il geologo - anno xiv/2013 - n. 48 - n.49
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Bollettino Ufficiale d’Informazione dell’Ordine dei Geologi Regione Emilia-RomagnaTRANSCRIPT
PERIODICO QUADRIMESTRALE - Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento PostaleD.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art, 1, comma 1, DCB (Bologna)
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Bollettino Ufficiale d’Informazionedell’Ordine dei Geologi Regione Emilia-Romagna
Anno XIV/2013 - N. 48 - N.49 - NUOVA SERIE
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San Leo (RN): confronto tra una stampa del 1633 e la foto della frana di crollo avvenuta lo scorso 27 febbraio 2014, che ha interessato la rupe costituita da calcareniti della Formazione di San Marino. (Foto: Conrad Mularoni)
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Piove sul bagnato
Cari colleghi,avevo intenzione di dedicare questo Editoriale alla tragedia del Vajont del 1963 di cui recentemente è stato commemorato il 50° anniversario a Longaro-ne dal CNG con ampia partecipazione di geologi; lo stesso anno 1963 coincide con la nascita dell’Or-dine Professionale dei Geologi di cui è stato giu-stamente ripercorso il cammino con due numeri di Geologia Tecnica e Ambientale curata dal CNG.Questo per ricordare anche ai più giovani colleghi la nostra storia e i riconoscimenti normativi che ab-biamo raggiunto (da professione di stampo pretta-mente naturalistica a professione sempre più tecni-ca). L’imprinting, fortunatamente dico io, è rimasta quella naturalistica.Ma ancora una volta la cronaca ha avuto il soprav-vento.Mi riferisco alla “bomba d’acqua”,come è stata de-finita, e i disastri che ha provocato nella Sardegna orientale, in questi giorni di fine novembre 2013, con elevato numero di vittime.Ci si è subito affrettati ad attribuire le cause ai cam-biamenti climatici (“in 24 ore è caduta la pioggia di sei mesi”), che sicuramente hanno contribuito a tale disastro, ma così facendo non si coglie l’es-senzialità delle cause che sono da ricercare nella cementificazione e nella mancanza di pianificazio-ne e programmazione ambientale (basti dire che il comune di Olbia non ha un Piano Regolatore, ma solo Piani di Fabbricazione ed interi quartieri sono stati costruiti in aree un tempo paludose o di per-tinenza fluviale; l’espansione edilizia che ha visto aumentare la superficie urbanizzata da 1 kmq degli anni cinquanta a 5 kmq alla fine degli anni settanta).Troppo facile, e direi ipocrita, attribuire le cause all’eccezionalità degli accadimenti naturali (che, ri-petiamo, hanno dato pure un loro contribuito) ma qui si tratta (e la cosa vale per l’intero territorio na-zionale) della mancanza di pianificazione territoriale di cui la classe politica e noi stessi siamo corre-sponsabili.Come possiamo non vedere che dal dopoguerra in
poi si è cementificato, senza ritegno, in aree sensi-bili del territorio ad elevata pericolosità idrogeolo-gica e spesso senza autorizzazione alcuna per poi condonare il tutto alla prima occasione? Si condo-na dal punto di vista amministrativo ma la pericolo-sità resta intatta.Una delle poche leggi significative in materia di di-fesa del suolo che il Parlamento aveva approvato (la legge 183 del 18 maggio 1989 “Norme per il riasset-to organizzativo e funzionale della difesa del suolo”) che istituiva i Piani di Bacino Idrografico (delimitati dai rispettivi bacini imbriferi) che seppure lentamen-te, cominciava, dove applicata, a dare i suoi frutti, si è pensato bene di depotenziarla con i fantomatici Distretti Idrografici, perdendo quindi il legame con il territorio ma acquistando così il “controllo politico”.Debbo dire che su questa operazione sciagurata non ho sentito la categoria dei geologi professioni-sti, rappresentata a livello istituzionale dal Consiglio Nazionale dell’epoca, profferire una sola parola.Erano i tempi in cui la Protezione Civile veniva uti-lizzata per operazioni quanto mai discutibili (come insegna la storia del G8 in Sardegna) bypassando tutti i controlli amministrativi altrimenti necessari.Speriamo che questi tempi siano definitivamente tramontati (anche se una norma inserita nella Legge di Stabilità 2014 consentirebbe, uso il condiziona-le perché la discussione è ancora in corso, di rea-lizzare impianti sportivi e lottizzazioni in barba agli strumenti di pianificazione ed ai rispettivi vincoli) ma dobbiamo renderci conto di quanto è accaduto se vogliamo ripartire con il piede giusto.I geologi professionisti in ciò hanno un ruolo impor-tante e delicato insieme; come ha ben detto un no-stro collega speriamo che vengano utilizzati come tecnici del giorno prima e non del giorno dopo!La politica territoriale non si improvvisa, richiede tempo e pazienza, va programmata con lo sguardo rivolto ai nostri nipoti, le conoscenze ci sono (mon-do accademico e professionale) è ora di metterle in atto.
Maurizio Zaghini
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L'analisi del paesaggio storico come strumento per la comprensione dell’evoluzione geomorfologica e ambien-tale del territorio. Alcuni casi studio nel Montefeltro.Cristiano Guerra1, Olivia Nesci2
1 Geologo, Libero professionista. Docente a contratto (tutor) presso Scuola di Architettura e Ingegneria, Università di Bologna2 Geologo, Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente, Università degli Studi di Urbino
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1. INTRODUZIONE
Da quando esiste la fotografia l’uomo ha potuto accer-tare, confrontando immagini diacroniche, che il territorio evolve sia dal punto di vista dei processi naturali che an-tropici. L’analisi dell’immagine fornisce quindi uno stru-mento utilissimo per evidenziare aree che nel tempo si sono trasformate più o meno velocemente fornendo uno strumento di misura della instabilità geomorfologica. Tale metodologia è risultata di fondamentale supporto alle tradizionali e necessarie analisi geologico-geomorfologi-che e allo studio delle coperture alluvionali e detritiche. Recentemente, con la scoperta che gli sfondi paesag-gistici nelle opere pittoriche rinascimentali sono reali e ritrovabili (Borchia & Nesci, 2009, 2012a, 2012b), si sono poste le basi per un nuovo filone di ricerca di Geomorfo-logia culturale (sensu Panizza et al. 2003) sull’evoluzione dei paesaggi storici. Paesaggi reali, non idealizzati, non inventati, ma riprodotti fedelmente dall’artista per rappre-sentare i possedimenti del committente (Aromatico 2012). Anche le fonti archivistiche, intese nel senso più ampio del termine, possono assumere un grande valore per la ricostruzione dell’evoluzione ambientale, riportando spesso descrizioni molto accurate di fenomeni geomor-fologici. In alcuni casi relativi a fenomeni franosi sono riportate misurazioni (1820 Frana al di sotto del Forte di San Leo, Archivio comune San Leo Cart.19 c.117) e rappresentazioni con schemi e planimetrie (1689 Dise-gno frana di Pennabilli, Archivio di Stato Roma, 1748 Di-segno frane rupe di San Leo lato Sud, Archivio Storico Comunale di San Leo, Carteggio, c.13 f. 4.12.- Figura 6). Il presente lavoro evidenzia alcuni casi studio nel terri-torio del Montefeltro che per la natura delle rocce, per le variazioni climatiche anche recenti e per l’intensa urbanizzazione e sfruttamento del territorio che ha su-bito, rappresenta un’area fortemente modificata anche recentemente.
2. INQUADRAMENTO GEOLOGICO
DEL MONTEFELTRO
L’area del Montefeltro, a cavallo tra la Romagna e le Marche, è marcata da un contesto geologico particola-rissimo, noto come Coltre della Val Marecchia. All’inter-no della Coltre, le unità Liguridi, più antiche, e le unità Epiliguri, più recenti, sovrascorrono sulle unità autocto-ne della Successione Umbro-marchigiano-romagnola. (Roveri et al. 1999, Carmignani et al. 2000, Carmignani et al. 2002, Lucente et al. 2002).Le Epiliguri sono spesso costituite da calcari, arenarie o altre rocce competenti (Formazione di San Marino, Formazione di Monte Fumaiolo, Formazione di Acquavi-va), che, appoggiando in discordanza sulle Unità Liguri, rappresentate prevalentemente da argilliti intensamen-te tettonizzate, (Argille Varicolori della Val Marecchia), generano delle emergenze strutturali chiamate Placche Epiliguri.Durante il Pleistocene e l’Olocene, in particolare duran-te l’ultimo glaciale, il modellamento ha prodotto il tipi-co paesaggio della Val Marecchia del Montefeltro. Dalle placche Epiliguri si sono generate mesas e cuestas, deli-mitate spesso da rupi o pareti rocciose che in epoca sto-rica hanno rappresentato siti ottimali per insediamenti e presidi militari.
3. LE VARIAZIONI CLIMATICHE
Dal tardo 1500 inizia la Piccola Età Glaciale (PEC), mar-cata in tutto l’emisfero settentrionale del pianeta da tem-perature più rigide e precipitazioni intense ed abbondan-ti, che durerà fino a quasi tutto il XIX secolo (Mann 2002, Jansen et al. 2007).Durante tutta la durata della Piccola Età Glaciale si sono riconosciute diverse fasi con condizioni climatiche av-
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verse alternate a periodi relativamente più miti, alcune osservabili nell’intero continente Eurasiatico, altre rileva-bili in aree e contesti meno estesi e con durata diversa (Holzhauser et al. 2005, Bràdzil et al. 2010).Nell’area Nord-appenninica, ed in particolare nell’area romagnolo-marchigiana, si sono verificate numerose fasi di deterioramento climatico e di conseguente au-mento della diffusione e della severità dei fenomeni di dissesto idrogeologico.Le principali fasi di deterioramento climatico e di amplia-mento del dissesto idrogeologico si possono identificare tra il 1550 ed il 1600, tra il 1630 ed il 1650, e dal 1690 al 1735; quest’ultima fase è associabile al cosidetto “mi-nimo di Maunder”, riconosciuto per tutta l’area europea come il periodo di maggiore severità climatica della Pic-cola Età Glaciale.Successivamente si ebbero altre due fasi di deteriora-mento climatico ed idrogeologico dal 1760 al 1830 e dal 1855 al 1870, nonché un periodo caratterizzato da preci-pitazioni nevose eccezionali e ripetute dal 1890 al 1900 (Nesci & Guerra 2009).
4. I CASI STUDIO
Saranno presi in considerazioni alcuni siti (Figura 1) se-lezionati sulla base della loro importanza storica e, di conseguenza, sulla numerosa documentazione sia car-tografica che di archivio documentale.
4.1 La Rupe di Maioletto
Sul lato destro della vallata del Fiume Marecchia, all’al-tezza di Novafeltria, si innalza la rupe di Maioletto (o di Maiolo) con i resti dell’omonimo castello (Figura 2). Il pic-colo rilievo è costituito nella sua parte sommitale dalle arenarie e dai conglomerati del Pliocene inferiore; nel-la parte bassa affiorano le Argille Varicolori della Colata della Val Marecchia. Il versante sud occidentale coincide con la stratificazione a franapoggio, quello nord orienta-le si presenta quasi verticale. A causa della intensa frat-turazione del substrato, numerosi blocchi si staccano da entrambi i versanti del piccolo rilievo, si accumulano ai
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Figura 2 – Panoramica sulla Rupe di Maioletto, San Leo nello sfondo
Figura 3 – Il Dittico Dei Duchi Di Urbino, 1465 – 1472, Piero della Fran-cesca, Galleria nazionale degli Uffizi, Firenze. In alto a destra il ritratto del Duca Federico da Montefeltro, a sinistra quello di Battista Sforza, in basso I Trionfi
Figura 1 - Inquadramento geografico dell’area in esame con ubicazione dei casi studio trattati
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piedi delle scarpate e lentamente migrano verso gli im-pluvi “galleggiando” sopra le plastiche argille. La rupe è stata fin da tempi storici sconvolta da numerose frane; la più rovinosa di esse si verificò il 29 maggio 1700 e provocò il definitivo abbandono del borgo di Maiolo che sorgeva sulla sua sommità (Cencini & Landuzzi 2005). Antiche murature, pietre lavorate e frammenti di laterizi testimoniano ancora l’esistenza del fiorente borgo me-dievale. La causa scatenante della grande frana sembra
essere stata climatica: fu proprio tra il 1690 e il 1700 che si verificò l’acme della Piccola Età glaciale (Mann, 2002). Ad inverni lunghi e molto freddi seguivano mezze stagio-ni piovosissime ed estati brevi con frequenti precipita-zioni intense. Il 28 maggio del 1700 si abbattè su Maiolo un diluvio d'acqua che durò quaranta ore ininterrotte. Nella notte del 29, mentre ancora pioveva a dirotto si staccò dal monte un grosso ammasso che franò rovino-samente a valle trascinandosi dietro parte dell’abitato.
Figura 4 - Confronto tra il paesaggio dietro il ritratto della duchessa Battista Sforza (Dittico dei Duchi) e quello reale, dalla Rupe di Pietrarubbia
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4.1.1 Il confronto con le opere di Piero della Francesca
(1465) e di Mingucci (1640)
Il doppio ritratto dei duchi Federico da Montefeltro e Bat-tista Sforza, dipinto ad olio (47x33) nel 1466 alla corte montefeltresca di Urbino (Figura 3), è considerato un ca-polavoro assoluto, tra i pochi che possano considerarsi veramente universali nell’arte di tutti i tempi. Il dittico è dipinto sia sul davanti che sul retro. Sulla parte anteriore il Duca e la Duchessa sono raffigurati a mezzo busto, di profilo, l’uno di fronte all’altro. Sulla parte posteriore i due personaggi sono seduti su carri trionfali. Il paesag-gio che fa da sfondo a Battista Sforza rappresenta la media e alta Val Marecchia (Figura 4), ripresa dalla rupe di Pietracuta (cfr. Borchia & Nesci, 2012). Sotto il mento della duchessa è ben visibile una collina asimmetrica ai cui piedi si estende un’ampia pianura, leggermente in-clinata verso destra che si correla con una grande piana alluvionale sulla quale scorre un fiume.L’analisi geomorfologica ha permesso di identificare il rilievo di Maioletto il cui profilo nel versante destro è per-fettamente conservato, mentre quello sinistro si discosta dall’attuale morfologia. La differenza è stata attribuita al fatto che nel periodo dell’esecuzione del quadro, il rilie-vo era intatto, ancora non modificato dalla frana avvenu-ta nel 1700 e dalla successiva evoluzione del versante che è velocemente arretrato. Lo smantellamento delle arenarie soprastanti alle Argille Varicolori ha poi permes-so lo sviluppo dei calanchi tuttora visibili. Da notare che nelle successive rappresentazioni del rilievo di Maiolet-to (Mingucci, 1640), i calanchi non sono rappresentati ma compaiono solo forme embrionali di ruscellamento concentrato (Figura 5). Veggiani (1993) riporta un’inte-ressante testimonianza di Monsignor Lancisi, archiatra pontificio, che nel 1705 visitò San Leo. Il Lancisi sostie-ne che la frana di Maiolo fosse stata favorita, oltre che dalle intense piogge, dalla rottura di un argine naturale
che serviva di appoggio al monte da parte del torrente sottostante l’abitato. La descrizione del Lancisi indica chiaramente un processo torrentizio di erosione regres-siva che, una volta superato le resistenti arenarie (argine naturale), si è poi sviluppato velocemente sulle argille varicolori, producendo, solo allora, i calanchi. Nel dipin-to del Mingucci viene rappresentato il fiorente borgo di Maioletto, distrutto parzialmente dalla successiva frana e poi abbandonato.
4.2 San Leo
Il forte di San Leo è il più noto tra le decine di castelli e fortificazioni del Montefeltro, e deve la sua millenaria fama di inespugnabilità alla sua posizione, situata su una placca di calcarenite ed arenaria bordata da pareti sub verticali alte anche più di 100 metri e circondata da rilie-vi argillosi poco acclivi e forme calanchive. Negli ultimi 10 secoli, le pareti rocciose e le rupi della placca, così come tutta l’area circostante, sono state interessate da numerosi e ripetuti fenomeni franosi, spesso ricordati e descritti nei documenti d’archivio, a volte con dettagli e rappresentazioni grafiche.Oltre alle fonti archivistiche, in gran parte provenienti dall’Archivio Comunale di San Leo (Figura. 6), anche le numerose raffigurazioni pittoriche e successivamente fo-tografiche, possono fornire un importante contributo per la ricostruzione dell’evoluzione morfologica della placca leontina (Bernardi et al. 2011, Bartolini et al. 2012).
