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GENIO E MAESTRIA MOBILI ED EBANISTI ALLA CORTE SABAUDA TRA SETTECENTO E OTTOCENTO

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GENIO E MAESTRIAMOBILI ED EBANISTI ALLA CORTE SABAUDA

TRA SETTECENTO E OTTOCENTO

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La mostra è promossa e organizzata da

in coLLaborazione con

con iL sostegno deLLa

e con

Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Torino, Musei Reali di Torino, Palazzo Madama- Museo Civico d’Arte Antica, Polo Museale del Piemonte, Fondazione Museo Egizio, Fondazione Ordine Mauriziano, Fondazione Accorsi-Ometto, Turismo Torino, Associazione Amici della Reggia e del Centro di Restauro La Venaria Reale, Associazione Italiana Antiquari, Università dei Minusieri, Scuole Tecniche San Carlo, Circolo dei Lettori, Salone del Mobile

Dalle collezioni segrete e dalle Residenze Realigenio e maestriamobiLi ed ebanisti aLLa corte sabauda tra settecento e ottocento Reggia di Venaria, Sale delle Arti17 marzo - 15 luglio 2018

sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica

Comitato organizzativo - scientificoCesare Annibaldi, Roberto Antonetto, Clelia Arnaldi di Balme, Elisabetta Ballaira, Enrico Colle, Stefania De Blasi, Silvia Ghisotti, Luisa Papotti, Carla Enrica Spantigati CoordinamentoCarlo Callieri con il contributo dei Direttori e dei Curatori delle Residenze e dei Musei prestatori

Consorzio delle Residenze Reali Sabaude PresidentePaola Zini Consiglio di AmministrazioneAntonio Lampis, Alessandro Moreschini, Luca Remmert, Bernardo Bortolotti Collegio dei Revisori dei ContiGiuseppe Mesiano (Presidente)Giandomenico Genta, Fabrizio Morra DirettoreMario Turetta

uffici di staff deLLa direzione

Segreteria e Affari GeneraliLara Macaluso, ReferenteSilvia Sabato, sostituto ReferenteGustavo Barone Lumaga, Alberto Blazina, Luca Naccarato, Silvia Penna, Giuseppe Sproviericon Paolo Armand Servizio Prevenzione e ProtezioneGiuseppe Acquafresca, Responsabilecon Mariangela Mocciola Ufficio Stampa IstituzionaleAndrea Scaringella, ResponsabileMatteo Fagiano, Cristina Negus Centro StudiAndrea Merlotti, ResponsabilePaolo Armand, Clara Goria, Erika Paggioro

aree funzionaLi

area amministrazione

Daniele Carletti, responsabile Segreteria di AreaValentina Darida, referenteViviana Cariola Ufficio Personale e FormazioneSonia Pagano, referentecon Germana Romano Ufficio Gare e ContrattiSalvatore Buonaiuto, referentecon Gustavo Barone Lumaga Ufficio ContabilitàSabrina Beccati, referenteAlessandra Del Soldato, Desirée Padula, Germana RomanoCollaboratore esterno: Piero Antonio Pastore

Ufficio UtenzeGiorgio Ruffino, responsabileViviana Cariola

area fruizione e sviLuppo cuLturaLe

Gianbeppe Colombano, dirigente responsabile Ufficio Controllo Budget (staff del dirigente responsabile)Francesca Cassano, responsabile Segreteria di AreaStefania Mina Ufficio EventiFrancesco Bosso, responsabileCollaboratore esterno: Mirco Repetto (Fondazione Via Maestra) Ufficio Percorso MusealeSilvia Ghisotti, responsabileDonatella Zanardo Ufficio Attività EspositiveTomaso Ricardi di Netro, responsabilePatrizia RaineriGiulia Zanasi, registrar Ufficio Servizi al PubblicoFrancesco Bosso, responsabileVerana Naretto, Federica Pulimeno, Carlo Riontino, Chiara Urso Ufficio Servizi EducativiSilvia Varetto, responsabilecon Anna Giuliano

area comunicazione e promozione

Andrea Scaringella, responsabile Ufficio Promozione TuristicaSilvia Schiappa, referente

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Ufficio Web e Social MediaMatteo Fagiano, referenteMarina Clementina Falletti Ufficio Media Planning e BuyingCristina Negus, referentePaolo Palumbo Ufficio ImmagineDomenico De Gaetano, referenteAnna Giuliano, Chiara TapperoCollaboratori esterni: Mario Ruggiero, Costantino Sergi area attività commerciaLi

Renato Balestrino, responsabile Ufficio BookshopPaola Francabandiera, referenteSelene Forchione, Enrico Frutaz, Monica Maffei, Verana Naretto, Federica Pintus, Roberta Spanu Ufficio Servizi di RistorazionePaola Francabandiera, referenteShadi Abou, Beatrice Bertollo, Antonio Bursi, Ilenia Capanna, Diego De Coppi, Elisa Loria, Enrico Luison, Sara Mo, Hani Radwancon Alessandra Del Soldato Ufficio Affitto SpaziSabrina Repetto, referente

area conservazione e servizi tecnici

Gianbeppe Colombano, responsabile ad interim ConservazioneDaniele Carletti, responsabile ad interim Servizi Tecnici Ufficio Conservazione ReggiaVincenzo Scarano, referentecon Enrico Frutaz

Ufficio Conservazione GiardiniMaurizio Reggi, responsabileAlessia Bellone, Diego Bernardi, Mariangela Mocciola, Flavio Barbin Enrico Balocco, Davide Grosso, Fabio Valla, giardiniericon Enrico Frutaz Ufficio Servizi TecniciGiorgio Ruffino, responsabileDavide Gagliardi, Francesco Martorelli, Alberto Miele, Fabio Soffredinicon Viviana Cariola In collaborazione conFondazione Centro per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali «La Venaria Reale»Stefano Trucco, presidenteElisa Rosso, segretario generale Michela Cardinali, direttore dei Laboratori di Restauro Il Consorzio Residenze Reali Sabaude è composto da

La Reggia di Venaria è dichiarata Patrimonio mondiale dell’Umanità dall’Unesco

Realizzazione della mostra OrganizzazioneGianbeppe Colombano Segreteria scientificaSilvia GhisottiDonatella Zanardo Progetto di allestimento, grafica e direzione lavoriStudio arch. Gianfranco Gritella con Stefania Giulio e Vincenzo Scuderi Realizzazione dell’allestimentoTagi2000 Gestione dei trasporti e collocazione delle opereGiulia Zanasi, registrarPatrizia Raineri Immagine della mostraDomenico De GaetanoChiara TapperoAnna Giuliano Video e fotografiePino Dell’Aquila Film Il genio in bottegaGiulio Cavallini Spaccato dimostrativo-didattico in sala 1Scuole Tecniche San Carlo - Torino (offerto)Corso di specializzazione di Tecnico del Legno:Enrico Melchionna (coordinamento)Valentino Audasso, Lorenzo Sottile TraduzioniLanguage Point TrasportiArterìaDe Marinis Srl - Fine Art Services & TransportsFeirexpoGhilardini

AssicurazioniAGE Assicurazione Gestione Enti srlAON spaAXA ArtBroker Insurance GroupLusitaniaStudio Pastore Insurance Brokers CatalogoUmberto Allemandi

accessibiLità

Font utilizzato nella graficaEasyReading Modelli tattiliAntica Università dei Minusieri (dono)Soft-in - rilevazione digitale di altissima precisione (dono)Alessandro Bovero - Laboratorio Imaging Ccr

Tavole visivo-tattili, audio-descrizione e video Lis

Tactile Vision onlus Carrozzina «Premium Reseller Otto Bock»Officine Ortopediche Maria Adelaide srl (dono d’uso) Postazione olfattivaLuciano Molinari Ebanista con la consulenza scientifica di Flavio Ruffinatto

Assistenza al montaggio e monitoraggio delle opere in mostraFondazione Centro per la Conservazione e il Restaurodei Beni Culturali «La Venaria Reale» Servizio di gestioneCns-CoopcultureTelecontrolManital - Res Nova

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prestatori pubbLici

Agliè (to), Castello Ducale - Polo Museale del PiemonteAsti, Museo Civico di Palazzo MazzettiBiella, Fondazione Sella onlusBologna, Biblioteca dell’ArchiginnasioCaravino (to), Castello e Parco di Masino, Fai - Fondo Ambiente ItalianoCarignano (to), Opera Pia Faccio FrichieriCollezione Intesa SanpaoloGenova, Palazzo RealeGuarene (to), CastelloLisbona, Palácio Nacional da AjudaMoncalieri (to), Castello - Polo Museale del PiemonteNichelino (to), Palazzina di Caccia di Stupinigi - Fondazione Ordine MaurizianoPortoferraio (Li), Museo Nazionale delle Residenze Napoleoniche, Palazzina dei Mulini - Polo Museale della ToscanaRacconigi (cn), Castello - Polo Museale del PiemonteRivoli (to), Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte (Deposito a lungo termine Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea)Roma, Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica Torino, Accademia di AgricolturaTorino, Archivio di StatoTorino, Archivio Storico dell’Ordine MaurizianoTorino, Biblioteca CivicaTorino, Chiesa di San Francesco d’AssisiTorino, Comando Legione Carabinieri Piemonte e V.A.Torino, Musei Reali - Palazzo RealeTorino, Museo dell’Automobile - Centro di DocumentazioneTorino, Museo di Arti Decorative Accorsi-OmettoTorino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte AnticaTorino, Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle ArtiTorino, Villa della Regina - Polo Museale del Piemonte (da Musei Reali - Palazzo Reale)Tremezzina (Co), Villa Carlotta Museo e Giardino Botanico

Venaria Reale (to), Borgo Castello della Mandria, Antica Università dei MinusieriVenezia, Fondazione Musei Civici, Ca’ Rezzonico - Museo del Settecento VenezianoVercelli, Museo Leone (dalle Collezioni di Antonio Borgogna)Villar Perosa (to), Museo della Meccanica e del Cuscinetto (proprietà Amma)

prestatori privati

Collezione Marco e Simona VoenaGiordano Art CollectionsRoma, Courtesy Galleria M. ApolloniTorino, Collezione privata presso Pastiglie Leonee tutti gli altri collezionisti che vivamente ringraziamo

restauri

Fondazione Centro per la Conservazione ed il restauro dei Beni Culturali «La Venaria Reale»:Michela Cardinali (direttore dei laboratori di restauro), Paolo Luciani (coordinatore del laboratorio manufatti lignei) Roberta Capezio, Loris Dutto, Andrea Minì, Michela Spagnolo e Valentina Tasso (restauratori del laboratorio manufatti lignei), Francesca Zenucchini, Davide Puglisi, Alessandra Destefanis (restauratori laboratorio tele e tavole), Roberta Genta (coordinatrice del laboratorio di manufatti tessili), Chiara Tricerri (restauratrice del laboratorio di manufatti tessili), Anna Balbo, Francesca Coccolo, Bianca Ferrarato, Paolo Mallus, Serena Mansi, Alessandro Nuccio, Luca Pasini (restauratori di manufatti lignei, collaboratori esterni); Lorenza Ghionna (grafica e documentazione), Stefania De Blasi (storico dell’arte e referente scientifico dei laboratori di manufatti lignei e manufatti tessili); Daniele Demonte, Alessandro Bovero e Paolo Triolo (tecnici e fotografi del laboratorio di imaging); Marco Nervo (fisico, responsabile dei laboratori scientifici) Anna Piccirillo (chimico dei laboratori scientifici), Tommaso Poli (Università di Torino), Flavio Ruffinatto (tecnologo del legno, collaboratore esterno)

Massimo Ravera Restauro & Arredi, Bene Vagienna (cn)Restauro dossali intarsiati del coro di Prinotto Bottega Fagnola sas di Luciano Fagnola, TorinoLaboratorio degli Angeli, Bologna

ringraziamenti

Un particolare ringraziamento alla Compagnia di San Paolo per l’impegno e l’appoggio personale di:Rosaria Cigliano, con affettuoso e memore ricordoPiero Gastaldo, Laura Fornara, Paola Assom Giovanni Accornero, Chiara Aghemo, Fiorenzo Alfieri, Marco Fabio Apolloni, Guido Artusio, Veronica Ambrosoli, Luca Avataneo, Alberto Blandin Savoia, Carolyn Christov-Bakargiev, Gabriella Belli, Sabrina Beltramo, Ezio e Nadia Benappi, Stefano Benedetto, Serena Bertolucci, Virginia Bertone, Elena Biondi, Pier Luigi Biondi, Salvatore Bitonti, Enrica Bodrato, Andrea Bottino, Guido Brivio, Luca Brusotto, Tiziana Calabrese, Pierfrancesco Callieri , Stefania Capraro, Giorgio Ettore Careddu, Patrizia Caretto, Stefano Casciu, Laura Cattoni, Evelina Christillin, Vittoria Cibrario, Francesco Colalucci, Lilita Conrieri, Michele Coppola, Liliana Costamagna, Alberto Craievich, Guido Curto, Antonia d’Aniello, Isabella d’Agostino, Antonietta De Felice, Giuseppe Dardanello, Anna Di Domizio, Mario Epifani, Miriam Failla, Giancarlo Ferraresi, Laura Feliciotti, Enrico Filippi, Gianfranco Fina, Don Carlo Franco, Simone Frangioni, Enrico Frascione, Francesco

Fratta, Margherita Garis, Maria Gattullo, Gisella Gervasio, Giuseppe Gherzi, Elena Gianasso, Alessia Giorda, Lorenzo Gnavi Bertea, Rodolfo Gaffino Rossi, Gianni Giordano, Christian Greco, Stefania Grella, Monica Grossi, Franco Gualano, Alessandra Guerrini, Ilaria Ivaldi, Alexis Kugel, Mario Lamparelli, Luca Leoncini, Cristiana Maccagno, Clara Maldini, Marina Maniago, Carlo Mangiarino, Gianni Mentigazzi, maresciallo Paolo Marchese, Luciano Clemente Marocco, Renato Margarina, Antonella Mastropietro, Alberto Mazzetti, Enrico Melchionna, Elisa Mereatur, Luciano Molinari, Maurizio Montagnese, Angelo Monteleone, Guido Monero, Laura Moro, Luca Morosi, Luisa Morozzi, Alberto Nicolello, S.E. Mons. Cesare Nosiglia, cav. Giulio Ometto, Carlo Orsi, Enrica Pagella, Ilaria Pani, Stefano Pasquale, Ludovico Pavan, Anna Pellegrino, Orlando Perera, Giuseppe Picchetto, Andrea Pivotto, Vincenzo Portaluri, Maria Angela Previtera, Luigi Quaranta, Ileana Redaelli, Daila Radeglia, Maurizia Rebora, José Alberto Ribeiro, Sofia Rinaldi, Andrea Rocco, Costanza Roggero, Rocco Rolli, Giuseppina Romagnoli, Giovanni Ricci, Flavio Ruffinatto, Giovanni Saccani, Silvia Sabato, Silvio Saffirio, Augusto Santacatterina, Cristina Scalon, Angelica Sella, Roberta Seno, Adriano Sozza, Maria Josè Tavares, Alberto Tazzetti, Mauro Tezzo, Monica Tomiato, Sergio Tone, Laura Tos, Renzo Turco, Paolo Uberti, col. Roberto Vernuccio, Valentina Villata, Margherita Viola, Maria Carla Visconti, Riccardo Vitale, Giuseppe Vito, Marco e Simona Voena, Enrico Zanellati, Giovanni Zanetti

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cataLogo

CoordinamentoStefania De Blasi Autori dei saggiRoberto AntonettoClelia Arnaldi di BalmeElisabetta BallairaDea BeluscoCarlo CallieriFrancesca CoccoloEnrico CollePaolo CornagliaStefania De BlasiPino Dell’AquilaLorenza GhionnaSilvia GhisottiSilvia EinaudiPaolo LucianiLuca ManaAndrea MerlottiLuisa MorozziCristina MossettiVittorio NataleMarco NervoMassimo RaveraFlavio RuffinattoPaolo San MartinoCarla Enrica SpantigatiValentina TassoSilvia VarettoRoberto ZanuttiniFrancesca Zenucchini

Autori delle schedeChiara AccorneroRoberto AntonettoClelia Arnaldi di BalmeElisabetta BallairaEnrico BarberoClaudio BertolottoGian Luca BovenziArabella CifaniPaolo CornagliaStefania De BlasiLaura FacchinAlessandra Giovannini LucàIlaria GiulianoFranco GualanoLuca LeonciniLuca ManaPaola ManchinuSara MartinettiEnrico MelchionnaFranco MonettiLuisa MorozziVittorio NataleCarla Enrica SpantigatiAlberto TosaAlessandro WegherEnrico Zanellati

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Con «Genio e Maestria. Mobili ed ebanisti alla corte sabauda tra Settecento e Ottocento» ancora una volta La Venaria indaga il tema delle arti decorative, dopo l’accento messo sulle porcellane, gli arazzi,

l’oreficeria nella mostra dedicata a Raffaello nel 2015 e le eccellenze della produzione artistica italiana esposte nel 2016 con «Fatto in Italia».In «Genio e Maestria» raccontiamo due secoli di storia dell’arredo in circa 130 opere, l’evoluzione di un raffinato, colto e complesso mestiere d’arte che si sviluppò a Torino al servizio dello stato sabaudo e delle più importanti committenze reali e nobiliari nel costante dialogo tra le arti. La mostra si focalizza sul mobile e rimanda per gli arredi alle sedi storiche piemontesi, garantendo un intelligente equilibrio tra prelievi ed esposizioni permanenti.L’obiettivo è di avvicinare il pubblico a opere preziose di ebanisteria e di intaglio, scoprendone significati, utilizzi, trasformazioni. Sono presenti mobili d’arte di eccezionale rilevanza realizzati dai maggiori ebanisti e scultori dell’epoca, alcuni mai esposti prima e oggi in mostra alla Reggia di Venaria grazie a prestiti di importanti istituzioni museali e di collezionisti piemontesi e internazionali.Siamo particolarmente orgogliosi di sottolineare alcuni aspetti che hanno caratterizzato il complesso ed emozionante percorso di costruzione della mostra.Innanzitutto l’avvio delle sinergie del Sistema delle Residenze Reali Sabaude, che ha portato al restauro e all’inserimento di opere provenienti dal circuito, la realizzazione di un’agile guida illustrata ai principali arredi delle residenze capace di coniugare ricerca e divulgazione, utile e duraturo strumento per i visitatori delle Regge.Poi la collaborazione con il Centro di Conservazione e Restauro «La Venaria Reale», nostro prezioso partner che, fin dalla sua fondazione, opera in modo strutturato per il sistema delle Residenze Sabaude, ma anche per la rete delle dimore storiche nobiliari del territorio, e contribuisce alla conservazione dello straordinario patrimonio d’arredo inserito nelle collezioni museali.Infine la particolare attenzione riservata alla fruizione della mostra da parte delle persone con disabilità, per le quali abbiamo realizzato modelli, tavole tattili, isole olfattive, video-guida, pannelli descrittivi con caratteri ad alta leggibilità per facilitare la lettura delle persone dislessiche. Sussidi che consentono a tutti di allargare gli orizzonti della sperimentazione e del rapporto con l’opera. Ci teniamo a rivolgere un ringraziamento ai componenti del Comitato organizzativo-scientifico, Cesare Annibaldi, Roberto Antonetto, Clelia Arnaldi di Balme, Elisabetta Ballaira, Enrico Colle, Stefania De Blasi, Silvia Ghisotti, Luisa Papotti, Carla Enrica Spantigati e all’intero gruppo di lavoro del Centro di Conservazione e Restauro, per la competenza che hanno apportato al progetto. E un sentito e particolare ringraziamento va a Carlo Callieri, appassionato e instancabile coordinatore, senza la cui determinazione «Genio e Maestria» non avrebbe raggiunto i livelli di innovazione, accuratezza ed eccezionalità che avrete modo di apprezzare.

Paola Zini

Presidente del Consorzio delle Residenze Reali Sabaude

Mario TureTTa

Direttore del Consorzio delle Residenze Reali Sabaude

Tornano a Venaria per una mostra gli stupefacenti arredi dei grandi ebanisti piemontesi; gli stessi che i racconti dei visitatori e i documenti testimoniano aver contribuito per secoli allo splendore delle regge

e dei palazzi sabaudi. Protagonisti dei molti allestimenti di Settecento e Ottocento degli appartamenti reali, minuziosamente descritti in registri e inventari, questi mobili illuminati dagli intarsi d’avorio, madreperla, tartaruga e legni rari completavano la scenografia di sale, già ricche di stucchi, affreschi, boiseries, tappezzerie e tendaggi.Mentre la mano sicura dei grandi architetti di corte rinnovava l’immagine della capitale, si affermava a Torino una scuola di eccellenza, trainata dalla maestria di Prinotto e Piffetti, capace di produrre mobili imponenti e maestosi per la corte, ma anche scrigni e cofanetti, sontuosi arredi per le case private, oggetti devozionali e apparati liturgici per le chiese e i conventi.Preziosi e inconfondibili, con il mutare del gusto e delle preferenze della corte i capolavori degli ebanisti vengono disassemblati e ricomposti, passano da una residenza all’altra, da una città capitale a un’altra in un’incessante diaspora, di cui spesso si smarriscono itinerari e passaggi. Anche strappati agli appartamenti per cui sono stati originariamente progettati e sottratti alla armoniosa relazione con le altre decorazioni delle sale, gli arredi esposti alla Reggia di Venaria ripropongono senza incertezze la magnificenza della corte torinese.Frutto di un lungo lavoro, della passione dei curatori e della paziente competenza dello staff della Reggia, la mostra affianca a elementi ben noti, che appartengono a eccellenti collezioni museali, altri che provengono da raccolte private, in molti casi mai mostrati al pubblico. Ognuno è stato oggetto di accurati interventi - di manutenzione, cura o restauro - da parte del Centro di Conservazione e Restauro di Venaria, che conferma anche in questa circostanza l’alta competenza raggiunta nel restauro degli arredi lignei, forte di attenti percorsi diagnostici e precisa capacità operativa.I molti oggetti scelti delineano con pienezza il racconto straordinario dell’ebanisteria piemontese, racconto che si snoda, ricco di suggestioni, nelle pagine di questo catalogo a testimonianza dell’arte e del mestiere dei suoi protagonisti.

luisa PaPoTTi

Soprintendente Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Torino

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Questa mostra è stata pensata, proposta alla Reggia, voluta e seguita in maniera molto determinata da Carlo Callieri, primo presidente del Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale», che ha

contribuito in modo sostanziale alla costruzione e all’avviamento del nostro Istituto in collaborazione con i Soci fondatori. A lui va un sincero ringraziamento per l’impegno costante e la ferma volontà di costruire strategie e sinergie volte ad accrescere le competenze del Centro e a garantire l’arrivo nei Laboratori di restauro di opere straordinarie. Lavorare per la mostra «Genio e Maestria» ha rappresentato per il Centro un’importante occasione per mettersi alla prova sotto molti punti di vista in una delle discipline, il restauro del mobile nella sua complessità polimaterica, che fin dalla costituzione del Centro è stato individuato come uno dei filoni privilegiati di studio, analisi e intervento.È stato per noi emozionante avere nei nostri laboratori, tutti insieme, alcuni fra i manufatti più importanti dell’ebanisteria piemontese, in linea con gli interventi svolti in questi anni su opere di Pietro Piffetti provenienti dalla Palazzina di Caccia di Stupinigi, dal Palazzo Reale di Torino, da Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica di Torino e da altre residenze storiche e musei come il Palazzo del Quirinale e la Fondazione Accorsi-Ometto. Nei mesi di preparazione alla mostra il Centro ha messo in campo le proprie competenze scientifiche, tecniche e organizzative, affrontando con un consolidato protocollo metodologico, forte delle esperienze del passato, la manutenzione e il restauro di quasi 40 opere e partecipando direttamente al comitato scientifico, attraverso l’attività del nostro storico dell’arte specializzato.Le attività di restauro hanno previsto un significativo dispiego di forze da tutti i settori del Centro: laboratori di restauro, laboratori scientifici e di imaging con numerose collaborazioni da parte di laureati del Corso di Studi in Conservazione e Restauro dell’Università di Torino e di professionisti ed esperti del territorio.Le strumentazioni scientifiche di cui dispone il Centro sono state ancora una volta un supporto fondamentale per lo studio delle opere e i casi conservativi più complessi da affrontare. La Tac (tomografia assiale computerizzata), esito di un progetto europeo a cui hanno collaborato enti universitari e di ricerca, ha permesso di analizzare, oltre il visibile, le essenze e le caratteristiche costruttive di questi mobili straordinari. Allo stesso modo l’utilizzo di sistemi combinati di pulitura, coadiuvati dalla tecnologia laser su cui il Centro sta sviluppando esperienze e attività di studio specifiche su diverse tipologie di materiali, ha permesso ai nostri restauratori di operare con estrema cura e criterio scientifico su questo «esercito di mobili».Infine occorre sottolineare un’impresa di particolare rilievo: l’intervento sul monumentale coro monastico di Luigi Prinotto che chiude la mostra e ha rappresentato una vera e propria sfida in termini di soluzioni tecniche per il recupero e il riassemblaggio dei singoli elementi, anche attraverso la messa in opera di una struttura di sostegno realizzata appositamente per l’esposizione. Il coro, arrivato scomposto e frammentario, è stato interamente documentato, analizzato - anche nelle sue componenti materiali, come le diverse specie lignee che lo compongono - disinfestato, consolidato, pulito e rimontato grazie a una perfetta regia organizzativa e all’affiatamento dell’intero gruppo di lavoro. Il tesoro di conoscenze tecniche, storiche e scientifiche che quest’esperienza ha permesso di raccogliere è stato foriero di nuovi percorsi di ricerca che il Centro potrà ulteriormente sviluppare in futuro per restituire e mettere a disposizione della comunità scientifica e di un pubblico più ampio tutta la complessità di studi, scelte critiche e soluzioni attuate.

sTefano Trucco e elisa rosso

Presidente e segretario generale del Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale»

Mi propongo di raccontare gli obiettivi di fondo della Mostra e i fili rossi che l’attraversano.Interamente autoprodotta, la Mostra è il primo passo organico di avvicinamento tra i mondi della tutela

dei beni culturali, i Musei e le Residenze Reali, il mondo accademico e di studi e il mondo dei collezionisti, ancora divisi da reciproci fraintendimenti e diffidenze, in un rapporto ancora improntato a ruoli di autorità verso sudditi, di dignità dispari.Il collezionismo italiano un tempo alimentava con donazioni i Musei, e spesso ne costituiva la base. Il flusso si è diradato e i collezionisti si sono sempre più orientati, se interessati al mantenimento della integrità post mortem della Collezione e alla sua apertura al pubblico, a soluzioni prevalentemente privatistiche. Non che ciò sia un male in sé, ma si perde l’occasione di rafforzare masse critiche, alimentare e completare le strutture museali esistenti, far emergere compiutamente patrimoni artistici sommersi, che relegati in dimensione esigua e dispersa sarebbero fruibili in misura molto limitata.Questa Mostra ha tra i suoi obiettivi aprire dialogo e collaborazione, possibili e certamente fecondi, come dimostra l’ampia presenza di collezionisti prestatori privati, con più della metà degli oggetti esposti.Ne deriva una forte indicazione ed auspicio, che la Reggia di Venaria si proponga come capofila ed attore di un movimento che tenda alla creazione strutturata di Musei del Collezionismo, che ospitino mostre di intere collezioni, attivino e raccolgano la loro donazione.Dal collezionismo prendono spunto altre caratteristiche della Mostra: tentativi di approccio coinvolgente con gli oggetti, ed un uso dello spazio intensivo, in parte dovuto ai limiti della location utilizzata, in parte ispirata all’horror vacui e alla bulimia di molti collezionisti, di cui le Wunderkammer sono le migliori creazioni.Le colleghe e i colleghi del Comitato Organizzativo e Scientifico, che non finirò mai di ringraziare per il generoso e strenuo impegno, hanno attentamente e puntigliosamente vigilato per la ricerca della coerenza a criteri scientifici, storici ed attributivi, sulla qualità e rappresentatività delle scelte, le modalità espositive, per evitare gli effetti Barnum che volenterosamente vengono oggi ricercati per migliorare l’attrattività di nuove Mostre. Un ringraziamento particolare a Roberto Antonetto, che ha messo a disposizione i suoi preziosi rapporti con i Collezionisti, e la fiducia di cui gode presso di loro, e a Luisa Papotti che ci ha seguiti ed incoraggiati. Un ringraziamento infine al personale della Reggia, che ha sopportato un carico di lavoro ed urgenze imponente, e al personale del Centro Conservazione e Restauro che ha condotto una straordinaria campagna di restauri con cantieri impegnativi e complessi in tempi record, ed infine agli esterni, Politecnico e Aziende, che hanno collaborato alla definizione di modalità e standards espositivi innovativi.La scelta del tema della Mostra, il solo oggetto Mobile, è perché esso è stato in questi ultimi anni molto banalizzato e svalutato. Le nuove generazioni, e le precedenti impoverite, con redditi incerti e spazi abitativi angusti, non possono aspirare a molto di più, se va bene, che ai mobili Ikea, certamente funzionali e di decente disegno, espressioni culturali superiori (ma di quanto?) agli standard del famigerato Mobilificio Aiazzone (qualcuno lo ricorda ancora?).La storia della nostra Italia plurale ha prodotto una grandiosa quantità e una strepitosa varianza di mobili e di relativi stili. Mobili, oggetti d’arte e funzionali ai più diversi contenuti, di cui la Mostra offre una sintesi per 150 anni in Piemonte e Liguria.Vere opere d’arte, e non minore, perché utilizzano una molteplicità di discipline artistiche, di materiali, di tecniche, non riscontrabili in altre produzioni d’arte, e accompagnano il loro valore funzionale con valori estetici e simbolici coerenti a culture complesse.

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Da tempo cullavamo il sogno di dedicare una mostra alla grande stagione dell’ebanisteria e all’arte del mobile scolpito e intagliato che connota cultura e arte a Torino tra Sette e Ottocento. Una mostra, si

sa, quando è attentamente progettata è l’occasione di far giungere a un pubblico più vasto quel bagaglio di conoscenze sulle nostre radici che la ricerca storico artistica va portando avanti, intrecciandole con i dati che le necessità di restauri scientificamente condotti, oltre a garantire la buona salute degli oggetti, fa emergere sulle modalità del «fare» attraverso le quali l’artista si esprime.Una serie di combinazioni hanno fatto crescere il sogno, da quando il neonato Centro di Restauro di Venaria si fece carico dei numerosi manufatti recuperati dopo un furto alla Palazzina di Caccia di Stupinigi, con il settore del restauro di arredi lignei attivo secondo metodi e prassi assolutamente analoghi a quelli dei settori per storia e tradizione più consolidati come quelli dei dipinti e delle sculture.Da allora altre occasioni si sono coagulate così da dare il sospirato avvio al progetto fino all’attuale realizzazione. Tra le tante strade che si sarebbero potute imboccare nelle scelte si è voluto innanzi tutto non concentrarsi su un periodo ridotto, ma spaziare sull’arco di due secoli, entrambi particolarmente significativi pur con le ovvie diversità culturali, e così facendo si è potuto accompagnare l’evolvere delle modalità produttive, dalle botteghe afferenti all’Università dei Minusieri, segno preciso del riconoscimento del ruolo del maestro anche sul piano sociale, alle prime realtà che con l’occhio attento al mercato internazionale e con sensibilità per le condizioni della mano d’opera impiegata avevano colto le potenzialità offerte dalla moderna industrializzazione. Una riflessione questa che può anche essere a servizio nel ragionare su temi e caratteri della moderna produzione.Ma innanzi tutto il mobile e l’ammobiliamento andavano esaminati nelle diverse componenti che ne fanno un oggetto d’arte caratterizzato da peculiarità particolari, prima fra tutte quella dell’uso concreto con le conseguenti attenzioni per la funzionalità. Un aspetto che nel tempo ha segnato la storia della conservazione che dobbiamo oggi riconoscere per evitare imbarazzanti errori di valutazione.Eppure sul piano della percezione visiva un mobile intarsiato in materiali preziosi o scolpito e dorato può essere ammirato al pari di una scultura e la cultura che governa gli apparati decorativi si intreccia saldamente con quella delle altre arti in un dialogo costante tra pittura, scultura, oreficeria, rivestimenti tessili.Seguendo questa linea si è quindi scelto di concentrare l’attenzione sui singoli oggetti posti a confronto, richiamandone i riferimenti alle altre arti e lasciando sullo sfondo, evocandoli, i temi della contestualizzazione negli ambienti per i quali erano destinati e progettati. Ma nel contempo si è voluta preservare tale contestualizzazione, con l’invito a verificarla direttamente nelle residenze e nei musei ai quali le richieste di prestito sono state limitate per non intaccare la continuità del percorso di visita.Tra desideri di rinnovamento, consapevolezza dei capolavori da preservare, revival del gusto, i mobili hanno conosciuto una storia di alterne fortune, difesi nelle loro originarie collocazioni o accantonati e dispersi. Una storia che si è qui voluto tratteggiare con la cospicua presenza di manufatti che il collezionismo (anch’esso figlio della cultura del suo tempo) ha saputo e voluto trasmetterci.Costruendo questo progetto ci siamo confrontati su linee e scelte nella fiducia di contribuire a una più matura attenzione per questi splendidi manufatti, tessera non secondaria nell’affascinante mosaico della nostra storia culturale.

il coMiTaTo organiZZaTivo-scienTifico

E ancora increduli ci domandiamo ogni giorno come abbia potuto la Commissione Tecnica insediata dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e da quello dei Beni e Attività Culturali e del Turismo declassare il percorso professionalizzante del Corso di Laurea quinquennale in Conservazione e Restauro sugli Arredi Lignei a un semestre del percorso sui dipinti su tela e tavola, augurandoci che presto si possano strutturare percorsi specifici di alta formazione sul restauro di questo delicato settore.Il mobile è un elemento fondamentale di arredo. La mostra presenta solo mobili, con richiami alla cultura artistica di cui sono espressione, e rinvia per gli arredi alle Residenze e ai Musei piemontesi con il secondo volume del catalogo: una mostra policentrica a sistema, per offrire una conoscenza ampia ed integrata del tema.Alle Residenze ed ai Musei sono state richieste le opere meno viste e non essenziali al mantenimento della completezza delle collezioni, coerentemente all’impostazione policentrica e a garanzia della completezza dei loro percorsi di visita, cui i visitatori della mostra sono orientati e invitati: si è così guadagnato in novità e circa il 40% del totale dei mobili in Mostra non è stato esposto da molti anni, o mai esposto.La Mostra presta particolare attenzione alle tecniche, ai materiali, alla formazione delle organizzazioni produttive e degli addetti, seguendone l’evoluzione. È stata preceduta da un’intensa e molto impegnativa campagna di conservazione e restauro presso il Ccr della Venaria Reale che ha consentito approfondimenti conoscitivi realizzati anche con tecniche digitali di avanguardia, e ha messo in sicurezza uno straordinario patrimonio d’arte.La mostra ricerca standard e modalità espositive coinvolgenti ed emozionali, per favorire empatia dei visitatori con le opere, in un approccio polisensoriale.Offre ai visitatori diversamente abili supporti integrativi che possono aprire allargamenti di orizzonte anche ai normodotati.Si propone infine, nel rapporto collaborativo instaurato con il Salone del Mobile, che si tiene contemporaneamente a Milano, di rendere evidenti nella storia le radici e i potenziali di successo di un settore dell’industria manifatturiera che contribuisce per il 2% circa al Pil italiano, per quasi la metà in export.È illusorio pensare che la nostra industria manifatturiera possa reggere vittoriosamente una competizione sui costi a livello globale. Potrà farlo con successo se recupererà le culture espresse nei diversi contesti locali, con prodotti che abbiano capacità evocative coerenti al genio e alla maestria universalmente riconosciute al saper fare italiano.Investire in cultura e competenze, coltivare la creatività delle nuove generazioni è anche la via per una migliore produzione e distribuzione di ricchezza, materiale e immateriale, che consenta ai giovani di uscire da condizioni di incerta identità e di eterno presente, di riconoscersi nel passato e di proiettarsi in un futuro migliore.

carlo callieri

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1.L’Università dei minusieri e la bottega

Il minusiere (dal francese menuisier) è in Piemonte chi tra i falegnami costruisce i mobili in una bottega popolata da maestri, lavoranti e apprendisti, che intraprende un percorso di quasi dieci anni per essere considerato un professionista completo; lavora finemente e artisticamente il legno con strumenti evoluti e si differenzia dal «mastro da bosco», categoria più umile e dedita alle lavorazioni meno elaborate della carpenteria.La corporazione degli artigiani dei mobili di Torino, chiamata Università, è stata una rilevante associazione di mestiere durata oltre due secoli, dalla metà del xvii secolo alla metà del xix. Dal Seicento si attua un lungo percorso di affermazione della professione documentato negli statuti dell’Università che definiscono progressivamente le regole per intraprendere la professione, la codifica delle lavorazioni e la validazione dei manufatti, oltre a costituire strumento di tutela della categoria. Nel 1679 si certifica l’ingresso nella consorteria anche dei mastri ebanisti che lavorano e intarsiano ebano e legni pregiati. Il Codice delle regole del 1738, il più completo, è firmato anche dal sommo tra i Maestri, Pietro Piffetti.Nel Censimento di arti e mestieri di Torino del 1792 i Minusieri, ebanisti e mastri da carrozze sono ben 127 e 389 i lavoranti e gli apprendisti.Nel corso dell’Ottocento l’Università perde gradualmente di autorevolezza e di finalità; le Regie Patenti del 1844 aboliscono, tra le altre, anche la corporazione dei fabbricanti di mobili consegnando gli antichi mestieri alle novità tecniche e produttive dell’industria.

[ElisabEtta ballaira, silvia Ghisotti]

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Mentre sono numerosi i capi d’opera realizzati dai minusieri secondo i disegni codificati intorno al 1780, giunti a noi in un volumetto custodito nell’Archivio di Stato di Torino (cfr. scheda p. ???), non è noto alcun capo d’opera di ebanista che rispecchi i coevi disegni per gli ebanisti.Ne possediamo invece alcuni di epoca anteriore e pri-vi di riscontri nelle carte dell’università. Si tratta di pannelli o sportelli contrassegnati al dorso dai timbri a secco dell’università stessa, apparentemente di libe-ra fantasia, caratterizzati da un virtuosismo ebanisti-co che documenta la loro funzione dimostrativa di raggiunta maestria professionale nell’affrontare i più difficili repertori.

1. Ebanista iGnoto

Capo d’opera, primo quarto del xviii secolo

Legno di noce intagliato, intarsiato in legni vari, 60 x 130 cm.Torino, collezione privata presso Pastiglie Leone.

Quello presente in mostra è il più bello. Pubblicato dallo scrivente (Antonetto 1985, p. 78 e sovracoperta del volume), è un pannello in cui sono riconoscibi-li elementi ricorrenti in Piffetti (ma non c’è alcuna prova che sia il capo d’opera del futuro Ebanista di S.M.). Un altro, di concezione meno suggestiva, è in Antonetto 2010, II, p. 211, fig. 16b. Altri ancora sono inseriti in mobili: due inginocchiatoi (Antonet-to 2010, II, p. 76, scheda e fig. 3; p. 77, scheda e fig. 4), un cassettone, un tavolo da muro e un tavolino (Antonetto 2010, II, pp. 50, 210-211).

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Antonetto 1985, p. 78.

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Lo sportello qui a fianco, e i due alle pagine succes-sive, sono prove d’esame di aspiranti mastri, che do-vevano realizzare un capo d’opera sulla base di un disegno assegnato.Il primo sportello, di stile più arcaico, corrisponde a un modello vigente a fine Seicento o inizio Settecen-to, allorché i disegni non erano ancora stati stabiliti da norme precise e si può pensare che fossero concordati di volta in volta. Gli esemplari arrivati fino a noi da quegli anni presentano infatti grandi variazioni.I due sportelli delle pagine successive, databili intorno al 1780, corrispondono a disegni codificati con una normativa del 1738 e successive modifiche. I disegni erano otto, fra i quali il candidato estraeva a sorte.La prova di raggiunta «perfezione nell’arte» era ri-chiesta dalle normative dell’Università dei Minusie-ri come passo obbligato per poter aprire bottega in proprio. La parte più gravosa, cioè la realizzazione fisica del modello, avveniva in una bottega diversa da quella in cui il giovane aveva passato i prescritti quat-tro anni da «imprendizzo» e i cinque da «lavorante». Erano a carico del candidato l’acquisto del legno e degli strumenti. I legni da lavorare e assemblare erano contrassegnati uno per uno con il punzone a secco dell’Università, raffigurante un compasso aperto le cui punte poggiano su un rabot (pialletto), fiancheg-giato da due gigli e sovrastato da corona ducale (che non fu adeguata a corona reale dopo l’avvento del re-gno nel 1713). I due simboli alludono alle due abilità del mestiere, il disegno e la manualità, l’ideazione e l’esecuzione collegate in paritaria e fruttifera alleanza.Se il candidato, nel corso dell’esecuzione del ca-

2. MinusiEri torinEsi

Capi d’opera di minusieria: fine xvii - inizio xviii secolo; b e c: 1780 circaLegno di noce; a: 78 x 76 x 6 cm; b: 127 x 49 x 7 cm; c: 130 x 55 x 7,5 cm.Venaria Reale (to), Borgo Castello della Mandria, Antica Università dei Minusieri.

po-d’opera, avesse commesso un errore irrimediabile anche su un solo pezzo, non avrebbe potuto sostitu-ire quell’elemento con un altro nuovo e la sua prova sarebbe fallita. Perciò noi oggi troviamo al dorso dei capi d’opera tante punzonature quanti sono gli ele-menti dell’insieme.Nel tempo concesso al candidato (due mesi o anche più) egli perdeva il salario, dal momento che sottrae-va il suo tempo alla bottega. Ovviamente nessun aiu-to o suggerimento poteva essergli dato da chicchessia. Giudici del lavoro erano i Sindaci dell’Università. Superato l’esame, il neo-mastro riceveva le Lettere Patenti di Permissione che lo autorizzavano ad aprir bottega. Pagava una doppia all’Università e veniva registrato nel Registro delle Chiadevre (cfr. scheda ???, p.???). Lo sportello poteva poi essere messo in com-mercio o donato alla corporazione, come nel caso dei capi d’opera della presente scheda, conservati nel tempo fra i cimeli raccolti nella sede in Santa Maria di Piazza a Torino. Spesso accadeva che il neo-ma-stro, per rientrare del tempo, della fatica e del denaro spesi nell’esecuzione della chiadevra, utilizzasse l’anti-na come parte di un mobile: una credenza, uno sti-po, un inginocchiatoio, un armadio (cinque esempi Antonetto 1985, pp. 74-77). Se le antine occorrenti erano due affrontate, ne costruiva un’altra adeguata. Così accade oggi di trovare, in mobili contenenti un capo d’opera, i marchi dell’Università su una sola delle portine speculari.

[robErto antonEtto]Bibliografia: Antonetto 1985, pp. 74-75; Gentile 1987, pp. 29-72; Antonetto 2010, II, pp. 50, 76-77, 210-211.

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Mentre il tornio è in bottega da tempi immemorabili, è relativamente recente la storia delle macchine più innovative entrate nei laboratori di falegnameria per alleviare la fatica della manualità, come la sega cir-colare e a nastro, il traforo meccanizzato, la pialla-trice. Verso la fine del xviii secolo le botteghe degli artigiani francesi del mobile, che pure erano i primi nel mondo, risultano ancora privi di ogni macchina tranne che del tornio. Così appaiono i laboratori ri-costruiti in miniatura nelle belle maquettes del Musée des Arts et Métiers di Parigi, realizzate nel 1783 per il duca d’Orléans e il figlio duca di Chartres. Un esemplare rudimentale, forse il primo, di congegno per tagliare il legno è raffigurato in un trattato francese sull’arte del tornio, il Manuel du Tourneur, edito a Pa-rigi, chez Bergeron, nel 1792. La tavola xviii mostra una macchina a pedale con bilanciere, che è in realtà un seghetto alternativo.La prima sega a nastro fu brevettata il 30 gennaio 1808 dall’inglese William Newberry. Ne è conser-vata anche l’immagine in una incisione dell’Ufficio Brevetti britannico. La macchina non ebbe però larga diffusione. L’affermazione trionfale del vapore come

forza motrice giocava a suo favore, ma l’insufficien-za dei materiali impiegati per le lame, incapaci della flessibilità e resistenza necessarie, costituiva un gros-so fattore negativo, superato soltanto a metà secolo. Sulla «Gazzetta di Genova» del 13 agosto 1823, e su quella del 3 luglio dello stesso anno, l’ebanista Hen-ry Thomas Peters annunciava di aver dotato la sua fabbrica di una macchina a vapore capace di segare il mogano ricavando 15 o 16 fogli da uno spessore di un pollice. Peters, inglese trapiantato nel capoluogo, era in grado di far arrivare le macchine più moderne dall’Inghilterra, il Paese in cui l’industria meccanica era all’avanguardia (Rathschüler 2014, pp. 65-67). Vent’anni dopo, nel 1846, nel Catalogo dell’Esposi-zione di Genova, si legge di Peters che «possedeva una quantità di seghe destinate a ridurre in fogli i legnami fini e mosse a vapore, della forza di dieci cavalli che sebbene inferiori alle seghe francesi e biellesi potean bastare per provvedere a tutti i bisogni delle fabbriche della città e delle attigue riviere». L’accenno alle seghe biellesi documenta che anche in Piemonte esisteva una produzione metallurgica adeguata a rispondere alle nuove esigenze delle botteghe. Nel 1847 veniva-

3. lE MacchinE dEl MinusiErE E dEll’Ebanista

a. Sega a nastro mossa da energia idraulica, ultimo quarto del xix secolo

Legno di larice rosso, parti in metallo. La lama non è esposta per ragioni di sicurezza, 240 x 120 x 120 cm; peso 300 kg.Venaria Reale (to), Borgo Castello della Mandria, Antica Università dei Minusieri. b. Traforo a pedale, inizio del secolo xix

Legno, parti in metallo, 90 x 95 x 50 cm.Venaria Reale (to), Borgo Castello della Mandria, Antica Università dei Minusieri.

c. Tornio a pedale, prima metà del xviii secolo

Legno, parti in metallo, 208 x 113 x 46 cm.Venaria Reale (to), Borgo Castello della Mandria, Antica Università dei Minusieri.

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no indicati nella bottega torinese di Gabriele Capello diversi tipi di macchine: per intarsiare palchetti, per trapanare «con piattaforma», per fare le seghe, e «traf-fila» per le fasce dei palchetti (AST, Sez. Riun. Casa di S.M., Mazzo 2600, Cartone N. 3, Pacco N. 10). Altri dati del documento forniscono un’idea delle dimensioni dell’azienda. Vi risultano in attività circa 130 persone, calcolando solo quelle addette ai «pan-chi», che sono 100 da minusiere, 20 da scultore, 4 da ebanista e 4 da tornitore. Le scorte sono commisurate ai progressi tecnologici e all’ampiezza produttiva: quasi 400 quintali di legni esotici (mogano, spiniero, palissandro o noce d’India, ebano, acero d’America, sandalo rosso), 1.000 metri quadrati di fogli per im-piallacciature (dal mogano al martello al tasso), 48 chili di avorio, 2 di madreperla, 6 e mezzo di tartaru-ga, 27 di metalli vari.La meccanizzazione assumeva un ruolo centrale nell’Esposizione di Parigi del 1855: erano in vetrina la piallatrice a piano orizzontale, la macchina per fare gli incastri d’assemblaggio, la sega a nastro continuo, i congegni per sgrossare le forme che l’intagliato-re avrebbe rifinito manualmente (Visites et Etudes de S.A.I. 1855). A questa vetrina internazionale si fa risalire l’inizio della larga diffusione delle macchine nelle botteghe del legno. All’Esposizione di Firenze del 1861, a pochi mesi dall’Unità, veniva presentata dall’inventore torinese Enrico Decker, una «sega a più lamine», nello stesso tempo a nastro e circolare, quella che oggi va sotto il nome di «combinata». A giudicare dal campione dimostrativo che appare nell’incisione, era capace di lavori molto elaborati (Esposizione Italiana Agraria 1861, pp. 4184, 4325). Il Giornale dell’Esposizione individuava nello stabi-limento torinese dei fratelli Levera il modello ormai realizzato della moderna organizzazione del lavoro tenacemente predicata in Piemonte da Capello: mac-chine, divisione del lavoro, concentrazione di tutte le specializzazioni occorrenti al prodotto finale, istru-zione professionale.

«In un andito terreno v’è un motore della forza di cinque cavalli che mette in azione più macchine diverse. Sono tutte di officine nazionali e taluna modificata od inventata nello stabilimento medesimo. L’una con regolarità matematica sega in panconi, e talora in sottilissime foglie, i grossi tronchi di legna-me, con una rapidità sorprendente e con agevolezza tale che il braccio dell’uomo non saprebbe ottenere; altra muove una sega circolare di maggior forza e ra-pidità; una terza sega, di nuovo e finissimo lavoro, in-tersecando perpendicolarmente un piano orizzontale, taglia in qualunque forma circolare i più grossi tron-chi di legname, accoppiando economia a prestezza e precisione di lavoro. Altre macchine incidono e preparano le commessure che stringono legno con legno in maniera da non la-sciar distinguere i puliti di riunione; ed una immensa pialla meccanica incide e distende sugli assi, destinati a far cornici le gole, i gusci, gli ovoli ed ogni maniera di curve. Da questa officina il legno esce sbozzato e disposto a prendere una maggior perfezione di forma, e questo con poco o nessuno spreco di materiale tran-ne la segatura» (L’Esposizione Italiana del 1861 1862, p. 130). Uno squarcio sulla meccanizzazione dello stabilimento si ha nel manifesto della Ditta Levera (cfr. scheda, p.???): in uno dei medaglioni angolari si intravvedono la centrale a vapore e diverse macchine, tra cui una sega a nastro e una piallatrice. All’Esposi-zione di Parigi del 1867 compariva una «combinata» così avanzata che fu definita le menuisier universel. Una sezione della rassegna era riservata alle macchine, e fra i giurati c’era Gabriele Capello detto Moncalvo. Lo stesso Capello, in una memoria intitolata La que-stione dei falegnami (1863) si era adoperato a rassicu-rare gli artigiani spaventati dalla concorrenza delle macchine: «È d’uopo che chi esercita e si interessa dell’industria si metta ben in mente, che gli opifìzi d’ora in avanti devono essere provvisti di tutti quei meccanismi inventati e messi in pratica già presso le altre nazioni, atti a moltiplicare dieci, venti, trenta, ed b

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anche cento volte quello che può fare un operaio colle sole sue braccia, ed è importantissimo che l’operaio non si sgomenti da questi mezzi enormemente pro-duttori, pensando che le venga meno l’occupazione, che anzi viene dai medesimi alleggerito di molta fati-ca materiale ed impiegando l’intelletto nella direzione

delle macchine, acquisterà la vera dignità dell’uomo» (Antonetto 2006, p. 98).

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Canale 1847, p. 265; L’Esposizione Italiana del 1861, 1862, p.130; Antonetto 2006, p. 98; Rathschüler 2014, pp. 65-67.

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2.I primi maestri sul finire del Seicento

In Piemonte già a partire dalla seconda metà del Seicento si realizzano significativi esemplari di mobili e arredi fissi che dimostrano la raffinatezza e l’aggiornamento del gusto nella decorazione a intaglio, spesso dorato, e a intarsio. A differenza dei minusieri, non sono conosciuti statuti che regolino l’attività e l’accesso alla professione degli scultori in legno.Nella sezione è presentata questa varietà di produzione, a cominciare dalla pregevole porta intagliata proveniente dal Castello del Valentino, attribuita a Pietro Botto che realizzò diversi soffitti nel Palazzo Reale di Torino, su disegno di Carlo e Michelangelo Morello. I Botto sono una famiglia di scultori e intagliatori originaria di Savigliano, attiva in Piemonte già dall’inizio del Seicento, che nell’arco del secolo xvii ha prodotto una dinastia di artisti. Michele Crotti succede a Pietro Botto nel servizio al duca sabaudo, eseguendo intagli per apparati fissi e arredi in particolare per Palazzo Madama e Palazzo Carignano.Nel panorama dell’arte ebanistica dei primi decenni del secolo xviii è figura di sicuro rilievo Giuseppe Maria Galbiati, documentato dal 1703 al 1716 e autore di due scrivanie alla mazzarina, una delle quali firmata, di eccellente fattura e provenienti dal Palazzo Reale di Torino.

[ElisabEtta ballaira, silvia Ghisotti]

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Entrambi i battenti sono suddivisi in tre pannelli uguali fittamente intagliati a girali fogliati intorno a un giglio di Francia incoronato. Il telaio è occupato da un motivo continuo a catena, che reca in ogni ma-glia una corolla.Proviene probabilmente dal Castello del Valentino, «unica superstite delle quaranta e più porte che si può pre sumere dividessero stanza da stanza al primo pia-no» (Viale 1949). È fondatamente attribuibile a Pie-tro Botto, del quale ci rimangono, fra le altre opere, diversi soffitti nel Palazzo Reale di Torino, realizzati su disegno di Carlo e Michelangelo Morello. È cer-to che Pietro Botto eseguì molti lavori proprio per il Valentino, come per la Vigna e per Palazzo Madama (documentati ma perduti, Antonetto 1994). Pietro Botto è il più noto di una famiglia di scultori in legno, originaria di Savigliano, che nell’arco del secolo xvii ha dato otto artisti.Opera di razionale disegno e di perfetta esecuzione, la porta è depositaria di una significativa cultura artisti-

ca, che trasmette il linguaggio manieristico alla gran-de decorazione barocca (San Martino 1996).È da confrontare, purtroppo solo in fotografia, con due porte collocate nell’Ottocento nella chiesa del Carmine di Torino, provenienti dal convento della Santissima Annunziata, distrutte da una bomba nel 1943 (Pedrini 1925).Altri confronti d’obbligo, la cosiddetta «Porta della sicurezza» in Palazzo Reale, fra la Sala dei Paggi e la Sala del Trono, e la porta fra la Camera dell’Alcova e la Sala del Trono della Regina, entrambe su dise-gni dell’architetto Carlo Morello. Furono eseguite da figli di Pietro Botto e continuatori dei suoi modi, rispettivamente Secondo Antonio nel 1660-1662 e Bartolomeo nel 1663.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Pedrini 1925, p. 9; Antonetto 1994, scheda 21, pp. 84-85 e tav. 34 (con indicazione delle fonti d’archivio e biblio-grafia precedente); San Martino 1996, scheda 168, p. 92.

4. PiEtro botto (notizie dal 1607 al 1659)

Porta a due battenti, intorno alla metà del xvii secolo

Noce intagliato, 245 x 145 128 x 8 cm.Presumibilmente su disegno di Carlo Morello.Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 1108/L.

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L’arredo, di impronta nettamente francese, presenta una inedita struttura a mezza strada fra il cassettone e il tavolo da muro, più vicina a quest’ultimo che al primo. Richiama infatti, anche nell’intaglio dorato, gli elaborati tavoli di parata di produzione alta fra Seicento e Settecento, dai quali peraltro si stacca per le dimensioni molto ridotte. Le alte gambe a balau-stro sono collegate da una crociera a quattro elementi che risvoltano con eleganza su se stesse e confluisco-no a formare una tavoletta su cui posa un vaso bian-co-blu con coperchio e manici in argento sbalzato.

5. bottEGa torinEsE iGnota

Cassettone intagliato e dorato, fine xvii secolo

Struttura in pioppo, intagliato, dorato; piano dipinto in finto marmo, 87 x 103,5 x 47,5 cm.Collezione privata.

La fronte, a serpentina plurima, è articolata in dieci cassetti e conclusa verso il basso da una cintura di lambrecchini. Anomalo il piano dipinto con effetto marmorizzato. È probabile che il mobile provenga da una residenza sabauda. Lo stato di conservazione è perfetto, sia sul piano strutturale che decorativo. Sul fianco di un cassetto è tracciato a penna il profilo del-la fronte del mobile.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Antonetto 2010, II, p. 52.

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Nei decenni a cavallo fra Seicento e Settecento era at-tivo a Torino, principalmente nel Palazzo del Duca, a Palazzo Madama e a Palazzo Carignano, ma an-che in dimore aristocratiche come palazzo Provana Druent e in Duomo, un gruppo di maestri che aveva occupato la scena dell’intaglio decorativo all’estin-guersi della dinastia dei Botto, preminente per l’intero Seicento. I nomi più ricorrenti sono Cesare Neurone, Michele Crotti, Francesco Borrello, Vincenzo Possi-no, ma altri se ne possono aggiungere, come Giacomo Brahery, Michele Antonio La Volée, Pietro Giusep-pe Valle. Questi nomi ci arrivano da un vecchio, ma fondamentale libro, la Descrizione del Reale Palazzo di Torino di Clemente Rovere (1858) e da un’altra fonte basilare, i manoscritti di Alessandro Baudi di Vesme pubblicati dalla Società Piemontese di Ar-cheologia e Belle Arti fra il 1963 e il 1982. Nuove notizie importanti e documentate sono nel volume su Palazzo Madama pubblicato dalla Fondazione Crt nel 2006. Questi artisti - perché come tali erano riconosciuti gli intagliatori accolti nell’Accademia di San Luca - concorsero nel dar vita a una grande stagione dell’intaglio decorativo, di seicentesca opu-lenza, elevato a sistema decorativo globale delle sale e

6. intaGliatorE torinEsE nEll’ambito di C. nEuronE, m. Crotti E altri

Specchiera da camino, fine del xvii o inizio del xviii secolo

Legno intagliato e dorato, 208 x 182 cm.Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 764/L (in deposito a Palazzo Carignano).

splendente d’oro. Ne sono testimonianza il cosiddetto Appartamento dorato di Palazzo Carignano, diversi ambienti di Palazzo Reale e le sale altrettanto dorate del sontuoso appartamento che Madama Reale Gio-vanna Battista fece allestire per sé verso fine Seicento nel Castello, avvalendosi per gli intagli principal-mente di Neurone e Crotti.In Palazzo Madama, alle decorazioni intagliate e do-rate «native» si sono aggiunti arredi facenti parte del Museo Civico d’Arte Antica, che si indicano come provenienti da Palazzo Carignano. Si tratta soprat-tutto di specchiere sopra-camino, fra cui l’esemplare proposta in mostra. È caratterizzata da ali leggermente rientranti in avanti e scompartite in lesene, da un grande specchio cen-trale centinato a «C» contrapposte e da un vigoroso cornicione a cupola. Anche se di livello inferiore ad altri arredi apparte-nenti alla stessa matrice, la specchiera è sufficiente-mente rappresentativa.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Mallè 1972, scheda a p. 130, tav. 155; Aprile, Filip-pi, Giancola 2006, pp. 158-162.

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La scrivania ricalca il consueto modello a otto gambe collegate quattro a quattro da crociere a «X», mon-tanti mossi in anse, fronte a serpentina con nicchia centrale a sportello e fianchi diritti. Diversi elementi la collegano alla maniera di Galbia-ti, senza che sia peraltro possibile una attribuzione fondata. Delle tredici scenette disposte sul mobile esistono i di-segni, di ignoto autore, nella Biblioteca Nazionale di Torino, in parte identificati e pubblicati da Giancar-lo Ferraris, in parte dallo scrivente (Ferraris 1993, II, p. 493; Antonetto 2010, II, pp. 109-111). Furono tracciati da una mano abile, e presenta-no dimensione uno a uno rispetto alle formelle del mobile. Si tratta quindi di disegni esecutivi, quali ben rara-mente è dato di incontrare: le varianti fra la carta e la trasposizione in avorio sono insignificanti. Sullo sportello è raffigurata una figura femminile as-sisa su un masso nell’atto di lasciare libero un falcone. Un cane punta con il muso verso il falcone: nel dise-gno ha una zampa sollevata, nell’avorio abbassata, ed è una delle poche differenze riscontrabili. Una figura femminile del tutto analoga appare nel-lo sportello della scrivania pendant, in altra collezione privata, nell’atto di suonare un liuto, avendo accovac-ciato accanto un cervo mansueto (Antonetto 2010, ???). Anche di questa esiste il disegno nella Biblioteca Nazionale (BNT, q.IV.13/81), e l’ignoto ebanista se ne è in parte servito per la formella sul fianco sinistro della mazzarina di cui stiamo parlando: non ci po-trebbe essere collegamento più significativo fra i due arredi.

7. GiusEPPE maria Galbiati, attribuito a (notizie tra il 1680 e il 1716)

Scrivania alla mazzarina, primo quarto del xviii secolo

Struttura in pioppo, lastronatura in palissandro con intarsi in amaranto e avori incisi, 84 x 123 x 62 cm.Collezione privata.

Sulla fronte dei cassetti sono istoriate scenette campe-stri di genere. Sul piano, al centro, allegoria dell’Italia, raffigurata con la cornucopia della fertilità e rivolta ad Apollo reggente una viola da gamba e un cumulo di libri.Nella formella di sinistra si scorge la Germania con scettro gigliato e globo imperiale. A destra la Francia in veste di guerriera con elmo, freccia e scudo. La chiave per l’identificazione delle simbologie si tro-va in un palazzo di Piacenza, palazzo Gragnani, che conserva quattro quadri di ignoto autore con allego-rie delle nazioni, Francia, Germania, Spagna e Italia, identificate da un cartiglio. I dipinti risalgono - come osserva Anna Maria Mat-teucci che li ha illustrati (1979, pp. 196-199) - al secondo decennio del Settecento e le allegorie sono chiarificatrici per quelle che appaiono???, ovviamen-te semplificate, sui piani della presente mazzarina e dell’altra in coppia (quest’ultima reca al centro del piano l’allegoria della Spagna).Una notizia relativa alla seconda scrivania può co-stituire una traccia per la storia di questi arredi. Essa fu rinvenuta dallo scrivente presso una galleria antiquaria di Monaco di Baviera, con documen-tazione che la faceva risalire alla famiglia reale di Sassonia, precisamente agli arredi della residenza di Sybillenort. Una possibile spiegazione è che vi fosse giunta da Torino nella dote della principessa Carolina di Savo-ia (1764-1782), sposa nel 1781 ad Antonio Clemente principe di Sassonia (1755-1836), poi re di Sassonia dal 1827 al 1836.

Nel contratto nuziale, firmato il 28 settembre 1781, si parla di un ricco corredo di gioielli e arredi, oltre che della somma di 420.000 lire. La bella e sfortuna-ta principessa piemontese morì di vaiolo a diciassette anni, e fu ricordata in una canzone popolare raccolta dal Nigra e in una poesia di Gozzano: «Dopo un

anno moriva quella che usciva sposa / da questa Reg-gia... Visse la vita d’una rosa...».

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Ferraris 1993, II, pp. 493-497; Antonetto 2010, II, p. 109-111.

