corto circuito culturale - maschietto editore · 6 maggio 2017 corto circuito culturale luigi di...
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Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
216 283
6 maggio 2017
Corto circuitoculturale
Luigi Di Maio
“La bellezza, la creatività, la storia,il paesaggio, le capacità e il genio
italiano. Tutti asset che sono attual-mente schiacciati”
“Come se domani presentassi venti esposti contro Renzi, lo iscrivessi nel registro degli indagati e verrei in piazza e urlerei Renzi è indagato”
Maschietto Editore
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
NY City, Agosto 1969
La prima
Siamo sempre
al Central Park
e questa era
una biglietteria
che permetteva
ai visitatori di
acquistare un
biglietto per essere
trasportatati a giro
comodamente
seduti su una
specie di trenino
con ruote di
gomma. Questo
rendeva possibile,
anche per
i turisti più pigri,
attraversare
le varie zone
del parco senza
doversi sobbarcare
estenuanti
camminate
sotto l’orribile
cappa tropicale
che purtroppo
contraddistingue
il clima della
Grande Mela
durante tutti i mesi
estivi.
Direttore
Simone SilianiRedazione
Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
www.culturacommestibile.com
www.facebook.com/cultura.commestibile
Editore
Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
216 283
6 maggio 2017
In questo numeroChe Fabbrica Europa sarà
di Sara Chiarello
La scossa
di Simone Siliani
Storia degli uni e degli altri
racconto di Carlo Cuppini
Cressida, prog senza orpelli
di Alessandro Michelucci
Un lungo viaggio
di Laura Monaldi
Eugène Durieu e Eugène Delacroix
di Danilo Cecchi
Storia del by-pass del Galluzzo - 3
di John Stammer
Lampada di nome Lampada
di Claudio Cosma
3 mostre parigine
di Simone Zanuccoli
L’estinzione della destra e della sinistra
di Ugo Caffaz
Gite sociali alla maniera del Grand tour
di Andrea Caneschi
Il birresco di Vigevano
di Cristina Pucci
e
Mariangela Arnavas, Remo Fattorini, Massimo Cavezzali, Lido Contemori, Paolo Marini, Susanna Cressati...
Truppe cammellate
Le Sorelle MarxEhi raga, tutto rego?
I Cugini Engels
Il fioraio
Lo Zio di TrotzkyLe nuvole
Le nipotine di Bakunin
Riunione di famiglia
46 MAGGIO 2017
Come è nata questa edizione di Fabbrica
Europa?
Abbiamo lavorato su una visione più che su
un concetto definito, che rimane come trac-
cia sommersa nel programma. Volevamo un
festival di impatto, che rispondesse alla no-
stra esigenza di guardare oltre, verso qual-
cosa che non c’è ancora. Parla questa lingua
il progetto che ospita due grandi musici-
sti quali Hamid Drake e William Parker,
impegnati nella produzione musicale “A
Love, Naked”, un affondo nelle profondità
musicali di John Coltrane, reinterpretando-
lo e spogliandolo in versione insolita, solo
contrabbasso e batteria (14/05 alla Stazio-
ne Leopolda).
In qualità di responsabile artistico della se-
zione musica del festival, cosa ci consigli?
Quest’anno abbiamo voluto evitare divi-
sioni rigide tra le sezioni, così la musica si
intreccia al resto del programma. È sicura-
mente l’edizione in cui più di tutte presen-
tiamo un programma simile a un tessuto, in
cui tutte le tracce si intrecciano in maniera
organica. La multidisciplinarietà per noi
non vuol dire la somma di percorsi paralleli
ma una creazione per contagio, con una in-
tersezione profonda. Tra gli appuntamenti,
oltre ai concerti di inizio con il chitarrista
Francesco Diodati e il percussionista Er-
manno Baron, Matthew Herbert e la ras-
segna Dan+Z (Dance + Jazz) con la giova-
ne coreografa e danzatrice del Balletto di
Roma Roberta Racis, il chitarrista France-
sco Diodati e il percussionista Ermanno Ba-
ron, da non perdere ad esempio le chitarre
dello statunitense Marc Ribot e del canade-
se Oren Ambarchi (20/05). Affonderemo
le mani nella Firenze di certi anni, quelli
del Consorzio Suonatori Indipendenti,
con i concerti di Marco Parente (con Irene
Grandi nella reinterpretazione di Eppur
non basta, uscito 20 anni fa, in programma
È iniziato da qualche giorno Fabbrica Eu-
ropa e Cuco lo presenta con una doppia in-
tervista ai direttori artistici Maurizio Busia
e Maurizia Settembri e con la recensione
di A love supreme, spettacolo che aperto la
XXIV edizione del festival.
di Sara Chiarelllo
CheFabbricafaràil 7/05), Edda, con l’ultima creazione, Gra-
ziosa Utopia, che sta riscuotendo consensi
unanimi per canzoni che trovano in stato di
grazia il frontman dei Ritmo Tribale (11/5,
Stazione Leopolda), e Marlene Kuntz con il
capolavoro Il Vile, forti di un’energia ritro-
vata anche grazie alla presenza del bassista
Luca Lagash (13/5). Ci tengo a sottolineare
come non sia un’operazione nostalgica ma
la volontà di riproporre qualcosa di bello, e
di condividerlo nuovamente insieme. Tra
gli eventi in musica anche Tour Blu, proget-
to speciale in cui la chitarra di Adriano Vi-
terbini incontrerà i live paintings di Davide
Toffolo, frontman dei Tre Allegri Ragazzi
Morti e Alberto Ferrari dei Verdena, tra blu
e blues (6/5). E poi venite a sentire la per-
formance solista di Marc Ribot, chitarrista
al fianco di mostri sacri quali Tom Waits,
John Zorn, Elvis Costello (10/5, Stazio-
ne Leopolda, in collaborazione con Mu-
sic Pool) e le sonorità della capoverdiana
Mayra Andrade, che anticiperanno quelle
del Festival Au Desert, altro appuntamento
di cui siamo organizzatori, momento di in-
contro tra musicisti tuareg, maliani, berberi
e africani con artisti della scena europea e
internazionale (12/05).
Come si costruisce un festival come Fabbri-
ca Europa?
C’è un lavoro molto lungo dietro: la pros-
sima edizione inizieremo a pensarla già in
questi giorni, grazie a ciò che accadrà sul
palco o dietro le quinte. Il festival prenderà
così forma mattone dopo mattone, in una
costruzione che crescerà nel tempo. Dopo
aver messo a fuoco i nostri sogni e i nostri
desiderata, inizieremo a scremare le propo-
ste, e cercheremo i finanziamenti. Un lavo-
ro faticoso, anche perché durante l’anno il
nostro staff è ridotto ai minimi termini, ma
che ci dà sempre molta soddisfazione.
Maurizio Busia
56 MAGGIO 2017
di Sara ChiarellloCome immagina Fabbrica Europa tra 20
anni?
