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di MASSIMO BACIGALUPO «Fuck the peasants!» – comin- cia così il primo divertente roman- zo di Jonathan Galassi (La musa, Guanda «Narratori della Fenice», pp. 247, e 18,00). «Maledetti conta- dini!», traduce Silvia Pareschi, for- se i lettori potranno supplire qual- cosa di più volgare. «Quell’antico grido della steppa russa – continua Galassi-Pareschi – era il brindisi ca- ratteristico di Homer Stern, fonda- tore, presidente e proprietario dell’elegante e squattrinata casa editrice indipendente Purcell & Stern. Lo pronunciava spesso alle cene ufficiali, alzando il bicchiere per festeggiare le vittorie oppure, meglio ancora, le sconfitte dei suoi autori, dopo le numerose cerimo- nie di premiazione che costellano l’anno editoriale». Stern, grosso editore che si dà molto tono, litiga, disprezza, vocife- ra, se la fa con tutte le donne dispo- nibili che gli capitano a tiro, è «la quintessenza della volgarità» (co- me avrebbe detto una delle Sirene di Joyce). Ma è anche un gran si- gnore nella vita e nell’editoria, e per quanto discenda presumibil- mente da contadini ebrei-tede- schi, inveisce conto hoi polloi (co- me li chiamano gli angloamerica- ni), cioè tutti coloro (lettori, autori, agenti ecc.) che non fanno parte della sua scuderia di scrittori d’ec- cezione o non li tengono nel dovu- to conto. E i miseri che non sanno vivere, e che non tutti i giorni si re- galano una gita in motoscafo per i canali di Venezia come il suo aiu- tante Paul Dukach cui presto cede- rà le redini della venerata P&S di Union Square, New York. Ora, Jonathan Galassi è da anni al timone di una casa editrice fra le più prestigiose, la Farrar, Straus & Giroux, ed è subentrato al suo ca- po Richard Straus, noto internazio- nalmente per le sue maniere bece- re-raffinate e per il suo fiuto in ma- teria di autori insieme grandi e ca- paci di vendere, come i suoi «Tre Assi», i tre poeti premiati a Stoccol- ma (Farrar Straus, detta FSG, pub- blica Heaney, Brodskij e Walcott; sotto la direzione del capace e gen- tile Galassi ha acquisito Franzen, Eugenides ecc.). Galassi elenca tut- ti questi pezzi forti cambiandone i nomi in modo più o meno immagi- noso (Brodskij diviene l’esule Dmi- try Chavchavadze), ma li rappre- senta suppergiù come in effetti era- no, cioè spesso narcisisti e settari, eppure naturalmente il loro pa- pà-editore li ama e li coccola. La musa è dunque una satira af- fettuosa, dove una parte del piace- re della lettura sta nell’identificare i personaggi che un lettore forte è orgoglioso di riconoscere a prima vista e nel godere il gioco dei trave- stimenti e delle strizzate d’occhio del tranquillo Galassi. Ma Galassi è anche un intimo di queste stan- ze dei bottoni editoriali e soprat- tutto dei due giganti che sono i suoi inimitabili maestri, cioè ap- punto «Homer Stern» della P&S e il suo avversario più squisitamen- te letterario e avanguardista (e po- eta egli stesso), «Sterling Wainwri- ght» della Impetus, fra i cui princi- pali autori è il notorio Arnold Ou- terbridge («A.O.»), che ha avuto guai a causa delle sue odi stalini- ste ma ha cambiato il modo di scri- vere poesia, e sta trascorrendo gli ultimi anni silenziosi a Venezia con una bella famosissima poetes- sa, Ida Perkins. Il lettore di «Alias-Domenica», che il 25 gennaio scorso ha pubbli- cato la mia recensione della recen- te biografia dell’editore-poeta Ja- mes Laughlin (1914-’97), non ha difficoltà a riconoscerlo in Sterling Wainwright, tanto anglosassone (ancorché irlandese d’origine) quanto ebraico è Stern, né a vede- re che il suo grande e maledetto au- tore A.O. che grida «make it new»è E.P, alias Ezra Pound, un E.P. non mussoliniano ma staliniano. Galassi strizza ulteriormente l’oc- chio inserendo nel racconto i per- sonaggi allusi con il loro vero no- me: «Da Londra Outerbridge, così come Pound da Rapallo, aveva ma- novrato i fili delle sue giovani ma- rionette a Oxford, New York e San Francisco, e Sterling gli si era con- segnato spontaneamente». Come sanno i lettori delle poesie di Lau- ghlin, Una lunga notte di sogni, pubblicate anche queste da Guan- da (e da me tradotte), il giovane Ja- mes, come il suo alter ego Sterling, subì definitivamente l’ascendente di Pound fin da ragazzo (quando lo visitò a Rapallo) e poi ne fu per de- cenni il principale editore e cam- pione. La casa editrice di Laughlin, che vanta nella sua scuderia il gotha del modernismo oltre al poe- ta del palcoscenico Tennessee Wil- liams, si chiama New Directions ed è tuttora fiorente a diciotto anni dalla morte di Laughlin. Lo Ster- ling Wainwright di Galassi è il capo della Impetus, termine che in fon- do dice bene l’originaria propulsio- ne poundiana. Impetus vs. H&S, cioè ND vs. FSG (come le chiamia- mo oggi). Come Laughlin, Wainwright ha avuto una lunga serie di amori e al- meno tre mogli, e si divide fra l’uf- ficio newyorkese e la sua residen- za nelle remote colline di Hiram’s Corners (Hiram Handspring era uno degli pseudonimi di Lau- ghlin), che in tutto tranne il nome replica Norfolk nel Connecticut, la cittadina dove Laughlin viveva e pubblicava. Amico e pressoché discepolo sia di «Homer» che di «Sterling» (cioè di Straus e Laughlin), Galassi in La musa ci racconta questi due grossi e accattivanti personaggi, ciascuno coi suoi lati sfuggenti e magari sgradevoli. Sterling è mol- to amico del giovane Paul (per quanto detesti, ricambiato, il suo capo Stern), paternamente lo in- trattiene raccontandogli le sue mil- le avventure con gli idoli di Paul. Le avventure che Laughlin raccon- ta nelle sue poesie: «Brancusi non aveva molto da dire ma sapeva / fare un ottimo stufato rumeno e dopo pranzo / gli piaceva dondola- re testa in giù attaccato con / le gi- nocchia a un trapezio da scimmie mentre il / suo grammofono strepi- tava il Bolero di Ravel» (Una lunga notte di sogni, p. 209). L’italiano di origine Galassi divie- ne dunque Paul Dukach (altro no- me non anglosassone) e La musa è il racconto delle sue passioni e ini- ziazioni, dovute soprattutto ai suoi due possenti Chironi. D’ogni tanto ci parla anche di qualche suo poco risolutivo amore gay (Galassi fece un coming out anni fa e ha pubbli- cato nel 2013 una raccolta di poe- sie, Left-handed, che dice questa sua crisi personale avvenuta in età ormai matura – è del 1949 – e costa- ta non poco in termini affettivi, poi- ché aveva moglie e figlie). Ma l’amore principale di Paul Dukach è riservato ai libri e a quei mostri impossibili che sono i Gran- di Autori, quelli che in effetti cam- biano il mondo con le loro parole. E qui emerge la vicenda che in La musa tralascia il rispecchiamento ironico-affettuoso che è uno dei suoi punti forti. C’è la più grande poetessa americana del ventesimo secolo, Ida Perkins, cugina e aman- te da giovane di Wainwright, che ha fatto una carriera luminosa, un misto di Plath, Dickinson, Szym- borska, Millay (la bella e promi- scua poetessa del Greenwich Villa- ge). Quando Ida muore a Venezia ultraottantenne il giorno del suo compleanno, Obama lo dichiara fe- stività nazionale... Galassi forse esagera un po’ con questa fantascienza letteraria. Ma ci fornisce anche qualche scampo- lo non male delle poesie di questo presunto genio universale, un po’ alla H.D. (Hilda Doolittle): «Mne- mosyne ricorda. È il suo mestiere. / Il caldo immobile, / lo splendore, la trance, / il lob / senza potere; e poi la sera: / il fresco, il cardigan / sulle spalle tese, / il miope sguardo accusatore / sul prato / dove le pe- core del grand’uomo / brucano co- me in un sogno sommerso». Il grand’uomo è ovviamente l’al- lampanato Sterling, accanto alla cui gran casa, come accanto a quel- la di Laughlin a Norfolk, brucano le pecore. Ma qui non è lui l’aman- te, bensì... Non si può dire, pur avendo io conosciuto il presunto oggetto d’amore di Ida, e posso te- stimoniare che la trovata è impro- babile se commisurata al personag- gio reale ma abbastanza felice. La musa è un ritratto vivacissi- mo del mondo editoriale e una sto- ria di libri collocata consapevol- mente in un momento di crisi del sistema, in cui i vecchi editori-pa- droni e le loro imprese talvolta an- cora nobili stanno scomparendo, con quei loro bellissimi doni (l’edi- toria americana ha una speciale tradizione di eccellenza nella fattu- ra del prodotto). Paul Dukach, do- po aver ereditato da Homer Stern la P&S, la lascia quando viene ac- quistata dal gigante delle vendite online Medusa e diventa... scritto- re. E sono belle le ultime pagine in cui contempla dalla finestra un pa- esaggio americano, senza storia e senza libri. Ma intanto scrive, cer- ca di lasciare una parola sua accan- to a quelle di A.O. e la meravigliosa e purtroppo inesistente Ida. PASSIONI E IRONIE DI UN EDITOR «LA MUSA» DI JOHNATAN GALASSI, DA GUANDA, CI PORTA NELLA STANZA DEI BOTTONI DELLA GRANDE EDITORIA AMERICANA, TRA POUND E LAUGHLIN MELVILLE LA ROCHEFOUCAULD MENGESTU LISZT RONCHI YIYUN LI SU TONG MAZZONI FERRONI KRÜGER HANDKE TANZI MENGALDO

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Page 1: diMASSIMOBACIGALUPO · diMASSIMOBACIGALUPO «Fuckthepeasants!»–comin-ciacosìilprimodivertenteroman-zo di Jonathan Galassi (La musa, Guanda «Narratori della Fenice»,

di MASSIMO BACIGALUPO

«Fuck the peasants!» – comin-cia così il primo divertente roman-zo di Jonathan Galassi (La musa,Guanda «Narratori della Fenice»,pp. 247, e 18,00). «Maledetti conta-dini!», traduce Silvia Pareschi, for-se i lettori potranno supplire qual-cosa di più volgare. «Quell’anticogrido della steppa russa – continuaGalassi-Pareschi – era il brindisi ca-ratteristico di Homer Stern, fonda-tore, presidente e proprietariodell’elegante e squattrinata casaeditrice indipendente Purcell &Stern. Lo pronunciava spesso allecene ufficiali, alzando il bicchiereper festeggiare le vittorie oppure,meglio ancora, le sconfitte dei suoiautori, dopo le numerose cerimo-nie di premiazione che costellanol’anno editoriale».

Stern, grosso editore che si dàmolto tono, litiga, disprezza, vocife-ra, se la fa con tutte le donnedispo-nibili che gli capitano a tiro, è «laquintessenza della volgarità» (co-me avrebbe detto una delle Sirenedi Joyce). Ma è anche un gran si-gnore nella vita e nell’editoria, eper quanto discenda presumibil-mente da contadini ebrei-tede-schi, inveisce conto hoi polloi (co-me li chiamano gli angloamerica-ni), cioè tutti coloro (lettori, autori,agenti ecc.) che non fanno partedella sua scuderia di scrittori d’ec-cezione o non li tengono nel dovu-to conto. E i miseri che non sannovivere, e che non tutti i giorni si re-galano una gita in motoscafo per icanali di Venezia come il suo aiu-tante Paul Dukach cui presto cede-rà le redini della venerata P&S diUnion Square, New York.

Ora, Jonathan Galassi è da annial timone di una casa editrice fra lepiù prestigiose, la Farrar, Straus &Giroux, ed è subentrato al suo ca-poRichard Straus, noto internazio-nalmente per le sue maniere bece-re-raffinate e per il suo fiuto in ma-teria di autori insieme grandi e ca-paci di vendere, come i suoi «TreAssi», i tre poeti premiati a Stoccol-ma (Farrar Straus, detta FSG, pub-blica Heaney, Brodskij e Walcott;sotto la direzione del capace e gen-tile Galassi ha acquisito Franzen,Eugenides ecc.). Galassi elenca tut-ti questi pezzi forti cambiandone inomi inmodopiù omeno immagi-noso (Brodskij diviene l’esuleDmi-try Chavchavadze), ma li rappre-senta suppergiù come in effetti era-no, cioè spesso narcisisti e settari,eppure naturalmente il loro pa-pà-editore li ama e li coccola.

Lamusa è dunque una satira af-fettuosa, dove una parte del piace-re della lettura sta nell’identificarei personaggi che un lettore forte èorgoglioso di riconoscere a primavista e nel godere il gioco dei trave-stimenti e delle strizzate d’occhiodel tranquillo Galassi. Ma Galassiè anche un intimo di queste stan-

ze dei bottoni editoriali e soprat-tutto dei due giganti che sono isuoi inimitabili maestri, cioè ap-punto «Homer Stern» della P&S eil suo avversario più squisitamen-te letterario e avanguardista (e po-eta egli stesso), «Sterling Wainwri-ght» della Impetus, fra i cui princi-pali autori è il notorio Arnold Ou-terbridge («A.O.»), che ha avutoguai a causa delle sue odi stalini-stema ha cambiato ilmodo di scri-vere poesia, e sta trascorrendo gliultimi anni silenziosi a Veneziacon una bella famosissima poetes-sa, Ida Perkins.

Il lettore di «Alias-Domenica»,che il 25 gennaio scorso ha pubbli-cato lamia recensione della recen-te biografia dell’editore-poeta Ja-mes Laughlin (1914-’97), non hadifficoltà a riconoscerlo in SterlingWainwright, tanto anglosassone(ancorché irlandese d’origine)quanto ebraico è Stern, né a vede-re che il suo grande emaledetto au-tore A.O. che grida «make it new» èE.P, alias Ezra Pound, un E.P. nonmussoliniano ma staliniano.

Galassi strizza ulteriormente l’oc-chio inserendo nel racconto i per-sonaggi allusi con il loro vero no-me: «Da Londra Outerbridge, cosìcomePounddaRapallo, avevama-novrato i fili delle sue giovani ma-rionette a Oxford, New York e SanFrancisco, e Sterling gli si era con-segnato spontaneamente». Comesanno i lettori delle poesie di Lau-ghlin, Una lunga notte di sogni,pubblicate anche queste da Guan-da (e da me tradotte), il giovane Ja-mes, come il suo alter ego Sterling,

subì definitivamente l’ascendentedi Pound fin da ragazzo (quando lovisitò a Rapallo) e poi ne fu per de-cenni il principale editore e cam-pione. La casa editrice di Laughlin,che vanta nella sua scuderia il

gotha delmodernismooltre al poe-ta del palcoscenico TennesseeWil-liams, si chiama New Directionsed è tuttora fiorente a diciotto annidalla morte di Laughlin. Lo Ster-lingWainwright di Galassi è il capo

della Impetus, termine che in fon-dodice bene l’originaria propulsio-ne poundiana. Impetus vs. H&S,cioè ND vs. FSG (come le chiamia-mo oggi).

Come Laughlin, Wainwright haavuto una lunga serie di amori e al-meno tre mogli, e si divide fra l’uf-ficio newyorkese e la sua residen-za nelle remote colline di Hiram’sCorners (Hiram Handspring erauno degli pseudonimi di Lau-ghlin), che in tutto tranne il nomereplica Norfolk nel Connecticut,la cittadina dove Laughlin vivevae pubblicava.

Amico e pressoché discepolosia di «Homer» che di «Sterling»(cioè di Straus e Laughlin), Galassiin La musa ci racconta questi duegrossi e accattivanti personaggi,ciascuno coi suoi lati sfuggenti emagari sgradevoli. Sterling è mol-to amico del giovane Paul (perquanto detesti, ricambiato, il suocapo Stern), paternamente lo in-trattiene raccontandogli le suemil-le avventure con gli idoli di Paul.Le avventure che Laughlin raccon-ta nelle sue poesie: «Brancusi nonaveva molto da dire ma sapeva /fare un ottimo stufato rumeno edopo pranzo / gli piaceva dondola-re testa in giù attaccato con / le gi-nocchia a un trapezio da scimmiementre il / suo grammofono strepi-tava il Bolero di Ravel» (Una lunganotte di sogni, p. 209).

L’italianodi origineGalassi divie-ne dunque Paul Dukach (altro no-me non anglosassone) e Lamusa èil racconto delle sue passioni e ini-ziazioni, dovute soprattutto ai suoidue possenti Chironi. D’ogni tantoci parla anche di qualche suo pocorisolutivo amore gay (Galassi feceun coming out anni fa e ha pubbli-cato nel 2013 una raccolta di poe-sie, Left-handed, che dice questasua crisi personale avvenuta in etàormaimatura – è del 1949 – e costa-tanonpoco in termini affettivi, poi-ché aveva moglie e figlie).

Ma l’amore principale di PaulDukach è riservato ai libri e a queimostri impossibili che sono iGran-di Autori, quelli che in effetti cam-biano il mondo con le loro parole.E qui emerge la vicenda che in Lamusa tralascia il rispecchiamentoironico-affettuoso che è uno deisuoi punti forti. C’è la più grandepoetessa americana del ventesimosecolo, Ida Perkins, cugina e aman-te da giovane di Wainwright, cheha fatto una carriera luminosa, unmisto di Plath, Dickinson, Szym-borska, Millay (la bella e promi-scua poetessa del Greenwich Villa-ge). Quando Ida muore a Veneziaultraottantenne il giorno del suocompleanno,Obama lo dichiara fe-stività nazionale...

Galassi forse esagera un po’ conquesta fantascienza letteraria. Maci fornisce anche qualche scampo-lo non male delle poesie di questopresunto genio universale, un po’alla H.D. (Hilda Doolittle): «Mne-mosyne ricorda. È il suo mestiere./ Il caldo immobile, / lo splendore,la trance, / il lob / senza potere; epoi la sera: / il fresco, il cardigan /sulle spalle tese, / il miope sguardoaccusatore / sul prato / dove le pe-core del grand’uomo / brucano co-me in un sogno sommerso».

Il grand’uomo è ovviamente l’al-lampanato Sterling, accanto allacui gran casa, come accanto a quel-la di Laughlin a Norfolk, brucanole pecore.Ma qui non è lui l’aman-te, bensì... Non si può dire, puravendo io conosciuto il presuntooggetto d’amore di Ida, e posso te-stimoniare che la trovata è impro-babile se commisurata al personag-gio reale ma abbastanza felice.

La musa è un ritratto vivacissi-modelmondo editoriale e una sto-ria di libri collocata consapevol-mente in un momento di crisi delsistema, in cui i vecchi editori-pa-droni e le loro imprese talvolta an-cora nobili stanno scomparendo,con quei loro bellissimi doni (l’edi-toria americana ha una specialetradizione di eccellenza nella fattu-ra del prodotto). Paul Dukach, do-po aver ereditato da Homer Sternla P&S, la lascia quando viene ac-quistata dal gigante delle venditeonline Medusa e diventa... scritto-re. E sono belle le ultime pagine incui contempla dalla finestra un pa-esaggio americano, senza storia esenza libri. Ma intanto scrive, cer-ca di lasciare una parola sua accan-to a quelle di A.O. e la meravigliosae purtroppo inesistente Ida.

PASSIONI E IRONIEDI UN EDITOR

«LA MUSA» DI JOHNATAN GALASSI,DA GUANDA, CI PORTA NELLA STANZADEI BOTTONI DELLA GRANDE EDITORIAAMERICANA, TRA POUND E LAUGHLIN

MELVILLE • LA ROCHEFOUCAULD • MENGESTU •LISZT • RONCHI • YIYUN LI • SU TONG • MAZZONI •FERRONI •KRÜGER •HANDKE •TANZI •MENGALDO

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(2) ALIAS DOMENICA28 GIUGNO 2015

di FAUSTA GARAVINI

C’è una frase, resa nota in Ita-lia da Giulio Andreotti, che suona:«A pensar male (degli altri) si fa pec-cato ma ci si azzecca». Secondo al-cuni la battuta non sarebbe di An-dreotti, che si limiterebbe a citare ilcardinal Mazzarino oppure, secon-do altri, La Rochefoucauld. In realtàla frase non si trova nel Breviario deipolitici attribuito al diabolico cardi-nale, e neppure nelle Sentenze emassime morali del duca di La Ro-chefoucauld, ora curate con l’abi-tuale acribia da Carlo Carena (Ei-naudi, «I Millenni», pp. 417, e

80,00). Ma potrebbe trovarcisi. An-che un’altra nota massima andreot-tiana, «Il potere logora chi non cel’ha», sarebbe accostabile del restoa questa o quella sentenza di La Ro-chefoucauld (poniamo: «La fortunanon sembra mai così cieca come acoloro che non benefica», 391).Quanto dire la sintonia del nostropresente con lo spirito dell’epoca diLuigi XIV – quel « teatro della dissi-mulazione» indagato a più ripreseda Giovanni Macchia – e, constata-zione scontata, la possibilità per noidi riconoscerci nella cancrena ca-chettica d’una società dove nonscorrono più stimolanti flussi vitali.

Al limite, quella frase avrebberopotuto firmarla anche il cardinal deRetz, o Saint-Simon, o La Bruyère,autori compresenti nel pantheondei «moralisti classici» (si veda, an-cora di Macchia, l’antologia dellostesso titolo e, indietro nel tempo,le celebri e fondamentali Moralesdu grand siècle di Paul Bénichou,1948) sulla cui soglia vediamo indu-giare il nostro fine politico. Ma setutti costoro lavorano impietosa-mente sulle contraddizioni dell’ani-mo e dei rapporti umani, soltantoLa Rochefoucauld sfaccetta in perfi-di, taglienti cristalli, luci e colori delsecolo del Re Sole. Un secolo che sa-rebbe più giusto definire il secolodell’eclissi, uno dei periodi più oscu-ri della storia di Francia: l’assoluti-smo monarchico schiaccia la vita so-cio-economica (carestie, mortalità,tasse pesantissime, coscrizione) co-me la vita intellettuale (le élites mes-se al passo, gusti e coscienze sorve-gliati, disciplinati, plagiati). Quelche si eclissa è la morale eroica diCorneille, la morale rigorosa di Pa-scal; è la fiducia nel genere umano,nella virtù stoica, nelle gesta sfolgo-ranti, nell’autenticità dei sentimen-ti, oscurata dalla lucida coscienzache ogni agire è doppiezza, che l’ in-teresse per altrui è copertura delproprio. Si eclissa anche la moralemondana di Molière, che stornandoin amara pagliacciata le artritichecontorsioni dei sudditi di LuigiXIV, decreta la qualità di Alcestenel rifiuto di adeguarsi al correnteistrionismo.

Esperto fin da giovanissimo degliintrighi e delle cabale di corte, parte-cipe dei complotti contro Richelieue della Fronda, La Rochefoucauldsapeva di cosa parlava esordendocome scrittore a quarant’anni passa-

ti, prima con le Memorie relative alperiodo della Reggenza, poi – calma-ti gli spiriti e godendo della vagaprotezione del re – con le Massimein cui distilla, nei e per i salotti diMadeleine de Sablé, di Madame deSévigné, di Madame de La Fayette, isucchi aspri e ironici della sua espe-rienza del vivere. Niente a che vede-re, ovviamente, con i vari manualidi saper vivere che pullulano all’epo-ca, a partire dal Cortegiano, comu-ne modello, e di cui nella pratica –stando ai giudizi dei contempora-nei – La Rochefoucauld sembra l’in-carnazione.

