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Geno Pampaloni: la leggerezza e l’incisività nella critica A cura di Rocco Bellantone, Carmen Maffione, Sara Vetturelli Oblique Studio pampaloni_nov10:Layout 1 03/12/2010 12.53 Pagina 1

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Oblique Studio, novembre 2010

Geno Pampaloni: la leggerezza e l’incisività nella critica

A cura di Rocco Bellantone, Carmen Maffione, Sara Vetturelli. Impaginazione di Rita Feleppa.

In copertina: Geno Pampaloni con Eugenio Montale. Elba, 1960.

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Tra pile di libri, ritagli di quotidiani e riviste, ameditare su come esprimere un giudizio serio,sincero, di valore. Il suo mestiere di «criticogiornaliero» Geno Pampaloni lo ha svolto così,consapevole della sua straordinaria formazioneletteraria che gli ha sempre permesso di unirealla qualità dell’analisi critica quella rapidità discrittura che i ritmi di un quotidiano richiedo-no. Ad aiutarlo in questo difficile compito lacapacità di tratteggiare profili – di opere o diautori – sempre mirati e preganti. È questo ilsegreto di Pampaloni: andare dritto all’essenza.Il compito del lettore di professione, diceva, è«chiarirsi e chiarire di che si tratta». Il suo giu-dizio sui libri era inequivocabile: prima di ognicosa un sì o un no perentorio sul valore del-l’opera. Dopo, soltanto dopo, sarebbero venutii ricami. Cronista puntuale e metodico, dagliinizi degli anni Trenta fino alla fine dei suoi

giorni, ha parlato di libri partendo dalle storie

degli uomini che li hanno scritti: quelli a lui con-temporanei, e dunque Alvaro, Brancati, Cecchi,Landolfi, Moravia, Noventa, Pavese, Svevo,Vittorini, Pasolini, Orwell, e quelli che della secon-da metà del Novecento sono stati i modelli di rife-rimento, come D’Annunzio, Pirandello, Verga,Nievo, Leopardi, Manzoni.

Non molti gli scritti finora dedicati al criticoPampaloni e alla sua vasta produzione – Fedele alla

critica (2000), Il critico giornaliero. Scritti militan-

ti di letteratura 1948-1993 (2001), Una valigia leg-

 gera (2008), Gli anni dell’amicizia. Immagini e

 figure del secondo Novecento (1991) – ai quali siaggiunge ora questo breve saggio, nel tentativo direstituire l’immagine, più vivida possibile, di unintellettuale sempre fedele all’alto compito cheegli stesso aveva attribuito alla critica letteraria, edi un critico che, per la forza della sua scrittura e lapotenza delle sue analisi, ha reso estremamente

labile il confine tra critica e letteratura.

«L’ufficio del critico giornaliero è quello di stare in trincea: poco tempo per leggere, poco per riflettere,ancor meno per scrivere, nessuna bibliografia o comunque non relativa al libro che arriva sul tavolo delrecensore quando non è ancora in libreria: al massimo qualche riscontro pubblicato sui giornali da parte

di colleghi più veloci o più cinici»1.

Introduzione

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Firenze, 1992 − Geno Pampaloni nel suo studio in via della Cernaia

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Geno Pampaloni nasce a Roma il 25 novembredel 1918 da genitori toscani. Il padre Agenore èoriginario di Colle Val d’Elsa, in provincia di

Siena, mentre la madre Assunta Guerri è diAnghiari, un paesino vicino a Arezzo. Vive aGrosseto dal 1924 al 1939. Dopo il consegui-mento della maturità classica studia Lettere aFirenze e a Pisa alla Normale, dove si laurea nel1943 con una tesi su Gabriele D’Annunzio.

Partecipa alla guerra da ufficiale dell’esercitoprestando servizio dal luglio del 1939 al novem-bre del 1944, quando a seguito dell’armistizioentra a far parte del Corpo italiano di liberazio-ne. Il periodo fascista rappresenta un croceviafondamentale per la sua formazione. Da giova-nissimo è ammaliato dalla figura di Mussolini,ma ben presto si rende conto della vera naturadel regime. In Una valigia leggera, Pampaloniricorda la brutalità della dittatura nei confrontidi un gruppo di oppositori politici in un sabatofascista: «Appena libero corsi a cambiarmi euscii a cercare gli amici, quelli più anziani di me,antifascisti, ai quali devo con riconoscenza senegli anni seguenti la mia educazione politica si

è fatta nel segno della pazienza e dell’affetto enon dell’odio»2.

Pampaloni, già da ragazzo, ha una passione:la scrittura. La coltiva dai tempi di Grosseto,fino a farne il proprio mestiere, o per meglio

dire l’abito della propria vita. Tra un giornale el’altro, tra riviste e case editrici, nell’estate del1945 si trasferisce a Milano prima, a Ivrea poichiamato nel 1948 da Adriano Olivetti a dirige-re la Biblioteca della fabbrica. Cosa, negli anniCinquanta, abbia rappresentato la cittadina pie-montese per i giovani intellettuali italiani lospiega bene Renzo Zorzi nel saggio dedicato aPampaloni: un polo industriale e culturale, svi-luppatosi grazie alle straordinarie doti manage-riali di un ingegnere illuminato, con la vocazionedell’industriale quanto del politico.

Olivetti fonda nel 1948 il MovimentoComunità, nel tentativo, rivelatosi poi utopico,di armonizzare sviluppo industriale e difesa deidiritti umani in un contesto di democrazia par-tecipativa. E così Ivrea si trasforma in polo diaggregazione per molti intellettuali attratti dallapolitica progressista di Olivetti. Erano in molti avedere, chi nella fabbrica chi nel Movimento,anche una valida possibilità di impiego.

Pampaloni diviene in breve tempo uno dei piùstretti collaboratori dell’ingegnere torinese: per

La vita

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il futuro critico, naturalmente portato a pensareche nessuna attività teorica e meditativa potessesussistere senza applicazione pratica, non è diffi-

cile condividere gli ideali olivettiani e sostenerequel giovane ambizioso convinto del primatodella cultura. In pochi anni Pampaloni diventacapo del Centro culturale Olivetti e dei Serviziculturali, si occupa attivamente del MovimentoComunità fino a ricoprire la carica di segretariogenerale, scrive sulla rivista Comunità e nediventa direttore. È «punto di giuntura e dimediazione attiva tra la cultura “protestante”,anglosassone, tecnologica, urbanistica, ecumeni-

co-conciliare di Olivetti, e la tradizione più uma-nistica e storicista dell’intellettuale italiano». Nonsolo: Pampaloni diviene portavoce delle intuizio-ni e delle folgorazioni dell’ingegnere, le trasformain un linguaggio appropriato e incisivo, dà loroequilibrio. Gli anni vissuti al fianco di Olivettisono intensi. È Pampaloni stesso a confessarlo inun’intervista rilasciata a Grazia Cherchi su

Panorama nel maggio 1989: «I dodici anni conAdriano Olivetti sono stati decisivi nella mia vita.Ho fatto molte esperienze, tra cui quella del

potere: un letterato di mala lingua diceva cheOlivetti Spa non significava in realtà Società perAzioni, ma Se Pampaloni Acconsente. Eraperaltro un potere propositivo, senza cinismo econ molta fiducia umana». Il rapporto con laOlivetti, nonostante le promettenti premesse, siconclude però amaramente alla fine del 1958. IlMovimento Comunità esce pesantemente scon-fitto dalle elezioni politiche: il pionieristicoprogetto olivettiano di superare gli steccati

ideologici del capitalismo e del socialismo,abbattendo la partitocrazia dominante in Italia econfigurando l’industria secondo una concezio-ne nuova, vale a dire come istituzione capace diguardare oltre il mero profitto, è consideratodalla società pura utopia. Con la fine della colla-borazione con Olivetti, che morirà solo due annipiù tardi, termina anche l’impegno politico di

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La sala di lettura della Biblioteca Olivetti, anni Sessanta

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Pampaloni che da ora in avanti si occuperàesclusivamente di letteratura.