Non me la immagino nemmeno l’anno
prossimo (ride), perché Fabbrica Europa
ogni edizione muore e risorge, ogni anno
parte con una grande incognita ma fin qui
ce l’abbiamo sempre fatta! Sicuramente
nelle possibili future edizioni mi piacereb-
be ci lavorasse un grande staff formato da
giovani, frutto di un completo rinnovamen-
to e di una grande partecipazione. Avere
una sede fissa, intendo non solo un luogo
di lavoro quale un ufficio, come adesso, ma
degli spazi e delle attività permanenti per
tutto l’anno, certo ci aiuterebbe. Il festival ci
riempie sempre di grandi soddisfazioni ma
in questa maniera, chiedendo il favore di
ospitalità a teatri e spazi vari per proporre
residenze, è molto faticoso, anche se questo
fa di Fabbrica Europa una manifestazione
di grande partecipazione, di collaborazione,
uno dei segreti della sua riconoscibilità. Io
vedo Fabbrica Europa come un progetto
orizzontale, di rete, pensato per Firenze,
che è una città che ha sempre avuto biso-
gno di concordare, di trovare degli accordi
interni, di non farsi concorrenza. Per que-
sto dobbiamo sempre evolverci, cambiare,
proporre un programma di alta levatura
perché vediamo che tanti nostri contenuti
poi vengono recepiti da altre strutture, e
crediamo che il nostro compito fondamen-
tale sia quello di continuare a innovare. Per
fare questo c’è bisogno di una mentalità
aperta e di una grande forza giovanile.
Quale è lo stato dell’arte dell’Italia secondo
lei?
Non è dissimile a quello del resto del Me-
diterraneo, ma purtroppo c’è una grande
differenza ad esempio con il Nord Euro-
pa. Qui c’è un patrimonio storico che deve
essere conservato e tutelato, e che è anche
fonte di turismo, ma questo in qualche ma-
niera frena la produzione contemporanea.
Da noi c’è un microcosmo che ci crede,
composto da tantissime realtà che vivono a
volte sul volontariato, perché comunque vo-
gliono innovare. Ci sono progetti e piccoli
bandi che aiutano la scena, ma non credo ci
sia un vero investimento sull’arte contem-
poranea, che trovo sarebbe necessario.
Quali potrebbero essere delle nuove moda-
lità per incuriosire il pubblico e formarlo?
Secondo me ad esempio il progetto dell’ar-
tista francese Jérôme Bel, Gala, in prima
Maurizia Settembri Foto di Antonio Viscido
66 MAGGIO 2017
nazionale alla Leopolda mercoledì 10 e
giovedì 11 maggio, che mette insieme una
ventina di persone tra professionisti e non,
bambini e umanità varia. Credo che sia un
format molto intelligente, creativo e inte-
ressante, che il coreografo porta in tutte le
parti del mondo, dall’Australia a Parigi. In
questo momento il coreografo è in mostra
al Museo Pecci di Prato (fino al 25 giugno),
con un progetto collegato al nostro. Bel è in-
teressante perché non usa le persone come
se fossero dei volontari, tutti i partecipanti
vengono pagati come professionisti e tutti
sono alla pari e sono artisti. Secondo me
questa modalità incuriosisce a seguire gli
spettacoli. È un modo di rendere partecipe
il pubblico, facendo anche capire che l’arte
ci paga. Certo, è un format internazionale,
molto costoso, perché la scelta di chi prende
parte al progetto viene fatta in mesi di sele-
zione, in un iter che prevede anche la rea-
lizzazione di un video con il cellulare, vari
incontri di persona etc etc. Questa modalità
permette però secondo me la realizzazione
di uno spettacolo moderno e fresco.
Fabbrica Europa non è un festival di produ-
zione in senso stretto, ma di fatto lo è, cosa
vuol dire lavorare su queste produzioni mo-
numentali?
Lo facciamo da sempre. Il mondo è sem-
pre più piccolo ed è interessante lavorare
a livello internazionale, non per trovare la
star, ma per cercare un modo valido e at-
tuale di comunicazione e di condivisione di
esperienze. Per esempio il progetto Bhinna
Vinyasa ideato dal coreografo indiano Jaya-
chandran Palazhy, direttore dell’Attakka-
lari Centre for Movement Arts di Banga-
lore, che sarà in scena dal 13 al 15 giugno
al Teatro La Compagnia, in collaborazione
con il festival di cinema River to River, è il
frutto del lavoro fatto da questo centro per
le arti che si occupa di formazione, ha una
compagnia stabile e organizza un festival.
Quando ci siamo visti, abbiamo trovato con
loro un terreno fertile di incontro, mi hanno
invitato a seguire il loro festival e ho potuto
vedere dove lavorano, come lavorano, e l’ho
apprezzato molto. Li ho così voluti invitare
a FE, ma ho dovuto parallelamente lavorare
anche per realizzare un tour per loro perché
una compagnia che viene dall’India, anche
per essere supportata dal suo governo, ha
bisogno di avere un tour, che toccherà il
Teatro Argentina di Roma, continuando ad
Ancona, al Teatro Franco Parenti a Milano
e a Verbania al Teatro il Maggiore.
Cosa non possiamo proprio perdere al Festi-
val?
Sono tanti gli spettacoli che suggerisco
di venire a scoprire, ma vorrei ricordare
il progetto Half a House, che si terrà alla
Palazzina EX Fabbri alle Cascine dal 10
al 14 maggio, che verrà aperta in maniera
insolita, dal pomeriggio alle 16 fino alle
20. Qui si svolgerà un progetto europeo
con una ventina di artisti e operatori che
presenteranno realmente una nuova mo-
dalità di fare arte, dove si mescoleranno
tematiche legate alla biologia, alla scienza
e al sociale. Nella formula, c’è una parte
performativa e di aperitivo inclusa nel bi-
glietto d’ingresso.
76 MAGGIO 2017
di Simone Siliani
A Love Supreme è una scossa elettrica che
percuote senza sosta i corpi dei quattro dan-
zatori della coreografia di Salva Sanchis e
Anne Teresa De Keersmaeker, che ha aper-
to la XXIV edizione del festival Fabbrica
Europa. Un’onda sonora continua che av-
volge e attraversa corpo e anima dei quattro
e torna, trasformata ed elevata a potenza,
nella sala della Stazione Leopolda che ogni
anno ritrova in questo festival la sua vera
vocazione culturale, depurata dai chiac-
chiericci della politica (con cui è, purtrop-
po, diventata famosa in Italia) e dai saltuari
eventi mondani.
