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MALATTIA, INIDONEITÀ PSICOFISICA E HANDICAP NELLA NOVELLA DEL 2012 SUI
LICENZIAMENTI
Davide Casale
L. 28-06-2012, n. 92
L. 20-05-1970, n. 300, art. 18
FONTE Argomenti Dir. Lav., 2014, 2, 401
Sommario: 1. Introduzione: il distinto rilievo della salute del lavoratore nella novella del 2012. – 2.
Comporto, inidoneità psicofisica e reintegrazione con indennità limitata. – 3. Handicap, malattia e
reintegrazione con indennità piena. – 4. La tutela indennitaria debole per (alcune) violazioni formali
o procedurali. – 5. Il nuovo comma sul licenziamento durante la malattia.
1. – Nella disciplina dei licenziamenti, la condizione di salute del dipendente rileva da numerosi
punti di vista: superamento del comporto, sopravvenuta inidoneità psicofisica al lavoro, malattia
dell’incolpato nel corso del procedimento disciplinare, tutele riservate ai lavoratori disabili, etc.
Non si tratta di un corpo normativo organico, ma di singole disposizioni disperse nella legislazione
accumulatasi nei decenni, le quali hanno in comune la ragione ispiratrice, ossia la speciale
sensibilità che la tutela della persona nell’ambito del rapporto lavorativo assume ove si tratti di
questioni coinvolgenti la sua transitoria o permanente condizione fisica o psichica(1)
. A questi
propositi, debbono ora essere tenute in considerazione le numerose novità introdotte dalla legge n.
92 del 2012.
Per quanto riguarda le imprese maggiori (e i datori pubblici, secondo l’opinione che pare in via di
affermazione in giurisprudenza(2)
, seppur non in dottrina(3)
), la principale innovazione attiene alle
conseguenze sanzionatorie dell’illegittimità del licenziamento. A seguito della novella, infatti, il
primo periodo dell’art. 18 comma 7 Stat. Lav. menziona l’ipotesi in cui il giudice accerti il “ difetto
di giustificazione ” del licenziamento “ intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4 e 10,
comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o
psichica ” del lavoratore. Detto comma 7 prevede inoltre l’ipotesi che il licenziamento sia stato “
intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile ”. La riscrittura dell’art.
18 Stat. Lav. coinvolge questioni connesse alla salute del lavoratore anche per quanto riguarda la
discriminazione per handicap ed il licenziamento per motivo illecito, nonché le illegittimità formali
e procedurali. I datori aventi i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 Stat. Lav. inoltre sono ora
tenuti alla procedura di cui al nuovo art. 7 della legge n. 604 del 1966, rispetto alla quale può
interferire una condizione di malattia del lavoratore interessato. La malattia del dipendente influisce
anche sull’esercizio dell’azione disciplinare, al cui proposito deve tenersi conto di quanto ha
stabilito l’art. 1, comma 41, della medesima legge n. 92 del 2012.
Nella normativa sui licenziamenti introdotta da quest’ultima legge, dunque, la condizione di salute
del lavoratore assume un distinto rilievo sotto numerosi punti di vista. Trattasi di precetti
eterogenei. Taluni sono funzionali ad una maggiore tutela del dipendente o, più spesso, ad una
minore riduzione della tutela lavoristica: come noto, il superamento legislativo della “ ottusità della
sanzione massima in tutti i casi ”(4)
è stato realizzato mediante una riduzione delle protezioni che ha
eliminato la tutela reintegratoria non solo per i vizi formali e procedurali, ma anche per taluni casi
di infondatezza del motivo di licenziamento, comportando una notevole soluzione di continuità in
termini valoriali. Altri precetti riguardanti questioni di salute, invece, sono finalizzati alla
funzionalità della disciplina legale e, come si dirà, intervengono a scapito del pregresso livello di
protezione dell’interesse dei dipendenti.
Nel complesso, anche da questa circoscritta prospettiva d’analisi risulta confermato il carattere
compromissorio della corposa legge n. 92 del 2012, la quale non può certo ritenersi un mero
intervento manutentivo, ma al contempo non appare riconducibile ad un unitario disegno di politica
del diritto. Anche per quanto riguarda la confezione tecnica, le disposizioni qui in esame sono in
linea con il resto della novella, la quale ha reso la disciplina dei licenziamenti incerta e frammentata
più che in passato.
2. – Con riguardo alle illegittimità del licenziamento connesse alla salute del lavoratore, nell’ambito
d’applicabilità dell’art. 18 Stat. Lav. ha un rilievo centrale il già accennato comma 7 di tale articolo.
Il primo periodo del comma sanziona con la reintegrazione accompagnata dall’indennità risarcitoria
limitata ai sensi del comma 4 l’ingiustificatezza del licenziamento intimato per inidoneità
psicofisica(5)
(da intendersi non solo nel senso di sopravvenuta incapacità lavorativa(6)
, ma anche in
quello d’inevitabile dannosità delle mansioni(7)
) e la violazione dell’irrecedibilità garantita dall’art.
2110 comma 2 Cod. Civ. durante l’assenza per malattia o infortunio.
Per queste illegittimità inerenti alla condizione psicofisica del lavoratore, dunque, l’errore datoriale
non è mai parzialmente “scusabile” e comporta sempre la reintegra, senza possibilità che la
sanzione sia meramente risarcitoria, come invece avviene nelle problematiche “ altre ipotesi ”
d’infondatezza del licenziamento disciplinare oppure di quello per giustificato motivo oggettivo ai
sensi del comma 5 e, rispettivamente, del comma 7 del-l’art. 18 Stat. Lav. (la specialità delle ragioni
concernenti la salute induce invece a dubitare dell’estensibilità analogica del regime
necessariamente reintegratorio alle altre ipotesi di licenziamento per ragioni oggettive inerenti alla
persona del lavoratore: es. perdita del titolo abilitante(8)
). Questa preminente considerazione
legislativa delle questioni connesse alla salute del lavoratore non ha comunque evitato una
riduzione dell’entità della componente risarcitoria della sanzione, rispetto alla previgente
formulazione della tutela reale.
È importante notare che la violazione dell’irrecedibilità garantita dall’art. 2110 Cod. Civ. appare
comprendere sia il licenziamento intimato durante il comporto di malattia per un giustificato motivo
estraneo ad essa(9)
, sia il licenziamento erroneamente intimato per superamento del comporto. L’art.
18 comma 7 Stat. Lav. contiene infatti un generico riferimento al licenziamento “ intimato in
violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile ”.
I casi di erroneo computo del comporto non sono rari quanto si potrebbe d’acchito supporre, dato
che riguardano non solo l’eventualità di materiale errore matematico del datore, ma anche quella di
non corretta interpretazione delle modalità contrattual-collettive di calcolo(10)
; nonché comprendono
l’ipotesi di inesatto inquadramento giuridico di giornate d’assenza invece non computabili come
malattia(11)
, anche in relazione al contemperamento tra diritto al godimento delle ferie ed esigenze
datoriali, soprattutto qualora esse siano richieste dal dipendente a ridosso della fine del comporto(12)
.
Vi sono inoltre i casi di malattia non computabile in quanto cagionata dal datore(13)
. In tutta questa
casistica, non è in discussione l’efficacia di una ragione giustificatrice paralizzata dal temporaneo
stato di malattia, ma si è di fronte ad un licenziamento di cui manca la fattuale ragione
giustificatrice. Sicché già in precedenza tali casi venivano sanzionati con la tutela reale(14)
, ferma
restando la possibile reiterazione del licenziamento dopo l’effettivo superamento del comporto(15)
.
La riscrittura dell’art. 18 Stat. Lav., indicando il medesimo regime sanzionatorio, ha dunque ridotto
la gravità del licenziamento ingiustificatamente intimato per inidoneità psicofisica e del
licenziamento intimato per erroneo computo del comporto, ma ha reso più grave il licenziamento
intimato durante la malattia per motivo estraneo ad essa. Ha infatti, da un lato, eliminato
l’ammontare minimo di cinque mensilità ed aggiunto il tetto massimo di dodici mensilità al
risarcimento che accompagna, oggi come prima, la reintegrazione del lavoratore ingiustificatamente
licenziato per inidoneità psicofisica e per erroneo computo del comporto. Dall’altro lato, imponendo
questa stessa sanzione reintegratoria con indennità limitata, ha invece aggravato le conseguenze che
gli interpreti facevano derivare dalla violazione del comporto motivata da ragioni diverse dalla
malattia. Infatti, salvo i casi che permettono di licenziare anche durante il comporto (ossia giusta
causa e cessazione dell’attività aziendale(16)
, ai quali vanno oggi ag-giunti, pur con effetti diversi, i
casi di malattia insorta dopo l’apertura del procedimento disciplinare di cui all’art. 7 Stat. Lav. o
dopo l’apertura della procedura introdotta nell’art. 7 della legge n. 604 del 1966: v. infra
nell’ultimo §), il licenziamento intimato durante il periodo di malattia per un giustificato motivo
estraneo ad essa era ritenuto valido con efficacia meramente differita alla fine dell’assenza o del
comporto stesso(17)
.
Orbene, seppur possa dubitarsi che questo effetto fosse voluto dai suoi estensori, come già
accennato l’intervento legislativo del 2012 appare invece stabilire (per i datori sottoposti all’art. 18
Stat. Lav.) che questa ipotesi di violazione dell’irrecedibilità durante il comporto implichi non la
mera inefficacia temporanea, bensì l’invalidità del licenziamento, come in tempi risalenti qualche
pronuncia rimasta isolata aveva ritenuto di poter dedurre dal carattere imperativo dell’art. 2110,
comma 2, Cod. Civ.(18)
. Dato che la temporanea inefficacia non poteva dirsi una vera e propria
sanzione, si tratta, più che dell’aggravamento, dell’introduzione di una sanzione, che punisce un
licenziamento pur dotato di una valida giustificazione. Tale conseguenza risulta alquanto severa, se
si conviene che la malattia non implichi la necessità di protezione dal turbamento psicologico sulla
quale è stato fondato il regime sanzionatorio applicabile al licenziamento intimato durante la
gravidanza(19)
.
