Renzi nella sua recente visita in Arabia Saudita c'era Mauro Moretti, Amministratore Delegato di Finmeccanica. Il regime è un affidabile acqui- rente, nonostante sia conclamata la sua respon- sabilità nella crescita della potenza del Daesh. Tra gli “effetti Parigi”, c’è anche il +3% registrato da Finmeccanica alla riapertura della Borsa dopo gli attentati.

S. D.

Tavolo delle Associazioni - Cuneo

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Dove eravamo rimasti?

Sul numero di dicembre avevamo concluso il nostro intervento con la constatazione di quanto sarebbe stato ancora lungo il percorso per avere la gestione pubblica dell'acqua in provincia di Cuneo, e di quanto impegno avrebbe ancora richiesto. Dopo due mesi possiamo solo confermare quella previsione. Lo scorso 28 dicembre, la Conferenza d'Ambito ha varato il programma temporale (cronoprogramma è il termine tecnico) degli impegni ritenuti necessari per giungere fra un anno alla decisione su chi sarà il nuovo gestore unico provinciale del Servizio Idrico Integrato. Non starò qui a tediarvi su un documento prettamente (e volutamente) tecnico, ma vi comunico semplicemente che fino a quella data i nostri amministratori si sono lasciati aperte due strade: la gestione totalmente pubblica oppure la gestione mista privata-pubblica. Questo indipendentemente dalla buona volontà espressa da molti sindaci, che però, non recepita in atti deliberanti, rimane un buon sentimento e non una scelta politica. A fomentare le nostre preoccupazioni sono arrivate nella stessa giornata le nuove delibere assunte dall'autorità nazionale AEEGSI, che ha varato un nuovo metodo tariffario a valere per gli anni dal 2016 al 2019, un nuovo modello contrattuale tra gestori ed utenti ed un nuovo modello di convenzione tra Enti e gestori. Una attività normatrice estremamente complicata che ha come effetto quello di rendere inaccessibile ai cittadini la comprensione dei meccanismi e di renderne molto pesante e costosa

l'applicazione da parte delle aziende, con la conseguenza di favorire i grandi gruppi (le famose 4 multiutilities, campioni nazionali). Intento pienamente riconfermato con i decreti attuativi della legge sulla ristrutturazione della Pubblica Amministrazione (Madia), approvati in questi giorni. In questi ultimi, insieme ad un necessario sfoltimento del numero delle società partecipate dagli Enti Locali, soprattutto quelle che non forniscono servizi, o che non hanno lavoratori dipendenti, vengono introdotte norme che porteranno anche nell'acqua ad avere grandi gestori a livello di distretti multi-provinciali (se non regionali), sempre più lontani dai cittadini ed anche dai sindaci che dovrebbero governarli. In questo scenario temiamo che le “buone volontà”, magari mal digerite da qualcuno, possano vacillare sotto la troppo inflazionata giustificazione del “ce lo impone il governo”. Anche noi del Comitato non abbiamo i mezzi, le conoscenze ed il tempo necessario per entrare in tutti questi provvedimenti che si intersecano e si contorcono su un tema che era tanto chiaro: fuori l'acqua dal mercato! Nelle nostre riunioni, in mezzo a tutte queste difficoltà, spesso ci assale una domanda che vorremmo riuscire a trasmettere ai nostri sindaci perché provino anche loro a ricercarne una risposta: come mai tutti i gestori operanti in provincia, siano essi pubblici, misti o privati, continuano negli anni a realizzare utili su una gestione regolamentata per fornire esclusivamente la copertura dei costi sostenuti?

Infatti quanto noi paghiamo sulle bollette è definito per legge come “corrispettivo” del servizio prestato, cioè mera copertura dei costi sostenuti. Se ogni anno le aziende distribuiscono dividendi ai soci, oppure rimpolpano sostan-ziosamente riserve societarie facoltative e distri-buibili, oppure pagano salatamente prestazioni fornite da alcuni soci privati od ancora sono in grado di sponsorizzare costose iniziative sul territorio, ci pare proprio che l'obbligo della sola copertura dei costi non sia rispettato! Il tutto mentre apprendiamo dalla relazione allegata al bilancio preventivo 2016 di EGATO4 Cuneese, anch'esso varato lo scorso 28 dicembre, che in totale i gestori hanno realizzato nel 2015 meno del 50% degli investimenti che erano tenuti a realizzare. Ci auguriamo proprio che qualche sindaco questa domanda la voglia porre ai gestori che operano sul suo territorio, e siamo estremamente curiosi di conoscerne le risposte.

