dag tessore: la guerra e l'affascinante incontro con la morte

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Dag Tessore LA GUERRA E L’AFFASCINANTE INCONTRO CON LA MORTE Il volto della Morte I soldati occidentali che combattono oggi, non hanno certo quello spirito di fede, di missione religiosa, quell’anelito spirituale che caratterizzava i Templari o gli altri monaci- cavalieri del Medioevo. Ma la psicologia umana è rimasta la stessa. Perciò credo sia importante ascoltare alcune testimonianze di uomini del nostro secolo, i quali (sebbene nel loro caso certamente non si possa parlare di guerra santa o di religiosità guerriera), mostrano quello che, anche ai tempi delle Crociate e in ogni tempo, è l’uomo di fronte alla morte. Ad ogni essere umano, che abbia o no una concezione religiosa della vita e in particolare della guerra, quest’ultima si impone come una Maestra terrificante e fonte inesauribile di spiritualità. Molti soldati hanno constatato, con la loro esperienza diretta e personale, che la guerra ha fatto loro scoprire o riscoprire il senso autentico della vita, sentimenti umani sepolti e l’abissale profondità della propria coscienza davanti al cosmo. Un reduce della guerra del Vietnam scrisse: «Addebito ancora tutto al Vietnam, alla prima esperienza della morte come potei osservarla. Fu quello a spingermi a cercare. Allora, quando si vede la gente morire, ci si chiede cosa sia la vita. La guerra mi ha fatto vedere meglio dentro di me (…) . Ho potuto osservare le atrocità che può compiere un uomo. Parlando con gli altri, mi sono potuto sfogare. Così, ho capito anche l’amore che provano i soldati stessi (…), l’amore vero, che non ho mai più visto da allora» i . L’esperienza della morte in guerra, morte che si infligge agli altri e che in ogni momento si rischia di subire, inietta nella mente del guerriero un terrore indistinto e indefinibile, che strazia il cuore ma allo stesso tempo lo dilata, gli apre nuovi orizzonti, gli dischiude insospettate profondità dello spirito. Un soldato che combatté in Vietnam dice di aver cercato di «esprimere i sentimenti di quel giorno infernale» (una strage sanguinosa) con parole, ma di non esserci riuscito: «il resto rimane nel terrore degli occhi – scrive – e nel vuoto di ogni mente umana …» ii . Nel 1915 il soldato-poeta Ungaretti scriveva: «Un’intera nottata 1

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Saggio di Dag Tessore pubblicato sulla rivista ATRIUM, XIV (2012), n. 4

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Page 1: Dag Tessore: La guerra e l'affascinante incontro con la morte

Dag Tessore

LA GUERRA E L’AFFASCINANTE INCONTRO CON LA MORTE

Il volto della Morte

I soldati occidentali che combattono oggi, non hanno certo quello spirito di fede, di missione religiosa, quell’anelito spirituale che caratterizzava i Templari o gli altri monaci-cavalieri del Medioevo. Ma la psicologia umana è rimasta la stessa. Perciò credo sia importante ascoltare alcune testimonianze di uomini del nostro secolo, i quali (sebbene nel loro caso certamente non si possa parlare di guerra santa o di religiosità guerriera), mostrano quello che, anche ai tempi delle Crociate e in ogni tempo, è l’uomo di fronte alla morte. Ad ogni essere umano, che abbia o no una concezione religiosa della vita e in particolare della guerra, quest’ultima si impone come una Maestra terrificante e fonte inesauribile di spiritualità. Molti soldati hanno constatato, con la loro esperienza diretta e personale, che la guerra ha fatto loro scoprire o riscoprire il senso autentico della vita, sentimenti umani sepolti e l’abissale profondità della propria coscienza davanti al cosmo. Un reduce della guerra del Vietnam scrisse: «Addebito ancora tutto al Vietnam, alla prima esperienza della morte come potei osservarla. Fu quello a spingermi a cercare. Allora, quando si vede la gente morire, ci si chiede cosa sia la vita. La guerra mi ha fatto vedere meglio dentro di me (…) . Ho potuto osservare le atrocità che può compiere un uomo. Parlando con gli altri, mi sono potuto sfogare. Così, ho capito anche l’amore che provano i soldati stessi (…), l’amore vero, che non ho mai più visto da allora»i.