4.2.1 L’analisi delle rappresentazioni di Mingucci (1626)
e Bleau (1633)
Francesco Mingucci, oltre che alla già citata raffigura-zione di Maioletto, rappresentò San Leo dal lato nord-
Figura 5 – La rupe di Maiolo confrontata con la rappresentazione di Francesco Mingucci
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Figura 6 - Rappresentazione di fenomeni frano-si sul lato Sud della rupe di San Leo risalente al 1748 - 1757, conservato nell’Archivio Storico Comunale di San Leo
Figura 7 - Confronto tra la rappresentazione di Francesco Mingucci del lato nord-orientale di San Leo e la situazione immediatamente precedente alla frana del 27/02/2014. Legenda. 1a) Porta di Sotto; 1b) ponte levatoio; 2) principali porzioni rocciose crollate rispetto alla situazione attuale; 3) orlo delle pareti rocciose attuali; 4) quartiere cittadino scomparso
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orientale, fornendo un quadro dettagliato della situazio-ne geomorfologica con un preciso riferimento temporale datato 1626.L’acquarello del Mingucci permette di stimare la quantità di materiale mobilizzato dai fenomeni franosi e l’evolu-zione di questo margine della placca di San Leo durante gli ultimi 400 anni (Figura 7).Una importante conferma dell’attendibilità delle rappre-sentazioni viene dal confronto tra l’opera di Mingucci e l’incisione eseguita da Bleau e datata 1633. Questa se-conda rappresentazione ha il medesimo punto di vista di quella del Mingucci e ad un primo esame ne può sem-brare una copia. Nella zona inferiore alla “Porta di Sot-to”, antico ingresso alla città di San Leo abbandonato alla fine del 700 (Legni 2010) e poi completamente crol-lato, si può osservare la raffigurazione di un accumulo di crollo e di una nicchia di distacco assenti nell’acqua-rello di Mingucci (Figura 8). Questa evidenza si inquadra bene con l’inizio della fase di deterioramento climatico 1630-1650, in particolare con il 1631, anno "straordina-riamente freddo e tempestoso" caratterizzato da clima rigido e precipitazioni abbondanti e fuori stagione, con un mese di maggio “in cui cadde una grossa neve nella campagna e in Rimini pareva si fosse in pieno inverno” (L. Tonini, Storia civile e sacra riminese, Rimini, 1848-1888 - ristampa anastatica: Rimini, Ghigi, 1971).
4.3 I Sassi Simone e Simoncello
I Sassi Simone e Simoncello sono due placche calcare-nitiche della formazione di San Marino e di Monte Fuma-iolo, rilevati per erosione selettiva rispetto ai sottostanti terreni argillosi della formazione cretacica delle Argille Varicolori (Figura 9). I due massi tabulari costituiscono i lembi residui di un rilievo che si sviluppava, nel Plei-stocene medio-superiore, molto più estesamente sullo spartiacque tra i bacini dei fiumi Foglia e Marecchia. Il paesaggio era anche caratterizzato dalla presenza di
Figura 9 - Panoramica sui Sassi Simone e Simoncello
Figura 10 - Schema geomorfologico dell’area dei Sassi. Legenda. 1) substrato di Argille Varicolori; 2) calcari della Formazione di San Marino e del Monte Fumaiolo affioranti sui Sassi Simone e Simoncello; 3) frane di crollo e colate di detriti; 4) scarpate di erosione; 5) lembi preservati dell’antica superficie; 6) blocchi franati provenienti dai Sassi (da: Carne-vali & Nesci, 2005)
Figura 11 - I Sassi Simone e Simoncello in due disegni del Sec XVI. In basso: Archivio di Stato, Forlì, in alto: Archivio del Comune di Carpegna
Figura 8 - Confronto tra la rappresentazione di Francesco Mingucci e Bleau relativamente alla parte della rupe di San Leo al di sotto della antica Porta di Sotto. Legenda. 1) nicchia di crollo; 2) accumulo e detrito
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sub-verticali presenti nel substrato calcareo. La sommità piatta del Sasso Simone è infatti interrotta da profonde fratture ben visibili in superficie. La percolazione delle acque ha allargato le spaccature producendo caratteri-stiche trincee allineate e zone depresse, oltre a morfolo-gie pseudocarsiche, che costituiscono elementi di gran-de instabilità per l’intero rilievo. Nella piana sommitale sono tuttora conservate le tracce dell’impianto urbanisti-co di un’antica cittadella medicea voluta da Cosimo dei Medici nel 1565 e completamente smantellata a causa dell’inasprimento delle condizioni climatiche, nel 1673: la cosiddetta Città del Sole. Grazie alla presenza di que-sta città fortezza il sito dei Sassi Simone e Simoncello è presente in vari disegni datati alla fine del 1500. In due di questi (Figura 11) si vede chiaramente la significativa riduzione della placca del Simoncello a causa di una fra-na. Recenti ricerche (Borchia & Nesci, 2012) attribuisco-no il paesaggio retrostante il famoso ritratto della Gio-conda (Leonardo da Vinci, Louvre, 1503-1516) proprio ai due rilievi (Figura. 12), confermandone la veloce evo-luzione. L’intervallo temporale che ha contrassegnato la vita di Leonardo, tra il 1452 e il 1519, rientra all’interno della Piccola Età Glaciale (1450-1850). In questo periodo
una estesa superficie leggermente pendente (pediment) che correlava la base del rilievo con il fondovalle (Figura 10). Attraverso questa superficie le acque dilavanti e di fusione nivale trasportavano lentamente i blocchi che si staccavano dalle pendici del rilievo trasportandoli anche per grandi distanze. Questo è il motivo per cui ancora oggi grossi blocchi di roccia appartenenti ai due rilievi si ritrovano distanziati dalle rupi e separati da un profon-do reticolo di drenaggio impostatosi successivamente. Lembi isolati di questa paleosuperficie si ritrovano spar-si un po’ dovunque e spesso vengono impropriamente classificati come accumuli di frana. Il veloce smantella-mento del pediment è da imputare soprattutto alle mu-tate condizioni climatiche che tutto il Montefeltro subì nel Quaternario recente e che determinò un approfon-dimento dell’idrografia superficiale e quindi una intensa erosione che ridusse i rilievi alle attuali dimensioni (Ne-sci & Guerra 1999, Nesci & Guerra 2004, Nesci et al. 2009). I massi staccati si rivengono, ormai stabilizzati dalla vegetazione, alla base dei rilievi oppure all’interno delle colate argillose confinate nelle vallecole argillose che si sviluppano a partire dalle ripide pareti. A favori-re questa riduzione contribuirono le numerose fratture
Figura 12 - Confronti tra particolari delle foto e dei disegni dei Sassi con quelli del paesaggio della Gioconda. (Borchia & Nesci, 2012)
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Figura 13 - Lettera al Delegato di Pesaro del 25 giugno 1822 che descrive la frana di Tausano, con trascrizione a lato
il deterioramento climatico fu avvertito in maniera sensi-bile nell’Europa centro-settentrionale e nelle aree alpine, mentre nella penisola italiana gli effetti furono modesti se non trascurabili. Solo successivamente, a partire pro-babilmente dalla seconda meta del XVI secolo la Piccola Età Glaciale estese i suoi effetti a Sud e all’area roma-gnolo-marchigiana (Guerra, 2006).
4.4 Tausano
L’abitato di Tausano sorge in prossimità della cresta mor-fologica che partendo dal rilievo di Montefotogno, poco a Sud del Fiume Marecchia, si sviluppa ad arco fino al valico della Biforca e successivamente fino all’altura di Monte San Severino. Il lato orientale è marcato da rupi e pareti rocciose che si sviluppano nei litotipi della Forma-zione di San Marino (calcari e calcareniti), al di sopra di forme più dolci e ampie aree calanchive, che degradano fino al corso del Torrente Mazzocco, tributario del Fiume Marecchia. I versanti sono spesso interessati da depositi di natura complessa con presenza di diffuso detrito cal-
careo e calcarenitico e blocchi rocciosi, la cui origine è spesso correlabile ad antichi fenomeni deformativi.
4.4.1 La lettera del 25 giugno 1822 al Delegato di
Pesaro
Questo documento conservato nell’Archivio Comunale di San Leo (Cart. 24 c.240) è costituito da una lettera inviata dal Gonfaloniere del comune , in cui si informa il Delegato di Pesaro a proposito di un esteso fenomeno franoso che minaccia l’abitato di Tausano (Figura 13).La descrizione del movimento di versante è precisa e da chiare indicazioni che hanno permesso di riconoscere molti elementi morfologici ancora oggi presenti.Il fenomeno è costituito da un movimento di tipo com-plesso, con crolli e ribaltamenti in roccia che passano a colata di fango, caratterizzato da periodiche riattivazioni negli ultimi 200 anni. Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, i lavori della della Ferrovia Santarcangelo-Ur-bino vennero interrotti più volte durante la realizzazione della galleria che doveva attraversare il corpo di frana e
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nel 1969 una riattivazione del movimento bloccò la via-bilità lungo la Strada Leontina che collega San Leo alla Statale Marecchiese (Elmi & Romanini 1969). La lettera del 1822 attesta una fase parossistica del movimento franoso nei primi decenni dell’Ottocento, probabilmente una prima attivazione ben inseribile alla fine del periodo di deterioramento climatico che va dal 1760 al 1830.L’estrema precisione della descrizione permette di rico-struire molti elementi, come la dimensione della nicchia di distacco «…ed apertasi la rupe (…) per un quarto di Miglio…», valutata in circa 350 metri, la formazione di ristagni e piccoli accumuli idrici «…le acque anno forma-to due piccoli laghi…», riconoscibili parzialmente ancora oggi, e l’arrivo della parte terminale del corpo di frana nell’alveo del torrente Mazzocco «…andava a sgorgare sul fiume Mazzocco.», nel quale si osservano oggi grandi blocchi rocciosi provenienti dalle pareti rocciose di Tau-sano (Figura 14).
5. CONCLUSIONI
La presente nota ha voluto mostrare una serie di casi studio che evidenziano come le fonti di archivio e le rappresentazioni pittoriche, in mancanza di precise cartografie, possono assumere grande valore per la ri-costruzione dell’evoluzione ambientale del paesaggio
storico. Con la consapevolezza che i paesaggi raffigu-rati nei quadri o nelle stampe antiche sono rappresenta-zioni esatte e reali dei territori di quelle epoche, si deve considerare questo patrimonio documentario di grande rilevanza scientifica e la base per rilevare le trasforma-zioni del paesaggio fisico. L’analisi storica contribuisce quindi ad integrare il quadro conoscitivo di alcuni siti esposti a rischio idrogeologico. Naturalmente lo studio di documenti di questo tipo non è né facile né immedia-to e presuppone una profonda conoscenza dei processi geomorfologici che determinano le modificazioni del pa-esaggio. Inoltre è fondamentale l’analisi delle immagini con tecniche informatiche e l’uso del GIS, oltre alla ca-pillare ricerca archivistica in biblioteche, musei, archivi di Stato, eseguita da esperti che sappiano collocare e interpretare correttamente i simboli, i linguaggi e le in-formazioni di natura storica. Uno studio, quindi, interdi-sciplinare e coordinato che mette a disposizione della comunità, delle pubbliche amministrazioni e dei profes-sionisti del settore uno strumento utile per la ricostruzio-ne geomorfologica di un'area.
Figura 14 - Elementi morfologici della frana di Tausano descritti nella Lettera al Delegato di Pesaro del 25 giugno 1822 e riconoscibili attualmente
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Geotermia: ruolo del geologo e metodi per la caratterizzazione termica dei terreniGabriele Cesari1, Micaela Pastore2, Tiziano Righini1, Roberto Larghetti3 1 Geologo, libero professionista 2 Ingegnere, libero professionista 3 Ingegnere, PhD Università Urbino
1. PREMESSA
La sensibilità ai temi ambientali, le sfide energetiche e le esigenze derivanti dai cambiamenti climatici in atto sono diventati temi centrali nel dibattito e nello sviluppo economico di tutti i paesi. In questi ultimi anni il settore delle fonti energetiche rinnovabili sta rapidamente cre-scendo, in particolare per quanto riguarda la produzione di energia elettrica (da fotovoltaico, eolico, biomassa, ma anche idroelettrico e geotermoelettrico). Eppure, non meno rilevante è il peso dell’energia termica (che a livello europeo costituisce circa il 50% del fabbisogno ener-getico) e – di conseguenza – il contributo che possono dare le fonti energetiche termiche (assieme all’efficienta-mento energetico degli edifici) in termini di riduzione di emissioni e di utilizzo di fonti fossili non rinnovabili.Nel campo della produzione di energia termica rinnova-bile un ruolo importante è rappresentato dagli impianti di geotermia a bassa entalpia, realizzati mediante pompe di calore geotermiche abbinate a scambiatori di calore inseriti nel terreno (sonde geotermiche verticali). Questo sistema di climatizzazione è stato introdotto in Italia solo nell’ultimo decennio, ma è una tecnologia diffusa ed af-fermata già da alcuni decenni in paesi avanzati del Nord Europa e dell’America ed è stata riconosciuta dall’EPA (Ente di Protezione Americana) “Il sistema di riscalda-mento e raffrescamento più efficiente dal punto di vista energetico e più compatibile dal punto di vista ambien-tale”. [Report EPA-DOE-430-R-93-004 ].Questo articolo è il frutto di esperienze professionali ed attività di ricerca svolte dagli autori nell'ambito della pro-gettazione e realizzazione di campi di sonde geotermi-che a servizio di impianti di climatizzazione con pompa di calore (impianti a circuito chiuso o "closedloop"). La multidisciplinarità degli autori rispecchia la complessità della materia in esame - la geotermia a bassa entalpia - che certamente richiede differenti competenze pro-fessionali che devono interagire come in ogni sistema complesso. L'articolo vuole indicare in particolare il ruo-lo centrale che la geologia ha in questo campo, certa-
mente per la determinazione del modello geologico ed idrogeologico in cui si inserisce l'opera in progetto, ma anche per la definizione delle caratteristiche termiche dei terreni attraverso adeguate metodologie di indagini (alcune delle quali ancora in fase di definizione) e per il supporto alla progettazione del cosiddetto "scambiatore geotermico" ossia della sonda (o del gruppo di sonde) che garantisce lo scambio di calore con il terreno.Non meno importante è il ruolo del geologo per la de-terminazione dei rischi geologici ed ambientali connes-si alla realizzazione dei campi sonde - anche se questo aspetto non è trattato diffusamente nel presente articolo e meriterebbe un approfondimento specifico.Infine, è bene ricordare che la realizzazione di sonde ver-ticali (generalmente profonde tra 80 e 150 metri) con-sente di fornire notevoli informazioni sulla composizione del sottosuolo che possono risultare utili anche ai fini della determinazione di contesti geologici favorevoli alla presenza di reservoir geotermici di media e alta entalpia.
2. BREVE STORIA DELLA GEOTERMIA
La geotermia è la scienza che studia l'esistenza ed il possibile utilizzo della risorsa energetica costituita dal calore presente nel sottosuolo.La geotermia classica nasce in Italia, nella zona del Monte Amiata in Tosca-na, quando nel 1904 il Conte de Larderel sperimenta l'utilizzo dell'energia contenuta nei vapori caldi risalenti dal sottosuolo e - convertendo l'energia geotermica in energia meccanica prima ed elettrica poi - riesce ad ac-cendere una lampadina [BIANCHI MC.2005]. È l'intuizio-ne iniziale di un settore che porterà quasi 60 anni dopo all'avvio di una vera e propria industria di produzione di energia elettrica in particolare a Larderello (insediamento il cui nome deriva appunto dal Conte de Larderel) ed in altre aree della regione, dove viene prodotto circa il 25% del fabbisogno di energia elettrica di tutta la Toscana. Questa risorsa geotermica ad alta entalpia è legata al contesto geologico-strutturale di tutto il versante tirre-
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nico che - per effetto di movimenti tettonici – è stato interessato in passato da intense attività vulcaniche e che attualmente è caratterizzato da rilevanti anoma-lie geotermiche positive. Successivamente, negli anni 80 a Ferrara si fa strada l'idea di utilizzare una risorsa meno pregiata - oggi classificabile come media ental-pia - rinvenuta all'interno di alcune perforazioni eseguite da AGIP negli anni '60 a scopo di ricerca idrocarburi e abbandonate per esito negativo (Domenico D’ Olimpo 2010) . L'acqua proveniente dai pozzi di 1.500 m. di pro-fondità possedeva una temperatura di circa 100 gradi centigradi. Fu pertanto proposta l'idea di utilizzare tale acqua per il teleriscaldamento della città. Negli anni '90 fu realizzato dall'azienda municipalizzata il sistema ge-otermico che alimenta la rete di teleriscaldamento della parte Ovest della città, completato con un pozzo di reim-missione in falda per rendere più sostenibile lo sfrutta-mento del reservoir. Attualmente il sistema è gestito dal Gruppo Hera Spa che sta valutando il raddoppio di tale impianto geotermico anche nella parte Est della città, in considerazione del fatto che lo stesso contesto geolo-gico favorevole (determinato dal sistema delle pieghe della dorsale ferrarese) si trova anche in tale area. Lo sviluppo della risorsa geotermica in Italia, dopo l'inten-sa fase iniziale degli anni 70-80 si è notevolmente ral-lentato anche a causa della minore importanza data ai temi energetici negli ultimi decenni del secolo scorso, oltre che per una situazione di monopolio della risorsa (da parte della società statale di gestione dell'Energia Elettrica) che ne ha ostacolato la diffusione nei fatti: per anni ci si limitava a ricercare le stesse caratteristiche ot-timali della risorsa idrogeotermale del Monte Amiata. Nel frattempo in molti paesi del Nord America e del Nord Eu-ropa si è affermata una nuova tecnologia per l'utilizzo del calore del sottosuolo per il riscaldamento delle abitazio-
ni. Si tratta della cosiddetta geotermia a bassa entalpia, impianti geotermici abbinati a pompe di calore in gra-do di trasferire calore da un corpo freddo (il terreno o la falda) ad un ambiente più caldo (l'edificio). A differenza delle tecnologie precedentemente sviluppate nel nostro paese questa applicazione è praticamente realizzabile in ogni contesto geologico ed ha un campo di utilizzo molto vasto (dalla piccola abitazione al complesso com-merciale/industriale), specie in abbinamento ai moderni impianti di distribuzione del calore a bassa temperatura (pannelli radianti in particolare).