Merita rilevare che, qualora si consolidi l’orientamento giurisprudenziale secondo cui tra le ipotesi
d’illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo che comportano conseguenze soltanto
risarcitorie vi è la violazione dell’obbligo (implicito ma pressoché indubitato(20)
sinora(21)
) di
ripescaggio(22)
, si enfatizzerebbe la differenza di regime sanzionatorio rispetto ai distinti casi, colpiti
sempre da reintegra, nei quali la violazione di tale obbligo sia correlata ad una questione di
sopravvenuta inidoneità psicofisica(23)
, anche in relazione a eventuali mansioni inferiori(24)
(sulla
problematica distinzione tra i casi d’applicazione della reintegra con indennità piena oppure
limitata, v. il § seguente). Peraltro in queste ultime ipotesi un’eliminazione della tutela reale per la
violazione del ripescaggio sarebbe stata poco compatibile con l’obbligo di accomodamenti o
soluzioni ragionevoli che la Convenzione Onu del 2006(25)
e la direttiva antidiscriminatoria
2000/78/CE impongono a favore dei disabili.
Queste disposizioni sopranazionali sono state consolidate nell’ordinamento interno con la recente
introduzione del comma 3 bis dell’art. 3 del d.lgs. n. 216 del 2003(26)
, a seguito della condanna
pronunciata da Corte giust. Ue 4 luglio 2013 C-312/2011, Commissione europea c. Repubblica
italiana(27)
. Tale comma stabilisce che “ Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di
trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare
accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle
persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per
garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori ”. La reazione
dell’ordinamento interno alla condanna europea è dunque stata rapida. Nondimeno, qualche riserva
non può essere sottaciuta, dato che la nuova norma è nulla più di una riproduzione letterale di una
formula che, invece, implicherebbe uno sforzo dei legislatori nazionali al fine di circostanziare le
ricadute giuridiche in termini concreti (l’unica precisazione contenuta nel predetto comma 3 bis è
quella secondo cui i datori di lavoro pubblici devono provvedere “ senza nuovi o maggiori oneri per
la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione
vigente ”). La genericità del nuovo comma accentua le incertezze, già vistose, caratterizzanti la
lacunosa disciplina di questo delicato contemperamento di valori(28)
.
3. – Il cennato obbligo di ripescaggio, inteso nel pregnante senso che implica eventuali adattamenti
organizzativi(29)
, è una delle soluzioni ra-gionevoli più tipiche. Al contempo, il rifiuto di soluzioni
ragionevoli è discriminazione per handicap. (art. 2 della Convenzione Onu del 2006; artt. 2-5 della
direttiva 2000/78/CE). Sicché nel rifiuto del ripescaggio e dei connessi adattamenti organizzativi
potrebbe sovente rivenirsi non solo un’infondatezza dell’inidoneità psicofisica addotta, ma anche
una discriminazione per handicap, alla quale si applica la tutela reale con l’indennità risarcitoria
piena di cui all’art. 18 commi 1-3 Stat. Lav. (pressoché(30)
corrispondente alla tutela reale
previgente).
Nel caso di compresenza delle due illegittimità, prevale la sanzione maggiore, come conferma la
parte finale dell’art. 18 comma 7. È necessario interrogarsi su quali siano i casi di infondatezza
dell’inidoneità psicofisica che non danno luogo a discriminazione.
Nelle situazioni che danno luogo a licenziamenti per asserita inidoneità psicofisica sussiste quasi
sempre un handicap, seppur non certificato come tale. L’elemento rilevante ai fini della
sottoposizione alla tutela antidiscriminatoria prevista per l’handicap è che il problema di salute
comporti una significativa e duratura, pur non necessariamente permanente, limitazione alla piena
partecipazione alla vita professionale su base di eguaglianza(31)
. Dato che il primo periodo del
comma 7 richiama la legge n. 68 del 1999 sul diritto al lavoro dei disabili, non sembra possibile
ritenere che i li-cenziamenti sanzionati ai sensi di tale norma per infondatezza dell’inidoneità
psicofisica addotta siano soltanto quelli dovuti a una caratteristica fisica che non sia un handicap
(es. statura o prestanza fisica non adeguate ad attività particolari(32)
). Né viceversa è convincente
ritenere che il legislatore abbia qui derogato alla regola della prevalenza della sanzione maggiore
assorbendo il licenziamento discriminatorio per handicap quasi interamente in detto comma 7, che
prevede un regime sanzionatorio meno forte di quello che i commi 1-3 applicano in generale ai
licenziamenti discriminatori(33)
: pare riduttivo limitare l’applicazione della tutela reale piena ai casi
in cui il datore abbia licenziato adducendo un motivo, diverso dall’inidoneità psicofisica,
l’infondatezza del quale abbia lasciato spazio alla possibilità del lavoratore di provare una
discriminazione per handicap(34)
.
Nelle aule di tribunale la distinzione potrebbe, forse, finire per essere elaborata in termini di
particolare gravità del comportamento datoriale, desunto dalla vistosità dell’insussistenza delle
rigidità organizzative addotte. Ravvisando una discriminazione sanzionata ex commi 1-3 nei casi
più gravi ed una illegittimità ex comma 7 negli altri, un tale approccio porterebbe ad esiti pratici
equi, seppur tramite una distinzione poco nitida. Qualora però un tale approccio scivolasse verso
l’attribuzione di un qualche rilievo all’elemento soggettivo datoriale, si porrebbero problemi tecnici
di compatibilità rispetto al quadro della disciplina antidiscriminatoria(35)
. In ogni caso, la questione
non ha risvolti problematici particolarmente acuti, alla luce del fatto che anche ai sensi del comma 7
spetta la reintegrazione, seppur con risarcimento limitato.
A proposito della casistica implicante reintegrazione piena ai sensi dei commi 1-3 dell’art. 18 Stat.
Lav., merita qui ricordare che sono soggetti a tale sanzione anche i licenziamenti dovuti a “ un
motivo illecito determinante ” ed esclusivo(36)
ex art. 1345 Cod. Civ. Quest’ultima ipotesi può infatti
configurarsi qualora sia dimostrabile che il licenziamento sia stato determinato da una malattia del
lavoratore. Si tratta di una casistica alquanto circoscritta, identificabile sostanzialmente nei
licenziamenti ritorsivi per fruizione di tutele riservate all’eventualità di malattia (non escluse le
tutele previdenziali: si immagini, ad esempio, una reazione datoriale all’indicazione, anche solo
informale, da parte del dipendente dell’eziologia professionale di una patologia). Sulla base di
quanto detto, la malattia può essere utilmente lamentata come motivo illecito di licenziamento
quando essa non abbia conseguenze tali da risultare un handicap lavorativo nel senso sopraccennato
(altrimenti il licenziamento è discriminatorio, sanzionato egualmente e senza la dimostrazione
dell’elemento soggettivo datoriale) e al contempo il periodo di comporto non sia stato superato
(altrimenti il licenziamento è legittimo in base all’art. 2110 Cod. Civ., sempre che ovviamente
venga in tal modo motivato).
4. – Quanto ai vizi formali o procedurali, la sanzione meramente indennitaria ex art. 18 comma 6
Stat. Lav. si applica per la violazione dell’art. 7 della medesima legge del 1970 o della procedura
preventiva di conciliazione che la leegge n. 92 del 2012 ha inserito nell’art. 7 della legge n. 604 del
1966, nonché per la violazione del requisito della motivazione di cui al novellato art. 2 comma 2
della stessa legge del 1966(37)
, sempreché il licenziamento sia stato intimato in forma scritta
(altrimenti si applica la reintegrazione con indennità piena ai sensi del commi 1-3). Lo stesso
comma 6 precisa che questa sanzione indennitaria tra un minimo di sei e un massimo di dodici
mensilità retributive non si applica qualora il giudice, sulla base della domanda del lavoratore,
accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso valgono le tutele
di cui ai commi quarto, quinto o settimo.
La debolezza di questa sanzione fa dubitare che essa sia quella applicabile nei casi (invero di non
semplice individuazione) di violazione del procedimento disciplinare tale da contrastare con i “
principi di civiltà giuridica ” ripetutamente proclamati in proposito dalla Consulta(38)
. Né sembra
quella applicabile ai casi di motivazione mancante: tramite la pura e semplice omissione della
formalizzazione della ragione oggettiva o disciplinare del licenziamento il datore non deve poter
disporre della possibilità di sottrarsi alle sanzioni più gravi (e nemmeno deve poter, secondo le
diverse letture astrattamente ipotizzabili, invertire l’onere probatorio sui presupposti del
licenziamento, né esporsi solo ad una modesta sanzione indennitaria nel costringere il lavoratore ad
un’impugnazione “al buio” per conoscere le ragioni del recesso). Secondo una lettura correttiva la
cui affermazione appare probabile(39)
, il vizio di motivazione sanzionato con la sola indennità di
massimo dodici mensilità consiste nella carenza di specificità di una motivazione che comunque
sussiste, nel senso che permette di circoscrivere il tema dell’eventuale verifica giudiziale di un fatto
disciplinare o organizzativo. Altrimenti, è da ritenere che si sia di fronte alla insussistenza
(inesistenza(40)
) del “ fatto contestato ” disciplinarmente (comma 4)(41)
o del “ fatto posto a base ”(42)
del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (comma 7).
Venendo ai temi qui in discorso, si deve rilevare che, seppure nell’art. 18 comma 6 Stat. Lav. la
condizione psicofisica del licenziato non assuma espressamente un distinto rilievo, sono nondimeno
identificabili possibili vizi formali e procedurali connessi a questioni di salute. Alcuni di essi anzi
sollevano interrogativi non trascurabili.
La sanzione meramente indennitaria di cui al comma 6 è applicabile ai casi in cui il comporto sia
stato superato senza però che la comunicazione del licenziamento permetta di ricostruirne il
computo. Dato che, dopo la riscrittura dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966 da parte della legge n.
92 del 2012, la specificazione scritta dei motivi accompagna sempre il licenziamento(43)
, non può
più darsi il caso in cui il datore sia ammesso a indicare direttamente in giudizio il conteggiato
superamento del comporto. Il grado di specificità richiesto nella comunicazione scritta di
licenziamento è maggiore per il comporto per sommatoria(44)
, ma comunque non è preteso un
dettaglio paragonabile a quello necessario per le contestazioni disciplinari(45)
. Resta escluso che la
motivazione che richiami il comporto possa ritenersi comprendere un motivo oggettivo per
inidoneità psicofisica; sicché, qualora il licenziamento sia stato intimato per superamento del
comporto, il principio di immutabilità della motivazione preclude al datore di addurre un’inidoneità
psicofisica solo in giudizio(46)
.
