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Esplicitazione della filosofia terapeutica e strategia congiunta per l’invito all’allargamento ai familiari significativi 2.1 EPISTEMOLOGIA, PARADIGMI E MODELLI PSICOTERAPEUTICI Nell’indagine clinica e nella terapia si usano costantemente modelli per pensare e agire meglio in funzione della soluzione dei problemi posti. Rappresentano delle ipotesi parziali che debbono essere verificate nei fatti e, allo stesso tempo, essere corrette in rapporto a questi. Il pericolo dei modelli è dimenticarsi che sono sempre semplificazioni di una realtà più complessa e come tale in permanente modificazione dialettica. Un modello concretizza un paradigma, è una metafora di quello stesso paradigma per una lettura della realtà. La metodologia terapeutica è strategia e disegna il progetto del trattamento. La tattica è che cosa fare per realizzarlo e in che momento, e la tecnica è come farlo. Le prime due sono scienza e le ultime due sono arte. Ci sono diversi approcci terapeutici per gli stessi problemi presentati e tutti sono efficaci, dipendendo da alcuni fattori. a) Ci deve essere una coerenza epistemologica e la convinzione (dimostrata dall’esperienza) dell'efficacia del metodo impiegato. b) Si devono applicare un insieme di tecniche variegate e versatili dirette allo stesso obiettivo. c) Ci deve essere una Filosofia Terapeutica come substratum delle tecniche impiegate. d) Bisogna avere capacità di tolleranza alla sofferenza psicologica ed emozionale. e) Occorre chiarezza nell'esplicitazione della strategia terapeutica e coerenza tra quello che si pensa e quello che si dice, e tra quello che si dice e quello che si fa. Per questa coerenza occorre, oltre all’esperienza acquisita, la maturità personale del terapeuta, per cui è anche utile una certa maturità anagrafica. Intorno ai 40 anni, è un’età dove iniziano a convergere tutti questi fattori. f) E finalmente avere un atteggiamento ottimista verso la possibilità di cambiamento e l’ottenimento di un miglioramento e/o superamento dei problemi patiti.

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Page 1: Esplicitazione della filosofia terapeutica e strategia congiunta ......Esplicitazione della filosofia terapeutica e strategia congiunta per l’invito all’allargamento ai familiari

Esplicitazione della filosofia terapeutica e strategia

congiunta per l’invito all’allargamento ai familiari significativi

2.1 EPISTEMOLOGIA, PARADIGMI E MODELLI

PSICOTERAPEUTICI

Nell’indagine clinica e nella terapia si usano costantemente modelli per

pensare e agire meglio in funzione della soluzione dei problemi posti.

Rappresentano delle ipotesi parziali che debbono essere verificate nei fatti

e, allo stesso tempo, essere corrette in rapporto a questi. Il pericolo dei

modelli è dimenticarsi che sono sempre semplificazioni di una realtà più

complessa e come tale in permanente modificazione dialettica. Un modello

concretizza un paradigma, è una metafora di quello stesso paradigma per

una lettura della realtà. La metodologia terapeutica è strategia e disegna il

progetto del trattamento. La tattica è che cosa fare per realizzarlo e in che

momento, e la tecnica è come farlo. Le prime due sono scienza e le ultime

due sono arte.

Ci sono diversi approcci terapeutici per gli stessi problemi presentati e tutti

sono efficaci, dipendendo da alcuni fattori.

a) Ci deve essere una coerenza epistemologica e la convinzione

(dimostrata dall’esperienza) dell'efficacia del metodo impiegato.

b) Si devono applicare un insieme di tecniche variegate e versatili dirette

allo stesso obiettivo.

c) Ci deve essere una Filosofia Terapeutica come substratum delle tecniche

impiegate.

d) Bisogna avere capacità di tolleranza alla sofferenza psicologica ed

emozionale.

e) Occorre chiarezza nell'esplicitazione della strategia terapeutica e

coerenza tra quello che si pensa e quello che si dice, e tra quello che si dice

e quello che si fa.

Per questa coerenza occorre, oltre all’esperienza acquisita, la maturità

personale del terapeuta, per cui è anche utile una certa maturità

anagrafica. Intorno ai 40 anni, è un’età dove iniziano a convergere tutti

questi fattori.

f) E finalmente avere un atteggiamento ottimista verso la possibilità di

cambiamento e l’ottenimento di un miglioramento e/o superamento dei

problemi patiti.

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2.3 FILOSOFIA TERAPEUTICA

Un modello, per essere efficace, deve rendere conto di determinate

condizioni:

a) Deve esporre una teoria comprensibile del disagio individuale e delle

strade percorribili per un suo superamento.

b) Deve applicare un metodo d’intervento che sia allo stesso tempo

diagnostico e terapeutico

c) Deve applicare un insieme di tecniche terapeutiche

d) Deve possedere una filosofia terapeutica, ossia esplicitare una teoria del

cambiamento applicata a obiettivi terapeutici, etici e possibili.

Studiando i processi terapeutici di soggetti giovani adulti (e anche meno

giovani) si potrebbe dire che il 70 - 80% dei contenuti delle sedute

individuali gira intorno a problemi riguardanti la difficile differenziazione

dalla Famiglia di Origine e il conseguente difficile inserimento nella

società in un progetto esistenziale soddisfacente.

Seguendo la linea di autori come Bowen (1978) che per primo insistette

sull’importanza della differenziazione dell’individuo dalla sua famiglia di

origine, facendo ritornare i suoi pazienti a casa dei parenti per parlare loro

da una “ I position”, per cercare di detriangolarsi emotivamente da loro,

rimanendo però nel campo psicologico della stessa famiglia. E anche

quella di Boszormenyi –Nagy, che insisteva sui meriti e demeriti

accumulati nella storia multigenerazionale degli individui e delle loro

“lealtà familiari”; e anche quella di Framo, che invitava i membri delle

Famiglie di origine ad assistere a sedute che facilitavano il processo

terapeutico: “

D’altra parte, sono convinto che un’unica seduta fatta con un adulto e i

suoi genitori, fratelli e sorelle, possa a volte avere effetti più vantaggiosi di

quanti si osservano dopo un ciclo completo di psicoterapia” Framo (1996).

L’essere umano adulto si dibatte permanentemente in un asse che oscilla

tra due grandi bisogni: il bisogno di appartenenza a un sistema familiare

che ci ha dato la vita e il nome e con cui abbiamo accumulato migliaia e

migliaia d’interazioni, e il bisogno di differenziazione, spinta spontanea

che ci porta a esplorare il mondo e disegnare un progetto esistenziale

autonomo per inserirci creativamente nella cultura circostante e,

eventualmente, riciclarci con la nostra discendenza in un meccanismo

transgenerazionale di sopravvivenza dei valori positivi ereditati.

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In questo asse più o meno tormentato, più o meno facilitato dalle famiglie

di origine e dalla società in cui viviamo, si inscrivono le disfunzionalità

più frequenti che portano un cliente in terapia.

È per agevolare questo processo di differenziazione che da anni convoco

sistematicamente i familiari significativi in seduta, chiedendo il loro

contributo e cercando di metterli a favore di un processo terapeutico, non

contro.

Ribadiamo che uno dei miti più pervasivi della psicoterapia è quello di

pensare che un soggetto anagraficamente adulto debba destreggiarsi in

quel difficile periodo senza ricorrere all’aiuto della famiglia di origine,

soprattutto se non è un soggetto psicotico, con una chiara dipendenza

emozionale e fattiva dai suoi familiari.

Questo pregiudizio è una delle cause di parecchie impasse terapeutiche e

drop-out, mettendosi il terapeuta, consapevolmente o inconsapevolmente,

in un “braccio di ferro” micidiale con le famiglie di origine, con

conseguente perdita di tempo, energia e - soprattutto - con

l’impoverimento qualitativo di una psicoterapia.

Convocare le famiglie di origine, chiedere il loro contributo, chiarire i

malintesi e, quando possibile, favorire un incontro emozionale intenso che

aiuti la differenziazione, può essere il modo più veloce per aiutare un

individuo a disegnare un progetto esistenziale percorribile per

l’inserimento creativo nella società e non contro una famiglia, vissuta

come ostile e poco collaborativa.

I pregiudizi dei terapeuti nascono, secondo me, da un’inadeguata

comprensione delle dinamiche familiari che formano parte della vita

relazionale di un individuo, ed anche dalle difficoltà non risolte con le

proprie famiglie dei terapeuti.