Se alcune sue massime trattano

delle convenienze sociali e insegna-no le buone creanze, fra il Castiglio-ne e La Rochefoucauld è passatoGiansenio, la cui visione negativadell’uomo ha contagiato gli am-bienti parigini. E anche senza Gian-senio, lo spettacolo della corruzio-ne circostante non poteva che per-suadere della vacuità di qualsiasiideale. L’opera, consentanea al con-testo in cui nasce, viene accoltacon favore, anzi con un entusia-smo che indurrà poi l’autore a rila-vorarla a più riprese, sfogliando at-teggiamenti e sentimenti e mo-strandone la faccia nascosta. È tut-to un gioco di dritto e rovescio,

ogni apparente virtù rivela la sua fo-dera di magagna: «La clemenza deiregnanti spesso non è che una poli-tica per conquistare l’affetto dei po-poli»(15); «L’attaccamento o l’indif-ferenza dei filosofi per la vita nonera che una propensione del loroamor proprio»(46); «La sincerità èun’apertura del cuore. La si trovain pochissime persone; e quellache si vede abitualmente non è cheun’astuta dissimulazione per attrar-re la fiducia degli altri»(62); «Ciòche sembra generosità spesso nonè che un’ambizione dissimulatache disprezza i piccoli vantaggi perraggiungere i più grandi» (246).

Non sempre le massime sono ge-niali, alcune sono banali, ma quelche colpisce è il compatto pessimi-smo del prontuario, oggetto in pro-sieguo di tempo di reazioni diver-se, spesso ostili: specchio perfettodell’uomo secondo La Fontaine (aRochefoucauld è dedicata la «favola»L’uomo e la sua immagine), ma «tri-ste libro» secondo Rousseau, fruttodi «miseria» mentale per Alain, pu-ro esercizio matematico agli occhidi Camus.

Eppure: Roland Barthes, che le halungamente frequentate, sfuma nel-le Massime il loro carattere ambiguoe benefico. Ambiguo in quanto lamassima si situa su una friabile fron-tiera: è la stessa società mondanache delega l’intellettuale La Roche-foucauld a contestarla, concedendo-si attraverso di lui lo spettacolo dellapropria contestazione. Benefico poi-ché la forma lapidaria, definitiva del-la massima, per quanto negativa, èpiù rassicurante dell’insopportabileduplicità del tutto.

A poco servono le attenuazioni(spesso, quasi sempre) e le strategiedi compensazione (su cui hanno in-sistito vari studiosi francesi, e danoi Corrado Rosso) messe in operanella formula stessa della massi-ma, tramite l’uso di subordinateconcessive («Per quanto...»), se poila proposizione principale cade co-me una ghigliottina eliminandoogni incertezza: «Per quanto impe-gno si metta nel coprire le propriepassioni con apparenze di pietà edi onore, esse traspaiono sempreattraverso questi veli» (12); «Perquanta diffidenza abbiamo verso lasincerità di chi ci parla, crediamosempre che dica la verità più a noiche agli altri» (366).

Denunciando la doppiezza ma fre-quentando i salotti più elegantidell’epoca, in perfetto ossequio allenorme del vivere cortese, La Roche-foucauld praticherebbe allora unamorale sostitutiva, assumendo con-sapevolmente una maschera, comevorrebbe Starobinski? La questione,a dire il vero, è oziosa. Questo scritto-re è un signore, e lamorale è un’este-tica. Ma non si tratta qui di spiattel-lare la mia visione del personaggio(secondo il vezzo ormai inesorabiledi alcuni recensori, quando si trattidi edizioni/traduzioni di classici), an-cor meno di riassumere rozzamentequanto altri ne ha scritto, bensì dirender conto della curatela di questo«Millennio» (che contiene anche, inappendice, le postume ma affini Ri-flessioni diverse).

GERENZA

di GIORGIO MARIANI

HermanMelville iniziò la ste-sura di Pierre o le ambiguità, il suosettimo romanzo in sette anni,nell’agosto del 1851, alla vigiliadella pubblicazione di Moby-Dick.Mentre era al lavoro sulla nuovaopera, ebbe modo di leggere le re-censioni, in generale assai poco lu-singhiere, dedicate dalla stampaamericana e britannica a quelloche solo parecchi decenni più tar-di sarebbe stato consacrato comeil suo capolavoro. Allo stesso tem-po, poté rendersi conto del fattoche Moby-Dick si avviava a essereun nuovo insuccesso commercia-le e che la sua ambizione di guada-gnarsi da vivere come scrittorecontinuava a scontrarsi con la na-tura del pubblico e del mercatoeditoriale dell’epoca. Non per nul-la, un paio di anni prima, in unalettera al suocero Lemuel Shaw,giudice della Corte Suprema delMassachusetts, Melville aveva af-fermato che «il mio più grande de-siderio è scrivere quel genere di li-bri di cui si parla come‘fallimenti’».

Con questo Melville non inten-deva suggerire di essere indiffe-rente alla popolarità. Quando lereazioni negative a Mardi, il suoterzo romanzo, ne avevano sensi-bilmente incrinato l’immagine diastro nascente della letteraturaamericana – una considerazioneguadagnata col successo dei ro-manzi «polinesiani» Typee eOmoo – Melville aveva accettatodi tornare al più vendibile «reali-smo» delle prime opere. Pur la-mentandosi in privato che Red-burn e Giacchetta Bianca – i dueromanzi che precedono Moby-Di-ck – altro non erano senon «duelavori, che ho fatto per soldi – es-sendoci costretto, così come altrisono costretti a segare il legno»,Melville si rendeva conto della ne-cessità di un compromesso tra gliimpulsi della sua immaginazioneunita all’esuberanza del suo stile,da un lato, e le aspettative delpubblico, dall’altro.

Con Moby-Dick Melville avevacercato un punto di equilibrio trauna trama avventurosa (la cacciadi Ahab alla Balena Bianca) e lespeculazioni filosofiche e pseu-do-scientifiche affidate a Ishma-el, il narratore. Una volta consta-tato il fallimento del progetto incui aveva investito febbrilmente

tutto se stesso, Melville dovettesentirsi ancor più motivato nellasua decisione di abbandonare ilromanzo di ambientazione mari-nara per cimentarsi con il generedi successo dell’epoca, la narrati-va sentimentale.

Pierre rappresentava dunque iltentativo di fare breccia in unmer-cato editoriale dominato da quel-la che Nathaniel Hawthorne, cuiMoby-Dick era stato dedicato, ave-va descritto come «una maledettamarmaglia di scribacchine». Of-frendo al pubblico non un’ennesi-ma «ciotola di acqua salata» bensì«una ciotola di latte campestre» –come scrisse in una lettera indiriz-zata proprio alla moglie diHawthorne, Sophia – Melville pa-reva mosso dal sincero desideriodi conquistarsi nuovi lettori. Eppu-re, lungi dal confezionare un testoche andasse incontro ai gusti diun pubblico che non gradiva spe-culazioni ardite su temi di naturamorale e religiosa, Melville pro-dusse un’opera che non solo solle-vava un tema torbido come l’ince-sto, ma sparava a zero sui critici, ilettori e gli stessi scrittori dell’Ame-rica contemporanea.

Il dramma familiare del giovanePierre, che da rampollo di agiatafamiglia precipita verso la miseriae una fine tragica per venire in soc-corso alla misteriosa Isabel, cheegli è «intimamente convinto» siala figlia illegittima del defunto pa-dre, è difatti intrecciato al raccon-to del suo disperato tentativo di af-fermarsi come scrittore. Ma le sueambizioni artistiche sono così tita-niche da sfiorare il ridicolo. «Offri-rò al mondo un nuovo vangelo»,proclama Pierre invasato, «mo-strando agli uomini segreti piùprofondi dell’Apocalisse!»

Per quanto, sin dalla riscopertadi Melville negli anni venti del se-colo scorso, il romanzo sia statosovente letto in chiave autobiogra-fica, il narratore ironizza pesante-mente sulle aspirazioni artistichedel protagonista, pur ricorrendo ri-petutamente a un linguaggio al-trettanto esagerato e grottesco.Non sorprende dunque che più diun critico abbia suggerito cheMel-ville, frustrato dal sostanziale in-successo di Moby-Dick, sarebbestato colto da una cupio dissolvipoi sigillata dalle recensioni deicontemporanei. Il «New York DayBook» titolò il suo pezzo su Pierre«Herman Melville impazzito», e iltono era tutt’altro che scherzoso.Che il libro fosse ributtante, inde-cente, spazzatura, venne ripetutoda un commentatore dopo l’altro.Tranne rare eccezioni, è solo nelsecondo dopoguerra che la di-scussione sul romanzo assumeràcontorni seri, fermo restando cheancora oggi i giudizi restano di-scordi, soprattutto per quantoconcerne la struttura e lo stiledell’opera.

La ripubblicazione della versio-ne italiana di Pierre o le ambiguità,da parte di Medusa, in un’edizio-ne assai ben curata da VincenzoFidomanzo (pp. 443, e 28,00) vadunque salutata come un atto co-raggioso e degno di plauso. Conuna breve prefazione di ClaudioGorlier e una postfazione nellaquale il curatore ricostruisce il di-battito critico intorno al libro,l’edizione ripropone la storica tra-duzione di Luigi Berti per Einaudidel 1942, che Fidomanzo non haritenuto di rivoluzionare, pur pro-ponendosi «con piccole, ma nu-merose modifiche, di rendere latraduzione più adatta al lettore

del XXI secolo, tentando nel con-tempo di non dissolvere il saporeletterario di uno scritto concepitonella metà del XIX».

L’obiettivo è pienamente rag-giunto, nonostante le difficoltà lin-guistiche che il romanzo pone,non solo per ricchezza lessicale eper l’ampiezza di registri e di tonali-tà di non sempre facile decifrazio-ne, ma per la presenza di un sensi-bile numero di neologismi. Forsein qualche frangente le revisionidel curatore avrebbero potuto an-dare più a fondo: per esempio il«sono molto dispiacente» di Bertiavrebbe meritato di essere ritocca-to, così come il termine «sacerdo-te» riferito a un pastore protestan-te.Ma sonodettagli che nulla tolgo-no a una curatela appassionata epuntuale, impreziosita da una no-ta che ricostruisce il carteggio traBerti e Giulio Einaudi su Pierre.

Oltre a fornire uno spaccato as-sai interessante del mondo edito-riale di quegli anni, il carteggio get-ta luce sui rapporti complessi, e atratti molto tesi, tra un editore cu-rioso e ambizioso come il giovaneEinaudi e un traduttore assillato dapreoccupazioni di ordine economi-co, ma risoluto nel difendere labontà del proprio lavoro, anche difronte aunmisterioso revisore (for-seCesare Pavese, ipotizza il curato-re) che per conto dell’editore ave-va sollevato più di una perplessitàsulla versione di Berti.

Nel discutere della (s)fortuna cri-tica diPierre, Fidomanzomette giu-stamente in guardia dall’attribuireeccessiva importanza al temadell’incesto. Certo, il matrimoniodel protagonista con quella che ri-tiene sia la sorellastra, pur presen-tato come un formale quanto biz-zarro e scellerato «atto riparatore»volto a salvaguardare il buon no-me del padre, non smentisce l’at-trazionemagnetica tra Pierre e Isa-bel, ma è il sottotitolo del romanzoa segnalare limpidamente le sueprincipali preoccupazioni.

Sono le ambiguità e la contrad-dittorietà di ogni gesto, ogni valo-re, ogni segno a disorientare il pro-tagonista e a essere costantementechiosate da un narratore che, se at-tacca la società gretta e ipocrita, ca-pace di distruggere le mire esteti-che di Pierre, non esita a prendersigiocodel suo sogno «evangelizzato-re». Non sorprende che il testo ab-bia trovato i suoi più intelligenti in-terpreti tra quei critici capaci di co-glierne le suggestioni proto-nietz-schiane e anti-metafische, comeGiuseppeNori (nel suo La scritturasconfitta, Bulzoni, 1986), e tra i de-costruzionisti, abili a sottolinearela rete di segni cui restano impiglia-ti protagonista, narratore e lettore,senza speranza alcuna di approda-re a una Verità ultima. Difatti, «nonè dell’uomo seguire le tracce dellaverità» nelle regioni iperboree,«perché così facendo egli perde deltutto la bussola che lo dirige e, unavolta arrivato al Polo, di cui essa se-gna solo la desolazione, l’ago si vol-ge indifferentemente verso tutti ipunti dell’orizzonte».

di MARIA PELLEGRINI

La poltrona sulla copertinadel De otio di Seneca a cura diStefano Costa (La Vita Felice, pp.60, e 6,00), indurrebbe a pensare alsignificato dispregiativo checomunemente diamo alla parola«ozio». Quello di cui parla Seneca –difficile tradurlo con un unicotermine – è il disporre del propriotempo per la meditazione, per laconoscenza di sé, la ricerca dellaverità e della saggezza; è attivitàdello spirito, spazio dell’anima,libertà interiore. Punto diriferimento per pensatori di ognietà, soprattutto per anime inquiete,che hanno trovato nelle sue parolesollievo al sopravvenire delpensiero della morte, Senecaaffronta qui il problema della sceltatra otium e negotium, cioè tra vita

contemplativa e attiva, comeopposizione tra la dottrina stoica equella epicurea. Secondo Epicuro ilsapiente non deve partecipare allavita pubblica, a meno che gravicondizioni non lo obblighino aintervenire per evitare mali ancorapeggiori. Lo stoicismo inveceprevede la partecipazione delsaggio alla vita politica per operarein prima persona a favore dellacollettività; ma pur ribadendo ilvalore del negotium come sceltadel cittadino romano, riconosce lalegittimità dell’otium, inteso comevita dedita alla riflessione, alperfezionamento morale,soprattutto qualora lo si vogliaobbligare a tradire la virtù. Senecacerca di conciliare le due scuolefilosofiche: l’epicurea aspira allavita ritirata per principio, la stoicaper una qualche causa che

impedisca la vita attiva. Nel De otio,accusato dal suo interlocutore diessere diventato epicureo, Senecasi difende citando lo stoico Zenone:«Il saggio si occuperà dello Stato ameno che qualcosa lo impedisca»,e rafforza il concetto conun’affermazione pienamentecoerente con le massimefondamentali della morale stoicarispetto all’impegno politico: «Senon si trova quello Stato che noi ciprefiguriamo, la vita ritiratacomincia a essere obbligatoria pertutti». La rinunzia di Senecaall’impegno politico è dovuta allanecessità di allontanarsi da unpotere iniquo, il suo ritiro dalla vitapubblica avviene dunque per unacausa esterna: «se lo Stato è piùcorrotto di quanto dovrebbe essereper potervi collaborare, se è invasodai mali, il saggio non si sforzerà

verso l’inutile». Lontano daimpegni politici, Seneca tuttavianon si dà per vinto: «L’isolarsigioverà per se stesso: da solisaremo migliori», precisando che lesue riflessioni nate durante l’otiumpotranno giovare a tutta l’umanità,l’otium è dunque una sceltapienamente legittima: quando nonè possibile dedicarsi alla politica, ilritiro ha comunque unagiustificazione sociale perchémigliorare se stessi significa potergiovare agli altri. Ma per Senecal’allontanamento dalla scenapubblica è un’implicita confessionedel fallimento del progetto dicreare in Nerone il modellodell’imperatore filosofo. Nella suavita ritirata non raggiungerà paceinteriore e sarà piuttosto un uomoinquieto che s’interroga e ripiegasu se stesso. Nonostante continui a

ribattere che l’otium dello stoiconon può essere inazione (i maestristoici Zenone e Crisippo, nel lororitiro, furono più utili all’umanitàche se si fossero impegnati comecomandanti militari o politici),Seneca, osserva Costa, «non riescea spiegare come sciogliere il nodoparadossale dell’attivismocontemplativo, ma dimostrerà diaver risolto tale paradosso nei suoiscritti seguenti o contemporanei alDe otio». Riuscirà a medicare i malidell’anima e si mostrerà profondoconoscitore delle debolezze umanee austero maestro di precetti etici.(il «Seneca morale» di Dante).Pregio del libro è l’accuratatraduzione del testo filosofico, cheviene presentato al lettore con unachiara introduzione e alleggeritodelle consuete note filologiche einterpretative.

CLASSICI

L’ozio di Senecaritiratosidalla politica:fuga dal mondoo attivismocontemplativo?

LA ROCHEFOUCAULD

di MARCO GATTO

Scritto a due anni dalla morte di Chopin,avvenuta a Parigi nel novembre del 1849, il ritrattoche Franz Liszt ci consegna del compositorepolacco ha un enorme valore testimoniale e silascia apprezzare, nonostante la prosa eccessiva emirabolante. Chopin (Castelvecchi, pp. 140, e16,50)– come non manca di notare l’estensore dellaprefazione, il pianista Michele Campanella,raffinato interprete e conoscitore del mondolisztiano – contiene giudizi illuminanti e utilissimenotizie sul contesto psicologico nel qualel’immaginario sonoro di Chopin andòdispiegandosi. Frutto di un’ammirazione sincera,dietro la quale si nasconde, qua e là, la rivalità tradue giganti della musica romantica, il ricordo delmusicista schivo, lontano da qualsivoglia ideologiaestetica e culturale, dedito alla causa patriottica,confinato negli affetti familiari (al di là dellatumultuosa storia d’amore con George Sand, cuiLiszt dedica non poche pagine accorate), ha ilmerito di non consegnarci facili mitologie. Si

intuisce come Chopin, anzitutto per via della suaprecaria salute fisica, fosse estraneo alloscoppiettare delle discussioni romantiche inmateria di musica: a differenza di Schumann, che,dopo aver esordito come poeta, si era impegnatonell’attività di critico musicale e di chiarificatore dicerte istanze estetiche, e a differenza dello stessoLiszt, che in sé sommava il concertista, ilcompositore, il direttore d’orchestra el’organizzatore culturale, Chopin – che si esibivararamente e preferiva l’intimità del lavorocompositivo – restò fedele a una «volontariarinuncia ai successi folgoranti», che certonascondeva «un malcontento interiore». Si sarebbedovuto attendere Alfred Cortot per vedere chiaritele intuizioni di Liszt, e per ragionare meglio sullacostruzione del personaggio di Chopin, spessodipinto come massimo esemplare romantico: aquella stagione, e a quel contesto culturale, ilmusicista polacco assistette da spettatoreperiferico, preferendo la strada della ricercaindividuale, che certo gli permise un’evoluzionesingolare, persino ostile a certe convenzioni (delle

quali pure si nutriva, specie nell’attività didattica) –ostilità che Liszt non manca di riconoscere(Chopin è autore di «raffinatezze armonicheinaspettate, e fino ad allora mai sentite»). Il libro diLiszt, del resto, sembra avere come obiettivol’individuazione del carattere musicale di Chopin eil suo legame con quella particolare psicologia, chesolo un sodale poteva conoscere. Invano il lettoretroverà una sorta di guida all’ascolto o unaparabola del carattere progressivo dell’opera diChopin: non è un caso che, insistendo sullacentralità dell’immaginario patriottico (Chopin, loricordiamo, era un esule, seppure adottato da unacultura che, per ragioni familiari, conosceva bene),Liszt si fermi di più sulle mazurke e sulle polacche,a volte lasciando trapelare un giudizio pocoaccomodante sulle opere più formalmente vicinealla tradizione, come le sonate per pianoforte (madavvero così prossime a un linguaggio blasonato,verrebbe da chiedersi?). Il motivo di queste sceltesta nel fatto che poco tempo separa la stesura diquesto commosso ricordo dalla morte dell’amico.Significative, infine, le considerazioni che ilcompositore ungherese svolge a partire dallamusica di Chopin. Liszt (se è davvero l’unicoautore di questo testo: Campanella, nellaprefazione, avverte della vicinanza di CarolyneSayn von Wittgenstein) dimostra una versatilitàculturale sorprendente: il discorso tocca argomentidi estetica, considerazioni musicali profondissime,lievissime analisi psicologiche che legano il vissutoalle opere, la poetica alle ragioni del corpo. Ilritratto prende vita e offre utilissime chiavi dilettura, mentre la cronaca delle ultime ore di vitadel musicista polacco chiudono, con devozione eammirazione, il cerchio di un ritratto certamentesincero e sentito.

Distillati per i salottisecenteschi,gli aspri e ironicisucchi del viveredi un autorefin da ragazzoesperto di intrighie cabale di corte,partecipedella Frondae dei complotticontro Richelieu

Dramma famigliarein cerca di successo

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a cura diRoberto AndreottiFrancesca BorrelliFederico De Melis

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MUSICISTI ROMANTICI IL RITRATTO DI «CHOPIN» SCRITTO DA LISZT

Raffinatezze armonichee immaginario patriottico

Tra dritto e rovescio,ogni apparente virtùnasconde una magagna

LA STORIA TESTUALE DELLE «MASSIME», FINO ALL’EDIZIONE DEFINITIVA DEL 1678, NEI MILLENNI

Amareggiato dal fallimento di Moby Dick,Melville tentò la strada sentimentale, affidandosia un protagonista disorientato dalla ambivalenzadi ogni suo gesto e di tutti i valori in cui crede

Thomas Eakins, «Portrait of DouglassMorgan Hall», 1889 ca.

In copertina di «Alias-D»,uno degli «interiors»dell’artista popRoy Lichtenstein;nella foto,Jonathan Galassi

Dal film per la tv«La presa del potereda parte di Luigi XIV»di Roberto Rossellini,1966MELVILLE

CONTINUA A PAGINA 7

RIPROPOSTO DA MEDUSA «PIERRE O LE AMBIGUITÀ», DEL 1851

Page 3: diMASSIMOBACIGALUPO · diMASSIMOBACIGALUPO «Fuckthepeasants!»–comin-ciacosìilprimodivertenteroman-zo di Jonathan Galassi (La musa, Guanda «Narratori della Fenice»,

(3)ALIAS DOMENICA28 GIUGNO 2015

di FAUSTA GARAVINI

C’è una frase, resa nota in Ita-lia da Giulio Andreotti, che suona:«A pensar male (degli altri) si fa pec-cato ma ci si azzecca». Secondo al-cuni la battuta non sarebbe di An-dreotti, che si limiterebbe a citare ilcardinal Mazzarino oppure, secon-do altri, La Rochefoucauld. In realtàla frase non si trova nel Breviario deipolitici attribuito al diabolico cardi-nale, e neppure nelle Sentenze emassime morali del duca di La Ro-chefoucauld, ora curate con l’abi-tuale acribia da Carlo Carena (Ei-naudi, «I Millenni», pp. 417, e

80,00). Ma potrebbe trovarcisi. An-che un’altra nota massima andreot-tiana, «Il potere logora chi non cel’ha», sarebbe accostabile del restoa questa o quella sentenza di La Ro-chefoucauld (poniamo: «La fortunanon sembra mai così cieca come acoloro che non benefica», 391).Quanto dire la sintonia del nostropresente con lo spirito dell’epoca diLuigi XIV – quel « teatro della dissi-mulazione» indagato a più ripreseda Giovanni Macchia – e, constata-zione scontata, la possibilità per noidi riconoscerci nella cancrena ca-chettica d’una società dove nonscorrono più stimolanti flussi vitali.

Al limite, quella frase avrebberopotuto firmarla anche il cardinal deRetz, o Saint-Simon, o La Bruyère,autori compresenti nel pantheondei «moralisti classici» (si veda, an-cora di Macchia, l’antologia dellostesso titolo e, indietro nel tempo,le celebri e fondamentali Moralesdu grand siècle di Paul Bénichou,1948) sulla cui soglia vediamo indu-giare il nostro fine politico. Ma setutti costoro lavorano impietosa-mente sulle contraddizioni dell’ani-mo e dei rapporti umani, soltantoLa Rochefoucauld sfaccetta in perfi-di, taglienti cristalli, luci e colori delsecolo del Re Sole. Un secolo che sa-rebbe più giusto definire il secolodell’eclissi, uno dei periodi più oscu-ri della storia di Francia: l’assoluti-smo monarchico schiaccia la vita so-cio-economica (carestie, mortalità,tasse pesantissime, coscrizione) co-me la vita intellettuale (le élites mes-se al passo, gusti e coscienze sorve-gliati, disciplinati, plagiati). Quelche si eclissa è la morale eroica diCorneille, la morale rigorosa di Pa-scal; è la fiducia nel genere umano,nella virtù stoica, nelle gesta sfolgo-ranti, nell’autenticità dei sentimen-ti, oscurata dalla lucida coscienzache ogni agire è doppiezza, che l’ in-teresse per altrui è copertura delproprio. Si eclissa anche la moralemondana di Molière, che stornandoin amara pagliacciata le artritichecontorsioni dei sudditi di LuigiXIV, decreta la qualità di Alcestenel rifiuto di adeguarsi al correnteistrionismo.