Sembra quasi che il capolavoro di John Col-
trane attendesse questa coreografia quale
suo completamente teleologico. Tutto ha
un suo ordine, scandito dal numero quattro:
quattro musicisti che eseguono la suite in
quattro movimenti (Acknowledge, Resolu-
tion, Pursuance, Psalm); i quattro danzatori
che ne sono al contempo riempiti e impa-
droniti; il tempo in 4/4 che scandisce l’ordi-
ne musicale su cui si intesse la trama core-
ografica. Stefan Hertmans, nel programma
di sala, cita opportunamente il “quadrato
magico” rappresentato nell’opera Melan-
cholia I di Albert Dürer: opera complessa
in cui il numero 4 domina (presente in molti
degli oggetti raffigurati nell’incisione, come
quattro sono le dita visibili della mano sini-
stra sulla quale poggia la testa pensierosa
della figura centrale, quattro sono i chiodi
in basso a destra e la presenza del crogiolo
degli alchimisti sembra alludere alla prima
delle quattro fasi alchemiche necessarie per
sintetizzare la “pietra filosofale“). Del resto
quattro sono i sensi coinvolti totalmente
in questa coreografia. E, infine, quattro sta
nella Bibbia per completezza dal punto di
vista della forma e delle funzioni, come nel
caso dell’espressione i “quattro angoli della
terra” (Rivelazione 7:1; 21:16; Isaia 11:12).
Niente avviene per caso in questo univer-
so musicale-coreografico, eppure è assoluta
vitalità e improvvisazione. È la funzione
eversiva svolta dalla musica di Coltrane
che è misura certamente, ma anche rottura
di ogni schema, che non può contenerne la
forza vitale. Così è per la coreografia della
De Keersmaeker: tutto è inscritto in una
dimensione spaziale che nel primo silente
movimento i quattro danzatori definiscono,
novelli Demiurgi, ascoltando una propria
musica interiore: costruito questo cosmo
spaziale, irrompe la musica a riempirlo di
vita, di contenuti, a definirne i valori etici di
riferimento. Ma poi quello schema spaziale
non riesce a contenere la forza primigenia
dei corpi, della forza, finanche dei caratteri
(così meravigliosamente diversi e precipui:
la felicità, la grazia, la potenza e l’ordine)
dei quattro danzatori.
Davvero un capolavoro toccato dalla grazia
dello spirito del mondo questo A Love Su-
preme, il miglior viatico per la nuova edizio-
ne di Fabbrica Europa che fino al 15 giugno
offrirà ancora molta arte contemporanea e
vita a Firenze.
La scossa
86 MAGGIO 2017
Lo Zio diTrotzky
Al grido di “ehi raga” il tesoriere del PD
e parlamentare Francesco Bonifazi ha
richiamato i colleghi parlamentari su
Facebook all’indomani dell’approvazione,
col voto determinante del PD, della legge
sulla legittima difesa. Non certo per stig-
matizzare una legge che insegue i peggiori
istinti del Paese ma, in linea con quanto
dichiarato la sera prima dall’amato leader
Renzi, per equiparare la legittima difesa
notturna con quella diurna. Al di là del
merito, quello che non finisce di stupirci è
la disinvoltura con cui un parlamentare,
non un avventore del bar sottocasa, affron-
ti un problema per il quale è lautamente
pagato da tutti noi.
Se l’onorevole Bonifazi riteneva ridicola
la norma che il suo partito ha proposto e
votato, aveva, a differenza di noi, molti
più strumenti di un post su un social per
intervenire.
Immaginiamo, visto che dal resoconto
d’aula Bonifazi risulta in missione al
momento del voto, che l’ora della votazio-
ne coincidesse con altri e più pressanti
impegni per lui e per il Paese. Altrimenti
ritorni ai bar alla moda in cui ha dato
prova di essere a suo agio e in cui tali
ragionamenti sono più in linea rispetto al
parlamento della Repubblica.
Le SorelleMarx
I CuginiEngels
Truppe cammellate
Ehi raga, tutto rego?
E così si son celebrate le ennesime prima-
rie del Pd. Ancora con qualche strascico
polemico sui risultati, ma un dato è certo:
la vittoria di Renzi ha un solo artefice e il
suo nome è Eugenio Giani, unico e inimi-
tabile maneggiatore di preferenze. Quando,
qualche mese fa, nel quartier generale di
Renzi sono iniziati a girare i primi sondaggi
non sufficientemente bulgari sugli esiti a
Lui favorevoli, colonnelli, luogotenenti e
sergenti dello stato maggiore renziano sono
stati presi da sconforto: “Ragazzi, qui se non
si porta il Capo almeno al 70%, ci licenzia
tutti e dobbiamo tornare ai nostri aperitivi
serali nei baretti di periferia”. Ma Boni-
fazi, uomo di esperienza e di mille risorse
(e qualche spritz di troppo) ha avuto una
brillante idea: “Telefono a Giani e ci pensa
lui!”. “Pronto Eugenio? Pensaci tu! Abbia-
mo bisogno di voti: porta le truppe cammel-
late per le primarie!”. Eugenio non s’è fatto
pregare, nonostante si trovasse impegnato
in una pregevole iniziativa, con buffet
(appena la terza della giornata): “Certo,
Francesco, se lo vuole il Capo... parto subito
alla ricerca”. Così, novello Eugene d’Ara-
bia, il buon Giani è andato a colpo sicuro e,
come mostra la foto, ha centrato l’obiettivo:
“Siamo in #africa con il #dromedario ? No,
siamo a #Firenze per la mostra dell’ #Arti-
gianato, ricca di presenze di #artigianato e
#arte da ogni parte di #Italia #Europa e del
#mondo!”. Il nipote di Canapone, storico
dromedario dello zoo di Firenze (purtroppo
affogato nell’alluvione del ‘66), è solo l’ulti-
mo delle migliaia di cammelli che Giani ha
portato ai seggi Pd. Per la verità Bonifazi è
rimasto lì per lì un po’ interdetto, ma poi ha
interpretato il regolamento delle primarie
e ha concluso: “Oh caspio, si starà a vedere:
à la guerre comme à la guerre. Si fa votare
tutti, cani, porci e cammelli!”. Et voilà, les
jeux sont faits: Renzi 71,1%
Ovvia, finalmente il nostro sindachino
Dario Nardella ci ha restituito a meraviglia
quell’antro grigio, spettrale e scontato –
diciamolo, anche brutto – che è il piazzale
degli Uffizi. Infatti, dalla tribuna della
newsletter, Nardella fioraio ci consiglia
caldamente di andarlo a vedere ora quel
piazzale perché “Proprio come la scorsa
primavera, è tornata l’invasione botanica
nel piazzale degli Uffizi: un giardino tem-
poraneo (resterà fino al 21 maggio) pieno di
piante e fiori provenienti da tutto il mondo.
Vi invito a passarci, perché è diventato
davvero un luogo magico.”. Strano che
ancora non ci sia stata una bella foto in cui
Nardella abbraccia un albero nel piazzale
degli Uffizi. Il quale, nella sua secolare
storia, mai ha conosciuto simili infiorate,
eppure era parso “magico” a generazioni di
artisti, architetti, visitatori e anche qualche
sindaco occasionalmente. Invece, Nardella
è proprio determinato a togliere gli Uffizi
dal loro secolare squallore e restituirlo a
vita nova, ora con l’invasione botanica, ieri
con il cinema all’aperto. Ma, così come
modesto suggerimento, lasciarlo così com’è,
nudo e grigio, con le sue perfette forme e
proporzioni, voluto da Cosimo come polo
direzionale in cui collocare tutte le magi-
strature e realizzato da Vasari fra il fiume,
la chiesa di S. Pietro, piazza della Signoria
e la Loggia dei Lanzi? Magari sarà meno
“magico”, ma certamente non sfiorisce dopo
qualche settimana.