I terapeuti che ascoltano i lamenti dei loro pazienti senza prendere in

considerazione la loro ambivalenza sono come coloro (amici o parenti) che

ascoltano i membri di una coppia separatamente, senza vederli in

interazione.

Tutti alla fine diranno: se il tuo partner è così inaffidabile e disattento, che

ti maltratta e non ti vuole bene, separati, sarà la cosa migliore per te!

Vedendoli in interazione capiranno che la relazione è quella che conta,

circolarmente, nella spiegazione delle loro sofferenze (e piaceri) e che mai

una lettura individuale potrà spiegare la complessità del loro legame.

Quanti terapeuti sentono che hanno dato il loro sangue per alcuni pazienti,

che dopo una vita di lamenti e discorsi intorno alla malvagità o follia dei

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loro parenti significativi, per un evento fortuito che modifica la loro

interazione familiare (una malattia improvvisa o morte di un genitore, un

incontro emozionale chiarificatore, un’improvvisa conferma delle loro

capacità, ecc.) fanno un voltagabbana incomprensibile nella loro terapia, o

un drop-out che lascia sgomenti i terapeuti, che non hanno

sufficientemente considerato le lealtà familiari o hanno creduto nel

parziale transfert idealizzato dei loro pazienti, senza capire la loro insita

ambivalenza.

Noi terapeuti siamo sempre più deboli di un sistema familiare, e solo la

consapevolezza di questa nostra debolezza ci può dare la forza

d’intervenire in modo, a volte intrepido, nelle dinamiche familiari,

favorendo un incontro chiarificatore che possa servire da spinta alla

realizzazione personale autonoma, fuori dal contesto familiare.

Il sentimento di appartenenza, che non si esaurisce mai, ma che viene

riciclato con i nostri figli in un legame biologico, fortemente endogamico

come il vincolo di filiazione, che ci unisce sia ai nostri avi che ai nostri

figli, cambia col tempo, ma non si perde mai.

Avremo sempre bisogno di essere in relazione con i nostri genitori e

fratelli, fino all’ultimo giorno della loro o della nostra vita, solo che ci si

dovrà adeguare al momento del ciclo vitale della famiglia e degli individui

che la compongono.

Portare dentro di noi l’odio per un genitore con cui non abbiamo potuto

chiarire la nostra relazione, farà sì che odieremo per sempre una parte di

noi stessi o, peggio ancora, vedremo dei nemici dappertutto, nei nostri

partner o nei nostri figli, in un illusorio tentativo di sollevarci da questa

sofferenza.

Mentre i genitori sono in vita, e non importa a quale età, un incontro

terapeutico che possa affrontare i nodi irrisolti e possa eventualmente

scioglierli, può cambiare una vita.

Ho visto delle situazioni trascinate per anni senza risoluzione, che tramite

un adeguato chiarimento, e quando possibile ascoltando la richiesta sincera

di perdono di un genitore anziano, che riconosce i suoi torti, possono

cambiare completamente i vissuti di un paziente (vedere il paragrafo “Il

perdono nelle situazioni traumatiche”).

Ho lavorato con molti pazienti che dopo un taglio emotivo (cut-off di

Bowen) dall’adolescenza e per forse 20 – 25 anni, cercavano di farcela da

soli anche tramite uno o più trattamenti individuali incompleti, per poi

approdare a una richiesta di aiuto.

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Li ho visti molte volte cambiare completamente dopo un approccio

familiare che abbia chiarito i malintesi e permesso di capire situazioni

apparentemente incomprensibili.

Molte volte questi tagli emotivi si producono attraverso una scelta per

opposizione di un partner non accettato dalla famiglia di origine, cosa che

rende più difficile la comprensione di quell’allontanamento parziale,

giacché un’eventuale separazione da costui può essere vissuta come un

fallimento, o l’ avvicinarsi alla famiglia di origine come una capitolazione

delle genuine proteste di una volta.

Chiarito questo, nella misura del possibile, può agevolare un incontro

positivo che non potrà purtroppo recuperare gli anni persi nella creazione

di un vero Sé (Winnicott), ma che solo attraverso questo recupero della

dimensione familiare potrà essere integrato adeguatamente.

Questi due miti, correlati tra di loro, (il paziente che essendo

anagraficamente adulto deve prescindere dall’apporto familiare, e

allontanare fisicamente ed emozionalmente i pazienti dalle loro famiglie di

origine per aiutarli a differenziarsi) sono i più pervasivi delle terapie

individuali, sia psicodinamiche che cognitive e individuali sistemiche.

Riuscire a porre in atto le condizioni di un incontro emozionale che possa

ricreare le condizioni di un nutrimento affettivo e di una conferma di se

stessi, aiuta i pazienti a trovare la spinta spontanea per la realizzazione dei

loro progetti autonomi, e l’aiuto terapeutico sarà più facile dopo questo

percorso.

I nostri genitori, oltre che darci la vita e l’amore necessario per la nostra

crescita, devono darci la conferma di noi stessi (riconoscere l’autonomia e

il disegno del progetto esistenziale in libertà, le nostre valenze come

persone originali e non solo prodotto dei desideri o del modellamento della

famiglia di origine, ecc.).

Solo che quanto appartiene a noi ce l’hanno loro, e non sempre ce lo

vogliono dare, per paura di perderci. Se ti siedi a tavola e ti sazi, la cosa

più frequente che potrebbe succedere è alzarti e andartene per la tua strada.

La reticenza emozionale e il “non dare soddisfazione” possono essere

strategie frustranti che hanno come senso trattenere i figli per non sentire il

vuoto esistenziale o l’adeguamento del rapporto, con minore dipendenza.

Chiarire queste dinamiche e favorire l’incontro emozionale - come

vedremo più avanti - possono essere la base di partenza per una ricerca

spontanea del proprio progetto esistenziale (a meno che si pensi a una tara

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genetica o ad una mancanza di enzimi o neurotrasmettitori cerebrali che lo

impediscano).

Come si vede, il “ritornare per ripartire meglio” è una strategia

assolutamente paradossale e molto più effettiva per assicurare la

differenziazione che farà sì che molti sintomi non abbiano più ragion

d’essere.

Attacchi di panico, frustrazioni sentimentali reiterate, depressioni

ingiustificate, abbandono di carriere, ecc., non sono a volte che tentativi

magici di fermare il tempo, o andare a ritroso per cercare di elaborare lo

“svincolo” mancato.

Questa chiave di lettura dei problemi individuali presuppone la fase del

processo terapeutico in cui l’invito all’allargamento alle sedute con i

familiari significativi diventa indispensabile per passare poi a una fase

diversa, più centrata stavolta verso l’incontro con se stessi e il disegno di

un progetto esistenziale autonomo, rispetto al quale il terapeuta sarà più un

facilitatore che non un mediatore come nella fase precedente.

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2.4 I CORMORANI E LA REPROGRESSIONE BIOLOGICA

Juan Rof Carballo, psicosomatologo spagnolo, nel suo più bel libro Ordito

affettivo e malattia (1961), enfatizza la capacità plastica dell’organismo di

reagire alla malattia o al trauma facendo regredire i tessuti a fasi meno

differenziate di sviluppo per ritrovare una capacità rigenerativa.

“Se i sistemi biologici non fossero capaci di regredire a una fase primaria

dello sviluppo, cioè a una fase embrionale della loro struttura, meno

differenziata, l’organismo perderebbe uno dei suoi più importanti

meccanismi di sicurezza” (pag. 40).

E aggiunge: “Se a un dato momento subentra una situazione che

l’individuo non è capace di tollerare, la struttura umana crolla e cade in

depressione o nevrosi. Allora, se l’ordito della personalità umana fosse

definitivo, il problema non avrebbe soluzione. Gli uomini sarebbero

inclusi dentro quel tipo umano sclerosato, pieni di anchilosi spirituali,

rigido e inerte, che tante volte troviamo nella vita, esercitando intorno a

loro un’influenza nefasta, tante volte mascherata di falsa morale.

Ma la natura, anche nella sfera psichica, ha disposto le sue strutture in

forma che possano rifarsi.

Il gran mistero della physis ippocratrica forse radica in questa disposizione

della vita a ricreare di nuovo quello che è stato distrutto dal trauma o dalla

malattia. La personalità dell’uomo, come la sua biologia, conserva

plasticità, cioè è capace anche di rifarsi, riformarsi fino alla sua

profondità” (pag. 41). Descrive poi le ricerche di Kortland (1955), zoologo

di Amsterdam, con i cormorani, uccelli marini che prima di spiccare il

volo fanno una regressione a fasi precedenti dello sviluppo.