Esperto fin da giovanissimo degliintrighi e delle cabale di corte, parte-cipe dei complotti contro Richelieue della Fronda, La Rochefoucauldsapeva di cosa parlava esordendocome scrittore a quarant’anni passa-

ti, prima con le Memorie relative alperiodo della Reggenza, poi – calma-ti gli spiriti e godendo della vagaprotezione del re – con le Massimein cui distilla, nei e per i salotti diMadeleine de Sablé, di Madame deSévigné, di Madame de La Fayette, isucchi aspri e ironici della sua espe-rienza del vivere. Niente a che vede-re, ovviamente, con i vari manualidi saper vivere che pullulano all’epo-ca, a partire dal Cortegiano, comu-ne modello, e di cui nella pratica –stando ai giudizi dei contempora-nei – La Rochefoucauld sembra l’in-carnazione.

Se alcune sue massime trattano

delle convenienze sociali e insegna-no le buone creanze, fra il Castiglio-ne e La Rochefoucauld è passatoGiansenio, la cui visione negativadell’uomo ha contagiato gli am-bienti parigini. E anche senza Gian-senio, lo spettacolo della corruzio-ne circostante non poteva che per-suadere della vacuità di qualsiasiideale. L’opera, consentanea al con-testo in cui nasce, viene accoltacon favore, anzi con un entusia-smo che indurrà poi l’autore a rila-vorarla a più riprese, sfogliando at-teggiamenti e sentimenti e mo-strandone la faccia nascosta. È tut-to un gioco di dritto e rovescio,

ogni apparente virtù rivela la sua fo-dera di magagna: «La clemenza deiregnanti spesso non è che una poli-tica per conquistare l’affetto dei po-poli»(15); «L’attaccamento o l’indif-ferenza dei filosofi per la vita nonera che una propensione del loroamor proprio»(46); «La sincerità èun’apertura del cuore. La si trovain pochissime persone; e quellache si vede abitualmente non è cheun’astuta dissimulazione per attrar-re la fiducia degli altri»(62); «Ciòche sembra generosità spesso nonè che un’ambizione dissimulatache disprezza i piccoli vantaggi perraggiungere i più grandi» (246).

Non sempre le massime sono ge-niali, alcune sono banali, ma quelche colpisce è il compatto pessimi-smo del prontuario, oggetto in pro-sieguo di tempo di reazioni diver-se, spesso ostili: specchio perfettodell’uomo secondo La Fontaine (aRochefoucauld è dedicata la «favola»L’uomo e la sua immagine), ma «tri-ste libro» secondo Rousseau, fruttodi «miseria» mentale per Alain, pu-ro esercizio matematico agli occhidi Camus.

Eppure: Roland Barthes, che le halungamente frequentate, sfuma nel-le Massime il loro carattere ambiguoe benefico. Ambiguo in quanto lamassima si situa su una friabile fron-tiera: è la stessa società mondanache delega l’intellettuale La Roche-foucauld a contestarla, concedendo-si attraverso di lui lo spettacolo dellapropria contestazione. Benefico poi-ché la forma lapidaria, definitiva del-la massima, per quanto negativa, èpiù rassicurante dell’insopportabileduplicità del tutto.

A poco servono le attenuazioni(spesso, quasi sempre) e le strategiedi compensazione (su cui hanno in-sistito vari studiosi francesi, e danoi Corrado Rosso) messe in operanella formula stessa della massi-ma, tramite l’uso di subordinateconcessive («Per quanto...»), se poila proposizione principale cade co-me una ghigliottina eliminandoogni incertezza: «Per quanto impe-gno si metta nel coprire le propriepassioni con apparenze di pietà edi onore, esse traspaiono sempreattraverso questi veli» (12); «Perquanta diffidenza abbiamo verso lasincerità di chi ci parla, crediamosempre che dica la verità più a noiche agli altri» (366).

Denunciando la doppiezza ma fre-quentando i salotti più elegantidell’epoca, in perfetto ossequio allenorme del vivere cortese, La Roche-foucauld praticherebbe allora unamorale sostitutiva, assumendo con-sapevolmente una maschera, comevorrebbe Starobinski? La questione,a dire il vero, è oziosa. Questo scritto-re è un signore, e lamorale è un’este-tica. Ma non si tratta qui di spiattel-lare la mia visione del personaggio(secondo il vezzo ormai inesorabiledi alcuni recensori, quando si trattidi edizioni/traduzioni di classici), an-cor meno di riassumere rozzamentequanto altri ne ha scritto, bensì dirender conto della curatela di questo«Millennio» (che contiene anche, inappendice, le postume ma affini Ri-flessioni diverse).

GERENZA

di GIORGIO MARIANI

HermanMelville iniziò la ste-sura di Pierre o le ambiguità, il suosettimo romanzo in sette anni,nell’agosto del 1851, alla vigiliadella pubblicazione di Moby-Dick.Mentre era al lavoro sulla nuovaopera, ebbe modo di leggere le re-censioni, in generale assai poco lu-singhiere, dedicate dalla stampaamericana e britannica a quelloche solo parecchi decenni più tar-di sarebbe stato consacrato comeil suo capolavoro. Allo stesso tem-po, poté rendersi conto del fattoche Moby-Dick si avviava a essereun nuovo insuccesso commercia-le e che la sua ambizione di guada-gnarsi da vivere come scrittorecontinuava a scontrarsi con la na-tura del pubblico e del mercatoeditoriale dell’epoca. Non per nul-la, un paio di anni prima, in unalettera al suocero Lemuel Shaw,giudice della Corte Suprema delMassachusetts, Melville aveva af-fermato che «il mio più grande de-siderio è scrivere quel genere di li-bri di cui si parla come‘fallimenti’».

Con questo Melville non inten-deva suggerire di essere indiffe-rente alla popolarità. Quando lereazioni negative a Mardi, il suoterzo romanzo, ne avevano sensi-bilmente incrinato l’immagine diastro nascente della letteraturaamericana – una considerazioneguadagnata col successo dei ro-manzi «polinesiani» Typee eOmoo – Melville aveva accettatodi tornare al più vendibile «reali-smo» delle prime opere. Pur la-mentandosi in privato che Red-burn e Giacchetta Bianca – i dueromanzi che precedono Moby-Di-ck – altro non erano senon «duelavori, che ho fatto per soldi – es-sendoci costretto, così come altrisono costretti a segare il legno»,Melville si rendeva conto della ne-cessità di un compromesso tra gliimpulsi della sua immaginazioneunita all’esuberanza del suo stile,da un lato, e le aspettative delpubblico, dall’altro.

Con Moby-Dick Melville avevacercato un punto di equilibrio trauna trama avventurosa (la cacciadi Ahab alla Balena Bianca) e lespeculazioni filosofiche e pseu-do-scientifiche affidate a Ishma-el, il narratore. Una volta consta-tato il fallimento del progetto incui aveva investito febbrilmente

tutto se stesso, Melville dovettesentirsi ancor più motivato nellasua decisione di abbandonare ilromanzo di ambientazione mari-nara per cimentarsi con il generedi successo dell’epoca, la narrati-va sentimentale.

Pierre rappresentava dunque iltentativo di fare breccia in unmer-cato editoriale dominato da quel-la che Nathaniel Hawthorne, cuiMoby-Dick era stato dedicato, ave-va descritto come «una maledettamarmaglia di scribacchine». Of-frendo al pubblico non un’ennesi-ma «ciotola di acqua salata» bensì«una ciotola di latte campestre» –come scrisse in una lettera indiriz-zata proprio alla moglie diHawthorne, Sophia – Melville pa-reva mosso dal sincero desideriodi conquistarsi nuovi lettori. Eppu-re, lungi dal confezionare un testoche andasse incontro ai gusti diun pubblico che non gradiva spe-culazioni ardite su temi di naturamorale e religiosa, Melville pro-dusse un’opera che non solo solle-vava un tema torbido come l’ince-sto, ma sparava a zero sui critici, ilettori e gli stessi scrittori dell’Ame-rica contemporanea.

Il dramma familiare del giovanePierre, che da rampollo di agiatafamiglia precipita verso la miseriae una fine tragica per venire in soc-corso alla misteriosa Isabel, cheegli è «intimamente convinto» siala figlia illegittima del defunto pa-dre, è difatti intrecciato al raccon-to del suo disperato tentativo di af-fermarsi come scrittore. Ma le sueambizioni artistiche sono così tita-niche da sfiorare il ridicolo. «Offri-rò al mondo un nuovo vangelo»,proclama Pierre invasato, «mo-strando agli uomini segreti piùprofondi dell’Apocalisse!»

Per quanto, sin dalla riscopertadi Melville negli anni venti del se-colo scorso, il romanzo sia statosovente letto in chiave autobiogra-fica, il narratore ironizza pesante-mente sulle aspirazioni artistichedel protagonista, pur ricorrendo ri-petutamente a un linguaggio al-trettanto esagerato e grottesco.Non sorprende dunque che più diun critico abbia suggerito cheMel-ville, frustrato dal sostanziale in-successo di Moby-Dick, sarebbestato colto da una cupio dissolvipoi sigillata dalle recensioni deicontemporanei. Il «New York DayBook» titolò il suo pezzo su Pierre«Herman Melville impazzito», e iltono era tutt’altro che scherzoso.Che il libro fosse ributtante, inde-cente, spazzatura, venne ripetutoda un commentatore dopo l’altro.Tranne rare eccezioni, è solo nelsecondo dopoguerra che la di-scussione sul romanzo assumeràcontorni seri, fermo restando cheancora oggi i giudizi restano di-scordi, soprattutto per quantoconcerne la struttura e lo stiledell’opera.

La ripubblicazione della versio-ne italiana di Pierre o le ambiguità,da parte di Medusa, in un’edizio-ne assai ben curata da VincenzoFidomanzo (pp. 443, e 28,00) vadunque salutata come un atto co-raggioso e degno di plauso. Conuna breve prefazione di ClaudioGorlier e una postfazione nellaquale il curatore ricostruisce il di-battito critico intorno al libro,l’edizione ripropone la storica tra-duzione di Luigi Berti per Einaudidel 1942, che Fidomanzo non haritenuto di rivoluzionare, pur pro-ponendosi «con piccole, ma nu-merose modifiche, di rendere latraduzione più adatta al lettore

del XXI secolo, tentando nel con-tempo di non dissolvere il saporeletterario di uno scritto concepitonella metà del XIX».

L’obiettivo è pienamente rag-giunto, nonostante le difficoltà lin-guistiche che il romanzo pone,non solo per ricchezza lessicale eper l’ampiezza di registri e di tonali-tà di non sempre facile decifrazio-ne, ma per la presenza di un sensi-bile numero di neologismi. Forsein qualche frangente le revisionidel curatore avrebbero potuto an-dare più a fondo: per esempio il«sono molto dispiacente» di Bertiavrebbe meritato di essere ritocca-to, così come il termine «sacerdo-te» riferito a un pastore protestan-te.Ma sonodettagli che nulla tolgo-no a una curatela appassionata epuntuale, impreziosita da una no-ta che ricostruisce il carteggio traBerti e Giulio Einaudi su Pierre.

Oltre a fornire uno spaccato as-sai interessante del mondo edito-riale di quegli anni, il carteggio get-ta luce sui rapporti complessi, e atratti molto tesi, tra un editore cu-rioso e ambizioso come il giovaneEinaudi e un traduttore assillato dapreoccupazioni di ordine economi-co, ma risoluto nel difendere labontà del proprio lavoro, anche difronte aunmisterioso revisore (for-seCesare Pavese, ipotizza il curato-re) che per conto dell’editore ave-va sollevato più di una perplessitàsulla versione di Berti.

Nel discutere della (s)fortuna cri-tica diPierre, Fidomanzomette giu-stamente in guardia dall’attribuireeccessiva importanza al temadell’incesto. Certo, il matrimoniodel protagonista con quella che ri-tiene sia la sorellastra, pur presen-tato come un formale quanto biz-zarro e scellerato «atto riparatore»volto a salvaguardare il buon no-me del padre, non smentisce l’at-trazionemagnetica tra Pierre e Isa-bel, ma è il sottotitolo del romanzoa segnalare limpidamente le sueprincipali preoccupazioni.

Sono le ambiguità e la contrad-dittorietà di ogni gesto, ogni valo-re, ogni segno a disorientare il pro-tagonista e a essere costantementechiosate da un narratore che, se at-tacca la società gretta e ipocrita, ca-pace di distruggere le mire esteti-che di Pierre, non esita a prendersigiocodel suo sogno «evangelizzato-re». Non sorprende che il testo ab-bia trovato i suoi più intelligenti in-terpreti tra quei critici capaci di co-glierne le suggestioni proto-nietz-schiane e anti-metafische, comeGiuseppeNori (nel suo La scritturasconfitta, Bulzoni, 1986), e tra i de-costruzionisti, abili a sottolinearela rete di segni cui restano impiglia-ti protagonista, narratore e lettore,senza speranza alcuna di approda-re a una Verità ultima. Difatti, «nonè dell’uomo seguire le tracce dellaverità» nelle regioni iperboree,«perché così facendo egli perde deltutto la bussola che lo dirige e, unavolta arrivato al Polo, di cui essa se-gna solo la desolazione, l’ago si vol-ge indifferentemente verso tutti ipunti dell’orizzonte».

di MARIA PELLEGRINI

La poltrona sulla copertinadel De otio di Seneca a cura diStefano Costa (La Vita Felice, pp.60, e 6,00), indurrebbe a pensare alsignificato dispregiativo checomunemente diamo alla parola«ozio». Quello di cui parla Seneca –difficile tradurlo con un unicotermine – è il disporre del propriotempo per la meditazione, per laconoscenza di sé, la ricerca dellaverità e della saggezza; è attivitàdello spirito, spazio dell’anima,libertà interiore. Punto diriferimento per pensatori di ognietà, soprattutto per anime inquiete,che hanno trovato nelle sue parolesollievo al sopravvenire delpensiero della morte, Senecaaffronta qui il problema della sceltatra otium e negotium, cioè tra vita

contemplativa e attiva, comeopposizione tra la dottrina stoica equella epicurea. Secondo Epicuro ilsapiente non deve partecipare allavita pubblica, a meno che gravicondizioni non lo obblighino aintervenire per evitare mali ancorapeggiori. Lo stoicismo inveceprevede la partecipazione delsaggio alla vita politica per operarein prima persona a favore dellacollettività; ma pur ribadendo ilvalore del negotium come sceltadel cittadino romano, riconosce lalegittimità dell’otium, inteso comevita dedita alla riflessione, alperfezionamento morale,soprattutto qualora lo si vogliaobbligare a tradire la virtù. Senecacerca di conciliare le due scuolefilosofiche: l’epicurea aspira allavita ritirata per principio, la stoicaper una qualche causa che

impedisca la vita attiva. Nel De otio,accusato dal suo interlocutore diessere diventato epicureo, Senecasi difende citando lo stoico Zenone:«Il saggio si occuperà dello Stato ameno che qualcosa lo impedisca»,e rafforza il concetto conun’affermazione pienamentecoerente con le massimefondamentali della morale stoicarispetto all’impegno politico: «Senon si trova quello Stato che noi ciprefiguriamo, la vita ritiratacomincia a essere obbligatoria pertutti». La rinunzia di Senecaall’impegno politico è dovuta allanecessità di allontanarsi da unpotere iniquo, il suo ritiro dalla vitapubblica avviene dunque per unacausa esterna: «se lo Stato è piùcorrotto di quanto dovrebbe essereper potervi collaborare, se è invasodai mali, il saggio non si sforzerà

verso l’inutile». Lontano daimpegni politici, Seneca tuttavianon si dà per vinto: «L’isolarsigioverà per se stesso: da solisaremo migliori», precisando che lesue riflessioni nate durante l’otiumpotranno giovare a tutta l’umanità,l’otium è dunque una sceltapienamente legittima: quando nonè possibile dedicarsi alla politica, ilritiro ha comunque unagiustificazione sociale perchémigliorare se stessi significa potergiovare agli altri. Ma per Senecal’allontanamento dalla scenapubblica è un’implicita confessionedel fallimento del progetto dicreare in Nerone il modellodell’imperatore filosofo. Nella suavita ritirata non raggiungerà paceinteriore e sarà piuttosto un uomoinquieto che s’interroga e ripiegasu se stesso. Nonostante continui a

ribattere che l’otium dello stoiconon può essere inazione (i maestristoici Zenone e Crisippo, nel lororitiro, furono più utili all’umanitàche se si fossero impegnati comecomandanti militari o politici),Seneca, osserva Costa, «non riescea spiegare come sciogliere il nodoparadossale dell’attivismocontemplativo, ma dimostrerà diaver risolto tale paradosso nei suoiscritti seguenti o contemporanei alDe otio». Riuscirà a medicare i malidell’anima e si mostrerà profondoconoscitore delle debolezze umanee austero maestro di precetti etici.(il «Seneca morale» di Dante).Pregio del libro è l’accuratatraduzione del testo filosofico, cheviene presentato al lettore con unachiara introduzione e alleggeritodelle consuete note filologiche einterpretative.

CLASSICI

L’ozio di Senecaritiratosidalla politica:fuga dal mondoo attivismocontemplativo?

LA ROCHEFOUCAULD

di MARCO GATTO

Scritto a due anni dalla morte di Chopin,avvenuta a Parigi nel novembre del 1849, il ritrattoche Franz Liszt ci consegna del compositorepolacco ha un enorme valore testimoniale e silascia apprezzare, nonostante la prosa eccessiva emirabolante. Chopin (Castelvecchi, pp. 140, e16,50)– come non manca di notare l’estensore dellaprefazione, il pianista Michele Campanella,raffinato interprete e conoscitore del mondolisztiano – contiene giudizi illuminanti e utilissimenotizie sul contesto psicologico nel qualel’immaginario sonoro di Chopin andòdispiegandosi. Frutto di un’ammirazione sincera,dietro la quale si nasconde, qua e là, la rivalità tradue giganti della musica romantica, il ricordo delmusicista schivo, lontano da qualsivoglia ideologiaestetica e culturale, dedito alla causa patriottica,confinato negli affetti familiari (al di là dellatumultuosa storia d’amore con George Sand, cuiLiszt dedica non poche pagine accorate), ha ilmerito di non consegnarci facili mitologie. Si

intuisce come Chopin, anzitutto per via della suaprecaria salute fisica, fosse estraneo alloscoppiettare delle discussioni romantiche inmateria di musica: a differenza di Schumann, che,dopo aver esordito come poeta, si era impegnatonell’attività di critico musicale e di chiarificatore dicerte istanze estetiche, e a differenza dello stessoLiszt, che in sé sommava il concertista, ilcompositore, il direttore d’orchestra el’organizzatore culturale, Chopin – che si esibivararamente e preferiva l’intimità del lavorocompositivo – restò fedele a una «volontariarinuncia ai successi folgoranti», che certonascondeva «un malcontento interiore». Si sarebbedovuto attendere Alfred Cortot per vedere chiaritele intuizioni di Liszt, e per ragionare meglio sullacostruzione del personaggio di Chopin, spessodipinto come massimo esemplare romantico: aquella stagione, e a quel contesto culturale, ilmusicista polacco assistette da spettatoreperiferico, preferendo la strada della ricercaindividuale, che certo gli permise un’evoluzionesingolare, persino ostile a certe convenzioni (delle

quali pure si nutriva, specie nell’attività didattica) –ostilità che Liszt non manca di riconoscere(Chopin è autore di «raffinatezze armonicheinaspettate, e fino ad allora mai sentite»). Il libro diLiszt, del resto, sembra avere come obiettivol’individuazione del carattere musicale di Chopin eil suo legame con quella particolare psicologia, chesolo un sodale poteva conoscere. Invano il lettoretroverà una sorta di guida all’ascolto o unaparabola del carattere progressivo dell’opera diChopin: non è un caso che, insistendo sullacentralità dell’immaginario patriottico (Chopin, loricordiamo, era un esule, seppure adottato da unacultura che, per ragioni familiari, conosceva bene),Liszt si fermi di più sulle mazurke e sulle polacche,a volte lasciando trapelare un giudizio pocoaccomodante sulle opere più formalmente vicinealla tradizione, come le sonate per pianoforte (madavvero così prossime a un linguaggio blasonato,verrebbe da chiedersi?). Il motivo di queste sceltesta nel fatto che poco tempo separa la stesura diquesto commosso ricordo dalla morte dell’amico.Significative, infine, le considerazioni che ilcompositore ungherese svolge a partire dallamusica di Chopin. Liszt (se è davvero l’unicoautore di questo testo: Campanella, nellaprefazione, avverte della vicinanza di CarolyneSayn von Wittgenstein) dimostra una versatilitàculturale sorprendente: il discorso tocca argomentidi estetica, considerazioni musicali profondissime,lievissime analisi psicologiche che legano il vissutoalle opere, la poetica alle ragioni del corpo. Ilritratto prende vita e offre utilissime chiavi dilettura, mentre la cronaca delle ultime ore di vitadel musicista polacco chiudono, con devozione eammirazione, il cerchio di un ritratto certamentesincero e sentito.

Distillati per i salottisecenteschi,gli aspri e ironicisucchi del viveredi un autorefin da ragazzoesperto di intrighie cabale di corte,partecipedella Frondae dei complotticontro Richelieu

Dramma famigliarein cerca di successo

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MUSICISTI ROMANTICI IL RITRATTO DI «CHOPIN» SCRITTO DA LISZT

Raffinatezze armonichee immaginario patriottico

Tra dritto e rovescio,ogni apparente virtùnasconde una magagna

LA STORIA TESTUALE DELLE «MASSIME», FINO ALL’EDIZIONE DEFINITIVA DEL 1678, NEI MILLENNI

Amareggiato dal fallimento di Moby Dick,Melville tentò la strada sentimentale, affidandosia un protagonista disorientato dalla ambivalenzadi ogni suo gesto e di tutti i valori in cui crede

Thomas Eakins, «Portrait of DouglassMorgan Hall», 1889 ca.

In copertina di «Alias-D»,uno degli «interiors»dell’artista popRoy Lichtenstein;nella foto,Jonathan Galassi

Dal film per la tv«La presa del potereda parte di Luigi XIV»di Roberto Rossellini,1966MELVILLE

CONTINUA A PAGINA 7

RIPROPOSTO DA MEDUSA «PIERRE O LE AMBIGUITÀ», DEL 1851

Page 4: diMASSIMOBACIGALUPO · diMASSIMOBACIGALUPO «Fuckthepeasants!»–comin-ciacosìilprimodivertenteroman-zo di Jonathan Galassi (La musa, Guanda «Narratori della Fenice»,

(4) ALIAS DOMENICA28 GIUGNO 2015

La natura umanadi là dalle frontiere

Obbligati a cancellareil proprio backgroundper far fronte alla vita

di NICOLETTA PESARO

Una scrittura non più cinesee solo in parte americana, che nontollera appartenenze identitarie etrova nella saggezza narrativa lapropria forza segna le pagine diYiyun Li, nata a Pechino nel 1972ed emigrata negli Stati Uniti quasivent’anni fa, dove si è ricavata unospazio importante proprio parlan-do, in lingua inglese, «della sua gen-te e del suo tempo», con uno stilesaturo di psicologia raffinata e se-gnato da una sintassi esistenzialeche la rendono assai diversa daogni altro autore (cinese) contem-poraneo. La dialettica tra le originidella autrice e la sua tradizione let-teraria (legata alla «diaspora» in Eu-ropa, in America e nel sudest asiati-co) del tutto indipendente da unaidentità in termini rigidamente spa-ziali e linguistici, non scalfisce il ni-tore assoluto di un linguaggio nar-rativo apparentemente naturaleeppure di grande intensità emoti-va e riflessiva, che esula appuntoda ogni definizione identitaria.

Nell’ultimo romanzo di Yiyun Li,Più gentile della solitudine (tradu-zione di Laura Noulian, Einaudi,pp. 319, e 20,00)), il personaggio diRuyudefinusce così lo spietato iso-lamento che si è costruita intorno:«(C)ome poteva spiegare che esse-re sola – e non la proprietà di qual-cuno – era l’unica cosa che avessemai desiderato?» E il personaggiodi Moran, avvolta nella rete di bu-gie con cui sopperisce alla scarsanarratività della propria esistenza,è definito da queste parole: «Quel-le storie non riguardavano lei. Nonparlavano del suo tempo o dellasua gente, eppure ciò che vi aveva

trovato – l’evasione – aveva finitocol diventare la sua saggezza».