Il fioraio
96 MAGGIO 2017
disegno di Lido Contemorididascalia di Aldo Frangioni Le nipotine
di Bakunin
Nel miglioredei Lidipossibili
Gli amletici dubbi del gallo francese: fidarsi del topo o del serpente?
“Vanno, vengono, ogni tanto si fermano e quan-
do si fermano sono nere come il corvo sembra
che ti guardano con malocchio” cosi cantava
Fabrizio De André e così è stato. La “nuvola”
di Fuksas si è mossa, spostata di un paio di
metri e si è messa di traverso alla strada. Ora
dovranno restringere la sede stradale di viale
Europa all’Eur a Roma.
Il centro congressi più costoso mai realizzato
in Italia (circa 430 milioni di euro compreso
IVA), sul quale pende un’inchiesta della Corte
dei Conti, completato il 29 ottobre 2016 dopo
oltre nove anni di lavori, è stato realizzato
spostato di circa 2 metri rispetto alla posizione
nella quale doveva essere costruito.
Questo è quanto sostiene Eur spa, la società
pubblica (90% Ministero dell’Economia e 10%
Comune di Roma) che minaccia provvedimen-
ti. Ma noi sappiamo che non è così. Lo sapeva
già De André e lo ha scritto anche Tito Barbini.
“Le nuvole non chiedono il permesso”. Vanno
dove più gli aggrada. E quando si fermano
provocano pioggia, tempesta, danni. Per ora si è
fermata li, ma domani chissà...
Segnalidi fumo
Viviamo immersi, invasi, ossessionati dal
continuo, ininterrotto flusso di notizie, di-
sponibili gratuitamente e in tempo reale.
Crediamo così di conoscere i fatti, di essere
aggiornati e di sapere come gira il mondo.
Tante notizie ma, in realtà, molta cattiva in-
formazione. Di fatto la verità, in questi ultimi
anni, ha perso valore e interesse. E oggi, anche
per i più scafati, diventa sempre più difficile
distinguere il vero dal falso.
L’attenzione a tutto questo si è accentua-
ta all’indomani delle elezioni americane e
dell’esito del referendum sulla Brexit. Tanto
che l’Oxford Dictionary definisce la post ve-
rità “parola dell’anno 2016”. Periodo in cui
le fake news sono cresciute in maniera ver-
tiginosa. La qual cosa riguarda anche noi: il
panorama italiano delle bufale è infatti as-
sai affollato. Utilizzare e diffondere notizie
approssimative, imprecise e false a sostegno
delle proprie tesi, allo scopo di sviluppare
traffico in rete o per rafforzare il proprio con-
senso, è una pratica molto diffusa, a partire
- ahimè - proprio dalla politica. Proprio da co-
loro cioè che invece dovrebbero svolgere – sia
se appartenenti alla destra o alla sinistra o al
centro dello schieramento – un ruolo educati-
vo, formativo e responsabile. Tanto che, anche
in Italia, alcuni siti – vedi pagellapolitica.it –
si sono specializzati nella caccia alle frottole.
A titolo d’esempio ecco un piccolo campio-
nario riportato anche sul “Punto” di Beppe
Pagliaro. Beppe Grillo: un terzo delle aziende
italiane ha chiuso i battenti da quando siamo
entrati nell’euro. In realtà da allora il numero
delle aziende è cresciuto. Matteo Renzi sul-
la riforma costituzionale: è la prima volta in
Occidente che un parlamento vota per abo-
lire sé stesso. Falso, è accaduto anche in Sve-
zia, Danimarca, Nuova Zelanda. Oppure:
quando aumentò l’Iva dal 21 al 22% il gettito
diminuì. Non è vero, il gettito aumentò. Sil-
vio Berlusconi: la macchina dello Stato costa
agli italiani il 30% in più rispetto ad altri
cittadini europei. In verità l’amministrazio-
ne pubblica italiana costa solo l’1,2% in più
della media europea. Più di noi spendono Da-
nimarca, Finlandia, Regno Unito, Portogallo.
Matteo Salvini fra le tante dice: tre quarti dei
detenuti nelle nostre carceri sono stranieri.
In realtà sono solo un terzo. E c’è da scom-
mettere che nei prossimi mesi assisteremo ad
un’accelerazione. Avvertimento: fate atten-
zione a quel che leggete, così come fate con
ciò che mangiate e bevete.
di Remo Fattorini
Le nuvole
106 MAGGIO 2017
L’arte di Luca De Silva è un lungo viaggio
della mente e nella mente che procede oltre i
linguaggi estetici per ribadire l’essenza intima
della creazione e dell’ispirazione. Porsi al di
là dell’immagine e della parola per Luca De
Silva significa porre l’accento sull’armonia al-
chemica del Tutto, sulla riflessione concettuale
che le categorie contemporanee evocano nella
loro ambiguità semantica e nella loro sfuggen-
te presenza nel mondo. Ripensare l’Arte è il
punto di partenza per rifondare una diversa
concezione dell’opera d’arte, la cui fisicità si
manifesta come un corpo vivente, antropolo-
gico e psicologico, analizzato universalmente
e concepito nella quarta dimensione del vir-
tuale e del sogno. Le opere di Luca Di Silva
sono epifanie dello spirito, dettate dalla con-
sapevolezza che l’artista contemporaneo deve
essere un testimone del passato, un “messia”
del presente e un sognatore de futuro: un intel-
lettuale libero che manipola l’oggetto e i legami
comunicativi della modernità per sublimare
la pesantezza epistemologica ed emancipare
la Vita. La mutevolezza, l’evoluzione, la con-
taminazione e l’energia della luce che affiora
dalle tenebre sono i richiami mistici che coin-
volgono il corpo dell’artista in installazioni e
performance dall’aulico slancio poetico. L’a-
zione sull’oggetto si tramuta in una ponderata
messa in evidenza che non vi sono limiti alla
dialettica artistica: il Tutto nasce da un arduo
processo cognitivo capace di dare valore e sen-
so all’apparenza e alla casualità. Da un sem-
plice pretesto oggettuale scaturisce l’idea che
è il possibile è infinito nel suo eterno divenire
e dis-venire. In una delle vetrine della Bibliote-
ca San Giorgio di Pistoia è possibile ammirare
l’installazione “Al di fuori di me tutto è possibi-
le”: una rinascita al di fuori del corpo fisico; un
salto in una dimensione parallela, nell’anima,
nella psiche e nell’immaginario collettivo che
ci portiamo dietro. «Dal teschio si passa al viso
sdraiato che guarda in alto con una luce neutra
(o quasi), passando poi al vasetto in cui la luce
è rossa, simbolo o riferimento ad una energia
creativa, di rinascita, del sangue come energia
del parto. Poi la testa con luce blu che guarda
il suo passaggio, il suo percorso simbolico del-
la vita vissuta. Uno sguardo blu o azzurro che
riflette nella nostra memoria la dimensione
infinita del cielo e dell’universo del pensiero».
