expo 2015 - pane patate e tradizioni protagoniste al future food district coop

161
Pane, patate e tradizione 20 giugno 2015 16.45 - 17.45 Aula del futuro Future Food District

Upload: samuel-piana

Post on 11-Aug-2015

141 views

Category:

Presentations & Public Speaking


1 download

TRANSCRIPT

Pane, patate e tradizione

20 giugno 2015 16.45 - 17.45

Aula del futuro Future Food District

Ordine interventi

Claudia Bersani, Area politiche sociali di Novacoop

prof. Battista Saiu, curatore Museo dell’uomo di Ginevra - La ritualità del pane ieri e oggi

dott. Luca Ciurleo, antropologo culturale - Pani tipici e patate ossolane

Ordine interventi

Anna Maria Francini - azienda agricola Francini, Druogno - La reintroduzione della patata di montagna in Ossola

Dott. Samuel Piana, agenzia di web marketing territoriale Landexplorer - Turismo enogastronomico

Giuseppe Possa, critico d’arte, curatore del blog PQlascintilla - La tradizione artistica vigezzina

Claudia BersaniArea Politiche sociali Novacoop

Il paneprof. Battista Saiu

Si dice che la Sardegna ha un «cuore di pane»: l’isola è divenuta celebre ben al di là delle frontiere italiane

poiché ancor oggi le donne utilizzano per ogni tipo di pane una farina

particolare, una tecnica di lavorazione diversa ed una attenzione particolare in ogni istante della lavorazione.

La produzione ed il consumo del pane segnano fisicamente e simbolicamente il passare del tempo.

Il solo scambio di questo alimento cementa l’alleanza fra i vivi ed i morti.

Per gli sponsali, la celebrazione di una prima messa, in onore di un santo particolarmente venerato o in ricorrenze eccezionali, in tutta la Sardegna, vengono realizzati pani artistici, rituali, cerimoniali e votivi. Numerosissime le forme, peculiari di una vita che riversa in esse la fantasia di un intero popolo: plasmato da mani sapienti, il pane si trasforma in corone, rami, cestini, fiori, foglie, uccelli; simboli di antica e nuova religiosità, ereditata e tramandata attraverso l’oralità, il gesto e la parola.

Per i Sardi, il pane e l'arte della panificazione sono gli archivi, il tesoro della loro scienza e

della loro religione, della loro teogonia (la narrazione mitologica

dell'origine degli dèi e della loro discendenza) e della loro cosmologia (la scienza che ricerca e studia le leggi costitutive dell'universo), dei fatti

antichi dei loro padri e degli eventi della loro storia, la eco del loro cuore, l'immagine della

vita domestica nella gioia e nel dolore, accanto al letto nuziale ed alla tomba.

In questi giorni, la Regione Autonoma della Sardegna si

candida al riconoscimento UNESCO del pane tipico isolano,

forte di uno studio europeo che assegna all’Isola l’80% dei pani tipici italiani.

Pane dei morti Pane de sas animas

Orani (Nuoro)

Il culto dei morti in Sardegna è corredato di pani propri. Diversi quelli preparati in occasione della ricorrenza dei defunti e

nell’immediatezza della morte, tutti genericamente detti pane de sas animas, pane delle anime; fatti di semola, hanno forma ovale o rotonda, di focaccia, o

pasta dura. Ad Orani (Nuoro), quando il morto è ancora caldo, osteso in casa, le forme del

pane sono spianate, decorate con tre piccoli smerli equidistanti lungo la circonferenza.

Prima di dargli la forma, la massaia si fa il segno della croce sussurrando preghiere e invocazioni, modella la pasta soltanto con le mani, senza l’uso di

attrezzi metallici, incidendo con le unghie, conchiglie o steli di paglia. Dopo la cottura è il primo pane ad essere offerto ai poveri,

est su primu chi ch’essit, è il primo che esce (di casa). Se ne distribuisce uno a più famiglie povere; a volte, la distribuzione dura un

anno e spesso si protrae oltre nel tempo. Si dice che se qualche persona dimentica di prepararlo, non adempie al voto,

allora i morti appaiono, ritornano in sogno per chiedere quanto dovuto.

Ad Orani, Ottana, Sarule, Orgosolo ed altre località del Centro-Nord della Sardegna, si producono specialissimi pani distribuiti dai parenti del

defunto prima del funerale, nella trigesima e nell’anniversario della morte;

in alcuni casi, la distribuzione avviene in altri tempi, dopo aver sognato il trapassato che chiede di riconciliarsi con i vivi coi

quali aveva avuto dissapori. “Nel caso di morto ammazzato, tutti i forni del paese vengono accesi,

compreso quello del parroco. Anche quello di chi normalmente non panifica, deve essere attivato

gettando, dopo averlo mondato dalla brace, un pugno di farina nel forno caldo in modo da far sentire l’odore di pane, indicando a chi deve di

panificare, di compiere il dovere dovuto al morto, per la pace nell’aldilà e la riconciliazione nell’aldiqua”.[1]

[1] Testimonianza di Gonario Manconi di Orani, raccolta a Biella in occasione della mostra del Pane (1999).