3. GLI IMPIANTI GEOTERMICI CON POMPA
DI CALORE
Il funzionamento di un impianto geotermico per la cli-matizzazione degli edifici è caratterizzato dallo scambio di calore che avviene tra l'edificio (mediante l'impianto di distribuzione) ed il terreno (mediante il campo sonde geotermiche). Ciò che permette il trasferimento di calore da un corpo freddo ad un ambiente più caldo (come ad esempio l'edificio, in fase invernale) è il ciclo frigorifero della pompa di calore che costituisce il motore dell'im-pianto geotermico (Figura 1).E' facilmente intuibile come il primo elemento da cono-scere per il dimensionamento e la progettazione di un impianto di questo tipo è il fabbisogno energetico dell'e-dificio nelle sue differenti condizioni di funzionamento (riscaldamento invernale, raffrescamento estivo e produ-zione di acqua calda sanitaria). Il fabbisogno energetico è chiaramente funzione delle caratteristiche costruttive dell'edificio, principalmente del suo involucro, degli in-fissi e delle coperture.Poiché negli impianti alimentati da pompe di calore i consumi (elettrici nel caso di pompe di calore elettriche, di gas con pompe di calore ad assorbimento) sono pro-porzionali alla potenza termica della pompa di calore è opportuno che tale potenza sia adeguatamente calibrata per coprire i picchi di potenza senza ricorrere ad inef-ficienti sovradimensionamenti. Inoltre, l'efficienza delle pompe di calore (misurata mediante il cosiddetto “COP” - coefficiente di prestazione – che è pari al rapporto tra potenza termica erogata dalla pompa di calore e poten-za elettrica assorbita dal compressore) è tanto maggiore quanto minore è la temperatura di esercizio dell'impian-to di distribuzione interna. Per i motivi sopra esposti gli impianti geotermici si abbinano molto bene con edifici di classe energetica pregiata (A/B) e con impianti di distri-buzione a bassa temperatura (pannelli radianti o ventil-convettori). Figura 1 - Schema di impianto geotermico
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4. LO SCAMBIO DI CALORE NEL SOTTOSUOLO ED
IL MODELLO GEOLOGICO
Dal punto di vista del comportamento termico è possibi-le suddividere il sottosuolo in almeno tre livelli (Figura 2):• Zona superficiale – comprende il suolo e il primo sotto-
suolo, con uno spessore di circa 1-2 metri alle nostre latitudini. Questa è una zona molto sensibile alle varia-zioni stagionali e giornaliere della temperatura atmo-sferica. Il flusso di calore verso il sottosuolo (qs) sarà dato dalla somma della porzione di radiazione solare che riesce a penetrare nel terreno e dal trasporto ope-rato nel sottosuolo dalle precipitazioni (P);
• Zona poco profonda – varia da 1-2 metri fino a 15-
20 metri di profondità in funzione delle caratteristiche geologiche, legate alla litologia delle rocce presenti e all’assetto idrogeologico dell’area. In questa zona la temperatura risente ancora delle variazioni stagionali (a volte anche con uno sfasamento significativo), seb-bene si assesti maggiormente attorno alla temperatura media atmosferica annuale.
• Zona profonda – oltre 15-20 m di profondità, in fun-zione delle caratteristiche geologiche dell’area. In que-sta zona la temperatura è praticamente costante tutto l'anno ed inizialmente pari alla temperatura media at-mosferica, con variazioni in profondità in funzione del gradiente geotermico presente (che solitamente inizia a mostrare i suoi effetti a partire da 100-150 metri di profondità). Questo livello viene definito omotermico. Il calore ricevuto da questo strato è legato alle proprietà termiche delle rocce e dal gradiente geotermico locale.
Tralasciando il fattore irraggiamento (che agisce posi-tivamente nella zona superficiale, in cui generalmente sono collocati i tratti di collegamenti orizzontali), la pro-pagazione del calore nel sottosuolo avviene secondo due modalità principali: per conduzione (tipo di scam-
bio termico che avviene in un mezzo solido, quando è presente un gradiente termico tra le superfici del corpo stesso. Si genera cosi un flusso di calore tra le superfi-ci a temperatura maggiore verso quelle a temperatura inferiore come ben visibile in Figura 3); per avvezione
(che incrementa lo scambio termico a causa del flus-so convettivo dell’acqua che fluisce nel sottosuolo). L'approccio metodologico della Norma di progettazione UNI 11467:2011 parte dalla semplificazione rispetto al valore di conducibilità del terreno, assunto uniforme per tutta la massa interessata allo scambio termico con il fluido circolante nelle sonde. Per determinare tale valore di conducibilità si fa riferimento ad intervalli di valori che si presume derivino da indagini e test svolti sui vari tipi di terreno e che sono riassunti sotto forma di tabella (cfr. Tabella 1). Peraltro, la norma non riporta alcuna considerazione in merito alla scelta del litotipo di riferimento da cui rica-vare il valore di conducibilità da utilizzare nei calcoli. In pratica, non è specificato se occorre prendere come ri-ferimento il litotipo prevalente in termini di spessore (con riferimento alla profondità presunta delle sonde di pro-getto) o – precauzionalmente – il litotipo che presenta i valori di conducibilità più bassi tra tutti quelli attraversati dalla perforazione. Infine, le tabelle trascurano completamente il fattore di scambio termico dato dalla avvezione (ovvero il con-tributo del flusso di falda), limitandosi a differenziare il valore di conducibilità dei terreni permeabili nel caso di terreni saturi o terreni “secchi”. Recenti studi [N Diao et al.2004] dimostrano infatti come flussi di falda con velo-cità superiori a 10-6 m/sec influenzano profondamente il campo di temperature attorno alla sonda stessa assicu-rando eccellenti prestazioni del sistema (terreno-sonda-pompa di calore) a lungo termine. Le proprietà termiche del terreno possono essere misurate in situ attraverso
Figura 2 - Scambio di calore nel terreno Figura 3 - Scambio di calore per conduzione
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un test di risposta termica (TRT, detto anche “Ground Response Test” - GRT) che consiste nella misura dell'al-terazione termica del fluido termovettore che circola nel-la sonda di prova sottoposta ad un’immissione di calore con potenza costante per una durata generalmente pari a 50 o 72 ore (Figura 4). Questo metodo, largamente approvato in diversi paesi, permette di determinare la resistenza termica del pozzo (Rb) e la conducibilità termica (λ), mediante l'analisi della curva delle temperature di mandata e ritorno dalla sonda geotermica rispettivamente nel periodo transitorio (fase iniziale del test) e stazionario (Figura 5).Prima dell'immissione di energia termica la registrazio-ne dei dati di temperatura dell'acqua circolante in sonda permette la determinazione della temperatura indistur-bata del terreno, altro importante elemento progettuale di un impianto geotermico. Occorre considerare fin d'o-ra che il risultato del test non tiene conto dell'andamento discreto dei valori di conducibilità dei terreni, fornendo unicamente un valore medio e anche in questo caso non considera l'apporto convettivo della falda, misurando in realtà una “conducibilità apparente” del terreno. Le considerazioni sopra esposte e le esperienze acqui-site mediante la progettazione di molti impianti geoter-mici a bassa entalpia conducono a considerare che uno degli elementi di partenza fondamentale per la corretta progettazione di un sistema di scambio geotermico è la ricostruzione di un modello geologico del sito di proget-to che descriva gli aspetti del sottosuolo che possono influenzare il trasferimento di calore nel terreno (forma-zioni geologiche, assetto lito-stratigrafico, caratteri geo-strutturali, assetto idrogeologico, ecc.... ) o costituire dei fattori di rischio o degli elementi di vulnerabilità (versanti instabili, acquiferi multifalda, siti contaminati, aree di ri-carica di acquiferi o zone di tutela di pozzi e sorgenti). La Figura 6 riporta un esempio di modello geologico utilizzato come riferimento nel corso di uno dei campi sonde realizzati (v. del Gomito a Bologna, cfr. paragrafi successivi).
Tabella 1 – Caratteristiche termiche dei principali tipi di terreno
Figura 4 - Strumentazione per il test di risposta termica dei terreni
Figura 5 - Grafico delle temperature registrate durante un GRT
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Solamente mediante la definizione di un modello ge-ologico di riferimento è possibile valutare la fattibilità tecnica, economica e ambientale di un sistema di geo-scambio e determinarne la tipologia ideale (scambio con collettori orizzontali, sistemi "open loop” con scambio mediante acqua di falda, scambio mediante pali di fon-dazione o “strutture geoenergetiche”, scambio con son-de geotermiche verticali). Ovviamente, tale valutazione preliminare di fattibilità deve tenere in considerazione dell’altro elemento progettuale fondamentale: il fabbiso-gno energetico dell’edificio e dell’impianto di progetto (Figura 7). La definizione del modello geologico di riferimento con-sente anche di ottenere una "stratigrafia presunta”, utile sia alla definizione della tecnica di perforazione più ido-nea al contesto (considerando anche gli altri elementi al contorno, strutturali ed infrastrutturali), sia alla stima preliminare del potenziale di scambio termico del terre-no, che nel caso di impianti di piccolissime dimensioni, inferiori cioè a 20-30 kW, può risultare sufficiente per dimensionare la lunghezza dello scambiatore geotermi-
co, utilizzando un coefficiente di sicurezza pari almeno a 1,1/1,15, ovvero sovradimensionando lo scambiatore di 10-15%. In pratica, per i piccoli impianti il dimensiona-mento preliminare del campo sonde geotermiche verti-cali si ottiene mediante la definizione di un valore medio di conducibilità termica calcolato con una media pesata che tenga conto dello spessore dei differenti strati del terreno (Figura 8).
Figura 6 - Sezione geologi-ca di riferimento (tratta da sito web Servizio Geologico Regione Emilia-Romagna https://applicazioni.regio-neEmil iaRomagna. i t /car-tografia_sgss/user/viewer.jsp?service=geologia)
Figura 7 - Verifica di fattibilità tecnica ed ambientale di un sistema di scambio geotermico
Figura 8 - Determinazione della conducibilità e della “resa” media del terreno su base stratigrafica
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5. SINTESI DELLE RICERCHE IN ATTO E NORME DI
PROGETTAZIONE
Un ampio lavoro di ricerca sulle prestazioni termiche e la sostenibilità di campi sonde BHE è attualmente disponi-bile in letteratura. Diversi studi hanno considerato la va-lutazione dei test di risposta termica (TRT), le analisi dei meccanismi di trasferimento di calore interni in un’unica sonda geotermica, la sostenibilità a lungo termine dei campi di sonde geotermiche in assenza di movimento delle falde, gli effetti del movimento delle acque sotter-ranee, oltre allo sviluppo di metodi di progettazione per i campi di sonde geotermiche.Per quanto riguarda l’esecuzione e l’interpretazione dei TRT le due metodologie più semplici si basano su ap-procci analitici: il metodo di Mogensen è basato sulla risoluzione del campo di temperatura prodotta da una fonte di calore lineare infinita (infinite-line-source me-thod) [Mogensen 1983]; il metodo di Kavanaugh e Raf-ferty considera la variazione di temperatura prodotta da una sorgente di calore cilindrica infinita avente il raggio della sonda geotermica (Infinite-cylindrical-source me-thod) [Kavanaugh e Rafferty, 2003]. Gli approcci più evo-luti considerano modelli tridimensionali [Marcotte e Pa-squier, 2008], [Lamarche et al, 2010], utilizzando anche codici di simulazione numerici agli elementi finiti [Bozzoli et al., 2011]. Numerosi studi e ricerche sono riferite alla definizione della sostenibilità a lungo termine dei cam-pi sonde, considerando alternativamente terreni dove gli effetti del movimento delle falde sotterranee sono trascurabili [Rybach L., 2002], campi sonde con carichi invernali ed estivi completamente sbilanciati [Rybach et al., 2004], campi sonde con distribuzione infinita di son-de, in assenza di flusso e di equilibrio dei carichi [Lazzari et al., 2010]. Altri studi hanno inoltre valutato gli effetti del flusso di acque sotterranee sulle prestazioni dei campi. In par-ticolare, [Chiasson et al., 2000] ha impiegato un mo-dello numerico ad elementi finiti per simulare gli effetti del flusso di acque sotterranee su un singola sonda in differenti materiali geologici. Le simulazioni hanno mo-strato che il flusso di falda migliora significativamente il trasferimento di calore avvettivo in contesti geologici ad elevata conducibilità idraulica, come sabbia, ghiaie e rocce ad elevata permeabilità per fratturazione. Infi-ne, [Zanchini et al., 2012] hanno studiato gli effetti del flusso delle acque sotterranee sulle prestazioni a lungo termine dei campi di sonde geotermiche soggetti a ca-richi invernali ed estivi sbilanciati, utilizzando una forma adimensionale ottenuta da simulazioni ad elementi finiti realizzati attraverso COMSOL Multiphysics.
Tutte le esperienze di ricerca sovra-elencate hanno per-messo di accrescere le conoscenze sui metodi di analisi e dimensionamento dei campi sonde. Tuttavia le meto-dologie proposte sono di difficile applicazione nei di-mensionamenti dei campi proprio per l’eccessivo onere computazionale di queste ultime.Per questa ragione nel corso degli anni sono nati me-todi di calcolo e software basati sulle esperienze di ri-cerca pregresse. Un semplice metodo di progettazione per campi sonde è stato sviluppato da [Kavanaugh e Rafferty, 1997] ed è consigliato dalle norme (ASHRAE 2007). Esso è basato sulla soluzione dell'equazione del trasferimento di calore di un cilindro di lunghezza infinita in mezzo a un solido omogeneo, e considera la sovrap-posizione di tre impulsi di calore, ciascuna con una po-tenza costante, che rappresentano rispettivamente, gli squilibri termici stagionali, il carico termico medio men-sile nel corso del mese di progettazione e l’impulso ter-mico di picco durante il giorno di progetto. Su tale meto-do di calcolo si basano i software commerciali di calcolo per il dimensionamento dei campi sonde, in particolare i software EED (Basato sulle G-Function) e Geotermus.La Norma Uni 11467, sulla progettazione dell'impianto geotermico, indica gli elementi di input relativi al carico termico dell'edificio necessari alla determinazione della potenza termica del generatore di progetto (pompa di calore). La Norma stessa illustra le metodologie di cal-colo del dimensionamento dello scambiatore al suolo (campo sonde verticali, nel caso più diffuso) che pos-sono essere più o meno semplificate a seconda delle dimensioni dell'impianto (ASHRAEE, EED, simulazioni ecc...).Tali metodologie di calcolo si basano tutte sulla sempli-ficazione relativa al modello di scambio di calore tra il fluido che circola nelle sonde ed il terreno, secondo la quale lo scambio di calore è proporzionale a due valori fondamentali: la differenza di temperatura tra il fluido ed il terreno adiacente alla sonda e la conducibilità del ter-reno attorno alla sonda. Chiunque abbia dimestichezza con la composizione del sottosuolo capisce immedia-tamente che tale semplificazione può essere causa di approssimazioni inaccettabili, qualora non sia adegua-tamente approfondita la conoscenza di un modello ge-ologico di riferimento da cui estrapolare il dato da utiliz-zare nei calcoli. E' la stessa semplificazione che non può essere accettata per esempio nel caso di progettazione geotecnica di un intervento edilizio: oggi non si può più progettare qualsiasi struttura di fondazione senza avere determinato un modello geologico del sottosuolo che consenta un’adeguata caratterizzazione geotecnica dei terreni stessi.