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3.Il Settecento. La tarsia e Luigi Prinotto

La produzione dell’ebanisteria per i cantieri reali sabaudi costituiva parte rilevante di un’unica regia dell’architetto di corte che gestiva il cantiere, in dialogo con pitture, stucchi, tessili, oreficerie. Figura di spicco tra i maestri della tarsia è Luigi Prinotto, uno dei maggiori artisti del Settecento, i cui lavori si caratterizzano per gli avori incisi con gusto pittoresco e segno vibrante. Il pittore Pietro Domenico Olivero, padrino del figlio, è spesso ispiratore delle scenette di genere che l’ebanista dissemina sui mobili. Ben introdotto a corte, ricevette nel 1723 il prestigioso incarico della scrivania per il figlio di Vittorio Amedeo II, con le raffigurazioni dell’assedio e della battaglia di Torino del 1706. La bellissima boiserie a scaffali e inginocchiatoio del «Gabinetto di S.M. la Regina» in Palazzo Reale, con raffigurazioni in madreperla e avorio dei beati sabaudi, è del 1732. Molti i successivi incarichi: scrivanie, «bureaux», cassette, consoles, scansie per Palazzo Reale e residenze fra le quali Rivoli, Aglié e Palazzo Chiablese. Delle mazzarine o scrivanie a più cassetti laterali istoriate in avorio sono mirabili quella della Palazzina di Stupinigi, un’altra in collezione privata e quella con lo stemma dei Morozzo, presente nel percorso di visita della Reggia di Venaria. Prinotto lavora anche per committenze di Ordini religiosi, come si vede nella sala finale, il Teatro del Sacro.

[ElisabEtta ballaira, silvia Ghisotti]

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È uno dei tavoli da muro di livello più alto fra i molti nati nei decenni a cavallo fra Seicento e Settecento per gli ambienti di parata delle residenze reali e dei palazzi aristocratici, in una stagione stilistica segnata dall’arte dell’intaglio dorato di Crotti, Neurone, Pos-sino e degli altri (Cfr. scheda n. p. ???). L’intento au-lico non compromette, nell’arredo, una armonia di disegno e di decorazione in qualche modo classica. Superbe le due testine, così simili a quelle in bronzo

8. intaGliatorE torinEsE

Tavolo da muro, fine xvii - inizio xviii secolo

Legno intagliato e dorato, 95 x 155 x 77 cm.Collezione privata.

delle scrivanie con scansia del Gabinetto di Toeletta della Regina. La tipologia francese, reperibile anche nella tratta-tistica d’oltralpe, è rielaborata in Piemonte, come a Genova, in una «straordinaria sintesi» (Colle 2000, p. 426).

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Colle 2000, p. 426-427.

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Il pittore torinese Pietro Domenico Ollivero è ricono-sciuto maestro nell’ambito della pittura bambocciante italiana della prima metà del Settecento: a lui si deve una fedele immagine della società torinese dell’epo-ca. Oggetto di approfonditi studi storici e artistici nel corso dell’ultimo quindicennio, Ollivero ha rivelato un retroterra culturale di primo ordine, costituito da intensi studi di pittura: soprattutto dell’arte fiammin-ga, che a Torino conobbe particolare gradimento da parte della corte e dei collezionisti privati. Era figlio di Francesco, intagliatore di origine ligure (Oneglia), e il cognome ricorre nei documenti in diverse grafie: Olliverij, Olliveri, Ulivieri, Uliveri, Ollivero, Oli-vero (Cifani, Monetti 1993, p. 177). Nel censimento di Torino del 1705 (Merlo, Raviz-za, Cifani, Monetti 1996, p. 34) fu registrato come storpio: soffrì infatti dalla nascita di una grave displa-sia congenita di entrambe le anche con conseguente zoppia e torsione delle gambe, che gli rese la deam-bulazione possibile solo con il bastone e gli impedì lo sviluppo corretto degli arti inferiori. Dotato di spiccata vena ironica, esorcizzò la malattia autoritraendosi nella sua deformità in molti dipinti e disegni, che permettono di coglierne l’effigie dalla prima giovinezza sino alla vecchiaia. Secondo Felice Durando di Villa (1778, pp. 40-41) fu allievo del pittore e architetto Melchior Baldassarre Bianco, per il quale dipingeva architetture di quadri. Ebbero in-flusso su di lui anche le opere dei pittori olandesi e fiamminghi Melchior Hamers, Pietro Maurizio Bol-ckman, Jean-Baptiste Abret, Jean Miel, attivi a To-rino nella seconda metà del Seicento. Precocemente inclinato alla pittura, fu protetto da Vittorio Amedeo

9. PiEtro DomEnico ollivEro (Torino, 1679-1755)

Festa campestre con autoritratto del pittore, 1710 circa

Olio su tela, 67 x 82 cm.Collezione privata.

II di Savoia, che lo indirizzò a soggetti aulici. Ollive-ro preferì invece le affollate strade e le piazze di Tori-no; studiò i caratteri soprattutto dei ceti più umili, da cui trasse costante ispirazione per le sue opere. Artista assai amato e stimato dalla corte e dalla no-biltà, lavorò ininterrottamente fino al termine del-la vita, realizzando una grande quantità di dipinti. Uno dei suoi primi collezionisti fu Pietro Mellarède (1659-1730), ministro di Vittorio Amedeo II, che possedeva quindici sue tele, scalate fra 1698 e gli anni venti del Settecento (Castello di Betton Bettonnet, Savoia). La collezione di Mellarède conserva le pri-me due opere documentate del 1698: un Cavadenti e La partenza di un buttero per il pascolo (Cifani, Monetti 2009b), nelle quali il pittore denota uno stile formato e inconfondibile, prossimo a Pieter van Laer, il Bam-boccio, a Michelangelo Cerquozzi e a Jean Miel: stile che nel corso della vita venne da lui aggiornato e fortemente arricchito, ma mai sostanzialmente mo-dificato. Della stessa collezione Mellarède sono due tele datate 1700: un Mercato e una Fiera ambientati fra rovine ro-mane; e ancora altri due dipinti firmati e datati 1706: un Bivacco di soldati con l’autoritratto del pittore e una Cu-cina con personaggi. Le tele del 1706 rappresentano uno dei punti di maggiore vicinanza della sua opera a quella di Alessandro Magnasco (1667-1749) e Cle-mente Spera (1661 circa-1742), suoi contemporanei e da lui certamente conosciuti, non si sa se di persona o tramite loro opere giunte a Torino.Il quadro, qui oggetto di studio, è già stato oggetto di nostra pubblicazione a quel tempo basata solo su fotografia (Monetti e Cifani 1993, p. 199). Opera

molto giovanile, può agevolmente essere accostata al Bivacco di soldati con l’autoritratto del pittore della Col-lezione Mellarède. Le due raffigurazioni di Ollivero sono infatti assai simili e in entrambe il pittore dimo-stra al massimo una trentina d’anni, con capelli neri, lunghi e folti. La datazione si può collocare pertanto entro il 1710. Nella scena vediamo Ollivero al centro della com-posizione ballare la «monferrina» con una scatenata contadina. Tutt’intorno una folla allegra di popolani e suonatori confortati da poderose botti. Su un tavolo un suonatore di chitarra si accalora nel suo ruolo al punto che una corda si stacca e con una invenzio-ne deliziosa diventa l’arricciolata firma del pittore. Nella tela, tessuta di nature morte luminose e forte-mente debitrici verso Giovanni Domenico Valen-

tini (1639-1715) l’ambiente rappresentato è quello dell’aia di cascina, umida e piena di meandri, che il pittore nobilita con un pittoresco torrione ruinato e smussato dalla vegetazione, che dovrebbe far pensare a più illustri rovine archeologiche romane. Ollivero si autoritrae storpio, con un sorrisetto tirato, il cappel-lo e il bastone in mano, abito e veste marroni con pa-ramani, patte e bottoni di un tono appena più chiaro, camicia e cravatta bianca mal annodata, stivaloni alla moschettiera, faccia pallida e sofferente da bambino precocemente invecchiato. Il pittore trasferirà, secondo il suo uso, molti elementi e dettagli di questa tela in altre opere: le rovine turrite si ritrovano, ad esempio, anche in un giovanile di-segno di una Fiera della Biblioteca Reale di Torino (Monetti, Cifani 1993, p. 265); il suo stesso autori-

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tratto si collega perfettamente, anche per l’abbiglia-mento, a quello che apre l’Album del Museo Civico di Torino (Monetti, Cifani 1993, p. 270). Non man-cano echi e citazioni da Jacques Callot e da David Teniers, Adriaen van Ostade, Theodor Helmbreker, Cornelius wan der Wael, artisti fiamminghi molto amati, vicini al suo stile e ai suoi intendimenti pitto-rici, ben conosciuti tramite incisioni e quadri e spesso citati. Nella tela, un piccolo e completo capolavoro nel suo genere, Ollivero appare artista compiuto, ori-

ginale, con linguaggio proprio caratterizzato da quel colorito «succoso» e da quella pennellata sciolta e pa-stosa che avrebbe suscitato l’ammirazione di Luigi Lanzi (Lanzi 1809, p. 257).

[arabElla cifani e franco monEtti]

Bibliografia: Lanzi 1974, III, p. 257; Cifani, Monetti 1993, I, p. 199; Cifani, Monetti 2006, pp. 57-61; Cifani, Monetti 2007b, pp. 103-112; Cifani, Monetti 2009b, pp. 165-203; Cifani, Mo-netti 2013, ad vocem Ollivero, Pietro Domenico.

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La mazzarina è del tutto simile a quella conservata a Stupinigi, più volte pubblicata e da ultimo ana-lizzata con ampiezza e acume da Franco Gualano (2014, pp. 311-313). È uguale la struttura (misure comprese), uguale la concezione decorativa, al punto da legittimare l’ipotesi che le due scrivanie siano nate parallelamente, una su committenza reale indicata dai nodi di Savoia al bordo del piano, l’altra per una elevata destinazione privata: i nodi sabaudi sono in quest’ultima sostituiti da corsi di palmette e di serti.L’apparato decorativo ivi è ancora più ricco. Infat-ti mentre nella mazzarina di Stupinigi le facce delle gambe piramidali e i montanti sagomati presentano delle semplici campiture di ebano entro filetti d’avo-rio, nella presente sono rallegrati da eleganti catenelle ripetute 26 volte sulle gambe, e da 6 pendoni floreali sui montanti. Identica, nei due mobili, la decorazio-ne delle crociere.Le 17 scene di vita popolare istoriate nella mazzari-na, ispirate al tema delle nozze, derivano da Pietro

10. luiGi Prinotto (Cissone [cn] 1685 - Torino 1780)

Scrivania alla mazzarina, tra il primo e il secondo quarto del xviii secolo

Struttura in pioppo, gambe e traverse in noce; lastronatura in ebano e noce d’India; intarsi in avorio inciso, 87 x 131 x 65 cm.Collezione privata.

Domenico Olivero, anche se la mano dell’incisore sembra diversa da quella di Stupinigi. Al centro del piano la danza è animata da un ritmo vivacissimo, con un garbato sollevarsi di gonne e un apparir di caviglie, al ritmo di cornamusa, violino, violoncello e tamburello. Nella figura che solleva danzando un bicchiere in en-trambe le mani il pittore potrebbe aver voluto alludere a stesso, che si proclamava gran bevitore. Altrettanto festoso il banchetto sullo sportello e animati da rustica efficacia pittorica i momenti colti dalle «istantanee» sui cassetti. Vi si rintracciano a colpo d’occhio personaggi ed epi-sodi che ritornano più volte nel pittoresco repertorio figurativo prinottiano.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Antonetto 1985, p. 261; Ferraris 1992, pp. 168-169; Antonetto 2010, I, p. 103; Ballaira 2011, pp. 140-144; Gualano 2014, pp. 311-313.

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L’aspetto della scrivania a ribalta detta «dell’assedio di Torino», pagata nel 1723, quando il drammatico avvenimento doveva essere ancora d’attualità, come certo testimoniato dalle palle di cannone ancora in-fisse negli edifici torinesi e dall’entità delle ricostru-zioni delle architetture compromesse, sancisce il va-lore e l’ufficialità dell’incarico affidato al Prinotto e il credito da lui ormai conseguito a corte. Da ultimo Antonetto (2010) ne ha riportato con cura gli estremi documentari e le citazioni dalle varie fonti.Il corpo del mobile, che comprende un portello ri-baltabile e due cassetti nella parte inferiore, poggia su quattro sostegni armoniosamente articolati e nella storia della nostra ebanisteria si configura come esem-pio tradizionale ed essenziale, senza grosse pretese di singolarità, ma pur elegante nell’animazione del con-torno inferiore e contraddistinto da una certa satura-zione decorativa. Il repertorio decorativo in avorio conta eleganti motivi vegetali a fiori e foglie, fini mo-tivi a lambriggio, trofei uscenti da stemmi sabaudi, con diverse filettature e cartigli ancora in avorio e pa-lissandro, piedini zoomorfi e due protomi femminili in bronzo dorato e cesellato la cui particolare forma lascia il dubbio d’un riutilizzo.La parte figurata, con la scena dell’assedio e della battaglia di Torino del 1706, ove tanti temi e moti-vi palesano il rapporto con modelli e opere di Pietro

11. luiGi Prinotto (Cissone [cn] 1685 - Torino 1780)

Scrivania a ribalta da parete, con scene dell’assedio e della battaglia di Torino del 1706, 1723

Legno intagliato e impiallacciato in palissandro ed ebano, inserti in avorio inciso, inserti in tartaruga e madreperla, 99 x 98 x 44 cm. Torino, Musei Reali - Palazzo Reale, inv. DC 1720.

Domenico Ollivero, come sottolineano in partico-lare ancora Antonetto (2010, I, pp. 71-75) e prima Ballaira (2007, p. 186), mostra un repertorio che conta tanto episodi di baldanza guerresca che scene informate a umana sensibilità e accorata pietà per gli umili: vediamo così passare dinnanzi ai nostri occhi i comandanti e le truppe di fronte alla città turrita, col denso fumo delle esplosioni, e di tre quarti un’ef-ficace veduta colla traiettoria delle palle di cannone, e infine le schiere che corrono veloci alla mischia; ma osserviamo pure il lento passaggio di carri e salmerie, i prigionieri legati, colle ferite e le bende; infine morti e moribondi arrovesciati in terra, miserando spettaco-lo, con uno di essi cui un frate cerca d’amministrare l’ultimo sacramento. Il disegno, talvolta un po’ piatto, non è sempre ugual-mente sostenuto nei particolari, nondimeno l’effetto d’insieme è sorvegliatissimo e la struttura delle scene asseconda mirabilmente le variate superfici del mobi-le, di eleganza essenziale: di modo che appare netta l’antinomia, per forme, temi e decorazioni, col modo di fare del Piffetti.

[franco Gualano]

Bibliografia: Antonetto 1985, pp. 258, 261; Ferraris 1992, n. 1, pp. 149-150; Ballaira 2007, pp. 184, 186; Antonetto 2010, I, pp. 71-75.

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I montanti a lesena rastremata e il pilastro in faccia-ta conferiscono al comò una particolare eleganza di reminiscenza seicentesca. Consonanze assolute sul piano decorativo lo avvicinano al cassettone firmato proveniente dalla Certosa di Pesio e alle note maz-zarine di Prinotto, con una attrattiva in più: la pre-senza dell’autoritratto di Pietro Domenico Olivero nella formella centrale del piano, ben riconoscibile nel personaggio che si appoggia al bastone e solleva il calice.Lo si confronti con la raffigurazione di sé che il pit-tore ci ha lasciato in un album di disegni custodito a Palazzo Madama, senza risparmio di auto-ironia nella rappresentazione della sua deformità (era scian-cato) e nel commento delle sue doti di bevitore: «Ecco in scorcio dipinto il xense arguto / di Bacco epilogato ecco il colosso / e s’ei stringe il penel pinge à minuto / e se impugna il bicchier beve all’ingrosso» (Torino, Museo Civico d’Arte Antica - Palazzo Madama, P. D. Olivero, Album di 184 disegni, inv. 317/DS).

12. luiGi Prinotto (Cissone [cn] 1685 - Torino 1780)

Cassettone, secondo quarto del xviii secolo

Struttura in pioppo intagliato; lastronatura in palissandro, noce, ebano, legni vari, avorio inciso, 91 x 131 x 59 cm.Collezione privata.

Nel cassettone i cinque «quadri» di genere disposti sul piano, i due sui fianchi e le sequenze sui tiretti, sono tra i più felici fra quanti passarono dalla matita del pittore al bulino dell’ebanista. Raramente l’avorio è stato trasformato in materia «pittorica» come nella scena del ballo, con efficace circolazione di movi-mento e gustosa penetrazione di caratteri: da notare la ritrosia della giovinetta trascinata a ballare, la tensione del violoncellista sul suo strumento e la disinvoltu-ra del violinista, i due danzatori fissati in una vera e propria istantanea, il grazioso tocco di realismo delle fiammelle mosse dal vento.Esiste in collezione privata un cassettone che presenta la stessa scena, nella quale tuttavia le figure del pitto-re e della donna che lo fiancheggia sono sostituite da altre.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Ferraris 1993, pp. 493-495, tavv. 82, 822, 823, 825; Ghisotti 1996, p. 170; Antonetto 2010, I, pp. 120-122.

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Nel maggio del 1733 Filippo Juvarra affida allo scul-tore in legno Giuseppe Angelo Marocco l’esecuzione delle 36 ventole del salone centrale di Stupinigi. Sono gli anni di costruzione e decorazione del corpo cen-trale della Palazzina sotto la diretta regia dell’architet-to messinese di cui sono noti i disegni e «pensieri» ri-feriti al progetto per il Salone e al motivo predominate della caccia al cervo (in particolare cfr. New York, Cooper Hewitt, Smithsonian Design Museum, inv. 1961-9-1). L’esecuzione delle monumentali ventole si protrae fino al 5 giugno 1737 quando viene saldato all’indoratore Giovanni Carlo Monticelli il costo di 9000 «fogli d’oro zecchino à £ 53 il mille» utilizzati per la doratura degli intagli (aom, Stupinigi, Vino-vo e Dipendenze, 1732 a 1736, m. 15, cap. 29). Se-guendo i diversi documenti già editi, è possibile risali-re alle modalità esecutive delle appliques che dovevano assolvere alla funzione di principale fonte luminosa del gran salone oltre che di elementi decorativi carat-terizzanti. Marocco fu impegnato nell’esecuzione dell’intaglio di tutte le ventole per un anno, dal 10 luglio 1733 all’11 giugno 1734, dopodiché le «placche di legno fatte per il Salone della nuova fabbrica di Stupiniggi» vennero rimesse all’indoratore Monticelli. La fase de-corativa fu più articolata poiché, come riporta il do-cumento assai noto, una ventola, che doveva servire da campione, fu presentata interamente dorata mentre la scelta decorativa finale richiese una soluzione se-condo canoni più moderni, alleggerendo la parte do-rata, limitata ai soli intagli aggettanti a cartouches, mo-

13. GiusEPPE anGElo marocco e Giovanni carlo monticElli

(attivi nel secondo e terzo quarto del xviii secolo)

Ventola con testa di cervo (o capriolo), 1733-1737

Legno di pioppo intagliato, dipinto, dorato, 126 x 73 x 43 cm.Nichelino (to), Palazzina di Caccia di Stupinigi - Fondazione Ordine Mauriziano, inv. 539 D.C. (Stupinigi 1908); inv. 5041 (Stupinigi 1880).

tivi floreali e conchiglie, e disponendo per le parti di fondo un colore «grigio perla, ed azzurro di Prussia» (Gabrielli 1966, p. 28). Secondo i documenti le teste di cervo furono realizzate con una stesura di rame e argento. I pagamenti per questa imponente serie, ri-portati in più tranches, vedono un costo complessivo di £ 432 per l’intaglio, corrisposte a Marocco, e £ 1080 per coloritura e indoratura, facente capo a Mon-ticelli. Nel corso della storia le ventole cambiarono in parte collocazione, come si registra a partire dagli inventari francesi del 1805 e 1807, fino alla riproposi-zione della serie nella sua completezza nel salone cen-trale per l’apertura del Museo dell’Ammobiliamento nel 1926. Sono state ricostruite le vicende conservati-ve delle ventole che hanno subito vari interventi nel corso del tempo, tra cui quello del 1853, a cura del falegname Cesare Dalmazzo che ha ricostruito otto teste di capriolo e molti intagli (ASTo, sez. riun., Casa di S.M., m. 1863).Nel corso del recente restauro, a cura del Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale», è stato possibile affrontare contemporaneamente lo stu-dio delle 36 ventole che presentano un intaglio raffi-nato e naturalistico nell’esecuzione dei motivi floreali (perfettamente riconoscibili sono i fiori di anemone, croco, melograno, narciso) e nelle teste di cervo (o ca-priolo, come indicano i documenti). La struttura è composta da tre assi in pioppo incollate senza incastri e i tre bracci reggicandela sono ancorati con colla e chiodi. La ventola «campione» qui esposta presenta tracce dell’originario strato di foglia d’oro, poi abra-

so, su cui è stata stesa la gessatura per uniformare la coloritura. Le dorature di questo esemplare sono rea-lizzate su bolo rosso-arancio. Negli altri 35 elementi della serie la doratura a foglia è effettuata a risparmio alternando una campitura con pigmento giallo nelle zone in ombra; lo strato di bolo presente sotto la foglia d’oro si differenzia cromaticamente a seconda della ventola (in tonalità rosso, rosa, arancio, giallo). Tale elemento suggerisce una suddivisione del lavoro di coloritura e doratura tra diverse maestranze, confer-mata dalla presenza sul verso di segni contraddistin-tivi e firme, tra le quali emerge quella dell’indoratore e coloritore Domenico Collino che firma due ventole (inv. 197 e inv. 520), apponendo la data 1737. Col-lino è documentato, insieme a Monticelli, per il ruolo

di sindaco della Regia Zecca di Torino e per attività di indoratore nei cantieri di corte tra gli anni quaranta e cinquanta tra Torino e Venaria (ASTo, Camerale Piemonte, art. 217 Conti della tesoreria generale della Real Casa, 1740, cap. 9; ibid., 1749, cap. 8; ibid., 1751, cap. 6, su gentile segnalazione di P. Manchinu). Sei ventole riportano la sigla «R. F.», sei il simbolo di un cerchio, quattro una croce e diciotto, tra cui quella in mostra, nessun segno identificativo, probabilmente da ricondurre al nucleo decorato direttamente dalla bottega di Monticelli.

[stEfania DE blasi]

Bibliografia: Gabrielli 1966, pp. 28-29; Gritella 1987, p. 297; Bava, Gualano 2015, pp. 21, 23, 26.

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Tra le molte e raffinate espressioni dell’intaglio dorato che hanno contribuito a creare il volto del Settecento piemontese, le specchiere e le ventole occupano il pri-mo piano, insieme alle decorazioni parietali a spec-chio, i trumeaux. L’alleanza fra due materie dotate in massimo grado del potere di raccogliere e restituire luce, cioè specchio e oro, è una delle invenzioni più spettacolari e nello stesso tempo squisite del barocco, declinata a Torino e in Piemonte in una versione par-ticolarmente pregevole.La specchiera in mostra è un esemplare tra i più alti. La razionalità del corpo specchiante, inscritto nella geometria di un rettangolo puro e senza fronzoli, si converte in capriccio sinuoso nel fastigio, dove trionfa il gioco delle serpentine e delle «C» contrapposte a sostegno di un grandioso ventaglio vegetale. L’inta-glio raggiunge il livello del prezioso e sembra opera di orefice più che di scultore in legno. Altrettanto vale per l’intensità della doratura, che conferisce al legno riflessi metallici senza privarlo della sua morbidezza.Impossibile, allo stato attuale delle ricerche, risali-re all’autore della specchiera, uno dei tanti anonimi

artisti che continuarono una tradizione di maestria dell’intaglio decorativo: nel Seicento era stata la di-nastia dei Botto, nei decenni a cavallo fra i due secoli una scuola che porta i nomi di Cesare Neurone, Mi-chele Crotti, Francesco Borrello, Vincenzo Possino, Giacomo Brahery, Michele Antonio La Volée (cfr. scheda n. p???). Nel maturo Settecento (qui siamo in-torno a metà secolo) l’anonimato si sta riducendo: a quelli che erano poco più che nomi si vanno ricol-legando le opere, come per Giovanni Luigi Bosso, Giuseppe Gianotti, Pietro Giuseppe Valle, Giusep-pe Stroppiana, Giuseppe Marocco (cfr. scheda n. p.???), Giuseppe Gianotti (cfr. Antonetto in questo volume pp. ??? Bolgié), Felice Tamiati: tutti attivi in Palazzo Reale come documentato in una recente pubblicazione (Dardanello 2016). Va precisato che gli intagliatori erano riconosciuti come artisti veri e propri, e come tali non erano iscritti all’università dei minusieri, ma all’Accademia di San Luca.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Antonetto 2010, II, pp. 184-185.

14. intaGliatorE torinEsE

Specchiera intagliata e dorata, metà del xviii secolo circa.

Legno intagliato e dorato, lastre di vetro variamente sagomate, 195 x 102 cm.Collezione privata.

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4.Il maestro Pietro Piffetti ebanista del re

Si celebra con una serie di veri capolavori il più famoso degli ebanisti piemontesi attivi per la corte sabauda nel Settecento e il solo affermato a livello nazionale ed europeo.Pietro Piffetti (Torino 1701-1777) si forma a Torino come apprendista presso l’ebanista Ludovico de Rossi. Rimanda al periodo romano, dove lavora intorno al 1730-1731 in parallelo al francese Pierre Daneau, il tavolo con piano ricoperto di una spettacolare marqueterie delle collezioni Intesa Sanpaolo. A quella data, in Torino e ormai nominato ebanista di Sua Maestà, il maestro realizza il Gabinetto del Segreto Maneggio di Palazzo Reale su disegno di Filippo Juvarra, architetto di riferimento anche per gli interni decorati, così come sarà il successore Benedetto Alfieri. Sono datati al 1738 e al 1741 il superbo cassettone del Quirinale e la scrivania di Cà Rezzonico a Venezia, restaurati per l’occasione insieme al citato tavolo. Le composite raffigurazioni incise sull’avorio, con virtuosistiche decorazioni in madreperla, tartaruga e legni pregiati evidenziano la derivazione colta da repertori figurativi di incisioni che circolavano in Italia e in Europa, che caratterizzano anche il cofanetto di Palazzo Reale e l’armadio pensile della Fondazione Accorsi. Esposto per la prima volta, il cassettone Morozzo documenta la committenza privata nobiliare e gli intarsi a trompe l’œil tipici dell’artista.

[ElisabEtta ballaira, silvia Ghisotti]

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Esemplare di una coppia di cassettoni, il mobile presenta un ricco apparato decorativo composto da sinuosi intarsi in legno chiaro e avorio su fondo la-stronato in legno di palissandro su cui si stagliano, con grande contrasto, motivi a nastro tra fiori e race-mi in avorio inciso e legno di bosso. L’intera struttu-ra, telaio, fianchi, fodera, fondo e montanti e anche il piano, solitamente realizzati in noce, è in legno di pioppo, a eccezione dei cassetti in legno di noce, per creare la sagomatura del fronte del mobile. Poggia su quattro sostegni scolpiti a ricciolo, dorati. Quattro grandi placche in avorio inciso minutamente, una sul piano, due sui fianchi e una sul fronte costituiscono l’elemento decorativo principale. Sul piano di forma mistilinea, con angoli frontali smussati, la lastra in avorio reca incisa la sigla «P.P».La prima menzione della coppia di cassettoni risa-le al 1848-1850 in un inventario del Guardamobile del Castello di Moncalieri (Morozzi 1998, p. 210); nel 1860 sono ricordati nella «Sala di compagnia della Regina» nel nuovo appartamento a destra di quella residenza «[N.o] 888. 2 Commodes a Burò con tre tiratoj caduni, aventi tre medaglioni d’avo-rio caduno con piede di legno a voluta dorati simili alla scrivania». Nel 1880 sono ancora lì «[N.i] 2615, 2616. Due cassettoni dello stesso genere a tre cassetti con serratura e maniglie di bronzo dorato, intarsiati similmente con modiglioni e piano riccamente con-tornato di rabeschi, piedi di legno dorato scolpito di genere barocco» (Ferraris 1992, p. 98). Come è noto,

nel 1888 assieme ai due cassettoni vennero inviati al Quirinale anche la coppia di piedistalli e il cassetto-ne a ribalta con scansia realizzati dal grande ebanista piemontese. I cinque pezzi compaiono nell’elenco, datato 20 settembre 1888, degli oggetti spediti da To-rino a Roma per essere sistemati nella Sala da ricevere dell’Appartamento Imperiale allestito per la visita di Guglielmo II di Germania avvenuta nell’ottobre di quell’anno (Morozzi 1998, pp. 147-148, 210). Secondo Ferraris (1992, p. 44) i cinque mobili del Piffetti avrebbero fatto una breve sosta nell’apparta-mento del duca d’Aosta, probabilmente in occasione delle nozze di Amedeo con la nipote Maria Letizia Bonaparte celebrate l’11 settembre 1888.Per le figurazioni delle placche in avorio graffito del mobile in esame l’artista attinge a diversi repertori iconografici di incisioni fiamminghe del xvii seco-lo, rimaneggiate e assemblate con altri soggetti. Sul fronte del mobile inserisce all’interno della cartella incorniciata da foglie una scena campestre tratta dal dipinto Animali in un cortile di Pieter van Laer detto il Bamboccio, inciso da Jan van Ossenbeek; dello stes-so autore è il soggetto riprodotto in una parte dell’in-tarsio sul piano dell’altro cassettone (inv. PR 369); sul fronte di quest’ultimo vi è una parte di una scena campestre incisa dall’olandese Nicolaes Berchem. Per i fianchi dei due cassettoni Piffetti impiegò alcu-ne vedute bucoliche di Remigio Cantagallina, incise nel primo Seicento da Giulio Parigi. Analogamente a quanto realizzato per le nove grandi placche ebur-

nee del mobile a doppio corpo del Quirinale, anche in questo caso l’artista rivela una notevole capacità di «modernizzare incisioni create oltre cento anni prima, attualizzandole, eliminandone nessi che gli sembrano inutili e ripetitivi, sdoppiandole, scindendole» (Cifa-ni, Monetti 2005a, p. 41).Per quanto sia da ritenere non pertinente il documen-to del 1738 riferito a due «Bureaux di noce nostrale, guarniti con placcaggi particolari e averli ferrati con serratura all’Inglese [...] fatti e spediti in d. anno per servizio di S.M.», poiché non si accenna all’avorio (Ferraris 1992, p. 202 doc. n. 51), tuttavia l’esecuzio-

ne dei due cassettoni è riconducibile a quel periodo, in stretta vicinanza cronologica con la coppia di pie-distalli per la residenza torinese di Palazzo Reale risa-lenti agli anni 1736-1737, destinati a reggere le statue eburnee di un San Michele e il Ratto di Proserpina.

[luisa Morozzi]

Bibliografia: IV Esposizione Nazionale, 1880, pp. 36 n. 6, 37 n. 15; Telluccini 1921, p. 68; Pedrini 1953, figg. 274-275; Mostra del barocco 1963, III, cat. 8; Antonetto 1985, pp. 298, 301; Ferraris 1992, pp. 96-99; González-Palacios 1996, pp. 140-147; Moroz-zi 1998, pp. 209-211; Cifani, Monetti 2005a, pp. 23-52; Anto-netto 2010, I, pp. 216-217.

15. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Cassettone, quarto decennio xviii secolo

Legno di noce e pioppo lastronato in legno di palissandro con intarsi in avorio e bosso; intagli in legno dorato; applicazioni in bronzo dorato, 89 x 133 x 63 cm.Roma, Palazzo del Quirinale, I Appartamento Imperiale, Salotto del Piffetti.Inv. PR 370; DP 1669; DC (1911-1954) 10535; DC (1872-1911) 38491; DC Moncalieri (1880) 2616.Restaurato in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale».

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La scrivania si compone di due parti: un tavolo dalle linee sinuose, su quattro gambe a grandi volute che si raccolgono al centro in due riccioli, e un sopralzo su cui si aprono dodici cassetti. Al centro dello scrittoio si alza un pannello per appoggiare i libri, decorato da un ornato a girali e foderato in velluto verde.Il mobile presenta su tutta la superficie una decora-zione a intarsio particolarmente raffinata, con rami in fiore, palmette, arabeschi, medaglioni e volute rocaille. Sul dorso, in un medaglione chiuso entro una corni-ce, è raffigurato un paesaggio con un vecchio intor-no al quale si stringono quattro bambini. La scena è derivata da un’incisione degli Emblemata Horatiana di Otto Vaenius, una raccolta di massime morali di Orazio edita ad Anversa nel 1612. Si tratta del motto «Amici vitium ne fastidias» che invita a non curarsi dei difetti dell’amico, così come fa il padre, che mette in ombra i difetti del figlio esaltandone le virtù. A differenza dell’incisione originale in cui i personaggi sono inseriti in un interno, Piffetti ambienta la scena in un paesaggio con colonne classiche in primo piano e un paese sullo sfondo.Alla base della raffigurazione compaiono la firma e la data dell’opera, realizzata a Torino nel 1741. Resta ancora da chiarire a chi essa sia appartenuta: l’arrivo al Museo Correr di Venezia risale al 1919 per legato di Eugenio Fabbro (Venezia 1920, p. 314, e ringrazio Alberto Craievich per la segnalazione), ma rimane oscura la storia precedente.L’opera gode di grande fortuna espositiva. Alla mo-stra del «Settecento italiano» di Venezia essa figura

nella sala n. 36, intitolata «Sala del Piffetti», con ope-re del maestro provenienti da Palazzo Reale, dalla collezione Thaon di Revel, da Palazzo Chiablese, e con mobili di altri ebanisti piemontesi da Palazzo Chiablese, da Stupinigi e da Palazzo Pitti, nonché lavori a intarsio dei Maggiolini.Nel 1937 troviamo la scrivania alla «Mostra del ba-rocco piemontese» di Torino. Si tratta di una mostra ricchissima, purtroppo senza catalogo, che conoscia-mo attraverso le fotografie conservate nella Fototeca dei Musei Civici, gli archivi e la stampa dell’epoca: e la vediamo illustrata nell’articolo di Valentino Brosio uscito nel 1937 sulla rivista «Emporium», esposta in abbinamento con un arazzo delle storie di Artemisia del Museo Civico di Torino.Inizia così la lunga permanenza della scrivania a Torino. Finita la mostra, il prezioso mobile rimane a Palazzo Madama, con l’accordo tra il direttore del museo torinese Vittorio Viale e Giulio Lorenzetti direttore del Museo Correr di effettuare un cambio definitivo, o con un’opera veneta del museo (e vie-ne proposto senza successo l’inginocchiatoio di Bru-stolon) oppure con l’acquisto di un’opera di valore equivalente (Archivio FTM, CAA 1299). L’anno successivo, al Comitato direttivo del 16 ottobre 1939 se ne propone l’acquisto per 30.000 lire (Archivio FTM, CAP 8). La questione rimane aperta: l’og-getto per lo scambio non si trova, ma la scrivania continua ugualmente a rimanere a Torino e fa bella mostra di sé in Camera di Madama Reale (Archivio fotografico FTM, foto 910_1954).

Nel 1963 viene esposta a Palazzo Reale alla «Mostra del barocco piemontese» (ibid. Foto 618_16736 e n. 11602 con Viale all’inaugurazione) e di nuovo alla chiusura dell’esposizione il mobile si ferma a Torino,

finché nel 1968 viene concordata la restituzione, pre-vio intervento di restauro per consentire all’opera di viaggiare in sicurezza. L’11 dicembre 1968 Giovan-ni Mariacher, all’indomani del rientro dell’arredo a Venezia e allestimento a Ca’ Rezzonico, può scrive-re al direttore Luigi Mallè «Il caso [...] Piffetti è così concluso felicemente».

[ClElia arnaldi di balME]

Bibliografia: Venezia. Studi di arte, vol. I, 1920, p. 314; Il Settecento italiano 1929, p. 145 n. 8; Barbantini 1932, figg. 135-136; Brosio 1937, p. 439; Mostra del barocco 1963, vol. III, p. 19, n. 21, tavv. 28-29; González-Palacios 1969, vol. II, figg. 69-70; Antonetto 1985, pp. 307-308; Ferraris 1992, pp. 100-101; Cifani, Monetti 2005, p. 38; Antonetto 2010, I, p. 218, p. 218; Facchin 2013, pp. 46, 48, 53.

16. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Scrivania, 1741

Legno di noce impiallacciato in legno violetto e altri legni preziosi, intarsi in avorio; velluto di seta verde tagliato unito, 110 x 163 x 85 cm. Firmata e datata sul medaglione nel grembiale «PEtrus PiffEtti inv. / dEli. fEC. Et sCul. / taurini 1741».Venezia, Fondazione Musei Civici, Ca’ Rezzonico - Museo del Settecento Veneziano, inv. Cl. XIX 0366.

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L’armadietto, che fa coppia con un altro del tutto identico per forma e dimensione (non esposto in mo-stra), entrati entrambi a far parte delle collezioni del Museo grazie a una donazione, è composto da due ante, sormontate da una cornice centinata. L’intera struttura in legno di pioppo, elegantemente modellata sui lati con fianchi stretti e concavi, è decorata con una impiallacciatura di palissandro disposta a spi-na di pesce sopra la quale è collocato il ricchissimo apparato decorativo in avorio e tartaruga; i soggetti, con putti intenti nella lavorazione dell’avorio nei me-daglioni sulle ante e le straordinarie raffigurazioni di objets de vertu sui fianchi, sono da ricondurre alle stam-pe pubblicate da Charles Plumier nel suo volume L’art de tourner en perfection del 1701, come hanno cor-rettamente individuato per la prima volta Arabella Cifani e Franco Monetti (Cifani, Monetti 2009, pp. 9-21). La decorazione è completata sulla parte alta delle ante da trofei di strumenti dell’arte del tornio, sempre ripresi dal volume di Plumier, e da un ricco repertorio ornamentale fatto di racemi, fiori e palmette che qui come altrove caratterizza la produzione pif-fettiana.Pur non essendo firmato, l’armadietto riporta ele-menti decorativi ricorrenti nella produzione stilistica

17. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Armadietto pensile (uno di una coppia), secondo quarto del secolo xviii

Legno di pioppo intagliato, lastronato e intarsiato, avorio inciso e tartaruga, 120 x 67 x 14 cm.Torino, Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto.

di Piffetti, che rimandano soprattutto a opere degli anni trenta del Settecento e comunque non trop-po in là rispetto all’assunzione dell’incarico regio del 1731.Una comparazione può esser fatta ad esempio con l’alzata a un’anta del doppio corpo con ribalta della Palazzina di Caccia di Stupinigi (n. inv. 2347), da-tato 1731-1735, con cui condivide non solo la struttu-ra in legno di pioppo e le giunzioni a tenone e mortasa (Spantigati, De Blasi 2011, pp. 80-84), ma soprattut-to la forma del coronamento, centinato e poggiante su un modiglione svasato, con identici motivi decorativi in avorio e con l’elegante variazione sul tema del ribal-tamento del motivo fitomorfo centrale.Per quanto riguarda la destinazione d’uso, il ricco apparato iconografico rende credibile l’ipotesi che l’armadietto potesse esser stato concepito per contene-re una collezione di piccoli e preziosi manufatti tor-niti, appartenuti alla committenza, che potrebbe aver indicato il programma decorativo (Antonetto 2010, pp. 175-178).

[albErto tosa]

Bibliografia: Cifani, Monetti 2009a, pp. 9-21; Antonetto 2010, I, pp. 175-178; Mana 2013, pp. 128-133.

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Il tavolo di Intesa Sanpaolo, insieme al gemello con-servato al Victoria and Albert Musem di Londra (inv. W. 5, 1985), fa parte di un gruppo di quattro collegati da strutture e da piani molto simili.Gli altri due sono nel Museo Civico d’Arte Antica in Palazzo Madama, e portano i numeri di inventario 1348/L e 1349/L. Il primo è pervenuto al museo per dono del Principe di Piemonte nel 1931, il secondo per acquisto nel 1902.Gli elementi di maggior interesse dei tavoli sono le mense, di sagome identiche nei quattro mobili, rico-perte di una spettacolare marqueterie: la restante parte degli arredi è visibilmente di qualità inferiore e senza corrispondenze figurative con i piani. Nel tavolo di Intesa Sanpaolo e in quello del V&A l’apparato decorativo dei piani è praticamente lo stes-so: un cesto fiorito poggiante su una mensola a ma-scherone è immerso in un viluppo di girali fogliacei e cespi fioriti. Nel primo tavolo due uccelli rapaci, con vividi occhi di madreperla, poggiano simmetrici e contrapposti su una voluta dei racemi. Nel secondo si aggiungono, proprio ai lati del cesto, un uccellino e una farfalla.Sono da tempo acquisite alcune notizie sul tavolo del Sanpaolo e sugli altri tre: la derivazione dal repertorio floreale europeo, la vicinanza a due tavoli da muro esistenti nella villa medicea della Petraia, l’incertez-za sui documenti. Fra le notizie una è di maggior interesse: in collezione privata sono stati scoperti da

18. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Tavolo da muro, secondo quarto del xviii secolo

Struttura in legno di noce, lastronato in palissandro, intarsiato, legni vari policromi e avorio inciso. Applicazioni in bronzo dorato. Alla tablette puttino al cannocchiale, in bronzo, nella maniera di F. Ladatte, 88 x 183 x 83 cm.Collezione Intesa Sanpaolo per acquisto nel 1962 dall’antiquario Pietro Accorsi.Restaurato in occasione della mostra presso il Centro Conservazione Restauro «La Venaria Reale».

Alvar González-Palacios due tavoli con piani sor-prendentemente simili ai nostri. Etichette cartacee incollate sul retro li riconducono all’ebanista francese Pierre Daneau, attivo a Roma, e all’anno 1731. È perciò legittima l’ipotesi che nel suo soggiorno romano Piffetti abbia frequentato la bot-tega di questo ebanista (cfr. medaglione biografico Piffetti, p. ???).Un piccolo rebus riguarda il foglio di musica deposto a trompe-l’œil in un angolo del piano della console di Intesa San Paolo. Vi si leggono le battute introduttive dell’aria «Nel cuore più non mi sento brillar la gioventù», come si legge del resto in capo allo spartito. L’aria appartiene a una opera di Paisiello, L’amor contrastato (più nota in seguito con il titolo La Molina-ra), che fu rappresentata per la prima volta nel 1788 a Napoli. Ma in quel momento Piffetti era morto da undici anni, e comunque il tavolo, per ragioni stilistiche, si colloca tre-quattro decenni prima. Per quale ragione e a chi venne in mente di inseri-re lo spartito, nella maniera stessa di Piffetti che più di una volta aveva intarsiato musica nelle sue creazioni?E perché la pagina fu inserita «al contrario», con il senso di lettura rivolto verso il muro, come per creare deliberatamente una difficoltà nell’osservatore? Ancora: nella console di Londra è intarsiata l’imma-gine di un volumetto rilegato dal titolo Il ritorno del

cuore a Dio, che potrebbe riferirsi all’opera cinquecen-tesca del padre Francesco de Salazar Il ritorno del cuore umano a Dio, o ispirarsi Sant’Agostino: «Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore sarà inquieto finché non riposerà in Te». Il fatto è che i due mobili sono accomunati da un

filo di tristezza del tutto inconsueto: la perdita della gioventù e la morte.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Antonetto 2010, I, pp. 159-163 (con bibliografia precedente).

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L’inventario redatto nel 1755 è il primo a registrare nel «Gabinetto della libreria verso mezzanotte, e po-nente» dell’Appartamento del Re a Villa della Regi-na pochi, ma preziosi arredi: una tavola in tartaruga e avorio intarsiata con scene dell’Assedio di Pizzi-ghettone e la Battaglia di Guastalla, due sputacchiere di noce e «sei taboretti [...] con piedi a marchetteria d’avorio» (Griseri 1988, p. 28). Nel piccolo cabinet di Carlo Emanuele III tutto era organicamente collega-to e precisato nel dettaglio più minuto: la boiserie a scomparti si sviluppava idealmente nell’ornato della volta dipinta da Giovanni Francesco Fariano con medaglioni a grotteschi in blu e oro su fondo avorio a simulare la porcellana. La libreria a scaffale, lastro-nata con essenze pregiate e impreziosita da placche in avorio a soggetti floreali, trasferita al Palazzo del Quirinale nel 1876 (Morozzi 2005, pp. 111-112), era stata realizzata da Pietro Piffetti, ebanista di corte e so-vrintendente al mobiliere, tra il 1735-1740 (Mossetti 2005, p. 129), così come il pavimento a decorazioni floreali intarsiate rimasto in loco. Completava l’arre-do la tavola parietale anch’essa al Quirinale, rivestita in tartaruga con intarsi in avorio a simulare fogli e stampe poggiati sul piano, in uno dei quali si legge ancora la firma di Piffetti.La concezione della Libreria del Re non è lontana da quella del Gabinetto del Segreto Maneggio di Palaz-

19. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Sgabello di una serie di sei, 1735-1740

Struttura in legno di noce, lastronatura in palissandro e intarsi in avorio e bosso; intagli dorati a rivestimento dei piedi; rivestimento della seduta in tessuto moderno, 53 x 43 x 43 cm.Torino, Musei Reali - Palazzo Reale (in deposito a Villa della Regina).

zo Reale (1731-1733), ideato da Juvarra con librerie a doppio corpo realizzate da Piffetti con l’aiuto di Ladatte per le decorazioni in bronzo dorato (Pette-nati 2005, p. 212). Un termine post quem per la sua realizzazione è settem-bre 1734, data della battaglia di Guastalla celebrata nell’intarsio della tavola parietale. I sei sgabelli, rima-sti a Torino dopo la cessione della Villa all’Istituto Nazionale per le Figlie dei Militari Italiani, nel 1880 erano inclusi tra i mobili destinati all’appartamen-to di Amedeo Ferdinando Maria di Savoia, primo duca d’Aosta, in Palazzo Cisterna, all’epoca di pro-prietà della consorte, Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna. Rientrarono a Palazzo Reale solo dopo la morte del duca, nel gennaio 1890, e furono collocati nella Camera da letto di Carlo Alberto. Segnalati nel 1963 da Viale (v. III, tav. 191 a) con riferimento a Luigi Prinotto, nel 1992 Ferraris li identificava con quelli in origine a Villa della Regina (Ferraris e Gon-zález-Palacios 1992, p. 82, n. 31; Antonetto 2010, p. 202, n. 31; Manchinu 2017, pp. 162-163, n. 42a-b).

[Paola ManChinu]

Bibliografia: Mostra del barocco 1963, v. III, tav. 191a; Griseri 1988, p. 28; Ferraris 1992, p. 82, n. 31; Morozzi 2005, pp. 111-112; Mossetti 2005, p. 219; Pettenati 2005a, p. 212; Antonetto 2010, I, p. 202, n. 31; Manchinu 2017, pp. 162-163, n. 42a-b.

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Il pannello è riconoscibile nel «quadro d’intarsiatura in cui vedesi un vaso di fiori, un fiasco, ed un libro superbamente lavorato da Pietro Piffetti ebanista di S. M.» che nel 1791 Amedeo Grossi ricorda nella «Sala, che serve per Refettorio a’ forestieri» del Re-gio Sacro Eremo di Torino (dei Camaldolesi) e ma-gistralmente restituisce i caratteri della produzione dell’artista nel secondo quarto del secolo. I caratteri compositivi e tecnici lo avvicinano alle soluzioni adottate nel cofano forte di Palazzo Rea-le (eseguito per il Gabinetto del Pregadio del re) e in alcuni ripiani di tavoli (cfr. qui la scheda n. 18), che, come è già stato più volte richiamato, evocano le opere realizzate ad Amsterdam da Jan van Meke-ren ed ancor più gli esempi romani di Pierre Danau o quelli fiorentini di Leonardo van der Vinne. Con un più accentuato insistere sugli effetti pittorici, gli aspetti iconografici rimandano alle composizioni

20. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1770)

Vaso di fiori con rovine, 1735-1740

Legno di noce lastronato in legni di bosso, frutto, palissandro, avorio, tartaruga, madreperla e metallo, 75 x 59 x 1,7 cm.Firmato sul libro «PiffEtti f.».Collezione privata.

floreali fiamminghe diffuse non solo in pittura, ma anche attraverso ricchi repertori di incisioni e l’imma-gine riprodotta nel libro aperto in primo piano è tratta da un’incisione del Quinti Horatii Flacci Emblemata di Otto Vaenius. Colpisce l’insistita ricerca della resa prospettica: le rovine architettoniche sulla sinistra rimandano al Geometria e perspectiva di Lorenzo Stoèr del 1557, e una serie di particolari, come lo scorcio del tavolo su cui poggiano gli oggetti ed ancor più la finta cornice dalla cui sommità fuoriescono illusivamente i fiori, fanno pensare ad attente riflessioni sulle tarsie dei cori lignei e degli studioli rinascimentali.

[Carla EnriCa sPantiGati]

Bibliografia: Grossi 1791, pp. 78-79; Cifani, Monetti 2000b; Antonetto 2010, I, p. 225; Mana 2013, p. 78, Spantigati 2014b, p. 31.

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Dato per assodato che spetti al Piffetti, per i caratteri tipologici e della decorazione, per l’utilizzo di temi e motivi, per la sua stessa presenza nelle raccolte sa-baude (all’epoca della mostra del 1880 apparteneva a S.A.R. il duca d’Aosta e si trovava nel palazzo di via Maria Vittoria, come ricorda Antonetto 2010, I, p. 227); inoltre per il suo rispondere, in qualche modo, data l’esuberante articolazione delle masse e l’eccesso decorativo (horror vacui definito dal Ferraris 1992, p. 116), ai due famosi doppi corpi della Fon-dazione Accorsi e del Quirinale, persino per la sua somiglianza colla parte superiore dell’urna di madre-perla (pure fornita di sirene) oggi a Londra (ancora Ferraris 1992, pp. 76-77), nondimeno quest’opera rimane enigmatica, sia perché non è mai stata rico-noscibile in alcun documento, sia perché non è ancor stato possibile spiegare compiutamente quello che ap-pare un parlante complesso iconografico, comprensi-bile sol che se ne conosca la chiave.Oltre la base quadrangolare con lati a forte concavità, quasi schiacciata dagli arricciolati piedi sbordanti, la decorazione del corpo e del coperchio, affidata all’a-vorio, appare particolarmente virtuosistica, sotto l’in-serto terminale di un bouquet di fiori in bronzo dorato, con quattro serti di ghirlande. L’interno, rivestito di velluto verde, mostra quattro piccoli vani circolari, atti a proteggere piccoli contenitori. I quattro meda-glioni degli smussi angolari del coperchio ospitano figure non identificate, e la folla di personaggi marini in metamorfosi non ci ha ancora rivelato il senso che ne muove gesti ed imprese. Il lato frontale mostra una scena quasi araldica, con sirena e tritone intorno a un

21. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Cofanetto, 1740-1750 circa

Legno intagliato, lastronato in noce e palissandro; intarsiato in bosso, avorio inciso; bronzo dorato e velluto tagliato unito, 47 x 42 x 40 cm.Torino, Musei Reali - Palazzo Reale, inv. 7099 (1966) DC 11704 (1908), 21491 (1880).

ampio cartiglio; gli altri inserti sono più narrativi: in riva al mare o sul bagnasciuga, creature d’ogni genere s’affollano sulla scena, sirene e tritoni che producono suoni soffiando nelle conchiglie, cavalli con le zampe in forma di pinne, grandi putti, e serpenti e pesci mo-struosi; dove conduce, e chi, quella nave che appare a vele spiegate? L’Antonetto (cit.) ha giustamente rile-vato una certa consonanza con scene delle incisioni di Giovanni Andrea Maglioli, attivo a Roma tra 1580 e 1610, per queste figurazioni poco frequenti nelle ope-re del Piffetti, ma che pure in parte riconducono a particolari di una delle scrivanie di Waddesdon Ma-nor (Ferraris 1992, pp. 112-113) o al ripiano delle li-brerie del Gabinetto del Segreto Maneggio; altre con-nessioni coi modelli del pittore Nicolas Loire, ancora in voga in avanzato Settecento (Spantigati 2014, p. 104). Fantasie che riemergono da un inquieto tardo Manierismo, non estraneo del resto al nostro ebani-sta, come conferma il rapporto con tutto un repertorio naturalistico fiammingo o con incisioni francesi, già in passato richiamato da uno studio di M. Trionfi Honorati (1977, pp. 38-47).Il fatto è che l’ebanista, coi suoi soggetti allegorici e mitologici, tratti dalla storia antica o sacra (con rap-porti con ambienti ecclesiastici di alta cultura), mo-stra considerazione per tutta una vasta imagerie, rica-vata, non fosse altro, dal contatto con la cultura dei grandi architetti che lo dirigono, da Juvarra, con tutti i suoi diramati rimandi al mondo romano (e a Roma fu, più volte, anche Piffetti), all’Alfieri, portatore di attenzione soprattutto verso il mondo francese, che comprende i grandi repertori di incisioni che passe-

ranno ad influenzare il mondo centro europeo, e basti citare Meissonnier, che del resto, con la sua origine piemontese, può chiudere il cerchio della migrazio-ne d’influssi. In conclusione, se un esame minuto del cofanetto non sembra alimentare dubbi sull’accetta-zione sostanziale dell’attribuzione già sostenuta, non pare, nondimeno, contribuire a dipanare gli affasci-

nanti interrogativi che ancora circondano certi tratti della personalità artistica del «Re degli ebanisti».

[franCo Gualano]

Bibliografia: Il Settecento italiano 1929, p. 145, n. 5; Ferraris 1992, pp. 115-116, scheda n. 42; De Blasi, Barbero 2007, pp. 258-259; Antonetto 2010, I, pp. 226-229; Spantigati 2014c, p. 104.

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Il marchese Ludovico Morozzo della Rocca e di Bianzé (1704-1767) fu raffinato collezionista e com-mittente di opere d’arte; fra i numerosi e importanti artisti che avvicinò durante la sua non lunga vita) vi fu anche il grande ebanista Pietro Piffetti (1701-1777).Per il suo splendido palazzo torinese, purtroppo di-strutto durante la seconda guerra mondiale, Morozzo ordinò al Piffetti un cassettone che potesse riunire in-sieme l’utilità pratica di un mobile, la bellezza di un capolavoro di ebanisteria e il ricordo di una persona che al marchese era stata molto cara: il padre oratoria-no Giovanni Battista Trona (1682-1750), oggi vene-rabile, la cui attività si svolse prevalentemente a Mon-dovì, ma che ebbe modo di conoscere e frequentare gli ambienti di corte a Torino, stimato consigliere di Carlo Emanuele III di Savoia (1701-1773) e del suo primo ministro, il potente marchese Ferrero d’Ormea (1680-1745).Il superbo mobile, a quattro cassetti, con maniglie e serrature in ottone dorato, è emerso recentemente da una collezione privata con il carico della sua storia affascinante: un vero e proprio spaccato di quella del Piemonte del Settecento. Lo scafo in pioppo è la-stronato in legno violetta e sul piano del mobile sono intarsiati alcuni oggetti realizzati con diverse essenze lignee, avorio, tartaruga e metalli. Una penna d’oca con accanto il coltellino per appuntirla; una lettera sigillata con ceralacca rossa sulla quale è impresso lo stemma dei Morozzo (d’oro alla banda di nero, di

22. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Cassettone, 1751

Legno di pioppo impiallacciato in violetta e palissandro, con piano intarsiato in avorio inciso, tartaruga, metalli e legni vari; maniglie, bocchette e ornamenti in ottone dorato, 98 x 132 x 62 cm.Firmato e datato sul frontespizio del libro intarsiato sul ripiano: «in torino, MdCCli. / nElla staMPEria di / PiEtro PiffEtti».Collezione privata.

doppio merlata); al centro del ripiano un grande libro aperto: un celebre lavoro di Giovanni Battista Trona intitolato «raCColta dEllE CosE Più PrinCiPali sPEttanti alla fEdE, alla sPEranza E alla Carita»; sotto il titolo è graffito un cuore ardente (in questo caso simbolo degli Oratoriani) e ancor più sotto corre la scritta: «in torino, MdCCli. / nElla staMPEria di / PiEtro PiffEtti». Sul libro è stato lasciato, appoggiato un rosario intarsiato in tartaruga. Sulla destra del piano, delle carte da gioco con semi francesi gettate in maniera casuale, come se una partita fosse appena finita. Il mobile, pur parendo sobrio, è in realtà frutto di un calibratissimo lavoro di minuseria e di ebanisteria illuminato da ottoni dorati simili a preziosi gioielli.L’Archivio Morozzo della Rocca non ha purtrop-po conservato tracce di pagamenti e di committenza del prestigioso cassettone eseguito da Piffetti, ma è comunque emerso che la committenza a Piffetti per questo mobile non fu un unicum. L’ebanista risulta infatti lavorare per i Morozzo almeno fin dal 1741, in compagnia di Luigi Prinotto (Cifani, Monetti, 2017, pp. 13-14).Il marchese di Morozzo fu in stretta relazione con pa-dre Trona e non fu certo una conoscenza generica. Trona scrisse infatti parte del suo libro Raccolta delle cose più principali spettanti alla fede, alla speranza e alla ca-rità nella quiete del castello di Rocca de’ Baldi, resi-denza avita dei Morozzo. Anche la stampa dell’opera nel 1741 si deve all’intervento economico di Giusep-

pe Francesco Ludovico Morozzo e così la stessa sua divulgazione.Con la scoperta di quest’opera un nuovo tassello di prestigio si viene ad aggiungere al ricco regesto del grande ebanista Pietro Piffetti. Il cassettone infatti, pur non appartenendo alla categoria dei mobili di corte ricoperti di intarsi in avorio ed altri materiali, non si presenta certo come lavoro di routine nella sua bottega, al contrario, la sua alta qualità lo pone in-vece come caposaldo significativo della sua esperien-za artistica e insieme opera documentata a favore di una grande famiglia piemontese. Come segnalato, il mobile reca la firma autentica del suo autore, sotto

la formula «nella stamperia di Pietro Piffetti», che l’ebanista usa anche nel celebre tavolino del Museo Civico di Torino con la «Geografia dei fanciulli», che Piffetti - esattamente come nel mobile Morozzo - firma come eseguito «nella stamperia di Pietro Pif-fetti 1758». Sono presenti anche altri stilemi cari al grande ebanista: la penna d’oca, con accanto il coltel-lino per appuntirla, gli occhiali a pince-nez, le carte da gioco buttate. La presenza del rosario ricorda invece la devozione di padre Trona per questa pratica reli-giosa. Pietro Piffetti offre ancora una volta nel mobile Morozzo un importante esempio della sua abilità nel realizzare piani di legno con trompe-l’œil. Fin dagli

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esordi infatti con il capo d’opera già all’Eremo dei Camaldolesi di Pecetto (Torino) (Cifani, Monetti 2000), che appunto rappresenta una natura morta in-tarsiata, l’ebanista rivela la sua singolare cultura, che comprende una precisa meditazione sulla tradiziona-le tarsia rinascimentale trompe-l’œil italiana, una ri-lettura personale del tema della natura morta romana e una attenta considerazione su analoghi motivi de-corativi trompe-l’œil fiamminghi, francesi, tedeschi. Il mobile acquista rilievo e luce da una ricchissima ornamentazione in ottone dorato e cesellato, che com-prende le bocchette delle serrature, le maniglie e i de-cori degli angoli. Si tratta di ottoni lavorati in fusione a cera persa, di grande raffinatezza e ricchezza. Piffetti era solito guarnire i suoi mobili ed oggetti con bron-zi o ottoni dorati assai ricchi e fu anche affiancato in alcuni casi dal grande scultore e bronzista Francesco Ladatte. Per questo mobile non è però ancora noto chi sia stato il bronzista e ciò per la grave carenza di studi in tale settore. L’Università dei Mastri Serraglieri fu fondata a Tori-no nel 1738, ma di essa si conosce assai poco e i mastri serraglieri affiorano solo raramente all’interno di ritro-vamenti documentari. La lavorazione è magistrale e la fonte di questi decori si deve ricercare in Francia, segnatamente nelle opere incise di Jean Berain, che

progettò anche serrature e maniglie; nei modelli di Jacques Caffieri (1678-1755) e soprattutto in quanto inventato dal più geniale design francese del tempo: Juste-Aurèle Meissonnier. Questi autori (ed anche molti altri maggiori e minori del periodo) godevano di immediata vasta risonanza tramite le stampe che a Parigi venivano incessantemente incise e traspor-tate in tutta Europa rapidamente quasi in presa di-retta. Torino era allora allineata con le altre capitali europee. Per ritrovare in Piffetti ornati per mobili di pari livello bisogna comunque portarsi direttamente al celeberrimo «doppio corpo» del Quirinale: la sua serratura di chiusura della parte superiore, il suo boc-chettone della serratura della ribalta e gli altri deco-ri appaiono pensati e eseguiti dallo stesso autore del nostro mobile. Altri mobili di collezioni pubbliche e private presentano modelli simili, ma sicuramente meno ricchi e meno fantasiosi, più usuali, di routi-ne: lo stesso Cassettone del Museo Civico di Torino, firmato e datato dal Piffetti nel 1760, appare fratello «minore» del presente mobile: paragonabile sì per il progetto generale, ma molto più semplice nel decoro (Antonetto, I, 2010, pp. 266-267).

[arabElla Cifani e franCo MonEtti]

Bibliografia: Cifani, Monetti 2017, con bibliografia precedente.

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Stando a una tradizione orale, al momento non suf-fragabile con documenti, la poltrona proviene, con altre identiche, dalla casa parrocchiale di Villanova Solaro (Cn), dove sarebbe giunta a seguito di una donazione da parte di un membro della famiglia Sa-voia-Carignano. Pietro Accorsi acquistò tutte le pol-trone nell’immediato secondo dopoguerra, tenendone tre per la propria collezione privata, tra cui quella qui esposta, e vendendo le altre. Di quest’ultime, oggi se ne conoscono quattro: una è stata acquistata in anni recenti dal Museo Accorsi-Ometto (pubblicata da Baccheschi 1964, p. 51); due erano, fino a qualche anno fa, in casa Bruni Tedeschi; mentre una quarta, di proprietà privata, è stata concessa in comodato alla Reggia di Venaria Reale. Si tratta di un magnifico esempio di arredo torine-se, risalente, per la forma mistilinea della struttura e i particolari dell’intaglio, ricavati all’interno di ampi bordi, a poco prima della metà del Settecento e pen-sato sul modello di coevi esemplari francesi. È nel-la Francia di Luigi XIV che fu codificato il nostro tipo di poltrona, noto con il nome di «fauteuil», un arredo destinato ad accogliere, durante le cerimonie pubbliche, i nobili di rango più alto, seguito, in ma-niera gerarchica, dalla «chaise à dos» e dal «tabouret» o «pliant», riservati, invece, ai nobili di lignaggio più basso.