Già dopo la guerra Pampaloni aveva ripresol’attività giornalistica iniziata negli anni in cuiviveva a Grosseto. La prima testata con cui col-labora è   Il Telegrafo diretto da GiovanniAnsaldo. Nel 1945 si trasferisce a Milano dove

lavora come redattore per   Italia Libera, quoti-diano del Partito d’Azione diretto da AldoGarosci e Leo Valiani. Chiuso il giornale per loscioglimento del partito, insegna per due anni,dal 1946 al 1948, presso una scuola di avviamen-to professionale a Borgosesia, in provincia diVercelli. Nel 1947 inaugura la sua attività di cri-tico letterario collaborando con la rivista fioren-tina   Il Ponte, diretta da Piero Calamandrei, econ  Belfagor , guidata da Luigi Russo. Sono glianni della flessibilità, dei traslochi, degli sposta-menti. Pampaloni non ha problemi a fare laparte del camaleonte. La tranquillità diGrosseto è un lontano ricordo. Nel 1953 inizia adirigere l’enciclopedia   AZ Panorama conGiovanni Enriques e Edoardo Macorini; dal1955 al 1957 è il critico letterario dell’Espresso;successivamente tiene la rubrica di libri suEpoca e cura alcuni programmi culturali dellaRai, creando la rubrica, in onda sul secondocanale, Conversazioni con i poeti . Nel giugno

del 1962 viene chiamato a Firenze a dirigere lacasa editrice Vallecchi accogliendovi, tra gli

altri, Tommaso Landolfi, Ignazio Silone, AnnaMaria Ortese, Angelo Fiore e Ernesto Calducci.

Di fronte a una critica letteraria che in questi

anni entra in contatto con la sociologia, la lingui-stica e la semiologia, Pampaloni continua «a ser-virsi di uno strumento di superiore artigianato,apparentemente démodé, come il giudizio di valo-re: un “sì” o un “no”, perentori nella sostanzaquanto spesso affabili nella forma, che stabilisca-no l’esistenza estetica dell’oggetto di interesse»3.Dedica pagine importanti all’avanguardia, e dun-que a Sanguineti e a Arbasino, così come nel1962 non si fanno attendere gli interventi del cri-

tico nel dibattito sul rapporto tra letteratura eindustria inaugurato da Vittorini sul Menabò.Nel 1967 arriva la chiamata del Corriere della

 Sera. Qui Pampaloni passa in rassegna centinaiadi libri, trovando per ognuno di essi le parole giu-ste e un giudizio capace sempre di essere unico,speciale. Sempre con lo stesso spirito Pampaloniè fedele alla critica, alla sua critica, quella fatta dicalma, metodo e con qualche matita e dei fogli sucui annotare impressioni, commenti, particolari:

Il mio indispensabile e fidato strumento di lavoro è lamatita (morbida, numero 1). Ne ho una buona scortae almeno due nella borsa per quando leggo in treno.Segno a margine i brani, le frasi, le parole, le notizie,gli stilemi che mi sembrano di qualche rilievo. Queisegni sono il mio filo di Arianna. Trascrivo infatti su

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La rivista Il Ponte

Comunità, 31, giugno 1955

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un foglietto le più importanti tra le cose annotate, conaccanto il numero della pagina. Mi trovo così ad averletto in pratica due volte il testo. E ho a disposizione

la traccia per il riassunto, il giudizio, le citazioni (lequali sono a mio parere elemento fondamentale peruna recensione onesta)4.

Con l’inizio della collaborazione al Corriere

della Sera, l’opera di ricognitore e recensore si fadunque sempre più ampia, strutturandosi sullamisura-tipo delle due colonne di quotidiano.Pampaloni è vigile su tutte le novità, intervienecommentando quelli che ritiene fenomeni lette-

rari, a prescindere dal nome e dal potere di chi liha pubblicati. La cerchia dei suoi scrittori crescedi anno in anno: Moravia tra tutti, ma ancheBrancati, Montale, Pratolini, Fortini, Soldati,Parise, Bertolucci, Caproni, Cassola, Fenoglio,Bassani, Gadda, Luzi, Pasolini, Morante,Landolfi, Sereni, Volponi, Calvino.

Nel 1974 una nuova stagione nella carriera delcritico si apre con l’ingresso di Pampaloni alGiornale . Cosa abbia rappresentato nel panora-ma giornalistico italiano questa testata lo spiega

Nello Ajello in un articolo pubblicato su Repubblica il 23 luglio 2001, il giorno successivoalla scomparsa di Montanelli:

Più che un antiCorriere della Sera, era un antigior-nalismo italiano degli anni Settanta. Si opponeva,cioè, alle tendenze radicaleggianti che da alcuni anniaveva assunto la stampa nel nostro paese. GuidoPiovene vi figurava come «presidente della societàdei redattori». Nel ruolo di condirettore vi lavoròper lunghi anni Enzo Bettiza. Quel quotidiano dava

voce a collaboratori illustri, tutti d’impronta «liberal-democratica», da Rosario Romeo a Renzo De Felice,da Geno Pampaloni a Nicola Abbagnano, da SergioRicossa a Vittorio Mathieu, da Renato Mieli a NicolaMatteucci. Ostentava la sua natura «controcorrente»

(così s’intitolava un fulminante corsivo di primapagina, senza firma, ma inconfondibilmente monta-nelliano).

