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1 VERITA’, PENSIERI E PAROLE di Salvatore Runco

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VERITA’, PENSIERI E PAROLE

di Salvatore Runco

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SALVATORE E LA SUA FAMIGLIA.

In breve, desidero raccontare quanto è e sarà sempre presente nel mio cuore e nella mia mente. Dico in breve, perché emozioni, pensieri e ricordi sono talmente tanti e for-ti che mi commuovo ancora, quando mi soffermo a fare un rapido bilancio della mia non lunga e non facile vita. Nel lontano 1964, in un piccolo paese della provincia di Vibo Valentia, chiamato Arzona, vicino a quello, nel quale abito oggi e che entrambi fanno parte del comune di Filandari, sono nato.

In particolare, era il mese di Dicembre, quando venni alla luce e voi pensa-te, come tutti, ma, io vi dico di no. Nascere in casa, come i miei coetanei, tutto sommato, era, forse, meglio, perché nella famiglia si creava magica-mente un clima di grande, toccante e coinvolgente emozione, come se si fosse verificato un miracolo. A differenza di oggi, però, a quei tempi, per chi gli andava male, non c’èra molto da fare. Infatti, venivano seppelliti tanti bambini, che per ragioni diverse morivano assai prematuramente. Era del tutto insolita e commovente la composta curiosità, con cui noi ragazzini le seguivamo, fino alla chiesa, prima e poi, fino al cimitero. Come vi dice-vo, sono nato in una famiglia, povera, ma, con sani principi morali e fon-damentali, che in seguito hanno improntato la mia vita individuale, sociale e lavorativa. Il motto dei genitori, al quale tutti dovevamo rigorosamente attenerci, era: educazione, rispetto delle cose e, soprattutto, delle persone,

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ognuna delle quali ha una sua dignità, a prescindere dalle sue condizioni economiche. La famiglia, nella quale sono nato, educato e cresciuto, era composta da dieci figli, di cui due maschi, morti precocemente. Oggi, sia-mo in otto e nove con la mia Mamma, della quale io vado fiero. Con affetto e struggente nostalgia, ricordo il mio povero Papà, che troppo presto ci la-sciò orfani e non senza gravi difficoltà economiche. Io sono il penultimo degli otto figli ancora in vita e ognuno di noi vive dignitosamente, nono-stante gli immancabili affanni di diversa natura. Come accennavo prima, per quanto riguarda il principio fondamentale della nostra famiglia, mi pia-ce sottolineare la sana educazione ed il rispetto degli altri e delle cose di comune utilità, valori, di cui oggi sentiamo tanto bisogno. I miei genitori erano splendide persone e, come tanti altri, con poca cultura scolastica, ma con tanta umanità e saggezza, frutto di ingegno, esperienza, rinunce e sacrifici. Ogni cosa veniva apprezzata per il giusto valore, senza che niente venisse lasciato a caso o andasse sprecato. Questo modo di vivere, di cui allora, forse solo inconsapevolmente, io feci tesoro, oggi mi rendo conto che era molto importante, anche se, come era naturale, stanchi di tante rinunce, protestavamo ingiustamente. Vista la mi-seria di quei tempi, bisognava essere parchi e vigili su tutto, per andare a-vanti con abiti dismessi, ma, a testa alta. Nella famiglia, ognuno di noi do-veva avere ed aveva un compito ben preciso, perché tutto potesse funziona-re in armonia e in unità, nonostante la disoccupazione, il bisogno e la ma-lattia. Questo modo di pensare e di vivere, che mi è stato inculcato, dalla prima infanzia al momento del servizio militare, mi è stato e mi è molto uti-le. Ancora oggi, in tantissime cose mi sento avvantaggiato, rispetto ad altri, che, forse, hanno avuto una vita meno dura e difficile. Solo in poche situa-zioni non avverto questo vantaggio e, naturalmente, sono quelle, che fini-scono male, anche per le difficoltà, legate alla mancanza della vista. Ritor-nando a noi e precisamente a me, se proprio lo volete sapere, dico subito che io non ero un Angelo e manco un santo. Ero, invece, proprio un bel ti-pino e, quasi, un animaletto non facile da addomesticare e tenere a freno. Questo lo dimostra il fatto che già da bambino, passavo intere giornate a giocare con i miei coetanei e con vari sistemi di gioco, come ad esempio: a biglie, a natale alle nocciole, a nascondino, a guardia e ladri, agli sceriffi e indiani, a costruire piccoli carretti, con il sistema dei cuscinetti in acciaio, recuperati da qualche meccanico, dopo tante preghiere e a volte, anche sen-za queste. Erano incredibilmente veloci e pericolose le gare, che facevamo, lanciando i nostri improvvisati mezzi, lungo la ripida discesa di certe nostre strade. Non erano, perciò, infrequenti incidenti e ferite, che curavamo con sistemi e medicamenti primitivi, ma, spesso, assai efficaci. Altre volte, per mancanza di soldi, si giocava con i bottoni dei vestiti non più indossabili o al piolo con la mazza, “il cosiddetto pizzicu”, attività, che richiedeva e nel-

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lo stesso tempo sviluppava molteplici abilità. Così, quelle attività ludiche, che occupavano gran parte delle mie giornate, si rivelavano indirettamente una utile e importante palestra di formazione psicofisica. La nostra comune miseria, inoltre, si costringeva ad aguzzare l’ingegno ed erano tanti i gio-chi, che facevamo spuntare dal nulla. Non ci mancava certo la creatività e, purtroppo, nemmeno qualche scazzottata. Preso dal gioco o impegnato in qualcuna delle tante risse, alle quali davamo vita anche per futili motivi, dimenticavo o trascuravo qualche servizio, che mi era stato affidato dai miei genitori o dai miei fratelli più grandi. Come per tutti i bambini, anche per me la prima e più importante cosa era il gioco, perché, alla fin fine, ero solo un bambino. A distanza di tanto tempo, ricordo ancora quel piccolo cestino azzurro, con dentro qualcosa da mangiucchiare, che portavo, quan-do iniziai ad andare alla scuola materna, che noi chiamavamo “l’asilo”. “Immaginate quante briosch e quanti buoni dolcetti! E come era bello l’ultimo modello di play station, gelosamente nascosto in un cantuccio di quel vecchio cestino”! ricordo pure le due delle recite di fine anno, per le quali mi scelsero, per fare la parte del principe o del re. Voi mi immaginate certamente con abiti eleganti e con la corona sul capo, come si addìce ad un vero sovrano. Quel principe, invece, portava in testa soltanto un povero cappello di carta colorata. Io, però, ero ugualmente felice. Quando iniziai a frequentare la scuola elementare, all’inizio, tutto mi sembrava bello e inte-ressante, ma, in seguito, mi accorsi che il tempo, per giocare, era poco e in-cominciai a disertare le lezioni e a trascurare i compiti. A questo punto, en-trò in scena Andrea, mio fratello maggiore, che, per disposizione di mio padre, aveva il compito di vigilare su di noi e darci da mangiare al ritorno dalla scuola, escogitò un piano. Quel furbacchione prese alla lettera le paro-le dei nostri genitori e decise che, all’uscita dalla scuola, prima di mangia-re, bisognava fare i compiti e svolgere altri eventuali lavoretti, come: pulire e mettere in ordine la casa, preparare la legna per la stufa, andare a riempire d’acqua brocche e secchi, per bere, lavarsi, cucinare e sciacquare posate e piatti. Bisognava anche prendere e conservare una grande quantità d’acqua per il bagno, da quando mio padre ne installò uno. Tutto questo, perché non c’era l’acqua corrente in casa. E così, grazie a quel “tirannello” di mio fra-tello, più delle volte la giornata passava così, senza avere mai tempo, per giocare e divertirsi. Io e mio fratello Umberto, poco più piccolo di me, e-scogitavamo sempre il modo di svignarcela, per giocare e andare nei campi vicini e abbandonati, in cerca di asparagi, funghi, frutti di stagione. Non vi era, perciò, angolo di terra, che noi non perlustravamo. Che scorpacciate di fichi, more e ciliegie! Come erano gustosi quei frutti, raccolti con tanta fa-tica e abilità! In estate, andavamo a catturare lucertole e a farle lottare fra di loro. Era facile catturarle con un semplice cappio, fatto con un lungo filo d’erba. Quante volte, le staccavamo le code, per poter vederle ricrescere. Non di rado, stanche e sfinite, quelle povere bestioline finivano, per morire.

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Erano affascinanti anche le gare, per catturare qualcuna di quelle belle far-falle colorate, che sembravano fiori volanti. Non meno entusiasmante era la ricerca e la cattura di piccoli uccellini, che ormai pronti al primo volo, si af-facciavano dai buchi delle case, lasciati dai muratori, dopo la costruzione. Unendo le nostre forze e le nostre capacità, riuscimmo ad avere anche noi una primitiva bicicletta, frutto di fantasia e di inventiva paesana e tipica di chi non ha nemmeno il necessario. Non potrò mai dimenticare quel nostro primo veicolo a due ruote, che ci eravamo costruiti in società, utilizzando pezzi, recuperati dai rottàmi di biciclette, che vari amici, meno poveri di noi, ormai avevano abbandonato. A distanza di circa quarant’anni, rim-

piango la semplicità dei nostri bisogni e delle cose e, soprat-tutto, quella libertà gratuita, che oggi non si coglie più, in-torno a noi. Rim-piango quella mera-viglia, con cui guar-davamo tutto ciò, che ci circondava e la genuinità dei rap-porti umani, che oggi a mio avviso manca. Se ancora oggi, ri-cordo tutti i posti, che ho scoperto, e-splorato e rivisitato da solo o in compa-gnia di mio fratello,

mi rammarico, pensando che un bambino del nostro tempo non potrà fare quelle importanti esperienze in tutta la sua vita. Egli potrà conoscere i di-versi modelli di giochi elettronici, ma non avrà mai tutte quelle opportunità educative, di cui la civiltà moderna l’ha privato, forse, per sempre. Come molti altri, io, invece, conoscevo tutti gli angoli, tutti i fossi, tutte le fonti di acqua, tutte le cavèrne della zona e tutte le vie del paesino, anche se non e-rano e non sono troppe. Conoscevo diverse erbe commestibili. Conoscevo, acchiappavo e a volte torturavo animali, che oggi sono forse scomparsi per sempre. Mi aggiravo da solo o in compagnia, attraverso qualche cunicolo sotterraneo, che un tempo doveva essere molto importante, perché favoriva gli spostamenti da un capo all’altro del paese, senza essere visti da occhi indiscreti. Costituiva, inoltre, sicure e insospettate vie di fuga, in caso di pericoli. Penso, ad esempio, ai frequenti attacchi dei Saraceni, che terroriz-

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zavano, uccidevano e catturavano, soprattutto, donne e bambini. Questo paesino, che in origine era un piccolo villaggio, fu successivamente inglo-bato come casale dalla potente Mesiano. Non dobbiamo dimenticare che esso diede i natali al grande Giulio Iasolino, uno dei più famosi dottori del sud Italia, vissuto nel sedicesimo secolo e di cui oggi dobbiamo essere fieri. A questo importante scienziato è stato giustamente dedicato l’ospedale di Vibo Valentia, che, purtroppo, non eccelle per buona sanità. “Giulio Iasoli-no (1538-1622)", medico, filosofo ed anatomista all'Università di Napoli, fu uno dei più famosi figli di questa nostra tormentata terra di Calabria. Che Iasolino nacque ad Arzona, si desume proprio dal testamento, lasciato da lui e nel quale si può leggere a chiare lettere il nome del posto della sua nascita. In Arzona esistevano belle cose, architettonicamente importanti, ora distrutte, alcune dai vari terremoti ed altri dall’uomo, per la grande mi-seria e, soprattutto, per l’incultura del tempo e la mancanza di rispetto per le cose comuni. Dai documenti storici, possiamo, tuttavia, sapere che in Arzona esistevano: un grande convento, dedicato a Santa Chiara, ormai scomparso totalmente; una bellissima chiesa, che si ergeva al centro del vecchio paese e che era coronata da case allora nobiliari. In base ai ricordi degli anziani, che l’hanno frequentato e che in essa hanno pregato, questa chiesa pare che fosse di una maestosità unica. Tra i decori, non mancavano

stucchi e capitelli, che le conferivano un’apprez-zata bellezza. Questo raro splendore del nostro pae-sino era dedicato a San Nicola, patrono e protet-tore di Arzona e della stessa diocesi. Questa rara bellezza, ormai pericolan-te negli anni cinquanta per il generale disinteres-se fu demolita, distrug-gendo per sempre un pre-zioso patrimonio architet-tonico locale. In seguito, nei pressi di essa, ne fu costruita un’altra, in ce-mento armato e sempre dedicata a San Nicola.

