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I celti godono di una persistente popolarità che non si è mai interrotta. Non è facile dare una spiegazione univoca di questa fortuna: forse la compassione per un popolo che, come quello etrusco, è scomparso dalla storia; oppure il fascino che esercita la natura misteriosa ed enigmatica di una cultura che si estinse all'ombra dei greci e dei romani; o ancora il fatto che i celti, anticamente sparsi in tutta l'Europa, compresa la Thrchia, non sono mai stati considerati gli antenati di nessuna singola nazione, diventando, per così dire, patrimonio comune dell'intero continente. È per tutte queste ragioni che essi hanno fmito poi per incarnare il sogno discutibile e pericoloso di una purezza primigenia. In questa introduzione si troverà tutto quanto occorre sapere sul mondo dei celti: le origini, la società, l'organizzazione politica, la cultura, la religione e la mitologia di uno dei popoli più importanti della storia europea.

Alexander Demandt insegna Storia antica nella Freie Universitiit di Berlino. Fra i suoi libri: «Das Ende der Weltreiche» (1997), «Geschichte der Spiitantike• (1998), «Stemstunden der Geschichte• (2001). In italiano: «Theodor Mommsen, i Cesari e la decadenza di Roma• (1995) e «Processare il nemico• (Einaudi, 1996).

Società editrice il Mulino

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Alexander Demandt

I CELTI

il Mulino

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ISBN 88-15-09306-0

Edizione originale: Die Kelten, Miinchen, Beck, 1998. Copyright© 1998 by C.H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung (Oscar Beck), Miinchen, 1998. Copyright © 2003 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Camilla Beltrami. Edizione italiana a cura di Enrica Fontani.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale -se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

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INDICE

Premessa p. 7

I. I nomi dei celti 9

Il. Le origini e le fonti 13

III. L'espansione dei celti 19

IV. L'economia 29

v. La religione 3 9

VI. La società 51

VII. I popoli celtici 67

VIII. Fortezze e città 7 1

IX. Il potere politico 77

X. La conquista romana 89

XI. La missione degli scoti d'Irlanda 101

XII. I miti 105

XIII. La fortuna dei celti 1 13

Letture consigliate 125

Indice dei nomi e delle cose notevoli 1 3 1

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PREMESSA

Il paese dove sono cresciuto, Lindheim, si trova ai piedi del Glauberg, nell'Assia, tra Vogelsberg e Wetterau. Da studente, quando ero allievo dell'archeologo Heinrich Richter, mi sono appassionato alla storia antica. All'epoca dei celti risale una delle numerose fasi d'insediamento dell'Hohenburg, come confermano i ritrovamenti straordinari venuti alla luce dal 1994. Da studente ho potuto partecipare, nel 1959, sotto la direzione di Wolfgang Kimmig, a una campagna di scavo sulla Heuneburg, vicino a Hundersingen; nel 1960 a Marburgo Josef Weisweiler mi ha introdotto allo studio della lingua celti­ca d'Irlanda e nello stesso anno Wolfgang Dehn mi avvicinò ai monumenti celtici della Borgogna e della Francia meridionale; nel 1964, grazie a una borsa di studio dell'Istituto archeologi­co tedesco, visitai la Galazia e Pergamo, poi, nel 1981 , fu la volta del Norico di epoca celtico-romana in un'escursione con gli studenti della Freie Universitat di Berlino. Così mi sono definitivamente avvicinato ai celti, ai quali ho attribuito l'im­portanza che meritano in uno studio, pubblicato nel 1995, dal titolo Antike Staats/ormen.

Questo volume nasce da un invito del mio consulente edi­toriale, Stefan von der Lahr, e da questi presupposti. Non ho cercato solo di considerare in modo equilibrato gli aspetti sto­rici, archeologici e filologici, ma anche di delineare per sommi capi la storia della fortuna dei celti. Ho trovato di grande uti­lità il monumentale catalogo della mostra di Palazzo Grassi, a Venezia (1991 ) , dal titolo I Celti, curato da Sabatino Moscati, come anche l'ampia trattazione di Helmut Birkhan, Kelten (19972). In questi testi il lettore può trovare tutto ciò che qui manca.

I miei ringraziamenti per i suggerimenti e l'aiuto vanno a Karl Feld, Thomas Gerhardt, Renate Meincke, Uwe Pusch­ner e a mia moglie Barbara, della cui acribia ha beneficiato

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anche questo saggio. Il mio intento è suscitare l'interesse, in questo caso per il passato; per dirlo con le parole di Ago­stino (De vera religione 94): «Tutto ciò che si definisce curio­sità che cosa è se non trarre piacere dalla conoscenza delle cose?».

Premessa alla terza edizione

I celti godono di una popolarità che non si è mai interrot­ta, ma che anzi è cresciuta nel tempo. La ragione di ciò risiede forse nella compassione per un popolo che è scomparso dalla storia? Oppure nel fascino di una cultura che rivelò la sua natura misteriosa ed enigmatica all'ombra dei greci e dei roma­ni? Oppure nel fatto che i celti, anticamente sparsi in tutta l'Europa, compresa la Turchia, non sono mai stati considerati gli antenati di nessuna nazione in particolare, come se fossero, per così dire, patrimonio comune dell'Europa che cresce? Svolgono forse il ruolo anche solo di succedanei, così ricerca­ti dai popoli germanici tanto bistrattati?

Ho approfittato dell'occasione della nuova edizione per rendere conto di alcune questioni tra cui - secondo uno stu­dio di Riidiger Krause - l'interpretazione dei discussi «recin­ti quadrangolari» (Viereckschanzen). Per i suggerimenti e gli aiuti il mio ringraziamento va inoltre a Gerhard Dobesch, Franz Fischer, Johannes Heinrichs, Renate Meincke, Stefan von der Lahr, Karl Strobel, Kurt Tomaschitz e a te, Duches­sa di Heiligensee!

Per approfondire la conoscenza delle fonti e delle que­stioni ancora irrisolte, suggerisco di fare riferimento al capi­tolo sui celti (XIV) del mio lavoro del 1995, Antike Staats­/ormen. Sul senso del mio lavoro mi illumina lo storico di cor­te bavarese Johannes Aventinus (t 1534): «Cosa potrà essere più grande e importante che ricreare e ridare la vita ai mor­ti, la memoria perenne all'oblio e la luce alle tenebre?».

A.D.

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CAPITOLO PRIMO

I NOMI DEI CELTI

Tane indessen fon, du Nebelharfe Ossians! Gli.icklich in allen Zeiten ist, wer deinen sanften Tonen gehorchet.

(Herder 1791)

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam inco­lunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam, qui ipsorum lingua Cel­tae, nostra Galli appellantur. «La Gallia nel suo insieme è divisa in tre parti, una è abitata dai belgi, un'altra dagli aqui­tani, mentre nella terza vivono quelli che nella loro lingua si chiamano celti, nella nostra invece galli». Con quest'afferma­zione Cesare apre la sua opera autobiografica (commentarii) sulle campagne militari romane in Gallia dal 58 al 5 1 a.C., il testo che generazioni di studenti hanno utilizzato come manuale per lo studio della lingua latina. Ma chi erano que­sti celti?

I celti sono il più antico popolo di cui si conosca il nome in tutta l'area a nord delle Alpi. Per indicare gli abitanti deg­li insediamenti precedenti si possono utilizzare solo moder­ne perifrasi, come ad esempio «cultura dei Campi di urne» (Urnenfelder-Kultur) o «cultura della Ceramica cordata» (Schnurkeramiker-Kultur) . Gli autori greci utilizzano le forme Kelt6i (Erodoto), Kéltai (Strabone) e Galdtai (Pausania), quelli latini Celtae (Livio) o Galli (Cesare) . Tutti questi nomi si riferiscono al medesimo popolo, che in tedesco è chiama­to Kelten, espressione nella quale si riconosce una specie di autodefinizione da tradurre, presumibilmente, con «gli auda­ci». Oggi si usa fare distinzione tra i celti della Gallia, deno­minati galli, e quelli della Galazia, denominati galati, mentre l'appellativo di «celti» è utilizzato con valore estensivo. I ger­mani hanno chiamato i celti «stranieri» (Welschen), attribu­endo a questi il nome della tribù celtica dei Volcae, che con­finava con loro a sud ed era stanziata nella Germania cen­trale ancora ai tempi di Ce.sare; in questo stesso modo essi

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chiamarono, più tardi, anche i romani. La parola «straniero» (welsch) è alla base di numerosi nomi propri e comuni del tedesco: vallese ( Wallis), valloni (Wallonen), Galles (Wales), Cornovaglia ( Cornwall) e poi anche del toponimo Wallach e del sostantivo «noce» (Walnu/5).

n senso dell'appartenenza a un unico popolo che emer­ge dall'autodefinizione dei celti è sottolineato da un mito del­le origini. Cesare (VI 18, l ) riporta la notizia secondo cui tutti i celti vantavano di discendere dal dio Dis pater, ovve­ro dal «padre Dite». Il nome Dis pater è strettamente legato all'etimo di Iuppiter e di Zeus; questa divinità, tuttavia, ven­ne identificata dai romani con il dio degli Inferi, Ade-Pluto­ne, che presso i celti è chiamato anche Cernunnos. La leg­genda della discendenza dei celti dal dio del mondo sotter­raneo rispecchia la credenza nell'origine dalla terra, o meglio nell'autoctonia.

Sotto l'influenza greca si sviluppò, accanto a questa, la leggenda secondo cui il progenitore dei celti era l'eroe Gala­tes. Non è affatto raro nella mitologia antica incontrare eroi che danno il loro nome a luoghi (eponimi): questo Galate deve essere stato uno dei figli di Eracle, che è annoverato tra i grandi eroi itineranti dell'antichità. Mentre Dioniso in Oriente si sarebbe spinto fino all'India e Odisseo avrebbe visitato invece tutti i luoghi raggiungibili per mare, di Eracle si immagina il viaggio nella terra delle Esperidi, in Occiden­te, durante il quale egli avrebbe sedotto tutte le donne e avrebbe lasciato traccia del suo passaggio nei figli avuti da queste. Così come fecero i burgundi nel periodo successivo, che affermarono la loro parentela con i romani, i franchi, che vantarono una discendenza troiana, e i sassoni affermandosi discendenti dei macedoni di Alessandro che giunsero nello Holstein da Babilonia, anche i celti acculturati dell'età impe­riale hanno cercato di dimostrare la loro appartenenza al mondo mediterraneo attraverso leggende che ne dichiarava­no la discendenza da un capostipite etimologicamente affine a quella cultura.

Per più di cinquecento anni i celti sono stati protagoni­sti della storia dell'Europa occidentale. Nel periodo che va dal VI secolo a.C. fino al I secolo d.C. le tribù celtiche meri­tano la considerazione di veri e propri soggetti politici. Per i greci e i romani i celti erano dei barbari, secondo l'imma-

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gin e che era loro associata dall'esterno e che loro stessi a un tempo hanno contribuito a costruire. Come primo contatto a nord del mondo mediterraneo della polis (il mondo delle città-stato) , i celti appartengono alle antiche culture periferi­che. Questa idea non deve essere interpretata in senso nega­tivo, ma deriva piuttosto dalla constatazione di stampo etno­logico secondo cui lo scambio culturale non avviene sempre tra elementi alla pari: spesso esiste un «dislivello culturale», poiché da sempre ci sono «popoli in via di sviluppo», che hanno appreso dai loro vicini maggiormente progrediti più di quanto non abbiano trasmesso loro e che hanno assorbi­to l'influenza altrui più di quanto non abbiano propagato la propria. Cesare (VII 22) definisce i galli un popolo partico­larmente abile nell'appropriarsi e nell'utilizzare gli stimoli e le invenzioni di chiunque altro. Dai greci e dai romani i cel­ti hanno accolto la scrittura e l'economia monetaria, senza riu­scire però a svilupparle compiutamente prima di perdere l'in­dipendenza politica. Questo deve essere addebitato, ancora una volta, alla loro inferiorità militare. Così come i popoli del­le altre culture periferiche antiche, neppure i celti erano cre­sciuti in condizioni che si possano dire simili a quelle dei romani sul piano militare: le legioni romane erano sempre meglio armate, meglio disciplinate e organizzate. Allo stesso tempo, però, i celti potevano insegnare qualcosa ai romani sul piano tecnico (cfr. in/ra) .

Anche se il ruolo da loro svolto nella storia dell'Europa è stato assai significativo, i celti sono scomparsi dalla geogra­fia etnica e politica del continente. Dopo la grande espansio­ne della loro cultura dall'Irlanda fino all'Anatolia centrale, espansione resa possibile grazie alla cavalleria e alla lavora­zione del ferro per forgiare armi, e dopo che i contatti con i popoli mediterranei si fecero più stretti, i celti hanno visto la loro fortuna tramontare con l'ellenizzazione dell'Oriente e la romanizzazione dell'Occidente, fino a che non lasciarono che scarse tracce di sé nel Ce/tic Fringe o, per meglio dire, fino a che non furono quasi completamente assorbiti dai popoli venuti dopo di loro. Nel medioevo, tuttavia, essi tornano alla ribalta per dare un contributo tangibile alla vita culturale del­l'Europa nell'ambito di tre fenomeni di Rinascenza. Queste rivitalizzazioni, di epoca anche assai recente, si legano ai nomi di Artù, di Ossian e - chiedo venia ai lettori - di Asterix.

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CAPITOLO SECONDO

LE ORIGINI E LE FONTI

La nostra conoscenza dei celti si basa in primo luogo sugli autori greci e latini. Generalmente sono gli eventi di guerra a fornire loro il pretesto per il racconto. Le notizie più antiche provengono da due storiografi originari dell'Asia Minore, Ecateo di Mileto ed Erodoto di Alicarnasso. Ecateo, che scrisse intorno al 500 a.C., definisce l'entroterra della costa ligure e di Marsiglia - in greco Massa/fa, Massilia in latino - Kelttké (ge) «terra celtica», dove si trova anche la città di Nyrax. È probabile che si possa identificare Nyrax con il regno del Norico, nelle regioni di Carinzia e Stiria, e che si debbano considerare celtiche allora le zone delle Alpi e della valle del Rodano.

Erodoto (II 3 3 ; IV 49) intorno al 450 a.C. racconta che l'Istros, cioè il Danubio, nasce nella terra dei celti, nei pressi della città di Pyrene. Si riferisce forse ai Pirenei? Dal suo punto di vista, allora, questi sarebbero una cosa sola con la Foresta Nera. Egli scrive che i celti vivevano al di là delle Colonne d'Eracle - per chi li volesse raggiungere via mare, perché l'entroterra di Marsiglia era abitato dai liguri - e sareb­bero il «penultimo» popolo dell'Europa a Occidente, perché quello più occidentale abiterebbe in Portogallo. Quindi intor­no al 500 a.C. i celti colonizzarono la regione prealpina e la Francia centrale.

Tra gli autori di lingua g�a che in età successiva parla­no dei celti, si annoverano in primo luogo Polibio, nell'opera storica, in gran parte perduta, che fu composta intorno al 150 a.C., quindi lo stoico Posidonio, che intorno al 90 a.C. visitò la Gallia e la Spagna e scrisse un'opera etnografica in greco che venne utilizzata da Diodoro, ma che per il resto si è con­servata solo tramite citazioni; inoltre il geografo Strabone, atti­vo in età augustea, lo scrittore di viaggi Pausania, del II seco­lo d.C., e infine Ateneo di Naucrati, in Egitto, che intorno al

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200 d.C. scrisse una vera e propria enciclopedia dell'antica cultura della tavola (Dipnoso/isti «Sofisti a banchetto») .

In cima all'elenco degli autori latini troviamo Cesare, che nei suoi sette libri De bello Gallico, già citati all'inizio, e in particolare nell'excursus sui galli (VI 1 1-20), ci informa in maniera estesa e attendibile sui costumi dei popoli celtici. Si sottintende quest'opera ogni volta che, come in questo caso, si citeranno tra parentesi, dopo il nome di Cesare, i numeri del libro e dei paragrafi. Cesare ha conquistato la Gallia quando era proconsole, dal 58 al 5 1 a.C., e ne ha conosciu­to il territorio e le genti meglio di chiunque altro prima di lui. Cesare è una fonte indispensabile, anche se gli è sempre stata rimproverata, non senza fondamento, una certa dé/or­mation historique1• Delle notizie di seconda mano si ricava­no anche da opere storiche in lingua latina dell'età di Augu­sto: quella di Livio, di Pompeo Trogo, o meglio di Giusti­no2, di Tacito (intorno al 100 d.C.) e di Ammiano Marcellino (intorno al 400 d.C.) .

Cesare è il primo autore dell'antichità che ha distinto i celti dai germani: all'excursus sui galli, richiamato sopra, fa seguire quello sui germani. Prima di Cesare l'opinione più diffusa era che l'Europa occidentale, centrale e settentriona­le fossero abitate esclusivamente da stirpi celtiche. È possi­bile che già Posidonio abbia fatto una distinzione tra i due ceppi dato che, a quanto risulta, non considerò gallica la lin­gua dei germanici teutoni. L'identificazione dei due popoli si fondava sull'ampia corrispondenza di stile e forma di vita, sulla loro vicinanza e sul fatto che il nome di Germani mol­to probabilmente rappresenta una denominazione che i cel­ti davano agli stranieri, ad esempio ai popoli che già si chia­mavano svevi, a destra del Reno. Il nome di Germani, inol­tre, è attestato per due genti di stirpe celtica stanziate lungo il corso superiore del Rodano e in Spagna. Sebbene a parti­re da Cesare e, soprattutto, dalla Germania di Tacito, tutti i romani potessero essere a conoscenza della diversità di celti e germani, i singoli autori, da qui fino all'età bizantina, han­no rigorosamente considerato i germani come celti: è il caso di Appiano, di Cassio Diane e del grande lessico bizantino del X secolo, la Suda.

Il motivo determinante, nell'opinione antica e moderna, della differenza tra celti e germani risiede nella lingua: il cel-

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tico, parlato in tutta la Gallia e anche in Britannia e in Gala­zia, appartiene alle lingue che nel 1810 il danese Conrad Malte Brun chiamò indogermaniche. Al di fuori di 60 iscri­zioni circa, tutte di epoca precristiana, non si conservano testi celtici più lunghi. A queste si aggiungono legende monetali, glosse di autori antichi e una grande quantità di nomi pro­pri e di toponimi. Nomi celtici di fiumi, monti, talora anche di insediamenti sono frequenti nella regione che si estende dal Basso Reno, a nord, fino alla Boemia, oltrepassando la celtica Eisenach. Celtici o preceltici sono i nomi di molti fiu­mi tedeschi: Reno, Lippe, Ruhr, Lahn, Meno, Nidda, Neckar e Tauber. Anche il Danubio, l'Isar e il Lech portano nomi celtici. L'area geografica nella quale sono attestati toponimi celtici include in complesso tutta la Francia, la Spagna cen­trale e la Britannia.

La linguistica distingue due forme di celtico, il celtico-Q e il celtico-P. Un esempio: per «cavallo» il celtico-Q utilizza la forma equos, il celtico-P la forma epos. Nella regione cen­trale, e cioè in Gallia e in Inghilterra, Galles e Cornovaglia compresi, ma anche in Galazia, si sa che il celtico-P era in uso insieme ad alcuni toponimi residui del celtico-Q (Sequa­na, Senna), mentre in Irlanda, Scozia e Spagna era predomi­nante il celtico-Q, che sopravvive ancora come gaelico o goi­delico. Il celtico-Q mostra una parentela più stretta con il latino (equus) e ciò permette di concludere che il celtico-Q è la variante linguistica più antica, nata alla fine del secondo millennio, quando protocelti e protoitalici erano ancora in stretto contatto nell'Europa centrale. Nella regione centrale la lingua si è evoluta nel celtico-P senza che le zone perife­riche, di per sé conservatrici, seguissero tale sviluppo. Si osserva un fenomeno analogo nel francese del Canada, che ha mantenuto le particolarità che sono scomparse nella lin­gua della madrepatria.

All'epoca e all'area geografica nelle quali si ha notizia di insediamenti celtici appartiene un complesso limitato di rin­venimenti, tra loro omogenei, che dal 1872 è indicato come «cultura di La Tène», da un deposito sabbioso ricco di reper­ti nel lago di Neuchatel, nella Svizzera occidentale: essa risa­le all'età del fèrro più recente, che va dal 450 a.C. all'epo­ca romana. Questo periodo segna la fine della protostoria nell'Europa centrale. Anche i rappresentanti di questa civiltà

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sono considerati celti, in quanto la cultura di La Tène si è sviluppata senza soluzione di continuità dalla cultura di Hall­statt - così chiamata dalla località più importante dove i cel­ti estraevano salgemma, nella regione del Salzkammergut -, vale a dire dalla fase più antica dell'età del ferro. In Germa­nia meridionale la cultura di Hallstatt copre il periodo che va dall'800 al 450 a.C.

La presenza dei celti nel periodo di Hallstatt e di La Tène è ampiamente attestata dai ritrovamenti archeologici. Conosciamo numerosi insediamenti fortificati (oppida), basti pensare a Mont Auxois (l'antica Alesia), a Mont Beuvray (l'antica Bibracte) , alla Heuneburg, presso Hundersingen sul Danubio superiore, o al Glauberg, nella Wetterau in Assia. Le tombe dei principi che non sono state saccheggiate ci hanno consegnato i reperti più importanti: tra questi il tumu­lo funerario di Vix, presso l' oppidum di Mont Lassois, che risale al 480 a.C. circa e fu scoperto nel 1953, con un ricchis­simo corredo esposto oggi a Chatillon-sur-Seine; il tumulo funerario scoperto a Hochdorf, presso l' oppidum di Hohen­asperg, nel 1977, datato al 540 a.C., che ha restituito ogget­ti preziosi, oggi conservati nel Museo di Stoccarda, e anche la tomba del Glauberg, del V secolo a.C., scoperta nel 1 994. Il numero dei tumuli funerari del periodo di Hallstatt conta circa 7 mila unità solamente nel Wiirttemberg.

Per i periodi successivi le congetture su ciò che si può definire «celtico» si fanno più incerte. Rimane ancora in dub­bio se la «cultura dei Campi di urne» dell'età del bronzo, precedente all'epoca di Hallstatt (dal 1200 fino all'800 a.C.), o anche le tombe a tumulo dell'età del bronzo, anteriori a questa (dal 1500 fino al 1200 a.C.), fossero il portato di una civiltà di lingua celtica. Secondo l'opinione prevalente, la dif­fusione dei «Campi di urne» intorno al 1 100 a.C. è da met­tere sullo stesso piano della migrazione degli indogermani verso ovest. Nel caso dei celti lo storico si trova di fronte allo stesso problema, che è collegato alle origini dei greci, dei germani e degli slavi: la loro misteriosa provenienza. Insom­ma, la questione dell'origine dei celti è assai dibattuta. Dato che non sapremo mai da quando i celti si sono considerati tali, tocca a noi stabilire a quali gruppi di ritrovamenti sia da attribuire la definizione di «celtici». E se anche sapessimo quanto a lungo durò il periodo dell'autodefinizione dei ce!-

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ti, non si potrebbero trarre molte conclusioni rispetto alla loro identità etnica, così come poche se ne traggono dalla continuità del nome di «prussiani». Che cosa hanno infatti in comune, a parte il nome, la dinastia reale degli Hohen­zollern alamanni con i prussi dei laghi della Masovia?

NOTE AL CAPITOLO SECONDO

1 M. Rambaud, !;Art de la dé/ormation historique dans /es commen· taires de César, Paris, 1966.

2 Pompeo Trogo, scrittore contemporaneo o di poco posteriore a Livio, scrisse delle Historiae Philippicae, in 44 libri, di cui possediamo, oltre agli indici dei libri e a qualche frammento, il compendio scritto da un auto­re più tardo, Marco Giuniano Giustino [N.d.C.].

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CAPITOLO TERZO

L'ESPANSIONE DEI CELTI

l . I: espansione verso occidente

A partire dal 500 a.C. circa la storia dei celti diviene meno oscura. Essa è caratterizzata da una rapida espansione dall'area prealpina in tutte le direzioni tranne che a nord, dove i celti erano contrastati dai germani che, come loro, sta­vano avanzando (cfr. fig. 1 ) . La residenza di principi celti situata più a nord, stando alle nostre attuali conoscenze, è il Glauberg, ai margini della Wetterau, 20 km a nord del fiu­me Meno. L'espansione dei celti avvenne da un lato attra­verso la diffusione dei modi di vita e della lingua celtici e, dall'altro, per mezzo degli spostamenti dei celti stessi. Talora i nomi dei popoli esprimono l'idea della migrazione. Il nome dei tettosagi significa «cercatori di tetti»: un riferimento alla necessità di trovare un'abitazione che può essere derivato, quindi, solo dalla migrazione. Il nome degli allobrogi della Savoia significa alienigenae, «coloro che sono nati altrove», e deve essere stato attribuito come indicazione della loro estra­neità rispetto ai celti che erano giunti lì da prima o che abi­tavano nelle vicinanze. La dinamica dell'espansione celtica anticipò quella delle migrazioni dei germani ed è accomuna­ta dai medesimi presupposti: indole guerriera, abbondante natalità e uno stile di vita semplice, legato alla terra. «Meglio morire piuttosto che invecchiare inattivi», dice una massima celtica tramandata da Silio Italico (l, 225) , un poeta dell'età di Nerone, e in questo modo essi sono vissuti.

Le scorrerie verso occidente ebbero l'effetto di attirare tutta la Gallia nell'orbita dei celti, in misura meno accentuata la Spagna (celtiberi) , dove il nome della regione della Gal­laecia, nel nord-ovest, rimanda a loro, e la Britannia, dove i reperti celtici più antichi, rinvenuti nelle vicinanze della foce del Tamigi e databili al V secolo a.C., sono identici a quelli

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della Champagne. I celti della Britannia, stando alla testi­monianza di Strabone (IV 5, 2) , vivevano secondo uno stile di vita molto semplice. Intorno al 75 a.C. i belgi fecero scor­rerie nell'Inghilterra meridionale e crearono quell'assetto che poco più tardi Cesare trovò in quel territorio. La cultura materiale che lasciarono dietro di sé, per lo più oggetti di corredo funerario, corrisponde ancora esattamente ai reper­ti archeologici coevi provenienti dalla Francia del nord - un parallelo che si ripropone ancora nel VI secolo d.C. tra la ceramica dei sassoni in Britannia e quella dello Holstein . La Hibemia (Irlanda) venne occupata dagli scoti celtici, che nel­la tarda antichità si allargarono verso la Caledonia; tuttavia il nome «Scozia» entra nell'uso solo a partire dall'alto medioe­vo. Nel IV secolo d.C. gli scoti irlandesi saccheggiarono, insieme ai pitti della Caledonia, la Britannia romana, che allo­ra fu soggetta alle devastazioni anche dei sassoni germanici. Secondo Dicuil (cfr. in/ra) e altri geografi più tardi, il nome «Britannia» comprende anche l'Irlanda.

L'espansione verso sud non fu priva di conseguenze. Il racconto della migrazione, conservato in Livio (V 3 3 ss. ) , narra che al tempo del quinto re di Roma, Tarquinio Prisco, e quindi intorno al 550 a.C. , i biturigi avrebbero avuto il monopolio del potere in Gallia. Il loro re, Ambigato, che regnava con valore e fortuna sulla terra dei celti (Celticum), voleva risolvere il problema dell'eccesso di popolazione e in età avanzata mandò i due figli di una sua sorella, Belloveso e Segoveso, alla ricerca di nuovi possibili insediamenti. La sorte rivelò la volontà degli dèi: Segoveso ebbe la selva Erci­nia, ossia la Germania centrale, mentre Belloveso l'Italia, ben più attraente. Con uno stuolo imponente composto da sette genti varcò le Alpi.

Un po' diversa la versione raccontata nella Storia univer­sale di Giustino (XXIV 4, 1 ) , che risale allo scrittore gallico romanizzato Pompeo Trogo. Egli indica in 300 mila i celti che non trovavano più cibo nella loro terra e, seguendo il volo degli uccelli, come in una sacra migrazione di primave­ra (ver sacrum), valicarono le Alpi «per primi dopo Ercole», alcuni diretti in Pannonia, altri nella pianura padana. Il con­cetto di ver sacrum, «primavera sacra», indica un rituale con­sueto presso gli antichi italici: in un anno di carestia il popo­lo promise di sacrificare agli dèi tutto ciò che la primavera

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successiva avrebbe portato. Perciò i bambini neonati venne­ro cresciuti e mandati lontano alla ricerca di nuove terre.

L'emigrazione verso l'Italia può essere all'origine di due fenomeni rilevabili dall'evidenza archeologica a nord dell'a­rea prealpina, datati entrambi a prima del 400 a.C.: da un lato l'incremento, statisticamente significativo, di tombe di donne, che evidentemente hanno seguito solo in minima par­te i loro uomini, e, dall'altro, un orizzonte che si può defi­nire di distruzione, vale a dire tracce di abitazioni che nel medesimo periodo furono devastate per lo più da incendi. Di solito un dato del genere è la conseguenza di eventi di guerra, ma in questo caso bisogna pensare all'informazione che ci dà Cesare (I 5) secondo la quale gli elvezi prima di partire avrebbero distrutto i loro insediamenti.

Il nord Italia colonizzato dai celti si chiamò, da questo momento in poi, Gallia Cisalpina, la Gallia «che si trova da questa parte delle Alpi», secondo il punto di vista dei. roma­ni, mentre quella «di là», la Gallia Transalpina, porta il nome anche di Gallia Cornata (coma: la «lunga chioma») o di Gal­lia Bracata (bracae: i «calzoni lunghi») ; dopo che i galli in Italia avevano assimilato i costumi romani, la loro terra fu chiamata anche Gallia Togata. Parecchi furono i popoli cel­ti che si stanziarono in Italia: gli insubri occuparono il terri­torio intorno a Mediolanum (Milano) , fondata da Belloveso, i cenomani quello intorno a Brixia (Brescia) e Verona, i boi la zona intorno a Bononia (Bologna) e i senoni il litorale di Ariminum (Rimini) . Il collegamento con le regioni al di là delle Alpi fu conservato; i reti, che abitavano nell'area com­presa tra lo Schwabischer Alb e l'Inn, acquisirono usi e costumi celtici. Ad attirare i galli a sud, secondo Livio, furo­no la frutta e il vino. Gli etruschi stanziati più a nord, nella pianura padana, non poterono impedirne l'avanzata e così persero le loro diciotto città. In casi particolari, come ad esempio a Marzabotto, a sud di Bologna, gli archeologi han­no ritrovato l'insediamento etrusco ancora nelle stesse con­dizioni in cui doveva trovarsi appena dopo la conquista, con le armi e i caduti tra le rovine.

Anche i romani hanno subito l'arrivo dei celti: vissero allora il loro primo «sacco di Roma». Secondo la tradizione tramandata da Livio e deformata per mettere in luce il valo­re dei romani (V 33 s.) , i galli senoni sotto il comando di

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Brenno avrebbero attaccato la città etrusca di Clusium (Chiu­si) a nord di Roma. Gli abitanti si rivolsero a Roma per chie­dere aiuto e il senato inviò tre ambasciatori della gens Fabia che però non ottennero nulla dai galli; gli stranieri infatti pre­tendevano della terra. Lo scontro continuò e vi presero par­te, schierati dalla parte di Clusium, anche gli ambasciatori romani. Uno di loro uccise persino un principe celtico. Per questa violazione del diritto Brenno chiese un risarcimento, che tuttavia gli venne rifiutato dal senato e dal popolo. I romani si opposero ai senoni, ma il 1 8 luglio del 387 presso il fiume Allia, 20 krn a nord di Roma, subirono una disastrosa sconfitta.

I celti vincitori marciarono lungo la via Salaria alla volta di Roma, dalla quale la maggior parte degli abitanti era fug­gita, e occuparono la città. Secondo la tradizione più antica, già rintracciabile negli Annali del poeta Ennio1, intorno al 180 a.C. i galli espugnarono anche la rocca del Campidoglio; secondo la tradizione annalistica più recente, invece, la roc­ca sul colle tenne loro testa: un tentativo notturno di scala­re la parete rocciosa del Campidoglio sarebbe stato scoper­to e vanificato dalle anatre sacre di Giunone con i loro ver­si. Esse protessero il tempio della dea dei matrimoni, che si trovava là dove oggi s'innalza la chiesa di Santa Maria in Ara­coeli. L'appellativo di Moneta, ossia «colei che ammonisce» (da monere) , Giunone non l'ha acquisito in quella circostan­za, ma per il fatto che nel suo santuario si trovava la zecca: in Ovidio quest'epiteto ha il significato di «moneta».

