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Evento pubblico TTIP
Discorso del Vice Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda
Roma, 14 ottobre 2014
Permettetemi in primo luogo di ringraziare l’Ambasciatore Froman e il Commissario europeo
De Gucht per aver accettato l’invito a partecipare a questo evento della Presidenza italiana.
Allo stesso modo desidero ringraziare i miei colleghi Ministri europei presenti qui oggi.
Abbiamo organizzato questa iniziativa per portare la discussione sull’accordo di libero
scambio tra Europa e Stati Uniti al centro del dibattito pubblico. Questo accordo, che una volta
concluso rappresenterà un “turning point” nelle relazioni internazionali, non deve rimanere
confinato all’interno di ristretti circoli di esperti.
Per questo la Presidenza italiana si è data come priorità la de-secretazione del
mandato negoziale dopo più di un anno dall’inizio delle trattative.
Ringrazio la Commissione con cui abbiamo lavorato e gli stati membri che, all’unanimità,
hanno acconsentito a renderlo pubblico. Abbiamo tardato troppo e questo ritardo ha avuto
effetti molto negativi sulla percezione del negoziato.
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Il mandato negoziale è un documento utile per rispondere alle comprensibili preoccupazioni
della pubblica opinione. In esso si trovano molte delle risposte a chi ritiene che il TTIP sia un
accordo fatto per le multinazionali, con l’obiettivo di abbassare gli standard di sicurezza
sociali e regolamentari. All’interno delle direttive sono infatti chiaramente specificate le red
lines che delimitano il campo di azione dei negoziatori.
Sarà del tutto evidente per chi le leggerà in buona fede che i servizi pubblici non sono oggetto
di negoziazione, così come non lo è la cultura o l’accesso indiscriminato degli OGM, o ancora la
possibilità di limitare la sovranità dei governi europei (rispettivamente pagine 7, 3, 4, 8, 9
della versione in italiano).
Allo stesso tempo il mandato offre argomentazioni concrete per sconfiggere le tesi
strumentali di chi usa il TTIP per diffondere paure irrazionali, con l’obiettivo di attaccare i
principi del libero mercato, del libero scambio e lo stesso rapporto tra Europa e Stati Uniti. Un
rapporto sul quale dovrà necessariamente poggiare la seconda fase della globalizzazione, se
noi europei vorremmo esserne protagonisti.
Ci sono tre principali ragioni per cui il TTIP è fondamentale. Le elencherò in ordine
d’importanza crescente.
Primo: il TTIP rappresenta un buon affare per entrambi. Secondo le stime più autorevoli
l’impatto di un “comprehensive agremeent” è intorno al mezzo punto di PIL l’anno, con un
aumento rilevantissimo dell’export e dell’occupazione.
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Nonostante le due economie siano già molto integrate, sia in termini di commercio che di
investimenti, rimangono barriere tariffarie e non tariffarie molto significative. In particolare
per quello che concerne le tariffe, i picchi in alcuni settori strategici danneggiano ancora
molto il commercio transatlantico.
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Le barriere non tariffarie producono poi, secondo alcune studi, un aumento medio del 41%
sul costo dei beni e del 31% sul costo dei servizi.
I dati che ho appena esposto dimostrano chiaramente che il TTIP è un accordo di cui
beneficerebbero soprattutto le PMI. E’ del tutto evidente infatti che le multinazionali
possono facilmente superare le barriere tariffarie e non tariffarie delocalizzando o
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assorbendo i costi dei doppi standard; fattori che per una PMI rappresentano invece un
problema spesso insormontabile.
La seconda ragione per cui il TTIP è fondamentale ha a che fare con il completamento
del processo di integrazione delle economie internazionali partito all’inizio degli anni
novanta.
È diffusa oggi nelle nostre società l’idea che l’Occidente abbia subito, piuttosto che guidato, la
globalizzazione. Io ritengo, al contrario, che questo processo è soprattutto un investimento
fatto dalle nostre economie per creare nuovi bacini di clienti e costituire le premesse per
un’espansione duratura di un modello di sviluppo altrimenti condannato alla bassa crescita
tipica delle economie di sostituzione.
Un processo che si è sviluppato in due fasi distinte. La prima caratterizzata dall’apertura
dei nostri mercati alle merci dei paesi emergenti, anche in assenza di sufficiente reciprocità, e
a prezzo della costruzione di rilevantissimi deficit commerciali.