Il cormorano, come l’uomo, aspira ad essere indipendente, a maturare

come soggetto autonomo. Questo riesce a farlo dopo cinque tappe, cinque

“salti”. All’inizio di ogni salto, il cormorano regredisce a modi di agire più

infantili, cioè, meno organizzati di condotta, per poi progredire, cioè

diventare più indipendente e autonomo.

Kortland parla di manifestazioni reprogressive: “Ci sono occasioni in cui il

cormorano rimane qualche tempo senza territorio, come un vagabondo; c’è

tuttora una quarta crisi, anche con assenza dalla colonia per qualche

giorno, finché torna e gode dell’alimentazione dei suoi genitori. Dopo due

o tre giorni, già maturo, scompare per non essere più visto fino alla

prossima primavera. Questa ultima fase gli ha procurato piena

indipendenza e, libero, vola, senza fare caso ai cinguettii di chiamata dei

genitori, verso le coste della Tunisia, Francia o Spagna”.

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È commovente la similitudine di questa descrizione con i racconti di molti

genitori, disperati di fronte a comportamenti erratici e incomprensibili dei

loro figli, accusati tante volte di crudeltà o indifferenza, quando in realtà

tentano, a volte in modo disperato, di trovare il loro cammino.

Rof Carballo paragona questo concetto di Kortland della reprogressione

alle vicissitudini della psicoterapia analitica, quando il paziente entra in

regressione per tornare a fasi più primitive della vita umana, per poi sotto

la tutela dell’analista, dare vita ad un’integrazione della persona umana più

salda e armoniosa. Più resistente alle diverse circostanze della vita.

Michael Balint (1983) parla di questo fenomeno nel suo libro “La

regressione”, dicendo che è importante accompagnare la regressione del

paziente fino ad un nuovo inizio. “Il nuovo inizio significa: a) ritornare a

qualcosa di primitivo, ad un punto precedente l’inizio dello sviluppo

difettoso che potrebbe essere descritto come regressione; e, b) nel

contempo scoprire una modalità nuova, più adeguata, che equivale a un

progresso. Ho chiamato il sommarsi di questi due fenomeni fondamentali

regredire per progredire” (pag. 260).

Rof Carballo continua, dicendo: “Si dimentica spesso che probabilmente

ogni progressione, cioè ogni passo a una struttura più integrata, complessa

e autonoma richiede per arrivare a buon fine una regressione previa.

Reculer pour mieux sauter è un precetto che ha un’evidente realtà

biologica come ha comprovato Kortland con i cormorani”.

E finisce con una frase profonda e piena di suggerimenti: “Acaso la

funciòn biològica de la emociòn sea la de mantener al hombre en

sempiterna posibilidad de immadurez, es decir, de reprogresiòn…” “Forse

la funzione biologica dell’emozione è quella di mantenere l’uomo in

permanente possibilità d’immaturità, cioè di reprogressione…”, pag. 42).

Questa metafora della reprogressione possiamo applicarla molto bene a

situazioni della vita dei giovani adulti che, non sentendosi sufficientemente

forti per spingersi in un progetto autonomo, si deprimono o cambiano

professione inspiegabilmente, per regredire in un modo incomprensibile ai

loro parenti.

Manuel, studente brillante, era cresciuto nella sua famiglia di origine con

una prematura autonomia, forgiando un carattere autosufficiente,

arrangiandosi sempre da solo senza chiedere aiuto, finché una volta

laureato con i massimi voti, decide di abbandonare la sua carriera,

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rifiutando un sistema lavorativo e sociale che non appagava i suoi bisogni

di libertà.

Entrando in depressione, cerca un terapeuta individuale che lo possa

aiutare. Il suo terapeuta convoca i genitori in seduta, prima separatamente

e, poi, insieme con Manuel.

Nella seduta con la madre, giovane e bella signora, questa racconta come

Manuel, già da piccolo (il primo di tre fratelli) organizzava la sua vita e i

suoi giochi senza chiedere mai aiuto, nascondendo una personalità

ipersensibile sotto una corazza di autosufficienza.

Lo invita ad avere pazienza e cercare un lavoro dipendente per fare

un’esperienza necessaria per la sua formazione.

Nell’incontro col padre, affermato professionista che aveva sempre dato a

Manuel un modello d’identificazione, costui racconta che nella sua storia,

una volta affermato nella sua professione, abbandona inspiegabilmente

questa posizione di successo, e attraversa un periodo di smarrimento che

gli permette di ricontattarsi col padre, dopo anni di allontanamento

emozionale per discrepanze familiari.

Questo nonno di Manuel, aiutò molto il figlio e gli permise una nuova

scelta professionale, più autonoma e soddisfacente, avvicinandosi molto al

figlio e godendo , fino alla morte del nonno, di una relazione

emozionalmente più soddisfacente per entrambi. Il padre di Manuel offrì al

figlio aiuto economico per permettergli un anno di ricerca più libera di una

strada più soddisfacente.

Manuel, che per anni era stato razionale e autosufficiente, durante

l’incontro pianse come un bambino spaesato di fronte a quello che vedeva

come un fallimento. L’approccio affettuoso e comprensivo di questi

genitori e dei suoi fratelli, più l’esperienza dello zaino, (sarà spiegata più

avanti), permisero a Manuel di ripartire più rinfrancato verso una nuova

scelta di lavoro, questa volta più appagante.

L’incontro casuale con una ragazza conosciuta con un gruppo di amici

fece nascere un rapporto sentimentale positivo, e Manuel ripartì verso il

suo progetto esistenziale, questa volta più “umanizzato” dall’esperienza

avuta.

Durante il percorso terapeutico, quando si incontrano situazioni poco

chiare , la “reprogressione biologica” ci può spiegare come, stranamente,

un paziente che sta migliorando sorprendentemente peggiora, con la

conseguente sfiducia nella terapia e con sorpresa del paziente, della sua

famiglia di origine e, a volte, anche del terapeuta.

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Paradossalmente, questo peggioramento è un miglioramento, giacché il

paziente, grazie anche alla sua terapia ha adesso la forza di affrontare temi

o situazioni lasciate in disparte per mancanza di forza nell’affrontarle.

Questo ritornare indietro per ripartire meglio lo ritroviamo in molte

situazioni familiari, coinvolge figure significative e rappresenta (come il

caso di Manuel) il bisogno di ridefinire la relazione con le sue figure

genitoriali di riferimento: “congedarsi” da loro e da tappe pregresse della

vita e ripartire, aiutato dal consenso familiare e dal nutrimento affettivo

ricevuto per un avanzamento a fasi o tappe della vita mai raggiunte prima.

Questo prendere forze per affrontare sviluppi qualitativi nuovi , non si può

e non si deve intendere come peggioramento, bensì come oscillazione

necessaria del processo terapeutico che non avviene mai in linea retta

ascendente, bensì a zig zag (fig.1).

figura 1

Il down del punto B (50%), è comunque indice di un miglioramento

acquisito riguardo all’up del punto A (30%) e così via, punto down C

(80%), ecc. Molte volte i pazienti che tendono a dimenticare lo stato di

sofferenza dell’inizio della psicoterapia si scoraggiano di fronte a nuove

difficoltà che li mette in ansia, e credono - o dicono - che non ci sono stati

progressi. Un semplice chiarimento o la visione di questo diagramma gli

permette di capire meglio il loro percorso terapeutico e superare momenti

di sconcerto. Momenti evolutivi del ciclo vitale degli individui in terapia,

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per esempio un matrimonio o la nascita di un figlio, o il conseguimento di

un successo professionale, possono essere preceduti da un momento di

retrocessione, di dubbi, di perplessità, per poi attingere a quelle mete in un

movimento reprogressivo. La ridefinizione che il terapeuta può dare di

questi momenti può essere fondamentale per prevenire lo scoraggiamento

o, a volte, il drop - out che può avvenire inspiegabilmente.

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2.5 LA CENTRALITÀ DEL PAZIENTE COME PROTAGONISTA

DEL CAMBIAMENTO

Il primo obiettivo delle prime sedute con il solo paziente è quello di

verificare le risorse del paziente, per essere ragionevolmente certi che

possa essere protagonista di un cambiamento di se stesso.