Anche in questi casi, la consegna de su pane de sas animas

è fatta al calar delle tenebre, da persone imbacuccate per non essere riconosciute.

Generalmente vengono consegnati tre pani. A volte, su pane de sas animas può assumere forme elaborate;

altre ancora, mancando il tempo per panificare, il pane ricevuto può essere spezzato in due o più parti per essere

offerto al nemico con il quale si deve fare pace. Chi riceve il pane non sa chi sia l’offerente che vuole riconciliarsi

con lui. Dal gesto, sa solo che è un nemico che vuole riappacificarsi nel

nome del morto, invitandolo a far pace, a sua volta, con i suoi nemici.

In queste località, quando in paese c’è il morto in casa,

bisogna lasciare la porta socchiusa e se, alla sera, si sente bussare, si è certi che chi batte alla porta può essere un

nemico che vuole e deve riconciliarsi attraverso su pane de anima,

per lasciare andare il morto in pace: invito potente alla riconciliazione, alla ricomposizione sociale.

Sas animas, le anime, sono un altro tipo di spianata preparata ad Orani (Nuoro), per la tavola dei morti, caratterizzate da due tagli ortogonali diametralmente opposti, fatti a rotella sulla pasta cruda, destinate ad essere frazionate come offerta alla

questua del 2 novembre. In questa occasione vengono anche realizzati pani a forma di testa di

bovide, con corna all’ingiù: sono sas corroncias, le corna, il pane per la tavola dei morti di Pozzomaggiore,

simili ad altri pane de animas, realizzati a Borore (Nuoro) e a Quartucciu (Cagliari), riproducenti le figure zoomorfe

presenti in certi menhir, le pietre fitte della Sardegna centrale e sulle pareti delle “domus de janas”, sepolcri scavati nella roccia,

diffusi a migliaia in tutta l’Isola, risalenti al V-IV millennio a.C., in cui sono spesso scolpite protomi taurine e cervine, diritte e capovolte.

A Sindia (Nuoro), il pane della tavola dei morti

è detto cuccuru mortu, la testa da morto;

forrotula, focaccia con buco centrale, a Bonorva (Sassari); arenadeddas, melegrane, a

Quartucciu (Cagliari); covazza de ria, focaccia

allungata, a Tresnuraghes (Oristano),

in alcuni casi donati ancora come “assolta”, obolo, a parenti ed amici, ai poveri e ai bambini

questuanti nel Giorno della commemorazione dei defunti.

Pane nuziale Pane de s’affidu

A Nuoro, presso il “Museo della vita e delle Tradizioni popolari Sarde”, sono custoditi pani

raccolti negli anni Sessanta del Novecento dalla Cattedra di

Storia delle Tradizioni popolari della Facoltà di Lettere e

Filosofia di Cagliari. Realizzati con le migliori farine,

i pani nuziali e quelli del fidanzamento

che precede le nozze, allora come oggi,

dovevano uscire dal forno ancora bianchi

A Lodè, è presente su mandatiu, ‘ciò che bisogna portare’,

realizzato in occasione del fidanzamento, portato dalla futura sposa al padrino e alla madrina.

Tre sono i pani, realizzati per su mandatiu, detti sas tres Marias, le tre Marie;

diversa la foggia a seconda del destinatario: smerlato, quasi raggiato come un piccolo sole,

con uno o più fori al centro del pane, per il padrino; senza fori e con frastagliature più piccole, quasi una luna piena, per la

madrina. Il terzo per il paraninfo o per chi ha favorito il matrimonio.

A Pozzomaggiore, il matrimonio tradizionale avviene ancora entro le mura domestiche con la madre, la parente anziana o la madrina, se la promessa

sposa è orfana,[1] per il rito del grano. Sulla soglia della casa paterna,

“su un inginocchiatoio formato da cuscini con federe bianche si inginocchia lo sposo o la sposa con gli occhi rivolti verso il mare più vicino.

Davanti si colloca la madre sacerdotessa che, mentre pronuncia la formula augurale, lascia cadere lentamente sul capo della fanciulla, segnando una o

più croci, manciate di grano miste a fiori.” [1] Enzo Espa, Benedizioni nuziali sarde dei parlanti la lingua sarda-logudorese, Presso l’Istituto di Filosofia, Università degli Studi di Sassari, Memorie del seminario di Storia

della Filosofia della Facoltà di Magistero, 3, Sassari 1977, p. 24, a Sorso (Sassari), se la sposa è orfana, il rituale vuole che si aggiungano dei versi che chiamino alla presenza i

genitori trapassati, p. es.: “babbu tou da inue est”.

A Romana (Sassari), la ragazza, al momento dell’augurio,

cinge il suo capo con sa còtzula, una focaccia di semola, che poi spezza e spartisce tra i commensali.[1]

Analoghe corone, su pane de isposos, il pane degli sposi, si riscontrano in altre località, quali Cheremule (Sassari),

Olmedo (Sassari), Villagrande Strisaili (Ogliastra). [1] Enzo Espa, Benedizioni nuziali sarde dei parlanti la lingua sarda-logudorese, presso l’Istituto di Filosofia, Università degli Studi di Sassari, Memorie del seminario di Storia della Filosofia della Facoltà di Magistero, 3, Sassari 1977, p.13.