Quello di Luca De Silva è un processo del fare
che annienta il tempo e invoca la memoria; che
richiama alla mente l’innocenza primigenia,
invocando una nuova primavera e il senso di
un’energia che parte dalla vita vissuta che l’Ar-
te deve riscoprire.
di Laura Monaldi
Un lungo viaggio
Luca De Silva in performance - fotogramma tratto da un video di Stefano Cecchi
Luca De Silva in performance a Villa Caruso Bellosgurado in occasione dell’evento “Vitamine”
116 MAGGIO 2017
disegno di Massimo Cavezzali
nings. Alcuni mesi dopo decidono di cambiare
nome e di chiamarsi Cressida (nome tratto dalla
tragedia shakespeariana Troilus and Cressida).
Il gruppo sta crescendo e comincia a suonare
all’estero. Prima in Germania, come supporter
di Colosseum ed East Of Eden, poi a Bratisla-
va. Quest’ultima è una tappa insolita, dato che
all’epoca la Cecoslovacchia concede poco spa-
zio agli artisti dell’Europa occidentale. I tempi
sono ormai maturi per entrare in sala d’incisione.
L’esordio discografico avviene con l’LP Cressida
(Vertigo, 1970). Il produttore è Oswald Byrne,
un australiano che pochi anni prima ha prodotto
i primi dischi dei Bee Gees. Il gruppo propone
un rock elegante e curato che segna l’anello di
congiunzione fra gli ultimi echi della musica
psichedelica e i primi vagiti del rock progressivo.
Senza orpelli, armati soltanto di chitarre, piano,
organo e sezione ritmica, i cinque musicisti pro-
pongono arrangiamenti variati e non banali, con
gustosi intrecci di organo e chitarra elettrica. La
maggior parte dei brani è firmata da Heyworth
o da Cullen. “Home And Where I Long To Be”,
dove compare il clavicembalo, si segnala per una
soluzione metrica insolita. “Winter is Coming
Again” è un pezzo dolce e sognante.
In Asylum (Vertigo, 1971), sempre prodotto da
Byrne, John Heyworth è stato sostituito da John
Cullen. Il disco esce postumo, dato che il gruppo
si è sciolto qualche mese prima. Asylum non si
discosta sostanzialmente dal disco precedente,
ma presenta qualche novità negli arrangiamenti.
In “Lisa” compare Harold McNair, eccellente
flautista jazz, mentre Graeme Hall dirige l’or-
chestra che arricchisce la lunga “Munich”. “Let
them come when they will”, articolata e ricca di
variazioni, è uno dei vertici del gruppo.
I membri del gruppo prendono strade diverse:
Clark si unisce agli Uriah Heep, Culley ai Black
Widow, mentre altri fanno perdere le tracce o
compaiono occasionalmente in dischi altrui. John
Heyworth muore nel 2010. Nel 2011 Clark,
Cullen, Jennings e McCarthy tornano insie-
me per alcuni concerti, affiancati dal chitarrista
scozzese Roger Niven. Al tempo stesso nasce il
sito del gruppo, che ne racconta la storia in modo
preciso e dettagliato (www.cressida-group.co.uk).
Le due raccolte pubblicate nel 2012, Trapped In
Time - The Lost Tapes (Esoteric) e The Vertigo
Years Anthology 1969-1971 (Esoteric), conten-
gono materiale già noto, talvolta in versioni diffe-
renti da quelle apparse su LP, insieme ad alcuni
pezzi inediti. L’anno successivo il gruppo suona
al Melloboat, un festival prog svedese che si tiene
ogni anno su un battello.
Il gruppo inglese non ci ha lasciato dei capolavo-
ri, ma due dischi interessanti che documentano
perfettamente la temperie musicale di quel pe-
riodo. Anni che non devono essere oggetto di un
culto nostalgico, ma che dobbiamo considerare
una parte di noi, senza la quale non saremmo po-
tuti diventare quello che siamo oggi.
Il rock progressivo degli anni Settanta, soprat-
tutto quello inglese, ha segnato profondamente
i gusti musicali degli europei nati dopo la fine
della Seconda guerra mondiale. All’epoca gruppi
come Emerson, Lake & Palmer, Premiata Forne-
ria Marconi e Yes proponevano brani di 10 o 20
minuti dominati da tastiere magniloquenti, arric-
chiti da influenze che spaziavano dal folk al jazz.
Negli anni Ottanta, però, questa musica è diven-
tata oggetto di un forte ostracismo: il linguaggio
essenziale, spesso anche rozzo, del punk la ren-
deva stucchevole alle orecchie dei giovani musi-
cofili. Poi, verso la fine del secolo, è cominciata la
sua rivalutazione, spesso acritica e nostalgica. Ma
chi scrive, pur avendo vissuto e amato il prog de-
gli anni Settanta, crede che sia possibile parlarne
anche senza cadere in questa logica. La musica
dell’epoca deve essere valutata per quello che è,
non perché la si associa alla gioventù.
L’occasione per farlo ci viene offerta dai tre dischi
dei Cressida, un gruppo inglese attivo fra il 1968
e il 1970, che sono stati ristampati recentemen-
te dall’etichetta giapponese Belle Antique. Per
inciso, un consiglio: se cercate un disco di quegli
anni, ricordate che alcune etichette giapponesi,
come la suddetta Belle Antique, ne hanno ri-
stampati moltissimi.
La storia dei Cressida comincia all’inizio
del 1968, quando il giovane chitarrista John
Heyworth risponde a un annuncio che trova sul
settimanale Melody Maker. Il lavoro che gli viene
proposto si svolge a Londra, quindi John lascia il
Lancashire e si trasferisce nella capitale. Qui
entra a far parte dei Dominators, uno dei tanti
gruppi minori che cercano di farsi spazio nell’af-
follata scena musicale britannica. Diventa amico
di Angus Cullen, cantante del gruppo, che lo
accoglie nella casa di famiglia. I due cominciano
a comporre e poco dopo entrano in contatto con
altri musicisti: Iain Clark (batteria), Lol Coker
(organo) e Kevin McCarthy (basso). Nascono così
i Charge, che cominciano a suonare nelle uni-
versità e nei locali londinesi del tempo: Blaises,
Marquee, Speakeasy. I primi concerti includono
brani di altri gruppi, come Doors e Spirit, ma an-
che numerose composizioni originali di Cullen e
Heyworth.
Quindi Lol Coker viene sostituito da Peter Jen-
di Alessandro Michelucci
Cressida, prog senza orpelliMusicaMaestro
SCavezzacollo
Un lungo viaggio
126 MAGGIO 2017
Storia degli uni, che propendevano per una
vita quieta e ragionata, e degli altri, che si
lanciavano in frequenti avventure rischiose
e dissennate. Dove gli uni, un giorno, rag-
giunti i diciott’anni d’età, decisero di ini-
ziare a fumare, mentre gli altri studiavano
alacremente sui libri di fisica per tentare di
passare l’esame di maturità.