Nel romanzo, i temi legati allasofferenza e allamemoria sono sca-vati, meglio: incisi a piccoli colpi dicesello, nei destini incrociati diquattro giovani, tra la Cina del tra-gico anno zero, il giugno del 1989,la Cina dell’odierno successo eco-nomico e l’orizzonte americano.Un delitto fortuito o deliberato in-crina per sempre questi destini, in-terrogando i protagonisti e il letto-re stesso sul senso delle relazioniumane e della responsabilità di cia-scuno nella vita altrui e, soprattut-to, nella propria.

Sta forse proprio in quel disegnosagace emeticolosodelle personali-tà, dei tratti e dei tormenti interioridei personaggi ciò che distingueYiyunLi dagli scrittori dellaCina, av-vicinandola – senza del tutto identi-ficarla – ai narratori americani. A ca-ratterizzare la sua scrittura difficil-mente riducibile a determinazionietniche è forse laminuziosaprofon-dità dei suoi ritratti: l’intransigenteautoalienazionediRuyu, orfana cre-sciuta asetticamente da due proziecristiane, la ribellioneacerbaeauto-lesionista di Shaoai, ambiziosaquanto inquieta studentessauniver-sitaria, l’ingenuità tradita di Moran,

appena quindicenne, in una Cinaincerta e ruvida nelle sue disattesesperanzedi democrazia. Aqueste fi-gure di pungente sebbene silenzio-sa tragedia, si aggiunge Boyang,compagno di adolescenza rimastoinCina dopo l’eventomai chiarito efunesto chenehaper sempremuta-to il carattere e la sorte. A distanzadi vent’anni, immobiliarista di suc-cesso apparentemente integratonella cinica e rapace società pechi-nese contemporanea, nasconde ilmedesimo senso di perdita taglien-te che hamarchiato le amiche, oltrea un disprezzo equamente rivolto asé e agli altri.

La Cina di oggi, che si specchiasenza vedersi nella società america-na dei tanti consumi e delle grandipossibilità, e l’abortita ipotesi diuna via più plurale e libera al be-nessere economico, sono rese me-taforicamente dal fallimento uma-no dei quattro personaggi; tutta-via, l’elemento sociologico e il fatto-re storico, pur decisivi, non marca-no le analisi meditate di Yiyun Li,cui sembra interessare piuttosto –e sta qui la sua alterità rispetto allascrittura della madrepatria – il tor-tuoso e insolutomistero della natu-ra umana, ripercorso con pazienteprofondità nei temi più alti intrec-ciati alla vita quotidiana: la fede,l’amore, il dolore, la morte, la soli-tudine. La ventennale prigionia diShaoai nel proprio corpo contami-nato infligge anche agli altri – Bo-yang in Cina, Ruyu e Moran emi-grate negli Stati Uniti – una analo-ga segregazione nelle proprie ani-me. Morte, malattia, solitudine so-no fili grigi che uniscono tra loro ipersonaggi anche nello iato psi-co-spaziotemporale che li separa,nel loro presente, da una terra e daun passato di non-detti: in questopiù vicina alla tradizione culturalecinese, Li riproduce emozioni epensieri delle sue figure facendoneemergere i vuoti piuttosto che i pie-ni, le ombre più della luce.

Aveva già affrontato condolorosaprecisione il tema dell’esclusionenei Girovaghi (Einaudi, 2010), po-tente romanzo su una comunità didiseredati sociali e politici alla finedel maoismo; qui, invece, assumeuna visione più equilibrata, resa lu-cida dalla distanza e dalla matura-zione, in cui padroneggia con mag-gior forza i personaggi cinesi, sapen-do tuttavia anche restituire condeli-cata ricettività le figure minori, diambito americano. Al centro dellastoria restano però solo i tre cinesi el’ombra onnipresente dell’infermache su di loro si proietta anche damorta: innetto contrasto con lo spi-rito americano del riscatto indivi-duale a tutti concesso, le vite di que-sti personaggi restano fatalmenteimpigliate a un’impercettibile con-danna, comminata non da una leg-ge esterna eoggettiva,madalla sog-gettiva responsabilità cui ciascunosi sente inesorabilmente vincolato,negandosi per sempre, sin da quelterribile ‘89, una vita di relazioniaperte e piene.

La sensibilità introspettiva di Liirretisce, senza mai risultare inva-dente, portando a quella che Yeatsaveva chiamato «fonda intimitàdel cuore», in un senso di privatez-za, d’inaccessibile e tutelato spaziopersonale e psicologico la cuiman-canza, nella Cina della propria in-fanzia e adolescenza, è stata spes-so lamentata dalla scrittrice. Il flui-re del tempo, più in movimenti aspirale che in progressione lineare(altro elemento di sinicità), lega traloro – nell’avvicendarsi delle diver-se prospettive – eterogeneima con-divisi «mali di vivere», tra gli oppo-sti esistenziali del distacco e dellaintimità, dell’amore edella solitudi-ne. La ricerca dell’uno non fa cheespandere a dismisura le dimensio-ni dell’altra: le scelte amorose diBoyang inaridiscono sulla superfi-cie gelida della sua corazza interio-re, la sete di corrispondenza emoti-va che Moran, dopo averla invanocoltivata da ragazza, smarrisce nelsuo dolente rapporto con Josef ris-pecchia il rifiuto o l’incapacità cheRuyu prova nel tessere relazioni,perché «(S)ia l’intimità che il distac-co richiedevano un impegno».

L’esperienzadelle duedonne ne-gli Stati Uniti, in cui si alternanoestraneità e accoglienza, una espe-rienza simboleggiata dalle incom-piute vicende matrimoniali di en-trambe, implica la necessità di ri-flettere sul tema dell’integrazione,che tuttavia va oltre le consuete di-namiche interculturali presenti nel-la letteratura sino-americana, allu-dendopiuttosto a un’indagine pro-fonda, una ricerca etica sulla diffi-coltà intrinseca a una reale e mu-tua accettazione, con l’abbandonodelle riserve identitarie, non tantoetniche quanto caratteriali. Ma intanta emarginazione psicologicaindugia un lieve, forse ancor piùcrudele spiraglio, ciò che rendeaspro e commovente il romanzo:se c’è egoismo in Boyang e nelle al-tre coprotagoniste, non è altro chel’egoismo di «qualcuno ostinatonel rifiuto di soffrire,ma non abba-stanza cieco alle sofferenze altrui».

di DANIELA FARGIONE

La copertina nera, di carta ruvida,che la casa editrice Frassinelli riserva all’ul-timo romanzo di Dinaw Mengestu, ripro-ducendomimeticamente la versione origi-nale della Alfred A. Knopf, è già una dichia-razione di intenti. La mano infantile checol gessetto scrive sulla lavagna il nomedell’autore e tira una riga sul titolo in stam-patello maiuscolo – Tutti i nostri nomi – siripropone con altrettanta assertività sullaquarta di copertina: siamo tutti prigionieridi un nome. A prima vista potrebbe sem-brare un ammiccante esercizio estetico,ma a ben pensarci la pelle nera e granulo-sa che riveste il libro è l’indizio più elo-quente del filtro attraverso cui le storie civengono raccontate.

I romanzi di Dinaw Mengestu, nato adAddis Abeba nel ’78 e cresciuto alla perife-ria di Chicago dopo la fuga dal Terrore ros-so, si inseriscono nella cosiddetta «lettera-tura della diaspora» accanto a opere qualiAmericanah di Chimamanda Ngozi Adi-chie (Einaudi 2014), Città aperta di TejuCole (Einaudi 2013), Il prezzo di Dio diOkey Ndibe (Edizioni Clichy 2015), La bel-lezza delle cose fragilidi Taiye Selasi (Einau-di 2013), scrittrice, quest’ultima, alla qualesi deve anche il neologismo «Afropolitan»per definire questa brillante e dinamica ge-nerazione di afroamericani o afroeuropei.Vivere nel flusso di una dimensione tran-snazionale e transculturale – talvolta perscelta, spesso per necessità – significa af-frontare svariate questioni di appartenen-za, e dunque di identità, a cui Mengestu sidedica con stile e risolutezza nei primi dueromanzi, Le cose che porta il cielo (Piemme2008), e Leggere il vento (Piemme 2011), ri-scuotendo consensi tanto immediati e una-nimi da essere segnalato dal New Yorkertra «i 20 migliori scrittori sotto i 40 anni» etributato di un «Genius» Grant dalla Ma-cArthur Foundation.

Addestrato all’osservazione da anni dimilitanza giornalistica nell’Africa sub-saha-riana, lo scrittore non si limita a riportare«storie di immigrazione», bensì si adoperaa sviscerare la complessità di quell’espe-rienza, affrancandola dai consolidati di-scorsi letterari sull’alterità e sul postcolo-nialismo, e tentando invece di decifrare ilmodo in cui l’Occidente simette in relazio-ne con l’Africa: «Lasciamo i nostri paesi, cispostiamo in posti nuovi, diventiamo pa-dri, mariti, mogli, madri. E ogni volta checi adattiamo a una nuova condizione, siespandono le possibilità rispetto a chi sia-mo o a chi possiamo diventare». Tutti i no-stri nomi (Frassinelli, traduzione dall’ingle-se di Mariagiulia Castagnone, pp. 280, e16,00) è un’acuta e spietata perlustrazione

di queste possibilità.I due narratori, Isaac e Helen, alternano

le loro diversissime voci per raccontarcipiù di una storia d’amore: quella interraz-ziale che li unisce e che viene consumatain silenzio («il modo più semplice per limi-tare i danni» che la parola potrebbe scate-nare); quella di Isaac verso il grande amico(Isaac Mabira) da cui erediterà il nome, «ildono più prezioso»; e quella di entrambi

per le rispettive madri che, più verrannorifiutate, più torneranno a rammentare leloro radici e i loro percorsi.

«From roots to routes» recita la notaespressione della lingua inglese per illu-strare, giocando sull’omofonia delle dueparole, una nuova e necessaria prospetti-va interculturale: il recupero delle radici(roots) che riconducono aunapatria origi-naria (intesa come entità geografica, poli-tica, storica) si fa sempre meno rilevantedei percorsi (routes), ovvero della memo-ria della diaspora, la cui dimenticanza sa-rebbe un «crimine contro la nazione»,unodei tanti che IsaacMabira annota sul-la pagine di un taccuino comeestremo at-

to d’amore per l’amico etiope.«Quando sono nato», dichiara il protago-

nista, «avevo tredici nomi, uno per genera-zione (…) eravamo gli unici a essere nati emorti in quella terra». Ma, lungi dall’essereuna ricchezza, quel patrimonio è piuttostoun peso insostenibile: «avevo la sensazionedi essere nato inuna prigione»; così il ragaz-zo implora il padre di lasciarlo partire, di li-berare il suo »Uccellino», nomignolo che ri-cevette quando era poco più di un bimbet-to. Cancellare i propri nomi, azzerare la sto-ria personale, è unnecessario atto di svesti-zione per poter indossare un nuovo habi-tus, per poter reinventare una nuova identi-tà: «Quando arrivai a Kampala non ero nes-suno: proprio come desideravo» e la città,a sua volta, si dimostra un luogo ideale per-ché «non apparteneva a nessuno, comeme, e ognuno poteva accampare delle pre-tese su di lei». Sicché, ispirato da un famo-so convegno di scrittori africani e inseguen-do il sogno di entrare a far parte di quellacategoria, si spaccia per studente di lettera-tura e ciondola per il campus dove incon-tra Isaac Mabira, «cane randagio» e «impo-store» come lui, riconoscendolo dalle scar-pe malconce come son semblable, sonfrère. Sarà Mabira ad affibbiargli tutta unaserie di nomi nuovi e con essi di nuove po-tenzialità: Langston (omaggio al poeta Hu-ghes), il Professore, Ali, chiamandolo unasola volta – l’ultima, prima della loro sepa-razione – con il nome che il padre gli avevadato in origine e di cui noi lettori conoscia-mo solo l’iniziale «D».

Sono gli anni settanta e l’innocenza el’idealismo che i due condividono all’iniziodovrannopresto scendere a patti con la cre-scente brutalità della «rivoluzione di car-ta». E poco importa se la storia – tantodell’Uganda quanto quella letteraria – sipresenta nel romanzo con contorni frasta-gliati: Mengestu non cita mai il nome delpresidente, ma lo spettro del «macellaio»Idi Amin Dada è inequivocabile; l’universi-tà non è mai nominata, ma Makerere è ilnome che possiamo attribuirle con certez-za; il convegno è solo distrattamente cita-to, eppure non sfugge l’eco rimbombantedelle parole di Ngugi Wa Thiong’o che inquello storico incontro del 1962 insistevasull’urgenza di una definizione di «lettera-tura africana» e sullo spinoso dilemma del-la lingua: «Le pallottole sono state il mezzodell’assoggettamento fisico. La lingua è sta-ta lo strumento dell’assoggettamento spiri-tuale», ha scritto in Decolonizzare la mente(Jaca Book 2015). La lingua di Isaac, non acaso, è quella letteraria appresa dai roman-zi di Dickens dal quale, a sua insaputa, rice-verà anche il soprannome.

Il tema della carta percorre anche il rac-conto di Helen, l’assistente sociale che perprima accoglie Isaac in una cittadina ruraledel Midwest americano dove «lo straniero»in questione non è esattamente un sans pa-pier ma è come se lo fosse: il dossier a luidestinato «non conteneva quasi niente,tranne un foglio con il nome e la data di na-scita», seguiti da un breve paragrafo in cuisi dichiarava che era venuto inAmerica gra-zie a uno scambio culturale; «quanto al luo-go, c’era scritto Africa, senza lo Stato o lacittà di provenienza. L’unica cosa precisaera il suo nome, Isaac Mabira, ma persinoquesto avrebbepotuto essere falso». La soli-tudine di Helen incontra la disperazione diIsaac e l’intensità della loro relazione si fon-da sulla dipendenza reciproca per sfociare,infine, in una possibilità di redenzione perentrambi.

Certo non sarà affare di poco conto. Per-sinoHelen, nonostante il suo impulso rivo-luzionario, dovrà scendere a compromessicon le preclusioni di una comunità bigottae razzista chenon famistero della sua ostili-tà: «Adesso lo sai. È così che ti fanno a pez-zi, pianopiano», afferma Isaac laconico du-rante una penosa scena di discriminazionein un ristorante locale. E nemmeno un pa-io di scarpe adeguate o un nome nuovoavrebbero potuto rivelare ciò che sarebbestato percepibile soltanto in filigrana.

di FRANCO LOLLI

Il filmato in cui la Gendarmeriefrancese – opponendosi fisicamente –respinge un gruppo di migranti che tentadi varcare il confine con l’Italia mette inscena, in maniera simbolicamenteinsuperabile, la conflittualità tra dueposizioni sociali apparentementeinconciliabili: una collettività organizzatache intende preservare la propriacondizione di benessere e una moltitudineche preme per accedere finalmente aquella dimensione esistenziale privilegiata.Da un lato, la legge, l’ordine, il progresso:dall’altro, la massa scomposta,disordinata, impetuosa. Una scena diquesto tipo non può non richiamare allamente certe sequenze (più o meno riuscitesul piano stilistico) dei film del genereZombie-movie, nelle quali, per l’appunto,una molteplicità informe di morti-viventiassedia le comunità dei sopravvissutiall’epidemia apocalittica, nella compulsivaricerca di carne umana con cui sfamare la

propria insaziabile voracità. Unaassociazione, questa, che può apparirepoliticamente scorretta, azzardata,addirittura razzista: come si puòconcepire, infatti, che esseri umani – perquanto disperati, affamati e, per questo,disposti a tutto – possano essereparagonati a zombie, a morti viventi che,inconsapevoli, si aggirano nel mondocome automi diretti da una volontàinconoscibile, inarrestabile e priva disentimenti? La lettura del libro di RoccoRonchi, Zombie outbreak La filosofia e imorti-viventi (Textus Edizioni, pp. 96,e8,50) può aiutarci a comprenderel’audacità del nesso che, come le ultimevicende dimostrano, una ideologia gretta eintransigente, penetrata nei programmi dinumerosi movimenti politici europei,opportunisticamente alimenta, avantaggio del consenso popolare cheassicura. L’atmosfera emotiva generatadall’importante flusso migratorio che stainvestendo l’Europa sembra, in effetti, unareplica – drammatica nel suo inaspettato

realismo – di quella che avvolge le storiedella maggior parte degli zombie-movies:un senso di paura, un bisogno disicurezza, di affermazione della propriaidentità minacciata, di chiusura ermeticarispetto al possibile contagio. Tutto ciò cheabbiamo mille volte visto svilupparsi negliscenari catastrofici della fiction, oggisembra tragicamente concretizzarsi,dando luogo a un processo di‘zombizzazione’ del migrante. La raffinatae originale riflessione di Rocco Ronchiesemplifica la sua capacità di esprimereuna serie di tratti fondamentali dellamitologia contemporanea, ormai infiltratanell’immaginario collettivo e che nutre, tral’altro, le derive xenofobe.«L’immaginazione extrafilosofica – scriveRonchi – ha cercato di aprire la porta suciò che c’è dopo l’uomo, dopo il Dasein»,su ciò che accadrebbe in una eventualeapocalisse che la rappresentazionecinematografica colloca in un tempofuturo ma che, per certi versi, è giàpresente, già avvertibile come potenziale

scontro tra due mondi: il mondo di unoccidente opulento, che si è ingrassatodepredando il pianeta (a spese di unaporzione di esso) e il mondo che è statovampirizzato, impoverito, sfruttato, ilmondo abitato da milioni di personecondannate alla povertà, all’ingiustizia,alla guerra. Il sentimento che la fantasiacinematografica proietta nel futuro più omeno lontano – trasformandolo in unospettacolo che oscilla tra l’horror e ilcomico – sarebbe dunque già attivo nellesocietà contemporanee, in qualità disottofondo intollerante nei confronti dellamassa dei poveri che spinge alle frontieredei paesi più ricchi. Ecco, allora, chel’analisi di Ronchi sulla figura dello zombieconsente di isolare alcuni tratti tipici della

demagogia dei movimenti populistici edella retorica del pensiero nazionalisticopiù spinto: anzitutto, l’attribuzione delpotere «infettivo» del migrante, la suacapacità, cioè, di attaccare l’organismo(socio-culturale, nella nostra trasposizioneall’antropologia contemporanea) nel qualesi infiltra e di disgregare l’intero (la partesana) attraverso una proliferazioneillimitata delle sue cellule; latrasformazione delle masse dei diseredatiin onkos, in massa tumorale, che siriproduce all’infinito, in cui i singolielementi brulicano come «in un verminaioche si produce con la decomposizione diun organismo». Lo zombie, ci spiegaRonchi, è in questo senso un resto, unavanzo, un rifiuto del mondo ‘civile’: è ciòche non rientra nel piano rassicurantedell’olos teleios (del tutto compiuto), è ciòche, sfuggendo all’armoniosità delmodello dominante, fa ribrezzo per il suoessere fuori posto, in eccesso, di troppo.Privato di questa dimensione immaginaria(«senza volto», aggiunge l’autore) che lo

renda riconoscibile come unità, lo zombie(e noi potremmo aggiungere, il rifugiato,secondo la rappresentazione che l’attualeideologia xenofoba ha costruito sumisura) è condannato al non essere unindividuo, pur somigliandogli da lontano.Come il proletario di fine ottocento, comel’extracomunitario clandestino di oggi, lozombie «visto da lontano è come unuomo, da vicino fa orrore». In quantoresti (e non individui) i migranti (comeaccade ai morti-viventi nei film) vannopertanto ‘stoccati’, smaltiti, internati incampi (discariche dell’umanità di serieB), privati di un progetto, ridotti a nudavita, viventi biologicamente masocialmente morti, «viventi ma nonesistenti». Il migrante contemporaneo –alla stregua dello zombie cinematografico– viene presentato dal discorsocripto-razzista come la presentificazionedi un reale inquietante e disturbante, cheanimato da una pulsione acefala si spingea rischiare la vita pur di accaparrarsi lapossibilità di accedere a un godimento

fino ad allora interdetto: viene cosìvissuto come espressione di una forzache sfida l’autoconservazione(mettendosi a rischio di morte in viaggisempre più pericolosi), per assicurarsiuna quota di quel benessere chel’occidente teme di perdere. È dunquemanifestazione di una pulsionalità tantominacciosa quanto irrefrenabile, votata,in fondo, alla distruzione e dalla quale, diconseguenza, bisogna difendersi a ognicosto. Rifiutare l’ingresso al ‘virus sociale’bloccandolo’ alle frontiere o alzando unmuro è, pertanto, non più il frutto dellafantasia di uno sceneggiatore visionarioalle prese con la creazione di nuove storiezombie, ma la politica di paesidemocratici che formano l’Europa. Laconstatazione è desolante e rende contodella tendenza alla ripetizione (delpeggio) che anima la psicologia collettivae che solo la forza di lucide analisi dicritica sociale (quale, implicitamente, ilprezioso pamphlet di Rocco Ronchi è)può aiutarci a demolire.

Una foto di Aida Muluneh, dall’opera «99 Series»,2013; nella pagina a destra, Wang-YidongYi,«River»,1993

EXTRACONFINI

Un saggiodi Rocco Ronchisugli «Zombi»,paradigmidei migrantisenza volto

DIASPORA /CINA

Arrivato negli Stati Uniti dalla natiaAddis Abeba, Mengestu raccontauna storia di amicizia e di separazioneindotta dai regimi politici africani

Tra la Cina dell’89il boom economicoe l’approdo amaroin America,i destini incrociatidi quattro giovani,dopo un delittoaccidentale

DIASPORA/AFRICA«PIÙ GENTILE DELLA SOLITUDINE» DI YIYUN LI PER EINAUDI

SU TONG

Raffinatie crudeli,i Raccontifantasticima ordinari

di BARBARA LEONESI

Donne farfalla, bambinigiganti, angeli a caccia di lacrimee vecchi in attesa della gru biancaper volare nei paradisioccidentali: la nuova antologiadei Racconti fantastici di Su Tong,curata da Rosa Lombardi per leedizioni Eir (e10,00) raccogliesette storie composte dall’autorecinese in un arco di tempo didieci anni, dal 1989 al 1999.L’operazione editoriale èinteressante e per certi versicoraggiosa, perché seleziona dadiverse riviste letterarie raccontiper lo più trascurati dalla criticaper intrecciarli lungo il fil rouge diun tema caro alla tradizionenovellistica cinese: il fantastico, ifatti strani e straordinari. Ne vienefuori il volto nuovo di unoscrittore già noto al pubblicoitaliano fin dal 1992 quando, sullascia del successo del film diZhang Yimou, Lanterne rossevenne tradotto il suo romanzobreve Mogli e concubine da cui ilfilm è tratto. Come accade contutti gli scrittori di grande talento,la critica fatica nel tentativo diincasellare Su Tong in unacorrente ben definita, e leetichette si moltiplicano:avanguardia, neorealismo, nuovoromanzo storico. La scritturasincopata dei suoi esordi, cherompe continuamente il flussonarrativo con flashback emontaggi in stile cinematografico,è approdata nel tempo a unanarrazione fluida e di ampiorespiro, che riprende il ritmotradizionale dei cantastorie.Ormai cinquantenne, fra gliscrittori cinesi più famosi,tradotto in molte lingue, Su Tongama descriversi come un uomoordinario che conduce una vitaqualunque. I suoi ritrattifemminili spietati, carichi diperfidia nei confronti degli altri edi se stessi, che capovolgonol’archetipo classico delladonna-madre, rimangono nellamemoria dei lettori, insieme aisuoi affreschi storici così vividi ereali, sebbene mai ancorati aprecise coordinate spaziotemporali: il passato rimane perSu Tong un magma indistinto, incui la Storia è in primo luogostoria individuale e personale. Esospesi nel tempo sono anche iracconti di questa antologia, làdove i confini fra passato epresente, fra realtà e fantasia siconfondono. Apparizioni, presagi,sogni tracciano la strada di undestino che qui, come spesso neiromanzi più famosi di Su Tong,appare ineluttabile.Numerosissimi i riferimenti allatradizione popolare così come aquella letteraria colta: leggendodella donna farfalla protagonistadi uno dei racconti, si ripensa alceleberrimo passo del Zhuangziin cui il filosofo dichiara di nondistinguere più, al risveglio, se sialui, Zhuangzi, che sogna di essereuna farfalla o se sia una farfallache sogna di essere Zhuangzi.Proprio la fluidità fra mondidiversi, fra realtà e fantasia, frarealtà e irrealtà costituiscel’elemento originale di questestorie: il fantastico non è inopposizione, in antitesi con ilreale, non cozza contro di esso,bensì fluisce, si trasforma in realementre questo si muta infantastico. Divelta ogni barriera,l’osmosi fra i due mondi è cosìnaturale da privare quasi ilfantastico della sua principalecaratteristica, la straordinarietà. Ildialogo fra realtà e fantasia,ordinarietà e eccezione entra cosìa far parte della vita comune.