Oreste Delfino per il Comitato Acqua Bene Comune – Cuneo

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Il Tribunale dei popoli condanna le grandi opere

All’inizio dello scorso mese di novembre, il Tribunale Permanente dei Popoli (TPP) ha emesso una storica sentenza di condanna nei confronti di quelle istituzioni che hanno imposto alle popolazioni locali la realizzazioni di grandi opere. Il riferimento più imme-diato riguarda la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità (TAV) tra Torino e Lione, con l’attraversamento della valle di Susa, ma le stesse problematiche sono state ravvisate anche in altre circostanze, quali il progetto MO.S.E. di Venezia, gli impianti termodinamici su terreni agricoli in Basili-cata, il sottoattraversamento ferroviario di Firenze, le trivellazioni in mare per la ricerca di idrocarburi, l’aeroporto di Notre-Dame des Landes in Francia, la ferrovia ad alta velocità tra Londra e Birmingham, la stazione di Stoccarda, i grandi corridoi logistici che dovrebbero attraversare il Messico e l’America latina, più tanti altri ancora.

Il TPP, che rappresenta l’erede del Tribunale Russell, è formato da giuristi, costituzionalisti, scrittori ed intellettuali: le sentenze che emette non hanno valore legale, ma rappresentano un significato morale di grande portata. L’intervento del TPP era stato sollecitato dal Controsservatorio Val Susa, il quale aveva chiesto di verificare se la realizzazione del progetto TAV non rappresentasse una violazione dei diritti umani delle comunità che abitano lungo i territorio attraversati dall’opera e se le procedure adottate dagli Enti proponenti e realizzatori dell’o-pera rispettassero le più elementari norme di demo-crazia e partecipazione popolare.

Riportiamo alcuni stralci della sentenza. “Il Tribunale Permanente dei Popoli RICONOSCE tra i diritti fondamentali degli individui e dei popoli, quello alla partecipazione ai procedimenti di delibe-razione relativi alle stesse opere. Questo diritto, oltre a essere espressione del diritto di partecipa-zione degli individui e dei popoli al proprio governo – come stabilito nella Dichiarazione universale dei diritti (art. 21) e nel Patto sui diritti civili e politici (art. 25) – è funzionale ai principi della democrazia e della sovranità popolare e alla garanzia dell’effettivo rispetto degli altri diritti umani, incluso il diritto all’ambiente e a condizioni vita conformi alla dignità umana degli individui e delle comunità locali coinvolte dalle opere”.

Di conseguenza, il Tribunale: “… DICHIARA che in Val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali. Da una parte, quelli di natura procedurale, come i diritti relativi alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione (conosciuto come TAV), previsto inizialmente nell’Accordo bilaterale tra Francia e Italia del 29 gennaio 2001; di partecipare, direttamente e attraverso i suoi rappresentanti

istituzionali, nei processi decisionali relativi alla convenienza ed eventualmente al disegno e alla costruzione del TAV; di avere accesso a vie giudi-ziarie efficaci per esigere i diritti sopra menzionati. Dall’altra parte si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espres-sione, manifestazione e circolazione, come conse-guenze delle strategie di criminalizzazione della protesta.”

Non solo: il TPP ha anche accertato che gli Enti Pubblici “… dichiarano abusivamente i territori atti-nenti alla costruzione di grandi opere “zone di interesse strategico”, con regimi speciali che modifi-cano e interferiscono con le competenze di gestione del territorio escludendone le amministrazioni locali, con la Legge 443 del 21 dicembre 2001, conosciuta come Legge Obiettivo (“Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strate-gici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive")” ed inoltre che “… le centinaia di progetti qualificati come strategici possono essere assoggettati (come sta accadendo in Val Susa) al controllo di polizia e militare ed interdetti ai cittadini.”