L’esperienza della morte in guerra, morte che si infligge agli altri e che in ogni momento si rischia di subire, inietta nella mente del guerriero un terrore indistinto e indefinibile, che strazia il cuore ma allo stesso tempo lo dilata, gli apre nuovi orizzonti, gli dischiude insospettate profondità dello spirito. Un soldato che combatté in Vietnam dice di aver cercato di «esprimere i sentimenti di quel giorno infernale» (una strage sanguinosa) con parole, ma di non esserci riuscito: «il resto rimane nel terrore degli occhi – scrive – e nel vuoto di ogni mente umana …» ii. Nel 1915 il soldato-poeta Ungaretti scriveva:

«Un’intera nottata buttato vicinoa un compagnomassacratocon la sua boccadigrignatavolta al pleniluniocon la congestionedelle sue manipenetratanel mio silenzio

ho scrittolettere piene d’amore

non sono mai statotantoattaccato alla vita»iii.

Parole più eloquenti di qualsiasi commento.

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Uno degli stati mentali più frequenti, o comunque più tormentati, per chi si trovi implicato in azioni di guerra, è costituito dal senso di colpa. Quest’ultimo non dipende dalla mancata convinzione della giustezza della causa per cui si combatte. Anche un milite crociato, sinceramente e pienamente convinto della santità della propria battaglia contro i pagani, non poteva esimersi, almeno di tanto in tanto, dal sentire nel cuore un senso di sgomento, di terrore, e dal rabbrividire al pensiero delle vite che stava falciando. «Guardare la città incendiata – scrisse un soldato della Seconda Guerra Mondiale impegnato in un bombardamento su Amburgo – fu un’esperienza da incubo. Mi veniva la nausea se pensavo alle donne e ai bambini mutilati, ustionati o uccisi o paralizzati dal terrore di quell’orribile inferno: e io ne ero in parte responsabile! (…) Perché le Chiese non dicono che stiamo facendo qualcosa di male? Perché i cappellani insistono a dirci che eseguiamo un nobile compito in difesa della civiltà cristiana?» iv. Finché si legge nei libri che Dio permette la guerra giusta e la benedice, non è così difficile crederci; ma quando ci si trova fra le rovine di una città bombardata e tra i morti che la popolano di silenzio, allora anche le più salde convinzioni – filosofiche, politiche, religiose – vacillano e sembrano sgretolarsi: «Ho cercato Dio – scrisse un soldato dall’assedio di Stalingrado – in ogni fossa, in ogni casa distrutta, in ogni angolo, in ogni mia camerata, quando stavo in trincea, e nel cielo. Dio non si è mostrato, quando il mio cuore gridava a lui. Le case erano distrutte, i camerati erano tanto eroici o così vigliacchi quanto me; sulla terra c’erano fame ed omicidio, e dal cielo cadevano bombe e fuoco. Soltanto Dio non c’era…»v.

L’angoscia del senso di colpa, religioso o semplicemente in coscienza, ritorna in diverse testimonianze, come la seguente, di un combattente nella guerra del Vietnam: «Vidi un uomo di una ventina d’anni e gli gridai: “La day” (che significava “vieni qui”). Lui si girò, mi vide: sgranò gli occhi e fuggì; allora gli sparai. Corse giù per un sentiero per un centinaio di metri, tenendosi le budella in mano. Ero nauseato dal pensiero di quello che avevo fatto… »vi. «Speravo – scrive un altro soldato – in una sorta di punizione, in qualcuno che mi dicesse: “Hai ucciso persone innocenti!”. Ma nessuno lo fece»vii.

Durante la guerra anglo-boera (1899-1902) un soldato scrisse:«Ho ucciso un uomo a Graspan,l’ho ucciso in un combattimento leale; i poeti e i sacerdoti dell’Imperogiurano e mi assicurano che ho agito bene…Ma non riescono a impedire che gli occhi dell’uomo che ho ucciso fissino i miei»viii.

San Bernardo, uno degli uomini più convinti della santità della guerra contro gli infedeli, di fronte alla morte di un uomo esclamò: «Mi dite: “Sii insensibile!”. Ma io non sono insensibile. Anche se non voglio, ho sentimento! Perché la mia forza non è la durezza delle pietre, né la mia carne è di bronzo. Mi ero imposto di non cedere alle lacrime. Ora lo confesso: sono vinto!»ix.