I romani si erano ritirati a Veio e dopo sette mesi dovet­tero comprare con dell'oro il ritiro dei galli. Non appena ven­ne consegnata la somma concordata di 1 .000 libbre, Brenno gettò anche la sua spada sul piatto della bilancia e ai roma­ni che si opponevano rispose (certamente non in latino): Vae victis! («Guai ai vinti ! ») . Così si legge in Livio (V 48, 9) . La frase ha già valore proverbiale in Plauto, intorno al 200 a.C. Durante le trattative del senato con Brenno, Camillo doveva avere arruolato un esercito e sconfitto i senoni, che si stava­no ritirando, così da recuperare i tesori versati e riscattare l'onore militare dei romani. La tradizione più antica, conser­vata in Polibio (II 22), parla di un trionfale ritorno in patria dei celti con il loro bottino. Il dies ater Alliensis (il «giorno nero di Allia») rimase giorno di lutto nazionale fino alla tar-

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da antichità. Da qud giorno i romani provarono una paura sconvolgente di fronte ai barbari del nord.

Dopo la loro vittoria, singoli manipoli di celti hanno per­corso tutta l'Italia. Essi vennero arruolati da Dionisio l, il tiranno di Siracusa, e, come dimostra Senofonte nelle sue Elleniche (VII l, 20), portarono aiuto agli spartani assediati da Epaminonda nel 368 a.C. In quell'occasione essi fecero la loro prima comparsa in Grecia. Anche gli etruschi e i carta­ginesi si servirono di mercenari celti. L'espressione che nd celtico indica i mercenari è gaesati («uomini armati di gia­vellotto»), come dice Orosio (IV 13 , 5) . Se altri autori li con­siderarono una stirpe a sé stante, questo può essere dovuto al fatto che venivano reclutati a gruppi alle dipendenze di condottieri che fungevano da re, come si legge in Polibio (Il 22, 2) .

Negli anni successivi continuarono le scorrerie, alcune delle quali fino in Puglia, e gli scontri con Roma che, allo stesso modo dei precedenti, furono raccontati con toni cele­brativi. Verso il 360 a.C. Tito Manlio Imperioso sconfisse i galli presso il ponte sull'Anio (Aniene), a est di Roma. I cel­ti tornarono a costituire un pericolo per l'ultima volta quan­do il cartaginese Annibale, nel 2 1 8 a.C., muovendo dalla Spa­gna e dalla Francia meridionale, valicò le Alpi ed esortò alla ribellione contro Roma. Egli trovò adesioni nella Gallia Ci­salpina: insubri e boi si unirono a lui e scacciarono i roma­ni che si erano insediati vicino a loro. Nell'anno 207 i celti della Cisalpina sostennero Asdrubale, che dalla Spagna era giunto in Italia attraversando le Alpi per portare aiuto al fra­tello Annibale, che però non poté raggiungere. Dopo il riti· ro dei cartaginesi dall'Italia, nd 203 a.C., i romani si vendi­carono sui celti: raggiunsero un accordo con insubri e ceno­mani, ma i boi vennero ancora allontanati o sterminati, la Gallia Cisalpina venne romanizzata. Silla ne fece una pro· vincia e Cesare reclutò qui le sue legioni per la guerra nella Gallia Transalpina.

2. L'eJpansione verso oriente

Dalle loro sedi originarie della Germania meridionale e della Francia i celti si spostarono a oriente. Già dalla fine del

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V secolo a.C. occuparono la Boemia (Boiohaemum), che deve il suo nome ai boi celti, e costruirono le città fortificate (oppi­da) di Stradonitz e Pressburg. Da lì gruppi di celti continua­rono a spostarsi verso la Slesia e la regione del Siebenbiirgen. La diffusione di usi e costumi celtici nella regione delle Alpi orientali illiriche si compì nel III secolo a.C. n regno dei cel­ti norici (regnum Noricum), a cui si è fatto cenno sopra, ave­va il suo centro sul Magdalensberg, zona che gli austriaci han­no indagato in maniera esemplare, nella Carinzia (Virunum), e i suoi abitanti si chiamavano Norici o Taurisci.

Già in precedenza gruppi più piccoli avevano raggiunto il mar Nero. Dal IV secolo i celti compaiono come alleati dei macedoni contro gli illiri: nel 335 a.C. giurarono fedeltà ad Alessandro Magno, secondo Strabone (VII 3, 8), e precisa­mente con una formula la cui clausola di maledizione risulta essere ancora la stessa in uso, mille anni dopo, presso i gaeli d'Irlanda2: «Vogliamo mantener fede al giuramento o possa il cielo abbatterci e annientarci, la terra aprirsi sotto di noi e in­ghiottirei, il mare sollevarsi e sommergerei». Pare che Aristo­tele, maestro di Alessandro, avesse sentito parlare di questa formula, come risulta dalla sua Etica nicomachea ( 1 1 15b 25), ma l'abbia completamente fraintesa quando scrive che l'ec­cesso di audacia nei celti si riconosce dal fatto che essi affer­mavano di non temere la violenza dei terremoti o dei flutti perché i celti nella loro patria non dovevano avere a che fare con simili catastrofi.

Si sa che c'erano dei celti tra gli ambasciatori dei popo­li occidentali inviati alla corte di Alessandro a Babilonia nel 324 a.C. Secondo Diodoro (XXII 9, 1 ) , nel 280 a.C. degli eser­citi celti irruppero in Macedonia con duemila carri da tra­sporto al loro seguito. Il comandante, un altro Brenno, scon­fisse e uccise, nel 279 a.C., il sovrano macedone Tolemeo Ce­rauno. n santuario di Apollo a Delfi, splendido e privo di fortificazioni difensive, fu saccheggiato e una parte del bot­tino andò a finire più tardi nel tempio gallico a sud di To­losa, dove cadde nelle mani dei romani nel 106 a.C. Il «sac­co di Delfi» suscitò grande impressione nel mondo greco; la leggenda narra dell'intervento personale degli dèi, che avreb­bero costretto i barbari a ritirarsi. Nella lontana Alessandria il poeta Callimaco inserì nel suo Inno a Delo, l'isola sacra ad Apollo, questi versi:

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E verrà un giorno una battaglia, per noi tutti insieme, quando poi contro l'Ellade le spade barbare leveranno e imploreranno il dio celtico della guerra, ultimi titani nella tempesta dall'estremo Occidente accorreranno come fiocchi di neve, innumerevoli come le stelle.

Dirigendosi verso sud-est, parecchi gruppi di celti si inse­diarono lungo il medio e basso corso del Danubio. Sul cor­so inferiore dei fiumi Sava, Drava e Morava si stabilirono gli scordisci. Si mescolarono ai traci, che abitavano in queste zone e che conservarono fino all'età imperiale i loro rozzi costumi: pare infatti che utilizzassero come coppe i teschi dei morti. Inoltre è difficile credere, stando alle parole di Ate­neo (234 AB), che disdegnassero di possedere dell'oro solo perché pensavano portasse sfortuna. Essi combatterono con­tro i romani con esito alterno e fondarono la città di Singi­dunum (Belgrado) , che fu poi ampliata dopo la conquista romana.

Nel 278 a.C., sempre nell'ambito della grande avanzata dei celti verso sud-est, si insediò in Tracia, ai piedi del ver­sante meridionale del monte Haemus (il monte Balkan) , un gruppo al seguito del re Commontorio. Questi si fece co­struire la sua sede a Tylis, vicino all'odierno paese bulgaro di Tulowo, e da lì fece partire le scorrerie dei suoi guerrieri; la città greca di Bisanzio dovette pagare un tributo per cin­quecento anni fino a che il re dei celti Cavaro non cadde in seguito a un attacco dei traci, nel 2 12 a.C. Così il regno di Tylis scomparve dalla storia.

Durante l'avanzata del 280 a.C., 20 mila celti, tra i qua­li IO mila guerrieri, sotto la guida dei loro re Lonorio e Lu­tario riuscirono a raggiungere l'Asia Minore attraversando gli stretti. Questi in un primo momento furono mercenari dei sovrani di Bitinia, poi combatterono al servizio di tutti i po­tentati in guerra nel Mediterraneo e in Occidente fino a Roma, Marsiglia e Cartagine; a migliaia furono arruolati an­che dai Tolemei d'Egitto. Nel 268 a.C. vennero sconfitti nel­la «battaglia degli elefanti» dal re dei Seleucidi, Antioco I, ma ottennero comunque un territorio dove insediarsi nella regione che poi da loro ebbe il nome di Galazia, intorno al corso del fiume Halys, nell'Asia centrale. Essi avevano divi­so in appezzamenti la terra, che avevano saccheggiato o me-

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glio occupato, come avevano fatto prima, al momento di at­traversare le Alpi. Lo storico greco Appiano, che scrive nel­l'età dell'imperatore Adriano ( 1 17 -138 d.C.) , cita i nomi di tre popoli: i tettosagi intorno a Tavium, i trocmi ad Ancyra (Ankara) e dintorni, i tolistoboi (o tolistoagi) intorno a Pes­sinunte.

Nel periodo successivo i popoli galati comparvero con una certa regolarità quando i regni confinanti erano in guerra: a lungo si scontrarono con i sovrani greci di Pergamo. Attalo I, intorno al 235 a.C., rifiutò loro il tributo in denaro pagato dai suoi predecessori. Nella battaglia di Magnesia al Sipilo, nel 190 a.C., i galati combatterono a fianco del re seleucide An­tioco III contro i romani. Dopo che ebbero vinto, nel 189 a.C. , il console Manlio Vulsone punì il re dei tolistoagi, Or­tiagono, che ambiva al dominio su tutta la Galazia, e portò via con sé presumibilmente 40 mila prigionieri. Nonostante ciò Ortiagono fece diventare re di Pergamo Eumene II. Nel 166 a.C. quest'ultimo riuscì a sconfiggerlo, ma i romani gli im­pedirono di sottomettere definitivamente i galati.

Le vittorie degli Attalidi sui galati hanno dato vita a tre monumenti, che sono dei capolavori della scultura greca. At­talo dopo la sua vittoria al fiume Caico, intorno al 235 a.C., donò alla dea Atena Niképhoros, sulla collina di Pergamo, un gruppo di statue in bronzo, il cosiddetto Grande donario, del quale si conservano solo copie in marmo. Si tratta dei «gal­li morenti»: un suonatore di tromba (noto come Calata mo­rente), che oggi si trova ai Musei Capitolini di Roma, e il Gallo che uccide la moglie e se stesso, appartenente alla col­lezione Ludovisi e ora esposto a Palazzo Altemps a Roma. Cesare, dopo la sua vittoria sui celti d'Occidente, con inten­to chiaramente evocativo aveva fatto collocare le copie mar­moree di questi capolavori nei suoi giardini, che in seguito divennero proprietà di Sallustio.

Al 160 a.C. risale il secondo monumento celebrativo del­la vittoria sui galati, il gruppo del Piccolo donario, sistemato vicino o sopra il muro meridionale dell'acropoli di Atene. Esso illustra da un lato la battaglia degli ateniesi contro le amazzoni e, in parallelo, la battaglia di Maratona, dall'altro la gigantomachia degli dèi messa a confronto con la vittoria dei pergameni sui galati. Nell'interpretazione di questo grup­po è evidente la geometria delle corrispondenze: per due vol-

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te un antefatto mitico è posto in relazione con un evento sto­rico e in entrambi i casi si tratta della vittoria della cultura sulla barbarie. Questo gruppo, che Pausania (I 25, 2) descri­ve di dimensioni inferiori a quelle naturali, è conosciuto, così come i precedenti, solo grazie a copie romane.

Ancora più importante è il grande altare di Pergamo, donato da Eumene II nel 160 a.C. agli dèi Zeus e Atena. Il fregio che corre tutt'intorno rappresenta di nuovo la lotta degli dèi contro i giganti, episodio che tutti i visitatori del­l' antichità riconobbero essere il corrispondente miti co della vittoria sui galati. Un simile parallelo potrebbe avere ispirato il gruppo di Apollo e Marsia (il cosiddetto «bianco»), pro­veniente da Pergamo: anche in questo caso si tratterebbe del­la vittoria di una divinità greca sulla hybris di un mostro asia­tico (Kay Ehling). Nella tarda antichità l'altare di Pergamo fu annoverato tra le sette meraviglie del mondo, ma questo non impedì che il monumento in epoca bizantina fosse smontato e reimpiegato in un muro di fortificazione della città che era minacciata dai turchi. Dopo averlo scoperto, l'ingegnere Cari Humann diede inizio nel 1878 allo scavo, che fu da lui stes­so diretto; quando morì, nel 1896, egli fu sepolto a Pergamo, nell 'Agorà superiore.

I lavori di scavo proseguirono, su incarico dei Musei di Berlino, con Alexander Conze e Theodor Wiegand. Secondo gli accordi con la Sublime Porta, dal 16 agosto 1879 le lastre giunsero in Germania e suscitarono grande ammirazione. L'intensità del pathos, la grandiosità del movimento non cor­rispondevano alla formula di Winckelmann della «nobile semplicità e della quieta grandezza» e condussero alla crea­zione del concetto stilisti co di «barocco ellenistico». J akob Burckhardt andò a Berlino e scrisse a Max Alioth in una l et­tera del 10 agosto 1882: «Che fregio quello di Pergamo! Ca­rico di furente veemenza e nella vera grandezza di stile che mette sottosopra buona parte della storia dell'arte!».

NOTE AL CAPITOLO TERZO

1 O. Skutsch, The Annali o/ Quintus EnniuJ, Oxford, 1 985 [N.d.C.]. 2 R. Thurneysen, Die irische Helden- und Konig.rsage bis zum sieb­

zehnten ]ahrhundert, Halle, 192 1 , pp. 150, 199.

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CAPITOLO QUARTO

L'ECONOMIA

L'economia dei galli era di livello elevato e più evoluto di quella che nello stesso periodo avevano i germani, gli ita­lici e gli etruschi. L'allevamento del bestiame interessava so­prattutto suini e bovini. Le fonti antiche mettono in rilievo dei bovini la razza di buona qualità, dei suini le dimensioni. Gli animali domestici, invece, erano molto più piccoli degli esemplari odierni delle stesse specie. Dai rinvenimenti di ossa di Manching risulta tra l'altro che il 42% erano bovini, il 32% suini. Il cinghiale (o maiale selvatico) è rappresentato così spesso nell'arte celtica che potrebbe essere anche consi­derato un simbolo nazionale - così come la quercia, di cui il cinghiale mangia i frutti. La cacciagione tuttavia è scarsa­mente rappresentata tra i reperti ossei. I generi alimentari fondamentali erano cereali e leguminose: in origine, infatti, i galli non conoscevano né l'ulivo né la vite.

Nell'agricoltura, che si è evoluta in modo differenziato, era utilizzato il sistema della rotazione, che consiste nel met­tere a coltura, per lo più di cereali, un dato terreno per diver­si anni e poi tenerlo a maggese per un periodo più lungo. In questo modo il terreno può rigenerarsi. Oltre alla concima­zione naturale nella fase del maggese, i celti conoscevano il concime artificiale ottenuto con calce e marna, che veniva anche commercializzato. La rotazione presuppone la recin­zione dei campi e questo, d'altra parte, è la naturale pre­messa per la proprietà privata della terra. Secondo Diodoro (V 34, 3 ) , esisteva la proprietà in comune della terra presso i vaccei celtiberi, che coltivavano insieme la loro terra, divi­devano il raccolto e punivano con la morte chi avesse tenu­to qualcosa per sé. Solo in seguito allo sfruttamento intensi­vo della terra si formò la proprietà privata. La tanto amata lezione del comunismo delle origini, che si basa su forme di produzione simili diffuse tra i germani, non basta natura!-

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mente a dimostrare che si trattava di una società fondata sul­l'uguaglianza, in quanto nella comunità decidevano coloro che godevano di maggior credito. La proprietà in comune in sé non è garanzia di senso civico: le discordie, infatti, erano allora all'ordine del giorno. Per evitare lo scontro venne isti­tuita la proprietà privata, e da quel momento essa è diven­tata l'oggetto preferito del contendere.

La vera forza dell'economia celtica, come anche di quel­la etrusca, risiedeva nell'industria metallurgica. I giacimenti di rame della regione di Salisburgo in certi periodi riforni­rono tutta l'Europa centrale. Ben presto in Cornovaglia ebbe inizio l'estrazione dello stagno, essenziale nella fabbricazione del bronzo. Un papiro egiziano dell'inizio del primo millen­nio a.C. contiene la parola pretan per «stagno», che potreb­be essere alla base del nome Britannia, così come Cipro è l' «isola del rame» e Creta l' «isola della creta». Il bronzo con­tinuò a essere utilizzato nella metallurgia anche nell'età del ferro perché non arrugginisce, può essere ricoperto con sot­tili lamine d'oro e, grazie alla sua malleabilità, può essere lavorato a sbalzo con il martello, per modellare ad esempio elmi, vasi decorati a rilievo (situlae) e calderoni, la più impor­tante suppellettile dei celti nella saga irlandese.

La ricchezza di oro della Gallia era notoria. Questo me­tallo prezioso si trova nella sabbia dei principali corsi d' ac­qua soprattutto nelle Alpi occidentali. Polibio (XXXIV 10, IO) parla del ritrovamento sensazionale di un filone d'oro nel territorio dei celti norici (regnum Noricum) intorno al 150 a.C. Il tesoro del tempio di Tolosa, saccheggiato dai romani nel 106 a.C., conteneva presumibilmente 5 milioni di libbre d'o­ro. Quando Cesare riversò il suo bottino di guerra sul mer­cato monetario italico, il prezzo dell'oro scese, secondo la te­stimonianza di Svetonio (Divus Iulius 54). L'argento venne estratto in Spagna dai celtiberi, ma sono stati i cartaginesi a introdurre e a sviluppare compiutamente in quell'area l'atti­vità estrattiva, quando, dopo aver perso la prima guerra pu­nica, su iniziativa della potente famiglia dei Barca estesero il loro controllo sulla penisola iberica.

Gli utensili di metallo non ferroso sono le testimonianze più importanti del senso artistico degli antichi celti. Di ma­nufatti in cuoio, legno e tessuto si sono conservati rari esem­plari. Come accade anche nell'artigianato locale di altre epo-

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che, prevale l' ornamentazione decorativa, astratta, dalle for­me geometriche. Uomini e animali non vengono riprodotti naturalisticamente, ma in modo assai stilizzato, deformati nelle proporzioni. Gli elementi sono disposti secondo un cri­terio gerarchico, non sulla base delle loro reali dimensioni. Caratteristiche sono le creature fantastiche, composte da ele­menti umani e ferini, le figure vivacemente stilizzate, spesso allineate, di forma identica o diversa. Stimoli provenienti dal sud vengono accolti e rielaborati; i risultati, anche se non ri­velano la mano di un artista specifico, esprimono tuttavia un orientamento stilistico comune. Di grande effetto sono gli og­getti in terracotta dipinta, decorati con i motivi più diversi, che risalgono al periodo di Hallstatt. Le sculture celtiche in pietra tradiscono la loro derivazione da modelli greci. Le opere scultoree sono rare: l'esempio più antico, il Principe di Hirschlanden, è del VI secolo a.C., seguito dalle statue del Glauberg, del V secolo a.C. (cfr. fig. 2) .

I l metallo più importante era il ferro, la cui lavorazione in Gallia iniziò con due secoli di ritardo rispetto all'Italia. Le spade di La Tène che furono prodotte là a partire dal VII secolo a.C. sono migliori, sotto il profilo della tecnica metallurgica, di quelle che i romani forgiavano nello stesso periodo; la parola che nel latino indica la spada, gladius (il gladiolo è un'iris dalle foglie a forma di spada), deriva pro­prio dal celtico. Come avvennero questi scambi culturali ri­sulta chiaro da notizie giunteci per caso. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis hi.rtoria (XII 5) - a quest'opera si farà sempre riferimento quando si citerà d'ora in poi un passo di Plinio -, riferisce che, intorno al 400 a.C. , soggiornò a Roma, dove era noto per la sua attività di artigiano o di fabbro (ars /abrilis) , un certo Elicone (o Helicone), del popolo celtico degli elvezi; questi al ritorno in patria portò ai suoi com­paesani fichi, uva, olio e vino a testimonianza della bella vita condotta in Italia.

Nel lago di Biel, vicino a Berna, è stata rinvenuta una spada con un marchio impresso: due stambecchi affrontati a una palma e, a caratteri greci, il nome KORiSIOS. Altre lame recano un cavaliere, l'impronta di un piede, un toro, un cin­ghiale o una maschera; si trattava di marchi di fabbrica, di proprietà o di segni apotropaici? Le famose spade dei celti narici (Noricus ensù) erano fatte di acciaio, come è clima-

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FIG. 2. 11 principe cdtico dd Glauberg, scultura in arenaria dcU'inizio dd V secolo a.C.

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strato dall 'analisi della tecnica di fabbricazione. Diodoro (XVI 94, 3 ) trovò degno di nota il fatto che l'uccisore di Filippo II, il padre di Alessandro, avesse utilizzato un pugna­le celtico per commettere il delitto.

I celti hanno introdotto nell'Europa centrale l'estrazione dei metalli. C'erano miniere in Britannia, dove la lavorazio­ne del ferro inizia solo nel VI secolo a.C., nell'Aquitania, nel­la Lorena, nel Siegerland, nel territorio dei celti norici (re­gnum Noricum) e in Boemia. Le gallerie raggiungevano fino a 100 m di profondità. In alcuni di questi siti sono state con­dotte accurate indagini archeologiche che rendono possibile la ricostruzione esatta del processo di produzione nelle sue varie fasi: è il caso di Camp d'Affrique, vicino a Nancy. Nel I secolo a.C. l'industria celtica del ferro raggiunse dimensio­ni di una certa importanza. A Manching sono stati ritrovati fino a oggi quasi duecento tipi differenti di utensili in ferro. I celti sono entrati nella mitologia germanica come fabbri fer­rai e minatori, se è vero che i Sette nani di Biancaneve ven­gono fatti risalire, attraverso il Genius Cucullatus di epoca ro­mana, al «piccolo soccorritore con mantello e cappuccio» della credenza celtica 1 • Molte parole tedesche sono prestiti dal celtico: Eisen «ferro», Glocke «campana», Briinne «co­razza» e, probabilmente, anche 0/en «forno», originaria­mente nella funzione di fornace da fusione.

La superiorità dei celti nell'artigianato emerge poi anche dal fatto che essi hanno trasmesso ai germani il tornio da va­saio, che era noto agli egiziani già dal terzo millennio a.C., e il mulino girevole. In molti settori produttivi i celti hanno rea­lizzato cose eccellenti, basta pensare alla smaltatura, alla fab­bricazione del vetro (specialmente a Bibracte) , alla lavorazio­ne del cuoio e dei tessuti, alla lavorazione al tornio e alla fab­bricazione di carri. I modelli del carro a due assi, inventato dai celti, venivano ancora usati nel XIX secolo come dili­genze. In diversi passi della sua opera Cesare parla di ponti in Gallia (I 7 ; VII 19) : anche i romani hanno imparato dai celti, come dimostra la presenza nel latino di circa duecento prestiti dal celtico, per indicare armi, carri e tessuti. Come presso la maggior parte dei popoli, anche presso i celti l'at­tività tessile era di pertinenza delle donne. Elementi caratte­ristici dell'abbigliamento celtico erano i calzoni lunghi da ca­vallo (bracae) e i mantelli a manica lunga (mantum) , che pro-

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teggevano dal freddo e dalla pioggia. Anche il latino caliga, caligula «stivale da soldato», è celtico; dai celti i romani pre­sero anche i finimenti del cavallo, ai quali aggiunsero solo dei particolari ornamentali. I romani consideravano piuttosto strana la mietitrice celtica (vallus) che era ancora in uso in età tardoantica: una grande forca con il bordo dentato mon­tata su due ruote e trainata da asini. Plinio (XVIII 72) de­scrive l'attrezzo, di cui si possono trovare raffigurazioni nei rilievi funerari di Treviri, Colonia, Coblenza c Lussemburgo.

Già nel periodo di Hallstatt l 'estrazione del sale era un importante settore di attività dei celti, che nelle profondità della terra non cercarono solo i metalli, ma anche il sale. Le gallerie di Hallstatt, scavate dagli archeologi a partire dal 1 846, raggiungono una profondità superiore ai 200 m e una lunghezza complessiva di almeno 5 .500 m. La tecnica di estrazione - specialmente sul Diirrnberg, presso Hallein sul fiume Salzach - è stata ben definita grazie alla ricerca archeo­logica: sono stati trovati tutti gli attrezzi necessari, persino dei fasci di torce. Migliaia di tombe, del VII e VI secolo a.C., testimoniano un'industria fiorente. Il nome Hallstatt signifi­ca «città del sab>, così come Hallein, Ha/le e lo svevo Hall hanno a che fare con Hall, il termine celtico per «sale». Men­tre nel territorio alpino il salgemma veniva estratto dal sot­tosuolo e quindi lavorato, i giacimenti salini di altri siti era­no sfruttati nel corso del processo di raffinazione: è il caso di Bad Nauheim nell'Assia.

Su tutto il territorio celtico era diffuso il commercio a distanza, con i paesi dell'ambra nel breve tratto e con il mon­do mediterraneo nel lungo tratto. Dalle Alpi celtiche veniva­no esportati il salgemma e il cristallo di rocca, dalla Corno­vaglia lo stagno, che arrivava in parte tramite marinai carta­ginesi attraverso il golfo di Biscaglia e in parte attraverso mercanti celti e greci sulla via fluviale Senna-Rodano in dire­zione sud. Le notizie antiche sulle favolose Isole dello stagno (le Cassiteridi), tradite da Strabonc (III 5, 1 1 ) , per fare un esempio, si riferiscono certamente alla Britannia. I celti com­merciavano inoltre mercenari e schiavi. Secondo Strabone (IV 4, 3 ) , vendevano in Italia carne salata e mantelli. Plinio (XIX 7; 13 ) celebra la bellezza degli abiti femminili di lino della Gallia, così ricercati in Italia, e anche materassi e cusci­ni, che sarebbero stati un'invenzione dei galli.

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Oltre al vino e all'olio, tra i beni importati sono da ri­cordare, perché significativi dal punto di vista artistico, le brocche a «becco d'anatra» (Schnabelkannen) e i catini in bronzo dell'Etruria, che erano legati per lo più all'uso con­viviale; poi le anfore greche e molta ceramica attica dipin­ta, rinvenuta sia in alcuni nuclei residenziali sia in numero­se tombe dell'area celtica. Le merci in arrivo venivano sca­ricate a Marsiglia e di qui trasferite. Di origine greca sono due delle tre appliques a forma di leone sul bacile in bron­zo di Hochdorf, il lebete con i grifoni di La Garenne e il corallo, rinvenuto in diversi luoghi, che secondo la creden­za celtica doveva allontanare i pericoli, come sappiamo da Plinio (XXXII 23 ). La tomba di Vix conteneva, oltre a due coppe attiche a figure nere datate al 520 a.C. circa, il cra­tere in bronzo più grande e più bello della prima età clas­sica in nostro possesso. Fu fabbricato intorno al 480 nella Magna Grecia, pesa 208,6 kg ed è alto 1 ,84 m con il co­perchio. Il bordo superiore è decorato da un fregio con una quadriga guidata da guerrieri con l'elmo; sulle anse, che hanno solo una funzione decorativa considerata la grandez­za del cratere, sono rappresentate delle teste di Medusa.

Lo splendido diadema in oro rinvenuto nella stessa tom­b_a con le figurine di Pegaso, un gioiello dell'arte greco-sci­tica, rimanda a un'influenza orientale. Ancor più a Oriente ci conducono l'incenso ritrovato sull'Achalm, vicino a Reut­lingen, gli oggetti d'avorio della tomba cosiddetta del Gra­fenbiihl, sullo Hohenasperg, e anche un singolare ritrova­mento di tessuto: nel tumulo funerario di Hohmichele, vici­no alla Heuneburg, venne ritrovata nel 193 7 della seta grezza cinese simile a quella conosciuta finora in Europa solo dagli scavi dell'Agorà di Atene. Cesare (VI 17) afferma che i celti adoravano soprattutto il dio Teutates, per i romani Mercurio, nume tutelare dei viaggi e anche dei guadagni e del com­mercio (ad quaestus pecuniae mercaturasque): era il dio dei mercanti. La parola con cui i romani indicavano il portamo­nete in cuoio, bulga, deriva dal celtico; da qui deriva anche il vocabolo budget.

Sappiamo che i celti coniarono monete a partire dal 400 a.C. circa. I tipi monetali derivano dalla monetazione greca: furono soprattutto gli stateri d'oro e i tetradrammi di Filip­po II di Macedonia a essere imitati in grande quantità. I cel-

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ti occidentali preferivano l'oro, quelli orientali l'argento. Le immagini delle monete mostrano un processo di evidente in­voluzione e imbarbarimento, come lo avrebbe definito un greco, o di crescente stilizzazione, anzi di demonizzazione, come viene interpretato dall'estetica moderna. La figura na­turalistica dell'antica rappresentazione, sul dritto una testa e sul rovescio un cavallo, una divinità o altrimenti un simbo­lo, di copia in copia arriva a sconfinare nell'ornamentale, nel­le emissioni del tipo detto «scodelline dell'arcobaleno» (Re­genbogenscbiisJelchen), dove compaiono solo punti e linee (cfr. fig. 3 ). Nell' Aremorica (Bretagna) sono state ritrovate delle monete celtiche coniate a imitazione del tipo monetale dell' Arethusa siracusana, del IV secolo a.C.: si tratta proba­bilmente di conii che provengono dalla paga dei soldati mer­cenari in servizio presso il tiranno Dionisio I (cfr. supra) e che in questo modo hanno preso la strada verso il nord.

Il passaggio verso l'economia monetaria produsse effetti positivi e negativi allo stesso tempo. Cesare racconta di dazi remunerativi che erano stati introdotti dai nobili e che era­no all'origine della loro ricchezza. Si sviluppò anche un siste­ma di credito, con tutte le conseguenze che esso comporta, e cioè dell'indebitamento e della riduzione in schiavitù di coloro che non erano in grado di pagare. Sulle monete sono rappresentate le teste di parecchi principi della Gallia, il cui nome è inciso a caratteri latini; tra questi tre uomini cono­sciuti grazie all'opera storica di Cesare: Dumnorige, Litavic­co e Vercingetorige. Con la vittoria romana finisce la mone­tazione celtica, ma la zecca più importante per il conio del­le monete, d'ora in poi romane, rimase Lugdunum (Lione).

I celti hanno cominciato a usare la scrittura seguendo il modello greco, ma l'hanno utilizzata, come hanno fatto del resto i micenei con la scrittura lineare B, solo per scopi tec­nico-pratici, non per la letteratura. Cesare (l 29; VI 14) fa riferimento a degli elenchi di cittadini in caratteri greci pres­so gli elvezi. Il contatto con i greci fu stabilito tramite Mar­siglia: laggiù i galli mandavano i loro figli a scuola nella tar­da età repubblicana e da là arrivarono oratori e medici. Mar­siglia ai tempi dei romani era una città dove si parlavano tre lingue. La diffusione della scrittura tra i celti è confermata dai ritrovamenti archeologici: iscrizioni e strumenti per scri­vere. Le epigrafi sono incise per lo più su stele funerarie: le

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FIG. 3. Monete britanniche con, a sinistra, il rispettivo m oJcllo greco.

prime attestazioni sono del 500 a.C. circa, dalla zona dei laghi della Lombardia, mentre i numerosi esempi del perio­do successivo vengono dalla regione intorno a Narbona. Dì strumenti per scrivere è rimasta traccia a Manching, per fare un esempio, dove furono trovati lapis e pentole con il nome del proprietario inciso in caratteri greci.

Sappiamo che in tempi più recenti i celti utilizzarono l'al­fabeto latino, iberico e quello dell'Etruria settentrionale. In­fluenzati dalla cultura mediterranea i celti hanno utilizzato anche anelli con sigillo. Pompeo Trogo (Giustino XLIII 4, l s.) osserva che i galli avrebbero trasformato il loro stile di vita barbaro grazie ai contatti con i greci di Marsiglia: da loro non avrebbero appreso solo la coltivazione della vite e del­l'ulivo, l'agricoltura c il senso della comunità, ma anche il modo di vivere civile. Egli apprezza il fatto che furono sol­leciti nell'obbedire alle leggi e non alle armi: legibus, non ar­mù vivere.

NOTA AL CAPITOLO <)UARTO

1 R. Egger, Der hilfreiche Kleine im Kapu1.enmantel, in (<]ahrcsheftc dcs Ostcrr. Archiiologischen lnstituts>>, 37 ( 1948), pp. 90· 1 1 1 , anche in Id., Romùche Antike und /riihe.r Chrùtentum, Klagcnfurt, 1963 , vol. Il, pp. l ss.

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CAPITOLO QUINTO

LA RELIGIONE

La religione e la mitologia dei celti hanno sempre eser­citato un fascino particolare. La tradizione ricca ma anche assai confusa ha indotto pure gli studiosi di grande levatura a speculazioni decisamente arrischiate. Queste teorie sono tanto più problematiche quanto più affascinano con la loro poesia. Ciò che non è suffragato da fonti celtiche o greco­romane ha il solo valore di ipotesi, in particolare l'interpre­tazione, spesso fantasiosa, delle sculture celtiche.