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6. SPERIMENTAZIONI E OSSERVAZIONI DERIVANTI
DALL’ESPERIENZA PROFESSIONALE
La stima delle proprietà termiche dei terreni sulla base del modello geologico di riferimento non consente an-cora di tenere in giusta considerazione il contributo della componente avvettiva dello scambio di calore che si ha negli strati di terreno saturo (falde) che interessano lo sviluppo verticale delle sonde geotermiche.Tale limitazione è soprattutto dovuta alla scarsità di in-formazioni inerenti il contesto idrogeologico della zona in cui viene realizzato il campo ed ai notevoli costi da sopportare per uno studio idrogeologico adeguato.Durante l’esecuzione di numerosi test di risposta termi-ca dei terreni e di misure termometriche effettuate lungo la verticale della sonda in differenti situazioni (dopo l’in-stallazione della sonda, durante il test di resa termica, dopo qualche giorno dal termine del test, ecc…) si è osservato che la temperatura del terreno varia in modo molto differente da strato a strato, principalmente per effetto delle caratteristiche termiche del terreno (com-ponente di conducibilità) e del suo grado di saturazione (componente di avvezione). La realizzazione di un profilo termico del terreno durante la fase di riscaldamento e/o di raffreddamento del TRT, combinato ai dati geologi-ci ed idrogeologici, permette quindi di discretizzare lo scambio del calore in diversi livelli (vedi Figura 9). Questa metodologia consente di ottenere una distribuzione ver-ticale della conducibilità termica del sottosuolo. Un approfondimento di questa metodologia di indagine sperimentale è stato eseguito nel corso della realizzazio-ne dell’impianto geotermico di Bologna (via del Gomito) a servizio di un nuovo complesso residenziale di 30 unità abitative. Il campo sonde geotermico – realizzato a fine 2010 dall’azienda presso cui lavorano gli autori – è costi-tuito da 14 sonde verticali di profondità 104 m.
In tale occasione è stata anzitutto realizzata una cam-pagna di indagine per la caratterizzazione geologica ed idrogeologica dei terreni attraversati dal campo son-de, facendo riferimento alle raccomandazioni A.G.I e A.N.I.S.I.G., mediante la realizzazione di un sondaggio geognostico spinto alla profondità di m. 50 (con succes-siva installazione di piezometro) e mediante la stratigra-fia desunta dai cuttings di perforazione delle 14 sonde geotermiche eseguite (Figura 10).Sulla base del modello geologico disponibile prelimi-narmente (cfr. figura 6) le perforazioni eseguite hanno permesso di ricostruire l’assetto idrogeologico di det-taglio, riportato in Figura 11. In esso si può osservare che il sottosuolo del complesso residenziale in esame è costituito da un alternanza di termini fini (argille limose e limi argillosi) e di terreni grossolani (ghiaia in matrice sabbiosa) che costituiscono i principali livelli acquiferi. In accordo con la definizione dei caratteri idrostratigrafici della Regione Emilia-Romagna, gli acquiferi interessati dalle perforazioni realizzate sono principalmente:- A0 – tra 5 e 25 metri: acquifero freatico superficiale
(AES8 Subsintema di Ravenna);
Figura 9 - Misure termiche in sonda dopo la cementazione, paragonate alla stratigrafia del terreno
Figura 10 – Stratigrafia del terreno relativa alla sgv n°9 (sonda sulla quale è stato eseguito il TRT), desunta dall’analisi dei cuttings di per-forazione
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- A1 (AES7 “Subsintema di Villa Verucchio”) – tra 45 e 55 metri;
- A2 (AES6 “Subsintema di Bazzano – tra 70 e 95 metri.Il piezometro realizzato è stato ubicato a valle “idrogeo-logica” del campo geotermico, finalizzato al monitorag-gio a lungo termine dell’ eventuale alterazione termica e chimica prodotta dall’attivazione dell’impianto. Il pie-zometro è stato allestito con tratto fessurato dai 45m fino ai 50m dal p.c., andando quindi ad intercettare il complesso acquifero A1 (AES7 “Subsintema di Villa Ve-rucchio”). Tale falda confinata, ha mostrato livelli piezo-metrici statici variabili fra circa m. 18,4 (soggiacenza dal p.c.) a m. 17,70 (soggiacenza dal p.c.) durante l’arco di tempo in cui si sono effettuati i monitoraggi cui si accen-nerà nel prosieguo. Nell’ambito dell’indagine è stata con-dotta anche una prova di permeabilità tipo Lefranc, che ha permesso di definire un valore pari a 6,51E-06 m/s.Al fine di caratterizzare dal punto di vista termico il serba-toio geotermico sono state realizzate le seguenti indagini:- l’esecuzione di un test di risposta termica del terreno;- una campagna di misure termometriche del terreno;- un monitoraggio periodico del livello piezometrico e
della temperatura della suddetta falda.In data 9-11 gennaio ’11 è stato eseguito il TRT sulla sonda SGV-9. L’analisi dei risultati del test TRT ha porta-to alla determinazione delle seguenti proprietà termiche:- conducibilità termica media effettiva del sottosuolo
nell’intorno della sonda geotermica = 1,85 W/(mK);- resistenza termica del foro in esame = 0,062 K/(W/m).La stima empirica della conducibilità è stata ottenuta stimando l’inclinazione della retta interpolante le misura-zioni termiche rispetto al logaritmo del tempo. Ottenuta la pendenza della retta, si applica la formula seguente:
dove: λ è la conducibilità termica, Q è la potenza termica iniettata nella sonda, H è la lunghezza della
sonda e K è la pendenza della retta.Il profilo termico eseguito alcuni giorni dopo il test di ri-sposta termica (profilo rosso in figura 12) mostra come la temperatura tende a stabilizzarsi a partire da circa 15 m
dal p.c.; al di sotto di tale profondità si osservano alcune oscillazioni in corrispondenza dei passaggi da un litoti-po all’altro. In particolare sono state rilevate diminuzioni della temperatura in corrispondenza degli acquiferi co-stituiti da ghiaia sabbiosa; il primo compreso fra m. 48,0-58,0, il secondo fra m. 72,0-80,0 e il più profondo fra m. 88,0-94,0 rispetto al p.c.. Al contrario, in corrispondenza dell’intervallo m. 54,0-64,0 dal p.c., la temperatura risul-ta più elevata, poiché la presenza di un potente strato di limo argilloso, con bassi valori di conducibilità termica, determina una più lenta dissipazione del calore rispetto a terreni grossolani attraversati da flussi di falda attivi.Nel periodo successivo alla realizzazione di un’altra son-da si è provveduto alla realizzazione di misure termofre-atimetriche, per verificare la risposta del terreno al di-sturbo termico causato dalla cementazione della sonda stessa. La figura sottostante (figura 13) riporta i profili di temperatura, affiancati alla stratigrafia della sonda, che evidenziano una maggior propensione al disturbo termico (dopo la cementazione) e una minore velocità di ritorno alle condizioni indisturbate dei terreni fini e con
permeabilità non elevate, a differenza dei terreni gros-solani ed interessati da circolazione di acqua di falda. Sono state inoltre realizzate misure termiche mediante
Figura 12 - Temperatura del terreno in seguito all’alterazione termica del TRT
Figura 13 - Stratigrafia del terreno e profilo termico in sonda, dopo la cementazione
Figura 11 - Ricostruzione dell’assetto idrogeologico di dettaglio derivante dalle perforazioni eseguite
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inserimento di un termofreatimetro all’interno di un tubo di ciascuna sonda geotermica del campo dalle quali si sono riscontrate temperature medie di 13,8-13,9°C ed un gradiente locale di circa 0,62°C/100m, gradiente bas-so motivato dalla presenza delle falde acquifere (figura 14). Infine, dai dati ottenuti dal monitoraggio periodico nel piezometro si può vedere come la temperatura me-dia dell’acqua rimanga attorno a circa 14°C, mentre si osserva una temperatura media di 13,8°C a m. 50 dal p.c., in corrispondenza del tratto finestrato del piezo-metro (Figura 15). Sulla base delle osservazioni sopra esposte si può meglio comprendere che i valori di con-ducibilità ottenuti dal TRT sono da intendersi come “con-ducibilità equivalente” ossia come risultante del fattore conduzione e del fattore avvezione. Infatti, il modello di interpretazione del test suppone che lo scambio termico avvenga completamente per conduzione, mentre abbia-mo ampiamente documentato come il contributo avvet-tivo dello scambio di calore può essere molto rilevante, come nel caso in esame.
7. PROGETTI DI RICERCA PER LE METODOLOGIE
DI INDAGINE TERMICA SUI TERRENI
Le evidenze empiriche sopra descritte sono state appro-fondite nel corso di numerosi altri casi studio durante l’e-secuzione di test ed impianti geotermici e mediante una collaborazione in atto da alcuni anni con l’Università de-gli Studi di Urbino – Dipartimento di Scienze della Terra, che per prima ha svolto attività di ricerca in quest’am-bito, evidenziando l’importanza dei profili termici nella caratterizzazione termica dei terreni.Nel corso dell’anno 2013 Geo-Net –società di ingegneria
(per cui lavorano gli autori professionisti) e che progetta e realizza impianti geotermici - ha finanziato un progetto di ricerca dell’Università di Urbino con l’obiettivo di pas-sare dalle evidenze empiriche alla determinazione di un modello di trasferimento di calore che consideri le carat-teristiche termiche del terreno in modo discretizzato, va-lutando il contributo differente dei termini convettivi ed avvettivi. Inoltre, il progetto si pone l’obiettivo di definire una metodologia di indagine termica sui terreni in grado di fornire una corretta ricostruzione delle caratteristiche termiche dei terreni stessi (strato per strato, e non come valor medio, come risulta oggi dai test di risposta termi-ca universalmente diffusi. L’utilizzo di simulazioni ad elementi finiti ed in particolare analisi di tipo CFD (Computational Fluid-dynamic) hanno consentito di esplorare diversi scenari possibili. Le in-dagini hanno riguardato lo studio del comportamento a breve e lungo termine di sonde geotermiche realizzate in terreni caratterizzati da diverso comportamento termo-idraulico.Diversi sono stati gli studi delle performance di sonde geotermiche realizzati con l’ausilio di modelli numerici. I casi oggetto di studio si riferiscono a diversi scenari: - Diverse condizioni di carico termico applicato [A. PRIA-
RONE 2009];- Diverso interasse relativo tra le sonde, al fine di indivi-
duare la distanza limite oltre la quale si può innescare interferenza e quindi perdita delle prestazioni energeti-che nel tempo [A. PRIARONE 2009];
- Diverse condizioni idrogeologiche dei terreni (presenza o meno di falda e diverse velocità di quest’ ultima), al fine di individuare l’effetto dei moti delle acque sot-terranee sulle caratteristiche termiche dello strato da esse attraversate, ed in particolare del coefficiente globale di scambio termico da esso indotte [S. LAZ-ZARI A. PRIARONE AND E. ZANCHINI 2011].
Tutti i modelli disponibili in letteratura sono stati realiz-zati considerando il terreno come mezzo omogeneo e con le stesse caratteristiche per tutta la profondità della sonda. Questa considerazione permette di semplificare di molto la modellazione e quindi di utilizzare un modello bidimensionale riducendo di molto i gradi di complessità del sistema studiato.Lo scopo che ci si è prefissi con la presente ricerca è invece quello di capire l’effetto delle variazioni delle ca-ratteristiche del comportamento termico e idrogeolo-gico degli strati sulle prestazioni termiche globali delle sonde che attraversano tali strati. Si sono quindi estese le esperienze da diversi autori al caso tridimensionale. Questa fase è stata assai onerosa a causa dell’incre-mento esponenziale dei gradi di complessità del mo-
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Figura 14 - Temperatura indisturbata media del terreno ad una profon-dità di m 55 dal p.c.
Figura 15 - Monitoraggio periodico del livello statico e della temperatura della falda confinata nel piezometro di monitoraggio
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dello, generati dalla non uniformità degli strati (e quindi dalla necessità di simulare la sonda nel suo complesso).Inoltre la simulazione del moto avvettivo dell’acqua di falda in un mezzo poroso (il terreno), genera sforzi com-putazionali elevati, poiché si deve simulare la reale mo-dalità di diffusione del fluido negli strati attraversati (che i modelli bidimensionali non considerano). L’ approccio simulativo ha consentito di analizzare i fe-nomeni in atto durante lo scambio termico tra sonda e terreno sia nella fase di realizzazione che in quella di ser-vizio della sonda stessa. Nel corso di questo periodo di studio si è simulato il comportamento di diversi siti in cui sono state realizzate sonde geotermiche accoppiando la simulazione di perturbazioni termiche rapide del pozzo come quelle che avvengono durante un TRT, sia il com-portamento di un terreno in cui è installato un campo sonde e in cui viene svolto un monitoraggio di lungo pe-riodo, analizzando la variazione di temperatura nel fluido della sonda e nel terreno a diverse distanze dalla sonda stessa al variare della stagione termica e quindi della potenza immessa o sottratta al terreno dalla pompa di calore (Figura 16).L’ utilizzo dei soli dati provenienti dalle misure effettuate nel corso delle indagini in sito non consentono di com-prendere a pieno tutti i fenomeni fisici di scambio tra sonda e terreno, in quanto non è possibile separare i vari contributi che vanno a definire l’energia totale scambia-ta dalla sonda stessa, rendendo tali dati quantomeno di difficile interpretazione. I modelli numerici, opportuna-mente tarati sulla base di dati sperimentali dei sensori diventeranno uno strumento di supporto indispensabile per la corretta interpretazione dei dati provenienti dal-le indagini in sito. Infatti, attraverso di essi è possibile individuare le caratteristiche termo-idrauliche dei singo-li strati di terreno attraversati dalla sonda per qualsiasi condizione al contorno agente su di essa. Inoltre sarà possibile identificare tutti i fenomeni fisici in atto e inter-pretare condizioni particolari come difetti di esecuzione della sonda o eventuali resistenze parassite. L’integra-
zione tra i modelli numerici così ottenuti e le indagini in sito potrà diventare un sistema di supporto alla corret-ta progettazione di campi sonde per qualsiasi configu-razione e per qualunque condizione geomorfologica e idraulica del terreno da esse interessato.In Figura 17 è riportato un esempio delle potenzialità offerte da tali modelli. In particolare è stato rappresen-tata la simulazione tridimensionale ad elementi finiti [L. SCHIAVI 2009] relativa a una prova TRT al fine di valu-tare di quanto il modello “Line Source” (con cui viene schematizzato lo scambio termico tra sonda e terreno per la determinazione della resistenza del foro e la con-ducibilità del terreno stesso) si discosta dal modello di scambio tridimensionale realmente agente. Le analisi mostrano come il modello lineare applicato nel Thermal Response Test rappresenti un modello sufficientemente accurato per la stima di tali parametri. Tuttavia l’approc-cio tridimensionale appare necessario quando devono essere considerate altre complessità geometriche e ge-omorfologiche.
8. CONCLUSIONI
Sulla base delle osservazioni sperimentali e del progetto di ricerca in atto che coinvolgono l’attività professionale degli autori ed il Dipartimento Scienze della Terra dell’U-niversità di Urbino, descritti nel presente articolo, appare evidente il ruolo centrale che la geologia deve ricoprire nella progettazione e realizzazione di impianti geotermici a bassa entalpia. Come per la realizzazione di qualsiasi opera nel sottosuolo, la ricostruzione di un modello geo-logico di riferimento adeguatamente approfondito risulta il primo fondamentale passo per un approccio corretto. Nella definizione delle caratteristiche termiche dei terre-ni, successivo elemento di conoscenza indispensabile,
Figura 16 - Confronto tra i dati di una prova TRT misurata e simulataFigura 17 - Distribuzione della temperatura in una sezione di terreno bidimensionale influenzata da una falda in pressione con velocità W
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sono attualmente disponibili strumenti e metodologie universalmente riconosciute ed adottate quali il TRT (o GRT) che, come detto, non considerano adeguatamente la reale struttura del contesto geologico, quasi sempre caratterizzato da successioni di strati di terreno o forma-zioni rocciose con differenti caratteristiche. Tali strumen-ti non considerano nemmeno il contributo importante derivante dal movimento dell’acqua di falda – ove pre-sente. Le sperimentazioni introdotte in collaborazione con l’Università degli Studi di Urbino vogliono colmare questa lacune per porre le basi di una progettazione ge-otermica in grado di simulare meglio il comportamento termico del terreno sottoposto allo scambio termico me-diante sonde verticali a servizio di pompe di calore ge-otermiche. Infine, l’articolo vuole essere uno stimolo ad un adeguato approfondimento di studi ed indagini che i colleghi geologi sono sempre più frequentemente chia-mati ad eseguire nell’ambito della progettazione di tali tipologie di impianti termici a fonti rinnovabili.
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Utilizzo d'immagini all'infrarosso termico per l'individuazione di sorgenti minerali nella Finestra Tettonica di GovaFrancesco Ronchetti1, Federico Cervi2, Alessandro Corsini1, Paolo Mora3, Giuseppe Maragò4, Stefano Taddia5 1 Geologo, Ricercatore presso Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche. Università degli Studi di Modena e Reggio E. 2 Geologo, Assegnista di ricerca presso Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali.