Gli attentati suicidi

Guardiamo ora ad un’altra delle porte della Morte: i cosiddetti “kamikaze”, di cui l’Islam integralista si serve per terrorizzare e fiaccare i propri nemici. Tralasciando qui un’analisi politica o antropologica di questo fenomeno, ci limiteremo a una breve considerazione di carattere psicologico e ci serviremo, a tale scopo, di una pagina tratta dall’opera di Ernst Juenger “La guerra come esperienza interiore”. Bisogna infatti rammentare che il kamikaze, al di là dello specifico contesto religioso e sociale in cui si trova (la Palestina dell’Intifada, le missioni terroristiche di al-Qaida, ecc.), è un uomo, con i suoi dubbi, con le sue paure, con tutta la sua umanità. Quando egli si imbottisce di esplosivo e si incammina verso la sua meta fatale, non può sapere che cosa ne sarà di lui: può solo sperare, per fede, che la sua azione sia giusta e santa e che dopo la morte incontrerà Dio. Comunque, che egli incontri o no Dio, la grandiosità psicologica del suo atto è intrinseca ad

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esso. «Questi giorni e queste notti antecedenti la battaglia – scrive Juenger – hanno un fascino strano. Tutto ciò che grava cupo nella propria inconsistenza, quell’istante lo rende un dolce possesso. Il futuro, le preoccupazioni e tutti i fardelli di cui le stanche ore ci appesantivano, vengono ora gettati dietro le spalle come si getta via un mozzicone di sigaretta. Fra qualche ora forse si cancellerà per sempre dietro di noi quest’isola confusa a cui noi, come Robinson fra tanti altri, cercammo di dare un senso. Il denaro – questa fonte di preoccupazioni – diventa superfluo e inutile, si beve fino all’ultimo soldo, non fosse altro che per sbarazzarci di esso. Dei genitori piangeranno, ma il tempo porterà via tutto (…). Gli amici, il vino, i libri, la ricca tavola di piaceri dolci e amari, tutto si spegnerà negli ultimi crepitii della coscienza, come l’ultima candela dell’albero di Natale… E’ la grande sera, il diluirsi, il dimenticare, l’essere inghiottito, il ritornare dal tempo all’eternità, dall’individualità a questo grande tutto che contiene nel suo seno ogni cosa.

Sì, il soldato, nel rapporto con la morte, nel sacrificio di se stesso per un’idea, ignora praticamente tutto dei filosofi e dei loro valori. Eppure in lui, nelle sue azioni, la vita trova un’espressione più forte e più profonda di quella che potrebbe trovare in qualsiasi libro. E così, da tutta l’assurdità di un fatto esteriore assolutamente folle, scaturisce sempre una verità luminosa: che la morte per una convinzione è un raggiungimento supremo. Essa è dichiarazione, atto, compimento, fede, amore, speranza e fine; essa è, in questo mondo imperfetto, qualcosa di perfetto, la perfezione stessa. Non importa la causa, tutto sta nella convinzione. Si può ben morire infossati in un errore palese: eppure è quanto di più grandioso si potesse fare (…). Chi è morto per un errore rimane ciononostante un eroe»x.

Amore e crudeltà

La Chiesa non ha mai cessato di esortare alle virtù evangeliche della carità, del perdono e della misericordia. Se poi, in alcune circostanze essa chiedeva al credente di impugnare le armi per il bene della Cristianità e dell’umanità, ciò non implicava minimamente un abbandono di queste virtù: «Muovono guerra pacifici – diceva San Bernardo – (…) più miti che agnelli»xi. La realtà del cuore umano non corrisponde però sempre alle direttive della religione; nel soldato cristiano vi poteva essere sincera pietà per gli uccisi, coscienza della propria “missione di pace e giustizia”, vi potevano essere sentimenti umani come lo spirito fraterno e gioioso tra commilitoni, la nostalgia per i propri cari e la terra natia, nonché la paura, i disagi oppure il divertimento, le cene insieme, la musica… Ma poteva ugualmente esserci l’istinto di crudeltà e talora anche il sadismo. William Broyles, veterano del Vietnam, scrisse: «Io credo che quasi tutti gli uomini che sono stati in guerra dovranno ammettere, se sono onesti, che da qualche parte, dentro di loro, ne hanno goduto»xii. «Non ne ho potuto fare a meno – esclama un altro soldato -, sono stato dominato dalla voglia di farlo. Ho cercato di trattenermi, ma non ce l’ho fatta: l’ho ucciso!»xiii. Le testimonianze potrebbero qui moltiplicarsi per pagine intere: il paracadutista Woodley, sempre nella guerra del Vietnam, si era fatto una collana di orecchie e dita, che portava appesa al collo (e non era l’unico!); l’artigliere Henry de Man, della prima guerra mondiale, annota nel suo diario: «Centrai in pieno un accampamento nemico, vidi corpi e parti di corpi saltare in aria e udii le urla disperate dei feriti e dei fuggiaschi. Dovetti confessare a me stesso che fu uno dei momenti più felici della mia vita (…), avrei potuto piangere di gioia!» xiv. Nonostante le esortazioni costanti della Chiesa a mantenere uno spirito cristiano in battaglia, il piacere della guerra fu sempre un’irresistibile tentazione per i soldati, del Medioevo come di oggi. Scriveva Beltrand de Born (sec. XIII):