La sanzione meramente indennitaria di cui al comma 6 inoltre vale nei casi in cui il datore non
abbia dato adeguatamente conto per iscritto delle ragioni che rendono la parziale incapacità
psicofisica incompatibile con la prosecuzione dell’attività lavorativa. La carente esplicitazione
scritta della motivazione non è molto probabile qualora il licenziamento per sopravvenuta inidoneità
sia avvenuto a fronte di risultanze documentali di tipo medico provenienti dall’organismo sanitario
pubblico o dal medico competente datoriale (queste ultime dovrebbero comunque essere scrutate
con maggiore rigore in giudizio(47)
). La certificazione medica, nel descrivere la capacità psicofisica
residua e i suoi potenziali impieghi nell’ambiente lavorativo, permette e impone al datore di
valutare (con l’ausilio del medico competente e del responsabile del servizio di prevenzione e
protezione, nonché delle rappresentanze sindacali per la sicurezza) se nell’organigramma aziendale
sia rinvenibile o ragionevolmente ricavabile una confacente posizione lavorativa. Di tale percorso
decisionale verrà dato conto per iscritto al licenziato.
La carenza di motivazione è invece meno improbabile qualora il datore abbia deciso di licenziare
per sopravvenuta inidoneità psicofisica senza un previo accertamento medico, come nel settore
privato è tuttora possibile, nelle circostanze in cui non sia applicabile la speciale disciplina dettata
dalla legge n. 68 del 1999. Anche in tale caso, comunque, la configurabilità di un vizio
motivazionale sarà difficilmente ipotizzabile presso i datori maggiori, qualora vi sia stato un
esperimento effettivo della nuova procedura conciliativa di cui all’art. 7 della legge n. 604 del
1966, la cui violazione come detto è sanzionata con la medesima indennità indicata nell’art. 18
comma 6 Stat. Lav.
Detto adempimento preventivo risulta inutile qualora sussista incontestata documentazione medica
che attesti un’inabilità al lavoro completa e, inoltre, pare ridondante rispetto alla procedura
d’accertamento medico stabilita per il licenziamento del disabile(48)
per aggravamento della
condizione psicofisica o per significative variazioni dell’organizzazione del lavoro ai sensi dell’art.
10 comma 3 della legge n. 68 del 1999. Non sembra comunque che tale procedura possa essere
omessa nei licenziamenti per sopravvenuta inidoneità psicofisica(49)
, come a contrario conferma
implicitamente l’art. 7 comma 4 del d.l. n. 76 del 2013. Quest’ultima disposizione, dirimendo le
incertezze giurisprudenziali(50)
, ha riscritto l’art. 7 comma 6 della legge n. 604 del 1966, stabilendo
che la conciliazione preventiva in questione non trova applicazione nell’ipotesi, tra altre, di “
licenziamento per superamento del periodo di comporto di cui all’articolo 2110 ” del Codice civile.
Nel contemperamento d’interessi predefinito per legge, il superamento del comporto consegna al
datore la scelta di licenziare, senza concreta dimostrazione che il licenziamento sia inevitabile(51)
.
Sicché è condivisibile la sopravvenuta precisazione legislativa che esonera questa casistica dalla
procedura conciliativa stabilita nel novellato art. 7 della legge n. 604 del 1966. Quest’ultima va
esperita nei casi in cui il datore è onerato della concreta prova di un motivo oggettivo conforme al
canone generale che pretende che il licenziamento sia la extrema ratio.
Assai problematica, invece, è l’individuazione del regime sanzionatorio applicabile alle violazioni
degli adempimenti preliminari o connessi al licenziamento diversi dai tre menzionati dal comma 6
(ossia attinenti a procedura disciplinare, procedura conciliativa, o motivazione scritta). Tramite
un’applicazione alquanto estensiva(52)
, anzi analogica, potrebbe ritenersi che esse siano parimenti
colpite dalla sanzione meramente indennitaria di cui al predetto comma 6. Una tale forza attrattiva
del regime indennitario debole è forse coerente con l’approccio complessivo della novella del 2012,
ma è controvertibile.
Prima di giungere ad interpretazioni analogiche, pare necessario verificare se la lettera dell’art. 18
Stat. lav. indichi soluzioni differenti. Comunque, tale opzione ermeneutica deve conciliarsi con il
sopraccennato valore talora sostanziale degli adempimenti procedurali, non solo in materia
disciplinare. Si pensi alle clausole collettive che, superando il livello di correttezza imposto per
legge(53)
, impongono al datore di preavvisare il lavoratore dell’imminenza della scadenza del
comporto. Dubbi possono porsi anche per taluni adempimenti direttamente connessi al
licenziamento che sono solo eventuali ma non certo trascurabili: per restare in tema, si pensi alle
clausole collettive che impongono al datore di rispondere al lavoratore che domandi l’indicazione
esatta delle assenze maturate e/o di quelle residue prima di raggiungere il comporto. Analogo
discorso vale per le regole che siano stabilite da fonti unilaterali: si pensi ad esempio all’obbligo
datoriale, desumibile dal d.p.r. n. 171 del 2011(54)
, di attendere la fine del primo periodo di (diciotto
mesi di) comporto stabilito dalla contrattazione prima di licenziare per inidoneità psicofisica
sopravvenuta il dipendente statale che sia assente per malattia(55)
.
Orbene, nella violazione di procedure preliminari al licenziamento che siano stabilite da
disposizioni di legge sembra corretto rinvenire una contrarietà a norme imperative e, quindi, una
nullità sanzionata con la reintegrazione accompagnata da indennità piena ai sensi dell’art. 18 commi
1-3. Lo stesso pare potersi dire per la violazione di regole procedimentali sul licenziamento stabilite
da fonti secondarie che abbiano un radicamento diretto in una fonte primaria, come il menzionato
regolamento delegato di cui al d.p.r. n. 171 del 2011 sul licenziamento dei dipendenti statali
fisicamente inidonei. Tale soluzione, seppur assai severa ove paragonata alla casistica colpita da
reintegra con indennità limitata e soprattutto di quella colpita dalla sola indennità fino a ventiquattro
mensilità, è aderente al tenore letterale dell’art. 18 St.Lav. Deve, beninteso, trattarsi di violazione di
norme identificabili come imperative, come comunque in materia di licenziamento risulterà
tendenzialmente facile argomentare.
Qualora invece si tratti di violazione datoriale di adempimenti procedurali posti dalla contrattazione
collettiva senza un mandato del legislatore, l’ipotesi ermeneutica della nullità del licenziamento
pare difficilmente sostenibile (seppure qualche argomento in questo senso sia rinvenibile(56)
). Gli
inadempimenti datoriali in discorso sembrerebbero dunque dare luogo a responsabilità risarcitoria
contrattuale, con conseguenze alquanto incerte ma non necessariamente poco rilevanti.
Muovendo dall’intento esaustivo della riforma dell’art. 18 Stat. Lav., però, in una più convincente
alternativa possono ravvisarsi ragioni per l’applicazione della logica del parallelismo delle tutele tra
questione sostanziale e relativo aspetto procedurale. Per le violazioni procedurali con ricadute
sostanziali non trascurabili, si otterrebbe così un risultato più equilibrato, rispetto tanto al massimo
livello di tutela, ovvero quella reintegratoria con indennità piena che l’art. 18 Stat. Lav. intende
riservare alle violazioni gravissime, quanto a quello minimo della tutela indennitaria debole.
In questa diversa prospettiva, per quanto attiene alle illegittimità procedurali connesse alla salute del
lavoratore, argomentando dal primo periodo dell’art. 18 comma 7 Stat. Lav. sarebbe sempre
applicabile la reintegrazione con indennità limitata ai sensi del comma 4. E, se si ritenga che
l’intento di mantenere un’equilibrata graduazione nei regimi sanzionatori autorizzi una forzatura
letterale, anche alla violazione di procedure di fonte legale potrebbe estendersi la cennata logica del
parallelismo delle tutele, con conseguente applicazione del limite di dodici mensilità all’indennità
che accompagna la reintegra.
Quest’ultima pare la soluzione corretta perlomeno con riguardo alla violazione delle quote riservate
ai disabili conseguente al licenziamento per inidoneità sopravvenuta del lavoratore che era stato
assunto mediante collocamento obbligatorio(57)
, nonché nel caso di mancato esperimento dei
preliminari accertamenti medico-legali imposti dall’art. 10 comma 3 della legge n. 68 del 1999,
comma che è richiamato proprio dall’art. 18 comma 7 Stat. Lav., seppur con riguardo al “ difetto di
giustificazione ”.
5. – La menzionata procedura conciliativa ex art. 7 della legge n. 604 del 1966, al pari delle regole
procedurali stabilite dall’art. 7 Stat. Lav., è richiamata dall’art. 1 comma 41 della legge n. 92 del
2012. Questa disposizione costituisce una novità importante, per quanto riguarda le possibili
interferenze tra tali procedimenti e l’eventualità di malattia del lavoratore.
Stabilisce che il licenziamento disciplinare e quello all’esito della nuova procedura conciliativa
producono effetto “ dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato
avviato, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva ”.
Con una problematica prescrizione(58)
, lo stesso comma fa “ salvo, in ogni caso, l’effetto sospensivo
disposto dalle norme del testo unico ” n. 151 del 2001 di tutela della genitorialità e stabilisce che gli
“ effetti rimangono altresì sospesi in caso di impedimento derivante da infortunio occorso sul lavoro
”.
Detto comma 41 dunque sottrae al preavviso il periodo di durata dei procedimenti in questione. A
prima vista, però, potrebbe sembrare che la sua formulazione non sia risolutiva rispetto a quello che
appare il suo scopo principale, ossia eliminare le pregresse problematiche nascenti dalla
sopravvenienza di una (più o meno strategica) malattia successivamente alla contestazione
disciplinare e quelle analoghe insorgenti nel caso di malattia sopraggiunta dopo la comunicazione
datoriale di avvio della procedura conciliativa per licenziamento per motivo oggettivo (a
quest’ultimo proposito va tenuto presente anche che, in base al novellato art. 7 comma 9 della legge
n. 604 del 1966, in caso di legittimo e documentato impedimento del lavoratore a presenziare
all’incontro, la procedura può essere sospesa per un massimo di quindici giorni).