«TUTTI I NOSTRI NOMI» DI DINAWMENGESTU PER FRASSINELLI

Page 5: diMASSIMOBACIGALUPO · diMASSIMOBACIGALUPO «Fuckthepeasants!»–comin-ciacosìilprimodivertenteroman-zo di Jonathan Galassi (La musa, Guanda «Narratori della Fenice»,

(5)ALIAS DOMENICA28 GIUGNO 2015

La natura umanadi là dalle frontiere

Obbligati a cancellareil proprio backgroundper far fronte alla vita

di NICOLETTA PESARO

Una scrittura non più cinesee solo in parte americana, che nontollera appartenenze identitarie etrova nella saggezza narrativa lapropria forza segna le pagine diYiyun Li, nata a Pechino nel 1972ed emigrata negli Stati Uniti quasivent’anni fa, dove si è ricavata unospazio importante proprio parlan-do, in lingua inglese, «della sua gen-te e del suo tempo», con uno stilesaturo di psicologia raffinata e se-gnato da una sintassi esistenzialeche la rendono assai diversa daogni altro autore (cinese) contem-poraneo. La dialettica tra le originidella autrice e la sua tradizione let-teraria (legata alla «diaspora» in Eu-ropa, in America e nel sudest asiati-co) del tutto indipendente da unaidentità in termini rigidamente spa-ziali e linguistici, non scalfisce il ni-tore assoluto di un linguaggio nar-rativo apparentemente naturaleeppure di grande intensità emoti-va e riflessiva, che esula appuntoda ogni definizione identitaria.

Nell’ultimo romanzo di Yiyun Li,Più gentile della solitudine (tradu-zione di Laura Noulian, Einaudi,pp. 319, e 20,00)), il personaggio diRuyudefinusce così lo spietato iso-lamento che si è costruita intorno:«(C)ome poteva spiegare che esse-re sola – e non la proprietà di qual-cuno – era l’unica cosa che avessemai desiderato?» E il personaggiodi Moran, avvolta nella rete di bu-gie con cui sopperisce alla scarsanarratività della propria esistenza,è definito da queste parole: «Quel-le storie non riguardavano lei. Nonparlavano del suo tempo o dellasua gente, eppure ciò che vi aveva

trovato – l’evasione – aveva finitocol diventare la sua saggezza».

Nel romanzo, i temi legati allasofferenza e allamemoria sono sca-vati, meglio: incisi a piccoli colpi dicesello, nei destini incrociati diquattro giovani, tra la Cina del tra-gico anno zero, il giugno del 1989,la Cina dell’odierno successo eco-nomico e l’orizzonte americano.Un delitto fortuito o deliberato in-crina per sempre questi destini, in-terrogando i protagonisti e il letto-re stesso sul senso delle relazioniumane e della responsabilità di cia-scuno nella vita altrui e, soprattut-to, nella propria.

Sta forse proprio in quel disegnosagace emeticolosodelle personali-tà, dei tratti e dei tormenti interioridei personaggi ciò che distingueYiyunLi dagli scrittori dellaCina, av-vicinandola – senza del tutto identi-ficarla – ai narratori americani. A ca-ratterizzare la sua scrittura difficil-mente riducibile a determinazionietniche è forse laminuziosaprofon-dità dei suoi ritratti: l’intransigenteautoalienazionediRuyu, orfana cre-sciuta asetticamente da due proziecristiane, la ribellioneacerbaeauto-lesionista di Shaoai, ambiziosaquanto inquieta studentessauniver-sitaria, l’ingenuità tradita di Moran,

appena quindicenne, in una Cinaincerta e ruvida nelle sue disattesesperanzedi democrazia. Aqueste fi-gure di pungente sebbene silenzio-sa tragedia, si aggiunge Boyang,compagno di adolescenza rimastoinCina dopo l’eventomai chiarito efunesto chenehaper sempremuta-to il carattere e la sorte. A distanzadi vent’anni, immobiliarista di suc-cesso apparentemente integratonella cinica e rapace società pechi-nese contemporanea, nasconde ilmedesimo senso di perdita taglien-te che hamarchiato le amiche, oltrea un disprezzo equamente rivolto asé e agli altri.

La Cina di oggi, che si specchiasenza vedersi nella società america-na dei tanti consumi e delle grandipossibilità, e l’abortita ipotesi diuna via più plurale e libera al be-nessere economico, sono rese me-taforicamente dal fallimento uma-no dei quattro personaggi; tutta-via, l’elemento sociologico e il fatto-re storico, pur decisivi, non marca-no le analisi meditate di Yiyun Li,cui sembra interessare piuttosto –e sta qui la sua alterità rispetto allascrittura della madrepatria – il tor-tuoso e insolutomistero della natu-ra umana, ripercorso con pazienteprofondità nei temi più alti intrec-ciati alla vita quotidiana: la fede,l’amore, il dolore, la morte, la soli-tudine. La ventennale prigionia diShaoai nel proprio corpo contami-nato infligge anche agli altri – Bo-yang in Cina, Ruyu e Moran emi-grate negli Stati Uniti – una analo-ga segregazione nelle proprie ani-me. Morte, malattia, solitudine so-no fili grigi che uniscono tra loro ipersonaggi anche nello iato psi-co-spaziotemporale che li separa,nel loro presente, da una terra e daun passato di non-detti: in questopiù vicina alla tradizione culturalecinese, Li riproduce emozioni epensieri delle sue figure facendoneemergere i vuoti piuttosto che i pie-ni, le ombre più della luce.

Aveva già affrontato condolorosaprecisione il tema dell’esclusionenei Girovaghi (Einaudi, 2010), po-tente romanzo su una comunità didiseredati sociali e politici alla finedel maoismo; qui, invece, assumeuna visione più equilibrata, resa lu-cida dalla distanza e dalla matura-zione, in cui padroneggia con mag-gior forza i personaggi cinesi, sapen-do tuttavia anche restituire condeli-cata ricettività le figure minori, diambito americano. Al centro dellastoria restano però solo i tre cinesi el’ombra onnipresente dell’infermache su di loro si proietta anche damorta: innetto contrasto con lo spi-rito americano del riscatto indivi-duale a tutti concesso, le vite di que-sti personaggi restano fatalmenteimpigliate a un’impercettibile con-danna, comminata non da una leg-ge esterna eoggettiva,madalla sog-gettiva responsabilità cui ciascunosi sente inesorabilmente vincolato,negandosi per sempre, sin da quelterribile ‘89, una vita di relazioniaperte e piene.

La sensibilità introspettiva di Liirretisce, senza mai risultare inva-dente, portando a quella che Yeatsaveva chiamato «fonda intimitàdel cuore», in un senso di privatez-za, d’inaccessibile e tutelato spaziopersonale e psicologico la cuiman-canza, nella Cina della propria in-fanzia e adolescenza, è stata spes-so lamentata dalla scrittrice. Il flui-re del tempo, più in movimenti aspirale che in progressione lineare(altro elemento di sinicità), lega traloro – nell’avvicendarsi delle diver-se prospettive – eterogeneima con-divisi «mali di vivere», tra gli oppo-sti esistenziali del distacco e dellaintimità, dell’amore edella solitudi-ne. La ricerca dell’uno non fa cheespandere a dismisura le dimensio-ni dell’altra: le scelte amorose diBoyang inaridiscono sulla superfi-cie gelida della sua corazza interio-re, la sete di corrispondenza emoti-va che Moran, dopo averla invanocoltivata da ragazza, smarrisce nelsuo dolente rapporto con Josef ris-pecchia il rifiuto o l’incapacità cheRuyu prova nel tessere relazioni,perché «(S)ia l’intimità che il distac-co richiedevano un impegno».

L’esperienzadelle duedonne ne-gli Stati Uniti, in cui si alternanoestraneità e accoglienza, una espe-rienza simboleggiata dalle incom-piute vicende matrimoniali di en-trambe, implica la necessità di ri-flettere sul tema dell’integrazione,che tuttavia va oltre le consuete di-namiche interculturali presenti nel-la letteratura sino-americana, allu-dendopiuttosto a un’indagine pro-fonda, una ricerca etica sulla diffi-coltà intrinseca a una reale e mu-tua accettazione, con l’abbandonodelle riserve identitarie, non tantoetniche quanto caratteriali. Ma intanta emarginazione psicologicaindugia un lieve, forse ancor piùcrudele spiraglio, ciò che rendeaspro e commovente il romanzo:se c’è egoismo in Boyang e nelle al-tre coprotagoniste, non è altro chel’egoismo di «qualcuno ostinatonel rifiuto di soffrire,ma non abba-stanza cieco alle sofferenze altrui».

di DANIELA FARGIONE

La copertina nera, di carta ruvida,che la casa editrice Frassinelli riserva all’ul-timo romanzo di Dinaw Mengestu, ripro-ducendomimeticamente la versione origi-nale della Alfred A. Knopf, è già una dichia-razione di intenti. La mano infantile checol gessetto scrive sulla lavagna il nomedell’autore e tira una riga sul titolo in stam-patello maiuscolo – Tutti i nostri nomi – siripropone con altrettanta assertività sullaquarta di copertina: siamo tutti prigionieridi un nome. A prima vista potrebbe sem-brare un ammiccante esercizio estetico,ma a ben pensarci la pelle nera e granulo-sa che riveste il libro è l’indizio più elo-quente del filtro attraverso cui le storie civengono raccontate.

I romanzi di Dinaw Mengestu, nato adAddis Abeba nel ’78 e cresciuto alla perife-ria di Chicago dopo la fuga dal Terrore ros-so, si inseriscono nella cosiddetta «lettera-tura della diaspora» accanto a opere qualiAmericanah di Chimamanda Ngozi Adi-chie (Einaudi 2014), Città aperta di TejuCole (Einaudi 2013), Il prezzo di Dio diOkey Ndibe (Edizioni Clichy 2015), La bel-lezza delle cose fragilidi Taiye Selasi (Einau-di 2013), scrittrice, quest’ultima, alla qualesi deve anche il neologismo «Afropolitan»per definire questa brillante e dinamica ge-nerazione di afroamericani o afroeuropei.Vivere nel flusso di una dimensione tran-snazionale e transculturale – talvolta perscelta, spesso per necessità – significa af-frontare svariate questioni di appartenen-za, e dunque di identità, a cui Mengestu sidedica con stile e risolutezza nei primi dueromanzi, Le cose che porta il cielo (Piemme2008), e Leggere il vento (Piemme 2011), ri-scuotendo consensi tanto immediati e una-nimi da essere segnalato dal New Yorkertra «i 20 migliori scrittori sotto i 40 anni» etributato di un «Genius» Grant dalla Ma-cArthur Foundation.

Addestrato all’osservazione da anni dimilitanza giornalistica nell’Africa sub-saha-riana, lo scrittore non si limita a riportare«storie di immigrazione», bensì si adoperaa sviscerare la complessità di quell’espe-rienza, affrancandola dai consolidati di-scorsi letterari sull’alterità e sul postcolo-nialismo, e tentando invece di decifrare ilmodo in cui l’Occidente simette in relazio-ne con l’Africa: «Lasciamo i nostri paesi, cispostiamo in posti nuovi, diventiamo pa-dri, mariti, mogli, madri. E ogni volta checi adattiamo a una nuova condizione, siespandono le possibilità rispetto a chi sia-mo o a chi possiamo diventare». Tutti i no-stri nomi (Frassinelli, traduzione dall’ingle-se di Mariagiulia Castagnone, pp. 280, e16,00) è un’acuta e spietata perlustrazione

di queste possibilità.I due narratori, Isaac e Helen, alternano

le loro diversissime voci per raccontarcipiù di una storia d’amore: quella interraz-ziale che li unisce e che viene consumatain silenzio («il modo più semplice per limi-tare i danni» che la parola potrebbe scate-nare); quella di Isaac verso il grande amico(Isaac Mabira) da cui erediterà il nome, «ildono più prezioso»; e quella di entrambi

per le rispettive madri che, più verrannorifiutate, più torneranno a rammentare leloro radici e i loro percorsi.

«From roots to routes» recita la notaespressione della lingua inglese per illu-strare, giocando sull’omofonia delle dueparole, una nuova e necessaria prospetti-va interculturale: il recupero delle radici(roots) che riconducono aunapatria origi-naria (intesa come entità geografica, poli-tica, storica) si fa sempre meno rilevantedei percorsi (routes), ovvero della memo-ria della diaspora, la cui dimenticanza sa-rebbe un «crimine contro la nazione»,unodei tanti che IsaacMabira annota sul-la pagine di un taccuino comeestremo at-

to d’amore per l’amico etiope.«Quando sono nato», dichiara il protago-

nista, «avevo tredici nomi, uno per genera-zione (…) eravamo gli unici a essere nati emorti in quella terra». Ma, lungi dall’essereuna ricchezza, quel patrimonio è piuttostoun peso insostenibile: «avevo la sensazionedi essere nato inuna prigione»; così il ragaz-zo implora il padre di lasciarlo partire, di li-berare il suo »Uccellino», nomignolo che ri-cevette quando era poco più di un bimbet-to. Cancellare i propri nomi, azzerare la sto-ria personale, è unnecessario atto di svesti-zione per poter indossare un nuovo habi-tus, per poter reinventare una nuova identi-tà: «Quando arrivai a Kampala non ero nes-suno: proprio come desideravo» e la città,a sua volta, si dimostra un luogo ideale per-ché «non apparteneva a nessuno, comeme, e ognuno poteva accampare delle pre-tese su di lei». Sicché, ispirato da un famo-so convegno di scrittori africani e inseguen-do il sogno di entrare a far parte di quellacategoria, si spaccia per studente di lettera-tura e ciondola per il campus dove incon-tra Isaac Mabira, «cane randagio» e «impo-store» come lui, riconoscendolo dalle scar-pe malconce come son semblable, sonfrère. Sarà Mabira ad affibbiargli tutta unaserie di nomi nuovi e con essi di nuove po-tenzialità: Langston (omaggio al poeta Hu-ghes), il Professore, Ali, chiamandolo unasola volta – l’ultima, prima della loro sepa-razione – con il nome che il padre gli avevadato in origine e di cui noi lettori conoscia-mo solo l’iniziale «D».

Sono gli anni settanta e l’innocenza el’idealismo che i due condividono all’iniziodovrannopresto scendere a patti con la cre-scente brutalità della «rivoluzione di car-ta». E poco importa se la storia – tantodell’Uganda quanto quella letteraria – sipresenta nel romanzo con contorni frasta-gliati: Mengestu non cita mai il nome delpresidente, ma lo spettro del «macellaio»Idi Amin Dada è inequivocabile; l’universi-tà non è mai nominata, ma Makerere è ilnome che possiamo attribuirle con certez-za; il convegno è solo distrattamente cita-to, eppure non sfugge l’eco rimbombantedelle parole di Ngugi Wa Thiong’o che inquello storico incontro del 1962 insistevasull’urgenza di una definizione di «lettera-tura africana» e sullo spinoso dilemma del-la lingua: «Le pallottole sono state il mezzodell’assoggettamento fisico. La lingua è sta-ta lo strumento dell’assoggettamento spiri-tuale», ha scritto in Decolonizzare la mente(Jaca Book 2015). La lingua di Isaac, non acaso, è quella letteraria appresa dai roman-zi di Dickens dal quale, a sua insaputa, rice-verà anche il soprannome.

Il tema della carta percorre anche il rac-conto di Helen, l’assistente sociale che perprima accoglie Isaac in una cittadina ruraledel Midwest americano dove «lo straniero»in questione non è esattamente un sans pa-pier ma è come se lo fosse: il dossier a luidestinato «non conteneva quasi niente,tranne un foglio con il nome e la data di na-scita», seguiti da un breve paragrafo in cuisi dichiarava che era venuto inAmerica gra-zie a uno scambio culturale; «quanto al luo-go, c’era scritto Africa, senza lo Stato o lacittà di provenienza. L’unica cosa precisaera il suo nome, Isaac Mabira, ma persinoquesto avrebbepotuto essere falso». La soli-tudine di Helen incontra la disperazione diIsaac e l’intensità della loro relazione si fon-da sulla dipendenza reciproca per sfociare,infine, in una possibilità di redenzione perentrambi.

Certo non sarà affare di poco conto. Per-sinoHelen, nonostante il suo impulso rivo-luzionario, dovrà scendere a compromessicon le preclusioni di una comunità bigottae razzista chenon famistero della sua ostili-tà: «Adesso lo sai. È così che ti fanno a pez-zi, pianopiano», afferma Isaac laconico du-rante una penosa scena di discriminazionein un ristorante locale. E nemmeno un pa-io di scarpe adeguate o un nome nuovoavrebbero potuto rivelare ciò che sarebbestato percepibile soltanto in filigrana.

di FRANCO LOLLI

Il filmato in cui la Gendarmeriefrancese – opponendosi fisicamente –respinge un gruppo di migranti che tentadi varcare il confine con l’Italia mette inscena, in maniera simbolicamenteinsuperabile, la conflittualità tra dueposizioni sociali apparentementeinconciliabili: una collettività organizzatache intende preservare la propriacondizione di benessere e una moltitudineche preme per accedere finalmente aquella dimensione esistenziale privilegiata.Da un lato, la legge, l’ordine, il progresso:dall’altro, la massa scomposta,disordinata, impetuosa. Una scena diquesto tipo non può non richiamare allamente certe sequenze (più o meno riuscitesul piano stilistico) dei film del genereZombie-movie, nelle quali, per l’appunto,una molteplicità informe di morti-viventiassedia le comunità dei sopravvissutiall’epidemia apocalittica, nella compulsivaricerca di carne umana con cui sfamare la

propria insaziabile voracità. Unaassociazione, questa, che può apparirepoliticamente scorretta, azzardata,addirittura razzista: come si puòconcepire, infatti, che esseri umani – perquanto disperati, affamati e, per questo,disposti a tutto – possano essereparagonati a zombie, a morti viventi che,inconsapevoli, si aggirano nel mondocome automi diretti da una volontàinconoscibile, inarrestabile e priva disentimenti? La lettura del libro di RoccoRonchi, Zombie outbreak La filosofia e imorti-viventi (Textus Edizioni, pp. 96,e8,50) può aiutarci a comprenderel’audacità del nesso che, come le ultimevicende dimostrano, una ideologia gretta eintransigente, penetrata nei programmi dinumerosi movimenti politici europei,opportunisticamente alimenta, avantaggio del consenso popolare cheassicura. L’atmosfera emotiva generatadall’importante flusso migratorio che stainvestendo l’Europa sembra, in effetti, unareplica – drammatica nel suo inaspettato

realismo – di quella che avvolge le storiedella maggior parte degli zombie-movies:un senso di paura, un bisogno disicurezza, di affermazione della propriaidentità minacciata, di chiusura ermeticarispetto al possibile contagio. Tutto ciò cheabbiamo mille volte visto svilupparsi negliscenari catastrofici della fiction, oggisembra tragicamente concretizzarsi,dando luogo a un processo di‘zombizzazione’ del migrante. La raffinatae originale riflessione di Rocco Ronchiesemplifica la sua capacità di esprimereuna serie di tratti fondamentali dellamitologia contemporanea, ormai infiltratanell’immaginario collettivo e che nutre, tral’altro, le derive xenofobe.«L’immaginazione extrafilosofica – scriveRonchi – ha cercato di aprire la porta suciò che c’è dopo l’uomo, dopo il Dasein»,su ciò che accadrebbe in una eventualeapocalisse che la rappresentazionecinematografica colloca in un tempofuturo ma che, per certi versi, è giàpresente, già avvertibile come potenziale

scontro tra due mondi: il mondo di unoccidente opulento, che si è ingrassatodepredando il pianeta (a spese di unaporzione di esso) e il mondo che è statovampirizzato, impoverito, sfruttato, ilmondo abitato da milioni di personecondannate alla povertà, all’ingiustizia,alla guerra. Il sentimento che la fantasiacinematografica proietta nel futuro più omeno lontano – trasformandolo in unospettacolo che oscilla tra l’horror e ilcomico – sarebbe dunque già attivo nellesocietà contemporanee, in qualità disottofondo intollerante nei confronti dellamassa dei poveri che spinge alle frontieredei paesi più ricchi. Ecco, allora, chel’analisi di Ronchi sulla figura dello zombieconsente di isolare alcuni tratti tipici della

demagogia dei movimenti populistici edella retorica del pensiero nazionalisticopiù spinto: anzitutto, l’attribuzione delpotere «infettivo» del migrante, la suacapacità, cioè, di attaccare l’organismo(socio-culturale, nella nostra trasposizioneall’antropologia contemporanea) nel qualesi infiltra e di disgregare l’intero (la partesana) attraverso una proliferazioneillimitata delle sue cellule; latrasformazione delle masse dei diseredatiin onkos, in massa tumorale, che siriproduce all’infinito, in cui i singolielementi brulicano come «in un verminaioche si produce con la decomposizione diun organismo». Lo zombie, ci spiegaRonchi, è in questo senso un resto, unavanzo, un rifiuto del mondo ‘civile’: è ciòche non rientra nel piano rassicurantedell’olos teleios (del tutto compiuto), è ciòche, sfuggendo all’armoniosità delmodello dominante, fa ribrezzo per il suoessere fuori posto, in eccesso, di troppo.Privato di questa dimensione immaginaria(«senza volto», aggiunge l’autore) che lo

renda riconoscibile come unità, lo zombie(e noi potremmo aggiungere, il rifugiato,secondo la rappresentazione che l’attualeideologia xenofoba ha costruito sumisura) è condannato al non essere unindividuo, pur somigliandogli da lontano.Come il proletario di fine ottocento, comel’extracomunitario clandestino di oggi, lozombie «visto da lontano è come unuomo, da vicino fa orrore». In quantoresti (e non individui) i migranti (comeaccade ai morti-viventi nei film) vannopertanto ‘stoccati’, smaltiti, internati incampi (discariche dell’umanità di serieB), privati di un progetto, ridotti a nudavita, viventi biologicamente masocialmente morti, «viventi ma nonesistenti». Il migrante contemporaneo –alla stregua dello zombie cinematografico– viene presentato dal discorsocripto-razzista come la presentificazionedi un reale inquietante e disturbante, cheanimato da una pulsione acefala si spingea rischiare la vita pur di accaparrarsi lapossibilità di accedere a un godimento

fino ad allora interdetto: viene cosìvissuto come espressione di una forzache sfida l’autoconservazione(mettendosi a rischio di morte in viaggisempre più pericolosi), per assicurarsiuna quota di quel benessere chel’occidente teme di perdere. È dunquemanifestazione di una pulsionalità tantominacciosa quanto irrefrenabile, votata,in fondo, alla distruzione e dalla quale, diconseguenza, bisogna difendersi a ognicosto. Rifiutare l’ingresso al ‘virus sociale’bloccandolo’ alle frontiere o alzando unmuro è, pertanto, non più il frutto dellafantasia di uno sceneggiatore visionarioalle prese con la creazione di nuove storiezombie, ma la politica di paesidemocratici che formano l’Europa. Laconstatazione è desolante e rende contodella tendenza alla ripetizione (delpeggio) che anima la psicologia collettivae che solo la forza di lucide analisi dicritica sociale (quale, implicitamente, ilprezioso pamphlet di Rocco Ronchi è)può aiutarci a demolire.