Cesare (VI 16) testimonia che i galli erano un popolo profondamente religioso. Le loro divinità venivano equipa­rate dai romani alle proprie (interpreta/io Romana) : Teutates a Mercurio, Cernunnos a Plutone, Grannus ad Apollo, Lenus a Marte ecc.; c'erano però anche divinità dal nome intradu­cibile, come la dea dei cavalli, Epona, come Rosmerta, la consorte di Mercurio, o come le tre Madri adorate soprat­tutto nella regione del Basso Reno, vicino al confine gallo­germanico. La loro raffigurazione compare su immagini voti­ve d'epoca romana nella Renania con soprannomi diversi, per lo più celtico-germanici. Simili pietre raffiguranti dee Madri si trovano anche in Provenza e in Irlanda e perciò si deve ritenere che esistesse a riguardo una mitologia di cui però non si hanno più tracce; anche nella religione greco­romana, come in quella germanica, vi sono tre divinità fem­minili, si pensi alle Gorgoni, alle Cariti, cioè alle Grazie, o anche alle tre divinità del fato, le Moire per i greci, le Par­che per i romani e le Norne per i germani. In epoca cristia­na divennero le «tre Marie», Embeda, Warbeda e Wilbeda, quelle rappresentate nel duomo di Worms.

Malgrado l'opposizione della chiesa, la memoria dei cul­ti celtici si è conservata nel tempo. A riguardo si può citare una tradizione della regione dell 'Assia: essa concerne i seggi di Frau Holle o delle donne selvagge nella valle del fiume

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Nidda, vicino al Glauberg. Qui, di fronte alla «Città dei mor­ti» di Niedermockstadt (cancellata da nuove opere edili nel 1 923-24) , che constava di almeno 120 tumuli, sulla riva op­posta, a destra del fiume, si innalza, al di sopra di un pic­colo gruppo di tumuli funerari, una collinetta situata dinan­zi al versante del monte. Fino alla metà del XIX secolo gli abitanti di tutti i paesi circostanti, dopo essersi riuniti a Blo­feld, erano soliti recarsi là il giorno dell'Ascensione per fare festa. Oltre questa collina, sull'altopiano dello Hohenberg, si trova il seggio detto di Frau Holle, uno spazio creato artifi­cialmente collocando delle pietre intorno a un sedile massic­cio in basalto lungo 3 metri e mezzo, largo 2 e alto un me­tro nel punto centrale. Si tratta evidentemente di una strut­tura creata dall'uomo che fungeva da pietra sacrificale, poiché reca sulla superficie, l'una accanto all'altra, tre sca­nalature rettangolari (e quindi artificiali) di circa 50 cm di larghezza e 24 cm di profondità 1 .

I galati veneravano in modo particolare la dea che i gre­ci chiamavano Artemide. Questa devozione ha molto in co­mune con la religione della fertilità dell'antico Oriente e del­l' Asia Minore, che trovava espressione nel variegato culto della Magna Mater. A Babilonia era chiamata Astarte, in Egitto Iside, a Efeso Artemide o Diana «dalle numerose mammelle», a noi nota dal racconto dell'apostolo Luca (1 9, 23 ss. ) . Il centro del culto di Cibele era Pessinunte, situata in una zona della Frigia dominata dai galati. La dea era ado­rata in forma aniconica, incarnata in un meteorite.

La cosmologia dei celti, come quella greco-romana, cre­deva all'eternità del mondo, che è soggetta però all'azione devastante del fuoco o dell'acqua, come testimonia Strabone (IV 4, 4 ) . L'immortalità dell'anima si riteneva che awenisse in forma di rrasmigrazione delle anime: così afferma Cesare (VI 14) , che in tal modo spiega il coraggio dei galli. Diodo­ro (V 28, 6) mette questa dottrina sullo stesso piano di quel­la di Pitagora, senza supporre però che l'una derivi dall'al­tra, e anche Valerio Massimo (Il 6, 10) trova un parallelismo tra l'opinione diffusa presso i celti e l'idea, probabilmente di Pitagora, che i debiti potessero essere ancora saldati nell 'al­dilà, cosicché non era da considerare sfortunato chi moriva con dei crediti. L'idea della prosecuzione della vita delle ani­me apud in/eros, e cioè negli Inferi, è difficilmente concilia-

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bile con quella della metempsicosi; eppure esisteva anche questa credenza, in quanto Diodoro (ibidem) tramanda che i celti avrebbero gettato sul rogo dei loro morti delle lettere scritte per i defunti nell'aldilà.

Allo stesso modo dei germani, i celti adoravano le loro divinità nei boschetti sacri, in celtico nemeton. Qui erano custoditi, oltre agli oggetti cultuali, le insegne militari, i tro­fei di guerra e inoltre i bottini e le offerte votive. Queste ulti­me venivano gettate anche nei laghi e nei fiumi sacri, dove erano venerate le divinità degli Inferi e delle acque, come ad esempio nella fontana di Duxer, vicino a Teplice nella Boe­mia settentrionale. In questo sito sono state rinvenute migliaia di anelli e di fibule (spille per gli abiti femminili) del IV seco­lo a.C. A La Tène, sul lago di Neuchatel, sono state recupe­rare 166 spade e 269 punte di lancia.

Nelle offerte sacrificali si utilizzavano oggetti d'uso, che spesso però venivano appositamente danneggiati prima: si spezzavano i collari, si demolivano i carri, si piegavano le spade. Così facendo i doni diventavano meno attraenti per i ladri e il voto era comunque esaudito. È possibile riscontra­re occasionalmente quest'usanza anche nei corredi funerari, come ad esempio nel tumulo di Hochdorf. I tesori dei celti suscitavano per la loro ricchezza lo stupore di greci e roma­ni. Posidonio ad esempio (Diodoro V 25 ss., partic. 27) si meravigliò per l'abbondanza d'oro, mentre altre fonti evi­denziano piuttosto l'aspetto inquietante delle loro pratiche cultuali: negli scolii a Lucano (I, 445 ) si precisa che le vitti­me per Teutates venivano annegate in calderoni d'acqua e lo stesso poeta (III, 399) parla di un boschetto sacro vicino a Marsiglia dove i rozzi simulacri divini in legno e gli altari sa­crificali, ma anche i tronchi degli alberi tutt'intorno, avvolti da un'orrenda oscurità, grondavano del sangue delle vittime umane; i serpenti vi pullulavano ed era così terrificante che nessun uccello, nessun alito di vento o lampo vi si avventu­rava. I soldati di Cesare, che dovevano andare là a fare le­gna, si sarebbero spaventati a tal punto, all'idea di abbatte­re gli alberi di quel bosco, da attendere che lo stesso impe­ratore impugnasse la scure.

Gli spazi per il culto dell'epoca di Hallstatt hanno la for­ma di luoghi per i sacrifici e solo dal III secolo a.C. inizia uno sviluppo architettonico vero e proprio. Ne abbiamo un

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fiG. 4. Tempio gallo-romano di Autun. Ricostruzione.

esempio nella struttura templare gallo-romana che è ben documentata in Gallia e Britannia: una costruzione quadra­ta in legno, con copertura piramidale, circondata da un por­tico (cfr. fig. 4) e situata in un boschetto sacro. Gli edifici in pietra che si sono conservati, ad esempio il tempio detto «di Giano» di Augustodunum (Autun) , che fu costruito in mat­toni, risalgono all'età romana. Per le assemblee di culto o politiche venivano utilizzati anche dei «recinti quadrangola­ri», frequenti nella Germania meridionale, che inizialmente si pensava fossero resti di fortificazioni romane c che invece al loro interno non contenevano reperti all'infuori di una fos­sa sacrificale o di una fonte (cfr. fig. 5 ) . Secondo la testimo­nianza di Posidonio (Ateneo 152 D), i celti tenevano i loro conviti in «luoghi recintati quadrangolari dell'ampiezza di dodici stadi ( 1 .500 passi)»; queste riunioni erano allo stesso tempo banchetti cultuali. Ricerche più recenti hanno indot­to a ipotizzare, invece, che la maggior parte di questi recin­ti fossero fattorie, aedificia privata (Cesare I 5 , 2 ) .

Le raffigurazioni delle divinità venivano realizzate in leg­no; erano inconsuete presso i celti, così come lo erano anche presso i germani, le immagini divine in pietra o in metallo. Possediamo perciò un numero esiguo di sculture che posso­no essere prese in considerazione. L'immagine itifallica di Hirschlanden, oggi a Stoccarda, era la rappresentazione di un defunto. Allo stesso modo la statua del guerriero, rinve­nuta nel 1996 sul Glauberg, rappresenta un principe, come indicano il luogo del ritrovamento, un tumulo sepolcrale, e

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il collare di forma insolita, che è la riproduzione in pietra di un originale realizzato in oro e posto nella tomba (cfr. supra fig. 2) . Le rappresentazioni iconografiche delle divinità celti­che non sono più antiche dell'età romana e si ispirano in modo sempre più evidente allo stile dell'arte imperiale. Ti­picamente celtiche sono le colonne di Giove e dei Giganti,

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sorrette da basamenti in pietra con le raffigurazioni di tre di­vinità (Vittoria, Mercurio e Marte): alcune di queste si sono conservate, altre invece si conoscono attraverso le biografie dei missionari che hanno operato in Gallia in epoca tardo­antica e che hanno abbattuto questi idoli. La religione celti­ca risulta ben radicata nel territorio in epoca cristiana e lo rimase certamente fino al V secolo d.C.

La rappresentazione più significativa dello spirito reli­gioso pagano che animava le popolazioni celtiche è l' enig­matico calderone di Gundestrup, manufatto in argento con­servato nel Museo Nazionale di Copenaghen (cfr. fig. 6). Il bacile, largo 69 cm e alto 42, venne ritrovato, con le piastre smontate, nel 1891 nella «Palude della volpe», nei pressi di Gundestrup in Danimarca, ed era dunque parte del bottino di guerra che i germani si presume avessero offerto alle divi­nità degli Inferi dopo una vittoria sui celti, così come ave­vano fatto con le spoglie e molti altri ritrovamenti della palu­de. Le placche, che in antico erano dorate, mostrano il dio con le corna di cervo Cernunnos, la cui identificazione è sta­ta possibile in seguito al rinvenimento di un altare romano, corredato da iscrizione, sotto il coro di Notre Dame a Pari­gi; compaiono inoltre divinità con anelli a spirale, creature fiabesche, animali, tra cui elefanti dai caratteri grotteschi, e figure di evidente influenza mediterranea, come l'uomo a cavallo di un delfino e l'uccisione di un toro che richiama Mitra. I motivi sono collocati uno di fianco all'altro senza un chiaro rapporto tra loro, in modo analogo alle raffigurazioni sulla ceramica in terra sigillata della Gallia dell'inizio del periodo imperiale. Con ogni probabilità il calderone di Gun­destrup proviene dall'area orientale della cultura celtica, dal­la zona della Tracia. La datazione oscilla tra il 200 a.C. e il 100 d.C.

Mentre i greci, i romani e i germani non avevano un'au­torità sacerdotale vera e propria, in quanto tale funzione era rivestita piuttosto da laici, presso i celti esisteva un ceto sa­cerdotale a sé stante: i druidi. Il nome appartiene alla mede­sima famiglia della parola greca drys, «quercia», e significa quindi «sacerdoti della quercia)). Secondo Plinio (XVI 249 ss. ) , consideravano sacra la quercia insieme al vischio che vi cresceva sopra e che il druida in abito bianco tagliava con una roncola d'oro (jalx designa tutte le lame ricurve) nel sesto

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FIG. 6. n calderone di Gundestrup, manufatto in argento. Museo Nazionale di Copenaghen.

giorno di luna nuova, per preparare con esso una bevanda che propiziava la salute e la fertilità. Capita assai di rado che il vischio cresca sulle querce e proprio per questa rarità (e non perché il vischio sia di per sé raro) era considerato sacro.

I druidi costituivano, insieme ai cavalieri, la nobiltà gal­lica. Erano esonerati, secondo Cesare (VI 14, 1 ) , dai tributi e dal servizio militare; solo nel mito gaelico compaiono an­che come guerrieri. Chi voleva diventare un druida, scrive Cesare, doveva studiare vent'anni: un gran numero di versi, le dottrine sull'anima, da insegnare ai giovani, gli astri, la ter­ra, la natura e gli dèi. I druidi si esprimevano attraverso in­dovinelli o immagini parlando del mondo e della storia, del diritto e dei costumi. Cesare sottolinea che questi precetti dovevano essere trasmessi solo oralmente. Considerato che i celti conoscevano e utilizzavano le lettere dell'alfabeto, è evi­dente che il rifiuto della scrittura in quest'ambito servisse proprio a impedire che il mito fosse profanato e a fare sì che il potere e il prestigio del ceto sacerdotale fossero salvaguar­dati. Nel III secolo d.C. un erudito irlandese inventò la scrit­tura detta agamica, un sistema di segni derivato dall'alfabe­to latino, utilizzato per lo più nelle iscrizioni su stele fune­rarie o cippi di confine, e più spesso nei testi bilingui. Non si trattava dunque di una scrittura segreta.

Nell'anno 61 a.C. giunse a Roma, con un mandato di carattere politico, Diviziaco, della tribù degli edui, e venne

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ospitato dal ben noto Cicerone (De divinatione I 90) . Que­sto druida si dice conoscesse la scienza della natura: predi­ceva infatti il futuro dal volo degli uccelli. L'arte divinatoria, quindi, per i galli, così come per gli etruschi e i romani, si basava sull'osservazione degli uccelli (auguria). Alcuni auto­ri distinguono i veggenti (vates) dai sacerdoti. Probabilmen­te la parola latina vates è un prestito dal celtico. La notizia che si incontra in Solino (22 , 7 ) , un appassionato di curio­sità del III secolo d.C., secondo cui i siluri del Galles erano particolarmente capaci nell'arte divinatoria, potrebbe riferir­si ai druidi; da Plinio (XXX 13 ) , infatti, questi vengono defi­niti vati e medici. Il calendario lunare di Coligny dimostra che anche il computo del tempo dipendeva dai druidi. Que­sta lastra di bronzo, che nel 1897 fu ritrovata, scomposta in 150 frammenti, da un commerciante romano di metallo anti­co, è il più ampio brano di scrittura del celtico antico che si sia conservato. U calendario risale alla fine del II secolo d.C. ed ebbe certamente una funzione rituale, come altri testi simili del periodo precedente.

Oltre alle funzioni religiose i druidi assolvevano anche compiti di carattere politico e giuridico. Secondo Cesare (VII 3 3 , 3 ) spettava a loro nominare, nel caso in cui le sedi del potere fossero vacanti, il magistrato supremo, mentre in circostanze normali esercitavano la funzione di giudici. In tutte le cause giudiziarie, pubbliche e private, i druidi ave­vano potere decisionale: nei giudizi su crimini e omicidi, su controversie .tra eredi e di confine. Stabilivano le pene da comminare e, a chi non si sottometteva alle loro sentenze, interdicevano la partecipazione ai sacri riti della comunità. L'esclusione viene considerata da Cesare la condanna più pesante, perché aveva come conseguenza la privazione di tut­ti i diritti. Strabone (IV 4, 4) enfatizza il senso di giustizia dei druidi mentre Dione Crisostomo (DiJcorsi 49, 8) afferma che i re non potevano intraprendere o decidere nulla senza il consiglio dei druidi, così da indurre a credere che per la verità fossero proprio questi, di fatto, a regnare. I druidi ven­nero messi al bando sia dall'imperatore Tiberio ( 14-37 d.C.) sia da Claudio (4 1 -54 d.C.) per ragioni politiche e umanita­rie (cfr. infra). Ciò nonostante essi giocarono un ruolo non secondario nella ribellione di Giulio Civile, nel 69/70 d.C., e predissero il declino di Roma. Non è certo che alla fine del

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III secolo d.C. Aureliano e Diocleziano li avessero consulta­ti, come raccontano gli Scriptores Historiae Augustae, soprat­tutto perché in quel caso si fa riferimento a una druida, sul­la scorta delle veggenti germaniche. I druidi donne esiste­vano, secondo Solino (22 , 7 ) presso i siluri del Galles, e comunque compaiono, col nome di bandrui, nelle leggende dei santi irlandesi, nelle vesti di tentatrici dai poteri magici. Il personaggio di Kundry, nel Pam/al wagneriano, si rifà pre­sumibilmente a queste figure femminili.

Il carattere tutto gallico della religione druidica si rivela nelle sue istituzioni fondamentali. Una volta all'anno i sacer­doti si riunivano, come riporta Cesare (VI 13 ), in un luogo sacro nel territorio dei carnuti, nel cuore della Gallia. Si trat­ta presumibilmente di Autricum (Chartres) , che prendeva il nome da questo popolo. Lo spazio del culto si trovava con ogni probabilità sotto la cattedrale. Qui venivano tutti colo­ro che erano divisi da controversie e i druidi le appianava­no. Anche i galati in Asia Minore avevano un luogo di cul­to simile: era il sacro «boschetto di querce» Drunemeton dci tettosagi, dove il consiglio dei trecento giudicava i reati di sangue. I celti dell'isola di Mona (Anglescy) avevano un'isti­tuzione del tutto simile a questa. I riti raccapriccianti in uso presso questi popoli vengono descritti da Tacito (Annales XIV 30) e specialmente da Cassio Dione (LXII 7 ) a propo­sito della conquista romana della Britannia nel 61 d.C. I luo­ghi considerati sacri dai celti di tutte le tribù ricordano le anfizionic, che si ritrovano, sia pure in forme differenti, nel­le diverse culture dei popoli antichi. Le tribù di Israele ono­ravano l'arca dell'alleanza a Silo; i greci, che hanno coniato l'espressione an/izionia Oett. «i circonvicini») , s'incontravano a Delfi e a Olimpia per i giochi festivi; gli etruschi si riuni­vano regolarmente presso il tempio di Voltumna a Volsinii. Le tribù germaniche festeggiavano nei boschi sacri la dea Nerthus, quelle slave Radigast.

Le singole usanze ebbero una grande influenza: la festa di primavera celebrata il l" maggio (Beltane) è già presente nella saga gaelica. La sua storia risale, ben oltre il nome del­la santa del giorno, Valpurga (t 779) , all'epoca pagana, come conferma la credenza popolare nelle streghe, che era già in precedenza connessa a quella notte. La festa però presuppo­ne l'utilizzazione del calendario romano, diffuso già in epo-

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ca precnsuana anche presso i germani, come ci ricordano, d'altra parte, i nomi dei giorni della settimana.

I druidi della Gallia avevano un loro capo, una specie di ponti/ex maximus, designato a vita. Alla sua morte spesso si accendevano liti per la designazione del successore, discor­die che non di rado venivano appianate ricorrendo alle armi. Il titolo di quest'autorità sacerdotale era presumibilmente quello di gutuater, cioè «profeta». Conosciamo questa figura dalla rivolta dei carnuti contro Cesare (VIII 38) , il quale equivocando lo intese come un nome proprio, e inoltre da iscrizioni della prima età imperiale, quando rivestivano que­sta carica i galli che avevano la cittadinanza romana.

I druidi erano preposti ai sacrifici di animali, prassi ri­tuale assai diffusa nell'antichità, ma soprattutto ai sacrifici umani, variamente attestati tra i galli. Essi credevano, come sostiene Cesare (VI 16), che gli dèi dessero la vita solo in cambio di un'altra e che perciò richiedessero dei sacrifici umani. Si trattava preferibilmente di delinquenti e di prigio­nieri, ma in caso di necessità si sacrificavano anche degli in­nocenti. La notizia, riportata da Cesare, di enormi simulacri divini realizzati con rami di salice, che venivano riempiti di uomini e poi dati alle fiamme, non è certo da considerare un messaggio della propaganda dell'orrore di parte romana. Diodoro (V 32, 6) conferma che le vittime venivano impala­te o messe in croce e date alle fiamme su grandi roghi a cen­tinaia, come in un'ecatombe, per usare le parole di Strabo­ne (III 3 , 7 ) . I sacrifici umani erano legati , secondo Diodo­ro (V 3 1 ss. ) , all'arte divinatoria e, presumibilmente, anche al cannibalismo sacro. Anche tra i galati Pompeo Trogo (Giustino XXVI 2, 2 ss. ) riferisce di una simile prassi ritua­le: per garantirsi il favore degli dèi, prima della battaglia sa­crificavano donne e bambini; per ringraziarli offrivano loro, dopo la vittoria, i prigionieri, come si legge in Diodoro (XXXI 13 ) e Ateneo ( 160 E). Cicerone invece (Pro Fonteio 3 1 ) stigmatizza con orrore i sacrifici umani in Gallia.

L'evidenza archeologica ha confermato la diffusione di queste usanze sacrificali presso i celti: delle ossa umane sono state ritrovate nelle fosse sacrificali dei «recinti quadrangola­ri». A Ribemont-sur-Ancre, nella circoscrizione della Somme, è stata scavata un'area di culto dell'estensione di 150 m per 180 m che risale alla fine del III secolo a.C.: qui sono stati

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scoperti gli scheletri di circa un migliaio di giovani sacrifica­ti, tra i quindici e i vent'anni, disposti con cura a strati. Le teste umane mozzate (tetes coupées) erano degli ambiti trofei di guerra. Si adornavano con essi non solo i templi, ma anche il collo dei cavalli, le porte della città e delle case, proprio come oggi i cacciatori appendono le teste dei cervi e dei cin­ghiali abbattuti. Quelle dei nemici più temibili, racconta Posidonio, venivano conservate per generazioni, imbalsama­te con olio di cedro e riposte in una cassa per essere esibite agli ospiti di particolare riguardo. L'autore (Diodoro V 29, 5) trovava questa usanza disgustosa: è da bestie, infatti, con­tinuare a infierire contro i morti. Questi trofei per loro non avevano prezzo.

I ritrovamenti archeologici documentano anche l'usanza della caccia alle teste: ad esempio a Roquepertuse (cfr. fig. 7 ) , a Entremont (Provenza) e a Manching. Laggiù sono sta­ti ritrovati fino a oggi 56 teschi nel corso degli scavi condotti nelle antiche aree d'insediamento. Le teste delle vittime di Ribemont erano separate perché riservate a un uso partico­lare. Scheletri privi del cranio sono stati ritrovati anche a Mont Troté nelle Ardenne. La caccia alle teste è presente anche nel mito gaelico. In alternativa si raccoglieva come tro­feo di guerra la punta della lingua dei nemici, proprio come gli irochesi miravano allo scalpo o come fece David, che con­segnò al re Saul i prepuzi di duecento filistei uccisi per otte­nere in sposa la figlia Mikal ( l Samuele 18, 27).

Quello delle teste umane è un motivo ricorrente nell' ar­te celtica: in pietra o d'oro, scolpite o a rilievo, a sé stanti o in composizioni piramidali; con gli occhi chiusi, appesi o senza bocca, si tratta comunque di teschi di defunti. Nel Museo di Brescia ci sono delle decorazioni di guerrieri in argento (phalerae) con 9 e 20 teste. Le monete con la legen­da DUBNOREIX, il capo degli edui eliminato da Cesare, reca­no la raffigurazione di un guerriero che in una mano tiene una tromba di guerra, nell'altra una testa mozzata. I roma­ni, che conobbero queste pratiche rituali solo sporadica­mente, vietarono sia ai cartaginesi sia ai celti i sacrifici uma­ni, soprattutto dopo che a Roma, a partire dal 97 a.C., furo­no proibiti per delibera del senato. In Britannia tale costume ebbe maggiore durata: «Fino a oggi», scrive Plinio il Vecchio (XXX 13 ) , morto durante l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

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FtG. 7. Pilastro con teschio di Roque­pcrtusc.

Il sacrificio umano era usanza di quasi tutti i popoli più anti­chi, ma scomparve nel corso dell'evoluzione delle civiltà. La coscienza collettiva si oppose sempre di più a questi riti. I racconti di sacrifici non compiuti, ad esempio quelli di !sac­co e di Ifigenia per mano di Abramo e di Agamennone, offrono una spiegazione in chiave mitica dell'abolizione di quest'usanza: sono proprio gli dèi a vietarlo. Gli ultimi sacri­fici umani sono quelli dei pagani svedesi a Uppsala di cui parla Adamo di Brema nell'XI secolo.

NOTA AL CAPITOLO QUINTO

1 K. Demandt, Geschichte des Landes He.uen, Kasscl, 1972, p. 88.

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CAPITOLO SESTO

LA SOCIETÀ

La descrizione del celta tipico è simile a quella del tipo germanico. Secondo Ammiano Marcellino (XV 12, 1 ) , gli uomini sarebbero alti, di carnagione chiara e biondi di capel­li (candidi, rutili), dallo sguardo torvo, rissosi e irruenti. !si­doro di Siviglia (Etymologiae XIV 4, 25) fa derivare il nome Gallia dalla parola greca gala, che significa «latte», perché i suoi abitanti avrebbero avuto una pelle bianca come il latte: infatti il sole con i suoi caldi raggi che rendono la pelle più scura avrebbe avuto difficoltà nel superare i Pirenei e le Alpi. I celti si facevano crescere i baffi, si ungevano di grasso i lun­ghi capelli, così da avere l'aspetto «di sa tiri», e li coloravano di rosso. Il prodotto che utilizzavano allo scopo era chiama­to sapo, da cui deriva la parola «sapone». L'uso di tingersi i capelli, attestato nella letteratura, è suffragato dall'evidenza archeologica di carattere funerario della Britannia. L'abitudi­ne di dipingersi prima di andare a combattere o di tatuarsi è documentata tra i siluri e i pitti dell'isola (secondo l' eti­mologia popolare latina il nome di questi ultimi sarebbe deri­vato da pingo «dipingere»).

L'organizzazione della società celtica è simile a quella del­le altre civiltà antiche: una struttura composta in verticale da famiglie e dai gruppi del loro seguito e suddivisa in tre par­ti sovrapposte l'una all'altra, la nobiltà, il popolo e gli schia­vi. La famiglia era improntata a un rigido patriarcato, secon­do un'usanza diffusa tra i popoli antichi: gli uomini avevano pieno potere di vita c di morte su donne e bambini, vitae necz!;que potestatem, come testimonia Cesare (VI 19). Quan­do un uomo di un illustre casato moriva e c'era il sospetto che fosse stato ucciso, le mogli potevano essere torturate allo stesso modo degli schiavi. Cesare scrive anche che nel recen­te passato sarebbe stato normale bruciare sul rogo del signo­re gli schiavi e i clienti che questi avesse avuto particolar-

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mente a cuore. Dalle tombe rinvenute, ad esempio da quel­la di Hohmichele, vicino alla Heuneburg, e dal tumulo di Hochdorf, sappiamo che i defunti di alto rango erano sepol­ti insieme ad altri uomini che venivano sacrificati in loro ono­re e che talvolta persino le mogli dovevano morire con loro.

Presso i celti, come nel resto dell 'Europa, era piuttosto comune il matrimonio monogamico; si ha notizia di matri­moni poligamici solo tra i nobili, che qualche volta per ragio­ni politiche si sposavano con donne o uomini di altre tribù. La donna che si sposava aveva come garanzia il fatto che il marito doveva investire insieme a lei una quota del capitale pari alla dote; vale a dire, in altre parole, che il marito dove­va dare in affitto delle proprietà terriere, che poi spettavano al coniuge che sopravviveva all'altro. Strabone (IV 4, 3 ) e Livio (XXXVIII 16, 13 ) sottolineano con toni elogiativi che le donne dei galli avevano molti figli e Giustino (XXV 2 , 8) conferma che era così anche per i galati. Un discorso . simile fa Tacito sui germani a lui contemporanei (Germania 19) rivelando in questo un giudizio critico nei confronti della società romana corrotta.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la po­sizione della donna nella società celtica è diversa da quella delle società coeve romana e greca. Da un lato usava anco­ra uccidere le vedove sulle tombe dei mariti, sacrificare del­le donne alla divinità della vittoria, Andate, nella maniera più brutale che si conosca nell'ambito della ritualità sacrificale antica, tanto che tralascio di riferire il racconto che di que­ste cerimonie ci ha tramandato Cassio Diane (LXII 7) . Dal­l' altro lato, tuttavia, nonostante nelle case vi fosse un' orga­nizzazione patriarcale, le donne godevano di privilegi sotto tre aspetti. In primo luogo le donne, che fossero figlie o ve­dove di principi, potevano succedere al potere, come dimo­strano sia le testimonianze storiche sia quelle del mito. Le splendide tombe femminili dell'epoca di Hallstatt, come ad esempio quella di Waldalgesheim , lo confermano anche dal punto di vista archeologico. La tomba a carro di Vix appar­tiene presumibilmente a una principessa, nonostante il cor­redo insolito per una donna. Le tombe femminili general­mente hanno allestimenti più preziosi di quelle maschili.

In secondo luogo risulta che esisteva, soprattutto presso i celti delle isole, una successione in linea femminile; questo

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è dimostrato dal fatto che talora davano ai figli il nome non del padre ma della madre. Abbiamo riscontri di quest'usan­za nell'Irlanda medievale. Nel medesimo contesto si colloca la tendenza a far discendere una famiglia da un antenato di sesso femminile invece che maschile, come testimonia la leg­genda, codificata nel XIV secolo, della bella Melusina, dal­la quale discendevano i conti di Poitiers. L'indicazione del­la parentela in linea materna è interpretata come un'eredità preceltica, come la ginecocrazia (gynaikokratfa) dei cantabri nella Spagna celtica. Il gruppo matriarcale in Irlanda si chiama clan e questa espressione in lingua goidelica è stata mutuata dalla etnologia più recente come concetto base. L'informazione che ci dà Cassio Dione (LXII 6, 3) che i bri­tanni avevano in comune uomini, donne e bambini, mesco­la l'idea della condizione di maggiore libertà della donna cel­tica con quella del «buon selvaggio» derivata dalla conce­zione dello stato ideale di Platone. Strabone (III 3 , 7) riporta di una stirpe celtica presso la quale uomini e donne danza­no insieme tenendosi per mano, consuetudine piuttosto inso­lita presso i popoli mediterranei; il geografo si meraviglia del fatto che la condizione della donna «è all'opposto che da noi» (IV 4 , 3 ) .

È un'antica usanza celtica, come racconta Cesare ( l 18) , che i principi sposino delle donne della loro stessa famiglia per interessi dinastici; è ugualmente attestata, però, una cer­ta libertà per le donne nella scelta del consorte. Pare infatti che nell'entroterra di Marsiglia ci fosse l'usanza, per il prin­cipe che volesse dare in moglie la propria figlia, di invitare i pretendenti a una festa durante la quale la fanciulla porgeva al giovane da lei prescelto un vaso pieno d'acqua.

Al principio della libertà nella scelta del consorte corri­sponde la disinvoltura con cui le donne concedevano i loro favori senza la riservatezza che in questi casi era richiesta sia in Grecia sia a Roma. Diodoro (V 32, 7) osserva con un cer­to stupore che talvolta un uomo non era in grado di respin­gere tali profferte. Cassio Dione (LXXVI 16, 5) mette in luce la disponibilità delle donne celtiche nelle questioni d'amore raccontando di una principessa caledonica al cospetto del­l 'imperatrice Giulia Domna nel 2 10 d.C. circa. Che la don­na potesse disporre liberamente del proprio corpo, anche dopo il matrimonio, è confermato dalle leggende gaeliche del

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medioevo, nelle quali principesse sposate offrivano con disin­voltura agli uomini, in cambio di determinati servizi, il «pia­cere del loro corpo», senza che il narratore trovasse questo comportamento sconveniente. I problemi di riconoscimento della paternità determinati da simili costumi sono all'origine dell'usanza che ci tramanda un epigramma tardogreco del­I'Anthologia Graeca (IX 125) : il padre poneva il neonato nel suo scudo e lo faceva galleggiare sulle acque del Reno. Se il piccolo affogava, non era figlio suo.

Per completare la rappresentazione del mondo femmini­le, bisogna ricordare che alle donne celtiche qualche volta veniva attribuito un comportamento degno delle amazzoni, o meglio delle valchirie. Diodoro (V 32, 2) mette le donne dei celti al pari degli uomini per quanto riguarda coraggio e forza. Ammiano Marcellino (XV 12, l ) racconta che le don­ne dei galli erano solite picchiare i loro mariti. Nessun uomo, a calci e a pugni, teneva testa alle gigantesche donne dei cel­ti dagli occhi azzurri. In caso di necessità le donne prende­vano parte alla battaglia, come facevano anche le donne dei germani. Nel mito irlandese le donne che combattono sono frequenti come, d'altra parte, lo sono anche le donne che bevono. Esse partecipavano ai banchetti, come lascia presu­mere il servizio da simposio rinvenuto nella tomba della prin­cipessa di Vix. Medb, il nome dell'eroina della leggenda nazionale irlandese (cfr. in/ra), significa «l'ubriaca di Met». Il fatto poi che gli uomini celti portassero dei gioielli rende ancora più sfumata la distinzione dei sessi, che è così rigi­damente marcata nelle società antiche.