Molto dure e circostanziate anche le critiche rivolte a chi propone e realizza le grandi opere; il TPP ha infatti accertato come “… il ricorso alla denigrazione e alla criminalizzazione della protesta è la documentazione più evidente della inconsistenza e della mancanza di credibilità degli argomenti dei promotori delle grandi opere, che mirano a convincere le persone e le comunità colpite della bontà e dei vantaggi dei progetti. In questa attività partecipano in modo determinante i mezzi di comunicazione più diffusi, che sostituiscono, con una esplicita disinformazione al servizio degli interessi dei loro proprietari e gestori, la loro funzione di servizio al diritto all’informazione”.

Per quanto riguarda l’opposizione ai progetti, il TTP afferma “… che le persone che si mobilitano contro il TAV, come contro l’aeroporto di Notre Dame des Landes o in altri progetti, devono essere considerate come “sentinelle che lanciano l’allarme” al consta-tare violazioni di diritto che possono avere un grave impatto sociale ed ambientale e che, con modalità legali, cercano di allertare le autorità in vista della cessazione di atti contrari agli interessi di tutta la società.”

In ultima analisi, le responsabilità di tutto ciò sono da imputare “… in primo luogo ai governi italiani che si sono succeduti negli ultimi due decenni, alle autorità pubbliche responsabili della assunzione delle deci-sioni e delle misure che sono state sopra denunciate, ai promotori del progetto e all’impresa responsabile della sua esecuzione TELT (Tunnel Euralpin Lion Turin).”

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Ma anche l’Unione Europea non è esente da responsabilità “… con la sua omissione di risposte concrete alle denunce ripetutamente formulate dalle comunità colpite e presentate alla Commissione di petizioni del Parlamento europeo e con la accettazione acritica delle posizioni dello stato italiano, permette il consolidamento e, ciò che è ancor più grave, il cofinanziamento di un’opera che si sviluppa in chiara violazione del principio di precauzione, affermato nell’art. 191 del trattato di funzionamento dell’UE, delle direttive europee sulla valutazione di impatto ambientale dei progetti, sull’accesso alla informazione e sulla partecipazione all’adozione di decisioni riguardanti l’ambiente…”.

La conclusione del “processo” si può condensare in una serie di raccomandazioni che il TPP presenta a tutti i soggetti interessati. In particolare, si chiede agli Stati italiano e francese di “… procedere a consultazioni serie delle popolazioni interessate, e in particolare degli abitanti della Val di Susa, per garantire loro la possibilità di esprimersi sulla pertinenza e la opportunità del progetto e far valere i loro diritti alla salute, all’ambiente, e alla protezione dei loro contesti di vita. Queste consultazioni dovranno realizzarsi senza omettere nessun dato tecnico sull’impatto economico, sociale e ambientale del progetto e senza manipolare o deformare l’analisi della sua utilità economica e sociale. Si dovranno esaminare tutte le possibilità senza scartare l’opzione “zero”. Finché non si garantisce questa consultazione popolare, seria e completa, la realizzazione dell’opera deve essere sospesa in attesa dei suoi risultati, che devono essere in grado di garantire i diritti fondamentali dei cittadini.”

Più in particolare, lo Stato italiano dovrebbe “… rivedere la Legge Obiettivo del dicembre 2001, che esclude totalmente le amministrazioni locali dai processi decisionali relativi al progetto, così come il decreto Sblocca Italia del settembre 2014 che formalizza il principio secondo il quale non è necessario consultare le popolazioni interessate in caso di opere che trasformano il territorio”.

Un documento decisamente devastante, che rende giustizia a tutti coloro che si sono opposti, ovviamente in modo non violento e costruttivo, alla realizzazione di infrastrutture che rappresen-tano solo uno strumento per sanare gli appetiti di grandi gruppi di pressione, ma certo non vengono incontro alle esigenze dei cittadini.