Esiste per fortuna un’altra chiesa, posta sul punto più alto del paese. Le sue origini risalgono ai primi anni del 1900 e in base ai documenti storici, in quel luogo pare ci fossero tracce di una chiesa precedente. Intorno a questa chiesa, che è dedicata a Maria Santissima della Misericordia, si ricordano

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tanti fatti strani, successi prima e durante la realizzazione della chiesa. E di una ve ne parlerò, successivamente nell’angolo dei racconti di questo li-bretto. Ma in conclusione, dopo aver frequentato varie scuole, ho intrapre-so il mondo del lavoro con delle piccole imprese edili, per sostenere le po-che spese personali e dare un contributo al miglioramento delle condizioni economiche della famiglia. Mi dedicai al lavoro, senza risparmiare energie psicofisiche, perché desideravo ardentemente acquistare una piena autono-mia economica, appagare i miei bisogni e cominciare a progettare il mio fu-turo di uomo e di cittadino. Arrivò presto il momento di prendere una deci-sione importante: sposarmi o lasciare che la vita continuasse a scorrere, senza una ragionevole progettualità. Nel mese di Dicembre del 1987, mi accingevo a prendere come mia moglie, la Francesca, persona dalle molte-plici virtù, rare al giorno d’oggi. Insieme a lei e, soprattutto, con il suo aiu-to, abbiamo trascorso in questo piccolo paesino altri 15 anni, lavorando di qua e di la, per poter costruire una nostra vita. La sorte, però, se così vo-gliamo dire, mi premiò, perché incominciai a vedere sempre di meno fui costretto a cambiare totalmente le nostre prospettive di vita. La diagnosi, che si preannunciava, non fu delle migliori. Così, superati i primi momenti di sbandamento, di sfiducia e di comprensibili tensioni, mi iscrissi a malin-cuore ad un corso per centralinisti non vedenti, che si sarebbe tenuto a Ca-tanzaro. Con la speranza che un giorno, da cieco potessi, comunque, lavo-rare e prendermi cura della mia casa e, soprattutto, della mia Francesca. Durante la frequenza del corso, incontrai delle persone, che, intuendo e comprendendo le mie difficoltà personali, seppero essermi vicine e di gran-de sostegno morale. Conseguito il diploma, passò qualche anno, prima che il mio nuovo sogno si avverasse. In questo periodo di incertezza e di spa-smodica attesa, non mancarono momenti di sfiducia, di umiliazione e di di-sperazione, che riuscii a superare anche e soprattutto con l’aiuto di mia moglie. Anche se, grazie alla mia tenacia, ho pienamente raggiunto il mio obiettivo principale e non mancano soddisfazioni personali e rivincite so-ciali. E fu questo il motivo principale che mi spinse con l’aiuto della mia Francesca, a prendere una decisione importante. Quella di acquistare un lotto di terreno nel paese vicino al nostro, affinchè avessi più possibilità, ri-guardo ai collegamenti dei pullman sulla tratta di strada che mi separava da Vibo Valentia. Per potermi muovere in piena autonomia da solo o magari con l’aiuto di qualche collega di lavoro. E così ci fu data la possibilità di acquistare un piccolo lotto, a Mesiano. Ma nel febbraio del 2002 incomin-ciammo a concentrare le nostre forze alla costruzione di una nuova casa, per prima cosa vendettimo un pezzo di terreno in Arzona, ereditato dai miei genitori. Ebbe inizio così la costruzione della nuova casa, quando ormai e-ravamo quasi a metà dell’opera, vendemmo pure la casa dove avevamo tra-scorso i nostri primi quindici anni di matrimonio, anche questa ereditata dai suoceri, per poter completare la nuova. Ultimati i lavori alla meno peggio,

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nel settembre del 2002, ci trasferimmo in questo nuovo paesino, si nuovo ma solo come residenza, perché come altro noi lo frequentavamo già da molti anni. E vista la vicinanza tra i due paesi, e l’assidua frequenza d’entrambi per motivi famigliari, non sentiamo la mancanza del luogo dove abitavamo prima. Ma sono già dieci anni che siamo incastonati, in questo nuovo e bellissimo borgo, senza togliere niente al precedente, quindi sento che l’istinto mi spinge un giorno dopo l’altro, come una morsa, ad esprime-re un mio pensiero, su questo paese. Partendo dalle sue origini e il suo cul-to, anche se in modo sommario. Perché vista la breve distanza dal mio pae-se d’origine, per il suo nome e la località, io ne sono particolarmente lega-to. E qui appresso vi citerò per quale motivo. Infatti, come altri centri, poco noti o storicamente importanti, anche Mesiano affonda le proprie origini nel mito e nella leggenda. Solo, conoscendo e squarciando il velo mitico, che l’avvolge, è possibile risalire alla nascita e allo sviluppo politico, eco-nomico e culturale di questo ridente paesino del vibonese. Offuscato e, quasi, soffocato dalla vicina e più potente Ipponion, Mesiano è rimasta al-lungo ignorato. Successivamente, però, ha saputo organizzarsi meglio ed è riuscito ad assorbire e a sottomettere i tanti “casali”, cioè, i villaggi dei din-torni, trasformandosi da piccolo e sconosciuto borgo agricolo in un centro culturalmente importante e apprezzato da molti. Questa sua progressiva crescita fu certamente favorita dalla posizione geografica, dalla laboriosità dei cittadini, dalla fiorente agricoltura e dall’allevamento di animali. Sim-bolo e baluardo della sua grandezza fu l’antico e maestoso castello, che, er-gendosi su di un’altura, controllava e dominava l’intera valle.

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La vallata, che lo circondava, era formata da alcuni rilievi, che, digradando dolcemente verso i campi, offrivano uno spettacolo vario e suggestivo: cul-ture di diverso tipo, alberi altissimi, grotte misteriose e sorgenti di acqua fresca. Era bello trascorrere gran parte delle nostre giornate in quei posti, rallegrati dal canto di uccelli di specie e colori diversi. Per la natura dell’ambiente, non mancava nemmeno il fascino della scoperta, anche se spesso correvamo il rischio di perderci in quegli antri, in cui si annidavano vipere ed animali pericolosi. Non è difficile, perciò, immaginare che muo-vendosi in quei luoghi, si aveva l’impressione di trovarsi nella biblica valle dell’Eden. Il viandante, che per caso si fosse trovato a passare da quelle parti, conquistato da tanta bellezza naturale, certamente non si sarebbe an-noiato. “Come vi citavo prima riguardo al mio legàme, a questo luogo e al nome del paese”. Quante volte, quando ero bambino, mi aggiravo da solo o con mio fratello in quei posti, in cerca di frutti, funghi o asparaci, poco at-tento e cercando invano i tesori, di cui sentivo sempre parlare, da mio non-no che possedeva un piccolo podère, in quella vallata, o da i miei stessi ge-nitori, che hanno trascorso quasi l’intera vita, “nta fossa di Mesianu”, (pro-prio di questa cosiddetta fossa più avanti, nell’angolo dei racconti, vi parle-rò di altre due storie, che riguardano proprio mio Padre e mio nonno).

E loro stessi mi raccontavano che i vecchi del loro tempo sempre dicevano che esisteva un castello ormai scomparso da parecchi secoli, che ergendosi maestosamente al centro delle tante case, rappresentava potenza e dominio, e attraverso i documenti storici, possiamo dire oggi, che era dedicato al cul-to di Cibele, dea degli animali e dell’agricoltura. Cibele era il nome di una dea della Frigia, in Asia Minore, spesso identificata con Rea dai greci e con Opi dai romani. Sposa del Titano Crono e madre degli dei dell'Olimpo, Ci-bele era una divinità della natura e della fertilità, venerata come grande madre degli dei. Poiché tutelava le montagne e le fortezze, Cibele era raffi-gurata con una corona che aveva la forma delle mura di una città e presso i romani era nota anche come Mater turrita. Al culto di Cibele erano preposti sacerdoti eunuchi, chiamati Coribanti, che guidavano i fedeli in riti orgia-stici, accompagnati da urla selvagge e da una frenetica musica di flauti, tamburi e cembali. Fra le tante cose, raccontate, intorno al tempio della dea Cibele, assume una particolare importanza simbolica la statua, che, posta sulla porta, raffigurava un leone mostruoso. La scritta “Pnleontos”, posta sotto la fiera, indicava che tutto doveva essere controllato dal leone, simbo-lo di potenza e terrore. Il re della foresta, presente nello stemma dell’antica Mesiano, compare significativamente insieme ad un guerriero alato e arma-to, che sembra voler lottare con esso. Non meno terrificante di quelle rap-presentazioni era la leggenda, riferita da Parroco e secondo la quale, il tem-pietto interno con l’annesso tesoro della dea era costruito con calce, impa-stata con sangue dei nemici uccisi. Questa credenza, furbescamente ideata e

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debitamente diffusa, mirava a scoraggiare ipotetici profanatori di immagini sacre e ladri, desiderosi di mettere le mani sul tesoro della dea e impadro-nirsene, migliorando per sempre le proprie condizioni di vita. In seguito, probabilmente, per liberare il luogo dalla terribile maledizione, il tempio fu distrutto e, comunque, lasciato in un totale abbandono. Anche per questo, ancora oggi, risulta difficile stabilire la sua esatta ubicazione, funzione e struttura interna.

Intorno alla grotta di Santa Rosalìa, esisteva un’altra leggenda, meno terri-ficante dell’altra. Il nonno, al quale io ero molto legato, raccontava sempre che, quando egli era bambino gli anziani del posto parlavano con insistenza di un tesoro, ancora nascosto nel tempio della dea Cibele e che si sarebbe potuto conquistare, senza spargimento di sangue. Sotto forma di filastrocca, vecchi e giovani, donne e bambini non perdevano occasione, per raccontare che era possibile impadronirsi di quell’incalcolabile tesoro, se si dava prova di una particolare abilità. Poteva, infatti, mettere le mani su quella ricchez-za, chi, cavalcando un cavallo, senza sella e senza briglia e tenendo in ma-no un melograno, doveva compiere l’intero percorso obbligato, intorno alla grotta di Santa Rosalìa. Nello stesso tempo, doveva riuscire a mangiare tut-to il frutto, senza far cadere nessun chicco. Secondo il racconto del nonno, nessuno sarebbe riuscito ancora in quella difficilissima impresa ed il tesoro continua ad aspettare la persona, dotata di quelle straordinarie capacità. Per quanto riguarda il melograno, non bisogna dimenticare che, secondo la rappresentazione classica, la dea Cibele tiene in una mano il prezioso frutto e sembra mostrarlo ai popoli, come la cosa più preziosa del mondo. Io non so quanto ci fosse di vero in quel racconto e in quella credenza, ma, il non-no, che, come quasi tutti i suoi contemporanei, ignorava le tradizioni reli-giose dei diversi popoli e i culti delle divinità, sembrava crederci ancora. Ed io, che trascorrevo gran parte del mio tempo, insieme al nonno, al quale volevo molto bene, ci credevo più di lui e, spesso, di notte, sognavo di ci-mentarmi in quella difficilissima impresa. Al tempio o alla sua area, doveva appartenere anche la famosa grotta di Santa Rosalìa, di cui mi parlava spes-so il nonno, il quale, ovviamente, riferiva quanto aveva ascoltato da bambi-no. Ricordo anche che con insistenza ossessiva, mi diceva che fra il castello e la grotta vi era un collegamento sotterraneo, il quale sfociava nei pressi di Briatico, dove esisteva un altro castello, oggi, scomparso. Il nonno, come altri, viveva in condizioni di grande precarietà e, per mantenere decorosa-mente la propria famiglia, zappava dalla mattina alla sera ai piedi dell’altura, su cui un tempo si ergeva minacciosamente l’antico maniero, mi diceva: “Se dall’alto del castello, tu guardi verso (a timpa a luna), vedi sorgere il sole, sempre da quella parte. La stessa cosa, egli diceva, “vale anche per la luna in certi periodi dell’anno”. Non mancava, ovviamente, di farmi notare che proprio da quella parte si trovava la grotta di Santa Rosa-

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lìa, facendomi intendere che quanto si vedeva da quella posizione, fosse un “miracolo” e non un particolare fenomeno naturale. Quanto egli, privo di qualsiasi cultura storica, raccontava, circa condotti, misteriosi e inesplorati, viene puntualmente confermato dall’esistenza di lunghi e, spesso, contorti camminamenti sotterranei, che uniscono ancora molti castelli, fortunata-mente restaurati e destinati ad altre funzioni. Ricordando con struggente nostalgia quanto, incantato, ascoltavo da bambino, oggi mi rendo conto che il nonno ignorava l’esistenza di altri castelli e le finalità di cunicoli sotter-ranei e di grotte, scavate, come dice la tradizione qui riportata di seguito.

“Santuari imponenti le venivano dedicati in posti inaccessibili, ricavandoli nelle pareti a picco mille metri sul mare. Il suo misterioso culto ctonio era praticato nelle fenditure della montagna, entro nicchie e gallerie. Talora l’apertura era un lontano punto visibile su un dirupo, tal altra corrispondeva al punto più alto di un’acropoli: era l’ingresso a tunnels scavati interamente nella roccia con gradinate discendenti nelle viscere della montagna, ad an-damento elicoidale e senza sbocco.

Ieratica in trono, Cibele riceve gli omaggi delle processioni che avanzano al ritmo frenetico di timpani, cembali, flauti e tamburi”, (e qui possiamo di-re che per quanto ci riguarda a noi della regione Calabria ancora oggi questi ed altri strumenti come la lira vengono usati quotidianamente nelle feste popolari). “E porta sul capo un ornamento cilindrico, di solito a forma turri-ta; e coperta da un velo o da un mantello, regge uno specchio nella mano e, sette volte su dieci, possiede una melagrana. Come Demetra, impugna le spighe d’orzo la cui Claviceps purpurea forniva la bevanda allucinogena. Il leone è il veicolo di Cibele ed immancabilmente lo troviamo ai suoi pie-di. Anche nei bassorilievi della corrispondente dea ittita (Kubaba) compare un leone ai piedi del trono. Non solo in Anatolia: nel 1200 a.C. l’iconografia di una donna nuda in equilibrio sulla schiena del leone era presente in una vasta area del bacino mediterraneo orientale che interessava Assiri (Ishtar), Fenici (Astarte) ed Egiziani (Quadesh). La criniera del leone e le sue fauci spalancate sono l’emblema del pube femminile. Solo più tar-di, quando le società patriarcali hanno sviluppato concezioni misogine, nel pelo leonino è stata proiettata l’immagine raggiata della corona solare. Non deve stupirci la banalità dell’attribuzione sessuale, l’idea dell’antro genitale femminile è insita nel nome stesso di Cibele, che significa grotta”. In conclusione, va sottolineato che il culto di Cibele, considerata e adorata a Roma e in altre località del nostro paese, come la “Magna Mater”, sottin-tende forme diverse di matriarcato, diffuse in Italia e in molte altre regioni del mediterraneo. Infatti, originaria dell’Asia minore, questa divinità fu in seguito assimilata dai Frigi e dai Greci, i quali provvidero a costruire son-tuosi templi e a instaurare particolari riti in suo onore. Furono, così, elabo-