Gli uni e gli altri avevano grandi progetti
per il proprio avvenire, anche se si accinge-
vano a intraprendere strade molto diverse
per realizzarli.
Accadeva che gli uni cucinassero delle cro-
state alla crema e che gli altri facessero del-
le emozionanti gite al fiume.
La volta che gli uni rischiarono di morire
per un malore in piscina, gli altri calpesta-
rono per errore la propria ombra e si videro
costretti a fare venti volte il giro dell’isolato,
correndo e gridando a più non posso.
Nel corso di un anno bisestile gli uni si in-
namorarono di una ragazza bionda, timida
ma dallo sguardo deciso e dal naso forse un
po’ troppo pronunciato. Intanto gli altri as-
secondavano una rabbiosa euforia e, saliti
in macchina, cercavano una prostituta sui
viali. La trovarono, ed era una donna ve-
stita di rosso e di giallo con lunghi capelli
castani; questi altri risultarono molto meno
disinvolti di quello che avrebbero voluto di-
mostrare e se non fecero una sonora figurac-
cia fu solo grazie all’indulgente attenzione
della donna.
Dopo la prima giovinezza, per molti anni
non ebbero più occasione di incontrarsi.
Ad un certo punto, tuttavia, le vicende de-
gli uni e degli altri furono lì lì per sfiorarsi
di nuovo, quando gli uni presero a milita-
re nel movimento per l’apertura del guscio
dell’uovo con una mano sola, mentre gli al-
tri sostenevano animosamente la causa del-
lo sgusciamento a due mani. Tra i tafferugli
che caratterizzarono quel periodo di aspri
conflitti sociali, per poco non accadde che
gli uni e gli altri se le suonassero di santa
ragione, la volta che gli uni giravano con le
spranghe in via Tal dei Tali, mentre gli altri
facevano la ronda armati di catene nella vi-
cina piazza Talaltra.
Ma il destino non mise gli uni sulla strada
degli altri, in quel frangente, e dovettero
passare molti anni prima che gli uni e gli
altri, ormai intorno alla mezza età, si incon-
trassero di nuovo: e fu uno scontro sulla A1,
che coinvolse una Renault 4 e una Opel
Corsa. Gli uni e gli altri morirono sul colpo,
mescolati a tal punto gli uni agli altri che
neanche i parenti più prossimi, convocati
immediatamente sul posto, furono in grado
di distinguere gli uni dagli altri.
di Carlo Cuppini
Storia degli uni e degli altriIl mondosenzagli atomiillustrazioni di Aldo Frangioni
Foto diPasqualeComegna
Il sole bassoall’orizzonte
136 MAGGIO 2017
totum, fino alla gestione dei campi di con-
centramento descrive una caratteristica del
regime nazista, magistralmente stigmatiz-
zata da Hanna Arendt nella “Banalità del
male”. Il romanzo è quindi un affresco nel
quale si evidenzia un dissenso sotterraneo e
diffuso, coartato dalla paura, che emerge in
piccole azioni di rivolta senza successo, ma
comunque collettivo; il film invece estrapo-
la da questo affresco il ritratto ad olio di una
coppia di persone semplici, senza straordi-
narie caratteristiche intellettuali o morali,
che trovano nella morte del figlio il coraggio
di passare dallo status di sudditi a quello di
cittadini, vincendo la paura che è l’emozio-
ne primaria, imperante e diffusa in queste
vicende.
È appunto la paura che domina la storia ma
anche la pesante fatica del lavoro, la miseria
sostanziale di queste vite operaie o appena
piccolo borghesi e soprattutto la dignità con
cui le difficoltà vengono sopportate e af-
frontate e la dignità dei sentimenti interni
alla coppia e ai pochi compagni di strada:
per tutto il processo farsa con cui viene con-
dannato a morte Otto Quangel è costretto
a rispondere in piedi ad un tribunale che
non gli garantisce alcuna difesa, tenendosi
con le mani i pantaloni perché, dopo averlo
imprigionato e torturato, gli hanno seque-
strato le bretelle per evitare che possa sui-
cidarsi. Eppure, anche se con poche parole
perché è un uomo chiuso, introverso e che
non ha potuto studiare, non si lascia piega-
re. Otto Quangel e sua moglie Hanna rap-
presentano con la loro ribellione pur fallita
(delle 285 cartoline lasciate per Berlino solo
18 non vengono consegnate alla polizia) la
dignità segreta di un intero popolo.
Altro elemento interessante è il ruolo della
scrittura nella storia; i cartoncini vengono
scritti da Otto Quangel la domenica, indos-
sando i guanti per non lasciare impronte,
faticosamente, in gotico tedesco, un tipo di
stampatelo da cui difficilmente si può risali-
re all’autore, ma che le trasforma in piccoli
quadri e il linguaggio deve, di necessità, es-
sere sintetico, un po’ come i nostri tweet o
sms. E i Quangel capiscono che il figlio è
morto prima di leggere perché la lettera che
arriva a casa non è scritta a mano da lui ma
a macchina e quella scrittura è annuncio di
morte.
Diceva Bertold Brecht “Sventurata la terra
che ha bisogno di eroi” e i coniugi Hempel/
Quangel non lo sono, ritrovano con sempli-
cità la loro intesa emotiva e sentimentale
nella comune ribellione al regime che ha
ucciso il loro figlio, sono solo persone che
hanno ritenuto, pagando con la vita, che
tentare un gesto di rivolta al nazismo fosse
il proprio dovere. In una fase storica in cui
diversi popoli sembrano affascinati da dit-
tatori possibili, leggere il bellissimo roman-
zo di Fallada o vedere il film di Perez è un
buon modo per ricordare.
Un’altraresistenza
Si apre con la morte di un soldato tedesco,
con la sua corsa disorientata per i boschi e i
suoi giovani occhi terrorizzati il film di Vin-
cent Perez, attore e regista svizzero, “Lette-
re da Berlino”. La proiezione di questo lun-
gometraggio, del 2016, tratto dal romanzo
di Hans Fallada (Rudolph Ditzen) “Leder
stirbt fur sich allein”, (“Ognuno muore
solo”), pubblicato per la prima volta nel
1947, poco dopo la morte dell’autore, è sta-
to scelto quest’anno dall’Anpi in Toscana
per la celebrazione del 25 aprile, una scelta
meritoria anche perché il film non era stato
distribuito o quasi nella nostra regione e il
libro, ripubblicato da Sellerio qualche anno
fa dopo un lungo periodo di oblio, era stato
definito da Primo Levi “Il libro più impor-
tante che sia mai stato scritto sulla resisten-
za tedesca al nazismo”.
Il nucleo narrativo è costituito da una storia
vera: due coniugi, Otto ed Elise Hempel,
nella narrazione Otto e Hanna Quangel,
sono spinti dalla morte del figlio (nella re-
altà il fratello di lei) a prendere coscienza e
coraggio contro il potere nazista imperante
e pervasivo. Siamo nel 1940, le truppe di
Hitler hanno appena trionfato sulla Fran-
cia e “la Germania è il primo paese invaso
dal nazismo”, come dice Sebastien Heffner.