Dal 1974 al 1993, in vent’anni, Pampaloni siritaglia all’interno della redazione del Giornale

un personalissimo ruolo di primo piano sullaTerza pagina, quella dedicata alla cultura cheMontanelli, a differenza di molti altri a queitempi, decide di mantenere e valorizzare.L’appuntamento domenicale con la prosa pam-paloniana diventa così un classico per i lettori.Celebri sono anche i suoi commenti pubblicati

nel riquadro Puntasecca. Lo spazio concessoglidal quotidiano diventa un salotto in cuiPampaloni discute di uomini e di libri, ma nonsolo: nei suoi articoli c’è un paese intero, cisono bellezze e problemi, fatti, dibattiti, pae-saggi. Sono però quelli anche anni di grandiscomparse: se ne vanno Gadda, Calvino,Moravia, Montale, Pasolini, Landolfi, Silone.Ma Pampaloni trasforma questi fatti dolorosi informidabili occasioni di recupero e di rivisita-zione. Ne vengono fuori dei mirabili ritratti,

riprese dal valore inestimabile.Le sorti del Giornale cambiano però inesora-

bilmente nel 1993 quando Berlusconi decide ilsuo esordio in politica. Scenderà in campo nel1994 con un nuovo partito: Forza Italia. Per lacampagna elettorale occorre il sostegno deimedia, e dunque anche del Giornale. Nel firma-re il contratto nel 1978 Indro Montanelli erastato categorico: «Sia chiaro, tu sei il proprieta-rio e io sono il padrone, perché se così non fosseio me ne andrò. La vocazione del servitore pro-prio non ce l’ho» 5. Ma le elezioni incombono, lasfida deve essere vinta. Montanelli se ne va segui-to da quaranta tra giornalisti, redattori e collabo-ratori: tra questi anche Geno Pampaloni. Lanuova avventura è alla Voce: sfida fallita sebbene

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«Dalla lettura impariamo molto,impariamo soprattutto a sapere,

o a sospettare, chi siamo».

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il primo numero abbia venduto quattrocentomilacopie. Già nell’aprile del 1995 il giornale è sciol-to, Montanelli torna al Corriere della Sera pas-

sando gli ultimi anni di vita nella sua Stanza.Pampaloni, per tutti gli anni Novanta, continuaa scrivere, collaborando con   La Stampa e con

 La Nazione , su cui esce una sua prosa rievocati-va il 20 febbraio del 1999, il giorno dopo ifesteggiamenti per i suoi ottant’anni tenutisi aPalazzo Vecchio a Firenze: «Leggere è statasempre per me una grande passione, che mi hacompensato dei viaggi che non avevo il danaroper fare. Ho quindi letto molto; potrei dire chei libri sono stati la mia balia, dal cui petto misono abbondantemente nutrito»6.

Geno Pampaloni muore il 17 gennaio 2001.Dai suoi ultimi scritti si evince una saggezza euna consapevolezza della vecchiaia che gli fannoattendere la morte come fosse una semplice,ultima partenza per la quale bisogna alleggerirela valigia, lasciandovi solo l’essenziale. Le lunghemeditazioni sull’inafferrabilità della felicità esulla fugacità del tempo, agevolate dalla fedecattolica che, pur nei suoi mutamenti, lo accom-

pagna da sempre, vengono mitigate dalla consa-pevolezza che l’effettiva durata della vita acquista

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significato solo in relazione al grado di autentici-tà che si è stati in grado di imprimere alla propriaesistenza.

Ogni tanto penso a che cosa mi piacerebbe portarmial di là (se un aldilà ci sarà). Qualche volto di donna,qualche paesaggio (Bocca d’Ombrone; le Dolomitirosate della val Badia; la spalliera nevosa delle Alpivista dal Colle dei Cappuccini, a Torino, al di là deimeandri dei fiumi che scorrono nel fondovalle; ilponte di legno di Lucerna; il mare azzurro da cuiemergono gli scogli di Ile Rousse, in Corsica; le trefinestre verdi della casa della Liliana, a Grosseto; la

pianura che va verso il mare, interrotta dalla lineascura dalla pineta, nella luce quieta d’acquamarina,che mi sembrava infinita, vista dalle Mura, ancora aGrosseto; il ciuffo di cipressi attorno alla Pieve diBaroncelli in cima alla poggiata verde e marrone, lamattina quando spalanco la finestra; l’altissimoponte di Berna su non so che fiume; il ponte sulGolo, ancora in Corsica, mentre guardo la sabbiaattorno a me bollire sotto i colpi di una ostinatamitragliatrice tedesca; il mare viola di Rodi nellalontana crociera, viaggio premio perché ero bravo a

scuola, sessant’anni fa; la “fantasia” dei Berberi acavallo, l’anno dopo, in un’altra crociera premio; laneve scintillante della Marmolada, e quella, a Cogne,del massiccio Gran Paradiso; «la Serra dritta, glialberi, le chiese», evocati da Guido Gozzano). E iversi: «Vergine madre, figlia del tuo figlio»; «e vidiil tremolar della marina»; la pioggia infernale «etter-na, maledetta, fredda e greve»; Rilke tradotto daGiaime Pintor («Dev’essere autunno, / là dovedonne innamorate / sanno di noi»); il deliziosoMarino Moretti («Piove. È mercoledì. Sono a

Cesena»); il dolcissimo Attilio Bertolucci («Comepesa la neve su questi rami / come pesano gli annisulle spalle che ami… Gli anni della giovinezza sonoanni lontani»); e ancora Rilke: «Presto la sera verrà/ svanendo il ricordo di anni lontani. / Presto la seraverrà. / Ma quanta luce è raccolta, / ora, nel cerchiobreve delle tue mani». E lo straziante Noventa: «E aun de’ tosi ch’andarà via, / volgendo i oci di nuovoal porto, / e a un de’ tosi ch’andarà via / ghe darò ilcor». Una valigia leggera, ma preziosa. E San Pietro,

che ha un cuore d’oro, mi aiuterà ad asciugarmi leultime lacrime (In Purgatorio non si piange)7.

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Se Pampaloni avesse deciso di raccogliere il suomezzo secolo di critica letteraria in volumi, oggine avremmo scaffali pieni. I suoi scritti rimango-

no invece tuttora disseminati su una moltitudinedi giornali e riviste assecondando così la volontàdel loro autore, «cavaliere inesistente»8 della cri-tica italiana: «Ascrivo a mio merito l’avere sem-pre rinunciato all’idea di raccogliere gli articoli; iquali hanno la funzione, e in certi casi, (o mi illu-do) il valore, di cronaca vagliata da una lunga eappassionata esperienza»9. Il fatto che non abbiaraccolto in modo organizzato i suoi scritti nonha nulla a che vedere con la poca stima nutritadal critico verso sé stesso o verso la sua produ-zione: il vero motivo di questa scelta è nella con-cezione che Pampaloni ebbe della letteraturacome avvenimento, come occasione.