A Pozzomaggiore (Sassari), le corone vengono portate in testa da ragazze impuberi, in coppia, presso la soglia della casa degli

sposi, in piedi su una sedia. Gettano il grano sugli invitati che escono dalla porta spalancata,

poi, il piatto viene gettato a terra con forza, ridotto in frantumi davanti ai piedi del festeggiato.

Lungo il percorso verso la chiesa, il gesto, accompagnato da formule bene augurali, viene ripetuto dalle donne del vicinato, che si sporgono a benedire, ripetendo il fragoroso atto delle stoviglie

rotte. Lo spaccare il piatto, oltre che all’offerta irripetibile, rimanda alla rottura simbolica dell’imene che, di lì a poco, deve avvenire sul

talamo nuziale.

Pani che, portati in testa, nella simbologia del matrimonio,

ereditano e tramandano segni di fertilità ed abbondanza risalenti ai culti di antiche divinità:

il capo cinto da un cercine di fronde verdi o di un semplice nastro o corda era distintivo

della disponibilità alla ìerodulia, la copula sacra nei culti babilonesi, fenici e punici, al servizio di Astarte.

Erodoto e Strabone ci riferiscono di antiche usanze che dovevano precedere le nozze:[1]

“una legge babilonese, dettata da un oracolo, obbligava tutte le donne, nate nel paese, a presentarsi una volta nella loro vita al tempio di Venere ed

abbandonarsi agli amplessi di uno straniero. A Heliopoli le donne si prostituivano in onore di Venere.

Facevano lo stesso in Lidia pria del matrimonio. In Cipro, pria di celebrare l’unione matrimoniale, le promesse spose andavano

il giorno indicato sulle rive del mare ad offrire il sacrificio della loro verginità prostituendosi”.

Altre donne ricche si facevano portare, in carri coperti, nel recinto sacro che circondava il tempio di Militta.

“Militta non è d’essa, d’altro canto, la dea di tutti i popoli, la suprema generatrice? Perciò Erodoto la chiama Venere.

[1] Fabio Mora, Religione e Religioni nelle storie di Erodoto, Edizioni Universitarie Jaca, Milano 1985, p. 240. Erodoto, 1,55, Strabone, I, 199 XVI, riportato da Melchiorre Gioja,

Filosofia della statistica, presso Giovanni Pirotta, Milano 1826, p. 282 – cfr. anche Ferrara Pignatelli 1991, p. 94

Pane nuziale lucidato/scottato

de iscadda/ischedda

Pani a forma di corona o diadema, con nomi diversi a seconda delle zone, sono presenti in moltissimi matrimoni sardi.

L’uso di incoronare, come eredità del mondo antico, si manifesta attraverso rituali che segnano momenti importanti della vita, oppure feste

o semplici banchetti. In passato, diversi elementi potevano essere usati per cingere il capo:

serti di alloro, di ulivo o mirto, per i maschi; ghirlande di fiori, particolarmente rose, per le fanciulle; fiori d’arancio nel caso delle spose

saracene per i Cristiani, il fiore d’arancio nelle ghirlande nuziali significa purezza, castità e verginità; nel mondo greco, è un emblema di Diana, perché le

arance erano ritenute le mele d’oro delle Esperidi.

Una cascata di fiori d’arancio caratterizza su pane de s'affidu di Pozzomaggiore, dove sono presenti anche altri elementi, tra cui piccole calle, fiori della famiglia delle Araceæ, con lo spadice eretto, ben evidente;[1] sas

melas, melegrane; alcune pigne, rappresentazione dell’esaltazione della potenza vitale e glorificazione della fecondità, rappresentazione dell’eterno

ritorno della vegetazione e, in generale, della vita; due paia uccelli, immagine plastica rafforzata della futura coppia accanto al nido in cui procreare.

[1] La calla, nelle sue molte varietà coltivate e selvatiche, è presente in Europa, Africa Settentrionale ed Asia Occidentale. Conosciuto da Egizi, Ebrei e Greci come “fuoco, calore”. Il nome scientifico deriva dalla particolare caratteristica catabolica, consistente nella maggiore temperatura - da 5°C a 15°C - che si registra all’interno dell’infiorescenza, grazie alla forma paraboloide, sempre rivolta a Sud, che favorisce la concentrazione dei raggi solari lungo l’asta dello spadice. La pianta, utilizzata in medicina popolare per curare reumatismi e far ricrescere i capelli, è velenosa in ogni sua parte. Con la cottura perde parte del suo potere venefico: resi commestibili, i rizomi venivano mangiati. L’Arum viene ancora utilizzato a Pozzomaggiore (SS) per preparare sas cogones de berdas, focacce dolci di ciccioli: la pasta, edulcorata con uvetta, viene distesa su foglie di tataruju, cavolo o calla prima di essere infornata. L’impiego, già citato da Aristotele, colloca sas cogones de berdas nell’universo folclorico europeo, caratterizzato, nei riti di inizio anno, dallo scambio materiale-immateriale di dono-controdono: antiche cerimonie di rinascita e propiziazione di salute e abbondanza. Nell’abbigliamento tradizionale, sebbene un po’ irritanti per la pelle, rizomi di Arum ridotti in polvere e mescolati a farina erano impiegati per inamidare gli indumenti.