In base all’orientamento pregresso(59)
, la malattia sospendeva la decorrenza del periodo di
preavviso. L’art. 1 comma 41 menziona ora alcune ipotesi di sospensione della decorrenza del
preavviso per ragioni inerenti alla persona del lavoratore, omettendo però la malattia (tranne quella
professionale, qualora si voglia assimilarla all’infortunio(60)
). Fermo restando che oggi il preavviso
ha dunque decorrenza anticipata, ci si deve domandare se l’omessa menzione della malattia da parte
del legislatore significhi implicitamente che questa non impedisca più il decorso del preavviso,
qualora successiva all’avvio da parte del datore di uno dei due cennati procedimenti propedeutici al
licenziamento.
Orbene, per un siffatto “ stravolgimento ”(61)
dell’assetto previgente sarebbe stata preferibile una
esplicitazione legislativa. Nondimeno, pare difficile dare altro senso al nuovo comma. Seppur
modificando sensibilmente il bilanciamento legislativo tra valori, che ora dunque sembra ammettere
l’efficacia risolutiva del licenziamento nei confronti del lavoratore malato, la lettura corretta
parrebbe quella “ antiabuso ”(62)
. Il lavoratore non può più prolungare la durata del rapporto
esibendo attestazioni di malattie, “di comodo” o vere che siano.
Qualora il preavviso contrattuale sia di breve durata, potrebbe terminare perfino durante la
procedura disciplinare o conciliativa. Dato che però il licenziamento non è stato ancora intimato, il
rapporto lavorativo non può certo risultare già interrotto. Analogamente, qualora il licenziamento
venga intimato per giusta causa, l’effetto risolutivo non può essere concretamente retroattivo,
poiché frattanto il rapporto si è svolto (anche qualora vi sia stata sospensione cautelare, vi possono
essere sempre conseguenze retributive). La retroattività stabilita dall’art. 1 comma 41 non può
riguardare l’estinzione del rapporto, ma solo la decorrenza (anzi la durata) del preavviso, parendo
non immaginabile una riduzione delle spettanze economiche maturate nel periodo decorso tra la
contestazione e l’irrogazione oppure durante la procedura conciliativa presso la direzione
territoriale del lavoro(63)
.
In sintesi, il risultato prodotto dalla nuova disposizione sembra quello di ridurre il periodo di
preavviso di un numero di giorni equivalente alla durata del procedimento avviato dal datore e,
soprattutto, di eliminare l’effetto sospensivo che veniva antecedentemente fatto derivare
dall’eventuale malattia del lavoratore interessato. Anche ammettendo la non scontata
costituzionalità della nuova disposizione(64)
, possono prevedersi numerosi problemi applicativi. Ci
si potrebbe domandare, ad esempio, come computare le conseguenze economiche dei rinnovi
contrattuali intervenuti dopo la contestazione (ed eventualmente dopo il virtuale spirare del
preavviso con decorrenza così anticipata) ma prima della irrogazione; è comunque vero che il
comma 41 precisa che il periodo in costanza della procedura “ si considera come preavviso lavorato
”.
Ci si può chiedere, inoltre, quali conseguenze abbia il recapito di una comunicazione di avvio della
conciliazione o di una contestazione disciplinare durante una malattia, sempre che la procedura si
concluda con l’intimazione di un licenziamento. Se quest’ultimo “ produce effetto dal giorno della
comunicazione ” con cui il procedimento disciplinare è avviato, a prima vista sembrerebbe
conseguire la reintegrazione per violazione dell’art. 2110 comma 2 Cod. Civ. stabilita dal primo
periodo dell’art. 18 comma 7 Stat. Lav., ossia con indennità limitata e senza il minimo di cinque
mensilità, pur sempre però con facoltà d’optare per le quindici mensilità sostitutive. Nel caso di
procedimento disciplinare il datore non potrebbe evitare il problema attendendo il rientro del
lavoratore dalla malattia, se non per un breve tempo, altrimenti vi sarebbe un difetto
d’immediatezza della contestazione disciplinare (in prospettiva, le clausole collettive che
permettono d’attendere il rientro al lavoro del dipendente malato prima d’irrogare la sanzione
disciplinare potrebbero essere ora riscritte, in modo da consentire d’aspettare il rientro per la
contestazione).
Se il bizzarro esito appena ipotizzato è davvero quello derivante dal nuovo comma 41, sarebbe forse
opportuno che la giurisprudenza ora temperasse il consolidato orientamento per il quale
l’irrecedibilità in pendenza del comporto di malattia opera a prescindere dalla conoscenza datoriale
dell’infermità (che potrebbe non essere stata ancora comunicata). Si porrebbe altrimenti un
problema non risolvibile con un richiamo al rischio d’impresa(65)
. Potrebbe esservi infatti un rischio
d’abuso, dato che il lavoratore può ammalarsi lo stesso giorno in cui riceve la contestazione (nel
dubbio, la reazione prudenziale delle parti datoriali potrebbe essere quella di effettuare
contestazioni disciplinari solo di persona in orario di lavoro, tenendo riservata ogni indagine
preliminare). Tuttavia, se si ritenga, come sopra prospettato, che il comma 41 non possa implicare
una reale retrodatazione dell’effetto estintivo, bensì una mera riduzione del periodo di preavviso,
dovrebbe tuttora aversi riguardo alla data d’irrogazione: data alla quale, come detto, lo stato di
malattia del lavoratore sembra oggi divenuto irrilevante per implicito disposto del comma 41 in
questione. In ogni caso, non può che auspicarsi un intervento chiarificatore del legislatore.
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(1) La necessaria equiparazione, ai fini considerati nel presente contributo, della inidoneità psichica a
quella fisica è dato ormai acquisito, soprattutto dopo Corte cost. 2 febbraio 1990, n. 50, in Riv. It.
Dir. Lav., 1990, II, pag. 269, con nota di A. Avio; qualche anno prima, v. L. Montuschi, Ambiente
di lavoro e tutela della malattia psichica, in Riv. It. Dir. Lav., 1987, I, pag. 4 e segg.; per una
panoramica, v. M. Rosano, Effetti e tutele della disabilità psichica nella l. n. 68/1999, in C. La
Macchia (a cura di), Disabilità e lavoro, Roma, 2009, pag. 395 e segg.
(2) Es. Trib. Perugia 9 novembre 2012, e Trib. Perugia 15 gennaio 2013, entrambe in Lav. Pubb.
Amm., 2012, pag. 1117; Trib. Santa Maria Capua Vetere 2 aprile 2013, in www.lexitalia.it, 2013, 4;
Trib. Bari 14 gennaio 2013, in Riv. It. Dir. Lav., 2013, II, pag. 410, con nota adesiva di R. Del
Punta, Sull’applicazione del nuovo art. 18 al rapporto di lavoro pubblico; Trib. Ancona 31 gennaio
2013, in Adapt, Licenziamenti: un anno dopo la Riforma Fornero, 2013, boll. speciale n. 21. Più
analiticamente, cfr. da ultimo M. Barbieri, La nuova disciplina sostanziale del licenziamento
individuale: prime risposte giurisprudenziali, in Riv. Giur. Lav., 2013, II, pagg. 346-347.
(3) Nei primi commenti, l’orientamento a favore dell’applicabilità del nuovo art. 18 Stat. Lav.
all’impiego pubblico pare minoritario: per i relativi argomenti v. ad es. L. Cavallaro, Pubblico
impiego e (nuovo) art. 18, op. cit., pag. 2 e segg. Per l’opposta opinione v. da ultimo M. Miscione,
Il licenziamento e il rito del lavoro nelle pubbliche amministrazioni dopo la legge 92 del 2012, in
Giur. It., in corso di pubblicazione.
(4) Pedrazzoli, Licenziamenti in comparazione: la “ flessibilità in uscita ” nei paesi europei e la
recente riforma italiana, in Id. (a cura di), Le discipline dei licenziamenti in Europa. Ricognizioni e
confronti, Milano, in corso di pubblicazione, pag. 50 del dattiloscritto.
(5) L’art. 18 comma 7 Stat. Lav. menziona questa ipotesi come “ motivo oggettivo ”, offrendo
un’indicazione non trascurabile nell’ambito del dibattito sul complesso rapporto tra disciplina
codicistica comune e disciplina del giustificato motivo di licenziamento, al cui proposito si rinvia a
L. Calcaterra, La giustificazione oggettiva del licenziamento: tra impossibilità sopravvenuta ed
eccessiva onerosità, Napoli, 2008, pag. 8 e segg., e P. Tullini, Contributo alla teoria del
licenziamento per giusta causa, Milano, 1994, spec. pag. 262 e segg., nonché A. Pandolfo, La
malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, in particolare pagg. 223-231, e in precedenza L.
Mengoni, Note sull’impossibilità sopravvenuta della prestazione di lavoro, in Aa.Vv., Scritti
giuridici in onore di A. Scialoja, vol. IV, Bologna, 1953, pag. 261, ora in C. Castronovo, A.
Albanese, A. Nicolussi (a cura di), Luigi Mengoni. Scritti, vol. II, Obbligazioni e negozio, Milano,
2011, pag. 105 e segg.
(6) Ai fini del recesso non è necessario che la sopravvenuta condizione psicofisica d’iniità al lavoro
sia stata formalizzata come inabilità o invalidità. Senza dubbio comunque le risultanze medico-
legali a fini previdenziali possono avere un rilievo importante, ed anzi decisivo nel caso di inabilità
ai sensi dell’art. 2 della legge n. 222 del 1984; per l’impiego pubblico peraltro possono esservi
interferenze tra procedimento previdenziale ed estinzione del rapporto lavorativo, ai sensi del
regolamento 8 maggio 1997, n. 187, concernente l’attribuzione della pensione di inabilità ai
dipendenti pubblici, in Gazz. Uff. 30 giugno 1997 n. 150.
(7) Come implicato dall’art. 15 comma 1 lett. m del t.u. n. 81 del 2008, la possibilità di recesso
sussiste non solo in caso di sopravvenuta incapacità psicofisica a compiere le mansioni, ma anche in
quello di dannosità di tutte le mansioni possibili presso il datore rispetto al particolare stato
psicofisico, permanente o di durata indefinita, del lavoratore. In questo caso, anzi, il licenziamento
tende a configurarsi come un obbligo per il datore, allo scopo di andare esente da responsabilità ex
art. 2087 Cod. Civ.: es. Cass. 13 dicembre 2000, n. 15688, in Giur. It., 2001, pag. 1104, con nota di
A. Lepre.
(8) Tali illegittimità paiono quindi soggette al regime che contempla tra le alternative sanzionatorie
la mera monetizzazione prevista per le “ altre ipotesi ” in cui non ricorrono gli estremi del
giustificato motivo. L’analogia finalizzata ad applicare sempre la tutela reintegratoria limitata è
stata proposta da V. Speziale, Giusta causa e giustificato motivo dopo la riforma dell’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT 165/2012, pag. 41; contra C.
Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in Arg. Dir. Lav.,
2012, pag. 575, e L. Nogler, La nuova disciplina dei licenziamenti ingiustificati alla prova del
diritto comparato, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2012, pag. 680.
(9) Ritiene invece che questa casistica sia estranea al contenuto del nuovo art. 18 Stat. Lav. M.
Ferraresi, Il licenziamento per motivi oggettivi, in M. Magnani, M. Tiraboschi, La nuova riforma
del lavoro, Milano, 2012, pag. 268, che propende per considerare tuttora valido il pregresso
orientamento in favore della mera inefficacia temporanea di tali licenziamenti.
(10) Cfr. ad es. la vicenda decisa da Cass. 10 gennaio 2008, n. 278, in Foro It., 2009, I, col. 886, con
nota di L. Carbone.
(11) Da ultimo per un caso d’erroneo computo nel comporto di malattia di giornate d’infortunio, v.
Cass. 12 giugno 2013, n. 14756, in De Agostini Professionale on line. Nel senso della non
computabilità delle giornate di malattia sanzionate per assenza ingiustificata alla visita fiscale
domiciliare, v. l’orientamento Aran m174 del 25 settembre 2011.
(12) Da ultimo, v. Cass. 7 giugno 2013, n. 14471, in De Agostini Professionale on line, che richiama
l’importanza di verificare la buona fede datoriale nel rifiuto di concedere le ferie al lavoratore
all’esito del comporto. Analogamente, Cass. 3 marzo 2009, n. 5078, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2009,
pag. 502 (m), con nota di E. Cafiero; cfr. anche Cass. 19 luglio 2002, n. 10622, in Foro It. on line,
che ha motivato ritenendo che gravi sul datore l’onere di provare l’avvenuto contemperamento delle
contrapposte esigenze delle due parti contrattuali. La giurisprudenza è comunque compatta nel
ritenere necessaria la richiesta di ferie da parte del lavoratore (senza che rilevino neppure le sue
condizioni di confusione mentale causata dalla malattia: Cass. 27 febbraio 2003, n. 3028, in Riv. It.
Dir. Lav., 2003, II, pag. 805, con nota di E.M. Rossi).
(13) Il principio è pacifico: v. ad es. Cass. 7 aprile 2011, n. 7946, in Arg. Dir. Lav., 2011, pag. 1059,
con nota di A. Ferruggia.
(14) Es. Cass. 26 ottobre 1999, n. 12031, in Mass. Giur. Lav., 2000, pag. 61; Cass. 21 settembre
1991, n. 9869, in Mass. Giur. Lav., 1991, pag. 693.
(15) Si ritiene che l’illegittimità del primo licenziamento non privi d’efficacia il secondo, che
produce il suo effetto risolutivo del rapporto mai interrotto, sicché non è preclusa al datore la
possibilità di far valere il superamento del comporto che si sia poi verificato effettivamente: cfr.
App. L’Aquila 4 aprile 2002, in Giur. Lav., 2001, fasc. 3, pag. 138, con nota di E. Di Lello. Non
mancano comunque argomenti contrari, dato che potrebbe ritenersi che il licenziamento annullabile
produca egualmente i propri effetti finché non annullato, anche alla luce della disciplina della
revoca del licenziamento ora prevista dall’art. 18 comma 10 Stat. Lav.
(16) Il punto comunque è controverso. Secondo larga parte della giurisprudenza, anzi, il
licenziamento per cessazione dell’attività datoriale dovrebbe essere posticipato al rientro in servizio
o alla fine del comporto: es. Cass. 26 luglio 2005, n. 15643, in Foro It. on line. Per argomenti di
diverso segno però v. P. Ichino, Il contratto di lavoro. Sospensione del lavoro, sciopero,
riservatezza e segreto, potere disciplinare, cessazione del rapporto, conservazione e gestione dei
diritti, t. III, in P. Schlesinger (continuato da), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano,
2003, pag. 74, nonché M.J. Vaccaro, La sospensione del rapporto di lavoro, Napoli, 1984, pag. 98 e
segg., secondo la quale la prevista cessazione non è motivo di licenziamento mentre lo è la
materiale disgregazione del complesso produttivo. In effetti, alla luce dell’art. 54 comma 3 del
d.lgs. n. 151 del 2001, che ammette il licenziamento in gravidanza per cessazione dell’attività
aziendale, una dilazione maggiore per la malattia sembra poco giustificata.
(17) Es. Cass. 4 luglio 2001, n. 9037, in Not. Giur. Lav., 2001, pag. 766, che richiama il principio
della conservazione degli atti giuridici di cui all’art. 1367 Cod. Civ. Prima della novella del 2012
l’orientamento era pressoché unanime da decenni in giurisprudenza, cfr. R. Del Punta, La
sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare. Artt. 2110-
2111, in P. Schlesinger, F.D. Busnelli (diretto da), Il Codice civile. Commentario, Milano, 1992,
pagg. 364-370, ed era ampiamente maggioritario in dottrina, parimenti da tempo risalente, v. già L.
Riva Sanseverino, Artt. 2060-2134. Della impresa, in A. Scialoja, G. Branca (a cura di),
Commentario del Codice civile, Bologna-Roma, 1969, pag. 557, e G.F. Mancini, Il recesso
unilaterale e i rapporti di lavoro, I, Individuazione della fattispecie: il recesso ordinario, Milano,
1962, pagg. 281-286 (pur nel diverso contesto normativo di allora).
(18) Cfr. Cass. 12 febbraio 1981, n. 875, in Foro It., 1982, I, col. 1392, oltre a qualche sentenza di
merito richiamata da R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, op. cit., 368 in
nota 302. In dottrina, v. in questo senso M.J. Vaccaro, La sospensione del rapporto di lavoro, op.
cit., 116; nonché G. Lavagnini, La sospensione del rapporto di lavoro, Milano, 1961, pag. 122 e
segg., seppur nel diverso contesto legale anteriore alla disciplina sui licenziamenti del 1966.
(19) V. Corte cost. 8 febbraio 1991, n. 61, in Riv. It. Dir. Lav., 1991, II, pag. 724, con nota di M.G.
Mattarolo, che dichiarò illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 37, 1o comma, Cost., l’art. 2 l. n.
1204 del 1971, nella parte in cui prevedeva la temporanea inefficacia anziché la nullità del
licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel periodo di gestazione e di puerperio. Cfr. ora l’art.
54 comma 5 del d.lgs. n. 151 del 2001.
(20) L’assenza di un espresso fondamento legale di questo istituto di matrice giurisprudenziale è
nondimeno sottolineata da più parti in dottrina: es. M. Persiani, Diritto del lavoro e autorità del
punto di vista giuridico, in Arg. Dir. Lav., 2000, pag. 34; tant’è che già prima della l. n. 92 del 2012
era stato messo in dubbio in particolare da L. De Angelis, Licenziamento per motivi economici e
controllo giudiziario, in Lav. Dir., 2007, pag. 465. Rimane comunque consolidata anche in dottrina
l’opinione contraria: es. C. Zoli, I licenziamenti per ragioni organizzative: unicità della causale e
sindacato giudiziale, in Arg. Dir. Lav., 2008, pagg. 47-50; M.T. Carinci, Clausole generali,
certificazione e limiti al sindacato del giudice. A proposito dell’art. 30, l. 183/2010, in WP
C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT 114/2011, pag. 9 e segg.
(21) Da più parti si è ritenuto d’intravedere nella l. n. 92 del 2012 (nella monetizzazione di alcuni
profili d’illegittimità del licenziamento ex art. 18 Stat. Lav., ma anche nella nuova procedura
conciliativa preliminare al licenziamento per motivo oggettivo) un implicito ridimensionamento
dell’istituto giurisprudenziale del ripescaggio: es. A. Tursi, Il nuovo articolo 18 dello Statuto dei
Lavoratori: una riforma da metabolizzare culturalmente, prima che da interpretare, in Boll. Adapt,
2013, n. 21, pag. 2; F. Carinci, Il licenziamento economico individuale nel contesto dell’art. 18 St.,
relazione tenuta il 27 novembre 2013 presso la Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci,
par. 11 del dattiloscritto.
(22) Così Trib. Roma 8 agosto 2013, Trib. Varese 4 settembre 2013, Trib. Milano 20 novembre
2012, tutte in Mass. Giur. Lav., 2013, pag. 747, con nota critica di A. Vallebona, Il repêchage fa
parte del “ fatto ”. La dottrina in proposito è divisa: v. l’ampio ventaglio d’opinioni in A.
Vallebona (a cura di), L’ingiustificatezza qualificata del licenziamento, Colloqui giuridici sul
lavoro, in Mass. Giur. Lav., 2012, fasc. 12, inserto, pag. 105; sembra comunque prevalere l’idea che
alla violazione del ripescaggio faccia parte del “ fatto posto a base ” del licenziamento, sicché sia
applicabile la tutela reale in caso di sua “ manifesta insussistenza ”: così ad es. A. Perulli, Fatto e
valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell’art. 18 Stat. Lav.: ratio ed aporie dei
concetti normativi, in Arg. Dir. Lav., 2012, pag. 800; V. Speziale, La riforma del licenziamento
individuale tra diritto ed economia, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, I, pagg. 563-564; L. Zoppoli,
Flex/insecurity: la riforma Fornero (L. 28 giugno 2012, n. 92) prima, durante e dopo, Napoli,
2012, pag. 138.
(23) L’obbligatorietà del ripescaggio anche nei casi di motivo oggettivo derivante dalla persona del
lavoratore è fuori di dubbio dopo il noto intervento delle Sezioni unite: Cass. 7 agosto 1998, n.
7755, in Mass. Giur. Lav., 1998, pag. 876, con nota di M. Papaleoni. Una conferma di tale obbligo
datoriale emerge da plurime disposizioni: l’art. 15 comma 1 lett. m del t.u. n. 81 del 2008 annovera,
tra le misure generali di tutela della salute e sicurezza, l’allontanamento del lavoratore
dall’esposizione al rischio “ per motivi sanitari inerenti la sua persona ” e, “ ove possibile ”,
l’adibizione ad altra mansione (così anche l’art. 229 comma 5, l’art. 242 comma 3 e l’art. 279
comma 2 del t.u., rispettivamente sui rischi di esposizione a radiazioni ottiche artificiali, sulla
protezione da agenti cancerogeni e mutageni, e sull’esposizione ad agenti biologici); in senso
analogo s’esprimono l’art. 42 del medesimo t.u. del 2008 e l’art. 4 comma 4 della legge n. 68 del
1999: v. la nota qui di seguito.