Ciò ha consentito la nascita nei nuovi mercati di un’economia di produzione, sfruttando i
vantaggi di costo derivanti anche dalla mancanza del rispetto di standard ambientali e sociali.
La seconda fase già iniziata è incentrata sulla transizione di mercati oramai pienamente
emersi da economie di produzione a economie di consumo. Prendendo a prestito le parole di
uno studioso francese, la prima fase della globalizzazione è stata caratterizzata da produttori
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cinesi e consumatori americani - io direi occidentali - mentre la seconda vedrà produzione e
consumi più equamente distribuiti.
E se è indubbio che la prima fase ha avuto una distribuzione geografica dei vantaggi non
omogenea, non dobbiamo dimenticare che essa ha portato un miliardo di persone fuori dalla
povertà.
In Occidente questa prima fase ha determinato un aumento dei profitti delle aziende e
un contenimento del prezzo di molti beni, ma ha avuto impatti negativi sulla
distribuzione della ricchezza, mettendo fortemente sotto pressione la classe media.
E’ mia opinione che le varie bolle speculative create attraverso il moltiplicarsi della massa
finanziaria siano state il tentativo di anestetizzare i traumi di questa fase di transizione,
aumentando la capacità d’indebitamento della classe media, e creando una crescita in larga
parte artificiale.
Si è andata inoltre affermando l’idea, a mio avviso errata, che il nostro modello di sviluppo
implichi necessariamente un elevato grado di disuguaglianza e che il libero scambio sia un
fattore di moltiplicazione di questa patologia.
La seconda fase della globalizzazione ha caratteristiche molto diverse rispetto a quanto
abbiamo sino ad ora vissuto. L’aumento dei consumi nei nuovi mercati rappresenta uno
sbocco strutturale sempre più importante per quelle imprese, grandi e piccole, che hanno
saputo puntare sulla qualità dei prodotti e dei processi.
In secondo luogo la diminuzione della differenza nei costi di produzione tra paesi maturi ed
emergenti, determinata anche dall’introduzione di nuove tecnologie produttive, sta
costruendo le premesse per una possibile inversione nel fenomeno della delocalizzazione.
Un po’ ovunque, in Occidente, il cd “reshoring” potrebbe diventare un tratto distintivo dei
prossimi anni.
La manifattura, data prematuramente per morta nei paesi occidentali, può tornare a essere la
spina dorsale del nostro tessuto economico.
In parole semplici stiamo iniziando a incassare il dividendo del nostro investimento.
La positiva conclusione del TTIP ha la possibilità di portare benefici percepibili ai cittadini e
alle piccole e medie imprese e quindi anche di cambiare il modo in cui commercio e
globalizzazione vengono percepiti in Occidente.
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Il lieto fine è però tutt’altro che scontato. Esiste infatti una condizione indispensabile
perché ciò si possa verificare: i BRICS devono aprirsi completamente ai nostri prodotti, ai
nostri servizi e ai nostri investimenti. Purtroppo invece sta prevalendo, se pure in misura
diversa da paese a paese, la tentazione di trattenere all’interno dei propri confini i vantaggi
derivanti dalla crescita degli ultimi due decenni.
Questa involuzione emerge chiaramente nell’aumento delle barriere non tariffarie e dallo
stallo ultradecennale della Doha Development Agenda.
E’ oggi chiaro che le sole trattative multilaterali non potranno assicurare, come invece per
molti anni abbiamo ritenuto, un sufficiente grado di progresso nell’apertura degli scambi di
beni e servizi.
Come conseguenza assistiamo alla nascita di un più articolato sistema di governance
delle globalizzazione, costruito su tre livelli.
I grandi accordi bilaterali e regionali come TTIP e TPP rappresenteranno l’avanguardia
della globalizzazione; il luogo giuridico dove i maggiori progressi in termini di accesso al
mercato e smantellamento delle barriere non tariffarie verranno compiuti.
Gli accordi plurilaterali settoriali in sede WTO, come quelli in corso su servizi e beni
ambientali che coinvolgono solo i paesi che vogliono negoziare, rappresentano il secondo
livello. E infine il round multilaterale: fondamentale per tenere agganciati tutti gli altri paesi
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che non sono pronti per fare le aperture più profonde richieste dai primi due percorsi
negoziali.