Sempre a Pozzomaggiore, il pane nuziale che viene posto sulla tavola dei commensali è detto de iscadda, lucidato o de ischedda, scottato. A seconda del variare della lettera ‘a’ in ‘e’, si rimanda a diversa esegesi.[1] Entrambe le accezioni contemplano la tecnica dell’esposizione del pane a metà cottura al vapore acqueo per essere nuovamente infornato, ottenendo una superficie lucidata.[2] [1] Salvatore Dedola, Pani della Sardegna, cit., pp. 267-268: “Letteralmente significa ‘pane con forfora’, dal logudorese scatta, iscadda ‘forfora’. L’etimologia riposerebbe nell’assiro ‘sikkatu(m), ‘unghia, tassello, picchetto, spina’. Ischeddare significa ‘rimanere scottato, scaltrirsi dall’esempio altrui, apprendere a spese altrui, con la differenza che nel lemma relativo al pane is- non è privativo ma rafforzativo: is- + accadico ‘hadû(m) ‘essere gioioso, Rallegrarsi (di un’azione): come dire ‘rafforzare un’azione gioiosa’. [2] Paolo Piquereddu (coordinamento), Pani, tradizioni e prospettive della panificazione in Sardegna, Ilisso, Nuoro 2005, p. 207, sono riprodotte immagini di pani provenienti da Lodè, Bonorva, Thiesi e Chiaramonti,

Con su pane de iscadda si indica il pane lucidato, alquanto piatto, generalmente rotondo, modellato per occasioni

festive importanti come Pasqua e matrimonio. Le forme circolari, diffusissime, possono essere più o meno frastagliate, se indicano il sole; in questo particolare caso,

oltre a raggi, sono presenti intagli; se rappresentano la luna, la circonferenza risulta più lineare, liscia, omogenea, con pochi semplici festoni di dimensioni ridotte, il centro

liscio, a volte con qualche timbratura per evitare che il pane si gonfi, ma senza decorazioni con pasta riportata.

“Nella maggior parte delle tradizioni il Sole è il Padre universale e la Luna la Madre.

Il sole e la pioggia sono le primarie forze fertilizzanti, di conseguenza lo sposo è il sole e la sposa è la luna, il Padre è

il Cielo e la Madre è la Terra. Il sole e la luna, assieme, rappresentano il potere maschile e

quello femminile in congiunzione. Simboli del sole sono la ruota, il disco, il cerchio ruotanti con un punto centrale, il cerchio radiante, la svastica, i raggi sia diritti sia ondulati che rappresentano la luce e il calore del

sole.”

Nel mondo contadino, la migliore annata agraria si ha quando i calendari lunare e solare coincidono e si sovrappongono all’equinozio di primavera. Avviene, allora, il matrimonio del Sole con la Luna, con il primo che entra

nella costellazione dell’Ariete, mentre la Luna piena, “fecondata”, ne riflette i raggi luminosi.[1]

A Thiesi (Sassari), viene fatto su poddine, a forma di mezzaluna, una spianata preparata con sa podda, fior di farina, martellata in superficie con la punta delle dita per far sì che, durante la cottura, lo strato superiore si

separi da quello inferiore. Tagliato con la rotella in due mezze lune dal bordo ondulato, veniva

donato dagli sposi ai convenuti, che lo portavano a casa in segno bene augurale.[2]

[1] Battista Saiu Pinna, Il vestito della Luna, Sinnos n. 2, Biella 2008, p. 18. Secondo i dettami del Concilio di Nicea (325), la Pasqua cristiana, non deve mai coincidere con quella degli Ebrei e cadere la domenica successiva al formarsi della prima Luna piena dell’equinozio di primavera, computata non con il sistema giudaico in modo che non

possa mai essere anticipata all’equinozio. A Pasqua il simulacro nero della Mater dolorosa, nella catarsi del lutto, diventa la Turris eburnea che si illumina di luce con la

resurrezione di Gesù. [2] Pani. Tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna. Iisso Edizioni,

Nuoro 2005, pp. 155 e 157

A Chiaramonti (Sassari), su pane ischeddadu, assume lungo la circonferenza motivo a testina di uccello, animale simbolo universale del rapporto tra cielo e terra, messaggero degli dèi, tra ciò che sta in alto e

l’uomo, che sta in basso sulla terra. Oltre alla vasta gamma tondeggiante, il pane festivo diventa fronda, mannello di spighe,[3] fascio di fiori, come nei pani portati in chiesa all’offertorio in occasione di alcune feste, a Terralba e a Villaurbana.

Particolarmente raffinati i cosiddetti su coccoi pintau, a Villaurbana e a Tramatza; coccoi e pane de isposos, a Dorgali, a Settimo San Pietro e a

Paulilatino. Universalmente diffusa la forma a cuore, utilizzata in più occasioni.