Una foto di Aida Muluneh, dall’opera «99 Series»,2013; nella pagina a destra, Wang-YidongYi,«River»,1993

EXTRACONFINI

Un saggiodi Rocco Ronchisugli «Zombi»,paradigmidei migrantisenza volto

DIASPORA /CINA

Arrivato negli Stati Uniti dalla natiaAddis Abeba, Mengestu raccontauna storia di amicizia e di separazioneindotta dai regimi politici africani

Tra la Cina dell’89il boom economicoe l’approdo amaroin America,i destini incrociatidi quattro giovani,dopo un delittoaccidentale

DIASPORA/AFRICA«PIÙ GENTILE DELLA SOLITUDINE» DI YIYUN LI PER EINAUDI

SU TONG

Raffinatie crudeli,i Raccontifantasticima ordinari

di BARBARA LEONESI

Donne farfalla, bambinigiganti, angeli a caccia di lacrimee vecchi in attesa della gru biancaper volare nei paradisioccidentali: la nuova antologiadei Racconti fantastici di Su Tong,curata da Rosa Lombardi per leedizioni Eir (e10,00) raccogliesette storie composte dall’autorecinese in un arco di tempo didieci anni, dal 1989 al 1999.L’operazione editoriale èinteressante e per certi versicoraggiosa, perché seleziona dadiverse riviste letterarie raccontiper lo più trascurati dalla criticaper intrecciarli lungo il fil rouge diun tema caro alla tradizionenovellistica cinese: il fantastico, ifatti strani e straordinari. Ne vienefuori il volto nuovo di unoscrittore già noto al pubblicoitaliano fin dal 1992 quando, sullascia del successo del film diZhang Yimou, Lanterne rossevenne tradotto il suo romanzobreve Mogli e concubine da cui ilfilm è tratto. Come accade contutti gli scrittori di grande talento,la critica fatica nel tentativo diincasellare Su Tong in unacorrente ben definita, e leetichette si moltiplicano:avanguardia, neorealismo, nuovoromanzo storico. La scritturasincopata dei suoi esordi, cherompe continuamente il flussonarrativo con flashback emontaggi in stile cinematografico,è approdata nel tempo a unanarrazione fluida e di ampiorespiro, che riprende il ritmotradizionale dei cantastorie.Ormai cinquantenne, fra gliscrittori cinesi più famosi,tradotto in molte lingue, Su Tongama descriversi come un uomoordinario che conduce una vitaqualunque. I suoi ritrattifemminili spietati, carichi diperfidia nei confronti degli altri edi se stessi, che capovolgonol’archetipo classico delladonna-madre, rimangono nellamemoria dei lettori, insieme aisuoi affreschi storici così vividi ereali, sebbene mai ancorati aprecise coordinate spaziotemporali: il passato rimane perSu Tong un magma indistinto, incui la Storia è in primo luogostoria individuale e personale. Esospesi nel tempo sono anche iracconti di questa antologia, làdove i confini fra passato epresente, fra realtà e fantasia siconfondono. Apparizioni, presagi,sogni tracciano la strada di undestino che qui, come spesso neiromanzi più famosi di Su Tong,appare ineluttabile.Numerosissimi i riferimenti allatradizione popolare così come aquella letteraria colta: leggendodella donna farfalla protagonistadi uno dei racconti, si ripensa alceleberrimo passo del Zhuangziin cui il filosofo dichiara di nondistinguere più, al risveglio, se sialui, Zhuangzi, che sogna di essereuna farfalla o se sia una farfallache sogna di essere Zhuangzi.Proprio la fluidità fra mondidiversi, fra realtà e fantasia, frarealtà e irrealtà costituiscel’elemento originale di questestorie: il fantastico non è inopposizione, in antitesi con ilreale, non cozza contro di esso,bensì fluisce, si trasforma in realementre questo si muta infantastico. Divelta ogni barriera,l’osmosi fra i due mondi è cosìnaturale da privare quasi ilfantastico della sua principalecaratteristica, la straordinarietà. Ildialogo fra realtà e fantasia,ordinarietà e eccezione entra cosìa far parte della vita comune.

«TUTTI I NOSTRI NOMI» DI DINAWMENGESTU PER FRASSINELLI

Page 6: diMASSIMOBACIGALUPO · diMASSIMOBACIGALUPO «Fuckthepeasants!»–comin-ciacosìilprimodivertenteroman-zo di Jonathan Galassi (La musa, Guanda «Narratori della Fenice»,

(6) ALIAS DOMENICA28 GIUGNO 2015

di PAOLO LAGO

Il filosofo belga Raoul Vaneigem cosìscriveva nel 1995 in un significativo Avviso aglistudenti: «La prospettiva di una redditività atutti i costi è la cortina di ferro di un mondochiuso dall’economia. (...) Resta da sapere seallievi e professori, dal momento che lagestione di un universo in rovine alla quale li siinvita non promette nulla di buono, silasceranno ridurre alla funzione dimeccanismi lucrativi senza scommetteresull’ipotesi di imparare a vivere anziché aeconomizzarsi». La scuola è al centro di unanuova riforma che continua a sollevareproteste nell’universo degli insegnanti e deglistudenti e che sembra trovare il suo fulcro indinamiche di carattere economico e aziendale,basate su «meccanismi lucrativi». Nel testodiffuso online dal Ministero dell’Istruzione, adesempio, la storia dell’arte dovrebbe riceveremaggiori impulsi per creare una «capacità diprodurre bellezza», sulla quale si dovrebbero«formare giovani capaci di ripartire dal Madein Italy inteso nella sua accezione più ampia».(«Made in Italy?» – viene spontaneo chiedersi –si tratta della scuola o del marchio aziendale di

uno stilista?). Il mondo della scuola è quinditornato oggi alla ribalta, chiamato in causa daquesto calderone riformistico promosso dauna nuova classe politica rampante, che siautoproclama ‘rottamatrice’ e sembra inveceguardare molto a quegli anni ottanta delsecolo scorso definiti da Paul Ginsborg come«l’età d’oro del miracolo economico». Capita aproposito, perciò, l’uscita di un illuminantevolumetto di Giulio Ferroni: La scuolaimpossibile (Salerno editrice, pp. 123, e 9,50).L’autore, critico e storico della letteratura, èsempre stato un acuto e lucido osservatorenon solo della «repubblica delle lettere» maanche della cultura e della società italiana toutcourt. Al mondo della scuola e alle sueprospettate riforme, infatti, già aveva dedicatoun altro testo uscito nel 1997, La scuolasospesa. Istruzione, cultura e illusioni dellariforma. Al centro della nuova analisi diFerroni c’è la critica al modello economicodominante in ogni settore della vita sociale eculturale, applicato anche al mondo dellascuola: «Tutto deve mirare all’utile, e l’utileviene necessariamente concepito in terminipuramente economici». In questo quadrorientrano anche le formulazioni che

impongono di sezionare il sapere in obiettivi ecompetenze, nonché la diffusione dell’utilizzodei test per sondare le capacità degli studenti.Anche l’eccessiva digitalizzazione della scuolarimanda a un modello economico impostodall’alto, in un contesto sociale in cui la retecontribuisce all’evaporazione dellademocrazia, mentre sempre di più vengono amancare luoghi fisici di incontro e diconfronto diretto: la scuola appare cosìschiacciata dalle «esigenze di grandi organismieconomici, che impongono di essereall’altezza di un presente disposto secondo leleggi del marketing, dei modelli di vita da essodefiniti». Diversi sono i suggerimenti persfuggire a questo «meccanismo lucrativo»: laproduzione di un pensiero «lento» eproblematico contro la velocità imperante,una nuova educazione alla parola, una difesadall’eccessiva ‘colonizzazione’ dell’inglese, unarinnovata conoscenza dello spazio, unariscoperta dei classici antichi, nonché,naturalmente, una decisiva rivalutazione dellafigura dell’insegnante. È solo con una passioneviva per il sapere e con fortissime basi culturaliche si potrà ottenere, finalmente, a una scuola«buona» davvero.

Nel disagio di Mazzoniuna forma attualedi resistenza critica

di ROCCO RONCHI

Dedicata a raccogliere saggidi letterati italiani che si misuranocon lamutazione antropologica in-tervenuta alla fine delmondobipo-lare, la collana «Solaris» della Later-za assume il disorientamento co-me punto di vista privilegiato e co-me chiave di lettura della contem-poraneità.Ne fa fede il volume tito-lato I destini generali diGuidoMaz-zoni (pp. 122, e14,00) brillante sto-rico e teoricodella letteratura, auto-re, tra l’altro, di una Teoria del ro-manzo, che è tra i contributi più in-novativi sull’argomento, e di note-voli libri di poesia.

Natonel 1967,Mazzoni appartie-ne alla generazione che si è forma-ta a cavallo dei due secoli: è dun-que un testimone ideale, che hasperimentato il tramontodel «seco-lo breve», raccontato nella formadi resoconto del suo primo viaggioa Berlino all’inizio degli anni no-vanta. Di quel secolo, segnato dauna memoria tragica e diviso tranarrazioni contrapposte e in com-petizione tra loro (il western way oflifedell’ovest e l’est che si pretende-va comunista), Berlino è stata in-dubbiamente la capitale simboli-ca.Ma la generazione diMazzoni èanche quella che è stata travoltadalle trasformazioni indotte da uncapitalismo trionfante e senza av-versari – almeno senza avversari«credibili» per «noi buoni Euro-pei», per dirla con Nietzsche, dalmomento che il fondamentalismoislamico rappresenta proprio unodegli aspetti, certamente quellopiù mostruoso, del cambiamentoglobale.

È un altro viaggio, ancora a Berli-no, questa volta nel 2013, a fornirea Mazzoni la necessaria cartina ditornasole per verificare l’avvenutamutazione. Nella città che descri-ve, pacificamente convivono leme-morie istituzionalizzate di una pas-sato recente (il comunismo) e piùlontano (il nazifascismo) e la glorifi-cazione dellamerce, padrona asso-luta dei nostri destini generali.Commentandouna foto da lui stes-so scattata, scrive: «In PotsdamerPlatz sono stati reinstallati, a bene-ficio dei turisti, alcuni pezzi delMu-ro. Sono circondati da pannelli chespiegano il significato di quei bloc-chi di cemento. Quando però li simette nel contesto, l’immagineche si ottiene è sovrastata daun’enorme pubblicità dell’iPad»(Mazzoni avverte il lettore chequel-la stessa emblematica fotografia èstata scattata con il suo iPad...).

In mezzo, tra la fine del vecchiomondo e l’ascesa irresistibile delnuovo, ci sono tutti quegli «even-ti», dall’attentato alle due Torri diNew York all’invasione degli ultra-corpi berlusconiani in una Italiadalla memoria azzerata, che han-no segnato il nostro presente e chehanno la caratteristica, tipicamen-te post-moderna, di coglierci sem-

pre di sorpresa, lasciandoci attoni-ti, privi degli strumenti intellettualinecessari alla loro comprensione,sguarniti insomma di una filosofia– perché è proprio questa cheman-ca – capace, come l’hegeliana not-tola di Minerva, di alzarsi in voloper concepire il mondo in cui sia-mo gettati.

Il filosofo comunista Ernst Blo-ch, in pienoNovecento, aveva indi-viduato come tratto costitutivo delpresente l’«oscurità» essenziale.Troppo vicino per essere visto, il

presente che stiamo vivendo cisfugge e come neve si scioglie nellemani di chi vorrebbe afferrarlo.

Bloch faceva appello alla dialetti-ca come a quell’arte che permettedi «ruotar fuori» dal presente peroggettivarlo e produrne un concet-to critico. A questa esigenza di di-stanza critica da un presente trop-po ingombrante sembra corrispon-dere l’urgenza che muove la colla-na in cui è ospitato il libro di Maz-zoni. Agli intellettuali convocati sichiede che svolgano il compito lo-

ro affidato almeno dalla stagioneeroica dell’illuminismo: devono «ri-schiarare» il presente, dissipare lenebbie che lo rendono impalpabi-le.

L’autore vi fa fronte in duemodi,che scandiscono i due tempi delsuo discorso. Da un lato, soprattut-to nel primo capitolo, disegna unateoria del contemporaneo che co-stituisce una efficace sintesi diquella che ormai si può definire lacritica italiana della cultura. Sottoil segno di Pasolini e della sua nota

teoria della «mutazione antropolo-gica», la nuova epoca che viviamoè presentata come il tempodell’ascesa delle masse atomizza-te, emancipate dal dominio dellaLegge trascendente e di tutti i suoisuccedaneimondani (famiglia, par-tito, sistemi valoriali e cpsì via), ob-bligate dal consumismo dilaganteaun godimento compulsivo emor-tifero, incapaci di costruire nuovilegami sociali e intergenerazionaliche vadano oltre l’immediatezzadel presente (fine della Storia), in-differenti se non addirittura ostilialla dimensione del progetto e delsacrificio (dopo la politica).

All’origine di questa mutazione– ancora una volta Pasolini docet –ci sarebbe l’evento 1968, il quale,come un Giano bifronte, sarebbetanto l’ultimo episodio della Storiacon la maiuscola, in catena con lealtre date che hanno scandito il so-gno rivoluzionario di una umanitàredenta dall’oppressione (il 1789, il1848, il 1871, il 1917), quanto il la-boratorio di quegli homines noviche in nome di una malintesa libe-razione avrebbero inaugurato, giàa partire dai fatidici eighties, l’epo-

ca dell’individualismo sfrenato edell’edonismo generalizzato. È nelprimo volume di Capitalismo eSchizofrenia di Gilles Deleuze e Fe-lix Guattari, L’anti-Edipo, cheMaz-zoni individua il testo manifesto diquesta svolta epocale: una filosofiadell’immanenza radicale, quale èquella sostenuta dai due francesi,una filosofia che contesta sistemati-camente ogni trascendenza, finan-che quella che si riproduce nel se-nodella famiglia, porterebbe inevi-tabilmente a una atrofia generaliz-zata dell’esperienza, che Mazzonidescrive con le parole profetiche (eassai «pasoliniane») di AlexandreKojève, il grande commentatore diHegel,maestro di un’intera genera-zionedi intellettuali, il quale, alla vi-gilia del ’68, poco prima di morire,prospettava per l’Europa spiritua-le, dominata dall’«americanismo»(secondo lui, non faceva eccezionenemmeno la Russia sovietica) unasorta di regressione al «regno ani-male dello spirito».

Per Kojève a venire messa radi-calmente in questione dalla «muta-zione antropologica» in corso era,in ultima analisi, la forma stessadell’Uomo, la sua differenza speci-fica dall’animale. Tutte le grandi di-stinzioni concettuali che, da Carte-sio in poi, hanno costituito l’orgo-glio della modernità – natura/cul-tura, spirito/materia, coscien-za/estensione, qualità/quantità –ne verrebbero investite e dissolte.Il ’68 prima (almeno nella incrimi-nata versione fornita da Deleuze eGuattari), l’ascesa del capitalismofinanziario poi, con la sua smate-rializzazione della realtà, avrebbeassecondato questa trasformazio-ne fino a renderla senso comunepresso le nuovissime generazioni(gli «adolescenti» già stigmatizzatiin tempi non sospetti di «post-mo-dernismo» dal Pasolini «corsaro»),ormai incapaci di operare le piùelementari distinzioni di senso edi valore (al punto da inserire, co-me documenta Mazzoni, conspensierata allegria, l’hashtag #fe-elgood nei messaggi twitter inviatiagli amici da un viaggio della me-moria a Aushwitz).

I destini generali, però, non siesaurisce in questa denunciamora-le dei guasti della contemporanei-tà. Se si limitasse a questo, costitui-rebbe soltanto un ulteriore capito-lo di quella critica di un presentesenzaDio e senzaValori, senza Sto-ria e senza Trascendenza, che, do-po Pasolini, tanto successo ha avu-to presso gli intellettuali italiani, in-dipendentemente dalle loro opzio-ni politiche, filosofiche o religiose(e sarebbe tempo di interrogarsisulle ragioni di questo consenso ge-neralizzato). Con grande onestà in-tellettuale, Mazzoni, nel secondocapitolo, dà voce anche al lato me-no frequentato di questo diffuso econdiviso atteggiamento teorico.Chiamato dallamission stessa del-la collana che ospita il suo bel sag-gio a prendere posizione sull’epo-ca che giudica, Mazzoni non esitainfatti a confessare l’impotenzapolitica di una tale critica morale.Alla luce di questa analisi non cisono alternative praticabili e, so-prattutto, «credibili». Dalla teoriacritica non consegue insommanessuna prassi trasformatrice delreale, con buona pace del Marxdell’XI tesi su Feuerbach («I filoso-fi hanno finora soltanto diversa-mente interpretato il mondo. Sitratta di trasformarlo»).

All’intellettuale che ha aderitoal paradigma pasoliniano come alsolo modello capace di spiegare ilpresente, non resta che riconosce-re, come fa Mazzoni nelle righemagistrali che chiudono I destinigenerali, di non aver «nulla di poli-tico o di reale da opporre a tuttoquesto». «Ho solo – scrive – unaforma di disagio».

di STEFANO GALLERANI

Tutt’altro che marginale all’interno dellasua produzione letteraria, nel corso degli annila rivisitazione, da parte di Peter Handke, delgenere «saggio» (Versuch), è arrivata acostituire, piuttosto, una sottile filigrana tra lemaglie più fitte intessute dai romanzi e daitesti teatrali; pure, si tratta di una filigranaestremamente resistente che la costanza delloscrittore di Griffen ha reso più che familiare,nella forma e nei modi in cui è stata declinata,ai suoi lettori. Dopo Saggio sulla stanchezza(1989), Saggio sul juke-box (’90), Saggio sullagiornata riuscita. Sogno di un giorno d’inverno(’91) e Saggio sul luogo tranquillo (’12) è ora ilmomento di Saggio sul cercatore di funghi(traduzione di Alessandra Iadicicco, Guanda«Narratori della Fenice», pp. 174, e 15,00) che,così come i primi costituivano un vero eproprio trittico, forma con il penultimo unatrasfigurata riflessione ancipite sul rapportoche intercorre tra lettura e scrittura.Protagonista esplicito delle considerazioni edei fatti riportati in Versuch über denPilznarren (così in originale, nel 2013) è unamico del narratore posseduto dalla smania di

cercare funghi: sin dall’infanzia è stato questoil suo scopo nella vita, sebbene gli sfuggisse ilsenso o il perché, e niente, nemmeno leoccupazioni professionali dell’età adulta (inspecie, la carriera di avvocato penalista dicaratura internazionale), ha potuto distoglierloda questa forma di stregoneria che la naturasembra avere esercitato sulla sua coscienza.Poco importa dunque l’occasione (fosse, ingioventù, il desiderio di procacciarsi i primisoldi vendendo i funghi raccolti nel boscoceduo ovvero, più grande, la brama di scovarel’esemplare più raro da mostrare in famiglia, o,ancora, il progetto di stendere il primo verolibro sui funghi che sia mai stato scritto); pocoo nulla conta, insomma, il perché il cercatoredi funghi si metta in cammino fuori e dentro lasocietà degli uomini. Quello che davvero haimportanza è come la sua attenzione si spostigradualmente dalla ricerca in quanto tale alcammino, dall’oggetto alla caccia, al sentieroimboccato per giungere a scovare la predaagognata, il tanto ambito premio («una formadi eternità»), elevando a regola «il fatto dicercare anche dove già altri erano andati incerca». Attraverso la storia dell’amico (unastoria a sé), e con i toni della letteratura

ipotetica che negli anni ha spostato dal pianoestetico-ideologico a quello poetico, Handkecompila un peculiare trattato euristicocaratterizzato da un ipernaturalismo fin quasiartificioso e da una dimensione fantastica chesolo all’apparenza elude tema e contenuto.Tutto si ricongiunge, difatti, nel finale, quandola figura dell’amico – ormai il prototipodell’artista – si ripresenta a quella del narratorerecluso nel suo «povero» giardino perconsegnargli la storia di un dèmoneindividuale sì, ma esemplare, perché ne faccia,probabilmente, quel libro definitivo che luistesso non ha potuto terminare e che l’altro,probabilmente, ancora attende di scrivere.Magari un libro a venire, come un tesoroancora da scoprire. O questo stesso libro, cheda saggio diventa fiaba perché «l’elementofiabesco, all’occorrenza, è l’ingrediente piùimportante, il più necessario. Se aria, acqua,terra e fuoco sono i quattro elementi, ilmomento fiabesco valga come il quinto, comel’elemento aggiuntivo»; e affinché in questa,come in ogni altra storia, quanto viene narratoesca dal mondo di chi narra ed entri in quellodi chi ascolta, «alla fin fin, come si è detto, unpizzico di fiabesco ci sta».

PETER HANDKE

Scovare i funghicome formadi eternità:un saggioche stingenel fiabesco

di CAMILLA MIGLIO

«Ci vuole un tempo così di-speratamente / lungo per arrivare aintuire chi siamo. / L’indistruttibileamore per i meli, / la storiografiadelle nuvole, lo studio delle erbe,non destinato/ alla stampa, l’acquastregata, / appuntamenti in un bu-io accessibile. / Propriamente nullaper gli dèi. / Respirare per sottrarsialla maledizione, / per un pezzosenza speranza, un pezzo moltobreve. / Troppobreve». CosìMicha-el Krüger in «Specchio», dalla rac-colta Spostare l’ora (Mondadori«Lo Specchio», pp. 242, e 18,00).Un uomo arriva, forse, ripensando-si nel tempo, a individuarsi: nella re-lazione con la natura, nelle sue di-verse forme, per vie non razionali,in assenzadi dèi, tra silenzio e paro-la, inspirazione ed espirazione, perfuggire l’anatemadella fine, nel rim-pianto che il tempo concesso siaun soffio.

Krüger si racconta autore, edito-re, girovago a volte postromanticoe mai classico, filosofo della naturae contadino, etologo e botanico.Ha preso distanza dal mondo checorre e consuma il tempo, attraver-

so viaggi, incontri. In unaprospetti-va quasi postuma, prende atto del-la nostra superfluità, tra piante eanimali che non sanno di sé. Misu-ra la vita sul ritmo della natura. Enon è solo autobiografia. Il ritrattodi sé che abbiamo letto in apertura,in tedesco è giocato sull’impersona-le Es braucht hoffnungslos lange(«ci vuole un tempo così disperata-mente lungo»), bis man ungefährahnt,werman ist («per arrivare a in-tuire chi siamo»). Possiamo vaga-mente intuire chi siamo, osservan-do merli, gabbiani, corvi, vespe efarfalle, ricci e conigli. Pronuncian-do lentamente nomi di piante, cit-tà, paesaggi, amici.

Il più simile, tra gli amici umani,pare ErichAuerbach, evocato attra-verso titolo del suo grande libro:«Mimesis, un’opera / senza note apiè pagina: la salvezza». Così Krü-ger in «Hotel Europa», variazionesul tema della disgregazione. Maperché Mimesis salva? Auerbach loscrisse in esilio, in fuga dal nazi-smo.Non aveva con sémolti libri, ela biblioteca di Istanbul (luogo piùvolte citato da Krüger) non bastava.Mimesis, scritto par coeur, è di persé una stanza europea dellamemo-

ria, procede nel nesso tempo-realtàe lavora alla sua ri-costruzione.Un’opera di autobiografia intellet-tuale, sul ciglio di perdite e morte.Spostare l’ora di Michael Krüger èanch’esso un discorso sul tempo esulla realtà «senza note a piè pagi-na», nel sermo humilis biblico edantesco, ripreso da Auerbach, eben congeniale al poeta e alla suatraduttrice, a sua volta poetessa, An-na Maria Carpi.

Spostare l’ora: «L’ora legale èl’unico intervento che ci è dato faresul tempo. Ben altri ne invoca il de-siderio di nonmorire di questo poe-ta che si è autodefinito vecchio ami-co della morte», scrive Carpi. E nonc’è differenza tra la nostra presenzanel mondo e quella di un albero,che anzi probabilmente ci sopravvi-vrà. Si pensi al melo «come me ve-nuto al mondo durante la guerra».Del resto la morte di certi alberi (siveda la «Morte della betulla») ha lostesso impatto emotivo dellamortedegli amici.