Il suo metodo critico, Pampaloni lo ereditadalla scuola di Cecchi, Pancrazi, Falqui e dalcapostipite Sainte-Beuve. Il critico Pampaloni èprima di ogni cosa un lettore vorace, e gli scritto-ri che ama, che hanno iniziato la loro carrieranegli anni Trenta, li segue per tutta la vita, inco-raggiandoli, facendo luce sulle perplessità che

suscitarono, indicandone gli eccessi, senza averpaura di affermare, dinanzi a un’opera deludente,

che il meglio fosse già stato dato. Pluralismo eduttilità costituiscono il paradigma della criticalibera di Pampaloni, che si muove oltre schemi

e preconcetti, tendenze o dogmi, che apprezzascrittori antitetici e che ha stima anche di quel-li che, pur non essendo maestri riconosciuti,nell’impegno dedicato alla propria opera sonoin qualche modo riusciti a fronteggiare l’acquie-scenza dei tempi. In secondo luogo, Pampaloniè spesso stato legato da un forte sentimento diamicizia agli scrittori di cui ha scelto di occu-parsi, una sorta di solidarietà, una fratellanzache può nascere solo tra contemporanei,soprattutto se appartenenti a quella generazio-ne che ha rifiutato il fascismo insieme a qualsia-si idea di violenza e sopruso. Tale sensibilità è,almeno in parte, frutto di un profondo senti-mento religioso, che talvolta ha costituito moti-vo di contrasto con la laicità di molti dei giornali(in particolare  L’espresso) con cui Pampaloniha collaborato e che lascia tracce rilevantianche in molti ritratti di scrittori disegnati dalcritico. Nei suoi saggi, infatti, Pampaloni nonmanca quasi mai di indagare il sentimento reli-

gioso di ogni autore nel tentativo di intuirequale sia la relazione da questi intrattenuta con

Un giudizio di valore

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la fede – al di là che si professi ateo o meno – ein quale modo questa emerga nelle diverseopere, se sotto forma di ribellione, dissacrazio-

ne, paura per un minaccioso mondo ultraterre-no – come fu per Pasolini – o, al contrario,attraverso un sentimento di sereno ottimismo,come in Mario Soldati10.

Ognuno di questi ritratti ha in sé un giudizioinequivocabile e approfondito, non di radoespresso in prima persona, in modo pacato masempre deciso. Un metodo che del resto utilizza-va anche Croce nel suo modo di fare critica, mache in Pancrazi, e quindi nel suo allievo

Pampaloni, trova una differenza importante: se ilgiudizio di Croce – poco importava fosse positivoo negativo – piombava come una ghigliottinasulla testa degli autori, con altrettanta rapidità liabbandonava per focalizzarsi esclusivamente sulleloro opere. Pampaloni, al contrario, si concentra

sull’autore come uomo e sul mondo che lo circon-da per arrivare a comprendere, ma in un secondomomento, la vera natura, le ragioni dei suoi scrit-ti. Giuseppe Leonelli coglie questa caratteristicatecnica di analisi letteraria quando definiscePampaloni un «critico-scrittore»11. SecondoLeonelli farebbero parte della categoria quei cri-tici autori di pagine capaci di conservare un«valore letterario indipendente dai giudizi chevi si formulano»12. Per questa tipologia di criti-co, la lettura di un’opera non è mai pretesto perla formulazione di sterili teorie o categorizzazio-ni ma piuttosto l’opportunità di “vivere” iltesto: è questa partecipazione, anche emotiva, allibro che ne permette un’effettiva conoscenzada parte del critico il quale, scrivendone, si ser-virà di una prosa essa stessa vitale, artistica. Una

critica autentica è una critica immediata. Questosignifica, per Pampaloni, essere critico giorno

per giorno: non esercitare il suo magistero dal-l’alto di una cattedra universitaria, ma dalle piùumili pagine dei giornali, instaurando con gli

scrittori «un rapporto da persona a persona, dalettore a scrittore, tramite solo un libro e quellibro» e passando «attraverso i labirinti letteraricontemporanei senza smarrirsi, senza concederemolto di sé, parlando e pensando sempre inprima persona: scrivendo sempre di uomini, maidi tendenze; ritratti, mai di teorie; giudicando dipoesia e d’arte, raramente di poetiche, di esteticamai o quasi»13.

La tensione intellettuale che ha sempre con-

servato Pampaloni libero da qualsiasi preordina-to schema teorico-filosofico trova comunque lasua ragione più profonda in un conflittuale rap-porto dal critico intrattenuto con la Storia. È uno«storicismo del trauma», come lo definisce MarinoBiondi, quello che impedisce a Pampaloni, dopo

la terribile esperienza del fascismo e della guer-ra, di percepire la Storia come una razionale con-catenazione di fatti dominati da un ordinatoprincipio di causalità, facendogliene coglierepiuttosto, e con notevole sensibilità, le disconti-nuità, le incongruenze, la violenza. Da qui laforte volontà di rimanere ancorato al quotidiano;da qui un interesse speciale per quegli scrittoriche, come lui e tutti in modo diverso, hannorinunciato a una visione storicistica degli eventimaturando per la Storia solo un sentimento diforte disagio. Ecco allora il “silenzio” di CarloBernari, l’utopia di Vittorini, lo spiritualismodegli ermetici, gli sberleffi di Landolfi e la ruvi-dezza di Piovene. E poi Bassani che, rinunciandoa qualsiasi ruolo attivo per assumersi il più umilecompito di testimone della Storia e delle sue atro-

cità, ricorda il suo mondo ormai distrutto dalregime – quello della Ferrara ebraica –, sempre

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«Con le dovute eccezioni, non molte, sento negli scrittori giovanila mancanza di una qualità fondamentale

della mia idea di letteratura: il disinteresse».

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tormentato dal dubbio che a nulla sia servito ildolore di un intero popolo. E Cassola, che da unlato idealizza il fascismo fino a trasformarlo inun movimento partecipato e condiviso, mentredall’altro avverte una sensazione di incompati-bilità esistenziale con la Storia, compresa quelladella Resistenza. Ma Pampaloni non si ferma aicontemporanei: in una meritoria operazione diriscoperta e rivalutazione, il critico rintracciaanche in due capolavori della letteratura italianadell’Ottocento i segni profondi di una totale sfi-ducia della Storia. I due testi in questione, chedunque solo apparentemente, sostiene Pampaloni,possono essere considerati romanzi storici,sono niente di meno che  I promessi spos i e  Il 

Gattopardo.Ma per Pampaloni, il mito della controstoria

per eccellenza è rappresentato da Pavese, l’auto-re sul quale ha scritto di più e con più fervore, el’unico a cui abbia dedicato un libro: Trent’anni 

con Cesare Pavese14, volume che si articola come

semplice raccolta di saggi. Per ognuno dei motiviispiratori e dei temi che caratterizzano le opere

dello scrittore, il critico formula delle definizioniessenziali e illuminanti. A proposito dell’autobio-grafismo pavesiano scrive:

Nella sua pagina, anche la più perfetta stilisticamente,senti sempre un’ombra segreta di confessione, unasospesa richiesta di solidarietà, che è struggente, che siappella direttamente ai momenti più veri e segretidella nostra giovinezza. Se c’è un narratore «impuro»,questi è il Pavese, e proprio nel senso di una ricchez-za sentimentale accorata, impetuosa, quasi indifesa,

che si libera sempre anche al di là dell’esercizio criticopiù maturo, e ci coinvolge nel cerchio stesso dellanostra esistenza.

Oppure trattando del lirismo che invade le operedello scrittore:

Tutte le definizioni di realista lirico o simili che sonostate tentate per il Pavese sono destinate a rimanereparziali. È chiaro che la sua poesia nasce in una dimen-

sione culturale di tipo esistenziale, che è tuttavia il resi-duo, il sedimento, il risultato contrastato, «fatale», di

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una ricerca sulla realtà condotta con tutt’altri stru-menti. Il suo lirismo sorge da una disposizione dispe-rata verso la vita, come estremo, inalienabile mezzo di

conoscenza, e di partecipazione, come una rispostasenza più appello, sul margine ultimo e deserto lascia-to all’uomo per vivere e credere nella vita.