Molto particolari i pani a forma di borsetta presenti a Ossi (Sassari), a Orune (Nuoro), a Urzulei (Ogliastra), a Bitti (Nuoro), a Lodè (Nuoro), a

Quartu Sant’Elena (Cagliari), a Borore, a Sedilo, a Noragugume (Nuoro) e a Busachi.

A Pozzomaggiore, borse, borsette e cestini, rigorosamente fatti in iscadda, di aspetto diverso a seconda della maestria delle panificatrici, rimandano al “potere femminile di contenere e luogo di conservazione,

quindi vita e salute; preservare quel che è prezioso o ritenuto tale”. In iscadda si fanno cuori, colombe, rondini e cavallini, a

Pozzomaggiore, ed in altre località del circondario; Pozzomaggiore, inoltre, condivide con Bonorva un particolare tipo di pane a forma di scarpetta muliebre, immancabilmente presente sul desco nuziale.

Con il suo significato ambivalente, la scarpa denota “libertà poiché lo schiavo andava a piedi scalzi; anche controllo, poiché il controllo delle scarpe equivale al controllo della persona; quindi detenere la scarpa

della sposa, stabilisce il possesso di quest’ultima da parte dello sposo”.

Ad Atzara, è in vigore l’usanza di donare un paio di scarpe nuove al paraninfo, il mediatore che favorisce il matrimonio.[1]

Si tratta di una consuetudine che trova riscontro nella Bibbia, nel libro di Rut, là dove si afferma che ”una volta in Israele esisteva questa vecchia usanza relativa al diritto di riscatto o della permuta, per convalidare ogni atto: uno si toglieva il sandalo e lo dava all’altro; era questo il modo di

attestare in Israele”.[2] Il ruolo della calzatura passa dal possesso della terra, al possesso, anche in senso copulativo, della futura sposa: “Quando acquisterai il campo dalla mano di Noemi, nell’atto stesso tu acquisterai anche Rut, la Maobita”.[3]

[1] Testimonianza di Domenico Corongiu e Maria Giuseppa Serra, nati nel 1946 ad

Atzara (Nuoro), sposi nell’ottobre 1968 a Genova, grazie dal sensale Antonio De Melas, detto - presagio nel nome - “Pilleddu”, nomina sunt omina.

[2] La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma 1974, Rut 4,7,. p. 229. [3] La Sacra Bibbia, ibidem, Rut 4,5,. p. 229.

Claudio Eliano, rètore romano del III secolo, autore di un’opera in greco (Sulla natura degli animali), racconta di un’aquila che rubò un sandalo a Rodope, mentre faceva il bagno, per portarlo al faraone che, colpito dalla

finezza del piede, fece ricercare la giovane, che ritrovata, diventò sua sposa. Alle vicende della giovane si sarebbe ispirato Charles Perrault per scrivere la

fiaba di Cenerentola, in cui, come nell’antico racconto, comporta una identificazione della scarpa con la persona.

Nelle canzoni alpine di veglia, la ragazza da corteggiare viene identificata con le scarpette, generalmente di colore rosso.

Analogamente, in Sardegna, “s’iscarpitta de comare, andat bene a su pe meu”, la scarpina di comare, va bene al mio piede.[1]

“Alcuni interpreti fanno di questo simbolo di identificazione un simbolo sessuale, o quantomeno del desiderio sessuale risvegliato dal piede. Coloro che considerano il piede come un simbolo fallico vedranno facilmente nella

calzatura un simbolo vaginale e, fra i due, un problema di adattamento capace di generare angoscia”.

[1] “Tumba su ballu per deu/Tumbalu e lassalu andare/S'iscarpitta de comare/Anda bene a su pe' meu/Dìlliri di dìlliri di dèlla/Dìghirirì di dilliri di della liròi, Cerca il ballo per dio/Cercalo e lascialo andare/La scarpetta di comare/Va bene al piede mio/Dìlliri di dìlliri di dèlla/Dìghirirì di dilliri di della liròi”i.

I piedi non stanno mai fermi, difficilmente comodi nelle scarpe,

mossi da eterna inquietudine, alla ricerca di stabilità;

sono base e appoggio alla terra, alla materia, alla Mater, la Madre-terra, generatrice e custode di tutte le cose.

Oggi, la “materia” rimane un concetto arido, disumano puramente intellettuale, privo per noi di qualunque significato psichico.

Quanto diversa era l’antica immagine della materia - la Grande Madre -, capace di abbracciare e di esprimere il profondo significato emotivo della

Madre Terra!” [1] [1] Carl Gustav Jung, l’uomo e i suoi simboli, Tea, Milano 2005, p. 76.