Il tempo ha le sue scansioni: sta-gioni, fioriture. I ritmi della storiasono cancellati dalla vegetazione(in Polonia guardando le muccheal pascolo nessuno penserebbe di

trovarsi in quello che fu il granaiodella Prussia). Ma cippi mnesticiumani restano, e sono le morti de-gli amici, le vite altrui ricapitolate.Il momento generatore di senso èperò solo l’infanzia: è lì che la di-mensione umana si allaccia al tut-to, attraverso il suono di parole, co-me piccole madeleine da gustare.Zimt (cannella) ha il calore di unanonna sopravvissuta alla guerrastringendo ancora quattro stecchedella spezia profumata. L’infanziaè il piacere degustato in parole e co-se, persino nei ciottoli, del tuttoignari delle leggi di natura o cultu-ra. Ma il poeta sgombra ogni so-spetto regressivo: «Troppo tempoci vuole / perché ci rimandino /nell’infanzia, quando le parole ave-vano tempo / di mostrare la lorobellezza». E noi lettori rischiamo diessere fuori tempomassimo.Occor-re «Una tarda cognizione / acquisi-ta in debolezza». Niente di eroico,né sacro, né sublime.

Non ingannino le date liturgi-che e profane: Pentecoste, Capo-danno, Primo dell’anno, Le Palme,Pasqua. E le stagioni, tutte e ripetu-te. Il libro finisce con la ‘seconda’mietitura, e un risorgere tardivo di

germogli, quasi possibilità di secon-da vita, a sfidare la grande Falciatri-ce. Stagioni e liturgie incrociano lelatitudini, in un canto della terra vi-sta da lontano, nel tempo lungo dichi si ripensa, non come «Io» allospecchio, ma come occhio, orec-chio attento.

Accade così lo «sgombero» delleparole inutili. Scrivere, tradurre,pubblicare, sarà davvero questol’essenziale? Detto da un editore,poeta, scrittore, suona sconfitta. Einvece no: accanto ad animali epiante, fantasmi di cari scomparsi,storie bibliche, leggende e fiabe deiboschi, si impara dagli uccelli a vi-vere di briciole, dal melo a rifiorire,insomma, ad «amare la vita» (conun illustre precedente, Fellini):«Tutto si comprende facilmente /se si ama la vita. / Tutto è facile sot-to le nuvole / che se la battono / alprimo vento che capita».

Nonostante gli sforzi di distacco,Krüger si porta dentro un poeta co-me lui mai fuggito dalla vita activa:Heinrich Heine. E non solo per i ti-toli di alcune poesie: «Maggio» fapensare all’«Intermezzo lirico»; «Ionon so che vuol dire» per qualun-que tedesco fa scattare le note della«Lorelei». Né solo per i versi su dèiin congedo mimetizzati con la fol-la, che ricordano molto da vicino lesituazioni degli heiniani Dei in esi-lio. Come Heine, Krüger affida allechiuse delle sue poesie una gnomeamara, che rovescia la dolcezza diaccenti e pensieri in cui il lettoregià si culla. Ma proprio pensando aHeine, non dobbiamo prenderequesto canzoniere sul tempo inmo-do troppo filosofico. Siamo al volge-re del giorno verso il tramonto (ov-vero tarda estate, mietitura, ora az-zurra della vita). È in questa luce, esenza note a piè pagina, che Krügerci offre le sue immagini riflesse, per-sino quando parla di «illuminazio-ni» sui ciottoli di una costa del sud:«Ma è ovvio che anche gli specchipossono sbagliare».

Il volume rispecchia con esemplareprobità la storia testuale delleMassi-me, quanto meno complessa: tre re-dazioni manoscritte, cinque edizio-ni in vita dell’autore (la prima, 1665,particolarmente travagliata per in-terventi in corso di stampa, sicché,come peraltro accadeva spessoall’epoca, nessun esemplare è ugua-le a un altro), via via rimaneggiate,con addizioni, soppressioni, corre-zioni, fino a quella definitiva del1678, qui riprodotta con limpida tra-duzione italiana a fronte. Sono inol-tre offerte al lettore le massime deimanoscritti non pubblicate dall’au-tore, lemassime soppresse e una ta-vola delle concordanze. Il testo è cor-redato da un apparato critico che ri-porta le varianti dimanoscritti e edi-zioni, e segnala l’assenza nei mano-scritti di questa o quella massima odi una parte del testo antecedente.

Se un appunto si deve fare aquest’ottima edizione è di peccareper eccesso di perfezionismo (e an-che nella virtù, l’eccesso è un difet-to, dicevaMontaigne). Se infatti l’ap-parato è utile, anzi indispensabile, achi voglia seguire l’assiduo lavorìodi rifinitura a cui La Rochefoucauldha sottoposto il suo libro, è dubbiol’interesse della traduzione italianadell’apparato medesimo. Le tradu-zioni con testo a fronte non si rivol-gonoevidentemente a lettori del tut-to ignari della lingua originale, im-possibilitati ad accedervi,ma a quel-li che, senza possederla, la conosco-no abbastanza per rendersi contodella qualità del testo stesso emaga-ri delle scelte del traduttore. Poichéqualsiasi traduzione è sempre unascelta fra diverse possibilità di rende-re quel termine, quella sfumatura disenso, quel costrutto, e la scelta di-pende, oltre che dalla competenza,dalla sensibilità e dal gusto di chi tra-duce. Va da sé che anche nelle va-rianti la traduzione non può essereche una scelta.

Ora, se le varianti sono la rappre-sentazionedelle esitazioni dell’auto-re, che cosa può rappresentare latraduzione delle varianti? Nient’al-tro che le scelte del traduttore: ilquale, dovendo render ragione dell’opzione adottata nel testo, non po-trà che regolare su quella la versio-ne della variante. Il ragionamentopuò apparire capzioso. Cerco, perspiegarmi, un esempio minimo(senz’altro insufficiente, ma la sedenon consente altre adduzioni di pro-ve). Nella massima 12 citata sopra(«Per quanto impegno si metta...»),impegno traduce il francese soin,che però potrebbe anche rendersicon cura o studio omagari altri sino-nimi; il traduttore ha optato perquella che gli sembra la soluzionepiù adeguata, e come tale la si accet-ta. La variante porta industrie, cheviene tradotta ingegnosità; ma per-ché non industria o abilitào destrez-za? Insomma, l’opzione è ineluttabi-le nel testo, che deve presentarsi de-finitivo; ma la variante, nel suo rap-porto col testo, significa un fluttuaredi approssimazioni che è problema-tico trasporre in un’altra lingua. Latraduzione dell’apparato, insuffi-ciente per definizione a restituire,non solo il preciso cesello stilisticodel francese,maneppure la formula-zione letterale, rischia di apparire,nonché superflua, filologicamentediscutibile.

Per chiudere in bellezza: l’ico-nografia del volume è pregevole,particolarmente curata, dalla coper-tina su cui figura la splendida Vani-tà diNicolas Régnier, alle illustrazio-ni interne che isolano particolari didipinti coevi.

Veduta di Berlino di Gabriele Basilico,dal sito OverExposure

TEMPI PRESENTIVerifiche dei poteriormai tramontatidella politica,tra due viaggia Berlino,capitale simbolicadel secolo breve GARAVINI DA PAGINA 3

La Rochefoucaulde le sue massimerese in un eccessodi perfezionismo

Intuire chi siamoosservando merli,farfalle, ricci...Il poeta tedescosi raccontain una prospettivaquasi postuma,fra tempo e realtà

Gerhard Richter, «Hirsch», 1963,collezione privata

DIDATTICA

Le istruzionidi Giulio Ferroniper trasformarein possibile«La scuolaimpossibile»

«I DESTINI GENERALI» DI GUIDO MAZZONI PER LA COLLANA SOLARIS DI LATERZA «SPOSTARE L’ORA» DI MICHAEL KRÜGER, MONDADORI «LO SPECCHIO»

Tra piante e animaliche non sanno di sé

KRÜGER

Page 7: diMASSIMOBACIGALUPO · diMASSIMOBACIGALUPO «Fuckthepeasants!»–comin-ciacosìilprimodivertenteroman-zo di Jonathan Galassi (La musa, Guanda «Narratori della Fenice»,

(7)ALIAS DOMENICA28 GIUGNO 2015

di PAOLO LAGO

Il filosofo belga Raoul Vaneigem cosìscriveva nel 1995 in un significativo Avviso aglistudenti: «La prospettiva di una redditività atutti i costi è la cortina di ferro di un mondochiuso dall’economia. (...) Resta da sapere seallievi e professori, dal momento che lagestione di un universo in rovine alla quale li siinvita non promette nulla di buono, silasceranno ridurre alla funzione dimeccanismi lucrativi senza scommetteresull’ipotesi di imparare a vivere anziché aeconomizzarsi». La scuola è al centro di unanuova riforma che continua a sollevareproteste nell’universo degli insegnanti e deglistudenti e che sembra trovare il suo fulcro indinamiche di carattere economico e aziendale,basate su «meccanismi lucrativi». Nel testodiffuso online dal Ministero dell’Istruzione, adesempio, la storia dell’arte dovrebbe riceveremaggiori impulsi per creare una «capacità diprodurre bellezza», sulla quale si dovrebbero«formare giovani capaci di ripartire dal Madein Italy inteso nella sua accezione più ampia».(«Made in Italy?» – viene spontaneo chiedersi –si tratta della scuola o del marchio aziendale di

uno stilista?). Il mondo della scuola è quinditornato oggi alla ribalta, chiamato in causa daquesto calderone riformistico promosso dauna nuova classe politica rampante, che siautoproclama ‘rottamatrice’ e sembra inveceguardare molto a quegli anni ottanta delsecolo scorso definiti da Paul Ginsborg come«l’età d’oro del miracolo economico». Capita aproposito, perciò, l’uscita di un illuminantevolumetto di Giulio Ferroni: La scuolaimpossibile (Salerno editrice, pp. 123, e 9,50).L’autore, critico e storico della letteratura, èsempre stato un acuto e lucido osservatorenon solo della «repubblica delle lettere» maanche della cultura e della società italiana toutcourt. Al mondo della scuola e alle sueprospettate riforme, infatti, già aveva dedicatoun altro testo uscito nel 1997, La scuolasospesa. Istruzione, cultura e illusioni dellariforma. Al centro della nuova analisi diFerroni c’è la critica al modello economicodominante in ogni settore della vita sociale eculturale, applicato anche al mondo dellascuola: «Tutto deve mirare all’utile, e l’utileviene necessariamente concepito in terminipuramente economici». In questo quadrorientrano anche le formulazioni che

impongono di sezionare il sapere in obiettivi ecompetenze, nonché la diffusione dell’utilizzodei test per sondare le capacità degli studenti.Anche l’eccessiva digitalizzazione della scuolarimanda a un modello economico impostodall’alto, in un contesto sociale in cui la retecontribuisce all’evaporazione dellademocrazia, mentre sempre di più vengono amancare luoghi fisici di incontro e diconfronto diretto: la scuola appare cosìschiacciata dalle «esigenze di grandi organismieconomici, che impongono di essereall’altezza di un presente disposto secondo leleggi del marketing, dei modelli di vita da essodefiniti». Diversi sono i suggerimenti persfuggire a questo «meccanismo lucrativo»: laproduzione di un pensiero «lento» eproblematico contro la velocità imperante,una nuova educazione alla parola, una difesadall’eccessiva ‘colonizzazione’ dell’inglese, unarinnovata conoscenza dello spazio, unariscoperta dei classici antichi, nonché,naturalmente, una decisiva rivalutazione dellafigura dell’insegnante. È solo con una passioneviva per il sapere e con fortissime basi culturaliche si potrà ottenere, finalmente, a una scuola«buona» davvero.

Nel disagio di Mazzoniuna forma attualedi resistenza critica

di ROCCO RONCHI

Dedicata a raccogliere saggidi letterati italiani che si misuranocon lamutazione antropologica in-tervenuta alla fine delmondobipo-lare, la collana «Solaris» della Later-za assume il disorientamento co-me punto di vista privilegiato e co-me chiave di lettura della contem-poraneità.Ne fa fede il volume tito-lato I destini generali diGuidoMaz-zoni (pp. 122, e14,00) brillante sto-rico e teoricodella letteratura, auto-re, tra l’altro, di una Teoria del ro-manzo, che è tra i contributi più in-novativi sull’argomento, e di note-voli libri di poesia.

Natonel 1967,Mazzoni appartie-ne alla generazione che si è forma-ta a cavallo dei due secoli: è dun-que un testimone ideale, che hasperimentato il tramontodel «seco-lo breve», raccontato nella formadi resoconto del suo primo viaggioa Berlino all’inizio degli anni no-vanta. Di quel secolo, segnato dauna memoria tragica e diviso tranarrazioni contrapposte e in com-petizione tra loro (il western way oflifedell’ovest e l’est che si pretende-va comunista), Berlino è stata in-dubbiamente la capitale simboli-ca.Ma la generazione diMazzoni èanche quella che è stata travoltadalle trasformazioni indotte da uncapitalismo trionfante e senza av-versari – almeno senza avversari«credibili» per «noi buoni Euro-pei», per dirla con Nietzsche, dalmomento che il fondamentalismoislamico rappresenta proprio unodegli aspetti, certamente quellopiù mostruoso, del cambiamentoglobale.

È un altro viaggio, ancora a Berli-no, questa volta nel 2013, a fornirea Mazzoni la necessaria cartina ditornasole per verificare l’avvenutamutazione. Nella città che descri-ve, pacificamente convivono leme-morie istituzionalizzate di una pas-sato recente (il comunismo) e piùlontano (il nazifascismo) e la glorifi-cazione dellamerce, padrona asso-luta dei nostri destini generali.Commentandouna foto da lui stes-so scattata, scrive: «In PotsdamerPlatz sono stati reinstallati, a bene-ficio dei turisti, alcuni pezzi delMu-ro. Sono circondati da pannelli chespiegano il significato di quei bloc-chi di cemento. Quando però li simette nel contesto, l’immagineche si ottiene è sovrastata daun’enorme pubblicità dell’iPad»(Mazzoni avverte il lettore chequel-la stessa emblematica fotografia èstata scattata con il suo iPad...).

In mezzo, tra la fine del vecchiomondo e l’ascesa irresistibile delnuovo, ci sono tutti quegli «even-ti», dall’attentato alle due Torri diNew York all’invasione degli ultra-corpi berlusconiani in una Italiadalla memoria azzerata, che han-no segnato il nostro presente e chehanno la caratteristica, tipicamen-te post-moderna, di coglierci sem-

pre di sorpresa, lasciandoci attoni-ti, privi degli strumenti intellettualinecessari alla loro comprensione,sguarniti insomma di una filosofia– perché è proprio questa cheman-ca – capace, come l’hegeliana not-tola di Minerva, di alzarsi in voloper concepire il mondo in cui sia-mo gettati.

Il filosofo comunista Ernst Blo-ch, in pienoNovecento, aveva indi-viduato come tratto costitutivo delpresente l’«oscurità» essenziale.Troppo vicino per essere visto, il

presente che stiamo vivendo cisfugge e come neve si scioglie nellemani di chi vorrebbe afferrarlo.

Bloch faceva appello alla dialetti-ca come a quell’arte che permettedi «ruotar fuori» dal presente peroggettivarlo e produrne un concet-to critico. A questa esigenza di di-stanza critica da un presente trop-po ingombrante sembra corrispon-dere l’urgenza che muove la colla-na in cui è ospitato il libro di Maz-zoni. Agli intellettuali convocati sichiede che svolgano il compito lo-

ro affidato almeno dalla stagioneeroica dell’illuminismo: devono «ri-schiarare» il presente, dissipare lenebbie che lo rendono impalpabi-le.

L’autore vi fa fronte in duemodi,che scandiscono i due tempi delsuo discorso. Da un lato, soprattut-to nel primo capitolo, disegna unateoria del contemporaneo che co-stituisce una efficace sintesi diquella che ormai si può definire lacritica italiana della cultura. Sottoil segno di Pasolini e della sua nota

teoria della «mutazione antropolo-gica», la nuova epoca che viviamoè presentata come il tempodell’ascesa delle masse atomizza-te, emancipate dal dominio dellaLegge trascendente e di tutti i suoisuccedaneimondani (famiglia, par-tito, sistemi valoriali e cpsì via), ob-bligate dal consumismo dilaganteaun godimento compulsivo emor-tifero, incapaci di costruire nuovilegami sociali e intergenerazionaliche vadano oltre l’immediatezzadel presente (fine della Storia), in-differenti se non addirittura ostilialla dimensione del progetto e delsacrificio (dopo la politica).

All’origine di questa mutazione– ancora una volta Pasolini docet –ci sarebbe l’evento 1968, il quale,come un Giano bifronte, sarebbetanto l’ultimo episodio della Storiacon la maiuscola, in catena con lealtre date che hanno scandito il so-gno rivoluzionario di una umanitàredenta dall’oppressione (il 1789, il1848, il 1871, il 1917), quanto il la-boratorio di quegli homines noviche in nome di una malintesa libe-razione avrebbero inaugurato, giàa partire dai fatidici eighties, l’epo-

ca dell’individualismo sfrenato edell’edonismo generalizzato. È nelprimo volume di Capitalismo eSchizofrenia di Gilles Deleuze e Fe-lix Guattari, L’anti-Edipo, cheMaz-zoni individua il testo manifesto diquesta svolta epocale: una filosofiadell’immanenza radicale, quale èquella sostenuta dai due francesi,una filosofia che contesta sistemati-camente ogni trascendenza, finan-che quella che si riproduce nel se-nodella famiglia, porterebbe inevi-tabilmente a una atrofia generaliz-zata dell’esperienza, che Mazzonidescrive con le parole profetiche (eassai «pasoliniane») di AlexandreKojève, il grande commentatore diHegel,maestro di un’intera genera-zionedi intellettuali, il quale, alla vi-gilia del ’68, poco prima di morire,prospettava per l’Europa spiritua-le, dominata dall’«americanismo»(secondo lui, non faceva eccezionenemmeno la Russia sovietica) unasorta di regressione al «regno ani-male dello spirito».

Per Kojève a venire messa radi-calmente in questione dalla «muta-zione antropologica» in corso era,in ultima analisi, la forma stessadell’Uomo, la sua differenza speci-fica dall’animale. Tutte le grandi di-stinzioni concettuali che, da Carte-sio in poi, hanno costituito l’orgo-glio della modernità – natura/cul-tura, spirito/materia, coscien-za/estensione, qualità/quantità –ne verrebbero investite e dissolte.Il ’68 prima (almeno nella incrimi-nata versione fornita da Deleuze eGuattari), l’ascesa del capitalismofinanziario poi, con la sua smate-rializzazione della realtà, avrebbeassecondato questa trasformazio-ne fino a renderla senso comunepresso le nuovissime generazioni(gli «adolescenti» già stigmatizzatiin tempi non sospetti di «post-mo-dernismo» dal Pasolini «corsaro»),ormai incapaci di operare le piùelementari distinzioni di senso edi valore (al punto da inserire, co-me documenta Mazzoni, conspensierata allegria, l’hashtag #fe-elgood nei messaggi twitter inviatiagli amici da un viaggio della me-moria a Aushwitz).

I destini generali, però, non siesaurisce in questa denunciamora-le dei guasti della contemporanei-tà. Se si limitasse a questo, costitui-rebbe soltanto un ulteriore capito-lo di quella critica di un presentesenzaDio e senzaValori, senza Sto-ria e senza Trascendenza, che, do-po Pasolini, tanto successo ha avu-to presso gli intellettuali italiani, in-dipendentemente dalle loro opzio-ni politiche, filosofiche o religiose(e sarebbe tempo di interrogarsisulle ragioni di questo consenso ge-neralizzato). Con grande onestà in-tellettuale, Mazzoni, nel secondocapitolo, dà voce anche al lato me-no frequentato di questo diffuso econdiviso atteggiamento teorico.Chiamato dallamission stessa del-la collana che ospita il suo bel sag-gio a prendere posizione sull’epo-ca che giudica, Mazzoni non esitainfatti a confessare l’impotenzapolitica di una tale critica morale.Alla luce di questa analisi non cisono alternative praticabili e, so-prattutto, «credibili». Dalla teoriacritica non consegue insommanessuna prassi trasformatrice delreale, con buona pace del Marxdell’XI tesi su Feuerbach («I filoso-fi hanno finora soltanto diversa-mente interpretato il mondo. Sitratta di trasformarlo»).

All’intellettuale che ha aderitoal paradigma pasoliniano come alsolo modello capace di spiegare ilpresente, non resta che riconosce-re, come fa Mazzoni nelle righemagistrali che chiudono I destinigenerali, di non aver «nulla di poli-tico o di reale da opporre a tuttoquesto». «Ho solo – scrive – unaforma di disagio».

di STEFANO GALLERANI

Tutt’altro che marginale all’interno dellasua produzione letteraria, nel corso degli annila rivisitazione, da parte di Peter Handke, delgenere «saggio» (Versuch), è arrivata acostituire, piuttosto, una sottile filigrana tra lemaglie più fitte intessute dai romanzi e daitesti teatrali; pure, si tratta di una filigranaestremamente resistente che la costanza delloscrittore di Griffen ha reso più che familiare,nella forma e nei modi in cui è stata declinata,ai suoi lettori. Dopo Saggio sulla stanchezza(1989), Saggio sul juke-box (’90), Saggio sullagiornata riuscita. Sogno di un giorno d’inverno(’91) e Saggio sul luogo tranquillo (’12) è ora ilmomento di Saggio sul cercatore di funghi(traduzione di Alessandra Iadicicco, Guanda«Narratori della Fenice», pp. 174, e 15,00) che,così come i primi costituivano un vero eproprio trittico, forma con il penultimo unatrasfigurata riflessione ancipite sul rapportoche intercorre tra lettura e scrittura.Protagonista esplicito delle considerazioni edei fatti riportati in Versuch über denPilznarren (così in originale, nel 2013) è unamico del narratore posseduto dalla smania di

cercare funghi: sin dall’infanzia è stato questoil suo scopo nella vita, sebbene gli sfuggisse ilsenso o il perché, e niente, nemmeno leoccupazioni professionali dell’età adulta (inspecie, la carriera di avvocato penalista dicaratura internazionale), ha potuto distoglierloda questa forma di stregoneria che la naturasembra avere esercitato sulla sua coscienza.Poco importa dunque l’occasione (fosse, ingioventù, il desiderio di procacciarsi i primisoldi vendendo i funghi raccolti nel boscoceduo ovvero, più grande, la brama di scovarel’esemplare più raro da mostrare in famiglia, o,ancora, il progetto di stendere il primo verolibro sui funghi che sia mai stato scritto); pocoo nulla conta, insomma, il perché il cercatoredi funghi si metta in cammino fuori e dentro lasocietà degli uomini. Quello che davvero haimportanza è come la sua attenzione si spostigradualmente dalla ricerca in quanto tale alcammino, dall’oggetto alla caccia, al sentieroimboccato per giungere a scovare la predaagognata, il tanto ambito premio («una formadi eternità»), elevando a regola «il fatto dicercare anche dove già altri erano andati incerca». Attraverso la storia dell’amico (unastoria a sé), e con i toni della letteratura

ipotetica che negli anni ha spostato dal pianoestetico-ideologico a quello poetico, Handkecompila un peculiare trattato euristicocaratterizzato da un ipernaturalismo fin quasiartificioso e da una dimensione fantastica chesolo all’apparenza elude tema e contenuto.Tutto si ricongiunge, difatti, nel finale, quandola figura dell’amico – ormai il prototipodell’artista – si ripresenta a quella del narratorerecluso nel suo «povero» giardino perconsegnargli la storia di un dèmoneindividuale sì, ma esemplare, perché ne faccia,probabilmente, quel libro definitivo che luistesso non ha potuto terminare e che l’altro,probabilmente, ancora attende di scrivere.Magari un libro a venire, come un tesoroancora da scoprire. O questo stesso libro, cheda saggio diventa fiaba perché «l’elementofiabesco, all’occorrenza, è l’ingrediente piùimportante, il più necessario. Se aria, acqua,terra e fuoco sono i quattro elementi, ilmomento fiabesco valga come il quinto, comel’elemento aggiuntivo»; e affinché in questa,come in ogni altra storia, quanto viene narratoesca dal mondo di chi narra ed entri in quellodi chi ascolta, «alla fin fin, come si è detto, unpizzico di fiabesco ci sta».

