direpubblica domenica 24 novembre numero 455...
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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 24NOVEMBRE 2013
NUMERO 455
CULT
La copertina
ANAIS GINORI e GABRIELE ROMAGNOLI
Ecco perchéla discrezionepuò vinceresull’apparenza
Il libro
DARIA GALATERIA
Da Picasso a Marilynle memoriedi Topor
All’interno
Straparlando
ANTONIO GNOLI
Gualtiero Marchesi“Io, il risottoe il viziodella perfezione”
L’arte
MELANIA MAZZUCCO
Il Museo del mondoL’Orlando di Delacroix
L’opera
GUIDO BARBIERI
Il bel Falstaffdi Luca Ronconitra locomotivein bianco e nero
Parla Keith Jarrett“Voglio pura musicaaltro che Facebook”
Spettacoli
GIUSEPPE VIDETTI
“Sono io il bambinoche Giacomellifotografò a Scanno”
La storia
MICHELE SMARGIASSI
SHAOSHAN
Nel reliquiario di Mao Zedong ogni oggetto è sacro.Le sue sigarette non fumate, un thermos per il tè, laboule azzurra che gli riscaldava lo stomaco, il luci-do per le scarpe, la racchetta verde da ping-pong, i
suoi mutandoni di lana. Due piani di reperti esposti nella pe-nombra, a temperatura costante, illuminati e protetti come ca-polavori. La colonna dei pellegrini scorre in silenzio davanti allevetrine che esibiscono “i calzini del Presidente Mao”, il suo petti-ne e le scatole dei biscotti di cui aveva bisogno non per la gola, ma“perché lavorava sempre”. Alcuni anziani, al cospetto di un pigia-ma rattoppato, non trattengono le lacrime e qualche donna toc-ca un busto presidenziale mormorando parole di preghiera per-ché il figlio recuperi salute e prosperità. Il funzionario che mi gui-da nel museo del Grande Timoniere improvvisamente si fermadavanti al celeste letto, immenso e in pendenza per “ospitare lemontagne di libri che divorava di notte”. Respira a fondo e intona
GIAMPAOLO VISETTI di colpo L’Oriente è rosso. Gli operai impegnati a ritinteggiare la sa-le, cambiare le lampadine, scrostare i vetri e sostituire i bambù in-gialliti, attaccano l’inno con lui. C’è un certo odore di mobili in de-composizione, ma sulle pareti scorrono immagini ad alta defini-zione che ritraggono il Presidente Mao mentre “nuota sorridentein un lago dalle acque gelide”. L’uomo che ha fondato la Repub-blica Popolare Cinese, cambiando il destino dell’umanità, nac-que centovent’anni fa e nel suo villaggio resta un dio immortale.Tanto più eterno adesso, alla vigilia dell’anniversario: «Ventiseidicembre 1893 — si affretta a puntualizzare la guida al terminedella sua baritonale esibizione di maoismo spontaneo — il gior-no in cui è venuto al mondo il bambino che i genitori chiamaronoprofeticamente “Ze-dong”, ossia “splendere sull’Oriente”».
Shaoshan, cinquanta chilometri a sud di Changsha, capoluogodello Hunan, contava allora quattrocento famiglie di contadini ele sue colline erano infestate dalle tigri. Si aravano le risaie con ibufali e la vita, sotto l’agonizzante dinastia Qing, scorreva comenel Medioevo: la notizia della morte dell’imperatore giunse nellafattoria dei Mao casualmente, due anni dopo il decesso.
(segue nelle pagine successive)
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A centovent’annidalla nascita
siamo andati nel suo villaggioper vedere come e perchésopravvive il mito
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(1978)
Repubblica Nazionale
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(seguedalla copertina)
L’ex borgo conta oggi centoventi-mila abitanti, di cui quarantamilasi chiamano Mao, e quasi nessu-no coltiva la terra. È stato ribattez-zato “Città della Memoria Rossa”e qui tutti vivono grazie al culto di
Stato per il padre del comunismo cinese. Un gi-gantesco manifesto affisso in piazza Mao Ze-dong, proprio davanti a una statua di Mao alta seimetri, ricorda che “il nostro eroe è morto prema-turamente il 10 settembre 1976, all’età di quasi 83anni, ma noi ameremo per sempre il PresidenteMao”. Un simile trasporto non permette chequalcuno faccia la fame e dopo centovent’anni ilGrande Timoniere, mummificato nella piazzaTienanmen a Pechino, può dire di aver reso ric-chi i suoi compaesani. A Shaoshan, per onorare lasua casa natale, arrivano cinque milioni di cinesiall’anno. Solo in dicembre, per la ricorrenza, se neattendono altri due milioni. Assolti i lunghi dove-ri di fede, tutti entrano in un ristorante per man-giare “maiale stufato alla Mao” e “tagliolini dellafelicità”, acquistano una copia del Libretto Rossoe una piccola effige magnetica con il volto del di-vino per il cruscotto dell’auto, a benedizione deiviaggiatori. Ma soprattutto tutti sono invitati dal-le autorità ad assistere allo spettacolo che mette
in scena infanzia e giovinezza del Presidente Maoe a trascorrere una notte in albergo. Lo show, do-po decenni di sempre più stanche correzioni po-litiche, è in via di riadeguamento alla sensibilitàdei nuovi leader e alle imminenti celebrazioni.Due ore di fiamme, battaglie, vittorie, sangue, fio-ri e bandiere rosse, chiuse dai fuochi d’artificiodel trionfo. Il messaggio è semplice: le forze occi-dentali erano il Male e Mao, grazie al suo corag-gio, ha salvato il popolo cinese dalle belve del No-vecento, facendo prevalere il Bene. Buona partedel pubblico, al termine di una giornata sfian-cante nel santuario maoista, crolla in un sonnoostinato, che resiste anche ai fragorosi inni rivo-luzionari. Quando cala il sipario però sono tuttidoverosamente commossi.
L’albergo Shengdi, storico rifugio dei dirigentispediti dal partito a omaggiare il padre della na-zione, è invece un mito a sé. Sconfinato, in mar-mo bianco, imbottito di moquette rossa e gialla.Troni e tavoli fingono di essere d’oro, come le te-ste di leone e i putti trombettieri appesi alle pare-ti. Nelle sale risuona la colonna sonora del film Ti-tanic e le cameriere accorrono per mostrare i wcgiapponesi riscaldati e i soffitti affrescati dellestanze, che illustrano l’epopea del PresidenteMao come fossero le scene della vita di Cristo nar-rata dal Vangelo. Non si può dire che la struttura,ai piedi della Montagna del Drago, esalti la fruga-lità delle origini, messaggio essenziale affidato aShaoshan dai successori del “padre di tutti noi”.
«L’hotel è vuoto — avverte la cameriera incarica-ta di sorvegliare il mio piano — Duecento came-re, lei è l’unico cliente. Sono scomparsi tutti, do-po la caccia scatenata da Xi Jiping contro corrot-ti, lussi e stravaganze. Pensi: anche il gala orga-nizzato per l’anniversario del Presidente Mao èstato cancellato». Lo spreco di Stato per nonsmettere di venerare la sola figura tuttora capacedi tenere uniti i cinesi è in effetti un problemaideologicamente imbarazzante. A quasi qua-rant’anni dalla sua scomparsa, nella Cina iper-consumista che l’ultimo Plenum ha appenaaperto al “mercato decisivo”, che è l’opposto diquella teorizzata dal Grande Timoniere, il partitoscopre di essere ancora Mao-dipendente. Altroche riforme: il potere dei “prìncipi rossi” discen-de dal suo ricordo, che sostiene la società, lo Sta-to, il regime, tutto. Nessuno, da Deng Xiaoping aJiang Zemin e Hu Jintao e ora a Xi Jinping, ha avu-to il coraggio di mettere sostanzialmente in di-scussione il dio dei cinesi e la nazione si scopre an-cora prigioniera del dittatore da cui non ha sapu-to affrancarsi, nemmeno dopo la sua morte. Di-scutere in modo aperto di Mao equivarrebbe aparlare liberamente del partito-Stato, permette-re la ricerca della verità: come imprimere un si-gillo sulla fine del regime. Pechino deve così ali-mentare la fiamma della sola fede ammessa: chi
si astiene resta un traditore. Alimentare il culto dimassa, dopo centovent’anni, è però tremenda-mente dispendioso e il popolo degli ex compagni,pronti a piangere davanti alle “scarpe bucate delPresidente Mao”, è meno propenso ad assolverei costi di una propaganda che, assieme al padre,promette di consegnare all’eternità anche i figli,auto-proclamati successori.