23. MinusiErE PiEMontEsE

Poltrona, 1740-1750Legno di noce intagliato e dorato, velluto, 161 x 68 x 65 cm.Torino, Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto.

L’uso protocollare di questi arredi poteva essere og-getto di variazioni, legate al sesso e all’età dei presenti che dovevano, comunque, essere tutti di origine ari-stocratica. Dotata ancora del suo rivestimento origi-nale, in velluto rosso liscio, la poltrona faceva parte di un ampio fornimento da camera, il cui aspetto di-pendeva, quasi sempre, dalle scelte di un architetto progettista o di un disegnatore d’interni. A tal riguar-do, per il Piemonte, noti sono i pensieri di Juvarra per mobili destinati alle diverse residenze sabaude, così come conosciuti sono i progetti di Bernardo An-tonio Vittone per specchiere con consolle, la forma delle quali è tratta dai repertori a stampa di Nicola Pineau (Dardanello 2008, pp. 195-201). Un indiriz-zo di gusto, quest’ultimo, utile a contestualizzare, nel panorama torinese del dopo Juvarra, la nostra poltro-na, il cui aspetto prezioso e ricercato è avvicinabile a quello degli arredi che, sotto la direzione di Benedetto Alfieri, furono realizzati per Palazzo Reale, a opera di professionisti del settore, quali Giuseppe Marocco, Giuseppe Stroppiana, Giuseppe Micheletto, Pietro Giuseppe Valle, Francesco Nicola Damodé.

[luCa Mana]

Bibliografia: Mostra del barocco 1963, III, tav. 154b; Antonetto 1985, p. 211; Colle 2003, p. 468; Antonetto 2010, II, pp. 138-139.

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I due arredi sono testimonianza di un connubio fra arte dell’intaglio e arte del vetro che raramente è dato di incontrare nel Settecento piemontese.Si staccano infatti dalle consuete tipologie per l’im-piego di inserti di specchi incisi a motivi di baccelli e ovuli. Essi formano bassofondo in ogni parte della cornice, percorrendo con esili strisce anche i grandi ventagli di coronamento e di chiusura. L’effetto è quello di collane di perle affogate negli specchietti. Lo specchio centrale è in questo modo circondato da un anello luminoso, in cui l’oro delle nervature e le perle degli inserti si scambiano riflessi. Da notare il capric-cio degli ovuli disposti a corolla nel piccolo ovale, fra la conchiglia e il ventaglio superiore, e la grazia del-la testina inghirlandata sorgente da conchiglia sotto l’attaccatura del braccio portacandele. Quest’ultimo è in ferro battuto con tracce di doratura sulle foglie, e regge due bobèches in legno intagliato e dorato.

24. bottEGa torinEsE iGnota

Coppia di ventole, intorno alla metà del xviii secolo

Legno intagliato e dorato, specchi incisi; ferro battuto con tracce di doratura, 87 x 54 cm.Giordano Art Collections.

La coppia fa parte di una serie (probabilmente di trentasei, con varianti) distribuita fra Palazzo Reale e collezioni private. Alcuni esemplari sono privi della testina.La collezione alla quale appartengono i due arredi ne conserva altri che presentano la stessa tipologia decorativa, usciti probabilmente dalla stessa ignota bottega. Si tratta di una coppia di specchiere (Antonetto 2010, II, p. 186) e di un candelabro (Antonetto 2010, II, p. 259). Quest’ultimo sembra ispirato da un disegno di Ju-varra custodito nella Biblioteca Nazionale di Tori-no (Antonetto 2010, II, p. 258; BNT, Ris. 59.21, c. 23).

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Antonetto 2010, II, p. 250.

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I due gruppi in bronzo dorato raffigurano putti ala-ti che si slanciano avanti da una placca formata da volute rocaille, fiori, foglie e corolle portacero, in una composizione leggera e raffinata memore degli esempi parigini. La fortunata produzione di bronzi decorati-vi di Francesco Ladatte si pone come indispensabile complemento dell’arredo ligneo. Formatosi a Parigi, passato a Roma tra la fine del 1729 e il 1730 all’Aca-démie de France e attivo tra il Piemonte e la Francia con commissioni di rilievo fino al definitivo rientro a Torino nel 1745, lo scultore si orienta verso la cultura figurativa di Thomas Germain, Charles Cressent, Jean-Louis Lemoyne e Jacques Caffiéri. L’8 gennaio 1745 viene nominato «scultore in bron-zo di Sua Maestà»; la sua attività spazia dalle argen-terie alle statue in bronzo, dalle terrecotte agli appa-rati in cartapesta, dai bronzi che ornano i mobili di Piffetti agli orologi e alle appliques per l’arredo delle residenze.Il motivo dei putti ricorre con frequenza negli inter-venti di decorazione dei mobili (cfr. gli arredi del Gabinetto del Segreto maneggio degli affari di Stato a Palazzo Reale, realizzati da Pietro Piffetti su dise-gno di Juvarra), nelle chiese (al pilone del Santua-rio di Vicoforte del 1749-1750, sull’altare del beato Amedeo nel Duomo di Vercelli del 1758-1759 e nella chiesa del Carmine di Torino, 1761-1763) e nei piccoli gruppi scultorei in terracotta raffiguranti putti allegorici, molto apprezzati dai collezionisti per

25. franCEsCo ladattE (Torino 1706-1787)

Coppia di ventole a tre bracci con amorini e rocaille, 1750 circa

Bronzo dorato, 87 x 41 cm ciascuna.Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 1053/B.

tutta la prima metà del Settecento (Dardanello 2005 e Dardanello 2012b).Le appliques di Palazzo Madama vanno messe in rap-porto con l’attività di ornemaniste di Ladatte e con gli incarichi per le residenze di corte, considerando che tra il 1747 e il 1750 lo scultore realizza ben sedici ven-tole a cinque bracci e trenta a due bracci, candelieri, surtout d’argento e placche da camino per la Galleria del Daniel a Palazzo Reale (Dardanello 2005, pp. 300-301). La coppia del Museo Civico, acquisita nel 1910 dal-la Sala del Consiglio Comunale del Municipio di Torino, si confronta con altre serie di questo gene-re: Nettuno e Zefiro ispirati a modelli di Gilles-Marie Oppenordt, al Louvre (Tavella 2003, p. 59 e Dar-danello 2012, pp. 25-26) e La letteratura e La scultura illustrati nel repertorio di bronzi decorativi francesi di Pierre Verlet (1987, tavv. 10-11). Una replica suc-cessiva delle appliques di Palazzo Madama, già in col-lezione di Edoardo Agnelli e poi passata in proprietà della famiglia Bruni Tedeschi, è stata battuta all’asta col resto della raccolta nel 2007 (lotto 87).

[ClElia arnaldi di balME]

Bibliografia: Mostra del Barocco 1963, III, tav. 298; Mallè 1965, pp. 234-235, tavv. 284-285 (con foto errata che riproduce le appliques già Bruni Tedeschi); Natale 2002, p. 107; Colle, Griseri, Vale-riani 2001, pp. 110-113, n. 36; Griseri 2003, p. 49; Dardanello 2005, p. 301, tav. 73; Dardanello 2014, pp. 100-101; Darda-nello 2015, pp. 144-147; Arnaldi di Balme 2016, pp. 116-118.

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5.Il tardo Piffetti e Giovanni Galletti

Appartiene alla fase più matura della produzione di Piffetti il doppio corpo dalle linee di misurata eleganza, mai esposto al pubblico e appartenente alla Fondazione Cerruti di Rivoli. Nell’evoluzione stilistica di Piffetti, la tipica decorazione a valva di conchiglia profusa sul mobile si trasforma da rappresentazione naturalistica a stilizzazione estrema.Sono circa 200 le opere documentate prodotte da Piffetti e dalla sua bottega in 45 anni di lavoro per la corte, tra cui i due mirabili mobili a doppio corpo oggi al Quirinale e alla Fondazione Accorsi, la leggiadra libreria di Villa della Regina, portata al Quirinale, i virtuosistici paliotti del Vaticano e della chiesa di San Filippo a Torino, quest’ultimo eccezionalmente presente in Reggia nella contemporanea mostra «Restituzioni», progettata da Intesa Sanpaolo.Altre pregevoli opere illustrano la produzione di Giovanni Galletti, recentemente valorizzato dalla critica, che tenne bottega nella nativa Venaria Reale e fu successore di Piffetti nel 1777 come regio ebanista. È ancora in corso di definizione il catalogo dei suoi mobili che segnano il passaggio tra il barocco settecentesco e il neoclassicismo. L’elegante tavolino impiallacciato in radica di bosso è uno dei rari mobili di cui sappiamo essere stato realizzato per la Reggia di Venaria.

[ElisabEtta ballaira, silvia Ghisotti]

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La bellissima scrivania proviene dalla famiglia dei banchieri inglesi Baring baroni Ashburton, alla qua-le appartenne dalla prima metà del xix secolo fino al 1991. Fu presentata in asta Christie’s (Londra 11 giugno 1992, lotto 166) con il corredo di uno studio di Alvar González-Palacios. È testimonianza di un momento particolare nell’arco creativo di Piffetti, nel quale sono state da tempo individuate e sempre più si delineano due anime. La prima è nel virtuosismo di forme e nel turgore decorativo, all’apice nelle scri-vanie con scansia del Museo Accorsi-Ometto e del Quirinale: il Piffetti «arcibarocco», come è stato defi-nito. La seconda raffrena o addirittura ribalta l’estre-mismo inventivo della prima e sembra cercare il ver-tice più difficile dell’eleganza, quello della misura. È come se Piffetti, pago dell’aver dimostrato di quanta meraviglia sia capace l’arte dell’ebanista, voglia alter-nare la finesse alla grandeur, lo squisito allo stupefacen-te, il quartetto d’archi alla grande orchestra. Così è nell’Ashburton Cabinet.La sinuosità delle forme è ancora vibrante, ma tratte-nuta: nel raccordo fra i due corpi del mobile è tuttora presente l’idea delle due grandiose volute che Piffetti aveva mutuato dal disegno di Juvarra per le librerie del Gabinetto del Re, ma ora esse sono assorbite nella continuità del fianco e risultano percettibili soltanto da un lieve avvallamento. La valva di conchiglia, ele-mento principe del repertorio decorativo barocchetto, è passata da rappresentazione naturalistica a stilizza-zione estrema, ed è utilizzata da Piffetti come leitmotiv del mobile. Vi compare cinque volte: al centro del

26. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Scrivania con scansia, detto Ashburton Cabinet, 1770 circa

Struttura in pioppo e noce, lastronatura in palissandro (legno di violetto, legno di rosa), legno ebanizzato, bosso, avorio; applicazioni in avorio intagliato; specchio allo sportello; bronzi dorati, 230 x 88 x 50 cm.Rivoli (to), Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte.Deposito a lungo termine Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino.

coronamento è flessa all’indietro; sul piano di ribalta si apre a ventaglio e si dilata fino ad occupare l’inte-ra calatoia, dando vita ad una delle più straordinarie invenzione di Piffetti; si ripresenta in piccolo ai lati della ribalta e riappare a riempimento della nicchia fra i cassetti.Nella marqueterie del mobile è protagonista la nobiltà dei legni, in una composizione a griglia punteggia-ta da minuscole girandole bicolori (avorio e bosso). Lungo i profili del mobile una trama di sottili nastri d’avorio, resi più nitidi da un controfiletto color eba-no, asseconda i movimenti e conclude la loro corsa sollevandosi in riccioli intagliati a sporgenza. Appli-cazioni in avorio intagliato in forma di tralci fioriti, rosette e ancora conchiglie sono il suggello dell’inedi-ta raffinatezza dell’arredo.Il riferimento immediato è alla scrivania con alzata ad ali pensili un tempo a Palazzo Chiablese, infissa in una apposita nicchia, pagata a Piffetti nel 1768. Il fantastico mobile si trova ora all’estero, essendo passa-to dai duchi di Genova, eredi del palazzo, al mercato antiquario e poi in proprietà privata. La matrice cre-ativa è la stessa, nella scrivania di Palazzo Chiablese estroversa in principesca profusione di avori colorati e madreperle, qui nobilmente introversa. Lo stesso è il protagonismo, strutturale e decorativo, del tema della conchiglia; analogo il fondale di violetto a scacchiera. L’Ashburton Cabinet è figlio minore, ma non meno amabile della libreria Chiablese.Del tutto simile, con misure lievemente diverse (223,50 x 77,50 x 47,60), è il mobile conservato

nel Detroit Institut of Arts, pubblicato da Gonzál-ez-Palacios nel 1973. Questo presenta però un pro-blema tutto da risolvere: nell’anno 2000 la scheda del museo indicava i materiali in «Mahogany, oak, walnut, veneered with kingwood, ivory, and ebony stringing, ecc.». Nel 2008 i materiali erano diventati: «Kingwood, ivory, and ebony on wood carcass, mir-rors ecc». Che la carcassa del mobile sia in mogano è accertato: ma questo legno non fu usato a Torino come materiale di struttura prima dell’Ottocento.L’Ashburton Cabinet ha avuto una replica nell’Ot-tocento, nell’ambito del fenomeno delle copie di mo-bili celebri in epoca Napoléon III, che rispondeva al gusto di una classe alto-borghese sempre più ricca, de-siderosa di rappresentarsi con arredi importanti e assai tollerante in fatto di autenticità. Il più noto di questi copisti di lusso fu François Linke a Parigi, studia-

to da Christopher Payne: nel 2006 in asta Christie’s Londra (26 ottobre, lotto 45) è apparsa una dichiara-ta copia del mobile di Piffetti realizzata in Inghilterra intorno al 1865. Non risulta che altri mobili italiani abbiano avuto lo stesso singolare onore.L’Ashburton Cabinet appartiene alla Fondazione per l’Arte intitolata al grande collezionista Francesco Federico Cerruti. Nato a Genova nel 1922, fortuna-to imprenditore tipografico a Torino dove morì nel 2015, Cerruti raccolse nella sua villa di Rivoli trecen-to opere d’arte di primissima importanza: dipinti (dai fondi oro al Rinascimento agli Impressionisti ai con-temporanei), sculture, arredi, libri e oggetti preziosi.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: González-Palacios 1992, pp. 190-198, lotto 166; Payne 2003; Antonetto 2010, I, pp. 254-258.

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L’attribuzione a Piffetti risale a Vittorio Viale e alla Mostra del Barocco del 1963. Fu ripresa da Mallé nel 1971 e dallo scrivente 1985. Successivamente da nes-sun altro. Ma se questo non è Piffetti, non lo è nep-pure il notissimo Ashburton Cabinet (cfr. scheda ???) che presenta un corpo inferiore quasi uguale, identi-che stelline, identica marqueterie. E non lo è neppure la scrivania del duca del Chiablese (cfr. fig???). Sul lato frontale rientrante a nicchia il mobiletto è articolato in un cassetto superiore a piena profondità e in quattro cassettini di profondità ridotta, a fronte sagomata. Sul lato opposto la fascia superiore è un finto cassetto, e due sportelli danno accesso a un vano. Gli sportelli scorrono lateralmente su coulisses, si ripiegano su se stessi essendo suddivisi in senso verticale in due se-zioni incernierate e si dispongono parallelamente ai fianchi per evitare problemi di ingombro e instabilità.Nel tavolino, il tessuto decorativo è semplicemen-te una griglia di legno violetto in cui è disposta una

27. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Scrittoio da centro, 1760-1770Struttura in noce; lastronatura in legno rosa, violetto, palissandro, bosso, avorio; guarnizioni in bronzo dorato, 78 x 77,5 x 51 cm.Collezione privata.

scacchiera di quadrati in legno rosa, ciascuno dei quali costituito da quattro settori con le vene contrap-poste in modo da creare un effetto ottico di punte di diamante. Alle intersezioni della griglia si collocano minute stelle o girandole a otto petali, ciascuno dei quali suddiviso con certosina precisione in due spic-chi che accostano avorio e bosso. Sono le stesse del globo del Crocifisso nel Pregadio di Carlo Alber-to, e del cosiddetto Ashburton Cabinet della scheda successiva. Un doppio filetto di avorio e un nastro di palissasndro scuro delimitano le superfici.Il delizioso mobile non potrebbe essere più significa-tivo della svolta compiuta dall’ebanisteria rispetto alle convulsioni architettoniche e alle esuberanze decora-tive del barocco e del barocchetto.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Viale 1963, III, p. 22, tav. 44; Mallè 1971, II, fig. 700; Antonetto 1985, p. 326, fig. 492; Antonetto 2010, I, p. 253.

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Le forme innovative di Piffetti unite a una inedita sobrietà ornamentale caratterizzano il tavolino come uno dei più interessanti prodotti dal Regio Ebanista sul fronte privato.La lastronatura in un singolare palissandro scurissi-mo, fiammato sul piano e tendente all’ebano nel resto del mobile, nonché la presenza di un solo elemento ornamentale in avorio, distingue l’arredo da quello analogo della Fondazione Accorsi-Ometto di Tori-no, ampiamente ornato di serti e pendoni vegetali al piano, alla cintura e alle gambe. Sono simili i me-

28. PiEtro PiffEtti (Torino 1701-1777)

Tavolino, metà del xviii secolo

Struttura in noce, lastronatura in palissandro scuro, violetto, bosso, avorio inciso; piedi in legno intagliato e dorato, 73 x 70,5 x 58 cm.Collezione privata.

daglioni al centro dei piani, con lo stesso mosaico di minutissime stelle inscritto in uno scudo fogliaceo.Nel presente tavolino sono da notare, come unico ge-niale «eccesso» visivo, i calzari dorati sviluppati verso l’alto in proporzione nettamente maggiore del solito, che compensano con brillanti tocchi luminosi la se-verità dell’arredo.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Mostra del barocco 1963, III, p. 22, tav. 42; Antonetto 2010, I, p. 250.

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La cintura è decorata sui quattro lati da tralci vege-tali dorati centrati da testine, di gusto già neoclassico. Le gambe sono ornate con motivi incisi in oro su oro nella parte superiore, dipinti in oro sulla lacca ros-sa nel tratto intermedio e in oro su lacca verde nelle estremità.Il neoclassicismo è già una realtà nel tavolino, la cui datazione va spostata in avanti di un quarto di secolo rispetto a quella assegnata dal catalogo della Mostra del Barocco del 1963, che lo pubblicò alla tav. 89b con l’indicazione «Metà c. del xviii secolo».È comunque un fatto che tra gli arredi della transizione verso la nuova stagione del gusto, un passaggio felice per frutti copiosi e rilevanti, il tavolino spicca per classe e per una vivacità cromatica che, insieme alla linea particolare delle gambe, richiama Venezia.Non per nulla un tavolino a vassoio con frangia, avente sostegni e decorazione analoghi (Antonetto

29. bottEGa iGnota

Tavolino a vassoio, terzo quarto del xviii secolo

Legno di noce dipinto in rosso e verde scuro e dorato, 70 x 63 x 40 cm.Collezione privata (da Palazzo Valperga di Masino).

2010, II, p. 238, fig. 21), è classificato da una vecchia etichetta d’asta come «venetian table». Nel catalogo della Mostra del Barocco del 1963 (tav. 88 b) si rileva una ulteriore versione a vassoio con frangia di questa bella tipologia.L’arredo proviene dal palazzo torinese dei Valperga di Masino, all’angolo fra le attuali vie Arsenale e Al-fieri, i cui arredi furono dispersi in Asta Christie’s Roma, 23 febbraio 1988, e visibile nella foto di ca-talogo. La famiglia era una delle più importanti di Torino e il palazzo, acquistato nel 1780 e aggiornato ai nuovi canoni stilistici sotto la direzione dell’architetto Filip-po Castelli, era adeguato al rango.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Mostra del barocco 1963, III, tavv. 89b-88b; San Mar-tino 1993, p. 281; Antonetto 2010, II, 237.

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Lo scrittoio è disegnato con forte senso del movi-mento nell’arcata dinamica delle gambe e nell’ardita concavità della parte inferiore del corpo, che ospita di lato cassettini dal fronte asimmetrico, movimento che si placa solo all’altezza del cassetto superiore; il retro ospita due ampie portine scorrevoli, e tutta quanta la superficie è rivestita da tarsie in disegni irrequieti di stampo quasi astratto, che rivestono il mobile in calda e avvolgente sinfonia. È stato pubblicato da Antonetto, insieme ad altro dif-ferente arredo di Saint-Jean-Cap-Ferrat (2010, I, p. 93, 8a e 8b), già rilevando le quasi letterali citazioni delle linee dell’Ashburton Cabinet e altro tavolino attribuito a Piffetti (67-68, pp. 253-57), prima che si recuperasse un riferimento (già visibile in Mostra del barocco 1963, tav. 43 e p. 22) ancor più pertinente nello scrittoio esposto al Museo Accorsi-Ometto nel 2013 (Mana 2013, pp. 92-93): tale arredo, ivi assegnato al Piffetti, sembra del nostro il diretto antecedente e mo-stra caratteri tecnici e formali meglio sorvegliati.Se questo omogeneo gruppetto di arredi (come già affermava Antonetto per i due primi) rivela il rifles-

30. Ebanista torinEsE

Scrittoio da centro, 1770 circa

Legno intagliato, lastronato in noce e palissandro (violetto), intarsiato a mosaico di ebano, bosso e noce,78 x 67 x 45 cm.Torino, Musei Reali - Palazzo Reale, inv. DC 2300.Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale».

so delle invenzioni del Piffetti più tardo, degli anni sessanta-settanta, e i peculiari motivi a losanghe (cui però pare qui spavaldamente affidata quasi tutta la sostanza decorativa) appaiono anche nel cofano forte ora Accorsi (Mana 2013, pp. 74-75), il quadro del-le conoscenze non sembra neanche ora sufficiente a chiamare in causa la sua diretta autografia, ma sem-mai a riferirsi ad artefice torinese pur particolarmente vicino a suoi modi, alla sua «cerchia», con tutti i li-miti che tale espressione può conservare (Antonetto 2010, I, p. 137).Rimane poi assai dubbio, almeno a nostro avviso, che questo ebanista possa identificarsi col Galletti, pur succeduto al Piffetti nella carica di ebanista di corte nel 1777, e che può trattare l’intarsio in maniera minuta, come nel tavolino di Stupinigi a «fogliami musaichi ed altri ornamenti» (Antonetto 1985, pp. 344-345), ma par seguire, nei suoi sviluppi, itinerari diversamente congegnati.

[franco Gualano]

Bibliografia: Antonetto 2010, I, p. 93; Mana 2013c, pp. 92.

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Realizzato per la Reggia di Venaria, viene descritto nel Recapito della Real Casa del 1776 rintracciato in Biblioteca Reale a Torino da Roberto Antonet-to (1985) come «tavola isolata» (da centro) destina-to all’appartamento della principessa di Piemonte, di mano del minusiere Galletti e completato dalle guarnizioni dell’ottonaro Pietro Agazino. Prima del-la scoperta documentaria il pregevole arredo era già stato ipotizzato nel catalogo di Galletti da Augusto Midana (1924) e da Noemi Gabrielli (1966) men-tre Vittorio Viale (1963) e Alvar Gonzales Palacios (1969) lo attribuiscono a Pietro Piffetti. Gli inventari storici registrano l’opera nella sala da Pranzo dell’Ap-partamento di Levante della Palazzina di Stupinigi almeno dal 1880; nel 1908 si trova registrato al Ca-stello di Moncalieri e successivamente nell’Inventario del 1926 di nuovo a Stupinigi, dove entra a far parte del catalogo dei capolavori di ebanisteria piemontese del nuovo Museo dell’Ammobiliamento di Augusto Telluccini e Domenico Lanza.Il tavolino, di proporzioni perfette, poggia su gam-be incurvate che terminano in un piedino rivestito di metallo cesellato e dorato a forma di zoccolo di cervo. Lo scafo presenta ai laterali un profilo a cornice misti-linea con al centro decorazioni in avorio policromo a

31. Giovanni battista GallEtti

Tavolino da centro, 1776

Legno intagliato, lastronato in palissandro, noce, radica di bosso, intarsi in avorio e madreperla; applicazioni in bronzo cesellato, dorato, 76,5 x 90 x 56 cm.Nichelino (to), Palazzina di Caccia di Stupinigi - Fondazione Ordine Mauriziano.Inv. 465 (Moncalieri 1908); inv. 2221 (Stupinigi 1880).

conchiglia con fiori e a corolla vegetale. Anche i pro-fili esterni delle gambe sono decorati da corolle con pistilli fioriti in avorio. Al centro del lati in radica di bosso si trovano le mostrine in ottone, reali solo per i cassetti presenti nei lati corti. Il piano, di semplice e preziosa eleganza, gioca sull’accostamento cromatico e materico di diversi le-gni; è composto da un’ampia specchiatura in radica di bosso con profilo mistilineo, limitato da profili a fascia in legno di rosa e violetto disposti a spina di pesce, decorati da inserti vegetali in avorio inciso in policromia e agli angoli placche rotonde intarsiate a motivi geometrici. Il capolavoro è stato restaurato nel 2009 dai laboratori del legno del Centro di Con-servazione e Restauro «La Venaria Reale» che oltre all’intervento conservativo, ne ha analizzato le essen-ze, la pratica incisoria sulle decorazioni in avorio e le tecniche di tarsia.

[ElisabEtta ballaira]

Bibliografia: Midana 1924, ill. 137-138; Mostra del barocco 1963, scheda 32, tav. 41; Gabrielli 1966, ill. 120; Gonzáles-Palacios 1969, II, ill. 77; Antonetto 1985, p. 346, ill. 518; Ferraris 1992, pp. 180-181; Ghisotti 2007, pp. 310-311; Antonetto 2010, p. 288; De Blasi 2011a, pp. 122-125.

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Piccolo, sorprendente mobile di estremo interesse ebanistico, di impronta piffettiana, al quale corri-sponde una questione attributiva interessante e desti-nata a rimanere probabilmente senza soluzione certa, almeno fino all’emergere di improbabili documenti. Pubblicato dal Midana con il richiamo, perfetta-mente pertinente, ad «alcuni caratteri piffettiani», fu liquidato nel catalogo della Mostra del Barocco come «indubbiamente non di Piffetti e neppure del suo successore Galletti». Noemi Gabrielli lo definì con ragione «bellissimo».Come reso noto da Stefania De Blasi, era presente già nell’Inventario di Stupinigi del 1854, analiticamente descritto al n. 678 (De Blasi 2011b, pp. 168-172).Le assonanze piffettiane sono indiscutibili nell’arca-ta delle lunghe gambe, nei riccioli d’appoggio e nel tema della palmetta o conchiglia espansa all’inte-ra calatoia e oltre, come se il suo interno slancio la spingesse a debordarne. Non si può non rilevare in quest’ultima una anticipazione di gusto Decò. Al

32. PiEtro PiffEtti, attribuito a (Torino 1701-1777)

Scrittoio a ribalta con scansia, 1760-1770

Struttura in legno di pioppo e noce (le gambe), lastronatura in legno di pero e difou, 208 x 68 x 37 cm.Nichelino (to), Palazzina di Caccia di Stupinigi - Fondazione Ordine Mauriziano, inv. 741 (1908), inv. 2441 (1880).

gioco di ondulazioni del corpo basso si contrappone una scansia lineare e «compressa», più simile ad una cassa d’orologio che all’alzata di una scrivania.Il restauro dell’arredo, eseguito presso il Centro Con-servazione e Restauro «La Venaria Reale», ha per-messo di considerare gli aspetti tecnici, importanti per ogni studio in fatto di arti decorative. I legni, consi-derati anche dallo scrivente nel 2010 come radica di noce biondo con intarsi in palissandro, sono invece indicati come pero (per la lastronatura) e difou (per i filetti). Il difou è una essenza africana sovrapponibile al citronnier, per la prima volta identificata, a quanto risulta, in un mobile piemontese.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Midana [1924], fig. 175; Il Settecento Italiano 1929, p. 170, fig. 224; Mostra del barocco 1963, III, tav. 227; Gabriel-li 1966, tav. 73; González-Palacios 1969, II, fig. 83; Gonzál-ez-Palacios, 1973, pp. 59, 61, fig. 83; Antonetto 1985, p. 340, fig. 509; Colle 2003, pp. 444-445; Antonetto 2010, II, p. 125; De Blasi 2011b, pp. 168-172.

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È uno dei pochi arredi firmati dall’ebanista venuti finora alla luce. Nonostante la datazione avanzata, vi persistono le linee e il repertorio ornamentale di un barocchetto ormai esausto, non sorretto dalla freschezza inventiva e dal virtuosismo esecutivo che lo stesso Galletti aveva espresso pochi anni prima nella scrivania e nei deliziosi tavolini di Stupinigi (uno dei quali esposto in Mostra, cfr. scheda ???, p???). Sembra che la specchierina sia prigioniera di un mondo di-

33. Giovanni battista GallEtti (Venaria Reale 1735 - Torino 1819)

Piccola specchiera, 1781

Struttura in pioppo lastronata in legno di amaranto, palissandro, bosso, avorio inciso, 56 x 39,5 cm.Firmata e datata sul retro a penna: «1781 Gio. Galletti». Poco sotto, inciso: «DC 3571». In basso: «8635 DC 3571».Rivoli (to), Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte.Deposito a lungo termine Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino.

verso rispetto a quegli arredi. Il numero di inventario ne attesta l’appartenenza alla dotazione della Corona.Un riferimento stilistico può reperirsi nella cornice di specchio conservata in Palazzo Madama con il numero di inventario 1448/L, la cui attribuzione a Piffetti è tutta da discutere.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Antonetto 2010, I, p. 290.

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Tra le innumerevoli variazioni dei modelli rococò di ventole, sono da collocarsi al massimo livello per con-cezione ed esecuzione. Nessun elemento dell’intaglio si ritrova speculare sul lato opposto, ma la dissimmetria della forma sfugge alla prima percezione visiva tanto è armoniosamente

34. intaGliatorE torinEsE

Coppia di ventole, metà del xviii secolo circa

Legno intagliato e dorato, specchio, 80 x 40 x 15 cm.Collezione privata.

ricomposta in un disegno di intonazione classica, che aborrisce nello stesso tempo dal déja vu e dalla strava-ganza.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Antonetto 2010, II, p. 248.

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Arredo di grande rango, sia per disegno che per ese-cuzione, di un barocchetto pieno che per alcuni tratti fa presagire il neo-classicismo come sta per essere co-dificato in Francia nei repertori di Delafosse.È ornato da motivi vegetali, rocailles e feuilles godron-nées, di disegno opulento e intaglio scattante. La ci-masa è centrata dalla raffigurazione di un pellicano con il lungo collo inarcato e il becco proteso verso una conchiglia stilizzata sulla quale è appollaiato, quasi nell’atto di estrarne la perla.

35. bottEGa PiEmontEsE

Parafuoco, terzo quarto del xviii secolo

Legno intagliato e dorato, tessuto ricamato a piccolo punto, 116 x 81 x 36 cm.Collezione privata.

Conserva l’originale tappezzeria in piccolo punto, in lane policrome: vi è ricamata una fontana alla quale confluiscono cinque ruscelli in cui nuotano altrettan-te anatre. Ai lati due cervi in una suggestiva vegetazione di al-beri e fiori.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Mostra del barocco 1963, tav. 272; The Alberto Bruni 2007, pp. 78-79; Antonetto 2010, II, pp. 252-253.

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6.Gli arredi scolpiti e dipinti

Una tipologia di arredo tipica della seconda metà del xviii secolo è caratterizzata dalla decorazione a pittura. Per realizzare questi manufatti ai minusieri si affiancavano pittori specializzati. Nel caso della commode ora in collezione privata ma proveniente dal Gabinetto di toeletta della duchessa di Palazzo Chiablese, allestito «alla cinese» nel 1775, la superficie dorata a due toni presenta motivi a rami fioriti e uccelli documentati al pittore Francesco Rebaudengo. È l’unico arredo superstite dell’intero ambiente, andato perduto nell’incendio del Palazzo provocato dai bombardamenti del 1943.Sempre al gusto per l’esotismo, diffuso in Piemonte nel Settecento, è legata la ventola facente parte della serie con personaggi cinesi, paesaggi e architetture, oggi allestita nella Sala da gioco della Palazzina di Stupinigi.Curiosa la scrivania a due corpi laccata in avorio con medaglioni a paesini in tonalità violacea e serti fogliacei intagliati, che occulta al suo interno un letto di servizio. Si tratta dell’unico esemplare noto di mobile letto a scomparsa ribaltabile, mai più visto dalla mostra del «Barocco piemontese» del 1963, di concezione e funzionalità molto attuali.

[ElisabEtta ballaira, silvia Ghisotti]

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La commode, che presenta fronte mosso su alti sostegni arricchiti da intagli, è interamente ricoperta da una doratura in due toni e reca nelle specchiature degli sportelli e dei fianchi quattro dipinti raffiguranti fiori e uccelli. È datata al 1775 e faceva parte, in pendant con un’altra di cui si sono perse le tracce, dell’arreda-mento di Palazzo Chiablese, precisamente del Gabi-netto di toeletta della duchessa.L’individuazione e la datazione del mobile, pubbli-cato per la prima volta da Augusto Pedrini nel 1953 come appartenente alla collezione Accorsi, è dovuta alle ricerche condotte per la monografia su Villa della Regina pubblicata nel 2005.Il palazzo del duca del Chiablese era in fase di ripla-smazione dal 1754 a opera dell’architetto Benedetto Alfieri. Negli anni sessanta ebbe inizio la decorazio-ne e l’arredamento. Il gabinetto di toeletta fu allestito «alla cinese» nel 1775 per Maria Anna di Savoia, sposa in quell’anno al duca del Chiablese Benedetto Maurizio, decimo figlio di Carlo Emanuele III (che della giovane era anche zio). Il pittore Francesco Re-baudengo dipinse nel gusto cinese i pannelli parietali rinchiusi in cornici intagliate di gusto ancora baroc-chetto, le sovrapporte e i lambriggi (zoccoli). Decorò nello stesso modo «due comodes ripartite ogn’una in quattro panelli».

36. bottEGa torinEsE iGnota e FrancEsco rEbaudEnGo, pittore (notizie dal 1769 al 1794)

Cassettone a sportelli (commode à vantaux), 1775

Legno di ciliegio, pioppo, noce intagliati, dorati, marmo, 84 x 118 x 56 cm.Collezione privata.

Nell’inventario del 1833 i due cassettoni erano ancora presenti («piccole commodes dorate, e verniciate alla Chinese, aventi due portelle caduna [...] due tiretti interni, e tavola di marmo biggio, e rossigno»). Ne-gli anni venti del Novecento non c’erano più. Erano probabilmente già stati acquistati dall’antiquario Pie-tro Accorsi, che proprio negli anni venti stava molti-plicando in maniera esponenziale i successi della sua attività e aveva incominciato ad avere contatti con Umberto di Savoia, il quale risiedette nel Palazzo Reale di Torino dal 1925 al 1931.Le decorazioni parietali del gabinetto furono distrutte completamente da spezzoni incendiari nella notte del 13 luglio 1943. Ne rimangono le fotografie di Augu-sto Pedrini, pubblicate nel già ricordato volume del 1953 sul mobilio nei secoli xvii e xviii in Piemonte. Nelle immagini, ovviamente in bianco-nero, si può riscontrare lo stesso tipo di decorazione del cassettone, a rami fioriti e uccelli.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Pedrini 1953, fig. 276 (la commode) e figg. 78-85 (imma-gini del Gabinetto della duchessa); Schede Vesme 1963-1982, III, p. 898 (per Francesco Rebaudengo); Ghisotti 2005, p. 417 (per Francesco Rebaudengo); Traversi 2005, p. 542 (per il Gabinetto di toeletta della duchessa del Chiablese); Antonetto 2010, II, pp. 52-53.

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Realizzate nel più pittoresco e curioso gusto per la decorazione «alla china» diffuso nelle residenze rea-li e nobiliari di tutta Europa, le ventole a due luci rappresentano un prodotto ben riuscito dell’intaglio piemontese. Non conosciamo il luogo per cui furono prodotte ma la committenza è rintracciabile nel circuito degli ar-redi delle Residenze Reali sabaude: nel 1812 erano collocate nella sala di Udienza della Duchessa del Genevese, al secondo piano del Palazzo Chiablese, dépandance di Villa della Regina a Torino; sono sicu-ramente registrate al castello di Moncalieri negli in-ventari della Dotazione della Corona del 1880 e del 1908; infine il catalogo a stampa del Museo d’Arte e Ammobiliamento di Stupinigi del 1927 vede quattro elementi della serie allestiti nella Sala da Gioco e gli altri nella Sala di passaggio vicino ai locali della Bi-blioteca e Antibiblioteca. Le ventole vennero richieste per le esposizioni de Il Settecento Italiano a Venezia nel 1929 e nella Mostra

37. intaGliatorE piEmontEsE

Ventola figurata alla cinese (serie di sei), metà del xviii secolo

Legno intagliato, dipinto in policromia, 50 x 30 x 7 cm.Nichelino, Palazzina di Caccia di Stupinigi - Fondazione Ordine Mauriziano, Appartamento di levante, Sala da Gioco.Inv. 3220 (Moncalieri 1908); inv. 3530 (Moncalieri 1880).

del Barocco Piemontese a Torino del 1963. Si tratta di sei manufatti costruiti in serie con varianti nella parte decorativa centrale; sono formati da una cor-nice trapezoidale in forma di tronco contorto ornato da rami di diverse fioriture e doppia torcia sul lato basso, contenente nello specchio personaggi ma-schili cinesi, colti sotto esili pagode o provvisti di tavolini e strumenti sonori e intenti in occupazioni artigianali. Il legno intagliato è dipinto in vivacissima cromia che accentua il carattere rustico delle ventole, verosimil-mente destinate ad una residenza di campagna.

[ElisabEtta ballaira]

Bibliografia: La Palazzina di Stupinigi 1927, pp. 9, 12; La Palaz-zina di Stupinigi 1931, pp. 22, 27; La R. Palazzina Mauriziana di Stupinigi 1937, pp. 15, 19; Il Settecento italiano 1929, ill. 83; Il Settecento italiano 1932, ill. 260-261; Mostra del barocco 1963, tav. 304; Gabrielli 1966, ill. 177; Gonzáles-Palacios 1969, II, ill. 80; Antonetto 1985, p. 206, ill. 287; Pettenati 2005b, p. 249, tav. cxxix; Antonetto 2010, II, p. 251.

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L’arredo si presenta come una scrivania a due corpi dipinta in color avorio denso, decorata da sette me-daglioni a paesini in tonalità violacea e ornata di serti fogliacei intagliati. Non si segnala per qualità archi-tettonica e decorativa, ma per una particolarità pres-soché unica, che gli valse la presentazione nella Mo-stra del Barocco del 1963 e la riproduzione fotografica in catalogo. Infatti gli sportelli, la ribalta e i cassetti frontali sono finti e costituiscono un unico elemento ribaltabile in avanti, mediante perni nascosti ad altez-za opportuna nei fianchi. I pendoni verticali di foglie sono in realtà elementi staccati dal fondo, incernierati in modo da muoversi assecondando la rotazione della fronte e disposti a sostegni del letto nascosto nell’inter-no della scrivania (per questo sono rinforzati da invi-sibili aste metalliche). Lo sblocco della fronte mobile dell’arredo è governato dalla serratura degli sportelli mediante un meccanismo a rimandi. La nicchia che

38. bottEGa piEmontEsE

Scrivania con alzata trasformabile in letto, 1780 circa

Legno dipinto, intagliato e argentato a mecca, 278 x 137x 69 (chiuso); 208 (aperto) cm.Collezione privata.

si forma nel mobile quando è aperto è foderata di stof-fa azzurra: nella fotografia del catalogo della Mostra del Barocco era ornata da un dipinto ovale su stoffa raffigurante san Giorgio e il drago in cornice di tessu-to dipinto, non più presente.Si trattava evidentemente di un letto di servizio, pron-to a occultarsi sotto l’aspetto di scrivania. Sono cono-sciuti diversi esemplari di divani trasformabili in letti mediante lo scorrimento in avanti della fronte della cintura (esattamente come quelli contemporanei), ma questo è l’unico esemplare noto di letto a scomparsa ribaltabile. Per la sua assoluta rarità è appartenuto a due collezioni importanti, passando dall’antiquario Pietro Accorsi a una esclusiva raccolta di Villar Pe-rosa e poi ad altra che è stata in passato prestigiosa.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Mostra del barocco 1963, III, tavv. 110-111.

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7.Giuseppe Maria Bonzanigo e Francesco Bolgiè

Nell’ultimo quarto del Settecento si aprono importanti cantieri nei palazzi della corte per il riammodernamento degli interni, in particolare nell’occasione delle nozze nel 1775 dei principi di Piemonte, Carlo Emanuele e Maria Adelaide di Borbone e nel 1789 per quelli dei duchi d’Aosta, Vittorio Emanuele e Maria Teresa d’Asburgo d’Este. Sono ancora gli architetti a indirizzare il gusto per la decorazione e gli arredi. Importante risulta il rapporto tra il disegnatore reale Leonardo Marini, che fornisce raffinati e aggiornati progetti per la corte e la nobiltà piemontese e lo scultore astigiano Giuseppe Maria Bonzanigo (1745-1820). Altrettanto diretto è il rapporto tra gli architetti Giuseppe Battista Piacenza e Carlo Randoni, ideatori degli allestimenti dei tre appartamenti nuziali dei duchi d’Aosta a Torino, Venaria e Moncalieri, con lo stesso Bonzanigo e con gli altri artisti del legno, tra cui Francesco Bolgiè (1752?-1834) e Biagio Ferrero (notizie 1778-1824).In questo arco di tempo i modelli di riferimento passano da quelli rocaille di gusto francese ad altri più classicisti, nello stile «alla greca» o «antico romano» o ispirati alle «raffaellesche».I mobili rappresentativi dell’alto livello raggiunto degli scultori in legno sono modello anche per le raffinate decorazioni in pastiglia del Castello di Masino.

[ElisabEtta ballaira, silvia Ghisotti]

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Il cassettone è stato riconosciuto con l’opera pagata a Giuseppe Maria Bonzanigo il 13 agosto 1789 (Fer-raris 1991, pp. 51, 80; Antonetto 2010, I, pp. 371), su progetto degli architetti Giuseppe Battista Piacen-za e Carlo Randoni per il boudoir della duchessa d’Aosta, al secondo piano di Palazzo Reale di To-rino, come testimonia il noto disegno conservato nel-la Biblioteca Civica di Torino datato 7 agosto 1788 (Bct, Misc. Bosio, 145, f. 19; Astrua, di Macco 1980, I, pp. 98-100; Colle 2005, pp. 434-337; Cor-naglia 2012, p. 39). Da Palazzo Reale venne inviato a Moncalieri a segui-to dei rinnovamenti palagiani del Palazzo, dove ri-mase fino al primo decennio del Novecento, quando molti arredi sabaudi furono trasferiti nelle residenze di Milano e Monza. Il Cassettone fu destinato al Re-ale di Milano e, nel 1959, passò a Villa Carlotta, a Tremezzina sul lago di Como, come deposito esterno della Soprintendenza ai Monumenti della Lombar-dia. Qui venne a lungo ritenuto opera di Giocondo Albertolli (Ottino della Chiesa 1959, p. 100).La nota dei lavori di Bonzanigo ne descrive lo stile «arabesco», aggettivo che ben riassume le imposta-zioni decorative ricondotte a simmetrie curvilinee e

motivi a tralci e girali vegetali, e la presenza di intagli con teste muliebri e pendagli a perle, che si ritrovano nei progetti di Randoni e Piacenza per le residenze di Torino, Venaria e Moncalieri di quegli anni.Nell’album di disegni della Biblioteca Civica di To-rino è conservato anche un altro disegno assimilabile a questa tipologia di cassettone (Bct, Misc. Bosio, f. 26). Dalle descrizioni inventariali, i cui numeri sono ri-portati sul lato di un cassetto, si possono desumere le cromie nei toni del crema, più chiare di quanto appaia oggi il cassettone, ridipinto con una cromia verde-gialla.Quest’ultima stesura è stata sovrammessa a uno strato con evidenti depositi e lacunoso. Il restauro ha pre-visto quindi una pulitura superficiale che ha mante-nuto l’ultimo strato di cromia. Maggiormente integra invece era la doratura degli intagli aggettanti eseguita a guazzo su bolo arancio e rosso.

[stEfania DE blasi]

Bibliografia: Ottino della Chiesa 1959, p. 100; Ferraris 1991, pp. 51, 80; Colle 2005, pp. 434-337; Antonetto 2010, I, p. 371; Cornaglia 2012, p. 39.

39. GiusEppE Maria bonzaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Cassettone, 1789

Legno di pioppo e noce (gambe e mostre cassetti) intagliato, dipinto, dorato, ferro dorato, ottone, marmo bianco, 98 x 148 x 68 cm.Tremezzina (co), Villa Carlotta Museo e Giardino Botanico. Inv. 3786 (Moncalieri 1880); inv. 3527 (Moncalieri 1908).Restaurato in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale».

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Il cassettone, realizzato con altri tre per il Gabinet-to alla china dell’Appartamento dei duchi d’Aosta, mostra una struttura (e una decorazione) un poco più semplice e squadrata rispetto ad altri pezzi presenti nella sequenza delle varie sale, ma molto interessante per la fattura, arricchita da eleganti decorazioni a na-stri e rami fioriti (una delle quali elegantemente ritorta su barra orizzontale) entro formelle blu. Sull’esterno le cornici a greca sono bizzarramente rimodulate e adattate a un gusto in qualche modo orientaleggiante; questo, in aggiunta alla foggia delle gambe, con motivo che sembra riecheggiare forme di pagode o copricapi orientali, e alla stessa forma del tripode con mazzo di fiori delle formelle sui fianchi, è in grado di riformulare intelligentemente un’impron-ta in continuità con gli elementi e i motivi non solo delle lacche dei pannelli, ma anche di tanti particolari delle decorazioni di specchiere, cornici e cornicioni (basti ricordare le teste alla cinese), non meno di fi-gurette animali e giardini nelle pitture dell’incantato ambiente. Emerge così, in questo terzo e ultimo Gabinetto Ci-nese di Palazzo Reale, una netta differenza rispetto alla concezione, di pur suprema eleganza, di quello

40. biaGio fErrEro (Notizie 1778-1824)

Cassettone, 1789

Legno intagliato, dipinto e dorato; piano di marmo grigio, 91 x 118 x 60 cm.Torino, Musei Reali - Palazzo Reale, inv. DC 10096 (1880), DC 3537 (1908), DC 4401 (1966).Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale».

juvarriano intorno al 1732, dove le lacche sono l’uni-ca decorazione di stampo (e in parte fattura) orienta-le. Nel Gabinetto di Piacenza e Randoni, e in fondo non molto tempo prima che il Neoclassico si volga nostalgicamente al mondo della rievocazione arche-ologica, l’ambizione di celebrare spirito e suggestioni esotiche appare dunque convinta e articolata ben più che in precedenza.L’arredo spetta a Biagio Ferrero, «scultore in pietra ed ornati, e di architettura» come ha mostrato il Fer-raris, riconoscendo il documento che a essi si riferisce (1991, p. 161, doc. 1, pp. 164-165), che esercitava oc-casionalmente anche la scultura in legno, in casi forse di urgente realizzazione, come per Torino, Moncalie-ri e Venaria nel 1789. Il fatto che i cassettoni, fin dai tempi del Viale (1963, tav. 211), fossero stati sempre assegnati al Bonzanigo, testimonia insieme sia la qua-lità della realizzazione che la presenza d’un volere ar-tistico ben orientato e coerente all’interno del cantiere dell’appartamento dei duchi.

[franco Gualano]

Bibliografia: Mostra del barocco 1963, tav. 211; Ferraris 1991, p. 161, 164-165; Antonetto 2010, I, p. 399.

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L’angoliera, di forma semicircolare, è in coppia con un’altra analoga, oggi collocata nella medesima stan-za al piano terreno di Palazzo Reale. Entrambe fu-rono però realizzate per la sala attigua alla Camera dell’Udienza della duchessa d’Aosta dallo scultore regio Francesco Bolgiè, documentato soprattutto come autore di un discreto numero di cantoniere de-stinate al palazzo e ricordato il 29 maggio 1789 per una serie di lavori a intaglio realizzati per l’Appar-tamento al secondo piano (Antonetto 1985; Ferraris 1991). Il riallestimento dell’ala nord- orientale del Palazzo Reale di Torino fu per l’appunto destinato alla coppia dei duchi d’Aosta Vittorio Emanuele e Maria Teresa d’Asburgo-Este, nei quali erano riposte le speranze dinastiche della famiglia Savoia da tempo in attesa di un erede al trono (cfr. Pierobon 2016, pp. 178-196). Il mobile è composto da due corpi, entrambi ric-camente intagliati, dorati e dipinti di colore azzur-ro-verde. Quello inferiore è formato da gambe affu-solate che sostengono il piano di una consolle, sulla quale poggiano i piedini del corpo superiore, che si presenta come un’alzata costituita da un armadio ad anta unica con piani interni e da un fastigio con an-

fore e un vaso di fiori centrale. Le due angoliere dif-feriscono soltanto per la decorazione della formella, che in questo caso reca strumenti musicali e maschere tra nastri e serti vegetali, mentre nell’altro presenta un cosiddetto trofeo d’amore con face, frecce e un nido di uccelli. Ambedue erano dunque rispondenti alla destinazione matrimoniale dell’Appartamento e in sintonia con gli altri arredi in stile Luigi XVI. Gli intagli traevano probabilmente ispirazione da reper-tori di incisioni francesi, molto utilizzati dai collabo-ratori di Giuseppe Maria Bonzanigo e indizio degli stretti legami intessuti dalla corte con la Francia, so-prattutto a seguito della più recente politica matrimo-niale di casa Savoia (Colle 1987). Il ricorso da parte di Francesco Bolgiè a modelli formali provenienti da quel contesto geografico vantava inoltre una cono-scenza diretta dell’ebanisteria d’Oltralpe, che risaliva agli anni parigini del suo perfezionamento artistico (Vesme 1963-1982, I, p. 150).

[chiara accornEro]

Bibliografia: Palazzo Reale..., 1971, p. 15, ill. 44; Antonetto 1985, p. 356; Colle 1987, p. 193; Ferraris 1991, p. 97 doc. 37, p. 107 n. lxxiii; Antonetto 2010, I, p. 374 cat. 1.2.

41. francEsco bolGiè (Torino 1752-1834)

Angoliera con strumenti musicali, 1789

Legno intagliato, dorato e dipinto in azzurro, 250 circa x 80 x 66 cm.Torino, Musei Reali - Palazzo Reale, inv. DC 10264 (1880), DC 11670 (1908), DC 6316 (1966).Restauro eseguito in occasione della mostra.

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La placca è sovrastata da testina raggiata, con capelli a spire arieggianti ai serpenti di Medusa. Folti intrecci di foglie d’ulivo accompagnano i fian-chi della cetra, sulla quale si incrociano due rami d’alloro. Il braccio in ferro battuto regge due bobèches.Un altro gruppo di ventole con struttura a lira ma di disegno rigido e di intaglio inferiore sono conservate nella Palazzina di Caccia di Stupinigi e sono state ricondotte a Bonzanigo da G. Ferraris sulla base di

42. G. M. bonzaniGo, attribuito a

Ventola in forma di cetra (una di quattro), 1789 (?)

Legno intagliato, dorato, dipinto.Giordano Art Collections.

un documento del 13 agosto 1789 in cui si parla di «quattro plache in forma di cetera ornate, ed arricchi-te con ghirlande di fiori, e rami d’alloro». Il riferimento è vago ma a maggior ragione può orien-tare a Bonzanigo quella qui raffigurate.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Pedrini 1953, fig. 149; Gabrielli 1966, fig. 183; Mal-lé 1968b, pp. 216, 397; Ferraris 1991, p. 52 (doc. 41), p. 81 (ill. LIV).

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La poltroncina, piccola bergère en cabriolet, leggera con un cuscino movibile per la seduta e i braccioli uniti allo schienale ovale avvolgente e intagliato, è storica-mente collocata nell’Appartamento di Levante della Palazzina di Caccia di Stupinigi come arredo delle sale del pregadio e gabinetto successivo che presenta-no sulle pareti la medesima tappezzeria in lampasso verde chiaro con opera in avorio formata dalle tra-me lanciate e dall’ordito di legatura. La decorazione del tessuto, originale e databile alla fine degli anni ottanta del Settecento, raffigura un elaborato doppio meandro delimitato da motivo a nastro che simula una cortina a disegno maculato con frange, nappe e fiocchi ad andamento verticale e che contiene alterna-tivamente una lira su tralci di rose e un vaso di fiori.La tappezzeria è riconoscibile negli inventari napo- leonici della palazzina. Nell’ultimo inventario set-tecentesco (1780) le stesse sale e arredi erano invece rivestiti con tessuto diverso, in péquin giallo. La struttura lignea della poltroncina è riferibile ai lavori di riallestimento degli appartamenti della palazzina della fine anni ottanta del Settecento che interessarono l’entourage degli intagliatori attivi insieme a Bonzani-go. La spalliera è sormontata da una piccola testa di

43. bottEGa piEMontEsE e Manifattura piEMontEsE

Poltroncina, 1785-1790 circa

Legno di noce intagliato e dorato, lampasso di seta fondo raso a due trame lanciate, 106 x 76 x 61 cm.Nichelino (to), Palazzina di Caccia di Stupinigi - Fondazione Ordine Mauriziano, Appartamento di Levante, Sala esagonale, inv. 728 DC (Stupinigi 1908); inv. 5500 DC (Stupinigi 1880).

putto coronato di fiori che si erge da un serto di foglie di mirto. Gli intagli dello schienale raffigurano un raffinato e minuto intaglio geometrico romboidale e a perline con fiore all’interno e piccole foglie sul bordo perimetrale che continuano sui braccioli e sul con-torno della seduta. Le gambe sono corte, scanalate e decorate con un intaglio a foglie più sinuoso. Mallè (1968, pp. 288-289) pubblica la poltroncina con il suo pendant, due sgabelli e due sedie della medesima serie collocate nella saletta esagonale, dove si conser-vano le due poltrone oggi, posticipando alla fine del xviii - inizio xix secolo rispetto alla datazione 1770-1780, proposta da Gabrielli (1966, fig. 150). Gli altri elementi della serie citati da Mallè sono in cattive con-dizioni, oggi nei depositi della palazzina. Il pendant ha una qualità d’intaglio inferiore e più semplificato rispetto alla poltroncina in mostra, risultato forse di uno dei molti rifacimenti o massicci interventi di in-tegrazione documentati nel corso del xix secolo (De Blasi 2014, pp. 160).

[stEfania DE blasi]

Bibliografia: Gabrielli 1966, p. 85, fig. 150; Mallè 1968, pp. 288-289.

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Giuseppina di Lorena-Armagnac e la sorella Car-lotta, velate e vestite come due sacerdotesse pagane, sacrificano rose sull’altare dell’amicizia. La figura di Cupido che spezza il suo arco allude ai pericoli dell’amore, tema prediletto della principessa, ma forse anche alla vedovanza di Giuseppina, che aveva perso il marito, il principe Vittorio Amedeo di Carignano, nel settembre del 1780. La scena è ambientata nel-la natura, fra alberi rigogliosi e selvaggi che richia-mano il parco del Castello di Racconigi, residenza prediletta di Giuseppina identificabile anche per la presenza del profilo del Monviso sullo sfondo: il par-co era oggetto di attenzione da parte della principessa di Carignano, che progettava un tempio dedicato ad Apollo con i consigli di Paciaudi, anche prima della trasformazione in giardino all’inglese attuata da Pre-gliasco dal 1787.Amante del sapere, ardentemente illuminista e dotata di spirito indipendente, scrittrice e poetessa in rappor-to con letterati ed eruditi come Tomaso Valperga di Caluso, Giuseppe Vernazza, Paolo Maria Paciaudi, Agostino Tana, ma anche Bodoni e Verri, Giusep-pina di Lorena scelse Pécheux, benché oberato da impegni nei confronti del re di Sardegna e del princi-pe Borghese, per farsi ritrarre in un dipinto alla moda

e gravido di significati simbolici, che alludono alla superiorità dell’amicizia fraterna sull’amore terreno. Il dipinto fu eseguito per Palazzo Carignano, dove un inventario del 1832 lo descrive provvisto di una cornice dorata, probabilmente la stessa che ancora conserva. La ricca cimasa, intagliata a festoni fioriti che, legati da un nastro, formano al centro un doppio anello, benché si innesti un po’ rigidamente sulla cornice li-scia, sembra anch’essa assumere un valore simbolico, allusivo all’amore per la natura e al vincolo di amici-zia tra le sorelle. La «raffinatissima cornice» è stata recentemente attribuita a Bonzanigo (Bava, Gualano 2014, p. 337), ma sembrerebbe piuttosto da accostarsi a Bol-giè, per confronto con gli arredi eseguiti nel 1789 su disegno di Piacenza per l’appartamento della duches-sa d’Aosta in Palazzo Reale (Ferraris 1991, pp. 105-110; Antonetto 2010, I, pp. 380-381).

[vittorio natalE]

Bibliografia: Bollea 1942, pp. 283, 299-301, 399, 404; Gabrielli 1966, p. 95; Baudi di Vesme 1963-1982, III, p. 798; Dalmasso 1980a, pp. 14-15; Dalmasso 1986, pp. 576-577; Natale 2012, pp. 193-195.

44. lorEnzo pEchEux (Lione 1729 - Torino 1821)

Giuseppina di Lorena Carignano e la sorella che sacrificano all’altaredell’Amicizia, 1779-1781

Olio su tela, 100 x 80 cm.

francEsco bolGiè, attribuita a (Torino 1752-1834)CorniceLegno intagliato e dorato, 138 x 90 cm circa.Nichelino (to), Palazzina di Caccia di Stupinigi - Fondazione Ordine Mauriziano,inv. n. 87 (Stupinigi 1926); inv n. 87 DC (Moncalieri 1908).

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L’opera ritrae Vittorio Amedeo III secondo i con-sueti canoni iconografici della ritrattistica ufficiale. Il sovrano indossa l’abito da gran cerimonia impre-ziosito dal collare dell’Ordine dell’Annunziata e dal manto d’ermellino che solleva con la mano sinistra lasciando intravedere l’elsa della spada, mentre la de-stra impugna lo scettro con lo stemma di casa Savo-ia. Alle sue spalle, la statua allegorica della giustizia completa il ritratto alludendo alle virtù del sovrano.Di piccole dimensioni, realizzata su tavola e non su tela e con un tratto pittorico veloce e disinvolto, l’ope-ra è da considerarsi il bozzetto per un ritratto dinasti-co di più ampio respiro. La prima pubblicazione del dipinto si deve a Noemi Gabrielli (1972, p. 175) con l’attribuzione a Giusep-pe Duprà (1703-1784), attivo per la corte sabauda negli anni di Carlo Emanuele III. L’analisi dell’o-pera, caratterizzata da un cromatismo intenso, dai colori pastosi e da una luce calda, rende oggi difficil-mente sostenibile la proposta avanzata dalla studiosa. La maniera edulcorata tipica dell’artista le cui opere sono caratterizzate da una pittura smaltata e da una luce limpida, negli anni settanta del secolo risultava infatti superata e non più in linea con i nuovi interessi artistici della corte orientata verso la cultura roma-

45. luDovico tEsio (Torino 1731-1782)

Ritratto di Vittorio Amedeo III, 1780 circa

Olio su tavola, 65 x 46 cm.Racconigi, Castello - Polo Museale del Piemonte, inv. R 2268 (Castello di Racconigi, 1951); inv. XR 1065 (Castello di Racconigi, 1931).Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale».

na e la ritrattistica batoniana (Rossetti Brezzi 1980, III, p. 1437). È invece più efficace l’attribuzione al pittore Ludovico Tesio (1731-1782) suggerita da un’iscrizione a matita sul retro con una datazione al 1780. L’artista è noto quasi esclusivamente attraverso la sintesi compilata da Vesme (1963-1981, III, pp. 1041-1046; Astrua 1987, pp. 81-83) sulla base di al-cuni documenti di corte e dell’epistolario del conte di Rivara, consulente artistico dei Savoia a Roma dove il Tesio era stato mandato nel 1756 - stipendiato dal re - per perfezionarsi nella pittura e dove, grazie all’interessamento del conte di Rivara, era entrato nel-la bottega di Pompeo Batoni divenendone un fedele seguace. Richiamato a Torino nel 1778, il Tesio en-trò subito a servizio di Vittorio Amedeo III da cui venne nominato «nostro pittore» nel 1780. Sebbene l’impegno dell’artista in questi anni sembri rivolgersi più al disegno di mobili e tappezzerie, il ritratto po-trebbe considerarsi un omaggio al sovrano per la no-mina appena ottenuta.

[ilaria Giuliano]

Bibliografia: Baudi di Vesme 1963-1982, III, pp. 1041-1046; Gabrielli 1971, p. 175; Rossetti Brezzi 1980, pp. 1436-1437; Astrua 1987, pp. 65-100.

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La cintura rotonda è percorsa da un corso di archetti, arricchita superiormente da un bordo dorato e inta-gliato a foglie d’acqua e verso il basso da una fascia in cui una sequenza di anelli intrecciati accoglie ro-sette. Cadute di corolle dorate corrono lungo i soste-gni, fasciati in basso da foglie d’acanto e desinenti in vistose zampe di leone, che poggiano su un piccolo basamento. Un trofeo fogliaceo a pigna sale dalla piccola crocie-ra. I tripodi provengono da Palazzo Reale di Torino, come attesta una etichetta cartacea con la scritta «N.º 235 Reale Palazzo di Torino», il che conferma la pa-ternità di uno dei massimi intagliatori attivi a corte nell’ultimo quarto del secolo xviii, Bonzanigo o Bol-giè o altro primario artefice. Riferimenti sono possibili sia al tavolino di lavoro di Palazzo Madama attribuito a Bonzanigo (Antonetto

46. intaGliatorE torinEsE (G. M. Bonzanigo? o F. Bolgiè?), MinusiErE iGnoto

Fioriera a tre piedi, fine xviii secolo o più probabilmente inizi del xix secolo

Legno intagliato, dorato e dipinto in color mogano, 89,5 x 39,5 cm.Collezione privata.

2010, I, p. 365), sia, per il corso di corolle, al tavoli-no di Bolgiè in Palazzo Reale (Antonetto 2010, I, p. 376, scheda e fig. 2).Per una ipotesi di datazione si deve tener conto del fatto che nei due arredi il neoclassicismo ancien rég-ime sembra qui approdato alle cadenze dell’Impero. È possibile che le fioriere siano state realizzate subi-to dopo la Restaurazione, nell’ambito della ripresa dell’attività degli intagliatori che erano stati attivi nel-le residenze sabaude prima del governo francese del Piemonte.Gli arredi appartennero alla collezione dell’anti-quario torinese Giuseppe Rossi e passarono in asta Sotheby’s nel marzo 1999.

[robErto antonEtto]

Bibliografia: Antonetto 2010, I, p. 371, scheda e fig. 30.