«Ben mi piace la stagion di primaverache fa fiorire le piante e i prati, quando il canto di un alato cantore si perde lontano nel bosco e l’eco risponde;

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ben mi piace se io vedo nei pratipadiglioni e stendardi innalzati,e la gioia mi inonda il cuorequando vedo schierati a battagliacavalieri e cavalli armati.(…)Nel primo impeto della battagliavedremo forare e spezzare scudi,mazze e brandi con un confuso rumore…quando qualcuno dei prodi nobilisi mescola alla mischia,tronca teste, perfora costole:è più bello vedere i morti che i vivi vinti!Per me, dico, non ha tanto gustoné mangiare né bere né dormire,come udire gridare da ogni parte“forza, coraggio”, e cavalli nitriresotto l’ombrosa verzura,quando ripetute grida “aiuto, aiuto”nobili e poveri lanciano dai fossati;mentre uno è ferito dalla fionda,ed altri hanno nei fianchi perforatii tronconi delle aste spezzate…».

D’altronde va anche detto che la stessa crudeltà ha, in guerra, un suo ruolo: serve come sfogo del terrore represso e come esorcizzazione della morte e ridà quindi una sorta di equilibrio psicologico alla mente del soldato, sempre messa sotto pressione e tesa. Inoltre, come diceva Sant’Agostino, la crudeltà può essere utile ai fini della guerra: terrorizza il nemico e accelera così la vittoria, e quindi la pace; in questo senso essa viene praticata “per il bene”, e sempre con animo retto e caritatevole. Ma anche se chi commette crudeltà lo fa con spirito violento, vendicativo e sadico, essa mantiene pur sempre, come diceva Ibn Taimiyya, la sua efficacia e la sua utilità per il buon risultato della causa; in tal caso il crudele pecca e danneggia la sua propria anima, ma la comunità intera ne trae vantaggio.

Ma ben al di là di queste osservazioni giustificative di carattere banalmente etico, la travolgente dimensione della “cattiveria” in guerra va lasciata alla descrizione di chi l’ha veramente vissuta. Ernst von Salomon, soldato tedesco attivo intorno agli anni Venti del ‘900, racconta la sua

i Cit. in: C. Cook Williams, The Mental Foxhole: The Vietnam Veteran’s Search for Meaning, in: “American Journal of Orthopsychiatry”, 53-1, gennaio 1983, pag. 4. ii Bruce Anello, cit. in: J. Bourke, An Intimate History of Killing, trad. it.: Le seduzioni della guerra, Carocci 2001; pag. 196.iii G. Ungaretti, Veglia (1915).iv Cit. in: L. Collins, Faith under Fire, Londra 1965; pag. 85-86.v Ultime lettere da Stalingrado, ed. Torino 1962.vi Bruce Anello, cit. in: J. Bourke, op. cit.; pag. 107. vii J. Samuels, cit. in : P.S. Balboni, My Lay Was Not an Isolated Incident: What Every Vietnam Veteran Knows, in: “The New Republic”, 19 dicembre 1970; pag. 15.viii M. Grover, cit. in: M. Van Wyk Smith, Drummer Hodge. The Poetry of the Anglo-Boer War, 1899-1902, Oxford 1978; pag. 152.ix S. Bernardo, In morte del fratello Gerardo.x Ibidem, cap. 13.xi S. Bernardo, Liber ad milites Templi, cap. IV.xii W. Broyles, cit. in: J. Bourke, op. cit.; pag. 23.xiii Cit. in: M. Culpin, Psychoneuroses of War and Peace, Cambridge 1920; pag. 75.xiv H. de Man, The Remaking of a Mind. A Soldier’s Thoughts on War and Reconstruction, Londra 1920; pag. 198-199.