Per la prima volta, alla vigilia del sacro anniver-sario, la Cina si indigna dunque per i 2,5 miliardidi dollari stanziati dal governo per i festeggia-menti del 26 dicembre a Shaoshan. Una bestem-mia: condannare le energie profuse per «dire col-lettivamente grazie al Presidente Mao». Eppure ècosì, la nuova classe media dei consumatori ur-banizzati alza la voce contro i nostalgici naziona-listi dell’antico mondo rurale e si capisce perchénel villaggio natìo, investito della titanica missio-ne di «gestire sedici piani patriottici» senza smar-rire uno yuan, non si vedono volti rilassati. MaoZedong costa, la ri-maoizzazione succede allade-maoizzazione, e il partito rischia. Bisognaammettere che, nell’eccesso obbligato di zeloapologetico, si è esagerato. A Changsha, dove“l’ultimo imperatore” studiò e insegnò nell’Ac-cademia Yuelu, una sua testa di granito alta tren-tadue metri domina il fiume Xiang e funge dasfondo per le foto degli sposi. Di qui parte l’auto-
Il reportage Milioni di cinesi vanno in pellegrinaggio nel paese di Mao
GIAMPAOLO VISETTI
Dove nacque la Lunga marciaLA STANZA DA LETTO LA CAMERA DEI GENITORI IL DEPOSITO PER IL RISO
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strada personale di Mao, che in un’ora conducedirettamente alla fattoria dove è nato. L’asfalto ètirato come un velluto e centinaia di operai rab-boccano a mano impercettibili buche. Il percor-so è deserto e l’autista del pullman non può smet-tere di suonare per disperdere stormi di gazze cheriposano sulla corsia di sorpasso. La “Città dellaMemoria Rossa” invece è in fermento. Ordini dal-l’alto: centinaia di botteghe di souvenir rinnova-no le fotografie dei vecchi leader, gli album con lepoesie del Presidente Mao e quelli con la sua“struggente calligrafia”. Su una spianata di can-tieri si costruiscono il nuovo “Museo di Mao e del-la Cina”, alcuni alberghi, una nuova stazione peri treni ad alta velocità, un centro commerciale «atema rivoluzionario», cinema e teatri per replica-re «un’adolescenza leggendaria». Le impalcatu-re nascondono anche la casa degli avi dei Mao,eretta nel 1763 e trasformata in scuola per la se-conda moglie del giovane Zedong, come i vene-rati “bagni sovietici” color smeraldo del bunkeranti-atomico segreto, scavato nel 1960 sotto ildosso dove è sepolto suo nonno. Dietro la statuadel centenario, voluta da Jiang Zemin nel 1993, sicambiano i fiori, si potano i sessantatré pini, unoper ogni etnia, e si sostituiscono le corone con lascritta “Noi ameremo Mao per sempre”. La codaper accedere alla casa natale del Presidente Maocomincia qui, a poco meno di un chilometro dalletto in cui la madre, fervente buddista, lo partorìdopo due figli defunti. Eserciti di guide turistichee ambulanti assediano i fedeli-clienti, ordinatifuori dai pullman delle gite di partito. Giovani in
abiti da monaci e sosia presidenziali, di varie età,si offrono a prezzi proletari per foto-ricordo.
Nessun grande dittatore del Novecento, nonLenin, non Stalin, e tantomeno Mussolini o Hi-tler, ma neanche alcun statista democratico,conserva un memoriale così impressionante eancora decisivo, fondamentale per la sorte dellaCina e tanto influente sul destino del mondo,quale è la fattoria dove Mao Zedong «cominciò avivere aiutando i genitori nei lavori della stalla».Chi ci arriva è stato preparato: conosce biografiae storia a memoria, ha scorso centinaia di foto-grafie d’epoca, digerito decine di documentariseppiati e si limita a dire «vado alla Casa». Sa che,dopo due ore d’attesa e giorni di viaggio, scorreràin cinque minuti attraverso sei stanze spoglie diuna vecchia dimora contadina con muri e pavi-mento di fango, in riva a uno stagno, davanti a unarisaia e alla collina dove riposano l’amata madree l’odiato padre del Presidente Mao. Eppure, do-po centovent’anni dal divino vagito, la massa deicinesi indebitati per una berlina tedesca e con ilsogno inconfessabile di fuggire in America, pro-cede in religioso silenzio tra il focolare e la vascaper l’acqua, commossa dalla propria, presto di-menticata povertà. È questo il capolavoro dellapropaganda maoista, più forte del silenzio chetorna ad avvolgere lo sterminio del “Grande Bal-zo in Avanti” e i crimini della Rivoluzione cultu-rale, abomini negati o ignorati del maoismo. Ilmessaggio universale della rinnovata nomencla-tura è potente: l’energia dell’epocale successo ci-nese continua a derivare dalla forza di questa mi-
seria, dalle privazioni, dal sacrificio, dall’onestà,dall’abnegazione filiale, dalla frugalità, dalla de-terminazione che permisero a un giovane conta-dino dello Hunan di trascinare la patria coloniz-zata dall’impero al socialismo, mutando il corsodi due secoli. È il cuore dell’aggiornata ideologiacapital-comunista della svolta riformista annun-ciata il 12 novembre da Xi Jinping: «Spianare lemontagne», «arricchirsi gloriosamente» e ora«consegnarsi al mercato», ma non rinunciare «al-l’anima marxista del servire il popolo». A questoappalto della persuasione resta affidata l’irrinun-ciabile sacralità della casa natale del PresidenteMao. Si può evitare il mausoleo di Tiananmen,non la culla di Shaoshan. Cinque minuti di rac-coglimento e una fotografia sull’augusto uscio,come in una Mecca materialista, bastano per unavita obbediente, se si riconosce l’autorità del luo-go-mito. Il rinnovato impegno a una tale fedeltàvale ben l’investimento di Pechino che, per l’oc-casione, rompendo un altro storico tabù, si ap-presta a lanciare il cartoon Quando Mao Zedongera giovane, a esportare il film d’animazione Co-me si fa a diventare presidente e a stampare il vo-lume Qualcuno deve finalmente dire la verità, chenega i quaranta milioni di morti del “Grande Bal-zo in Avanti”.
«Nessuno spreco per l’anniversario — dice ilfunzionario che mi accompagna a salutare l’ulti-ma vicina di casa che assicura di essere stata ami-
ca del Grande Timoniere — Mao non appartienealla sinistra, è l’ispiratore di ogni cinese e i giova-ni di tutto il mondo devono conoscerlo». L’ambi-guità scientifica della divinità e dei suoi interpre-ti: dopo centovent’anni, grazie all’umiltà dellaCasa, il Presidente Mao resta il volto del partito-Stato, ma diventa pure l’immagine dei suoi op-positori interni, del montante ma imperseguibi-le dissenso-maoista che vorrebbe abbattere lacasta corrotta che, proprio nel nome di Mao, tor-na a teorizzare il potere come dinastia ereditariadei grandi interessi di clan. Primo difensore e at-to d’accusa, sintetizzati in unico mandato del cie-lo, «insidiato solo — assicura la guida — dalla ten-tazione del denaro». Lo spirito di Mao però nonha impedito alla Cina di crescere fino a diventarela potenza più ricca del secolo. Un tappeto di te-ste adoranti, mentre la notte risale il passo del “Ri-poso della tigre”, si inchina così emozionata da-vanti alla gigantesca macina di pietra che il pic-colo Zedong «riuscì a muovere già all’età di tre an-ni». Fantasie, storia, parabole, propaganda:quanto tempo resisterà questa Cina del dopo fi-glio unico e liberata dai campi di lavoro, ma co-stretta ad aggrapparsi all’unico dio che riconoscecome proprio, per poterlo quotidianamente ab-battere senza crollare? «Mao Zedong vivrà persempre — recita il falegname che entro il 26 di-cembre deve finire di restaurarne l’altare dome-stico degli avi — Ma una cosa è certa: se Lui tor-nasse qui e vedesse ciò che siamo diventati, altroche riforme, farebbe subito un’altra rivoluzione».
Un culto ancora oggi funzionale sia alla Cina comunista sia a quella consumista
CON I CONTADINI
Mao Zedong davanti alla casa di Shaoshanin cui nacque il 26 dicembre 1893,ora trasformata in museo (nelle foto a colori)In basso, la grande illustrazione raffigurail pellegrinaggio verso la casa:sotto il disegno si legge la scritta“Shaoshan, il luogo in cui sorge il sole rosso”
IL CORTILE INTERNO
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
una settimana. Un piccolo patrimo-nio, da queste parti. Dove quello del-l’ambulante è diventato il nuovo me-stiere, l’ipotesi di un pezzo di futuro,per molti giovani del ghetto. Evitandoi furti, la violenza e il controllo dellamalavita locale fanno circolare mer-ci, sorrisi, trattative e oggetti. Dallegiacche vendute da Isaac ai paralumidi George, fino agli scaldavivande inplastica di Peter.
Tutti hanno bisogno di qualcosa,tutti offrono qualcosa. Come le scopedi saggina di Josiah o le sim card diBen. Ma anche le marionette di Ber-nard e i cappelli di Jimmy, i medici-nali di Lessiamon e i vestiti da bambi-ni di George. Per la musica, invece,basta rivolgersi a Erastus, 27 anni:speaker a tracolla e microfono in ma-no, canta e improvvisa sulle basi regi-strate raccogliendo le offerte tra ilpubblico.
Perché questa è una storia fatta dipiccoli, ma importanti esempi. Den-tro un movimento continuo di facce ecommerci, che arriva fino a noi graziealle immagini scattate da Filippo Ro-mano, quarantacinquenne milane-se. A Mathare lavora con due venten-ni: Jfam, rapper molto noto nel ghet-to, e Adigo, attivista e volontario diuna ong. «Sono le mie guide, le mieantenne, ma soprattutto condivido-
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MARCO MATHIEU
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Guadagno
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JohnstonMutunga21 anniVenditoredi pesticidi200 scellini(circa 2 euro)al giornoIndossa un cappello“da topo”per attirarel’attenzionedei clienti
DanielNdunju24 anniVenditoredi pelucheLa sua motoè negozioe magazzino
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SlumGeorge è specializzato in paralumi, Jacksonin scarpe, Michel in reggiseni, Erastus cantaPiccolissimi imprenditoridel ghetto sono (anche) lorogli artefici della nuova Africa
L’attualità
economyD
aniel, per esempio. Ha24 anni, una moglie,un figlio. E la vecchiamotocicletta con cuigira, sommerso dauna montagna di pu-
pazzi di peluche, tra i vicoli di questaimmensa distesa di baracche. Ovve-ro, Mathare: slum alla periferia diNairobi dove provano a sopravvivere
più di seicentomila persone. E decinedi venditori ambulanti, come Daniel.