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Caratterizzato da un’architettura essenziale, il tavo-lo in mostra è costituito da un’alta fascia con tiretto centrale ed è sorretto da quattro esili gambe tronco-piramidali. L’intera superficie del mobile presenta una tintura color mogano sulla quale contrastano i rilievi applicati in pastiglia bianca. Dal mascherone posto sotto la maniglia del cassetto dipartono sotti-li girali fogliacei che racchiudono due cammei. Su fronte e lati medaglioni con allegorie delle stagioni sono incorniciati da girali abitati da animali selvati-ci. Tralci vegetali intrecciati e desinenti in teste mo-struose sormontano le gambe, anch’esse arricchite da applicazioni in pastiglia. Non passa qui inosservata l’alta qualità di questa tecnica: se fiori, mascheroni e cammei sono realizzati a stampo, lo stesso non si può dire dei sottili racemi, probabilmente ottenuti a pennello mediante un’accurata stesura della pastiglia. Altro elemento che contraddistingue questo mobile è senza dubbio il piano, costituito dal commesso di 42 marmi colorati.Oggi conservata presso la Sala delle tre finestre del Castello di Masino l’opera di cui si scrive fa parte di un gruppo di quattro tavoli, due grandi e due picco-li, uno dei quali già esposto nel 1963 alla Mostra del barocco piemontese (Mostra del barocco 1963, III, tav. 101 b).Citati per la prima volta solo nel 1849 nell’inventario del castello come «4 tavoli di quadretti della collezio-ne dei diversi marmi di Spagna», sono forse gli stessi

47. francEsco bozElli (nato a Ferrara, attivo a Torino tra il 1783 e il 1793)

Tavolo da gioco, 1790 circa

Legno di noce dipinto, legno di pioppo, pastiglia, commesso di marmi policromi, 78,5 x 78 x 56 cm.Caravino (to), Castello e Parco di Masino, Fai - Fondo Ambiente Italiano, inv. SBAS TO 862.

predisposti dal marmorista Casella e montati dall’e-banista Lorenzo Viora nel 1791, e probabilmente i 4 per i quali Francesco Bozelli emette fattura per la decorazione in pastiglia (Mossetti, in questo volume).È da notare che nel 1807 nell’inventario del Castello di Masino sono elencati molti arredi dipinti «a cajon», cioè color mogano. Come per il tavolo in mostra l’utilizzo di pitture a olio è pensato per mobili «poveri», e sostituisce i più costosi placaggi in legni esotici dei. Questo curioso espediente contrasta però con l’opulenza del piano, costituito da una ricca campionatura di marmi policromi. Le più antiche notizie di questa tipologia di commesso risalgono a Luigi XIV, quando fa disporre oltre 100 differenti campioni di marmi dal «marmoraro» romano Fran-cesco Guidotti. Piani simili furono eseguiti anche a Madrid dove dal 1763 è attivo il Laboratorio del Buen Retiro di pietre dure inaugurato da Carlo III di Borbone (González-Palacios 2003, pp. 157-168). Va ricordato a proposito che Carlo Francesco II Val-perga, prima di ricevere la carica di vicerè nel 1780 è ambasciatore per il Regno di Sardegna in Portogallo e in Spagna. Rientrato in patria, forse ispirato proprio dai capolavori in marmo eseguiti a Madrid, commis-siona così 4 tavoli da gioco arricchiti da preziosi piani in marmi colorati.

[alEssanDro WEGhEr]

Bibliografia: Mostra del barocco 1963, III, tav. 101 b.

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Parte integrante degli arredi in pastiglia eseguiti nei primi anni novanta del Settecento per la famiglia Valperga, la ventola di cui si scrive esemplifica perfet-tamente la natura e l’originalità di questa produzione. En-suit con altre cinque, oggi nella Camera della Re-gina del Castello di Masino, è caratterizzata da una non comune forma ottagonale dello specchio posto entro una semplice cornice, dipinta in verde chiaro, decorata da un meandro a rosette in pastiglia bian-ca. La incorniciano su tutti i lati perlinature e sotti-li ramoscelli in lamina metallica percorsi da leggeri elementi fogliacei e floreali eseguiti in pastiglia con inserti di cartapesta. Spicca il coronamento composto da una lira sormontata da un piccolo mascherone in-castonato in un’ampia raggiera. Tre bracci sui quali poggia un mascherone a rilievo in pastiglia reggono le candele.Negli anni novanta vengono realizzate «12 plache con spechi e girandole» per palazzo Valperga a To-rino (Mossetti, in questo volume), in contemporanea con quelle eseguite per i Valperga a Masino.È interessante infatti notare che anche nell’inventario del Castello di Masino del 1792 sono citate 12 «plache con giaza a speccio», 6 nella Camera della Regina e altre 6 nella Camera di Francia (ASCM m. 1006 fasc. 12077). Nel 1807 sono poi menzionate come «plache con giaza e figura» (ASCM m. 387 fasc.

48. francEsco bozElli (nato a Ferrara, attivo a Torino tra il 1783 e il 1793)

Ventola, 1790 circa

Legno dipinto, pastiglia, cartapesta, metallo, specchio, cm 108 x 60.Caravino (to), Castello e Parco di Masino, Fai - Fondo Ambiente Italiano, inv. SBAS TO 482.

6653). Le ventole recavano infatti in origine un’im-magine a rilievo, in pastiglia, applicata direttamen-te sullo specchio. A confermarlo è la piccola figura umana, purtroppo molto lacunosa, presente ancora su una delle sei nella Stanza delle tre finestre.Con alcune varianti si contano oggi negli ambienti del Castello di Masino ventisette ventole in pastiglia, distribuite tra l’Appartamento della Regina, la Stan-za delle tre finestre, il Corridoio del Papa e la Sala degli ambasciatori d’Austria.Se per quanto riguarda i materiali utilizzati si può parlare di una produzione povera, il gusto di que-ste opere è invece ricercato e aggiornato. Va notato inoltre come il carattere che le impronta è più inglese che italiano o francese: la leggerezza dell’ornato e la ricchezza del repertorio figurativo sembrano infatti riecheggiare modelli prossimi alla lezione di Robert Adam. E non è forse una coincidenza che tra le nu-merose incisioni inglesi acquistate dallo stesso Carlo Francesco II Valperga, siano ancora oggi conservate nell’archivio del castello nove tavole tratte dal New Book of Pier-Frame’s, oval’s, gerandole’s, table’s..., pubbli-cato a Londra nel 1769 da Matthias Lock, allievo di Robert Adam.

[alEssanDro WEGhEr]

Bibliografia: Ballaira, Ghisotti 1994, pp. 125-126.

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8.Legno e avorio per le imprese napoleoniche

La riscoperta del patrimonio artistico realizzato durante l’epoca francese in Piemonte è frammentaria, indebolita da perdite, dispersioni e modifiche tali da rendere a volte le opere irriconoscibili. Poche opere testimoniano così bene la drammatica evoluzione dei tempi in cui furono realizzate come il Trofeo militare di Giuseppe Maria Bonzanigo. L’artista lavora alla sua esecuzione per oltre vent’anni, dal 1793 al 1815, iniziando mentre gli Stati sabaudi sono impegnati nella guerra con la Francia, prima della comparsa di Napoleone Bonaparte e terminando durante la Restaurazione. Per la diminuzione delle committenze di corte alcuni artisti sono spinti a instaurare un rapporto più diretto con il mercato privato, in ciò sollecitati anche dalle esposizioni che vengono organizzate a Torino nel 1805, 1811 e 1812. L’artista che meglio si adegua alla nuova situazione di mercato è forse Bonzanigo. Messa da parte l’attività di Regio scultore di arredi, durante l’epoca napoleonica si dedica quasi esclusivamente all’esecuzione di microintagli, concepiti come opere autonome, raggiungendo una fama internazionale anche grazie ai numerosi allievi della sua bottega. Tra i collaboratori più noti è Francesco Tanadei (1771-1828), specialista nella lavorazione dell’avorio, così come Giacomo Marchino, che eredita l’impresa alla morte del maestro.

[ElisabEtta ballaira, silvia Ghisotti]

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Donata nel 1844 dal marchese Federico Turinetti di Cambiano, accademico d’onore, la Lezione di anatomia in Grecia ben si collocò nella Pinacoteca dell’Accade-mia Albertina di Belle Arti, che negli anni del regno di Carlo Alberto fu costituita con finalità dichiara-tamente didattiche. L’insegnamento dell’anatomia in effetti era, ed è tuttora, alle basi della formazione artistica (Merlino, Musiari e Tartaglino 2017). Il disegno acquerellato di Louis Lafitte (Parigi, 1770-1828), firmato e datato 1793, è documentato per la prima volta a Torino nel 1803, in una mostra presso l’Académie Subalpine d’historie et beux-arts dove fu presentato con la preziosa cornice intagliata da Giuseppe Maria Bonzanigo. Nel 1820 il marchese Turinetti, che aveva acquistato l’opera, già ne permi-se l’esposizione al Palazzo dell’Università (Dalmasso 1980; Gaglia 1982; Bertolotto 1989-2011; Petrucci e Vitiello 2009).Delizioso è il gioco di rimandi tra la cornice in le-gno e l’acquerello su carta. Con le stesse proporzioni del bassorilievo disegnato da Lafitte, Bonzanigo ha realizzato delle microsculture che presentano in alto scene funebri e medico-anatomiche, ispirate a un’o-pera di Palazzo Farnese a Roma che venne riprodot-

ta dall’incisore Pietro Santi Bartoli (Perugia 1635 - Roma 1700; Vesme 1963-1982). Al centro è posta in evidenza la figura di Asclepio. Agli angoli sono ri-conoscibili i profili di Ippocrate, Haller e Morgagni, mentre è scomparso quello di Galeno che originaria-mente completava la serie dei padri della medicina antica e moderna. Tra questi ritratti sono visibili strumenti chirurgici in miniatura e alcuni insetti - una mosca, uno scor-pione, uno scarabeo e una cantaride - che stupiscono per la minuziosità con la quale sono stati realizzati a grandezza naturale. In basso, sulla destra del bassorilievo che ritrae Louis Lafitte, è posta una tavolozza da pittore, abbinata ai simboli della medicina, mentre dalla tromba che un’aquila sostiene con il becco esce un cartiglio che recita: «Les arts rendront hommage à la nature». Sempre in basso, al centro di un’urna posta sulla de-stra, è visibile la firma «G.bon.o».

[Enrico ZanEllati]

Bibliografia: Baudi di Vesme 1963-1982, I, p. 168; Dalmasso 1980c; Gaglia 1982, pp. 123-189; Petrucci, Vitiello 2009, pp. 4-13; Bertolotto 2011, p. 174; Musiari 2017, p. 18.

49. louis lafittE (Parigi 1770-1828)

Lezione di anatomia in Grecia, 1793

Disegno acquarellato e lumeggiato con biacca su carta tinta, 28,3 x 47 cm.

GiusEppE Maria bonZaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Cornice intagliata, ante 1803

Legni vari lavorati a microintaglio, 59,3 x 77,7 x 4 cm.Torino, Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Belle Arti, inv. 277.

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La scena, già definita «Allegoria della notte», è da collegare al mito greco di Selene ed Endimione (Vil-lani 1989a, pp. 63-64).In una delle versioni più conosciute di tale mito, la Luna (Selene) si innamora di Endimione, bellissimo pastore del monte Latmo, in Caria, e per poter scen-dere a baciarlo ogni notte gli dona un sonno eterno. La maggior parte delle raffigurazioni, dalle pitture pompeiane ai sarcofagi romani, ai dipinti rinasci-mentali e barocchi, rappresenta appunto Endimio-ne addormentato. Nei sarcofagi tale soggetto assume un significato sepolcrale, poiché Endimione ebbe il dono di poter sostituire la morte con un sonno eterno, ottenendo un’eterna giovinezza. Nei rilievi dei sarco-fagi Selene, che percorre il cielo sul suo carro, appare nell’atto di scendere verso il giovane pastore (o caccia-tore, secondo un’altra versione del mito), incorniciata dal mantello gonfiato dal vento. Questa iconografia è riproposta nel rilievo ligneo di Bonzanigo, nel qua-le tuttavia Endimione non è addormentato, ma leva lo sguardo verso Selene, la Luna, facendosi schermo con la mano, come abbagliato dalla sua luce. Anche il cane, fedele compagno del pastore, leva il muso ver-so il cielo stellato, sorpreso dalla divina apparizione (come nel bassorilievo dei Musei Capitolini). La raf-figurazione di Endimione che veglia è estremamente rara sia nell’arte antica, sia nella pittura barocca, nella quale il mito ebbe una rinnovata fortuna. La ritro-viamo in un dipinto di Poussin (Detroit, Institute of Arts), dove Selene, identificata con Diana, appare a Endimione che la contempla inginocchiato, mentre il

50. GiusEppE Maria bonZaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Microscultura con Selene ed Endimione, fine xviii secolo

Intaglio in legno di frutto su legno tinto di azzurro entro cornice lignea coeva, 21 x 29, 9 cm (cornice 26,5 x 35 cm).Asti, Museo Civico di Palazzo Mazzetti, inv. 1972 n. 67; cat. 1989 n. 14. Dono Gen. Tommaso Maggiora-Vergano, 1933.

bastone del pastore è caduto a terra. Un simile basto-ne dall’estremità ricurva è tenuto con la destra dal no-stro protagonista (accanto alla zucca utilizzata come borraccia), mentre la dea ritratta da Bonzanigo si ap-parenta a quella del pittore francese nell’incedere lieve e nella veste succinta mossa dal vento. Particolarmen-te suggestivo nel quadretto dello scultore astigiano è il dialogo silenzioso tra Selene, lo sguardo assorto in contemplazione, e il pastore che la guarda sorpreso, il bel volto virile incorniciato dalla chioma ricciuta. Anche le membra di Endimione sono costruite con vigore, ma addolcite da delicati passaggi luminosi, come accarezzate dalla luce lunare. Un’analoga sensibile trattazione del nudo maschile si ritrova nel rilievo raffigurante il Po sul Vaso allego-rico donato da Bonzanigo al re Vittorio Amedeo III, opera databile al 1787, quando l’artista fu nominato «scultore del Re». All’interno del vaso vi è un meda-glione con la dedica al sovrano, recante sul verso Dia-na con la cerva. Una simile iconografia è riproposta, con un diverso significato, nell’Allegoria dell’immorta-lità ottenuta con la virtù, dove la figura femminile, che si appoggia a una cerva e ha sul capo una stella, presen-ta una modellazione piena e luminosa, confrontabile con quella della nostra Selene (Bertolotto 2003, pp. 36-37). Un’analoga modellazione caratterizza il bas-sorilievo esposto in mostra con le Grazie o Allegoria dell’amicizia (Torino, Palazzo Madama), di cui esiste il disegno preparatorio di Bonzanigo, con alcune va-rianti (cfr. Bertolotto 1989, p. 40; Dragone 2002, pp. 90-91).

La raffigurazione di Selene ed Endimione, entro un ovale incorniciato da fiordalisi di fresco naturalismo (considerati simbolo di felicità), si ispira probabil-mente a un dipinto sei-settecentesco, forse conosciuto attraverso una stampa. Possiamo tuttavia apprezzare la maestria dello scultore astigiano nel tradurre la fon-

te iconografica, trasferendola nella terza dimensione e infondendo nei protagonisti un toccante alito vitale.

[claudio bErtolotto]

Bibliografia: Villani 1989a, pp. 63-64; Bertolotto 1989, pp. 32-54; Dragone 2002, pp. 90-91; Bertolotto 2003, pp. 36-37.

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Le Grazie sono figlie di Giove e Eurinome e si chia-mano Eufrosine (la Gioia), Talia (la Prosperità) e Aglaia (lo Splendore). Accompagnano sempre Venere e rappresentano la gentilezza e la grazia. Il quadretto di Bonzanigo le presenta come allegoria dell’amicizia seguendo puntualmente la descrizione dell’Iconologia di Cesare Ripa (1630), che si ispira a sua volta a Pausania. Nude «perché l’animo deve es-sere libero, e sciolto da ogni inganno», «una volge le spalle, e due volgono il viso per mostrare, che sempre duplicato si deve rendere il beneficio all’amico», e portano in mano la rosa che «significa la piacevolez-za, quale sempre deve essere tra gl’amici», un dado, che «significa l’andare, e ritornare alternamente dei benefitij, come fanno i dadi quando si giuoca con essi» e il mirto, «che è sempre verde, è segno che l’A-micitia deve l’istessa conservarsi, né mai per alcuno accidente farsi minore» (Bertolotto 1989). Concetti ribaditi dal cuore fiammeggiante sul basamento, da-gli amorini con rami di mirto, dal cesto di rose e dal cane. Al centro dell’allegoria si inserisce il ritratto di Tito, imperatore di Roma che miracolosamente scampa a una congiura, scopre di essere stato tradito da un ami-co e lo condanna, ma alla fine con un atto di magna-nimità inaspettata, perdona tutti. L’episodio viene esaltato dal Metastasio nel dramma La clemenza di Tito del 1734 con musica di Antonio Caldara, e tale è il successo che esso venne musica-to nei decenni successivi da numerosi altri compo-sitori, tra cui Christoph Willibald Gluck (1752) e

Baldassarre Galuppi (1760), fino a Mozart nel 1791. Va ricordato che nel 1798 l’edizione dell’opera di Bernardino Ottani, espressione del paternalismo e dell’assolutismo del sovrano, è rappresentata al Tea-tro Regio di Torino con scene di gusto neoclassico di Giovannino Galliari (per i disegni delle scenografie, conservati a Palazzo Madama, inv. 3084/DS - 3091/DS, cfr. Viale Ferrero 1980, p. 790).Il quadretto, di cui si conosce il disegno preparatorio a acquerello e bistro (Dalmasso 2002, p. 90), appar-tiene a quella raffinata e apprezzata produzione di intagli minuti in cui Bonzanigo si distingue a partire dagli anni Novanta del Settecento, quando - esau-ritasi le grandi committenze pubbliche per le opere decorative delle residenze di corte - il maestro si rivol-ge con le sue virtuosistiche microsculture al mercato dei potenti che si alternano al governo e alla classe nascente di notabili amanti dell’arte. La richiesta cresce e nel 1803-1804 l’artista tenta di costruire intorno a questa attività una società per azioni basata sui lavori di intaglio. Oltre ai ritratti, ri-scuotono gran successo in epoca napoleonica le scene mitologiche come le tre Grazie, di tipica ascendenza neoclassica, in cui vengono ripresi stilemi da reperti archeologici pompeiani. Camillo Borghese, governa-tore francese a Torino, è attento estimatore di questo genere e possiede due dipinti attribuiti a Tiziano e Giulio Romano con il medesimo soggetto (Levi Mo-migliano 1997, p. 49). I valori simbolici del pannello legati all’amicizia e alla riconoscenza lo rendono un oggetto molto adat-

to a essere donato in segno di gratitudine. Il tema delle tre Grazie ritorna altre volte nell’opera di Bon-zanigo e dei suoi allievi, in dimensioni minori: nel tondo del Museo Civico di Asti, in cui il maestro dispone le tre fanciulle di fronte (Villani 1989, pp. 67-68) e in un altro tondo di collezione privata (Dal-masso 2002, p. 91), nel tondo in avorio di France-sco Tanadei (Bertolotto 1996b, p. 138), databili tra il primo e il secondo decennio dell’Ottocento, e la statuetta di Giacomo Marchino firmata e datata a Torino nel 1823 del Victoria and Albert Museum di Londra (inv. A.12-1984, cfr. Trusted 2013, p.

313, n. 310). Acquistato nel 1867 durante la dire-zione di Pio Agodino, l’intaglio fu tra le prime opere di Bonzanigo a pervenire al Museo Civico torine-se fondato nel 1863, negli anni in cui la riscoperta dell’ebanista andava di pari passo con la rinasci-ta delle tecniche dell’intaglio e della tarsia (Pagella 2011).

[clElia arnaldi di balME]

Bibliografia: Mallè 1972, p. 217; Bertolotto 1989, p. 40, n. 7; Ber-tolotto 1996a, p. 137; Dalmasso 2002, pp. 90-91; Pagella 2011, p. 32; Bertolotto 2011a, pp. 425-426.

51. GiusEppE Maria bonZaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Monumento all’imperatore Tito (Le tre Grazie), 1790-1800 circa

Legni vari intagliati, 38,5 x 29 cm.Iscrizioni: entro il cuore ardente applicato sulla base del monumento «lonGE Et propE» con ai lati le parole «Mors» e «vita» abrase; intorno al medaglione ritratto «t(itu)s a(u)G. iMp».Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 1037/L.

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Negli anni successivi alla decapitazione di Luigi XVI e Maria Antonietta, si diffonde in molti paesi europei, negli ambienti aristocratici e controrivolu-zionari, un’iconografia che tende a esaltare il ricordo e il sacrificio dei regnanti. Particolarmente impegnata in questa produzione appare a Torino la bottega di Bonzanigo, forse stimolata anche dalla presenza di rifugiati come i conti d’Artois e di Provenza, i fratelli di Luigi XVI che avevano sposato due figlie di Vit-torio Amedeo III. Ne sono un esempio una Allegoria in memoria di Luigi XVI e Maria Antonietta (Giuseppe Maria Bonzanigo 1989, fig. 54.12 p. 207) e una in me-moria di Maria Elisabetta di Borbone (sorella di Luigi XVI ghigliottinata nel maggio del 1794, cfr. Giusep-pe Maria Bonzanigo 1989, fig. 13 p. 199), entrambe di forma circolare e impostate intorno a un monumento funerario; ma anche una più grande composizione alla memoria di quest’ultima, recentemente transita-ta sul mercato (Christie’s, Parigi, asta del 24 giugno 2010, lotto 239).Il rilievo che qui si espone, caratterizzato dalla note-vole qualità d’intaglio, dal magistrale uso di diverse essenze lignee e dal naturalismo ritrattistico tipico del

miglior Bonzanigo, appartiene a una diversa tipo-logia. I due profili affrontati non si accompagnano infatti a espliciti richiami funebri e si apparentano piuttosto alla ritrattistica riservata a coniugi in vita. Solo a una osservazione più attenta si notano tra i due volti, oltre allo scudo con i gigli di Francia, alla cro-ce dell’ordine francese dello Spirito Santo, ai rami di alloro e di ulivo (?) incrociati, alla corona regale, alla mano di giustizia e allo scettro (che doveva terminare in un giglio, perduto), due gigli appassiti e due rami di palma, simboli cristiani del martirio. La compo-sizione sembra direttamente ispirata all’allocuzione Quare lacrymae emanata da Pio VI, che elevava l’ese-cuzione di Luigi XVI al rango di martirio cristiano e che offre un singolare aggancio iconografico nel se-guente passo: «Noi abbiamo la ferma fiducia che tu hai felicemente cambiato una caduca corona regale e i gigli, che in breve sfioriscono, con un’altra corona perenne, intessuta dagli Angeli con gigli immortali» (Spinosa 2007, p. 225).

[vittorio natalE]

Bibliografia: inedito.

52. GiusEppE Maria bonZaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Ritratto di Luigi XVI e Maria Antonietta, 1795 circa

Legni vari intagliati, diametro 8,4 cm (la cornice 12,5 cm).Collezione privata.

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Il rilievo raffigura il feldmaresciallo Suwarow, co-mandante in capo dell’armata austro-russa in Italia dal febbraio 1799, artefice della breve riconquista dell’Italia settentrionale e di Torino contro i Francesi, fino alla battaglia di Marengo. L’inusuale presenza della sigla dell’artista testimo-nia l’importanza assegnata a quest’opera, dove il personaggio è effigiato con efficace naturalismo: l’uso sapiente delle diverse essenze lignee conferisce profondità alla composizione e i singoli oggetti che compongono il trionfo militare sono descritti con stu-pefacente fedeltà.Nonostante la notevole verosimiglianza, il ritratto non fu eseguito dal vero, ma desunto da una incisione di Johannes Neidl, a sua volta derivata da un dipinto di Joseph Kreutzinger (Vienna 1757-1829). Era ben nota a Bonzanigo l’incisione per un esem-plare della quale egli aveva realizzato una preziosa cornice, oggi conservata a Bene Vagienna (Dragone, Cavallero, Ravera 1989), nella quale vengono anti-cipati molti degli elementi simbolici che compaiono nel nostro rilievo (un altro esemplare della stampa ri-sultava all’inizio del secolo scorso nella collezione del principe di Essling, discendente del generale Masse-na, diretto avversario di Suwarow).

53. GiusEppE Maria bonZaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Ritratto del feldmaresciallo Suwarow, 1799

Legni vari intagliati, 30 x 22 cm.Collezione privata.

Il ritratto non fu donato dall’artista, come nei casi de-gli impegnativi ritratti di Maria Luisa, donato a Na-poleone nel 1811, e di Vittorio Emanuele I in avorio, donato al re nel 1815, ma fu commissionato dalla Confederazione Svizzera, come documenta una par-zialmente sbiadita iscrizione presente sul retro. Dal-la stessa si desume che l’opera dovette essere eseguita prima del 25 settembre 1799, quando la vittoria di Massena nella seconda battaglia di Zurigo determinò il richiamo di Suwarow in Russia. L’immagine del feldmaresciallo divenne per molti aristocratici il simbolo della riscossa contro i Francesi e Napoleo-ne, come dimostra la serie di biografie celebrative che vedono la luce tra il 1799 e il 1800 (Imprese fatte nell’Italia 1799; Storia della campagna 1799-1800; Storia della vita 1800), oltre a un altro ritratto di Suwarow, di dimensioni minori, sempre intagliato da Bonzani-go e conservato al museo di Asti (Bertolotto 1989b, p. 72).

[vittorio natalE]

Bibliografia: Bertolotto 1989, pp. 42-44; Natale 1991, p. 453 e p. 454 fig.; Febbraro 2002, p. 45; Dragone 2004, pp. 23, 25; Bertolotto 2011, p. 427; Bertolotto 2017a, pp. 288-289 cat. 50.

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La tabacchiera reca sul coperchio, protetto da un ve-tro bombato, un intaglio minuto in legno di pero con una natura morta di fiori, frutti e ortaggi. Quest’ulti-ma si dispone su una coppa di legno scuro lucente, posta su un ripiano coperto da un tappeto a festoni con decori floreali. Su questo posano una libellula e una locusta.La composizione trabocca dalla coppa con i suoi in-numerevoli fiori, resi con vivo naturalismo, nei toni caldi del legno di frutto che risalta luminoso sul fon-do ebano. La coppa sorregge inoltre un melone, un carciofo e un cetriolo. La natura rigogliosa simboleggia l’Abbondanza, che può essere intaccata dalla voracità della locusta, come osserva Angela Griseri (1989a, p. 66).Il fresco naturalismo con cui Bonzanigo sapeva ren-dere i motivi floreali si era già manifestato, in scala maggiore, nel Vaso allegorico donato a Vittorio Ame-deo III nel 1787, quando l’artista ricevette la nomi-na a «scultore del Re» (Torino, Palazzo Madama). Con tale opera, in legno di pero intagliato e lasciato a vista, inizia quella valorizzazione del legno natura-le che sarà un carattere peculiare degli intagli minu-ti di Bonzanigo, e che trova significativi precedenti nell’arte nordeuropea, al pari del gusto per il microin-taglio, che gode nei paesi nordici di una fortuna co-stante, dal manierismo al barocco, anche in rapporto con la moda delle Wunderkammern (Bertolotto 2011a, p. 425, nota 7). In effetti la nostra tabacchiera si può considerare una sorta di «wunderkammer» tascabile, con le meravi-glie della natura ricreate nel palmo di una mano, da

54. GiusEppE Maria bonZaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Tabacchiera con natura morta, fine xviii secolo

Intaglio in legni vari su ebano, scatola in tartaruga e legno, diam. 6,5 cm (scatola diam. 8 cm).Asti, Museo Civico di Palazzo Mazzetti, inv. 1972 72; cat. 1989 n. 19. Dono Gen. Tommaso Maggiora-Vergano 1933.

contemplare e da mostrare per suscitare stupore e am-mirazione. Le composizioni floreali, tema prediletto delle natu-re morte dipinte in epoca barocca, ebbero un’ultima raffinata espressione nel Piemonte di fine Settecento, con i dipinti di Michele Antonio Rapous e di An-gelo Vacca, artisti accanto ai quali Bonzanigo operò realizzando mobili e boiseries per le residenze sabaude, dal Palazzo Reale di Torino al Castello di Rivoli. Lo scultore astigiano fu certamente affascinato dall’ecce-zionale bellezza di quei fiori dipinti, ai quali nelle sue microsculture restituì la terza dimensione, pur conser-vandone la consistenza delicata e quasi impalpabile.Le composizioni intagliate da Bonzanigo e dalla sua bottega rispondevano inoltre al gusto per i minuti motivi floreali che si diffuse nelle arti decorative nella Francia del tardo Settecento (dalle stoffe lionesi dise-gnate da Philippe de Lasalle alle porcellane di Sèv-res), riverberandosi sul Piemonte sabaudo (Griseri 1989a, p. 82). Un’eco di tale gusto, nel Castello di Rivoli, è la tappezzeria a fiori della camera d’udien-za della principessa Beatrice, primogenita dei duchi d’Aosta, Maria Teresa d’Austria-Este e Vittorio Emanuele di Savoia: un delicato papier peint in parte sopravvissuto agli sfregi subiti dalla dimora sabauda durante e dopo l’ultima guerra, recuperato con i re-centi restauri.Tornando alla nostra microscultura, il gusto tar-do-barocco del tappeto (sul quale la libellula e la lo-custa sembrano essersi appena posate), richiama l’im-paginazione di alcuni ritratti di Vittorio Amedeo III intagliati da Bonzanigo, suggerendo di datare l’opera

entro l’ultimo decennio del Settecento (Arnaldi di Balme 2011, p. 16, figg. 3-4).

[claudio bErtolotto]

Bibliografia: Griseri 1989a, scheda 19, p. 66; Arnaldi di Balme 2011, p. 16; Bertolotto 2011a, pp. 424-437.

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Il trofeo militare si compone di un corpo inferiore coperto da un finto tappeto di damasco, su cui sono intagliati le fatiche di Ercole, girali vegetali e un bordo di frange, e una vetrina superiore che contie-ne una fitta composizione di microsculture disposte a forma di trofeo su un pannello di seta verde. Dal centro, costituito da due scudi con le figure di Marte e Medusa, si dipartono volute vegetali, rami di quer-cia, armi, bandiere, medaglioni ritratto, cornucopie e leoni in una straordinaria ricchezza compositiva. In alto l’immagine della dea Bellona e il cartiglio con la dedica «virtuti belli et sapientiae pacis» offrono la chiave di lettura dell’opera, legata alla celebrazione del sovrano e delle sue glorie militari. Nato in tempi di rapide trasformazioni politiche, il trofeo si adeguò ai mutamenti storici con una serie di modifiche che lo investirono per una ventina d’anni, in attesa di trova-re un compratore. La storia di questi mutamenti è ormai nota: a una prima fase degli anni 1792-1794, durante il regno di Vittorio Amedeo III e la guerra contro la Francia, seguì nel 1801 l’assetto iconografico napoleonico per ottenere il gradimento nel Piemonte imperiale annes-so alla Francia. E per una volta fu risistemato tra il 1814 e il 1815 per allinearlo all’avvenuta Restaura-zione, ponendo al centro il re Vittorio Emanuele I circondato dalle effigi dei quattro elettori dell’Impero (Treviri, Magonza, Baviera e Colonia) e episodi di storia classica (Arnaldi di Balme 2011 e Palumbo 2011 per l’identificazione di tutti i ritratti). Ogni volta, il volto di chi lasciava la ribalta politica scompariva per far posto a quello dei nuovi prota-

55. GiusEppE Maria bonZaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Trofeo militare, 1793-1814

Legni vari (palissandro, ippocastano, lauro, pioppo, ebano, olivo, bosso, rosa, tiglio, agrifoglio, pero o melo) intagliati, vetro, seta, 172 x 116 x 43 cm.Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 1161/L.In comodato alla Reggia di Venaria.

gonisti, tanto da far commentare all’erudito francese Aubin Louis Millin in visita a Torino, quasi infasti-dito dalla sovrabbondanza di ritratti nati in onore del re di Sardegna e ora sormontati dall’aquila imperiale e da Napoleone: «mais Bonzanigo sait tout arranger» (Arnaldi di Balme 2011, p. 12). Nonostante ciò, nel 1814 il trofeo si trovava ancora nel laboratorio di Bonzanigo, invenduto. Nel 1801 il tentativo di acquisto del generale Jourdan per il Mu-sée Central des Arts di Parigi era risultato vano per l’alto prezzo e nessuna altra trattativa era stata intavo-lata. Cosa strana, perché le microsculture dell’artista, che attingevano a una tradizione consolidata dal xvi secolo in area fiamminga e tedesca, diffusa in Italia soprattutto in ambito emiliano (Colle 2001), riscuo-tevano un buon successo in tutta Europa. I piccoli ritratti di Bonzanigo consentivano il recupero delle capacità tecniche degli artisti rinascimentali e offriva-no un’alternativa originale alla moda diffusa a fine Settecento dei ritratti in miniatura dipinti a acquerel-lo o gouache sull’avorio, a grafite su pergamena, alle silhouette, agli intagli di pietre dure o alle medaglie. I modelli di riferimento erano quelli degli ornemani-stes francesi in voga allo scadere del Settecento, come Charles Antoine Jombert, Richard de Lalonde, e so-prattutto del vocabolario figurativo offerto dalla Nou-velle iconologie historique di Jean-Charles De la Fosse, edita a Parigi nel 1768. Il grande Trionfo militare raggiungeva un risultato fuo-ri del comune per abilità di esecuzione e carica espres-siva: ma alla morte dell’artista nel 1820, esso attende-va ancora un compratore e stranamente non veniva

citato tra i beni inventariati nel laboratorio. Salvo una parentesi nel 1832 per l’uscita dallo stampatore Fo-dratti della Descrizione di un monumento militare scolpito in legno da Giuseppe Maria Bonzanigo, le notizie si perdo-no fino al 1859, quando l’opera fece la sua comparsa sul mercato parigino. La cosa non sfuggì a Emanuele d’Azeglio, che si trovava a Londra e che riuscì a farlo acquistare da uno dei suoi fornisseurs inglesi, Giovan-ni Calvetti. Con mille difficoltà, d’Azeglio combinò l’acquisto da parte del Museo Civico di Torino e nel 1870 finalmente la scultura fu accolta nelle sale del Museo (Arnaldi di Balme 2016b, p. 86). I tempi erano cambiati: tutto ciò che allo sguardo di Millin rappresentava confusione e fatica creativa, e che Ludovico Costa definiva «ostinata pazienza» (Astrua 1982, p. 70 e Dalmasso 2002, p. 90), ora diventava testimonianza di un sapere tecnico da con-servare e trasmettere. L’intaglio e la tarsia, riportati in auge dalle botteghe fiorentine e senesi, stavano riscuo-tendo grande successo alle esposizioni universali e la riscoperta di Bonzanigo poteva anche contare sulla biografia dell’artista stesa da Pietro Giusti, edita nel 1869. Le acquisizioni del Museo Civico sviluppavano gli interessi della cultura artistica industriale all’interno della quale le opere di Bonzanigo scrivevano un capi-tolo fondamentale per la storia dell’intaglio del legno, tanto che dalla nascita del museo nel 1863 al 1875 furono acquistati dal direttore Pio Agodino e dal Consiglio direttivo una quarantina di lavori dell’arti-sta (Pagella 2011, pp. 31-33).

[clElia arnaldi di balME]

Bibliografia: Baudi di Vesme 1963-1982, I, pp. 160-171; Mallè 1972, pp. 20, 212 -215, tavv. 315-316; Dalmasso 1989, p. 117; Pettenati 1995, p. 62; Antonetto 2010, pp. 337-338; Arnaldi di Balme 2011; Maritano 2011, pp. 95, 100; Pepino 2015, p. 20; Arnaldi di Balme 2016b, pp. 86-87.

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Nei due pendants si affrontano di profilo i busti ebur-nei della coppia imperiale, posati su basamenti che recano i nomi degli effigiati e, sulla specchiatura, figure di putti allegorici in avorio, allusivi a Venere che disarma Marte e all’Amore. Il ritratto di Napoleone, firmato a Torino da Bonzanigo, è completato da un cippo con l’elenco delle sei principali battaglie vin-te tra il 1800 e il 1807, cippo ornato alla base dagli emblemi della Fama e alla sommità da un’aquila imperiale; quello della consorte è invece affiancato da un tavolino il cui ripiano, recante oggetti allusivi alle virtù femminili dell’effigiata, è retto da aquile (in ricordo dell’origine imperiale della principessa) e or-nato lungo la colonna di sostegno da un rampicante (che richiama la Fedeltà). Tutto l’apparato allegorico celebra la pace, ristabilita a seguito della supremazia militare di Napoleone e sancita dal matrimonio con la figlia dell’imperatore austriaco Francesco I, sposata il primo aprile 1810 con cerimonia ufficiale. La coppia di rilievi dovette quindi essere eseguita tra questa data e il 15 agosto del 1811, quando il «Portrait en bas-relief de Sa Maje-sté d’Empereur et de Sa Majesté l’Impératrice, avec différens emblèmes et ornements» - opera che proba-bilmente va riconosciuta nei nostri pendants - venne

56-57. GiusEppE Maria bonZaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Ritratto di Maria Luisa d’Asburgo Lorena e Ritratto di Napoleone, 1811 circa

Avorio e legni vari intagliati su ebano, 23 x 16 cm (38 x 29 cm con la cornice) ciascuno.

presentato al Salon de Beaux-Arts e Manufactures di Torino. Ai ritratti in legno, perlopiù in pero, trattati con stra-ordinario naturalismo, Bonzanigo affiancò durante l’epoca napoleonica anche i ritratti in avorio, applica-ti su fondi neri di ebano e di gusto più squisitamente neoclassico, che evocavano la scultura monumentale in marmo. Nell’uso di questo materiale costante fu il confronto con l’allievo Tanadei, che, nominato scultore in legno e avorio del Governatore generale Camillo Borghese, risponderà l’anno successivo pre-sentando alla seconda edizione della stessa mostra to-rinese altri busti della coppia imperiale, impreziositi da molteplici elementi allegorici.Sempre in avorio era stato eseguito da Bonzanigo, forse poco prima dei rilievi di cui ci stiamo occupan-do, un ritratto dell’imperatrice di notevole ricchezza esornativa che raffigura Maria Luisa di tre quarti e che, inviato in dono a Napoleone, fu esposto al Lou-vre, dove ancora si conserva, il 25 aprile di quello stes-so 1811 (Malgouyres 2010, scheda 90).

[vittorio natalE]

Bibliografia: Académie de Turin 1811, p. 2; Salon de Beaux-Arts 1811, p. 5; Bertolotto 1989a, p. 44.

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Rispetto alla versione più diffusa dei ritratti di Isabey, che vedono l’imperatore con il busto frontale e il capo di tre quarti, qui il volto di Napoleone è ripreso fron-talmente, con lo sguardo pensieroso lanciato in lonta-nanza, oltre lo spettatore, e un tendaggio verde che sul fondo accresce l’effetto di profondità (per un ritrat-to simile, ma minore e montato su una tabacchiera, già nella collezione del principe Napoleone Vittorio Bonaparte, cfr. Basily 1909, II, pp. 151 e 452). Sul-la divisa da colonnello dei cacciatori a cavallo della Guardia imperiale, utilizzata durante i giorni feriali, sono appuntate le decorazioni della croce dell’ordine della Legion d’Onore e della Corona ferrea, oltre alla Gran Croce della Legion d’Onore.Le miniature di Isabey ebbero un ruolo importante nell’accompagnare la carriera di Napoleone, fissan-do l’iconografia di Bonaparte e della sua famiglia, replicata molte volte anche con l’intervento di colla-boratori che permettevano una rapida diffusione delle immagini, ma sempre conservando un livello quali-tativo molto elevato. I ritratti di Napoleone, montati sui coperchi delle tabacchiere, divennero uno stru-mento diplomatico di propaganda e di consenso, af-

58. JEan-baptistE isabEy (Nancy 1767 - Parigi 1855)

Ritratto di Napoleone I imperatore, 1810 circa (?)

Acquerello su avorio (entro cornice in bronzo dorato), 14 x 10 cm (la cornice: 27,8 x 20 cm).Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 511.

fiancati, durante l’impero, dalla produzione di opere di maggiore dimensione come quella di cui ci stiamo occupando. Gli impegni per Napoleone di Isabey, entrato in un rapporto di grande confidenza dapprima con Jose-phine e poi con Maria Luisa, furono tali da obbli-garlo a trascurare gran pare degli altri clienti priva-ti: i suoi incarichi, come si desume dalla nomina a «Peintre dessinateur du cabinet de S. M. l’Empereur, des cérémonies et des relations extérieurs» ottenuta nel 1804, non si limitavano all’esecuzione di miniature. L’opera, firmata lungo il lato destro, dovrebbe ragio-nevolmente datarsi intorno al 1810, tuttavia la presen-za della tenda sullo sfondo, simile a quella che com-pare in un ritratto ad acquerello del figlio Henri del Louvre datato 1834 (Pupil 2005, scheda 236 p. 162 e fig. p. 101), e l’espressione cupa dell’effigiato non permettono di escludere una esecuzione più tarda, in epoca di Restaurazione, quando Isabey continuò a eseguire all’occorrenza ritratti napoleonici.

[vittorio natalE]

Bibliografia: Miniature della collezione 2005, p. 101 scheda 18.

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L’opera, inedita, riproduce la scena della incorona-zione di Josephine Beauharnais da parte del consorte, e neo consacrato imperatore, Napoleone Bonaparte, immortalata dal pennello di Jacques-Louis David (1748-1825) nel grande telero intitolato L’incoronazio-ne di Napoleone o Le Sacre, conservato a Parigi, Musée du Louvre (Le Sacre de Napoléon 2004). Il dipinto, ordinato dall’imperatore nell’ottobre del 1804 ed eseguito tra il 1805 e il 1807, originariamente inteso come parte di un ciclo di quattro tele, doveva illustra-re la cerimonia che ebbe luogo il 2 dicembre del 1804 nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi.La miniatura non riproduce il quadro nella sua in-terezza, ma si limita a riproporre la porzione centrale della scena. È qui rappresentata, inginocchiata e in primo piano, Josephine, al cospetto di Napoleone, in sontuoso abito da cerimonia, che, con gesto solenne, sta sollevando la corona. Dietro di lui seduto, e in-tento a osservare la scena, il pontefice, Pio VII, insie-me ad alcuni alti prelati tra cui spiccano, in abiti di cardinale, l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Caprara, di fianco a lui, mitrato, il cardinale Romo-aldo Braschi-Onesti e, barbato, l’abate Raphäel de Monachis. Emile de Beauharnais (Madame de Lava-lette) e Madame de la Richefocault, prima dama d’o-nore dell’imperatrice, sorreggono il lungo mantello in velluto ricamato e foderato di ermellino di Josephine. Dietro all’imperatrice sono riconoscibili, in abiti di gala, i marescialli Jean de Dieu Soult, Bon-Adiren Jannot de Moncey, Jean-Mathieu Philibert Sérurier e, reggente il cuscino su cui era già posata la coro-na, Gioacchino Murat, maresciallo dell’impero e re di Napoli dopo il 1808, nonché marito della sorella

59. pontEpoinx blaix (documentato in Francia all’inixio del xix secolo)

Le Sacre 1802, primi decenni del xix secoloOlio su avorio, bronzo e legno, 28,5 x 28 cm.Collezione privata.

di Napoleone, Carolina. Dietro di lui si trovano il generale Louis-Auguste Juvénal des Ursins, conte di Harville, e il conte Estève, tesoriere generale della corona. Di fianco alcuni vescovi in atto di benedire la scena. Il presule in primo piano, il cardinale Car-lo Francesco Caselli, regge la croce pastorale. Nella tribuna dipinta in secondo piano è seduta, al centro, la madre del Bonaparte, Maria Letizia Ramolino, affiancata da due dame, Madame de Fontages e Ma-dame Soult. Dietro alla prima, stanti, sono raffigurati i ciambellani di Mme Mère, de Cossé Brissac e de la Ville, dietro alla seconda si trova il futuro generale Beaumont.La figura rappresentata in primo piano a destra, di spalle, parzialmente tagliata e quasi del tutto coper-ta da mantello, con copricapo piumato che trattiene un’insegna sormontata dall’aquila imperiale, è Char-les Francois Lebrun, arci-tesoriere dell’impero.Il dipinto, come testimonia la stessa storia della replica oggi al Musée de Chateau de Versailles, proveniente da Oldway Mansion di Paignton nel Devon, ebbe una notevolissima fortuna iconografica, venendo ri-prodotto nell’integrità o in parte con vari mezzi: dalle stampe, alla microscultura in avorio alla porcellana.La replica in oggetto è piuttosto fedele, dal momento che l’unica variante di rilievo, al di là della resa sem-plificata, rispetto all’originale, della fisionomia dei personaggi coinvolti, è il colore rosso, invece che blu, del tessuto del cuscino su cui poggia le ginocchia Jo-sephine Beauharnais e l’inserimento, nella porzione superiore, di tendaggi che fanno da quinta alla scena.Si tratta per lo standard dimensionale delle miniatu-re di un esemplare di misure piuttosto ragguardevoli,

dipinto con maestria con colori ad olio e gouache su sottili lastre d’avorio, tecnica che permette un’ottima resa dei curati dettagli dell’abbigliamento dei perso-naggi rappresentati.La miniatura è firmata in basso a sinistra «P. Blaix». Questo nome potrebbe corrispondere al «artiste pein-tre» Pontepoix Blaix, ricordato in una lettera risalente al 1815, pubblicata sul periodico francese «Le Mois» del 15 ottobre 1848 (pp. 339-340).La cornice presenta caratteri «in stile» di maturo gu-sto impero. Si noti in particolare, l’aquila con le ali spiegate alla sommità, poggiante su un elegante nastro

che trattiene i tradizionali rami di alloro e di quercia intrecciati. La targhetta metallica apposta sulla cor-nice riporta correttamente il titolo in francese con cui è nota l’opera, ma restituisce l’erronea data dell’anno 1802, rispondente nella cronologia della vita di Na-poleone all’anno in cui, invece, a seguito del colpo di stato, egli venne eletto console a vita (3 agosto).

[laura facchin]

Bibliografia: inedito.

Bibliografia di confronto: «Le Mois résumé mensule», 11, 15 ottobre 1848; Le Sacre de Napoléon 2004.

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L’insieme si compone di fitti microintagli in legno di frutto (probabilmente pero) incollati su un fondo ebanizzato, con al centro il busto di Napoleone entro un ovale, contornato superiormente e inferiormente da due trofei: uno raccoglie strumenti bellici e sim-boli riferiti alla guerra e alla forza, accompagnati da rami di alloro, e l’altro è dedicato ad allegorie delle arti e delle scienze, unite a rami di ulivo. La corni-ce principale, delimitata da bacchette di una diver-sa essenza lignea, presenta candelabra laterali, girali nascenti da foglie d’acanto in basso e, in alto, altri girali con un’aquila imperiale ad ali dispiegate che ghermisce un fulmine; agli angoli si riconoscono i profili delle figure simboliche di quattro continenti, accompagnati dalle relative iniziali.L’immagine di Napoleone non sembra ancora quella codificata nelle vesti di imperatore, cui rimanda inve-ce l’iscrizione che compare sulla mensola: «Napoleon Empereur des Français et Roi d’Italie». Ciò potrebbe essere indizio di un frettoloso aggiornamento icono-grafico immediatamente successivo al 26 maggio del 1804, data dell’incoronazione a re d’Italia. Tale com-plessa elaborazione potrebbe anche spiegare la mag-giore finezza e accuratezza degli intagli delle bande della cornice rispetto al riquadro centrale.Un’altra iscrizione ci restituisce il nome dell’autore e luogo e data di esecuzione: «Fait par Maurice Blanc a Turin l’an XII». Si tratta quindi dell’unica opera

60. MauriZio bianco (MauricE blanc) (documentato a Torino tra il 1792 e il 1815)

Ritratto di Napoleone imperatore e re d’Italia, 1803-1804 (an XII)

Legni vari intagliati, 37 x 31,5 cm.Collezione privata.

attualmente certa riferibile a Maurizio Bianco, docu-mentato tra i più stretti collaboratori di Bonzanigo nel 1792 (Ferraris 1991, p. 55 n. 53) e nel 1794, quan-do è testimone nel testamento del maestro (Bertolotto 1989, pp. 36-37 n. 12). Al pari di altri collaboratori, durante l’epoca francese, anche a causa dell’assenza delle committenze sabaude, dovette rendersi auto-nomo, come dimostra quest’opera e la presenza con 13 opere all’esposizione torinese del 1805 in onore di Napoleone. Tra queste figurava una «mouche», elemento che indica una notevolissima abilità nella minuzia e nel-la precisione dell’intaglio (Objects d’Arts 1805, pp. 9-10). Bianco, ancora attivo nel 1815 (L’indicatore torinese 1815, pp. 160-161), è uno dei pochi allievi di Bonzanigo che siamo in grado di conoscere per la qualità del loro lavoro. A lui potrebbe essere attribui-to un secondo rilievo, che raffigura Napoleone anco-ra Primo Console (Sotheby’s, New York, asta del 31 gennaio 2013, lotto 412). Per la particolare finezza ed esilità degli intagli, po-tremmo tentare di individuare la sua collaborazione anche nel Monumento alla memoria di Vittorio Amedeo III di Bonzanigo, conservato a Palazzo Madama (Berto-lotto 1996, pp. 136-137).

[vittorio natalE]

Bibliografia: inedito.

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Il complesso rilievo raffigura al centro il Tempo, con l’attributo della falce e la clessidra posata a terra, fiancheggiato tramite festoni fioriti da due putti che reggono, uno la bilancia, nell’allegoria del Giudizio, e l’altro uno specchio e un libro, a simboleggiare la Verità. Il vecchio barbuto è chino sotto il peso del mondo, sul quale si erge la figura nuda della Verità che in una mano tiene il sole e con l’altra indica le pagine aperte di un libro sorretto da un putto alato. Altre allegorie ornano la cornice, con le impersonifi-cazioni femminili dei quattro elementi, i due laterali dei quali accompagnati dai simboli della Prosperità (il caduceo), della Prudenza (serpe allo specchio e re-mora attorcigliata a una freccia) e della Fama (tuba alata); agli angoli infine i profili affrontati delle sta-gioni, riconoscibili dalla varietà botanica che inco-rona le chiome (fiori, vite, grano e, probabilmente, alloro).Il significato complessivo della scultura è svelato dal titolo con cui l’opera venne presentata all’espo-sizione torinese del 1812, organizzata in coincidenza dell’onomastico di Napoleone: «Le Tems soutenant

61. francEsco tanadEi (Locarno 1770 - Torino 1828)

Il Tempo che sostiene il mondo sul quale la Verità diffonde la luce del Sole, 1811

Avorio intagliato su fondo in noce ed ebano, 27 x 21,5 cm.Collezione privata.

le monde sur lequel la Vérité répand la lumière du Soleil, avec divers trophées et ornemens» (Salon 1812, p. 7). Tanadei, che poteva sfoggiare il titolo di «sculpteur en ivoire et bois» del Governatore generale il principe Camillo Borghese, si presentava per la prima volta al pubblico con una selezione di microsculture tutte in avorio, con cui marcava in modo più netto la propria identità rispetto al maestro Bonzanigo.La particolare importanza attribuita a quest’opera da Tanadei è dimostrata anche dalle molteplicità delle esposizioni a cui la stessa fu da lui presentata: il 3 novembre 1811 all’Accademia Reale delle Scienze (Memoires 1813, p. xxiv) e di nuovo durante la Re-staurazione, nel 1820, alla grande mostra che prefi-gura la nascita della Reale Galleria (Notizia 1820, n. 170 p. 115).

[vittorio natalE]

Bibliografia: Salon 1812, p. 7; Memoires 1813, p. xxiv; Notizia 1820, p. 115; Tomiato 2002, p. 141; Natale 2003, pp. 273-274, Bertolotto 2011a, pp. 430-433.

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L’allegoria celebra la protezione accordata alle arti e alle lettere da Vittorio Emanuele I, rientrato in posses-so dei suoi possedimenti nel 1814. Nel rilievo centrale il busto del sovrano è indicato da Minerva, dea della sapienza e protettrice delle arti, a un Amore allusivo a Venere che disarma Marte, mentre in alto volteggia la Fama (l’iscrizione «numquam satis», «non si impara mai abbastanza», deriva da Seneca). Sul piedistallo del busto, dove un genietto sta incidendo a caratteri d’oro il nome del sovrano, sono posati oggetti allusivi ai poteri e alle virtù di Vittorio Emanuele I; altri og-getti allegorici, riferibili alle arti e alle lettere di cui si celebra la protezione regale, sono al suolo.La straordinaria perizia tecnica di Tanadei, apprez-zabile nella resa illusoriamente soffice del manto er-boso, nelle sottigliezze seriche e trasparenti di alcuni particolari e nella virtuosistica precisione descrittiva degli oggetti, si estende alla cornice, concepita come un complemento allegorico necessario, con rimandi al potere regale, alle arti, alle manifatture e ai conti-nenti.Tanta cura esecutiva trova spiegazione nella destina-

62. francEsco tanadEi (Locarno 1770 - Torino 1828)

Allegoria in onore del re di Sardegna Vittorio Emanuele I protettore delle Arti e delle Lettere, 1814-1815

Avorio intagliato su ebano (entro cornice in legno di pero ebanizzato), 32,8 x 29 cm.Giordano Art Collections.

zione particolare dell’oggetto, suggerita da iscrizioni sul retro. La prima anticipa a penna il contenuto delle successive etichette a stampa di Tanadei (cfr. scheda ???), ma ancora senza riferimenti alla nomina a regio scultore ottenuta nel febbraio del 1816. Dovreb-be quindi trattarsi di uno dei «parecchi lavori» «ras-segnati» ai sovrani che, per la loro qualità, determi-narono tale nomina. La seconda iscrizione («N. 25 Kaiserin / Maria Anna / 143») attesta l’appartenenza dell’oggetto a Maria Anna Carolina di Savoia, la fi-glia di Vittorio Emanuele I andata in sposa nel 1831 all’arciduca Ferdinando d’Asburgo-Lorena, futuro imperatore d’Austria. Conservato in una delle resi-denze sabaude, il ritratto eseguito da Tanadei dovette essere selezionato dalla principessa come oggetto di particolare pregio e affezione: un ricordo del padre, ma anche una testimonianza da portare a Vienna dello stupefacente virtuosismo dell’arte torinese della microscultura.

[vittorio natalE]

Bibliografia: inedito.

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Il rilievo è accomunato al precedente, dedicato a Pio VII, dalla tipologia della cornice in legno dorato che lo racchiude, di fattura posteriore, e da una generica somiglianza compositiva, ma ha una gestazione indi-pendente e non forma con quello un vero pendant. La fattura non può del resto essere anteriore all’aprile del 1821, quando Vittorio Emanuele I ratifica l’abdica-zione in favore del fratello Carlo Felice, cui è dedicato il ritratto. Una iscrizione presente sul retro lungo un nastro tenuto nel becco da un’aquila, sebbene parzial-mente abrasa, sembra anzi scioglibile come «torino li 2 8brE 1821» e rinviare quindi ai concitati primi mesi del regno del monarca. La complessa allegoria che completa l’acuto ritratto, accompagnata dalla iscrizione augurale «diu sospEs vivat / fElicitEr rEGnEt» (Viva in salute a lungo e regni felicemente), è meticolosamente spiegata da una lunga annotazione presente sul retro, intitolata «Quadro simboleggiato del lavoro inventato, dissegnato e scolpito da Francesco Tanadei scultore di S.S.R.M.». Siamo quindi informati che la fiaccola accesa e la clava e le due ancore in alto simboleggiano «La gloria del nome» e «Lo stabilimento»; che la serpe allo specchio

63. francEsco tanadEi (Locarno 1770 - Torino 1828)

Ritratto di Carlo Felice di Savoia re di Sardegna, 1821 circa

Avorio intagliato su legno (entro cornice in argento), 24 x 16 cm.Giordano Art Collections.

e il caduceo laterali significano «La prudenza» e «La pace e l’unione per cui fiorisce il Commercio»; che l’aquila indica il «Potere Reale»; che le figure inferiori della gru con un sasso in una zampa, di un altro volatile che divora serpi velenosi e di una testa a due facce alludono rispettivamente a «Chi da lungi vede le cose, e colla vigilanza attende alla propria ed altrui sicurezza», a «L’uomo grande, che disprezza i piaceri del mondo, e da sé rimuove gli affetti terreni» e, infine, a «L’avveduto, che rammenta il passato per ordinare il presente, e provvedere al futuro». Già impegnato per Carlo Felice nel cantiere di Go-vone (i cui infissi sono ora al Museo Massena di Nizza), Tanadei rimase, dopo la morte del maestro Bonzanigo nel 1820, l’unico regio scultore in legno e avorio di sua Maestà, di cui questa composizione, per la complessità dell’allegoria, la straordinaria qualità del ritratto, la stupefacente meticolosità dei festoni fio-riti e il notevole stato di conservazione costituisce una delle prove più impegnate.

[vittorio natalE]

Bibliografia: Da Giotto a De Chirico 2016, p. 237 scheda 99.

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Il rilievo, descritto come «Effigie del Redentore: sotto il ritratto di Papa Pio VII. In avorio», figura tra le cinque opere selezionate dallo stesso Tanadei, che ne risultava ancora proprietario, per l’esposizione torine-se del 1820. I profili dei personaggi, racchiusi entro cornici di fiori di straordinaria finezza e accompagna-ti da trofei e raffigurazioni allegoriche, sono intagliati in avorio e incollati su legno, per lo più ebanizzato. Sotto il Redentore, legati dalla corona di spine, si ri-conoscono gli oggetti simbolici della Redenzione: la croce, la spugna e la lancia della Passione, la Bibbia e i dieci comandamenti che alludono alle verità rivelate e il vessillo della Resurrezione. Il ritratto di papa Chiaramonti, intagliato con effica-ce rassomiglianza, è invece accompagnato dai simbo-li del papato (la ferula con la tripla croce e il triregno con in alto il sole, le chiavi che rimandano al legato conferito a san Pietro da Cristo) e della Resurrezione (lo Spirito Santo, il cero pasquale, la croce, con in alto la colomba della pace). L’iscrizione che compare nel riquadro inferiore (si-Mon pEtrE, dilicis ME / pascE ovEs MEas), relati-va alla domanda che Gesù rivolge per tre volte a Pie-tro nel conferirgli il suo primato (Giovanni 21,17),

64. francEsco tanadEi (Locarno 1770 - Torino 1828)

Cristo redentore e ritratto di Pio VII, 1820 circa

Avorio intagliato su legno (entro cornice in legno dorato), 24 x 16 cm.Giordano Art Collections.

completa la celebrazione del pieno ripristino del potere temporale del pontefice dopo la deportazione e l’annessione territoriale napoleoniche. Simboli in parte simili compaiono in un ritratto di Pio VII di collezione privata eseguito qualche anno prima in le-gno da Bonzanigo (Asta Sotheby’s, New York, 1º febbraio 2013, lotto 406).Il quadro conserva la rara etichetta che Tanadei ap-poneva alle sue opere dopo la nomina a regio scultore in legno e avorio il 16 febbraio del 1816 e che ricor-da il domicilio di Tanadei in casa Castelli-Cipano a Torino, cioè la casa ancora citata da Paroletti nel 1819 «en face du Manège de l’Académie militaire» (l’attuale Cavallerizza reale, cfr. Bertolotto 1989, nota 35 pp. 49-50), precedente la collocazione del la-boratorio «sotto i Portici delle R.e Segreterie» attestata da altre etichette. La stessa iscrizione accompagna un altro ritratto di Pio VII di più semplice composizione (Giuseppe Maria Bonzanigo 1989, p. 201, n. 25.2).

[vittorio natalE]

Bibliografia: Notizia delle opere 1820, p. 114, n. 167; Baudi di Ve-sme 1963-1982, III, p. 1023; Da Giotto a De Chirico 2016, p. 237 scheda 99.

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La composizione è fedelmente ispirata a un dipinto di Louis Hersent (Parigi 1777-1860) presentato al Salon parigino del 1817. Marchino potrebbe aver utilizzato l’incisione che ne trasse subito dopo J. N. Laugier (1785-1875), oppure quella che accompa-gna la selezione di opere pubblicate da Ch. P. Lan-don sugli «Annales du Musée» di quello stesso anno (tav. 13 e p. 25) o, più probabilmente, quella di A-F. Gelée del 1824. Landon chiarisce anche il passo dell’antico romanzo pastorale a cui si fa riferimento, alla fine del primo libro, quando Cloe condusse Dafni alla grotta delle Ninfe e lo lavò, dopo aver seppellito Dorcone; quindi i due adolescenti raccolsero i fiori che quella stagione consentiva e appesero alla roccia il flauto di Dorcone quale offerta votiva alle Ninfe. Di questo rilievo è nota una prima versione, firmata e datata a Torino nel 1826, passata sul mercato nel 2013 (Bonhams, Londra, 5 dicembre 2013, lotto 29, come Venere e Cupido; Bertolotto 1989, p. 77 cat. 44). Una terza versione, di fattura più semplificata e firmata e datata 1833, è apparsa nel 2015 (Pook & Pook, Londra, 2 novembre 2015, lotto 2688, come Adamo ed Eva) e potrebbe coincidere con l’esempla-re esposto a Torino nel 1838, proprietà dell’avvocato Gerolamo Mattirolo, padre del noto botanico Oreste (Catalogo dei prodotti 1838, p. 35 cat. 141; Cenni sule

65. GiacoMo Marchino (Campertogno [vc] 1784 - Torino 1841)

Dafni e Cloe, 1832 circa

Avorio scolpito, 11 x 10,5 cm.Collezione privata.

opere 1838, p. 17). Il rilievo che qui si presenta potreb-be invece essere quello presentato da Marchino alla Triennale Pubblica Esposizione torinese del 1832. Alcune iscrizioni sul retro attestano che l’oggetto apparteneva nel 1878 allo scozzese Sir John Trotter Bethune, secondo conte di Lindsay, e un passaggio a Kilconquhar, sempre in Scozia. Marchino, come il fratello maggiore Giuseppe allievo di Bonzanigo, di cui ereditò la bottega, e «Regio scul-tore in avorio» di Carlo Felice e di Carlo Alberto, si specializzò nella riproduzione eburnea di opere d’ar-te, come dimostrano l’Annunciazione da Orazio Gen-tileschi e l’Angelica e Medoro da Teodoro Matteini, esposti nel 1838, o il Laocoonte di collezione privata, esposto a Torino nel 1829 (Natale 2002, fig. p. 303). Tali sono anche alcune opere a tutto tondo ispirate all’antico (Le tre grazie del 1823, l’Ermafrodito dormien-te del 1823 e Amore e Psiche) del Victoria and Albert Museum, che, assieme al nostro, documentano il suc-cesso internazionale di tali oggetti, nei quali l’esibito minuto virtuosismo di Bonzanigo e di Tanadei lascia spazio alla preferenza per blocchi eburnei di discrete dimensioni, trattati con una maggiore semplificazio-ne di gusto già purista.