I coniugi Quangel, lui operaio capoofficina,
lei casalinga, nel film magistralmente in-
terpretati da Emma Thompson e Brendam
Gleeson, decidono di scrivere cartoline
contro il regime e distribuirle nelle strade
di Berlino, rischiando consapevolmente la
condanna a morte.
Il nucleo narrativo originale e reale si arric-
chisce nel romanzo di un intreccio di altre
storie, tra le quali quella della fidanzata del
figlio dei Quangel, Trudel, giovane operaia
aderente ad una microcellula comunista e
resistente, fino a costituire un tessuto, sep-
pure minoritario, di forte dissenso; “Noi
siamo come il buon seme in un campo pie-
no di erbacce. Se non ci fosse il buon seme,
tutto il campo sarebbe invaso dalle erbacce.
E il buon seme si può diffondere....”; e il
vicino che vende informazioni alla Gesta-
po per qualche sigaretta rivela il clima sot-
terraneo diffuso in città: “Si dirige verso la
Rollerstrasse; ha sentito dire che vi si trova
una bettola in cui la gente parla, con molta
leggerezza. Può darsi ci sia qualcosa da fare.
Di questi tempi è facile pigliar pesci dovun-
que, a Berlino” e anche questo promuovere i
mediocri in qualità di spie o galoppini o fac-
di Mariangela Arnavas
146 MAGGIO 2017
Stanotte mi sono svegliato di soprassalto, o
almeno così mi era sembrato, tutto sudato,
con il corpo tremante ma sicuramente in
preda ad un incubo. Non esistevano più
la destra e la sinistra .Così annunciava un
cartello luminoso. Camminavo lungo un
viale che non aveva né un inizio né una
fine, né tantomeno uscite laterali. Il sole
non sorgeva da una parte e tramontava
dall’altra. Il fiume non aveva una sorgente
e una foce. Il vento soffiava da una parte e
dall’altra contemporaneamente e quindi
non c’era bisogno di ripararsi e comunque
non sarebbe stato possibile. Non parliamo
dei segnali stradali: davano la precedenza
sia a destra che a sinistra che peraltro non
si distinguevano. Volevo scendere dal letto
ma non c’erano parti. Mi sembrava di soffo-
care e volevo aprire una finestra, ma quale?
Poi piano piano sono riuscito ad accendere
il televisore per sentirmi vivo su questa terra
e ho cercato di sintonizzarmi sul canale che
di solito dà le notizie politiche, ma ce ne era
uno solo. Apparivano due noti esponenti,
uno della destra estrema e uno della sinistra
che si baciavano con grande affetto e canta-
vano l’inno d ‘Italia con una musica alter-
nata che richiamava un po’ Bella ciao e un
po’ Allarmi siam fascisti. Improvvisamente
erano spariti quelli che favoriscono i ricchi
e quelli che aiutano i poveri: erano uguali,
specularmente identici: Bene, ho pensato,
così saremo tutti felici e contenti. No, in-
vece, non era così:i ricchi erano sempre più
ricchi e i poveri sempre più poveri. Questi
ultimi cercavano qualcuno che li rappresen-
tasse. Una volta c’erano i partiti della sinistra
che li difendevano, ma ora non c’erano più.
Oppure tentavano di appoggiarsi al sindaca-
to versus i padroni, ma si erano tutti riuniti
in unica associazione che organizzava l’Isola
dei famosi. Il sudore continuava a grondare
copiosamente. Un rumore improvviso mi
sveglia e, dopo qualche istante, riprendo co-
noscenza, salvo, distrutto, riaddormentarmi
nuovamente. Ma questa volta sono nel Para-
diso terrestre con Eva e io, ovviamente, ero
Adamo. Stiamo mangiando il frutto proibito
e, quindi finisce la pacchia, Eva dovrà par-
torire con gran dolore e io lavorare con gran
sudore, ma almeno siamo vivi e il nostro de-
stino è sotto la nostra responsabilità. Ci or-
ganizzeremo e se ci sarà da combattere per
noi e per i nostri figli, combatteremo. Meglio
diversi, ma consapevoli delle differenze, del-
le ingiustizie e delle fondamentali conquiste
in questo mondo.
di Ugo Caffaz
L’estinzione della destra e della sinistra
Paolo Marini, nato a Siena il 27 febbraio 1965, è avvocato, pubblicista,
autore di articoli e svariate pubblicazioni, professionali e non.
Tra i libri, un pamphlet (“Dal patto al conflitto” - Una critica della
concertazione, 1999) e due raccolte di poesie (“Pomi acerbi”, 1997 /
“All’Oro”, 2011).
Spiritidimateria
di Paolo Marini
Il poeta delle discariche
Ecco, ti ho urlato
io sono
il poeta delle discariche
apologeta
dell’ usato
finito reietto.
Io non so
dove
io non so
quale sia
davvero
ciò che chiamasi
rifiuto.
Ma le discariche
olezzano
un fascino controverso,
sono storia,
cronaca
e coscienza
sono il ventre,
l’istantanea
della nostra
umanità.
Nient’altro
che luridi
contenitori
niente altro
che di
verità.
disegno di Aldo Frangioni
156 MAGGIO 2017
mento della galleria artificiale di Pozzolatico
nel comune di Impruneta. Ma il “By Pass”
del Galluzzo era di gran lunga l’opera più
importante. Tre gallerie, delle quali una lun-
ga oltre un chilometro, un ponte sul torrente
Greve, una sostanziale modifica della viabi-
lità preesistente di via delle Bagnese all’in-
nesto nella via Senese e il completo riassetto
dell’intersezione fra la Firenze-Siena, la Via
Senese e la viabilità di accesso al Casello di
Firenze Certosa, costituivano le condizioni
per poter realizzare il By Pass. Un’opera che
per la sua importanza fu classificata come
“lotto 6” dell’opera principale e non come
semplice “opera complementare”. Le opere
complementari erano invece costituite dalla
viabilità di collegamento con Mantignano e
Ugnano nel quadrante sud-ovest della città,
dalla circonvallazione delle Cascine del Ric-
cio nella zona sud oltre che dal parcheggio
scambiatore Autostrada- Tranvia a Villa Co-
stanza nel comune di Scandicci. Il progetto
della “terza corsia” fu approvato il 17 giugno
del 1999 pochi giorni prima della scadenza
del mandato amministrativo del sindaco Pri-
micerio a suggello di una stagione di grandi
scelte e di forte determinazione politica.