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rate e diffuse numerose cerimonie iniziatiche, simili per molti aspetti ai riti, praticati in onore di Dioniso. La vera peculiarità di questo culto, però, con-siste nella sua diffusione a Roma, dove fu accolto, tollerato e praticato per ovvie ragioni e finalità utilitaristiche. Altra cosa, che possiamo dire, è quella delle feste, che venivano fatte nella stagione dell’equinozio d’estate in onore della dea. Successivamente, questi festeggiamenti coincidevano con la festività di San Giovanni, che veniva celebrata ciclicamente il 24 giugno di ogni anno. In fine, possiamo dire con documenti storici che nei pressi del castello di Mesiano esisteva un mona-stero, che era chiamato la fortezza di San Giovanni. A mio avviso, questa festività andò avanti, fino al nostro secolo con la fiera del (pioppo) o dei (pioppi), che solitamente si faceva il 21 e 22 giugno, e come tutte le fiere che solitamente nei secoli passati, venivano fatte uno o due giorni prima della festività locale. Della fiera dei pioppi si parla ancora oggi, perché la sua importanza era nota in tutto il meridione e, quindi, anche a Mesiano. Questa piccola cittadina, un tempo, importante centro universitario, era molto ambita e cercata da vari duchi, conti e castellane per la ricchezza del-le acque e la frescura, di cui si poteva godere d’estate. Questo importante riconoscimento di carattere culturale e ambientale si spiega con la sua tra-sformazione a feudo e produttore di grosse quantità di frumento e legumi. Non meno significativa era la sua straordinaria capacità di allevare e vende-re animali di diversa taglia. Basti pensare che per queste e altre peculiarità Mesiano divenne un centro importante quasi come Rosarno, potente feudo della Calabria. Uno dei principali fattori di questa grandezza fu certamente la sua invidiabile posizione geografica. Situata, infatti, in un crocivìa fra Ipponion, Nicotera, Tropèa e Briatico, fu molto ambita, anche per le oppor-tunità di carattere commerciale. In seguito al terremoto del 1783, i soprav-vissuti si stabilirono a poca distanza dall’antica e ormai distrutta città di Mesiano, ben conoscendo la ricchezza della terra e l’abbondanza dei secoli passati. Nacque, così, un nuovo, piccolo villaggio di poche case, che fu chiamato “Pioppi”, probabilmente per la presenza di numerosi pioppi, co-me testimoniano le vecchie cartografie ed il ricordo delle persone più an-ziane. Negli anni, successivi al terremoto del 1783, l’espansione e lo svi-luppo del piccolo villaggio fu lenta e faticosa. A partire dal 1960, invece, Pioppi cominciò ad ingrandirsi sempre di più e prese il nome dell’antica e scomparsa Mesiano. Nel corso degli ultimi decenni, in seguito ad un vivace e, a volte, caotico fenomeno di urbanizzazione e di ricostruzione, che, co-munque, ha favorito un evidente sviluppo economico, questo piccolo borgo si è gradualmente trasformato in una ridente e accogliente cittadina, che non ha nulla da invidiare ai centri più importanti della zona. L’ottima posi-zione geografica, la fertilità dei terreni agricoli e l’avvio di un processo di industrializzazione hanno migliorato le condizioni di vita individuale e so-ciale. Per l’innegabile progresso dei singoli e della collettività, si ha

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l’impressione che questo piccolo centro voglia riappropriarsi dei vecchi “Casali”, divenendo sempre più importante, come se per una legge di natu-ra si dovesse ritornare alle proprie origini. Infatti, per certe strane coinci-denze, sembra che si avvèri il vecchio detto: “Noi aspetteremo che questo si verifichi”. Che Mesiano sia un bel paesino, dove si può vivere e lavorare in piena tranquillità, lo dimostra il fatto che dopo che decidemmo di trasfe-rirci, dal paese dove abitavamo dopo il nostro matrimonio, pur potendo si-stemarsi in altre località vicine, io e mia moglie abbiamo deciso di trasfe-rirci in questo accogliente centro e per quel sottile filo che mi lega. Io, no-nostante le mie difficoltà visive, mi sono inserito facilmente nell’ambiente

fisico e nel tessuto sociale. Cercate di immaginare un uomo non vedente, ben messo e alto un metro e novantaquattro cen-timetri, con tratti so-matici normanni, che, contrariamente a quanto fece il conte Ruggero Altavilla, che si impadronì di Mesiano con la forza delle armi, vive e si muove tranquilla-mente fra le persone, di cui apprezza la non comune disponibilità al dialogo e alla soli-darietà. Così, a diffe-renza del famoso normanno, senza im-pugnare armi, ho conquistato questa meravigliosa cittadi-

na, che dal canto suo mi ha stregato. Quando per motivi diversi non mi reco sul posto di lavoro, faccio lunghe e salutari passeggiate, che, mentre man-tengono il corpo in esercizio, sollevano lo spirito e mi consentono di co-gliere ed apprezzare aspetti, suoni e odori, che abitualmente non riesco ad avvertire per la fretta, con cui cerco di arrivare in orario nell’ambiente di lavoro. Sono, perciò, in grado di affermare che il paesino ha case belle ed accoglienti, strade lunghe, ampie, prive di ostacoli particolari e di facile ac-cesso. Di conseguenza, anche una persona non vedente, come me, può, se

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lo desidera, imparare a muoversi autonomamente, quasi come qualsiasi al-tro cittadino. Non manca il verde e vi è qualche piccola e grande impresa, anche se per lo più le persone lavorano in strutture pubbliche, nei campi e in esercizi, botteghe ed officine. Il traffico è, purtroppo, molto intenso, per-ché il paese è attraversato dalla strada principale, che collega la città di Vi-bo Valentia con Tropèa, importante e frequentato centro turistico del Tirre-no meridionale. D’estate, il traffico diventa ancora più intenso per l’arrivo dei turisti e degli emigrati, i quali spesso ostentano benessere e successo, scorrazzando qua e là con vetture di alta cilindrata. Non mancano, purtrop-po, nemmeno giovani, che, per attirare l’attenzione di qualche ragazza, non disdegnano di fare esibizionistici esercizi di bravura con rombanti motoci-clette, compromettendo momentaneamente la quiete pubblica e rischiando

di provocare inci-denti e danno ad altri e a se stessi. Chi, pe-rò, come spesso fac-cio io, si alza presto ed esce di casa all’alba, può ascolta-re e apprezzare l’allegro cinguettìo di vari uccelli, nascosti fra i rami di alberi maestosi, presenti nei giardini dei miei vi-cini. Percorrendo la carreggiata di destra o di sinistra, incontri sempre persone, che ti salutano con la spontaneità e l’affabilità di amici. Questa semplicità di

rapporti umani rafforza quel senso di fiducia, che non ti fa sentire solo, nemmeno in un ambiente del tutto nuovo e sconosciuto. Camminando per le vie del paese, ti senti salutare e chiamare per nome dai passanti e, soprat-tutto, dai titolari delle varie attività lavorative, presenti, lungo la strada. Nello stesso tempo, puoi sentire: la pialla del falegname, i rumori del mec-canico, del gommista e del carrozziere, magari qualche macchina, in fase di revisione, o il richiamo di venditori ambulanti e il chiacchiericcio di donne e uomini, che, seduti al fresco, trascorrono così il loro tempo libero o aspet-tano il momento della cena. Non è difficile trovarsi improvvisamente im-merso in un gradevole profumo di fiori o fra le voci e i suoni del negozio

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agrario, dove c’è sempre qualcuno, disposto e capace di darti suggerimenti utili, circa l’acquisto e la cura di piantine, con cui abbellire le nostre case o i nostri giardini. Trovandoti in quel piazzale, dove si fermano le macchine, per fare rifornimento di carburante, puoi sempre incontrare un amico o qualcuno, che ti saluta e ti stringe la mano, anche se non ti conosce. Il ge-store di un alimentare, intento a servire i clienti, trova sempre il modo di salutarti e incoraggiarti, se si accorge che sei preoccupato o triste, parlando con un filo di voce, come se temesse di disturbare. Entrare in un bar o in una pasticceria, significa immergersi immediatamente in una molteplicità di gradevoli e stuzzichevoli odori e poter gustare sempre qualcosa di buono o incontrare amici. Gustare da soli o in compagnia e senza fretta un dolce, un caffè o un cappuccino, significa sentirsi meglio e pronti ad affrontare una nuova giornata di lavoro. Non bisogna dimenticare o sottovalutare il buon profumo di pane, appena sfornato, che da solo ti fa apprezzare la vita, anche quando è punteggiata da preoccupazioni e dolori. La grazia e la sim-patia delle commesse, sorridenti e pronte a servire con benevolenza anche i clienti di passaggio, con poco ti fanno sentire che non sei solo. Una buona pizza, mangiata con calma insieme ai famigliari o agli amici, mentre soddi-sfa il bisogno di cibo, ti crea facilmente un senso di benessere e di allegria. Trovatevi a camminare nei pressi del brico o della cartoleria, magari fatevi assicurare, o chiedete un nuovo taglio di capelli dalla parrucchiera, per co-noscere in pochi minuti qualcuno, con cui chiacchierare o fare quattro pas-si, come vecchi amici, ritrovatisi, dopo una lunga lontananza. Se vi rivolge-te ai nostri bancari, potete apprezzare competenza e squisita gentilezza, non molto frequenti altrove. Se vi avvicinate alla casetta della giornalaia, vi tro-vate di fronte una donna dalle molteplici risorse e pronta a pronunciare sen-sate parole di amicizia e di incoraggiamento, come se vi conoscesse da sempre. Trovate pure il dentista, se mangiate troppi dolci o il consulente, se avete molto da dichiarare. Non mancano, in fine, nemmeno i detersivi, per chi volesse accontentare la moglie, lavando i piatti e posate. Non vi hanno mai detto, forse che in questo paese possono sostituire le memorie del vo-stro cervello o ricaricarvi il telefonino con una gentilezza unica? E, se, come me, fate la “pazzia” di sposarvi, trovate le bomboniere e anche l’abito, senza essere costretti a percorrere lunghe distanze, sprecando il vo-stro tempo o rischiando un esaurimento nervoso, imbottigliati in intermina-bili ingorghi. Se è proprio necessario, almeno pagate il bollo della vostra macchina qui. Se, volete star meglio ed essere anche più belli, fatevi mas-saggiare, aggraziando le vostre forme e tonificando i vostri muscoli. Passa-re dal tipografo, vi assicuro, significa conoscere e sperimentare un caratte-re, valido per ogni cliente. Che ne dite dell’icona di voi stessi! E, forse, meno gratificante poter trovare immediatamente anche dei buoni pezzi di ricambio? Sempre accoglienti sono i magazzini edili, che forniscono dalla a alla z, per ricostruire la nostra Mesiano. In questo nostro paese, non fac-

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ciamo grandi porte blindate, per chiuderci, ma, solo le aperture delle nostre case. Non dimentichiamo i nostri avvocati, architetti, e ingegneri, che ci mettono sempre in riga e in linea. Se non vi siete mai seduti all’ombra dei nostri pioppi nella villa, per gustare un ritemprante gelato o fumare un buon sigaro, acquistato al nostro tabacchino, avete perso preziosi momenti del vostro tempo. Se, inoltre, avete fatto una lunga passeggiata, magari, mentre state a pensare nella vostra mente quanto poteva essere bello in passato questo luogo con tutti i maestosi pioppi, che si ergevano, lungo i bordi della strada, ad un tratto, vi accorgete di vivere un incredibile momento, in cui il vecchio e il nuovo magicamente si fondono. Immersi in meditazioni pro-fonde o presi da preoccupazioni di diversa natura, potete sentire in lonta-nanza arrivare un bel gregge di pecore, che con il loro belare ti fanno calare nella riposante atmosfèra della nostra e vostra Mesiano. Così, senza esser-velo proposto, vi accorgerete di vivere e muovervi in uno dei tanti borghi medioevali, dove ogni cosa è a portata di mano. Tutto ciò viene palpato e goduto da uno come me, che cerca di vivere que-sta stupenda realtà, grazie a tutti coloro, che mi circondano quotidianamen-te e mi danno molto, senza nulla chiedere. Penso che anche per ognuno di voi, che avesse l’intenzione di venire ad a-bitare qui con noi, senza dimenticare o disdegnare il suo paese natale. Op-pure fermarsi, solo per una sua esigenza, si troverà molto bene, parola mia. Dobbiamo riportare la nostra Mesiano agli antichi splendori, ma con l’aiuto e la presenza di gente nuova, che si voglia integrare con noi, come d'altron-de ho fatto io, per contribuire all’evoluzione crescente della nostra cittadi-na. E, quando pensate che la speranza è l’ultima a morire, come si usa dire, al-lora, fate come me: lasciate da parte la cosa, che vi turba di più e accostate-vi alla nostra chiesa, unica nel suo genere ed entrando dentro con assoluta fiducia e speranza, mentre sarete colpiti dalla sua bellezza architettonica e pittorica, contemplando quel Gesù risorto, proverete un vivificante senso di pace e di serenità, di cui ognuno di noi ha bisogno, per sentirsi in armonia con se stessi e con gli altri. Prostrandosi ai suoi piedi per ADORARLO con sincera umiltà e deponen-do fra le sue mani tutte le afflizioni, le contraddizioni e le opere buone del giorno. Diversa dalla venerazione, riservata ai Santi e alla Vergine, l’adorazione, dovuta esclusivamente alla Divinità, consiste in tre momenti, inscindibilmente legati fra loro: preghiera, contemplazione e meditazione. Con la preghiera si magnifica la bontà e la maestosità del Signore, si rin-grazia di quanto si ha e si chiede ciò, di cui manchiamo e di cui abbiamo bisogno. Il Credente autentico chiede per sé e per gli altri anche la forza di sopportare il peso ed il disagio della malattia, della miseria, della privazio-ne, delle ingiustizie subite e delle proprie debolezze, per portare con sereni-tà la propria croce, senza lamentarsi e piangersi addosso.

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Il cristiano, che vive interiormente e desidera testimoniare il messaggio e-vangelico in termini di esperienza personale e comunitaria, deve, infatti, cercare di essere di esempio per gli altri e seguire le orme del Nazzareno. La contemplazione pone la persona in una condizione del tutto particolare e privilegiata, in quanto in quel momento non domanda nulla né per sé, né per gli altri, ma stabilisce con Gesù un rapporto di vicinanza fraterna e fi-liale. Contemplare il Santissimo in una situazione ambientale e spirituale favore-vole, significa anche raggiungere un alto livello di intimo raccoglimento, che può sfociare nell’estasi, conosciuta e vissuta da molte delle più nobili figure della cristianità. Non meno importante, soprattutto, per il religioso è il momento della meditazione sul mistero dell’incarnazione, sulla missione, sulla passione, sulla crocifissione e sulla resurrezione di Gesù, che, rinun-ciando al potere, alla ricchezza, alla gloria terrena e accettando consape-volmente il sacrificio della propria vita, ci ha offerto un modello, al quale ognuno di noi dovrebbe cercare di ispirare comportamenti e obiettivi indi-viduali, sociali e comunitari, per non sprecare il talento, di cui è stato dota-to. Meditando correttamente e frequentemente su questi e su altri temi, im-pariamo anche a comprendere, approfondire, vivificare e trasformare la no-stra fede in Verità, che spesso accettiamo, professiamo ed trasmettiamo, senza la necessaria consapevolezza. Impariamo, inoltre, a cogliere meglio il senso del nostro ruolo nella società ed il valore della scelta di vita civile, re-ligiosa e comunitaria. Ci abituiamo anche a educare la nostra mente, a con-trollare più agevolmente certi nostri impulsi e a frenare la nostra immagi-nazione, che a volte vaga pericolosamente, anche senza il nostro desiderio ed il nostro proponimento, inducendoci spesso in gravi ed involontari erro-

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ri. Se vissuti con pienezza interiore e non solo esteriormente e con malcela-te forme di pericoloso esibizionismo, questi momenti possono favorire un vero e proprio rapimento mistico, durante il quale il fedele dimentica e tra-scende, senza accorgersene, le proprie miserie e la propria individualità, supera i limiti spazio-temporali e si annulla, per ritrovarsi autenticamente in comunione con il divino Redentore. Questa esperienza, se voluta, cercata e vissuta con spirito di umiltà, consente anche di conoscere meglio se stessi, comprendere ed arricchire la qualità del proprio rapporto con il Creatore e con i fratelli, ai quali troppo spesso si dedica scarsa attenzione. Così, senza proporvelo, vi accorgerete presto che non vorrete lasciare più questo paese, perché Mesiano ha conquistato anche voi.