[vittorio natalE]

Bibliografia: Catalogo dei prodotti 1838, p. 66 cat. 319.

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Il tavolino, di forma ovale, poggia su gambe sotti-li a colonna scanalata con capitelli scolpiti a foglia. Il fianco è ornato ad applicazione con ghirlande di nastri intrecciati con rami e intervallati con rosoni in corrispondenza delle gambe. Sul piano è inserita una cornice lignea che contiene un disegno a trompe l’œil firmato da Pietro Giacomo Palmieri, raffiguran-te vari disegni e stampe di paesaggi e figure, disposti con apparente casualità. Intorno alla cornice, sui lati brevi altri due disegni simulano la presenza di oggetti - una penna, un ri-ghello, un tagliacarte -, mentre i lati lunghi sono or-nati da microsculture a raffaellesche con girali e figure antropomorfe. Da un lato essi convergono verso una lira sormontata dal sole, rimando a Apollo, e affian-cata da due uccelli, dall’altro si dispongono intor-no a un caduceo, simbolo di Mercurio messaggero di pace, affiancato come spesso accade da due galli, araldi dell’alba. In pochi centimetri l’ebanista sembra evocare il mito di Orfeo che suona la lira, strumento creato da Mercurio e donatogli da Apollo, per ripor-tare dall’Ade la sposa Euridice. Un repertorio tratto dall’antico e dal classicismo ri-nascimentale, da collegarsi all’interesse per gli ornati derivati dalle Logge raffaellesche in Vaticano, ripro-dotte a stampa nel 1777 da Giovanni Volpato e rie-laborate dal 1782 nei repertori decorativi di Giacomo Albertolli (Baccheschi 1989, p. 131).

66. GiusEppE Maria bonZaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)piEtro GiacoMo palMiEri (Bologna 1735 - Torino 1804)

Tavolino con disegni a trompe-l’œil e microsculture, 1780 circa

Legno di noce e pero intagliati; inchiostro e acquerello su carta, 80 x 93 x 72 cm diam.Iscrizioni sui disegni del piano: «Stringe la pianta, bella Clori Amante chel nome porta del fedel Costante. Palmieri inventò e dissegnò a piuma»; «Castrionus Genovese»; «Weyrotter del., N. 68, Zing. Sculpsit»; «Berghem Fecit, Cum privilegio»; «Salvator Rosa invenit, et delineavit Roma»; «Diversi Schizzi del Caracia»; «Vernet invenit».Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 1418/L.

L’intervento di Palmieri, messo a fuoco da Franca Dalmasso in una serie di contributi a partire dal 1972 (Natale 1996, pp. 137-138), consente di collocare l’opera a ridosso del 1780, sulla scia di altri fogli a trompe l’œil dell’artista: due al Metropolitan Museum di New York realizzati a Bologna nel 1766 (inv. 69.14.1 e 69.14.2 per cui Bean-Griswold 1990, pp. 157-158, nn. 148-149), e particolarmente un foglio del 1780 alla Biblioteca Reale di Torino (Neilson 1990, pp. 316-317). Va ricordato che non molto dopo, nel 1796-1797, lo stesso procedimento illusio-nistico verrà adottato dai fratelli Antonio e Giovanni Torricelli, luganesi, per la decorazione d’ambiente nella saletta detta «di finto legno» o «delle stampe» del Palazzo Comunale, già Grosso di Brozolo, a Riva presso Chieri (Dalmasso 1980d; Tomiato 2002 e Agustoni 2011, pp. 450-453).Allievo di Ercole Graziani a Bologna, Palmieri fu chiamato all’Accademia di Belle Arti di Parma da Du Tillot e nel 1771, quando il ministro fu destitu-ito, lo seguì a Parigi. Alla morte del suo protettore, egli si mise in viaggio per l’Europa e nel 1778 si stabilì a Torino, dove - tra gli altri incarichi - fu consigliere di Vittorio Amedeo III per l’acquisto di disegni e stampe destinate alle collezioni di corte (Travisonni 2014). In quegli anni Bonzanigo era attivo per la Real Casa, con gli arredi e la decorazione degli appartamenti del

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Re e della Regina a Stupinigi che gli avrebbero fat-to guadagnare nel 1787 il titolo di «Regio scultore in legno». La collaborazione con Palmieri si rinnovò almeno in un’altra occasione perché sappiamo che in una vendita milanese del 1825 furono presentati tren-tadue disegni di Palmieri «con cornici elegantemente intagliate da Bonzanigo» (Dalmasso 1989f, p. 87).Il tavolino sembra evocare attraverso le sue decora-zioni il mondo raffinato dei collezionisti di grafica: gli strumenti da disegno raffigurati, così come i fogli di cultura classicista e nordica che, simulando tecni-che differenti, si sovrappongono con studiato disor-dine e rendono omaggio ai modelli seicenteschi, da Castiglione ai Carracci a Salvator Rosa, e agli autori nordici come Nicolas Berchem o il contemporaneo Claude Joseph Vernet, fonti primarie per il paesaggi-smo di Palmieri e oggetto del collezionismo di stampe dell’epoca. Reso noto da G. Morazzoni nel 1955, il mobile fu esposto alla Mostra del barocco piemonte-

se del 1963 e attraverso l’antiquario Pietro Accorsi pervenne al Museo Civico di Torino nel 1971. Un bollino sotto il piano ne attesta la provenienza da Villa Silvio Pellico a Moncalieri (cioè Villa Falletti di Barolo, poi Ajmone Marsan, i cui arredi, tra cui una tarsia raffigurante il principe Eugenio attribuita a Luigi Prinotto, sono andati in asta nel 2007, cfr. Dipinti e disegni 2007), ma Vittorio Natale ipotizza che il committente originale dell’opera possa essere stato il gioielliere reale Filippo Colla, collezionista di Palmieri, perché il tavolino fu presentato a Tori-no all’esposizione triennale del 1829 come proprietà dell’erede di questi Modesto Gautier (Catalogo dei pro-dotti 1829 n. 108 e Natale 2009).

[clElia arnaldi di balME]

Bibliografia: Dalmasso 1972, p. 137; Baccheschi 1989, pp. 131-132; Dalmasso 1989f, p. 87; Natale 1996, pp. 137-138; Corrado 2004b, p. 160; Bertone 2009, p. xliv; Natale 2009, pp. 4-5.

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9.L’Ottocento. La Restaurazione e Pelagio Palagi

Durante il periodo del Neoclassicismo, con la riscoperta dell’arte rinascimentale le tarsie lignee cinquecentesche ispirano le prospettive architettoniche delle quali diventano indiscussi maestri i vercellesi Ignazio (1756-1836) e Luigi Ravelli (1776-1858).Con la Restaurazione i Savoia, al pari degli altri sovrani europei, iniziano a riordinare le residenze in parte spogliate, cercando di rielaborare una loro immagine nobilitata dal passato ma nello stesso tempo aggiornata. È merito del re Carlo Alberto che, nominando nel 1832 Pelagio Palagi «Pittore preposto alla decorazione dei Reali Palazzi», riesce a riportare l’arte di corte piemontese ai fasti settecenteschi. L’ideale continuità stilistica, caratterizzata a partire dalla fine del Seicento dall’operare congiunto di architetti, pittori e mobilieri di corte, rivive così una nuova stagione artistica, grazie anche all’apporto di maestri quali Gabriele Capello detto il Moncalvo (1806-1876) e Henry Thomas Peters (1793-1852), inglese stabilitosi a Genova.I due ebanisti lavorano entrambi per il Palazzo Reale di Torino e i castelli di Pollenzo e Racconigi. Il complesso di arredi del Gabinetto Etrusco di quest’ultimo, realizzato tra il 1834 e il 1847, vince la medaglia d’oro alla «Great Exhibition» di Londra del 1851.

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La demilune è un inedito, per la prima volta visibile in questa mostra. Ha il classico impianto dei comò dei Ravelli, padre e figlio, attivi a Vercelli e spesso coautori di quanto usciva dalla comune bottega, che fossero mobili o pannelli a tarsia (cfr. medaglione biografico Galletti, Ravelli ???, p. ???).Rispetto ad altre commodes, come quella ben nota di Palazzo Madama (inv. 1164/L), le tarsie si affaccia-no dai tre sportelli con maggiore evidenza, seppure in equilibrio rigoroso con il fondale in violetto e il vivace risalto delle cornici.Nell’architettura e nell’impianto decorativo, la demi-lune presenta differenze minime rispetto a una passata anni or sono in asta Semenzato e pubblicata in An-tonetto 2010, I, p. 333, scheda e fig. 16 (con men-sole francesi in bronzo dorato e mostrine di serratura non originali): analoga la tipologia del fondale ligneo (nella presente più elaborato grazie alla raggera di occhi di violetto), uguali le greche «tridimensionali» su fondo di legno tinto in verdino e perfino articolate nello stesso numero di meandri sia in orizzontale che in verticale, identico il piano in marmo verde Alpi.

67. IgnazIo e LuIgI RaveLLI (Vercelli 1756-1836; Vercelli 1776-1858)

Commode a mezzaluna, fine del xvIII secoloLastronatura in violetto, intarsi in legni vari ombreggiati; piano in marmo verde Alpi, 117 x 56 x 86 cm.Collezione privata.

Circa i medaglioni figurati con i temi di antichi edifici e di rovine cari ai Ravelli, il riferimento è ad un’altra commode, esposta nella Mostra del Barocco del 1963 e pubblicata nel catalogo a cura di Vitto-rio Viale (vol. III, tav. 217 b). L’ovale centrale della nostra è dominato in primo piano da un singolare personaggio, divinità o guerriero con cimiero piu-mato, reggente un lungo bastone, che contempla una fuga di misteriosi edifici sotto un cielo abbagliante: uno scenario sul quale sembra passato un inquietan-te sortilegio, alla De Chirico. Lo stesso personaggio, in un paesaggio diverso, appare nella demilune della Mostra del Barocco, su uno dei due sportelli quadrati centrali. Negli sportelli laterali sono centrati due me-daglioni tondi con vedute di edifici affacciati a uno specchio d’acqua.L’arredo, del quale era ignota l’esistenza, segna un notevole passo avanti nella conoscenza dell’attività di mobilieri dei Ravelli.

[RobeRto antonetto]

Bibliografia: Antonetto 2010, I, pp. ???.

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La tarsia è ispirata alle Carceri d’invenzione pubblicate da Giovan Battista Piranesi nel 1750 e nel 1761, ri-spettivamente con 14 e 16 tavole, ma non corrisponde alla lettera a nessuna di esse. Luigi Ravelli vi replicò una composizione del padre Ignazio, di cui abbiamo un esemplare firmato nel Museo Arqueológico Na-cional di Madrid (inv. 52666), reso noto da Alvar González-Palacios insieme a una tarsia in coppia raffigurante la Rotonda Museo Pio-Clementino di Roma. Alcune fonti delle immagini dei Ravelli sono state individuate in studi recenti (Paolo San Martino, Enrico Colle oltre che González-Palacios). Si trat-ta di una stampa di Francesco Miccinelli incisa da Vincenzo Feoli per la raccolta illustrativa del Museo Pio-Clementino; di una acquaforte di Pierre-François Basan tratta da un disegno del pittore Pierre-Antoine Demachy (per la tarsia di un colonnato custodita nel Museo Leone di Vercelli); di un’altra dovuta a Vin-cenzo Mazzi, scenografo e architetto, autore nel 1761 di una raccolta di capricci teatrali (per la tarsia di un grande palazzo affacciato su uno specchio d’acqua appartenente al Museo Leone).

68. LuIgI RaveLLI (Vercelli 1776-1858)

Pannello ligneo intarsiato raffigurante un carcere, inizio xIx secolo

Legno intarsiato in legni vari, 49,5 x 71,5 cm.Vercelli, Museo Camillo Leone, inv. 4451.

La composizione delle carceri è ripetuta più volte, con misure diverse, da Luigi. Una versione par-ticolarmente felice è in collezione privata torinese, in coppia con una architettura di città (Antonetto 2010, I, p. 325, fig. 7.a. e 7.b). Una variante è ap-parsa sul mercato antiquario nel 1985 e di nuovo nel 2004 (Antonetto 2010, I, p. 324, nota 1). Le carceri compaiono anche sullo sportello di un comodino del Victoria & Albert di Londra (inv. 6812/1860, An-tonetto 2010, I, p. 334).Del gran numero di tarsie realizzate da Ignazio e soprattutto da Luigi molte ne restano da scoprire, a giudicare dalla vastità della produzione della bottega venduta anche all’estero come testimoniano i contem-poranei. Conosciamo solo quattro tarsie certamente del padre, una dozzina del figlio.

[RobeRto antonetto]

Bibliografia: González-Palacios 1993, pp. 264, 342-343, 363-366; San Martino1996, p. San Martino1997, p. 383 s.; Colle 2002, ??? 329, p. 502; Colle 2005, p. ???; Antonetto 2010, I, p. 323, fig. 5.b.

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Replica con varianti e di minore qualità di una com-posizione firmata e datata «RaveLLI. F. 1796», in collezione privata, probabilmente di Ignazio Ravel-li, dal momento che, come ha argomentato Gonzál-ez-Palacios, l’ebanista a capo della bottega, cioè lo stesso Ignazio, non avrebbe permesso al figlio appena ventenne di usare il solo cognome.Il soggetto fu utilizzato anche da un altro intarsiatore in un pannello apparso qualche anno fa sul mercato

69. LuIgI RaveLLI (Vercelli 1776-1858)

Pannello ligneo intarsiato raffigurante un colonnato, inizio del xIx secolo

Legno intarsiato in legni vari, 37,5 x 52 cm.Firmato sul retro «Luigi Ravelli Fe. Vercelli».Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 332/L. Acquistato nel 1868.

antiquario con firma «G.F. Sguinzi» in coppia con un altro raffigurante il Pantheon e segnato «Michele Luchetti di Novara».

[RobeRto antonetto]

Bibliografia: González-Palacios 1993, pp. 264, 342-343, 363-366; San Martino1996, p. ???, San Martino1997, p. 383 sg.; Colle 2002, 329???, p. 502; Colle 2005, p. ???; Antonetto 2010, I, p.323, fig. 5.b.

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I due capricci, composti da prospettive di rovine e di edifici ispirati all’antico, sono popolati da gruppi di figure femminili, di soldati, di un maestro con i suoi due discepoli, da viandanti e da pastori, quasi tutti in atto di discutere animatamente, si suppone, sul valore e sul significato dei resti archeologici che li circondano. Roberto Antonetto ha attribuito le tele a Francesco Casoli, sulla base di documenti che vedono il pittore attivo nel Castello di Guarene nel 1729-1730 (e nel 1752-1753) e sulla base di un convincente confronto con quanto realizzato a Stupinigi nel 1738 nell’Anti-camera della Regina.Casoli, che già nel 1723 sembrerebbe aver collabora-to con Giuseppe Dallamano per la decorazione della Pietà di Savigliano (Bonino 1935, p. 223), si giovò di un apprendistato presso l’apparatore e scenografo te-atrale Pietro Righini a Parma, dove fu inviato prima del 1727 dal conte Carlo Giacinto Roero di Guare-ne, noto mecenate, appassionato di musica, di arte e di architettura. La scelta potrebbe essere stata favorita dal rapporto tra Roero e Ferdinando Galli Bibiena, di cui Righi-ni fu allievo, ma forse anche dal probabile contatto diretto tra Righini e Juvarra, di cui il conte era gran-de estimatore, a Parma nel 1716 e a Torino nel 1723 (Viale Ferrero 1970, pp. 63 e 65). A questo alunnato

70-71. FRancesco casoLI, attribuite a (date?)

Capriccio architettonico di rovine antiche con personaggie veduta costiera sullo sfondoCapriccio architettonico di rovine antiche con obelisco, Ercole Farnese e figure, 1729 circa

Olio su tela, 115 x 145 cm con cornice???Guarene (cn), Castello verificare credit???

possono essere ricondotte le citazioni gotiche di Stu-pinigi, mentre l’apparato illusionistico delle cappelle laterali della confraternita dell’Annunziata di Guare-ne, dove Casoli è attivo nel 1733 assieme a Giacomo Rapa (Filippi 2004, pp. 234-235), documenta uno sguardo allargato all’ambiente dei prospettici par-mensi variamente influenzati da Ferdinando Galli Bibiena, come Alessandro Baratta (Parma 1639-1714; scheda OA 0800123835 per l’altare a fresco della chiesa dell’Epifania della Certosa di Parma).I due capricci qui esposti rivelano un particolare in-teresse per l’ambiente dei seguaci del lombardo Gio-vanni Ghisolfi (Milano 1623-1683; Busiri Vici 1992, pp. 100, 131 catt. 56, 77), come dimostra il confronto con due pendant del Musé Calvet di Avignone, re-centemente attribuiti al poco noto Domenico Roberti (Roma 1642-1707; Malgouyres, Sénéchal 1998, pp. 64-65) e con due tele di collezione privata romana di-scusse tra Ghisolfi (Busiri Vici 1992, p. 68 cat. 22 e 32) e Panini (Arisi 1991, p. 46). Bisogna però notare che l’unico elemento archeologico riconoscibile sen-za equivoci, l’Ercole Farnese, è raffigurato ribaltato, cosa che suggerisce la conoscenza dell’opera non at-traverso un dipinto, ma attraverso una stampa.

[vIttoRIo nataLe]

Bibliografia: Antonetto 2006 pp. 203 e 204, fig. ???.

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Il nuovo appartamento per la regina Maria Teresa al secondo piano del Palazzo Reale di Torino è uno dei primi interventi eseguiti in Restaurazione, su ordine di Vittorio Emanuele I, a segno del rinnovato potere. Dal punto di vista distributivo dà corpo a una nuova concezione del palazzo, con appartamenti pubblici di parata al piano nobile e appartamenti «di famiglia» al piano superiore, una novità rispetto alla struttura-zione funzionale settecentesca della reggia. Le sale, realizzate tra il gennaio e il settembre 1815 (Corna-glia 2000), sono il frutto ideativo di Giuseppe Battista Piacenza, Primo Architetto Civile dal 1796, e si col-loca sulla scia di rinnovi neoclassici messi in campo prima della parentesi napoleonica nelle residenze di Torino, Venaria e Moncalieri. Pur in questo quadro il nuovo contesto porta un mutamento nel disegno dell’ornato: le forme dei decori, pur mantenendo le stesse fonti, si ispessiscono, il dettaglio fine lascia spa-zio alla massa, le foglie d’acanto generano sinuose e spesse volute. La doratura si accosta a fondi giallo canarino, verde pistacchio, giallo oro. Attivi nell’appartamento sono gli scultori in legno Pietro Bassi, Francesco Bogliè, Giuseppe Maria Bonzanigo (Ferraris 1991, p. 57), Matteo Brassiè, Giuseppe Croce, Giovanni Battista Ferrero, Francesco Novaro. La camera da letto della regina Maria Teresa, l’ambiente più fastoso, vede pre-senti porte volanti la cui decorazione è rivelata dai pa-

72. gIuseppe MaRIa bonzanIgo (Asti 1745 - Torino 1820)Su disegno di gIuseppe battIsta pIacenza (Torino 1735 - Pollone [bI] 1818)

Porta volante proveniente dall’Appartamento della Reginaal secondo piano del Palazzo Reale di Torino, 1815

Legno intagliato dipinto e dorato, 257 x 112 x 7,5 cm (263 x 118,5 x 48,8 cm) verificare in base a quale delle due esponiamo??? Collezione privata.Restauro eseguito in occasione della mostra.

gamenti al doratore Gioacchino Cattaneo: «n. 4 Por-te intagliate cioè una cornice intagliata a foglie con una membratura liscia con n. 4 grandi bassirilievi, con n. 2 cornocoppie con fiori e altri ornamenti [...] n. 2 teste ornate con una cornice ovale» (Cornaglia 2012, p. 128). A causa dell’allestimento del nuovo appartamento nuziale dei duchi di Savoia Vittorio Emanuele e Maria Adelaide, avvenuto nel 1842 su progetto di Pelagio Palagi al secondo piano del Pa-lazzo Reale di Torino, ancor oggi esistente, tutte le sale dell’appartamento della regina, benché recen-ti, furono smantellate. Una parte delle porte e delle chiambrane venne quindi riutilizzata a Moncalieri per rinnovare l’appartamento reale negli anni 1846-1848. Gli interventi del 1852 diretti da Domenico Ferri a Moncalieri portarono a ulteriori smantella-menti e dispersioni, ma la Sala del Proclama (Cor-naglia 2000, p. 82) ha mostrato fino all’incendio del 2008 le porte volanti con cornucopie e testine scolpite negli ovati provenienti dalla camera da letto della re-gina a Palazzo Reale (o dall’adiacente gabinetto di toeletta). La porta qui esposta proviene quindi o di-rettamente dalla reggia torinese, da cui sarebbe stata tolta nel 1842, o dal primo reimpiego a Moncalieri, smantellato in parte nel 1852.

[paoLo coRnagLIa]

Bibliografia: inedita?

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La poltrona è attualmente esposta, insieme alla sua gemella - inv. 309 (Castello di Agliè 1964) - nella sala detta della Musica, definita nel corso dei secoli, «Camera de Sig.ri Paggi», «Camera da Parata» e, infine, «Salone di Conversazione», arredata con mo-bili eterogenei per origine e datazione (cfr. Gabrielli 2001, p. 65); nell’inventario esteso nel 1964 è invece citata nella «Sala biliardo», mentre in quello redatto nel 1908 arredava la «Sala con sei alcove». L’opera è contraddistinta da una linea elegante e austera, impre-ziosita dai raffinati intarsi in metallo dorato a motivi floreali, che corrono sullo schienale e sulla seduta, e dalle sottili colonne con capitello e base in lamina metallica dorata. Il vocabolario estetico esibito dalla poltrona suggerisce una datazione al terzo decennio

73. aMbIto pIeMontese

Poltrona, 1820-1830 circa

Legno di noce scolpito, sagomato, intarsiato in lamina metallica dorata e impiallacciato, lamina metallica dorata e stampata, pékin di seta e cotone, 85 x 58 x 53 cm.Agliè (to), Castello di Agliè, inv. 307 (Castello di Agliè 1964); inv. 6577 (Castello di Agliè 1908).Restauro eseguito in occasione della mostra dal centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

dell’Ottocento, aderendo appieno alle coeve istanze neoclassiche diffuse in tutta Europa, secondo modelli attestati anche da altri arredi di Agliè, come ad esem-pio la consolle esposta in questa sede (scheda 60) e un insieme di mobili collocati da Enrico Colle in questo stesso torno di anni (Colle 1998, pp. 356, 362-363). La poltrona è probabilmente riconducibile ai lavo-ri promessi all’indomani dell’occupazione francese, dopo che, in ottemperanza dei decreti napoleonici, la residenza venne spogliata di un gran numero di arredi (cfr. Gabrielli 2001, p. 23). La seduta in pékin di seta e cotone è il frutto di un rifacimento moderno.

[gIan Luca bovenzI]

Bibliografia: inedito.

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Segnalato insieme con il suo pendant dall’inventario del Castello di Agliè redatto nel 1826, che rilevava nella Camera di udienza di Sua Maestà il re al piano nobile - oggi sala bleu dell’Appartamento reale - la presenza di «due consoles a balaustra lavorate con intagli in noce a vernice lucida, guernite in bronzo dorato e tavola di marmo di Valdieri» (ASTo, Ri-unite, Duca di Genova, Tenimenti, Agliè, m. 59, «Inventaro del Real Castello...» 1826, c. 5r), il ma-nufatto rimase in tale ambiente di certo sino al 1876 (ivi, m. 61, «Inventario generale del Castello...» 1876, c. 89); identificabile nelle due «consoles con lastra di marmo, a colonna, con guerniture in bron-zo dorato» situate nel 1927 nella camera da letto del duca di Genova Filiberto di Savoia, al secondo piano (ivi, m. 63, «Inventario del Castello ducale...» 1927, c. 143, n. 3743), la coppia di mobili ha mantenuto sinora la collocazione registrata durante la ricognizio-ne patrimoniale promossa dal soprintendente Um-berto Chierici negli anni sessanta del secolo scorso, che la indicava nuovamente al primo piano, nella sala dei Valletti (Gabrielli 2001, p. 91 nota 123; SA-BAP-To, Biblioteca, copia fotostatica, «Castello di Agliè» 1964, p. 3, nn. 27-28). Alleggerita da due colonne anteriori strozzate e im-preziosita da inserti e fregi in bronzo dorato tra i quali si distinguono, sul fronte, il carro di Minerva (a sinistra) e quello di Cerere (a destra), la struttu-ra della console dialoga con altri arredi oggi esistenti tanto nella dimora canavesana quanto nel Palazzo Chiablese di Torino, similmente ornati e lavorati, che testimoniano la fortuna di modelli decorativi in

74. MInusIeRe beRoLatI (Attivo nel primo quarto del secolo xIx)

Console, 1824

Legno impiallacciato di noce, piano in marmo grigio di Valdieri, applicazioni in bronzo dorato e metallo dorato, 93,5 x 141 x 53 cm.Agliè (to), Castello, sala dei Valletti, inv. 28 («Castello di Agliè» 1964).

stile Impero presso la corte sabauda tra il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento (Antonetto 1985, p. 121, n. 152; Colle 1983, p. 362, n. 117). Parte della serie di manufatti va ricondotta con buo-na probabilità al minusiere Berolati, che nel maggio del 1824 - come attestato dal registro dei pagamenti effettuati tra il 1815 e il 1825 da Marianna di Savoia, duchessa del Chiablese - terminava l’esecuzione di un cospicuo numero di mobili destinati ad Agliè, tra cui «4 consoles con colonne L. 200. Tre comodes con colonne [...] due altre comodes [...] due sofà con colonne [...] quattro letti con colonne ad una piazza» (ASTo, Riunite, Duca di Genova, Casa del duca del Chiablese, sez. 33, m. 2214, «Re-gistro pagamenti dal 1815 al 1825», s.p. [giugno]): una produzione riferibile alle esigenze di riarredo del-le residenze della famiglia reale, germinate nel con-testo della Restaurazione e imposte dal trasferimento nel 1823 degli appannaggi della vedova del duca del Chiablese, Benedetto Maria Maurizio, a suo fratello Carlo Felice di Savoia e alla consorte di quest’ultimo, Maria Cristina di Borbone, come documentano le intense attività di riqualificazione del castello alladie-se svolte a partire da quell’anno (Borrelli 2006-2007, pp. 268-269; Colle 1983, p. 362, n. 117; Baccheschi 1980, vol. II, p. 629; ASTo, Riunite, Duca di Ge-nova, Casa del duca del Chiablese, sez. 33, m. 2214, «Registro pagamenti dal 1815 al 1825», passim).In un momento successivo, da individuare negli anni centrali del secolo xIx, venne realizzato e fissato al centro del pannello della console un medaglione in metallo dorato dove si riconosce, nella parte superio-

re, l’episodio di Ercole dissetato da Ebe; quella in-feriore reca un volto femminile acconciato all’antica e inserito in una cornice semicircolare completata da motivi fitomorfi (ASTo, Riunite, Duca di Genova, Tenimenti, Agliè, m. 60, «Inventaro estimativo dei mobili...» 1855, c. 6v). [aLessandRa gIovannInI Luca]

Bibliografia: Baccheschi 1980, vol. II, p. 629; Colle 1983, p. 362, n. 117; Antonetto 1985, p. 121, n. 152; Gabrielli 2001, p. 91 nota 123; Borrelli 2006-2007, pp. 268-269.

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Nel 1815 la ex-Repubblica di Genova venne unita al Regno di Sardegna e Genova divenne la seconda città dello Stato, rendendo necessaria la realizzazio-ne di una sede per la dinastia sabauda, non essendo adeguato per le funzioni regali il pur monumentale Palazzo Ducale. A questo scopo venne acquistato il Palazzo Tursi (oggi municipio di Genova) e pre-disposto un grande progetto di completamento, tra-sformazione, decorazione e arredo. I lavori, eseguiti a partire dal 1819 su progetto di Carlo Randoni, prevedevano di avvalersi in parte di maestranze e arti-sti genovesi, in parte si rivolgevano all’ambiente pie-montese, più conosciuto e apprezzato dall’architetto (Cornaglia 2001-2002). I moti del 1821 causarono l’abdicazione di Vittorio Emanuele I e il blocco dei lavori nel palazzo. Nel 1825 Palazzo Tursi venne destinato da Carlo Felice a residenza della regina vedova Maria Teresa d’Austria-Este: i lavori vennero completati nel 1827, sempre su progetto di Randoni, nel frattempo divenu-to Primo Architetto. In questo contesto venne portato a termine l’arredo fisso e mobile, documentato nella raccolta di disegni di Giuseppe Battista Piacenza e Carlo Randoni (cfr. scheda ??? in questo catalogo), in gran parte costituita da progetti tardosettecenteschi, ma provvista anche di idee per sofà, consoles e arredi per il Palazzo Tursi. Il tripode in questione (realiz-zato tra 1825 e 1827, AST, Corte, Principi del sangue, Maria Teresa d’Austria-Este, m. 2, Stato Generale della

75. geRoLaMo capeLLo (intagli) dati???achILLe gazzo (doratura) dati???Tripode su disegno di caRLo RandonI dati??? (1755-1831)

Tripode proveniente dall’Anticappella di Maria Teresa d’Austria-Esteal Palazzo Tursi di Genova, 1825-1827

Legno intagliato, dipinto e in parte dorato; piano in marmo, 95 x 42 cm verificare???Portoferraio (LI), Museo nazionale delle residenze Napoleoniche - Palazzina dei Mulini verificare???

Spesa occorsa, tanto per la Fabbrica che per Corredo Mobi-liare di questo Regio Palazzo olim Tursi [...] per Conto e Ordine di SM La regina Maria Teresa Arciduchessa d’Au-stria. Dai 25 del Mese di Luglio 1825 sino al Mese di Luglio 1827, pp. 22, 27), oggi all’Isola d’Elba (Bartoletti, Colle, Guarracchio 1997, p. 46) è stato riconosciu-to da Enrico Colle nella tavola 99 della raccolta (N. 2 Tripodi da collocarsi nel passaggio alla Cappella, Col-le 1998). Il percorso seguito dagli arredi di Palazzo Tursi è stato complesso. Morta nel 1832 la regina, nel 1839 il palazzo viene dato in uso ai Gesuiti e tutti gli arredi fissi (camini, lambriggi, porte, chiambra-ne) sono smantellati e inviati a Torino in 225 casse. Le tele pittoriche risultano vendute sul mercato e così si deve supporre sia avvenuto per gli arredi mobili. Il tripode oggi all’Isola d’Elba (Cornaglia 2012, p. 227) è giunto alla Palazzina dei Mulini nel 1938 in-sieme a molti altri arredi in seguito alla dispersione della ricca collezione Pisa (Catalogue 1937). Si deve supporre che l’arredo realizzato su progetto di Car-lo Randoni, un tempo ornamento del Palazzo Tursi a Genova, fosse finito - almeno parzialmente - nella collezione Pisa. Un’altra porzione, su cui sono in corso studi, sembra essere invece oggi presente in una residenza inglese.

[paoLo coRnagLIa]

Bibliografia: Catalogue 1937, pp.???; Bartoletti, Colle e Guarrac-chio 1997, p. 46; Cornaglia 2012, p. 227.

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Dopo aver fatto parte dell’arredo della sala del bi-liardo al piano nobile del Castello di Agliè nel corso del Novecento, il mobile risulta attualmente espo-sto nella sala tuscolana (Gabrielli 2001, pp. 50-51; SABAP-To, Biblioteca, copia fotostatica, «Ca-stello di Agliè» 1964, p. 17, n. 302; ASTo, Riu-nite, Duca di Genova, Tenimenti, Agliè, m. 63, «Inventario del Castello ducale...» 1927, c. 99, n. 2842). La nuova collocazione consente di valorizzarne il nesso con il pavimento dell’ambiente, che dopo la scoperta nel 1838 nella «casa dei Cecilii» dell’antica città latina di Tuscolo era stato rimosso dal suo sito originario, trasferito in Piemonte e rimontato ad Agliè nel 1840: il piano d’appoggio del tavolino ne riproduce infatti fedelmente lo schema decorativo (Salvagni 2002, p. 45; Cattaneo 2000, p. 426; ASTo, Riunite, Duca di Genova, Tenimenti, Agliè, m. 60, «Inventaro del R. Castello d’Agliè. Parte seconda...» 1843-1845, c. 16). Benché manchino ad oggi conforti documentari sull’esecutore e sulla funzione del piano - che parreb-be plausibile assegnare a un marmoraro laziale a ri-dosso del trasporto del pavimento in Canavese, forse allo scopo di agevolarne la successiva ricomposizione (ringrazio Jacopo Corsi per questo suggerimento) - la richiesta rivolta nell’aprile del 1840 da parte del conte Ferdinando di Collobiano, governatore del Castello di Agliè, a Gabriele Capello per un’«ossatura in le-gno di mogano sculturato per due tavolini di marmo lavorato a mosaico proveniente dagli scavi tusculani presso Roma», terminata entro il mese di agosto di

76. gabRIeLe capeLLo detto MoncaLvo (Moncalvo 1806 - Torino 1877)Marmoraro laziale, attivo nel secondo quarto del secolo xIx

Tavolino con piano d’appoggio in opus sectile, 1840; 1838-1840

Legno di mogano intagliato, ottone; opus sectile di marmi policromi, 78 x 54 x 46; 54 x 45,7 x 2,2 cm.Agliè (to), Castello, sala tuscolana, inv. 302 («Castello di Agliè» 1964).

quell’anno contestualmente alla posa dei marmi pavi-mentali nel «museo delle statue», consente a un tempo di datare il piano marmoreo e di attribuire al Moncal-vo il tavolino ligneo, sinora ricondotto all’ambito di Henry Thomas Peters per via delle analogie tecniche e formali che lo apparentano ad alcuni manufatti ese-guiti dall’ebanista britannico per il Castello di Rac-conigi negli anni trenta del secolo xIx (Colle 1983, p. 408, n. 124a; Baccheschi 1980, p. 629; ASTo, Riunite, Duca di Genova, Casa di Maria Cristina, Amministrazione, Mandati di pagamento, 1840, p. 75, n. 219; ivi, Corrispondenza, Lettere spedite, 1840, lettera di Ferdinando di Collobiano al signor Tua, economo del Castello di Agliè, dell’8 agosto 1840).In base ai riferimenti di prima mano al momento di-sponibili, nel quadro delle predilezioni collezionisti-che e di committenza della vedova di Carlo Felice di Savoia - connotato un’inedita attenzione per l’antico e ancora in attesa di una sua piena riconfigurazione storico-critica (Guerrini, Ratto 2017, pp. 96-99; Ro-sci 1980, pp. 395-396) - rimane da mettere a fuoco la scelta di affidare l’esecuzione del tavolino al Moncal-vo, di cui per ora non sono noti altri incarichi svolti per Maria Cristina di Borbone (Antonetto 2004); la segnalazione archivistica apre nel contempo nuovi quesiti sulla versatilità stilistica di Capello, autore in questo caso di un manufatto chiaramente condizio-nato dalla coeva produzione di Peters: un profilo che proprio a quelle date, sotto l’attenta regia di Pelagio Palagi, condivideva con l’ebanista astigiano la par-tecipazione ai progetti di arredo dei castelli di Rac-

conigi e di Pollenzo (Antonetto 2004, n. 13, p. 193; Rathschüler 2014, p. 99, nn. 56-57; p. 105, n. 81; p. 128, n. 146). [aLessandRa gIovannInI Luca]

Bibliografia: Rosci 1980, vol. I, pp. 395-396; Baccheschi 1980, vol. II, p. 629; Colle 1983, p. 408, n. 124a; Cattaneo 2000, p. 426; Gabrielli 2001, pp. 50-51; Salvagni 2002, p. 45; Antonetto 2004, n. 13, 193???; Rathschüler 2014, p. 99, nn. 56-57; p. 105, n. 81; p. 128, n. 146; Guerrini e Ratto 2017, pp. 96-99.

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La poltrona non riporta il marchio della ditta, come spesso avviene nei mobili di Peters, ma è sicuramente riconoscibile nei documenti, in particolare nell’in-ventario del 1838 che per il Gabinetto da lavoro del re registra «un sofà, due seggioloni a braccioli e sei gondoles di legno mogano riccamente sculturato a teste di delfini, palmette ed altri ornati con sedili e dossieri rimborrati e coperti di lampasso bleu operato con grandi rosoni in bianco, e contornati di piccolo gallone simile, il tutto nuovo» (Antonetto 2004, l’at-tuale rivestimento tessile è di rifacimento). Il mobiliere inglese trapiantato a Genova viene chia-mato per gli allestimenti di Racconigi prima di Ca-pello (a lui ci si era rivolti inizialmente per il Gabi-netto Etrusco poi affidato al Moncalvo per le richieste ritenute eccessive di Peters) e le sue forniture per gli appartamenti del re e della regina sono cospicue, la-vorando spesso non su disegno diretto di Palagi, ma in assoluta sintonia con lui, come dimostra qui il re-pertorio decorativo degli elementi scolpiti già ricor-dati cui si aggiungono rosette e la «testa di Sfingi» all’innesto delle gambe, in uno stile sobrio che ben si adegua all’ambiente di destinazione.Pur con qualche dispersione i mobili di Peters si con-

77. henRy thoMas peteRs (Windsor 1792 - Genova 1852)

Poltrona per lo Studio di Carlo Alberto, 1833

Mogano scolpito e intagliato, 103,5 x 66 x 65 cm.Racconigi (cn), Castello, inv. R2963.Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

servano tuttora al Castello (con alcuni spostamenti nelle collocazioni) e con quelli da lui eseguiti per il Castello di Pollenzo e per Palazzo Reale attestano l’alta qualità della sua produzione. Una qualità capace di spaziare dai lavori scolpiti e intagliati a quelli intarsiati, come i raffinatissimi «ar-madi per panni o vesti per la Regina» in mogano maculato, piuma d’acero e intarsi in ebano e metallo sempre per Racconigi cui si riferiscono alcuni dise-gni nel fondo palagiano della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna (Antonetto 2004, p. 221 e nn. 52-53; Ratschüler 2014, p. 155). E naturalmente lo ritroviamo attivo per Palazzo Re-ale di Genova (cfr. qui la scheda ???), la città dove ha stabilito la ditta che precorre le soluzioni di caratte-re industriale e dove, nonostante le numerose com-mittenze delle grandi famiglie liguri, sarà costretto al fallimento per complesse vicende anche di carattere socio-politico.

[caRLa enRIca spantIgatI]

Bibliografia: Colle 1998, pp. 381-383; Antonetto 2004, pp. 221-222 e nn. 54-56; Rathschüler 2014, pp. 157-158; De Royere 2017, pp. 270-273.

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La sedia conserva il rivestimento tessile originario in raso liserè (fondo raso color avorio e disegno prodot-to dalle slegature della trama di fondo color porpora fornito dal mercante di stoffe Bernardino Solei) e con altri tre esemplari fa parte dell’allestimento del Ga-binetto Etrusco a Racconigi realizzato da Capello tra il 1834 e il 1847 su progetto di Palagi e di cui si conservano alcuni disegni (Bologna nella Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, quelli relativi alle se-die nn. 2202 e 2203, ma cfr. qui le schede ???).Il progetto palagiano è raffinatamente giocato in chiave di gusto archeologico (ricordiamo che l’arti-sta era egli stesso collezionista) e si rivela aggiornato sulle più recenti scoperte di archeologia etrusca. Per la realizzazione del complesso ci si era inizialmente rivolti a Henry Thomas Peters, ma le richieste furono giudicate eccessive e nei documenti si accenna in al-ternativa a una ditta parigina (Rathschüler 2014, pp. 161-162), per poi optare per il giovane astro nascente dell’ebanisteria piemontese. Per Capello si tratta di uno dei primi impegni per la corte, rivelandone la magistrale padronanza nell’intarsio di legni, e com-prende un tavolo, quattro piedestalli a colonna per vasi antichi (all’epoca ritenuti etruschi, ma in realtà apuli, Costamagna 2017b) oltre alle porte e agli scu-ri delle finestre corredati da ferramenta di Colla e di Bongiovanni, mentre alcuni intagli degli ovuli e delle fogliette si devono a Giovanni Battista Ferrero.La raffinatezza dei decori gioca sull’alternanza del-la bicromia tra fondi e intarsi con palmette chiare su fondo scuro sullo schienale e viceversa ai lati della se-duta, alle cui estremità entro cornici sinuose cavalli

78. gabRIeLe capeLLo detto IL MoncaLvo (Moncalvo 1806 - Torino 1877)

Sedia a pozzetto, 1834

Mogano intagliato e intarsiato in palissandro ed ebano, raso di seta liserè, 66,5 x 58 x 66 cm.Racconigi (cn), Castello, Gabinetto Etrusco, inv. R. 6248, inv. PPR 2655.Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

marini alati su fondo scuro (eleganti rivisitazioni dei repertori di antichità in una sorta di stilizzazione) sot-tolineano l’invito all’avvio delle gambe. Altrettanto raffinata l’esecuzione degli intagli, nelle zampe a pie-de caprino e ancor più nelle appuntite teste di cane alle estremità dello schienale.Definita nei documenti palagiani come «taboretto» o come «sedia curule», la sedia, come l’intera realiz-zazione dell’ambiente, viene magnificata alle Espo-sizioni torinesi del 1838 e del 1844 anche per l’uso sapiente di legni preziosi specificamente elencati (Pa-lagi cita nei materiali l’ebano e il «legno del Brasile»; analisi puntuali dei legni sono state ora condotte in occasione del restauro di una colonna del Gabinet-to Etrusco presso il Centro Conservazione Restauro con testi di laurea di Francesca Coccolo, 2014, i legni individuati nella colonna sono quebracho, falso pau Brazil, agrifoglio, ebano, sorbo, pero o melo e bos-so). E nuovamente all’Esposizione Internazionale di Londra del 1851, dove la decorazione viene definita «greca», il successo è travolgente proiettando l’ebani-sta (e il gusto della corte con Palagi) sul palcoscenico europeo, mentre le mostre del 1976 su Palagi e quella dedicata nel 1980 alla cultura figurativa degli Stati del re di Sardegna segnano l’avvio della straordinaria fortuna critica moderna dell’intero complesso che nel 1990 vide un primo intervento di restauro (Bacche-schi 1980, pp. 633-634, Ragusa 1991).

[caRLa enRIca spantIgatI]

Bibliografia: Antonetto, 2004, pp. 197-199 e nn. 1-10; De Royere 2017, pp. 241-242.

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La poltrona (il cui tessuto di rivestimento della seduta è di sostituzione moderna) fa parte degli arredi proget-tati da Palagi per il Gabinetto da toeletta della Regina (i disegni vengono da lui ricordati in un appunto au-tografo conservato alla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, Antonetto 2004, p. 214) e per i quali l’artista si rivolse a Parigi tramite il mercante di stoffe Bernardino Solei, che si recò nella capitale francese nel 1834 su incarico della Real Casa per controllare l’andamento delle forniture là commissionate. Il con-tatto parigino fu con Giovanni (Jean) Chiavassa che si era stabilito colà svolgendovi un’attività di inter-mediario nel campo dell’ammobiliamento, più che dedicarsi a una produzione propria. Lo dimostrerebbero i carteggi con Palagi conservati (oltre ad Antonetto, De Royere 2017, p. 355) e pro-prio il marchio presente su questa poltrona, omoge-nea per fattura con gli altri arredi del Gabinetto tutto-ra conservati al castello sia pure con qualche variante di collocazione.

79. Joseph pIeRRe FRançoIs JeanseLMe (dati???)

Poltrona da toeletta, 1834

Legno spiniero con intarsi in mogano, 71 x 73 x 59 cm.Sotto la traversa frontale marchio a fuoco «Jeanselme».Racconigi (cn), Castello, inv. 6701.Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

Approdarono dunque a Racconigi i manufatti di una delle botteghe parigine più à la page, largamente attiva per la corte francese e forse sempre a Chiavas-sa Palagi si era rivolto per gli arredi del Gabinetto etrusco, dai caratteri degli intarsi molto simili, dopo che una iniziale richiesta a Henry Thomas Peters era stata accantonata per le sue richieste eccessive di compenso e prima che la scelta definitiva cadesse sul giovane Capello. I raffinati motivi decorativi, carat-terizzati dall’uso di palmette «alla greca» sancirono il successo internazionale dei mobili palagiani realizzati da Capello e Jeanselme presentati all’Esposizione In-ternazionale di Londra del 1851 e una poltrona del parigino prossima stilisticamente a questa (con due sedie) si conserva al Victoria & Albert di Londra (W. 28:1 to 2- 1969).

[caRLa enRIca spantIgatI]

Bibliografia: Antonetto 2004, pp. 216-217, nn. 38-41; De Royere 2017, pp. 264-265.

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Con la sua compagna, la poltrona fa parte del salotto dorato proveniente dal Castello di Pollenzo, presen-tato in asta con altri arredi della residenza nel 1993, acquistato dalla Cassa di Risparmio di Torino e do-nato nel 1998 al Museo Civico (Corrado 2004). Il salotto dorato costituiva la parte più aulica e ufficiale dell’arredo realizzato in occasione dei lavori di tra-sformazione voluti da Carlo Alberto e affidati a un gruppo di artisti tra cui l’architetto Ernest Melano, il pittore Carlo Bellosio, lo scultore Giuseppe Gaggi-ni e gli ebanisti Gabriele Capello e Henry Thomas Peters, in quegli anni impegnati anche a Racconigi. La visione romantica del re trovò realizzazione nel revival gotico e nella celebrazione di un ricreato me-dioevo.Il salotto dorato era destinato alla Camera di rice-vimento del re, il cui soffitto fu decorato da Pietro Ayres, Giuseppe Borra e Giuseppe Franzè nel 1833 (Tomiato 2004). Dalle note dei lavori e nelle relazio-ni di Capello, sappiamo che la sala inizialmente era dotata di arredi in legno di «iffo» (tasso) che l’arti-sta fu incaricato di pulire a più riprese. Nel periodo che intercorre tra l’inventario del 1839 e quello del 1842, i mobili risultano sostituiti da un insieme molto più prezioso, in legno scolpito e dorato, al pari degli arredi di rappresentanza del Palazzo Reale di Tori-

80. gabRIeLe capeLLo detto MoncaLvo (Moncalvo 1806 - Torino 1877)Su disegno di Pelagio Palagi (Bologna 1775 - Torino 1860)

Poltrona, 1839

Legno scolpito, intagliato e dorato, seta, 112 x 70,5 x 63 cm.Sotto la cintura del sedile, ???.Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 1757/L; inv. PPP 916 (Inventario Vecchio ante 1923?); inv. P 516 (inventario Gabrielli 1955).Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

no e del Castello di Racconigi. Esso comprendeva due divani, quattro poltrone ornate di teste barbute - probabilmente Zues -, sei sedie e quattro tabourets. Al Museo Civico di Torino sono pervenute due poltrone delle quattro contate in origine: la terza si trova oggi in collezione privata e la quarta risultava già mancante nella ricognizione inventariale del 1923 (De Royere 2017, pp. 324-325). Le poltrone riproducono il modello del disegno pre-paratorio di Pelagio Palagi inv. 2199 della Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna, in cui è ben visibile la bella fodera originale color prugna a fiori colorati analoga alla tappezzeria, ancora menzio-nata nell’inventario del 1955, in seguito sostituita da un damasco rosa moderno (Pettenati 2004, p. 243). Le gambe incrociate a «X» ripetono il disegno degli sgabelli, a loro volta simili ai diciotto taboretti realiz-zati nel 1839 per la Sala del Caffè di Palazzo Reale di cui esiste il disegno preparatorio di Palagi (Colle 1998, pp. 367-368, 407-408).

[cLeLIa aRnaLdI dI baLMe]

Bibliografia: Semenzato Roma 1993, n. 151; Colle 1999, pp. 368, 408; Corrado 2004, pp. 205 e 209, cat. 835; Antonetto 2004, figg. 65-66, pp. 229-231; Pettenati 2004, pp. 255-256; De Roye-re 2017, pp. 324-325.

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Restauro eseguito in occasione della mostra dal Cen-tro conservazione e Restauro La Venaria Reale.Il parafuoco fu realizzato da Gabriele Capello detto il Moncalvo nel 1843 per la Camera da Letto dell’Ap-partamento Nuziale dei Principi di Piemonte, oc-cupata dai neo sposi Vittorio Emanuele di Savoia e Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena. Presenta una struttura in legno di palissandro poggiata su zampe leonine in bronzo, da cui si elevano due snelle co-lonne scanalate con capitelli corinzi in metallo, che sostengono la cimasa e contengono la cornice entro la quale è inserita la ventola in tessuto, forse preesistente (Antonetto 2004). La cornice, da una lato, è cardine per l’apertura a libro del parafuoco, che si presenta a doppio écran ed è composto esternamente da un vel-luto operato e ricamato a fili metallici e internamente da una fodera di seta damascata di colore rosa. Sulla superficie dell’oggetto sono applicati inserti bronzei con il consueto motivo palagiano della palmetta sti-lizzata e delle foglie d’acanto, eseguiti dai bronzisti della fonderia Colla e Odetti (Colle 1998). I moti-vi decorativi sono en pendant con gli altri arredi della stanza e richiamano alcuni lavori contestualmente realizzati nella Sala del Trono o quelli effettuati qual-

81. gabRIeLe capeLLo detto IL MoncaLvo - FondeRIa coLLa e odettI

(Moncalvo 1806 - Torino 1877)

Parafuoco, 1843

Legno di palissandro intagliato con applicazioni in bronzo, pannello in velluto operato e ricamato, 146 x 98 x 65 cm.Torino, Musei Reali - Palazzo Reale, inv. DC 2776. inv. 2776 D.C. (Palazzo Reale, 1908); n. inv. 9309 (Palazzo Reale, 1880)???

che anno prima nel Castello di Racconigi. Il dise-gno ritenuto preparatorio per l’oggetto (Antonetto 2004), diversamente da quanto si rileva per la mag-gior parte dei mobili ideati da Palagi, non gli cor-risponde al dettaglio. Fu infatti inizialmente pensato come progetto per una specchiera mobile destinata all’Appartamento Nuziale, come precisa la dida-scalia autografa apposta sul foglio n. 2771 della Bi-blioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna. Il progetto denota una certa analogia formale anche con la specchiera a Psiche della camera della Regina di Racconigi, realizzata nel 1834-1835 dal mobiliere Giovanni Chiavassa (inv. R 6565; Baccheschi 1980, pp. 637-638 n. 695; Antonetto 1985, pp. 389-390, ill. 579). Tale discrepanza fu probabilmente dovuta a un banale cambio di destinazione d’uso dell’ogget-to, ma potrebbe altresì indicare un certo margine di libertà espresso dal Capello e definire i contorni del suo rapporto di collaborazione stretta ma non servile nei confronti dell’estro creativo di Palagi.

[chIaRa accoRneRo]

Bibliografia: Il Palazzo Reale 1959, p. 84 tav. xIv; Colle 1998, pp. 368, 408 n. 119; Antonetto 2004, p. 264, cat. 127.

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10.Gabriele Capello e Henry Thomas Peters

Straordinari tavoli da centro, intarsiati in legni preziosi e avorio, sono realizzati dai protagonisti dell’ebanisteria in Piemonte alla metà dell’Ottocento.È lo stesso Capello a definire «magnifica» la tavola realizzata nel 1842, su disegno di Palagi, per l’appartamento del futuro re d’Italia Vittorio Emanuele II. Imponente la massa di arredi prodotti in quarant’anni nei suoi laboratori torinesi, che arrivano a contare fino a 130 dipendenti, per il Palazzo torinese, il Medagliere, l’Armeria Reale, il Teatro Regio e le residenze di Pollenzo, Racconigi, Moncalieri, Stupinigi, Mandria. All’artista spetta l’arredo coordinato di interi appartamenti, anche per dimore nobiliari e alto borghesi, come anche l’adattamento e il riutilizzo di mobili settecenteschi, compresi alcuni di Piffetti.Proviene dall’arredo originario del castello di Pollenzo la preziosa tavola da centro di Henry Thomas Peters, caposcuola in Liguria della produzione di mobili intarsiati di massima qualità tecnica ed estetica, come si evince anche dal secrétaire del Palazzo Reale di Genova.Sorprendentemente moderno il tavolo impiallacciato a raggera di Gaetano Descalzi di Chiavari, più conosciuto per le sedie «chiavarine», robuste e leggere, di grande successo internazionale.

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La presenza di un’etichetta, oggi mutila, sotto il piano di appoggio del tavolo, attesta l’appartenenza del mobile alla regina madre Maria Teresa d’Asbur-go-Lorena, vedova di Carlo Alberto (Baccheschi 1980, II, p. 641 n. 702). Grazie a questo dato è pos-sibile risalire al momento della sua acquisizione da parte della coppia reale, che si recò a Chiavari in vi-sita alla manifattura di Giuseppe Gaetano Descalzi il 5 agosto 1838, acquistando in quell’occasione una fornitura di tavoli, di cui tre «a raggi», uno di trucioli, e un altro a listelli imitanti il tessuto cosiddetto gingas (Brignardello 1870, pp. 37-38). Quello attualmente esposto è l’unico riconosciuto ancora presente nel Pa-lazzo Reale di Torino, mentre esemplari simili sono noti in collezione privata torinese e presso il Castello di Pollenzo (Antonetto 2004, cat. 205). Il mobile, sobrio ed essenziale, poggia su un fusto a forma di anfora, innestato a sua volta su una piccola base ro-tonda da cui si dipartono i tre piedi a voluta, che so-stengono l’insieme con grazia memore del repertorio formale settecentesco. Il piano del tavolo è rotondo e composto da una decorazione a tarsia formata da 180 raggi di ebano e acero a spicchi alternati, a formare un angolo giro. La stessa alternanza cromatica è ri-proposta anche nelle parti strutturali dell’opera. Lo stile e la prassi costruttiva sono di una modernità as-

82. Giuseppe Gaetano Descalzi detto il campanino (Chiavari 1767-1855)

Tavolo rotondo con intarsi a raggiera, 1838

Legno di noce tornito, impiallacciato e intarsiato in acero ed ebano, 77 x 93 diam. cm.Torino, Musei Reali - Palazzo Reale, inv. 4805 rosso, inv. 4805 rosso (Palazzo Reale, 1964); S.M. 243 (Palazzo Reale, 1908).Restauro eseguito in occasione della mostra.

soluta e collocano Descalzi all’interno di una speri-mentazione tecnica e formale rispondente alle istanze di razionalismo e funzionalismo richiesti dalla cul-tura illuminista e apprezzati dall’estetica neoclassica (Pessa, in L’Arte della sedia 1985, pp. 9-14). Lo stesso Antonio Canova gli riconosceva l’abilità di aver sa-puto coniugare leggerezza e solidità in una perfetta sintesi creativa, tanto da essere annoverato tra gli ac-quirenti delle cosiddette sedie «campanine» o «chia-varine» (Brignardello 1870, p. 25), inventate a inizio secolo dall’ingegnoso mobiliere ligure e subito diffuse in tutto il mondo. Il rapporto privilegiato e precoce con casa Savoia, già inaugurato da Carlo Felice e de-stinato a perdurare almeno fino alla generazione dei principi Umberto e Amedeo di Savoia, fu fecondo di committenze e insignito di prestigiose onorificenze quali la concessione dello stemma sabaudo o il cava-lierato, presto seguite su scala internazionale da premi di spicco e da richieste provenienti dalle più illustri casate d’Europa (Brignardello 1870; Baccheschi 1980, vol. 3, pp. 1434-1435).

[chiara accornero]

Bibliografia: Brignardelo 1870, pp. 37-38; Baccheschi 1980, II, p. 641; L’Arte della sedia 1985, pp. 13, 32-33 n. 6, fig. 23, tav. I; Antonetto 2004, pp. 309-310, cat. 205.

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Il tavolo fa parte di un insieme di arredi compren-dente due seggioloni, otto taboretti e due jardinières eseguiti su disegno di Pelagio Palagi per il Reposoir della regina alla «Cascina Gotica» di Racconigi (le Margherie). In collocazione appartata nel Parco, il complesso (comprendente anche una cappella) atte-sta il più aggiornato gusto neogotico che ben si addice al riposo ed alla riflessione all’insegna di un vagheg-giato medioevo cui Carlo Alberto ritorna anche per considerazioni di carattere etico e religioso. Il raffina-to tavolo, dalle deliziose tartarughe su cui poggiano le gambe e ideate per nascondere piccole ruote, è caratte-rizzato dall’intaglio sul quale il maestro intervenne in due riprese per soddisfare le volontà perfezionistiche di Palagi (di cui si conservano tre disegni a Bolo-gna nella Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, n. 1363 per il tavolo, n. 1364 per una jardinière e n. 135 per un seggiolone) ed è puntualmente descritto in una Nota allegata al mandato di pagamento del 29 agosto del 1840 (in Antonetto 2004, p. 207). Dai modelli inglesi ancora settecenteschi del Castello di

83. Gabriele capello detto il moncalvo (Moncalvo 1806 - Torino 1877)

Tavolo, 1840

Legno di mogano intagliato, 82,5 x 140 diam. cmRacconigi (cn), Castello, inv. 8729.Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

Strawberry Hill di Horace Walpole a quelli diffu-si dalle incisioni di August Charles Pugin (Pugin’ Gothic Furniture 1827) e ripartendo delle scelte di Carlo Felice per l’Abbazia di Hautecombe, il gusto neogotico si afferma con le forme aggiornate di Pala-gi nelle residenze carloalbertine, a Racconigi (di cui ricordiamo la cappella sempre alle Margherie) come al Castello di Pollenzo (Carità 2004) e nell’allesti-mento dell’Armeria Reale a Palazzo Reale (Ghisotti 2008) dove ancora i mobili di Capello costituiscono uno degli elementi distintivi.Al tavolo è riservato un ruolo centrale nella mostra sulla cultura figurativa degli Stati del re di Sardegna che segna l’avvio della moderna fortuna critica del neogotico in Piemonte (cfr. in particolare Castelnuo-vo 1980).

[carla enrica spantiGati]

Bibliografia: Baccheschi 1980, I; Antonetto 2004, pp. 207-209 e nn. 26-34; Colle 2007, pp. 268-269; De Royere 2017, pp. 282-289 (in particolare p. 286).

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L’elegante secrétaire è uno degli arredi realizzati per la Real Casa dal mobiliere inglese Henry Thomas Pe-ters in occasione dell’allestimento di un appartamen-to nuziale all’interno del Palazzo Reale di Genova, pianificato a partire dal 1841 in previsione dei festeg-giamenti per il Reale Matrimonio tra Vittorio Ema-nuele e Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena, celebra-to a Stupinigi nell’aprile del 1842: i duchi di Savoia soggiornarono nella reggia genovese per un mese, a partire dal 4 giugno di quell’anno. Attivo per la cor-te sabauda anche a Torino, Pollenzo e Racconigi, Peters impiantò a Genova una moderna fabbrica di mobili con macchina a vapore, lavorando anche per l’aristocrazia locale e l’alta borghesia. Gli arredi per l’appartamento nuziale risultano com-missionati il 12 settembre 1841 e destinati a tre am-bienti: la camera da letto di Maria Adelaide, il ga-binetto di scrittura (nel quale sarà collocato il nostro secrétaire) e il gabinetto di toilette. Ispirati allo stile Carlo X e al Regency compatto, semplice e monu-mentale di Thomas Chippendale jr. (Ratschüler 2014, p. 41), i mobili furono realizzati in legno di rovere con sottile impiallacciatura in legno di acero canadese, detto nei documenti «legno spiniero», con

84. henry thomas peters (Windsor 1792 - Genova 1852)

Secrétaire, 1841-1842

Legno impiallacciato in acero, intarsi in palissandro, ripiano in marmo bianco, 150 x 96 x 49 cm; ripiano 99 x 50 x 2,5 cm.Genova, Palazzo Reale, inv. 185.

filettatura in palissandro, detto bois de violet, e mogano. Come anche negli altri pezzi del gabinetto di scrittura e della camera da letto, nel secrétaire in esame Peters interviene sulla lastronatura serica e maculata dell’a-cero, con motivi fitomorfi e floreali, dominati dalla palmetta greca, la foglia d’edera e i motivi classici del tirso e della kylix (Ratschüler 2014, p. 145). Nel cor-po inferiore, incorniciato da semplici lesene angolari, il mobile presenta tre cassetti muniti di serrature e, nel corpo superiore, una ribalta rettangolare con serra-tura, chiusa sui lati lisci da eleganti coppie di semi colonnine pseudo dorico affrontate e sovrapposte. L’interno del mobile offre ripiani, scomparti e cas-setti sostenuti da otto colonnine. Nell’attico coperto da una lastra di marmo bianco è un quarto cassetto con serratura, decorato da motivi grecizzanti (tirso, edera e palmette). Sul bordo superiore della ribalta è incisa la sigla di produzione dell’autore: «peters maker Genoa».

[luca leoncini]

Bibliografia: Leoncini, 1999, pp. 7-12; Baccheschi 2006, pp. 239-245; Leoncini 2012, pp. 106-141; Rathschüler 2014, pp. 143-147, figg. 110-111.