Da Natura e Società, n. 4/2015 (www.pro-natura.it)

Per leggere il testo integrale della sentenza v. www.tribunalepermanentedeipopoli.fondazionebasso.it

Un lavoro comune con realtà di Solidarity operanti in Grecia

Dopo un lavoro preliminare di alcuni mesi, il 23 e 24 gennaio ad Atene si è tenuta una serie di incontri di una nutrita delegazione del Circolo Arci La Poderosa di Torino, dell'Associazione Italia Grecia di Cuneo e di militanti di Rifondazione con alcune associazioni di solidarietà di Atene che, pur con una loro autonomia gestionale, fanno riferimento a Solidarity4all. Abbiamo incontrato il Centro Solidarietà del Pireo, il Centro di Solidarietà di piazza Viktoria e il laboratorio medico dentistico, nonché dispensario farmaceutico, di Nea Smirne. Nello specifico si è così dato il via al gemellaggio (con scambio di doni, abbracci e baci; impegno di lavoro comune e manifestazioni di forte gradimento per il nostro contributo economico alle loro attività, frutto delle attività svolte in questo anno in solidarietà con il popolo greco) tra le nostre realtà e il Centro del Pireo... Data l'ampiezza qualitativa oltre che quantitativa dell'attività svolta dal Centro del Pireo (fortemente impegnato in un largo ventaglio di attività: cibo, vestiti, scuola, cultura, rifugiati, tempo libero…) ci siamo orientati con i compagni greci a verificare reciprocamente quali fossero i campi e le specifiche iniziative in cui con maggiore facilità ed efficacia si potessero incrociare necessità in loco e risorse attingibili in Italia. Il Centro di Piazza Viktoria è invece più specializzato sul tema dei rifugiati (in Grecia, tenendo conto del numero degli abitanti, c'è stato un flusso di rifugiati molto maggiore di quello che ha riguardato l'Italia). La piazza, grande, in cui ha sede il Circolo è uno dei riferimenti principali dei profughi, che in Atene sono in transito e non stanziali, e in particolari momenti è completamente occupata dai profughi che si accampano anche nel grande parco lì vicino. Loro provvedono per il cibo e per un minimo di confort per il viaggio per quanto riguarda donne e bambini. Su questa base ci hanno espresso neces-sità specifiche, riguardanti i bisogni dei rifugiati in transito, e anche modalità specifiche per garantire l'effi-cacia degli interventi che si riusciranno a mettere in atto. Quanto all'ambulatorio e al dispensario di Nea Smirne, le necessità sono persino intuitive: in particolare riguar-dano macchinari anche usati per l'attività diagnostica e dentistica e specifici prodotti farmaceutici. Anche qui vale il discorso del Pireo, dunque la necessità di una attenta ricognizione da fare in Italia. Non è compito di questa relazione introdurre una discussione sulla vicenda greca e sulla situazione sociale e politica attuale di questo paese. E' indubbio però che un’attenta analisi e una pacata discussione su questi temi sono elementi imprescindibili di ogni intervento sensato, anche nel campo della sola solidarietà sociale. Alcune cose chiare su quello che questa visita in Grecia ci ha detto, spesso confermato, ci sentiamo però di porle

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all'attenzione dei lettori. Le associazioni di cui parliamo sono notevoli per consistenza, capacità di intervento e numero (400 circa). Svolgono con efficienza un ruolo di assoluta necessità in campo sociale, di supplenza dello Stato e di supporto alle esigenze primarie di una parte consistente della popola-zione, la cui situazione è tuttora in via di peggioramento. Le attività che svolgono sono unanimemente riconosciute ed apprezzate e godono di un esteso sostegno sociale che si manifesta nelle grandi e numerose offerte di materiale che giungono da supermercati, mercati, farmacie, negozi, privati. Questo riconoscimento sociale garantisce anche una difesa reale contro ogni possibile intervento repressivo, possibile in teoria visto che per scelta i centri di solidarietà si muovono sul terreno della legalità sostanziale (i diritti dei cittadini) senza curarsi degli aspetti formali delle loro iniziative. I centri sono autonomi, si gestiscono democraticamente e sono di tutti e per tutti. Gli attivisti sono personalmente orientati a sinistra, ma non fanno nessun tipo di discrimi-nazione. Gli immigrati residenti sono considerati anche psicologicamente come i greci, per i rifugiati si lavora molto anche senza grosse reazioni della popolazione, anche perché sono di passaggio e molti in grado di pagarsi i servizi. Il lavoro è svolto su base volontaria e i servizi offerti sono gratuiti; i costi di gestione sono minimi, irrisori rispetto a una qualsiasi attività socio-politica svolta in Italia. Nessuno guadagna nulla, nessuno paga nulla, tutti sono cittadini. E' la solidarietà diffusa oltre il piccolo contributo dei deputati di Syriza che garantisce il funzionamento dei centri. L'assunto di base,