Università degli Studi di Bologna 3 Geologo, Tecnico presso Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie. Università degli Studi di Bologna 4 Geometra, libero professionista 5 Perito tecnico, libero professionista
1. INTRODUZIONE
L’utilizzo di immagini all'infrarosso termico da piattafor-ma satellitare, aerea e terrestre è oramai consolidato in diverse discipline tra le quali l’ingegneria civile, l’archi-tettura, l’idrologia, l’idrogeologia, l’agronomia e la clima-tologia. A partire dagli ultimi anni, le termocamere forniscono preziose informazioni per la valutazione della disper-sione di energia termica dagli edifici mentre in campo ambientale, vengono impiegate per monitorare vulcani, prevenire e controllare incendi, controllare discariche, rilevare fughe di gas, valutare l'umidità del suolo, moni-torare/caratterizzare frane e pareti rocciose, classificare l’uso del suolo, controllare la dispersione di inquinanti in fiumi, individuare sorgenti in alveo e stimare la loro portata, indagare la presenza di sorgenti sottomarine lungo le coste (Danielescu et al. 2009). Una trattazione esaustiva delle possibili applicazioni di questa tecnica in campo idrogeologico ed ambientale si trova in Brunner et al. (2007).Nella presente nota viene riportato l'utilizzo dell’infra-rosso termico mediante termocamera da piattaforma terrestre per la localizzazione di alcune sorgenti minerali che vengono a giorno in modo diffuso nell’alveo del Tor-rente Dolo (Comune di Toano, Provincia di Reggio Emi-lia). Si tratta delle sorgenti fredde e minerali di Quara, già sfruttate fin da epoca romana, ad oggi in larga parte scomparse e sepolte da alluvioni recenti. Il sito di stu-dio è inoltre inserito tra le aree di particolare interesse nell’analisi preliminare per la valutazione del potenziale geotermico in Regione Emilia-Romagna.
2. INQUADRAMENTO GEOLOGICO
L’area di studio si trova al limite settentrionale della fi-nestra tettonica di Gova, nel medio Appennino emiliano (quote comprese tra 700 e 1000 m s.l.m.) e ricade all’in-terno del bacino idrografico del Torrente Dolo che, con il suo corso, segna il confine tra le Provincie di Reggio Emilia e Modena. La struttura tettonica permette l'af-fioramento dell’Unità Toscana, qui rappresentata dalle Arenarie di Gova, ovvero torbiditi quarzoso-feldspatiche a grana grossolana, con strati da spessi a molto spes-si, appartenenti ad una avanfossa intermedia tra il Cer-varola e la Marnoso-Arenacea (Fig. 1, Unità 1; Plesi et. al. 2002). L'Unità Ligure affiorante a nord della finestra tettonica (unità 11 in Fig. 1) è costituita dal flysch della formazione di Monte Venere e dalle Argille a Palombini. Interposta tra le due Unità, affiora il mélange tettonico della sotto-unità Sestola-Vidiciatico (unità 6 in Fig. 1), che si ritrova anche a sud sotto forma di sovrascorri-mento a basso angolo sulle Arenarie di Gova (Fig. 2).Il contatto tra le diverse unità è complicato dalla presen-za, al limite settentrionale, di una importante faglia chi-lometrica subverticale, a movimento trascorrente (Carta geologica d’Italia - Foglio 235 Pievepelago; Plesi et al., 2002). Recentemente, in seguito a studi meso-struttu-rali, la struttura è stata re-interpretata come una faglia a prevalente rigetto verticale (Remitti et al. 2012), in accor-do ai dati di un pozzo per idrocarburi spinto sino a 3300 metri di profondità e posto poche centinaia di metri a nord del contatto (Anelli, 1994). Proprio nei pressi della faglia, al contatto tra Arenarie di Gova e le argilliti del Mélange tettonico nell’alveo del
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Torrente Dolo, Colombetti & Nicolodi (2005) riportano la presenza di più venute di acque “termali”, con portate complessive di pochi litri al minuto, prevalentemente lo-calizzate nel materasso alluvionale del corso d’acqua, qui potente alcuni metri. Altri Autori (Scicli, 1972) evidenziano
Figura 2 – Sezione geologica schematica (A-A’, rispettivamente S-N) della finestra tettonica di Gova con il tracciato del torrente Dolo e loca-lizzazione di alcune delle sorgenti minerali fredde censite
Figura 1 – Inquadramento strutturale della Finestra tettonica di Gova (modificato da: Foglio Geologico 235; Plesi et al., 2002). 1) Arenarie di Gova; 2) Falda Toscana; 3) Unità Modino (Sotto Unità Modino Pievepe-lago); 4) Successione del Monte Cervarola e Scaglie del F. dei Bibbi; 5) Scaglie del Secchia; 6) Unità Modino (Sotto Unità Sestola Vidiciatico); 7) Unità Canetolo; 8) Unità Caio; 9) Unità ofiolitica della Val Baganza; 10) Unità Venano; 11) Unità Monghidoro; 12) Sucessione Epiligure. Il riquadro con la linea rossa continua indica l’area di indagine; la linea a tratteggio nero indica la traccia della sezione geologica A-A’ (Figura 2)
Figura 3 - A) B) Immagini relative al T. Dolo nel tratto centrale della Finestra Tettonica di Gova; da notare la giacitura sub-orizzontale delle Arenarie di Gova con potenza metrica dei singoli strati e il canyon che borda il corso d’acqua. In C), edificio settecentesco (tempietto cele-brativo) al limite settentrionale della finestra tettonica con vasca per la raccolta delle acque termali
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come la presenza di queste acque estremamente mine-ralizzate (spesso associate ad idrocarburi e metano) non sia esclusiva della zona di faglia, ma come tale anomalia sia riscontrabile lungo tutto il tratto di alveo impostato nella finestra tettonica, che qui scorre incassato nelle po-tenti bancate arenacee del Flysch di Gova (Fig. 3).
3. CARATTERISTICHE CHIMICO-FISICHE
DELLE ACQUE SOTTERRANEE
A differenza delle normali acque di sorgente che ven-gono a giorno dai complessi idrogeologici dell’Appen-nino settentrionale, le Sorgenti di Quara, sono estrema-mente mineralizzate (Conducibilità Elettrica > 10000 µS/cm, Salinità > 7 g/l) a Na+ (circa 2600 mg/l) e Cl- (circa 3800 mg/l) (Boschetti et al. 2011). Con una temperatura costante durante l’anno e prossima a 20 °C, le acque possono essere definite secondo la classificazione com-binata di Marotta e Sica (1933) e Schoeller (1962) come minerali fredde.Oltre all’edificio settecentesco (tempietto celebrativo, Fig. 3), Colombetti e Nicolodi (2005) riportano la presen-za di cinque sorgenti al limite settentrionale della finestra tettonica. Esse emergevano dalle alluvioni terrazzate, per un tratto di circa 300 metri, ma ad oggi, a causa del-le modifiche dell’alveo in seguito a fenomeni di sovral-luvionamento, risultano scomparse. Recenti misurazioni dirette in alveo della conducibilità elettrica, condotte con multimetro CRISON MM40+ durante l’estate 2010, han-
no evidenziato, per questo tratto di torrente, un continuo incremento della conducibilità da circa 500 a 675 µS/cm, dovuto al contributo di acque mineralizzate le cui emer-genze non sono direttamente visibili in superficie (Fig. 4).
4. RILIEVI ALL'INFRAROSSO TERMICO
4.1 Metodo di indagine
La termocamera utilizzata è il modello SC620 24° della FLIR e le cui specifiche sono riportate in Tabella 1.
Figura 4 - A) Dettagli delle campagne all’infrarosso termi-co condotte con termocamera FLIR-SC620 24°; B) Risultati della misura della conducibili-tà elettrica in alveo (campagna 2010). L’immagine dimostra un incremento progressivo della conducibilità elettrica nell’ac-que del T. Dolo, dovuto a conti-nuo contributo di acque sotter-ranee fortemente mineralizzate nel torrente
Immagine e dettagli ottici
Campo di vista 24°×18°
Lunghezza focale 38 mm
Risoluzione spaziale 0,65 mrad
Distanza minima a fuoco 0,3 m
Sensibilità termica <40 mK a +30°C
Frequenza immagini 30 Hz
Caratteristiche sensore
Range spettrale 7.5-13 µm
Risoluzione immagine 640×480 pixels
Caratteristiche misura
Range temperatura rilevabile - 40°C ÷ 120°C o 0°C ÷ 500°C
Precisione ± 2% della misura
Tabella 1 - Caratteristiche della termo-camera impiegata nella ricerca
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Per verificare le situazioni ottimali di utilizzo della tecnica termografica in questo determinato contesto, due cam-pagne di misura con condizioni ambientali antitetiche sono state realizzate in un periodo caldo (estate – luglio 2010) ed uno freddo (inverno – febbraio 2011):• Il periodo estivo: magra spinta con deflussi del torrente
Dolo di circa 300 l/s, umidità minima nel terreno cir-costante. Temperatura delle acque superficiali di circa 23 °C, Temperatura sorgenti di circa 20 °C. Peculiarità principale del periodo con riferimento alla tecnica uti-lizzata: forti differenze di umidità nel terreno.
• Il periodo invernale: portata del Torrente Dolo di cir-ca 600 l/s, umidità massima nel terreno circostante. Temperatura delle acque superficiali prossime a 3° C, temperature delle sorgenti profonde a 15° C. Peculia-rità principale del periodo con riferimento alla tecnica utilizzata: forti differenze di temperatura tra le acque e i terreni circostanti.
Durante entrambi i rilievi, al fine di integrare i dati forniti dalla termocamera, sono state misurate in sito con un multimetro CRISON MM40+ i parametri fisici (conduci-bilità elettrica, sali totali disciolti-TDS, pH e temperatura) delle acque indagate.
4.2 Risultati dell’indagine
Le condizioni ambientali rilevate durante le due campa-gne sono riassunte nella tabella 2. Tali dati sono utili per interpretare le immagini all’infrarosso termico acquisite nei rilievi.
Nella prima campagna (luglio 2010) sono state acquisite le seguenti immagini discendendo il T. Dolo a valle del tempietto della Sorgente Romana e filmando le sponde opposte (distanza punto di ripresa – zona ripresa di circa 20 metri). Nella stessa giornata dell’indagine sono state misurate alcune sorgenti superficiali nell’area che hanno fornito temperature intorno ai 13 °C.La prima sorgente è stata individuata sulla sponda de-stra del torrente in un deposito alluvionale recente emer-so (Fig. 5). Durante la campagna la venuta mostrava temperature superiori di circa 3 °C a quelle del T. Dolo nelle immediate vicinanze ed inferiori a quelle del depo-sito alluvionale di circa 1 °C (temperatura maggiore 20 °C). Dalla immagine all’infrarosso termico si individua un piccolo plume a temperatura maggiore dove le acque delle sorgenti si miscelano con le acque del T. Dolo. La misura contemporanea con multimetro CRISON delle
Rilievo estate 2010 Rilievo inverno 2011
Temperatura media
aria - mensile [°C]23,1 4,0
Temperatura media
aria -giornaliera [°C]19,4 6,6
Temperatura T. Dolo
[°C]16,7 2,8
Temperatura sorgenti
profonde rilevate [°C] 20,4 >15,0
Temperatura sorgenti
superficiali presenti
nell’area [°C]
≈13,0 ≈9,0
Tabella 2 - Caratteristiche ambientali durante i rilievi
Figura 5 - Risultato del punto di ripresa A Luglio 2010. In alto immagine nel campo del visibile; in basso immagine all’infra-rosso termico
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caratteristiche fisiche dell’acqua hanno confermato l’a-nomalia della venuta (conducibilità elettrica 2120 µS/cm, TDS 1410 mg/l, pH 7,60, Temperatura 19,5 °C) rispetto al T. Dolo appena a lato (conducibilità elettrica 1059 µS/cm, TDS 676 mg/l, pH 8,46, Temperatura 16,7 °C). La seconda sorgente è stata individuata sulla sponda destra del torrente, alla base del deposito alluvionale re-cente al contatto con il substrato sottostante (Fig. 6). La venuta in questo punto mostra una temperatura pros-sima a 20 °C, che risulta superiore a quella del Dolo di circa 4 °C e leggermente inferiore a quella del deposito alluvionale (circa 0,5 °C) (Fig. 6). Anche in questo caso si vede un piccolo pennacchio a temperatura maggiore dove le sorgenti si miscelano con il Dolo. La misura con-temporanea con multimetro ha evidenziato le seguenti caratteristiche fisiche dell’acqua di sorgente: conducibi-lità elettrica 1519 µS/cm, TDS 972 mg/l, pH 7,53, Tem-peratura 20,3 °C; nel Dolo: conducibilità elettrica 1058 µS/cm, TDS 676 mg/l, pH 8,34, Temperatura 17,1 °C.
La terza sorgente è stata individuata al limite nord della finestra tettonica, sulla sponda sinistra del torrente. La venuta scaturisce in modo diffuso dando luogo a due emergenze, al contatto tra il substrato e il deposito allu-vionale terrazzato sovrastante. La temperatura è supe-riore di quasi 4 °C a quelle riscontrate nel Dolo (Fig. 7). La misura contemporanea con multimetro delle venute ha confermato l’anomalia chimica dell’acque (Conduci-bilità elettrica 1506 µS/cm, TDS 962 mg/l, pH 7,43, Tem-peratura 20,3 °C). Nella seconda campagna (febbraio 2011) si è focalizzata l’attenzione a monte del manufatto settecentesco, dato che un rilievo speditivo di conducibilità condotto in alveo nell’estate precedente aveva evidenziato un incremento di conducibilità già a monte della sorgente Romana. Durante questa campagna, filmando con la Termocamera le spon-de opposte del torrente, sono state individuate 3 nuove sorgenti emergenti dal deposito alluvionale alla stessa quota, al limite tra la parete verticale del versante e il ter-
Figura 6 - Risultato del punto di ripresa B Luglio 2010. In alto immagine nel campo del visibile; in basso immagine all’infrarosso termico
Figura 7 - Risultato del punto di ripresa C Luglio 2010. In alto immagine nel campo del visibile; in basso immagine all’infrarosso termico
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razzo alluvionale in parte ricoperto da vegetazione (Fig. 8). Le sorgenti individuate nell’immagine termica hanno temperature superiori a 15 °C, mentre il deposito alluvio-nale circostante ha temperature intorno a 0°C (Figura 9). La misura contemporanea con multimetro delle carat-teristiche fisiche delle venute hanno confermato l’ano-malia (Conducibilità elettrica >6000 µS/cm, TDS >3 g/l, pH 8,10, Temperatura 15,7 °C) rispetto all’acqua del T. Dolo (Conducibilità elettrica 350 µS/cm, TDS 226 mg/l, pH 8,67, Temperatura 2,8 °C).
5. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
Le immagini all’infrarosso termico possono fornire infor-mazioni integrative alle normali tecniche di indagine in campo idrogeologico. Pur essendo una metodologia di tipo speditivo, essa fornisce, se applicata in condizioni ambientali idonee, dati accurati e può essere estesa, con impiego di tempo minimo, ad ampie porzioni di terreno. Nel caso di studio si è optato per l’utilizzo di una termo-camera FLIR SC620 24° da piattaforma terrestre, carat-terizzata da risoluzione della ripresa maggiore rispetto a quella ottenibile da piattaforme aeree o satellitari. Pur essendo prevalentemente impiegata per lo studio della dispersione termica dagli edifici, la termocamera ha per-messo di individuare le venute di acque altamente mi-neralizzate dal materasso alluvionale del Torrente Dolo, confermate poi dall’utilizzo di una sonda multiparametri-
ca per il monitoraggio dei valori di conducibilità elettrica e temperatura.In particolare, l’analisi ha permesso di ri-cartografare al-cune delle sorgenti già censite dal precedente lavoro di Colombetti e Nicolodi (2005), ma il cui punto di emer-genza era andato perso a causa di modifiche all’alveo (punto di ripresa A, B, C del 2010), oltre a nuove mai segnalate (punto di ripresa D - 2011). Alcune di queste sorgenti affiorano al contatto tra la superficie di strato delle arenarie e i sovrastanti depositi alluvionali (punti B, C), altre emergono all’interno di depositi alluvionali recenti (punto A) e altre ancora emergono dai depositi alluvionali terrazzati in prossimità delle pareti arenacee (punto D). Nonostante le portate limitate delle sorgenti (sempre inferiori ai < 0,5 l/s) e la conseguente omoge-neizzazione della temperatura con l’ambiente circostan-te durante la loro risalita, la migliore definizione è stata ottenuta nella campagna invernale, quando il contrasto di energia termica tra le sorgenti e i mezzi circostanti era massimo.In estate, sono state riscontrate difficoltà proprio a cau-sa degli scarsi contrasti di temperatura tra le acque su-perficiali, profonde (di circa 4 °C) e i terreni circostanti, nonostante il rilievo fosse stato effettuato durante le pri-me ore del mattino. Il problema potrebbe essere stato accentuato dal fatto che le immagini all’infrarosso ter-mico sono sensibili agli effetti di riflesso/riverbero sulla superficie delle rocce, con conseguente restituzione di uno spettro falsato.