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La cosiddetta tavola magnifica fu così denominata dal suo autore, il quale nella Parcella del 1842 descriveva con accuratezza l’eccezionalità iconografica e la stra-ordinaria perizia tecnica profusa nel lavoro appena terminato. La Nota di spese dello stesso anno, rende altresì conto dell’ingente valore monetario del mobi-le che, per la notevole quantità di materiali preziosi e la manodopera specializzata impiegata, costò alle casse di casa Savoia 6000 lire in totale (Capello, in Antonetto 2004). Sebbene dunque si possa ritenere un unicum nella produzione di Gabriele Capello, tra i suoi ideali predecessori si possono considerare alcu-ni esemplari di collezione privata, come quello rea-lizzato per i Costa della Trinità nel 1838 e un altro che raffigura l’Italia al centro circondata dalle figure allegoriche delle Arti (Antonetto 2004, cat. 177-178 e pp. 261-262). Nello specifico, il tavolo si compo-ne di un piano rotondo figurato a intarsi di avorio e fili di ottone, posato su un tronco ottagonale, sulle cui facce sono rappresentate una serie di cariatidi con ornati floreali e foglie d’acanto. Il fusto poggia a sua volta su un basamento circolare decorato a sfingi e sorretto da 4 zampe di leone, che sono affiancate da palmette e altri ornamenti lignei realizzati invece a in-taglio. Il prezioso oggetto fu appositamente creato per l’Appartamento Nuziale dei Principi di Piemonte, situato al secondo piano del Palazzo Reale di Torino, in occasione degli sponsali celebrati il 12 aprile 1842 che univano l’erede al trono sabaudo Vittorio Ema-nuele e Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena. Il felice evento, festeggiato dalla corte e della città per un mese

85. Gabriele capello detto il moncalvo (Moncalvo 1806 - Torino 1877)

Tavola magnifica, 1842

Legno di mogano impiallacciato di amaranto, con intarsi di avorio e fili di ottone, 78 x 128,5 diam. cm.Torino, Musei Reali - Palazzo Reale, inv. DC 2777, inv. 9310; 3910 rosso (Palazzo Reale, 1964); D.C. 2777 (Palazzo Reale, 1908)Restauro eseguito in occasione della mostra.

intero, fu preceduto da una lunga serie di preparativi e lavori di arredo e riallestimento delle residenze reali di Torino, Genova e Racconigi, sovrintesi dalla regia di Pelagio Palagi e affidati a una équipe di mobilieri di comprovata esperienza. Il mobile esposto in que-sta sede deriva da un raffinata invenzione di Palagi, testimoniata dal disegno autografo n. 2708 della Bi-blioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna (pubblicato in Antonetto 2004, cat. 114) che ripro-duce parte del piano, poi scrupolosamente tradotto in opera da Gabriele Capello. La sua complessità iconografica è figlia della notevo-le cultura antiquaria e archeologica del Palagi, che vantava una biblioteca di oltre 4500 volumi e una considerevole collezione di reperti antichi di cultura e provenienza diverse (Matteucci 1976, in part. pp. 123-124; Roncuzzi, Roversi e Monaco 1989), da cui traeva ispirazione la sua inesauribile e metamorfica vena creativa, capace di rielaborare incessantemente il repertorio mitologico, naturale e dei pattern decorativi e di fornire modelli grafici puntuali. È proprio il Ca-pello infatti a metterci a parte dell’erudito contenuto iconografico della tavola che rappresenta i quattro elementi, raffigurati in cerchi concentrici sulla super-ficie del piano. La cornice più esterna riproduce l’ele-mento dell’Aria attraverso una serie di volatili inseriti entro girali vegetali, segue l’Acqua che è richiamata da otto putti raffigurati a cavaliere di animali dalle zampe palmate, quindi l’elemento del Fuoco alluso dalle teste barbute di Giove sovrastate dai fulmini e infine dalla Terra posta al centro (Capello, in An-

tonetto 2004). Quest’ultimo elemento fa da perno ideale della composizione ed è più specificamente iconizzato da Cibele, assisa sul carro trainato da leo-ni con i canonici attributi iconografici del melograno e dello specchio. La Dea, tra le più antiche divinità dell’Asia minore, era celebrata nel mondo classico proprio nel mese di aprile, quale principio generatore della natura e madre di tutti gli dei. La sua presenza al centro del tavolo veicola dunque il messaggio al-legato al prezioso dono di nozze, offerto all’augusta coppia con l’auspicio di un’unione fertile e felice.

[chiara accornero]

Bibliografia: Finocchietti 1873, p. 218; Antonetto 2004, pp. 260-262, cat. 111-115; Colle 2007, pp. 102-103 n. 25.

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Il tavolo proviene dalla dispersione degli arredi del castello di Pollenzo, che furono battuti all’asta da Se-menzato nel 1993. La Cassa di Risparmio di Torino riuscì ad acquistare settantaquattro opere, sottoposte a decreto di notifica del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali emanato il 26 aprile 1996 dalla Soprin-tendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte. Nel 1998 esse furono donate al Museo Civico di Pa-lazzo Madama. L’insieme comprende otto busti in marmo all’antica, due dipinti con le battute di caccia di Vittorio Emanuele II e quattro serie di mobili: il salotto dorato alla greca, il salotto cinese, un insieme di tavolo e sedie per sala da pranzo, e una serie di tre sedie con tre poltrone in legno scuro, cui si aggiun-ge, isolato, il tavolo decorato a intarsio con il ritratto equestre di Emanuele Filiberto (Corrado 2004).Firmata da Peters e datata a Genova nel febbraio 1843, l’opera è descritta nei documenti come «una grande tavola rotonda riccamente intarsiata di vari legni fini con un gran medaglione nel mezzo rappre-sentante Emanuele Filiberto a cavallo, dal mobiliere provvista per servizio dei Reali appartamenti» e ric-camente intarsiata con «fregi di erable» (acero) (Ra-thschüler 2004, p. 171). L’importante arredo giunse a Torino il 22 marzo 1843 e fu pagato 2.000 lire il 10 aprile (Antonetto 2004, p. 232). Venne spedito dal direttore del Guardamobili al Castello di Pollenzo il 7 luglio 1843, come risulta da un allegato all’in-

86. henry thomas peters (Windsor 1792 - Genova 1852)

Tavolo da centro con il ritratto equestre di Emanuele Filiberto, 1843

Legno lastronato in limone e palissandro con tarsie in acero e legni rari, avorio, argento e madreperla, 76,5 x 140 diam cm.Iscrizione stampigliata sull’appoggio circolare del piano «enrico tommaso peters fece / a Genova in febbrajo 1843».Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 1751/L; inv. PPP 993 (Inventario Vecchio ante 1923?).Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

ventario del castello steso a partire dal 29 novembre 1842. Nell’inventario del 1862, il tavolo sostituisce «la tavola rotonda placata dio noce d’India guernita in bianco» che introduceva alla sala del biliardo car-loalbertina, trasformata in sala da pranzo (Corrado 2004, pp. 206-207 e Pettenati 2004, p. 269).Nel medaglione centrale del piano emerge sul fondo chiaro dell’acero la figura di Emanuele Filiberto a ca-vallo nell’atto di rimettere nel fodero la spada dopo aver vinto la battaglia di San Quintino, nel 1557. L’immagine riproduce fedelmente il monumento equestre del duca commissionato da Carlo Alber-to nell’ottobre 1831 allo scultore Carlo Marochetti, fuso in bronzo a Parigi e inaugurato in piazza San Carlo nel novembre del 1838 dopo essere stato espo-sto per due mesi nel cortile del Louvre (si segnala un modelletto in bronzo appartenente alle collezioni di Palazzo Madama, inv. 208/B). Il soggetto si presta alla glorificazione della storia dinastica presentando il duca pacificatore che sconfisse gli invasori francesi, riunì i possedimenti sabaudi e stabilì la capitale a To-rino (Dragone 2001, pp. 38-39; Fusari 2012-2013, p. 80). La valenza emblematica universale del soggetto è completata nel tavolo dal resto della decorazione: sul bordo esterno del piano si rincorrono una serie di medaglioni intarsiati che alternano i quattro elementi (una vecchia con ali di pipistrello per il fuoco, un giovane alato che soffia per l’aria e due trofei di ar-

gomento marinaro e agricolo per acqua e terra) e i quattro continenti, raffigurati con panoplie e scudi a tema. La fascia sottopiano contiene quattro cassetti, la colonna portante combina parti scolpite e intar-siate con motivi classici di palmette e foglie d’acanto di grande eleganza. Stilisticamente, il tavolo è stato avvicinato a quello attribuito a Bellangé conservato al Palais Royal di Bruxelles, comprato nel 1834 da Luigi Filippo per sua figlia la regina del Belgion (De Royere 2017, p. 325).

[clelia arnalDi Di balme]

Bibliografia: Semenzato Roma 1993, n. 100; Colle 1999, pp. 68, 78, fig. 25; Dalmasso 2001, pp. 54-55; Antonetto 2004, fig. 67-68, pp. 231-232; Corrado 2004, p. 208, cat. 829; Pettenati 2004, pp. 266-269; Rathschüler 2014, pp. 129, 171-172; De Royere 2017, p. 323-325.

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La tavoletta del Castello di Agliè è forse un capo d’o-pera da ebanista e raffigura il medaglione centrale del tavolo di Peters per Pollenzo con Emanuele Filiberto a cavallo (scheda 87). Analoga al modello, anche se più semplificata, è la profusione di legni che figurano nell’intarsio insieme alla madreperla e al metallo. La tavoletta qui esposta, reca sul retro l’iscrizione «Cle-mente Boeri Ebanista Torinese in Genova». La prima notizia attualmente nota dell’ebanista risa-le all’Esposizione del Congresso degli Scienziati di Genova del 1846 dove viene presentata la «Tavola misteriosa», un celebre tavolo rotondo realizzato da Henri Peters con meccanismi rotari e a ribalta alla cui decorazione d’intarsio aveva collaborato Clemente Boeri. Il tavolo, venduto a Londra e oggi non rintraccia-to, raffigurava sulle mostrine dei cassetti scene della vita di Cristoforo Colombo e sul piano la figura al-legorica del Dispotismo all’inferno che cavalca una nuvola vulcanica (Rathschüler 2014, pp. 52-53). Boeri com-pare sulla scena torinese più tardi all’Esposizione Na-

87. clemente boeri (Notizie a Torino e Genova tra il 1846 e 1879)

Capo d’opera, seconda metà xix secolo

Legno lastronato, intarsiato in legni vari, madreperla, ottone, rame e avorio inciso, 68,8 x 52,5 x 1,5 cm.Agliè (to), Castello ducale, inv. ???Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

zionale di Torino del 1858, dove espone un tavolo riccamente intarsiato e scolpito (Relazioni dei giurati e giudizio..., 1858, II, p. 475, n. 1125), sono noti poi a sua firma l’esecuzione del badalone del coro cinque-centesco della chiesa di San Lorenzo a Genova, data-to al 1866, e un tavolo rotondo intarsiato con scene di storia greca passato sul mercato antiquario nel 2016, recante l’etichetta dell’ebanista e la data 1876 (Bardel-li, http://www.antiqua.mi.it/Bardelli_Boeri_Dic16.html#). Non è ancora stato chiarito se l’ebanista Clemente Boeri sia in relazione con l’altro Boeri (on Boeris), Giuseppe, attivo tra gli anni trenta e alla fine degli anni quaranta dell’Ottocento a Torino per la Real Casa e ampiamente documentato come restaurato-re di mobili di Piffetti a Palazzo Reale (Antonetto 2010, I, pp. 151, 172-173; ASTo, Sez. Riun., Casa di S.M., Conti Categorici, 1849, reg. 5156).

[stefania De blasi]

Bibliografia: inedito.

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11.Dalla produzione artigianale all’industria

Fin dalla prima metà del xix secolo prendono avvio le esposizioni dei prodotti dell’industria e alle Esposizioni Nazionali si alternano le grandi Esposizioni Universali, di cui sono memorabili quelle di Londra, 1851 e di Parigi,1855. Per gli attori della vita culturale dell’epoca e per i professionisti, architetti e artisti, centrale diventa la qualità artistica degli oggetti, esclusiva dei mastri mobilieri, orafi, argentieri, tessitori, ceramisti, vetrai, fabbri, nella delicata transizione dalla produzione tradizionale a quella industriale. La storia professionale di Gabriele Capello detto il Moncalvo è rappresentativa; dalla provincia si trasferisce a Torino, dove nel 1825 apre la bottega che in pochi anni, grazie alle sue abilità artistiche e imprenditoriali, si trasforma in una delle più importanti fabbriche di arredi lignei del Regno sardo, diventando il principale fornitore della Casa Reale. Le sue abilità gli procurano riconoscimenti a livello internazionale. Attento alla realtà sociale, contribuisce alla fondazione nel 1851 delle Scuole operaie San Carlo, ancora attive, che formano migliaia di operai e tecnici specializzati. Tra i primi mobilifici industriali a Torino, fornitore anch’esso della Corte, è quello dei biellesi Fratelli Levera, di cui è presentato per la prima volta in Italia il tavolino proveniente da Lisbona.

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Il tavolino, conservato nella sua collocazione origina-ria nella Stanza Verde del Palácio da Ajuda, venne eseguito come dono della Municipalità torinese per le nozze di Maria Pia di Savoia con Luigi I di Bragan-za, e corredato di un album di disegni acquerellati riposto nello scomparto ricavato sotto il piano ribal-tabile con una veduta di Torino ripresa dalla collina in prossimità del Monte dei Cappuccini (per l’album cfr. la scheda qui a seguire).A questo manufatto si lega un disegno in collezione privata firmato da Placido Mossello, pittore operoso per la corte sabauda nella seconda metà dell’Ottocen-to che si dedicò anche a progetti per apparati effimeri e arredi (cfr. qui il testo Il gusto borghese del sovrano). Al fondo del foglio però l’annotazione «Eseguito dal Prof. Carando per Dono del Municipio di Torino a S.A.R. Pia del Portogallo» ha posto alcuni inter-rogativi. Francesco Carando è scultore che collabora con Mossello per l’Esposizione Nazionale di Torino del 1880, e d’altro canto i dati presenti sul tavolino e alcuni riferimenti degli archivi del Palácio da Ajuda ne attestano l’esecuzione ad opera della Ditta Levera, con particolare specificazione a Delfino. Si tratta di un foglio di carta da lettere non datato intestato «F.lli Levera / Delfino Levera / Successore / Casa Fondata nel 1850» in caratteri goticheggian-ti con una parziale incorniciatura che riporta (con l’indicazione «Membro dell’Istituto Politecnico e dell’Accademia Nazionale di Parigi») un medaglie-re e gli stemmi di riferimento alle case regnanti per le quali la ditta ha operato richiamate anche dalla scritta «Provv. Delle R.R. Case d’Italia, Portogallo e Spa-

88. Delfino levera (Ditta Fratelli Levera) (dati???)

Tavolino per le nozze di Maria Pia di Savoia e Luigi I di Braganza, 1862

Noce scolpito, intagliato, tornito e patinato, ottone, velluto, 79 x 75 x 69 cm.All’interno dello scomparto sotto il ripiano targhetta in ottone F.lli Levera C.tà - Torino 1862.Lisbona, Museu Palácio Nacional da Ajuda, inv. 1331.

gna». La Ditta è indicata come «Fabbrica di Mobi-li», ma anche come fornitrice di stoffe, passamanerie, tappezzerie, addobbi (a testimoniare la completezza del ciclo di lavorazione) con laboratori in via Po 51 e magazzini «Angolo Vie Zecca e Mazzini» (ma cfr. qui la scheda relativa al Manifesto della ditta posterio-re agli anni ottanta). Al fondo, manoscritto a matita ripreso a penna «Levera Delfino / Via Rossini N. 6 / Italia Torino». Il foglio è incollato sul retro di una fotografia del tavo-lino (coeva al dono, al margine sinistro in basso «F.l-lo Levera Fece 1862» e su quello destro «Euminello», sul bordo inferiore la scritta a penna «Delfino Levera Torino») che, sia pure con una inquadratura diversa, risulta coincidere con il disegno di Mossello anche nel testimoniare l’originaria esistenza del grembiule traforato sotto i bordi lunghi del tavolino oggi non più in opera (e assente già nella riproduzione edita nel volume su Ajuda del 1961). Dunque Mossello ne fu il primo ideatore, e se un ar-ticolo della «Gazzetta del Popolo» del 23 settembre 1862 (a seguito dell’esposizione in Palazzo Civico prima della consegna) conferma la paternità esecuti-va dei Levera, ma indica come progettista Alberto Bobbio, è probabilmente da intendersi come riferi-mento a chi di quel disegno potrebbe aver fornito uno sviluppo tecnico.Il mobile unisce ai decori neo-settecenteschi delle gambe tornite e delle incorniciature di piano e fianchi reinterpretati in maniera irrigidita, intagli con riferi-menti alle nozze (gli stemmi dei Braganza e dei Savo-ia sormontati dalla corona sul ripiano) e al donatore

(gli stemmi della Città di Torino sugli angoli smus-sati) oltre alle iniziali della augusta sposa.Ricordiamo infine che il Palácio Nacional da Ajuda conserva anche un altro dono torinese per le nozze del 1862: l’inginocchiatoio offerto dagli Operai della Città di Torino riccamente lavorato dalla Ditta Mar-tinotti Giuseppe e Figli (inv. 1880).

[Carla enriCa Spantigati]

Bibliografia: Zagallo 1961, p. 46; Godinho 1988, pp. 32-33; Pe-rin 2011, p. 96.

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L’album venne fatto eseguire dalla Municipalità di Torino per completare il dono di un tavolino a Maria Pia di Savoia andata sposa a Luigi I di Braganza e prima della consegna entrambi i manufatti vennero esposti a Palazzo Civico, come ricorda un articolo della «Gazzetta del Popolo» del 23 settembre 1862 che menziona l’album realizzato in seta e pergamena dal signor Vezzosi, apprezzato a Torino per le ele-ganti legature. Al centro del piatto, entro una applicazione romboi-dale metallica a imitazione di una trina di pizzo (che si ripete negli angolari) figurano i ritratti di profilo degli augusti sposi.Il frontespizio miniato si deve a Luigi Gandolfi (che lo firma): esso reca al centro un grande ovale con la scritta dedicatoria, sormontato da una corona con gli stemmi di Braganza e di Savoia, circondato da intrecci floreali uniti al centro in basso da un ovale con la veduta di via Oporto a Torino e poggiante su di un basamento con la veduta del Palazzo di Città. Ai due lati stendardi goticheggianti raffigurano i due precedenti matrimoni, quello di Matilde di Moriana e Savoia (che nel 1145 sposa di Alfonso Henriquez, primo re del Portogallo) e quello di Maria France-sca del ramo collaterale dei Savoia Nemours (sposa di Alfonso VI nel 1666 e sorella di Maria Giovanna Battista, duchessa a Torino).Chiude l’album l’«Indice dei Dipinti», anch’esso miniato, datato 24 settembre 1862, firmato dal sin-daco Rorà [Emanuele Luserna di] e dall’Assessore delegato Pio Agodino (lo stesso cui si deve l’anno successivo l’apertura del Museo Civico torinese).La raccolta, in cui l’unico soggetto sacro eseguito per l’occasione da Francesco Gonin con la Gloria di Ma-

88b. Album per le nozze di Maria Pia di Savoia con Luigi I di Braganza, 1862

Rilegatura in seta e pergamena con applicazioni in metallo dorato, 450 x 610 x 62 mm.Lisbona, Museu Palácio Nacional da Ajuda, inv. 1332.

ria è da connettere al nome della principessa, spazia da vedute delle dimore reali (con una scelta allusiva all’evento per la Camera dell’Alcova dell’interno di Palazzo Reale sulla quale è annotato «dal vero») o dei siti di carattere religioso particolarmente cari al casato a vedute delle principali piazze cittadine (dalle inquadrature ricorrenti nei dipinti e nelle stampe di quegli anni), in due casi popolate dalle truppe passa-te in rivista da Sua Maestà o dal principe ereditario. Le vedute delle residenze sono caratterizzate da una spiccata accentuazione di gusto paesaggistico e con esse dialogano i paesaggi veri e propri e le immagini di costumi tradizionali dei luoghi legati allo svago e al riposo di carattere più borghese amati da Vittorio Emanuele II e dalla consorte. Gli artisti coinvolti sono i massimi esponenti della cultura contemporanea e nella raccolta è inserito an-che un disegno di Paolo Morgari con l’arrivo di Ma-tilde di Savoia (prima regina di Portogallo) a Oporto secondo quel gusto per la celebrazione dei fasti dina-stici che caratterizzerà di lì a poco l’apparato del nuo-vo Scalone monumentale di Palazzo Reale. Nell’indice (che riportiamo in calce) solo alcuni dei fogli sono indicati come «Disegno originale» (Fran-cesco Gonin, Enrico Gamba, Paolo Morgari, Guido Gonin; definiti «omaggio» i fogli di Giacinto Corsi e di Francesco Gamba), ma tutti riportano la firma e spesso la data (fatta eccezione per Morgari) anche se per alcuni potrebbe trattarsi di rielaborazioni. Unica eccezione la veduta della Reale Galleria d’Armi che chiude la raccolta (senza indicazioni di autore, né firmata) a evidenza connessa con la fotografia di An-tonio Pedrini del 1865 poi ripresa da Antonio Perini con la medesima inquadratura, solo appena amplia-

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ta, popolandola dalle figurette di visitatori (Cavanna 2003, pp. 85 e 88). «Indice dei Dipinti / Gandolfi cav. Luigi Fron-tispizio con dedica-Matilde di Savoia-Torino via Oporto-Maria Francesca di Savoia-Palazzo di Città / Perotti Edoardo Palazzo Reale verso il Giardino / Gonin cavaliere Francesco Gloria di Maria - Dise-gno originale / Righini professore Camillo Camera dell’Alcova nel Palazzo Reale / Gamba cavaliere Enrico Il Mattino - Disegno originale / Bozzoli [Bos-soli] Edoardo (nipote) Piazza Castello / Morgari ca-valiere Paolo Arrivo di Matilde di Savoia ad Oporto - Disegno originale / Caffi cavaliere Ippolito Piaz-za Vittorio Emanuele e rivista passata da S.A.R. il Principe Umberto al Reggimento de’ Lancieri d’A-osta / Gonin Guido (figlio) La Margherita - Disegno originale / Bozzoli [Bossoli] Edoardo La Basilica di Superga / Corsi conte Giacinto Assessore Munici-pale Dintorni della Stura - Omaggio [richiamato nel disegno da una scritta dedicatoria] / Beccaria cava-

liere Angelo Castello del Valentino / Piacenza pro-fessore Carlo Moncalieri - Castello Reale / Gamba barone Francesco Id. Borgo Navino - Omaggio / Cerruti cavaliere Felice Rivista passata da S. M. il Re in Piazza d’Armi / Bozzoli [Bossoli] cavaliere Carlo Piazza S. Carlo / Ferri cavaliere Gaetano Co-stume di Briga (Provincia di Cuneo) / Bisi cavaliere Luigi Interno della Cappella della Madonna della Consolata / Camino cavaliere Giuseppe Lago di Candia (presso Ivrea) / Biscarra cavaliere Carlo Feli-ce Costume di Gressoney (Valle d’Aosta) / Allason Enrico Santuario di Graglia (presso Biella) / Reale Galleria d’Armi / Torino 24 settembre 1862 Firmato Il Sindaco [Emanuele Luserna di] Rorà L’Assessore delegato Pio Agodino e timbro a secco della Città di Torino».

[Carla enriCa Spantigati]

Bibliografia: Zagallo 1961, p. 46; Perin 2011, p. 96 (per la lega-tura).

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Il tavolo si regge su quattro gambe scolpite a forma di arieti alati con una sola zampa ed è dotato di due cassetti che si aprono lateralmente. La decorazione a intarsio è giocata sul tema dell’Esposizione Generale Italiana tenuta a Torino al parco del Valentino dal 26 aprile al 17 novembre 1884. Alla fiera partecipano 14.237 espositori, divisi in otto sezioni, e per allestire la gran quantità di oggetti e macchinari che arrivano da ogni parte d’Italia, vengono costruite ampie strut-ture architettoniche effimere.Il piano del tavolo è diviso da un cordolo intarsiato in scomparti di varia forma e dimensione che con-tengono le vedute di alcuni dei padiglioni, modello decorativo tipicamente adottato per i foulard ricor-do di questo genere di fiere (cfr. Alcouffe, Bascou, Dion-Tenenbaum e Tiébaut 1988 per il fazzoletto di Filadelfia 1876, cui parteciparono anche i Martinotti con i loro mobili). Nell’ovale centrale è raffigurata l’Entrata principale, e procedendo dall’alto in senso orario, nei tondi compaiono le Gallerie per le indu-strie manifatturiere, la Porta Raffaello in stile ispani-co-moresco, la Galleria delle industrie meccaniche (Galleria del lavoro) e l’Edificio per le belle arti.I riquadri delle architetture sono ornati da girali con putti e bizzarre creature alate di gusto neorinascimen-tale, ripresi dai modelli cinquecenteschi di Stefano della Bella e rielaborati in senso romantico. Agli an-goli del piano quattro trofei richiamano gli argomen-ti della grande esposizione, che è organizzata in otto divisioni classificatorie: Belle arti, Produzioni scien-tifiche e letterarie, Didattica, Previdenza e assistenza pubblica, Industrie estrattive e chimiche, Industrie

89. feDeriCo Martinotti (dati???)

Tavolo con intarsi raffiguranti alcuni padiglioni dell’Esposizione GeneraleItaliana di Torino, 1884

Legno intagliato con intarsi in palissandro, ebano e avorio, 83,5 x 120 x 75 x cm.Torino, Caserma dei Carabinieri Chiaffredo Bergia.

meccaniche, Industrie manifatturiere e Agricoltura e materie alimentari. I trofei, di non facile interpretazio-ne, sembrano alludere all’agricoltura, al commercio, alla chimica (un alambicco?) e alle attività manifattu-riere (tessili?). Sui fianchi del mobile, tra tralci di vite e aquile, altre panoplie alludono alla musica, all’a-stronomia, alla guerra (?) e alla navigazione.Al progetto complessivo delle architetture per l’Espo-sizione, caratterizzate da riferimenti stilistici diversi, sovrintende l’ingegner Camillo Riccio, assistente di Carlo Promis e poi di Carlo Ceppi alla Regia Uni-versità. Gli edifici rispondono a esigenze di celerità di costruzione, costo limitato, facilità di recupero dei materiali e agile organizzazione dei lavori. Le costruzioni prevedono impalcature in legno e tam-ponamenti in tela o laterizio, con coperture in tegole piane o più raramente in metallo. L’unica realizza-zione destinata a durare e a polarizzare l’attenzione del dibattito architettonico sulle grandi ricostruzioni storiche è il Borgo medievale, finanziato con il contri-buto dello Stato e acquistato dal Comune di Torino, che ne fa una sezione dei Musei Civici (Aimone e Filippi 2003).Sotto il tavolo è applicata l’etichetta di Federico Mar-tinotti, erede del laboratorio di mobili fondato nel 1831 da Giuseppe Martinotti in via Barbaroux 9 a Torino. L’azienda riscuote subito un buon successo e nella seconda metà del secolo, sotto la guida del figlio Luigi, diventa una realtà imprenditoriale di un certo peso, con oltre cento dipendenti, che partecipa alle esposizioni internazionali. Federico è l’esponente di terza generazione, che si pone alla guida dell’impresa

dopo la morte di Luigi. Nell’etichetta si fregia della partecipazione alle mostre di Torino, di Londra del 1850, Genova del 1850, Parigi, Torino, alle quali ottiene diverse medaglie. Federico saprà sviluppare soprattutto la linea di mobili liberty e parteciperà con successo all’esposizione universale di Parigi del 1900 e alle mostre torinesi del 1902 e del 1911 (Antonetto 2004; Alaimo e Mira 2014). Nel 1884 è ancora por-tatore di un gusto eclettico che di lì a poco risulterà desueto. Sempre sotto il piano, il tavolo porta una targhetta ovale metallica inventariale della Città di Torino con il numero «48 / 5323». Finora non è stata trovata la documentazione di acquisto da parte del Comune, né il mobile risulta nei cataloghi e nelle im-magini dell’esposizione (Alaimo e Mira 2014). Uno spoglio delle carte negli archivi della Città e all’Ar-

chivio di Stato nel fondo Pier Luigi Colli, la ditta che nel 1926 rileva il laboratorio Martinotti, potrà fare luce sulle modalità di acquisizione dell’opera (e rin-grazio Paola Soffiantino per gli utili suggerimenti). Il tavolo fa parte dell’arredo della Caserma dei Ca-rabinieri Chiaffredo Bergia, che dal 1815 ha sede nel palazzo edificato nel 1729 da Bernardo Vittone come Collegio delle province, e che oggi appartiene con i suoi arredi al fondo «i3-Patrimonio Italia» istituito da Invimit, la società di gestione del risparmio del mini-stero dell’Economia e delle Finanze.

[Clelia arnalDi Di BalMe]

Bibliografia: Aimone e Filippi 2003, pp. 102-109; Alcouffe, Bascou, Dion-Tenenbaum e Tiébaut 1988, p. 216; Antonetto 2004, pp. 312; Alaimo e Mira 2014, pp. 16-26.

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Il manifesto non è soltanto un documento relativo a uno dei maggiori laboratori torinesi del mobile otto-centesco, ma una testimonianza della trasformazione industriale di Torino incominciata a metà del secolo xix. È suggestivo anche perché offre un’immagine della zona in cui il fenomeno prese avvio e si svilup-pò, il borgo periferico di Vanchiglia.All’inizio del secolo l’area era una distesa di prati. Già negli anni venti appare punteggiata di botteghe e modesti fabbricati (ASCT, Catasto Gatti, 1823-1829, Sez. Borgo Vanchiglia, Isolato n. 1, mappa e colonnario). Nel 1866 il catasto Rabbini vi registra diversi stabilimenti, fra i quali Capello, i bronzisti Colla e Odetti e appunto i Levera (ASTo, Catasto Rabbini 17 maggio 1866, Mappe f. 40). Lo stabi-limento fondato nel 1850 dai fratelli Delfino e An-nibale Levera appare nel manifesto come una realtà produttiva di grandiosa estensione (anche tenendo conto dell’enfasi di prospettive molto «gonfiate» a scopo pubblicitario) e di complessità adeguata a criteri moderni di lavorazioni in serie e meccanizza-zione. L’indirizzo è via Tarino 6 (dove ora sorge un moderno edificio in mattoni a vista). È distribuito su due isolati, fra via Tarino, via degli Artisti, via Gua-stalla e via Santa Giulia, con secondo indirizzo in via Sant’Ottavio 14, a due passi dallo stabilimento di Gabriele Capello, ed è articolato in diversi edifi-ci di cui leggiamo le destinazioni nelle didascalie al piede del manifesto. La palazzina in primo piano (n. 1) accoglie l’esposizione di mobili, stoffe e tappeti; il capannone n. 2 la fabbrica di passamaneria; nel n. 3 si producono i pavimenti in legno; il 4 e il 5 sono i laboratori e le officine meccaniche a vapore, nonché

90. Manifesto della Fabbrica di Mobili Frat.li Levera, posteriore al 1870

Stampa su carta, 100 x 74 cm.Museo della Meccanica e del Cuscinetto, Villar Perosa.Restauro eseguito in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

la fonderia dei bronzi; il 6 il deposito dei legnami. Dunque non più un laboratorio di mobili, ma una industria dell’arredamento a ciclo completo, capace di fornire ambienti «finiti» in tutto e per tutto, come quelli che si vedono nei due medaglioni in alto: due sale in pieno neo-barocco Napoléon III, che ricorda-no la sala di ricevimento della regina a Moncalieri in versione borghese.I laboratori di falegnameria e di ebanisteria sono vi-sualizzati nei medaglioni in basso. In quello di sini-stra macchine avanzate, tra cui una sega a nastro e una piallatrice, sono azionate da una centrale a va-pore attraverso un albero al quale sono collegate le pulegge. Sulla destra il laboratorio dei lavori di fino, di ebanisteria, appare ancora come una bottega del secolo precedente.Ai lati e sopra l’immagine degli stabilimenti sono di-sposte le medaglie collezionate dai Levera: la prima è l’argento all’Esposizione di Genova del 1854, il rico-noscimento più recente porta la data 1870.Tre insegne reali dominano il manifesto. A sinistra dello stemma italiano c’è quello del Portogallo, legato al Piemonte dal matrimonio, nel 1862, di Maria Pia di Savoia con il re Luigi I di Braganza. Il dono della città di Torino per le nozze fu un pregevole tavoli-no realizzato proprio dai Levera, presente in Mostra grazie a un prestito del Museo del Palácio Nacional da Ajuda di Lisbona (cfr. scheda n. ??, p. ??). In una carta intestata, i due industriali torinesi si fregiano del titolo di provveditori della Reale Casa di Portogallo, oltre che di Spagna e d’Italia. Nello stemma di destra è riconoscibile quello dell’Impero asburgico, anche se l’aquila non vi appare bicipite come di solito. È da

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notare infine che la ditta Fratelli Levera aveva seguito la capitale a Firenze, aprendovi uno stabilimento in via del Giglio, e si era estesa a Napoli con una suc-cursale in via Toledo, pur mantenendo a Torino la «casa madre». A Torino aveva anche una «vetrina» nel cuore della città, in via Po «vicino al Caffè Na-zionale».I Levera, nativi di Andorno Cacciorna nel Biellese, svilupparono la loro attività con ritmo rapidissimo. Otto anni dopo il loro arrivo a Torino, quando nel 1858 ottennero nell’Esposizione del Valentino la loro prima medaglia d’oro, veniva riconosciuto allo stabi-limento un posto primario nell’industria nazionale, e incominciavano ad avere commesse dall’estero che l’Album descrittivo riferisce ampiamente (cfr. scheda n. ??, p. ??). Nello stabilimento erano all’opera 250 operai, che trovavano presso i Levera «lavoro e pane giornaliero ed un trattamento umano» (L’Esposizione Italiana del 1861, 1862, p. 130).Tutto questo in un decennio. I commessi viaggiatori che visitavano la ditta dichiaravano che «poteva sta-re a fronte con molte delle principali di Francia». I caratteri stilistici della produzione venivano descrit-ti così: «Quale imitava lo stile elegante del secolo di Luigi XV... quali di forma più severa imitanti il vec-chio stile italiano, quali accomodati alle esigenze di gusti più moderni» (Bibliografia di riferimento viag-giatori??). Dunque il neobarocco, il neorinascimento, e anche qualcosa di più moderno.

In quella prima Esposizione Italiana, gli osservatori furono colpiti in modo particolare dall’organizzazio-ne dello stabilimento, tanto da elevarlo a simbolo di un nuovo modo di produrre: l’ampia meccanizza-zione, alimentata da una centrale a vapore della forza di 12 cavalli; la presenza interna di tutte le speciali-tà concorrenti al risultato finale, compresi bronzi e tessuti; l’istruzione professionale. Ciò permetteva ai Levera un fatturato di 900.000 lire annue, con l’im-piego di 630.000 lire di materie prime le più diverse (Esposizione italiana 1864-1867, p. 208).Meno di vent’anni dopo, nonostante un disastroso incendio nel 1863, la fabbrica aveva quasi raddop-piato il numero dei dipendenti. «Gli operai... sono un reggimento di circa 400, che si occupano di rami svariatissimi d’industria, e di cui una parte abita in case operaie apposite, attigue alla fabbrica...» (Torino 1880, 1978, vol. II, p. 809).Una ricognizione sistematica della produzione dei Levera non è ancora stata intrapresa. Come esempio della loro produzione «borghese» si può ricordare un salotto per Vittorio Emanuele II a La Mandria com-posto da due divani, due poltrone, otto sedie, un ta-volino, due consoles con specchiere (Avataneo 2017, pp. ???).

[roBerto antonetto]

Bibliografia: Antonetto 2004, pp. 311-312; Avataneo 2017, pp. ???

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«Un paravento di legno noce d’India a sei fogli, in-tagliato nella parte superiore, con cerniere di ottone, coperto da una parte di lampasso seta fondo azzurro a fogliami giallo oro dall’altra di satin»; così nell’inven-tario del Castello di Moncalieri, redatto nel 1908, è descritto il raffinato arredo parte integrante del mobi-lio della Sala di Ricevimento realizzata per la regina Maria Adelaide.La decorazione, l’intaglio, le diverse essenze lignee usate e il rivestimento tessile fanno di questo oggetto l’arredo mobile che meglio riassume in sé le caratteri-stiche materico decorative che identificano le decora-zioni del prezioso ambiente moncalierese progettato dall’architetto e scenografo Domenico Ferri (Berto-lotto 1997); l’artista bolognese progettò per questa re-sidenza nuove sale destinate alla sovrana utilizzando differenti stili, tra cui questo ambiente ideato secondo il gusto «Napoléon III», allora imperante, confacente al gusto della Coppia Reale. Il risultato fu una salotto dove arredi fissi e mobili neobarocchi rivestono ogni superficie, non dorati, ma realizzati con maestria me-scolando diverse essenze lignee pregiate, impreziosite da elementi in bronzo dorato e porcellana dipinta.

Gran parte della realizzazione di queste decorazioni lignee si devono a Gabriele Capello detto il Mon-calvo (Bertolotto 1997; Dalmasso 2001; Antonetto 2004), straordinario ebanista che seppur cresciuto e distintosi nell’esecuzione di decorazioni fisse e mobili di gusto neoclassico di committenza carloalbertina ideate da Pelagio Palagi, seppe poi seguire le volontà della corte del nuovo sovrano, Vittorio Emanuele II, realizzando opere di straordinario livello secondo le forme espressive dettate dal mutare del gusto.Lui e la sua la sua équipe furono gli artefici dell’intera boiserie e degli scuri di questo ambiente del castello, come attestano i pagamenti finora rinvenuti (Anto-netto 2004; Barbero 2017). Dunque, seppur non documentato con certezza, il paravento in oggetto può essere a lui attribuito (Berto-lotto 1997) data la fattura dell’intaglio e delle essenze lignee utilizzate analoghe agli elementi presenti da lui realizzati.

[enriCo eDoarDo BarBero]

Bibliografia: Bertolotto 1997, pp. 85-88; Dalmasso 2001, p.???; Antonetto 2004, pp. 282, 284; Barbero 2017, pp. 172-173.

91. gaBriele Capello detto il MonCalvo (attribuito a) (Moncalvo 1806 - Torino 1877)

Paravento, 1852-1855

Legno di noce intagliato e palissandro lastronato, rivestimento in lampasso di seta.Moncalieri (to), Castello Reale, inv. 2466 D.C. (Moncalieri 1908); 2618 D.C. (Moncalieri 1880).

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12.Le tecniche dei capolavori

I due straordinari mobili di Pietro Piffetti e di Giuseppe Maria Bonzanigo della Palazzina di caccia di Stupinigi sono qui presentati non solo in quanto vertici dell’ebanisteria e dell’intaglio in Piemonte nel Settecento, ma anche come esemplari dell’eccezionale virtuosismo tecnico nella lavorazione dei legni pregiati e dei materiali preziosi che caratterizza la produzione degli artisti del legno e dei protagonisti delle arti congeneri.L’ebano e gli altri legni anche d’importazione da terre lontane, la tartaruga, la madreperla, l’avorio, i metalli hanno un loro intrinseco valore che incide, come nel caso di Piffetti, sulla determinazione del compenso, che deve coprire anche le spese per la fornitura dei materiali.Già Luigi Prinotto sviluppa l’arte dei mobili decorati da scene in avorio disegnate con inchiostro di china, ma è con Piffetti che trionfa l’intarsio in cui, alle lastronature in legni rari, si combinano tarsie in madreperla, tartaruga colorata con l’inserimento di fogli gialli, verdi, rossi, elementi metallici e avori incisi policromi. Spesso si aggiungono eleganti applicazioni figurate in bronzo, grazie alla collaborazione con artisti del ramo, come Francesco Ladatte.Nel sontuoso tavolo da muro «alla greca» di Bonzanigo l’intaglio dorato è arricchito da medaglioni a fondo blu nel gusto delle ceramiche inglesi Wedgwood.

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92. Pietro Piffetti (Torino 1701-1777)

Inginocchiatoio di pregadio, 1749

Legno di pioppo intagliato, lastronato e intarsiato, avorio inciso e policromo, tartaruga; ottone, 78 x 85 x 66 cm.Nichelino (to), Palazzina di Caccia di Stupinigi.Inv. 6790 (Stupinigi 1908); inv. 9942 (Palazzo Reale 1880).

L’inginocchiatoio, arrivato a Stupinigi il 22 giu-gno del 1908 da Palazzo Reale di Torino, dove era collocato al secondo piano nella Sala del pregadio (AOM, Inventario 1880, n. 10900, mandato di ca-rico n. 59), viene inserito nella camera da letto come arredo integrante dell’appartamento abitato dalla re-gina Margherita, attuale Appartamento di Levante.Come noto da tempo, l’inginocchiatoio è l’unica parte attualmente riconoscibile del pregadio realizza-to da Piffetti tra il 1749 e il 1751, in pendant con quello che si trova ancora al secondo piano di Palazzo Reale di Torino, negli appartamenti allestiti per le nozze di Vittorio Amedeo III e Maria Antonia Ferdinanda di Borbone.L’opera si colloca all’apice delle soluzioni decorative di Piffetti, sia per la molteplicità dei materiali impie-gati e la ricca policromia degli avori incisi, sia per la realizzazione delle rocailles in pieno dinamismo e aggraziate forme curvilinee che si ritrovano in alcuni particolari della scrivania di Ca’ Rezzonico (1741) e nello straordinario e coevo paliotto della chiesa di San Filippo Neri di Torino. Il piano superiore porta in una cartella il motto «Domine tu scis quia amo te» tra rami d’ulivo e d’alloro su una base interamente rivestita di tartaruga che poggia su porzioni di carta colorata in rosso e verde per la caratterizzazione del-le sfumature cromatiche più calde o più fredde della lastra. Alla base della lastronatura in tartaruga delle gambe è invece posta una carta colorata in blu, men-tre per la base inferiore dell’inginocchiatoio sono pre-senti le stesse sfumature del piano superiore.

L’opera venne disallestita dall’originario pregadio di Palazzo Reale, con tutta probabilità, nel 1840 a opera dell’ebanista Giuseppe Boeri che attesta di aver «Riparato e messo in nuovo un altro pregaDio del piffeti placato in tartaruga avorio, ed ottone mancante di diversi pezzi sia in avorio che in ottone ed aver-lo rigravato» (Antonetto 2010, I, pp. 173-174). Le tracce degli interventi di reintegrazione pittorica de-gli avori sono state riconosciute nel corso dell’ultimo intervento di restauro del 2006 a opera del Centro di Conservazione e Restauro La Venaria Reale, esegui-to dopo il ritrovamento delle opere trafugate nel 2004 dalla Palazzina di Caccia di Stupinigi (Spantigati e De Blasi 2011, pp. 118-121). Allo stesso modo sono stati mappati gli altri interventi di restauro preceden-ti, tra cui quello documentato nel 1978 eseguito dal restauratore torinese Renato Franchino, cui sono state ricondotte alcune integrazioni di tessere in osso e por-zioni di tartaruga (AOM, Palazzina Restauri 1961-1980). L’inginocchiatoio ha goduto di particolare fortuna critica, esposto già nel 1929 alla mostra del «Settecento Italiano» a Venezia e ricordato in prece-denza da Augusto Telluccini nella prima monogra-fia edita su Piffetti nel 1921, è da sempre considerata una delle opere iconiche di Piffetti delle collezioni del Museo dell’Ammobiliamento di Stupinigi.

[Stefania De BlaSi]

Bibliografia: Telluccini 1921, pp. 56-71; Antonetto 1985, pp. 319-320; Antonetto 2010, I, pp. 173-174; Spantigati 2011, pp. 116-121 (con bibliografia precedente); Spantigati e De Blasi 2011, pp. 99-107; Spantigati 2014, pp. 151-164.

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L’opera fa parte di una serie di due commissionate a Giuseppe Maria Bonzanigo nel 1787 in occasione dei lavori avviati dal 1785 per l’ampliamento della Palazzina di Stupinigi con l’allestimento dei piani ammezzati per il duca del Genevese e il conte di Mo-riana e per il riammodernamento delle sale del corpo centrale.Nel 1787 a Bonzanigo vengono saldati in due tranches (aprile e luglio), per £ 1200, i due tavoli da parete realizzati per la camera da parata del re, attuale anti-camera dell’Appartamento della regina, dove tuttora sono conservati: per il «prezzo convenuto, previo gra-dimento di S.M. delle due Tavole alla foggia grecca, tutte ornati di foglie, corone d’alloro, Medaglioni, cascate di fiori, cariatidi di bassi rilievi, e similianti altri ornati d’intaglio destinati per la camera di parata della M. S.». Nel mese di giugno è saldata a Bartolomeo e Nicola Monticelli la doratura e coloritura in bianco e azzur-ro dei due tavoli per un importo complessivo di £ 616 (AOM, Conti e bilanci, Conti del Real Palazzo di Stupinigi dal 1780 a tutto il 1790, n. corda 167, 1787, cap. 2, nn. 4 e 8). Le due opere, dall’intaglio estremamente raffinato, si inseriscono nell’articolato cantiere diretto dall’architetto Lodovico Bo che, nei numerosi documenti di contabilità, registra la bottega di Bonzanigo artefice dei preziosi intagli “alla greca e «nello stile di Raffaello» che più volte viene ricordato dai documenti. Gli arredi sono storicizzati nell’attuale sala intera-mente realizzata negli stessi anni dal Bonzanigo e dalle altre maestranze attive nel cantiere di Stupinigi, dove è registrato anche il minusiere Giovanni Galli-

notto, che collabora con Bonzanigo per la creazione della struttura lignea degli arredi conservati nella sala ed è documentato per aver messo in opera un regolo ligneo di raccordo dopo la posa della pietra del piano (Asto, Casa di S.M., Registri Recapiti, 1787, tomo 3, f. 1138, 26 febbraio 1788). Gli inventari registrano i tavoli sempre nella stessa stanza ma ne descrivono un piano differente da quel-lo in marmo rosso venato oggi visibile, riconducibi-le ai molteplici rifacimenti dei piani in marmo degli arredi della Palazzina, da ultimo quelli documentati nel 1961 e forniti dalla ditta Gastini per i lavori preli-minari alla seconda Mostra del Barocco Piemontese, del 1963. Negli inventari della Palazzina, nel 1880, il piano è descritto in «pietra di marmo a macchie di vario colo-re» e, nel 1908, in «pietra di marmo a mosaico». I due tavoli sono esposti, insieme a molti altri arredi della Palazzina, alla mostra veneziana «Il Settecen-to Italiano» del 1929, riconoscibili nel catalogo nel-la sala 40 «del Guardamobili» (Il Settecento Italiano 1929, p. 169). Nel 1962 è documentato il restauro della parte lignea di uno dei due tavoli con il rifacimento dell’intaglio di una testina di leone, ad opera del «Laboratorio del restauro» di Torino (Fald. 40 Stupinigi Anni ses-santa-settanta, Palazzina Manifestazioni, Manutenzione varie, Cartella Palazzina di Stupinigi Ristauri da eseguire dopo la Mostra del Barocco). L’ultimo restauro a opera del CCR La Venaria Reale risale al 2017, eseguito in occasione dei lavori per la riapertura dell’Apparta-mento della regina.[Stefania De BlaSi]

93. GiuSePPe Maria BonzaniGo (Asti 1745 - Torino 1820)

Tavolo da muro, 1787

Legno intagliato, dipinto, dorato, piano in marmo rosso venato, bronzo dorato, 89,5 x 151 x 75 cm.Nichelino (to), Palazzina di Caccia di Stupinigi, inv. 1144 (Stupinigi 1908); inv. 287 (Stupinigi 1880).

Bibliografia: Il Settecento Italiano 1929, p. 169; Gabrielli 1966, p. ???; Colle 1987, pp. 193-195; Gritella 1987, p. 187; Colle 2005, pp. 442-445; Antonetto 2010, I, pp. 350-351; AOM, Inventa-rio del Mobilio esistente nella R. Palazzina di Stupinigi. Dota-

zione della Corona, 1880-81, vol. 1, p. 14 (n. 2 della Pianta); AOM, Inventario dei Mobili d’arredo di Dotazione della Co-rona di S.M. il Re esistenti nella R.le Palazzina di Stupinigi, 1908, vol. 1, p. 61 (Anticamera regina).

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13.I repertori decorativi

Nella storia del mobile in Piemonte fin qui delineata emerge lo stretto rapporto tra l’architetto di corte e le maestranze impegnate nei cantieri decorativi delle residenze sabaude. I disegni di Juvarra sovrintendono le invenzioni rococò di Piffetti, così come gli studi di decorazione di Leonardo Marini e i progetti di arredi di Piacenza e Randoni ispirano la produzione di Bonzanigo, Bolgiè, Ferrero, e i disegni di Palagi sono messi in opera da Capello.Gli studi sul Sei e Settecento hanno poi da tempo indicato l’importanza dei modelli trasmessi dai repertori e trattati in circolazione in Europa. Gli ornemanistes, figure poliedriche che riuniscono doti di architetto, pittore, disegnatore e spesso anche incisore, sono i registi, diretti o indiretti, delle arti decorative francesi fra Seicento e Ottocento, con una propagazione di modelli negli altri paesi. Nella trattatistica settecentesca sulle arti del legno quella di Roubo è l’opera di gran lunga più importante, mentre i disegni di Jean-Charles Delafosse, formano un vero codice della decorazione Louis XVI. Jombert raccoglie nel Répertoire disegni d’architettura e d’ornato di diversi autori in un corposo insieme ad uso di architetti e artigiani, compresi gli ebanisti. Gli ebanisti di corte torinesi si giovano certamente dell’opera, presente nella Biblioteca del re.

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Per espressa volontà testamentaria, quanto appartene-va allo «studio» di Pietro Domenico Ollivero andò al nipote Francesco Domenico Maria; e così «gli uten-sili» inerenti all’arte, le «carte» e altre «cose» (Monetti e Cifani 1993, pp. 524-525). Di conseguenza, è nelle vicende dei suoi eredi che si dovrà, ricostruire com-piutamente la storia della dispersione dei suoi disegni. Ollivero realizzò infatti durante la sua vita un gran numero di disegni che ogni tanto riaffiorano anche dalle pieghe del mercato. Un piccolo, ma pregevole nucleo di disegni si trova alla Biblioteca Reale di To-rino, ma il fondo più prezioso è quello costituito dal celebre Album di 184 disegni, recuperato a Roma da Vittorio Viale e riportato nel 1961 - sorte rara - nella sua sede naturale. Si trova infatti al Museo Civico di Torino. La sua storia è ancor oggi da ricostruire. Il citato testamento fornisce un primo sicuro segmento delle vicende dell’Album, nell’ipotesi che il pittore non se ne sia privato durante la vita, come sembra di poter ritenere, considerata la sua personalità ed il suo metodo di lavoro. I fogli furono in seguito assemblati e venduti e riaffiorano in Inghilterra in epoca ottocen-tesca chiusi in un elegante Album rilegato in pelle. Il frontespizio interno dell’Album, decorato con sobri fregi neoclassici, recita: «one hundred and eighty-two drawings By Peter de Laer called Bamboccio», no-nostante che il disegno numero uno raffiguri senza alcun dubbio proprio il pittore Ollivero, con la sua firma per disteso. Evidentemente nel mondo anglo-

I disegni

94. Pietro Domenico ollivero (Torino 1679-1755)

Album di 184 disegni, prima metà xviii secolo??

China su carta, 275 x 360 mm.Torino, Museo Civico di Arte Antica, inv. ???

sassone la sua figura claudicante e lo stile dei suoi di-segni evocarono il più famoso Val Laer. Tempo e modalità precise di approdo in Inghilterra comunque ci sfuggono. Lo spoglio degli Indici Getty ci con-sente per ora di affermare che i disegni non furono venduti in asta a Londra fra Settecento e Ottocento. Le armi dorate e la scritta poste sulla copertina del-la raccolta ne documentano invece la proprietà: vi si legge, infatti, «Newstead Abbey»; le armi poi sono di Thomas di Newstead Abbey della nobile famiglia Wildman-Lushington di Norton Court, inquartate con quelle di casa Preisig di Appenzal in Svizzera. Thomas nacque nel 1787 ed ebbe una vita molto avventurosa, seguendo la carriera delle armi e parte-cipando anche alla battaglia di Waterloo; divenne molto ricco con delle piantagioni in Giamaica e nel 1818 acquistò dall’amico Lord Byron la splendida residenza di Newstead Abbey (già priorato degli Agostiniani), nella quale investì grandi somme per restaurarla e adornarla con una importante collezione d’arte. Nel 1816 sposò la bellissima Louisa Preisig. La rilegatura dei disegni, che probabilmente prima erano sistemati in diversa foggia, avvenne a partire dal matrimonio e dall’insediamento dei coniugi a New-stead Abbey, dopo l’acquisto del 1818. Nel 1822 presso la Christie’s di Londra fu messa in vendita una parte delle collezioni di Wildman che compren-devano grandi nomi della pittura europea, con una predilezione spiccata per fiamminghi e scene di gene-

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re. Tuttavia l’album non risulta in quell’occasione. Thomas morì nel 1859, mentre la moglie gli soprav-visse fino al 1877, ma nel 1861 fu costretta a cedere la costosa proprietà di Newstead e non sappiamo se l’Album fu alienato in quel frangente.L’Album è imprescindibile riferimento di studio sulla figura di Ollivero, sul suo metodo di lavoro e sulla sua tecnica artistica, sui possibili confronti circa le sue fonti e le sue realizzazioni pittoriche. Come per i disegni della Biblioteca Reale una buona parte dei fogli nel corso del tempo ha trovato relazione di data-zione con dipinti sicuri; un’altra parte attende invece ancora di collegarsi a opere precise. Ragioni di analisi interna alla raccolta inducono a ritenere che i fogli non furono eseguiti in tempo ravvicinato: il loro stile si scala attraverso vari decenni e alcuni di essi risalgo-no certamente agli inizi del Settecento. Si può costituire una certa omogeneità, sia per grup-pi stilistici di disegni che per soggetti, corrispondente simmetricamente ai tempi dell’evoluzione pittorica e intellettuale dell’artista, per cui i disegni possono trovare una prima datazione almeno per blocchi temporali. L’Album è una grammatica di pensieri, sentimenti e immagini da usare per una sintassi più completa nei dipinti: una galleria di «tipi» caratteri-stici cui liberamente attingere ed insieme un preciso esercizio pittorico. Ritorna il leit-motiv delle fonti set-tecentesche là dove sottolineano che le vie di Tori-no costituivano «dilettoso pascolo» alla sua fantasia di pittore, con la loro stralunata fauna di miserabili, accattoni, popolani di infimi mestieri (Felice San Martino 1787, II, pp. 3-18). I temi sono quelli degli accattoni-e, facchini, giocatori, frati, artigiani, betto-lieri, militari...; L’ultimo dei disegni, quello n. 182 che chiude l’Album, non rappresenta però nessuna

professione e porta invece una considerazione molto amara: si tratta dell’Allegoria dell’ignoranza che disprez-za la pittura, rappresentata da un uomo cavalcante un asino che si impunta nei pressi d’una tavolozza. La bestia, con molto più buon senso del padrone, si ri-fiuta di calpestare l’emblema dell’Arte e su di lei si abbatte una pioggia di bastonate.Evidente l’influsso di celebri cicli di incisioni di soggetti popolari, quali, soprattutto, Le arti per via di Annibale Carracci, ma anche di Antoine Watteau e delle sue Figures edite a Parigi nel 1726. Vi sono poi ricordi precisi di Raffaello, ma anche di Stefano della Bella, David Teniers e Theodor Helmbreker, Jacques Callot. Le carte sono accomunate dalla stes-sa urgenza espressiva presente nel celebre taccuino di Wurzburg del Van Lint o di certi disegni di Van Laer, ma il parallelo più significativo è con Andries Both, pittore bambocciante di Utrech che appare come una delle personalità artistiche più prossime all’arte oliveriana. I disegni sono eseguiti a china e chiaroscuri di china diluita in velature. Il segno inquieto, a saltello, pro-duce ingorghi d’ombre che vengono a volte rimar-cate con tratteggi. Il pittore, perfettamente padrone dei mezzi grafici, alterna gli effetti chiaroscurali con un sapiente uso del segno tonale. Da non dimenti-care, infine, i disegni, numerosi, forniti da Olivero per mobili realizzati da una impareggiabile serie di mastri ebanisti piemontesi del primo Settecento, se-gnatamente dal Prinotto.

[ArAbellA cifAni e frAnco monetti]

Bibliografia: A Gentleman on the continent Thomas Wildman... 1822, pp.???; Cifani e Monetti 1993, I, pp. 167-169, II, pp. 524-25; Id. 2007, pp. 103-112; Id. 2013, pp.??? (ad vocem).

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Come precisato dalle note a penna presenti sul foglio, il disegno - firmato e datato 25 novembre 1730 - resti-tuisce il prospetto affiancato di due pareti e della volta del Gabinetto per il Segreto Maneggio degli Affari di Stato (poi Gabinetto della Toeletta della regina) in Palazzo Reale a Torino: si tratta, rispettivamen-te, della parete «verso la Libraria e Prega Iddio» e di quella «verso la finestra». È da leggersi in pendant con l’alzato delle restanti facciate - «del fornello» e «verso la porta d’entrata» - delineate in un secondo foglio della stessa raccolta (Cartella 23, disegno 6, n. 468).Segnalati da Walter Canavesio in una sintetica ras-segna del fondo grafico riunito dall’ingegnere bielle-se Federico Maggia (1998, pp. 125-126, 128), i due autografi di Juvarra sono stati esaminati a più riprese da Giuseppe Dardanello, che ne ha messo in luce il ruolo esemplare nel restituire l’«immagine program-matica con cui l’architetto inaugurava negli interni di Palazzo Reale la stagione del rococò torinese» (Dar-danello 2016, pp. 96-98). Nei due fogli, pensati per la presentazione ufficiale al sovrano, Juvarra definisce in maniera puntuale l’inte-laiatura di volta e pareti; l’acquerello in varie tonali-tà restituisce l’illusione vivida dei differenti materiali (Dardanello 2007, p. 178). Il fluire continuo di curve nelle cornici e l’inserimento di ampie superfici a spec-chio trasformano lo spazio ridotto della sala in uno

95. filiPPo JuvArrA (Messina 1678 - Madrid 1736)

Elevazioni del Gabinetto di Sua Maestà nel Reggio Palazzo di Torino, 1730

Penna e inchiostro bruno e seppia; acquerello seppia, azzurro e grigio su preparazione a matita; disegno montato su passe-partout in cartoncino, 259 x 407 mm.In basso a destra, a matita: «23/5 548».Biella, Fondazione Sella, Fondo Federico Maggia, Cartella 23, disegno 5, n. 467.

scrigno prezioso e iridescente, sottolineando l’eccezio-nale valenza simbolica di questo spazio. L’architetto ha già previsto nel suo disegno ogni dettaglio d’arredo perché concorra al risultato complessivo: i lambris e le boiseries sottilmente intagliati, le appliques, i sovrap-porta con i monogrammi di Carlo Emanuele III e i mobili-libreria, la cui realizzazione sarà affidata, fra il 1731 e il 1734, all’ebanista Pietro Piffetti, affiancato per le applicazioni bronzee da Francesco Ladatte e da Giovanni Paolo Venasca (Ferraris 1992, pp. 16-21; Antonetto 2010, I, pp. 139-144). Il vibrante segno grafico di Juvarra definisce una fog-gia di arredo di assoluta novità, dove il gioco di curve contrapposte conferisce movimento e inedita leggia-dria alla struttura. Contribuiscono ad amplificare la preziosità di questo interno anche le porcellane orien-tali disegnate dall’architetto sul piano d’appoggio del tavolo, sulle mensole e sui sovrapporta, disposte in un allestimento variato per foggia e dimensioni, che riflette un gusto aggiornato e precoce per l’esotismo, in linea con le scelte compiute nelle corti del centro Europa per le sale di più alta rappresentanza.

[SArA mArtinetti]

Bibliografia: Gualano 1998, pp. 125-126, 128; Dardanello 2007, pp. 177-183; Id. 2008, p. 196; Os Saboias 2014, catt. 10-11, p. 92, di G. Dardanello; Dardanello 2015, pp. 26-27; Id. 2016, pp. 96-98.

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Disegnatore abile, fecondo e apprezzato già dai con-temporanei, Juvarra manifesta la sua straordinaria abilità grafica in diverse forme nei pensieri, negli schiz-zi, nei rilievi, nei progetti architettonici, nei disegni di presentazione, nelle vedute di fantasia, nei disegni scenografici. Nelle raccolte di grafica del Museo Ci-vico di Palazzo Madama si conservano quattro volu-mi di disegni di Filippo Juvarra, su cui sono incollati - senza un apparente criterio tematico o cronologico - complessivamente 644 fogli di vario genere, realizzati tra il 1703 e il 1735. I quattro album si riconoscono nell’inventario del 1764 delle carte dell’archivio priva-to di Carlo Emanuele III di Savoia a Palazzo Reale. Dopo le dispersioni degli anni napoleonici, i quattro volumi divennero proprietà del conte Seyssel d’Aix e dopo la sua morte imboccarono strade diverse: due passarono in eredità alla Pia Casa del Cottolengo che li vendette al museo nel 1921, due furono ereditati dal marchese di Lesegno, acquistati da Giovanni Ange-lo Reycend e da Giovanni Chevalley come dono per il museo (Arnaldi di Balme 2014).Il primo volume contiene disegni architettonici, ve-dute di fantasia, scenografie e disegni di decorazione. La pagina in mostra presenta tre «pensieri», ovvero prime idee progettuali per la palazzina di caccia di Stupinigi. Si riferiscono al completamento dell’ar-chitrave delle porte che conducono ali ambienti detti «delle guardarobe» e comunicano con gli apparta-menti angolari nello scenografico salone centrale a pianta ellittica. Propongono due soluzioni di «fini-

96. filiPPo JuvArrA (Messina 1678 - Madrid 1736)

Schizzi di decorazioni con teste di cervo, 1730 circa

Matita, penna e inchiostro bruno, acquerello 198 x 142, 184 x 145 e 128 x 75 mm.Iscrizione a penna: «Pensieri per finimento delle porte del Salone della Palazina di Caccia di Stupinigij».Nel Volume I Disegni di Filippo Juvarra (inv. 1700/DS - 1868/DS), carta 5.Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 1708/DS, 1709/DS, 1710/DS.

mento» a tema venatorio con cervi e festoni, in bron-zo o in stucco, non realizzate e sostituite nel 1762 da vasi in marmo grigio adorni di cespi di frutta. Nello stesso volume, altri due schizzi per le porte ipotizzano gruppi con l’animale attaccato dai cani oppure pre-sentato come trofeo da due putti seduti sul cornicio-ne (inv. 1782/DS). Non occorre ricordare che cervi e caprioli popolano in gran numero la decorazione della palazzina, nata come padiglione di caccia, con elementi che vanno dal grande cervo di Ladatte in bronzo, posto sulla sommità dell’edificio (di Macco 2014, pp. 95-97), alle trentasei monumentali ventole intagliate da Giuseppe Angelo Marocco nel salone centrale (cfr. scheda n. ???) e alle due teste di cervo in stucco ispessito, dotate di palchi di corna vere, che ornano i finestroni dell’asse nord-sud (Bava-Guala-no 2015, pp. 15-16). I disegni testimoniano ancora una volta la capacità di Juvarra di orchestrare intono all’architettura tutta la regia della decorazione, non tralasciando i particolari plastici e pittorici.Gli altri due disegni incollati sulla stessa pagina il-lustrano due soluzioni per le porte a vetri esterne al Salone, che in pianta dettagliano l’andamento conca-vo di raccordo tra la porta e la parete del salone intro-dotto da Juvarra anche nei grandi finestroni (Gritella 1987, pp. 41, 43), e per la scalinata di accesso.

[cleliA ArnAlDi Di bAlme]

Bibliografia: Gritella 1987, pp. 41-43 fig. 40, pp. 94-95 fig. 108; Id. 1992, p. 204 figg. 230a e 231, e p. 215, fig. 252.