Oppure Jackson e Mike, 36 anni indue, specializzati in scarpe usate: do-po averle scelte tra quelle che riem-piono i container in arrivo da Europae Stati Uniti, le hanno aggiustate, la-vate e lucidate. E ora le vendono, arri-vando a guadagnare anche 3.000scellini (l’equivalente di 30 euro) in
I negozi di Nairobihanno buone gambe
GeorgeNyongeVenditoredi paralumiFino a 1000scellini al giorno(10 euro)Sposato con 4 figli
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particolari
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particolari
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Guadagno
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particolari
MichelMtuo50 anniVenditoredi reggiseni300 scellini(circa 3 euro)al giornoHa 4 figliParla benel’inglese
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JackLucidatoredi scarpe150 scellini(1,50 euro)per ognipaio di scarpe
Lessiamon25 anniVenditoredi medicinetradizionaliNella tanicaha un sieroantimalaricovendutoper 30 scellini(30 centesimidi euro)al bicchiere
ErastusKamau Wa Shaini27 anniCanta su basiregistrate
WilliamThega24 anniCammelliereOgni corsadura 10 minutie costa 10 scellini500 scellini(circa 5 euro)al giornoIl cammello è suo
no il mio progetto (LiveInSlums) cheparte dal rapporto speciale che gliabitanti dello slum hanno con le im-magini», racconta Filippo. «Se entri inuna baracca chiunque ti mostra il suoalbum personale con le foto in forma-to 10x15. La fotografia diventa il mo-do per raccontare la propria vita: so-no scatti fatti in giorni speciali, tuttitendono a essere eleganti, attenti almodo in cui si vestono». Compresi inuovi ambulanti che si muovono ve-loci tra le strade dissestate di Matha-re. «Ho iniziato tre anni fa a raccoglie-re le loro storie: a ognuno di quelli cheritraggo regalo una foto, perché ricor-di il giorno che muzungo — il musobianco — lo ha ritratto. E quelle im-magini servono poi per entrare nelcircuito del microcredito, che è di-ventato il nuovo e piccolo motoreeconomico dello slum».
Piccoli scambi, altri esempi. I nuo-vi ambulanti vengono infatti aiutati— con un principio simile a quellodelle start-up — da WhyNotAca-demy, la scuola che li mette in rela-zione con una piccola galassia di onge imprenditori. Sono poi loro a soste-nere l’avvio dei progetti, muovendocosì un circuito virtuoso di potenzia-le riscatto sociale in questa gigante-sca area precaria di umanità alla ri-cerca della sopravvivenza. Come in-
segna la storia di Tommy, o almenocosì tutti lo chiamano a Mathare. «Fa-ceva parte di una delle tante gang dirapinatori», ricorda Filippo. «Ma nelghetto il controllo della malavita èpressoché totale e non ammette sgar-ri, eccezioni. Sono frequenti gli episo-di in cui la mafia locale trova questigiovanissimi banditi e li espone al lin-ciaggio delle persone comuni, fino abruciarne i corpi». Tommy ce l’ha fat-ta: si è tirato fuori accedendo al pro-getto dello scambio, raccontando lasua storia e facendosi fotografare, ini-ziando così anche lui ad andare in gi-ro a vendere qualcosa: canna da zuc-chero, che la gente compra e poi suc-chia, mentre lui gira con il suo carrel-lo tra i vicoli.
Perché il futuro è un concetto lon-tano, in questo slum a venti minutidal centro di Nairobi. Ma i giovaniambulanti ora provano ad arrivarcicon un altro scambio. Un altro picco-lo, ma importante esempio. E a senti-re Filippo sembra già di rivedere ilsorriso di Daniel, sulla sua moto inmezzo alla montagna di pupazzi dipeluche. «Faremo un libro, con le im-magini e le storie di questi ragazzi, or-ganizzeremo una piattaforma onlineper far continuare il racconto a loro,sul web».
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Negli anni Ottanta del secolo scorso, meno di diecianni prima di crollare per sempre, il regime segre-gazionista sudafricano appariva ancora forte.
Certo, i ghetti neri erano in rivolta, il governo costretto al-lo stato d’emergenza, il prezzo di sangue era molto alto,ma la forza del regime razzista appariva invincibile. Ep-pure, l’azione combinata della instabilità interna e dellecrescenti pressioni internazionali cominciarono a pro-durre le prime crepe. Ci fu un tentativo di ammorbidire ilrigore delle leggi segregazioniste. Il simbolo di questasvolta inattesa furono gli hawkers, i venditori ambulanti.
Le leggi dell’apartheid disciplinavano in maniera rigi-dissima la separazione delle razze. Separate, in particola-re, erano le aree di residenza. Alla sera i neri dovevanorientrare nei loro sterminati quartieri-ghetto e per uscir-ne dovevano a richiesta esibire dei lasciapassare, dei“passaporti interni”. Nelle zone dei bianchi erano am-messi solo per motivi di lavoro, e il lavoro era a sua voltamolto rigidamente codificato. La manodopera necessa-ria alle varie attività era puntigliosamente quantificata.Così il venditore ambulante, che propone la sua merce aun angolo di strada, incarnava ciò che l’apartheid com-batteva con tutte le sue forze: un moto di libertà. Ed eraperseguito alla stregua di un sovversivo, di un terrorista.
Per questo la notizia che il governo aveva deciso di li-beralizzare il commercio ambulante suonò, in quel con-
testo, sconvolgente. Gli hawkers, che subito popolaronoi marciapiedi del centro città con ogni sorta di mercanzia,erano gli araldi di una rivoluzione.
Lo sbarco dei venditori di paccottiglia nel central busi-ness district di Johannesburg mise infatti sotto gli occhi ditutti due cose. Primo, che sebbene negli schieramentidella guerra fredda il regime sudafricano fosse stato unbaluardo del “libero mercato”, esso era in realtà statalista,ipernormativo, illiberale nel campo economico forse an-cor più di quanto non lo fosse in quello politico. Non a ca-so il grande capitalismo privato, a cominciare dalle mul-tinazionali di oro e diamanti, gli era diventato ostile.
La seconda era il suo carattere radicalmente anti-afri-cano. Come confermano i ritratti fotografici pubblicati inquesta pagina, scattati a Nairobi, il venditore ambulanteè in tutta l’Africa la cellula economica di base. Potremmochiamarlo un liberismo antropologico, prima ancora cheeconomico. Egli incarna una verità spiacevole che nonamiamo sentirci dire: siamo stati noi europei, con la con-quista coloniale prima, con le regole di scambio inegualipoi, saccheggiando le materie prime in regime di mono-polio o mettendo fuori gara gli agricoltori africani perchésovvenzioniamo slealmente i nostri, a impedire a questiumili venditori appostati all’incrocio di diventare com-petitors sul mercato mondiale.
Gli ambulanti che sfidarono l’apartheidPIETRO VERONESE
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Guadagno
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Tutto solo, le mani in tasca, lo sguardo sereno e un’aureola intornoQuell’immagine magica scattata nel paesino abbruzzese alla fine degli anni Cinquantafinì poi al MoMa di New York. Ora la nipote del grande fotografoitaliano ha scoperto chi è quel ragazzino.Noi l’abbiamo incontrato:“Se sto così rigido è perché faceva freddo e avevo addosso soltanto un golfino...”
La storiaIncroci
LIVORNO
«L’ho trovato!»,esulta Simonavia email. Simo-na è un’eccel-
lente archivista e ricercatrice di fotogra-fia, trovare è il suo mestiere. Ma ha tro-vato cosa? «Il bambino! Il bambino diScanno, quello nella foto dello zio. Nonricordi?». Simona Guerra è anche la ni-pote di Mario Giacomelli, il Leopardi delbianco-e-nero, il genio irregolare di Se-nigallia, uno dei quattro o cinque nomiche tutto il mondo conosce nella storiadella fotografia italiana. Sì, ricordo, unpaio d’anni fa, quando Simona pub-blicò un suo lungo colloquio biograficocon lo zio registrato poco prima che mo-risse nel 2000, parlammo di quella fotodi mezzo secolo fa che diventò la sua piùcelebre, la foto magica col bambino au-reolato di luce in mezzo alle donne innero, nel paesino abruzzese di Scanno,e le dissi: «pensa che emozione sarebbeincontrare oggi quel bambino... La riap-parizione del Referente...». Lei nonsembrava convinta. Invece poi l’ha tro-vato. Nel modo più semplice: è andata aScanno con la fotografia sottobraccio, eha cominciato a fermare la gente perstrada: «Riconosce questo bambino?».Non ha dovuto insistere. «È Claudio DeCola», prima due anziani, poi un capan-nello, identificazione corale, «Abitavavicino alla chiesa. Ci stanno ancora isuoi genitori». E i genitori, che quella fo-tografia celebre non l’avevano mai vi-sta: «È Claudio», confermano sicuri, ti-rano fuori l’album delle prime comu-nioni, e non ci sono dubbi: ecco Clau-dio, più grandicello ma identico, so-pracciglia, orecchie, stempiatura, stes-se mani in tasca.
Claudio non vive più a Scanno da de-cenni. Ha una sessantina d’anni, è spo-sato, ha figli, abita in Toscana. Bene, an-diamo a trovarlo. «No, io non vengo», ri-sponde Simona, lapidaria. Ma come?L’hai cercato per anni... «Io mi fermoqui. A Scanno ho cercato qualcosa dime, la mia infanzia, quel che mi ha datoquell’immagine, e io le resto fedele. Lefotografie bisogna lasciarle stare. Cer-care è meglio che trovare». Resto senzaparole. Simona, nelle foto ci sono le no-stre emozioni, ma anche il mondo...Certe fotografie ti tirano dentro, e que-sta è una. Come disse Roland Barthes difronte a uno scatto di Kertész, ritratto diun bimbo dell’età di Claudio: «È possi-bile che Ernest viva ancora? Ma dove?Come? Che romanzo!». Ecco Simona, iovorrei il romanzo. «Allora vai tu», sospi-ra, capisco che solo l’amicizia le impe-disce di essere più brusca, «scriverò unlibro su questa foto, pubblico la scoper-ta sul mio sito, ma con questo ho rag-
giunto il mio ultimo scalino. Tu se credicerca il tuo».