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L’angolo dei Racconti. Oh!... Finalmente. Adesso puoi respirare. Si, perché, siamo arrivati nell’angolo. Ma nell’angolo dei racconti. Adesso puoi assaporare qualche testo tratto da al-tri libri. Potrai gustare altre verità, scritte da me, che furo-no vissute dai miei famigliari. E se vuoi potrai immergerti nell’incredibile e conoscere la vera storia sulla Chiesa di Arzona, quella dedicata a Maria Santissima della Miseri-cordia, raccontata e tramandata, nella sua interezza, dai nostri avi. Allora leggerai il racconto di mio fratello. Que-ste poche pagine, spero, ti facciano riflettere e valutare il fatto che per ognuno di noi, nell’arco della vita, può suc-cedere che venga immerso in storie che hanno del miste-rioso, senza che tu lo voglia. E tu, inconsapevolmente, ti trovi dentro senza accorgerti di niente.

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LA STORIELLA DI DON SALVATORE Mi piace ricordare una storiella, semplice, ma, molto significativa, che so-leva raccontare sempre don Salvatore, per aiutarci a capire con esempi con-creti quanto, a volte, non riusciva a farci intendere diversamente, quanto cercava di dire. In un tempo non molto lontano, nella foresta amazzonica accadde che un giorno accidentalmente incominciò a bruciare ogni cosa. Le fiamme, alimentate dal vento, crepitavano e diventavano sempre più alte, il calore ed il fumo erano insopportabili e dappertutto, si udivano gridi di do-lore e di paura. Terrorizzati da quell’insolito e infernale spettacolo, tutti gli animali cominciarono a correre disordinatamente, verso il deserto, dove credevano ingenuamente di stare al riparo dalle fiamme e da ogni altro pe-ricolo. All’improvviso, però, guardando quanto accadeva intorno, ogni a-nimale intuì il grave pericolo, cui erano esposti tutti. Non ci volle molto, in-fatti, a capire che, senza gli alberi, i fiori e la vegetazione, che offriva om-bra, fresco e nascondigli ad ognuno, era l’irreparabile e definitiva fine per tutti. Nessuno, però, sapeva cosa fare e immobili continuavano a stare a guardare quell’orrendo rogo dal deserto, dove si erano rifugiati e si ritene-vano al sicuro, tutto ad un tratto, si alzò in volo un piccolo colibrì e comin-ciò a volare, verso il fiume, suscitando il riso negli altri animali, che prese-ro a deriderlo. Il piccolo uccellino coraggioso immerse nell’acqua il suo becco, riempì la bocca e si precipitò, verso la foresta in fiamme. Vai una volta e vai una seconda e vai una terza, andava avanti e indietro, senza so-sta, tentando di spegnere l’incendio. Ridacchiando e sghignazzando, tutti gli altri animali continuavano a prenderlo in giro, dicendo: “Ma, cosa ti sei messo in testa, tu con solo una goccia d’acqua, che porti nel tuo becco, vorresti spegnere questo grande incendio, lascia perdere e vieni fra noi, prima che le fiamme ti arrostiscano”. L’instancabile uccellino, però, senza lasciarsi scoraggiare, senza disperarsi e senza fermare la sua corsa, rispose: “Io posso portare solo questa goccia, ma, non lascerò bruciare la nostra fo-resta, senza fare niente. Se, invece di prendermi in giro e ridere, ognuno di voi mi aiutasse a portare più acqua, forse, riusciremmo a spegnere le fiamme e, così, potremmo tornare sugli alberi e tra i fiori della nostra fore-sta, che è la casa di noi tutti”. Scossi dalle parole e, vergognandosi per il coraggio del piccolo uccellino, tutti gli animali si misero all’opera e, por-tando incessantemente acqua, secondo le forze e le capacità di ciascuno, riuscirono a spegnere l’incendio e ritornarono nella foresta, stanchi, ma, fe-lici di aver salvato la loro dimora. Se, in caso di bisogno o di pericolo, o-gnuno di noi sapesse comportarsi, come il piccolo e coraggioso colibrì, po-trebbe fare tanto bene per sé e per gli altri, contribuendo a trasformare questo mondo, spesso, teatro di ingiustizie, di soprusi e di violenza, nella tanto desiderata casa di tutti.

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IL VECCHIO CHE PIANTA LE VITI

Una volta il Signore, andando in giro per il mondo con gli

Apostoli, entrò in un campo, dove un vecchio contadino

stava piantando le viti. Fece osservare san Pietro: Que-

sto vecchio è ben stolto! Spera di godersi il frutto delle

viti da lui piantate! Il Divino Maestro si rivolse allora al

contadino e gli domandò quanti anni avesse. Settanta

compìuti rispose quegli, ma, ringraziando il Signore, sono

ancora valido forte come un uomo di quaranta. Ebbene,

rispose il Divino Maestro quanti anni credi di campare, se

a questa età ti metti a piantare la vite, sperando di go-

derne i frutti? Signore rispose il contadino io non credo

affatto di campare per molti anni ancora: mi sono messo

a piantare la vite senza preoccuparmi se io ne godrò i

frutti. È giusto che noi facciamo quello che facevano i

nostri padri. Essi piantarono le viti di cui noi ora mangia-

mo i frutti; se noi godiamo del lavoro dei padri, perché i

nostri discendenti non dovrebbero godere del nostro? È

giusto che quello che non ha raccolto il padre lo debba

raccogliere il figlio. Piacque questa risposta al Signore,

il quale disse al vecchio contadino: in virtù delle buone

parole da te pronunciate, potrai godere per lunghi anni

del frutto delle viti da te piantate. Tratto dal libro Le più Belle Leggende di Gesù Di G. B. Paravia (Torino).

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LA MUCCA DELLA VECCHINA

Era una giornata d’agosto afosissima; Gesù, Pietro e Gio-vanni, dopo aver salito un’erta costa di monte, si senti-vano rifiniti di stanchezza è ardevano di sete. Passarono d’innanzi a una casuccia dal tetto di stoppia, sul culmìne della altura, entrarono per chiedere un po di acqua da bere. Sulla pietra del focolare era seduta una vecchina che filava e, presso a lei, un bambino stava prendendo il latte da una capra. Dateci da bere, buona nonna disse Pietro: abbiamo fatto tanta strada e moriamo di sete. Ben volentieri, povera gente rispose la vecchia. E diede a ciascuno un bicchiere di latte, munto dalla sua capra. È il vostro nipotino questo bimbo? domandò Gesù, indicando il piccolo. Per appunto rispose la vecchietta. E il figliolo di un’altra mia figliola, ch’è morta. Il disgraziato picco-lino ha perduto, due mesi fa, anche il padre m’è rimasto sulle braccia. Ma come potete allevarlo, buona nonna? Siete molto povera, a quanto mi sembra! Si fa quello che si può, signore rispose la vecchia. Guadagnando qualche piccola cosa filando e ho questa capretta che allatta il bambino. Mi contento. Vi piacerebbe avere una mucca? Do-mandò nostro signore. Ne sarei felice. La mucca da latte migliore di quello della capra, è potrei anche venderne sul mercato. Ma non sarà mai possibile ch’io possegga una mucca! Sarà possibile, invece, se Dio lo vuole. Datemi un momento il vostro bastoncello è state a vedere. La vec-china consegnò a Gesù il bastoncello e Gesù battè con esso due colpi sulla pietra del focolare. Comparve imme-diatamente una bellissima mucca chiazzata. Gesù Maria! Esclamò la donna, nella più grande stupefazione, giun-gendo le mani. Da che parte può mai essere venuta questa magnifica bestia? È venuta per la volontà di dio, buona nonna, rispose il Salvatore. La benedizione di Dio scenda su voi e sul vostro nipotino! E se ne partì coi discepoli. Ri-masta sola, la vecchietta si diede a palpeggiare e a ca-

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rezzare la mucca, per accertarsi ch’èra proprio di carne e di ossa: non voleva quasi credere agli occhi suoi. Che mucca stupenda! andava esclamando che mucca stupen-da! Posso chiamarmi veramente fortunata! Ma non so an-cora capire come abbia fatto a venire qui! Eppure è stata cosa ben semplice: uno di quei tre viandanti ha preso il mio bastoncello: l’ha picchiato due volte contro la pie-tra del focolare: tac tac e ne è uscita la bella mucca pezzata. Se provassi a far così anch’ìo, ne potrei avere una seconda, forse. Vediamo. prese il bastoncello tac tac battè due colpi contro la pietra del focolare, e diede un bel balzo all’indietro. misericordia! Era comparso un lu-po, enorme, che si gettò sulla mucca e la strangolò sull’istante. La vecchia si slanciò fuori dalla capanna, chiamando i viandanti con quanta voce aveva in gola: Si-gnori! Signori! quelli non essendo molto lontani, si fer-marono ad aspettarla. Che v’è accaduto, buona nonna? Domandò Gesù. aHimè, una grande disgrazia! Rispose la vecchietta, turbatissima. È comparso d’improvviso un grande lupo e m’ha ucciso la bella mucca! Ma siete stata voi stessa a chiamarlo, imprudente nonnina! Rispose Gesù. Consolatevi subito è rientrate a casa. Ritroverete la vostra mucca. E siate più saggia, dora innanzi. Acconten-tatevi di quello che Dio vi manda e non cercate di fare quello che Dio solo può fare. Rientrò in casa di corsa la nostra vecchina, vi trovò la sua bella mucca pezzata e capì che il buon Dio in persona era stato ospitato da lei e le aveva lasciato un segno della sua gratitudine. Tratto dal libro Le più Belle Leggende di Gesù Di G. B. Paravia (Torino).

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Storia da chiesia da Misericordia La costruzione della suddetta chiesa che all’epoca sorse nella parte più alta del paese, è legata ad alcuni avvenimenti che hanno dell’incredibile se non visti con l’occhio della fede. Infatti, si narra che ad Arzona di Filandari, all’inizio del novecento, un giovane appartenente alla comunità, fece un sogno, durante il quale ebbe una visione della Vergine, che gli chiedeva di dissotterrarla dal luogo nel quale giaceva, e una volta fuori, erigerle colà un santuario. Subito l’uomo si diede da fare e nei giorni che seguirono, con altri volonta-ri incominciò a scavare nel punto indicatogli nel sogno. Di buona lena per un po’ di tempo continuarono l’opera, nonostante l’incredulità generale. Così per levarsi di torno chi stazionava lì solo per schernire o per curiosità, i lavoranti, si accordarono con la popolazione che se trovavano qualcosa avrebbero fatto suonare le campane del paese per darne la notizia. Ad un certo punto rinvennero veramente un luogo con un gruppo di tre statue, una delle quali raffigurante la MADONNA. Con somma gioia la legarono con delle corde per tirarla su per prima. Ma quando tutti furono sull’orlo della buca già pronti ad issarla, giunsero sul posto tre persone, forse ubriache, che si misero a fumare e bestemmiando, probabilmente offesero la Vergine. Come per incanto lo scavo si richiuse, sotterrando ancora una volta il simu-lacro e facendo rimanere con le cime in mano chi era pronto per tirare. A niente sono valsi altri tentativi per riaprire il cantiere, perché il tutto si era solidificato in un enorme blocco, troppo pesante da riportare alla luce e du-rissimo d’alleggerire con scalpelli o altri arnesi. Vista l’impossibilità di ve-nirne a capo, il sito fu richiuso. Comunque nonostante la disavventura, il destinatario del sogno, non desi-stette dalla sua missione e coinvolgendo la gente, che era stata testimone dell’accaduto, intraprese la costruzione della chiesa, che venne eretta pres-sappoco come era stata vista nel sogno. Con la facciata principale orientata verso Est. E con l’angolo destro della stessa, a circa sei metri dallo scavo nominato. Realizzata con le offerte e la manodopera volontaria dei fedeli, bambini e adulti ognuno secondo le proprie possibilità e capacità. Riconducibili alla costruzione del luogo sacro, ci sono almeno due segni che ci fanno capire che veramente c’è stata una precisa volontà arcana, af-finché tutto andasse per il giusto verso. Il primo è che non si sono verificati incidenti mortali nel corso dell’opera, ma solamente un fatto degno di nota, successo ad una mia prozia. La si-gnora in questione era intenta a trasportare pietra e calce sul ponteggio, quando forse per una banale disattenzione, cadde giù da circa sette metri di altezza, senza procurarsi nemmeno un graffio, perché, come da lei medesi-