ribadito a ogni piè sospinto, è che chi viene al Centro non è una persona che viene a chiedere qualcosa, ma è un cittadino che viene a esercitare un diritto. L'attività considerata più importante, persino più del cibo, è parlare con le persone, ridare loro dignità, fare prendere loro coscienza dello status di cittadini e del valore della collaborazione sociale. Questa è la base teorica del fatto, tanto significativo quanto impensabile in Italia, che in questi centri c'è una fascia di persone in cui si sovrappon-gono volontari e utenti. La base economica è che la po-vertà come l'impoverimento del ceto medio sono elemen-ti diffusi e che il passare da volontario a utente dal punto di vista economico e sociale non è così difficile né infrequente. Sulla base del significato della lotta del popolo greco, lotta che continua, e dell'attività già svolta, ci permet-tiamo di invitarvi a condividere questa iniziativa di solidarietà apportandovi naturalmente tutte le idealità, specificità e proposte che riterrete utili. Da parte nostra pensiamo che questa iniziativa possa essere un piccolo aiuto a un popolo che ha aperto la lotta contro il liberismo, di cui è schiava l'Unione europea, e che questa lotta sta continuando a condurla. Ma pensiamo che possa essere anche un grande aiuto per chi qui da noi voglia capire ed operare per portare avanti l'azione di ricostruzione nella società italiana di una presenza sociale consapevole, forte e riconosciuta.

Carlo Masoero per Italia Grecia di Cuneo

Daniela Alfonzi per il Circolo Arci la Poderosa di Torino

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COLIBRÌ società cooperativa sociale ONLUS Via Monsignor Peano, 8 - 12100 CUNEO tel. e fax : 0171/64589 www.coopcolibri.it

Le botteghe della Colibrì si trovano a : CUNEO Corso Dante 33 BORGO SAN DALMAZZO Via Garibaldi 19 FOSSANO Via Garibaldi 8 MONDOVI’ Via S. Arnolfo 4 SALUZZO Via A. Volta 10

IL COMMERCIO EQUO DICE IL SUO NO AL TTIP Sabato 30 gennaio la Fondazione Casa Delfino a Cuneo ha ospitato un incontro, promosso dal Circolo cuneese del Movimento per la Decrescita Felice e dall’Associazione Indipendenza, sulle ragioni che hanno spinto in piazza migliaia di persone in tutta Europa per dire no al Trattato Transatlantico sul commercio in corso di negoziazione fra Stati Uniti ed Europa, dai più conosciuto con la sigla “TTIP” (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Fra i relatori chiamati ad approfondire questo tema, anche l’onorevole Tiziana Beghin, europarlamentare dello schieramento “Europa della Libertà e della Democrazia Diretta” e la Cooperativa sociale Colibrì, per spiegare le ragioni dell’opposizione, da parte del movimento del commercio equo e solidale, al trattato per la creazione di una zona di libero mercato fra Stati Uniti ed Europa.

COSA PREVEDE IL TRATTATO

Il TTIP è uno tra i più grandi accordi di libero scambio mai negoziati, che coinvolge Stati Uniti e Unione Europea. Un progetto che, a detta dei sostenitori, creerebbe la più grande area di libero commercio al mondo, del valore di oltre il 46% del Prodotto interno lordo mondiale, creando le condizioni per un colosso economico e finanziario. Attualmente gran parte delle linee tariffarie (merci e servizi) sono caricate di dazi