Ed eccomi davanti a un condominioanni Cinquanta, nel centro di Livorno.Apre la porta, sorridendo un po’ imba-razzato. Stempiatura. Sopracciglia. Eha le mani in tasca! «È più forte di me»,ride «non sa che fatica trattenermi,quand’ero in divisa...». Claudio è statoper quarant’anni un finanziere. È anda-to in pensione un anno fa col grado diluogotenente, poi la nomina a cavalie-re. Il salotto è pieno di quadri. La foto-grafia di Giacomelli non c’è. «Devo ave-re il ritaglio da qualche parte».
Sì, l’aveva già incontrato il suo avatarin bianco e nero. Una quindicina d’an-ni fa la foto era apparsa su un quotidia-no, e un conoscente gli aveva detto«guarda, ci sei tu». Ma Claudio pensavafosse una delle tante foto storiche diScanno. Città fotogenica, fin troppo. Daquando, nel 1952, passò di lì Henri Car-tier-Bresson, e creò il cliché arcaico me-
ridionale delle donne in nero fra stradi-ne di ciottoli e scalinate, quel paesinomontano d’Abruzzo divenne la Meccadei fotoamatori, che ci facevano le gitedomenicali, ma anche di grandi firme,Berengo Gardin, Roiter, Cresci, Monti...I bar espongono foto da museo, c’è pu-re una “via della Fotografia”.
Giacomelli, tipografo intellettuale eun po’ misantropo, andò a Scanno duevolte, nel ’57 e nel ’59, anche un po’ persfidare lo stereotipo di eden del pittore-sco che Scanno era diventata. Per lui era«posto di favola», luogo immaginario,forzò i diaframmi per evitare il docu-mento, tornò a casa con un pugno di im-magini rarefatte, contrastate, «spor-che», di bianchi bruciati e neri catramo-si. Il critico Piero Racanicchi se ne inna-morò. Le mostrò a John Szarkowski, di-rettore della sezione fotografia del Mo-Ma di New York. Che ci impazzì. Il“bambino di Scanno” fu l’unica foto-grafia italiana tra le cento della mostra-
spartiacque “Looking at Photographs”.Quel bambino aureolato in realtà nonentusiasmava il suo autore, la sua fotopiù famosa non è mai stata la sua prefe-rita, al collega Alfredo Camisa confessòaddirittura che quell’alone rinforzato incamera oscura gli era venuto «masche-rato male», «quasi una porcheria». Ma ilguru americano stravide per le diago-nali, i contrasti, per quei profili malin-conici di donne scure che gli parvero«bersagli di un tirassegno meccanico»...
«Ma no, avevano freddo», sorrideClaudio, mite e senza retorica. «A Scan-no fa freddo d’inverno. Vede, io sto rigi-do perché ho freddo e ho solo un golfi-no. E quelle donne di sicuro hanno loscaldino sotto il mantello». Me ne mo-stra uno, di quegli scaldini, piccolo bra-ciere di ottone, stufetta portatile: «Perquesto camminano così curve». Esplo-ra la fotografia che gli ho portato, col di-to, centimetro per centimetro. Giaco-melli ha “mangiato” i dettagli, ma Clau-
MICHELE SMARGIASSI
“Sono io il capolavoro di Giacomelli”
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dio li ripesca: «Questa è la chiesa diSant’Antonio. Io abitavo nell’ex con-vento, queste sono le finestre di casamia, ci sono i nostri panni stesi, vede?».
Un anno fa Claudia, sua figlia, laurea-ta in Storia dell’arte, incontrò questa fo-to su una parete del Mart di Rovereto.«Babbo sei in un museo», gli telefonò.Appresero con stupore la fama di quel-la immagine vista forse da milioni dipersone in mezzo mondo. «E dire che ame non piace viaggiare...». Claudioguarda il suo alter ego con moderato af-fetto, come fosse uno dei suoi cuginiemigrati. Quel momento, però, non lo
ricorda. Giacomelli che lo fotografa nonc’è, nella sua memoria. «Curioso, quel-lo spiazzo era sempre pieno di bambini,chissà come ha fatto a prendermi da so-lo». La solitudine di quel bimbo è il fa-scino che ha reso celebre l’immagine,come il suo volto, unica cosa a fuoco,unico volto sereno, l’unico che sembraguardare verso un futuro... «Mi sa chestavo andando da mia zia», si schermi-sce Claudio. «Ma qualcosa di vero c’è.Qui avrò forse sei anni. L’anno dopo mimisero in collegio dalle suore, all’Aqui-la. Questa fotografia segna un passaggionella mia vita. Da allora non ho mai più
vissuto a Scanno».Non ci sono più co-se da dire. Sapersil’originale di un’o-pera d’arte, sentirsicome la Monna Li-sa della fotografia,è stata per lui unacuriosità piacevo-le, «ma non micambia la vita». Cisalutiamo. Pro-mette: «Magari ungiorno andrò aNew York a veder-mi in quel museo».
Più tardi, Simo-na mi chiama al cellulare. Un po’ ansio-sa. «Allora?». Tranquilla. Anche io horaggiunto il mio gradino. Oggi ho in-contrato una persona, non una fotogra-fia. Spesso le strade delle persone e del-le fotografie si incrociano, rare voltequell’incontro produce immagini cherestano patrimonio dell’umanità. Madura pochi centesimi di secondo, poi fo-to e persona prendono ciascuna la pro-pria strada. Rarissime volte, per qualcheistante, si incontrano di nuovo e si salu-tano con rispetto e distaccata cortesia.
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LE IMMAGINI
In alto, il “Bambino di Scanno” di MarioGiacomelli (per gentile concessionedell’Archivio Giacomelli di Senigalliae di Simone Giacomelli). Nell’altrapagina, Claudio De Cola in posacon il suo ritratto da bambinoA sinistra, dall’album di famiglia, una foto di Claudio da piccolo messaa confronto con quella di GiacomelliQui accanto Simona Guerra, nipotedel fotografo, con la madre e (sopra) il padre di Claudio; cerchiato in rosso,Giacomelli nel 1957 a Scanno
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SpettacoliDuri e puri
“Vivo isolato dal mondoma contro la stupiditànon c’è muro che tenga”Il grande jazzistaracconta a “Repubblica”la fatica di vivereai tempi di Facebook
Ma pure l’entusiasmoper il suo ultimo lavoro“Arriva da un luogodove sempre piùraramente i creativihanno accesso”
I DISCHI
La copertina di No End (edizioni Ecm),ultima fatica di Keith Jarrett: in un doppio cd venti brani sovraincisiin splendida solitudine nel 1986 e fino a oggi rimasti ineditiSotto, la copertina di The Köln Concert (1975),il disco più venduto della storia del jazz(4 milioni di copie) e quella di Restoration Ruin
(1968), il suo “manifesto hippie”Nell’altra pagina Jarrett oggi,sessantottenne. Tutt’intorno alcunecopertine dei suoi oltre 100 dischi pubblicati
KeithJarrett
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straordinario sen-tirlo ridere. Non lasmorfia a dentistretti che indiriz-za al pubblico allafine dei più feliciconcerti in trio, mascoppi allegri, fra-gorosi, irrefrena-bili. Ricordare, l’e-sercizio che l’hasempre indispetti-
to, ora lo diverte. Quando parla di MilesDavis ne imita perfettamente la voce,quando racconta dei suoi anni Sessan-ta è sereno e divertito. Keith Jarrett, ses-santotto anni, pianista sublime il cuigenio e tormento non hanno uguali senon in Glenn Gould nella storia musi-cale del Novecento, ha ritrovato il buo-numore riascoltando una serie di regi-strazioni che aveva seppellito nellostudio di Warren County, nel New Jer-sey. Un raptus che lo colse nel cuore de-gli anni Ottanta: abbandonato in unangolo il pianoforte, prese a sovrinci-dere basi di chitarra elettrica, basso,percussioni e voce — quelle tipiche in-trusioni vocali sempre più udibili neisuoi concerti. Il risultato esce soltantoadesso e sta in un doppio cd, No End(pubblicato contemporaneamente altriplo per piano solo Concerts: Bre-genz/Münchene alle Sonate per violinoe tastiera di Bach eseguite con Michel-le Makarski). Sono venti movimentimusicali senza titolo, diario sonoro diuno stato di grazia e di una leggerezzadi cui non lo credevamo capace; un’e-sperienza sorprendente nella sua vastadiscografia di quasi cento album, traincisioni per pianoforte (The Köln Con-cert, del 1975, è il disco più venduto del-la storia del jazz con quasi quattro mi-lioni di copie), in trio e incursioni nellamusica classica e contemporanea (Ba-ch, Händel, Mozart, Shostakovich e Ar-vo Pärt). Qui non c’è ombra del Jarrettombroso, scontroso, egotista, schizoi-de, lacerato da un fervore creativo chesfida l’impossibile. No end è piuttostouna serie di mantra antistress, suoniper un moderno Zabriskie Point. «Dan-ze tribali di mia invenzione», le chiamaJarrett entusiasta. «I miei amici, anchemusicisti, che l’hanno ascoltato mihanno guardato stupefatti. “Che robaè?”. Poi, alla fine: “Una cosa è certa, seitu!”», aggiunge soddisfatto.
Sembra ancora più sorpreso di noiquando parla di No End.