Figura 8 - Immagine panoramica del ri-lievo Febbraio 2011 nel campo dell’infra-rosso termico
Figura 9 - Set di immagini del rilievo di Febbraio 2011: A) immagine nel campo visibile; B) immagine mista nel campo visibile ed infrarosso termico; C) immagine nel campo dell’infrarosso termico
A B C
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Tra i futuri sviluppi per la prospezione idrogeologica e geo-termica nell’area di Gova, si pensa di acquisire il dato termografico da piattaforma aerea, accoppiando una termocamera a un drone teleguidato, in modo da indagare l’intera superficie della finestra tettonica.
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Il ruolo del geologo in gemmologia Un caso di studio relativo alle procedure di analisi avanzate per il riconoscimento del trattamento HPHT su diamanti tagliatiGianluca Poli1, Gabriele Tarabusi2 1 Laureato in scienze geologiche, [Istituto Gemmologico del Diamante LT di Bologna] 2 Geologo, libero professionista, [Istituto Gemmologico del Diamante LT di Bologna]
1. INTRODUZIONE
L’identificazione e la valutazione delle caratteristiche
delle diverse specie mineralogiche figura tra le compe-
tenze riconosciute al geologo professionista. Già nella
legge n.112 del 3 febbraio 1963 si indicavano come og-
getto dell'attività professionale del geologo le ricerche di
carattere mineralogico.
Nello specifico, l'analisi gemmologica è divenuta oggi,
come vedremo, materia molto complessa e richiede ap-
profondite competenze, maturate in genere attraverso
corsi presso Istituti gemmologici internazionali. Chi se-
gue questi corsi e si propone sul mercato come gem-
mologo, non sempre, o non necessariamente, è un ge-
ologo. Come vedremo però, le conoscenze di geologia,
mineralogia e petrografia, che ogni laureato in scienze
geologiche possiede, rappresentano una base tecnica e
culturale solida che si rivela spesso determinante per la
risoluzione dei casi più complessi di identificazione dei
più moderni trattamenti e imitazioni delle pietre naturali.
1.1 La gemmologia
La gemmologia è la scienza che studia le gemme. Per
gemma si intende un minerale od altra sostanza natu-
rale, più o meno raro, spesso suscettibile di taglio e po-
limento, con caratteri fisici tali da renderlo ricercato ed
apprezzato, soprattutto come ornamento della persona.
Il pregio di una gemma si basa su di un insieme di carat-
teri oggettivi (durezza, rarità, lavorabilità, durevolezza) e
soggettivi (colore, trasparenza, lucentezza, effetti ottici,
tradizioni e cultura). Benché in senso stretto le gemme
vengano intese come specie minerali, si considerano di
interesse gemmologico anche alcuni materiali di origine
organica o fossile come corallo, avorio, ambra e giaietto
(Rolandi & Cavagna, 1996).
1.2 Il gemmologo
Un gemmologo è un esperto conoscitore di pietre pre-
ziose, che identifica e certifica, con opportuni strumenti
tecnici e scientifici, le caratteristiche delle pietre prezio-
se.
Oltre ai corsi universitari in cui si possono apprendere
le basi della mineralogia, esistono nel mondo numerosi
Istituti atti a formare gemmologi attraverso corsi di dura-
ta variabile che prevedono nozioni teoriche ed esercita-
zioni pratiche; tra i più conosciuti quelli proposti da GIA
(Gemological Institute of America), HRD (Hoge Raad
Voor - Diamond High Council), IGI-International (Inter-
national Gemological Institute) e IGI (Istituto Gemmolo-
gico Italiano). In ogni caso, per le ragioni che vedremo,
per chi volesse frequentare corsi di gemmologia, si con-
siglia di privilegiare Istituti che si avvalgono di docenti
laureati in geologia e che abbiano contatti con le strut-
ture universitarie.
Un gemmologo può trovare impiego come analista di
laboratorio in Istituti pubblici o privati, docente nella di-
dattica gemmologica, libero professionista nello studio
e valutazione di gemme e gioielli, buyer di pietre pre-
ziose grezze e sfaccettate, tagliatore e commerciante di
preziosi.
E' stato fondato a Milano, negli anni Ottanta, il Colle-
gio Italiano Gemmologi, un'associazione professionale
senza fini di lucro che raccoglie i gemmologi diplomati
presso Istituti di formazione italiani e stranieri.
1.3 L'analisi gemmologica
L'analisi gemmologica ha per scopo l'identificazione di
una specie o varietà mineralogica usata come gemma,
l'individuazione della sua origine naturale o artificiale e
la valutazione delle caratteristiche della stessa (figura 1).
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In uno studio sulle gemme non si possono ignorare i
prodotti sintetici, dato che uno dei più difficili compiti
del gemmologo è proprio quello di determinare se una
pietra sia di genesi naturale o artificiale. Tale determina-
zione è fondamentale poiché, chiaramente, una gemma
naturale può avere un valore centinaia di volte superiore
a quello di una equivalente gemma sintetica; per arrivare
alla diagnosi esatta occorre quindi conoscere le princi-
pali proprietà dei minerali ed i metodi per il loro ricono-
scimento.
La valutazione degli elementi qualitativi di una gemma
costituisce un altro aspetto fondamentale dell'analisi
gemmologica: dopo aver, con ragionevole sicurezza,
determinato di essere in presenza di una gemma natu-
rale occorre esaminarla alla ricerca di trattamenti volti
a migliorarne l'aspetto (colore, limpidezza), oppure evi-
denziarne caratteristiche di pregio (colore, saturazione,
trasparenza, effetti ottici).
Figura 1 - Esempi di certificazione per diamanti ta-gliati emessi dall'I-stituto Gemmolo-gico del Diamante LT di Bologna. A sinistra quello re-lativo al campione 003, a destra quel-lo del campione 001, entrambi di-scussi approfondi-tamente di segui-to. In essi vengono descritte caratteri-stiche tecniche e merceologiche e indicati eventuali trattamenti artifi-ciali
Figura 2 - Esempio di trattamento evidente al microscopio: tracce di foratura laser e fratture riempite con materiale estraneo
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Tradizionalmente la gemmologia utilizza principalmente
strumenti e metodi sviluppati per lo studio dei minera-
li (Klein, 2001). Microscopio binoculare, spettroscopio,
rifrattometro, polariscopio, dicroscopio e lampada di
Wood sono strumenti di base imprescindibili per qual-
siasi Laboratorio gemmologico e si dimostrano efficaci
per identificare un buon numero di gemme.
Il microscopio (stereomicroscopio “binoculare”) costi-
tuisce lo strumento indubbiamente più efficace perché,
attraverso diverse tecniche di illuminazione (luce tra-
smessa o riflessa, campo oscuro, ecc..), consente di
investigare una gemma a ingrandimento variabile alla
ricerca di caratteristiche quali inclusioni tipiche di un
processo naturale o artificiale oppure indicazioni di trat-
tamento (figura 2).
Nozioni di mineralogia e petrografia, comuni a tutti i lau-
reati in scienze geologiche, applicate allo studio dei mi-
nerali presenti come inclusioni all'interno di una gemma
consentono inoltre di trarre considerazioni riguardo la
possibile origine geografica di questa stessa. Si potran-
no distinguere, ad esempio, zaffiri e rubini (varietà blu
e rosse di corindone) di cosiddetta origine metamorfica
classica (es. da marmi, come nei giacimenti del Myan-
mar - ex Birmania) da quelli magmatici classici (es. da
basalti o altre rocce eruttive, Thailandia o Laos).
In mancanza di prove risolutive, ricavabili con la normale
strumentazione di laboratorio, che consentano di esclu-
dere il trattamento e di accertare l'origine naturale di una
gemma, si è soliti procedere con le cosiddette tecniche
di gemmologia avanzata moderna. Ci si avvale di stru-
menti fondati sull'analisi della struttura chimica e fisica
dei materiali, svelando così sintesi e trattamenti sempre
più evoluti e sofisticati.
Nello specifico, le tecniche di spettroscopia si basano
sullo studio di picchi e assorbimenti legati a particolari
difetti o caratteristiche di un materiale in una particolare
porzione dello spettro elettromagnetico (figura 3).
Tradizionalmente si raccolgono spettri nell'infrarosso a
trasformata di Fourier (FTIR), nell'ultravioletto-visibile-
infrarosso vicino (UV-vis-NIR) e di fotoluminescenza Ra-
man (Raman PL). Lo studio di picchi e assorbimenti in
un tracciato può evidenziare i difetti e le caratteristiche
di un materiale alla scala atomica quali centri di colo-
re naturali o indotti, difetti puntuali o estesi, presenza di
sostanze estranee o tinture. Si possono inoltre ottenere
informazioni sulla provenienza geografica delle gemme
attraverso il confronto con dati di letteratura sul pattern
spettroscopico di un certo giacimento.
Con la tecnica di ablazione laser (LA ICP-MS) (Laser
Ablation and Inductively Coupled Plasma Mass Spec-
trometry) si ottengono dati qualitativi e quantitativi degli
elementi chimici presenti in un solido (nel nostro caso
una gemma) mediante un laser di potenza adeguata che
“scava” una cavità investigativa misurante appena qual-
che micron. E' una tecnica molto sensibile e consente di
individuare la presenza di sostanze anche in concentra-
zioni molto basse. Questo metodo costituisce la tecnica
migliore per la determinazione di processi di diffusione
dall'esterno di elementi chimici usati come coloranti nei
corindoni (ad esempio Berillo o Titanio).
I metodi di fluorescenza dei raggi-X (EDXRF) forniscono
dati qualitativi e semiquantitativi in modo totalmente non
distruttivo. Attraverso la composizione chimica si iden-
tifica il materiale in esame e allo stesso tempo vengono
evidenziate sostanze estranee quali riempitivi di fessure
e cavità o coperture con patine coloranti.
Esistono inoltre dispositivi in grado di generare immagini
digitali ad alto ingrandimento dei pattern di fluorescen-
za di una gemma, causati da diverse concentrazioni di
impurità nei settori di crescita. Queste immagini eviden-
ziano le diverse modalità di accrescimento di diamanti
naturali e sintetici e la presenza di particolari centri ottici
eccitati dalla modulazione di fluorescenza ad onde corte
(figura 4).
Figura 3 - Spettrometro Figura 4 - Diamante con forte fluorescenza blu ai raggi UV
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rosseno, mica flogopite, enstatite e cromite, in una ma-
trice complessa di olivina, flogopite, perowskite, spinello
e diopside (Klein, 2001).
Le lamproiti sono rocce vulcaniche o ipoabissali potas-
siche contenenti associazioni mineralogiche di fenocri-
stalli di leucite, Ti-flogopite, clinopirosseno, anfibolo,
olivina e sanidino, con numerosi accessori quali apatite,
nefelina, spinello e ilmenite; al contrario delle kimberliti,
possiedono uno scarso contenuto in volatili e sono più
ricche in silice ed allumina.
L’età dei diamanti è di primaria importanza nella ricerca
degli stessi ed è stata per lungo tempo una questione
dibattuta per gli studiosi della materia.
Le indicazioni più importanti sulla genesi e sulla datazio-
ne del diamante si sono ottenute mediante lo studio del-
le inclusioni minerali singenetiche, formatesi e inglobate
nei diamanti contemporaneamente alla loro cristallizza-
zione. Ad oggi si contano circa 30 specie minerali, de-
rivanti da meccanismi di paragenesi ultramafica o eclo-
gitica, che hanno permesso di stabilire che i diamanti si
sono formati con cadenza episodica per un periodo che
si estende tra 0,99 e 3,3 miliardi di anni.
Le località estrattive con attualmente il maggior interes-
se minerario-commerciale sono Russia, Botswana, Con-
go, Australia, Canada, Brasile e India.
3. IL TRATTAMENTO HPHT SUI DIAMANTI TAGLIATI
– LO STATO DELLE CONOSCENZE E GLI STRUMEN-
TI DI LABORATORIO
Il trattamento HPHT (high pressure, high temperature) si
basa sulla correzione artificiale di difetti a scala atomica
dei diamanti per eliminarne o modificarne il colore. Ricre-
ando condizioni fisiche simili a quelle in cui i diamanti si
formano in natura, i difetti nella struttura cristallina pos-
sono essere riposizionati, creati o corretti; come risultato
di questo riarrangiamento atomico si ha un cambiamen-
to di colore. Il processo prevede l'esposizione a tempe-
rature dell'ordine di 1.500°C e pressioni di circa 50.000
atm, con una certa variabilità in base al materiale di par-
tenza e al risultato che si intende ottenere (De Weerdt,
2007). In generale, diamanti giallo brunastri di tipo Ia e Ib
(contenenti, rispettivamente, azoto in aggregati di atomi
e come atomi singoli) possono diventare gialli, arancio
e verde intenso; quelli bruni di tipo IIa (privi di azoto e
possedenti deformazioni plastiche) incolori e rosa, men-
tre quelli bruni di tipo IIb (contenenti boro) di colore blu.
Nel Marzo 1999 la General Electric (GE) annunciò la ri-
uscita e la fattibilità commerciale del trattamento HPHT
per sbiancare diamanti brunicci. Queste pietre, commer-
2. GENESI E GIACIMENTOLOGIA DEI DIAMANTI
Studi di geobarometria e geotermometria hanno fornito
utili indicazioni sulle condizioni e sull’ambiente di forma-
zione del diamante. La maggior parte dei diamanti si è
formata, a elevate pressioni e temperature, da due tipi
di magmi: peridotitici ed eclogitici. Queste condizioni
si trovano a centinaia di kilometri di profondità sotto la
superficie terrestre, nel mantello superiore, o meglio an-
cora al di sotto di cratoni, antichi blocchi rocciosi conti-
nentali non soggetti ad orogenesi da lunghi intervalli di
tempo geologico.
I diamanti peridotitici hanno avuto origine da una sor-
gente di carbonio omogenea all’interno del mantello
terrestre, mentre probabilmente il carbonio dei diaman-
ti eclogitici è di origine crostale ed è stato trasportato
sotto i cratoni per effetto di processi di subduzione di
sezioni di crosta oceanica.
Meyer (1985) ha stabilito che la temperatura di cristal-
lizzazione delle inclusioni peridotitiche oscilla tra 900°C
e 1300°C e pressione di 45–60 Kbar. Noto il gradiente
geotermico, ciò si traduce in una profondità di 150-200
km. La temperatura di cristallizzazione delle inclusioni
eclogitiche è molto simile, ma non si è ancora determi-
nata con esattezza la pressione di formazione. Nel lasso
di tempo tra la loro formazione ed il trasporto in superfi-
cie i diamanti sono rimasti custoditi alla base dei crato-
ni, dove le alte pressioni e le temperature relativamente
basse hanno contribuito a preservali in fase stabile.
Attività vulcaniche rapide e intense permettono ai dia-
manti di risalire dalle profondità del mantello verso la su-
perficie della Terra. Questi processi, affinché il diamante
non si trasformi in grafite, debbono essere molto rapidi
e hanno inizio quando il magma risale verso l’alto attra-
verso fratture e faglie profonde, trasportando con sé i
diamanti. La diminuzione del carico litostatico causa un
aumento di velocità, fino a 300 km/h negli ultimi 2.5 km;
la pressione decrescente causa la trasformazione in gas
di vapore acqueo e CO2 contenuti del magma. Questa
espansione dei gas previene la trasformazione in grafite
dei diamanti poiché li sottrae rapidamente a condizioni
in cui non sopravvivrebbero.
Le rocce primarie entro cui il diamante si rinviene sulla
superficie terrestre sono kimberliti e lamproiti, entrambe
di origine vulcanica. Meccanismi di eruzione non del tut-
to chiariti le rendono vettore di trasporto in superficie per
i diamanti, ma non sono in nessun modo collegate alla
formazione degli stessi.
La kimberlite è una roccia che compare al centro dei cra-
toni, ignea, alcalina, ultrabasica potassica contenente
megacristalli di ilmenite, granato piropo, olivina, clinopi-
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avvalendosi della normale strumentazione di laboratorio,
prove indiziarie del trattamento, come inclusioni grafitiz-
zate o attorniate da aloni di tensione, linee di struttura
evidenti con caratteristica disposizione "a tatami" se os-
servate al microscopio con polarizzatori incrociati e fluo-
rescenza anomala. Nella maggior parte dei casi, tuttavia,
occorre procedere con tecniche avanzate di analisi per
ottenere una precisa identificazione del possibile tratta-
mento, attraverso l'utilizzo di strumentazione specifica
presente presso le strutture universitarie che si occupa-
no di analisi mineralogiche e chimico-fisiche.