(24) Sul punto il legislatore ha oggi eliminato ogni dubbio con l’art. 4 comma 4 della legge n. 68 del
1999 e l’art. 42 comma 1 del t.u. sulla sicurezza n. 81 del 2008, i quali impongono che il lavoratore
divenuto inidoneo alle mansioni già assegnate sia adibito alle mansioni inferiori, adeguate alla sua
situazione psicofisica, che siano disponibili, qualora non vi sia possibilità d’assegnarlo a mansioni
equivalenti. Perlomeno dopo l’avvento di tali disposizioni, dunque, non sembra trattarsi di una
modifica pattizia dell’oggetto del contratto di lavoro, ma dell’adempimento di un obbligo che
incombe sul datore in forza della legge: L. Nogler, Inidoneità alla mansione specifica, op. cit., pag.
73; G. Ferraro, Tutela dei disabili e poteri imprenditoriali, op. cit., pag. 338. Merita segnalare come
l’idea che l’obbligo datoriale di repêchage nelle posizioni disponibili su mansioni inferiori sia
esteso alle ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo diverse dalla sopravvenuta inidoneità
psicofisica va affermandosi in giurisprudenza: cfr. Cass. 13 agosto 2008, n. 21579, in Mass. Giur.
Lav., 2009, pag. 159; Cass. 12 luglio 2012, n. 11775, in Not. Giur. Lav., 2012, pag. 36; Cass. 1
luglio 2011, n. 14517, Guida Lav., 2011, 35, pag. 58. Per un quadro v. da ultimo C. Pisani, Il
repêchage nel licenziamento per motivi oggettivi: la “ creazione ” si espande al pari
dell’incertezza, in Mass. Giur. Lav., 2013, pag. 186 e segg.
(25) Convenzione sui diritti delle persone con disabilità adottata il 13 dicembre 2006 dall’Assemblea
generale delle Nazioni Unite ed entrata in vigore il 3 maggio 2008; ratificata dall’Italia con l. n. 18
del 2009 ed approvata a livello europeo con decisione del Consiglio 2010/48/CE del 26 novembre
2009 relativa all’adesione, da parte della Comunità europea, alla Convenzione delle Nazioni Unite
sui diritti delle persone con disabilità, in Gazz. Uff. Ue, 27 gennaio 2010, L23, pag. 35.
(26) Comma inserito dall’art. 9 comma 4 ter del d.l. n. 76 del 2013, a sua volta aggiunto dalla l. di
conversione n. 99 del 2013.
(27) In Riv. It. Dir. Lav., 2013, II, 922, con note di M. Cinelli e di M. Lughezzani; in Riv. Giur. Lav.,
2013, II, pag. 397 (m), con nota di M.C. Cimaglia; e in Riv. Dir. Sic. Soc., 2013, 623, con nota di
M. Marasca. Questa sentenza ha dichiarato che la Repubblica italiana, non avendo imposto a tutti i
datori di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli
applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente
l’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento
in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
(28) Sarebbe stata utile, perlomeno, la compilazione di un catalogo legale esemplificativo delle
soluzioni ragionevoli ipotizzabili alle quali legislatore allude: es. trasferimento temporaneo o
permanente, oppure distacco; riduzione o spostamento d’orario lavorativo, rotazione o esclusione
dai turni o dalle lavorazioni faticose; redistribuzione delle mansioni finalizzata a salvaguardare o
creare posizioni lavorative compatibili con la capacità lavorativa di volta in volta in questione;
rinnovo, sostituzione o nuova acquisizione di macchinari, attrezzature o appositi ausili, automazione
di processi, ristrutturazioni edilizie, ecc. Potrebbe, inoltre, immaginarsi l’introduzione di regole di
quantificazione dell’onere economico, una tantum e/o periodico, che può e deve essere imposto al
datore al fine d’impiegare la capacità lavorativa residua della persona con disabilità. Con la
prudenza necessaria riguardo ad una questione sperimentale tanto delicata, potrebbero ipotizzarsi
meccanismi procedurali di quantificazione concreta degli oneri in funzione di diverse variabili
(compresa la dimensione dell’organizzazione datoriale), anche tramite prospetti preventivi di parte,
da vagliarsi in contraddittorio ed eventualmente mediante ctu in caso di dissidio giudiziale. In una
qualche misura, una prospettiva del genere potrebbe trovare sinergie con la procedura preventiva di
conciliazione per i licenziamenti non disciplinari ora imposta dall’art. 7 della legge n. 604 del 1966
e avrebbe il vantaggio di porsi nell’interesse alla certezza del diritto. Non bisogna comunque
pretermettere che rappresenterebbe un elemento di rigidità rispetto all’apprezzamento
dell’atteggiamento delle parti e delle altre circostanze del caso concreto che solo il giudice può
effettuare.
(29) Dopo la legge n. 68 del 1999 pare superata l’idea che non possano essere imposti al datore
adattamenti organizzativi finalizzati all’integrazione lavorativa dei disabili: cfr. ad es. P.
Lambertucci, Art. 2, in G. Santoro Passarelli, P. Lambertucci (a cura di), Norme per il diritto al
lavoro dei disabili (l. 12 marzo 1999, n. 68), in Nuove Leggi Civ. Comm., 2000, pag. 1362 e segg.;
F. Limena, Il collocamento mirato dei soggetti disabili, in C. Cester (a cura di), Il rapporto di
lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, vol. II di F. Carinci (diretto da), Diritto del lavoro,
Torino, 2007, pag. 245. Prima dell’introduzione dell’art. 3 comma 3 bis del d.lgs. n. 216 del 2003,
ulteriori indicazioni a favore del superamento di un rigido principio d’intangibilità delle scelte
imprenditoriali del datore a favore delle persone con ridotta capacità lavorativa sono sopravvenute
con gli artt. 41-42 del t.u. sulla sicurezza n. 81 del 2008: cfr. L. Nogler, Inidoneità alla mansione
specifica, in Pedrazzoli (a cura di), Lessico giuslavoristico, Bologna, 2010, I, pag. 72, e S.
Giubboni, Sopravvenuta inidoneità alla mansione e licenziamento, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, I, pag.
292 e segg. Perlomeno in dottrina, pare così in via di superamento la diffidenza verso
l’ammissibilità di oneri con una componente assistenziale a carico del datore, basata sulla
precedente giurisprudenza costituzionale in materia di collocamento obbligatorio e di divieto
d’imponibile di manodopera: es. G. Suppiej, Collocamento obbligatorio e Costituzione, in Studi sul
lavoro. Scritti in onore di Gino Giugni, Cacucci, Bari, 1999, t. II, pag. 1299, e P. Ichino, Il contratto
di lavoro. Fonti e principi generali, autonomia individuale e collettiva, disciplina del mercato, tipi
legali, decentramento produttivo, differenziazione dei trattamenti e inquadramento, t. I, in P.
Schlesinger (continuato da), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 2000, pag. 123 e
segg.; propende per ritenere quest’ultima posizione superata dall’affermazione positiva dei valori di
tutela della persona G. Ferraro, Tutela dei disabili e poteri imprenditoriali, in C. La Macchia (a cura
di), Disabilità e lavoro, op. cit., pag. 341. Come già accennato, la questione è comunque
problematica, anche a causa dell’assenza, nell’attuale quadro positivo, di parametri precisi
d’indirizzo del giudizio giurisprudenziale.
(30) Sulle possibili implicazioni dei margini differenziali della nuova formulazione rispetto
all’assetto previgente, riguardanti soprattutto la retribuzione di riferimento per il risarcimento,
l’aliunde perceptum e l’indennità sostitutiva di quindici mensilità, v. M. Marazza, L’art. 18, nuovo
testo, dello Statuto dei lavoratori, in Arg. Dir. Lav., 2012, pagg. 617-619.
(31) Cfr. Corte giust. Ue 11 aprile 2013, cause riunite C-335/11 e C-337/11, in Riv. Giur. Lav., 2013,
II, pag. 397 (m), nel solco di Corte giust. Ue 11 luglio 2006 C-13/05, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, II,
pag. 750, con nota di G. Giappichelli, e in Arg. Dir. Lav., 2007, pag. 223, con nota di M. Vizioli; in
senso analogo S. Giubboni, S. Borelli, Discriminazioni, molestie, mobbing, in M. Marazza (a cura
di), Contratto di lavoro e organizzazione, vol. IV, t. 2, di M. Persiani, F. Carinci (diretto da),
Trattato di diritto del lavoro, Padova, 2012, pag. 1870; un rischio di sottovalutazione sul piano
antidiscriminatorio della malattia che non comporta handicap è stato recentemente ipotizzato da E.
Carrizosa Prieto, La discriminazione fondata sulla malattia del lavoratore, in Lav. Dir., 2013, spec.
pag. 289 e segg., e in precedenza da M. Barbera, Le discriminazioni basate sulla disabilità, in Ead.
(a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio: il quadro comunitario e nazionale, Milano, 2007,
pag. 97. Sulla scia di tale giurisprudenza europea, stanno intervenendo le prime applicazioni
giurisprudenziali del divieto di licenziamento discriminatorio per malattia: cfr. Trib. Milano 11
febbraio 2013, in Adapt, Licenziamenti: un anno dopo la Riforma Fornero, 2013, boll. speciale n.
21.
(32) Tale casistica è rara e, comunque, si riscontra tendenzialmente con riguardo non al
licenziamento bensì alla mancata assunzione a seguito di concorso pubblico o privato: da ultimo cfr.
Cass. 15 novembre 2013, n. 25734, in De Agostini Professionale on line, che, con riguardo ad una
capotreno di statura inferiore a quanto richiesto dalle fonti secondarie di settore, ha confermato
l’orientamento rigoroso secondo il quale la necessità del requisito fisico richiesto deve comunque
essere dimostrata in concreto dalla parte datoriale.
(33) Sulle opzioni interpretative che si prospettano nell’evoluzione dello strumentario
antidiscriminatorio, v. P. Bellocchi, Il licenziamento discriminatorio, in Arg. Dir. Lav., 2013, pag.
834 e segg., e M. Barbera, Il licenziamento alla luce del diritto antidiscriminatorio, in Riv. Giur.