Perché pensiamo che con la tipologia di pazienti di cui qui ci occupiamo

non è indicato o efficace convocare da subito familiari significativi? Non

per i vecchi miti, tipo quello secondo il quale nella fase di “svincolo” dalla

famiglia di origine dobbiamo aiutarlo a distaccarsi fisicamente o

emotivamente da loro, o perché non accetta la presenza dei familiari

(Boscolo-Bertrando, 1996). La motivazione fondamentale è quella che la

richiesta di una psicoterapia per se stesso è solitamente - nei casi più

favorevoli della cosiddetta autentica motivazione - l'esito di un lungo

percorso di sofferenza, e di riflessione su quella sofferenza. Ci saranno

stati tentativi di uscirne attraverso cambiamenti di vita, uso di farmaci,

separazioni, viaggi, nuove passioni, cambi di lavoro e così via. Ad un certo

punto la persona sente di non farcela da sola: ha bisogno di aiuto e intuisce

una sua propria importante responsabilità nel contribuire al permanere del

malessere. Nello stesso tempo è capace di reagire al pessimismo, al

disfattismo: è nata in lui una speranza. Sono tre passi fondamentali:

arrivare a chiedere aiuto, accettare di essere responsabili della propria vita,

far crescere dentro di sé una speranza. Spesso questi passi hanno richiesto

un lunghissimo percorso per vincere la negazione del problema,

l'onnipotenza di voler farcela da soli, il vittimismo di attribuire ad "altro da

sé" la responsabilità del disagio, per uscire dal senso di impotenza (i

quattro stadi che precedono l'accesso ad una psicoterapia, Selvini 2007).

In tutti i casi in cui una richiesta di psicoterapia individuale è il frutto di

questo fondamentale percorso (che a volte è in sé un importante fattore di

miglioramento prima ancora che la terapia abbia inizio) sarebbe davvero

sbagliato umiliare simili progressi con un'immediata convocazione

allargata che, implicitamente, comunica una svalutazione di quel percorso,

rischiando di dare potenti impliciti errati messaggi del tipo “Non basta

l'aiuto del terapeuta. Se i tuoi familiari non cambiano non ti tirerai mai

fuori dai guai”. Il paziente può aver fatto un passo importante contro la sua

onnipotenza e il suo disfattismo (un movimento integrativo rispetto a tale

classica polarizzazione), e la convocazione allargata immediata rischia di

spingerlo di nuovo verso una polarizzazione patogena drammatica: vuoi

verso il vittimismo (è tutto colpa loro) vuoi verso l'impotenza (non

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cambieranno mai, non ce la farò mai).

Le prime quattro, cinque sedute, con un paziente richiedente, servono

proprio a verificare e consolidare quel percorso che ha portato il paziente

in terapia individuale: è capace davvero di accettare, pensare ed elaborare

le sue responsabilità (Yalom 1989) nel malessere? La sua speranza di

cambiamento può essere sostenuta e valorizzata? Il paziente può godere

della condivisione, si sente meglio nel non essere più solo a cercare

risposte e soluzioni? Se le risposte a queste tre domande sono positive,

ecco che una buona alleanza terapeutica è possibile, e questo ci darà una

buona prognosi di fondo per il successo di quella terapia individuale.

Tuttavia, le ormai lunghissime storiche esperienze di psicoterapie

individuali sistemiche, psicoanalitiche, cognitive, ecc., basate su questi

ottimi punti di partenza, ci dimostrano che il rischio di fallimento resta

comunque elevato, e i tempi delle terapie, purtroppo, troppo lunghi per le

reali possibilità di molti pazienti.

Brevità ed efficacia sono dimensioni tra loro fortemente connesse: un

progetto troppo lungo è spesso impraticabile, quindi l'efficacia potenziale

viene perduta.

Storicamente, la psicoanalisi ha puntato tutti i fattori terapeutici sulla

relazione tra analista e paziente, sostenendo che l'analista non dovesse

avere alcun contatto con i familiari del paziente, perché questo avrebbe

inquinato o distorto la relazione transferale. Questa tecnica si è dimostrata

abitualmente impraticabile con i pazienti più gravi, ed ha costretto ad

allungare enormemente il tempo della terapia e il numero delle sedute

settimanali. La nostra esperienza dimostra che, al contrario, il

coinvolgimento dei familiari di un paziente richiedente, se fatto nel modo e

nel momento giusto, può abbreviare la lunghezza della terapia e

migliorarne l’efficacia.

Le Ragioni Fondamentali degli Allargamenti

Attraverso gli allargamenti l’efficacia delle terapie migliora per due motivi

fondamentali. Nella terapia individuale senza allargamenti il terapeuta può

avere bisogno di tempi molto lunghi affinché il paziente “viva” nel

rapporto con lui i diversi aspetti della sua personalità;

contemporaneamente, il terapeuta non può non credere alla descrizione dei

familiari che il paziente gli porta. Il terapeuta sarà così inevitabilmente

“contagiato” dalle distorsioni della realtà del paziente (Selvini 1993) e gli

servirà anche qui un intenso lavoro sul suo proprio controtransfert per

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poter far capire al paziente le sue responsabilità nell’indurre negli altri

atteggiamenti negativi nei suoi confronti.

La convocazione dei familiari significativi, fatta sulla base di una buona

alleanza terapeutica, combatte con grande efficacia questo fattore di

allungamento e distorsione delle psicoterapie individuali basate su una

sorta di “autismo a due”. La paziente che nelle sedute individuali mostra

solo i suoi tratti di depressione, fragilità, incapacità, sudditanza ai

familiari, vista con loro tira fuori una faccia ben diversa della sua

personalità, magari aggredendoli per futili motivi, divenendo prepotente,

cercando di dominarli con assurde pretese.

Una simile seduta apre al terapeuta individuale un nuovo e fondamentale

campo di lavoro.

L’altra essenziale potenzialità dell'allargamento è quella di confrontare la

descrizione dei familiari data dal paziente con l’osservazione diretta del

terapeuta (ed eventualmente della sua équipe). Ad esempio, quel padre che

ci era stato descritto come un paziente psicotico cronico aggressivo e

maltrattante, lo vediamo come un anziano malato, confuso, impotente e

depresso. Cosa può spiegare allora che la nostra paziente abbia ancora

dentro di sé una simile rabbia esplosiva contro di lui?

Questo suo sentimento non trova alcun fondamento nel comportamento

presente di quel poveretto pieno di farmaci. Cosa impedisce alla sua rabbia

di placarsi? Cosa paralizza un fisiologico movimento empatico verso un

padre così malridotto? Un simile confronto apre nuovi territori alla terapia

individuale, territori che sarebbero stati inaccessibili se, per anni, avessimo

continuato a pensare con lei e come lei, all’attuale necessità di difendersi

da un pazzo pericoloso, senza ipotizzare che la rabbia nasconda l’anelito

ad un incontro emotivo positivo.

Ma perché la classica tecnica psicoanalitica, cioè la fobia delle sedute

congiunte, ha avuto tanto successo e continua ad averlo?

Perché le convocazioni allargate richiedono una mirata direttività della

conduzione, a cui la maggior parte degli psicoterapeuti individuali non

sono per niente addestrati. La seduta allargata non può essere basata solo

sull’ascolto, almeno nella stragrande maggioranza dei casi.

Per definizione, il terapeuta familiare sa che non può permettere che la

famiglia interagisca in seduta così come funziona attualmente e

abitualmente. Questo problema si pone di meno e in modo diverso nel

setting individuale. I setting individuali, nei loro diversi modelli, sono

proprio strutturati per essere “in se stessi” un'esperienza emotiva e

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cognitiva nuova.

Ma nel setting allargato le cose cambiano, le stesse tecniche non possono

funzionare: dobbiamo tutelare il nostro paziente dal rischio di essere

aggredito, squalificato, umiliato, ignorato; e, insieme, dobbiamo tutelare

anche i familiari che abbiamo invitato rispetto ai medesimi rischi. Per

definizione, la seduta non può essere una brutta e inutile esperienza, la

ripetizione di vecchie dolorose dinamiche. Dev’essere un’esperienza

nuova, e questo costringe il terapeuta ad una conduzione diretta o guidata

che gli consenta di controllare e programmare l’esperienza di quella

seduta.