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ma testimoniato, nella caduta, le sue vesti si gonfiarono come un paracadu-te, attutendo l’impatto con il suolo sottostante. Reale è anche la posizione del borgo di Arzona, che sorge per la gran parte su una formazione granitica e la rimanenza, su pietra calcarea. Per questo, è un paese che ha sempre sofferto per l’assenza d’acqua, ed ha una sola sorgente naturale, che si trova in un burrone, ai piedi di una roccia di gra-nito a circa cento metri di dislivello più in basso dal punto in cui doveva sorgere la chiesa, e dove tutti attingevano per ogni necessità. Consideriamo quindi quale enorme fatica e manodopera ci voleva per trasportare l’acqua necessaria alla fabbrica. Allora decisero di aprire un pozzo a circa quattro o cinque metri di distanza, proprio davanti al lato sinistro della costruenda facciata principale della chiesa, e con meraviglia, fu come se avessero sca-vato nel burro, perché non solo non trovarono sedimenti di roccia durante la realizzazione, ma in esso scaturì l’acqua per tutte le necessità del caso. Alla fine dei lavori, il pozzo fu chiuso con materiali di resulta, perché lo spazio venne destinato alla fruizione del pubblico. Di recente lo stesso è stato ripristinato con muratura in bella vista e chiuso alla sommità con bo-tola in ferro, per non essere di pericolo ad alcuno. L’ultimo episodio legato al suddetto luogo sacro che sembra non avere una spiegazione logica, è quello della misteriosa comparsa di un quadro, del quale non si conosce la provenienza. L’accadimento è però confortato, dal-le due versioni appresso citate: Prima versione: Filandari è sempre stato sede dell’ufficio postale. E a quel tempo, il servi-zio di recapito veniva espletato da un portalettere, che girava per le frazioni del comune, a bordo di un calesse tirato da un cavallo. Fu così che un bel giorno all’ufficio comparve un quadro con un’effige sacra, senza mittente, ne destinatario. Qualcuno pensò di recapitarlo a una delle parrocchie di per-tinenza. Il postino lo caricò sul due ruote ed incominciò a girare per i paesi. Ma ogni qual volta lo consegnava a qualche prete, puntualmente il quadro ritornava sul calesse. L’ultima comunità che lo ricevette fu quella di Arzo-na e qui ci rimase, segno che aveva raggiunto la destinazione definitiva. E osservato dalla persona che aveva avuto la visione, riconobbe in esso, ciò che vide in sogno. Fu così che l’intera comunità, attribuì allo stesso, una provenienza miraco-losa, e in attesa che venissero portati a termine i lavori della chiesa, lo col-locò in un’edicola votiva, a circa quindici metri di distanza, davanti alla co-struenda opera. Seconda versione: Si dice pure che ultimata e aperta al pubblico la chiesa, il prete del tempo, un bel mattino trovò il quadro appeso ad una delle pareti interne del santua-

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rio, senza che alcuno lo avesse potuto portare a sua insaputa, essendo lui e solo lui ad averne le chiavi. Non abbiamo la certezza della verità, se raccontata dall’una o dall’altra tesi, però è sicuro il fatto che qualunque sia stata la provenienza, il popolo ne decretò la soprannaturalità del medesimo. Lo accolse e lo custodì, e negli anni che seguirono, da esso, nacquero la statua della Vergine e le immagi-nette votive, stampate per lungo tempo. La realizzazione della statua della Misericordia, venne affidata ad una ditta di Firenze, che appena completata provvide a spedirla a destinazione con il treno. Quindi bisognava che qualcuno andasse a prelevarla alla stazione ferroviaria, ma non essendoci altri mezzi, un contadino del paese si offrì per andare a prenderla con il suo carro agricolo tirato da buoi. Accordan-dosi con la comunità, che sarebbe tornato per mezzogiorno, così nel frat-tempo potevano organizzare l’accoglienza con la banda musicale. L’interessato partì per la stazione, ma arrivato là, dovette attendere il treno che era in ritardo. Giunto il convoglio, la statua debitamente protetta da imballaggi, venne traslata sul carro. Allora il contadino si avviò sulla stra-da del ritorno, guardò il sole che era già alto, e si rese conto che non pote-va essere puntuale per l’orario prefissato. Ma d’improvviso le due bestie aggiogate, si misero a camminare con passo spedito e leggero, al punto che coprirono il tragitto in un battere d’occhio, come se avessero le ali ai piedi. Con grande sorpresa degli intervenuti e dello stesso contadino, si convenne che era impossibile effettuare il percorso fatto in un tempo così breve, e an-che questa volta si ebbe l’impressione che si era verificato un miracolo. Negli anni che seguirono, i tre individui, che si erano comportati così scioccamente, vanificando il coronamento di un sogno e le aspettative di chi si era prodigato nel lavoro, fecero una brutta fine. Ed anche il luogo non rimase esente da critiche e prese di posizione, a seguito di successive appa-rizioni e sogni, accaduti a tanti fedeli, come qualcuna di quelli che a grosse linee appresso mi accingo a descrivere. Primo ) Dopo qualche tempo, su quel luogo, venne realizzata una casa tutt’ora esi-stente, con un terrazzo esterno che forse gravita proprio sul punto dove si era pervenuti al rinvenimento. Ebbene il muro esterno che delimita lo stes-so, presentò sempre un’enorme crepa, che a più riprese si è tentato di ripa-rare, senza riuscirci. Infatti, fin da bambino quel muro, io lo ricordo con questa falla, che l’opinione comune giustifica col fatto, che la Madonna, lì, avrebbe voluto la sua dimora. Secondo ) Una donna del paese raccontava di aver sognato la Santa Vergine, che le chiedeva di riferire alla proprietaria della casa di chiudere lo scarico

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d’acqua, che veniva giù dalla vasca dove lavava i panni, perché nel sogno la Madonna diceva che da questa era continuamente bagnata. Terzo ) Era una serata con un temporale incredibile, quando un contadino, rinca-sando dalla campagna coperto dal suo pastrano, stava passando davanti alla casa in questione, e gli apparve la Madonna, che lo supplicava di chiudere una buca apertasi lungo il muro, perché da lì entrava la pioggia che la sta-va bagnando tutta. Il poveretto si diede da fare per tamponare il flusso con il suo mantello, ma inutilmente, perché vinto nelle forze dall’enorme quan-tità d’acqua che affluiva. Quarto ) Alcuni anni or sono, giunse in paese una persona che a suo dire aveva so-gnato proprio la Vergine della Misericordia. La stessa, dopo che si è docu-mentata sulla storia del luogo e degli avvenimenti ad esso legati, fece ami-cizia con altre persone. In uno dei successivi ritorni, andò con alcuni fedeli per vedere la casa di cui sopra e conoscere la proprietaria, ma questa, li al-lontanò bruscamente. Allora la comitiva si recò in chiesa a pregare, e all’improvviso un temporale si scatenò sul paese, e quella casa venne col-pita più volte da numerosi fulmini, come se la dovessero incendiare. Per fortuna non si verificarono danni, ma è stata l’ennesima conferma, che la Santa Madre avrebbe voluto un cuore più aperto al prossimo. Le vicende sopra narrate, hanno dato origine non solo al culto della Beata Vergine della Misericordia, ma anche al testo dialettale che si canta in suo onore, durante le funzioni della novena. Il componimento, richiama alla mente quanto è avvenuto, menzionando il luogo e il tesoro, in esso nasco-sto, nella strofa: sutta a ssi cantunèri ecc. Lo stesso, implicitamente afferma in questi versi, che Arzona è il luogo di nascita, e dello stesso paese, doveva essere l’autore. Infatti, da ricerche svolte, pare che lo abbia composto, un signore che a quel tempo, nel borgo, esercitava la professione di barbiere. In seguito il canto si è diffuso anche nelle comunità vicine, adattato all’esigenze del caso.

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Novina da Misericordia

Sutta a ssi cantunèri nci sta’ ‘na beja Rigina, quattru angiali calaru a Maria la ‘ncurunaru per un’eternità. Sutta a ssi vostri pedi nci sta ‘na beja luna, Vui siti la patrona di tutta la città. Ch’è beju su mazzettu chi mmani lu teniti, e li grazzi chi spargiti su’ di divinità.

Ch’è beju su stendardu chi sempi gira ‘ntornu, è venerà ‘nu iornu chi festa si farà. Ch’è beja sa curuna chi ‘ntesta la teniti, l’Angiali fannu festa e Vui vi la goditi. Su’ beji si capiji chi ssu ‘na fila d’oru, e spandìnu trisoru e di divinità. Ch’è beja sa vostra vesti ch’è russa e turchina, e a Vui anche affascina e di divinità Ch’è beju su vostru mantu ch’è largu quantu lu mari, nd’avìti di perdunari per un’eternità.

Nota: solitamente le ultime due righe di ogni strofa, si ripetono come ritornello.

Autore Andrea Runco

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LA GIARROTTA DI ANGIULINU.

Sì, proprio a giarrotta di Angiulinu… La storia, che vi voglio raccontare, vede come protagonista Angiulinu, un ragazzino di circa dieci anni, che, senza volerlo, visse un’esperienza scon-volgente. Non avendo potuto frequentare la scuola, per la miseria, tanto dif-fusa in quei tempi, doveva, come molti altri bambini, darsi da fare, per riu-scire a sopravvivere. I campi, per la mietitura e la raccolta delle olive ri-chiedevano sempre anche manodopera di minori, vista pure la numerosità delle famiglie, per le quali bisognava procurare, almeno il pane. Insieme agli adulti, anche i bambini dovevano svolgere un duro e continuo lavoro, per trarre beneficio da quei campi non sempre fertili e irrigati. Siamo nel periodo della seconda guerra mondiale e precisamente in una calda e afosa sera di luglio del 1940, quando, ormai, il corpo, stanco e sfini-to per il duro lavoro, svolto nella lunga giornata trascorsa, cercava solo il giusto riposo, il povero Angiulinu andò a dormire e, nonostante il caldo e l’umidità di quella sera, si addormentò, quasi subito e prima delle undici. Voi mi chiederete: “sì, ma dove”? E io rispondo subito alle vostre legittime domande. “Siamo di nuovo nella cosiddetta fossa i Mesiano, dove mio nonno, che coltivava un piccolo podere di sua proprietà. In quel luogo aveva costruito il suo primitivo e accogliente “pagliaio”, dove con la famiglia trovava rifu-gio e ristoro d’estate e di inverno. Insieme alla moglie e ai figli, cercava di strappare alla terra i frutti, con cui poter sfuggire alla povertà del tempo e vivere dignitosamente. Come si può facilmente capire, il pagliaio non era solo un modesto posto, che serviva a ripararsi dal sole o dall’acqua, ma, era soprattutto la prima casa, o forse per qualcuno l’unica. Infatti, non erano poche le persone, che dovevano trascorrere, dalla nascita alla morte ,tutta la propria vita in quelle precarie abitazioni. Torniamo a noi, anzi, ad Angiuli-nu, che stava dormendo. Durante la notte, incominciò a sognare qualcosa di strano per le troppe storie, che gli raccontava suo padre o, forse, perchè quel luogo era ed è un posto “incantato”. Al di là di ogni credenza, egli, comunque, raccontava di aver fatto un sogno insolito. Durante il sogno, una voce non molto chiara mi diceva: “Alzati, mettiti davanti alla porta del tuo pagliaio e incomincia a contare cinquanta passi nel viottolo, che ti porta, verso sopra. Quando arrivi al cinquantesimo, ti fermi, scendi al disotto dell’argine di esso e incomincia a scavare. Senza avere paura, incomincerai a togliere un pò di terra e, sotto la prima zolla, troverai dei mattoni. Stai attento, perché essi sono il coperchio di un tesoro. Sollevali delicatamente ed una grande ricchezza apparirà ai tuoi oc-

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chi. Presta attenzione anche alle cose, che io ti dirò e che ne devi fare. Tro-verai una trombetta, che devi custodire gelosamente, non devi darla a nes-suno e per nessun motivo, se vuoi che il tesoro resti a te. Poi, troverai una sfera e un calice, che sono oggetti sacri e che devi assolu-tamente portare nella chiesa di San Nicola ad Arzona e tutto quello, che rimane è tuo. La voce, che sentiva nel sogno, gli disse con insistenza: “ri-cordati non dare la trombetta a nessuno. Ti dico ancora, appena tu l’avrai trovata, scenderà nel viottolo un bambino e, piangendo, ti pregherà di dar-gliela. Se lo farai, perderai tutto. Sì, proprio tutto, perché quel bambino è il diavolo e farà di tutto, per impossessarsi della trombetta per il povero An-giulinu, purtroppo, non andò proprio così! Il padre, cioè, “mio nonno”, svegliandosi, si accorse che Angiulinu mancava dal proprio letto e s’affacciò fuori dalla porta, per cercarlo. Grazie alla luce della luna, che ri-splendeva più del solito, vide il bambino, intento a prendere qualcosa in un buco e, meravigliato, lo chiamò, dicendo: “Angiulinu, Chi stai facendu, do-cu”. Il bambino, che aveva già in mano il calice e si accingeva ad afferrare anche la sfera, rimase a mani vuote, perché ad un tratto sparì tutto. Così, non si potè impossessare di niente, perché quella fortunata occasione, per cambiare vita, svanì magicamente nel nulla, come dal nulla era apparsa. Solo, in seguito, quando fù adulto, spinto dalla curiosità, fece venire in quel posto una grossa ruspa, per cercare il tesoro, che aveva sognato da bambino. In quello stesso punto del piottolo, trovò solo un grosso e pesante sasso, che, nonostante il mezzo meccanico, riuscì a spostare con difficoltà. Quando vi riuscì, trovò solo pezzi di mattoni e della polvere, simile alla cenere. Capirete la grande delusione di Angiulinu, “mio padre”, perché di tutte quelle monete d’oro, che aveva visto in quel buco, non c’èra manco l’ombra.