La notizia tramandata da Plutarco (Opere morali 246 C), secondo cui le donne godevano di diritti politici, è un caso unico nel mondo antico. Sembra che in Gallia avessero la facoltà di prendere la parola nelle controversie con gli alleati, persino nel deliberare riguardo alla guerra e alla pace. Le don­ne avrebbero ottenuto tale diritto perché prima della migra­zione in Italia esse avrebbero impedito un'imminente guerra civile. Nel trattato con Annibale sarebbe stato stabilito espli­citamente che, in caso di rimostranze dei cartaginesi contro i celti, sarebbero state le donne di questi a giudicare. Le don­ne dei celti sono defmite belle e Cesare comunque le apprez­zava, come annota Svetonio (Divus lulius 5 1 ) . Ciò nonostan­te gli uomini praticavano la pederastia, come riferisce Diodo-

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ro (V 32, 7), che era proibita da romani, cartaginesi e ger­mani; secondo gli autori antichi i celti l'avevano appresa dai greci, come avevano fatto i persiani (Erodoto I 135) .

Si narra di imprese valorose compiute da due principes­se galate. Polibio tramanda che Chiomara, la consorte del re dei galati Ortiagono (cfr. mpra), sconfitto nel 189 a.C., sareb­be stata fatta prigioniera dai romani e violentata da un cen­turione. In seguito costui le avrebbe promesso di liberarla in segreto in cambio di un'ingente somma. Di notte, al momen­to della consegna del denaro, la donna sarebbe riuscita a uccidere il romano e a ritornare con la sua testa dal marito, che era fuggito. Altrettanto eroica, per quanto tragica, è la storia di Camma, raccontata da Plutarco (Opere morali 257 F). Per amore di lei il tetrarca Sinorige uccise suo marito, il tetrarca Sinato. Dopo lungo esitare Camma cedette allo stra­niero, lo invitò nel tempio di Artemide, di cui lei era sacer­dotessa, e gli offrì una bevanda consacrata che era avvelena­ta, dopo averla assaggiata lei stessa. Sacrificò la sua vita per uccidere il pretendente che le aveva assassinato il marito.

Il quadro delineato da Cesare delle condizioni sociali dei galli è caratterizzato dalla divisione tra la nobiltà (nobiles, se­natus, potentiores, boni, principes) e il popolo (populus, plebs) . La nobiltà guerriera risulta essere un ceto di proprietari ter­rieri che si contraddistingue per origini, ricchezza e una mol­titudine di servi. Cesare (Il 28) riferisce che tra i nervi del Belgio il rapporto numerico tra nobili (senatore.\-) e uomini in grado di combattere era di 600 contro 60 mila. Nella guerra contro i romani gli aristocratici assumono nell'esercito il ruo­lo di cavalieri, per questo motivo Cesare li chiama equites. La cavalleria però non era affatto costituita esclusivamente da nobili, perché gli edui, ad esempio, furono in grado di schie­rare contro Cesare 4 mila cavalieri. In battaglia la nobiltà su­biva in proporzione perdite superiori alla media: quasi tutti i nobili dei nervi caddero in battaglia contro Cesare (II 28). Cesare riteneva inconcepibile (VIII 22) che un singolo alla testa del popolo potesse condurre una guerra senza il con­senso della nobiltà.

Una parte del popolo libero era suddivisa in cerchie di clienti dei nobili, come era anche tra i germani. Così recita Polibio (II 17, 12) : «i celti tenevano in grande considerazio­ne le consorterie (hetairéiai) , perché era assai onorato e

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temuto chi poteva riunire intorno a sé il maggior numero di vassalli e clienti». Testimonianze archeologiche confermano quest'usanza: è il caso delle abitazioni ai margini di un oppi­dum o delle sepolture secondarie nei tumuli funerari dei principi. In quello del Magdafenenberg, vicino a Villingen, furono trovate 126 inumazioni di epoca tarda, anche se ori­ginariamente erano molte di più. L'espressione che in celti­co indica l'uomo del seguito di un nobile è ambactus, vale a dire colui che «sta intorno a qualcuno». Dal celtico ambac­tus deriva il termine tedesco Amt «carica». Cesare traduce ambactus con cliens «subordinatm). Sempre di origine celti­ca è il vocabolo del tardo latino van-us «seguace)), che è alla base del concetto di vassallaggio, come anche la parola felo­nia, che definisce l'infedeltà del vassallo rispetto al feudata­rio. Il rapporto tra il signore e l'uomo del suo seguito si basa­va su un impegno reciproco: il signore doveva fare una rega­lia a colui che si metteva al suo servizio; Strabone (IV 2, 3 ) racconta che alcuni principi celti distribuivano monete d'o­ro e d'argento dai loro carri in movimento.

Come per i greci di epoca arcaica e i germani, anche per i celti il banchetto è uno dei momenti fondamentali della vita di società. Sempre Strabone (ibidem) dice che i signori poten­ti offrivano banchetti pubblici che duravano parecchi giorni. Diverse testimonianze confermano la passione dei celti per il simposio, che ricorda ancora una volta i germani. Ateneo ( 150 D) riferisce che una volta un ricco galata avrebbe offerto ospi­talità ai membri della sua tribù per un anno intero. I celti durante il pasto non erano abituati a sdraiarsi, ma a sedersi su dei sedili tutt'intorno alle pareti, come riporta Strabone (III 3 , 7) , oppure - come si legge successivamente nella leg­genda del re Artù - intorno a dei tavoli rotondi. Quest'abi­tudine non è affatto l'espressione simbolica di un'uguaglian­za democratica, in quanto il tavolo aveva la forma di un anel­lo aperto e nel mezzo, di fronte all'apertura dalla quale veniva servito in tavola l'arrosto di cinghiale, sedeva, «come un diret­tore di coro)), l'uomo più stimato e potente per valore guer­riero, origini o ricchezza; l'ospite d'onore era al suo fianco e gli altri erano disposti in ordine di rango, secondo quanto riferisce Ateneo ( 152 B).

Si beveva vino greco o idromele preparato in casa. Resi­dui di miele sono stati scoperti in molti vasi dei corredi fune-

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rari. Inoltre l'imperatore Giuliano, che rimase in Gallia dal 355 al 361 d.C., derideva la consuetudine di bere birra, come ricorda un epigramma. Il suo storiografo Ammiano Marcel­lino (XV 12, 4) racconta che i galli bevevano molto, ma che erano anche lavoratori instancabili e attenti all'igiene perso­nale. Ammiano era rimasto impressionato dai discorsi borio­si dei galli, che facilmente degeneravano in risse. Alcuni cel­ti, come si legge in Ateneo (252 D) , avevano dei giullari come intrattenitori sul tipo dei parassiti greci. L'ospitalità celtica era famosa: si tramanda che chi uccideva uno straniero veni­va giustiziato, mentre chi ammazzava uno del luogo veniva mandato in esilio. Posidonio (Ateneo 154 C) ci riferisce di un costume singolare del simposio: il signore divide il dena­ro e il vino con quelli del suo seguito, si sdraia sul suo scu­do e si fa poi tagliare la gola. Con questo gesto egli voleva obbligarli a servirlo dopo la morte, nell'aldilà.

La pratica del simposio è documentata dal punto di vista archeologico dai reperti dei corredi funerari. Mentre il ser­vizio di coppe più prezioso che si è conservato, quello della tomba di Vix, è di fattura greca (cfr. supra), quello di Hoch­dorf ha caratteristiche autenticamente celtiche. Sono stati ritrovati nove corni potori: uno in ferro, della lunghezza di 123 cm e della capacità di 5 ,5 litri, otto guaine di corno di uro a forma di S, tutte decorate con lamine d'oro sull'im­boccatura. Dato che l'ultimo uro in Europa si è estinto in un giardino zoologico polacco nel 1627 , l'identificazione dei corni è stata difficile. La loro lunghezza varia da 65 a 80 cm ed erano appesi alla parete della camera funeraria. Un cal­derone greco di bronzo, alto 80 cm e largo 104 cm, della capacità di 500 litri, alla chiusura della tomba era per tre quarti pieno di idromele, per ottenere il quale erano stati uti­lizzati 150 kg di miele preparato alla fine dell'estate, come risulta dall'analisi dei pollini. Il calderone - la sua denomi­nazione celtica è bascauda, da cui deriva l'inglese basket - è ricavato da un unico pezzo di metallo e porta sulla spalla tre protomi che raffigurano dei leoni distesi della lunghezza di 34 cm. Due di questi vennero realizzati in un'officina greca dell'Italia meridionale nel 540 a.C. circa - e uno è stato fuso con piombo proveniente dal La urio, nell'Attica -, mentre il terzo è un'imitazione celtica degli altri due. Tra i leoni sono inserite delle grosse anse con appliques decorate di forma cir-

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colare. Una coppa in oro di forma emisferica, del diametro di 13 ,4 cm, serviva da attingitoio o per le libagioni.

La tomba di Hochdorf conteneva inoltre, impilato sul pianale del carro, un servizio da banchetto: nove piatti in bronzo, tre ciotole più grandi in bronzo a due manici per i legumi e la carne arrosto, un'ascia da macellaio e un coltel­lo da carne. A Hochdorf mancano lo spiedo c gli alari, che sono presenti in altre tombe dell'epoca di Hallstatt. Prezio­si servizi da tavola erano un elemento ricorrente della rap­presentazione dei principi in ogni epoca; questo risulta evi­dente anche dal vasellame da mensa della nobiltà tardogre­ca, dei senatori e degli alti magistrati romani, basti pensare agli oggetti d'argento dei corredi di Hildesheim.

Alla cultura celtica del banchetto appartenevano anche i cosiddetti «bardi». Questa parola celtica, adottata dal tede­sco nel XVI secolo tramite il francese, designa il poeta-can­tore che nei conviti dei galli e dei celtiberi intratteneva gli ospiti con le canzoni di eroi e cantava le lodi del re e dei suoi antenati. Una delle rare sculture in pietra, ritrovata a Saint-Symphorien-Paule (Còtes d'Armor), mostra uno di questi cantori con l'arpa. La statuetta è del I secolo a.C. e si trova nel Museo di Saint-Brieuc (cfr. fig. 8) . La presenza dei bardi era diffusa nelle società arcaiche, tra i germani e tra gli unni: quelli cantavano Arminio, come dice Tacito (Anna/es Il, 88) , questi Attila, come ci tramanda Prisco (frammento 13 ). Il cantore allieta la società dei guerrieri già in Omero, nell'Odissea (VIII, 47 1 ss. ) , come insegna il cieco aedo Demodoco alla corte del re dei feaci, Alcinoo. Diodoro (V 2 1 , 5) mette a confronto il modo di vivere dei celti soprat­tutto con quello greco del tempo degli eroi di Omero. La notizia diodorea (II 47) che colloca gli iperborei del mito in Britannia, rimanda in qualche modo ai celti, nel fatto che la maggior parte di questo popolo suonava la cetra e cantava le imprese di Apollo.

Le leggende tradizionali irlandesi contemplano la figura del cantore errante, che spesso è anche cieco: l'esempio più noto è Ossian di Macpherson (cfr. in/ra). Egli accompagna il suo canto con l'arpa, il più prestigioso degli strumenti musi­cali. A buon diritto essa è riprodotta sul blasone dello stato irlandese: i suonatori d'arpa dell'Irlanda erano molto accre­ditati in tutta Europa nel XII secolo e costituivano una cate-

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F!G. 8. Statuetta di un bardo con arpa proveniente da Saint·Symphoricn·Paule (Cotes d' Armor; l sec. a.C.). Museo di Saint-Bricuc.

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goria privilegiata che si tramandava quest'arte per via eredi­taria. Erano ospitati, coperti di doni, ricevevano cavalli, buoi e anche schiave. Così come quella dei druidi, l'istruzione dei bardi era orale. C'erano delle scuole di poesia, che erano da frequentare da sei a sette anni, dove gli allievi dovevano eser­citare la loro memoria in ambienti privi di luce, giorno e not­te. I bardi, come mostra la tradizione medievale irlandese, potevano anche intonare dei canti per deridere e offendere i nemici dei loro ospiti, in modo da sminuire il loro onore. Minacciare un'iniziativa di questo genere equivaleva a fare un ricatto. Un altro mezzo per esercitare pressione psicolo­gica consisteva nel «digiunare contro qualcuno». Lo sciope­ro della fame sembra .perciò essere un'invenzione irlandese (proprio come il boicottaggio, dal signore locale che si chia­mava Boycott) .

Oltre alle regalie il signore doveva garantire protezione agli uomini del proprio seguito. Cesare trovò la spiegazione dell'origine di quest'antica istituzione nel fatto che un signo­re che non potesse offrire alcuna protezione alla propria gen­te, non aveva su questa alcuna autorità. In· cambio di ciò il vassallo offriva al signore la sua fedeltà. Infatti il diritto alla protezione contiene sempre il dovere dell'obbedienza. Sap­piamo che c'era il dovere religioso di non soprawivere alla morte del signore, come dimostrano gli esempi dei 600 ml­durii («congiurati») , le guardie del corpo del re del popolo celtico dei sonziati dell'Aquitania, o dell'esercito di celtiberi comandato dal romano Sertorio, che fu a capo di una ribel­lione in Spagna dall'83 al 72 a.C. (Strabone, III 4 , 5 ; 4, 10) . Strabone (XVII 2, 3 ) riporta a proposito degli etiopi una situazione che costituisce un primo passo verso l'instaurarsi di questo forte vincolo, che era diffuso anche tra i germani: se il re fosse stato ferito, gli uomini del suo seguito avreb­bero sofferto il medesimo dolore o sarebbero morti con lui.

Oltre ai soldati del seguito, nella società celtica è atte­stata anche la schiavitù, che ha radici economiche. Cesare racconta che molti celti, che non potevano pagare i loro debiti o che si sentivano completamente vessati, si affidava­no alla protezione di alcuni nobili. Questi che facevano atto di sottomissione sarebbero stati considerati alla stregua degli schiavi a Roma: esclusi dalla partecipazione alla vita politica, dipendevano in tutto e per tutto dall'autorità del loro padro-

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ne di casa. Le vicende che determinarono la migrazione degli elvezi, nell'anno 58 a.C., indicano chiaramente quale influen­za potesse esercitare il seguito di un nobile potente sulla pro­pria tribù. Quando Orgetorige, l'uomo più in vista tra gli elvezi per nobiltà di origine e ricchezza, venne sospettato dagli altri nobili di aspirare al regno, egli portò con sé nel­l' assemblea disposta per processarlo tutto il suo seguito, che ammontava, secondo Cesare (I 4) , a più di 10 mila uomini e rese perciò impossibile portare a termine regolarmente il pro­cedimento giudiziario contro di lui.

I celti erano guerrieri temuti: una razza senza legge, belli­cosa, come afferma già Platone (Leggi 637 D), di statura piut­tosto elevata. Per questo motivo a Roma gli schiavi celti era­no apprezzati come portatori di lettighe. Livio (X 28, 3 s.) e Cassio Diane (XII 50, 2 s.) definiscono i guerrieri celti irruen­ti e duri, ma senza tenacia e pronti a disperarsi non appena la situazione mutava in peggio, passando così da un estremo all'altro. Avevano due grandi passioni: la guerra e l'alcol.

Quest'immagine dei celti si è conservata fino all'epoca tardoantica: diversamente dall'Italia - scrive Ammiano (XV 12, 3 ) - i renitenti alla leva erano oggetto di disprezzo. Per­ciò chi si amputava il pollice veniva insultato con l'espres­sione celtica murcus «vile». n carattere bellicoso dei galli è confermato ancora da monete tardoantiche in onore dell'e­sercito gallico con la legenda VJRTUS EXEHCITUS GALJ.(JCJ). l cel­ti portavano grandi scudi, giavellotti e lunghe spade. La spa­da corta dei celtiberi, che era utilizzata di taglio e di punta (caeJim et punctim), fu adottata dai romani insieme alla pa­rola che serviva a designarla (gladius). Gli insubri e i bai combattevano indossando lunghi calzoni di pelle e mantelli leggeri; gli elmi vennero utilizzati solo successivamente dalla maggior parte dei combattenti. È noto dalle rappresentazio­ni figurative che portavano la corazza: nella statua del prin­cipe del Glauberg essa rivela in modo simbolico lo status so­ciale del personaggio. Catapulte, frecce e archi erano utiliz­zati solo di rado dagli antichi celti; li impiegavano abitualmente solo nella caccia, come facevano i germani del­le origini. Quando nelle tombe dei principi le armi da cac­cia sono le sole presenti, si può presumere allora che que­st' attività fosse un privilegio riservato al signore. Combatte­re con armi da lancio non era considerato degno dei nobili,

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concezione comune anche alla grecità di epoca arcaica: Stra­hone (X l, 12) lesse un'iscrizione nel tempio di Artemide Amarynthia, sull'isola Eubea, contenente un impegno volon­tario, da parte di coloro che la dedicarono, a rinunciare in battaglia alle armi da lancio.

A partire dall'epoca di Hallstatt i celti utilizzarono in bat­taglia il carro da guerra a un solo asse e a due attacchi (in la­tino biga, in celtico essedum), originario dell'Oriente e impie­gato dai greci e dai romani solo come carro da corsa o da trionfo. Di solito portava un guerriero e un auriga; quando il nobile moriva, spesso veniva deposto nella tomba insieme a lui: si conoscono duecento casi come questo. Sulla terrafer­ma i guerrieri celti hanno utilizzato i carri fino alla battaglia di Telamone, nel 225 a.C., e poi ancora in Britannia, nel 200 d.C. circa . In Irlanda se ne è conservato il ricordo fino alle leggende medievali. Gli eroi del ciclo del Tain Bo Cuailnge («Il furto di bovini di Cuailnge») combattono sulle bighe. Come facevano anche i germani, i celti davano inizio alla bat­taglia con delle grida, come riferisce Appiano (VI 67) , al suo­no dei corni di guerra (karnyx) , che dovevano infondere ter­rore e non servivano, come accadeva invece nel mondo ro­mano, per segnalare spostamenti tattici.

Per quanto riguarda l'attività della navigazione, scarse sono le notizie in nostro possesso, che riguardano prevalen­temente le operazioni di guerra. Sappiamo di due battaglie navali. La prima che si possa definire tale si ebbe quando insorsero i galli veneti, che erano stanziati a nord della foce della Loira, mentre Cesare progettava di conquistare la Bri­tannia, nel 56 a.C. Cesare (III 8; 12) di loro dice che erano «molto esperti nella navigazione». Essi riunirono 220 navi, che secondo la descrizione di Cesare erano alte, grandi e robuste, ma lente e difficilmente manovrabili perché dotate di vele in cuoio. Cesare promosse Decimo Bruto, uno di quelli che poi prese parte alla congiura che lo assassinò, al grado di comandante della flotta, composta da navi da guer­ra più piccole ma veloci, che secondo Cassio Dione (XXXIX 40, 5) venivano dal Mediterraneo e secondo Cesare (III 1 1 ) , invece, erano state messe a disposizione anche dalle vicine tribù costiere. Queste imbarcazioni procurarono la vittoria ai romani soprattutto grazie alle armi che danneggiarono gli alberi delle navi dei veneti. Il secondo successo «in mare» è

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FIG. 9. Torqucs e braccialetto in oro proveniente da Rcinhcim, nella Saar. Museo di Saarhriicken.

quello conseguito da Tiberio sui vindelici nelle acque del lago di Costanza, nel 15 a.C., come riporta Strabone (VII l , 5) .

I celti, unico caso fra i popoli dell'antichità, scendevano in battaglia indossando ornamenti preziosi. Per sfidare l' av­versario essi portavano, come ci dice Diodoro (V 25 ss. ) , col­lane, braccialetti, persino corazze tutte d'oro. Essi ornavano il collo e le braccia con collari d'oro a spirale (torques) aper­ti alle estremità, dove terminavano con teste di animali. Se ne conservano alcuni esemplari di valore straordinario: un pezzo molto prezioso, datato al 50 a.C. circa, fu rinvenuto a Snettisham e si trova ora al British Museum; un altro, pro­veniente da Reinheim, nella regione della Saar, è esposto oggi al Museo di Saarbriicken (cfr. fig. 9) . A Erstfeld, a sud del lago di Vierwaldstatter, è stato scoperto un tesoro con tre braccialetti e quattro collari d'oro di straordinaria bellezza, oggi conservati nel Museo di Zurigo.

Sulla funzione di questi oggetti di lusso ci illuminano gli autori antichi. Livio (VII 9 s.) racconta del duello tra Tito Manlio c un gallo gigantesco, che lo aveva sfidato: nel com­battimento il romano tolse all'awersario il collare (torqueJ) e da quel momento gli fu dato il soprannome di TorquatuJ, che portarono anche i suoi discendenti. Polibio (Il 29; 3 1 ) rife­risce che nella battaglia di Telamone, nel 225 a.C. , la prima

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fila di guerrieri portava collari e braccialetti d'oro, che ven ­nero poi dedicati dai romani, dopo la vittoria, a Giove Capi­tolino. I gioielli di dimensioni più grandi del normale rinve­nuti dagli archeologi erano in origine, con ogni probabilità, delle offerte votive o degli elementi ornamentali di statue !ignee.

I monili a spirale contraddistinguevano, nell'esercito gal­lico di età tardoromana, quelli che portavano le insegne m ili­tari e compaiono ancora, nel VI secolo d.C., nel mosaico di San Vitale a Ravenna indosso alle guardie del corpo di Giu­stiniano, che presumibilmente erano di origine germanica. Il torques era un segno distintivo del rango e del valore milita­re. Quando, in occasione della proclamazione a imperatore di Giuliano, nel 360 d.C., non si trovò a Parigi alcun diade­ma, la cerimonia dell'incoronazione venne fatta con un col­lare celtico, come racconta Ammiano (XX 4, 18) . Quest'uso si diffuse rapidamente e fece sì che il gesto dell'incoronazio­ne, fino a quel momento inconsueto nel mondo greco e romano, diventasse l'atto ufficiale dell'assunzione del potere al posto dell'investitura con il mantello di porpora.

L'uso celtico anticipa in un certo senso il medioevo. Gli scudi dei guerrieri avevano degli stemmi con figure di anima­li, gli elmi portavano delle corna di toro, delle teste di cin­ghiale o degli uccelli, presumibilmente corvi o rapaci, come ci fanno sapere Diodoro (V 30) e le testimonianze archeologi­che. Il principe del Glauberg porta una «corona di foglie» a forma di cuore, che sembra un elmo con due enormi orecchi (cfr. fig. 2) . Le insegne militari celtiche rappresentate sui ma­munenti che celebrano le vittorie romane, ad esempio sull' ar­co di trionfo di Orange, portavano cavalli o cinghiali; Cesare ne conquistò settantaquattro nell'assedio di Alesia (VII 88) . In tempo di pace erano tenute nei boschi sacri.

Secondo un singolare costume celtico, quelli che com­battevano nelle prime file erano nudi. Quando però gli auto­ri greci definiscono il guerriero celtico gymn6s e quelli latini nudus, questo non esclude che egli portasse i suoi tipici cal­zoni lunghi, come facevano i galati nel II secolo a.C. e i pit­ti nel II secolo d.C. Secondo Livio (XXII 46, 6), i soldati delle truppe ausiliarie celtiche al seguito di Annibale scopri­vano la parte superiore del corpo. I gaesati («uomini con il giavellotto»), che erano dei temuti mercenari, in battaglia

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non avevano nulla addosso tranne le armi, come afferma Polibio (II 28, 8); è possibile quindi che anche i galati com­battessero completamente nudi; così come li raffigurano le opere d'arte greche. Per questo motivo essi non avevano alcuna speranza di successo contro una falange di uomini armati di corazza, a meno che la loro prima mossa non met­tesse in fuga l'avversario. Diversamente dai greci e dai roma­ni, nella fase iniziale della battaglia i celti utilizzavano in pri­ma linea guerrieri avanzati, che si sfidavano singolarmente, come nell'episodio biblico di Davide e Golia. Attendevano l'esito della loro azione prima di passare al combattimento corpo a corpo. La caparbietà dei guerrieri celti impressiona­va lo spettatore dell'antichità: Strabone (III 4, 18) racconta di prigionieri cantabri che, inflessibili com'erano, avrebbero intonato il loro canto di vittoria anche appesi alle croci.

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CAPITOLO SEITIMO

I POPOLI CELTICI

Il panorama politico del mondo celtico e germanico è costituito da una miriade di popoli. Gli autori greci li chia­mano ethne o phyldi, quelli latini civitates, gentes o populi. In Spagna ne sono attestati quattro, in Irlanda cinque, nella Galazia dell'Asia Minore sei, nell'Italia settentrionale otto, nella Gallia dell'età di Cesare addirittura da 50 a 75. Tacito (Anna/es III 44) ne conosce 64. Le popolazioni più nume­rose comprendevano 200 mila uomini, le più piccole 50 mila. Ciascuna di queste era prima di tutto una comunità con­traddistinta da un proprio nome, da particolari culti e tradi­zioni; occupava un'area insediativa, una pianura o più valli comunicanti, ed era separata dal popolo più vicino da con­fini naturali. Non si ha notizia, nel caso dei celti, di confini artificiali tra i popoli sull'esempio delle terre disabitate di cui parla Cesare (IV 3 , 2) a proposito dei germani.

I grandi popoli si dividevano in tribù (pagus, tribus). I rapporti però erano spesso oscuri o mutevoli. Plinio (V 146) suddivide i galati in 6 gentes e 195 populi ac tetrarchiae, i boi d'Italia in 1 12 tribus (III 1 16) . Strabone (XII 5·, 1 ) , diver­samente da Plinio, parla di tre popoli galati, ciascuno dei quali diviso in quattro tetrarchie. Gli elvezi avevano quattro pagi secondo Cesare (I 12) . Le tribù che appartenevano a un popolo erano a loro volta contraddistinte da appellativi (del tipo: Volcae Arecomici, Volcae Tectosages) e diventavano con il tempo, compiendo imprese di loro iniziativa, popoli a sé stanti: è il caso degli insubri, che originariamente erano una tribù degli edui, ma diventarono in seguito un popolo indi­pendente. Accade anche il contrario, quando un popolo pri­ma autonomo perde la sua importanza e risulta essere, in una fase successiva, una tribù di un popolo più grande: è questo il caso dei tigurini, che al tempo di Mario erano una popo­lazione autonoma e agguerrita mentre all'epoca di Cesare (I

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12) erano semplicemente una tribù degli elvezi. Poteva anche capitare che un re regnasse solo su una metà di un popolo (VI 3 1 ) .

n rapporto non sempre chiaro che esisteva tra popolo e tribù è legato al fatto che il concetto di popolo nell'antichità poteva essere inteso a diversi livelli e che il nome di un po­polo poteva essere esteso ad altri. Già Cesare utilizza il ter­mine Gallia da un lato con significato estensivo, ossia inclu­dendovi l'Aquitania e il Belgio, dall'altro lato in senso più stretto, e cioè escludendo l'Aquitania e il Belgio, in modo tale che i popoli della Gallia centrale risultavano essere i gal­li veri e propri. I galli aquitani e belgi sono poi divisi al loro interno in altri gruppi tribali a sé stanti, i primi sotto l'in­fluenza iberica, gli altri sotto quella germanica. Così anche i celtiberi avevano delle tribù all'interno del mondo celtico. Queste grandi popolazioni sono designate ora sulla base di riferimenti geografici (Aquitania, Britannia) , ora con i nomi delle genti più importanti (Belgae), ora con le varianti lin­guistiche del nome di un popolo (Galatai). Una stratificazio­ne di questo tipo è attestata anche tra i germani, che aveva­no delle tribù, come ad esempio gli svevi al tempo di Taci­to, mentre gli alamanni e i franchi del tempo di Ammiano costituivano, con i gruppi tribali al loro interno, delle unità complesse come quelle celtiche. Se una di queste riusciva ad avere la supremazia, le altre diventavano tribù. È probabile che ci fossero delle divisioni al loro interno o che dei grup­pi si distaccassero, talvolta in seguito a una guerra civile o a una migrazione, ma il legame con il popolo originario si con­servava nel nome: si incontrano infatti alcuni nomi uguali nella Francia meridionale, nella Germania centrale e in Asia Minore ( Volcae Tectosages), altri nello stesso periodo in Gal­lia, nell'Europa orientale e in Italia (lingoni, boi, veneti) . Due popoli celti della Britannia, gli atrebati (intorno a Hampshire) e i parisi (intorno a Yorkshire) compaiono con lo stesso nome anche in Gallia.

Queste popolazioni erano al contempo delle entità poli­tiche autonome. In sostanza ciascuna di queste esercitava una propria sovranità, come insegnano le numerose guerre che i popoli celti hanno combattuto tra di loro e le alleanze che hanno stretto con popoli non celtici, come i germani e i romani, anche contro genti della loro stessa stirpe. Cesare

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non avrebbe mai conquistato la Gallia se alcuni dei popoli più importanti non si fossero schierati dalla sua parte per rivalità con i vicini. Anche i celti della Britannia non fecero fronte comune contro Roma. Con la strategia del divide et impera - per usare un'espressione ante litteram -, «dividi l'avversario e dominalo», i romani conseguirono i loro prin­cipali successi in Grecia, nell'Africa del nord e in Germania.

I celti non hanno mai dato vita a una compagine statale che comprendesse più di un popolo e non hanno mai tenta­to di farlo, anche se si ritiene, sulla base della testimonianza di Livio (V 34) , che un popolo potesse avere per un certo periodo una posizione di egemonia, come accadde in Gallia con i biturigi intorno al 500 a.C. Nel periodo successivo i po­poli galli erano divisi da una continua rivalità, come raccon­tano Cesare (VI 1 1 ) e Strabone (IV 5, 2 ) . Ognuno cercava di costringere il vicino più debole a una posizione di dipen­denza, di sottrargli della terra, di imporgli dei tributi. Così i più potenti si circondavano di popoli clienti, la cui ubbi­dienza era garantita da ostaggi che consegnavano i tributi e prestavano servizio nell'esercito al loro seguito. I popoli for­ti ambivano al controllo di tutta la Gallia e, dal momento che non riuscivano nel loro intento, si divisero in due gruppi, il primo comandato dagli arverni in una prima fase e quindi dai sequani, mentre il secondo dipendeva dagli edui. La richie­sta d'aiuto dei sequani portò in Gallia, nel 70 a.C. circa, i germani di Ariovisto - questo principe svevo portava un nome celtico e aveva sposato una principessa dei celti norici (regnum Noricum). La preoccupazione che provocò negli edui l'arrivo degli elvezi, che si dice fossero i loro diretti concor­renti nella lotta per l'egemonia, fornì a Cesare il pretesto per l'invasione (cfr. in/ra).

Nonostante l'autonomia politica di tutte le genti celtiche, ci furono delle alleanze temporanee, nate per raggiungere obiettivi comuni, che superavano le divisioni etniche. Per imprese più grandi diversi popoli si unirono sotto un unico capo, come fecero i germani durante le migrazioni: in Bri­tannia Budicca, nel 61 d.C., guidò contro le legioni romane il suo popolo, gli iceni, i trinobanti e altri; in Belgio Ambio­rige comandò un esercito arruolato tra quattro popolazioni nella battaglia contro Cesare, nel 54 a.C.; sempre in Belgio, nel 57 a.C., il suessione Gaiba ebbe ai suoi ordini gli uomi-

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ni di sedici popolazioni; Vercingetorige, nel 52 a.C., quelli di quasi tutti i popoli della Gallia, come riferisce Cesare (VII 4; 75).

Oltre a queste alleanze ci sono indicazioni che autorizza­no a credere che i celti fossero consapevoli di costituire un unico popolo. E ciò non emerge solo dal racconto delle ori­gini, a cui si è fatto riferimento all'inizio, e dalla consuetudi­ne dei druidi di riunirsi una volta all'anno, ma ad esempio anche dalla coesione esistente tra i celti della Gallia meridio­nale e quelli dell'Italia settentrionale, dove il richiamo all'o­rigine comune ha sempre avuto il suo effetto, specialmente se corroborato da regalie. Un vero e proprio tentativo di riu­nire i celti, almeno della Gallia, fu intrapreso poco prima del­la vittoria definitiva di Cesare su Vercingetorige. Nonostante la cautela che mostrano a riguardo tutti i discorsi degli sto­riografi antichi, non c'è motivo di dubitarne, soprattutto lad­dove Cesare (VII 29, 6) mette in bocca al suo avversario la speranza [se] unum consilium totius Galliae e/fecturum, cuius consensui ne orbis quidem terrarum posset obsistere («di for­mare un unico consiglio di tutta la Gallia, alla cui unità di intenti neppure il mondo intero avrebbe potuto resistere») . L'aggiunta polemica potrebbe naturalmente essere opera di Cesare, allo scopo di evidenziare il pericolo costituito dai gal­li. n tentativo di unificazione fu messo in atto troppo tardi e presumibilmente non avrebbe avuto lunga durata, come inse­gnano altre effimere esperienze di stati tmitari, come il regno del dacio Burebistas (t 44 a.C.) in Ungheria o quello del mar­comanno Maroboduo (t 19 d.C.) in Boemia.