Pani tipici e patate ossolane

dott. Luca Ciurleo

I pani tradizionali ossolaniDal Credenzin al Pan ad Pasquetta

I “pani di credenza”

• Credenzin, crescenzin, carsantin, pupin, crescianzin o anche crescenza

• Si tratta degli avanzi della panificazione arricchiti con gli “avanzi di credenza”

• Zucchero, frutta secca, mele, burro

I “pani di credenza”

Oggi vengono utilizzati come pani speciali (antipasto), un tempo erano veri e propri dolci

• Torta “vigezzina”

• Utilizzo degli avanzi di pane ammollati nel latte ed arricchiti di prodotti vari di credenza

Il pan ad Pasquetta

Giosio, frazione di Montecrestese

Ogni anno si prepara il pane in occasione di Pasquetta, il lunedì dell’Angelo

Festa organizzata dal gruppo di frazionisti “Qui da Gios”

Il pan ad Pasquetta

Pane nero di segale cotto nel forno a legna della frazione

I fondi ricavati servono per restaurare le zone storiche della frazione (forno, torchio…)

Gli “amiasc”

Sfoglie di acqua e farina

Somiglianze con la miaccia valsesiana o con il testo romagnolo, preparati sul fuoco utilizzando una piastra rovente di ferro

Conosciuti anche come stinchett o runditt

Diffusi in tutto l’arco alpino

Il forno del pane

A Montecrestese in frazione Pontetto si è deciso, su volontà dei frazionisti, di restaurare il forno frazionale, allestendo un piccolo museo etnografico (di vecchia concezione), con reperti donati dalla popolazione

La panificazione

Importanza della panificazione, una volta all’anno, a cura del panificio Conti di Coimo, come da tradizione

Si inizia alle 4 del mattino con la preparazione dell’impasto e la sua conservazione nella madia, dove lievita per alcune ore, e viene cotto nel forno precedentemente scaldato

Ricostruita la “panera”, con tanto di graticcio

Il forno, come da tradizione, viene acceso giorni prima, per portarlo in temperatura

Il pane di Altoggio

Festa patronale di san Giovanni

Nel 2013 nasce il Pane di Altoggio, ideato dal panificio Meneghello di Crodo

Alla base una pasta madre di oltre 120 anni

Il pane di Altoggio

Ingredienti: 100% di farina integrale macinata a pietra e cotto nel forno a legna frazionale

Ricetta inventata da Germano Meneghello

Il Pan Sagra

A Montecrestese si svolge da 21 anni la Sagra della Patata

Inventato il “Pan Sagra” a base di patate

Una storia di successi ed insuccessi…

L’arrivo della patata

Importata dal Nuovo mondo, la sua coltivazione fu, in un primo momento, osteggiata: era vista più come pianta ornamentale che come alimento

Alimento coltivato e mangiato dagli indios, popoli su cui si dibatteva se fossero figli “di Dio o del demonio”

Grande diffidenza verso il tubero

L’arrivo della patata

Ancora nel 1777, con la grande carestia, i contadini preferivano morire di fame che cibarsi di patate

Inizialmente si consumavano bollite, ancora calde, semplicemente spellate e salate

Problema della mancata selezione delle sementi: la polpa era acida ed acquosa

L’arrivo della patata

XVIII secolo, Germania e Francia

Prima introdotta nelle diete dei nobili, quindi in quelle delle fasce più povere, in risposta anche alla carestia

Napoleone Bonaparte la utilizzò come derrata alimentare e farina da panificazione poiché meno deteriorabile e più facilmente trasportabile rispetto al frumento

L’arrivo della patata

Antoine Parmentier, Versailles

1813: era in atto una vera e propria opera di proselitismo nei confronti di questo tubero

In poco tempo riuscirono ad entrare prepotentemente nella dieta, scalfendo anche il primato di legumi, castagne e polenta

1816-17: grande carestia

La nomenclatura

Inizialmente si utilizzò un calco della dizione francese: pomo di terra

Si passò al termine di origine spagnola: patata

Il termine dialettale con cui erano conosciuti era “tartifole”

L’influenza economica

Grande redditività della patata: un campo coltivato a frumento poteva sfamare una famiglia, uno coltivato a patate ne poteva sfamare tre!

Non si necessitavano grandi appezzamenti di terreno pianeggiante, così anche i territori montani, inizialmente considerati poveri, diventarono improvvisamente redditizi

San Giovanni Bosco le definì “una miniera d’oro”

La patata in Ossola

La sua coltivazione in Ossola

2008: coltivati 45 ettari per un raccolto di poco inferiore ai 3.500 quintali

Un tempo fu però particolarmente importante e coltivata da quasi tutte le famiglie negli orti per autosussistenza

La sua coltivazione in Ossola

Stefano Calpini, 1880, Indagine sull’agricoltura ossolana:

«In Ossola non si coltiva che la patata (solanum tuberosum) […]. Il nostro terreno siliceo è adattissimo per tal genere di pianta. Le patate poi che vengono raccolte nel nostro circondario al disopra (sic!) dei 600, 700, 800 metri sul livello del mare sono squisitissime, e sono degne di menzione speciale, pella loro straordinaria bontà, quelle che si coltivano in Valle Vigezzo ed a Trasquera. […] Sebbene in Ossola sia un prodotto importante quello della patata, pure sarebbe suscettibile di molto maggiore sviluppo questa coltura se fosse meglio trattata»

La sua coltivazione in Ossola

Stefano Calpini, 1880, Indagine sull’agricoltura ossolana:

«sfortunatamente i nostri contadini hanno ancora il vieto sistema di seminare in volata i pezzetti di tubero, e per di più in un terreno leggermente smosso, invece di disporre i semi in fila regolari in modo che fra pianta e pianta non vi sia uno spazio minore di centimetri cinquanta e di disporli in un terreno vangato a maggiore profondità»

La sua coltivazione in Ossola

Secondo Albertazzi venivano coltivate due varietà di patata:

Quelle bianche, «molto grosse e maturano d’agosto e sono i più dolci»

Quelle rosse, che «si cavano in ottobre prima della brina, che le fa sfracellare, sono più piccole, ma men dolci e più consistenti. Coltivate a dovere rendono molto»

La sua coltivazione in Ossola

Ad introdurre la coltivazione della patata in Ossola fu, secondo la leggenda, Caterina Pollini vedova Besana, che, alla morte del marito, portò a Coimo, al curato, i cosiddetti “tartiful dal priu”

Tra Sette ed Ottocento si coltivavano a Malesco, Agaro, Formazza, Salecchio, nelle valli Anzasca ed Antrona ed a Montecrestese

La sua coltivazione in Ossola

Nel 1845 la coltivazione della patata era già una realtà produttiva molto importante per l’Ossola

Secondo Carlo Cavalli, nel suo “Cenni statistici della Valle Vigezzo”, «i pomi di terra ossieno patate forniscono il principale alimento degli agricoltori… la loro coltura è già estesa e produttiva in Vigezzo»

La sua coltivazione in Ossola

Goffredo Casalis:

«Le patate vi forniscono il principale alimento degli agricoltori. Vi sono esse di una squisita qualità, di color giallo citrino, sommamente farinacee e asciutte, così che bollite semplicemente nell'acqua non solo riescono un cibo a tutti gradito ma eziandio molto nutriente. L'esperienza dimostrò infatti che le famiglie le quali si alimentano esclusivamente di patate sono le più vegete, le più robuste ed in questo novero si puonno comprendere i tre quinti degli abitanti del mandamento».

La sua coltivazione in Ossola

Goffredo Casalis:

«Ella è cosa notabile che la specie delle patate della val Vigezzo non si vegga in nessuna parte d'Italia e che trasportata fuori dal suolo della valle degenera presto in una specie molto inferiore, assai meno grata e nutriente perdendo le principali qualità, cioè il farinaceo e l’asciutto».

Da “Dizionario Geografico, Storico, Statistico, Commerciale Degli Stati Sardi"

La reintroduzione della patata

di montagnaAnna Maria Francini

Azienda Agricola Francini Druogno (Val Vigezzo)

Turismo enogastronomico in Piemonte e nel VCO

Dott. Samuel Piana Landexplorer founder

quando il cibo diventa una motivazione per la scoperta del territorio

Turismo: una parola dai molti significati

Con questa parola spesso ci si sofferma sulla definizione data dal WTO e cioè l’importanza della motivazione non economica ed il tempo trascorso..ma si tralascia che cos’è il turismo in pratica: UN FLUSSO MOTIVATO

per intercettare questo flusso la destinazione presenta le sue eccellenze

l’Italia annovera tra le eccellenze più ricercate proprio il “mangiare e bere bene”

Turismo: una parola dai molti significati

Il turismo non è un settore economico!

Il flusso motivato di persone ha diverse esigenze che creano aspetti di economia diversa - quindi il turismo è intersettoriale!

La società postmoderna ha cambiato il modo di vivere i momenti di svago: da momenti liberi di massa a momenti di “relax” individuali

\

Il turismo è un fenomeno dinamico e complesso da monitorare: anni ’50 4S: Sea, Sand, Sun, Sex - oggi le 3L: Leisure, Landscape, Learning - futuro 4E (Environment and clean nature, Educational tourism, Event and mega Event, entertainment and fun)

Internet ha cambiato profondamente il modo di approcciarsi alla destinazione

Tutta l’offerta turistica deve indirizzarsi a presentare al visitatore il genius loci della destinazione!

Qualche dato

Il turismo, in generale, ha saputo reggere meglio alla crisi economica internazionale: il 2008 è stato l’anno con più crescita di arrivi e permanenze sul territorio (il Piemonte è traino) nel 2009 c’è flessione, ma nel 2012 sia ENIT sia WTO descrivono una crescita del 4% di arrivi di turisti stranieri sul 2011

La crescita del turismo è stata più forte nelle economie emergenti

L’Italia si posiziona al 5° posto come percezione ed aspettative turistiche, al 7° come destinazione

Qualche dato-turismo piemontese

Il turismo in Piemonte cresce in maniera quasi esponenziale anche se in modo disomogeneo

Torino e provincia +51% assieme a Langhe e Monferrato +130% di presenze tra il 2004 ed il 2013

L’Alto Piemonte (Vercelli, Biella, Novara e Verbania) dal 2004 al 2013 ha una crescita di presenze del 35,80% con Biella e Vercelli con delta negativo (-10% e -2,50%) VCO cresce in 10 anni del solo 20%!