O, ancora, quando si sofferma sullo sperimenta-lismo della sua prosa:

Via via che si approfondisce la conoscenza del suolaboriosissimo operare, venivano meglio in chiaro gliaspetti di un Pavese sperimentatore, pragmatico,

contestativo in varie direzioni, insofferente di ognidefinitiva acquisizione, letterato sempre intellettual-mente avvertito del controllo dei propri mezzi espres-sivi, dimentico, nel fare, della tragedia del vivere. Latrama delle sue contraddizioni appariva un tessutosempre vitale, uno spazio di ricerca ove trovavano col-locazione positiva il pessimismo e la fede, la scrupolo-sa tenacia artigianale e il tacito giuramento alla poesia,la passione del nuovo nel mondo che si trasforma e

l’antica voce dei valori che ci trascendono. E non ècerto questa la ragione minore della sua modernità,questo incalzante fervore operativo che risuona più

forte del suicidio.

Senza contare altri numerosi aspetti dello stilepavesiano dal critico puntualmente analizzati,come la profondità del ritmo, del linguaggio o ilsentimento del paesaggio.

Pagine altrettanto fondamentali Pampalonidedica a quel «realista utopico» che è Moravia,cui spetta il merito di aver «sciacquato via dal-l’immagine dello scrittore italiano moderno ogni

traccia di misticismo (religioso o pagano) a buonmercato, e la facile aristocrazia della letteratu-ra»15. Il critico ne divide la produzione in trefasi, senza peraltro nascondere la sua spiccatapreferenza per la prima: quella che va da Gli 

indifferenti  a  Agostino, in cui Moravia scavanel torbido, nel marciume con puntigliositànotarile, stringendo spietatamente i suoi perso-naggi nella morsa del determinismo. Pampaloni

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Geno Pampaloni e Ignazio Silone

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segue passo passo l’itinerario dello scrittoreattraverso le sue numerose trasformazioni: danarratore della borghesia a narratore popolare-

sco – quando non dialettale e neorealista – finoall’ideologo degli ultimi romanzi. Bastano pocheparole tratte dal saggio contenuto nella Letteratura

di Cecchi e Sapegno per capire l’acutezza dell’ana-lisi pampaloniana:

Il suo stile ha il privilegio del doppio registro. È grevee insieme limpido. Si posa dapprima sulle cose confaticosa pedanteria, e poi ne scioglie i grovigli, ne chia-risce la struttura con una essenzialità intellettuale che

è di per sé eleganza. La sua satira è plumbea, a zero diumorismo; e tuttavia al fondo della sua pagina c’è unrespiro liberatorio, il suo grottesco limaccioso è il cor-rispettivo moralistico dell’allegria. Dalla famiglia lette-raria laica cui appartiene, deve qualcosa allo Svevo,anche se dello Svevo gli manca l’invenzione, l’estrominuzioso, l’ilare angoscia di fronte al mistero e allamorte; e viene semmai a riaccostarsi sempre di più alPirandello, altro grandioso realista di astrazioni, e,come lui, rovesciato il naturalismo di partenza, permetà giustiziere e per metà idolatra del suo tempo. Ma

sarebbe un errore misurare il Moravia sui parametridel Novecento italiano. Le sue origini risalgono al di làdel naturalismo di stampo positivistico da cui escono isuoi immediati predecessori, e si riallacciano al granderealismo dei classici. E i suoi esiti stanno in un soffer-to confronto, antidecadente, con i motivi europei dellacrisi borghese. Libro dopo libro, in lui la ragione assu-me sempre più le vesti dell’ambiguità «storica», nerecita la parte, si compenetra nei soggetti che quella leoffre. Ma recita a memoria, e ritrova battute di unaltro, più antico copione16.

Se questi sono gli autori prediletti dal critico,celebri rimangono tuttavia pure i ritratti di altriscrittori italiani, maestri indiscussi del Novecento.Come Gadda:

Il tempestoso mondo gaddiano, l’acre e fervido infernodella sua solitudine, è illuminato con violenza dal pre-zioso inedito filosofico-scientifico Meditazione milane-

se, pubblicato con esemplare scrupolo da Gian Carlo

Roscioni. Carlo Emilio Gadda scrisse la  Meditazionemilanese nella primavera del 1928; nell’estate dello

stesso anno ne intraprese una seconda stesura, che poilasciò in tronco. L’opera viene ad affiancarsi ai saggi diriflessione estetica pubblicati in quegli anni su Solaria

(ora nei Viaggi la morte); e «segna lo spartiacque tradue periodi dell’esperienza e della vita intellettuale»dello scrittore, tra gli interessi filosofici e matematicida un lato e la vocazione letteraria dall’altro. (Pochianni dopo, nel 1932, il Gadda abbandonerà definiti-vamente la professione di ingegnere per dedicarsi deltutto allo scrivere di fantasia). Una delle impressionipiù vive, alla prima lettura di questo Gadda «filoso-fo», è infatti il premere continuo, l’urgere delloscrittore alle spalle del filosofo; l’eccitazione e l’in-

temperanza della fantasia che interviene a propositoe a sproposito a intromettere materia realistica, figu-rativa, bizzosamente autobiografica, nel vivo delladimostrazione scientifica. In questo Gadda filosofo-ingegnere che teorizza sulla scienza c’è già in traspa-renza, con la sua collera e la sua disperata petulanza,il De Madrigal di Eros e Priapo. Cogliamo qui laprosa gaddiana nel suo profondo insorgere, nel suomomento liberatorio, se libertà è «il rapporto tra ilpensiero e il destino». Certe pagine sono destinate aentrare nell’ideale antologia gaddiana17.

O Silone:

Nell’ultima intervista che Ignazio Silone poté conce-dere un mese fa nella clinica di Ginevra ove era rico-verato, c’è una cosa bellissima che, in quest’ora dicommozione, mi riporta viva, reale, la sua figura schi-va e severa. Alla domanda: «Hai nostalgia del tuoAbruzzo, della tua Marsica?», lo scrittore risponde,con la poca voce che gli era rimasta: «Il mio Abruzzopuò essere in ogni luogo». Qui c’è tutto Silone, il suo

andare oltre gli schemi e i luoghi comuni, che purefavorivano la sua «attualità» di scrittore che si identi-fica con la propria regione. C’è la sua idea alta dellaletteratura, la sua spiritualità tanto più profondaquanto più discreta. Mi torna alla memoria un’altrapagina di confessioni: quando, percorrendo i luoghicristiani, le solitarie colline della Galilea, lo sorprese,come una tentazione o come la rivelazione di un pro-prio segreto, la somiglianza tra quel paesaggio mille-nario e fatale e l’Abruzzo dei suoi «poveri cristiani».