«Lo sono. È musica diversa, ricca,ritmica, contagiosa».
Cosa ricorda di quei giorni trascor-si in solitudine nel suo studio?
«Sono passati ventisette anni, noneravamo ostaggi del terrorismo, se-dotti dalla Apple, indottrinati da sub-doli messaggi politici. La felicità eraancora a portata di mano, la libertà eraun diritto acquisito. Suonare era gioiaallo stato puro. Il resto è nebuloso; fecitutto da solo, mi ero preso terribilmen-te sul serio anche come ingegnere delsuono. C’erano momenti in cui mi la-sciavo andare, uscivo da me; come sestessi ascoltando la performance di unaltro musicista. La medesima euforia
tipo sebbene come gli altri hippie fossialla ricerca di una verità fuori del dog-ma. Avevo appena lasciato il gruppo diCharles Lloyd, ero disoccupato. NellaWest Coast c’era una scena musicalemolto effervescente e un locale, il Fill-more West, che era il sogno di tutti imusicisti. Ero un figlio dei fiori a tuttigli effetti, presi anche a frequentarecorsi in cui si parlava di spiritualità edel ruolo dell’uomo nell’universo».
Nel 1968 incise Restoration Ruin, ilsuo manifesto hippie, in cui usava an-che voce e sassofono.
«Lo spirito era lo stesso, ma No Endsuona molto meglio. Odio gli studi diregistrazione, asettici come sale ope-ratorie. In quello che mi sono costrui-to qui nel New Jersey c’è una grande fi-nestra che si spalanca su uno sconfi-nato paesaggio americano. Quandosuono e guardo fuori, lo spirito si ri-crea. Qui dentro ho superato un com-plicato esaurimento nervoso (nel2008, dopo la separazione dalla secon-da moglie, ndr). Avevo bisogno di unposto dove suonare liberamente, ma-gari per tutto il giorno, proprio come aGolden Gate Park».
L’America e il mondo intero sem-brano aver dimenticato le aspirazionipacifiste di quegli anni.
«Tutto sepolto sotto una coltre diconformismo e perbenismo. La musicache si ascolta oggi ne è il riflesso —schiavi della ripetizione. Non ci sonopiù certezze, tutto è soggetto a mera va-lutazione economica. Un artista nondovrebbe farsi influenzare dalle circo-stanze esterne. Vivo in completo isola-mento, dunque non sono costretto asubire l’inquinamento acustico di altricondomini, non ascolto musica a me-no che non voglia farlo. Ma nonostantela mia priorità — che probabilmenteconosce: mantenere la musica a un li-vello più puro possibile — non riesco aprendere le distanze da tutta la merdache c’è lì fuori. Non ci sono mura che rie-scano a isolarti dalla stupidità, nulla èpiù potente dell’ignoranza. Credo chegli avvenimenti degli ultimi anni abbia-no scosso tutti gli artisti, anche quellipiù impermeabili. È triste, e per questosono così affezionato a queste musiche:arrivano da un luogo dove sempre piùraramente i creativi hanno accesso».
Si sente isolato?«No. Sto finendo di leggere The Cir-
cle, l’ultimo romanzo di Dave Eggers,una storia ambientata nell’era del-l’informazione globale che rischia diappiattire le nostre identità, fare scem-pio della privacy, neutralizzare le opi-nioni prima ancora che venganoespresse. Mi dispiace, ma non mi sen-to parte della cosiddetta corporate lifené della community di Facebook. Masono pur sempre cittadino del Paesedove questo ha avuto origine, lo stessoche ha prodotto una musica straordi-naria, meravigliosamente multiraz-ziale e multiculturale».
Il jazz: la musica classica del vente-simo secolo?
«Speriamo non ci vogliano due se-coli per acclararlo».
nipotina di cinque anni, si è messa im-mediatamente a ballare. Noah haesclamato: “Papà, hai allargato la tuaplatea al pubblico dell’asilo”. In effettifu un approccio innocente. Non ricor-do esattamente perché lo feci. Fu un’e-sigenza liberatoria? Stavo preparando-mi a uno di quegli estenuanti tour perpiano solo? Era musica terapeutica, nelsenso più primitivo del termine, e an-cora lo è».
Lasciare in un angolo il piano, cuiconcede solo un cameo, e suonare al-tri strumenti le servì ad allentare latensione?
«Non direi. Il punto è un altro: riescoa stabilire un rapporto di maggiore in-timità con gli strumenti che posso im-bracciare. Il pianoforte è uno stru-mento molto complicato, tra lui e mec’è un costante scontro di personalità,non sono mai me stesso come con unachitarra, un basso o un sassofono che
stringo in mano.Ricordo un con-certo che tenni aNew York moltianni fa, alla finedegli anni Sessan-ta (con Charlie Ha-den e Paul Mo-tian), in cui cerca-vo di far suonare ilpianoforte comeuna chitarra. Mi-les Davis, che eravenuto ad ascol-tarci, mi disse: “Tusuoni lo strumen-to sbagliato”. Sa-pevo esattamentequel che intende-va. In quegli anninella mia testaronzavano altrisuoni, voci e chi-tarre soprattutto».
Era il 1986,sembra un secolo
fa. In No End si lasciò andare a unamusica che sembra l’appendice delsogno hippie. Evidentemente lo spiri-to degli anni Sessanta era ancora benvivo.
«Mi trasferii a San Francisco nel pe-riodo di massima fioritura del movi-mento, quando sembrava che nessu-no capisse quei messaggi di pace eamore così semplici ed efficaci se noncoloro che ruotavano nell’area di Hai-ght-Ashbury. Abitavo in un seminter-rato proprio nel quartiere dei figli deifiori. Una mattina chiesi al mio vicinodi casa — ora non ricordo il suo nome— se avesse voglia di venire a suonarequalcosa con me. “Se ne incontriamoaltri lungo la strada potremmo forma-re una band”, gli dissi. Rimasi a suona-re il sassofono sotto un albero del Gol-den Gate Park fino al tramonto. La mu-sica è qualcosa che viene da dentro,qualsiasi circostanza esterna, qualsia-si forzatura uccide la spontaneità; lamusica affoga quando è costretta anuotare in acque limacciose».
Che ragazzo era all’epoca, di qualisogni si nutriva come artista?
«Non ho mai preso droghe di nessun
che ho provato quando ho cominciatoa riascoltare le vecchie cassette e lavo-rare alla postproduzione del cd. Hoimpiegato almeno settanta ore per ot-tenere un risultato sonoro accettabile.E non mi sono mai annoiato».
Furono musiche registrate in ordi-ne sparso o lo stream of consciousnessdi un artista?
«Ero in preda a una sorta di smaniacreativa, andavo in studio ogni giornosenza nessuna idea melodica o ritmicain mente, improvvisavo dall’alba altramonto. Ricordo solo il feeling, lostato di grazia in cui mi sentivo, ispira-to, in estasi, rapito in una dimensioneparallela che stento a decifrare. Ognivolta che imbracciavo uno strumentoera come se mi preparassi a suonarenel gruppo di qualcun altro».
Qual era lo strumento guida?«Di solito era la batteria a entrare per
prima, un drumming primitivo che ac-compagna vibra-zioni decisamenterock, il rock comel’intendo io, noncome i batteristitradizionali che ri-petono lo stessoritmo fino allanoia. Alteravo i vo-lumi a seconda dicom’era l’ascoltoin cuffia. Oggi ot-tenere lo stesso ri-sultato sarebbepiù difficile che fa-re rafting alle sor-genti del Nilo. È unesperimento uni-co e irripetibile; inquel momentoavevo l’energia disei musicisti, equesto è uno deimotivi per cui ogginon sarei in gradodi rifarlo. Le sem-brerà ridicolo, patetico, ma mentre erointento alla preparazione del disco im-maginavo le conversazioni di studiotra vari musicisti — e lo facevo ad altavoce. Ci sono almeno sei diversi KeithJarrett in questo progetto».
Musica per risollevare lo spirito: ciriporta a Ravi Shankar, ai viaggi inter-galattici di John Coltrane e alla musicatotale che lei sperimentò col gruppo diMiles Davis nei primi anni Settanta.