Salvatore Runco

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LA MONGOLFIERA La mongolfiera… Avete mai visto una mongolfiera? Io no! Tranne che nei film, o comunque in televisione. Ma poi vederla da vicino, e magari che da sola vada verso la deriva, non penso proprio che vi è capitato, ma almeno sappiamo di che co-sa si tratta, grazie alla televisione, oppure ad altri mezzi vista l’era dei computer. Io qui vi voglio raccontare una storia vera, involontariamente vissuta nel lontano 1946 da una persona, a me molto cara. Era una giornata, come tutte le altre mio nonno si trovava in un piccolo podere di sua proprietà, sito in località “a fossa i Mesianu”, per i lavori di stagione. Forte e imponente, zappava e roncava, come sempre, per sostenere dignitosamente la propria famiglia, quando vide qualcosa di insolito in cielo. Guardando attentamen-te, verso Monteporo, vide uno strano veicolo, che, sospinto dal vento, si di-rigeva, verso Briatico. Lasciò cadere la zappa dalle mani e, convinto che la giornata non prometteva niente di buono, non riusciva a staccare gli occhi da quel misterioso oggetto volante. Immaginate lo stupore di mio nonno, quando, finalmente, si rese conto che quel corpo era un grosso pallone vo-lante, con una grande cesta, che penzolava con delle corde. La grande me-raviglia fu tanta che non smise di guardarla, ma subito notò qualcosa di strano e capì che poteva essere un mezzo di trasporto, sul quale, però, non c’èra nessuno. Barcollando di qua e di la, perché priva di comandi, si andò ad impigliare, tra le ginestre e le spine della cosiddetta “a timpa a luna”. Capirete la curiosità di mio nonno e, nello stesso tempo, l’occasione buona, per potersene impadronire, visto il periodo di magra, da cui non era facile sottrarsi. Così per, non perdere quella vera “manna, caduta dal cielo, come si sol dire, impugnò una falce, “a runca”, e con il cuore, pieno di speranza e di paura, si diresse verso quel luogo. Per la narra impervia di quell’altura, non fu facile raggiungere il misterioso oggetto. Una volta sul posto, con grande delusione si accorse, che nel cesto, che continuava a dondolare di qua e di la, non c’era niente, e, così per non perdere tempo o per evitare che arrivassero altri, con cui avrebbe dovuto eventualmente dividere il bottino, sferrò due o tre colpi sulla tela del pallone ormai quasi afflosciato. Raccolse rapidamente tutto in quel grande cesto e fissatolo bene, lo fece precipitare ai piedi “da timpa a luna”. Così, non visto da nessuno, potè appropriarsi di quel ben di Dio. Dati i tempi: “cordi eranu sulu di gutimu, cannistri randi no ‘n ndavìa e tili i’mpermiabili, cu l’havìa vistu mai”.

Salvatore Runco

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LA STORIA DI MIO ZIO

C’èra una volta…. C’èra una volta…, come tutte le storie, che si rispettano, comincia così an-che la storia di mio zio “Antonio”. C'era una volta e vive ancora oggi. Per rispettare la veridicità di quanto sto per ricordare, incomincio a raccontarvi questa storia, cercando di riferire fedelmente le sue confidenze. Anche se quanto sto per dire, può apparire inverosimile ed essere considerato frutto inattendibile della “fantasia disturbata di un bambino”, mi sforzo, tuttavia, di ricostruire gli eventi, come mi sono stati raccontati e come io oggi li ri-cordo. Vi garantisco l’autenticità assoluta, parola mia! Correva l’anno 1943 e precisamente il giorno 07 del mese di Giugno, quando venne alla luce mio zio Antonio. Apparentemente dovette essere stata una giornata, simile a tante altre, come avviene in ogni famiglia, quando nasce un figlio. Da come lo zio trascorse la vita da bambino, non fu proprio così. Voi ve ne chiedete il motivo ed io cercherò di rispondere alle vostre legittime richieste, ricostruendo fedelmente quanto tante sere ho a-scoltato con grande interesse, ma, non senza turbamento e qualche iniziale incredulità. Gli anni passavano ed il bambino cresceva bello, forte e robu-sto, per cui non temeva nessuno dei suoi coetanei. Anche se non disdegna-va la lotta ed ogni forma di confronto fisico, per dimostrare ed affermare la propria superiorità, sollecitato e guidato da suo padre, ha sempre cercato di intraprendere la via del “darsi da fare”. Del resto, le particolari condizioni socioeconomiche di molte famiglie del tempo, costringevano tutti a matura-re molto precocemente. Infatti, anche zio Antonio aiutava i suoi genitori nelle faccende di casa e, soprattutto, in quelle attività, che normalmente si svolgevano in campagna, in una famiglia numerosa, quattro femmine e quattro maschi, più i genitori, ognuno doveva darsi da fare, sin dalla pri-missima infanzia. Già da piccolo, anch’egli, perciò, compieva un percorso non facile, che lo portava al (pagliaio), in località “ghindu”, distante circa cinque chilometri dal paese. Sin dai primi tepori di primavera, infatti, dor-miva in campagna, insieme ai fratelli e qualche volta anche del padre, af-finchè non si perdesse tempo prezioso per i lavori della terra. È fu proprio così e in quell’ambiente che ebbe inizio la storia di Antonio, che io cerche-rò di raccontare, senza nulla togliere e senza nulla aggiungere. Già da bam-bino, egli avvertiva che intorno a se ci fosse sempre qualcuno, ma, non riu-sciva a capire chi fosse e che cosa volesse. Come egli diceva, non senza un’eloquente inclinazione della voce, sentiva dei lamenti o dei rumori stra-ni, senza vedere mai nessuno. Quella presenza inafferrabile e quei lamenti indecifrabili lo turbavano notte e giorno, anche se non parlava con nessuno

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di queste stranezze. Inoltre, c’èra una cosa insolita, già dalle prime giornate di sole di inizio primavera. In quel periodo, il bambino notava che non pas-sava giorno, senza incontrare uno o due serpenti. Quegli incontri non desi-derati e non graditi si verificavano, specialmente in un piccolo tratto di strada, nei pressi (da funtana a rina), percorso, che giornalmente faceva. Fu proprio in quel luogo che, mentre si trovava a passare, si verificò una cosa, apparentemente del tutto naturale, diremmo oggi. Il 30 giugno del 1954, ci fu un’eclisse di sole. E Antonio ancora oggi, a distanza di circa ses-sant’anni, quando racconta l’inizio di quel tormento, ricorda bene quel giorno, perché, da quella notte stessa, non ebbe più pace. La sua vita, da quel momento, per circa tre anni, cambiò totalmente e, come Antonio af-ferma, fu un continuo tormento. Ogni notte, mentre, stanco e sopraffatto dal duro lavoro, svolto nei campi, per guadagnarsi il suo pezzo di pane salato, puntualmente, dall’una a più o meno alle tre, gli appariva in sogno quel luogo, dove egli osservò l’eclissi di sole. Precisamente, sotto le radici di un grande albero di sughero, che si ergeva li vicino, ormai abbastanza robusto da non sentire più il fastidio di un grosso buco, presente alla base della sua radice. Proprio da quel buco, Antonio vedeva uscire un serpente di dimen-sioni fuori dal normale, che con screpitiì e attorcigliamenti lo terrorizzava. La presenza del grosso e spaventoso rettile non fu l’unica cosa, che avven-ne in quel luogo, perché i lamenti e i rumori, che Antonio percepiva, si fe-cero più insistenti. L’inquietante fenomeno si verificava, soprattutto, in quel tratto di strada, che poi non era manco strada, bensì un semplice viot-tolo di campagna tra spine e cespugli. Di questo continuo tormento come egli racconta, Antonio riuscì a liberarsi, solo alla fine del 1957, egli, tutta-via, continuava a sentire dei lamenti, ovunque andasse e, specialmente, nei luoghi bui e isolati. Andiamo avanti e ascoltate, cosa ci racconta ancora lo zio. Quando ormai si era fatto adulto e le sue preoccupazioni e le sue ener-gie psicofisiche si concentravano, naturalmente, verso l’obiettivo di trovare una bella fidanzata, andò a cercarla a “Scaliti”, ma, ancora oggi, io non so per quale motivo, proprio a Scaliti. St’ha di fatto che, quando una volta alla settimana si recava a casa della fidanzata e la strada, scelta, per accorciare il percorso, era ancora frequentata da paesani, i quali, al termine della gior-nata di duro lavoro, abbandonavano i campi, per raggiungere le proprie abi-tazioni, tutto procedeva normalmente, al rientro a casa, quando era ormai buio, per lui non c’èra niente da fare, perché quel terrificante fenomeno si presentava puntualmente. Antonio afferma che da, quando lasciava il calva-rio, che era posto all’estremità di Scaliti, per poi riprendere la via sterrata “località A Gebbia”, per arrivare ad Arzona, le grida e i lamenti erano così forti che tornava a casa sconvolto e terrorizzato. La cosa più bella o, me-glio, più strabiliante avvenne successivamente, quando Antonio si sposò con Potenza, “il 9 gennaio del 1966”. Per comprensibili ragioni di natura economica, insieme emigrarono in alt’Italia e precisamente in Lombardia.

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È fu proprio qui che si verificò il fenomeno più incredibile per noi e ango-sciante per il mio giovane zio. Si trovavano già da alcuni anni in una locali-tà della Lombardia, quando una notte come tante altre, mentre egli dormi-va, si ripresentò il grosso serpente e al solito orario, dall’una alle tre. Que-sta volta, però, non stava sognando il solito luogo, dove lo aveva sempre sognato, ma, quella maledetta bestia era li con lui, nella sua camera da let-to. Nonostante il suo enorme peso, viste le dimensioni, lo vide salire sul let-to e si sdraiò su di lui con la bocca spalancata, come per incutere terrore. Tutto ad un tratto, chiuse la bocca e si andò a scagliare con la testa contro il toràce di Antonio, che per l’urto perse l’equilibrio e cadde sul fianco del letto. Allora Antonio subito aprì gli occhi e vide un uomo e non più il ser-pente. La cosa era molto strana, perché l’uomo, che aveva visto, era di Ar-zona e che egli conosceva perfettamente. Quella persona non si poteva tro-vare in Lombardia e quanto meno nella sua camera da letto. Infatti, quell’uomo, ormai morto, era allora già mal concio e avanti negli anni, sic-ché non era in grado di camminare da solo e non poteva trovarsi in Lom-bardia. Ancora oggi nell’anno 2012, Antonio non è riuscito a darsi una spiegazione di questo e di altri episodi successi nella sua vita. Tenendo conto che il colpo, sferratogli da quel mostruoso serpente, gli provocò una macchia tipo un’ematoma, che gli durò per almeno tre anni, si capisce quanto fu straordinaria la vita di zio Antonio.

Salvatore Runco

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LA VITA DELL’UOMO Quando il Signore creò l’uomo, creò anche il somaro, il cane e la scimmia e attribuì loro trent’anni di vita ciascuno, in modo che si potessero fare compagnia. Quando IDDIO spiegò all’uomo cosa avrebbe fatto nei trent’anni, egli accettò di buon grado. Venne la volta del somaro e il Signo-re gli disse: “tu dovrai portare i pesi dell’uomo, prendere le sue bastonate, contentarti di mangiare paglia, avvolte fieno; la biada dovrai lasciarla al cavallo e quando sarai morto con la tua pelle ci faranno tamburi”. “E io do-vrei fare trent’anni di questa vita?”. Domandò l’asino. “E quanti anni vuoi vivere?” Domandò il Signore. “ Ma ne bastano dieci.” “E il resto?” “Dalli all’uomo.” Così l’uomo si prese vent’anni di vita dell’asino. Venne la vol-ta del cane. Gli disse il Signore: “tu dovrai fare la guardia alla casa dell’uomo, lo aiuterai nella caccia, ti contenterai di mangiare ossi, prende-rai bastonate e calci all’occasione, dormirai nel pagliaio e quando non sarài più buono a nulla sarài abbandonato.” “ Anche a me bastano dieci anni di questa bella vita” disse il cane e cedette gli altri suoi vent’anni all’uomo che li prese contento. Venne la volta della scimmia il Signore le disse: “vi-vrai nei boschi, dormirai sugli alberi perché quasi tutti gli altri animali a-vranno voglia di divorarti; gli uomini se ti prenderanno, ti terranno in gab-bia per trastullo… “Basta, basta” “disse la scimmia” dieci anni mi avanze-ranno: farò come gli altri e non se ne parli più! L’uomo era contento di aver avuto la sorte di vivere novant’anni, ma invecchiando si accorse che affare aveva fatto: a trent’anni, presa moglie, per metter su casa e mantenere i fi-gli vide che doveva fare la vita del somaro. A cinquanta gli erano cresciuti i figli e cominciò la vita da cane: nessuno gli dava ascolto, tutti lo cercavano solo per avere favori e quattrini e poi lasciavano in disparte con i suoi guai. La moglie pensava ai corredi e ai matrimoni per le figlie, i figli pensavano a se stessi e quel poco che lui aveva accumulato se ne andò tutto in fumo ma non era finita perché a settant’anni cominciò la vita della scimmia: mal-fermo sulle gambe, seduto su una sedia era lo zimbello dei nipoti che gli ti-ravano la barba, lo prendevano in giro; gli portavano via le ciabatte. Se gli chiedevano un parere era solo per farsi una risata, e non gli restò che pensa-re a quanto erano stati saggi il somaro, il cane e la scimmia. Tratto dal calendario Scuola Nazionale Cani Guida per Ciechi di Firenze Via dei Ciliegi,26 50018 Scandicci (FI)

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Nomi di alcune località o appezzamenti di terreno

Che in tempi passati erano meta Di’ l’Arzonisi.