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CAPITOLO OTTAVO

FORTEZZE E CITTÀ

A differenza della cultura mediterranea, che fu caratte­rizzata dalla diffusione del modello della città, nell'Europa centrale si affermò l'insediamento in villaggi. Questo vale anche per i celti, compresi quelli dell'Italia settentrionale e della Galazia. A partire dal VI secolo a.C., però, sono atte­stati anche degli insediamenti fortificati su alture (oppida) che si ritiene fossero residenze di sovrani. Tra questi si pos­sono ricordare quello del Mont Lassois, vicino a Chatillon­sur-Seine nella Borgogna, l' oppidum di Entremont nella Pro­venza, quello della Heuneburg in Svevia, del Glauberg nel­l'Assia. Anche i galati dell'Asia Minore avevano dei luoghi fortificati: Cuballum, Magaba e Olimpo, dove Ortiagono si difese dall'attacco dei romani. Già Ecateo ed Erodoto parla­no di p6leis celtiche (Nyrax e Pyrene); Cesare usa più volte l'espressione oppida, per indicare delle città più piccole e for­tificate o dei rifugi. Cesare (I 5) dice che gli elvezi avevano 12 oppida, 400 villaggi e anche privata aedi/icia («singole fat­torie») , ubicati nelle aree periferiche, che furono incendiati prima che la popolazione si spostasse. In Britannia questi luoghi fortificati (hillforts) ammontano a 3 mila: gli esempi degni di nota sono Maiden Castle (Dorchester) , Danebury (Hampshire) e Cadbury Casùe (Somerset). Cesare (V 2 1 , 2 s. ) descrive un oppidum della Britannia come una stazione di­fensiva. Rispetto alle tombe, che sono state studiate in modo approfondito, le zone insediative sono state fino a questo mo­mento poco indagate dal punto di vista archeologico. Gli sca­vi effettuati sulla Heuneburg e a Manching, la capitale dei vindelici vicino a Ingolstadt, hanno portato alla luce solo po­che case, che fanno pensare a una pianta ortogonale.

Nel II secolo a.C. nacquero, a partire dalla valle del Rodano, dci centri di notevole grandezza, simili a città, che fungevano da capitali del territorio di un popolo (cfr. fig. 10) :

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Bibracte era la capitale degli edui, quella dei parisi era Lute­tia, l'isola della Senna poi prese il nome dei suoi abitanti, l'attuale Treviri (Trier) era la capitale dei treveri. Cesare non parla solo di oppida, ma anche di urbes, cioè di città sul tipo della polis diffusa nel mondo mediterraneo (Alesia, Gergo­via, Avaricum) . Le città celtiche erano edificate preferibil­mente in altura, ma c'erano anche città in pianura: è il caso di Manching, che aveva delle abitazioni a pianta rettangola­re disposte in modo regolare, un muro di cinta lungo 7 km e ospitava da 5 a 10 mila abitanti. I reperti archeologici dimo­strano che vi si coniavano monete in oro, c'erano officine che lavoravano il ferro, fondevano il bronzo e producevano oggetti in vetro. Gli insediamenti fortificati in altura si tra­sferirono in epoca romana nelle valli; la nuova ubicazione ne indebofi la capacità difensiva, ma li rese più facilmente rag­giungibili. Nell'immagine della città celtica sono presenti influenze meridionali. Bibracte, che è stata esplorata a fon­do dal punto di vista archeologico, era concepita come una città greca o romana: un foro con un tempio, officine di arti­giani lungo la via principale, un quartiere residenziale e una robusta struttura difensiva. Le città celtiche si differenziano da quelle mediterranee solo dal punto di vista architettoni­co, in particolare nelle costruzioni in legno coperte di paglia o legname leggero. Poli bio (Il 17) dice che le loro case non avevano mobili, perché i celti possedevano essenzialmente oro e bestiame.

Come i germani, anche i celti non erano abili nel lavo­rare la pietra. Non costruivano muri a malta, ma utilizzava­no una tecnica particolare, quella del murus Gallicus, che vie­ne descritta da Cesare (VII 23) ed è stata individuata archeo­logicamente in più luoghi (cfr. fig. 1 1 ) : si ponevano delle travi l'una accanto all'altra, a una distanza regolare di due piedi, disposte perpendicolarmente all'andamento del muro; si ricopriva con dei blocchi di pietra la fronte del muro e si riempivano di terra gli interstizi. A un'altezza di due piedi si sovrapponeva un altro strato e così via. Talvolta quest'arma­tura lignea era tenuta insieme anche da travi trasversali e rafforzata con dei pali. Questo muro a secco rinforzato da un'impalcatura lignea resisteva ai colpi delle macchine da assedio, ma aveva lo svantaggio di essere infiammabile. Quando il legno marcisce, il muro diventa un terrapieno.

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Oppida Mura urbiche circolari di città tedesche

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Bibracte

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Staffelberg o Gottinga

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Colonia

Francoforte sul Meno

Treviri-Trier o 1 000 2000 3000 4000 5000 6000 7000 8000 m

FIG. lO. Confronto tra l'e piante di oppido celtici e quelle di città medievali.

Terrapieni circolari come quello dell'Altkonig sul Taunus, una triplice cinta dello spessore massimo di 6,70 m, o quel­lo del Donnersberg nella Pfalz, della lunghezza di oltre 8 krn, erano un tempo proprio delle «mura galliche». Per le mura del Goldgrube sul Taunus è stata fatta una stima di 200 mila giorni di lavoro.

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Fronte del muro con casse riempite di pietre

e terra Parete di protezione frontale Strato di pietra ---------'

Strato di terra _________ .., Armatura di base fissata con dei chiodi

fiG. 1 1 . Disegno ricomuttivo Jd muruJ Ga//icuJ.

Un aspetto curioso della tecnica celtica di costruzione delle opere difensive è rappresentato dalle mura intorno alla Heuneburg dell'inizio del VI secolo a.C.: nella parte orien­tale e meridionale il muro, che era alto 4 m, profondo 3 m e lungo 500 m, era fatto di mattoni crudi. Né le fondamen­ta in pietra, né uno strato di intonaco poterono impedire che, dopo un periodo di umidità più lungo del solito, il muro si accasciasse come un pudding. La tecnica e il formato del mattone rimandano alle mura del porto di Gela, in Sicilia, e inducono a supporre che un soldato celta del Danubio aves­se imparato là la tecnica della costruzione in mattoni e l'a­vesse quindi portata in patria, dove questa però si rivelò incompatibile con il clima. Conformi al modello greco sono anche le quindici torri a pianta quadrata aggettanti lungo il muro occidentale, che conferiscono alla Heuneburg l'aspet­to di una fortezza militare, ma che erano troppo vicine per­ché potessero essere utilizzate efficacemente in azione di

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guerra, anzi non potevano neppure essere difese dall'alto, poiché erano senza copertura, come mostrano i focolari rin­venuti all'interno.

I nomi delle città celtiche hanno delle caratteristiche comuni. Molti nomi di città terminano in -acum: Antennacum (Andernach), Mogontiacum (Magonza). Altri sono derivati dal nome del dio Lug (Mercurio), come Lugdunum (Lione e Leida), o contengono parole come briga, che significa «mon­te»: Brigetio (Bregenz), Brixia (Brescia) , Segobriga (Segorbe); bona, che significa «città»: Bonna (Bonn ), Bononia (Bologna e Boulogne) , Ratisbona; lanum «campo», come Mediolanum «campo di mezzo»: così si chiamano, oltre a Milano, una dozzina di altre città. Altre contengono la parola magus «pianura», come Rigomagus (Remagen) , Noviomagus (Neu­magen) , Borbetomagus (Worms), o dunum «fortezza», come Campodunum (Kempten), Camulodunum (Colchester), Lug­dunum (Lione), da cui derivano l'inglese town, il tedesco Zaun («recinto») e anche i toponimi dell'Assia Diinsberg e Taunus, con i suoi 25 terrapieni circolari, tra cui quelli di Alt­konig e di Goldgrube.

I celti hanno fondato il modello di città a nord delle Alpi. Molti luoghi che sono ancora abitati fanno risalire le loro ori­gini al tempo dei celti o continuano a portare l'antico nome celtico: in Inghilterra tra gli altri ci sono Londinium (Lon­dra) ed Eburacum (York); in Svizzera Lousonna (Losanna) , Turicum (Zurigo) , Cenava (Ginevra) e Berna (da Brennus); in Germania Bonn, Remagen, Andernach, Magonza, Worms; in Italia Mulina (Modena), Parma (Parma) , Bergomum (Ber­gamo), Ticinum (Pavia sul Ticino e il Canton Ticino) , Me­diolanum (Milano), Comum (Como), Verona (Verona, che in tedesco medievale è Bern), Tridentum (Trento) e Vicetia (Vi­cenza) ; in Austria Vindobona (Vienna) e Carnuntum. In Asia Minore Gordio, Pessinunte e Ankara erano capitali dei celti di origine preceltica. Nella Gallia tardoantica il nome del popolo in diversi casi si affermò a scapito del nome del luo­go: Parigi (Parisii, invece di Lutetia), Reims (Remi, al posto di Durocortorum) , Sens (Senones, invece di Agedincum), Bour­ges (Bituriges, invece di Avaricum) , Chartres (Carnuti, inve­ce di Autricum), Treviri ( Treveri, invece di Augusta).

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CAPITOLO NONO

IL POTERE POLITICO

l . I re

La forma di stato più antica attestata presso tutti i popo­li indogermanici è la monarchia, vale a dire potere militare di uno solo, vitalizio ed ereditario, generalmente legato a fun­zioni giudiziarie e sacre. Anche le stirpi celtiche erano gover­nate da sovrani in epoca più antica, come dimostrano i ritro­vamenti archeologici. Si conoscono sedi di sovrani (cfr. infra) che risalgono alla tarda età di Hallstatt e si valuta sulla base delle sepolture, per lo più vicine, se si tratta di personalità di rilievo, perché sono state inumate con uno straordinario dispendio di mezzi.

n nucleo della tomba solitamente è costituito da una camera funeraria situata al livello del suolo, e in seguito interrata, che è fatta di tronchi di quercia ed è protetta ai lati e sopra da strati di pietra. Al di sopra della camera si innalzava un tumulo di forma conica che spesso era delimi­tato da un anello in pietra. I turnuli più piccoli hanno un diametro di circa 30 m, quello di Vix di 42 m, quello di Hochdorf di 60 m, quello di Hohmichele di 80 m e quello del Magdalenenberg di 120 m. Questo tumulo ha una coper­tura in pietra di 2 .500 m3 ed è costituito da 45 mila m3 di terra. Si calcola che l'altezza originaria fosse di 6 m nel tumulo di Hochdorf, di 1 3 ,5 m in quello di Hohmichele. Alcuni tumuli funerari sono stati costruiti al di sopra delle abitazioni. L'erezione della tomba iniziava sempre dopo la morte di colui che vi doveva essere sepolto; durante la sua costruzione il corpo doveva essere mummificato, altrimenti si sarebbero trovati dei gusci di larve di mosca, come acca­de nei cadaveri in decomposizione. Non si conosce la tecni­ca di mummificazione utilizzata, ma si suppone impiegasse­ro del miele, del sale o del fumo. L'erezione della tomba soli-

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tamente richiedeva diversi mesi, come suggeriscono le loro dimensioni ed è confermato dall'analisi dei pollini.

Le tombe dei sovrani, degne di particolare attenzione per la loro grandezza, colpiscono anche per la ricchezza dei cor­redi. Il signore di Hochdorf aveva circa quarant'anni quando morì e superava in altezza ( l ,87 m) la maggior parte dei suoi guerrieri celti. Non è possibile accertare se fosse deceduto in seguito a morte violenta. Tra gli oggetti di uso quotidiano che erano stati deposti insieme a lui spicca il collare in oro, che poteva essere portato sul capo. Venti collari di questo tipo sono stati ritrovati nelle tombe di Hallstatt: si presume che siano dei simboli del potere regale. Questo vale anche nel caso del pugnale ornamentale, della lunghezza di 40 cm, che ha un' «impugnatura ad antenna» molto scomoda da usare; il pugnale, racchiuso in un fodero in bronzo decorato, fu rico­perto successivamente con lamine d'oro.

n defunto di Hochdorf portava un cappello conico di corteccia di betulla lavorata; vicino a lui si trovavano una lan­cia e una faretra in legno rivestita di pelle con 14 frecce sen­za il relativo arco. Tre ami in ferro richiamano l'attività del­la caccia e della pesca. Tra gli accessori personali poi c'era­no una forbice per unghie, un pettine in legno e un rasoio, due fibule in bronzo con intarsi in corallo, due fibule in oro e anche cinque perle di ambra lavorata, che venivano messe al collo come amuleto. Questi oggetti erano stati confezio­nati come corredo del defunto allo stesso modo degli altri oggetti in oro: un largo bracciale, le due fibule, le lamine del pugnale, una lamina del rivestimento della cintura e delle fasce decorate a sbalzo che rivestivano le scarpe del morto. Tutti questi oggetti preziosi avevano una funzione puramen­te ornamentale. Lo dimostra il fatto che non ci sono segni di usura e che sono stati trovati, «sepolti» sotto il tumulo, degli scarti di officina, che doveva trovarsi, quindi, nelle imme­diate vicinanze.

n principe giaceva su un letto fatto di traverse in ferro con uno schienale in lamine di bronzo, in greco kline. Sulla parte interna sono rappresentate, con la tecnica della punzo­natura, le figure di sei danzatori con le spade e due carri a quattro ruote trainati da due cavalli; su ognuno di questi è raffigurato un guerriero. I piedi del letto, a forma di donne, insistono sugli assi di tante rotelle e fanno sì che il giaciglio

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potesse spostarsi avanti e indietro. Il mobile era coperto di teli e pelli di tasso, martora e puzzola. L'oggetto più grande della tomba era uno splendido carro a quattro ruote decora­to con borchie di ferro e di bronzo. I cavalli non erano sta­ti deposti insieme al defunto, c'erano però i finimenti e un pungolo per spronare i cavalli, che nell'antichità sostituiva la frusta dell'auriga (il myops dell'Apologia di Socrate di Plato­ne). Degli oggetti del servizio da tavola di Hochdorf si è già trattato a proposito del seguito dei nobili.

La maggior parte delle tombe dei principi erano state saccheggiate già prima che fossero scoperte. Ciò avveniva solitamente subito dopo la sepoltura, come dimostra il fatto che il cadavere ancora integro fosse abbandonato in un ango­lo della camera funeraria o il fatto che una collana di perle fosse stata persa dal ladro, prima che il filo marcisse, men­tre ritornava nella galleria che egli stesso aveva scavato. Raz­zie come questa accadevano prima che la camera funeraria in legno fosse crollata; lo conferma il rinvenimento delle tor­ce che i ladri portavano con sé per illuminare il luogo. Il motivo per cui i parenti del defunto non erano in grado di custodire queste ricche tombe pagate con tanta abbondanza di mezzi, rimane misterioso come il caso delle tombe dei faraoni nella Valle dei Re. L'ipotesi più accreditata è quella secondo cui i saccheggiatori siano da individuare, a volte, tra gli operai della tomba. Che gli eredi pensassero di aver già fatto la loro offerta al defunto rinunciando al corredo e di non avere più obblighi, così da economizzare sulla sorve­glianza della tomba, risulta chiaro dal fatto che, come gli egi­ziani, anche i celti barricavano il più possibile l'accesso alla camera funeraria. Sulla stanza sepolcrale di Hochdorf c'era­no 50 tonnellate di pietre che sono servite proprio a questo scopo. Un modo efficace per ingannare i ladri di tombe era quello di collocare la stanza del defunto in posizione decen ­trata, in modo da renderne difficoltoso il reperimento, come nel caso del Glauberg.

La designazione di queste sepolture come «tombe dei sovrani» è senz'altro appropriata. Poco tempo dopo questi signori compaiono nella tradizione scritta: Brenno, il con­quistatore di Roma nell'anno 387 a.C., è il più noto (cfr. supra) e anche i popoli che si insediarono in seguito nella pianura padana erano governati da re. Lo stesso vale per le

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grandi migrazioni verso Oriente. Il regno più antico in quel­l'area, a insediamento avvenuto, è quello di Tylis, nell'odier­na Bulgaria, nel III secolo a.C. (cfr. supra). Quando i roma­ni alla fine del II secolo a.C. conquistarono la Gallia Nar­bonese, i popoli celti di quella zona ubbidivano ancora a dei sovrani.

Il titolo del re celtico è rigs. Si tratta dell'antica parola indogermanica che significa «sovrano» e deriva, come il lati­no rex e l'indiano radscha, dalla radice che vuoi dire «diri­gere»; costituisce di frequente il suffisso con cui si forma­no i nomi propri: Vercingetorige, Orgetorige, Ambiorige ecc. Livio attribuisce ai principi indipendenti dei galati del­l'Asia Minore il nome di reguli «piccoli re», reges o duces; Plutarco parla di tetrarchi (quattro principi, o più esatta­mente: principi della quarta parte del territorio, principi delle singole parti). I capi militari possono essere definiti sovrani. Prima di morire, Brenno, il conquistatore di Delfi, ordinò all'esercito di eleggere come proprio successore, in qualità di basiléus, cioè di re, Cicorio, che aveva già il comando militare.

Di norma il regno era trasmesso di padre in figlio, ma anche le figlie e le vedove di re avevano uguale facoltà di accedere al trono. In Britannia i romani avevano a che fare con Cartimandua, la moglie di Venuzio, re dei briganti (popolo il cui nome significa «guerriero») , che nel 50 d.C. si schierò dalla parte dei romani e dieci anni più tardi con la nemica di Roma Budicca, la moglie del re degli iceni Prasu­tago (cfr. in/ra) . Tacito (Agricola 16) annota: neque sexum in imperiis discernunt, «nel comando supremo essi non fanno distinzione tra i sessi». Questo era un fatto insolito nel mon­do antico, se si escludono figure mitiche come quelle di Semiramide a Babilonia e di Candace in Etiopia o figure sto­riche come quella di Cleopatra in Egitto e di Zenobia a Pal­mira. Nei miti celtici medievali le regine sono più intrapren­denti e bellicose dei loro uomini.

Le notizie sulle insegne reali sono scarse sia per i celti sia per i germani dell'epoca più antica. Dione Crisostomo (Discorsi 49, 8) cita intorno al 100 d.C. un trono d'oro come simbolo della carica; il palazzo reale certo non si meritava questo appellativo più di quanto lo meritassero, invece, le spese per i banchetti offerti dal re (cfr. supra). Il collare d'o-

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ro rinvenuto nelle ricche tombe ornava certamente il princi­pe quando era ancora in vita, ma era in primo luogo un emblema del rango sociale e della carica. Alcuni re dei gala­ti portavano il diadema ellenistico.

A quanto pare il re dei celti, come la maggior parte dei sovrani della protostoria, aveva funzioni sacerdotali. Il re dei galati Deiotaro è indicato da Cicerone (De divinatione I 26 s.) come famoso veggente. Sappiamo che il sovrano con il suo comportamento garantiva il favore degli dèi e in caso di disgrazia si guadagnava la morte. L'idea della salvezza del re è già nell'antico regno d'Israele: quando infatti il re Davide commette degli errori, il Signore manda i disastri su Israele ( l Cronache 2 1 , 14) ; è conosciuta in Grecia, basta pensare ad Agamennone che deve procurare vento favorevole e rac­colti abbondanti (Odissea XIX, 1 1 0 ss. ) , e in Germania pres­so i burgundi, come attesta Ammiano Marcellino (XXVIII 5, 14) . Di natura sacrale è la norma secondo cui un re deve essere fisicamente integro. Questo era richiesto, come dico­no le fonti, per l'arconte in Attica, per il console, il pretore o l'imperatore a Roma; era richiesto al sacerdote di Jahvè, come si legge nel Levitico (2 1 , 17) , e per il clero cattolico vale ancora oggi. L'aspirante al sacerdozio che abbia una deformità fisica (o sia nato illegittimo) deve richiedere una dispensa papale, perché si ritiene che un tale difetto sia segno del rifiuto della grazia divina.

Non diversamente da altri popoli antichi, l'istituzione monarchica attraversò qualche momento di crisi. Già Polibio (Il 2 1 , 5) riferisce che i sovrani celti volevano rafforzare il loro potere vacillante con l'aiuto di popoli stranieri e perciò vennero uccisi dal loro stesso . popolo che si ribellò. In guer­ra non erano più guidati dal basiléus, ma da uno strateg6s. La crisi di potere si rispecchia, come sempre, negli usi fune­rari archeologicamente attestati. Le splendide tombe di re e regine dell'epoca di Hallstatt scompaiono in quella di La Tène, cioè poco dopo il 400 a.C., cosicché si è giunti alla conclusione che i diversi usi funerari siano segno di ugua­glianza sociale, persino di una trasformazione in senso demo­cratico della società. Rimane inspiegata la ragione per cui nell'epoca di Hallstatt le tombe a inumazione coesistessero con le fosse cinerarie, mentre nel periodo di La Tène erano più diffuse le tombe a inumazione. Gradualmente l'antica

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cultura dei sovrani, sviluppata intorno alle sedi dei re, lasciò il posto a una cultura cittadina di «massa»1 •

Quando Cesare giunse in Gallia, la maggior parte delle stirpi aveva abolito l'istituzione monarchica e instaurato un governo aristocratico. Presso i sequani e gli edui la trasfor­mazione era avvenuta solo una generazione prima, come annota Cesare (I 3 ) . Solamente le stirpi che abitavano il più lontano possibile dai romani, quelli dell'Aquitania, della Gal­lia del nord e della Britannia erano ancora sotto il governo di un re. In queste zone la monarchia fu sostituita dall'ari­stocrazia solo nel periodo che va dall'età di Cesare a quella di Tacito. «Un tempo obbedivano ai re, ora sono dilaniati dai capi e dai partiti in lotta tra loro», dice Tacito nell 'Agricola ( 12 , 1 ) . Il ricercatore francese Grenier nel 1945 ha parlato di una «rivoluzione gallica» che avrebbe rappresentato il primo precedente della rivoluzione francese. Come le idee di que­st'ultima si diffusero oltre il Reno nell'impero tedesco, così anche la rivoluzione gallica non si sarebbe fermata là. In effetti le stirpi germaniche vicine ai galli avevano già elimi­nato le monarchie e le avevano sostituite con degli stati ari­stocratici, mentre i regni germanici dell'est e del nord ebbe­ro modo di conservarsi. Il desiderio di instaurare un gover­no di tipo monarchico su un popolo governato da aristocratici era come commettere un grave tradimento e il colpevole doveva morire: basta pensare ad Arminio, presso i germani, come anche all'eduo Dumnorige, all'elvezio Orge­torige e a Celtillo, padre di Vercingetorige, in Gallia.

Tra gli ultimi re attestati si può individuare un indeboli­mento del potere centrale. Cesare (V 27, 3) scrive che la maggioranza degli eburoni esercitava la medesima influenza politica del sovrano; Diane Crisostomo (Discorsi 49, 8) rife­risce a proposito dei sovrani celti che non potevano intra­prendere o decidere nulla senza consultare i druidi, cosicché in realtà erano questi a governare e i sovrani non erano altro che funzionari dalle competenze esecutive. Per spiegare l'a­bolizione della regalità si prende in considerazione il model­lo della costituzione repubblicana di Roma, che ebbe suc­cesso in politica estera; l'elemento più importante, però, fu la formazione di un ceto medio benestante e consapevole di sé che pose fine al governo di uno solo, come prima era suc­cesso in Grecia, a Cartagine, in Etruria e a Roma. Questo

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ceto medio creò e fece crescere la città, il cui fiorire coinci­de geograficamente e cronologicamente con la scomparsa della regalità. Anche tra i germani più vicini la diffusione di centri urbani coincide con l'introduzione di governi aristo­cratici. Allo stesso modo in Galazia i sovrani che regnavano all'inizio vennero sostituiti da magistrati eletti, anche se nel­lo scenario di guerra romano continuavano a esserci dei re. Si tratta in fondo di uno soltanto: il re Deiotaro.

2. I nobili

La maggior parte delle società antiche aveva due organi collegiali, un consiglio dei più anziani e un'assemblea popo­lare costituita dagli uomini che erano in grado di combatte­re. Anche i galli conoscevano queste due istituzioni, che esi­stevano già in età monarchica ma che acquisirono una certa importanza solo in epoca repubblicana: il consiglio (senatus) dei capi della stirpe (principes gentis) e l'adunanza generale (concilium), che corrisponde alla realtà conosciuta grazie alla Germania di Tacito ( 1 1 s . ) . Il senato era composto da nobi­li di sangue, ma non potevano entrare a farne parte due membri della stessa famiglia: così comunque succedeva tra gli ed ui, come racconta Cesare (VII 3 3 , 3 ) .

Del concilium le fonti antiche parlano con maggiore fre­quenza. Cesare (VI 20, 3 ) scrive: De re publica nisi per con­cilium loqui non conceditur («Delle questioni pubbliche si può discutere solo nell'adunanza generale>>) . Non è del tut­to chiaro però chi fosse rappresentato in questa sede. Natu­ralmente vi era rappresentata la nobiltà, ma anche i druidi avevano voce importante in capitolo, soprattutto per ciò che riguardava la guerra e la pace; ne rimaneva esclusa, stando a Cesare (VI 13 ), la plebs. Concorda con questa l'indicazione di Strabone (IV 4, 3 ) secondo cui la maggior parte dei popo­li della Gallia avevano in epoca preromana delle costituzio­ni aristocratiche e perciò il diritto di partecipare alle elezio­ni e alle decisioni comuni non era riconosciuto a tutti gli uomini liberi. La nobiltà tuttavia doveva essere numerosa, dato che il concilium viene indicato anche come folla di per­sone (multitudo oppure p/ethos). In caso di necessità i rap­presentanti di diverse stirpi si riunivano in un'unica adu-

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nanza, come accadde in Britannia dopo l'invasione di Cesa­re (V 1 1 ) , nel 54 a.C., e durante l'assedio di Alesia, nel 52 a.C. In quell'occasione si riunì un concilium principum com­posto da tutte le genti galliche (VII 75) . Quest'istituzione era soggetta a modificazioni.

Nell'età di Annibale i galli erano soliti presentarsi arma­ti nell'assemblea del popolo, nell'età di Cesare (VII 75) solo quando si discuteva di guerra e di pace. L'applauso era sot­tolineato battendo le armi, come riferisce Cesare (VII 2 1 ) , e il dissenso dai brusii. Chi si fosse presentato con un ritardo eccessivo a un concilium armatum, si dice che venisse giusti­ziato pubblicamente tra i tormenti. Gli autori antichi sono unanimi nell'affermare che i galli erano grandi oratori. Da loro sappiamo anche come si manteneva il silenzio nell' as­semblea: a chi interrompeva un altro che aveva la parola, si strappava l'abito, stando a quanto è riportato da Strabone (IV 4, 3 ) .

L'assemblea del popolo era competente in tutte le que­stioni fondamentali dell'ambito politico. n compito di con­durre delle trattative con altre genti poteva essere ceduto con un mandato prestabilito. Orgetorige ebbe l'incarico dagli elvezi delle negoziazioni di politica estera che doveva­no preparare la migrazione. Sembra che anche i processi politici si celebrassero davanti al popolo. Quando Orgetori­ge venne accusato di aver aspirato al regno approfittando della migrazione, come è plausibile che fosse successo, egli fu citato in tribunale e anticipò l'inevitabile sentenza dan­dosi la morte.

Accanto al concilium Cesare cita a più riprese dei fun­zionari, magistratus. Non erano certamente magistrati nel sen­so romano del termine, ma erano dei pubblici ufficiali che ri­manevano in carica un anno su mandato dell'assemblea del popolo. Cesare (VI 20) dice che le popolazioni meglio orga­nizzate dal punto di vista amministrativo osservavano una leg­ge secondo la quale tutte le informazioni importanti che ri­guardavano lo stato dovevano essere riferite solo alle autorità competenti e non dovevano essere diffuse tra il popolo. I ma­gistrati rendevano pubblico quello che a loro sembrava op­portuno. Secondo Strabone (IV 4, 3 ) l'assemblea del popolo in carica eleggeva ogni anno in Gallia un capo (hegem6n) e un generale (strateg6s) in caso di guerra; non si sa però se

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entrambi esercitassero le loro funzioni anche contempora­neamente. Si presume che fosse l'assemblea degli uomini in grado di combattere a eleggere questi ufficiali tra le file del­la nobiltà. Cassio Dione (LXXVII 12) parla di elezione de­mocratica dell'arconte in Britannia.

Cesare (l 16, 5; VII 32, 5) tramanda che gli edui aveva­no un summus magistratus, e cioè un'autorità suprema a capo dell'organizzazione politica, che veniva eletto ogni anno e aveva diritto di vita e di morte su di loro. L'espressione tec­nica è vergobretus, che significa «giudice supremo». n titolo è attestato dalle iscrizioni ancora in epoca imperiale. Il ver­gobreto veniva designato dai sacerdoti e doveva essere neces­sariamente di quel popolo. Questo per quanto concerne la Gallia. Le notizie relative a magistrati celti al di fuori della Gallia sono esigue. Strabone (XII 5 , l) dice che ciascuno dei tre popoli galati aveva quattro tetrarchi, da ognuno dei qua­li dipendevano un giudice e un generale (stratophylax), oltre a due vicecomandanti.

I popoli celti si servivano della scrittura nella gestione dello stato in misura piuttosto apprezzabile. Non raggiunse­ro affatto in questo il livello dei greci e dei romani, ma su­perarono i popoli germanici, la cui organizzazione era anco­ra più arretrata. L'influenza dei celti sulla scienza del diritto germanica è evidente in alcuni concetti giuridici che il dirit­to germanico ha mutuato: oltre a Amt «carica» e Vasall «vas­sallo», sono di origine celtica le parole tedesche Reich «re­gno», Eid «giuramento» e Geisel «ostaggio».

3. Il declino politico

I celti sono uno dei tanti popoli scomparsi. La maggior parte delle natio n es dell'antichità ha subito una fase di deca­denza; non solo il gran numero di piccoli popoli del Vicino Oriente, dell'area danubiana e dell'Italia, della Spagna e del­l'Africa settentrionale, ma anche nomi di tutto rispetto come i fenici, i cartaginesi e gli etruschi. Già il geografo Strabone (IX 5, 12) aveva osservato che dei popoli erano scomparsi. Egli riconosce in questo fenomeno due diverse modalità: una che consiste nel genocidio, nella devastazione del territorio o nel ripopolamento; l'altra che consiste invece solo in un

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cambiamento di nome (to ethnik6n), di modo di vivere e di forma di governo (to systema). Questo è ciò che accadde di solito, malgrado le perdite di vite umane, e si verificò anche nel caso dei celti. Essi non hanno fondato nessuna tradizio­ne politica o religiosa che sia sopravvissuta nel tempo, anche se i loro discendenti vivono ancora.

La maggior parte dei celti fu sottomessa al dominio romano, a partire da quelli del nord Italia. Nel corso del III secolo a.C. dovettero subire parecchie sconfitte a opera dei romani: nonostante l'alleanza con gli etruschi e i sanniti, furono sconfitti nella battaglia del Sentino, nel 295 a.C.; die­ci anni dopo i senoni furono battuti in Umbria, i romani isti­tuirono l 'ager Gallicus e vi fondarono la colonia romana di Sena Gallica. Nel 225 , dopo la vittoria del Telamone sugli insubri e sui boi, i romani al contrattacco superarono per la prima volta il Po; nel 222 conquistarono la città degli insu­bri Mediolanum (Milano). Né l'arrivo dei celti dalla Gallia né l'avventura di Annibale poterono impedire che la Gallia Cisalpina all'inizio del II secolo cadesse definitivamente sot­to il dominio romano. A giudizio di Appiano (IV 7) , che scri­veva intorno al 150 d.C., i celti della fertile pianura padana erano diventati pacifici. Polibio (II 35 , 4) incontrò in quella zona solo pochissimi celti.

I celti della Spagna erano già sottomessi ai cartaginesi e furono annessi al dominio romano con la seconda guerra punica (2 18-201 a.C.). In Lusitania la ribellione capeggiata dal pastore Viriato contro la spietata politica coloniale di Roma, descritta da Appiano (VI 60 ss.) come era in realtà, senza mezzi termini, ebbe il sostegno dei celtiberi, ma non produsse una stabile configurazione politica, nonostante i considerevoli successi iniziali - numerosi eserciti romani, infatti, erano stati messi a dura prova dalla tattica della guer­riglia escogitata in quell'occasione e Viriato aveva ottenuto una pace onorevole -; il capo ribelle morì nel 139 a.C. per mano di un sicario del suo stesso esercito.

Il centro della rivolta dei celtiberi contro Roma fu la for­tezza di Numanzia, situata sul corso superiore del Durius (Duero) e abitata già dall'età del bronzo. Ripetuti attacchi dei romani erano stati respinti dai numantini: nel 195 a.C. fallì Catone il Censore, nel 153 fu la volta di Quinto Fulvio Nobiliore e nell'anno successivo quella di Marco Claudio

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Marcello. Altri due consoli furono sconfitti dal 141 al 138 a.C. Un evento degno di nota fu la capitolazione del conso­le Ostilio Mancino, nel 137 a.C.: questi, per salvare i suoi 20 mila uomini, sottoscrisse una pace disonorevole, ma il sena­to, influenzato dali' Africano Minore (Publio Cornelio Sci­piane Emiliano), si rifiutò di ratificare l'accordo. Per evitare la violazione del diritto e rispettare le regole del bellum iustum, la «guerra giusta», il console venne consegnato ai nemici, che lo esposero, nudo e incatenato, davanti alla por­ta di Numanzia. I numantini però si rifiutarono di accettare un riscatto. Fu lo stesso Scipione ad andare in Spagna e a conquistare la città dopo otto mesi di assedio, nel 133 a.C. I 4 mila celtiberi di Numanzia si consegnarono all'autorità dei romani. Alla distruzione della città erano presenti Mario, che pochi anni dopo avrebbe vinto la guerra contro Giu­gurta, il re dei numidi, e sconfitto i cimbri, e lo storico Poli­bio. N umanzia venne studiata a fondo dal punto di vista archeologico da Adolf Schulten, nella prima metà del XX secolo, quando furono portati alla luce tredici accampamen­ti romani. Tuttavia la rivolta dei celtiberi contro Roma non era stata ancora soffocata completamente: anche Augusto, nel 26 a.C., si trovò a combattere battaglie impegnative nel­la Spagna del nord contro gli Astures e i Cantabri.