«Infatti oggi ripenso a quella come aun’esperienza mistica. I miei figli eranogiovanissimi all’epoca — uno era in pie-no trip punk con il taglio da moicano etutto il resto, l’altro invaghito di MichaelJackson. Entrai in studio e presi in ma-no la chitarra pensando: riuscirò mai asuonare qualcosa che li interessa? Masiccome credo fermamente che qual-siasi musicista di un certo livello non siacapace di suonare per altri che per sestesso, una volta che quest’avventuraprese piede dimenticai i miei figli, erauna cosa mia e solo mia. Noah, il piùgrande, che ora ha più di trent’anni enon aveva mai ascoltato queste musi-che, è venuto a trovarmi qualche giornofa e le ha trovate geniali; sua figlia, la mia
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“La mia musicasorprende anche me”
GIUSEPPE VIDETTI
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NextTrasporto aereo
neidettagli che si nasconde il diavolo. Così, tra un futu-ro visionario e uno molto più banale, la differenza puòfarla un semplice filo. Intere generazioni di autori difantascienza hanno immaginato città avveniristichedove il traffico è sparito, sostituito da un viavai di navi-celle che si muovono libere nell’aria. Effettivamente èciò che sembrano riservarci gli anni a venire, ma il me-rito non sarà di qualche rivoluzionario sistema di tra-sporto capace di vincere la gravità. A trasferire buonaparte degli spostamenti a qualche decina di metri daterra sarà piuttosto una tecnologia vecchia di oltre unsecolo: la funivia. Più ecologica, più economica, piùsemplice da gestire e spesso decisamente più bella, lafunivia sta emigrando dalle cime delle montagne perconquistare sempre più spazi in città, dimostrando diessere anche nelle zone di pianura una validissima al-ternativa a bus, tram e metropolitane. «Le cabinovie e isistemi di transito a cavo sono al momento una delletecnologie più dinamiche e a più rapida diffusione almondo», spiega Steven Dale, urbanista canadese a ca-po del Creative Urban Projects. «Mano a mano che unnumero crescente di città fa a gara per realizzare reti ditrasporti sempre più complesse, aumenta il ricorso al-le funivie per risolvere i loro problemi», sottolinea. «È
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Molto più economiche,ecologiche, velocie perfino belle, le funiviestanno conquistandoi grandi centri urbani
Dopo Londra, Rio e Medellin,dove si viaggia già sospesi,anche Amburgo, Ankara e Lagos(tra le tante) avranno prestouna metropolitana in cielo
Cittàvolanti
Se il trafficoè appesoa un filo
VALERIO GUALERZI
FUNIVIA AEREA
Cabineper passeggerio contenitoriper le merciviaggianosospesie trainatida un sistemadi funi
CABINOVIA
Mezzoa funeche prevedeil funzionamentocontinuativodi più di duecabineper il trasportodi persone
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volte meno incidentirispetto al treno
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una tendenza generale, ma a trascinare il boom è so-prattutto l’America Latina», conferma Carlo Iacovini,manager di Clickutility e curatore di un recente conve-gno dedicato al tema dalla fiera Citytech. «L’economi-cità delle linee — osserva — consente l’accessibilità perquelle aree localizzate in collina e poco raggiungibilicon servizi di terra. Spesso si tratta di periferie degrada-te ad altissima densità abitativa che si possono rag-giungere solo sorvolandole. Medellin Metrocable inColombia è in servizio dal 2006; ha reso accessibile ilquartiere Aburra Valley trasportando seimila passeg-geri all’ora e risollevandolo da una situazione di degra-do e isolamento. Rio de Janeiro ha inaugurato la primaTeleferica Do Aleman nel 2011 con 3,5 km di lunghez-za e sei stazioni che collegano alcuni quartieri residen-ziali con il centro, con una capacità di tremila personeall’ora. Il successo è stato tale che si è replicato con unaseconda linea aperta in queste settimane che unisce ilquartiere di Morro da Providencia (la più antica favelasdi Rio) con il centro in pochi minuti».
I numeri dei collegamenti via cavo sono sorpren-denti. Ogni chilometro costa tra i tre e i quattro milionidi euro contro i cento di una linea metropolitana, mapuò garantire lo spostamento anche di tre o quattro mi-la persone all’ora, con punte fino a ottomila. «Ancorapiù interessanti sono i costi di gestione, davvero bas-sissimi visto che queste linee hanno bisogno di pocopersonale di controllo e solo alle stazioni del capoli-nea», sottolinea Maurizio Todisco, manager della Leit-ner, azienda altoatesina leader del settore. Molto più si-lenziose e meno inquinanti grazie ai motori elettrici, lefunivie hanno anche tempi di realizzazione decisa-mente più rapidi visto che, se il percorso non prevedeostacoli particolari, un classico tracciato cittadino da 5-6 km richiede meno di un anno per la sua realizzazionementre tram e metropolitane possono avere bisogno dioltre un decennio. Così, a fronte di questi vantaggi, la li-sta delle città che hanno già scelto o che si accingono ascegliere la mobilità via cavo si allunga di mese in me-se. «Nel giro di pochi anni la parte del nostro fatturatoderivante da cabinovie urbane è passato dal dieci alventi per cento del totale e siamo convinti che il busi-ness del futuro ormai sia sempre più questo», sottoli-
ANKARA
Con una portata di 2.400 personel’ora su un percorso di 3.204 metri,sarà la più lunga tra Europa e Asia
TOLOSA
Sarà ultimata entro il 2017 una lineadi 2,6 km: unirà tre punti strategicitrasportando 7.000 persone all’ora
LAGOS
Anche la capitale nigeriana avràla funivia nel 2015: farà risparmiareai cittadini fino a 70 minuti nel traffico
LIMA
Pronta per l’estate 2014 la lineache collegherà il Parco Muragliacon il Cerro di San Cristobal
LA PAZ
La più lunga teleferica urbanadel mondo, con 10.337 mt. per 3 lineee 11 stazioni, sarà pronta tra un anno
GENOVA
Potrebbe essere la prima in Italia:una linea che in 90 secondi porteràdal centro all’aeroporto Colombo
ROMA
Una teleferica che da Monte Marioarriverà allo Stadio Olimpico:un progetto ancora sulla carta
nea ancora Todisco. La Paz, Tolosa, Groningen, Lagos,Amburgo, La Mecca sono solo alcuni dei nomi di unelenco di progetti che tocca ormai i cinque continenti,ma il caso più clamoroso è forse quello di Ankara doveè in via di realizzazione un vero e proprio reticolo di li-nee aeree che anche nella mappa ricorda a tutti gli ef-fetti la tipica ragnatela di un efficiente sistema di me-tropolitane. E chi non passa alle funivie per risolvere iproblemi di traffico lo fa per richiamare turisti, comeLondra, dove la linea che sorvola il Tamigi inauguratain occasioni delle Olimpiadi del 2012 è diventata unadelle principali attrazioni. Sostanzialmente assente daquesto grande fermento l’Italia, malgrado abbia in ca-sa un’azienda come la Leitner che insieme agli austria-ci della Doppelmayr si spartisce il mercato mondialedel settore. Da noi, da Segrate a Genova, dal Ponte sul-lo Stretto all’Eur di Roma, siamo fermi a qualche pro-getto a corto di soldi o in attesa di passare dalle tante for-che caudine burocratiche. Eppure non mancano leidee d’avanguardia. L’architetto Stefano Panunzi, do-cente di Ingegneria edile all’Università del Molise,sponsorizza da anni la proposta di una «circolare vo-lante» che unisca i vecchi forti dismessi che fanno da co-rona al centro di Roma, ma davanti allo stop della so-vrintendenza collabora ora alla battaglia per la realiz-zazione di una cabinovia che unisca una zona periferi-ca (Casalotti) al capolinea di una linea della metro (Bat-tistini). «Ma non bisogna farne una questione ideologi-ca, le funivie non sono una panacea, occorrepromuoverle partendo dal basso, sulla spinta dei citta-dini e dei comitati di quartiere finalmente consapevoliche esistono delle valide alternative, economiche edecologiche, per riqualificare i loro quartieri». Anchequest’ultimo progetto per il momento è solo un sogno,ma come spesso accade, nel Paese dove il normale èquasi sempre impossibile, a volte succede qualcosa dieccezionale. È il caso di Perugia, dove dal 2008 è in fun-zione il primo esemplare al mondo di “minimetro”,una teleferica composta da 25 vagoni privi di condu-cente che adagiati su un binario vengono tirati da un ca-vo lungo un percorso di 4 km articolato in sette ferma-te, compresi i capolinea.
I PROGETTI
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TELEFERICA
Impiantoper il trasportodi materialiIl più diffusoè il continuotrifune, costituitoda due funiportantie una traente
MINIMETRO
Evoluzionedella funicolare:trasportoautomaticosu rotaia,con trazionea funeIl primoè a Perugia
RETICOLO
Sistemadi funiviea ragnatelache miraa sostituirele lineeferroviariedella metro,come ad Ankara
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FONTI: UNIVERSITÀ DI CATANIA, ACI
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I saporiFamiliari
AcquaTemperatura
ambiente, mineraleoligomineraleo microfiltrata,
per evitare che cloro e calcare rovinino gli aromi del caffè
Mai superarela valvola
FiltroInserito sulla caldaia
e riempito senzapressare la polvere(rapporto di 1 a 10
con l’acqua)Controllare
periodicamente che i forellinisiano liberi
CaffèMacinatura
non troppo fine(al momento, se possibile),
conservazionein frigo
in un barattoloa chiusura ermetica
di metallo
TazzinaIn ceramica spessa,
per mantenereil calore, di formaconica (maggior
superficie aromatica),preriscaldata in un pentolino
d’acqua o nel microonde
«Chimai potrebbe prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo...con la stessa cura... Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere espe-rienze e non trascuro niente». Il monologo di Eduardo de Filippo in Questi fan-tasmi! suona come il racconto di uno dei piccoli lussi che scandisce le nostregiornate. Roba per palati adulti, da concedersi in compagnia o in beata solitu-dine, a piccoli sorsi o tutto d’un fiato, nero e bollente o ingentilito da un nonnulla
di latte, buono a tutte le ore o contingentato per paura della caffeina. Un piacere lungo un secolo — daiprimi brevetti delle macchine espresso — che non conosce flessioni. Anzi, là dove la fruizione casa-linga non andava al di là di napoletana e “Moka Express”, inventata da Alfonso Bialetti nel 1933, oggifuroreggiano le mini-espresso. Una rivoluzione annunciata, destinata a dividere gli appassionati.
Il fuori-casa è indissolubilmente legato al consumo del cosiddetto “caffè da bar”: i tempi compres-si, l’ansia di un altrove da raggiungere un attimo dopo l’ultimo goccio, lo scambio rapido di battute coni vicini di bancone. Un consumo “sociale” così abitudinario che qualità della miscela e bravura del ba-rista spesso scadono a optional: con un tristanzuolo cambio di vocale, il gesto diventa più importantedel gusto. A casa, il caffè obbedisce a una ritualità diversa, che solletica tutti i sensi. Il gorgoglìo del li-quido che sale, l’aroma di tostatura, la tazzina calda tra le mani, il sapore deciso accompagnano l’ini-zio giornata in milioni di case. Una tradizione così rapida a radicarsi che già negli anni ’30 la ditta tori-nese Gaud aveva lanciato una caffettiera-sveglia pronta a entrare in funzione all’ora desiderata, arri-vando perfino a versare il caffè direttamente nella tazzina. Un rapporto d’affezione testimoniato daiquasi due milioni di pezzi venduti lo scorso anno.