Come innanzi citato, un tempo era consuetudine recarsi in campagna per espletare i vari lavori stagionali. A tal proposito, in me sono ancora vive le immagini, di persone che al mattino e alla sera, formavano lunghe file incamminandosi insieme ognuno verso la propria destinazione, lungo strade tortuose e piene di fango o polvere a secondo del tempo. E per ingannare l’attesa della comare che stava serrando l’uscio o del compare che aveva dimenticato il trinciato e le cartine. Ciarlando sugli accadimenti e la vita quo-tidiana, a volte si domandavano l’un l’altro dove erano diretti. Quindi si sentivano no-minare le varie località, di loro pertinenza, o solamente il posto dove prestavano la loro opera in quella santa giornata alle dipendenze di qualcuno. Anche se spesso il datore di lavoro, non era altro che “’u gnuri”, colui che perpetuava uno stato di feudalesimo anco-ra presente fino agli anni sessanta. Quindi le località appresso citate, mi sovvengono non solo perché in alcuni frangenti sono stati meta delle famose scampagnate, con amici o mio fratello. Ma soprattutto per le espressioni dei nostri padri dalle quali si poteva ca-pire, l’amore e l’abnegazione con la quale i poveri villani, per le necessità della fami-glia, si prodigavano nei lavori di cui sopra con immenso sacrificio, senza ricevere in cambio la giusta mercè dopo aver fatto bagni di sudore per lunghe giornate. ‘A Barracca ‘A Bonissa A Braghò A Cacariàci ‘A Cappeda A Caravìzzi A’ Carcareda A’ Carcarota A Castedara A Caterzuda A’ Catusa A’ Cava A’ Chiana ‘i l’urmu A’ Chiuseda A Ciccottu A’ Cruci a livitu A’ Grutta ‘i gghigghì A’ Cuntura o’ landru A Ferrarisi A’ Ficareda A Fisinu A Fossa ‘i lupu A’ Funtana a rina A’ Funtana vecchia

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A Gadinaru A’ Gebbia A Gghindu A’ Grazzia A Gromulari ‘E Feghi ‘E Luvaredi ‘E Mulina ‘E Pezzi randi A Iannàci A ‘Livitu d’abbocatu A Llutrà A’ Màchina ‘i Fazzari A Mmaioranu A Mmarcu baruni A Mmartinedu A Mmosedu A Mmottula A Mmulezzi A Mmùtari A’ ‘Ndralizia A Nnifitu A’ ‘Nnestu A Pagghiaruni A’ Pida A Ppìstari A Pofainu A’ Quartarìa A’ Resta A Rrussu A Saccudi A San Basili A San Miceli A Santa Chiara A Santa Maria A’ Scaleda A Scarcèri A Scroccu A’ Spagnola A Spatafòra A Spilingheda A’ Timpa a luna A’ Timpa u’ palumbaru A’ Turri Abbatipeppi Dassubba ‘E Currà Dassubba a’ stada Dassutta all’ angra

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‘A chiana ‘i Pisci ‘E Cunturi ‘E Grutti ‘e Petti ‘E Pittaredi ‘E Tralìci Nto vagghìu O’ Casinu d’abbocatu O’ Casinu du bossu O’ Casinu ‘i donna popa O’ Casinu ‘i marzanu O’ Castagnitu ‘i nanu O’ Castedu O’ Ciarasu O’ Campisantu O’ Padiglioni O’ Ponti ‘i riposu O’ poru O’ Signuri O’ Vignali ‘i marzanu O’ Vurvinu O’ Vurvinu ‘i marzanu O’ Pirrainu A Ggentilari All’ortedu O’ Laccu O’ Margiu ‘i Chiuppi O’ Voschettu ‘E cerzi ‘E Pantana A Mmesianu A’ Monaca O’ giardinedu A’ Randipetra O’ ponti da zzita A’ Crista A Ppaulina A’ Vasìa

Salvatore Runco

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Qui, invece ti trovi nell’angolo delle poesie. Ti preannuncio, di non aspettarti grandi versi, ma solo qualche piccolo mio pensiero, della mia non facile vita.

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A TE O PINO, Sì, proprio a te, o Pino, che ci lasciasti senza un giusto motivo. Adesso, però, trovo le parole, per consolare, tua moglie e la tua prole. E a noi tutti che lasciasti, senza una parola, tu pensi che possiamo sostituire te, per consolare Paola, Antonio, Valentina e Nicola? E a Franca, quella cara tua moglie, per un buon consiglio a chi si rivolge? Tu eri il perno della famiglia, e questo lo disse a noi tutti tua figlia. Eri come un fiore di gradita fragranza, ma, adesso, tuo Padre e tua Madre, come possono vivere senza la tua presenza. E cosa devono dire Lucia e Michele con Filippo e Maria, che li facevi stare sempre contenti e in allegria. E a Mimma e Paolo con Vincenzo e Rosa Maria, ora come fanno a vivere dopo questa tua follia. E anche per tutti i tuoi nipoti, che con amore ti serbano sempre nel loro cuore. Sei uscito di scena senza un giusto motivo. e noi come facciamo senza di te o Pino? Eri un maestro di rara fattezza e ogni cosa che facevi era unica nella sua bellezza. Sì, perché usavi la pialla con amore e dolcezza e noi oggi possiamo ammirare la tua assoluta maestranza. Ci hai adornato la nostra chiesa con i tuoi capolavori, e a noi tutti tuoi amici ci hai spezzato il cuore. Tu che desti un senso alla tua umile vita, ora, lasciandoci, hai fatto una cosa assai azzardata, ma, noi ti cercheremo ancora fra noi, perché le persone come te non se ne vanno mai. Queste poche parole, te le dice un tuo caro amico, non perché, oggi per altri sei già seppellito, ma, perché in mè, tu vivrai nei pensieri migliori e in silenzio prego per te, con tutto il cuore, adesso che sei nella casa del Signore. 18 05 2012 Salvatore Runco

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AL BUON DIO. Ho mio caro buon Dio Che ti umiliasti al posto mio, dalla tua magnificenza sei venuto qua giù ha dare una speranza. Quella speranza che tu o Padre hai dato Nascendo sulla terra , per poi essere deriso e condannato dall’uomo che tu stesso con amore hai creato. Creato con tanta passione e amore E lui in ricompensa ha oscurato la sua mente e il suo cuore, non ricordandosi del suo buon Dio che ogni giorno l’ho porta a l’oblio. Eppure oh Padre, non chiedi niente di strano, Ma solo di volerci bene è stringerci la mano, questo è l’amore che tu stesso ci hai insegnato e solo così, l’amore trionfa e non sarai più condannato. 19 11 2005 Salvatore Runco

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LA MAMMA.

Oh MAMMA! Quale altro nome, si può dare alla madre! Se non quello di mamma? Tu oh mamma che mi hai generato, da quel giorno solo affanni e fatiche ti ho procurato. Tu oh mamma che mi hai allattato con amore e io non comprendevo il tuo enorme sforzo e sudore. Tu oh mamma che m’insegnasti le prime parole, quando mai la mia bocca ti ha rinfrancato il cuore. Tu oh mamma che sacrificasti la tua vita per mandarmi a scuola, e io quando mai ho trovato il tempo di leggerti una lettura che ti consola? Tu oh mamma che con la tua esperienza mi hai educato, con quale forma di ri-conoscimento ti ho ricambiato? Tu oh mamma cara che mi portasti all’Altare, e io oh mamma in quale tuo sogno ti posso ricompensare? Tu oh mamma che perdesti il compagno in giovane età, da me oh mamma cosa ti dovevi aspettar? Scusami oh mamma se sono stato così crudele, pensando solo a me e mai un giorno alle tue pene. Scusami oh mamma ma ti vorrei abbracciare perché solo tu oh mamma mi potrai perdonare. Perché non a-vendo altro nome da poterti dare solo cara MAMMA ti posso chiamare. 01 11 2004

Salvatore Runco

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MARIA DONNA DEL DOLORE. Maria. Oh! Maria, che condanna crudele fù la tua, non eri ancora nata, che un crudele destino di te si era impossessata. Eri ancora bambina e ti davi già da fare, quando un giorno qualunque per tante altre bambine, la vita scorreva normale, invece a te due belle sorelle ti sono venute a mancare. Nonostante sia passato tanto tempo Da quel giorno molto lontano, per te come se l’avessi ancora per mano! Quelle sorelle che porti nel cuore, per il tuo immenso amore. Ma eri appena divenuta adulta, che quel crudele destino si ripresenta alla porta. Si riapre la ferita di quel dolore amaro Con la perdita del tuo genitore caro. A questo punto la vita per te diventò ancora più amara, i frutti della terra diventarono fiele, mentre tu con il tuo lavoro e tanto sudore, cercavi di far capire che erano miele. La vita scorreva e i giorni passavano, e i tuoi figli forti e rigogliosi crescevano. Hai sempre cercato di dare le giuste indicazioni Affinchè nessuno di loro potesse mai dire, non ho avuto educazione. Ecco che però l’ombra di quel destino amaro, si ripresenta nella tua famiglia cara, come un tornado che fa tremare la terra, e a te prende la cosa più bella, ti prende quel figlio dal dolce candore, e il tuo cuore viene fulminato da un profondo dolore. Dolore che non trova più nessun rinfranco, perché ormai è troppo stanco. Scorre la tua vita come un albero, attraversato da un forte vento, ed ecco alla porta il destino con un nuovo tormento. Stavolta puntò il dito contro il tuo povero marito, e lui manco lo sapeva e in pochi mesi era già seppellito. Per te furono giorni lunghi e amari, per accontentare quell’uomo che ti stava per lasciare.

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Certo che la vita per ognuno di noi, è un continuo tormento, ma per te è stato un continuo spavento. Spavento che ti tenebrò il cuore, quando hai saputo che già tua figlia era nel dolore, dolore di figlia e di mamma di raro splendore. Per lei furono tre anni di dura sofferenza, fino a quando quel maledetto destino, le tolse l’esistenza. Ora cara Maria e mamma del dolore, dopo una vita così turbata speriamo che nella tua famiglia regni la pace, nel nome della SANTISSIMA VERGINE IMMACOLATA. 02 04 2010

Salvatore Runco

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CHIUSO IN CASA Me ne stavo in casa chiuso E cercavo di guardare da un pertuso, ma aldilà di questo foro c’era notte e buio solo. Non sapendo cosa fare Mi appellai al mio buon senso È chiesi a lui con insistenza: «Indicami la strada della speranza». E lui attento è vigoroso M’indicò un sentiero aspro e pungiglioso, all’inizio non mi fidavo mica ma poi piano piano a percorrerlo c’ho preso la mano. Perché così facendo trovo Sulla via qualcuno e mi consolo, Si parla di beghe e di discorsi strani E il tempo è passato e siamo già a domani. Con la voglia di vivere ancora Mi alzo affrettato e di buonora, mi vesto di camicia e la cravatta alla moda, perché la vita è meravigliosa e una sola. 09 11 2006

Salvatore Runco

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L’AUTUNNO. Guarda che meraviglia. E’ tornato l’autunno, con vento acqua e tuoni, si presenta sempre , come un tormentone. Ti sembra che l’estate, non è ancora finita, ma lui e li pronto per farti cambiare vita. Le giornate calde d’estate Sono ormai passate, e di vinaccie e caldarroste profumano le strade. Le rondini si preparano per emigrare, mentre per tantissimi altri animali a loro malincuore il sonno profondo in letargo li fa tornare. Con zaini sulle spalle, s’intravedono i bambini. S’incomincia ad andare a scuola Per grandi, giovani e piccini. La nebbia scende dai monti i campi sono già arati, e al calduccio di un camino se ne sta il contadino, per averli seminati. Conciglia la festa di tutti Santi, e il giorno dopo, di tutti i defunti. Si visìtano chiese e cimiteri adornati, di piante, fiori e crisantemi profumati. Il freddo è ormai alle porte, la stagione è già finita, natale ormai vicino e tutti insieme adoriamo Gesù Bambino. 04 11 2007

Salvatore Runco

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RIFLESSIONE

O Signore! io sono quell’uomo, che un giorno assai lontano tu hai creato, e con le tue candide mani hai cullato. Crescevo forte è coraggioso e non pensavo un futuro penoso. Ricordo le cose ormai lontane quelle che vedevo con i miei occhi sani, guardavo gli alberi, l’acqua, la natura e non pensavo che la vita fosse così dura. Camminavo per valli, fossati e monti e non ho mai incontrato ostacoli e affronti. Giocavo con amici parenti e lontani, tutti ti porgevano le mani. Ho lavorato per gli altri con orgoglio e amore ora però a nessuno le piange il cuore. Ho conosciuto luoghi, strade, paesi e città e adesso non sono capace a muovermi da qua. Ogni momento cerco la vìa, ma non riesco a spostarmi da casa mia. Ora i parenti amici e lontani ti guardano strano ma non ti tendono più la mano. I miei occhi cercano l’amore, il fratello, o il nipote caro, ma trovano solo un buio amaro, guardare vorrei con questi occhi malati i miei cari fratelli, ormai cambiati. Mi sento d’intralccio in questa vita terrena, che quasi quasi la mia fede trema, ma solo a pensare al tuo eterno amore , dormo tranquillo e mi consolo il cuore. 27 10 2003

Salvatore Runco

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ANTONELLA E ENZO.

Udite udite, gente del luogo o di passaggio, Squillano le trombe e suonano le campane, tutto ormai è adornato a festa, perché passa un corteo con Antonella in testa. Enzo è in attesa di questo bel fiore, sul Sacrato della chiesa solo per amore. In questa piccola chiesella di mesiano, si scambiano le fedi e si stringono la mano. Si promettono amore e reciproco rispetto, per amore di quel Dio che ci tiene tutti in petto. Ma adesso è arrivata l’ora di lasciare questo luogo di magnificenza, salutando la Santa Madre della speranza. E all’uscita con applausi e riverenze, con gente vecchia o nuova, ci vogliono portare a cittannova. A sentir questo, la gente prende coraggio e subito salta in macchina, sperando di arrivare almeno per un assaggio. Una volta giunti in questo posto tanto ameno, tra prati e ulivi secolari, la fame e la sete non si fecero mancare. Mi accostai a un tavolo per capire di che si tratta e subito aprii la pancia a mo di fratta. Fra primi, secondi e vini di cirò, la voglia di mangiare altro a tutti passò. Si fecero le otto e di laggiù io non mi muovevo più. Ormai è arrivata l’ora di salutarci, tanti auguri a Enzo e Antonella e arrivederci. 14 07 2011

Salvatore Runco

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LEONARDO E LUIGINA. Ora vi voglio raccontare un fatto molto strano. A volte odo delle zuffe che se ne scappa pure il villano. Io tengo due cognati che vanno sempre per mano, ma credetemi nessun dei due è così sano. Lui si chiama Leone e lei Luigina, ma guai a quel povero Cristo che s’avvicina. Incominciano dal nulla con qualche vecchia storia, o con qualche novità; e tu che ormai sei in mezzo, senza conoscere il motivo, finisci all’ospedal. Non c’è giorno che passi senza un qualcosa da spulciar, o per colpa della tivù o per quella del giornal, loro coinvolgono qualcuno per potersi azzuffar . Ma è una cosa solo passeggiera, perché ogni giorno più o meno finisce alla stessa maniera, che per colpa dell’onore e del rispetto , ogni sera se ne vanno insieme a letto.