La decadenza politica dei celti nella Gallia Transalpina iniziò nel momento in cui Roma si interessò alla città di Mas­silia (Marsiglia) . I greci di quella zona avevano prestato aiu­to ai romani con un contingente navale durante la seconda guerra punica e godevano perciò della protezione di Roma contro gli attacchi mossi dal retroterra celtico. Nel 125 a.C. il console Marco Fulvio Fiacco aprì le ostilità contro i celti voconzi a oriente del corso inferiore del Rodano; la prima stazione d'appoggio romana fu il castello di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence), fondato nel 122 a.C. In seguito a questo sorsero tensioni con i popoli confinanti a nord, con gli allo­brogi a est e gli arverni a ovest del Rodano, mentre i loro antagonisti, gli edui stanziati intorno a Lugdunum (Lione), stringevano un'alleanza con Roma. La vittoria del console Gneo Domizio Enobarbo nel 12 1 alla confluenza dell'Isère e del Rodano fece diventare la «Provenza» provincia roma­na, Domizio costruì una strada di collegamento con la Spa­gna e Narbo (Narbona), la capitale del popolo celtico dei

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Volcae, nel 1 1 8 diventò una colonia romana. La Gallia Nar­bonese si romanizzò rapidamente.

Nonostante i successi del sistema difensivo romano, i cel­ti del nord erano ancora considerati a Roma una minaccia. Quando i cimbri e i teutoni nel 1 13 a.C. oltrepassarono le Alpi, annientarono un esercito consolare nel territorio dei celti norici (regnum Noricum) , quindi conseguirono altre vit­torie sui romani nella valle del Rodano e poi ad Arausio (Orange) ; Roma fu allora in preda al terrore dei celti, poi­ché i germani non erano ancora riconosciuti come popolo a sé stante: i cimbri e i teutoni erano assimilati ai galli. Solo Mario vinse il terrore che incutevano i cimbri con i successi militari del 102 e del lOl a.C. Anche i galli veri e propri d'ol­tralpe continuarono a costituire un problema per i romani. Nel 63 a.C. il nobile irriducibile Catilina, come tramanda Sal­lustio (De coniuratione Catilinae 40 s . ) , cercò sostegno per la sua congiura tra gli allobrogi, che abitavano nella Gallia Nar­bonese e intorno a Vienna (Vienne) , e avevano inviato a Roma un'ambasceria per lamentarsi della pressione fiscale. Due anni dopo i romani dovettero soffocare una ribellione degli allobrogi, che al tempo di Cesare non erano ancora del tutto pacificati.

NOTA AL CAPITOLO NONO

1 ]. Moreau, Die We/t der Ke/ten, Stuttgart, 196 1 .

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CAPITOLO DECIMO

LA CONQUISTA ROMANA

l . Cesare conquista la Gallia

li più forte baluardo della cultura celtica era la Gallia Transalpina a nord della Narbonese. A causa delle rivalità che dividevano le genti, questa non costituì mai un pericolo militare concreto per Roma, ma attirava il suo interesse per l'abbondanza di beni e di uomini. Fu Cesare a intravedere e a sfruttare quest'opportunità. Per quanto riguarda i disordi­ni che scoppiavano di continuo nel nord, Cesare poté con­tare sul consenso di Roma quando si apprestò a sottomette­re l'intera Gallia. Dopo il consolato del 59 a.C., egli ottenne con un decreto del senato di amministrare la Gallia Cisalpi­na, l'Illirico e, dopo la morte improvvisa del precedente go­vernatore, anche la Gallia Narbonese. Per poter esercitare un ruolo politico di tutto rilievo nella politica interna, come ave­vano fatto prima di lui Mario, Silla e Pompeo ritornando vit­toriosi alla testa di un esercito, Cesare cercò un teatro per le sue operazioni militari e lo trovò in Gallia. Poiché una di­chiarazione di guerra avrebbe richiesto un decreto del sena­to e del popolo romano, Cesare presentò ufficialmente la sua iniziativa come un'azione di polizia finalizzata a proteggere la provincia che gli era stata assegnata. Un'occasione gli ven­ne offerta dal popolo celtico degli elvezi, che intorno all'SO a.C. erano sfuggiti alla pressione degli svevi, che confinava­no con loro a nord-est, spostandosi dalla Germania meridio­nale alla Svizzera, ma avevano deciso poi di cercare nuove sedi dove insediarsi. Quando vollero attraversare la provin­cia romana, mentre erano diretti verso la Gallia occidentale, Cesare li affrontò a Ginevra. Perciò essi scelsero la strada ver­so il nord attraverso il territorio dei sequani. Cesare li inse­guì nelle terre della Gallia che non erano romane, occupò la capitale degli edui Bibracte (Mont Beuvray) vicino ad Augu-

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stodunum (Autun), sconfisse gli elvezi e costrinse i soprav­vissuti a ritornare in Svizzera.

Dal canto suo, però, Cesare non si ritirò, anzi ampliò lo scenario di guerra. Nella terra dei sequani si era insediato il principe svevo Ariovisto. Nel 7 1 a.C. egli aveva offerto il suo aiuto agli abitanti del territorio contro gli edui e da quel momento era diventato l'uomo più potente di quella regio­ne. Sebbene il senato, per assicurarsi il controllo del territo­rio, Io avesse proclamato «amico del popolo romano», Cesa­re chiese che si ritirasse (I 33 ss.) . Egli si impadronì dell'a­vamposto sequano di Vesontio (Besançon) , sconfisse i germani e li respinse oltre il corso superiore del Reno. Quel­Io era il confine dell'impero romano alla fine del 58 a.C.

Cesare tenne il territorio conquistato per tutto l 'inverno. Nel 57 di nuovo si presentò alla testa delle legioni appena arruolate e dopo alcuni scontri cruenti sottomise i belgi cel­tico-germanici e i nervi nella Gallia del nord. Nel 56 assog­gettò i veneti, sulla costa dell'Atlantico, e i celti dell' Aquita­nia: in questo modo l'annessione della Gallia sembrò com­pletata, fatta eccezione per la Bretagna. L'anno seguente, nel 55, Cesare si preoccupò di rendere più sicura la sua posi­zione a Roma: il suo potere proconsolare venne prorogato di altri cinque anni e la politica da lui condotta ebbe la ratifi­ca del senato.

Di carattere dimostrativo è probabile che fossero da un lato i due passaggi del Reno, compiuti nel 55 e nel 53 a.C. e rimasti famosi per la costruzione del ponte, situato in una località tra Coblenza e Andernach, che Cesare descrive nei minimi dettagli tecnici (IV 16 ss.) e, dall'altro lato, le spedi­zioni in Britannia del 55 e del 54, per punire coloro che dal­l'isola presumibilmente inviavano aiuti ai celti del continen­te. Nello stesso momento Cesare (V 7) fece assassinare l'av­versario più capace, l' eduo Dumnorige, genero di Orgetorige, che si era rifiutato di accompagnarlo in Britannia. Là il re Cassivellauno, che abitava nella regione a metà del corso del Tamigi, si oppose ai romani, ma ne uscì sconfitto tanto da impegnarsi a versare un tributo a Roma dopo che la sua capi­tale era stata distrutta. Nel 55 a.C. in Gallia Cesare (IV 14 s.) vinse con l'inganno gli usipeti e i tencteri, popoli germa­nici penetrati nel Belgio, e soggiogò quindi i marini e i mena­pi, stanziati sulle coste del canale della Manica. I suoi legati

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non ebbero sempre la sua stessa fortuna: nell'anno successi­vo perse 15 coorti nella sommossa degli eburoni guidati da Ambiorige nei dintorni di Aduatuca (Tongres) . A questa seguì la ribellione dei nervi, che erano a occidente degli eburoni. Nel 53 Cesare (VI 34 ss.) si prese la rivincita e devastò la ter­ra degli eburoni.

L'anno decisivo per le sorti della Gallia fu il 52. L' ar­verno Vercingetorige, figlio dell'uomo più in vista del terri­torio, suscitò una rivolta che si diffuse in tutta la Gallia cen­trale. Nello scontro sul campo fu sconfitto dai romani, ma in seguito li incalzò con una serie di piccoli scontri finché Cesare (VII 69) non riuscì ad assediarlo ad Alesia (Alise Ste.­Reine). Un sistema difensivo costituito da un vallo della lun­ghezza di 18 km impediva a Vercingetorige qualsiasi contat­to con il mondo esterno. La conquista di questa roccaforte è come quella di Numanzia e si colloca tra gli assedi più famosi dell'antichità: una rassegna che inizia dal mito della guerra di Troia e continua con la sconfitta degli ateniesi a Siracusa nel 4 14 a.C., con l'espugnazione di Tiro da parte di Alessandro nel 332, con la resistenza dei rodii all'attacco di Demetrio Poliorcete nel 305, con la distruzione di Cartagi­ne nel 146 per mano di Scipione, con la conquista di Geru­salemme a opera di Tito nel 70 d.C., e si conclude con il sacco di Roma, nel 4 10 d.C., a opera di Alarico e dei suoi visigoti.

Cesare dedica alla battaglia contro Vercingetorige tutto il VII libro del De bello Gallico, senza nascondere anche i con­traccolpi che lui stesso subì, ad esempio il fallimento del­l'attacco a Gergovia, la città natale del suo avversario, e met­tendo in luce, naturalmente, il suo contributo personale, quando in una situazione critica prese parte alla lotta col mantello rosso che portava in battaglia (VII 88) , per impe­dire che l'intero esercito dei galli, composto anche da edui, rompesse la cintura difensiva esterna che doveva proteggere le spalle degli assedianti. Alesia venne presa per fame, Ver­cingetorige si arrese e venne eliminato a Roma nel buio car­cere Tulliano il 26 settembre del 46 a.C. durante il trionfo di Cesare, dopo sei anni di prigionia. Prima di lui erano mor­ti qui i sostenitori di Gaio Gracco, i complici di Catilina e anche il re dei numidi, Giugurta; successivamente il prefet­to del pretorio Seiano, caduto in rovina insieme alla sua fami-

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glia per volontà dell'imperatore Tiberio. I loro cadaveri ven­nero gettati nel Tevere.

Dopo la capitolazione di Alesia rimanevano ancora da sedare numerose piccole insurrezioni, di cui rimane memoria grazie alla descrizione fatta da Aulo Irzio, un amico di Cesa­re, nell'VIII libro del De bello Gallico. Per ultima cadde, nel 5 1 a.C., la fortezza quasi inespugnabile di Uxellodunum, nel­la regione di Quercy (Departement Lot), dove furono taglia­te le mani ai difensori che erano soprav-Vissuti. Una punizio­ne di questo tipo da infliggere ai nemici ostinati non rimase un caso isolato nella storia romana: Augusto la applicò in Spagna contro i celti ribelli, i quali a loro volta, come rac­conta Strabone (III 3 , 6) , facevano la stessa cosa, giustifican ­dola però come sacrificio umano parziale offerto come rin­graziamento agli dèi.

Con i galli soggiogati Cesare stipulò un' «alleanza iniqua», che imponeva il pagamento di tributi e proibiva loro di fare delle guerre. Egli cercò di legare a sé la classe dirigente con­cedendole la cittadinanza romana con una certa generosità; fece addirittura entrare in senato un numero così elevato di galli che si diceva, scherzando, che egli avesse tolto la toga ai senatori per mettere loro le bracae. Il IO gennaio del 49 Cesare attraversò il Rubicone e proseguì la guerra in Gallia con la guerra civile. Quando diventò dittatore, nello stesso anno, diede la cittadinanza romana ai celti della Gallia Cisal­pina, dove aveva arruolato le sue legioni; questi già dall'89 a.C. avevano ottenuto il diritto latino. Nel 4 1 a.C. la pianu­ra padana fu annessa all'Italia.

2 . I celti in età imperiale

Dopo che Cesare aveva posto le basi del dominio di Roma in Gallia, al suo successore Augusto non rimase che il compito di definire i confini settentrionali dell'impero roma­no. li tentativo di annettere la Germania Magna fallì. L' af­fermazione di Augusto nel XXVI capitolo delle Res gestae (cfr. in/ra) secondo cui egli avrebbe pacificato la Gallia, la Spagna e la Germania da Gades, sull'Oceano Atlantico, fino alla foce dell'Elba, è un po' lontana dalla realtà dei fatti, se si considera che passa sotto silenzio la grave sconfitta subita

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nella selva di Teutoburgo, che neppure i successi di suo nipo­te Germanico riuscirono a riscattare.

Augusto però completò l'opera di sottomissione dei cel­ti che erano ancora liberi. Li vinse in Dalmazia, dopo che gli iapidi che risiedevano a Krain avevano inflitto ai romani di­verse sconfitte: avevano infatti assediato Aquileia e saccheg­giato Trieste. Dal 35 al 3 3 a.C. Ottaviano - solo nel 27 a.C. infatti egli ricevette il titolo onorifico di Augusto - condus­se personalmente la campagna contro di loro e in quell'oc­casione fu anche ferito. Dopo numerosi combattimenti il po­polo venne sottomesso e si estinse quasi completamente. Quelli che non si erano già uccisi, come riferisce Cassio Dio­ne (XLIX 35) , si diedero la morte in seguito.

Le stirpi celtiche delle Alpi, tuttavia, ebbero modo di conservare ancora a lungo la loro autonomia. Queste intrat­tennero buoni rapporti con i romani, ai quali concedevano di attraversare il loro territorio, fino a quando, nel 35 a.C., durante le guerre in Dalmazia, non si ribellarono i salassi, che erano stanziati insieme ai taurini intorno a Torino. li fat­to che i salassi setacciassero l'oro dei fiumi e controllassero i passi alpini occidentali , in particolare il Gran San Bernar­do e il Col du Clapier, il passo che aveva attraversato Anni­bale per arrivare in Italia, era già stato nel passato motivo di conflitto con i romani. Nel 25 a.C. furono sconfitti da un generale di Augusto: 8 mila guerrieri e 36 mila civili furono venduti come schiavi, come racconta Strabone (IV 6, 7) . Per assicurarsi il controllo del territorio l'imperatore fondò la città di Augusta Praetoria (Aosta).

Dieci anni dopo arrivò ad attaccare sia i celti sia i reti nelle Alpi centrali e sul lago di Costanza. Il figlio adottivo che poi successe ad Augusto, Tiberio, soggiogò a partire dalla Gallia il Vallese, suo fratello Druso estese il dominio romano dalla valle dell'Adige e dell'Isarco oltre il passo del Brennero, che prendeva il nome dal popolo celtico dei Breuni, fino al Danubio; è probabile che la città celtica di Manching fosse stata distrutta proprio in quel frangente e che vicino alla città di Augusta (Augusta Vindelicorum) fosse stabilito un quartiere militare. Un grande monumen­to onorario per celebrare la vittoria, il tropaeum Alpium, eretto a La Turbie, a nord del principato di Monaco, elen­ca i nomi delle 46 popolazioni vinte. Si è potuto ricom-

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porre e integrare i 170 frammenti conservati dell'iscrizione, che è andata in gran parte distrutta nel medioevo, per il fatto che Plinio il Vecchio ne ha tramandato il testo (III 136 ss. ) .

Nel 1 0 a.C. anche il territorio dei celti narici (regnum Noricum) divenne parte dell'impero romano. Assunse il co­mando della campagna militare il governatore dell'Illirico, il territorio romano che confinava con il Norico a oriente: il passaggio al governo romano si compì pacificamente, proba­bilmente dopo la morte dell'ultimo re, che non aveva eredi. Roma mandò un pre/ectus civitatis, che risiedeva a Virunum, vicino a Klagenfurt.

Come i galli della Cisalpina, così anche quelli della Trans­alpina divennero romani. L'imperatore Claudio fu il primo ad aprire l'accesso al senato agli edui, nell'anno 48, dopo che l'appello alla libertà lanciato dai galli romanizzati Giulio Flo­ro e Giulio Sacroviro, che fecero guerra all'imperatore Tibe­rio nel 2 1 d.C., ebbe ottenuto pochi consensi. La rivolta di Giulio Vindice, figlio del re degli aquitani, contro Nerone nella primavera del 68 non aveva più come obiettivo l'unità nazionale dei celti. L'ultima volta che si può parlare di un imperium Galliarum germanico-celtico è in occasione della rivolta del batavo Giulio Civile, dopo la morte di Nerone, anche se non si può dire in quali circostanze tale progetto avrebbe potuto realizzarsi.

Già prima che gli ultimi celti alpini dovessero rinuncia­re alla loro autonomia politica, i galati dell'Asia Minore ave­vano perso la loro. La presenza minacciosa dei romani a par­tire dal 133 a.C., quando il regno di Pergamo era diventato una provincia romana con il nome di Asia, aveva indotto i galati a cercare una possibilità di salvezza passando come alleati dalla loro parte; inoltre la supremazia di Roma in Asia Minore, che le vittorie di Silla, Lucullo e Pompeo su Mitri­date VI del Ponto avevano reso indiscutibile, non fece che rafforzare l'atteggiamento filoromano dei galati. Inoltre essi vennero coinvolti senza volerlo negli scontri delle guerre civi­li romane. Per aver dato il suo appoggio ai romani il tetrar­ca Deiotaro, che si era meritato l'epiteto di Philorhomaios «filoromano», nel 63 a.C. ebbe dal senato, su proposta di Pompeo, il titolo di re e ottenne anche altri territori per tene­re sotto il proprio controllo i tolistoagi e i tettosagi.

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A Farsalo, nel 48 a.C., Deiotaro combatté dalla parte di Pompeo, che l'aveva legato a sé favorendolo nella riorganiz­zazione dell'Oriente nel 64 a.C. Cesare fu clemente con il re e ottenne in cambio il suo aiuto nella guerra contro Fama­ce, il re del Ponto (in seguito alla sua fulminea capitolazio­ne Cesare pronunciò la famosa frase veni vidi vici «venni, vidi e vinsi») . Cesare tuttavia tolse a Deiotaro alcuni dei ter­ritori che aveva occupato. Per vendicarsi il re dei galati orga­nizzò un attentato per uccidere Cesare. Nel 45 a.C. Cicero­ne difese il re in un'orazione che la tradizione ha conserva­to. Sul campo di battaglia di Filippi, nel 42 a.C., egli si trovò di nuovo dalla parte sbagliata, ma alla morte di Cassio pas­sò dalla parte di Ottaviano e morì nel 40 a.C. senza aver per­so né il titolo né il regno. Quando la sua dinastia si estinse, Augusto vi introdusse l'ordinamento di provincia, nel 25 a.C.: la Galazia diventò una provincia dell'impero romano governata da un legato con i poteri di pretore (legatus Augu­sti pro praetore) .

I galati non costituirono più un problema per i romani in età imperiale, a differenza degli isauri dell'Asia Minore. Come gli altri abitanti delle province, essi celebravano la consueta festa annuale in onore dell'imperatore, presieduta da un sacerdote provinciale chiamato galatdrches. L'aggetti­vo sebdsteios «imperiale», preposto al nome del popolo nel­le iscrizioni, sottolinea la lealtà dei galati a Roma. Iscritto sul­le pareti del tempio dedicato ad Augusto e a Roma ad Ancy­ra (Ankara) , si è conservato il testo contenente il resoconto delle gesta di Augusto, le Res gestae Divi Augusti, detto anche Monumentum Ancyranum. Questo testamento politico del primo imperatore romano è stato definito da Theodor Mommsen la «regina delle iscrizioni» ed è una fonte inso­stituibile per l'inizio del principato. L'iscrizione è bilingue, in latino e in greco, e documenta il processo di ellenizzazio­ne a cui si aprirono i galati. Già nel II secolo a.C. i membri della classe dirigente portavano dei nomi greci.

La diffusione della conoscenza del greco tra i galati è attestata dalla lettera del Nuovo Testamento che san Paolo indirizzò a loro. La sua composizione, avvenuta presumibil­mente a Efeso, risale al 54 d.C. I galati ellenizzati venivano anche designati col nome di Gallograeci. La disponibilità a mescolarsi con altri popoli è testimoniata inoltre dai nomi dei

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celtiberi in Spagna, dei celti sciti alla foce del Danubio e dei celti ligi lungo il corso inferiore del Rodano. A differenza delle altre lettere meglio note di Paolo, la Lettera ai galati non è indirizzata ai cristiani di una città e questo perché i galati abitavano prevalentemente nelle campagne. La Lettera ai galati è importante nella teologia paolina perché l'aposto­lo si rivolge qui con tutta la sua forza contro la richiesta degli ebrei cristiani di fare circoncidere prima i nuovi seguaci del­Ia fede cristiana: e i galati non erano i soli a opporsi a que­sta mutilazione. Nonostante l'ellenizzazione di questo popo­lo, l'idioma celtico sopravvisse. Lo testimonia, ancora nel 400 d.C., il padre della chiesa Girolamo: questi aveva imparato il celtico a Treviri e, quando si recò poi tra i galati dell'Asia Minore, era in grado di comprendere la loro lingua. Questi due gruppi di celti rimasero divisi per oltre settecento anni.

Diversamente dai celti del continente, i britanni conser­varono in un primo momento la loro indipendenza. Non è ben chiaro se e quanto a lungo il tributo imposto da Cesa­re fosse stato pagato: nulla infatti cambiò sull'isola nelle re­lazioni tra i popoli. La spedizione in Britannia che Augusto aveva pianificato fu annullata quando i salassi insorsero (cfr. supra). Sfruttò a proprio vantaggio la debolezza di Roma il re Cunobelino, che trasferì la residenza da Verulanium (St. Albans) a Camulodunum (Colchester); riuscì ad annettere territori di più vaste dimensioni nel sud-est dell'isola, così da meritarsi la designazione di rex Britanniarum. Cunobeli­no importava merci romane e coniava monete con caratteri latini. I buoni rapporti che intratteneva con Roma si gua­starono quando suo figlio si ribellò e lui chiese aiuto al­l'imperatore Caligola. Questi nel 40 d.C. armò una spedi­zione militare, ma si limitò a raccogliere conchiglie, a erige­re un monumento celebrativo della vittoria e a festeggiare il trionfo. Il re, che morì poco tempo dopo, secondo Goffre­do di Monmouth (IV 1 1 s.) , continuò a vivere nel Cimbeli­no di Shakespeare.

Un tentativo vero e proprio di conquistare la Britannia venne intrapreso da Claudio, che conquistò le Lowlands tra il 43 e il 48 d.C. Nel 61 , però, scoppiò la rivolta di Budic­ca, la vedova del re cliente degli iceni, che conquistò Camu­lodunum, Verulamium e Londinium, ma in seguito non ten­ne testa alle legioni romane e si avvelenò. Agricola, il suoce-

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ro dello storico Tacito, nell'SO d.C. su incarico di Domizia­no si diresse verso la Scozia e il Galles, dove Roma tuttavia non aveva ancora trovato punti d'appoggio, e circumnavigò l'isola. Adriano fece costruire da costa a costa un muro (non un vallo). Uno spostamento di breve durata del confine mili­tare verso nord, awenuto durante il principato di Antonino Pio, e i successi in battaglia sotto Settimio Severo non modi­ficarono nulla: le Highlands e anche l'Irlanda non furono annesse all'impero romano. I romani una volta costruirono una testa di ponte sulla costa irlandese orientale, ma non l'u­tilizzarono. Queste regioni non erano importanti dal punto di vista politico o economico.

Nella Britannia romana la cultura celtica ebbe una diffu­sione limitata, come quella romana nella Britannia anglosas­sone. Solamente nelle aree periferiche si continuava a parla­re celtico e qui la lingua soprawisse addirittura oltre il medioevo (cfr. in/ra). A partire dal IV secolo d.C. la Britan ­nia fu esposta agli attacchi dei pirati irlandesi e sassoni, e nel V secolo cadde sotto il dominio dei germani. Allora parecchi celti britannici fuggirono nella Aremorica, che per questo ricevette nel VI secolo il nome di Britannia minor (Bretagna). La fonte principale è il lamento in latino scritto dal monaco britannico Gildas: il testo, datato al VI secolo d.C., parla del declino della Britannia, della cui sofferenza egli credeva fos­se responsabile · la classe dirigente corrotta dal peccato.

Le tradizioni etniche dei celti si sono conservate più a lungo dell'autonomia politica: sono rimaste vive ben oltre la tarda antichità. I poeti Ausonio (IV secolo d.C.) e Sidonio Apollinare (V secolo d.C.) nella Gallia meridionale testimo­niano l'orgoglio dell'origine celtica tra i membri dell'ordine senatorio dell'epoca, in particolare perché discendevano dagli edui. I toponimi e gli usi funerari di età preromana ritorna­rono in vita. Si tratta, però, di una cultura celtica filtrata attraverso quella romana, che cioè aderiva all'impero dal punto di vista culturale e politico; Roma, viceversa, rispetta­va i costumi dei popoli che facevano parte del suo impero. Quando nel Digesto del Corpus iuris civili.r (32, 1 1 pr. ) , pub­blicato nel 533 d.C., si sottolineò che nel diritto romano i testamenti erano validi anche qualora fossero stati redatti in lingua celtica (lingua Gallicana), non si faceva certo riferi­mento solo a una disposizione dell'epoca di Ulpiano, il 200

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d.C. circa, e ormai in disuso nel VI secolo. È sorprendente che il celtico non venisse solo parlato ma anche scritto. Pur­troppo nessun testo si è conservato.

La diffusione della lingua celtica nella Gallia è attestata per il periodo intorno al 200 d.C. dal padre della chiesa Ire­neo di Lione, per la seconda metà del IV secolo da Sulpicio Severo e Girolamo (cfr. supra), per il V secolo da Sidonio Apollinare. Ecdicio, figlio dell'imperatore Avito (455 -456), indusse le famiglie nobili delle Gallie a cambiare la rozza lin­gua celtica con l'elegante latino. I nomi celti scomparvero dalle iscrizioni già nel III secolo d.C. A determinare il pri­mato del latino, o meglio del romanico, non fu l' ammini­strazione romana ma la chiesa cattolica, che in Occidente predicava in latino. Della lingua celtica si conservarono solo alcune forme particolari: tra queste quella relativa alla di­stanza, che in Gallia non si calcolava in miglia (milia paJ­suum) di 1 .000 passi ( 1 ,5 km), ma in leugae (frane. lieue) di 1 .500 passi (2,2 km).

Nell'anno 286 in Gallia fanno la loro prima apparizione i bagaudi. La parola, di origine celtica, significa «guerriero». Erano grandi bande di briganti composte da contadini ridotti in miseria, schiavi fuggitivi ed ex soldati. È difficile stabilire quale connessione ci fosse tra motivazioni sociali ed etniche in questo fenomeno. Un oratore della raccolta dei Panegirici latini (X 4 , 3 ) nel 289 d.C. loda l'imperatore Massimiano Er­culio a Treviri perché ha sedato una rivolta in Gallia sia con durezza sia con indulgenza, quando i «contadini ignoranti volevano essere soldati, quelli che aravano fanti, i pastori ca­valieri e la popolazione delle campagne si comportava come barbari ostili». Due anni dopo un altro oratore (XI 5 , 3 ) ce ne fornisce il motivo: i contadini si sarebbero irritati per i soprusi del governo. Il padre della chiesa Salviano di Marsi­glia nel V secolo considerava i bagaudi dei barbari che of­frivano asilo alle vittime dell'amministrazione romana avida e spietata. Dei loro due capi, Eliano e Amando, almeno il se­condo si era innalzato al ruolo di ami-imperatore, stando alla testimonianza delle monete. Entrambi erano venerati come martiri ancora nel VII secolo d.C.

Nel IV secolo non abbiamo più notizia dei bagaudi, ma nel V secolo essi salgono nuovamente alla ribalta. Nel 409 gli abitanti delle province romane della Britannia e della Are-

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morica cacciarono prima i barbari e poi i funzionari romani, probabilmente durante una rivolta dei coloni. In una com­media del tempo, il Querolus, si parla dei briganti della Loi­ra che vivevano là nelle loro «foreste liberamente», iure gen­tium, non soggetti alle leggi dell'impero. Nel 435 si ribella­rono di nuovo i bagaudi della Gallia Ulteriore sotto la guida di Tibatto e due anni dopo furono sconfitti. A questa seguì, nel 448, un'altra rivolta. Una cronaca gallica riferisce che in questo stesso anno il medico Eudossio, coinvolto nel movi­mento dei bagaudi, sarebbe fuggito tra gli unni; là questi potrebbe avere consigliato ad Attila la spedizione in Gallia. Il governo romano impiegò le popolazioni germaniche allea­te contro i bagaudi, che dal 44 1 al 454 agitarono anche gli abitanti della Spagna Tarragonese. Fino all'ultimo i romani riuscirono a dividere i loro nemici e a metterli uno contro l'altro.

Nell'economia tardoantica i galati sono attestati come mercanti di schiavi. L'imperatore Giuliano, come narra Am­miano Marcellino (XXII 7 , 8), parla dei loro affari con i goti del Danubio e anche il poeta Claudiano (XVII 59) fa riferi­mento a dei mercanti di schiavi galati intorno al 400 d.C.

Quando il dominio romano crollò sotto la pressione del­le invasioni dei popoli barbari, i celti furono attratti nell'or­bita della civiltà germanica. Le regioni a nord delle Alpi furo­no occupate, a partire dal III secolo d.C., dagli alamanni e, dal VI secolo, dai bavaresi (Baiern), un popolo affine (la diversa grafia Bayern risale al re Ludovico I, che voleva com­prendere con questa designazione gli abitanti della Franco­nia e del Palatinato, diversamente dagli antichi bavaresi di cui si parla qui). Il loro nome è menzionato nella forma Bai­bari per la prima volta nel VI secolo d.C. da Jordanes (Geti­ca 280) , la forma più tarda Baioarii o Baiuvarii Ii designa come «popolo proveniente dalla terra dei boi». I boi erano certamente celti, ma erano già stati germanizzati nel I seco­lo d.C. dai marcomanni, cosicché l'onomastica del territorio non offre più alcun argomento decisivo per affermare l'ori­gine celtica dei bavaresi. Essi parlavano una lingua germani­ca. I celti del Danubio scomparvero con l'arrivo dei traci, dei sarmati, dei quadi e dei marcomanni. È probabile che quan­do gli slavi raggiunsero la penisola balcanica, nel VI secolo d.C., non vi fossero più celti.

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La storia politica dei celti nell'antichità terminò con la loro annessione al dominio romano, ma visse il suo vero epi­logo quando la Bretagna si impose sul regno franco dei merovingi e dei carolingi. Infatti i sovrani pagarono dei tri­buti in alcuni periodi, ma inflissero ai franchi sconfitte anche gravi. Solo i normanni riuscirono ad assoggettare quella ter­ra, ma il loro ducato, istituito nel 936, rimase a lungo indi­pendente. Solo il 14 agosto del 1532 si realizzò a Nantes I 'U­nion perpetue/le con la corona di Francia.

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CAPITOLO UNDJCESIMO

LA MISSIONE DEGLI SCOTI D'IRLANDA

L'antica civiltà celtica termina dal punto di vista cultu­rale con l'ellenizzazione a Oriente e la romanizzazione a Occidente, dal punto di vista religioso con la cristianizza­zione. Ciò nonostante essa è sopravvissuta nelle aree perife­riche dell'Occidente antico e ha vissuto nel medioevo e nel­l'età moderna momenti di rinascita di tutto rilievo. La cultu­ra celtica, apparentemente estinta, ha continuato a vivere mostrando di essere attiva in tre ambiti: la missione della chie­sa, la miniatura sacra sui codici e la mitologia letteraria. In tutti questi campi si giunse a realizzazioni di portata europea.

In primo luogo la missione: in tutte le province dell'im­pero romano attraversate dai germani ai tempi delle inva­sioni, si conservarono elementi fondamentali della civiltà: la lingua latina, la vita delle città, sia pure in forma ridotta, e soprattutto il cristianesimo. La chiesa riuscì per così dire vin­citrice dalla crisi politica ed economica, perché poteva non solo conservare i suoi beni e il suo patrimonio, ma li accreb­be e negli aspetti essenziali rappresentò l'elemento di conti­nuità culturale con il medioevo.