Così, negli ultimi anni Illy, Lavazza e Nespresso si sono mossi con l’obbiettivo di scardinare il pote-re dell’Omino coi baffi — caricatura dello stesso Bialetti ideata dal grafico Paul Campani per una for-tunata serie di Carosello — e conquistare il mercato del caffè porzionato. Più del caffè (solo negli ulti-mi mesi si è arrivati alle capsule mono-origini), hanno potuto i poderosi investimenti nel marketing— le campagne con Clooney e Brignano testimonial — e nella tecnologia (comprese le primissime por-tatili). Sforzi capaci di produrre una prima erosione sensibile, se è vero che oggi quasi il 15 per centodelle famiglie italiane ha già affiancato, quando non sostituito, l’espresso alla Moka.
Se ancora non avete deciso a chi far vincere il derby del caffè, regalatevi una gita a Milano, dove fi-no all’8 dicembre il Museo della Permanente ospita “La Moka si mette in mostra, 80 anni di un’in-tuizione geniale diventata mito”. Quando uscite, andate in uno dei bar della “Rete del caffè Sospe-so”, che il 10 dicembre in concomitanza con la Giornata Internazionale dei Diritti Umani, riproporràl’usanza napoletana di lasciare un caffè pagato (sospeso) a chi non può permetterselo. Bevetene unoe pagatene due. Perché il caffè è un piacere: se non lo puoi condividere, che piacere è.
LICIA GRANELLO
Ilderbydelcaffèsigi oca
incasa
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© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’evoluzione
Più che il gusto poté il marketing. Fatto sta che i nuovimodi di preparare la bevanda più amata dagli italianiconquistano sempre più fette di mercatoA ottant’anni dalla nascita dell’ “Omino coi baffi”, tocca quindi schierarsi: vecchiamacchinetta o modernissima capsula?
IN MOSTRA
Un manifestodegli anni ’60e un disegnodella Mokain mostraa Milano. Sopra,macchineper il caffèdall’iniziodel ’900 a oggi
TORINO
TORREFAZIONEGRAN BRASILE Corso Cadore 33 Tel. 011-8990895
MILANO
TORREFAZIONEHODEIDAH Via Pierodella Francesca 8Tel. 02-342472
VERONA
TORREFAZIONEGIAMAICA CAFFÈVia Vittorio Merighi 5Tel. 045-569499
VENEZIA
CAFFÈ DEL DOGESestiere San Polo 608Tel. 041-5227787
BOLOGNA
TORREFAZIONECAFFÈ LELLIVia del Mobiliere 1Tel. 051-531608
Gli indirizzi
FiammaRigorosamente
bassa, da spegnereal primo gorgoglìo,per estrarre solole parti più nobili,
sacrificando la coda del caffè,
sovraestrattae amara i chilogrammi
di caffè tostatoconsumati nel 2012
in Italia
240milioni
Repubblica Nazionale
■ 39
DOMENICA 24 NOVEMBRE 2013
Esp
ress
o
CialdaLa polvere chiusa
in un filtrodi carta, spessointercambiabile tra i vari marchiViene utilizzata
anche per i caffèalternativi
(orzo, aromatizzati)
CapsuleMonoporzione
in materiale rigido,contenente
da 5,5 a 7 grammidi polvere, declinatain miscele diverse
Compatibilitàlimitata
tra le macchine
IperespressoGrazie alla doppia
estrazione,la crema ingloba
più ariae resta a lungonella tazzina Si smaltisce
come gasolioÈ un brevetto Illy
A levaIdeata a fine anni ’40,
ha una caldaiacon resistenza
elettricae un gruppo
con pistone azionato da una leva
per l’erogazionedel caffè
AutomaticaUn solo pulsante
per ottenereil caffè, da ristretto
a lungoIl grinder
con dosatoremacina i chicchi per preparare
la singola tazzina
LA RICETTA
✃
Crostata al caffè
IngredientiPer la frolla:
30 g. di burro
3 g. di sale
110 g. di zucchero a velo
40 g. di farina di nocciole
60 g. di uovo intero
290 g. di farina
Per la ganache:
500 g. di panna UHT
160 g. di copertura al cioccolato bianco Ivoire
40 g. di caffè in grani
1 g. di caffè in polvere
1 g. di vaniglia in polvere
l’aumento delle venditedi caffè in cialda
rispetto alla mokanel 2013
+ 20%
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Conosco a memoria, grazie a Eduardo, l’autentica ricetta del caffè, quello da pre-parare col coppittello sul becco della caffettiera. Ma non l’ho mai messa in atto,perché non è che poi io sia un fanatico del caffè. Mi rendo conto, nel confessarlo,
della gravità inaccettabile di questa affermazione per un napoletano che ha avuto l’o-nore di interpretare Pasquale Lojacono in Questi fantasmi!. Ma a casa il caffè lo fa miamoglie Maria Laura, a fuoco lentissimo, senza pressare la miscela nel filtro, lasciando-lo pippiare e servendolo bollentissimo. Quello delle varie macchinette con capsule ecialde sostiene non essere caffè, e chi sono io per contraddirla? In casa si beve solo quel-lo della moka, e quando si vuole l’espresso bello cremoso e ristretto si va al bar. Dove, selo si trova “sospeso”, è ancora più gustoso. Perché all’aroma caldo della miscela giustasi aggiunge quello dell’amicizia. Quella del caffè sospeso è un’usanza napoletana che,risalente al Secondo Dopoguerra, dicono si sia diffusa in molti altri Paesi, perfino in Sve-zia o Australia. In questi casi temo si tratti di una ciofeca sospesa, ma non è il caso di fa-re del razzismo, quel che conta è il pensiero. La tradizione è nata, durante un periodo dimiseria nera, per regalare un sorriso all’anima di chi non aveva nemmeno uno spiccio-lo in tasca da spendere al bar. Sebbene, di questi tempi, forse sarebbe più gradito unosmartphone sospeso, purtroppo c’è ancora chi quel caffè non se lo potrebbe altrimen-ti permettere. Quello di trovare un caffè pagato da un amico è un’attenzione che ancheio e Maria Laura, non ancora indigenti nonostante la crisi del cinema, gradiamo riceve-re al bar Farnese in via dei Baullari a Roma, vicino casa, dove Angelo è oltretutto rapidonel servirti al bancone un espresso fatto a pressione davvero come Dio comanda. E suquesto garantisce mia moglie.
E poi c’è quello sospesoA tavola
SILVIO ORLANDO
MONSUMMANOTERME (PT)
SLITTI CIOCCOLATO& CAFFÈVia Francesca Sud 1268Tel. 0572-640240
NAPOLIGRAN CAFFÈPiazzetta Arenella 7 Tel. 081-5562023
CATANIACAFFÈCONDORELLIVia Rapisardi 436Tel. 095-354701
CAGLIARICAFFÈGRAFFINA Via XX Settembre 23 Tel. 070-651852
PALERMOCAFFÈ MORETTINOVia Nuova 105Tel. 091-6883736
FROLLA. Ammorbidire il burro a 25°C. Aggiungere zucchero a velo e uovo
Unire la farina di nocciole, poi i primi 70 g. di farina. Terminare con la farina
restante. Conservare in frigo 3h, stendere in due teglie quadrate
di 18 cm di lato a 2.5 mm. Cuocere 22’ in forno a 160°C
GANACHE. Bollire 150 g. di panna e mettere in infusione i chicchi
di caffè scaldati, il caffè in polvere e la vaniglia. Filtrare, riportare
a bollore la panna, poi versarla sulla copertura di cioccolato
tritata. Aggiungere la panna restante liquida, frullare. Conservare
al fresco per 2 o 3h. Riprendere con la frusta e colare una parte
della ganache nel fondo di pasta frolla raffreddata1h in frigo
Montare il resto della ganache. Collocarla in due stampi quadrati
di 15 cm di lato e raffreddare ancora. Togliere la ganache
dallo stampo, appoggiarla sulla frolla e decorare a piacere
Rigore e creatività nei dolci di Gianluca Fusto,che aprirà un concept storemilanese dedicatoai dolci moderni,come quello ideato per i lettori di Repubblica
Repubblica Nazionale
LA DOMENICA■ 40
DOMENICA 24 NOVEMBRE 2013
Da piccolo a salvarlo fu Gino Cervi,ha lavorato poi con Strehler (e c’eraanche Brecht), ha prestato la vocea Humphrey Bogart (“la mia scuola”)ed è stato il volto del fustino di detersivo
(“mi infuriavo quandoin teatro qualcunomi faceva il verso”)Dopo più di settant’annidi onorata carrierasi è ritirato in campagna:
“È tempo di chiedermiche cosa sono venuto a faresu questa palla”
SANT’ORESTE (Roma)
Gennaio di quest’anno.Nel teatro di Casateno-vo, provincia di Lecco,Paolo Ferrari recita con
Andrea Giordana in Un ispettore in ca-sa Birling. Quindi a un sito internet del-la locale annuncia, serenamente e sen-za clamori, il suo ritiro dalle scene dopopiù di settant’anni di lavoro. «Gli annipassano via veloci. Fare teatro vuol direstare lontano da mia moglie, stare lon-tano da casa. Recito da quando avevocinque anni, ne ho ottantaquattro. Ètanto no? Così mi sono detto “adessobasta. Mi fermo qui”» racconta oggi. Ve-terano dello spettacolo italiano, inter-prete teatrale di commedie brillanti, ilmitico Archie Goodwin di una delle piùbelle serie tv di Nero Wolfe, la voce ita-liana di Humphrey Bogart, Ferrari hascelto di allontanarsi dalla ribalta con lastessa discrezione con cui ci ha vissuto.Ha scelto di farsi dimenticare, più che didimenticare.