già piuttosto bassi (tra il 3 e il 5%), ma la parte rimanente ha tariffe che possono raggiungere anche le due cifre percentuali, soprattutto in ambito agricolo. Nonostante che i sostenitori del TTIP sbandierino fra le principali motivazioni dell’accordo un aumento dei posti di lavoro e della crescita economica dell’euro-zona, secondo alcuni studi d’impatto commissionati dalla stessa Unione Europea, il PIL della zona euro potrebbe raggiungere un + 0,48% all’anno, salvo scoprire che si tratterà di una crescita previsionale media a partire dal 2027. L’aspetto maggiormente contestato del TTIP riguarda la rimozione, nell’ambito di numerosi settori, delle cosiddette “barriere non tariffarie” cioè delle differenze esistenti fra i due continenti per quanto riguarda regolamenti tecnici, norme e procedure di omologazione, standard applicati ai prodotti (anche alimentari) e regole sanitarie. Per citare un esempio: sul fronte dei prodotti alimentari un elemento di forte preoccupazione per la cittadinanza è la diversità di standard e controlli applicati lungo la filiera. Ad esempio nella gestione delle filiere agricole l’Ue applica il principio “farm to fork”, dove ogni passaggio della produzione è, almeno sulla carta, monitorato e tracciabile. Il sistema ameri-cano, invece, verifica solo la sicurezza del prodotto

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finale. In assenza di una chiara prova di collegamento evidente tra un’intossicazione e un alimento, l’ali-mento resta in commercio. Un elemento che mette a forte rischio il livello europeo di sicurezza alimentare, aprendo le porte all’importazione di prodotti conte-nenti OGM, carni provenienti da allevamenti che utilizzano dosi massicce di ormoni oppure polli decontaminati con la candeggina.

LE RAGIONI DEL NO

In tutto questo, anche il commercio equo e solidale ha da dire la sua, proprio in virtù del fatto che non si tratta solo di un commercio, dal momento che insieme ai suoi prodotti il fairtrade veicola informa-zioni, educazione, valori … Per questo la Cooperativa sociale Colibrì ha partecipato all’incontro spiegando come l’opposizione al TTIP nasca dalla pratica concreta e quotidiana di un’economia di giustizia, che evidenzia la propria alterità rispetto ad un modello economico che scavalca il rispetto di criteri sociali, ambientali e di sostenibilità. Il commercio equo e solidale, di fronte al TTIP, rivendica la possibilità per il consumatore di scegliere prodotti – di qualità ed a prezzi accessibili – realizzati senza provocare danno alle comunità umane e all’ambiente. Consumatore che, per esercitare la propria libertà di scelta, deve poter acquistare prodotti dei quali conosce bene la provenienza, il processo produttivo, gli ingredienti, gli effetti. Di qui l’opposizione del commercio equo e solidale ad una proposta di regolazione del mercato economico che per tanti aspetti sembra l’opposto del fairtrade e della Costituzione stessa. L’Articolo 41, infatti, recita che “l’iniziativa economica [...] non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Per questo motivo il commercio equo e solidale non può che essere contrario ad un trattato che interpreta le barriere al commercio – ed in particolare quelle “non tariffarie” – come ostacoli all’attività economica, e procede in trattative segrete senza rendere conto ai cittadini europei, perseguendo la legalizzazione del diritto delle imprese private al “massimo profitto”.

EQUITÁ E TRASPARENZA

Proprio il principio di trasparenza nei confronti del consumatore e di tutela della sua salute muove l’attività informativa ed educativa del commercio equo e solidale, alla quale la Cooperativa Colibrì dedica particolare attenzione, specie attraverso percorsi educativi nelle scuole di ogni ordine e grado. La necessità di sostenere progetti di educazione al

consumo critico e consapevole nasce dall’esigenza del commercio equo e solidale di informare e formare cittadini e consumatori (specie quelli futuri) in possesso di strumenti che li rendano in grado di poter analizzare, capire e confrontare le proprie scelte di consumo, sempre nell’ambito della libera scelta che caratterizza ciascuno. Per questo motivo non è mai troppo frequente l’invito a sostenere le attività della Cooperativa Colibrì che soprattutto ai giovani vogliono offrire strumenti per sviluppare il loro pensiero critico, attraverso attività laboratoriali e testimonianze di realtà (associazioni, ong, coope-rative) operanti, in Italia e all’estero, per realizzare e diffondere un movimento che, da oltre 25 anni, sperimenta in concreto la possibilità di creare uno scambio commerciale, una relazione fra produttore e consumatore e fra consumatore e ambiente, all’insegna del rispetto, della solidarietà, della tutela e dell’equità.