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L’album, già più volte oggetto di studio e pubbli-cazione (fra gli altri Levi Momigliano 1980, p. 311, Griseri 2001, pp. 212-213, Ballaira 2011, pp. 176-177) costituisce - con la raccolta degli architetti Pia-cenza e Randoni (cfr. scheda ??? in questo catalogo) - uno dei pilastri che testimoniano la fertile stagione di rinnovamento tardo settecentesco delle sale dei palaz-zi reali e nobiliari piemontesi. Marini, legato all’am-biente della sartoria, dei costumi teatri e della sceno-grafia (Viale Ferrero 1980; Facchin 2008), traspone la levità che caratterizza l’effimero della scena nel pro-getto d’interni. Circa quattrocento deliziosi piccoli disegni, per lo più acquerellati, ci mostrano, in modo preciso e leggero o al contrario, rapido ma chiaro, le sue idee per una serie di sale, arredi, appartamenti, padiglioni per giardino. Tutto è gioioso e allegro. Le proposte di Marini solo in qualche caso affrontano la decorazione architettonica di grandi spazi aulici, ad esempio per lo scalone e il salone centrale di palazzo Morozzo della Rocca (Cornaglia 2009, 2011), per lo più si concentrano sugli spazi della «dolce vita» prima della Rivoluzione: cabinets, camere di ricevi-mento, gabinetti di toeletta, sale da pranzo. In questo contesto si collocano le proposte di Marini per la sala da pranzo del marchese di Barolo, in tonalità legge-re del verde, del rosa e del giallo, con decori derivati dalle grottesche e dalle Logge di Raffaello (è un pe-riodo in cui le modalità decorative diffuse e ricorrenti

97. leonArDo mArini (Attivo a Torino dal 1769 al 1798)

Studj diversi di Decorazione Inventati, Disegnati, ed in gran Parte eseguiti di Leonardo Marini Disegnatore del Gabinetto del Rè di Sardegna Pittore, e Professore della Reale Accademia delle Bell’Arti, 1778 circa

Volume cartaceo cucito a filo, china marrone, acquerello, 225 x 312 mm.Torino, Biblioteca Reale, Ms Vari 218 verificare???

vanno sotto il nome di «Raffaelle». Nei suoi progetti di sala Marini non dimentica mai di progettare gli arredi, fissi o mobili che siano: sofà, consoles, letti, compaiono sia nei progetti d insieme, sia come «og-getti» isolati. Il lessico Luigi XVI si diffonde tra capitelli, poste, strigilature, cammei e testine, festoni floreali, generando un nuovo panorama d’interni. In questo contesto l’opera più compiuta a cui si dedica Marini è l’allestimento del nuovo appartamento per i principi di Piemonte al castello di Moncalieri, già più volte focalizzato dalla critica (di Macco 1991, ???) e già assai apprezzato durante gli stessi lavori di alle-stimento dalla granduchessa di Russia Maria Fiodo-rowna, in visita a Torino col marito sotto il titolo in incognito di Conti del Nord. L’album ci consegna i progetti di molti degli ambienti destinati al principe e alla principessa: le soluzioni decorative insistono su un cromatismo prevalentemente Wedgwood bianco e azzurro, a volte sostituito dal verde pallido, testine, figure, «Raffaelle» animano i soffitti, spesso le pareti sono risolte con l’allestimento di campi contenente piccoli quadri.

[PAolo cornAgliA]

Bibliografia: Levi Momigliano 1980, p. 311; di Macco 1991, pp. ??; Griseri 2001, pp. 212-213; Cornaglia 2009, 2011?; Ballaira 2011, pp. 176-177; Cornaglia, Merlotti e Ricardi di Netro 2017, pp. ??.

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I due disegni sono conservati all’interno di un faldone contenente la contabilità per i lavori di riammoderna-mento del corpo centrale della Palazzina di Caccia di Stupinigi diretti dall’architetto Ludovico Bo tra il 1785 e il 1790 circa e che riporta la seguente inti-tolazione: «1786 17 maggio Disegno di quattro por-te volanti dorate e sculturate per la camera di parata dell’appartamento di S.M. in Stupinigi; da surogarsi alle vecchie portevolanti: sottoscritto Gius.e Maria Bonzanigo. Altro, non autentico, per la riforma d’u-na parte delle sculture e dorature de’ Lambriggi».Il primo disegno rappresenta il progetto decorativo delle quattro porte volanti per la «Camera di Parata di S.M.», ossia l’attuale anticamera dell’Apparta-mento della Regina, alla destra del salone centrale. Le porte a tema trionfale di derivazione dall’antico raf-figurano, nel pannello superiore, un trofeo militare, con scudo, insegna romana, faretra e spade incrociati con tralci di alloro e quercia e, in quello inferiore, un tripode fumante. Il motivo decorativo si ritrova rea-lizzato in quattro varianti nelle porte ancora oggi in situ dal fondo avorio con intagli e cornici geometri-che dorate. La realizzazione delle porte, «da surogarsi alle vecchie», risalenti all’originaria fase juvarriana con pannelli dipinti a paesaggi e rovine di France-sco Casoli, come si ritrovano ancora nel lambriggio

98. giuSePPe mAriA bonzAnigo (Asti 1745 - Torino 1820)

a) Disegno per porta, 1786

Matita, inchiostro e acquerello su carta, 540 x 335 mm.Iscrizione sul margine sinistro del foglio: «La scultura colla provvista del boscame, ed incamotatura è stata meco convenuta nel giorno d’oggi per le quattro porte volanti da mettersi nella Camera di Parata dell’Ap-part.o di S.M. in Stupiniggi, cioè due a lire trecento settanta, e le altre due a lire trecento cinquanta per cad.a rispettivam.te ad opera collaudata. Torino li 17 maggio 1786. Giuseppe Maria Bonzanigo».

b) Disegno per lambriggio, 1786

Matita, inchiostro e acquerello su carta, 214 x 302 mm.Torino, Archivio Storico Ordine Mauriziano, Stupinigi, Vinovo e dipendenze, m. 43, c. 1315, 17 maggio 1786.

e negli scuri di finestra, è puntualmente documentata nei pagamenti che dettagliano l’intervento di Bonza-nigo per la «minuseria, e scultura», di Bartolomeo e Nicola Monticelli per la coloritura e la doratura, del serragliere Giambattista Golzio per la ferramenta messa in opera (AOM, Conti e bilanci, Conti del Real Palazzo di Stupinigi dal 1780 a tutto il 1790, n. corda 167, 1786, cap. 2, n. 1, punti: 5 - recapito 4 luglio 1786, 6 - recapito 8 agosto 1786, 13 - recapito 26 gennaio 1787, 14 - recapito 10 febbraio 1787).Il secondo disegno, conservato nello stesso fascicolo, raffigura un modulo decorativo della zoccolatura che si sarebbe dovuto realizzare, in sostituzione del lambriggio dipinto da Casoli, ma che evidentemente non venne messa in opera. La decorazione prevedeva chiari richiami agli arredi predisposti da Bonzanigo per la sala: il pannello lungo doveva essere delimitato da una cornice geometrica intagliata, dorata e profi-lata di azzurro su fondo avorio con la raffigurazione di una faretra con frecce, arco, serto e rami di alloro e quercia; i pannelli piccoli verticali invece dovevano ospitare una testina di leone, del tutto simile a quelle che si ritrovano a decorazione del tavolo della mede-sima stanza (scheda n. 94), con anello, fiocco e tralcio vegetale.[StefAniA De blASi]

Bibliografia: Gabrielli 1966, pp. 90-91; Mallè 1968, pp. 116-129; Colle 1987, p. 193; Gritella 1987, pp. 186-187, 194; Antonetto 2010, I, p. 350; Griseri 2016, p. ???.

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L’album, composto nel 1864 dal canonico Antonio Bosio (1811-1880, teologo, membro dell’Accademia di Storia Ecclesiastica Subalpina e cofondatore del torinese Collegio degli Artigianelli), raccogliendo quasi duecento disegni progettuali per architettura d’interni, arredi fissi e mobili, è stato reso noto da Pa-ola Astrua e Michela di Macco nel 1980, in occasione della mostra Cultura Figurativa negli Stati del Re di Sar-degna 1773-1861 svoltasi a Torino nel 1980 (Astrua e Di Macco 1980). La raccolta risulta uno strumento strategico per lo studio dell’attività dei due architetti Piacenza e Ran-doni, in particolare documentando attraverso disegni - spesso datati e firmati - la consistenza di apparta-menti reali ora scomparsi del tutto, come quelli desti-nati ai duchi d’Aosta a Venaria Reale e a Moncalieri, o ancora esistenti in toto o in parte, come quelli di Palazzo Reale e di Rivoli, consentendo maggiori ap-profondimenti e dando corpo e visibilità a pagamen-ti e note conservati nelle serie archivistiche sabaude (Cornaglia 2012). Carlo Randoni era collaboratore di Piacenza, svolgendo un ruolo importante nella progettazione degli appartamenti neoclassici della corte torinese: alla morte del collega più anziano ha

di suo pugno aggiornato alcuni disegni sottolinean-do con un «Randoni inv. et delin.». il ruolo ideativo effettivamente svolto. I progetti di porte, chiambrane, commodes, balaustre da letto, camini, specchiere, conso-les, restituiscono un intero mondo di gusto, l’intérieur «alla greca» aggiornato della corte di Vittorio Ame-deo III, basato su fonti francesi (Boucher, Delafosse Lalonde, Patte, Roubo) ma anche italiane (Pirane-si, Albertolli) e con l’album di schizzi e progetti di Leonardo Marini conservato alla Biblioteca Reale di Torino costituisce una testimonianza capitale dell’ul-timo quarto del Settecento torinese e piemontese. La collezione si spinge sino alle imprese decorative pos-tnapoleoniche di Randoni, documentando anche in parte il riallestimento del palazzo Tursi in Genova, acquistato inizialmente da Vittorio Emanuele I come sede del potere sabaudo nella città ligure, prima che venisse sostituito da palazzo Durazzo - l’attuale Pa-lazzo Reale di Genova - per via delle scelte di Carlo Felice.

[PAolo cornAgliA]

Bibliografia: Astrua e di Macco 1980, pp. 98-101; Cornaglia 2012.

99. giuSePPe bAttiStA PiAcenzA (Torino 1735 - Pollone [BI] 1818)cArlo rAnDoni (Torino 1755-1831)

Mobili ed arredi fissi ec. nei Palazzi Reali di Torino delineati dagli Architetti Piacenza e Randone, 1864

Datazione disegni (ultimo quarto del xviii secolo - primo quarto del xix secolo???)mat e tecnica???, 310 x 250 mm.Torino, Biblioteca Civica di Torino, miscellanea Bosio 145 verificare in base a scheda di prestito???

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I disegni fanno parte del cospicuo fondo che con la-scito testamentario Palagi lasciò nel 1860 al Muni-cipio di Bologna e che si conserva nelle istituzioni cittadine. L’esame comparato di libri, carteggi, pro-duzione grafica e collezioni di oggetti d’arte, antichità e medaglie ha consentito alla critica moderna la ri-costruzione della straordinaria cultura dell’artista, a partire dalla mostra a lui dedicata nel 1976 (Grandi e Morigi Govi, a cura di) e quella della fitta rete di rapporti con gli artisti che con lui operarono (Colle 1999). I due fogli si riferiscono ai progetti per l’alle-stimento del Gabinetto delle Medaglie realizzato in Palazzo Reale a partire dal 1834 secondo i voleri di Carlo Alberto (in attuazione a precedenti scelte del sovrano) e i disegni conservati nel fondo bolognese si riferiscono all’insieme degli apparati decorativi, dalle pitture murali, agli stucchi, agli arredi lignei fissi e mobili, eseguiti da una agguerrita équipes di artisti attivi a Milano e Torino selezionati da Palagi (Guerrini 2013, con il Regesto completo dei disegni a

100. PAlAgio PAlAgi (Bologna 1775 - Torino1860)

Ornamento per il riquadro centrale delle due Porte volanti per il Gabinetto delle Medaglie del R. Palazzo di Torino, data???

Penna con inchiostro nero e acquerellatura rosso pompeiano, tracce di matita, 800 x 850 mm.Bologna Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Fondo Palagi, n. 2715.

Riquadro inferiore per le due Porte volanti per il Gabinetto delle Medaglie del R. Palazzo di Torino, data???

Penna con inchiostro nero e acquerellatura rosso pompeiano, tracce di matita, 1180 x 830 mm.In alto al centro «spaccato della Porta Volante», al centro sul lato destro «Mezzeria della porta», in basso «Capello Gabriele da Moncalvo, Giovanni Colla, Piero Ropolo».Bologna Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Fondo Palagi, n. 2716.

cura di Valeria Roncuzzi, pp. 179-180). L’insieme, coerentemente con la destinazione dell’ambiente alle raccolte di monete, medaglie, sfragistica e oggetti di antichità del re, è sviluppato all’insegna di un clas-sicismo aggiornato ed apprezzato a livello europeo e per la realizzazione degli apparati lignei (compren-denti i superbi mobili a tempietto) si avvale della ma-estria di Gabriele Capello che nei raffinati intarsi dà corpo alle ideazioni palagiane. Domina qui il motivo delle palmette stilizzate per le quali Palagi nei disegni si preoccupa anche di dare suggerimenti cromatici. L’annotazione sul basso del secondo disegno oltre che all’ebanista si riferisce al bronzista (Colla) e al serragliere (Ropolo) coinvolti nell’esecuzione dei ma-nufatti.

[cArlA enricA SPAntigAti]

Bibliografia: con riferimenti alla ricca bibliografia precedente An-tonetto 2004, pp. 245-246; Guerrini 2013, passim (riprodotti alla tav. iv), de Royere 2017, p. 168 nota 134.

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Il Gabinetto etrusco del Castello di Racconigi, realiz-zato a partire dal 1834, costituisce uno dei capolavori in cui l’arte del «Pittore preposto alla decorazione dei Reali Palazzi» trova piena realizzazione a opera degli artisti da lui accuratamente selezionati. Il rinnovato gusto per le antichità etrusche connota la cultura di Palagi, trovando riscontro non solo negli oggetti da lui collezionati, ma anche nei libri della sua bibliote-ca di appassionato bibliofilo. Nelle pitture murali alle pareti del Gabinetto si notano riferimenti alla Tomba del Barone (scoperta a Tarquinia nel 1827 e resa nota nel 1829) mentre negli apparati lignei si moltiplicano i riferimenti alla ceramica vascolare evidenziati dalle scelte di policromia. Una ceramica vascolare nota sia direttamente dai manufatti, sia dai repertori a stampa (in particolare nelle porte il motivo della testa da cui si sviluppano volute vegetali trova riscontro nella tav. 38 del Dubois-Maissoneuve edito a Parigi nel 1808-

1810, Ragusa s.d. ma 1991). L’esecuzione degli ap-parati lignei fissi e mobili si deve a Gabriele Capello, qui alle sue prime prove per le committenze di corte, la cui magistrale realizzazione degli intarsi lo rivela interprete ideale dei raffinati progetti. Nel disegno per il sostegno del tavolo forse l’assenza della definizione della greca sul basamento (caratterizzato dalle super-be testine di levrieri) e la «brevità del tempo concesso nella prima ordinazione» sono alla base degli inter-venti di Palagi, il cui controllo è ferreo e minuzioso, che nel 1837 impone all’ebanista di intervenire nuo-vamente sul manufatto completandolo così come ora lo vediamo.

[cArlA enricA SPAntigAti]

Bibliografia: Antonetto 2004, pp. 197-198, nn. 3 e 7; de Roye-re 2017, pp. 240-242 (entrambi anche per la ricca bibliografia precedente).

101. PelAgio PAlAgi (Bologna 1775 - Torino1860)

Panelli e riquadri in mogano intarsiati d’Ebano ed altri legni colorati per le / porte a due battenti del Gabinetto Etrusco di S.M. nel R. Castello di Racconigi / Pelagio Palagi dis., data???

Penna con inchiostro nero e acquerello.Bologna Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Fondo Palagi, n. 2226

Piede della Tavola di lavoro di S.M. il Re Carlo Alberto posta nel Gabinetto / Etrusco al piano nobile del Real Castello di Racconigi /disegnato da Pelagio Palagi, data???

Penna con inchiostro nero e acquerello.Bologna Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Fondo Palagi, n. 2204.

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Il tavolo, definito nei documenti «a canapé» o «a sof-fà», si conserva tuttora al Castello di Racconigi e la scritta lo identifica come appartenente alla dotazione di arredi progettati da Palagi per il Gabinetto di Toe-letta di Maria Teresa (1834-1835) per i quali l’artista di rivolse a Parigi. Tramite il mercante di stoffe Ber-nardino Solei fu contattato Giovanni (Jean) Chia-vassa, risiedente nella capitale, che a sua volta ne affi-dò l’esecuzione a Joseph Pierre François Jeanselme di cui compare il marchio a fuoco sulla poltrona parte dello stesso allestimento (cfr. scheda n. ???). La scritta sul disegno indica esplicitamente la destinazione del tavolino e un «table de canapé» compare nella con-venzione firmata nel 1834 tra Solei e Chiavassa (in Antonetto 2004, p. 214), ma qualche dubbio viene spontaneo esaminando sia il tavolino che il disegno le cui annotazioni attestano l’attenzione di Palagi per la messa in opera. I motivi decorativi ricorrenti nelle progettazioni palagiane e giocati sui contrasti

cromatici degli intarsi risultano infatti come irrigidi-ti rispetto ai mobili parigini e soprattutto la presen-za delle imponenti zampe di leone non sembrerebbe in sintonia con quelli. Se non fosse per la citazione della presenza di quattro e non due sostegni verticali verrebbe da riconnettere l’opera alla parcella presen-tata da Capello nel 1843 per i mobili da lui eseguiti per il Gabinetto di Toeletta di Maria Adelaide negli appartamenti approntati a Racconigi in occasione delle sue nozze con Vittorio Emanuele: «Tavola a soffà [...] li piedi formati da un basamento sorretto da quattro zampe di leone [...] su detto basamento vi sono connesse quattro colonne adorne di sue basi e capitelli arricchiti d’intarsiature, e lungo il fusto di filetti che descrivono le scannellature» (Antonetto 2004, p. 203).

[cArlA enricA SPAntigAti]

Bibliografia: Antonetto 2004, nn. 46-48.

102. PelAgio PAlAgi (Bologna 1775 - Torino1860)

Tavola di Spiniero intarsiata di legno rosa per la Toeletta di S. M. la Regina Maria Teresa a Racconigi, data???

Penna con inchiostro nero e acquerello.In basso a sinistra: «Facciata. Metà della tavola da ripiegarsi da ambo i lati, vista la faccia. Entro il cassetto oltre un lettorino da alzarsi ed abbassarsi vi si praticherà tutto l’occorrente per scrivere. E per togliere qualunque imbarazzo che potesse portare il pomello sporgente del tiratojo, si potria introdurre entro ad una cavità sferica come si è segnato con lapis nel cassetto di proffilo, avvertendo di diminuire la circonferenza della testa di detto pomello».In basso al centro: «Pelagio Palagi dis.».In basso a destra: «Proffilo dell’antecedente tavola, però colla porzione di piana rialzato, ma senza che i due modiglioni snodati siano voltati sul fianco per sostenere detta porzioni di piano. AA snodi de’ Modiglioni».Bologna Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Fondo Palagi, n. 2228.

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Charles Plumier fu una singolare figura di erudito e di naturalista prima di Linneo e a cui la botanica mo-derna deve molto. Fu infatti uno specialista della flora delle Antille e in tale settore le sue scoperte furono veramente significative. Durante i suoi lunghi viaggi scoprì piante, allora esotiche e oggi entrate normal-mente nella flora europea e la sua fama come botanico fu così grande che Tournefort e Linneo gli dedicano una pianta: la Plumeria.Figlio di Jean Plumier, artigiano tornitore, a 16 anni entrò nell’Ordine dei Minimi e nel 1663 fece la sua professione religiosa. Fu ottimo studente in matema-tica e fisica e, fin da ragazzo, eccellente pittore. Con-tinuò gli studi a Tolone presso padre Magnan, che era un esperto tornitore e da cui imparò anche la geo-metria, l’arte di costruire strumenti scientifici e lenti. Nel 1689 partecipò a una esplorazione scientifica promossa da Luigi XIV in Martinica e ad Haiti come disegnatore. Il re, soddisfatto dei risultati della spedizione, nominò Plumier suo primo botanico, lo rimandò nel 1693 nelle Antille e in seguito partecipò a numerose altre spedizioni. I suoi studi conobbero da subito fama

I repertori a stampa

103. chArleS Plumier (Marseille 1646 - Cadice 1704)

L’art de tourner, ou de faire en perfection toutes sortes d’ouvrages au tour [...]ouvrage très curieux et très nécessaire à ceux qui s’exercent au tour,composé en français et en latin en faveur des étrangers, et enrichi de près de quatre-vingt planches, pp. 187.

Frontispisce et titre gravé par Sébastien Leclerc. Imprimè à Lyon et se vend a Paris chez Jean Jombert, près des Augustins, à l’image Notre Dame mDcci, 1701.materia e tecnica ???, misure??? mm. Torino, Museo dell’Automobile, Centro di Documentazione.

internazionale e i suoi libri furono diffusi in tutta Eu-ropa.Fra i primi libri pubblicati da Plumier ve ne era uno che non era di botanica, bensì sull’arte della tornitu-ra: L’Art de tourner, ou de faire en perfection toutes sortes d’ouvrages au tour, stampato a Lione nel 1701. Il volu-me lionese era stato preceduto nel 1698 da una edizio-ne, semisconosciuta e senza testi, oggi presente nella Biblioteca Nazionale di Parigi che contiene anche di-segni originali di Plumier, intitolata Le Tour Liberal, par le P. Plumier, Minime de la Province de France, stam-pata a Parigi nel 1698. Nel 1701 Plumier perfezionò questo lavoro completandolo e trasformandolo in un libro compiuto di 187 pagine, arricchito da 87 tavole. Il volume conobbe notevole successo e fu ristampato a Parigi nel 1706 e poi, sempre a Parigi, nel 1749. Scritto in francese e in latino fu fatto tradurre in rus-so dallo zar Pietro il Grande, grande appassionato dell’arte della tornitura, e consultato da molte altre teste coronate del Nord Europa, che coltivavano il nobile svago della tornitura. Il libro, bellissimo dal punto di vista grafico, è scritto in un francese fluente e chiaro, che anticipa la lucida intelligenza dell’En-

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cyclopédie e non è certo un caso che proprio nell’En-cyclopédie verrà poi riprodotta esattamente la tavola lxiii di Plumier in una illustrazione del capitolo sull’«Art de tourner».Il volume del Plumier è illustrato da ottanta tavole incise in rame raffiguranti gli attrezzi, i meccanismi e le tecniche concernenti il tornio, con una appendice finale di illustrazioni dedicate agli oggetti derivati da tale lavorazione. Plumier trae ed incide personalmente le immagini dei fantasiosi oggetti lavorati al tornio da una cele-bre collezione lionese che si sviluppò a fine Seicento: quella di Nicolas Grollier de Servière (1596-1689), ingegnere idraulico ed inventore di sofisticate appa-recchiature meccaniche. La Raccolta Servière, ricca di curiosità tecniche, era - secondo l’approccio cultu-rale del tempo - sospesa fra una wunderkammer e una vera e propria collezione scientifica. Comprendeva orologi, globi, macchine ottiche, meccanismi idrau-lici, oggetti di avorio tornito, che erano vere prodezze tecniche di intaglio e di esecuzione. La Raccolta avviata a Lione da Nicolas Grollier (1593-1686), fu continuata da Gaspard (1646-1716) e pubblicata in uno meraviglioso volume illustrato nel 1719 da Gaspard II (1676-1745), che la apriva anche al pubblico una volta alla settimana. Molti fu-rono i visitatori che la resero famosa, fra i quali anche Luigi XIV. Nonostante la sua fama, a metà Sette-cento la Raccolta venne dispersa ed oggi ne soprav-vivono solo alcuni pezzi nel Museo delle Scienze di Londra.La fama delle opere possedute dal Servière e l’arrivo a Torino in presa diretta del volume di Plumier, una copia arriva dalle collezioni sabaude ed è conserva-ta in Biblioteca Reale, testimoniano della particolare sensibilità e cultura della classe dirigente sabauda del tempo. Pietro Piffetti, che sappiamo essere stato an-che tornitore e scultore di avori, riprodusse e assemblò liberamente molte immagini tratte dal libro di Plu-mier su due straordinari mobili donati dalla signora

Laura Rinaldi alla Fondazione Accorsi nel 2009 per ottemperare ad un desiderio di sua zia Laura Vol-pi-Ottolini. Come abbiamo già affermato in passato (Cifani e Monetti 2009) è possibile che le immagini siano state suggerite al grande ebanista direttamente dal committente, che in questo caso - considerata an-che la particolare preziosità dei due oggetti decorati con la costosissima tartaruga - avevamo ipotizzato potesse essere un Principe di Carignano. Dobbiamo tuttavia notare, alla luce dei nostri nuovi studi sulle arti decorative a Torino nel Settecento, che non è improbabile che Piffetti abbia realizzato que-sti mobili direttamente per Carlo Emanuele III, che, come noto, amava lavorare al tornio e che nel 1736 si fece costruire dallo stipettaio Giuseppe Brunatti pro-prio un tornio, oggi conservato al Museo Civico di Palazzo Madama (Antonetto 1985, p. 35). Come testimoniato anche dalla fortuna del libro di Plumier durante il Settecento, il lavorare al tornio fu infatti considerato un passatempo ideale per tutti gli uomini di qualità e di alto sentire: per i re, per i no-bili, per gli ecclesiastici e per i solitari. Nel suo libro Plumier afferma che lavorare al tornio era «une chose digne de l’occupation de tout ce qu’il y a de gens d’e-sprit de la terre», un esercizio di industria raro e bello che rendeva questa arte «inimitables» degna di essere «l’ornement des Cabinets des Princes».A Piffetti, che come Plumier era uno sperimentato-re, l’arte del tornire (come quella di scolpire l’avorio) (Ferraris 1992, p. 44) doveva comunque essere con-geniale per mestiere e per naturale inclinazione: un atto creativo in cui idea razionale, regola e genialità si fondevano. In un talento solitario come Piffetti, dove è evidente la superiorità dell’invenzione su ogni regola, è facile ca-pire come Plumier abbia potuto apparire un modello da seguire e da smontare pezzo a pezzo, riutilizzan-do le sue immagini come lettere dell’alfabeto con cui comporre parole e frasi della sua arte. Ed è così che solidi platonici e poliedri regolari e di

Keplero dalle forme più varie sono migrati nei suoi intarsi meravigliosi, scorniciati, frantumati in una successione di cediglie e virgole, in piccole flotte di decori increspati che si mutano in nastri, fiori, foglie, strumenti, putti con la stessa grazia con cui si apre un fiore. La rigorosissima ricerca culturale e di mestiere di un artista mai pago ha felicemente incontrato un libro

straordinario, sulla cui presenza ed influsso a Torino dovranno essere effettuate ulteriori indagini.

[ArAbellA cifAni e frAnco monetti]

Bibliografia: Diderot e Le Rond d’Alembert 1751-1780, plan-che LXII; Whitmore 1967, pp. 186 -199; Maurer 1978, pp. 228-231; Antonetto 1985; Connors 1990, pp. 226-227; Ferraris 1992, p. 44; Mottram 2002, pp. 79-120; Knapen 2008, pp. 289-310; Cifani e Monetti 2009.

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L’incisione, sciolta, proviene dal cospicuo corpus de-dicato all’ornamentazione e all’arredo realizzato su invenzione di François de Cuvilliés, architetto del-la corte bavarese formatosi negli anni venti del Set-tecento presso l’Académie Royale d’Architecture di Parigi (sulla formazione: Wolf 1967, pp. 13-22; sul-le imprese editoriali: Braunfels 1986, pp. 111-116). Questo esemplare, in particolare, faceva parte di una serie in sei tavole dal titolo Livre de Lambris, incisa da Carl Albert von Lespilliez intorno al 1738 e recan-te il privilegio imperiale «C.P.S.C.M» accanto alla scala di conversione («Cum privilegio Sacrae Ce-sareae Majestatis»; sulla serie: Bérard 1858, n. 23, p. 438; Guilmard 1880-1881, I, p. 163).Come precisato nella didascalia esplicativa («Coté d’unne chambre avec un lit en alcove, ou on suppose deux petittes portes alternaut; oû deux paneaux pa-reil a celuij marqué A; audessous desquels il ij au-roit des Comodes»), nella stampa sono poste a diretto confronto due soluzioni ornamentali per la parete di fondo di una camera con alcova e letto da parata. In entrambe le proposte - a sinistra un’apertura con so-vrapporta dipinta, a destra un pannello di boiserie con console coordinata - protagonista assoluto è il decoro rocaille, che anima con tratto sottile e nervoso pareti e mobilia, in un tripudio di concrezioni da cui si svi-

104. frAnçoiS De cuvilliéS (inventore e disegnatore) (Soignies 1695 - Monaco di Baviera 1768)cArl Albert von leSPilliez (incisore) (Nymphenburg 1723 - Monaco di Baviera 1796)

Parete di una camera con letto ad alcova, 1738 circa

Acquaforte e bulino, 261 x 307 mm, su foglio di 268 x 313 mm.Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 5567/SILA.

luppano foglie, ali piumate e mascheroni grotteschi. Come in tutta la sua produzione grafica, anche in questa stampa Cuvilliés si mostra abile divulgatore delle invenzioni francesi più alla moda, di Nicolas Pineau e specialmente di Jacques de Lajöue, confer-mando il suo ruolo di «perfetto intermediario fra la rocaille francese e il rococò bavarese» (Roland Michel 1984, p. 165). La specifica declinazione di gusto proposta, infatti, è in sintonia con le sale di parata della Residenz di Monaco progettate dall’architetto negli anni venti e trenta del Settecento, dove è evidente la predilezione per impaginati in stucco fitti e poco rilevati (Brau-nfels 1986, pp. 64-65, 81-85), elaborati intagli (cfr. Kreisel 1970, figg. 421-432) e consoles impreziosite da sontuose applicazioni in bronzo dorato (cfr. Die Möbel der Residenz 1995, pp. 93-94). Nelle raccolte di Palazzo Madama (Lascito Pozzi 1932) si conservano altre dodici stampe decorative di Cuvillies, alcune re-centemente esposte (Os Saboias 2014, cat. 79, p. 182 e Rois et mécenès 2015, catt. 79-81, pp. 234-237, schede di F. Ventimiglia).

[SArA mArtinetti]

Bibliografia: Bérard 1858, n. 23, p. 438; Guilmard 1880-1881, I, p. 163.

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Nella trattatistica settecentesca delle arti del legno, in grandissima parte francese, il trattato di Roubo è l’o-pera di gran lunga più importante, senza riscontri in Europa. Il volume in mostra è il primo di otto pub-blicati nell’arco di tredici anni fra il 1769 e il 1782. Vi si tratta con straordinaria competenza professiona-le, abilità di gravure e passione letteraria l’arte del Me-nuisier nell’intera gamma delle specializzazioni: dalla più alta, l’ebanisteria che dà vita ai mobili più sofisti-cati, alla fabbricazione delle carrozze, delle macchine teatrali e della carpenteria per i giardini.Il nucleo principale uscì nei sei anni fra il 1769 e il 1775, ed è costituito da sei volumi suddivisi in quat-tro parti. In tutto 1.312 pagine e 383 tavole.I titoli sono:- L’Art du Menuisier, Première Partie, 1769, pp. 1-151, tavv.1-50- L’Art du Menuisier, Seconde Partie,1770, pp. 153-452, tavv. 51-170- L’Art du Menuisier-carrossier, Première section de la troi-sième partie de l’Art du Menuisier, 1771, pp. 453-598, tavv. 171-221- L’Art du Menuisier en meubles, Seconde section de la troi-sième partie de l’Art du Menuisier, 1772, pp. 599-760, tavv. 222-276

105. AnDré-JAcob roubo (Parigi 1739-1791)

L’Art du Menuisier, Première Partie, 1769

L’Art du Menuisier-carrossier, Première section de la troisième partie de l’Art du Menuisier, 1771

L’Art du Menuisier en meubles, Seconde section de la troisième partie de l’Art du Meinusier, 1772

in «Descriptions des Arts et Métiers, faites ou approuvées par Messieurs de l’Académie Royale des Sciences, avec figures en Taille-douce. A Paris, chez Saillant & Nyon, rue S. Jean de Beauvais; Desaint, rue du Foin Saint Jacques, M.DCC.LXI».Tre volumi a stampa con tavole in calcografia, legatura coeva in pelle, 430 x 300 mm.Collezione privata.

- L’Art du Menuisier ébéniste, IIIe Section de la IIIe de l’Art du Menuisier, 1774, pp. 763-1035, tavv. 277-337- L’Art du Treillageur ou Menuiserie des Jardins, Qua-trième et dernière partie de l’Art du Menuisier, 1775, pp. 1036-1312, tavv. 338-382A questi titoli ne vanno aggiunti due successivi, non facenti più parte dell’Art du Menuisier, di cui peraltro costituiscono un proseguimento:- Traité de la construction des Théatres et des Machines Théatrales, Première partie (la seconda non uscì mai), 1777, pp. 1-67, tavv. i-ix

- L’Art du Layetier, 1782, pp. 1-28, tavv. 1-7Compilando il grandioso trattato, Roubo si di-chiara ben consapevole degli obiettivi perseguiti dall’Accademia delle Scienze con la Descriptions des Arts et Métiers: «élever un monument à l’industrie humaine [...] fait pour illustrer notre siecle, & éclairer l’avenir». È singolare, e onora i paludati membri dell’Accademia, che un falegname sia stato riconosciuto all’altezza di un compito così ambizioso. Infatti Jacob-André Roubo, figlio e nipote di minusieri, era nato in una famiglia molto modesta non in grado di dargli altra istruzione che quella della scuola pubblica di carità. L’apprendista-to in bottega era stato quindi la sua unica formazione.

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Aveva poco più di trent’anni quando uscì il primo volume della sua opera, grazie al quale nel 1770 fu ammesso eccezionalmente alla Maîtrise senza presen-tare lo chef-d’œuvre, cioè il difficile lavoro realizzato come prova d’esame. A quel primo tomo aveva posto mano a soli 22 anni e da quel momento aveva lasciato l’attività diretta per dedicarsi alla stesura della mo-numentale opera, disegnando e incidendo da sé gran parte delle bellissime tavole. La fama riconosciuta non lo salvò dalle ristrettezze negli ultimi anni di vita: allo scoppiare della Rivoluzione nel 1789, molti no-bili fuggirono all’estero senza saldargli i conti. Aveva quattro figli piccoli, e la vedova campò poi con una pensione ottenuta in riconoscimento dei servizi resi dal marito alla Nazione.Egli stesso lasciò notizia della sua vita nella Con-clusion dell’Art du Menuisier (L’Art du Treillageur, p. 1259 sg.). Dalle sue considerazioni traspare anche una spiccata sensibilità sociale, che lo rese partecipe dei problemi del lavoro e delle condizioni di vita de-gli operai. Insomma, una personalità complessa di artista, di teorico e di uomo dell’illuminismo, rico-struita mezzo secolo dopo la morte da un biografo, Louis-Auguste Boileau, un minusiere che diventerà architetto e ne scrive diffusamente nei «Portraits et hi-stoire des hommes utiles», pubblicati nel 1836.Si deve tra l’altro a Jacob-André il primo e più pre-ciso ritratto della figura professionale dell’ebanista (L’Art du Menuisier Ébéniste, p. 763):«... est celle qui demande le plus de propreté & de précision de la part de l’Ouvrier, ou pour mieux dire de l’Artiste, qui pour bien faire cette espece de Menu-iserie, doit joindre à beaucoup d’expérience dans la pratique, une infinité de connoissances théoriques; de

sorte qu’un bon Menuisier- Ebéniste doit non seule-ment être en état de bien faire la Menuiserie ordinaire, mais encore de savoir coller & polir toutes les dif-férentes especes de bois, tant François qu’Etrangers; il doit aussi savoir teindre les bois & les brunir, & travailler diverses sortes de matieres, comme l’yvoire, l’écaille, la nacre de perle, l’étain, le cuivre, l’argent, & même l’or & les pierres précieuses; ce qu’il ne peut faire sans connoître parfaitement toutes ces différent-es matieres, qui toutes s’emploient & se travaillent différemment. La teinture des bois demande aussi quelques notion de Chimie pour la composition de ces teintures. A ces connoissances théorie-pratiques, les Menuisiers-Ebénistes doivent joindre celles de goût qui s’acquierent par le Dessein de tous les genres, comme l’Architecture & la Perspective, l’Ornement, le Paysage & même la Figure, afin d’être en état de représenter toutes sortes de sujet avec toute la préci-sion dont leur Art peut être susceptible. Il faut aussi qu’ils sachent graver au burin, tant sur le bois que sur les métaux, soit pour y former des ombres, soit pou détailler les parties qui seraient trop fines, pour qu’ils pussent le faire avec la scie à découper. Les menuis-iers-Ebénistes doivent avoir quelques connoissances de l’Art du Tour, afin d’être en état de faire eux-mêmes les parties de leurs ouvrages qui doivent être tournées, comme les pied de tables, de guéridons & autres. Ils ont aussi besoin de savoir limer pour ferrer leurs ouvrages eux-mêmes (ce qu’il font toujours), & y ajuster les ornements de bronze qui y sont néces-saires...».

[roberto Antonetto]

Bibliografia: Boileau 1836 (con ritratto di Roubo), pp. ???.

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Il complesso dei disegni di Jean-Charles Delafosse, come ci sono pervenuti attraverso le pagine dei suoi trattati, formano un vero e proprio codice della deco-razione Louis XVI. La raccolta, di cui si presenta il terzo e ultimo volume, è di particolare pregio per vastità di repertorio e alta qualità tipografica.I disegni di ogni genere d’arredo e di mobili in parti-colare, riflettono un corposo gusto plastico e una im-maginazione sbrigliata: per fare un paragone con il Piemonte, assai più Marini che Piacenza. Nella maggioranza dei casi i modelli presentano so-pravvivenze barocchette e sono cariche di una deco-razione esuberante, che non trova riscontro nella reale

106. JeAn-chArleS DelAfoSSe (Parigi 1734-1791)

Oeuvre, Tomo III, circa 1780

Volume in IV legato in piena pelle bruna, dorsi nervati, titoli in tasselli, 43,5 x 29,5 x 3,5 cm.Collezione privata.

produzione del tempo, né in Francia né tantomeno in Italia. Tra i disegni più fantasiosi, una serie di letti e divani. Una ornatissima vasca da bagno e eleganti bidets sono fra le curiosità del trattato. Architetto e pittore oltre che ornatista, ha lasciato il segno in diversi palazzi parigini degli anni sessan-ta-ottanta e si ricorda di lui un Plan générale des ci-mitières pour être construits aux deux extrémités de Paris (1776-1780), in cui dettò alcuni modelli di archi-tettura sepolcrale con largo uso di prismi, colonne e figure femminili piangenti.

[roberto Antonetto]

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Nel 1782 Giocondo Albertolli pubblica una prima raccolta di sue opere decorative eseguite per le fabbri-che dei Reali Arciduchi d’Austria in Milano e Mon-za su committenza dell’architetto Giuseppe Piermari-ni, figura a cui dedica l’opera, attribuendogli il ruolo di aver riportato il Buon Gusto nella città di Milano (Albertolli 1782). Nel 1787 l’Albertolli pubblica un secondo volume - sostenuto da Von Kaunitz, come sottolinea nell’introduzione - in cui presenta ancora una volta una serie di sue ideazioni, a promozione e diffusione del «buon gusto» (Colle 2002; Colle e Mazzocca 2005). A faro di un orientamento sicuro e avveduto, che sappia distogliere i giovani dalla pedisseque imitazio-ne delle grottesche e li orienti verso i preziosi dettagli dei monumenti antichi di Roma, Albertolli pone nuovamente le opere promosse dal governo austria-co, ovvero il Palazzo di Corte di Milano e la Villa Reale di Monza, in cui si è prodotto nell’ideazione dei decori interni e di cui loda incondizionatamente l’architetto Giuseppe Piermarini e, infine, l’Accade-mia di Belle Arti, di cui è docente. Nel volume sono presentate le pareti e la volta in stucco della Sala dei pranzi di Monza, con dettagli a scale diverse, porte,

107. gioconDo Albertolli (Bedano [Lugano] 1742 - Milano 1839)

Alcune decorazioni di nobili sale ed altri ornamenti di Giocondo AlbertolliProfessore nella Reale Accademia di belle Arti in Milano, incisi da Giacomo Mercoli e da Andrea de Berardinis, Milano, 1787

mat e tecnica, misure???collocazione verificare tutto in base a scheda prestito???

chiambrane e sovrapporte e arredi di altre sale sempre della medesima villa, nonché particolari di sale del Palazzo della Real Corte in Milano, capitelli corinzi su modello romano, particolari di soffitti del Palazzo Belgiojoso in Milano, candelabri, arredi, terrine, urne e altri manufatti. Il confronto tra questo volume e l’opera di Piacenza e Randoni per gli appartamenti della corte sabauda allestiti dopo la parentesi napoleonica fa supporre che sia servito di ispirazione diretta per la progettazione di arredi fissi: la tavola V raffigurante porta e sovrap-porta di una sala di Monza sembra riflettersi nelle cor-nucopie e nelle testine delle porte disegnate nel 1815 da Giuseppe Battista Piacenza per la camera da letto dell’appartamento della regina al secondo piano del Palazzo Reale di Torino (cfr. scheda ??? in questo catalogo), mentre la tavola ix, riguardante una sala del palazzo di Corte in Milano si riflette direttamente nella chiambrana della porta della Sala di Parata del re nel Palazzo Tursi in Genova disegnata nel 1821 da Carlo Randoni.

[PAolo cornAgliA]

Bibliografia: Colle 2002, pp. ???; Colle e Mazzocca 2005, pp. ???.

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Seconda edizione della celebre raccolta di 72 tavole dedicata dagli architetti Percier e Fontaine a illustrare allestimenti per interni, mobili e oggetti d’arredo, la cui prima pubblicazione è avviata a fascicoli sciol-ti a partire dal 1801 (Moon 2016, con bibliografia). Come nella prima edizione completa (1812) le inci-sioni - realizzate da Percier e da Charles Pierre Jose-ph Normand - sono accompagnate da un «Discours préliminaire», nel quale si dichiara l’intento dell’o-pera, e da note esplicative contenenti brevi appunti di carattere tecnico, stilistico o iconografico. La firma congiunta sulle tavole è l’equivalente di un moderno marchio commerciale, sottendendo una suddivisione dei ruoli che vede Percier responsabile dell’elabora-zione concettuale, mentre Fontaine è dedito piuttosto alla promozione pubblica del lavoro (Garric 2016, pp. 36-49, con bibliografia). La successione del-le tavole alterna con studiata varietà singoli arredi a decorazioni d’ambiente: fra questi l’atelier parigino del pittore Jean-Baptiste Isabey, il Gabinetto per il re di Spagna ad Aranjuez, gli interni realizzati per Bonaparte a Malmaison, Saint-Cloud, alle Tuileries e al Louvre. I mobili si succedono in allestimenti co-ordinati, come nel caso del sontuoso letto realizzato per la consorte del generale Moreau (tav. 19), oppure

108. chArleS Percier (Parigi 1764-1838)Pierre-frAnçoiS léonArD fontAine (Pontoise 1762 - Parigi 1853)

Recueil / de / Décorations intérieures, / comprenant tout ce qui a rapport a l’ameublement, / comme / vases, trépieds, candélabres, cassolettes, lustres,girandoles, / lampes, chandeliers, cheminées, feux, poêles, pendules, tables, /secrétaires, lits, canapés, fauteuils, chaises, tabourets, / miroirs, écrans etc. etc. etc., Parigi, Jules Didot, 1827

In folio; rilegatura in cartone marezzato blu; dorsetto in pelle marrone con filetti dorati decorati a motivi geometrici e titolo impresso in oro, 495 x 325 mm.Torino, Biblioteca Civica Centrale, Manoscritti e Rari, 413.A.60.

appaiono isolati su un fondo neutro, talvolta accom-pagnati da dettagli ingranditi che focalizzano l’at-tenzione sugli elementi costitutivi e le loro specifiche decorazioni, in un montaggio simile alle tavole con reperti archeologici dell’Encyclopédie (Cochet 2016, p. 69). Per Percier e Fontaine la decorazione è ispirata a criteri di razionalità e in stretto rapporto con la fun-zione dell’arredo, dunque la leggibilità e la coerenza dei motivi scelti sono essenziali (Nouvel-Kammerer 2013, pp. 36-37). Accanto ai temi ispirati all’antichità greca e romana, indiscussi protagonisti della raccolta, compaiono an-che ornati in stile egizio: con la loro «severità» sono i più adatti per una pendola monumentale (tav. 8), ma anche per una libreria con intarsi di legno di varie es-senze (tav. 28). Non mancano neppure, sottotraccia, riferimenti all’età rinascimentale e al periodo della Reggenza, in un volume articolato e per certi versi contraddittorio, ben lontano dal restituire una sem-plice istantanea del cosiddetto «stile Impero» (Moon 2017, p. 70).

[SArA mArtinetti]

Bibliografia: Nouvel-Kammerer 2013, pp. 31-44; Moon 2016, pp. 122-134; Id. 2017, pp. 69-98.

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Le rare edizioni a colori dei disegni di Augustus Pu-gin testimoniano i due volti del gusto artistico inglese in epoca Restaurazione: la rivisitazione del medioe-vo gotico da una parte, dell’antichità greca, romana, etrusca ed egizia dall’altra.Il primo volume riprende tavole di mobili e arredi neogotici disegnati da Pugin e apparse fra il 1825 e il 1827 sulll’Ackermann’s Repository of Arts, un periodi-co illustrato pubblicato dal 1809 al 1829 da Rudolf Ackermann, che ebbe grande influenza sulla moda, l’architettura e la letteratura inglesi.Nell’altro volume le tavole non sono ispirate al go-tico ma riflettono il revival dell’antichità classica come vissuto negli anni venti e trenta dell’Ottocento. È dedicato ai tappezzieri, e le tavole documentano in prevalenza arredi e mobili in cui è protagonista lo splendore dei tessuti. Ai disegni di Pugin si aggiungono illustrazioni del decoratore d’interni John Stafford e di altri, tutte apparse sull’Ackermann’s Repository fra il 1822 (in massima parte) e il 1826.Augustus Welby Northmore Pugin (Londra 1812 - Ramsgate 1852) fu architetto, trattatista d’architet-tura e designer. È sua la famosa torre del Parlamento, il Big Ben. Già il padre, collaboratore di John Nash, aveva scritto d’architettura neogotica. Augustus fu il più noto e attivo tra i fautori del gotico non solo come stile, ma come mondo di valori spirituali ed età felice della storia inglese. Contribuì al suo revival in

109. Gothic Furniture; consisting of twenty-seven Coloured engravings, from Designs by A. Pugin, with descriptive Letter-Press, London:Published by R. Ackermann, 96, Strand, s.d. ma 1830 circaVolume a stampa legato in pelle con 27 tavole all’acquatinta colorate, 265 x 205 x 15 mm.Proprietà private.

Modern Furniture; consisting of forty-four Coloured engravings, from Designs by A. Pugin, J. Stafford of Bath, and others, with descriptive Letter-Press, London: M. A. Nattali, 23, Bedford Street, Covent Garden, s. d. ma 1830 circa.Volume a stampa legato in mezza pelle con 44 tavole all’acquatinta colorate, 268 x 203 x 1 mm.Proprietà privata.

misura tale da diventarne il portavoce più influen-te. Pugin raccoglieva in questo modo e rilanciava in chiave pubblicistica un filone di gusto che aveva avuto i suoi albori proprio in Inghilterra intorno alla metà del secolo precedente. Al Victoria and Albert Museum di Londra sono conservati i primi mobili neogotici che si conoscono: furono creati poco dopo il 1750 per arredare la villa di Strawberry Hill che lo scrittore Horace Walpole, autore del primo romanzo «gotico» inglese, aveva fatto trasformare in propria dimora campestre a Twickenham vicino a Londra (Aldrich 1994, p. 65).Un trionfo di neogotico era stata anche l’eccentrica residenza di Fonthill Abbey, costruita tra il 1796 e il 1813 nel Wiltshire su progetto dell’architetto James Wyatt per conto dello scrittore William Beckford.A pochissimi anni di distanza dalla pubblicazione dei disegni di Augustus Pugin, il messaggio neogo-tico veniva raccolto in Piemonte da Pelagio Palagi, architetto e ornatista di Carlo Alberto, un artista di vasti orizzonti internazionali documentati dai quat-tromila volumi della sua biblioteca, fra i quali sei opere di Augustus Pugin (De Royere 2017, p. 91, p. 121 sg.).Sul fronte del gotico peraltro Palagi aveva un allea-to nel re, cultore del medioevo in quanto età dei fasti originari della dinastia sabauda rivissuti in chiave ro-mantica e del primato della spiritualità religiosa.

Una perfetta scenografia architettonica neo-gotica fu creata nel 1835 da Palagi nelle Margherie del Parco di Racconigi, e l’ebanista Gabriele Capello dal 1839 ne fornì gli arredi, lasciando un capolavoro nel ciclo del Reposoir della regina. Il tavolo è esposto in Mostra (cfr. scheda ???, p. ???). Analogamente un teatro gotico

fu allestito da Ernst Melano a Pollenzo con gli edifici dell’Agenzia e la chiesa di San Vittore.

[roberto Antonetto]

Bibliografia: Aldrich 1994, pp. 43-76; Brooks 1999; De Royere 2017, pp. 91, 121 sgg.

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Pubblicato dall’Ufficio speciale dei brevetti d’in-venzione con Gabinetto di Disegno industriale e Litografia a corredo dell’Esposizione Nazionale dei prodotti dell’industria tenuta nel 1858 al Castello del Valentino, il volume ha lo scopo dichiarato «non di far l’istoria di tutte le Industrie che vi sono rappresen-tate, né descrivere minutamente ad uno ad uno tutti gli oggetti che vi sono esposti», compito del catalogo ufficiale edito a cura della Regia Camera d’Agricol-tura e di Commercio, ma «di fare il compendio dei principali oggetti che rinchiuse il Castello del Valen-tino, e dare di questi oggetti un disegno bastantemen-te completo per poterne conservare la memoria pri-ma che essi vadano a nascondersi, gli uni nei privati appartamenti, gli altri nelle officine per adempiere all’ufficio cui furono destinati». Uno scopo documentario, ma anche educativo e di-vulgativo, raggiunto attraverso la descrizione abba-stanza dettagliata di una selezione di oggetti esposti e, cosa nuova per questo genere di pubblicazioni, qua-rantatré tavole incise con le immagini degli elementi più interessanti, di cui le prime nove sono dedicate agli arredi.Il «mobiglio» apre la serie delle categorie con l’elenco dei premiati. Conquistano la medaglia d’oro i Leve-ra, che hanno aperto il loro stabilimento solamente da otto anni ed espongono una camera da letto, una sala da conversazione «nel genere detto Boule», una camera da pranzo e altri oggetti minori. La prova del loro valore è che dopo pochi giorni dall’apertu-ra dell’esposizione, gli arredi sono già tutti venduti. Unico rammarico del compilatore dell’Album: «Un

110. Album descrittivo dei principali oggetti esposti nel Real Castello del Valentino in occasione della sesta Esposizione Nazionale dei prodottid’industria nell’anno 1858, Utet, Torino 1858

Volume a stampa, legatura del xix secolo in pelle e cartoncino, 29 x 19 cm.Torino, Archivio Storico della Città, Coll. Simeom B.571.

desiderio solo ci lasciarono, ed è che non ve ne fossero alcuni meno ricchi e più accessibili alle borse ristret-te». Rammarico espresso riconoscendo in ogni caso la loro abilità a dare ai mobili «quel carattere antico, e diremo quasi storico che si erano prefisso» (Album 1858, p. 9 e Antonetto 2004, pp. 311-312).Un’altra medaglia d’oro viene assegnata a Giuseppe Martinotti e suo figlio Luigi, che nel 1858 occupano 75 persone (Alaimo e Mira 2014, p. 9). La tavola loro dedicata cerca di rendere conto delle caratteristi-che dei loro mobili: «Ricchezza di forme e ornati, uso forse troppo spinto dei bronzi dorati, precisione nelle connessure e nel lavoro d’insieme, svariata e nuova ri-cerca di forme e di decorazioni». Ne è esempio il letto a baldacchino, «molto elegante e leggiero», retto da quattro colonne tortili ornate da fogliami in bronzo dorato - realizzati dal Colla, come quelli dei Levera -, con «lavoro di cortinaggio e imbottitura che è di una finitezza e di una precisione tale, che nulla lascia a desiderare» (Album 1858, p. 10). E due tavoli tondi decorati in controparte, cioè «una presenta in ottone quel che nell’altra è in tartaruga, e reciprocamente», con piedi fin troppo carichi di ornati, acquistate dalla Real Casa (Antonetto 2004, p. 312).La medaglia d’argento va a Pietro Bertinetti, «antica conoscenza di coloro che hanno frequentato le espo-sizioni torinesi», medaglia d’oro nel 1844 e nel 1850, probabilmente degno di un terzo oro se non si fosse dedicato in maniera quasi esclusiva a un’invenzione importante, «il proiettile porta-corda di salvamento», non meglio descritto, di cui ci si augura possano ve-nire dotati tutti i luoghi costieri d’Italia. E a Giuseppe

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Robotti, uno dei migliori tappezzieri, autore di un letto intarsiato «a cortinaggi» e di un sedile o patè da collocarsi in mezzo al salotto.Le tavole proseguono con i mobili delle medaglie d’argento, elaborati e ricchi di motivi decorativi fantasiosi tratti dalla cultura figurativa rinascimenta-le, barocca e rococò, talvolta mescolati con risultati bizzarri. Sono opera di Giorgio Cena, che compare con un tavolo intarsiato in pakfong (una lega di rame, nickel e zinco) e tartaruga con il disegno dello scudo di Benvenuto Cellini dell’Armeria Reale, Giovan-ni Tamone allievo di Capello, Giuseppe Ciaudo di Nizza Marittima, che presenta la stessa grande biblioteca con cui ha guadagnato la medaglia d’ar-gento all’Esposizione mondiale di Parigi del 1855,

decorata da trentasei quadri ad intarsio raffiguranti la storia d’Italia (Antonetto 2004, p. 309), e Raimondo Cuglierero con le sue «seggiole leggere» dette trotteu-ses, che «un tempo provenivano quasi esclusivamente da Chiavari, e le spese di trasporto ne rendevano l’uso non troppo comune in Torino», ma ora si potevano trovare anche in Piemonte in «una varietà di forme, d’indorature, di pitture e di varii generi di imbottiture che sinora non si era ricercato in quel genere di mobi-li» (Album 1858, p. 20).

[cleliA ArnAlDi Di bAlme]

Bibliografia: Antonetto 2004, pp. 304-317; Arnaldi di Balme e La Ferla 2014, pp. 79-80. Consultabile online sul sito www.museotorino.it

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Nel registro erano annotati i nuovi «Mastri» ammes-si all’Università, cioè alla corporazione dell’arte del «minusiere», dell’«ebanista», del «mastro da carroz-ze» e delle altre specializzazioni indicate.Il «minusiere», termine mutuato dal francese menuisier e usato solo in Piemonte (come «marangone» a Ve-nezia o «bancalaro» a Genova), è il falegname capace di lavorare «nel minuto», cioè di fino, assemblando le diverse parti in cui sono articolati mobili, porte, finestre, boiseries. Si distingue perciò dal «mastro da bosco», pressappoco l’odierno carpentiere, che lavora di grosso a opere strumentali come ponteggi e trava-ture di solai.L’«ebanista» è il minusiere specializzato nella lavo-razione dell’ebano e di altri legni ricercati, nonché di materiali preziosi come avorio, madreperla, tartaruga, pietre dure che si applicano ai fusti dei mobili più sofisticati in infinite variazioni compositive e croma-tiche, spesso di spettacolare effetto. È una personalità poliedrica, che riunisce nella sua arte le competenze tecniche fondamentali di diverse altre (disegno, archi-tettura, pittura, chimica, incisione, intaglio, intarsio, tornitura) e possiede una notevole levatura culturale, grazie alla quale sa muoversi, nell’iconografia religio-sa, nella mitologia, nell’iconologia, nella storia anche indipendentemente dalla guida degli architetti e degli ornatisti.

L’università dei Minusieri di Torino

111. Registro delle Chiadevre dell’Università De Minusieri, Ebanisti, Mastri da Carozze, Montadori d’armi, Botallari et fabricatori di Cadreghedella presente Città, Torino, 1670-1823

Volume manoscritto legato in pergamena, nudo ai piatti, titolo in frontespizio, 33 x 22 (chiuso) cm.ASTo, Archivio della Società dei Mastri Legnaiuoli, Ebanisti e Carrozzai (Minusieri), Mazzo 2, n. 5.

La più larga ed esaustiva definizione della figura del minusiere è quella tracciata da Jacques-André Rou-bo in L’Art du Menuisier ébéniste, IIIe Section de la IIIe de l’Art du Menuisier, 1774, p. 763 (cfr. scheda relativa, p. ???).La regolamentazione organica del lavoro e della pro-duzione era stata introdotta in Piemonte dalle Costi-tuzioni di Carlo Emanuele I nel 1619. Prevedeva 51 Università: fra queste, i «mastri da legname di ogni sorte». Le disposizioni rimasero in parte lettera morta per la riluttanza di parecchie categorie produttive ad accettare il peso delle rigide regole dell’Università, che richiedeva lunghi periodi di apprendistato, una difficile prova d’ingresso, il pagamento di una som-ma iniziale e trasparenza fiscale. L’Università dei Minusieri, che dal 1636 si era data una cappella nella chiesa di Santa Maria di Piazza, si era sottoposta nel 1654 a nuove Lettere Patenti, cioè provvedimenti so-vrani aventi forza di legge. Uno degli obblighi era che nessuno potesse aprir bottega «senza che prima fosse stato approvato il suo travaglio», cioè la «chia-devra» (capo d’opera, capolavoro). Si trattava di una prova di grande difficoltà tecnica, con la quale il candidato doveva dimostrare di aver raggiunto «la perfezione dell’arte» dopo aver fatto per cinque anni «l’imprendizzo» (l’apprendista) e per quattro anni il «lavorante».

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Le annotazioni del Registro incominciano il 2 otto-bre 1670 e terminano il 6 gennaio 1823. La prima riguarda Pietro Paolo Badarello, minusiere, l’ulti-ma Giovanni Battista Binelli. All’inizio sono molto scarne, con il tempo diventano più analitiche e de-scrivono sia pur sommariamente il capo d’opera. Il registro è dunque una fonte preziosa (unitamente a diverse altre documentazioni d’archivio) per la rico-struzione di un Catalogo dei minusieri ed ebanisti di Torino. Ancor più lo sarebbe se non presentasse una inspie-gabile e grave lacuna: mancano i fogli da metà 1718 al marzo 1775, quelli che corrispondono agli anni d’oro dell’ebanisteria del secolo xviii. Non vi tro-viamo quindi l’esame di Piffetti, mentre siamo certi che egli lo realizzò intorno al 1721. Possiamo leggervi

invece quello di Luigi Prinotto, che fu ammesso l’8 ottobre 1712. Il Registro prosegue in un secondo vo-lume, analogamente rilegato in pergamena, che porta al piatto il titolo Registro dei Capi d’opera e un cartiglio in cui è inscritta una scena sacra con San Giuseppe e Sant’Anna, patroni dei minusieri. Va dal 1823 al 1838 e presenta moduli prestampati. Uno degli ul-timi a sottoporsi alla prova è Gabriele Capello, già celebre, il 15 marzo 1838: dieci giorni dopo ha termi-nato il suo lavoro e viene iscritto, ma nel frattempo un Regio Biglietto di Carlo Alberto ha abolito l’obbligo del capo d’opera.

[roberto Antonetto]

Bibliografia: Antonetto 1985, pp. ???; Id. 1986. pp.; Gentile 1987, pp. ???; Id. 2010, vol. ???, pp. ???.

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I due volumetti contengono i disegni per i capi d’o-pera, cioè per le prove d’esame di raggiunta maestria tecnica (cfr. scheda p. ???). Si presentano nella stesura codificata nell’ultimo quarto del secolo xviii, proba-bilmente nel 1782. Mentre i modelli per gli ebanisti sono di netto gusto neoclassico, in coerenza con lo stile ormai affermato in quegli anni, quelli per i mi-nusieri appaiono attardati su schemi stilistici alquan-to anteriori. È probabile che le sinuose linee ricurve e gli andamenti centinati siano stati conservati dal passato perché più idonei a saggiare l’abilità dei can-didati rispetto alle linee rette e alle forme squadrate del neoclassicismo. Infatti le sagome elaborate delle traverse - come sono raffigurate nei disegni al di sotto degli sportelli - esigevano una manualità quasi acro-batica nell’esecuzione su linea curva, soprattutto in chi avesse avuto in sorte uno degli ultimi e più difficili disegni. Arduo in particolare eseguire con andamen-to centinato la cornice sommitale del telaio, a profilo molto elaborato e con forte sbalzo, gole accentuate e gradini di completamento chiaroscurale.Dalla storia dell’Università dei Minusieri sappiamo che i disegni per i capi d’opera ebbero una prima definizione ufficiale nel Memoriale a capi del 1738, il provvedimento legislativo più completo fra i tanti che si erano susseguiti fino a quel momento.Prima di quell’anno non si riscontrano modelli codi-ficati e tutto lascia credere che i manufatti da realizza-

112. Disegni per i capi d’opera dei Minusieri, s.d. ma intorno al 1780

Volumetto rilegato in pelle, 27 x 20 cm (chiuso).Al piatto impresso in oro: «MINUSIERI».ASTo, Archivio della Società dei Mastri Legnaiuoli, Ebanisti e Carrozzai (Minusieri), Mazzo 2, n. 2.