Si è ritirato in un posto magico, nellacampagna romana, in una bella villa aun piano, solitaria, isolata tra pioppi equerce, con un prato davanti e tutto in-torno un bosco fitto, silenzioso. Un luo-go bello e pauroso. «Ma no, è un postoche invita a guardarsi dentro — diceFerrari con la celebre voce dal timbrocaldo che è stata la sua fortuna — Un po-sto dove leggere, ascoltare musica, col-tivare rose, andare in bicicletta, medi-tare. Alla meditazione io dedico ognigiorno qualche ora. Lasciar passare ipensieri, lasciarli andare senza tratte-nerli grazie a tecniche speciali, all’om...aiuta, fa bene. Io lo faccio da parecchiotempo. Quando recitavo mi mettevo incamerino e meditavo. Era un modo per
concentrarmi sullo spettacolo». Paolo Ferrari ha fatto l’attore per un
tempo esagerato. Appunto, tutto co-minciò che aveva cinque anni. Bambi-no, si era pericolosamente avvicinatoall’acqua di un lago ma Gino Cervi loaveva preso in braccio portandolo via.«Ho un vago ricordo di quell’episodio,ma essere stato tra le braccia di quelgrande attore dev’essere stata una pre-destinazione». Sta di fatto che a soli no-ve anni recita in Ettore Fieramosca, filmstorico-avventuroso di Alessandro Bla-setti, e alla radio fa il giovane balilla; atredici anni è già in carriera come atto-re di cinema, a diciannove debutta conGiorgio Strehler, a trenta è uno dei voltipiù popolari della tv. Con Vittorio Gas-smann e Marina Bonfigli, sua primamoglie, fa Il mattatore nel ’59, l’annodopo con Enza Sampò approda al Fe-stival di Sanremo come presentatore,poi sarà protagonista di show, varietà,serie tv. Nel ’64 sarà il signor Collalto delGiornalino di Gian Burrasca di LinaWertmuller con la Pavone (ed era giàstato Barozzo nella versione cinemato-grafica di Sergio Tofano del ’43). Allametà degli anni Settanta il grande suc-cesso, è Archie Goodwin nel Nero Wol-fe con Tino Buazzelli. «Quando giraiquella serie non avevo letto neppure unromanzo: non volevo essere influenza-to. Tino Buazzelli? Un autentico ciocia-ro, un casinista. Il contrario di Gassmanche era timidissimo, nonostante sem-brasse così sicuro di sé. Che risate conVittorio una volta, doveva essere pro-prio durante Il mattatore. Facevamouno sketch in cui io dovevo tirargli in te-sta una sedia, ovviamente fatta appostaper rompersi facilmente. Senonché untecnico puntiglioso l’aveva rinforzata,così quando gliela diedi in testa non so-lo non si ruppe ma un rivolo di sanguecominciò a scendergli sul viso... Finim-mo poi per riderci su ogni volta che ci in-crociavamo. Per esempio in occasionede Il sorpasso di Risi. Io fui chiamato adoppiare Jean Louis Trintignant. Mi ar-rabbiai: “Non lo potevo fare io, il perso-naggio di Trintignant? Non sono AlainDelon, ma neanche lui”. Mi intortaronocol fatto che era una coproduzione ita-lo francese...». Il doppiaggio è stata unaparte importante della sua carriera diattore fin dal ’48: David Niven, FrancoCitti e, dall’inizio dei ’70, HumphreyBogart ne Il mistero del falco, Il grandesonno, Agguato ai tropici. «Non ho fre-quentato nessuna scuola di recitazio-ne. La mia scuola è stata Bogart. Non era
facile doppiarlo perché non apriva maila bocca, andare in sincrono era una sfi-da, ma doppiandolo ho potuto vederecome modificava il suo personaggio,come cambiava il modo di mettere la si-garetta tra le dita, in bocca, il suo sguar-do... L’ho studiato imparando enorme-mente».
Paolo Ferrari è stato un tipo di attoremolto borghese, misurato, discreto,equilibrato, perfino modesto. «È vero,ma anche nella mia vita sono capitatecose strane. Mio padre, per esempio,era un uomo dotato di una grossa forzamedianica: parlava e la gente si sentivacome toccata. Una volta parlando allaradio salvò un uomo che, confessò poi,si stava per suicidare, ma ascoltandolodesistette. E pensare che mio padre perme era stato a lungo “lo zio”. Solo quan-do sono diventato grande ho saputoche era il mio vero papà, e non mi di-spiacque. Sì c’era stato anche un padre“formale”: il mio cognome vero sareb-
be Vitta. Ferrari era mia madre, Giuliet-ta, quotata pianista che introdusse inItalia la musica di César Franck. Fu lei adirmi del mio vero padre e io pensai su-bito che se ero figlio di un uomo così,qualche cosa dovevo avere dentro an-ch’io. Era console italiano in Belgio. Equesto è il motivo per cui fui scodellatoa Bruxelles». In una vita ricca e lumino-sa, la sola ombra oscura era il fratello,Leopoldo, che era stato nella polizia fa-scista e morì annegato nel lago di Co-mo. «Era il ’45, eravamo sfollati. Unamattina mi salutò dicendo che dovevaandare in un posto. Lo vidi allontanarsicon un uomo, non tornò più. Lo giusti-ziarono i partigiani. Per me fu unoshock. Dormii per cinque giorni conse-cutivi. Non ce l’ho mai avuta con i par-tigiani per questo, però mi piace ricor-dare che quando il padre di un suo ami-co gli aveva proposto di fuggire per sal-varsi, Leopoldo aveva risposto: “Questadivisa l’ho presa, l’ho portata, ho la co-scienza pulita, non la tolgo e accadaquel che deve accadere”».
Il giovane Paolo passa il dopoguerratra i tavoli di ping pong («giocavo pun-tando soldi e vincevo») e il cinema.«Finché nel ’49 mi chiamò Strehler. Fuuna cosa divertente e strana. Io non eronessuno, avevo fatto fino a quel mo-mento parti da tenentino, nulla più.Fatto sta che mi chiama il Piccolo Tea-tro per una piccola parte ne Il Corvo diCarlo Gozzi. Io avevo avuto un’altraproposta dalla compagnia Stoppa-Morelli. Quindi dissi no al Piccolo. Maloro insistevano, due, tre, quattro volte.Paolo Grassi in persona mi scrisse untelegramma: prendiamo atto della suaindisponibilità ma ci teniamo a dirleche nessuno ha rifiutato con tale osti-nazione una nostra proposta, scrisse.Io ero incosciente, mi ero pure dettoche forse c’era una omonimia... perchénon capivo quella ostinazione: io nonero proprio nessuno. Sta di fatto che lospettacolo con Stoppa e Morelli saltò. IlPiccolo venne a saperlo e mi richiamòma l’offerta del mio cachet era stata ab-bassata. Non mi restò che prendere ilmio trenino di terza classe e andare aMilano. Al Piccolo recitai per qualcheanno e nel ’56 dalla platea seguii anchele prove de L’opera da tre soldise ben ri-cordo con Bertold Brecht presente chefece anche correzioni sul testo». Il Pic-colo, soprattutto, lo laurea definitiva-mente alla carriera teatrale: con il Tea-tro dei Gobbi insieme a Paolo Panelli,Marina Bonfigli, Anna Menichetti, Mo-
nica Vitti, Francesco Mulè, con De Bo-sio, con De Lullo prima di dedicarsi alrepertorio brillante accanto a ValeriaValeri, per tutti gli anni Settanta e Ot-tanta, l’unica attrice di cui ha la foto sul-la scrivania dello studio. «Il teatro è sta-ta una grande passione. Di diventarefamoso non mi è mai importato gran-ché. Quando feci la pubblicità del Da-sh, quella di “Le do due fustini in cam-bio del suo Dash” e per anni in teatro aogni mia apparizione sentivo dalla pla-tea il sibilo del “Dashshshsh”, diventa-vo furente».
Alla visibilità ha sempre preferito ilpudore; alla fama, la sicurezza; agli ec-cessi, la propria malinconia, tanto cheil personaggio che più ha amato èAdriano di Anima nera, il dramma diPatroni Griffi su un uomo tormentato.«Che bel testo», dice cercando nellamemoria come in trance le battute cheun tempo diceva in scena. “E tu non hainiente da dirmi? E tu non hai niente dadirmi? Nooo”, urlavo, “Nooo”». Lemanca essere quello che è stato? Silen-ziosamente si volta e dalla libreriaprende un cofanetto dell’opera omniadi Beethoven e dal tavolino il libro del-le poesie e dei racconti di Rilke comedue totem pronti a difenderlo dall’iso-lamento. «Mi stendo su questo piccolodivano e dalla finestra che mia moglieha disegnato con questo grande arco,guardo il bosco, leggendo le mie poesiee ascoltando la mia musica. Andare aRoma? A teatro? Al cinema? No, troppafatica. E perché poi? Qui ho un po’ ditempo per ampollosamente guardar-mi dentro, per guardare che succede efarmi qualche domanda... Che sonovenuto a fare o che dovrei fare dal mo-mento che sono su questa palla. Cosecosì... E mi bastano».
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L’incontroSaggi
Per tanti anniho chiamato
“zio” mio padreperché mi riconobbesolo da grandeQuando parlavala gente si sentivacome toccata
Paolo Ferrari
ANNA BANDETTINI
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Repubblica Nazionale