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L’Associazione “La Cascina”

TI INVITA ALLA GITA

Sabato 23 Aprile Ore 7.00 Partenza da S. Rocco C. (Piazzale della chiesa) Pranzo al sacco (a cura dei partecipanti) lungo il percorso ed arrivo (ore 15,00) a Piazzola sul Brenta e visita alla splendida Villa Contarini. Prosecuzione verso Conselve, con eventuale visita a Cittadella. Ore 19.30 Arrivo a Conselve, sistemazione in hotel in camere multiple, cena e pernottamento.

Domenica 24 Aprile Ore 8.30 Prima colazione Ore 9 – 12.00 Visita a Montagnana, una delle più belle città Murate del mondo. Tempo per la

partecipazione libera alla S. Messa, visita del duomo e del Castello con Museo e, dall’esterno (perché privata) di Villa Pisani.

Ore 13.00 Pranzo in hotel a Conselve Ore 14.30 Partenza per Este e Monselice con visita delle magnifiche cittadine e ritorno in hotel. Ore 20.00 Cena e pernottamento. Lunedì 25 Aprile Ore 8.30 Prima colazione. Ore 9 – 12.00 Escursione lungo la Riviera del Brenta con le

spettacolari ville di Dolo, Mira, Stra e Malcontanta.

Ore 12.30 Ritorno in albergo e pranzo Ore 14.30 Partenza per Cuneo, con soste lungo il viaggio.

Eventuale cena, libera, in autogrill. Ore 21.30 Arrivo previsto a Cuneo

Quota di partecipazione € 200 La quota comprende: viaggio andata e ritorno in pullman Gran Turismo. Pensione completa dalla cena del 23 aprile al pranzo del 25 aprile (bevande escluse). Ingressi alle Ville ed al Castello – Museo. Sistemazione in camere a 3 / 4 letti. Non comprende: pranzo del sabato (da portarsi al sacco), cena (per chi vuole farla) del lunedì e bevande ai pasti.

Iscrizioni fino ad esaurimento posti dal 29 marzo al 11 aprile

presso la Cartolibreria “La Cascina” Tel. 0171/492441 Per info: Franco Cometto 349/5490924

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Ore 13,00 Pranzo Ore 14,30 Intrattenimento musicale con “Gino” Ore 17,00 Nutella party offerto da Annalisa Quota di partecipazione € 10 È necessario prenotarsi in Cartoleria “La Cascina” al n° 0171/492441

Bosques, 29/01/2016 Junto con todos los chicos, familias y operadores del CENTRO CRE-SIENDO. Nuestra gratitud por la amistad, la cercania, el apoyo que siempre nos brindan.. Que Dios los bendiga y acompane el trabajo y servicio que ustedes brindan en la Cascina. BOSQUES – ARGNTINA – CENTRO CRE-SIENDO- Hermana Paulina

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CENA DI NATALE CON I VOLONTARI

Giovedì 17 dicembre si è tenuta la cena per i volontari che aiutano in Cascina. Noi ragazzi abbiamo collaborato per la preparazione della serata. Io ho servito lo Spritz. La cena a buffet è iniziata alle 18.30. Hanno partecipato tutti i volontari, i responsabili delle varie attività, noi ragazzi e i nostri familiari. Abbiamo passato una piacevole e divertente serata in compagnia di tanti amici.

Alberto

Giovedì 17 Dicembre 2015 abbiamo organizzato un apericena per Natale. C’era tanta gente: Io, Antonietta, che è mia mamma e tutti noi della Cascina, i nostri genitori, tutti i volontari e anche i bambini come Anna, Filippo, Cecilia e Elisabetta. C’era anche Malù, che è la mia maestra di Shiatsu. C’era Serena che ha fatto da mangiare delle cose buonissime: ha preparato il salame, una pizza buonissima e anche la focaccia. Da bere c’era l’acqua, l’aranciata e anche altre bibite. Ero contento e mi è piaciuto.