Disegni per i capi d’opera degli Ebanisti, s.d. ma intorno al 1780

Volumetto rilegato in pelle, 27 x 21 cm (chiuso)Al piatto impresso in oro: «ABENISTI».ASTo, Archivio della Società dei Mastri Legnaiuoli, Ebanisti e Carrozzai (Minusieri), Mazzo 2, n. 4

re fossero concordati di volta in volta con l’aspirante mastro,o da quest’ultimo presentati a sua scelta e giudicati in base alla qualità esecutiva. Dalle prime annotazioni del Registro delle Chiadevre, compilato a partire dal 1670 (cfr. scheda, p. ???), risultano per esempio «un credenzino di noce con un quadro à croce et coper-chio assemblato a coda di serpente» (2 ottobre 1680, minusiere Giovanni Battista Casanova); «una tavola di noce con comparti di oliva et altri legni diversi» (17 marzo 1684, ebanista Bartolomeo Taun); «una guar-darobba di noce» (15 maggio 1686, minusiere Gio-vanni Roberto); «un cembalo e una tavola» (9 marzo 1687, ebanista Antonio Senta). Giuseppe Burzio, probabilmente padre della futura moglie di Pietro Piffetti, fece un reliquiario e lo regalò all’Università, il che gli valse l’esenzione dal pagamento della tassa di ingresso.I modelli del 1738 non sono arrivati fino a noi, ma sappiamo che furono ridisegnati nel 1761 perché «fuori moda». I candidati mastri tuttavia non furono soddisfatti, dal momento che già un anno dopo, nel 1762, lamentavano che i nuovi disegni fossero anch›essi superati dal gusto corrente.In questa successione di modifiche è complicato sta-bilire a quale epoca risalgano esattamente le forme dei capi d’opera per i minusieri come ci sono state conservate nel libretto, mentre i modelli per gli eba-

nisti, di pieno gusto neoclassico, non possono essere anteriori all’ultimo quarto del secolo. Probabilmente tutti e tre i volumetti sono da collocare nel 1782, allor-ché fu ripubblicato il Memoriale a Capi del 1738, con l’aggiunta di nuovi capitoli: i disegni per i minusieri riflettono con ogni probabilità quelli del 1761, per i motivi tecnici già detti.I capi d’opera giunti fino a noi testimoniano che i disegni non venivanorispettati alla lettera, ma subivano variazioni anche notevoli, per deroghe e concessioni a vario titolo. In parecchi casi i candidati riuscivano a strappare l’au-torizzazione ad eseguire solo una parte del disegno (se

non a farsi esentare del tutto dall’esame), accampando motivi di malattia, povertà, famiglia numerosa o van-tando meriti militari. La stessa Università si adattò a «degradare» nel tempo i disegni, cioè a escludere i più difficili o a farne eseguire solo una parte, soprattutto verso fine secolo, allorché gli spiriti dell’Illuminismo fecero percepire il regime delle corporazioni come in-tollerabilmente oppressivo della libertà di lavoro e di produzione.

[roberto Antonetto]

Bibliografia: Antonetto 1985, pp. ???; Id. 1986, pp. ???; Gentile 1987, pp. ???; Antonetto 2010, pp. ???.

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L’insegna reca lo stemma sabaudo e l’emblema della Santissima Annunziata. Al piede, in grandi caratteri dorati: «Maurizio Aribone Minusiere di S.S.R.M». Insegne di questo tipo sono molto rare. Le Regie Patenti del 1738, con le quali fu promulgata la più completa normativa sull’esercizio della professione di minusiere, ebanista e mastro da carrozze per la città di Torino, stabilivano per i mastri l’obbligo «di tenere una insegna sovra la loro bottega». È probabile che questa disposizione sia stata ampiamente disattesa, come lo fu l’obbligo della «marca», cioè della firma sui mobili. Nell’insegna di Aribone compare il cosiddetto pic-colo stemma del regno di Sardegna, utilizzato negli atti pubblici durante i regni di Vittorio Emanuele I e Carlo Felice. Il titolo «Minusiere di S.S.R.M.» non corrisponde all’incarico ufficiale di servizio a corte, remunerato con regolare stipendio, come quello di cui furono investiti Piffetti, Giovanni Battista Gal-letti e poi il figlio di quest’ultimo, Carlo. È un titolo onorifico, che veniva concesso con un «Brevetto di Regio Stemma» ai provveditori della Real Casa. Per esempio Gabriele Capello, che per tutta la vita lavorò nei reali palazzi realizzando ogni genere di lavoro e capolavoro, dalla poltrona del trono all’asse di una la-trina, non ebbe mai incarico e stipendio di «Ebanista

113. bottegA torineSe

Insegna del minusiere Maurizio Aribone, 1820 circa

Legno intagliato, dipinto e dorato, 104 x 103 x 23 cm.Torino, Museo Civico d’Arte Antica - Palazzo Madama, ora in deposito presso la Reggia di Venaria, inv. 1613/L. Acquisizione da P. Accorsi, 1941.

di S.M.», ma nel 1858 fu gratificato del puro titolo di «Stipettajo ed Ebanista di S.M.», che gli concedeva «la facoltà di fregiare del Reale Stemma l’insegna del-la di lui Fabbrica» (Archivio Centrale dello Stato, Brevetti di Regio Stemma, 1858-1885). Il minusie-re Maurizio Aribone, che dotò la sua bottega di un così vistoso elemento di richiamo, non ha lasciato - a quanto risulta - una particolare traccia di sé negli annali degli arredi lignei torinesi. Era al lavoro nel castello di Moncalieri nel 1822-1823 e poi nel 1833 per «opere e provviste per gli alloggi sopra la galleria verso levante». Diversi pagamenti sono registrati nella contabili-tà della Palazzina di Stupinigi tra il 1860 e il 1868 (Ballaira, Damiano, De Blasi e Failla 2014, p. 429). Un Aribone (ma di nome Pietro), fu impegnato nel castello di Racconigi insieme ad un gruppo di altri (Giuseppe Detoma, Giovanni Boggio, Carlo Gar-rone, Carlo Ottone, Giuseppe Cerutti, Lodovico Dalmazzo, Pietro Allara) nel 1833, prima dell’inizio dell’attività di Gabriele Capello nella residenza sa-bauda (Antonetto 2004, p. 197).

[roberto Antonetto]

Bibliografia: Mallè 1972, p. 227; Antonetto 2004, p. 197; Ballai-ra, Damiano, De Blasi e Failla 2014, p. 411-429.

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Sala tra 13 e 14

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La struttura è una piramide a quattro gradoni pog-giante su un tavolino a gambe tornite. I ripiani sono balconati e scanditi da colonne fra le quali corre una griglia in filo metallico. Alla sommità delle colonne si sviluppano fantasiosi coronamenti lignei trafora-ti di impatto visivo prevalentemente neo-gotico, ai quali si associano elementi degli stili più diversi, dal classico all’orientale. Nei dadi angolari della piccola balconata sommitale è intagliata otto volte la croce mauriziana. Agli angoli della balconata sottostante al tempietto si ergono quattro piccole figure femmi-nili egizie in legno scolpito e dipinto in color bronzo. Elementi intagliati di notevole effetto plastico sono disposti sugli altri ripiani. Sui lati della sezione mag-giore e più bassa della piramide quattro portine a fitto traforo, coronate da timpano, danno accesso all’in-terno. La portina frontale e la sua speculare recano la figuretta bronzea di un guerriero medievale in arma-tura, in atto di sollevare la visiera dell’elmo. Lettere a traforo sono inserite in diversi punti della struttura, e formano una sorta di oscuro cifrario. Nell’interno è conservato il trespolo originale per i volatili.L’uccelliera reca in alto un vistoso stemma sabaudo sormontato da corona ducale e al centro della facciata del secondo gradone (partendo dal basso) un doppio stemma sovrastato da corona ducale dorata: a sinistra la croce sabauda, a destra il ramo fiorito e ricurvo dei Wettin, re di Sassonia. Gli stemmi collegano la spettacolare gabbia al matrimonio tra Ferdinando di Savoia, figlio secondogenito di Carlo Alberto e pri-mo duca di Genova, con Elisabetta di Sassonia, nel 1850.

114. Bottega torinese

Voliera, 1850

Legno traforato, intagliato e dipinto in policromia, metallo, 280 x 120 x 80 cm.Reca una etichetta cartacea con la scritta a stampa: «r. palazzo - stupinigi d.c.» e il numero 2738 D.C. tracciato a vernice.

La collocazione originaria fu nella Galleria di Le-vante di Stupinigi, come si apprende dall’inventario dei «Mobili e Arredi diversi [...] della R.e Palazzi-na di Stupiniggi e dipendenze» nel 1854. È descritta come «Una grande gabbia per volatili, di legno in-tagliato, colorito bleu, bianco e verde, disegno goti-co, telarino di filo ferro, colorito verde; in forma di grande castello, a quattro piani, su tavola quadra a gambe tornite, unite da traversa e munite di rotelle ai piedi» (ASTo, Sezioni Riunite, Inventari, Mobili, Stupinigi, 12888, n. 529). Nella sala c’erano anche uno struzzo imbalsamato e sei trofei di caccia in gesso colorato. È evidente l’impronta zoologica che si era voluto dare all’ambiente, in carattere con il fatto che in quegli anni Stupinigi era un luogo dedicato agli animali in gabbia nel Regio Serraglio, tanto da meri-tarsi il titolo di «primo giardino zoologico d’Italia».Nell’Archivio di Stato di Torino non si trova trac-cia della voliera. Circa l’autore del disegno, è dif-ficile pensare a Pelagio Palagi, anche se in alcuni suoi schizzi per uccelliere conservati nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna si trovano elementi paragonabili. Quanto al minusiere che la realizzò, si può pensare a Gabriele Capello, protagonista della scena ebanistica piemontese dell’Ottocento. Com-mittenti possono essere stati o lo stesso Ferdinando, per far trovare alla sposa questo singolare dono nu-ziale al suo arrivo in Italia, oppure il fratello di lui, Vittorio Emanuele con la moglie Maria Adelaide, o l’Ordine Mauriziano, di cui Carlo Alberto era stato Gran Maestro e Ferdinando ricopriva l’alta carica di Cavaliere di Gran Croce.

Il matrimonio, celebrato a Dresda capitale del Regno Sassone, fu vissuto, al rientro degli sposi a Torino, come un avvenimento memorabile. Lui, Ferdinando (1822-1855), era fratello minore di Vittorio Emanue-le II che da un anno sedeva sul trono del Regno di Sardegna. Aveva 28 anni e brillava della gloria re-cente acquistata sui campi di battaglia della I Guerra di Indipendenza.Lei, Elisabetta (1830-1912), aveva vent’anni ed era molto bella. La corte organizzò per il 13 giugno una dispendiosa festa in onore degli sposi a Stupinigi, con tremila invitati, balli, spettacoli e intrattenimenti vari: Gabriele Capello aveva allestito un grande palco per «i giochi di fisica», un altro per gli «acrobatici», due grandi recinti per i saltimbanchi, un circo equestre.L’uccelliera rispondeva ad una moda ornitologica diffusissima nelle corti e nelle élites dell’Ottocento. Già Carlo Alberto aveva affidato a Palagi e Capello nel 1836 il compito di realizzare una grande volière per rispondere «al desiderio dei Reali Principi di ave-re una uccelliera nel giardino di Moncalieri».Ferdinando fu collezionista di uccelli di singola-re passione e competenza. I documenti gettano luci sorprendenti sull’eroe risorgimentale alle prese con delicati volatili, applicato a catalogarli o intento a trafficare con imbalsamatori, collezionisti e musei per acquisire o scambiare esemplari. Particolarmente si-gnificativi i contatti con il naturalista Ettore Craveri di Bra, che con il fratello Federico stava accrescendo le collezioni di uccelli iniziate dal padre Angelo in misura tale che costituiscono oggi un pezzo forte del Museo Civico di Storia Naturale in Palazzo. Il duca arrivò a radunare quasi 500 esemplari nel palazzo di Torino e nel castello di Aglié. Pochi mesi dopo la sua morte, avvenuta il 10 febbraio 1855, la collezione fu trasportata da Torino al castello. Fu accresciuta dal figlio Tommaso (1854-1931), appassionato naturali-sta e appassionato viaggiatore in terre lontane. Ricca di oltre 700 volatili, è tuttora conservata ad Aglié, in armadi al secondo piano nobile.

La voliera rimase a Stupinigi fino al 1898. In quell’anno fu «scaricata» dai registri per ignota desti-nazione. Se ne erano perse le tracce fino a che è stata reperita e pubblicata dall’autore di queste note.

[roBerto antonetto]

Bibliografia: Antonetto 2017, pp. 25-35 (con le indicazioni archi-vistiche e bibliografiche).

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14.Il teatro del sacro

Eccezionale la presentazione del coro intarsiato di Luigi Prinotto, capolavoro del 1740, in Italia dopo quasi due secoli e restaurato per l’esposizione. Sono gli stessi maestri minusieri ed ebanisti già conosciuti nel percorso di visita, che si cimentano nella particolare produzione dedicata all’arte sacra. Di Prinotto, che risponde a numerose committenze dagli ordini monastici, sono l’inginocchiatoio del 1722 con placche d’avorio incise con la Passione di Cristo, recente acquisizione della Fondazione Accorsi, il cassettone del 1736 con le Storie di san Bruno realizzato per la Certosa di Pesio, primo mobile firmato del maestro, e un elaborato tabernacolo della metà del Settecento. In legno intagliato con grande effetto naturalistico, dorato e argentato, è il luminoso paliotto del 1787 della chiesa di San Francesco d’Assisi di Torino, opera di Giuseppe Maria Bonzanigo, attribuitogli sulla base di un disegno della Biblioteca Reale di Torino. Di Francesco Bolgiè si presenta un arredo per la devozione privata, sorta di comodino che si trasforma in confessionale, parte delle realizzazioni di gusto neoclassico che fioriscono a Palazzo Reale con la direzione degli architetti Piacenza e Randoni e l’influsso del disegnatore Leonardo Marini.

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Già noto per vecchie fotografie dell’archivio storico dell’antiquario Pietro Accorsi, l’inginocchiatoio è stato rintracciato solo di recente. Sebbene non fir-mato, si tratta, quasi certamente, di un capolavoro dell’ebanista torinese Luigi Prinotto, nel cui catalogo s’inserisce perfettamente per le forme non marcata-mente sinuose e per un impiego generoso dell’avorio, utilizzato a placche e inciso a caldo con il fine di cat-turarvi, quasi fossero pezzi di carta, soggetti figura-tivi che, nel nostro caso, sono scene della Passione di Cristo. Nato a Cissone nelle Langhe, Prinotto fu approvato ebanista ufficialmente nel 1712 e continuò a lavorare fino a pochi anni prima della morte, avvenuta a To-rino all’età non trascurabile, per l’epoca, di novanta-cinque anni (Cifani e Monetti, 2007, pp. 801-830). Punti cardini della sua produzione sono la Scrivania a ribalta detta «dell’Assedio di Torino», datata 1723 (To-rino, Palazzo Reale); il Pregadio della regina di Palazzo Reale di Torino, composto tra fine 1732 e metà 1734; il coro rintracciato da Roberto Antonetto in Irlan-da, del 1740; e una coppia di scrittoi già nella villa collinare dei duchi del Chiablese, saldata all’artista nel 1762 (Pettenati 2005, p. 246). Stando ai docu-

115. Luigi Prinotto (Cissone [cn] 1685 - Torino 1780)

Inginocchiatoio, 1722(?)

Legno di noce intagliato, lastronato e intarsiato, avorio inciso, 86,5 x 89,5 x 45,5 cmTorino, Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto.

menti, Prinotto nel 1722 realizzò due inginocchia-toi, entrambi destinati ai principi di Piemonte: uno, «guarnito con diversi lavori, e raporti di noce d’India, avorio, et ebano», destinato all’Appartamento torine-se della Principessa (Pozzati 2012, p. 49); l’altro per Rivoli, dove un inventario del 1727 ce lo descrive «centrato di placcaggi sudetti rapresentanti la Passio-ne di Nostro Signore» (Dardanello 2016, p. 64). Una testimonianza, quest’ultima, di non poca im-portanza, in quanto ci consente d’ipotizzare che l’ar-redo sacro qui esposto altro non sia che quello un tem-po a Rivoli, autorizzati a pensarlo per le forti affinità riscontrabili con arredi del Prinotto dei primi anni venti, tra i quali la sopra citata scrivania «dell’Asse-dio» e un insolito, eccentrico, movimento della men-sa. Tutt’altro che secondario, questo particolare della struttura potrebbe riflettere un pensiero o un’indica-zione di Filippo Juvarra che, regista del cantiere di Rivoli per i principi di Piemonte, aveva immaginato mense d’altare di forme simili, come nel caso di quel-lo per la Certosa di San Martino a Napoli.

[Luca Mana]

Bibliografia: inedito.

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Il doppio-corpo fu esposto nella IV Esposizione Na-zionale di Belle Arti in Torino nel 1880 con attri-buzione a Piffetti, e nella Mostra del 1929 a Palazzo Carignano. Fu pubblicato nel 1932 nel volume Il Settecento italiano, come proprietà dei Thaon di Re-vel, una delle più potenti famiglie dell’aristocrazia piemontese. Si tratta del mobile più importante fra quanti ne sono noti della produzione privata di Prinotto, su commit-tenza di un ecclesiastico di rango, come indicano i soggetti sacri delle formelle: la Lavanda dei piedi sulla calatoia, la Colonna della fustigazione sullo sportello sinistro e l’Elevazione della Croce su quello di destra. Quest’ultima raffigurazione si ritrova identica nel Coro firmato di Markree (cfr. scheda n. ???, p. ???) e nel tabernacolo di Prinotto della Cattedrale di Saint Michel a Sospel. La magnificenza dell’apparato de-corativo prevale sull’architettura del doppio corpo, quest’ultima di modello usuale e reperibile in altri arredi del genere prodotti evidentemente dallo stes-so minusiere che fornì a Prinotto la struttura. Nella Lavanda dei piedi è utilizzata soltanto madreperla per il primo piano (i personaggi), e soltanto avorio per il secondo piano, il pavimento e la colonna sulla sini-stra, con inedito effetto di profondità. Sugli sportelli Prinotto inverte il rapporto tra avorio e madreperla: gli elementi focali, cioè il cippo e la croce, sono evi-denziati dall’avorio, gli angioletti e le nuvole sono in madreperla. La stesura degli ornati a girali di foglie

e fiori, popolati da puttini, è prinottiana nel tratto e nello spirito, ma presenta una ideazione di gran lunga più nobile e ricercata del solito e una tecnica di inci-sione accuratissima. Un unicum sono i nastri in ottone che tracciano formelle mistilinee, incorniciate a loro volta da fregi fogliacei stilizzati anch’essi in ottone, punteggiati da occhi d’ebano in facciata e di madre-perla sui fianchi.Sul coronamento due angioletti in bronzo dorato, nella maniera del Ladatte, sono appoggiati in corri-spondenza dei montanti, mentre un cespo di foglie in lamina dorata è interposto fra le due volute del corni-cione. I pomelli delle guide scorrevoli di sostegno del-la calatoia raffigurano, in argento dorato, teste di leo-ne. Le maniglie furono fuse appositamente per questo mobile: recano infatti coppie di puttini, in continuità con quelli in madreperla sparsi sui cassetti. La parte superiore sporge sul retro di alcuni centimentri rispet-to al corpo inferiore: il mobile era nato per una parete lungo la quale correva un lambriggio.La scoperta e l’acquisizione dell’arredo dalla pro-prietà «storica» è dovuta all’intuito di Aldo Fina, uno dei principali antiquari torinesi della seconda metà del secolo scorso.

[roberto antonetto]

Bibliografia: Barbantini 1932, II, tav. 227; Pedrini 1965, pp. 86-87; Antonetto 1985, p. 324, figg. 468 e 481; Antonetto 2010, I, pp. 89-95.

116. Luigi Prinotto (Cissone 1685 - Torino 1780)

Mobile a due corpi (cassettone con ribalta e scansia), secondo quarto xviii secolo

Struttura in noce. Lastronatura in legno violetto. Avorio e madreperla incisi. Ottone intarsiato. Bronzi dorati fusi, 284 x 130,5 x 72 cm.Collezione Aldo Fina.

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Nella semplicità strutturale del mobile, l’apparato decorativo costituisce uno degli esiti più affascinanti raggiunti dall’ebanista, ed è portatore di un notevole carico di storia. Pubblicato dallo scrivente nel 1985, è stato il primo mobile firmato da Prinotto di cui si sia giunti a conoscenza.Le raffigurazioni in avorio inciso e madreperla, con tracce di colore, si inscrivono sul piano e sui fianchi nelle formelle create da un fantastico gioco di girali fogliati e fioriti, mentre sui cassetti si susseguono in continuità narrativa senza alcuna scansione. Tema, la vita di san Bruno (Colonia 1030 - Serra San Bru-no 1101) fondatore nel 1084 dei Certosini. La prima piccola comunità di sette monaci si riunì sui monti del Delfinato, in una sperduta località a 1200 metri poco lontana da Grenoble, dove sarebbe poi sorta la Grande Chartreuse. Sul fronte dei tiretti la vita dei frati non viene rappresentata nell’isolamento e nel silenzio prescritti dalla Regola, ma in momenti di pittoresco contatto con gli abitanti delle campagne. La rissa, la distribuzione dei pani, il frate dal cavadenti, il frate dal barbiere, i battitori sono tra le scenette più sapide di Prinotto. Diversa e solenne l’atmosfera figurativa del piano e dei fianchi. Nella cartella centrale del co-perchio, che reca la firma nel basamento di una co-lonna, si rappresenta il rifiuto da parte di Bruno della dignità vescovile di Reggio in Calabria (rappresen-tata dalla mitra sul tavolo) offertagli dal papa. A si-nistra della cartella centrale due angioletti reggono la mitra e il pastorale, rifiutati da Bruno per proseguire

117. Luigi Prinotto (Cissone 1685 - Torino 1780)

Cassettone a quattro tiretti con le storie di san Bruno e della fondazione dei Certosini, data???.

Struttura in pioppo, lastronatura in violetto, bosso, ebano, avorio inciso e colorato e madreperla incisa. Bronzi cesellati e dorati, 102 x 142,5 x 67 cm.Firmato e datato: «Louigij Prinoto ebanista feccit Anno 1736 Torino».Collezione privata.

in umiltà la vocazione monastica, alla quale allude a destra l’iscrizione tratta da Salmi 54:8 «Ecce elon-gavi fugiens et mansi in solitudine» (Mi allontanai errante e rimasi nella solitudine). Quattro momenti di romitaggio sono raffigurati agli angoli del piano.San Bruno morì nel 1101 nel monastero di Santa Maria in Calabria, da lui fondato presso l’attuale Ser-ra San Bruno, e il suo trapasso è raffigurato sul fianco destro del cassettone, mentre sul sinistro troviamo la sua ascesa al cielo.L’iconografia del cassettone deriva da due fonti diver-se. Nel piacevole bozzettismo dei cassetti si riconosce la paternità di Pietro Domenico Olivero, il gustoso ritrattista della vita popolare torinese che di Prinotto fu amico. Piano e fianchi sono tratti invece, come è stato identificato da Arabella Cifani alla quale devo la cortese segnalazione, da stampe di un ignoto inci-sore tardo-seicentesco che trascrive dipinti di Eusta-che Le Sueur (1616-1655). Il ciclo della vita di san Bruno è l’opera più nota del pittore parigino: si tratta di 20 dipinti (le stampe sono solo 18), originariamen-te su tavola e poi trasposti su tela, che decoravano il chiostro della Certosa di Parigi. Il convento sorgeva dove è ora il Jardin du Luxembourg e fu distrutto dalla Rivoluzione, e i dipinti si trovano al Louvre. Poiché il cassettone di Prinotto fu realizzato per una Certosa, è più che probabile che le stampe siano state fornite all’ebanista dai frati stessi. L’identificazione di una origine diversa dal solito Olivero allarga tut-tavia in modo significativo gli orizzonti iconografici

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dell’opera di Prinotto. L’episodio centrale del piano (il rifiuto di san Bruno) deriva dalla stampa n. 15 della serie tratta da Le Sueur. Il frate inginocchiato in preghiera nell’angolo anteriore destro è ricalcato dall’incisione n. 4, le altre tre piccole cartelle sono ispirate dall’incisione n. 16. La morte di san Bruno sul fianco destro viene dalla stampa n. 2, l’ascesa al cielo sul fianco sinistro dalla n. 18 (una raffigurazio-ne, quest’ultima, non dissimile dal san Carlo nello sportello dell’inginocchiatoio di Prinotto nel Prega-dio del re (ora della regina) in Palazzo Reale.Sono da notare le belle maniglie e le mostrine del-le serrature, in ottone cesellato e dorato. Si ritrovano identiche in diversi cassettoni sicuramente di Prinotto e su alcuni altri per i quali potrebbero costituire, insie-me ad altri elementi, un indizio attributivo.Prinotto realizzò quest’opera per la Certosa di Pe-sio. Era collocata nell’anticamera della sacrestia del convento cuneese, come riferisce il verbale redatto in occasione della vendita dei beni religiosi seguita alla soppressione degli Ordini da parte del governo fran-cese del Piemonte. In un «Processo verbale di appo-sizione di sigilli sugli effetti, carte, titoli della certosa di Pesio» redatto il «15 e 16 fruttidoro dell’anno deci-mo» (2 e 3 settembre 1802), è descritto come «un bur-rò in legno di violetta intarsiato d’avorio e madreperla rappresentante sul coperto superiore varie figure rela-tive alla storia del fondatore di detta Certosa, e colla

seguente iscrizione in uno scudo di madreperla: fatto a Torino da Luiggi Prinotto nel 1735» (1735 anziché 1736 è una svista dell’estensore del documento). Il processo verbale fu scoperto nell’Archivio di Stato di Cuneo da Vittoria Moccagatta, la quale sottolineò i rapporti fra i principi sabaudi e i Certosini. Basta pensare alla Certosa Reale di Collegno, fondata da Madama Cristina e definita «figlia primogenita frà tutti li monasteri di Real Fondazione».Nella Certosa di Pesio esisteva anche - come si ap-prende dallo stesso Verbale - un «tombò con cassetti», cioè una scrivania con ribalta, collocato nel salotto centrale della Prioria ed ora in collezione privata. Vi è riprodotta in avorio inciso la stessa scena del presente cassettone, in una versione ancora più vicina alla stampa di Le Suer.Il cassettone con le storie di san Bruno è passato in diverse proprietà rimanendo in perfetto stato di con-servazione, con segni di incisione inalterati e senza abrasioni. Nel 1985 presentava sostegni tronco-pi-ramidali, visibili nelle immagini allora pubblicate. Nella attuale collezione si è provveduto a sostituirli con i classici piedi «a rapa», fortunatamente reperiti coevi.

[roberto antonetto]

Bibliografia: Antonetto 1985, pp. 262-265, figg. 375-376, Mocca-gatta 1992, p. 142; Antonetto 2010, I, pp. 116-119.

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Il tempietto proviene dalla cappella del Vallinot-to, eretta nel 1738 dall’architetto Bernardo Vitto-ne, al quale è dovuta con ogni probabilità anche la regia artistica dell’arredo, a cominciare dai bel-lissimi confessionali, rubati nel 1978, e non esclu-sa una qualche influenza anche sul tabernacolo. Era in loco ancora nel 1961, quando Noemi Ga-brielli ne segnalava «l’impialliciatura in parte ca-duta». Ora si trova nella cappella dell’Opera Pia Faccio-Frichieri di Carignano, dal 1962 nuova denominazione del Regio Ospizio di Carità al quale era stato devoluto il patronato sul santuario dopo la morte del committente, il banchiere Antonio Faccio, avvenuta nel 1743. La realizzazione del tabernacolo e degli altri arredi della chiesa dovrebbe risalire agli ultimi anni di vita del Faccio. Angeli multicolori in avorio popolano l’intero arredo e ne costituiscono il tema dominante. Le quattro colonne in finto marmo rosato inquadrano nell’abside la corte degli angeli in una corona di nuvole che circonda un triangolo in

118. Pietro Piffetti (Torino 1701-1777)

Tabernacolo, 1740 circa

Lastronatura in violetto, noce, palissandro, bosso, avorio inciso e colorato, madreperla, tartaruga, bronzo dorato, intagli lignei dorati, 175 x 85 x 56 cm.Carignano (to), Opera Pia Faccio Frichieri.

avorio con il tetragramma del nome di Dio in caratteri ebraici. Le figure derivano, con rimaneggiamenti, dallo stesso disegno del paliotto del sacrario Apo-stolico, dove circondano l’altare dei sette sigilli. Un tripudio di angeli è anche nella volta del tempietto. Lo sportello in bronzo dorato raffigura il sacerdote Zaccaria nel tempio nell’ora dell’incenso, allorché gli appare l’angelo che gli annuncia la nascita del Bat-tista (Luca, 1, 8-20). Il tempietto è da confrontare con gli altri tabernacoli noti di Piffetti (in tutto cin-que): quello della Cappella Regia del Palazzo Reale di Torino, i due di Benevagienna nell’Oratorio di San Bernardino dei Disciplinati Bianchi e quello del Santuario della Madonna di Loreto dei Frati Cap-puccini di Chivasso.

[roberto antonetto]

Bibliografia: Gabrielli 1960-1961, pp. ???; Lusso 1971; Arduino e Gentile 1973-1980, I, p. 98; Arte e vita religiosa in Carignano 1973, pp. 107-108; Antonetto 2010, I, p. 187.

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Il tabernacolo è composto da un alto basamento su cui poggia un’edicola a quattro colonne libere, scol-pite in alabastro di Busca. Il tempietto reca al centro la raffigurazione della colomba eucaristica intarsiata in madreperla, circondata da una corona di putti in avorio, ed è privo del Crocifisso ancora visibile nella documentazione fotografica precedente all’acquisto da parte del Museo Civico, avvenuto nel 2001. La portina del tabernacolo è ornata da una Pietà in lami-na di rame dorata e sbalzata. Sulla cupola, che termi-na con quattro elementi a ricciolo, si erge una croce mauriziana in madreperla.L’opera proviene dalla cappella privata della cascina «La Vernea» importante centro agricolo sorto verso la fine del Cinquecento lungo la strada che congiun-geva Nichelino e Moncalieri, appartenuto in origine alla famiglia Humoglio (Ainardi 2004, pp. 21-28). La cappella era intitolata a santa Cristina e fu riedi-ficata nel 1757 per volere di Francesco Antonio Hu-moglio: con ogni probabilità fu questo il momento in cui il nuovo tabernacolo fu messo in opera.L’impianto architettonico classicista e la decorazione giocata sull’intreccio di filettature e motivi vegetali ri-conducono il tabernacolo alla produzione di Luigi

119. Luigi Prinotto (Cissone 1685 - Torino 1780)

Tabernacolo, 1750-1755 circa

Legno intagliato, dorato e intarsiato in avorio e madreperla; alabastro di Busca; lamina di rame sbalzata e dorata su supporto ligneo; seta, 172 x 75 x 45 cm.Torino, Palazzo Madama - Museo Civico d’Arte Antica, inv. 7.

Prinotto della metà del xviii secolo, in particolare ai movimenti curvilinei e all’ornato del tabernacolo del-la cattedrale di San Michele a Sospello, provenien-te dal soppresso convento dei cappuccini intitolato a san Maurizio (Antonetto 2010, pp. 110-113) e a un tabernacolo passato all’asta da Sotheby’s nel 2008 (Important furniture 2008, lotto 46). Lo stesso schema verrà sviluppato da Pietro Piffetti con un andamento più mosso e moderno in diversi tabernacoli: quello del 1738 per il santuario del Va-linotto a Carignano (oggi all’Opera Pia Faccio-Fri-chieri) e quelli degli anni sessanta per la Cappella Regia nel Palazzo Reale di Torino, per i cappuccini di Bene Vagienna e per quelli di Carrù (Antonetto 2010, pp. 187 e 184; Cifani e Monetti 2005 e Pie-tro Piffetti 2013, pp. 100-107, schede nn. 13-14 di L. Mana).

[cLeLia arnaLdi di baLMe]

Bibliografia: Antiquari piemontesi 2002, p. 15; Museo Civico d’Arte Antica (2002), p. 8; Ainardi 2004; Museo Civico d’Arte Antica 2004, pp. 110-111, 161; Antonetto 2010, vol. I, p. 114; Gesù. Il corpo 2010, pp. 309-310, scheda n. 7.21 di C. Arnaldi di Balme; Rois et mécènes 2015, pp. 152-153, scheda n. 31 di C. Arnaldi di Balme.

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L’autografia del paliotto è supportata dal noto dise-gno a china e acquerellato, conservato in Biblioteca Reale (BRT, Cartella 22, f. 10, n. 23), firmato «G. M. Bonzanigo Scult. D. S.M.» e che riporta l’iscri-zione «eseguito nel anno 1787 per i Rev.i P.ri di S. Francesco».L’intaglio raffinato descrive i girali di palme, rami di mirto, spighe e rose con grande effetto naturalisti-co. Le ghirlande di rose intorno all’ovato centrale ri-chiamano la maestria scultorea di Bonzanigo espressa nelle grandi specchiere della Palazzina di Caccia di Stupinigi, realizzate pochi anni prima. Il motivo decorativo di maschera à la greque nella cartella centrale si ritrova in proporzioni inferiori in altri lavori d’intaglio dello scultore di S.M., come sulle lesene laterali del cassettone oggi a Villa Car-lotta. Il disegno differisce dall’opera realizzata per la mancanza della raffigurazione centrale e perché non descrive la particolare soluzione di resa del fondo in foglia d’argento stesa su granulatura e probabile fini-tura a mecca. Tale dettaglio ha fatto supporre ad una collaborazione di uno scultore, ancora anonimo, per

120. giusePPe Maria bonzanigo (Asti 1745 - Torino 1820)

Paliotto, 1787

Legno di pioppo intagliato, dorato, argentato, meccato, 104,5 x 277 x 7 cmTorino, chiesa di San Francesco d’Assisi, sacrestia.Restaurato in occasione della mostra dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale.

la parte figurata del medaglione con san Francesco che riceve le stigmate. Nel disegno sono invece chia-ramente descritti gli effetti di brunitura e satinatura degli intagli dorati realizzati con doratura effettuata su preparazioni diverse per conferire una sorta di po-licromia all’impianto decorativo a motivi floreali e vegetali.Esposto alla mostra Cultura figurativa ed architettonica negli stati del re di Sardegna, 1773-1861 del 1980, il pa-liotto ha avuto nel tempo diverse manutenzioni che hanno insistito in particolare sul fondo che, prima del restauro, appariva completamente annerito mentre oggi ha recuperato la foglia d’argento e parzialmente la finitura originaria. Si sono rilevate inoltre integra-zioni delle parti di intaglio aggettanti dei girali vege-tali che l’attuale restauro ha rimosso e reintegrato con materiali più idonei e reversibili.

[stefania de bLasi]

Bibliografia: Dalmasso 1980, I, p. 90; Ferraris 1991, pp. 83-84; Antonetto 2010, I, p. 371; BRT, Album Disegni di Scuola Piemontese, cartella 22, n. 23.

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Il singolare manufatto s’inscrive nell’ambito delle rea-lizzazioni che fioriscono a Palazzo Reale dopo gli ar-redi realizzati per l’appartamento dei duchi d’Aosta, al secondo piano, dal 1789, sotto la direzione degli architetti Piacenza e Randoni e l’influsso del disegna-tore di camera Leonardo Marini, a tessere la trama di quell’elegantissimo Luigi XVI che è la forma in cui si manifesta questa fase del Neoclassicismo torinese.Francesco Bolgiè, uno dei più prestigiosi ideatori ed esecutori di quella temperie, cui si sono negli anni an-dati restituendo tanti arredi prima attribuiti allo stesso Giuseppe Maria Bonzanigo, ne ha fornito nel 1815 anche alcuni disegni per guidare il preliminare lavo-rio di minuseria, come recita una «nota» datata 1816 (Ferraris 1991, p. 101 e 115). Trattasi d’una sorta di comodino, ove la scansia inferiore si sfila e ribalta in ginocchiatoio, e dalla faccia posteriore scorre su due guide un’alzata con griglia centrale che lo trasforma a tutti gli effetti in, per quanto semplice, confessiona-le. L’ideazione si rivela preziosa nelle rientranze della fronte ove elegantemente si collocano, lateralmente, le colonnette scolpite, elemento raro a trovarsi; tali

121. francesco boLgiè (Torino, 1752-1834)

Confessionale in forma di comoda, 1816

Legno intagliato, dipinto, dorato, 155 x 68 x 35 cm.Torino, Musei Reali - Palazzo Reale, inv. DC 2046.Restauro eseguito in occasione della mostra.

colonnette richiamano particolarmente, rovesciate, le forme dei sostegni dei tripodi dell’appartamento dei duchi d’Aosta (G. M. Bonzanigo, in Antonetto 2010, p. 358), e rimandano anche ai motivi consueti nei candelieri.Nell’insieme, il mobile è però portatore d’una versio-ne decorativa alquanto più austera, lineare, della gra-dazione stilistica di cui abbiamo discusso, di cui ide-almente prolunga la durata senza farne venir meno la tecnica e la tensione stilistica (si veda anche, in paral-lelo, la boiserie proveniente dal terzo piano del palazzo (in Antonetto 2010, II, p. 400), salvo forse un lieve appesantimento: niente parti figurate, più semplici le anfore e i motivi vegetali; s’impongono, nell’alzatina, rami d’ulivo e, sotto la griglia sagomata, due mazzi di palmette incrociate: un arredo insomma che può sta-re disinvoltamente tanto in un ambiente civile che in uno ecclesiastico. Nel 1908 era già nella Stanza della Tribuna della Regia Cura.

[franco guaLano]

Bibliografia: Ferraris 1991, pp. 101 e 115; Antonetto 2010, p. 390.

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Luigi Prinotto, giusePPe Marocco, giacoMo FiLiPPo Degiovanni e Lavoranti

Coro monastico, 1740

Fusto in noce. Lastronatura in radica di acero, palissandro, violetto, sorbo, bosso, avorio inciso, inserti di madreperla. Intagli in noce.Dimensioni: 9,20 m profondità, 6,53 m larghezza. Altezza massima 3,60 m.Firmato e datato: «Di quest oPra Luiggi Prinotti è l’Ebanista e l Intagliatore nell’avori Piemonte(s)e Giuseppe Marocci il Scultore Torinese Giacomo Fillippo De Gioanni Milanese il Minu(sie)re Taurini fecit 1740».Le firme sono incise, nella parte bassa di uno dei dossali, su una tavoletta d’avorio a forma di lapide.

La successione degli stalli è contraddistinta da un numero, partendo da destra e procedendo in senso antiorario. Quindi sul lato destro si susseguono gli stalli da 1 a 14 (ultimo a destra della porta), sul lato sinistro da 15 (primo a sinistra della porta) a 28. È improbabile che questa fosse l’originaria successione, a causa delle vicende che verranno esposte più avanti.

Fig. 1. Il coro riassemblato nel Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale. Foto Giuseppe Dell’Aquila.

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L’operaNon solo il coro costituisce un vertice nell’attività di Luigi Prinotto, ma viene a porsi ai livelli più alti nell’ambito dei cori settecenteschi piemontesi. Questo tipo di arredo chiesastico è largamente dominato in Piemonte dalla sola arte dell’intaglio, mentre sono pochi gli esempi di opere arricchite da intarsi: tra queste i tre cori astigiani della bottega del moncalvese Francesco Salario, di un quarto di secolo più tardi del nostro (Duomo, Confraternita della Santissima Trinità e Sant’Evasio, chiesa delle monache di Sant’Anastasio ora nella Cattedrale di Alessandria), e quello di Santa Maria Maddalena d’Alba, di poco successivo al nostro11. In nessuno di questi tuttavia l’arte ebanistica gioca un ruolo così spettacolare. Il risultato è un equilibrio inedito fra le arti dell’intaglio e dell’intarsio, senza dimenticare le suggestive valenze architettoniche della struttura. Per trovare in Piemonte antecedenti di tale levatura bisogna risalire ai cori a tarsia delle Cattedrali di Sant’Andrea in Vercelli e di San Lorenzo in Alba, del primo Cinquecento.Il coro è costituito da 28 stalli disposti a U e centrati da un vano aperto. I dossali sono scompartiti in senso verticale in due formelle mistilinee e una rettangolare. Sono collegati da lesene alle quali si innestano gli elaborati fianchi dei sedili con i braccioli intagliati desinenti in testine di putti. I sedili sono incernierati al

1 È del 1749 e l’intarsio è limitato a un elemento stellare bicolore sui dossali e ad una croce sui banchi. Come testimonianza di gusto, vi si può aggiungere il coro di Carlo Amedeo Botto (1652) nella chiesa parrocchiale di Stupinigi a Nichelino, nel quale gli intarsi furono inseriti in pastiglia nel secolo xviii (Antonetto 1994, pp. 103-104, tav. 53).

dorso e presentano, quando sollevati, le «misericordie». Pendoni intagliati ornano le lesene, che terminano in alto in modiglioni a volute. I dossali sono coronati da baldacchini sovrastati da cupolette a pagoda su cui poggiano vasi. Dal bordo inferiore dei baldacchini pendono, alternativamente, lambelli e campanelle. Fra i vasi si interpongono, poggiando sulle lesene, trenta statue di angioletti uno diverso dall’altro. La successione dei baldacchini, delle anfore e degli angioletti avvolge la struttura con una cortina sommitale solenne e di incisiva ricchezza plastica.L’anello interno della struttura, formato dai banchi con i leggii, è articolato frontalmente in pannelli rettangolari in cui si alternano vasi fioriti e motivi geometrici stellari.La dominante cromatica del coro è data dal colore dorato della radica di acero fortemente variegata che lo riveste in gran parte (la superficie intarsiata è di 54 metri quadrati). Nelle formelle superiori dei dossali si accampano in avorio gruppi di angioletti tra le nubi (in parte perduti o lacunosi) raffiguranti virtù e allegorie. Dieci sono identificate da iscrizioni: «Volontà» (dossale 5), «Silenzio» (6), «Innocenza» (8), «Bontà» (9), «Amore a Dio» (11), «Clemenza» (12), «Costanza» (13), «Benevolentia» (24), «Temperanza» (26), «Intelletto» (28). Alcune di esse riprendono l’iconologia tradizionale, codificata per esempio da Cesare Ripa: per la Costanza la colonna e la mano ferma sulle fiamme, per la Clemenza il leone risparmiato dalla freccia, per la Bontà il pellicano, per la Benevolenza la corona di vite e l’alcione. Altre se ne discostano o non sono riferibili a prototipi. Le raffigurazioni, che presentano qualità di disegno e di incisione molto disuguale, spiccano sui toni cupi del palissandro e sono incorniciate in un fantasioso apparato di nastri, palmette, tralci e drappi.I dossali degli stalli ai lati dell’apertura sono più complessi (figg. 2-3): portano raffigurazioni in avorio sia nella formella superiore sia in quella inferiore e la decorazione è arricchita da una griglia di corolle collegate da fusaiole. Nel dossale di sinistra (15) appare nella formella superiore l’ascesa della Croce sorretta da cinque angioletti, mentre la formella inferiore presenta uno scheletro davanti ad un altare di pietre, la mano appoggiata ad un globo sovrastato da una piccola croce, a terra un cumulo di libri, sul fondo la facciata di un edificio sacro diroccato.Nel dossale di destra (14) si può leggere nel poco avorio superstite l’Ascensione di Cristo portato in cielo dagli angeli: una aureola molto singolare corona il volto dell’Uomo,

Figg. 2-3. Due delle raffigurazioni allegoriche in avorio inciso sui dossali.

Figg. 4-5. I due dossali principali, rispettivamente a sinistra e a destra dell’apertura centrale del coro.

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che ascende a braccia aperte mostrando le stimmate. In basso una piccola lapide con le firme dei tre artefici, dalla quale si sta allontanando su un ponticello un personaggio avvolto in un mantello: anche qui l’avorio è gravemente lacunoso, ma dalla sede d’intarsio si può percepire la presenza originaria di altri due viandanti nello stesso atteggiamento: una evidente allusione ai tre realizzatori dell’opera, che ne affidano la memoria a una iscrizione prima di distaccarsene (figg. 4-5).Dodici dossali presentano in basso piccoli intarsi in avorio, legno e madreperla, dei quali sei sono completamente caduti e gli altri raffigurano rispettivamente un teschio su libro con clessidra e campanella (due volte, ai dossali 2 e 12), un teschio su libro (ai dossali 18 e 28), un violino (dossale 20)2, una corona di spine (dossale 21)3 (figg. 6-8).

Una Crocifissione in avorio, ovale, in grande fastigio intagliato, è il punto focale del coro, sopra l’apertura centrale (fig. 9). È tratta, come gentilmente segnalatomi da Arabella Cifani e Franco Monetti, da una incisione firmata Valegio forma Venetia4. Francesco Valesio era un incisore attivo a Venezia tra la fine del xvi e l’inizio del xvii (fig. 10). La stampa riporta anche, in lastra in basso a destra, l’ideatore della composizione, Palma il Giovane (Jacopo Negretti, Venezia 1548/1550-1628). Palma dipinse la Crocifissione nel 1599, ed essa è conservata tuttora all’altare del Crocifisso della chiesa conventuale di Sant’Antonio da Padova dei Frati Minori di Potenza Picena in provincia di Macerata, detta chiesa degli Zoccolanti (fig. 11). La stampa differisce dal dipinto nella parte destra, dove l’incisore ha eliminato la figura di Sant’Antonio da Padova e il mazzo di gigli, attributo del santo5. Questo particolare, apparentemente trascurabile, ha invece grande importanza ai fini del nostro discorso.

2 Il violino è a volte presente nelle nature morte ispirate al tema della Vanitas, come in quella nota di Pieter Claesz.3 Un ringraziamento a Paolo Luciani, coordinatore del Laboratorio di restauro manufatti lignei del Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale e una particolare gratitudine a Massimo Ravera per la preziosa collaborazione.4 Valesio Francesco (notizie fine xvi - inizio xvii secolo), Crocifissione di Cristo con la Madonna, San Giovanni Evangelista e Santa Maria Maddalena, 292 x 427 mm, Bergamo (bg), Accademia Carrara. Gabinetto Disegni e Stampe.5 Esiste almeno un’altra Crocifissione simile, ad Assisi, nel Convento dell’Immacolata dei Frati Cappuccini. È il Crocifisso con la Vergine e i santi Maria Maddalena, Giovanni Evangelista, Francesco, Chiara e due angeli attribuito a Palma il giovane da Marco Droghini. Il dipinto è stato recentemente restaurato ed esposto nella Sala Mostre dei Cappuccini di Assisi (14 maggio - 30 ottobre 2016). Del quadro c’è un disegno preparatorio (con varianti) all’Albertina di Vienna.

Gli arteficiDi Luigi Prinotto (1685-1780) è ampiamente detto in altra parte del volume (cfr. saggio (Antonetto), p. ???).Un capitolo a sé meritano gli intagli di Giuseppe Marocco (not. 1735 - morto 1763). Essi movimentano i fianchi di ogni stallo con capricciose volute desinenti in testine, di disegno ed esecuzione ammirevoli, e ne accresce il fascino una patina scura color bronzo antico. Ciò vale anche per gli angioletti del coronamento, caratterizzati da una fantasiosa variazione nell’ espressione dei volti (figg. 12-13).Marocco è uno scultore in legno di primo piano, più volte scelto dai regi architetti Juvarra e Benedetto Alfieri per lavori nelle residenze sabaude. I suoi interventi spaziano dal Palazzo Reale di Torino a Stupinigi, dalla Vigna della Regina alla Venaria al Teatro Regio, e i pagamenti consistenti attestano l’importanza dei lavori. Sono opera di Marocco le trentasei grandi ventole coronate da teste di cervo del salone centrale della Palazzina di Stupinigi, ideate da Filippo Juvarra.Il suo lavoro forse più rappresentativo è visibile in Palazzo Reale, nelle quattro consoles angolari della cappella privata della regina, ideate da Benedetto Alfieri: un ambiente definito nel Catalogo della Mostra del Barocco del 1963 «uno dei più raffinati capolavori del rococò piemontese». Nello stesso Palazzo sono documentati molti altri interventi, a fianco di Giuseppe Stroppiana e altri, come Alessandro Omma e Giuseppe Amedeo Micheletti: si tratta degli intagli ornamentali dorati di numerosi infissi e pareti6. È un peccato che non siano giunte fino a noi le statue di un intero presepio commissionato a Marocco per le reali principesse nel Natale del 1735. L’intagliatore era presente alla «erezione della compagnia di S. Luca il 5 settembre 1756». Nel registro è aggiunta accanto al nome la data di morte, 7 luglio 17637.Quanto al minusiere, autore della armoniosa struttura del coro, sappiamo che Giacomo Filippo Degiovanni (De Gioanni, o De Gioanini, not. 1723-1777) era nativo di Varese, quindi suddito dello Stato di Milano: perciò è detto «milanese» nella firma del coro. Tuttavia era dal 1723 a Torino, e nel 1751 sarà «naturalizzato», cioè «annoverato fra li suditi originari» del Regno di Sardegna. Era un artigiano di rango. Il Rovere, nella sua Descrizione di Palazzo Reale lo ricorda fra gli artefici attivi nella reggia e risultano suoi lavori per il Monastero del Crocifisso e nella Chiesa dell’Annunziata, qui sotto la direzione dell’architetto Bernardo Vittone. Il suo nome compare più volte nei

6 Molti documenti citati in Antonetto 2002. Più recentemente Dardanello 2016 pp. 123, 124, 126, 128, 130, 142.7 Schede Vesme, IV, p. 1697.

Figg. 6-8. Simboli della caducità umana in piccoli tasselli intarsiati nei dossali.

Fig. 9. La Crocifissione nel fastigio del coro. Foto di Giuseppe Dell’Aquila.

Fig. 10. Francesco Valesio, «Crocifissione di Cristo con la Madonna, san Giovanni

Evangelista e la Maddalena», incisione 292 x 427 mm. Bergamo, Accademia Carrara, Gabinetto Disegni e Stampe.

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documenti dell’Università dei Minusieri, anche per cariche importanti come quelle di sindaco e di deputato.Due altri artigiani collaborarono al lavoro e vollero lasciare memoria di sé in posizione debitamente subordinata, firmandosi sul dorso di uno degli stalli. Pietro Gnema di Varallo Sesia incise il suo nome a scalpello, accompagnandolo con un rustico monogramma. Giovanni Domenico Bertero tracciò la sua firma ad inchiostro, dichiarandosi «lavorante minusiere». Di entrambi abbiamo qualche notizia dai Registri dell’Università dei Minusieri e dalle carte del Consolato del Commercio.

La destinazioneA quale convento era destinato il coro? La presenza fisica dell’arredo sacro e il suo restauro permettono ricerche in condizioni ben diverse di quelle condotte a suo tempo dallo scrivente, prevalentemente sulla base di una documentazione fotografica modesta. Due ipotesi sono da vagliare e approfondire, o magari da accantonare a favore di scoperte probanti.Prima ipotesi, da me avanzata dubitativamente nel 2002 e che ora mi sembra acquistare maggior credito, è che si tratti di un coro certosino. Nella formella inferiore del dossale 15 (a sinistra del vano-porta) appare la rappresentazione dello scheletro in meditazione, tratta dal De humani corporis Fabrica libri septem pubblicato nel 1542 da Andrea Vesalius (1514-1564) (fig. 14), ripreso oltre un secolo dopo nelle Notomie di Titiano di Domenico Maria Bonavera (1653-1731). Nella trasposizione di Prinotto lo scheletro non poggia la mano su un

teschio come nell’incisione (figg. 15-16), ma su un globo sormontato da croce, e questo è l’emblema dell’Ordine dei Certosini (fig. 17), anche se privo delle sette stelle che lo caratterizzano (fig. 18).Le sette stelle si trovano però a corona delle croci intarsiate ventidue volte sul piano inclinato dei leggii. Sono in lamina di ottone, appena visibili a causa dell’ossidazione, disposte a semicerchio intorno ai Crocifissi, esattamente come nello stemma certosino8.I rapporti di Prinotto con i Certosini sono noti: l’ebanista aveva contributo quattro anni prima, nel 1736, all’arredo della Certosa di Pesio con un importante cassettone, firmato e datato, in cui è istoriata la nascita dell’Ordine ad opera di San Bruno (presente in mostra, cfr. scheda ??? (Antonetto), pp. ???), e con un’altra scrivania a ribalta avente lo stesso tema, in collezione privata, da me resa nota nel 20109. In quest’ultima e nel coro ricorrono due raffigurazioni identiche. Una è la «Bontà» simboleggiata dal pellicano che nutre i piccoli con il suo sangue, poggiante su nuvole e avente a lato due angioletti (figg. 19-20).L’altra è la «Temperanza», lacunosa nel coro ma ben leggibile nella scrivania (figg. 21-22).Le consonanze non finiscono qui. Tra le altre: la radica di fondo è la stessa nella scrivania e nel coro, e il festone a sei lambelli terminanti in una piccola nappa ricorre identico in entrambi.

8 Le stelle di Prinotto hanno sei punte, quelle dello stemma certosino cinque, ma la differenza non è rilevante.9 Antonetto 2010, I, pp. 118-119.

Fig. 11. Palma il Giovane (Jacopo Negretti, Venezia 1548/1550-1628), «Crocifissione con la Madonna, san

Giovanni Evangelista, la Maddalena e sant’Antonio da Padova», 1599. Potenza Picena (Macerata), chiesa del convento di Sant’Antonio da Padova dei Frati

Minori, altare del Crocifisso.

Figg. 12-13. Particolari dei magistrali intagli di Giuseppe Marocco. Foto Giuseppe Dell’Aquila.

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L’assenza di simboli reali nel coro rende problematico pensare alla Certosa di Collegno, la più importante del Piemonte, «figlia primogenita frà tutti li monasteri di Real Fondazione», dove pure esiste uno spazio con le stesse misure del coro. Corrisponde alla maggiore delle due sezioni in cui è suddivisa la Cappella dell’Annunziata, spogliata in epoca francese e ridotta «alle nuda quattro mura»10.Seconda ipotesi, che si tratti invece di un coro per i Cappuccini. Si basa sull’origine dell’immagine dominante nell’apparato eburneo del coro, la Crocifissione con la Maddalena.Il dipinto di Palma il giovane da cui è derivata si trova in un convento cappuccino. Per il convento cappuccino di San Maurizio a Sospel Prinotto realizzò il tabernacolo, forse il più ispirato fra quanti ne uscirono dalla sua bottega11, e nell’antina superiore di questo tempietto è raffigurata una ascesa della Croce praticamente uguale a quella che troviamo nel dossale 15 del coro12 (figg. 23-24).C’è tuttavia una importante considerazione in senso contrario. Il Valesio, trasponendo in lastra il quadro di Palma il giovane, ha soppresso la figura di Sant’Antonio: ha quindi svincolato il soggetto della Crocifissione dal collegamento ai Frati Minori Cappuccini, rendendolo buono per chiunque, quindi anche - in ipotesi - per i Certosini. Resta da spiegare come fosse giunta a Prinotto la stampa, che presumibilmente non aveva circolazione corrente in Piemonte: dobbiamo abituarci all’idea che anche Prinotto, finora sempre e quasi esclusivamente collegato a Pietro Domenico Olivero sul piano iconografico, avesse livello culturale e collegamenti assai più alti e ampi nel formare la dotazione di repertori della bottega.

Un’ultima considerazione. Il tema della Vanitas con lo scheletro in meditazione e il teschio nei dossali concordano bensì con la spiritualità dei Cappuccini, della quale fa parte una larga e spettacolare rappresentazione della morte, ma sono pertinenti anche per i Certosini. È naturale domandarsi a questo punto se dietro i tre artisti del legno non vi sia un architetto al quale far risalire la concezione dell’opera. Una influenza artistica di grande rilievo è evidente (Bernardo Vittone?): nell’insieme e nei particolari il coro si presenta come un’opera geniale, in cui l’invenzione architettonica non è assolutamente seconda alla magnificenza decorativa. Tuttavia, come molto spesso accade per opere di minusieria ed ebanisteria, non è stato possibile risalire ad un documento che comprovi una paternità diretta.

10 De Leonardis 1998.11 Antonetto 2010, I, p. 89 sg., 110 sg.12 È da notare che la stessa ascesa della croce si trova anche nell’importante scrivania con scansia di Prinotto, di provenienza ignota, presente in mostra (cfr. scheda (Antonetto), p ???).

Fig.14. Andrea Vesalius (1514-1564), «Scheletro in meditazione», da De humani corporis Fabrica libri septem, Basilea 1543.

Figg. 15-16. Lo scheletro in meditazione intarsiato nel coro poggia la mano su un globo sovrastato da croce.

Fig 17. Il simbolo dell’Ordine dei Certosini. Fig. 18. Le sette stelle dello stemma certosino sui leggii del coro.

La storiaLa storia del coro ha aspetti romanzeschi: sparito nel nulla all’inizio dell’Ottocento, non se ne ebbe più notizia per due secoli, fino a che non fu pubblicato dall’autore di queste note nel 200213. Eccone in sintesi le vicende.Nel 1840 un ricco e colto gentiluomo irlandese, Edward Joshua Cooper, si imbatté a Nizza in uno stallo di coro splendidamente intarsiato e intagliato. Riuscì a reperire il resto dell’opera: era nascosto in una cantina e secondo alcune voci raccolte proveniva dalla chiesa di un convento del Piemonte sottoposto agli smantellamenti dei beni degli Ordini religiosi da parte del governo francese. Cooper riuscì a scovare l’intera opera e la spedì via mare nel suo castello di Markree presso Sligo, sulla costa nord occidentale dell’Irlanda, non lontano dalle selvagge scogliere della baia di Donegal. Fino alla morte del castellano, avvenuta nel 1863, si celebrò messa

13 Antonetto 2002.

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davanti al coro arrivato da tanto lontano. Edward Cooper era un personaggio dai molteplici interessi, sorretti da un adeguato patrimonio. Dopo aver viaggiato per dieci anni in mezzo mondo, si era ritrovato nel 1830 alla guida dell’avito castello e la sua prima cura era stata di installarvi un osservatorio, da astronomo qual era, dilettante ma ad un livello scientifico di tutto rispetto. Il sofisticato telescopio di Markree divenne famoso in una notte dell’aprile 1848, allorché scoprì un nuovo asteroide, che fu battezzato Metis. Cooper compilò fra l’altro un catalogo con le posizioni di migliaia di stelle e pubblicò nel 1851 un volume con le sue osservazioni. Per di più era un appassionato d’arte, e d’arte italiana in particolare, tanto che nel 1845 chiamò artigiani dalla Penisola a decorare il castello.La successiva notizia certa che abbiamo sul coro ci porta ad una ottantina di chilometri a sud di Markree, nella antica cittadina di Tuam. Il 15 novembre 1882 nella gotica chiesa di St. Mary fu presentato ai fedeli un eccezionale dono appena ricevuto dalle signorine Cooper, discendenti di Edward: il coro di Markree, «così bello - disse il vescovo - che non poteva nascere se non in Italia». Nella cattedrale rimase per oltre un secolo, fino a che l’antiquario romano Fabrizio Apolloni lo ritrovò e riuscì ad acquistarlo. Negli ultimi anni il capolavoro, smontato e riposto in cassoni, è rimasto in un deposito a Londra, finché il figlio dell’antiquario, Marco Fabio, lo ha riportato in patria in funzione della mostra alla Venaria e si è fatto carico del restauro.

[roberto antonetto]

Bibliografia: Schede Vesme 1982; Spantigati 1988, p. 128; Antonetto 1994; De Leonardis 1998; Antonetto 2002; Id. 1996; Dardanello 2005; Antonetto 2010; Dardanello 2016.

Figg. 19-20. Allegoria della Bontà nel coro di Prinotto e in una scrivania in collezione privata, di documentata provenienzadalla Certosa di Pesio.

Figg. 23-24. Sportello del tabernacolo proveniente dal convento dei Cappuccini di Sospel (Alpi Marittime)ora nella cattedrale di San Michele, a confronto con la stessa raffigurazione nel coro.

Figg. 21-22. Allegoria della Temperanza (lacunosa) nel coro di Prinotto e la stessa, completa, nella scrivania della Certosa.

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Il fotografo di opere d’arte normalmente è chiamato a produrre poche immagini per schede e/o per pubblicazioni.Raramente accade che abbia carta bianca, divenendo il committente di sé stesso. Questo è accaduto per volontà e fiducia del committente, per la campagna fotografica del coro del Prinotto esposto in mostra. Il fotografo, insieme con lo studioso del coro e i fotografi del Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, è stato dapprima un reporter dell’imponente cantiere di restauro, del processo laborioso e complesso durato quattro mesi che ha consentito la sua conservazione e restituzione.È stato così attuato un percorso articolato e complesso per immagini, in parte programmabile, più spesso scoprendo in ripresa, possibilità nuove consentite da un’adeguata illuminazione.Luce, punto di vista, taglio sono gli ingredienti necessari a dare corpo e giusto carattere a una veduta d’insieme come di un particolare.Tradurre, nel senso di trasportare da una realtà ad un’altra ciò che percepiamo con gli occhi, proprio perché usiamo a nostra volta altre immagini per riproporla, rischia di essere fuorviante, con il pericolo di tradire spesso ciò che crediamo di aver fedelmente riprodotto in fotografia.Nel caso del coro, trattandosi cioè di un oggetto che domina l’ambiente, con valenze architettoniche, scultoree e «pittoriche», ricco di decori polimaterici, l’attenzione al punto di vista e l’attesa di condizioni di luce, è stata la guida alle riprese. L’opera, collocata nel suo ambiente di origine, nella parte absidale dell’edificio religioso,

Il Coro di Luigi Prinotto: come fotografarlo e guardarlogiusePPe DeLL’aquiLa

riceve normalmente l’illuminazione dalle aperture praticate proprio al di sopra, che mettono in luce la visione «strutturale», e dall’aula ecclesiale, morbida e diffusa, che potremmo definire «di riempimento».Questi dati naturali erano ben noti e conosciuti dagli artisti, che sfruttavano con genio e maestria le caratteristiche e il mutare della luce naturale nell’ambiente di giorno, e di luce «artificiale» - candele - di notte.Soprattutto in taluni momenti della giornata la luce dall’alto, subito sopra il coro, evidenzia i caratteri plastici, mentre l’altra proveniente frontalmente ad esso, proprio per il suo carattere diffusivo, riempie le parti in ombra rendendole leggibili. Entrambe le sorgenti di luce proprio perché provenienti dall’alto, non producono riflessi sui dossali che così possono esibire al meglio i loro delicati intarsi e decori.Queste linee hanno guidato le scelte di ripresa adattate all’interno del laboratorio in cui i restauratori stavano lavorando sull’opera.Per quanto riguarda il punto di vista, elemento prioritario è stata sia la scelta dell’altezza che della distanza da cui osservare e posizionare la fotocamera.Il punto di vista da «in piedi», che anche i certosini-monaci (cui il coro era destinato) erano costretti a praticare, alleviati e sorretti nei loro stalli dalla «misericordia», rappresenta la scelta di base per la visione dell’opera. L’immagine del coro nel suo complesso, è impostato sul punto di vista panoramico. La scelta di un moderato grandangolo ha consentito di evitare immagini esasperate prospetticamente nei primi piani con i primi stalli svasati verso l’esterno e le sommità e le estremità fortemente deformate a botte.La posizione scelta per la ripresa è quella che presumibilmente corrispondeva al retro dell’altare (fig. 1). Per la veduta frontale di un emiciclo del coro, è stato scelto il punto di vista del religioso in piedi, nello stallo posto in posizione.Per la visione dall’esterno dell’emiciclo, mirata all’interno, è stato scelto il punto di vista ad altezza d’uomo più vicina e centrale rispetto al perimetro esterno.Per le vedute ravvicinate è stata utilizzata la luce dall’alto per le parti scolpite come i braccioli, è stata utilizzata ancora la luce dall’alto e un punto di vista all’altezza mediana per i particolari.Infine per la parte più propriamente scultorea, quella degli angioletti a coronamento del coro, è stata utilizzata sempre la luce dall’alto e il punto di vista di un osservatore che si muove random nell’ambiente, e quindi dal basso.

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