E ancora: la celebre battuta di Ed egli si nascose, quan-do il perseguitato politico e il randagio si scambiano,

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press’a poco, queste parole: «Tu dove vai?», «non loso». «Allora andiamo dalla stessa parte». Il paesaggiodi Silone, la sua patria ideale, era un paesaggio del-

l’anima, il paese dell’uomo. Scrittore scambiato perneorealista, ricondotto dalla critica, e non senzamotivi credibili, nella tradizione del romanzo regio-nalista caro al naturalismo, la forza di Silone erainvece soprattutto nell’accento spirituale, nell’istin-tiva comunione, di timbro religioso, degli uominiliberi, nello spazio sconfinato, universale, che si aprea chi pensi alla creatura umana come a una figura diresistenza18.

Meno familiarità, invece, Pampaloni ha avutocon la letteratura europea o americana: «In altritempi su Epoca e sull’Espresso mi occupavoanche di stranieri, per i quali tuttavia occorreun’informazione più ramificata e faticosa. E poiconosco meglio e amo di più la lingua italiana»19.C’è però un’eccezione, e notevole: GeorgeOrwell. Quello tra Pampaloni e l’autore inglese èd’altronde un rapporto particolare di cui

 Ritratto sentimentale di George Orwell 20 lasciaampia testimonianza. In questo scritto il critico,

fedele al suo metodo, indaga anzitutto l’uomo, ilpolitico militante, il giramondo e solo dopo loscrittore:

Orwell è un uomo che è cresciuto a poco a poco e si èchiarito sempre meglio nel suo destino di vigile «resi-stente», in nome della libertà… guardia notturna,maestro privato in quartieri operai, vagabondo, gior-nalista politico semi-clandestino. Poi venne la sua oradi politico militante, andò volontario nella Guerra diSpagna, militò nel Poum, visse le tragiche giornate di

Barcellona e il conflitto tra anarchici e comunisti cheruppe il fronte della sinistra europea; infine la ferita inguerra, la meditazione, il raccoglimento, la sua verastagione di scrittore, la morte21.

Subito evidente l’attrazione di Pampaloni perl’autore, per quest’uomo «di “terza forza”, maprivo assolutamente di quella che oggi è la prati-ca costante e direi la “tematica” della terza forza,il compromesso»22. Dovendo giudicare l’Orwell

scrittore Pampaloni prende spunto da Omaggioalla Catalogna:

Sono pagine dai margini netti, recise e dure, quali ame non è capitato di leggerne molte di uguali. Sul fini-re di questo diario di guerra (un diario di guerra anti-

militarista, com’è stato detto) il crollo degli ideali, ildilagare della menzogna, il disprezzo della lealtà edella fratellanza, il tristo trionfo della paura, dell’odio,della prigione hanno una piega amara che va al di làdella cronaca che fa toccare con estrema semplicità «ilfondo del problema»: le ragioni tragiche e «ultime» acui è affidato il nostro sì o il nostro no23.

Ma è nel momento in cui parla di 1984 che sem-bra di vederlo Pampaloni, seduto lì con quel

capolavoro tra le mani, a stringere i pugni perquanto condivide il senso profondo di quelleparole: «[…] a conti fatti, l’ultima cosa da sal-vare, l’estrema cittadella, è la libertà»24. Pocooltre il passo più significativo dello scritto, incui il critico riesce a far emergere tutta la forza

distopica di quest’opera: «Questo è il senso di1984. Che non è, come potrebbe apparire, ecome è stato ironizzato, un romanzo d’avvenire,sul tipo di Verne o di Wells; sibbene un roman-zo del presente, un libro politico, una attualissi-ma, quotidiana denuncia»25. Ma a Pampaloninon basta ancora. Serve un paragone, un con-fronto, per chiarire e per chiarirsi. E lo spuntobuono è proprio lì, in una chiacchierata amiche-vole di qualche giorno prima:

Un coltissimo amico di Ivrea l’altro giorno si mera-vigliava che Aldous Huxley avesse dimostrato tantaammirazione per 1984, «lui che aveva scritto tantianni prima e con tanto più vivo talento di narratore, Brave New World , dove quel mondo è già intuito erisolto in arte». Ma fu facile dimostrargli come nel

libro di Huxley, proprio perché così lampeggiantedi intelligenza, ci fosse ancora un margine di giuoco,

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«Sappiamo sempre più cose,ma sempre meno decisive,

radicate, cariche di destino».

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di azzardo, di «romanzo d’avvenire»: mentre nellibro di Orwell quel margine è scomparso, roso ine-sorabilmente dalla storia di questi anni; e non rima-

ne che il cupo presente, la spietata presenza delladannazione e della tragedia. Mentre nel libro diHuxley si parla veramente di un altro mondo, di un’al-tra civiltà, in 1984 è il nostro mondo che agonizzadavanti a noi26.

A recensione quasi finita, rimangono da smussarele angolature. E Pampaloni lo fa, con cura, conmestiere, rispettoso nei confronti dell’autore edel lettore. Così conclude l’articolo, lasciando di

Orwell un magnifico ritratto:I suoi connazionali non lo amano perché «irregolare»,i comunisti lo odiano e anche da morto ne parlanocome di uno «spione»; i socialisti hanno parecchieriserve da fare e comunque non lo sentono come unodi loro, perché non marxista ma liberale. Gli anarchi-ci lo ammirano e gli vogliono bene, ma come scrive ilRichards, pensano che non fosse un anarchico vero eproprio ma un umanista, cioè a dire presso a poco unilluso. I cattolici gli rimproverano la mancanza di

Dio e le punte anticlericali, i laici il suo riserbocostante e il sentimento dell’apocalisse. A me pareche Orwell sia scrittore da ricordare a lungo, e chenella parabola della sua vita abbia toccato moltipunti di verità27.

Da questi estratti traspare con chiarezza la convin-zione di Pampaloni che solo un’assidua frequen-tazione dell’opera consenta al critico di formulareun giudizio valido e responsabile. Pampaloni stes-so racconta come la sua lentezza nel concludereuna recensione non riguardi i tempi della scrittu-ra effettiva, ma la lunga convivenza con il libro inesame, la precisa cura con cui è solito prendereappunti, ricopiare estratti significativi, prepararsial saggio che verrà ben sapendo di dover fornireal lettore esempi concreti per far sì che possaanche lui immergersi realmente nell’opera. In unarticolo molto significativo qual è «Pavana per ilCritico Defunto», pubblicato sul Giornale nel1987, Pampaloni spiega perché i suoi saggi abbon-

dino di citazioni: se la letteratura è concreto agiree un libro l’avvenimento che il critico-testimone

manifesta al lettore, non si può prescindere alloradal presentarne le prove tangibili.

Una recensione priva di una pur sommaria testimo-nianza e verifica del mondo stilistico, etico, tematicoche rivive in un libro, una recensione che si rinserri nelMinosse delle condanne o nel coro angelico delle lodi,è oggettivamente iniqua. Il mio lettore non posso con-siderarlo soltanto un consumatore […]; devo conside-rarlo una persona libera e consapevole, cui metto adisposizione la mia esperienza perché ne tragga le con-clusioni che crede. Il mio primo dovere professionale(e umano) è di capire, fin dove posso, ciò che leggo e,

ancora fin dove posso, di far capire quello che ho capi-to: ciò che l’autore intendeva dire, e la misura e i modiin cui è riuscito a esprimerlo. La moralità del recenso-re è una medaglia a due facce; da un lato la chiarezzadella sua interpretazione, dall’altro la libertà lasciata allettore di condividerla, o correggerla, o respingerla.Questa è, del resto, anche una elementare forma dirispetto per gli autori, anch’essi «persone», i quali,con poche deplorevoli eccezioni, cercano con fatica dimettere nello scrivere il meglio di sé28.