Il caso della Britannia costituì un'eccezione. I sassoni, gli angli e gli iuti al seguito di Hengist e Horsa, chiamati sull'i­sola dal re Vortigern nel 450 d.C., erano pagani. Questi sac­cheggiarono le chiese, i monasteri e anche le città e le ville: non rimase alcuna traccia della vita religiosa. Ma, senza aver­ne l'intenzione, le razzie dei conquistatori determinarono la cristianizzazione dell'Irlanda. Come altri popoli periferici del­l' antichità - ad esempio i goti della Russia meridionale, gli iberi in Georgia, i mauri e gli etiopi - gli irlandesi conob­bero il cristianesimo tramite i prigionieri di guerra romani. Secondo la Vita di San Patrizio, che fu compilata solo nella seconda metà del IX secolo, il giovane cristiano della Bri­tannia Patrizio, venerato in seguito come santo, giunse pri-

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gioniero in Irlanda già nell'anno 405. È attendibile la notizia secondo cui nel 430 d.C. circa il papa Celestino mandò in missione il vescovo Palladio tra gli scoti irlandesi.

Si sviluppò una cultura monastica vivace, nota per lo zelo religioso e il rigore ascetico. Di origine irlandese sono la ton­sura e la confessione individuale privata, che facevano parte di un rigoroso regolamento di penitenza. Le loro regole sono talora crudeli: chi parla durante il pasto riceve sei percosse e così pure chi tossisce durante la lettura dei salmi o sorri­de durante la preghiera corale; chi si dimentica di pregare dopo il lavoro riceve dodici bastonate, come anche chi par­la a vanvera; cinquanta percosse si merita chi urta l'altare, chi contraddice un confratello o chi rimprovera il guardia­no; cento sono per chi ha dimenticato la sua offerta prima di recarsi alla messa. In alcuni casi la pena corporale poteva essere sostituita da un digiuno più rigido o dal silenzio pro­lungato. L'uso dell'acqua venne limitato: anche i fratelli che svolgevano dei lavori sudici potevano lavarsi solo la domeni­ca. Questo per quanto riguarda la disciplina penitenziale di Colombano (cfr. in/ra) . Il libro delle penitenze Gli amici di Dio ( Culdees) indica come condizione necessaria per salvare un'anima dall'inferno di recitare per un anno intero, tutti i giorni, un Padre Nostro, inoltre di sopportare numerose fru­state e di fare delle genuflessioni, oltre a un mese di digiu­no supplementare. Come forme di penitenza si consiglia di dormire sulle ortiche, su gusci di noce o nell'acqua, inoltre di trascorrere la notte nella tomba con un cadavere. Un copi­sta commenta: «sei severo, libro delle penitenze !» . La reli­giosità di cui parla Cesare (VI 16) a proposito dei celti paga­ni rimase anche dopo il cambiamento di fede religiosa.

I celti delle isole arrivarono a esercitare un ruolo di una certa importanza nella storia mondiale con la missione gesti­ta dagli scoti d'Irlanda, e perciò chiamata scoto-irlandese. Alcune personalità di rilievo, degne di essere nominate a questo proposito, sono: Colomba, scomparso nel 597 , che andò in missione dai pitti della Scozia, che allora non era ancora chiamata così, e Colombano, morto nel 615, che inau­gurò la schiera dei missionari scoti d'Irlanda sul continente, dove fondò i monasteri di Luxeuil (Borgogna) e di Bobbio {Italia settentrionale). Tra i più noti scoti-irlandesi sono da annoverare Gallo, l 'allievo di Colombano morto nel 630, al

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quale risale il monastero di San Gallo, e Kilian, che nel 690 circa fondò l'episcopato di Wiirzburg. La missione degli sco­ti d'Irlanda creò le premesse essenziali per l'operato di Boni­facio, che era sì originario delle isole britanniche, ma veniva dal Wessex, che significa «Sassonia occidentale», ed era quin­di anche di origine germanica, come dimostra il suo nome di battesimo Winfried. Quando venne ucciso nella regione dei frisoni nel 754, Bonifacio aveva organizzato la chiesa del regno dei franchi sulla riva destra del Reno.

In epoca tardocarolingia gli irlandesi si misero ancora in evidenza nel territorio dei franchi, non come missionari ben­sì come studiosi. Per sfuggire alla situazione di insicurezza in cui versava l'Irlanda a causa degli attacchi dei pirati nor­manni - nell'830 il vichingo Turgesio raggiunse la città di Dublino -, essi cercarono e trovarono ospitalità alla corte dei franchi. Giovanni Scoto Eriugena, lo «scoto d'Irlanda», era uno dei più grandi studiosi del suo tempo e diresse la scuo­la di corte di Carlo il Calvo a partire dall'847 . Egli scriveva sia in greco sia in latino. Sempre alla scuola di corte, già sot­to Ludovico Pio, lavorava il geografo irlandese Dicuil, che lasciò, tra le altre opere, scritti di grammatica, di cronologia, sulle misurazioni e sui pesi. Sedulio Scoto compilò tra l'altro un manuale per il principe e fondò, intorno all'850, una colo­nia irlandese a Liittich. Ancora oggi persistono legami intel­lettuali tra l'Irlanda e il Belgio.

Uno splendido capitolo della storia dell'arte celtica è rap­presentato dalla miniatura su codice dell'alto medioevo, o meglio dalla calligrafia irlandese, che accolse elementi stili­stici di antica origine celtica e li sviluppò fino a raggiungere livelli di maestria mai eguagliati prima. Innovazioni irlandesi sono considerate la decorazione e l'abbellimento delle ini­ziali, che talora con i loro intrecci geometrici occupavano un'intera pagina. Diversi sono gli animali stilizzati, gli uccel­li, i pesci, che si intrecciano nel disegno. L'arte della minia­tura celtica è connessa allo stile dell'ornamentazione zoo­morta del periodo delle invasioni. Diverse sono le ipotesi sul­la sua origine. Nei diversi settori dell'artigianato artistico, nell'industria orafa, nella scultura in legno e in pietra si tro­vano esempi che dalla regione degli sciti attraverso il nord Europa - basta pensare alla nave di Oseberg del IX secolo, rinvenuta nel 1905 e conservata oggi a Oslo -, arrivano fino

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all'Irlanda e trovano qui nell'arte della miniatura sacra l 'e­spressione più alta. Come succede solitamente nell'arte po­polare, i calligrafi dei preziosi manoscritti rimangono ano­nimi. Esemplari di grande effetto di quest'arte sono il Libro di Durrow, del VII secolo, l'Evangeliario di Lindisfame, nel­la Northumbria, del 700 circa, e il Libro di Kells, opera in­compiuta dell'VIII secolo.

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CAPITOLO DODICESIMO

I MITI

La tradizione letteraria coltivata nei monasteri irlandesi diede risultati ancora più rilevanti dell'arte della miniatura. Essa non consisteva solo nella trascrizione dei testi sacri, ma anche nella redazione di nuovi, quali le vite di santi e le rac­colte di canti ecclesiastici. Gli inni sacri irlandesi, che risal­gono fino al VII secolo, con la rima finale e il numero costan­te delle sillabe, rappresentano gli inizi della poesia europea in rima. È una piacevole sorpresa il fatto che i monaci abbia­no raccolto e registrato la tradizione gaelica a partire dal periodo precristiano. Come non avremmo l'Edda germanica e l'antica mitologia, se queste non fossero state salvate dai religiosi, così dobbiamo la sopravvivenza delle leggende cel­tiche irlandesi all'erudizione dei monasteri.

Alla loro attività di raccolta ha contribuito l'interesse per la storia. Si voleva compensare una lacuna: infatti la Bibbia e la storiografia greco-romana offrivano ai popoli del Medi­terraneo una storia che risaliva fino alla creazione del mon­do e che aveva trovato la sua sistemazione canonica nella Cronaca universale di Eusebio e dei suoi continuatori. Que­sto mancava nel mondo celtico. Tra Iafet, il figlio di Noè dal quale secondo la Bibbia (Genesi 10, 2) devono discendere tutti i popoli del nord, e il passato più recente, quello cri­stiano, c'era una lacuna della tradizione che si poteva inte­grare con le narrazioni pagane. A queste si ricorreva soprat­tutto per allungare l'albero genealogico dei sovrani. È sin­golare che non venissero fatte delle critiche alla scarsa credibilità di queste leggende, e del resto anche nella Bibbia non mancano i miracoli; non si doveva cancellare la tradi­zione pagana nell'orgoglio di averla superata. Talvolta chi scrive prende le distanze da ciò che ha scritto, ma ciò no­nostante lo riporta sulla carta in modo degno di riconosci­mento. Si sono conservati più di un centinaio di testi di rac-

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conti, i manoscritti con le raccolte più antiche risalgono al 1 100 circa. Il merito di averli scoperti va soprattutto a Kuno Meyer ( 1858- 1913) , Rudolf Thurneysen ( 1857-1940) e Julius Pokorny ( 1887- 1970).

Il ciclo eroico irlandese più noto è il Tain Bo Cuailnge, «Il furto di bovini di Cuailnge», la zona intorno a Cooley Point, sulla costa orientale dell'Irlanda, che nella geografia del mito faceva parte dell'Ulster. Questo racconto in prosa in lingua gaelica risale all'VIII secolo d.C. , mentre la reda­zione scritta è dell'XI secolo. È evidente la volontà dell'au­tore di creare un'Eneide irlandese, in quanto alcuni elemen­ti senza ombra di dubbio sono tratti da Virgilio. La narra­zione però è confusa e con le sue numerose varianti non è stata sviluppata come un'unità organica. Molti episodi spie­gano l'origine di toponimi incomprensibili che evidente­mente erano in uso al tempo del poeta. La storia risulta sle­gata dal contesto storico universale: è ambientata all'inizio del I secolo d.C. e l'imperatore Nerone viene citato una sola volta.

Il racconto inizia con una discussione in privato tra il re Ailill di Connaught, nell'Irlanda nord-occidentale, e la sua fiera consorte Medb. Ciascuno dei due pronuncia le proprie lodi; il re cerca di spiegarle quanto la consorte sia fortunata grazie a lui e la regina risponde dicendo chi sia lei, come gli uomini dovrebbero ben sapere. Alla fine non è lui ad avere scelto lei, ma viceversa: la donna si era ostinata infatti a tro­vare un marito che non provasse gelosia, perché era solita cambiare diversi amanti. Questo ricorda la libertà della don­na nella scelta dell'uomo che era tipica della società celtica ed era risaputa nel mondo antico. La lite per l'affermazione del primato passa al confronto dei beni, dal quale emerge che entrambi hanno esattamente gli stessi possessi, fatta eccezio­ne per il toro più bello del re, «dalle bianche corna», al qua­le per Medb nulla può essere paragonato. Quindi la regina dà l'ordine di indagare se in Irlanda ce ne sia uno simile e viene così a sapere del toro bruno di Cuailnge nell'Ulster. Questo toro montava ogni giorno cinquanta giovenche, face­va ombra a un centinaio di guerrieri e sulla sua schiena pote­vano giocare centocinquanta fanciulli. Medb con un 'amba­sceria offre al re dell'Ulster ingenti ricompense, tra cui «l'in­timità del suo corpo». Ma inutilmente.

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In seguito Medb con i suoi modi da amazzone decide di rubare il toro desiderato. L'allevamento dei tori era un aspet­to fondamentale dell'economia del tempo e il furto di bestia­me era considerato un'impresa eroica. Medb sfrutta l'oppor­tunità che le si offre per il fatto che tutti gli uomini dell'Ul­ster si sono ammalati di una strana fiacchezza che li rende deboli come partorienti. Questa debolezza collettiva viene spiegata nella leggenda con il fatto che la bella e giovane Macha, in stato di gravidanza avanzata una volta aveva vin­to una gara di corsa che era stata costretta a fare contro dei cavalli e al traguardo aveva dato alla luce due gemelli lan­ciando un grido di dolore tale che aveva paralizzato gli spet­tatori. Allora Macha aveva profetizzato che in futuro questa fiacchezza avrebbe colpito gli uomini dell'Ulster per cinque giorni e quattro notti qualora si fosse verificata una situazio­ne di emergenza. Questa si presentò con la disputa del toro.

· Un solo giovane dell'Ulster, però, rimase immune dalla maledizione: CuChulainn, nipote di un druida e figlio di un elfo. Questi, figlio di pastori e morto in giovane età, che ha in ogni occhio sette pupille e in ogni mano sette dita, arre­sta al guado di un fiume l'esercito nemico, nel quale è stato arruolato il resto degli irlandesi, al seguito di Medb e del suo condottiero e amante Fergus. Prima della battaglia egli dà una dimostrazione della sua destrezza con numeri di incre­dibile maestria, maneggiando nove spade, facendo giravolte per aria senza ricadere a terra e prodezze simili. Poi con la sua fionda uccide trenta o cento avversari alla volta. Le loro teste decapitate vengono consegnate ai nemici: anche questo ricorda un'usanza degli antichi celti.

Quando CuChwainn è in preda alla furia dell'ira le sue membra tremano, il corpo si contorce sotto la pelle, le vene gli si gonfiano sulla fronte come teste di bambini. Egli inghiot­te un occhio in modo che nessun uccello possa piombare su di lui a cavarglielo, l'altro esce dall'orbita, polmoni e fegato gli fuoriescono in volo dalla bocca. Dal collo si sprigiona fuo­co, il battito cardiaco sembra il ruggito di un leone, i suoi capelli si rizzano al punto che vi rimangono conficcate delle mele. Niente e nessuno lo può trattenere, tranne le donne che gli vanno incontro nude. Questo è ciò che gli accade. Per calmarlo bisogna immergerlo in calderoni pieni di acqua fredda. Il primo di questi esplode per il calore, il secondo fa

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delle bolle grandi come un pugno e solo il terzo riesce a cal­mare la furia del guerriero a 37 gradi centigradi.

Seguono dei duelli sul guado del fiume. Il loro esito è incerto e i duellanti si salutano con un bacio. Di norma, però, vince il giovane eroe, in parte con l'aiuto di armi magi­che. Per trovare degli avversari contro CuChulainn, la regi­na Medb promette in premio non solo le sue figlie ma, di nuovo, il suo corpo. Una volta che l'eroe deve fuggire, i cavalli del suo carro da guerra sono così veloci da raggiun­gere al volo la pietra da lui stesso scagliata. Finalmente gli uomini dell'Ulster guariscono dalla loro debilitazione magi­ca e mettono in fuga l'esercito della regina. A questo punto il generale Fergus commenta: «Un branco di cavalli condot­to da una giumenta si riduce sempre a mal partito)). Alla fine i due tori, quello «brunm) e quello dalle «bianche corna)), si scagliano l'uno contro l'altro e si uccidono. Un trattato di pace dopo sette anni pone fine al contrasto1 •

Accanto alla letteratura in lingua gaelica c'è quella in lin­gua cimrica del Galles medievale. Non si sa se i cicli epici di Taliesin e Aneirin, nati presumibilmente nel VI secolo d.C., risalgano nella loro redazione scritta al IX secolo d.C. I testi traditi sono dell'alto medioevo (XIII secolo). L'opera in pro­sa più importante è il Mabinogion (il manuale dei bardi), del XIII secolo. Nei suoi undici racconti sono presenti anche dei motivi arturiani (cfr. in/ra), tra cui la leggenda di Parsifal in una versione che probabilmente è indipendente dalla tradi­zione romanza e che attinge alle stesse fonti di questa.

Le storie giunte a noi in latino e in francese sono più ric­che della materia celtica dell'alto medioevo tramandata in gaelico o in cimrico. Agli inizi del XII secolo scrisse Galfre­do o Goffredo di Monmouth, nel Galles meridionale, che insegnò a Oxford. La sua Historia regum Britanniae è una compilazione acritica di letteratura storiografica antica e di materia narrativa britannica. In quest'opera è contenuta la storia di re Lear, che è collocata da Goffredo in epoca pre­cristiana, presumibilmente poco prima della fondazione di Roma. Lear, re dei britanni, risiede a Leicester e lascia in ere­dità il suo regno a due generi, i duchi di Scozia e di Cor­novaglia; questi si ribellano, cacciano Lear in Gallia, dove egli viene accolto dalla figlia Cordelia, che ha ripudiato. Suo marito, il re Aganippo, riporta Lear sul trono britannico. Alla

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sua morte assume il potere Cordelia, secondo il diritto celti­co, ma viene deposta dopo cinque anni dai suoi nipoti che non vogliono obbedire a una donna. Nel 1606 Shakespeare diede fama mondiale al racconto con la sua tragedia Re Lear.

All'opera di Goffredo dobbiamo anche la più antica ver­sione della leggenda di re Artù, la figura principale della let­teratura celtica. Conosciamo Artù nella forma onomastica del francese, in origine si chiama Arthur, latinizzato Arthu­rus. La tavola rotonda, che è un'aggiunta del traduttore fran­cese di Goffredo, anche se di tradizione celtica, è il punto centrale di un grande ciclo epico che come nessun altro mai ha ridato vita alla cultura di corte del medioevo cristiano. Artù è maggiormente inserito nella storia rispetto a CuChu­lainn e Lear, anche se la tradizione secondo cui, in qualità di rex belligerus o di dux bellorum, vinse i sassoni in dodici battaglie, l'ultima delle quali al monte Badon (Mons Bado­nis), ha trovato la forma a noi nota nella Historia Brittonum di Nennio solo trecento anni dopo, nell'826 circa. Nènnio racconta che Artù aveva sulle spalle un'immagine di Maria, che aveva portato con sé dal suo pellegrinaggio a Gerusa­lemme, e che in un giorno aveva abbattuto 960 nemici. Gli storiografi, dai quali ci si dovrebbe aspettare un qualche rife­rimento (il Venerabile Beda del 700 e Gildas del 540), non fanno un cenno ad Artù. Non lo conoscevano oppure non è mai esistito?

La biografia del santo Gildas, compilata nel XII secolo da Caradocus Lancabarnensis, ha colmato la lacuna di infor­mazioni riferendo in modo dettagliato dell'incontro del san­to con il rex universalis Britanniae Arthurus, che aveva ucci­so il fratello di Gildas, ma che si era riconciliato con lui dopo che si era mostrato pentito. In seguito Gildas mise pace tra Arthur e suo nipote (cfr. in/ra) . La tradizione del­le cronache racconta del tumulo funerario del figlio di Arthur, una tomba di dimensioni diverse ogni volta che la si misurava, e riporta anche di un monumento in pietra dedicato a Caball, il cane da caccia di Arthur. L'animale ave­va lasciato la sua impronta su una roccia durante la caccia al cinghiale Troynt e lì sopra Arthur aveva sistemato un cumulo di sassi, i cui frammenti, per quanto li si portasse lontano, la notte successiva rivolavano indietro. Alla figura di Artù evidentemente hanno fatto riferimento diverse leg-

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gende, i cui elementi fantastici dovrebbero esortare lo stori­co a fare attenzione. La disinvoltura con cui Artù viene trat­tato come figura storica anche in opere più recenti ignora un secolo di critica storica.

Dobbiamo a Goffredo di Monmouth una rielaborazione letteraria della tradizione di Artù in prosa latina (libri VIII­XII) . Anche se la trasfigurazione dell'eroe britannico lascia avvertire una certa resistenza spirituale ai dominatori nor­manni, questi però si sono appropriati della materia arturia­na. Chrétien de Troyes (morto nel 1 190) scrisse in francese il romanzo di Artù, mentre versioni tedesche della storia di Artù ci vengono tramandate da Hartmann von Auc, Goffre­do di Strasburgo e Wolfram von Eschenbach. L'opera cano­nica diventò poi la Morte di Arthur di Malory nel 1470. L'o­rigine celtica di Artù venne comunque dimenticata.

Questo è il sunto della leggenda. Artù, dopo il giudizio divino a Caerleon, l'accampamento romano Castra Legionis, nella contea di Monmouthshire, viene incoronato re durante la festa del solstizio invernale, sottomette con il favore divi­no sassoni, pitti e scoti e diventa il signore di tutta la Bri­tannia, compresa l'Irlanda; conquista l'Islanda e la terra dei goti e decide di sottomettere l'Europa. La Norvegia, la Dani­marca e la Gallia vengono sconfitte e assegnate a dci re vas­salii. Successivamente Artù tiene a Caerleon la sua splendi­da corte tra banchetti e tornei finché il senato romano per mezzo di un ambasciatore lo invita a sottomettersi. Artù allo­ra si dirige in Gallia contro !'«imperatore romano» e con­quista la Borgogna. Affida il potere e la consorte al nipote, che presto s'impossessa di entrambi, ma viene poi battuto e ucciso da Artù al suo ritorno da vincitore in patria. Il re, gra­vemente ferito, si allontana ad Avalon, sull'Isola dei Beati, dove lo guarisce la fata Morgana. Da qui poi ritorna, «quan­do il tempo è compiuto», per liberare il suo popolo. Il moti­vo del K yffhauser, che in Germania è legato alla figura di Barbarossa e prima a quella di Federico II di Hohenstaufen, è presente nella credenza islamica del Mahdi e rimanda all'at­tesa del Messia giudaico-cristiana.

Artù e i suoi eroi vengono caratterizzati da esagerazioni fantastiche alla maniera celtica. Il re porta una spada forgia­ta ad Avalon dal nome Calibur (nell'opera di Malory si chia­ma Excalibur e così anche nel Tain Bo Cuailnge) . Egli ucci-

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de centinaia di nemici e sconfigge l'invincibile Strega Nera; uno dei suoi uomini beve un lago intero cosicché trecento navi rimangono bloccate nelle secche. A questo proposito un contemporaneo osservò critico che in Goffredo il dito migno­lo di re Artù è più forte dei fianchi di Alessandro Magno. Artù è ricordato tra i nove eroi che, a partire dal XIII seco­lo, sono frequentemente rappresentati, ad esempio sulla fon­tana di Norimberga. Oltre a Carlo Magno e a Goffredo di Buglione, Artù era uno degli eroi cristiani che venivano para­gonati ai tre eroi ebrei Giosuè, Davide e Giuda Maccabeo, e ai tre pagani Ettore, Alessandro e Cesare. In molte città del­l'Europa occidentale e centrale, fino a Danzica e Thorn, nel XIII e XIV secolo nacquero in occasione di feste e tornei del­le «corti di Artù».

Tra gli eroi della Tavola Rotonda c'è il mago Merlino, probabilmente una creazione di Goffredo. Nato da un demo­ne e da una monaca, Merlino predice, come più tardi Nostra­damus, la vittoria sui sassoni ancora prima della nascita di Artù. Il mago fa avvenire il fugace incontro tra la futura madre del re e il suo amato e fa salire Artù sul trono. Cede alla passione per la fata Viviana e viene da lei relegato in un bosco, dopo che questi ha emesso un grido dal pruno selva­tico. Questo è l'inizio di una nuova leggenda.

Con il Racconto del Graal di Chrétien de Troyes, termi­nato poco prima del 1 190, anche Parsifal e la leggenda del Graal vennero collegati ai cavalieri della Tavola Rotonda. In questa leggenda l'ideale del cavaliere cristiano occupa un ruo­lo di primo piano; è difficile, però, ritenere che sia un tratto propriamente celtico, specialmente in un momento, come quello delle crociate, nel quale si colgono anche degli influs­si orientali. La raffigurazione della grande festa alla corte di Artù in Wolfram von Eschenbach, nel XIV libro del suo poe­ma epico Parsi/al, terminato intorno al 1208, stabilisce un le­game tra l'orizzonte culturale del continente e lo scenario cel­tico. Una versione bretone della leggenda del Graal è la bel­la favola francese di Perronik l'Ingenuo. Il Graal, che in Chrétien è la coppa nella quale Giuseppe di Arimatea rac­colse il sangue di Gesù crocifisso mentre in Wolfram è una pietra consacrata della corona di Lucifero, è un talismano sal­vifico, miracoloso, il cui passaggio di proprietà esprime in forma simbolica un trasferimento del potere.

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In modo simile alcuni poeti francesi hanno collegato al mondo di Artù la storia, ambientata in Cornovaglia, di Tri­stano e Isotta, la tragedia d'amore più importante del me­dioevo. L'origine celtica della composizione è riconoscibile anche nella sua versione rielaborata: Tristano, suonatore d' ar­pa e cavaliere, vince un mostro e, come Artù, viene allonta­nato in mare ferito ed è salvato da una fata premurosa su un'isola. Al suo ritorno, sedotto da una magia, si abbando­na alla passione per Isotta, la moglie di suo zio, il re Marke, che è follemente innamorata di lui. Isotta induce Tristano, che è stato ammesso tra i cavalieri della Tavola Rotonda, ad andare da Artù alla grande festa di Pentecoste, dove Trista­no supera nel torneo un saraceno e lo converte alla fede cri­stiana. Fuggendo dal re tradito Marke, i due amanti supera­no numerose peripezie vivendo a lungo nella selva e alla fine trovano insieme la morte. li tema di Tristano venne trattato spesso nella letteratura: nel 1210 da Goffredo di Strasburgo, nel 1470 da Thomas Malory nella Morte d'Arthur e nel 1533 da Hans Sachs.

NOTA AL CAPITOLO DODICESIMO

1 R. Thumeysen, Die iri.rche Helden- und Konigs.rage bis zum Jieh­zehnten ]ahrhundert, Halle, 192 1 .

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CAPITOLO TREDICESIMO

LA FORTUNA DEI CELTI

l . I celti nell'Umanesimo

Nel XIV secolo i monasteri d'Europa non furono più i centri dell'elaborazione della cultura e della scienza. Il movi­mento dell'Umanesimo, che si sviluppò in parte nelle città e in parte nelle corti, indirizzò il proprio interesse al passato più antico. Da questo momento in poi anche in Irlanda capi­ta di trovare nelle città dei copisti che trascrivevano mano­scritti di argomento mitologico. Sul continente prevale l'am­mirazione per l'antichità greco-romana, interesse che tuttavia non fu disgiunto da quello per il passato della propria nazio­ne. Non si trattava solo delle radici comuni della cultura euro­pea, ma anche della storia individuale del proprio popolo.

Nella ricerca delle origini è inevitabile il confronto con i celti. La loro rievocazione fu alla base di nuove identità poli­tiche. Nel desiderio di differenziarsi dall'eredità culturale alemanno-tedesca gli umanisti svizzeri scoprirono negli elve­zi i loro presunti antenati: Heinrich Brennwald, morto nel 155 1 , stabilì un parallelo tra la guerra dei confederati con­tro l'alleanza degli svevi e gli Asburgo (guerra che nel 1499 spinse Massimiliano a rinunciare di fatto alla Svizzera) e la guerra degli elvezi contro i germani. Egidio Tschudi, morto nel 1572 , intitolò la sua storia della Svizzera Chronicon Hel­veticum. Il concetto di «cultura elvetica» esprime l'idea di una specificità svizzera differente rispetto all'ambito cultura­le tedesco e romanzo.

Anche i galli ebbero modo di festeggiare la loro rinasci­ta. Il cardinale Richelieu, morto nel 1642, spiegò nelle sue memorie di aver voluto fare coincidere l'attuale Francia (la France) con l'antica Gallia (l'ancienne Gaule) , alla quale egli avrebbe voluto restituire un sovrano che fosse di origine gal­lica e i suoi confini naturali. Durante la rivoluzione francese

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l'abate Emmanuel-Joseph Sieyès scoprì nei celti e nei roma­ni gli antenati del terzo stato. Nel suo scritto programmati­co del 1789 Che cos'è il terzo stato? egli invitò a «ripulire la nazione» e a ricacciare nelle selve germaniche la nobiltà fran­cese che era orgogliosa di discendere dai franchi. Egli ribaltò quindi la prospettiva di Montesquieu, il quale proprio in queste foreste aveva ravvisato i primi segni della liberazione dal giogo del dominio romano nell'antichità e da quello del­l'assolutismo borbonico nei tempi più recenti. La proposta di sostituire il nome Francia con Gallia non ebbe seguito. La moda dei celti diffusa nella Francia napoleonica indusse il funzionario dell'archivio segreto di stato di Monaco, Vinzenz von Pallhausen, morto nel 1817, a giustificare dal punto di vista storico I' alleanza del Reno con la presunta parentela cel­tica tra bavaresi e francesi.

In Inghilterra giuristi di formazione umanistica ricorsero alla definizione di «britannico» quando, nel 1603 , lo scozze­se Giacomo I, figlio di Maria Stuarda, ereditò la corona inglese di Elisabetta I e unificò i due regni nella sua perso­na. Nell'anno 1707 i rappresentanti dei parlamenti riuniti di Inghilterra e Scozia riportarono nuovamente in vita il nome di (Grande) Britannia, che esprimeva l'unità dell'isola, anche se i pochi discendenti dei veri britanni furono e rimasero emarginati.

Nel XVIII secolo anche i belgi celti, a lungo dimentica­ti, vissero la loro rinascita, nel conflitto che oppose l' Unione dei Paesi Bassi all'Austria. Quindi, come il nome di elvezi nasconde la differenza tra confederati alemanni e romanici e la designazione di «Britannia» va oltre il contrasto tra ingle­si e scozzesi, così il nome «Belgio» unisce fiamminghi e val­Ioni. Il 17 gennaio 1790 gli Stati Uniti del Belgio si dichia­rarono indipendenti, ma questo durò con il riconoscimento delle altre nazioni fino al 1839.

L'interesse politico che è alla base della riscoperta dei cel­ti trovò espressione visibile nei monumenti in bronzo dedi­cati agli «eroi della resistenza» a Roma. La statua di Ambio­rige dal 1866 si trova sulla piazza del mercato di Aduatuca Tungrorum (Tongres), dal 1902 l'immagine di Budicca è col­locata su un carro da guerra a Londra davanti al Parlamen­to e Vercingetorige richiama l'unità dei francesi nel monu­mento che fu eretto in suo onore già da Napoleone III e

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FIG. 12. Monumento di Vcrcingetoril(e ad Alesia.

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inaugurato il 27 agosto 1865 ad Alesia (cfr. fig. 12). L'iscri­zione alla base del monumento fa riferimento a un passo di Cesare (VII 29, 6) già citato (supra, p. 70) : La Caule unie /or­mani une seule nation animée d'un m eme esprit peut défier l' u­nivers. Vercingétorix aux Gauloù assemblés. Napoléon III à la memoire de Vercingétorix («La Gallia unita che forma un popolo unico, animato dal medesimo spirito, può sconfigge­re il mondo intero. Questo disse Vercingetorige ai galli riuni­ti in assemblea. Napoleone III in memoria di Vercingetori­ge») . Il volto dell'eroe ha i tratti di quello dell'imperatore, solo i baffi all'ingiù richiamano l'usanza celtica, anche se le ventisette monete d'oro antiche che conservano l'immagine di Vercingetorige riproducono la testa di un giovane imberbe.

2. I celti nel Romanticismo

Accanto alla storia dell'influenza che i celti hanno eser­citato dal punto di vista politico non si deve dimenticare il peso che hanno avuto sotto il profilo culturale. Nel periodo dello Sturm und Drang il richiamo allo spirito celtico era legato alla figura di Ossian, detto anche Oisean, il figlio cie­co del re Finn o Fingal. Questo cantore originario delle iso­le celtiche visse, secondo la leggenda, al tempo di Caracalla, intorno al 200 d.C., e deve la sua fama al professore scozze­se James Macpherson (morto il 17 febbraio 1796), che pub­blicò nel 1762 il poema epico dal titolo Finga!, a cui segui­rono Temora e alcuni canti più brevi. Questi Frammenti di poesia antica, presumibilmente raccolti dalla tradizione orale e tradotti dal gaelico in inglese, vennero tradotti in tedesco nel 1782 da Johann Wilhelm Petersen, un amico di Schiller, e costituirono un vero e proprio caso letterario.

Goethe fa scrivere a Werther nella lettera del 12 ottobre 1772 indirizzata al suo amico Guglielmo:

Ossian ha vinto Omero nel mio cuore. In che splendido mon­do mi guida! Errare nella landa, investito dal vento tempestoso che in vaporose nebbie mena a lume di luna gli spiriti degli antenati. Udir giù dalle montagne, nel muggito dei torrenti, il sospiro soffo­cato degli spiriti fuori dalle loro caverne, e la fanciulla mortalmen­te angosciata lamentarsi sulle quattro pietre muschiose che copron fra l'erba il suo amato, caduto da eroe. Quando poi lo incontro, il

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grigio bardo errante, che nelle vaste lande cerca le orme dei suoi padri e ahi ! Non trova che le loro tombe; accasciato alza gli occhi alla cara stella vespertina che si nasconde nel mare ondoso, e i tem­pi andati rivivono nell'anima dell'eroe, i tempi che l'amico raggio illuminava il pericolo ai valorosi e la luna rischiarava la nave che tornava inghirlandata e vittoriosa. Leggo il profondo affanno sulla sua fronte, vedo l'estremo rampollo degli eroi barcollare stanco sul­la tomba, attingere sempre rinnovate gioie dolorosamente ardenti dalla inerte presenza dell'ombre dei morti, e guardare la fredda ter­ra, e l'alta erba ondeggiare, ed ecco grida: «Verrà il viandante, verrà, che mi conobbe nella mia bellezza, e chiederà: "Dov'è il can­tore figlio di Finga!?" Il suo passo cammina sulla mia tomba, inva­no domanda di me sulla terra». Amico! Vorrei sguainare la spada come un nobile cavaliere, liberare il mio principe dallo spasimo di una vita che lentamente si spegne, e mandar l'anima mia dietro il liberato semidio (trad. Bianconi, Milano, 1989, pp. 134-13.5).