4. I CASI DI STUDIO E LE TECNICHE DI ANALISI
AVANZATE
Nel corso delle analisi di routine su due distinti lotti di
diamanti svolte presso il laboratorio dell’Istituto Gem-
mologico del Diamante LT di Bologna, il test preliminare
con l'apparecchio HRD D-Screen ha segnalato la pre-
senza di 4 campioni su cui si rendevano necessari ulte-
riori accertamenti:
n°001 0,40 carati
n°002 0,40 carati
n°003 0,55 carati
n°004 0,61 carati
Una prima analisi al microscopio 10-70x ha evidenziato
alcune particolarità: tutte le pietre contenevano un certo
numero di inclusioni, anche piuttosto estese; campioni
di questo tipo sono generalmente esclusi dal trattamen-
to HPHT a causa del rischio di espansione delle fratture
con conseguente rottura (figura 6). Due diamanti presen-
tavano birifrangenza anomala con effetto "a tatami", con
linee fittamente incrociate a graticcio e medi-alti colori di
cializzate con il nome GE-POL (General Electric-Pegasus
Overseas Limited), non furono inizialmente riconosciute
dai primari Istituti gemmologici a cui erano state inviate
per ottenere documenti di certificazione (Chalain, 1999).
Negli anni a seguire numerosi Laboratori nel mondo han-
no messo a punto apparati (es. BARS e BELT) e proto-
colli di trattamento HPHT per i diamanti, con caratteristi-
che proprie che costituiscono spesso segreti industriali.
3.1 Trattamento HPHT per produrre diamanti incolori
Il principio su cui si basa il trattamento è la correzione
delle deformazioni plastiche caratteristiche dei diamanti
bruni di tipo IIa; l'esposizione controllata ad alte pressio-
ni e temperature è in grado di riportarli vicini all'equilibrio
e di decolorarli. Circa il 2% dei diamanti di qualità gem-
ma è di tipo IIa; di questi solo una parte è bruniccia e di
questa parte sono candidati al trattamento soltanto gli
esemplari con inclusioni modeste, tali da sopportare le
condizioni estreme che si generano negli apparati HPHT.
I diamanti trattati si presentano con aspetto del tutto si-
mile a quello dei naturali, con ottimo grado di colore e
non sono generalmente riconoscibili con le normali os-
servazioni di laboratorio. Nel corso degli anni, in rispo-
sta all'allarmismo dei mercati e dei Laboratori di analisi,
sono stati sviluppati diversi strumenti in grado di fornire
una risposta preliminare ed identificare diamanti incolori
"sicuramente non trattati" (incolori di tipo I, con assor-
bimento ultravioletto a 415nm, la cosiddetta linea del
Capo) da altri "potenzialmente trattati o trattabili" (inco-
lori di tipo II o comunque privi dell'assorbimento di cui
sopra). Un esempio di uno dei più diffusi strumenti di
questo tipo è riportato in figura 5. Qualora lo strumento
indicasse la seconda possibilità si dovrebbero ricercare,
Figura 5 - HRD D-Screen, strumento di recente realizzazione che con-sente di distinguere rapidamente in laboratorio i diamanti incolori si-curamente non trattati", da quelli "potenzialmente trattati o trattabili"
Figura 6 - Campione n°003: aspetto microscopico ad ingrandimento 10X con evidenza di inclusioni a frattura
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Al fine di ottenere uno spettro quanto più attendibile
possibile, si sono raffreddati campioni e cella portacam-
pioni alla temperatura dell'azoto liquido per cancellare il
disturbo dell'energia termica; in modo da poter registra-
re assorbimenti anche molto minuti. Tutti i campioni non
mostravano regioni di assorbimento significativo, a parte
un modesto contenuto di azoto espresso da deboli assor-
bimenti tra 210 e 500nm circa (Zaitsev, 2001). In accordo
con quanto rilevato dal tester preliminare, nessun cam-
pione, neppure quello di tipo chimico I, esibiva il caratteri-
stico assorbimento della linea del Capo a 415nm.
Non avendo ottenuto chiari elementi diagnostici dalle pre-
cedenti metodologie, sono stati eseguiti spettri di fotolu-
minescenza Raman in condizioni di vuoto spinto e tem-
peratura dell'azoto liquido. Questo metodo risulta molto
efficace nell'evidenziare difetti non otticamente attivi nelle
altre tecniche di spettroscopia e rivela differenze anche
tra diamanti con assorbimenti IR similari (Lim et al., 2010).
L'interpretazione degli spettri di fotoluminescenza si basa
tradizionalmente sul criterio proposto da Chalain et al. nel
1999, dopo l'immissione sul mercato dei primi diamanti
GEPOL. La teoria afferma che, in seguito al trattamento
HPHT, alcuni vuoti molecolari generatisi presso le dislo-
cazioni atomiche si combinano con atomi singoli di azo-
to producendo centri NV, in stato di carica neutro (NV0,
assorbimento a 575nm) o negativo (NV-, assorbimento a
637nm); si ritiene inoltre che il trattamento induca princi-
palmente centri negativamente carichi, per cui un rappor-
to di altezza dei picchi a 637 e 575nm superiore a 2,8 è
indicativo di trattamento. Basandosi su queste interpreta-
zioni, il campione 002 mostrava chiare indicazioni di trat-
tamento HPHT, con linea 637 >> 575nm. Anche in altre
pubblicazioni coeve (Chalain et al., 2000; Fisher & Spits
2000, Collins et al., 2000) sono indicate osservazioni si-
milari, che possono quindi essere ritenute caratteristiche
dei diamanti frutto dei primi processi HPHT a larga scala.
Un più recente criterio interpretativo è stato presentato
da Lim et al. nel 2010. Fondato su una più ampia popola-
zione di campioni, si basa sullo studio della vicendevole
presenza o assenza di numerose linee di assorbimento in
fotoluminescenza, alcune legate a difetti noti (GR1, NV0,
NV-, H3, H4), altre ignote ma sistematicamente presenti;
le osservazioni sono raccolte in uno schema a diagramma
di flusso che consente una veloce interpretazione degli
spettri. Il metodo possiede una attendibilità statistica del
99% e ritiene il criterio di Chalain et al. inefficace poiché
occasionalmente non rispettato persino in diamanti si-
curamente non trattati. Secondo questo recente studio,
che considera tra l'altro le più recenti evoluzioni tecniche,
sono state riconosciute evidenze di trattamento HPHT su
due campioni (001 e 002).
interferenza (figura 7). Il campione n°004 esibiva inoltre
una anomala fluorescenza verde intensa agli ultravioletti
lunghi, distribuita nella porzione centrale della gemma
stessa (figura 8). Successivamente sono state eseguite
analisi di spettroscopia all'infrarosso (FTIR) per deter-
minare il tipo chimico dei quattro diamanti, espresso in
funzione del contenuto di azoto e della forma di aggre-
gazione in cui esso si presenta: i campioni 001, 002 e
003 sono risultati essere di tipo IIa puro (pressoché privi
di azoto), il rimanente di tipo Ia, con scarse quantità di
azoto in aggregati A e B (cosiddetto tipo IaAB). Sono
stati quindi raccolti gli spettri di assorbimento nel campo
ultravioletto-visibile-infrarosso vicino (UV-vis-NIR) per
ricercare i difetti puntuali nel reticolo cristallino. Questi
difetti possono comprovare l'origine naturale o artificiale
del colore.
Figura 7 - Campione n°002: effetto tatami visibile al microscopio
Figura 8 - Campione n°004: fluorescenza verde irregolare della pietra sottoposta a raggi UV 366nm
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RINGRAZIAMENTI
Ringraziamo per i preziosi suggerimenti il prof. Giorgio
Gasparotto del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geo-
logiche ed Ambientali (BiGeA) dell'Università di Bologna.
BIBLIOGRAFIA
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une première étape.”- Revue de Gemmologie a.f.g. 138/139: 2-11
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monds: a second step.”- Journal of Gemmology 27, 73-78
Collins AT, Kanda H, Kitawaki H (2000) “Colour changes produced in
natural brown diamonds by high-pressure, high- temperature tre-
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liano, maggio 2009
De Weerdt F., Collins A.T. (2007) "HPHT Annealing of Natural Diamond
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Meyer H.O.A. (1985) "Genesis of Diamond: a Mantle Saga." American
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Rolandi V., Cavagna S. (1996) "Gemmologia Tecnica" - Ed. Gold
Zaitsev A. (2001) “Optical properties of diamond – a data handbook.”
Springer, 502 pp
5. CONCLUSIONI
Il riconoscimento del trattamento HPHT in diamanti in-
colori richiede l’utilizzo integrato di tecniche di analisi
gemmologica tradizionale di laboratorio, spettroscopia
nell’infrarosso, ultravioletto-visibile e specialmente foto-
luminescenza Raman.
L’utilizzo di una singola metodologia di indagine può
restituire indicazioni utili ma non fornisce nella maggior
parte dei casi prove diagnostiche.
Le procedure avanzate illustrate nel caso di studio ri-
chiedono all'analista una formazione specifica di tipo
universitario, con nozioni di chimica, fisica e mineralogia
quale quella di un geologo. Solo con tale preparazione
si possono affrontare tematiche così complesse, non
rilevabili con le attrezzature e le conoscenze in genere
presenti in un comune Laboratorio gemmologico.
Dalle osservazioni raccolte è emerso come possano es-
sere sottoposti a trattamento HPHT diamanti tradizio-
nalmente considerati in letteratura non idonei, poiché di
piccole dimensioni e relativamente ricchi di inclusioni.
Questo comporta che un numero significativo nella sep-
pur esigua percentuale di diamanti di tipo IIa può essere
sottoposto a trattamento HPHT con successo, per cui
diventa indispensabile che ogni analista abbia la possi-
bilità di eseguire accurati controlli sui campioni secondo
le procedure e attraverso le strumentazioni precedente-
mente descritte, o quantomeno facendo riferimento a
Laboratori e Istituti che ne siano dotati.
Per chi volesse frequentare corsi di gemmologia, si con-
siglia di privilegiare Istituti che si avvalgono di docenti
laureati in geologia, che abbiano contatti con le strutture
universitarie, alle quali poter accedere per consulenze
ed uso di tutte le strumentazioni necessarie allo studio
approfondito delle diverse specie mineralogiche, in par-
ticolare allo scopo di accertarne l'effettiva origine natu-
rale e di identificare eventuali trattamenti.
CAMPIONE 001 CAMPIONE 002 CAMPIONE 003 CAMPIONE 004
massa 0.40 ct 0.40 ct 0.55 ct 0.61 ct
dimensioni 4.62 – 4.67 x 2.88mm 4.65 – 4.67 x 2.92mm 5.37 – 5.40 x 3.10mm 5.36 – 5.38 x 3.34mm
colore incolore incolore quasi incolore incolore
caratteristiche interne fratture fratturefratture, inclusioni puntifor-
mi, piccoli cristalli
fratture, inclusioni punti-
forme, inclusioni cristalline
chiare e scure
linee di struttura deboli deboli pronunciate, brune deboli, incolori e riflettenti
effetto tatamipronunciato, alti colori di
interferenza
pronunciato, alti colori di
interferenza
debole,
alti colori di interferenzaassente
fluorescenza UV 366nm molto debole arancione molto debole arancione nilforte, verde,
disposta irregolarmente
tipo chimico IIa puro IIa puro IIa puro IaAB debole
FTIR (cm-1) // // //1010, 1096, 1172, 1282,
1331, 1359, 1405, 3107
Uv-vis-NIR (nm) 218, 270, 320, 450 218, 250, 310, 450 218, 250, 320, 478, 560 270, 519
Raman PL (nm) 560, 575, 637, 741575, 637, 700, 715,
741, 780550 550
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Aatt
ivit
à
con
sigli
o
Verbale n. 11 del 29 OTTOBRE 2013
Delibera n. 49 Iscrizioni
Delibera n. 50 Cancellazione
Delibera n. 51 Cancellazione per decesso
Delibera n. 52 APC "non aver esercitato la professione
nel triennio"
Delibera n. 53 APC "non luogo a procedere per recupero crediti
mancanti"
Delibera n. 54 Regolamento Consulte
Delibera n. 55 Accettato preventivo per la rivista "Il Geologo"
anno 2013
Delibera n. 56 Consulta Piacenza
Verbale n. 12 del 19 NOVEMBRE 2013
Nessuna delibera
Verbale n. 13 del 26 NOVEMBRE 2013
Nessuna delibera
Verbale n. 14 del 20 DICEMBRE 2013
Delibera n. 57 Iscrizioni
Delibera n. 58 Compenso 2014 dott.ssa Parisi Annalisa
Delibera n. 59 Compenso dott.ssa Soliani Livia per triennio
2014-2016 APC
Delibera n. 60 Approvazione bilancio preventivo 2014
Delibera n. 61 Compenso Prof. Albarello (Corso STRATA)
ELENCO DELIBERE DEL CONSIGLIO DELL’OGER
DA GIUGNO A DICEMBRE 2013
il Segretario Emanuele Emani
Verbale n. 7 del 25 GIUGNO 2013
Delibera n. 35 Cancellazione
Delibera n. 36 Nomina componenti aggiuntivi "Commissione
del dissesto"
Delibera n. 37 Approvazione Bilancio Consuntivo 2012
Verbale n. 8 del 30 LUGLIO 2013
Delibera n. 38 Iscrizione
Delibera n. 39 Trasferimento
Delibera n. 40 Cancellazione
Delibera n. 41 Vidimazione parcella
Delibera n. 42 Assicurazione
Delibera n. 43 Acquisto scrivania
Verbale n. 9 del 3 SETTEMBRE 2013
Delibera n. 44 Incontri al SAIE
Verbale n. 10 del 30 SETTEMBRE 2013
Delibera n. 45 Iscrizioni
Delibera n. 46 Quote e tasse anno 2014
Delibera n. 47 Sanzione per ritardato pagamento quote
Delibera n. 48 Compenso 2013 dott.ssa Soliani Livia per attività
svolta APC
Compleanno
Il geologo Edmondo Forlani compie 80 anni il 12 febbraio 2014. Si laureò con il Grande Arturo Desio di cui si ricorda il carattere arcigno e l’immensa caratura intellettuale. Edmondo (Duccio per gli amici), è un raffinatissimo matematico, chimico, geotecnico e oserei dire anche “ingegnere”. Romagnolo verace con un profondo senso dell’amicizia, buono e disponibile con tutti. Un professionista a livello internazio-nale e profondo conoscitore delle materie scientifiche.Ha creato la SGAI (Studio di Geologia Applicata alla Ingegneria) con sede in Morciano di Romagna dove è operativo un laboratorio di meccanica delle terre e rocce di avanguardia. “Duccio” ha lavorato e lavora in tutto il mondo. È specialista in ricerche idriche, minerarie, costruzioni di dighe, gallerie, strade, consolidamenti, ecc… Di “Duccio” colpisce la “raffinatezza geologica” e la lettura del territorio. Uscire con lui in campagna è sempre motivo di grande entusiasmo per l’interpretazione dei fenomeni geologici avvenuti nel passato e che hanno ripercussioni importanti nelle opere da realizzare. Sostiene sempre che è prioritario capire il “modello geologico”.Il “Maestro Duccio” è attivo come un ventenne. Ha onorato e onora la nostra professione a livello internazionale. Gli siamo grati per quello che ci ha dato e continua a darci.Nel giorno del suo compleanno gli porgiamo, anche da parte di tutti i colleghi giovani e non più giovani, i nostri più profondi auguri.
Gli amici, Dott. Geol. Carlo Fabbri, Dott. Geol. Ugo Orazi
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Rrico
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riche collegate all’industria ceramica. Molto noto, non solo tra i colleghi, per il carattere franco e a volte irruento ma sempre sincero, ed anche per il suo at-taccamento al mondo delle montagne. Ha ricoperto l’incarico di Presidente della sezione Alpini di Reggio Emilia e ha svolto attività di Protezione Civile. Forse meno nota, la sua generosità e la sua attività di beneficenza nei confronti dei bisognosi.
Fabrizio Anderlini
IN RICORDO DEL DOTT. GEOL. EMILIO SCHENETTI
Emilio Schenetti laureato nel 1977 all’U-niversità degli studi di Modena, ha fre-quentato inizialmente nella stessa città lo Studio del dott. Luigi Savio, fucina in quegli anni di numerosi futuri liberi pro-fessionisti, per poi dedicarsi in campo estrattivo alla Direzione lavori in cave di inerti ed argille e, in attività di area Am-bientale, quali studi e gestione di disca-
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enorme (è anche vero però che ci sono molti doppioni).
I toponimi sicuramente più curiosi e goliardici incontra-
ti nei vari sopralluoghi, erano certamente quelli con un
significato a sfondo prettamente sessuale, per esempio
la località “Ca’ di Bocchino” in Comune di Monzuno, op-
pure la località “Scopeto” in Comune di Sasso Marconi,
da cui si poteva osservare in lontananza l’altra località
di nome “Guzzano”, in Comune di Pianoro, oppure la
località “Grande Casino” in Comune di San Pietro in Ca-
sale, che poteva anche significare grande confusione...
in poche parole un toponimo con due significati, cioè un
toponimo come si suol dire, bisex.
Una delle località più rinomate sui generis è la famosa
località di “Po della Gnocca”, in Provincia di Rovigo, di-
ventata poi, su alcune carte topografiche meno volgari e
più puritane, “Po della Donzella”, poi la ridente e famosa
località di “Godo”, in Provincia di Ravenna.