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campagnia militari contro i bolscevichi: «Inseguimmo i lettoni come lepri nella campagna buttando fuoco in ogni casa, riducendo i polvere i ponti e rovesciando tutti i pali del telegrafo. Buttammo i cadaveri nei fiumi scagliando loro dietro bombe a mano. Uccidemmo tutto quello che ci capitava tra le mani, incendiammo tutto quello che si poteva incendiare. Vedevamo solo rosso... Non avevamo più sentimenti nel cuore. Dove ci fermavamo, il demone della distruzione faceva gemere la terra, dove ci slanciavamo all’assalto, al posto delle case non rimanevano che rovine, cenere e travi ardenti, come ascessi purulenti sui campi nudi. Una gigantesca bandiera di fumo contrassegnava il nostro cammino. Avevamo acceso un rogo che non consumava solo materia inerte, ma le nostre speranze, le nostre passioni; dove ardevano le tavole delle leggi borghesi, le norme e i valori del mondo civile; dove bruciavano, ciarpame polveroso ormai inutile, le parole altisonanti, la fede nelle cose e nelle idee di un’epoca che ormai ci abbandonava»xv.

La spiritualità della spada

La spada ha sempre avuto un’importanza speciale nella concezione religiosa della guerra. In particolare nella tradizione cristiana essa simboleggia la «spada dello Spirito» e la croce di Cristo: «essa ha infatti la forma di una croce – scriveva Raimondo Lullo – per significare che, come Nostro Signore Gesù Cristo sulla croce vinse la morte in cui eravamo incorsi per il peccato di nostro padre Adamo, così il cavaliere con la spada deve vincere e distruggere i nemici della croce» xvi. Le spade dei cavalieri medievali, inoltre, contenevano spesso, all’interno dell’impugnatura, reliquie preziose; divenivano così oggetti sacri, degni di essere religiosamente venerati e baciati, come un crocifisso.

Un aspetto essenziale della spada come arma bellica è poi che, uccidendo con essa, ci si trova faccia a faccia con il nemico. E il poter guardare negli occhi colui che stiamo uccidendo conferisce a quell’atto di morte tutta la pienezza del suo significato. «Non è piacevole aver di fronte un essere umano, tanto vicino da poter distinguere perfino il colore degli occhi, e sapere che nell’arco di pochi secondi un’altra vita umana finirà precocemente!»xvii, scrisse un veterano del Vietnam; e un soldato della prima guerra mondiale confessava di essere rimasto per mesi «ossessionato dall’espressione di quel ragazzo mentre la mia baionetta penetrava in lui, facendolo cadere con un urlo»xviii. Se non l’avesse visto da vicino, se gli avesse sparato da lontano, non si sarebbe forse mai reso conto di ciò che significava uccidere un uomo, non avrebbe mai visto nei suoi occhi il terrore della morte, quello spasimo misto di odio e di speranza, quell’ultimo straziante sussulto di vita… Uccidere con la spada vuol dire guardare negli occhi la morte e non fuggire dalla responsabilità e dal peso tremendo di ciò che si sta facendo. Chi non ha una fortissima e sincera convinzione che la guerra che sta combattendo è veramente giusta e a fin di bene e che le uccisioni che sta perpetrando sono purtroppo necessarie e giuste, per quanto orrende, e non ha una coscienza onesta e limpida della rettitudine del suo compito di guerriero, non riuscirà a tollerare lo sguardo dilaniato e supplice dell’uomo che egli sta uccidendo; vedendo quegli occhi, gli piomberà addosso la sua cattiva coscienza e tutta la gravità del suo crimine: «e allora mi sono guardato, ho guardato chi ero, dove ero, come ero; ed ecco, ho avuto orrore, o Signore, ho avuto paura dei miei lineamenti, e la buia immagine del mio animo infelice mi ha terrificato!»xix.

Soltanto chi affronta la guerra in questa sua dimensione pienamente umana e ha il coraggio di guardare negli occhi e di lasciarsi guardare negli occhi dal suo nemico, quasi in un dialogo muto ma tanto intenso da riassumere in sé tutto il senso della vita e tutta la profondità della comunicazione tra due esseri umani, soltanto costui potrà allora dire di aver conosciuto la guerra.

xv Ernst von Salomon, I proscritti, trad. italiana: Milano 1959; pag. 114.xvi B. Raimondo Lullo, Libro de la Orden de Caballeria, V, 2.xvii V. Ricketts, cit. in: J. Bourke, op.cit.; pag. 205.xviii A. N. Depew, Gunner Depew, Londra 1918; pag. 61.xix S. Elredo di Rievault, Speculum caritatis. Cfr. A. Fracheboud, I primi spirituali cistercensi, Borla 1991; pag. 61.

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