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E per il povero mal capitato, vi è rimasto solo e magari pure bastonato. A volte la giornata è così finita, ma state bene attenti che non si siano legati qualcosa alle dita. Ma se tu li conosceresti , faresti di tutto per organizzargli delle feste. Perché alla fine, tutto sommato, meglio stare con loro che fare lo sbandato. Almeno mangi e bevi in compagnia, sperando che un giorno o l’altro riesci a metterli sulla buona via. Un’altra giornata sta per cominciare , speriamo che sia la giornata giusta per poterli sanare, o almeno che non coinvolgano me per potersi azzuffare. Certo è sicuro, io non verrò a provocare. 12 07 2011

Salvatore Runco

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AMICI PARENTI E COMMENSALI. Or Signor qui ogni giorno voglio cantar, a: grandi, piccoli, muscolosi e belli, e questo vale anche per i grassi magri o snelli. Or vi dico o amici e commensali di passaggio, in questa casa si può entrare non solo a pranzar, ma pure per un piccolo assaggio! Che sia di vino o di un caffè, ho di cotto ho di crudo ma di quello che c’è! L’importante che non si sia mai nel paro di tre. Tenendo conto che ad ogni occasione, non si faccia fracasso o creare solo confusione. Non vorrei dirvelo con mal dicenza, ma noi cerchiamo di vivere le giornate con più sostanza. Senza litigi o gridate strane, scusateci ma noi vorremmo vivere anche domani. Vorremmo che le gridate stiano lontano da questo luogo, di mangiogna e di abbuffate strane, perciò implorando voi amici vicini parenti e lontani, orsù al vostro andar lasciateci con un sorriso, e con il gusto di quell’amore strano,

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perché a noi non c’interessa se andate per Cefalù oppure a Milano; l’importante che vi ricordiate di noi, come il profumo di un buon sigaro cubano. E visto che oggi siamo in compagnia, un brindisi lo faccio per questi e per quelli che in ricordo del profumo cubano, vogliono passare da casa mia. 10 07 2011

Salvatore Runco

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’U furnaru

Cu la notti non dormi paru poveracciu è lu furnaru, cà sempri à di fari e ‘nu minutu non po’ acciardari. Pecchì cumincia di prima sira mu ‘mpasta vota e gira, e non perdi occasioni schianandu pitti e filoni. E ssi non manca ‘a luci faci puru cosi duci, curudi e gemelli chista è ‘a vita du furnaru, belli! Quandu è ura du ‘mpurnari sulu unu lu sa fari, ca pani,rosetti e panini, li spurna anzemi ‘e spilatini. Saccottini e cornetti s’i voi caddi ài m’aspetti, ma certi matini quali parinu frusciati e quali piccolini. A lu carricu di’ furgòni È sempri ‘nu scappa e fui, cà non tutti sugnu boni m’aggiùstanu ‘i cisti a ddui a ddui.

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E pe’ cui vaci intra e non torna ‘ntantu ‘a iornata jà nci nghiorna, cà di fretta à mu nchiana e scindi sinnò ‘u pani poi non vindi. Ma ‘u bellu qual è ca pe’ ddu pitti e quattru panini, mu v’a cuntu pe’ comè si ndi vannu iornati chini. Girandu pe li strati tanti voti masurati, quandu a destra e doppu a manca e ‘u pani chi resta è cchiù di chidu chi manca. A ‘stu puntu p’o furnaru notti e iornu già passaru, e nent’atru nci resta c’u sangu amaru mu chiudi la festa. 15 08 1996 Salbatore Runco

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L‘ALBA DEL GIORNO DOPO.

E’ fu sera è fu mattina, l’alba di un nuovo giorno s’avvicina.

Rischiara la terra di luce Divina, e l’umanità con la natura a Dio s’inchina.

Tutto profuma di rose e viole, perché li creò Lui con tanto amore. Tutti festeggiano la nuova giornata,

e ringraziano l’alba per averla avviata. Gli uccelli del cielo s’innalzano in volo, per ringraziare il buon Dio e Egli solo.

La donna s’appresta al nuovo giorno di festa, e l’uomo ringraziando il buon Dio dal cuscino alza la testa.

I mari e le foreste adornate di vario colore, brillano ogni giorno con la luce del Suo sole.

Tutta la terra si prostra ai Tuoi piedi, per l’alba di ogni nuovo giorno che Tu ravvivi.

E’ fu sera e fu mattina, e il mondo intero a Te s’inchina.

26. 05. 2012

Salvatore Runco

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UN RAGGIO DI LUCE. Fu proprio lui che mi travolse, ebbi paura e persi le forze. Pensavo che mi volesse fulminare, invece mi tese la mano e mi fece alzare. Mi sussurrò nell’orecchio belle parole: fatti forza che sarò io la luce, il tuo sole. Mi allineai subito come un soldato, sapendo che da lui ogni momento venivo illuminato. Fu quel raggio di luce che mi trapassò il cuore, che ogni giorno vivrò per te, o mio Signore. Lo faccio con assoluta disinvoltura, affinché gli altri capiscono che di Te non devono aver paura. Lo promisi a me stesso senza riserva alcuna, di splendere per te in questa vita terrena e quella futura. 28 .05. 2012

Salvatore Runco

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LA SPIGOLATRICE.

Andai una mattina a spigolare, in un piccolo podère della comare. Era un campo ben rastrellato, e dal marito della comare veniva sorvegliato, che attendeva i paesani al passar del dì, e da cui venni pescata proprio lì. Venni denunciata ai carabinieri, e a tutto il vicinato, per quattro spighe di grano che avevo strappato. Egli lo fece senza rimorso, e i miei figli piansero a più non posso; ché di erbe selvatiche si cibavano per non entrare in tentazione, mentre il compare e la comare, tutti i giorni s’ingozzavano di cose buone. Era una famiglia davvero strana, sbirciavano chiunque andava alla fontana. Cercavano di legarsi con tutto il vicinato, per assicurarsi la mano d’opera per l’ora del seminato. Controllavano i frutti uno per uno, mentre i vicini campavano solo del loro profumo. E per chi come me avesse il bisogno di spigolare, il compare e la comare la fame non gli fecero mancare. 31 .05. 2012

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Qui, di seguito ho voluto riportare 2 articoli di giornale che mi riguardano. Specialmente il

secondo. Perché da quando la scuola di Filandari mi accolse nell’atrio e poter incontrare tutti quei cari

bambini, mi resi conto già da subito della grandezza e la forza che hanno gli Angeli.

Si perché grazie a loro come se fossi rinato.

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LA CECITA’ FA PAURA A CHI NON CE L’HA

La vita “vista con gli occhi” di un cieco, il racconto denuncia di una vita al buio. Una quotidianità negata di una città poco attenta alle necessità dei non vedenti. “Mi chiamo Salvatore Runco, ho 45 anni e vivo a Mesiano, da più di dieci anni il buio si è impossessato prepotentemente dei miei occhi. Sono cieco è vero, e questo mi ha tolto la possibilità di vedere la bellezza delle cose che mi circondano, ma non me ha tolto il modo e la maniera per poter arrivare comunque a quella bellezza. All’inizio mi sono scoraggiato, pensavo che la vita per me fosse finita ma poco dopo una strana forza ha pervaso il mio corpo e la mia mente. Era la forza del coraggio, la forza della speranza che mi hanno fatto credere che non tutto era perso e da questa disabilità avrei potuto trarre tante cose positive. E così è stato. Da all’ora non mi sono mai dato per vinto. Ho sempre rigettato l’idea che una persona che vive la mia stessa disabilità avesse dovuto dipendere per forza dagli altri. Non l’ho mai accettato. E così sin da subito mi sono dato quella carica giusta che mi è servita a rendermi autonomo, nonostante la mia famiglia e soprattutto mia moglie non mi abbiano mai negato il loro aiuto e il loro sostegno. E così un giorno sono partito per cercare la mia indipendenza. Sono arrivato a Firen-ze con l’idea di prendere un cane guida che mi potesse aiutare in questo mio desiderio, poi invece mi sono catapultato su un corso di “orientamento e mobilità”, grazie a quello ora col il mio bastone bianco, ogni mattina sono in grado di recarmi da Mesiano a Vibo Valentia con l’autobus per raggiun-gere in assoluta autonomia il mio posto di lavoro. Prima di perdere la vista facevo il muratore, ora faccio il centralinista presso il Provveditorato agli Studi e durante il tempo libero insegno informatica agli Ipovedenti ed ai non vedenti come me presso la sede dell’unione Italiana Ciechi di Vibo Va-lentia”. E’ intensa la vita di Salvatore che al tavolino di un bar ci ha raccon-tato la sua storia. Non è voglia di eroismo o di protagonismo è solo il desi-derio di fare capire a coloro i quali si trovano a dover convivere con una grande privazione fisica che “la vita va vissuta alla grande, con determina-zione è coraggio. Io ho fatto una sfida con me stesso ha detto Salvatore e sento che sono io ad aver la meglio”. E’ un sabato mattina di Dicembre, a Vibo splende il sole, il traffico è intenso, la gente affolla le strade della cit-tà, correndo da un lato all’altro per sbrigare in fretta le proprie commissioni prima di potersi abbandonare al relax del weekend. Una corsa che viene bruscamente frenata dalla vista di un uomo, alto, ben vestito, con gli occhi chiusi che stringe in mano un lungo bastone bianco. Lo stupore negli occhi della gente è grande. E’ un cieco che cammina da solo, superando i tanti o-stacoli che purtroppo offre Vibo Valentia. Alcuni frenano bruscamente per

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farlo attraversare, altri lo guardano con occhi di pietà, altri ancora ridono. Ma Salvatore nonostante tutto passeggia con orgoglio e grande tranquillità accompagnato dal suo fedele bastone bianco.

“Anche se sono cieco mi accorgo di come mi guarda la gente quando pas-so, riesco a capire se ridono, se mi guardano con occhi di pietà o addirittura con paura afferma Salvatore. Durante questi anni ho capito che la cecità fa paura a chi non ce l’ha”. Dalla lunga passeggiata con Salvatore è risultato sin da subito palesemente come i veri disabili siano le istituzioni che sono sorde o oltre che cieche di fronte ai bisogni di queste persone. Il 3 luglio scorso, l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, aveva fatto recapita-re al sindaco Franco Sammarco una lettera con la quale si segnalavano “ al-cuni problemi che continuano si legge ad ostacolare queste persone, nella conduzione di una vita che si avvicini il più possibile alla normalità”. Una lettera caduta purtroppo nel vuoto, arrivata chissà sulla scrivania di chi è sommersa chissà da quali carte ritenute da questo o quell’assessore di tur-no, più importante delle difficoltà denunciate da alcuni cittadini che seppur pochi rispetto alla maggioranza della gente, fanno sempre parte di questa comunità. I problemi che c’erano a luglio continuano ad esserci oggi, e grazie a Salvatore ce ne siamo resi conto da vicino. I marciapiedi fatti ap-posta per poter camminare in sicurezza, sono un vero e proprio campo mi-nato. Partendo dalle enormi buche, dagli escrementi di animali, la maggior parte di questi marciapiedi inoltre, non è dotato di alcuna rampa, utile sia

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per i disabili costretti su una sedia a rotelle sia ai non vedenti per capire che in quel preciso punto termina il marciapiede. Sempre i marciapiedi sono in-tasati da pali della luce tabelle e parapedoni pubblicitari, paline che segna-lano la presenza di una fermata dell’autobus, tutto istallato senza ordine al-cuno. Basti solo pensare che in alcuni punti della città, su alcuni marciapie-di, in prossimità delle strisce pedonali, per un cieco o un disabile costretto su una sedia a rotelle, il passaggio è totalmente ostruito da alcuni parape-doni pubblicitari. Per di più i tanti alberi presenti hanno la maggior parte dei rami pendenti che rendono difficile ogni passo a queste persone. E no-nostante Salvatore sia quasi del tutto autonomo nella sua disabilità, le er-bacce e i rami dei giardini privati che invadono gli spazi pedonali, le mac-chine in sosta sui marciapiedi, ostacolano e rendono sempre più difficile il suo bisogno di quotidianità. Per far capire meglio tutti questi problemi ai tanti amministratori che si dicono vicini ai loro bisogni, secondo Salvatore “sarebbe necessario che qualcuno tra loro si rendesse disponibile, anche so-lo per un’ora, ad andare in giro per la città, con gli occhi bendati con in mano il bastone bianco. Solo così ha concluso Salvatore si potrà rendere veramente conto di quanto difficile sia la nostra vita”. Testo Tratto dal mensile “l’informale” anno zero numero zero Dicembre 2009

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Tratto da “Quotidiano” anno 17 n.128

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INDICE Foto Copertina: Uno Scorcio di Mesiano. 1° Foto: Salvatore con un Cane Guida a Scandicci N. pagina 3) Salvatore e la Sua Famiglia. 2° Foto Veduta Aerea di Arzona. 3° Foto La nostra prima Bicicletta. 4° Foto La Chiesa, dedicata A MARIA SANTISSIMA della MISERICORDIA, IN Arzona. 5° Foto Veduta aerea dove Sorgeva il Castello della Vecchia Mesiano. 6° Foto Uno Scorcio della Villa di Mesiano. 7° Foto Uguale alla Copertina. 8° Foto L’Altare della Chiesa di Mesiano. 21) L’angolo dei Racconti. 22) La Storiella di Don Salvatore. 23) Il Vecchio che Pianta le Viti. 24) La mucca della Vecchina. 26) Storia da chiesia da Misericordia. 9° Foto Immaginetta di MARIA SANTISSIMA della MISERICORDIA.

31) La giarrotta di Angiulino.

33) La Mongolfiera.

34) La Storia di Mio Zio.

37) La Vita dell’Uomo. 38) Nomi di alcune località o appezzamenti di terreno.

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41) L’ANGOLO DELLE POESIE.

42) A Te o Pino.

43) Al Buon Dio.

44) La Mamma.

45) Maria Donna del Dolore.

47) Chiuso in Casa.

48) L’Autunno.

49) Riflessione.

50) Antonella e Enzo.

51) Leonardo e Luigina. 53) Amici Parenti e Commensali.

55) ‘U furnaru. 57) L’Alba del giorno dopo 58) Un raggio di luce 59) La Spigolatrice

61) Articoli Tratti da giornali locali.

62) LA CECITA’ FA PAURA A CHI NON CE L’HA. 10° Foto Uno Scorcio di Vibo Valentia.

65) Articolo del Giornale, Salvatore accolto nella scuola di Filandari.

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DEDICA Dedico questo mio piccolo lavoro a mia madre, che più di altri merita gratitudine e ringraziamenti per l’amore e lo spirito di abnegazione, con cui ha saputo aiutarci a crescere, a studiare e ad esserci vicina, anche quando non avevamo urgenti bisogni economici. Considero queste pagine, come un bellissimo scrigno, che non contiene gemme ed altre pietre preziose, ma, custodisce ricordi incancellabili, forti emozioni, duraturi sentimenti di riconoscenza e quei principi di onestà, dignità e costanza, ai quali entrambi i nostri genitori, nonostante la precaria situazione economica del tempo e della famiglia, hanno saputo con ammirevole dedizione orientare le nostre giovani vite. Con incrollabile, ma, sempre inadeguato amore filiale. Vibo Valentia 13 / 05 / 2012

Con Affetto Salvatore Runco