Nonostante con il passare degli anni nuove teo-rie ermeneutiche si impongano, Pampaloni con-tinua a credere dunque nell’artigianalità dellacritica e a servirsi di quello che è solito chiama-re «giudizio di valore», ossia un sì o un no nettiche anticipano l’insieme di citazioni, riflessioni eosservazioni che seguiranno subito dopo nellarecensione. E a chi lo accusa di influenzare inquesto modo la libera interpretazione di un’ope-ra, egli risponde con le parole di GianfrancoContini secondi cui «la critica è il critico», cheper quanto quest’ultimo possa illudersi di ana-lizzare in modo oggettivo la storia della lettera-tura, in realtà sta solo percorrendo un trattodella propria storia, della propria autobiografia.Così, se il critico acritico resta, com’è ovvio, unachimera e se qualsiasi sentenza è immancabil-mente influenzata dal gusto personale, la manie-ra più onesta che il critico ha per rivolgersi allettore sta proprio nell’assumersi la responsabi-lità di un giudizio inequivocabile, dettato dalla

soggettività dell’io e dal coraggio di una criticaonesta e concreta.

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Roma, 1953 − Ignazio Silone, Geno Pampaloni

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comuni o dei nuovi errori subentrati nell’italianocontemporaneo, poi sostituita negli anni Novantada Matita rossa e blu sugli scrittori di Luciano

Satta, incentrata però esclusivamente sul linguag-gio letterario. Altri box, come Collane, Schede, Inuscita e Tascabili, vengono col tempo dedicati aglisviluppi del mondo editoriale e quindi alla nasci-ta di nuove collane, alle diverse strategie di mar-keting, al ruolo degli uffici stampa – che proprioin quegli anni vedono crescere esponenzialmenteil loro potere nel determinare il successo o l’in-successo di un libro –, allo scontro tra libri e tele-visioni, antagonisti nel contendersi il ruolo di

canale privilegiato alla comunicazione culturale.A queste rubriche si aggiungono trafiletti, anche disole quindici righe, dedicati ai libri in uscita, alleedizioni economiche, ristampe, dizionari, raccolte.Intanto la Terza pagina resiste ancora: dalla finedegli anni Settanta la sua funzione verrà affidataalla prima pagina disponibile dopo i fatti di cro-naca più rilevanti e sarà destinata prevalente-mente a eventi istituzionali, incontri e intervistecon personaggi illustri e con accademici, anni-versari, grandi biografie, premi letterari, lutti,

grandi imprese architettoniche, progetti per lavalorizzazione del territorio.

Proprio su Lettere e Arti compare a un certopunto l’appuntamento con la Classifica dei libripiù venduti: significativa spia dei grandi cambia-menti che in quegli anni stavano attraversando il

mercato editoriale e che finirono per coinvolge-re in maniera diretta anche il mestiere del criticoletterario. La critica non può infatti prescindere

dalla metamorfosi prepotente del mercato: se laletteratura e l’arte non sono più prerogativa diun’élite intellettuale anche il critico saràcostretto a rivolgere la sua attenzione e i suoiconsigli a un più vasto pubblico, alla massa dilettori che compra, spende, permette all’edito-ria di crescere e, così facendo, influenza inmodo decisivo la produzione letteraria. Ilrischio è allora quello che a uscire vincente daquesto nuovo stato di cose sia una critica non

più disinteressata e troppo debole per resisterealle pressioni dei sempre più agguerriti ufficistampa.

Avverte distintamente il pericolo Pampaloninel desolato compianto a quella che lui chiama la«Defunta Signora Terza Pagina»:

La recensione non serve più niente; non muove diun millimetro il livello delle vendite, non appagaquel lettore che vorrebbe sapere se il libro di cui siparla vale il prezzo di copertina; e infine non rientra

nella critica «scientifica», essendo il recensore unpraticone e le sue chiacchiere sottoposte alle ferreemisure del «rigaggio» […]. Sono del tutto indifferen-te al «ritorno» commerciale di una mia recensione; epiuttosto seccato allorché qualche frase, abilmenteestrapolata, figura nei riquadri pubblicitari. […] in

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Ivrea, 1855 − Geno Pampaloni, Adriano Olivetti e Ignazio Weiss

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un mondo che, non senza ragioni, diffida sempre piùdall’autorità, si pretende invece dal recensore di

imporre al lettore un perentorio sì o un perentoriono. Non ci sto. Il mio sforzo, al contrario, è di met-tere il lettore in grado di farsi egli stesso un propriogiudizio29.

Quel giudizio di valore, netto, inequivocabileche Pampaloni, con fedeltà estrema alla «reli-gione delle lettere», non ha mai risparmiato anessun autore, rischia ora di essere strumenta-lizzato per fini meramente commerciali. Negliultimi anni della sua attività di critico,

Pampaloni è amareggiato dal sentimento dinoia e di generalizzata indolenza che sembraaver investito la letteratura. Venuto meno lospirito di collaborazione tra critica giornalisticae ricerca artistico-letteraria, i critici hannorinunciato alla propria libertà intellettuale,all’opportunità e al dovere di un giudizioresponsabile nei confronti dei testi e degli auto-ri, mentre gli scrittori, a loro volta, si sonoridotti a essere pubblicitari di sé stessi. Sembrache l’unico diversivo di una critica letteraria ormaiasservita alla logica del profitto sia la stesura distroncature a effetto volte a ridimensionare orevocare in dubbio la validità della produzioneletteraria di precedenti generazioni.

Reagendo fermamente alla crisi che ha colpitola critica negli anni che già si preparano alla mer-cificazione incontrollata dell’arte, Pampaloni rie-sce, sulle pagine del Giornale, a bilanciare connotevole abilità la necessità di adattarsi aglisconvolgimenti del presente e la sete sempre

viva di letteratura, dal critico alimentata siasegnalando nuovi scrittori sia non mancando di

riproporre grandi autori del primo e secondoNovecento ormai quasi dimenticati. Non stupi-

sce dunque che a un articolo su Tondelli nesegua uno su Soldati, che a Rugarli e Ciscoseguano Rebora, Vittorini e Céline; né mai lenuove leve vengono prese in considerazionesenza porle in dialogo con i loro predecessori.Nella concezione di Pampaloni, letteratura delpassato e del presente si mescolano dando vita aun quadro sempre variegato. Allo stesso modo,il critico mostra di non avere pregiudizi sul suc-cesso di un autore rifiutando lo snobismo dimolti suoi colleghi che sono soliti associare, con

colpevole superficialità, fama e popolarità a unaletteratura scadente:

Si deve quindi consentire con chi rivendica la validi-tà di scrittori non premiati dal successo secondo ilmerito. […]. Ma cerchiamo di non esagerare. Lavitalità di uno scrittore non si può misurare esclusi-vamente dalla tiratura o dalla frequenza delleristampe; […] va invece valutata in una prospettivapiù articolata, in ciò che di lui è presente, e in chemodo, nella coscienza dei contemporanei30.