I tre livelli non sono completamente separati. In particolare, i progressi compiuti nella parte
più alta della piramide accelerano quelli nei livelli inferiori.
Il TTIP è dunque una delle chiavi di volta del nuovo sistema delle relazioni economiche
internazionali. Non si tratta solo di definire insieme standard destinati a diventare globali,
ma soprattutto di esercitare una pressione affinché il processo di apertura dei grandi mercati
emergenti non si arresti.
Se analizziamo gli accordi conclusi e in negoziazione da USA e Unione Europea, aventi come
controparti gli stessi paesi, vediamo che si va costruendo una vasta area di libero scambio che
rappresenterà più del 60% del PIL mondiale.
Un’area che dal Pacifico all’Atlantico mette insieme paesi like-minded, che rifiutano il
protezionismo e le conseguenze, anche politiche, che esso comporta.
La terza ragione per cui il TTIP va concluso presto e bene è squisitamente politica. La
situazione appena descritta, relativa ai nuovi sviluppi sul fronte del commercio, non può
essere considerata separatamente da un quadro geopolitico sempre più complesso. Il mondo
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non è diventato piatto né dal punto di vista economico né da quello politico. Aree di faglia
sempre più instabili vanno allargandosi un po’ ovunque, dal Mar cinese meridionale al
Mediterraneo, fino all’Europa dell’est.
Si tratta, in alcuni casi, della reazione a un modello di sviluppo non solo economico ma anche
politico. Protezionismo e nazionalismo sono sempre stati compagni di strada.
La crisi finanziaria ha ulteriormente messo in discussione la capacità delle liberal democrazie
di assicurare crescita, sviluppo e benessere.
E se guardiamo alla crisi Ucraina da questa prospettiva, non possiamo non domandarci
quanto la conclusione rapida del TTIP, comprensivo di un capitolo sull’energia, possa
rappresentare, ben più delle sanzioni, un utile contrasto all’azione della Russia.
Ma più in generale un successo rapido dell’accordo rimetterebbe al centro della
globalizzazione i valori delle economie liberal democratiche, oggi sfidati in molte parti della
Terra.
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Occorre allora domandarsi come mai, se il TTIP è così evidentemente indispensabile, le
trattative non abbiano fino ad oggi ottenuto i risultati sperati. Un anno è certamente un tempo
breve, anche se si considerano i due anni di lavoro dell’High Level Group che lo hanno
preceduto, con l’obiettivo di disegnare il framework dell’accordo.
Ma ciò non toglie che non stiamo rispettando le deadlines che ci eravamo dati. E, come ho
appena spiegato, mancare queste deadlines ha conseguenze serie.
L’impressione è che abbiamo sovrastimato la capacità di affrontare le parti più complesse del
negoziato. Le continue dichiarazioni sulla volontà di concludere un “comprehensive
agreement” non nascondono le pretese che la comprehensiveness sia limitata all’altra
parte del campo di gioco.
Siamo partiti con l’idea che per due economie già molto integrate, con standard elevati e che
condividono in larga parte valori sociali ed economici, sarebbe stato relativamente più
semplice chiudere un accordo.
La realtà è purtroppo diversa: proprio perché i nostri rapporti sono così forti, la ragione di
alcune differenze è profondamente radicata nella nostra sensibilità sociale e culturale.
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Dal punto di vista politico esistono a mio avviso tre tipologie di capitoli negoziali a cui
vanno ricondotti i singoli elementi della trattativa. Solo attraverso questo esercizio
saremo in grado di definire le effettive landing zones dell’accordo.
Esistono materie che non sono disponibili per i negoziatori perché legate a sensibilità
profondamente diverse, connesse alle rispettive culture.
Gli OGM, la differenza tra principio di precauzione e principio di evidenza scientifica e
l’audiovisivo sono un esempio di queste materie per ciò che concerne l’Europa. Dobbiamo
stare molto attenti a impedire che questi capitoli tengano il negoziato in ostaggio per anni.
E così accadrebbe se una delle parti rifiutasse di riconoscere la natura non negoziabile di
questa tipologia di dossier.