PETER HANDKE

Scovare i funghicome formadi eternità:un saggioche stingenel fiabesco

di CAMILLA MIGLIO

«Ci vuole un tempo così di-speratamente / lungo per arrivare aintuire chi siamo. / L’indistruttibileamore per i meli, / la storiografiadelle nuvole, lo studio delle erbe,non destinato/ alla stampa, l’acquastregata, / appuntamenti in un bu-io accessibile. / Propriamente nullaper gli dèi. / Respirare per sottrarsialla maledizione, / per un pezzosenza speranza, un pezzo moltobreve. / Troppobreve». CosìMicha-el Krüger in «Specchio», dalla rac-colta Spostare l’ora (Mondadori«Lo Specchio», pp. 242, e 18,00).Un uomo arriva, forse, ripensando-si nel tempo, a individuarsi: nella re-lazione con la natura, nelle sue di-verse forme, per vie non razionali,in assenzadi dèi, tra silenzio e paro-la, inspirazione ed espirazione, perfuggire l’anatemadella fine, nel rim-pianto che il tempo concesso siaun soffio.

Krüger si racconta autore, edito-re, girovago a volte postromanticoe mai classico, filosofo della naturae contadino, etologo e botanico.Ha preso distanza dal mondo checorre e consuma il tempo, attraver-

so viaggi, incontri. In unaprospetti-va quasi postuma, prende atto del-la nostra superfluità, tra piante eanimali che non sanno di sé. Misu-ra la vita sul ritmo della natura. Enon è solo autobiografia. Il ritrattodi sé che abbiamo letto in apertura,in tedesco è giocato sull’impersona-le Es braucht hoffnungslos lange(«ci vuole un tempo così disperata-mente lungo»), bis man ungefährahnt,werman ist («per arrivare a in-tuire chi siamo»). Possiamo vaga-mente intuire chi siamo, osservan-do merli, gabbiani, corvi, vespe efarfalle, ricci e conigli. Pronuncian-do lentamente nomi di piante, cit-tà, paesaggi, amici.

Il più simile, tra gli amici umani,pare ErichAuerbach, evocato attra-verso titolo del suo grande libro:«Mimesis, un’opera / senza note apiè pagina: la salvezza». Così Krü-ger in «Hotel Europa», variazionesul tema della disgregazione. Maperché Mimesis salva? Auerbach loscrisse in esilio, in fuga dal nazi-smo.Non aveva con sémolti libri, ela biblioteca di Istanbul (luogo piùvolte citato da Krüger) non bastava.Mimesis, scritto par coeur, è di persé una stanza europea dellamemo-

ria, procede nel nesso tempo-realtàe lavora alla sua ri-costruzione.Un’opera di autobiografia intellet-tuale, sul ciglio di perdite e morte.Spostare l’ora di Michael Krüger èanch’esso un discorso sul tempo esulla realtà «senza note a piè pagi-na», nel sermo humilis biblico edantesco, ripreso da Auerbach, eben congeniale al poeta e alla suatraduttrice, a sua volta poetessa, An-na Maria Carpi.

Spostare l’ora: «L’ora legale èl’unico intervento che ci è dato faresul tempo. Ben altri ne invoca il de-siderio di nonmorire di questo poe-ta che si è autodefinito vecchio ami-co della morte», scrive Carpi. E nonc’è differenza tra la nostra presenzanel mondo e quella di un albero,che anzi probabilmente ci sopravvi-vrà. Si pensi al melo «come me ve-nuto al mondo durante la guerra».Del resto la morte di certi alberi (siveda la «Morte della betulla») ha lostesso impatto emotivo dellamortedegli amici.

Il tempo ha le sue scansioni: sta-gioni, fioriture. I ritmi della storiasono cancellati dalla vegetazione(in Polonia guardando le muccheal pascolo nessuno penserebbe di

trovarsi in quello che fu il granaiodella Prussia). Ma cippi mnesticiumani restano, e sono le morti de-gli amici, le vite altrui ricapitolate.Il momento generatore di senso èperò solo l’infanzia: è lì che la di-mensione umana si allaccia al tut-to, attraverso il suono di parole, co-me piccole madeleine da gustare.Zimt (cannella) ha il calore di unanonna sopravvissuta alla guerrastringendo ancora quattro stecchedella spezia profumata. L’infanziaè il piacere degustato in parole e co-se, persino nei ciottoli, del tuttoignari delle leggi di natura o cultu-ra. Ma il poeta sgombra ogni so-spetto regressivo: «Troppo tempoci vuole / perché ci rimandino /nell’infanzia, quando le parole ave-vano tempo / di mostrare la lorobellezza». E noi lettori rischiamo diessere fuori tempomassimo.Occor-re «Una tarda cognizione / acquisi-ta in debolezza». Niente di eroico,né sacro, né sublime.

Non ingannino le date liturgi-che e profane: Pentecoste, Capo-danno, Primo dell’anno, Le Palme,Pasqua. E le stagioni, tutte e ripetu-te. Il libro finisce con la ‘seconda’mietitura, e un risorgere tardivo di

germogli, quasi possibilità di secon-da vita, a sfidare la grande Falciatri-ce. Stagioni e liturgie incrociano lelatitudini, in un canto della terra vi-sta da lontano, nel tempo lungo dichi si ripensa, non come «Io» allospecchio, ma come occhio, orec-chio attento.

Accade così lo «sgombero» delleparole inutili. Scrivere, tradurre,pubblicare, sarà davvero questol’essenziale? Detto da un editore,poeta, scrittore, suona sconfitta. Einvece no: accanto ad animali epiante, fantasmi di cari scomparsi,storie bibliche, leggende e fiabe deiboschi, si impara dagli uccelli a vi-vere di briciole, dal melo a rifiorire,insomma, ad «amare la vita» (conun illustre precedente, Fellini):«Tutto si comprende facilmente /se si ama la vita. / Tutto è facile sot-to le nuvole / che se la battono / alprimo vento che capita».

Nonostante gli sforzi di distacco,Krüger si porta dentro un poeta co-me lui mai fuggito dalla vita activa:Heinrich Heine. E non solo per i ti-toli di alcune poesie: «Maggio» fapensare all’«Intermezzo lirico»; «Ionon so che vuol dire» per qualun-que tedesco fa scattare le note della«Lorelei». Né solo per i versi su dèiin congedo mimetizzati con la fol-la, che ricordano molto da vicino lesituazioni degli heiniani Dei in esi-lio. Come Heine, Krüger affida allechiuse delle sue poesie una gnomeamara, che rovescia la dolcezza diaccenti e pensieri in cui il lettoregià si culla. Ma proprio pensando aHeine, non dobbiamo prenderequesto canzoniere sul tempo inmo-do troppo filosofico. Siamo al volge-re del giorno verso il tramonto (ov-vero tarda estate, mietitura, ora az-zurra della vita). È in questa luce, esenza note a piè pagina, che Krügerci offre le sue immagini riflesse, per-sino quando parla di «illuminazio-ni» sui ciottoli di una costa del sud:«Ma è ovvio che anche gli specchipossono sbagliare».

Il volume rispecchia con esemplareprobità la storia testuale delleMassi-me, quanto meno complessa: tre re-dazioni manoscritte, cinque edizio-ni in vita dell’autore (la prima, 1665,particolarmente travagliata per in-terventi in corso di stampa, sicché,come peraltro accadeva spessoall’epoca, nessun esemplare è ugua-le a un altro), via via rimaneggiate,con addizioni, soppressioni, corre-zioni, fino a quella definitiva del1678, qui riprodotta con limpida tra-duzione italiana a fronte. Sono inol-tre offerte al lettore le massime deimanoscritti non pubblicate dall’au-tore, lemassime soppresse e una ta-vola delle concordanze. Il testo è cor-redato da un apparato critico che ri-porta le varianti dimanoscritti e edi-zioni, e segnala l’assenza nei mano-scritti di questa o quella massima odi una parte del testo antecedente.

Se un appunto si deve fare aquest’ottima edizione è di peccareper eccesso di perfezionismo (e an-che nella virtù, l’eccesso è un difet-to, dicevaMontaigne). Se infatti l’ap-parato è utile, anzi indispensabile, achi voglia seguire l’assiduo lavorìodi rifinitura a cui La Rochefoucauldha sottoposto il suo libro, è dubbiol’interesse della traduzione italianadell’apparato medesimo. Le tradu-zioni con testo a fronte non si rivol-gonoevidentemente a lettori del tut-to ignari della lingua originale, im-possibilitati ad accedervi,ma a quel-li che, senza possederla, la conosco-no abbastanza per rendersi contodella qualità del testo stesso emaga-ri delle scelte del traduttore. Poichéqualsiasi traduzione è sempre unascelta fra diverse possibilità di rende-re quel termine, quella sfumatura disenso, quel costrutto, e la scelta di-pende, oltre che dalla competenza,dalla sensibilità e dal gusto di chi tra-duce. Va da sé che anche nelle va-rianti la traduzione non può essereche una scelta.

Ora, se le varianti sono la rappre-sentazionedelle esitazioni dell’auto-re, che cosa può rappresentare latraduzione delle varianti? Nient’al-tro che le scelte del traduttore: ilquale, dovendo render ragione dell’opzione adottata nel testo, non po-trà che regolare su quella la versio-ne della variante. Il ragionamentopuò apparire capzioso. Cerco, perspiegarmi, un esempio minimo(senz’altro insufficiente, ma la sedenon consente altre adduzioni di pro-ve). Nella massima 12 citata sopra(«Per quanto impegno si metta...»),impegno traduce il francese soin,che però potrebbe anche rendersicon cura o studio omagari altri sino-nimi; il traduttore ha optato perquella che gli sembra la soluzionepiù adeguata, e come tale la si accet-ta. La variante porta industrie, cheviene tradotta ingegnosità; ma per-ché non industria o abilitào destrez-za? Insomma, l’opzione è ineluttabi-le nel testo, che deve presentarsi de-finitivo; ma la variante, nel suo rap-porto col testo, significa un fluttuaredi approssimazioni che è problema-tico trasporre in un’altra lingua. Latraduzione dell’apparato, insuffi-ciente per definizione a restituire,non solo il preciso cesello stilisticodel francese,maneppure la formula-zione letterale, rischia di apparire,nonché superflua, filologicamentediscutibile.

Per chiudere in bellezza: l’ico-nografia del volume è pregevole,particolarmente curata, dalla coper-tina su cui figura la splendida Vani-tà diNicolas Régnier, alle illustrazio-ni interne che isolano particolari didipinti coevi.

Veduta di Berlino di Gabriele Basilico,dal sito OverExposure

TEMPI PRESENTIVerifiche dei poteriormai tramontatidella politica,tra due viaggia Berlino,capitale simbolicadel secolo breve GARAVINI DA PAGINA 3

La Rochefoucaulde le sue massimerese in un eccessodi perfezionismo

Intuire chi siamoosservando merli,farfalle, ricci...Il poeta tedescosi raccontain una prospettivaquasi postuma,fra tempo e realtà

Gerhard Richter, «Hirsch», 1963,collezione privata

DIDATTICA

Le istruzionidi Giulio Ferroniper trasformarein possibile«La scuolaimpossibile»

«I DESTINI GENERALI» DI GUIDO MAZZONI PER LA COLLANA SOLARIS DI LATERZA «SPOSTARE L’ORA» DI MICHAEL KRÜGER, MONDADORI «LO SPECCHIO»

Tra piante e animaliche non sanno di sé

KRÜGER

Page 8: diMASSIMOBACIGALUPO · diMASSIMOBACIGALUPO «Fuckthepeasants!»–comin-ciacosìilprimodivertenteroman-zo di Jonathan Galassi (La musa, Guanda «Narratori della Fenice»,

(8) ALIAS DOMENICA28 GIUGNO 2015

di SIMONE FACCHINETTI

Sono molti i motivi che ren-dono interessante La Zenobia didon Álvaro e altri studi sul Seicentotra la Bassa padana e l’Europa, l’ul-timo libro di Marco Tanzi (OfficinaLibraria, pp. 224, 51 illustrazioni acolori, e 19,90). Già dal titolo si in-tuisce che non si tratta di una co-mune – e accademica – antologiadi saggi di storia dell’arte dedicatial Seicento lombardo. Di sicuro glistudiosi e gli eruditi di argomentipadani troveranno infinite ragioniper considerarlo un testo utile, senon addirittura necessario. Tutta-via il cuore del libro non sta pro-prio qui.

Sulla copertina appare un Cupi-do che incocca la freccia, un’operamai vista prima d’ora, riconducibi-le a LuigiMiradori detto il Genove-sino. L’immagine è attraente e di-spettosa, il Cupido appare comeuna insopportabile e magnifica ca-naglia. Anche questo è un secondoindizio, esterno, per metteresull’avviso il lettore curioso.

L’autore del libro, cioè, non na-sconde qualche legittima ambizio-ne letteraria (facendo il verso, nel ti-tolo, all’universo gaddiano) e nonrinuncia a identificarsi con unaspecie di castigamatti della discipli-na (tramite la foto di copertina). Inrealtà Tanzi, che insegna Storiadell’Arte all’Università del Salento,in questa precisa circostanza indos-sa gli abiti, non abituali, della paci-fica moderazione.

LaZenobia di don Álvaro si leggein pocomeno di quattro ore, all’in-circa la durata di un viaggio in tre-no che vadaRomaaMilano. Alla fi-ne della lettura le cose che riman-gono impresse nella memoria pos-sono essere tante, ma nessuna for-te come il sentimento di un luogo.L’ombelico del libro è Cremona ela Bassa padana, bagnata dal suogrande fiume, il Po: «Da ragazzonon sapevo remare alla veneta, rit-to in piedi a guardare sicuro davan-ti, con il ritmo lento e costante delremo a solcare la corrente; con laiole invece si danno le spalle allameta e vedi la scia della barca ta-gliare a mezzo l’acqua, con piccoligorghi e mulinelli». Qua e là salta-no fuori ricordi autobiografici, in-tarsiati da rari brani diDaniloMon-taldi, come quello – magnifico esingolare – sulla matàna del Po, lamalattia che colpisce le popolazio-ni che abitano nei dintorni del fiu-me: «la matàna (…) è come unafebbre leggera, è una specie d’in-fluenza che esercita il fiume sugliabitatori della riva».

Ecco, una volta capite le ragionidellamatàna del Po, diventa più fa-cile intuire perché l’autore abbiadeciso di scandire la sequenza deisaggi con tre fotografie in bianconero, solo apparentemente fuoricontesto. La prima è l’immagine vi-sionaria, scattata nel 1940, di un fu-nambolo che si incammina, sospe-so per aria, verso la facciata dellaCattedrale di Cremona (non èArtu-ro Strohschneider, il miglioreascensionista del mondo, come sipotrebbe credere). La seconda, so-lo a prima vista, somiglia a un foto-gramma tratto dal celebre film diCharlie Chaplin, Modern Time. Inrealtà è – meno comunemente –l’istantanea degli ingranaggi checostituiscono l’incredibile mecca-nismo dell’orologio del Torrazzo a

Cremona. Infine la terza – una Ca-sa di via Bertesi 8 a Cremona – con-fesso di non essere stato in gradodi decodificarla. L’unica spiegazio-ne plausibile è che sia un’immagi-ne tratta dall’album di famigliadell’autore, ma è solo un’ipotesi.

Queste tre piccole fotografie pre-cedono l’introduzione (intitolata«Sul filo») ma soprattutto la primasezione di saggi, tutta giocatasull’incrocio tra testi e immagini, ela seconda, più corposa, intitolata«Barocconella Bassa (tramemoria-listica e shorter notices)».

Il libro è composto, quindi, da ol-tre una ventina di articoli, raggrup-pati in due sezioni, cinque dei qua-li scritti per l’occasione. Anchequelli vecchi (via via apparsi in rivi-ste scientifiche, in cataloghi di mo-stre o in plaquettes fuori commer-cio) sono stati ritoccati e aggiornaticon utili note bibliogafiche.

Nella prima parte del libro Mar-co Tanzi si confronta con il temadell’intreccio tra arte e letteratura:Malosso eMarino ecc., fino allaZe-nobia di don Álvaro, la scopertache dà anche il titolo al volume.

Ho conosciuto personalmente laZenobia. Ricordo che l’incontro èavvenuto in una stagione calda,afosa. Ero stato a Cremonaper esa-minare undipinto creduto di Evari-sto Baschenis, in casa Cavalcabò.Le stanze dell’abitazione che lo cu-stodivano erano piuttosto buie. Auncerto punto, primadi uscire, tut-ti delusi per il presunto Baschenis(che infatti non lo era), sostammodavanti a un quadro scuro e pocoilluminato, appeso molto in alto.Tanzi chiese unpo’ di luce e appar-ve quella che poi si sarebbe scoper-ta essere Settimia Zenobia, secon-da moglie del re di Palmira, ovveroSettimio Odenato. All’epocadell’istantanea identificazione attri-butiva (quasi il tempodi una fucila-ta) era solo un’opera inedita di Ge-novesino. Da quella prima cono-scenza superficiale Tanzi ha deco-dificato il soggetto del dipinto, gra-zie all’inventario dei beni di donÁl-varo de Quiñones, governatore ecastellano di Cremona dal 1639 al1657. L’indagine si sarebbe potutafermare qui, con l’identificazionedel soggetto: un’aggiunta al catalo-go di Genovesino e l’ipotesi chel’opera sia stata commissionatadal nobile spagnolo, particolar-mente appassionato di opere delpittore.

La ricerca è proseguita attraver-so l’inseguimento delle vicendepersonali del deQuiñones, giudica-to all’epoca «un uomo al quale imolti anni di servizio non lasciaro-

no altro che la gran vanità di avereservito molto». Poi l’indagine si èspostata sulla prole femminile delde Quiñones, solo in un’apparentee spassosa divagazione sui riti e leliturgie che fissavano le preceden-ze e l’esibizione degli onori nel Sei-cento spagnolo. Infine l’investiga-zione ha certificato la conoscenzadiretta – oltre che la comune con-suetudine – tra Álvaro de Quiño-nes edonPedroCalderónde laBar-ca, il maggiore scrittore spagnolodel tempo. Ultimo tocco, in un zig-zagare curioso tra fatti artistici e fat-ti letterari, l’ipotesi che il commit-tente abbia suggerito al pittore diispirarsi a un’opera drammaturgi-ca scritta da Calderón de la Barca,intitolata La gran Cenobia, appun-to. «Saremmodunque nel belmez-zo di un cortocircuito tra la Lom-bardia e la Spagna intorno allame-tà del XVII secolo, che coinvolge,sia pure indirettamente, uno deipiù grandi geni della letteraturauniversale, un militare spagnolo distanza a Cremona e il suo pittoreprediletto».

La seconda parte del libro si sno-da intorno al Barocco nella Bassa:dai Procaccini aiNuvolone. Inmez-zo si legge un affondo su GiuseppeCaletti e ancora vari contributi de-dicati al Genovesino, compreso unpezzo nuovo sulle sue celebri e re-plicateVanitas. Domina, sopra tut-ti, il saggio «Casalmaggiore primoamore», scritto originariamentenel 1999.

Così Tanzi identificòGenovesino a Cremonain una casa buia

ARTE LOMBARDA

di LUCA ZULIANI

Pier Vincenzo Mengaldo siconcede ogni tanto un’incursioneal di fuori del suo territorioconsueto, lo studio dello stile edella lingua dei testi letterariitaliani. Nel caso di Duericognizioni in zone di confine,(Monte Università Parma Editore,pp. 76, e10,00) l’oggetto di studioè la critica d’arte, non soloitaliana, e non è la prima volta:questo libretto è infatti unaappendice a un suo testoprecedente, Tra due linguaggi.Arti figurative e critica, uscito nel2005. L’interesse di Mengaldo peri temi trattati in questi saggi nonderiva soltanto dalla sua passioneper la pittura. C’è anche laconvinzione che il momento piùalto della critica d’arte, quello«jakobsonianamente ‘poetico’» siala descrizione dell’opera, ossial’ècfrasis; e Mengaldo ha benpresente che nell’arte più chealtrove – citando RudolfWittkower – «ogni descrizioneimplica giudizi di valore». Lacritica d’arte riproduce, quindi, suun diverso piano, ciò che la buonacritica letteraria dovrebbe fare:non a caso, Giudizi di valore èanche il titolo di un libro di

Mengaldo del 1999, un libro discritti sulla letteratura. Ma c’èdell’altro. Analizzare questo tipodi testi è un modo per far risaltareun principio più generale: «lacritica d’arte, e la critica ingenerale, eredita i procedimentiche caratterizzano ogni letteraturache abbia a combattere conl’ineffabile, quella religiosa inparticolare». Il tentativo direndere tramite parole unabellezza che di parole non è fattaha un fascino particolare per chi,invece, scrive testi che parlano ditesti. Traspare spesso, in questepagine, un’ammirazioneinnanzitutto professionale percome lo stile dei grandi criticid’arte rincorre l’immagine, per ilmodo in cui le parole aggiungonoqualcosa all’immagine, tramite leconoscenze, il gusto e le capacitàletterarie del critico. Questo puòbastare per introdurre il primo deidue saggi che compongono illibretto, La critica d’arte modernae il suo linguaggio; ma per laseconda parte del libro bisognaaggiungere altro: come aveva giàfatto in un libro precedente,Mengaldo dedica un saggio alViatico per cinque secoli di pitturaveneziana, un’opera di RobertoLonghi uscita nel 1946. Il volume

originale si può ancora recuperarein una buona biblioteca: è unlibro di formato un poco piùgrande del normale, occupatoquasi tutto da tavole, quasi tuttein bianco e nero, e da note alletavole, in corpo minore, dicarattere soprattutto storico emateriale; mentre la sezionediscorsiva attraversa cinque secoliin sole trentotto pagine. Il libro ènato in seguito a una mostra dicui è un commento e unampliamento: sembra dunque unvecchio catalogo, uno di queivolumi che si trovano fra i libriusati e costano davvero poco,specialmente se le illustrazionisono in bianco e nero. Com’èinevitabile, molte delleinformazioni sono ormai superatee anche i giudizi critici, netti eostentatamente idiosincratici,sono spesso indeboliti da questelacune. Ma ciò che più importa èche per un lettore odierno lamagnificenza della prosa stridecon il suo contenitore. Sembraesserci, innanzitutto, un tipo di

sprezzatura, la coscientenoncuranza di chi è sicuro checomunque verrà letto, perché lomerita. Mengaldo premette diconsiderare il Viatico «capolavoroassoluto dell’autore»; poi neprende in esame il contenuto,anche obiettando su certi giudizitroppo drastici e alcunecomparazioni troppo ardite; einfine torna alle sue usuali vesti dicritico e ne studia con la consuetamaestria la lingua e lo stile, chesono «sulla soglia del terzo stile diLonghi», quello più sobrio e«sedato», secondo la definizionedi Contini. L’ammirazione perl’autore traspare di continuo e ilViatico è trattato come un’operaletteraria, con minimeinformazioni sulla sua formamateriale e sul suo contesto.Anche questo, a ben vedere, è untipo di sprezzatura: significaessere sicuri che c’è chi capiscebene il senso dell’operazione. Mase si vuole restituire rilievo alcontesto bisogna ricordare cheRoberto Longhi fu non solo uncritico d’arte eccelso, fu molto dipiù. Se da un lato la sua scuola fuessenziale per la critica dell’artedel Novecento, dall’altro il suostile di scrittura, e il suo magisteronel senso più ampio, formaronomolte figure essenziali per lelettere del secolo scorso: una lineache dal futurismo, da «La Voce»,da Emilio Cecchi conduce aGiorgio Bassani, Pier PaoloPasolini e Attilio Bertolucci,oppure a Gianfranco Contini,Cesare Garboli e Luigi Baldacci, ea molti altri. Si può notare che nelculto della sua opera c’èinevitabilmente molto elitarismo,c’è l’aura di un ristretto milieuormai quasi scomparso. Ma comesi fa a non sentirne la mancanza?

MARCO TANZI, «LA ZENOBIA DI DON ÁLVARO», DA OFFICINA LIBRARIA

«DUE RICOGNIZIONI IN ZONA DI CONFINE»

Passioni artistichedi Mengaldo

Luigi Miradori detto il Genovesino,«Cupido che incocca la freccia», part.,1650-’55 ca., collezione privata;in basso, Roberto Longhi

Una raccoltadi saggi centratasull’intrecciotra artee letteratura:Malosso e Marino,fino alla scopertaavventurosadella «Zenobia»...