Nella terapia familiare la posizione del terapeuta è di “parzialità

multilaterale” (Boszormenyi-Nagy) Cioè il terapeuta dev’essere “alleato di

tutti e complice di nessuno”, invece con questo modello la centralità del

paziente e l’alleanza con lui occorre che sia salda e fuori da ogni

discussione. I familiari vengono ad aiutarlo, e se in futuro uno di loro

richiedesse una nuova seduta per sé, il terapeuta potrà concederla solo con

la presenza del suo paziente, come “coterapeuta”, cioè dovrà coadiuvarlo

nell’aiutare il suo congiunto sofferente, dando affetto e comprensione, da

figlio adulto a padre o madre, e non più come paziente. In questo modo

s’impedisce un’eventuale manipolazione del familiare che potrebbe

chiedere una seduta da solo per parlare di cose oscure o misconosciute dal

nostro paziente. Nel caso fosse necessaria una psicoterapia per un

familiare, il terapeuta dovrà indirizzarlo a un altro collega e mai farla

personalmente, perché questo potrebbe essere vissuto dal paziente come un

tradimento.

Combattere il Rischio di una Separazione Forzata e Distruttiva dalla

Famiglia d’Origine

Un mito, molto diffuso tra terapeuti individuali di ogni orientamento,

sostiene la necessità di allontanarsi fisicamente ed emotivamente da una

famiglia disfunzionale per poter differenziarsi o almeno per preservarsi

psicologicamente. È il cosiddetto “taglio emotivo” o cut - off descritto da

Bowen (1978) nei suoi storici scritti.

“la distanza emotiva sia essa raggiunta con i meccanismi interni che

con la distanza fisica. Il tipo di meccanismo messo in atto per

acquisire la distanza emotiva non è indicativo dell’intensità o del

grado di attaccamento emotivo, ma il risultato, cioè, la persona che se

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ne va di casa è emotivamente legata come quella che rimane a casa e

mette in atto meccanismi interni per controllare il suo coinvolgimento.

Naturalmente, chi se ne va imprime un andamento diverso alla sua

vita. Ha bisogno della vicinanza emotiva ma è allergico ad essa. Se ne

va illudendosi di conquistare la sua “indipendenza”. Più netto è il

taglio con i genitori, più è prevedibile che egli ripeta lo stesso modello

nelle relazioni future (pagg. 63 - 64). “La principale manifestazione

del taglio emotivo è un diniego dell’intensità dell’attaccamento

emotivo non risolto con i propri genitori, cioè, la persona si comporta

in modo da fingersi più autonomo di quanto in effetti sia, e raggiunge

la distanza emotiva sia per mezzo di meccanismi interni, sia per mezzo

dell’effettiva distanza fisica” (pag. 64).

Molti terapeuti individuali, incapaci di padroneggiare la complessità del

percorso terapeutico, sottovalutando gravemente l’importanza del bisogno

di positiva appartenenza alla propria famiglia, iper-identificandosi

acriticamente con la parte “anti-famiglia” del loro paziente, mettono in atto

una strategia terapeutica che vorrebbe essere rivolta a sostenere le sue

capacità assertive, ma che a volte scade - anche inconsapevolmente - in

una piatta istigazione contro familiari e partner.

Soprattutto con pazienti di area border, caratterizzati dalla discontinuità o

disorganizzazione tra aspetti idealizzanti e demonizzanti verso i familiari,

una simile strategia è iatrogena perché non favorisce affatto processi

integrativi riequilibrativi: al contrario, sbilancia e polarizza verso la

negatività demonizzante. In questi casi incontrare direttamente i familiari è

la migliore delle supervisioni! (Selvini 2004, pag. 236).

Il Problema delle Indicazioni per questo tipo di intervento

I tre criteri di cui abbiamo parlato - responsabilità, richiesta, speranza -

sono quindi alla base della valutazione sulle indicazioni per questo tipo di

trattamento che mira ad essere breve: dalle venti alle quaranta sedute

nell’arco di circa due anni.

Boscolo e Bertrando (1996, pag. 45) consigliano la psicoterapia sistemica

individuale nei seguenti casi:

1) Adolescenti o giovani adulti che dopo aver seguito una psicoterapia

familiare o di coppia in cui si sono più o meno risolti i conflitti

intrafamiliari, responsabili del disagio individuale o collettivo, sembrano

poter beneficiare di un intervento sulla persona per affrontare le difficoltà

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nella vita esterna alla famiglia e i dilemmi relativi alla progettazione del

loro futuro;

2) Adolescenti o adulti che rifiutano dall’inizio un intervento sulla

famiglia;

3) Un coniuge che chiede una psicoterapia di coppia rifiutata fin dalla

prima seduta dall’altro coniuge.

4) Un coniuge separato o divorziato che alla fine della prima seduta di

consulenza richiede una terapia di coppia o di famiglia, ufficialmente per

coinvolgere l’altro coniuge adducendo il problema (vero o falso) dei figli,

ma con lo scopo segreto di negare la separazione.

5) I casi già descritti, in cui i familiari apertamente rifiutano di presenziare

alle sedute, presentando difficoltà insormontabili di tipo economico o

logistico.

Come sottolineato da Sorrentino (2004), l’indicazione di fondo riguarda

quindi pazienti capaci di raccontarsi (buona competenza autobiografica),

adulti con un’autonomia esistenziale, adolescenti richiedenti con genitori

invianti e consenzienti. Negli altri casi (bambini, adolescenti riluttanti o

ambivalenti, adulti con patologie importanti) l’indicazione resta quella

della terapia familiare.n un suo precedente lavoro(Canevaro, 2003) ho

fornito un identikit dei pazienti con i quali ho sperimentato con successo

questo modello d’intervento.

1) Adulti autonomi, di solito fra 30 e 40 anni, senza gravi patologie

psichiche e in grado di badare a se stessi, ma che lamentano reiterati

fallimenti sentimentali, visti come incapacità personale nel portare avanti

un impegno affettivo importante.

2) Giovani adulti in fase di svincolo, senza sintomatologia vistosa, ma con

un atteggiamento fobico verso il coinvolgimento della famiglia, poiché

pensano di farcela da soli.

3) Giovani adulti con un regolare funzionamento autonomo, che lavorano

e vivono da soli con sintomi come bulimia, attacchi di panico, anoressia,

depressioni o sintomatologia ossessiva, che non vogliono coinvolgere le

loro famiglia di origine per paura di rimanervi invischiati.

4) Situazioni in cui l’esistenza di segreti ritenuti impossibili da chiarire

(abuso sessuale o fisico in cui siano coinvolti familiari, infedeltà

matrimoniale, scelte sessuali alternative,…) sono di ostacolo al

coinvolgimento della famiglia e richiedono, quando è possibile, una

lunga preparazione del paziente per sostenere eventualmente il dialogo

con i componenti del sistema affettivo relazionale per lui/lei significativo e

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giungere ad una migliore elaborazione.

5) Adulti che sono “scappati ”da casa per grosse problematiche relazionali

o grave disfunzionalità di uno dei genitori o uno dei fratelli, mettendo una

distanza fisica e/o emozionale per impotenza ad aiutare o per paura a

rimanere invischiati, non riuscendo tuttavia a “spiccare il volo”

emozionalmente verso una reale autonomia. In questi casi posporre i

propri bisogni di fronte a quelle problematiche irrisolte, fa sì che il

paziente sviluppi un falso Sé autosufficiente, che può poi crollare di fronte

a richieste emozionalmente intense come un relazione amorosa che si

complica o si interrompe.

Una buona presa in carico individuale può essere utile e fondamentale

anche con pazienti molto più gravi, ad esempio, privi di risorse familiari e

vittime di comportamenti delittuosi (abusi sessuali, maltrattamenti) o con

gravi disturbi della personalità e sintomi psicotici. Tuttavia in questi casi la

filosofia terapeutica sarà totalmente diversa perché la psicoterapia centrata

sul paziente non sarà, come nel modello qui presentato, l’unico intervento,

quanto invece parte di una rete integrata multidisciplinare di interventi

sulla persona, sulla famiglia e sull'ambiente di vita.

Conduzione delle Prime Sedute

Nelle prime sedute il terapeuta costruisce l’alleanza terapeutica con una

serie di tecniche: descrizione del problema, storia della vita personale del

paziente, prime spiegazioni sul funzionamento personale e difensivo,

contratto di una consultazione che coinvolgerà familiari significativi,

raccolta graduale della storia trigenerazionale della famiglia

(genogramma), ipotesi sul significato relazionale del sintomo, eventuali

prescrizioni psicopedagogiche di contenimento del sintomo e di

sperimentazione di modalità comportamentali alternative, sino alla

negoziazione della convocazione dei familiari.