Roberto

Oggi, 2 febbraio, è un anno che sono in cascina. In questo giorno di festa abbiamo mangiato i ravioli e il papà del nostro collega Luca ha fatto le bugie che abbiamo mangiato dopo pranzo. Qua in cascina mi piace molto lavorare in laboratorio . Mi piace molto stare in cascina perché ho tanti amici.

Luciano

Il 31 dicembre l’ho passato in Cascina insieme ai miei amici e alla mia famiglia. La serata è iniziata con la Messa delle 19 nella palestra della Cascina. Alle 21 abbiamo iniziato a mangiare la cena preparata da alcuni volontari come: Guido, Aldo, Adriana, Bertu, Maria Rosa… Il menù era molto ricco di cibi squisiti come ad esempio: prosciutto in gelatina, ravioli, arrosto con carote, frutta e panettone. A mezzanotte siamo usciti fuori per festeggiare l’anno nuovo stappando le bottiglie di spumante e guardano i fuochi d’artificio. Bruno

UN REGALO SPECIALE Quest’anno ho festeggiato il Natale a casa mia, con mio papà, mio fratello Massimo, mia sorella Debora con il marito e i miei nipotini. Mi sono arrivati tanti regali, quello che mi e’ piaciuto di più è stato quello di Babbo Natale che mi ha portato il calendario e la maglia della Juve. Sono stato contentissimo perché questo regalo lo desideravo tanto.

Samuele

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Lunedì 4 e martedì 5 gennaio io e Davide ci siamo dedicati a fare L’inventario in negozio. E’ un lavoro molto lungo perché gli articoli in vendita sono veramente tanti tra penne e quaderni, gomme e colori abbiamo passato due giorni interi a contare e abbiamo cosi messo tutto in ordine. Giovedì poi il negozio ha riaperto e abbiamo tolto la vetrina natalizia e in questi giorni ho fatto la vetrina di carnevale. Ho messo cappelli, animaletti finti, stelle filanti e sacchetti di coriandoli. Adesso aspettiamo il carnevale.

Enrico

Domenica 10 gennaio in Cascina si è svolta la festa per Aldo e Mario, organizzata dal loro fratello Guido. Come antipasti abbiamo mangiato i salamini, il vitello tonnato e l’insalata mista. Dopodiché sono stati serviti il riso ai formaggi, l‘arrosto con le carote, una toma d’alpeggio, i profiterole e infine il caffè. È stata proprio una bella festa, a cui hanno partecipato circa 150 persone. Dopo pranzo Elisabetta ha suonato il “semitun” e con grande entusiasmo la gente ha cominciato a ballare i balli occitani, tipici delle nostre valli. È stata una piacevole giornata trascorsa in un’ottima compagnia.

Fulvio

Venerdì 15 gennaio 2016 abbiamo avuto un piccolo problema con l’elettricità. Ci hanno tolto la luce. Per poter mangiare ci servivano i fornelli che ovviamente non funzionavano, perciò siamo andati a mangiare al “Papillon”. Il menù prevedeva: pasta, patatine fritte,bistecca impanata, dei trancetti di pizza e di focaccia e il caffè. Mi è piaciuto molto perché sono i miei piatti preferiti. Spero che succederà di nuovo al più presto!

Matteo

Venerdì scorso ho lavorato in Cascina tutta la giornata. Sono ritornato a casa alle 16,30 con il pulmino. Dopo essermi riposato un momento, mi sono cambiato e mi sono fatto bello. Infatti alle 20 sono andato a mangiare la pizza insieme a tutti i volontari della biblioteca . Anch’io ora sono diventato un vero volontario della biblioteca di Morozzo. Vado ogni sabato dalle 15 alle 17.

Michele

Nelle vacanze di gennaio io sono stato a casa perché la Cascina era chiusa. La mattina mi sono alzato più tardi del solito poi uscivo a fare due passi. Di pomeriggio stavo a casa e tenevo compagnia a madre che si chiama Teresa. Guardavo la televisione. Mio fratello Pierluigi è venuto a trovarci. Saluti da Paolo C.