Ci sono poi materie che hanno un alto grado di rilevanza e sensibilità politica. In questa
categoria c’è una parte significativa del valore del negoziato: procurement, energia, trasporto
marittimo, tariffe agricole, servizi finanziari, la clausola di protezione degli investimenti, le
indicazioni geografiche. La possibilità di chiudere su questi settori dipende dal commitment
politico più che dalla capacità tecnica dei negoziatori. Un contesto politico ostile potrebbe
rilevarsi esiziale, se non controbilanciato da un forte esercizio di leadership politica
negli Stati Uniti e in Europa. Anche qui la variabile tempo non è irrilevante. Più il risultato si
allontana più il negoziato, rimanendo in balia dei suoi oppositori, rischia di spostare alcuni di
questi dossier verso la categoria delle materie non negoziabili.
Sta accadendo con la clausola relativa alla protezione degli investimenti. All’inizio del
negoziato era un’area di sensibilità. Oggi, almeno in una formulazione estensiva, l’inclusione
di questa clausola è politicamente proibitiva per numerosi stati europei.
Il terzo set di materie contiene la parte meno politicamente e culturalmente sensibile del
negoziato: la maggior parte delle linee tariffarie, la convergenza orizzontale e settoriale degli
standard, una trade facilitation potenziata per le PMI. Questo è un cluster il cui valore non è
assolutamente trascurabile.
Un principio, direi quasi sacro, dei negoziati internazionali è quello del così detto “single
undertaking”, ovvero nulla è chiuso finché tutto non è chiuso.
E’ un principio indispensabile per riuscire a trovare un accordo anche sulle sue parti più
complesse e controverse. Va però considerato che, proprio per le caratteristiche peculiari del
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TTIP, questo principio necessita di essere integrato con una chiara identificazione della
raggiungibilità degli obiettivi nel tempo.
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Abbiamo pochi mesi per uscire dall’impasse. La finestra di opportunità per chiudere un
accordo va dall’indomani delle mid term election di novembre ai primi mesi del 2016. Dopo
questo periodo, l’avvicinarsi delle primarie americane e poi delle elezioni presidenziali
renderà tutto molto più complesso.
Abbiamo dunque bisogno di un fresh start, anzi di un fresh re-start, che faccia pulizia dei
tatticismi negoziali e ridefinisca con chiarezza le landing zones che sono davvero raggiungibili,
attraverso una chiara tabella di marcia. Una tabella di marcia che deve prevedere un sistema
di verifiche puntuali lungo la strada e che lasci aperta la porta a possibili ulteriori
cambiamenti del percorso e delle modalità di conclusione del negoziato, qualora ci
ritrovassimo fra sei mesi in una situazione di stallo.
Sarà poi indispensabile potenziare ulteriormente le iniziative di comunicazione e il
grado di trasparenza dei round negoziali.
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C’è un principio generale che può venire in soccorso del TTIP. Stiamo a mio avviso
dimenticando che già nel report dell’High Level Group si indicava che il TTIP è per sua stessa
natura un “living agreement”.
Un accordo che una volta raggiunto non potrà essere chiuso rispetto a eventuali capitoli
aggiuntivi. L’esempio più immediato è quello relativo al settore audiovisivo. Oggi l’Europa non
è pronta a discuterne anche perché non si è data una regolamentazione comune sulla materia.
Ma, una volta definito il contesto regolamentare interno all’Unione, sarà indispensabile
lavorare per includerlo nell’accordo con gli Stati Uniti che sono leader in questo settore.
In altre parole un certo grado di flessibilità nel principio di single undertaking è connaturato al
TTIP.
Gentili ospiti, Cari Colleghi Ministri,
E’ molto probabile che il prossimo anno sia più difficile da molti punti di vista. Il quadro
geopolitico è in netto peggioramento, così come non possono essere escluse nuove turbolenze
finanziarie.
Il Governo italiano è profondamente convinto che occorra rafforzare in tutti i modi la capacità
di risposta comune dell’Europa, dell’Occidente e dei paesi che condividono i nostri valori
politici ed economici.
Il TTIP è il fulcro su cui poggia la possibilità di tenere in mano il timone della globalizzazione.
Potremo raggiungere questo obiettivo solo se sapremo dimostrate di avere una leadership
politica forte, capace di convincere l’opinione pubblica e i partners che il nostro modello
economico, politico e sociale non è destinato a uscire sconfitto da questo processo epocale.