La Riflessione con il Paziente su chi Convochiamo

Dobbiamo discutere con il paziente gli obiettivi globali dell’allargamento

che abbiamo passato in rassegna nelle pagine precedenti:

1) avere più elementi per capire chi è e come funziona nelle sue relazioni

più importanti;

2) avere più dati per capire chi sono i suoi familiari e come funzionano

nella relazione con lui;

3) cercare di capire dove sta la distorsione di qualche aspetto della

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percezione di se stesso;

4) cercare di capire dove sta la distorsione della sua percezione di qualche

aspetto dei suoi familiari.

A tutto ciò si possono aggiungere degli obiettivi più specifici, che

solitamente hanno a che fare con un problema di distanza emotiva e

mancanza di senso di appartenenza: la seduta congiunta è particolarmente

utile per quelle persone importanti che sentiamo lontane, rispetto alle quali

c’è pochissima comunicazione. Spesso possono essere dei fratelli o anche

uno dei due genitori, solitamente il padre. Un altro problema specifico può

essere quello che i familiari non conoscono aspetti importanti della vita del

paziente: ad esempio, non sanno della gravità dei suoi sintomi e della sua

sofferenza.

In questo caso può essere più utile una seduta allargata che coinvolga tutti

nella condivisione della nuova dolorosa informazione. Fa parte della

valorizzazione del ruolo attivo del paziente negoziare con lui chi e quando

convocare: ad esempio il padre da solo, se la madre ha sempre ostacolato il

figlio quando provava ad avvicinarsi al padre e se questo spesso si è

sottratto all’incontro.

Nel caso in cui il paziente resti paralizzato dal dubbio è fondamentale che

il terapeuta sia capace di assumersi il rischio della scelta. Un figlio può

essere stato troppo rigidamente collocato in un ruolo protettivo verso uno o

entrambi i genitori: così ha dovuto cavarsela da solo e non se l’è sentita

nemmeno di protestare per quei loro comportamenti che l’hanno fatto

soffrire. Ad esempio, una seduta allargata potrebbe essere utile affinché

una donna adulta possa finalmente comunicare al padre la sua sofferenza

per il drastico, irrispettoso rifiuto del suo primo fidanzato.

Un comportamento che fa male ancora oggi, perché resta vero che quel

padre continua a dare per scontato che sua figlia si comporterà secondo gli

schemi che lui le ha attribuito. In molti casi il tema della eccessiva distanza

emotiva tra il paziente e i suoi familiari significativi si collega ad

un’inversione dei ruoli, attivo o passivo. Il paziente non ha mai condiviso i

suoi sentimenti più turbati per non appesantire o sconvolgere i familiari. In

questi casi la convocazione in se stessa è molto difficile da accettare per il

paziente, perché viene a spezzare le antiche regole: il figlio per la prima

volta chiede per sé invece di dare aiuto, per la prima volta solleva

questioni scabrose e sgradevoli. La seduta deve essere allora ben preparata,

per evitare che anche in quella sede il paziente si ammutolisca e l’incontro

si riduca ad una cerimonia inutile e formale. In realtà, questo rischio non è

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molto frequente, perché il fatto stesso della convocazione per una terapia

convoglia un potente ed innovativo messaggio emotivo.

La convocazione allargata in formati diversi appare così sicuramente

indicata per quei tipi di personalità dove le varie forme di inversione dei

ruoli e distacco sono particolarmente presenti e radicate:

simbiotico/dipendenti (inversione dei ruoli, passivo), evitanti (mancanza di

senso di appartenenza), parentificazione (inversione dei ruoli, attivo),

ossessivi (protezione dei genitori attraverso l’obbedienza ed il successo).

In alcune situazioni molto difficili in cui il paziente ha una distanza molto

grande con uno dei genitori (frequentemente il padre) può essere utile una

seduta preparatoria, da solo il terapeuta con i genitori, ovviamente previo

consenso del paziente, tenendolo informato delle vicissitudini .

Raffaella, 45 anni, medico molto intelligente, ma che per tutta la vita è

stata triangolata,1 soprattutto dalla madre nei conflitti col padre, vede

all’inizio quasi con terrore la convocazione dei genitori. La madre è stata

la prima ad essere invitata. Depressa da molti anni, si attiva solo dopo la

separazione dal marito, avvenuta dieci anni prima . Contrariamente

all’immagine “proporzionata” fornita dalla figlia (sofferente, vittima,

sottomessa dal marito, incapace di affrontare la vita da sola, ecc.) entra con

aspetto di sfida e partecipa all’incontro con molto interesse.

Dopo aver effettuato l’esercizio dello zaino, il terapeuta parla con

Raffaella del prossimo incontro col padre, quando viene interrotto dalla

madre che gli dice: “Non penserà per caso di farlo venire qua a quello,

vero?” “Vedremo, signora...”, è la risposta.

Nella seduta seguente,solo con Raffaella, si commenta l’incontro con la

madre Questa volta lei chiede al terapeuta, con un misto di curiosità e di

terrore: “Non mi farà mica prendere dalle mani da lui,vero?”

“Vedremo...”, è la risposta.

Di fronte alla difficoltà della paziente di affrontare l’argomento col padre,

il terapeuta chiede a Raffaella il permesso di incontrare il padre da solo , in

una seduta preparatoria. Lei annuisce, molto sollevata.

Il padre, considerato da tutti onnipotente e padre - padrone, imprenditore

self made-man, racconta al terapeuta la sua versione della vita familiare e

dei problemi che ha con questa figlia, piangendo e dicendo che è il

fallimento della sua vita, e che non capisce perché lei lo aggredisca

1 Termine coniato da Bowen e con il quale si indica una situazione in cui due persone, in una relazione

simmetrica conflittuale, a misura che la tensione diventa insostenibile, coinvolgono una terza persona in posizione di

minor potere.

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continuamente.

Il terapeuta gli spiega come Raffaella sia stata sempre manipolata e messa

nel mezzo delle loro beghe, e come i suoi comportamenti siano una difesa

dalla madre e, nel contempo, una richiesta di affetto nei suoi confronti. Lui

riconosce che non ha mai saputo dare affetto, ma che ha sempre pensato ai

suoi figli e che a loro non è mai mancato niente. Una volta compreso il

senso dell’incontro congiuntosi raccomanda di poter riavere l’amore della

figlia.

Durante l’incontro riescono a chiarirsi reciprocamente e, quando si chiede

loro di sedersi vicini, prendendosi le mani, cominciano ad avverarsi le

prime sorprese della seduta. Il padre, tremante e commosso, non riesce a

dare niente in dono alla figlia, giacché non trova in se nessuna

caratteristica valida da darle. Pian piano, il terapeuta riesce a aiutarlo a

definire aspetti positivi della sua persona e l’incontro finisce in un clima

molto più pacato e sereno. Nella seduta seguente, Raffaella rimane

sorpresa di aver trovato un padre sconosciuto, molto più insicuro e

dipendente di quanto lei conoscesse, destandole per la prima volta,

un’ondata di tenerezza verso quello sconosciuto che poco a poco

cominciava a farsi conoscere nella sua vulnerabilità. Incomincia una

relazione di reciproca timidezza , iniziano a parlare da persona a persona,

senza che la relazione genitoriale conflittuale si frapponga tra di loro.

Man mano che questa reciproca conoscenza si avvera, Raffaella sente per

la prima volta in vita sua di poter stare a una certa distanza emozionale

che le permette di capire che la madre, vista da lei sempre debole, è

invece molto più potente di quanto pensasse, e come l’abbia sempre

comandata ricorrendo a continue manipolazioni.

Il padre, a sua volta, avendo messo a nudo le sue carenze affettive, è molto

meno temuto, e così lei riesce ad avere un quadro della situazione molto

diverso e comincia a provare pena per questi genitori, prima tanto temuti e

onnipotenti. Questa presa di distanza e accettazione della fragilità dei

genitori preannuncia la differenziazione emozionale nei loro confronti, e

comincia a produrre una traslazione del baricentro sulla sua persona.

Nasce una nuova fase della terapia, centrata più sulla persona di Raffaella

con un vero Sé nascente, fuori dalle vicissitudini genitoriali.