Poi ci sono quelle località con nomi più a sfondo geolo-
gico, come per esempio quella particolare località dove
si narrava di quella casa, che a seguito di una frana di
molti anni prima, era scesa più a valle di circa un metro,
da lì il nome di “Casa Fermati Lì”, poi dopo un po’ di
tempo definitivamente trasformata in “Casa Fermatili”.
Pensate che proprio durante un sopralluogo in quest’a-
rea, un signore del luogo mi disse:
“Dottore, non si preoccupi, qui non si è mai mosso nien-te…!”. Alla faccia della memoria storica, in pochi anni si era già
dimenticato tutto.
Mi ricordo che il Prof. Mario Ciabatti a tal proposito, un
giorno mi raccontò con molta passione che, quando era
stato responsabile del progetto S.C.A.I. (Studio Centri
Abitati Instabili) per la provincia di Bologna, fece mol-
tissime telefonate ai vari uffici tecnici dei comuni della
montagna (già noti alle cronache per motivi legati alla
stabilità dei versanti), chiedendo se nel loro territorio
erano presenti delle frane in prossimità di centri abitati.
La risposta che sistematicamente arrivava era sempre
la medesima:
“Frane? Noi Professore qui di frane proprio non ne ab-biamo!”, della serie:
“Se delle frane ce ne sono state, adesso non ce ne sono più, perché quelle che c’erano sono andate tutte giù a valle!”.In ogni caso il toponimo principe nel territorio provincia-
le di Bologna, il “THE BEST” per intenderci, in materia
di dissesto idrogeologico era ed è tuttora, la Località di
“Scascoli” e, più precisamente la località meglio nota
come “Le Gole di Scascoli”. Credo che sia intuiti-
vo comprendere, che Scascoli derivi dall’affermazione
“guarda che casco lì, non là, casco proprio lì”.
Agli inizi del 1998, sono coinvolto dal mio dirigente del
Servizio di Geologia della Provincia di Bologna, nella re-
dazione di pareri geologici a corredo di varianti ai vari
Piani Regolatori Generali (PRG) comunali, per il Settore
Pianificazione Territoriale. La mia collaborazione con il
settore si prolungò per circa 5 anni fino al 2002, per poi
interrompersi e riprendere a tempo pieno nel gennaio
2009, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Il lavoro consisteva, nell’eseguire dei sopralluoghi nelle
diverse aree delle varianti, per verificare se queste, dal
punto di vista geologico nel più ampio senso del termi-
ne, fossero più o meno idonee per usi urbanistici.
Era un lavoro, oltre che di alta professionalità, soprattut-
to di altissima responsabilità, basti pensare un po’ a tutti
i dissesti idrogeologici che si sono verificati nel nostro
paese, solo negli ultimi anni e, che hanno interessato
sia abitazioni sparse, che infrastrutture, paesi e anche
città. Decidere quindi, se una certa area, è idonea o
meno, non è un compito, in certi casi specifici di facile
soluzione, anche perché potrebbe capitare di scontrar-
si, oltre che con singolari condizioni geologiche naturali
non bene inquadrabili, anche con interessi privati, con
interessi politici e, perché no, anche con particolari inte-
ressi malavitosi, che molto spesso non vanno d’accordo
con la geologia dei luoghi.
Il comportamento del mio dirigente, devo sottolineare,
in tutti gli anni che ho lavorato con lui, è stato quello di
tenere sempre un comportamento impeccabile al di so-
pra delle parti, in totale onestà, impiegando anche quel-
la virtù che negli ultimi anni, ahimé, nelle amministrazioni
pubbliche si è un po’ persa e, cioè il buonsenso.
Ogni volta, quando si organizzavano dei sopralluoghi
per esaminare e controllare delle aree di un determinato
comune, prima di partire, si programmavano i vari giri
da percorrere, in modo da non perdere troppo tempo in
trasferimenti e spostamenti inutili. Poi, si consultavano
le varie cartografie geologiche tematiche, in maniera tale
da farsi anche per ognuna delle aree, un’idea preventiva
delle condizioni geologiche locali.
Personalmente, oltre a quanto sopra raccontato, io po-
nevo molta attenzione, un po’ anche per mia curiosità
personale, ai diversi toponimi delle varie località da esa-
minare e delle aree limitrofe; i vari nomi, infatti, erano
delle vere e proprie fonti di informazioni di vario tipo e
genere.
Lo sapete quanti toponimi ci sono solo nella provincia
di Bologna? Tra “Centri Abitati”, “Nuclei Abitati”, “Case
Sparse ed edifici Singoli”, “Manufatti”, “Monti principali
e Monti Secondari”, “Passi, Colle e Varco”, “Grotta o
Cava”, “Fiumi, Torrenti, Canali, Rii, Fossi”? Ebbene ce
ne sono addirittura oltre 53.000; è un numero veramente
Le localita’ e i toponimi
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co, in caso di una particolare piena del Torrente Savena,
la sede stradale in alcuni tratti, potrebbe anche essere
esondata. Non avete notato la presenza di semafori lun-
go il tracciato?
Speriamo che dopo la nota e famosa località di Scascoli
non gli venga affibbiato anche il nuovo nome di “Affogo-
li”; speriamo proprio di no…
All’autore della brillante idea: “Allora la facciamo una strada nella Località di CASCO-LI’?”, gli è poi stato
donato in seguito, da parte dell’Associazione Cultura-
le “Che Dio ce la mandi buona”, l’ambito premio del
”OsCARONE D’ORO ”.Un noto professore di Geologia dell’Università di Bolo-
gna, il Prof. Carlo Elmi, ora felicemente in pensione, in-
tervenuto su mia personale richiesta, in una determinata
riunione tenutasi dopo un ennesimo crollo di roccia nella
gola, in presenza di alcuni amministratori locali, a tal pro-
posito disse:
“…se dall’epoca dei romani, in quel particolare tratto, non è mai stata realizzata nessuna strada, non credete che a monte ci sia un buon motivo?”. Questa particolare e semplice considerazione lasciò tutti
i presenti completamente ammutoliti. Bravo Carlo!
Ebbene ditemi un po’ Voi, se non c’è da imparare dai
nostri avi, che ci hanno voluto lasciare in eredità le loro
conoscenze ed esperienze, anche nei nomi delle varie
località, allora Io mi chiedo: “a che cosa servono queste importantissime informazioni tramandateci nel tempo, se poi non ne facciamo tesoro?”.Insomma, in virtù di quanto vi ho raccontato, voglio la-
sciarvi con un consiglio:
se proprio volete comprare una casa in montagna con
una sorgente nella vostra nuova proprietà, per bere della
buona acqua di fonte, per carità non andate a comprarla
in località “Acqua Marcia”.
“Capito mi avete?”.Daniele Magagni
C’è allora da meravigliarsi, mi chiedo e vi chiedo, se poi
in questa località avvengano delle frane? Negli ultimi
anni pensate e, cioè dal 1980 circa al 2005, proprio nelle
Gole di Scascoli, sono avvenute ben 4, dico 4 enormi
frane di crollo in maniera repentina ed improvvisa, che
hanno addirittura ostruito il corso del Torrente Savena
creando immediatamente dopo, dei laghi a monte. Solo
per una fortuita combinazione non hanno causato fortu-
natamente alcun morto. Anche perché nei primi anni del
90 fu realizzata, pensate un po’, da non crederci, proprio
sulla vecchia pista a servizio delle cave della fondovalle,
una nuova importante strada di traffico, in “aiuto” si fa
per dire, della Strada Statale n. 65 “Futa”, quella che
in sostanza collega Bologna a Firenze. E’ possibile una
cosa del genere? A quanto pare, è possibile perché la
strada è stata veramente realizzata, ed è tuttora lì in at-
tesa...
La strada poi tra l’altro, senza volere troppo infierire, pre-
senta anche un altro piccolo problemino di tipo idrauli-
Gola di Scascoli: Frana del 12 ottobre 2002
Gola di Scascoli: lago formatosi in seguito alla Frana del 12 marzo 2005
Gola di Scascoli: Frana del 12 marzo 2005
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L'incubo frane nell'appenino bolognese
Da Gaggio Montano Cesari, presidente dei geologi emiliano-romagnoli:«È un grande dolore vedere il nostro territorio così ferito e poco curato: molte frane sono indice di mancata prevenzione, abbandono del territorio o utilizzo non corretto del suolo. Occorre usare i fondi dell’Europa e rendere applicativa al più presto l’esclusione dei fondi per il dissesto dai vincoli del patto di stabilità».
Di fronte alla crescita esponenziale del rischio idrogeologico nelle aree dell'Appennino bolognese venerdì 4 aprile l'Ordine dei Geologi dell'Emilia Romagna ha realizzato un sopralluogo nella frazione di Silla insieme al sindaco
di Gaggio Montano, Maria Elisabetta Tanari. Sono numerose le frane che riguardano questo territorio: la frana
Montecchi-Silla coinvolge i terreni argillosi di un’ampia porzione di territorio e minaccia l’insediamento industriale
sottostante costruito negli anni ’70 sul piede della frana stessa: nella parte alta del versante il terreno si muove con
una velocità di qualche metro ogni mese; la frana Muiavacca interessa l’abitato di Silla Vecchia e le aree di espan-
sione urbanistica limitrofe e si è riattivata più volte negli ultimi anni. Ma sono solo due esempi.
Sono ben 70mila le frane cartografate che fanno dell’Emilia-Romagna la regione italiana più colpita dal disse-sto idrogeologico. Lo scorso anno il dissesto ha colpito principalmente la parte occidentale dei nostri Appennini,
quest'anno invece è diffuso su più province con il 30% del territorio collinare e montuoso regionale interessato da smottamenti. Solo nell’ultima primavera la Regione ha raccolto quasi 1.700 segnalazioni di frane, ed il Ser-
vizio Tecnico Bacino Reno nell’ultimo mese ne ha visionate oltre una cinquantina.
L'abusivismo edilizio, il consumo selvaggio del suolo e la pianificazione irrazionale sono piaghe che hanno riguarda-
to pesantemente anche la nostra Regione - a dispetto della sua fama di "prima della classe", dove a farne le spese
sono soprattutto i cittadini delle aree montane e collinari, interessato da decenni da numerosissime frane, molte
delle quali classificate ‘quiescenti’, in stato di inerzia, ma che la mancanza di opere di regimazione, l’abbandono dei
territori degli ultimi anni e i cambiamenti climatici hanno riattivato. Un film già visto, con evacuazioni, chiusura delle
strade di collegamento principali, coltivazioni completamente rovinate e danni per centinaia di milioni di euro. Tutti
questi elementi hanno ricordato alle istituzioni ed ai cittadini che il territorio è esposto a notevoli rischi connessi alle
calamità naturali. Lo stesso Presidente Vasco Errani in una recente occasione ha affermato: «Qui viene giù tutta la
Regione». Diventa opportuno chiedersi quale lezione sia possibile trarre da questi eventi, quali siano gli esiti delle
azioni intraprese dalle pubbliche amministrazioni, ma soprattutto, in vista delle prossime elezioni europee, che ruo-lo debba avere nella prevenzione l'utilizzo dei fondi Ue, al fine di migliorare la sicurezza dei cittadini.
Un problema, quello del rischio idrogeologico, che ha conseguenze significative anche sul piano economico. Il valo-re del rischio, dicono le stime aggiornate degli esperti, sfiora ormai quota 985 milioni di euro rispetto ad un totale
italiano di 7 miliardi. Nel 2012 la stima del rischio regionale era di 853 milioni, a dimostrazione di come sia in atto un
netto peggioramento che rende urgente l’adozione di provvedimenti.
Un problema rilevante e quindi tema caldo anche in vista delle prossime elezioni europee. L'Ordine dei Geologi
dell’Emilia Romagna condivide la proposta di Vasco Errani di far convergere parte dei fondi Ue, programmati per il 2014-2020, per combattere il dissesto idrogeologico. Parallelamente occorre diffondere la cultura della
prevenzione, del presidio del territorio e della manutenzione, ripensare con coraggio alla pianificazione e all'uso del
territorio (fino anche a valutare la delocalizzazione in alcuni casi) ed investire in interventi infrastrutturali per la ridu-
zione del rischio. Come dichiarato da Gabriele Cesari, Presidente dell’Ordine dei Geologi dell’Emilia Romagna: «Lo
sfruttamento fuori controllo del territorio (8 ettari al giorno in media nell'ultimo decennio) è una delle cause principali
delle frane e va combattuto. Occorre superare la logica facile e comoda: evento calamitoso - dichiarazione emer-
genza - fondi per ripristino danni. Pensare quindi a risarcimenti proporzionali ai fondi realmente spesi per prevenzio-
ne e manutenzione dei territori. In questo senso è auspicabile che i fondi per il dissesto idrogeologico siano esclusi
dai vincoli del patto di stabilità e che immediatamente dopo vengano emanate le disposizioni attuative necessarie
alla realizzazione degli interventi e degli studi di prevenzione».
Conclude il Presidente: «I cambiamenti climatici inesorabilmente in atto sono una sfida epocale che chiede di essere
affrontata in modo innovativo, condiviso e con grande senso di responsabilità: Enti Pubblici, con le diverse funzioni;
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ilGEOLOGOdell’EMILIA-ROMAGNA
privati ed agricoltori con la riscoperta e valorizzazione del loro ruolo chiave di presidio del territorio; mondo della
ricerca e dei professionisti, con un moderno approccio sussidiario anche finalizzato al necessario contenimento dei
costi».
Anche il Sindaco di Gaggio Montano, Maria Elisabetta Tanari, conferma la positività dell'incontro di oggi, dichia-
rando inoltre: «La gestione territoriale di Gaggio Montano è un esempio virtuoso di come il lavoro in sinergia con
i diversi enti, Ordine dei Geologi, Provincia di Bologna, Regione Emilia Romagna e il comparto dei Volontari della
Protezione Civile porti a buoni risultati. In particolare il rapporto diretto con i geologi consente un corretto supporto
informativo sia all'amministrazione comunale che alla popolazione, permettendo di adottare le formule migliori di
intervento».
Bologna, 4 aprile 2014
Emergenza Dissesto Idrogeologico
Antolini : “Occorre pensare anche a nuove forme di riduzione del rischio
Cesari (Emilia – Romagna) : “Contratti di fiume e costituzione degli uffici geologici territoriali”
“Quello che sta succedendo nella bassa pianura emiliana a nord di Modena e Bologna deve farci riflettere profon-
damente sulla capacità di gestire il territorio da parte della società moderna. Un sindaco che (giustamente) invita i
suoi ad andarsene indica l'impotenza dei nostri sistemi contro gli eventi della natura che occorre avere il coraggio
di definire normali e prevedibili. Perché 3/400 mm di pioggia che cadono su un bacino idrografico moltiplicati per
l'estensione del suo bacino fanno milioni di metri cubi di acqua che devono essere smaltiti dal corso d'acqua prin-
cipale”. Lo ha affermato Paride Antolini, Consigliere Nazionale dei Geologi .
“Quando gli argini del fiume cedono questi volumi si riversano necessariamente sui terreni limitrofi che nel corso
delle ere geologiche sono sempre stati di pertinenza del fiume stesso, per il suo "divagare". Se la pianificazione
pregressa non ha tenuto conto di questo – ha continuato Antolini - non c'è manutenzione degli alvei che tenga! E
siccome gli abitati esposti al rischio idraulico sono innumerevoli, occorre pensare anche a nuove forme di riduzione
del rischio, magari ricorrendo a tecnologia ed innovazione, modellistica, monitoraggi e gestione informatica dei dati
in tempo reale”.
E’ intervenuto anche il Presidente dell’Ordine dei Geologi dell’Emilia – Romagna, Gabriele Cesari.
“Le immagini di Bastiglia e Bomporto devono rimanere scolpite nella memoria dei prossimi mesi!
Ha ragione l'Assessore Gazzolo: questo non è il momento della polemica (chi la fa cerca visibilità).
Ma tutti - ha dichiarato Cesari - dobbiamo accettare la sfida che ci viene da questi eventi ripetuti ormai in modo
troppo ravvicinato.
I Geologi offrono ancora una volta il loro contributo: anzitutto nell'emergenza, a disposizione della macchina della
Protezione Civile, poi (e soprattutto) per stimolare una riflessione seria ed approfondita sugli strumenti e le risorse
necessarie per affrontare la sfida. Lo stiamo facendo all'interno della categoria dei geologi (sia in ambito regionale
che nazionale, anche in previsione di una nuova legge sulla difesa del suolo annunciata dal ministro Orlando), ma lo
vogliamo fare anche con le altre categorie professionali, gli Enti Territoriali competenti e l'intera società. Evidenzia-
mo fin d'ora due strumenti che possono contribuire ad affrontare adeguatamente il problema, in un'ottica moderna
di sussidiarietà e di partecipazione alla costruzione del bene comune: i contratti di fiume e la costituzione degli uffici
geologici territoriali.”
Gennaio 2014
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