Pampaloni si dimostra critico libero e indipen-dente fino alla fine della sua carriera, nonlasciando mai che il suo giudizio venga influen-zato – neanche quando la contestazione sessan-tottina aborrì Manzoni, o quando Vittorini ePavese furono improvvisamente declassati dallacritica – né tantomeno disposto a disgiungere,nell’esercizio critico, la purezza delle intenzionidall’impurità del lettore eclettico, incontentabi-

le, spinto da curiosità, fatalmente attratto dalledivergenze.

Geno Pampaloni: la leggerezza e l’incisività della critica

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«Il recensore esiste in funzione di un lettore libero,esigente e paziente.

Può darsi che codesto tipo di lettore sia in estinzione;estinto che sia, finirà allora insieme con lui

anche la figura del recensore».

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Pistoia, 1984 − Premio Il Ceppo

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Sono sulla breccia, con qualche pausa dovuta al pre-valere di altri lavori, sicché non è del tutto infondatala mia autodefinizione di critico-testimone. Ascrivo amio merito l’avere sempre rinunciato all’idea di rac-cogliere gli articoli, i quali hanno la funzione, e incerti casi, (o mi illudo) il valore, di cronaca vagliata dauna lunga esperienza. Così pure non rimpiango dinon aver dedicato il mio tempo a saggi sui classici(con l’eccezione del commento a   I promessi sposi )che sarebbero stati sommersi dalla profluvie deglistudi accademici, alcuni dei quali per me inarrivabili.

Ho coltivato il mio orticello, tra noie, saturazioni, maanche divertimento. Del resto, il Novecento letterarioè un secolo ricco. Quando avevo vent’anni, si presen-tavano alla ribalta Moravia, Alvaro, Gadda, Landolfi,Piovene, Brancati, Pavese, Vittorini, Bilenchi, Buzzati,Comisso, Luzi, Gatto, Sereni, Penna, Batocchi e nonsolo loro. Scenario, credo, per molto tempo irripetibi-le. Non vedo attorno ingegni altrettanto svettanti. Conle dovute eccezioni, non molte, sento negli scrittorigiovani la mancanza di una qualità fondamentale dellamia idea di letteratura: il disinteresse31.

Le parole conclusive di questo saggio non possono essere affidate ad altri che a Pampaloni stesso.A lui, giustamente, il privilegio di un ultimo, indelebile autoscatto.

Autoscatto

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1 Marino Biondi, Fedele alla critica. Geno Pampaloni e la letteratura contemporanea , Polistampa, Firenze 2000, p. XVII.2 Geno Pampaloni, Una valigia leggera, Nino Aragno Editore, Torino 2007, p. 15.3 Marino Biondi, op. cit., p. XIV.

4 Dall’intervista rilasciata da Geno Pampaloni a Panorama nel maggio 1989. 5 Tratto da http://it.wikipedia.org/wiki/Indro_Montanelli.6 Marino Biondi, op. cit., p. XIII.7 Geno Pampaloni, op. cit., p. 15.8 Renzo Zorzi, «Geno Pampaloni. La critica come servizio», in Gli anni dell’amicizia. Immagini e figure del secondo

Novecento, Neri Pozza Editore, Vicenza 1991, p. 198.9 Geno Pampaloni, op. cit., p. 187.10 Quello di Pampaloni con la religione cattolica è tuttavia un rapporto che cambia nel tempo: se infatti il legame con la parola

evangelica emerge fortissimo negli anni giovanili, nell’età adulta il desiderio di fede sembra trasformarsi in un cristianesimo

di tipo etico che ha ormai perso quella speranza nella resurrezione delle singole anime per trasformarsi piuttosto in una

profonda empatia in grado di legare i singoli alla totalità del genere umano.11 Giuseppe Leonelli, «Pampaloni critico-scrittore», in Geno Pampaloni, Il critico giornaliero. Scritti militanti di letteratura

1948-1993, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. XIII.12 Ibidem.13 Ivi, p. XIV.14 Geno Pampaloni, Trent’anni con Cesare Pavese. D iario contro diario, Rusconi, Milano 1981.15 Geno Pampaloni, «Modelli ed esperienze della prosa contemporanea», in Emilio Cecchi, Natalino Sapegno,  Storia della

letteratura italiana, Il Novecento , Garzanti, Milano 1987, p. 759.16

 Ibidem.17 Da un articolo di Pampaloni comparso sul Giornale il primo agosto 1974.18 Da un articolo di Pampaloni comparso sul Giornale il 24 agosto 1978.19

Panorama, maggio 1989.20 Il Ponte, VII, 5, 1951.

Note

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21 Citato da Geno Pampaloni, in  Il critico giornaliero. S critti militanti di letteratura 1948-1993, Bollati Boringhieri,

Torino 2001, pp. 70-71.22

 Ibidem.

23 Ivi , pp. 71-72.24

 Ivi , p. 73.25

 Ivi , p. 73.26 Ivi , p. 73.27 Ivi , p. 76.28 Geno Pampaloni, «Pavana per il Critico Defunto», il Giornale, 11 giugno 1987.29 Ibidem.30 Geno Pampaloni, «Letteratura a saliscendi», il Giornale, primo marzo 1986.31 la Repubblica, 17 luglio 1991.

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8/6/2019 Geno Pampaloni. L'arte della sintesi critica.

http://slidepdf.com/reader/full/geno-pampaloni-larte-della-sintesi-critica 27/27

Opere di Geno Pampaloni

·  Adriano Olivetti: un’idea di democrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1980.

· Trent’anni con Cesare Pavese. Diario contro diario, Rusconi, Milano 1981.· «Modelli ed esperienze della prosa contemporanea», in Emilio Cecchi, Natalino Sapegno,  Storia

della letteratura italiana, Il Novecento, Garzanti, Milano 1987.· Fedele alle amicizie, Garzanti, Milano 1992.·  I giorni in fuga, Garzanti, Milano 1994.·  Il critico giornaliero. Scritti militanti di letteratura 1948-1993, Bollati Boringhieri, Torino 2001.· Una valigia leggera, Nino Aragno Editore, Torino 2007.

Monografie e studi

· Renzo Zorzi, «Geno Pampaloni. La critica come servizio», in Gli anni dell’amicizia. Immagini e figure

del secondo Novecento, Neri Pozza Editore, Vicenza 1991.· Anna Maria Biscardi, Colloqui amichevoli con Geno Pampaloni , Edizioni Polistampa, Firenze 1996.· Marino Biondi, Fedele alla critica. Geno Pampaloni e la letteratura contemporanea, Edizioni

Polistampa, Firenze 2000.· Giuseppe Leonelli, «Pampaloni critico-scrittore», in Geno Pampaloni, Il critico giornaliero. Scritti 

militanti di letteratura 1948-1993, Bollati Boringhieri, Torino 2001.

Bibliografia

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