La Discussione sulle Resistenze dei Pazienti verso gli Allargamenti

Nel paragrafo precedente abbiamo già toccato alcuni dei temi più

frequenti: ribaltare una storia d’inversione dei ruoli con una esplicita

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richiesta di aiuto, dare voce a sentimenti da sempre repressi, combattere la

distanza, il formalismo, per una vera condivisione, intimità, vicinanza.

Tali obiettivi possono poi essere specificatamente mirati rispetto a singole

persone. Ad esempio, un fratello o sorella iperresponsabilizzato/a è spesso

seguito da un altro polarizzato nell’opposta direzione, verso una posizione

esistenziale più egocentrica, edonistica, trasgressiva. La seduta allargata

può allora essere finalizzata alla riflessione sui vantaggi e gli svantaggi di

tale polarizzazione, per poterla contrastare, magari attraverso una più equa

suddivisione del sostegno ai genitori che stanno invecchiando. Come

abbiamo visto, in altri casi un figlio può essere stato “proprietà privata”

della madre, per cui rimettere in gioco il padre diventa l’obiettivo

dell’allargamento.

L'allargamento sarà fatto solo quando il paziente sarà almeno parzialmente

convinto della sua utilità. Alcuni pazienti possono trovare l’allargamento

impossibile e inaccettabile. Può essere il caso di pazienti con importanti

tratti schizoidi o paranoici i quali, già estremamente in difficoltà rispetto

alle possibilità di stabilizzare una fiducia di base nel terapeuta, vivranno

l’allargamento come destinato a rivoltarsi contro di loro: sono terrorizzati

dall’idea che il terapeuta passerà dalla parte dei familiari.

L'allargamento dovrà essere ben meditato e preparato, anche con pazienti

con importanti discontinuità della personalità (area borderline) dove è forte

il rischio di movimenti impulsivi ed aggressivi, sia dei familiari verso il

paziente, che del paziente verso i familiari. In questi casi l’allargamento

inizierà con quei familiari vissuti come più alleati, non certo con quelli

storicamente considerati nemici (vedi tutto il dibattito sulle

controindicazioni alle sedute familiari, Selvini 2004 pp. 228-229 e

Cuccuru 2006). Una frequente perplessità, sempre nell’area già citata della

parentificazione/inversione dei ruoli, s’incontra con figli laureati e di

elevata cultura, i cui genitori hanno invece una cultura elementare. Il figlio

può temere l'umiliazione del genitore, per cui il terapeuta deve ben

spiegare che condurrà la seduta per aiutare il genitore a valorizzare al

massimo il suo contributo affettivo ed emotivo, lasciando da parte ogni

sofisticazione intellettuale.

Stefano, 31 anni. Giovane e brillante, laureato in legge, si trova bersagliato

dalla sua ex fidanzata e dalla sua famiglia di origine per aver rotto il

fidanzamento. Figlio unico, vede i suoi genitori, entrambi operai,

contrastarlo molto per l’accaduto, giacché non riescono a capire questo

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loro figlio e la scelta di annullare un impegno con una brava ragazza e la

sua famiglia di origine. Risponde così al questionario: “Aver vissuto

questo momento è stato importantissimo perché il mio disagio era proprio

collegato alla mancanza di comprensione del mio disagio ai loro occhi.

Non ero mai riuscito a parlare veramente con loro, a farmi capire, distanze

culturali, vite diverse”.

Arrivati a questo punto del consulto, in genere tra la quarta e la quinta

seduta, avviene il primo contatto con un familiare significativo.

Nella ricerca condotta sugli 82 casi trattati dal 2001 al 2006, questo

avviene nel 50% dei pazienti.

Per alcuni di loro, che conoscendo il metodo si aspettavano l’invito, la

convocazione è stata sorprendentemente veloce, e accettata abitualmente

più per la fiducia acquisita nel terapeuta che per la propria volontà. Le

ansie nei pazienti, molto frequenti, sono state molto ben studiate da Framo,

quando convoca la famiglia di origine durante una psicoterapia di coppia.

A pagina 77 del suo libro, riproduce alcune delle frequenti frasi che i

pazienti manifestano, dopo aver avuto l’incontro con la famiglia di origine

come:

“È stata la cosa più difficile che abbia mai fatto, ma la più utile”

“In uno strano modo mi sento liberato, libero”

“Ho avuto paura di mio padre tutta la vita: adesso non solo non mi

spaventa più, ma sento simpatia per lui”

“Mi ha sorpreso che papà abbia parlato tanto”.

L’ atto di convocare in assenza i familiari, come nella sedia vuota (vedere

Boscolo e Bertrando) o fare una scultura o farsi descrivere le famiglie di

origine non potrà mai rimpiazzare un incontro plurimo e sarà sempre una

lettura individuale di un fenomeno sistemico.

La presenza diretta in seduta dei familiari,

a) provoca un effetto Rashomon2 con le differenti versioni di uno stesso

fatto, arricchendo la complessità e relativizzando le posizioni individuali.

b) favorisce la comprensione di fatti oscuri della storia familiare e

personale

c) svela segreti insospettati o mistificati attraverso la versione interessata

di alcuno dei familiari

d) favorisce la definizione della relazione all’interno delle famiglie e con i

nostri clienti

2 Si ricordi il bellissimo film di Akira Kurosawa in cui lo stesso fatto è descritto da quattro persone che,

avendolo vissuto in maniera diversa, ne danno differenti versioni complementari.

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e) migliora la qualità dell’incontro emozionale in seduta o quanto meno

sancisce l’impossibilità di farlo, avendo comunque tentato, cosa che può

rappresentare una nuova base di partenza (vedere paragrafo 8, “Incontro

frustrante e liberatorio”)

f) favorisce il perdono e la riconciliazione, col conseguente sollievo da

tormenti interiori e permette l’impiego più autonomo e creativo delle

energie nello sviluppo del proprio sé.

Nonostante ciò, la convocazione è sempre piena di dubbi e di ansie.

“Crolleranno i miei familiari se io espongo veramente cosa penso?”

“A papà che ha già avuto un infarto gli prenderà un colpo in seduta?”

Io rispondo: “Se ha avuto un infarto è perché non ha mai potuto liberare il

suo cuore da angosce.

Lasciatelo parlare liberamente.” In trent’anni che faccio questi incontri non

si è verificato mai (per adesso) un evento di questo tipo. Per di più mi

dicono:

”Mio padre è molto più sciolto e comunicativo. L’incontro gli ha fatto

bene!”.

“E se dopo l’incontro la famiglia si frammenta?” “Come faranno con tutte

le ansie e angosce che si sveglieranno?”

Risposta. I sistemi familiari sono organizzazioni molto forti che si

ricompongono facilmente dopo uno scossone. Siamo noi, individui,

pazienti o terapeuti, molto più fragili, ma da questa debolezza può nascere

la forza di scuotersi per sollecitare e favorire un cambiamento.

La particolare posizione che il paziente designato acquisisce all’interno

della sua propria famiglia di origine cercando di capire e proteggere o

scuotere gli altri, molte volte senza risultato, mi ha indotto a chiamarlo il

“terapeuta fallito della sua famiglia di origine”.

Nonostante egli capisca per sensibilità, o per essere stato confidente di

alcuni dei suoi familiari significativi, meglio chi soffre e perché

costituendo una spia insostituibile

L’alleanza terapeutica è molto importante per permettere al terapeuta di

sostituire il paziente nella sua funzione salvifica, permettendogli/le di

riacquisire il suo ruolo normale all’interno della famiglia di origine.

Elisa, giovane psicopedagogista, è l’unica nella sua famiglia di origine che

solleva i problemi, contrastando la rigidità e incomunicabilità che esiste al

suo interno Considerata la pecora nera della famiglia, si sorprende quando

le dico che converrebbe chiamare in seduta per primo sua madre e non i

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suoi genitori insieme, per spezzare il muro di omertà che abitualmente

creano i genitori se li vedessimo insieme. All’inizio dell’incontro, la

signora, molto composta ed educata, cerca di farmi capire quanto sia

difficile questa figlia.