Lav., 2013, I, pag. 148 e segg., anche per una critica alla tesi “ del licenziamento discriminatorio
perché ingiustificato ”, proposta da M.T. Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli
europei e flexicurity “all’italiana”, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2012, pag. 555.
(34) Sul fatto che, anche dopo la novella del 2012, il licenziamento discriminatorio ex art. 18 Stat.
Lav. possa essere ravvisabile solo qualora il datore non sia stato in grado di provare in giudizio la
giusta causa o il giustificato motivo con cui ha motivato il licenziamento, v. F. Carinci, Ripensando
il “nuovo” art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT
172/2013, pag. 34.; diversamente, non escludono la ravvisabilità di una discriminazione o di un
motivo illecito in caso di licenziamento pur dotato di motivo oggettivo, R. Pessi, I licenziamenti per
motivi economici, in Arg. Dir. Lav., 2013, pag. 770, e P. Bellocchi, Il licenziamento
discriminatorio, op. cit., pag. 846.
(35) Si rinvia a A. Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro: nozione, interessi, tutele, in F. Galgano
(diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Padova, 2010, pag.
49 e segg. passim.
(36) L’opinione maggioritaria ritiene che, seppure il novellato articolo non lo stabilisca
espressamente, il requisito dell’esclusività del motivo illecito permanga: es. C. Zoli, Il
licenziamento per giustificato motivo oggettivo tra reintegra e tutela indennitaria, in Riv. It. Dir.
Lav., 2013, II, pag. 667; P. Chieco, Il licenziamento nullo, in Id. (a cura di), Flessibilità e tutele nel
lavoro, op. cit., 292; F. Carinci, Complimenti dottor Frankenstein: il disegno di legge governativo
in materia di riforma del mercato del lavoro, in Lav. giur., 2012, pag. 546; G. Santoro Passarelli, Il
licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in Arg. Dir. Lav., 2013,
pag. 241. Diversamente, P. Bellocchi, Il licenziamento discriminatorio, op. cit., pag. 838. In favore
di quest’ultima tesi, può rilevarsi che la necessità che il motivo illecito sia esclusivo impediva in
pratica l’operatività della relativa sanzione: nel licenziare, il datore avrà addotto un motivo che, pur
ritenuto insufficiente dal giudice, sarà sovente dotato di quel minimo di consistenza da privare del
carattere dell’esclusività l’illecito motivo sottostante.
(37) In proposito è stata subito segnalata la disparità rispetto alla maggiore tutela garantita in caso di
licenziamenti intimati da datori non sottoposti all’art. 18 Stat. Lav., che l’art. 2, comma 3 della l. n.
604/1966 dichiara inefficaci, con conseguenze economiche ben maggiori: cfr. A. Vallebona, La
riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, pag. 44, e M. D’Onghia, I vizi formali e procedurali del
licenziamento, in P. Chieco (a cura di), Flessibilità e tutele nel lavoro, op. cit., pag. 370, che
ipotizza un’incostituzionalità.
(38) Cfr. in primis la nota Corte cost. 25 luglio 1989, n. 427, in Riv. It. Dir. Lav., 1990, II, pag. 277,
con commento di C. Pisani.
(39) Cfr. F. Carinci, Ripensando il “nuovo” art. 18, op. cit., 22-25. In dottrina l’opinione pare
largamente condivisa, anche perché altrimenti la disposizione sarebbe irragionevole e quindi
incostituzionale. Tra coloro che comunque dubitano della possibilità di un’interpretazione
adeguatrice in mancanza di un intervento della Consulta v. V. Speziale, La riforma del
licenziamento individuale tra law and economics e giurisprudenza, in WP CSDLE “Massimo
D’Antona”.IT 190/2013, pag. 46, il quale ipotizza diversi profili di illegittimità costituzionale, tra i
quali la scarsa dissuasività di tale sanzione. In senso analogo, M. D’Onghia, I vizi formali e
procedurali del licenziamento, op. cit., pag. 373, la quale sottolinea che nell’attuale quadro resta in
capo al lavoratore un preliminare onere di allegazione.
(40) È stato notato come tale termine sia più chiaro e non equivoco: M. Persiani, Il fatto rilevante per
la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in Arg. Dir. Lav., 2013, pag. 2.
(41) Sottolinea questa conclusione, tra altri, R. Romei, La prima ordinanza sul nuovo art. 18 della
legge n. 300/1970: tanto rumore per nulla?, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, II, pag. 1079.
(42) Tra i primi in questo senso, M. Marazza, L’art. 18, nuovo testo, dello Statuto dei lavoratori, op.
cit., pag. 627.
(43) Tra coloro che più hanno sottolineato l’importanza di quest’innovazione cfr. E. Gragnoli, Prime
considerazioni sulla nuova disciplina in tema di licenziamenti, in AGI (a cura di), Nuove regole
dopo la legge n. 92 del 2012 di riforma del mercato del lavoro: competizione versus garanzie?,
Torino, 2013, pag. 124.
(44) Cfr. ad es. Cass. 10 dicembre 2012, n. 22392, in Foro It. on line, e Cass. 13 luglio 2010, n.
16421, in Not. Giur. Lav., 2010, pag. 590.
(45) Cfr. Cass. 25 novembre 2010, n. 23920, in Foro it. on line, secondo cui il datore non ha l’onere
di specificare le singole giornate di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più
complessive come la determinazione del numero totale delle assenze verificatesi in un certo
periodo, fermo restando l’onere, nell’eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare,
compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato.
(46) Cass. 18 febbraio 1997, n. 1458, in Foro It. on line.
(47) Il medico competente non può considerarsi soggetto imparziale, seppur professionalmente
responsabilizzato: la responsabilità professionale del medico competente è utile per persuaderlo a
respingere eventuali pressioni datoriali che creino situazioni di rischio per la salute dei lavoratori,
delle quali egli risponde, ma non altrettanto rispetto ad eventuali pressioni datoriali finalizzate a
sopravvalutare strumentalmente, a fini di licenziamento, le inidoneità psicofisiche nelle attestazioni
mediche. Sui profili di responsabilità di questa figura, v. P. Tullini, La responsabilità civile del
medico competente verso l’azienda, in Riv. It. Dir. Lav., 2002, I, pag. 224 e segg.; sul suo ampliato
ruolo dopo il t.u. n. 81del 2008, v. E. Balletti, Art. 25, in C. Zoli (a cura di), Principi comuni, vol. I
di L. Montuschi (diretto da), La nuova sicurezza sul lavoro: commento al D. lgs. 9 aprile 2008, n.
81 e successive modifiche, Bologna, 2011, pag. 251 e segg., e R. Bortone, Artt. 38-41, ibidem, pag.
462 e segg., nonché A. Messineo, S. Sanna, La sorveglianza sanitaria, in M. Persiani, M. Lepore (a
cura di), Il nuovo diritto della sicurezza sul lavoro, Torino, 2012, pag. 288 e segg.; P. Monda, La
sorveglianza sanitaria, in L. Zoppoli, P. Pascucci, G. Natullo (a cura di), Le nuove regole per la
sicurezza. Commentario, Milano, II ed., 2010, pag. 346 e segg.
(48) A. Topo, Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento per la riforma Fornero, in Lav. Giur.,
2012, pag. 885 e segg.
(49) Es. V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra law and economics e
giurisprudenza, op. cit., pag. 51, argomentando a contrario dalla precisazione legislativa che ha
escluso l’applicabilità di tale procedura nel caso di superamento del comporto. Contra Trib. Taranto
16 gennaio 2013, in Boll. Adapt, 2013, n. 14, sulla base di argomenti letterali invero deboli (v.
l’annotazione critica di F. Marinelli, in Dir. Rel. Ind., 2013, pag. 1027).
(50) Per l’inapplicabilità della conciliazione preventiva al licenziamento per superamento del
comporto si era espresso Trib. Milano ord. 22 marzo 2013, inedita, nonché il Ministero del lavoro,
con circolare n. 3 del 16 gennaio 2013. Contra Trib. Milano ord. 5 marzo 2013, Trib. Milano ord.
27 marzo 2013, inedite.
(51) Quest’ultimo intervento del legislatore conferma la natura peculiare del licenziamento per
superamento della durata del comporto. Tale ragione di recesso, disciplinata separatamente fin dal
Codice civile, è rimasta autonoma anche dopo l’introduzione del giustificato motivo oggettivo nel
1966: senza, quindi, che la generale nozione di “ ragioni inerenti all’attività produttiva,
all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa ” abbia potuto superare l’art. 2110
comma 2 Cod. Civ. Nell’esaurimento del comporto è rinvenibile una sorta di giustificato motivo
oggettivo distintamente disciplinato per legge, il quale non necessita di prova ulteriore rispetto
all’allegazione del conteggio delle giornate d’assenza che esorbitano il numero massimo che il
datore è tenuto a tollerare. Prima che l’assenza per malattia superi tale arco di tempo, il
licenziamento è illegittimo senza che il datore sia ammesso a provare che essa crei inconvenienti
produttivi o organizzativi insopportabili (es. Cass. 8 maggio 2003, n. 7047, e Cass. 7 aprile 2003, n.
5413, in Foro It. on line; già Cass., Sez. Un., 29 marzo 1980, n. 2072, in Giur. It., 1980, I, pag.
1428). Dopo che l’assenza abbia superato tale arco di tempo, seppur non si verifichi uno
scioglimento automatico del rapporto, il licenziamento è così legittimato di per sé: il superamento
del comporto è condizione sufficiente di licenziamento, senza ulteriore onere datoriale di provare un
motivo oggettivo né in termini di sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della
correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, “ senza che ne risultino violati
disposizioni o principi costituzionali ” (così ad es. Cass. 28 gennaio 2010, n. 1861, in De Agostini
Professionale on line). Giova comunque segnalare che nell’approfondito dibattito su questo
complesso istituto si sono profilate plurime ricostruzioni diverse. Ad esempio, nel senso che dopo
l’esito del comporto il datore non sia libero di recedere ma debba provare il venir meno del proprio
interesse a ricevere la prestazione lavorativa si erano espresse alcune opinioni: v. in particolare la
ricostruzione di M. Napoli, La stabilità reale nel rapporto di lavoro, Milano, 1980, pag. 383 e segg.
Per un analitico quadro, v. R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, op. cit.,
spec. 279 e segg.
(52) Con riguardo alla violazione delle regole sul procedimento disciplinare previste dalla
contrattazione collettiva, così A. Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento
illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, in Riv. It. Dir. Lav., 2012, I, pag. 434.