Goethe confessa così il suo entusiasmo celtico, che gli aveva trasmesso Herder nell'inverno del 1770-7 1 a Strasbur­go, lo stesso entusiasmo che travolse i poeti del Gottinger Hain Lenz, Tieck e Novalis. Persino Napoleone ha cono­sciuto Ossian grazie al Werther di Goethe. Nel 1801 Anne­Louis Girodet de Roussy, allievo di Jacques-Louis David, dipinse un quadro romantico che mostra Napoleone assun­to in cielo fra gli eroi di Ossian. Nel 18 1 1 l'imperatore dei francesi, dal canto suo, incaricò il pittore lngres di dipinge­re per la sua futura stanza da letto nel Palazzo del Quirina­le, a Roma, un quadro con l'immagine dell'«Omero del Nord». Nel 1813 venne terminato il Sogno di Ossian, espo­sto oggi a Montauban, nel quale il cantore guarda suo padre Fingal, il figlio Oscar e la sua amata Malvina. La popolarità del nome Oscar è un'altra testimonianza dell'influenza eser­citata da Ossian. Ma, ironia della sorte, il nome non è di ori­gine celtica, quanto piuttosto germanica, essendo la forma anglosassone di Ansgar (mentre il nome del premio cinema­tografico assegnato a Hollywood, che fu istituito nel 1929, deriva dall'esclamazione di una segretaria che credeva di riconoscere nella statuetta lo zio omonimo) .

Quando a Macpherson fu riconosciuto l'onore di essere sepolto nello spazio riservato ai poeti dell'abbazia di West­minster, si attribuì alla sua opera un credito sproporzionato rispetto al suo reale valore. Infatti si tratta, come già rico-

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nobbe Samuel Johnson (morto nel 1784), di un rifacimento e adattamento basato su uno scarso numero di fonti. Volker Mertens lo definisce appunto un «grande falsificatore della letteratura mondiale» che ha utilizzato la supposta autenti­cità della poesia delle origini per dare alla coscienza nazio­nale scozzese il fondamento di una tradizione mitologica come quello che possiede il glorioso patrimonio storico dei dominatori inglesi. Il modello era Omero, che aveva già ispi­rato i romani nella creazione del loro epos nazionale, come dimostrano prima Ennio e poi Virgilio. Macpherson, con il dolore universale degli eroi dei suoi canti, toccò un punto molto sensibile di quel tempo, così da rappresentare come genio originale nascosto quello che non poteva essere altro che un tramite dell 'autentico spirito celtico.

Mentre i poeti più antichi, di cui non si conoscono né i nomi né le fonti, affermano la loro importanza come porta­voce dello spirito popolare, i più recenti sono esposti alle cri­tiche quando cercano di ricostruire andando oltre la sempli­ce opera di erudizione. La stessa cosa successa a Macpher­son capitò anche al nazionalista ceco Wenzel Hanka, il quale nel 1818 pubblicò il manoscritto di Koniginhof e, in seguito, quello di Griineberg contenenti poesie dell'età pagana ed eroica della Cecoslovacchia su Libussa, la fondatrice della città di Praga, e quindi influenzò Goethe, Jacob Grimm, Cha­teaubriand e altri in tutta Europa, finché nel 1824 non ven­ne alla luce che si trattava di una falsificazione, e l'illumina­to orientamento storico-critico dell'epoca impedì all'autore di difendersi ripiegando sulla libertà poetica. Il poema epico del popolo finnico, intitolato Kalewala, che fu pubblicato da Elias Lonnrot nel 1835 e in forma più ampia nel 1849, sem­bra invece autentico nella sostanza e rielaborato solo dal pun­to di vista stilistico. Esso ebbe un ruolo fondamentale nella definizione della cultura politica del popolo finnico.

Nell'Ottocento gli spettacoli d'opera si richiamano al patrimonio celtico nei modi più diversi. Nel 183 1 Vincenzo Bellini presentò a Milano la sua Norma. Questa, figlia di un druida, ama il proconsole romano della Gallia, che a sua vol­ta le preferisce Adalgisa, la sacerdotessa germanica della quercia sacra. Se in questo caso è celtico solamente l'am­biente, nel Tristano e Isotta di Richard Wagner, messo in sce­na per la prima volta a Monaco nel 1865, è celtica anche la

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trama, certamente nella forma rielaborata da Goffredo di Strasburgo. Wagner utilizza nel suo Parsz/al, rappresentato per la prima volta a Bayreuth nel 1882 come «spettacolo per l'inaugurazione del teatro», la versione del poeta d'amore Wolfram von Eschenbach, ma si allontana dalla sua tratta­zione della materia. Il compositore rappresenta la dottrina della pietà di Schopenhauer in forma cristiana. Le due ope­re intitolate Merlino, quella di Karl Goldmark (Vienna 1886) e quella di Philipp Riifer (Berlino 1887) , non ebbero un grande successo, come anche la tragedia neoromantica dal titolo Tantris il folle di Ernst Hardt, insignita per ben due volte del premio Schiller. Tra le rielaborazioni in prosa del­la leggenda di re Artù sono da citare gli Idilli del re di Alfred Tennyson ( 1859), dove è rappresentata in forma simbolica la lotta dello spirito contro i sensi.

Nonostante il ritorno di suggestioni celtiche nel XIX se­colo, gli idiomi celtici sono sempre meno diffusi. Già Johann Gottfried Herder nel 1784 aveva osservato e lamentato la loro diminuzione. Il numero dei parlanti celtico si è ridotto a meno di due milioni di persone, che certamente usano an­che un'altra lingua per comunicare. Costituì senz'altro un im­pedimento il fatto che non esistesse una lingua celtica colta. Il bretone parlato in Bretagna in quattro dialetti è completa­mente scomparso, anche se esiste una letteratura di cui si oc­cupano gli esperti delle tradizioni popolari. La lingua irlan­dese è rinata grazie alla Lega Gaelica, fondata nel 1893 ; da qui è nata una vasta letteratura nel segno del Celtic Dawn, anche se tutti gli autori importanti d'Irlanda hanno scritto in inglese, basta pensare a Jonathan Swift, a George Bernard Shaw e a James Joyce. L'istituzione della Repubblica Irlan­dese, il 6 dicembre 192 1 , ha portato alla separazione dall'In­ghilterra sul piano politico ma non certo su quello culturale.

Anche in Inghilterra le lingue celtiche sono oggetto d'in­teresse. Il cimrico (gallese), che sopravvive in molti dialetti del Galles, riveste ancora una certa importanza come lingua letteraria ed ecclesiastica. Il numero di coloro che lo parlano ancora superava il mezzo milione nel 1961 . Il gaelico scoz­zese a partire dal medioevo ha subito una contrazione nei confronti dell'inglese, ma nel XVIII secolo ha vissuto una fio­ritura letteraria. L'ultima donna che parlava carnico, diffuso un tempo in Cornovaglia, si chiamava Dolly Pentreath e morì

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nel 1877 a Mousehole. Nel 1950 c'erano ancora dieci perso­ne in grado di comprendere il gaelico sull'Isola di Man .

Nel Novecento l'interesse per i celti ha assunto forme nuove, talvolta bizzarre. La componente di mistero che aleg­gia sempre su un popolo scomparso come i celti aumenta con il fascino dell'arte decorativa; che crea la magia del cel­tic revival nell'artigianato, e con l'oscura mistica della reli­gione che soddisfa il bisogno di esotico dell 'Europa. Soprat­tutto il druidismo incoraggia la fantasia di un culto celtico selvaggio, dai rituali esoterici ma dai nobili ideali. La Gran­de loggia massonica del Regno, soprannominata «Antico ordine unito dei druidi della Germania» ( Vereinigter Alter Orden der Druiden in Deutschland - Vaod) risale all 'anno 1781 e, con le logge affiliate, era diffusa in «tutti i paesi del mondo abitati da popoli germanici». Non si faceva alcuna differenza tra celti e germani, come aveva fatto nell'antichità Posidonio. Mentre tuttavia prima si consideravano i germa­ni un sottogruppo dei celti, ora i celti venivano annessi ai germani. n 16-17 luglio del 1 906, cioè alla vigilia dell'anni­versario della vittoria celtica di Allia, nel 387 a.C., si incon­trarono a Hull, nel nord d 'Inghilterra, dei neodruidi pro­venienti da Inghilterra, Germania, Svezia, America e Austra­lia per festeggiare il 125° anniversario della fondazione del Vaod e fu diffusa in quella circostanza una risoluzione in favore dell 'amicizia tra i popoli. L'ordine comprendeva allo­ra 1 3 1 .544 membri. Nel 1908 Winston Churchill entrò a far parte della Loggia massonica Albion Lodge of the Ancient Order of the Druids.

Ai giorni nostri i Pagans neopagani celebrano in Gran Bre­tagna la festa del solstizio d'estate a Stonehenge e chiedono di avere nei mezzi di informazione gli stessi diritti delle confes­sioni cristiane. L'«Order of the Bardes, Ovates (erroneamente derivato da un inesistente termine greco ouatés, il latino vates) and Druids» non raccoglie adesioni solo oltre la Manica. Dopo un momento di stanca provocato negli anni Trenta e Quaranta dal romanticismo germanico, l'onda celtica comin ­cia a sollevarsi di nuovo. Solo nell'ambito del commercio librario si conoscono dieci riviste che portano nel titolo la parola «druida» e trenta monografie del tipo Il sapere occulto dei celti, Le lezioni di Merlino, Il sacro fuoco e la saggezza magi­ca dei druidi; i titoli del mercato editoriale inglese suonano

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così: Celtic Mysteries; Omens, Oghams and Oracles; Wyda Easy; Druids and Witches. La mania celtica arricchisce il patri­monio lessicale tedesco con nuovi termini composti. La moda dei celti ispira correnti politiche regionalistiche diffuse nei tempi più recenti soprattutto in Baviera, in Austria e in Lom­bardia. Dal 1945 i celti sono preferiti ai germani come ante­nati. Lo storico di Monaco Karl Mosl nel 197 1 definì i bava­resi «un popolo misto dai connotati celtici», il cancelliere austriaco Bruno Kreisky chiamò i suoi connazionali «discen­denti dei celti» sulla rivista «Playboy» dell'agosto del 1975.

Le più recenti espressioni letterarie della mania celtica sono costituite sia dai racconti del professore di letteratura inglese antica John Ronald R. Tolkien ( 1892 - 1973 ) , che con il suo libro Il signore degli anelli ( 1954) ha dato vita a una propria mitologia di ispirazione celtica, sia dall'ondata fanta­sy rappresentata da Marion Zimmer Bradley con il suo romanzo Le nebbie di Avalon ( 1982; 20a edizione, 1997) . Tankred Dorst utilizzò nel 1985 il tema di Merlino per l'o­monima pièce teatrale dai toni apocalittici.

Serie di fumetti come Le avventure di Asterix presentano agli adolescenti le imprese dei celti. Questi personaggi della letteratura per l'infanzia, creati dallo scrittore René Goscinny e dal disegnatore Albert Uderzo, si collocano, dal punto di vista della storia del genere, nella tradizione del Topolino disneyano e vantano pari popolarità. Asterix (da astérisque «stellina») è il gallo piccolo e scaltro con i baffi, come vuole la storia; Obelix (da obélisque «obelisco, menhir») è l'amico sciocco, dotato di forza bestiale; Panoramix (da panorama) il druida veggente; Abraracourcix (à bras raccourcis), il capo con «le maniche rimboccate» e Assuracetourix (assurance à tous risques) , il bardo che «va sempre sul sicuro», a cui nes­suno vuole dare ascolto, perché non combina mai nulla. Que­sti personaggi prendono in giro le forze di occupazione roma­ne e affrontano incredibili avventure. Le storie rielaborano la tradizione antiquaria, dopo averla studiata con sorprendente cura, ricostruendola in modo anacronistico e operando una selezione ad usum Delphini. Non ci sono sacrifici umani né caccia di teste. Gli autori, recuperando l'antichità celtica, si appellano al bisogno d'identità dei francesi filtrato con ama­bile ironia. Il che dimostra come la storia ci segua sempre, sia pure in forme diverse e con forza incostante.

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LETTURE CONSIGLIATE

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LETTURE CONSIGLIATE

l . Opere generali

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N. Chadwick, The Celts, Harmondsworth, 1984. B. Cunliffe, The Ancient Celts, London, 1997. A. Demandt, Antzke Staats/ormen. Eine vergleichende Ver/anungs-

geschichte der alten Welt, Berlin, 1995. ]. Filip, I Celti alle origini dell'Europa, Roma, 1980. A. Grenier, Les Gaulois, Paris, 1970. G. Herm, Die Kelten, Dusseldorf-Wien, 1975; trad. it. Il mistero

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1974. H.D. Rankin, Celts and the Classica! World, London-Sidney, 1987.

2. Economia

F. Auduze e O. Buchsenschutz, Villes, villages et campagnes de l'Eu­rape celtique, Paris, 1989.

C. Clutton-Brock, Domestica/ed Animals /rom Early Times, Lon­don, 198 1 .

P.M. Duval, Monnaies gauloises et mythes celtiques, Paris, 1987. P. Meniel, Chasse et élevage chez !es Gaulois, Paris, 1987.

3. Arte e cultura

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H. Birkhahn, Kelten. Versuch einer Gesamtdarstellung ihrer Kultur, Wien, 1997.

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4. Religione

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5. Aree geografiche

Italia

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E. Campanile, I Celti d'Italia, Pisa, 1981 . E. Gabba, I Romani nell'Insubria: trasformazione, adeguamento e so­

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V. Kruta, I Celti e la Lombardia, in E. Anati et al. , La Lombardia e le sue grandi stagioni dalla preistoria al Medioevo, Milano, 1985.

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Francia

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J.J. Hatt, Histoire de la Gaule romaine, Paris, 1959. R. Joffroy, Le Tré.ror de Vix, Paris, 1954. A. King, Roman Gaul and Germany, Berkeley, 1990. M. Rambaud, I.:Art de la dé/ormation historique dam /es commen­

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Svizzera

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Austria

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G. Winkler, Noricum und Rom, in Au/stieg und Niedergang der romischen Welt, cit., pp. 183-262.

Germania

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bisch-alemannischen Geschichte, Stuttgart, 1886. A.A. Lund, Die ersten Germanen. Ethnil.iti.it und Ethnogenese, Hei­

delberg, 1998. G. Wieland (a cura di), Keltische Viereckschanzen. Einem Riitsel au/

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Gran Bretagna e Irlanda

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PeniJola iberica

J. Untermann e F. Villar (a cura di), Lengua y Cultura en la Hispa­nia prerromana. Actas del V Coloquio sobre lenguas y culturas prerromanas de la peninsula ibérica, Salamanca, 1993.

F.J. Wiseman, Roman Spain, London, 1956.

Grecia e Galazia

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G. Nachtergael, Les Galates en Grèce et !es Sotéria de Delphes, Bruxelles, 1977.

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Adalgisa, 1 18 Adamo di Brema, 50

Ade, IO Adriano, 27, 97

Africano Minore, vedi Scipione E-miliano

Aganippo, 108 Agricola, Gneo Giulio, 96 Ailill, 106 Alesia, 1 6, 64, 72, 84, 91-92, 1 15-

1 16

Alessandria, 25 Alessandro Magno, 10, 25, 33, 91,

1 1 1

Alli a , 23, 120 allobrogi, 19, 87-88 Altkonig, 73 , 75 Amando, 98 ambactus, 56 Ambigato, 20 Ambiorige, 69, 80, 9 1 , 1 14 Andate, 52 Andernach, 75, 90 Aneirin, 108 Anglesey (Mona), 47 Aniene (Anio), 24 Ankara (Ancyra), 27, 75, 95 Annibale, 24, 54, 64, 84, 86, 93 Antioco I, 26 Antioco III, 27 Antonino Pio, 97 Apollo, 25, 28, 39, 58 Appiano, 14, 27, 62, 86 Aquileia, 93 Aquitania, 33, 60, 68, 82, 90 Aremorica, 36, 97 Ariminum, vedi Rimini Ariovisto, 69, 90

Aristotele, 25

Arminio, 58, 82 Artemide, 40, 55, 62

Artù (Arthur, Arthurus) , 1 1 , 56, 109-1 12, 1 1 9

arverni, 69, 87 Asdrubale, 24 Asterix, 1 1 , 121 Atena, 27-28 Atene, 27, 35 Ateneo di Naucrati, 13 atrebati, 68 Attica, 57, 81

Attila, 58, 99

Aue, Hartmann von, 1 1 0 Augusto, 14, 87, 92-93, 95-96 Aureliano, 47 Ausonio, 97 Autun (Augustodunum), 42, 90 Avalon, 1 10 Avaricum (Bourges) , 72, 75 Avito, 98

bagaudi, 98-99 bardi, 58, 60, 108 bascauda, 57 Beda, il Venerabile, 109 belgi, 9, 20, 68, 90, 1 14 Belgrado (Singtdunum), 26 Belloveso, 20, 22 Bergamo (Bergamum), 75 Berna, 3 1 , 75 Besançon (Vesontio) , 90 Bibractc, vedi Mont Beuvray Biel, 3 1 Bitinia, 26 biturigi, 20, 69 Bobbio, 1 02

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Boemia (Boiohaemum), 15, 25, 33, 41, 70

boi, 22, 24-25, 61, 67-68, 86, 99 Bologna (Bononia), 22, 75 Bonifacio, 103 Bonn (Bonna), 75 Boulogne (Bononia), 75 Bourges (Avaricum), 75 Boycou, James, 60 bracae, 22, 33, 92 Bregenz (Brigelio), 75 Brenno, 23 , 25, 79-80 Brescia (Brixia), 22, 49, 75 Bretagna, 36, 90, 97, 100, 1 19 briganti, 80 britanni, 53, 96, 108, 1 14 brocche a «becco d'anatra» (5chna-

be/kanne), 35 Budicca, 69, 80, 96, 1 14 bulga, 35 Burckhardt, Jacob, 28 burgundi, 81

Caball, 109 Cadbury Castle, 7 1 Caerleon (Castra Legionis), 1 10 Caico, 27 caliga, 34 Caligola, 96 Callimaco, 25 Camillo, 23 Camma, 55 Campi di urne, cultura dei ( Urnen-

felder-Kultur), 9, 1 6 cantabri, 53 , 65 Canton Ticino (Ticinum), 75 Caracalla, 1 16 Caradocus Lancabarnensis, 109 Carinzia, 25, 130 carnuti, 47-48 Cartagine, 76, 82, 9 1 Cartimandua, 80 Cassivellauno, 90 Catilina, 88, 91 Catone il Censore, 86 Cavaro, 26 Celestino, l 02 cdtiberi, 1 9, 29-30, 58, 60-61, 68,

86-87, 96 Celticum, 20 Celtillo, 82

132

cenomani, 22, 24 Ceramica cordata, cultura della

(5chnurkeramiker-Kultur), 9 Cernunnos, 10, 39, 44 Cesare, Gaio Giulio, 9-1 1, 14, 20,

22, 24, 27, 30, 33, 35-36, 39-42, 45-49, 5 1 , 53-56, 60-62, 64, 67-72, 82-85, 88-92 , 95-96, 102, 1 1 1 , 1 16

Chartres (Autricum), 47, 75 Chateaubriand, François-Auguste-

René de, 1 18 Chiomara, 55 Chiusi (C/usium), 23 Chrétien de Troycs, 1 10- 1 1 Churchill, Winston, 120 Cicorio, 80 Cimbelino, 96 cimrico, 108, 1 19 clan, 53 Claudio (imperatore), 46, 94, 96 Claudio Marcello, M., 86 cliens, 56 Coblenza (Conf/uentes), 34, 90 Colchester (Came/odunum), 75, 96 Colombano, 102 Commontorio, 26 Como (Comum), 75 Cordelia, 108- 1 09 Cornovaglia, 10, 1 5 , 30, 34, 108,

1 12, 1 19 Cuballum (in Galazia), 7 1 CuChulainn, 107 - 1 09

Dalmazia, 93 Danebury, 7 1 Danubio Ustros), 13, 15-16, 26, 74,

93, 96, 99 Decimo Bruto, 62 Deiotaro, 8 1 , 83 , 94-95 Delfi, 25, 47, 80 Diana, 40 Dicuil, 20, 103 dies ater A//iensis, 23 Diocleziano, 47 Dionisio I, 24, 36 Dioniso, 10 Dite (Dis pater) , IO Diviziaco, 45 Domiziano, 97 Domizio Enobarbo, Gn., 87

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Donnersberg, 73 Drava, 26 druidi, 44-48, 60, 70, 82-83, 120 Druso, 93 Dublino, 103 Duero, 86 Dumnorige, 36, 82, 90 Diinsberg, 75 Diirmberg, 34

eburoni, 82, 9 1 Ecateo di Mileto, 13, 7 1 Ecdicio, 98 edui, 45, 49, 55, 67, 69, 72, 82-83,

85, 87, 89-91 , 94, 97 Efeso (lzmir), 40, 95 Eliano, 98 Elicone (o Helicone), 3 1 Elisabetta I, 1 14 elvezi, 22, 3 1 , 36, 61 , 67-69, 7 1 , 84,

89-90, 1 1 3-14 Entremont, 49, 7 1 Epaminonda, 24 Epona, 39 Eracle, 10, 13 Erodoto di Alicamasso, 9, 13 , 55, 7 1 Esperidi, 10 essedum, 62 etiopi, 60, 101 Etruria, 35, 37, 82 etruschi, 22, 24, 29, 46-47, 85-86 Eudossio, 99 Eumene II, 27-28 Excalibur (o Calibur), 1 10

Fabia, geni, 23 /elonza, 56 Fergus, 107-108 ferro, età del, 15- 16, 30 Filippi, 95 Filippo II, 33-35 Finga!, 1 16-17 Finn, 1 16 Frau Holle, 39-40 Fulvio Nobiliare, Q., 86

gaelico, 15, 108, 1 16, 1 19-20 gaesati, 24, 64 Galates, 10 galati, 9, 27-28, 40, 47-48, 52, 55,

64-65, 67, 7 1 , 80-81, 85, 94-96, 99

Galazia, 7, 9, 15, 26-27, 67, 7 1 , 83 , 95

Gaiba (suessione), 69 Gallaecia, 19 Galles, 10, 15, 46-47, 97, 108, 1 19 Gallia Cisalpina, 22, 24, 86, 89, 92 Gallia Narbonese, 80, 88-89 Gallia Transalpina, 22, 24, 87, 89 Gallo, 102 Gergovia, 72, 9 1 germani, 9, 1 4 , 16, 1 9 , 29, 3 3 , 39,

41-42, 44, 48, 52, 54-56, 58, 60-62, 67-69, 72, 80, 82-83, 88, 90, 97, 101 , 1 13 , 120-2 1

Giacomo I, 1 14 Gildas, 97, 109 Ginevra (Cenava), 75, 89 Giovanni Scoto Eriugena, 103 Giove (luppiter), 43 Girolamo, 96, 98 Giugurta, 87, 9 1 Giulia Domna, 53 Giuliano, 57, 64, 99 Giulio Civile, 46, 94 Giunone, 23 Giustiniano, 64 Giustino, 14, 17, 20, 37, 48, 52 gladius, 3 1 , 61 Glauberg, 7, 16, 19, 3 1 -32, 40, 42,

61, 64, 7 1 , 79 Goethe, Johann Wolfgang, 1 16- 1 8 Goffredo di Buglione, 1 1 1 Goffredo di Monmouth, 96, 108- 1 1 Goffredo di Strasburgo, 1 10, 1 12,

1 19 goidelico, 15 Goldgrube, 73, 75 Gordio, 75 goti, 99, 101 , 1 10 grande altare di Pergamo, 28 Grande donario di Pergamo, 27 Grannus, 39 Grenier, Albert, 82 Grimm, Jacob, 1 1 8 Gundestrup, 44-45 gutuater, 48

Hallein, 34 Hallstatt, 16, 3 1 , 34, 4 1 , 52, 58, 62,

77-78, 8 1

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Halys, 26 Hanka, Wenzd, 1 18 Hengist, 101 Herder, Johann Gottfried von, 9,

1 17, 1 1 9 Heuneburg, 7, 16, 35, 52, 7 1 , 74 Hirschlanden, 3 1 , 42 Hochdorf, 16, 35, 4 1 , 52, 57-58,

77-79 Hohenasperg, 16, 35 Hohmichele, 35, 52, 77 Holstein, 10, 20 Horsa, 101 Humann, Cari, 28

iapidi, 93 iceni, 69, 80, 96 Inn, 22 insubri, 22, 24, 61 , 67, 86 iperborei, 58 Irzio, Aulo, 92 lsidoro di Siviglia, 5 1 lsotta, 1 1 2 Istros, vedi Danubio italici, 20, 29 luppiter (Giove), 10

Johnson, Samuel, 1 18 Joyce, James, 1 19

karnyx, 62 Kempten (Campodunum), 75 Kilian, 103 Korfsios, 3 1 Kundry, 47

La Garcnnc, 35 La Tène, 15- 16, 3 1 , 4 1 , 8 1 Lear, 108-109 Leida (Lugdunum Batavorum), 75 Lenz, J akob, 1 17 Libussa, 1 1 8 lingoni, 68 Lione (Lugdunum), 36, 75, 87 Lippe, 15 Litavicco, 36 Londra (Londinium), 75, 96, 1 14 Lonorio, 26 Lorena, 33 Losanna (Lousonna), 75

134

Luca, 40 Lucano, 41 Lusitania, 84 Lutario, 26 Lutetia (Parigi), 72, 75 Liittich, 103 Luxeuil, 102

Mabinogion, 108 Macha, 107 Macpherson, James, 58, 1 16-18 Magaba, 71 Magdalcnenberg, 56, 77 Magdalcnsberg, 25 Magnesia, 27 Magonza (Mogontiacum), 75 Man, 120 Manching, 29, 33, 37, 49, 7 1 -72, 93 Manlio Imperioso, 24 Manlio Torquato, 63 Manlio Vulsone, 27 mantum, 33 Mario, Gaio, 67, 87-89 Marke, 1 12 Maroboduo, 70 Marsiglia (Ma.rsalia, MaSJilia), 13 ,

26, 35-37, 4 1 , 53, 87 Marte, 39, 44 Marzabotto, 22 Massimiano Erculio, 98 Massimiliano, 1 13 Medb, 54, 106-108 Melusina, 54 menapi, 90 Mercurio (Mercurius), 35, 39, 44, 75 Merlino, 1 1 1 , 121 Meyer, Kuno, l 06 micenei, 36 Milano (Mediolanum), 22, 75, 86 Modena (Mutina), 75 Mont Beuvray (Bibracte), 1 6, 89 Mont Lassois, 16, 7 1 Mont Troté, 49 Monte Badon (Mons BadoniJ), 109 Monte Balkan (HaemuJ), 26 Morava, 26 Morgana, 1 10 morini, 90 murcus, 61 murus GallicuJ, 72, 74

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Napoleone, 1 17 Napoleone III, 1 14, 1 16 Narbona (Narbo), 37, 87 Neckar, 15 Nennio, 109 Nerone, 19, 94, 106 nervi, 55, 90-91 Neumagen (Noviomagus), 75 narici (regnum Noricum), 25, 30,

33, 69, 88, 94 Norico, 7, 13, 94 Noricus ensis, 3 1 Novalis, 1 17 Numanzia, 86-87, 91 Nyrax, 13, 7 1

Gbelix, 1 2 1 Glimpo, monte della Bitinia, 7 1 Gmero, 58, 1 16- 18 oppidum, 16, 56, 71 Grange (Arausio), 64, 88 Grgetorige, 6 1 , 80, 82, 84, 90 Grosio, 24 Grtiagono, 27, 55, 7 1 Gscar, 1 17 Gssian, 1 1 , 58, 1 16-17 Gstilio Mancino, 87 Ovidio, 23

Palladio, l 02 Paolo, 95-96 Parigi (Lutetia), 44, 64, 75 Parma, 75 Parsifal, 108, 1 1 1 patriarcato, 5 1 Patrizio, 101 Pavia (Ticinum), 75 Pergamo, 7, 27-28, 94 Perronik, 1 1 1 Pessinunte, 27, 40, 75 Petersen, Johann Wilhclm, 106 Piccolo donario, 27 Pitagora, 40 pitti, 20, 5 1 , 64, 102, 1 10 Plauto, 23 Plutone, 10, 3 9 Poitiers, conti di, 53 Pokorny, Julius, 106 Pompeo Magno, Gneo, 89, 94-95 Prasutago, 80 Pressburg, 27

pretan, 30 Puglia, 24 Pyrene, 13, 7 1

Ratisbona (Regensburg), 75 Ravenna, 64 recinti quadrangolari ( Viereckschan­

zen), 8, 42-43, 48 Regenbogenschiisse/chen, vedi sco-

delline dell'arcobaleno Reims (Durocortorum), 75 Remagen (Rigomagus), 75 Reno, 14-15, 39, 54, 82, 90, 103, 1 14 reti, 22, 93 Reutlingen (Arae Flaviae) 35 Ribemont-sur-Ancre, 48-49 Rimini (Ariminum), 22 Rodano, 1 3 - 14, 34, 7 1 , 87-88, 96 Roquepertuse, 49-50 Rosmerta, 39 Ruhr, 15

Sachs, Hans, 1 1 2 Saint Albans (Verulamium), 96 Saint-Brieuc, 58-59 salassi, 93 , 96 Salisburgo (luvavum), 30 San Gallo, 103 sapo, 5 1 sassoni, 10, 20, 97, 101 , 109- 1 1 Sava, 26 Savoia, 19 Schnabelkanne, vedi brocca a becco

d'anatra Schopenhauer, Arthur, 1 19 Schwabische Alb, 22 Scipione Emiliano, Publio Cornelio

(detto l'Africano Minore), 87, 91 sciti, 96, 103 scodelline dell'arcobaleno (Regenbo-

genschiisselchen) , 36 scordisci, 26 scoti, 20, 102- 103 , 1 10 Scozia, 15, 20, 97, 1 02, 108, 1 1 4 Sedulio Scoto, 103 Segorbe (Segobriga), 75 Segoveso, 20 Senna (Sequana), 15, 34, 72 senoni, 22-23, 86 Sens (Agedincum), 76 sequani, 69, 82, 89-90

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Sertorio, 60 Settimio Severo, 97 Shakespeare, William, 96, 109 Shaw, George Bemard, 1 19 Sidonio Apollinare, 97-98 Siegerland, 33 Silio ltalico, 19 Silla, 24, 89, 94 Siracusa, 24, 91 sonziati, 60 Stiria, 13 Stoccarda, 16, 42 Stonehenge, 120 Stradonitz, 25 Sulpicio Severo, 98 Svetonio, 30, 54 svevi, 14, 68, 89, 1 13

Tain Bo Cuailnge, 106, 1 10 Taliesin, 108 Tamigi (Tamesa), 19, 90 Tarquinia Prisco, 20 Tarragonese (Tarraconensis) , pro-

vincia, 99 Tauber, 15 Taunus, 73, 75 taurini, 93 Telamone, 62-63, 86 Temora, 1 16 tencteri, 90 Tennyson, Alfred, 1 19 tettosagi, 19, 27, 47, 94 Teutates, 35, 39, 4 1 Tiberio, 46, 63, 92-94 Ticino (Ticinum), 75 tigurini, 67 Tolemeo Cerauno, 25 tolistoboi (o tolistoagi), 27, 94 Tolkien, John R.R., 1 2 1 Tolosa, 25, 3 0 Tongres (Aduatuca), 91, 1 14 Torino, 93 torques, 63-64 traci, 26, 99 Trento (Tridentum), 75 treveri, 72 Treviri (Trier), 34, 72, 75 Trieste, 93 trinobanti, 69 Tristano, 1 12

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trocmi, 27 Trogo, Pompeo, 14, 17, 20, 37, 48 tropaeum Alpium (a La Turbie), 93 Tschudi, Egidio, 1 13

Tylis, 26, 80

Ulster, l 06- 108 usipeti, 90 Uxellodunum, 92

Valerio Massimo, 40 vallo, 9 1 , 97 valloni, 10, 1 14 vallus, 34 Valpurga, 47 vassus, 56 Veio, 23 veneti, 62, 68, 90 Venuzio, 80 Vercingetorige, 36, 70, 80, 82, 91 ,

1 14-16 vergobretus, 85 Verona, 22, 75 Vicenza ( Vicetta), 75 Vienna (Vindobona) , 75 Vienne (Vienna), 88 Viereckschanz;en, vedi recinti qua-

drangolari vindelici, 63, 7 1 Viriato, 86 Virunum, 25, 94 Viviana, 1 1 1 Vix, 16, 35, 52, 54, 57, 77 voconzi, 87 Volcae, 9, 67-68, 88 Vortigern, 101

Wallis, 10 Welsch, 9-10 Wessex, 103 Wfegand, Theodor, 28 Wolfram von Eschenbach, 1 10- 1 1 ,

1 1 9 Worms (Borbetomagus) , 3 9 , 75

York (Eburacum), 75

Zeus, 10, 28; vedi anche luppiter Zurigo ( Turicum), 63, 75