Quando le ridefinisco il comportamento della figlia come un tentativo di

aiutarla ad uscire da un ruolo sacrificale dentro la famiglia e occuparsi più

di se stessa, si sorprende. La ringrazia e le dice che in realtà lei (la madre)

ha tentato sempre di spronarla ad essere autonoma, avere una professione,

lavorare e realizzarsi, cosa che lei non ha potuto fare. I sensi di colpa

iniziali della signora, vengono ridefiniti come responsabilità non esaudita

nei suoi confronti. “I sensi di colpa non servono a niente. Sono in realtà

l’altra faccia della medaglia delle responsabilità. Lei come figlia, come

moglie e come madre, è stata ineccepibile, ma la sua responsabilità come

donna non è stata sufficientemente espletata. Si deve ancora qualcosa a sé

stessa ed Elisa la sta aiutando a capirlo. Sarebbe conveniente che questa

nuova relazione tra figlia adulta e madre si arricchisca di qualche uscita

per svago e divertimento, parlando di più tra di voi.”

Così fecero e, attraverso queste uscite settimanali, madre e figlia

cominciarono ad avere un dialogo fluido che cambiò completamente la

relazione con mutuo soddisfacimento.

Lasciando a me il ruolo di terapeuta, Elisa recuperò il suo ruolo di figlia

attenta nei confronti della madre, riuscendo ad avere un dialogo mai avuto

prima.

Poter vedere i familiari con altri occhi, e viceversa, è un risultato molto

frequente di questi incontri.

2.6 PROBLEMI TECNICI DELL’INVITO

LA SCELTA DELLA PRIMA CONVOCAZIONE E DELLE

SUCCESSIVE

STRATEGIA CONDIVISA. CHI E QUANDO INVITARE.

La prima cosa da discutere insieme ai nostri clienti è la strategia della

convocazione.

Abbiamo già anticipato diverse risposte a questo quesito. In sintesi si può

dire che, soprattutto nelle situazioni di intensa triangolazione e

conflittualità (genitori separati e/o in conflitto, aspre rivalità con i fratelli)

si procederà con un invito alla volta, iniziando dal familiare meno

conflittuale. Oppure cominceremo con i fratelli per sviluppare una rete di

alleanza destinata ad aiutare i genitori in difficoltà. Come abbiamo già

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detto, in altri casi si privilegerà il familiare con il quale si ritiene più utile

l'accorciamento della distanza emotiva. La convocazione allargata a tutta

la famiglia di origine biologica (genitori e fratelli) può essere utilizzata per

affermarne l’esistenza in tutte quelle situazioni in cui tale identità

collettiva (coesione e senso di appartenenza) sia piuttosto labile o quando

ci siano problematiche di sofferenza molto definite individualmente nel

paziente richiedente: depressioni, sintomatologia più vistosa come deliri o

lutti patologici, o dopo una rottura sentimentale importante o per una

separazione, tossicodipendenza, ecc.; ed anche per eventi importanti come

un matrimonio, in cui occorre congedarsi dalla famiglia per affrontare una

nuova tappa esistenziale. Un altro criterio può essere quello di invitare

familiari che potrebbero essere in possesso di interessanti informazioni

non condivise. Con pazienti caratterizzati da spiccati tratti di protettività e

accondiscendenza (area dipendente - simbiotica, vedi Selvini 2007) è

presente il rischio che, in fase avanzata della terapia, tengano nascosto al

terapeuta il perdurare di importanti difficoltà, perché non vogliono

procurargli una delusione. In questo caso un allargamento a familiari o

partner rappresenta una verifica molto importante dell’effettiva efficacia

dell’intervento, e può consentire la svolta di un trattamento che vive un

momento di stallo dopo un’iniziale fase di eccellenti progressi. Il criterio

fondamentale è quello di mettere a confronto le diverse percezioni, sia

delle caratteristiche del paziente che degli elementi chiave della storia

familiare. Il familiare non viene mai invitato come paziente, ma sempre

come testimone privilegiato chiamato ad aiutare il terapeuta con

l’esprimere il suo punto di vista, sia sui limiti che sulle risorse del

paziente, indicando quale potrebbe essere una strada che lo aiuti a vivere

meglio. Talvolta mettere a confronto i diversi punti di vista consente un

liberatorio chiarimento di antichi malintesi e fraintendimenti. Come già

dicevamo, l’osservazione del terapeuta non potrà solitamente basarsi su

una posizione di semplice ascolto. Con il suo paziente il terapeuta avrà

preparato in precedenza delle domande chiave, che l’uno o l’altro

rivolgeranno ai familiari coinvolti.

Con pazienti di area border nevrotica, caratterizzati da intensi vissuti

vittimistici nei confronti dei familiari, un percorso che li aiuti a capire i

drammi trigenerazionali dei loro genitori può sciogliere la mitologia

negativa costruita su di loro, può consentire ai genitori stessi di chiedere

scusa per le sofferenze involontariamente provocate, e può aprire la strada

ad un autentico processo di perdono e riconciliazione.

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Si chiederà sempre come hanno accolto l’invito a venire e come è stato

trasmesso (se è stato detto singolarmente, se è stato comunicato attraverso

un membro più legato, solitamente la madre, ecc.). Sono informazioni

importanti che permettono di avere una traccia di come scorre

l’informazione dentro il sistema familiare. In un incontro con la famiglia

d’origine, la madre di un paziente membro di una coppia, convocata

insieme alla sorella, cominciò a parlare decisamente. La interruppi dopo

alcuni minuti per chiederle se era vedova, giacché nel suo racconto non

menzionava mai il marito. Mi rispose: “No, assolutamente. Solo che non

gli ho detto niente di questo incontro perché lui è sempre fuori dalle nostre

cose…non si interessa mai…”

Così il terapeuta chiarisce bene il perché dell’invito: “Tizia o Caio si sono

rivolti a me in cerca di aiuto per i loro problemi e siccome considero la

famiglia molto importante nella vita di un individuo, vorrei chiedervi

collaborazione e informazione per meglio aiutarli/e. Vi chiedo di parlare

col cuore in mano riguardo ai problemi che ci sono, al perché di questi

problemi e alle soluzioni che proponete. Aiutatemi ad aiutarlo/a”. Questa

sincera richiesta di aiuto da parte del terapeuta è molto importante per

mettere la famiglia a favore del processo terapeutico e non contro. L’arte

del terapeuta consiste nel convogliare queste forze a favore di un

intervento che molte volte, per misconoscimento, viene etichettato come

inutile. Di solito i padri, premettono cheon credono in queste terapie, per

amore del figlio sono disposti a offrire l’aiuto. Il più delle volte, e senza

bisogno di nessun chiarimento, interagiscono, ed è frequente che queste

stesse persone all’inizio riluttanti, ringrazino alla fine dell’incontro e si

raccomandino per il loro congiunto. La convocazione di tutta la famiglia

di origine può permettere la comprensione più approfondita del problema,

sia per la famiglia di origine che per il terapeuta. La delimitazione delle

responsabilità, e il passaggio da una paralisi per l’angoscia o per i sensi di

colpa a una partecipazione attiva, mette in moto delle forze riparatrici che

di solito ogni famiglia ha. Da quell’incontro possono scattare suggerimenti

o indicazioni utili per la famiglia di origine riguardo al contributo che può

dare per una migliore risoluzione del problema. Esempio. Il bisogno di

Veronica di congedarsi dalla sua famiglia di origine, in occasione di un

prossimo matrimonio, permise a tutti i fratelli e ai genitori di dire la loro e

augurarle una buona esperienza. La madre, che abitualmente intratteneva

una relazione esclusiva con Veronica (escludendo il padre), dovette dar

corso a un lungo discorso con il padre, abitualmente silenzioso, riguardo

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all’affetto che sempre provò verso sua figlia e come gli sarebbe piaciuto

continuare in contatto con gli sposi. L’abbraccio tenero che Veronica ebbe

col padre e poi con ognuno degli altri componenti, creò un’atmosfera

molto commovente che rappresentò per lei un vero rituale di congedo e di

passaggio verso una nuova tappa della sua vita. Quando ci sono

triangolazioni in atto, conviene chiamare separatamente i genitori, o

quando questi rappresentano un problema per le continue liti, è meglio

iniziare con i fratelli per sviluppare una rete di alleanze destinate ad aiutare

meglio i parenti compromessi. Quando c’è un divorzio emozionale dei

genitori, conviene fare incontri separati rivolti a consolidare un rapporto

personale positivo con ognuno dei genitori e definire nel contempo come

“missione impossibile” i tentativi terapeutici del nostro cliente, cercando di

rimetterli insieme. Quando i giovani pazienti tentano disperatamente di

aiutare i genitori, e si mettono in mezzo nelle loro liti, gli faccio notare che

questo comportamento altruista e positivo inconsapevolmente evita

l’incontro fra i genitori, che potrebbe essere chiarificatore e risolutivo.