L’Alto Piemonte rappresenta: 1/4 del territorio piemontese, 1/5 dei residenti e solo 1/3 del mercato turistico (nel 2004 eravamo al primo posto!)

Turismo enogastronomico: definizione

È una tipologia di turismo, nata sostanzialmente negli anni ’90, che vede il turista disposto a spostarsi dalla propria località di residenza al fine di raggiungere e comprendere la cultura di una destinazione nota per una produzione agroalimentare di pregio, entrare in contatto diretto con il produttore visitare l’area destinata alla elaborazione della materia prima e al successivo confezionamento, degustare in loco ed eventualmente approvvigionarsi personalmente delle specificità!

Turismo enogastronomico: definizione

N.B.: se manca uno dei momenti individuati nella definizione appena accennata non ci troviamo più nel filone del “turismo enogastronomici” bensì nel filone più ampio del turismo rurale!

Identikit del turista enogastronomico

il turista enogastronomico: denominato anche “gastronauta" o “foodtrotter” (Croce e Perri)

30-50 anni, cultura medio-alta, si muovono in famiglia o con amici (niente viaggi organizzati)

si muovono nel fine settimana (preferibilmente di sabato!), viaggi di breve raggio

aspetto gastronomico o evento gastronomico è il primo punto della loro agenda di incontro con il territorio!

Qualche dato

Il turismo enogastronomico (fonte Coldiretti) vale 5 MILIARDI

Made in Italy Food: 172 prodotti (DOP/IGP)

469 vini a denominazione DOC/DOCG/IGT

284 varietà d’olio, 42 varietà di pane

4396 prodotti tradizionali regionali

…e ancora…

1438 tipi diversi di pane, pasta e biscotti

1304 verdure fresche e lavorate

764 salami, prosciutti, carni fresche ed insaccati di diverso genere

472 formaggi

174 prodotti composti o prodotti di gastronomia

…e ancora…

159 tra bevande analcoliche, liquori e distillati

155 prodotti di origine animale (miele e lattiero-caseari escluso il burro)

147 preparazioni di pesci, molluschi e crostacei

4698 sono le specialità alimentari prodotti in Italia

Agriturismo: strumento per lo sviluppo del turismo enogastronomico

Se il turismo enogastronomico ha avuto grande sviluppo grazie al riconoscimento delle “strade del vino”, anni ’90, come primo sviluppo della tipologia di turismo

Solo con la legge n. 730 del 1985 (rivista nel 2006) “Disciplina dell’agriturismo” si è giunti ai primi veri e propri pernottamenti in aree di interesse enogastronomico

Enogastronomia ed immagine del Piemonte

La stampa estera definisce il Piemonte come una destinazione: emergente, raffinata, variegata e dall’ottimo rapporto qualità prezzo

Uno dei motivi più gettonati per venire a visitare il Piemonte è l’Enogastronomia con ben il 43,82%!

e nel VCO?

Nel VCO il turismo enogastronomico potrebbe essere uno dei punti di sviluppo per le aree lontane dai laghi (80% del territorio provinciale)

i PAT (prodotti agroalimentari tradizionali - 25 anni, lavorazione tradizionale) del VCO sono 34

14 derivanti dalla trasformazione della carne

6 formaggi

e nel VCO?

2 prodotti caseari diversi dal formaggio

1 miele distinto nelle varie denominazioni

1 preparazione ittica

8 prodotti da forno

1 produzione vegetale

1 bevanda alcolica

La sagra come sostegno e presentazione di prodotti di nicchia

Il VCO ha diverse produzioni agroalimentari purtroppo segnate da quantità esigue

Le Sagre possono essere una soluzione o un “rimedio” alla difficoltà di distribuzione dei prodotti

Ricordiamo però l’importanza per il turista enogastronomici di poter visitare e comprare in loco i prodotti - quindi no a sagre di sola promozione del prodotto!

Maggiore integrazione tra produttori e filiera turistica

Visto le produzioni esigue oltre alle sagre ed ai mercati a KM 0 è importante una integrazione con filiere complementari ristoranti e alberghi

“Serate di Gola” manifestazione della CCIAA del VCO negli ultimi anni sta dimostrando l’importanza di queste integrazioni

Manca ancora un sistema di distribuzione efficace ed efficiente!

La tradizione artistica Vigezzina

Giuseppe Possa

La Valle dei pittori…

Una delle vallate maggiormente turistiche del Vco è senza dubbio la Vigezzo, che ha saputo sfruttare la sua “tradizione” a livello turistico

Turismo estivo ed invernale

La Valle degli spazzacamini

Invenzione dell’acqua di Colonia, acque minerali

La Valle dei pittori

Carlo FornaraMucche al pascolo

Francesco Giorgis “Pantona”Natura morta

Gian Maria RastelliniStalla

Carlo FornaraSenza titolo

Enrico CavalliNatura morta

Dario GiorgisNatura morta

Alfredo BelcastroPascolo in val Vigezzo

Carlo MatteiNatura morta

Conclusioni

Pane, patate e tradizione

20 giugno 2015 16.45 - 17.45

Aula del futuro Future Food District