(53) Secondo Cass. 22 aprile 2008, n. 10352, in Mass. Giur. Lav., 2008, pag. 787, con nota di A.
Conti, non esiste un dovere del datore di avvertire il lavoratore, assente per lungo tempo, che il
periodo di conservazione del posto sta per scadere. A tale orientamento aderiscono Cass. 21
settembre 2011, n. 19234, in Foro It. on line; App. Bologna 10 gennaio – 25 febbraio 2013, n. 20 e
Trib. Bologna 20 dicembre 2012 – 16 gennaio 2013, n. 1486, entrambe in www.giuraemilia.it.
(54) D.p.r. 27 luglio 2011, n. 171, “ Regolamento di attuazione in materia di risoluzione del rapporto
di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche dello Stato e degli enti pubblici nazionali
in caso di permanente inidoneità psicofisica ” (attuativo dell’art. 55 octies del d.lgs. n. 165 del
2001, introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009), in Gazz. Uff. 20 ottobre 2011 n. 245.
(55) In questo particolare caso, invero potrebbe ravvisarsi una violazione anche dell’art. 2110 comma
2 Cod. Civ., considerando comporto anche l’ulteriore periodo di aspettativa non retribuita
concedibile a seguito di visita medica che attesti una qualche capacità lavorativa residua (art. 5 del
regolamento n. 171 del 2011 cit.).
(56) È vero che il fatto che i contratti collettivi siano “ disposizioni inderogabili ” (art. 2113 Cod.
Civ.) non li rende di per sé “ norme imperative ” (art. 1418 Cod. Civ.; sui margini differenziali tra
imperatività ed inderogabilità, v. da ultimo F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2013,
pag. 13 e segg., e amplius, proprio sulla problematica identificazione delle disposizioni che danno
luogo a nullità c.d. virtuale, M. Mantovani, Le nullità e il contratto nullo, in A. Gentili (a cura di),
Rimedi, vol. IV-1 di V. Roppo (diretto da), Trattato del contratto, Milano, 2006, pag. 39 e segg.).
Nondimeno, dal particolarissimo valore che in termini di efficacia c.d. oggettiva come noto
l’ordinamento giuridico assegna ad essi sotto molteplici aspetti, potrebbe forse ricavarsi la nullità
degli atti unilaterali del datore contrari a clausole collettive. Se la contrattazione individuale non
prevale sulla forza di resistenza reale della contrattazione collettiva, per quanto riguarda tanto
l’introduzione di una disciplina del rapporto peggiorativa quanto l’abdicazione a diritti già maturati
(seppur con regimi d’invalidità diversi, ma comunque con eventuale termine di decadenza più lungo
di quello stabilito per l’impugnazione del licenziamento), a fortiori nemmeno un atto unilaterale del
datore sembrerebbe poter avere una tale efficacia. Per quanto riguarda la violazione di clausole del
contratto nazionale, un particolare argomento in detto senso potrebbe essere rinvenuto nella
modifica (d.lgs. n. 40 del 2006) a seguito della quale il ricorso in cassazione ex art. 360 comma 1 n.
3 Cod. Proc. Civ. è ammesso anche per violazione o falsa applicazione di norme dei contratti e
accordi collettivi nazionali di lavoro: sulla peculiarità lavoristica di tale motivo di ricorso, cfr. da
ultimo D. Borghesi, Il ricorso per Cassazione, in D. Borghesi, L. De Angelis (a cura di), Il processo
del lavoro e della previdenza, Torino, 2013, pag. 442 e segg.
(57) Secondo l’art. 10 comma 4 della l. n. 68 del 1999, il licenziamento collettivo ex l. n. 223 del
1991 e il licenziamento “ per giustificato motivo oggettivo ” sono “ annullabili ” se, nel momento
della cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia
inferiore alla quota di riserva prevista dall’art. 3 della l. n. 68 del 1999 medesima (sicché il numero
di recessi indirizzabili a disabili è maggiore nel caso in cui il datore prima superasse
abbondantemente le quote obbligatorie). Dopo la riscrittura dell’art. 18 comma 7 Stat. Lav., pare
indubitabile la riconducibilità al “ motivo oggettivo ” dei licenziamenti per sopravvenuta inidoneità
psicofisica. Per rispetto del predetto art. 10 comma 4, il datore, qualora abbia un organico al limite
della quota di riserva, deve avviare una nuova assunzione tramite collocamento obbligatorio entro
dieci giorni dal licenziamento del disabile divenuto inidoneo (così l’art. 10 comma 5 della l. n. 68
del 1999) e completarla entro il termine dell’intimato preavviso, salvo ciò non sia possibile per
dilazioni causate dal centro per l’impiego. In mancanza, la sanzione applicabile sembra essere la
reintegrazione con indennità limitata, per coerenza con l’idea cui s’è attenuto il legislatore nel
mantenere soggette a reintegrazione le illegittimità dei licenziamenti causate da ragioni connesse
alla salute. Merita segnalare che l’applicazione a tali casi di una sanzione reintegratoria potrebbe
generare inconvenienti: qualora il datore si sia rimesso pur tardivamente in regola assumendo altro
disabile, costui potrebbe perdere il posto, perlomeno ove fosse stato assunto espressamente in
sostituzione e venisse chiamato in litisconsorzio; ad ogni modo, una tale problematicità si riduce ai
casi in cui il licenziato non opti per l’indennità sostitutiva della reintegrazione.
(58) Ci si riferisce soprattutto al fatto che, secondo la già richiamata giurisprudenza costituzionale cui
s’è adeguato il legislatore, il licenziamento durante la gravidanza è (non temporaneamente
inefficace ma) nullo, come ricorda L. Calcaterra, Il preavviso di licenziamento, in WP C.S.D.L.E.
“Massimo D’Antona”.IT 162/2012, pag. 42, che tenta di dare senso alla norma distinguendo tra
astensione obbligatoria e facoltativa.
(59) Es. Cass. 11 aprile 2005, n. 7369 e Cass. 26 maggio 2005, n. 11087, entrambe in Foro It. on
line, orientamento maggioritario da tempo, anche in dottrina: es. R. Santucci, Le cause sospensive
della prestazione di lavoro, Torino, 1993, pag. 65; già G.F. Mancini, Il recesso unilaterale e i
rapporti di lavoro, I, Individuazione della fattispecie: il recesso ordinario, op. cit., pag. 305.
(60) G. Pellacani, Le modifiche alla l. 15 luglio 1966, n. 604, in G. Pellacani (a cura di), Riforma del
lavoro, op. cit., pagg. 229-230; ne dubita invece C. Fabris, La motivazione e la decorrenza degli
effetti del licenziamento individuale, in C. Cester (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del
2012, op. cit., pag. 294.
(61) Il termine è utilizzato da P. Tullini, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello
giudiziale di controllo, in Riv. It. Dir. Lav., 2013, I, pag. 151.
(62) A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, op. cit., pag. 64.
(63) Non pare pertinente un richiamo all’art. 2126 Cod. Civ., poiché tale norma riguarda il
mantenimento di rilievo giuridico del già avvenuto svolgimento di un rapporto invalido, mentre qui
si tratta dell’intento legislativo volto a vanificare il già avvenuto svolgimento, tra la contestazione e
l’irrogazione, di un rapporto lavorativo valido. Sull’ambito d’applicazione oggettivo dell’art. 2126
Cod. Civ. v. P. Campanella, Prestazione di fatto e contratto di lavoro. Art. 2126, in P. Schlesinger,
F.D. Busnelli (diretto da), Il Codice civile. Commentario, Milano, 2013, spec. pag. 68 e segg.
Alcuni degli argomenti discussi a proposito di tale norma codicistica comunque potrebbero risultare
utili ad una spiegazione degli effetti del comma 41 in questione (la tesi della sanatoria, la tesi del
contratto di fatto e del contratto recuperato mediante esecuzione, la tesi della irretroattività delle
pronunzie di invalidità, ecc.), nella misura in cui il licenziamento retroattivamente risolutivo, che
però non travolge tutti gli effetti maturati, possa ritenersi latamente assimilabile ad una
dichiarazione d’invalidità.
(64) La costituzionalità del comma 41 non è scontata, alla luce soprattutto del fatto che esso incide
indistintamente anche sulla posizione dei lavoratori realmente malati. Il legislatore sembra anzi
muovere dal presupposto che tale distinzione sia di fatto impraticabile. Orbene, un tale presupposto
potrebbe essere ritenuto eccessivamente rinunciatario dalla Consulta, dati i beni giuridici in
discussione. È vero che si tratta di un contemperamento tra valori a proposito del quale nella Carta
costituzionale non si rinvengono indicazioni puntuali, sicché il margine di discrezionalità legislativa
è ampio (in materia di decurtazioni retributive per le assenze dovute a malattia nell’impiego
pubblico un’analoga impostazione indistintamente disincentivante ha superato il recente vaglio di
costituzionalità: cfr. Corte cost. 10 maggio 2012, n. 120, in Riv. It. Dir. Lav., 2013, II, pag. 130, con
nota critica di Timellini, e in Arg. Dir. Lav., 2012, pag. 928, con nota critica di D. Mezzacapo).
Nondimeno, è da tenere presente che detto comma 41 riguarda situazioni di delicatezza massima, in
quanto coinvolgono la tutela della persona del lavoratore malato ed, al contempo, in procinto di
perdere la propria fonte di sostentamento economico (a seguito di un contrasto con il datore, nel
caso di licenziamento disciplinare).
(65) Alle perplessità relative all’attribuzione del risarcimento minimo di cinque mensilità retributive
a carico di datori soggettivamente incolpevoli dell’illegittimità del licenziamento, l’antecedente
giurisprudenza replicava richiamando il rischio d’impresa. Ci si riferisce all’ipotesi di sconfessione
giudiziale dell’accertamento sanitario ex art. 5 Stat. Lav. dell’inidoneità psicofisica: cfr. Corte cost.
23 dicembre 1998, n. 420, in Foro It., 1999, I, col. 3135, e ad es. Cass. 25 luglio 2011, n. 16195, e
Cass. 8 febbraio 2008, n. 3095, entrambe in Foro It. on line; nonché ad ulteriore casistica
particolare, ad es. all’ipotesi di computo datoriale come malattia, ai fini del comporto, di giornate
che invece erano d’infortunio in itinere, tuttavia non denunciato al datore: Cass. 6 settembre 2005,
n. 17780, in Foro It. on line.