(continua)
L’ingegnere della società Autostrade guardò
con interesse il suo interlocutore. E dopo
un attimo di silenzio disse: “Lei conosce
bene questi luoghi. I suoi suggerimenti per
il tracciato fanno si che questo si adagi per-
fettamente sul terreno sfruttando un piccolo
pianoro che interrompe il declivio della col-
lina”. L’incontro avveniva in una sala affre-
scata della sede del Dipartimento Trasporti
e Infrastrutture della Regione Toscana e si
stava discutendo del tracciato di una nuova
strada che avrebbe dovuto liberare dal traf-
fico l’abitato del Galluzzo. Il dirigente della
Regione Toscana annuì e poi disse: “In quel
pianoro c’é un palo che sorregge una linea
elettrica. E appoggiato a quel palo ho dato
il primo bacio alla ragazza che sarebbe poi
diventata mia moglie. Eravamo due giovani
poco più che adolescenti.”. Era stato il sin-
daco di Firenze Mario Primicerio a richie-
dere e ottenere che la nuova strada, che i
giornalisti avevano battezzato “il by pass del
Galluzzo” come se l’abitato del Galluzzo
assomigliasse ad un cuore malato da salvare
con un by pass proprio come nelle persone,
fosse inserita nell’elenco delle opere neces-
sarie per la realizzazione della terza corsia
dell’Autosole nell’ambito metropolitano di
Firenze. Il sindaco aveva detto che era uno
scandalo che non fosse stata ancora fatta
quest’opera per liberare gli abitanti di quella
frazione della città dal traffico provenien-
te da sud e dal Raccordo Autostradale per
Siena. E aveva aggiunto che se il Galluzzo
fosse rimasto comune autonomo sicura-
mente quest’opera sarebbe stata già fatta da
tempo. Società Autostrade aveva cercato di
opporre qualche resistenza alle richieste di
Primicerio ma alla fine, grazie anche alla
determinazione dell’assessore regionale ai
trasporti Tito Barbini, l’accordo fu trovato.
Si trattava di un’opera importante, anche
da un punto di vista economico, poichè la
conformazione orografica del territorio im-
poneva un tracciato in gran parte in galleria.
La realizzazione della terza corsia dell’Au-
tosole nel tratto fiorentino, nelle intenzio-
ni degli amministratori di Firenze, e dei
comuni limitrofi, doveva servire non solo a
garantire il miglioramento delle condizioni
di esercizio della più importante infrastrut-
tura stradale del paese, ma anche a miglio-
rare le condizioni ambientali di alcune parti
degli insediamenti urbani. Così fu prevista
la realizzazione della copertura del tratto
autostradale in prossimità dell’abitato di Ca-
sellina nel comune di Scandicci e l’allunga-
di John Stammer
La terza corsiaStoriadel by-passdel Galluzzo
3
Parcheggio scambiatore di Villa Costanza.
Il parcheggio è in costruzione e permetterà di poter
prendere il tram senza uscire dall’autostrada
Mario Primicerio
166 MAGGIO 2017
gono bruscamente revocati nel 1850, ma gli
viene riconosciuto il diritto al godimento della
pensione. Appassionato di fotografia si dedica
inizialmente alla pratica del dagherrotipo, per
passare poi rapidamente a quella della carta
salata (o calotipo), attività che assorbe tutto il
suo tempo dopo il siluramento del 1850. Gra-
zie ai rapporti precedentemente instaurati è
uno degli ispiratori, nel 1851, della “Mission
héliographique”, ed è, insieme ad Henri Vic-
tor Regnault, uno dei fondatori, nel 1854, del-
la Societé Française de la Photographie, a cui
aderiscono personaggi del mondo della scien-
za come del mondo dell’arte, Olympe Agua-
do, Hippolyte Bayard, Alexandre Edmond
Becquerel, Jean Baptiste Louis Gros, Gustave
Le Gray e lo stesso Eugène Delacroix. Durieu
ricopre il ruolo di presidente della Societé fra
il 1855 ed il 1857, anno in cui, dopo essersi
indebitato per una donna, si trova coinvolto
in una serie di oscuri traffici finanziari da cui
cerca di uscire falsificando la firma del suo
amico barone Ernouf. Viene condannato in
contumacia nel 1858 a vent’anni di lavori for-
zati, poi ridotti a quattro, e di lui si perdono
le tracce fino all’annuncio della sua morte, a
Ginevra, nel 1874. Della sua breve attività fo-
tografica all’ombra di Delacroix rimangono le
numerose immagini di nudo che hanno con-
segnato il suo nome alla storia dalla fotografia.
Eugène Durieu e Eugène Delacroix
Che fra la fotografia e la pittura sia nata, fino
da subito, una relazione molto speciale, più
di una sorta di intesa, piuttosto una sorta di
complicità, è cosa nota, ed è dimostrata da più
di un episodio. Ma fra tutti gli episodi che si
sono susseguiti dalla metà dell’Ottocento in
poi, uno fra i primi, in ordine di tempo, e fra
i più significativi, è il rapporto speciale, inda-
gato e descritto già mezzo secolo fa da Aaron
Scharf in “Arte e Fotografia”, intercorso nei
primi anni Cinquanta dell’Ottocento fra il
principale fra i pittori del movimento roman-
tico francese, Eugène Delacroix (1798-1863),
ed il poco noto fotografo Eugène Durieu
(1800-1874). Se Delacroix manifesta in ma-
niera esplicita già in un suo scritto del 1850
il suo interesse per la fotografia, intesa come
“un veicolo perfetto per raggiungere la cono-
scenza approfondita dell’autentico carattere
della luce e dell’ombra, le più sottili sfumatu-
re della diluizione tonale, e tutti gli altri segre-
ti della natura”, sembra che sia solo attraverso
la conoscenza dell’altro Eugène, appena più
giovane di lui, avvenuta attorno al 1853, che
maturi la decisione di utilizzare le immagini
fotografiche, soprattutto le scene di nudo,
sia maschile che femminile, come oggetto di
studio preparatorio per la realizzazione delle
sue tele. Ovviamente Delacroix non si accon-
tenta di immagini qualsiasi, ma sovraintende
personalmente alla “mise en scène” ed alla
realizzazione delle fotografie, trascorrendo a
quanto risulta dai suoi diari “molte ore nello
studio di Durieu”. Fino al punto che il buon
Durieu passa alla storia non per una produ-
zione propria ed originale, ma per essere sta-
to “il fotografo di Delacroix”. Se le vicende
personali e professionali di Delacroix sono
fin troppo note per insistervi, non altrettan-
to si può dire per Durieu, la cui vita è rima-
sta avvolta nell’ombra per un lungo periodo.
In realtà la preparazione di Durieu è di tipo
giuridico ed amministrativo, e la sua profes-
sione, ereditata in un certo senso da quella del
padre, è quella di alto funzionario dello stato,
presso il ministero degli interni. Dapprima
responsabile della sezione amministrativa dei
comuni, poi ispettore generale degli ospizi e
poi, dopo il 1848, direttore generale della am-
ministrazione dei culti. Inoltre riveste il ruolo
di membro della alta commissione degli studi
scientifici e letterari, carica che lo porta a con-
tatto con il fior fiore degli intellettuali francesi
del momento, da Prosper Merimé ad Henri
Courmont, fino a Viollet-le-Duc, (il terzo Eu-
gène della nostra breve storia). Per motivi mai
resi pubblici, i suoi incarichi pubblici gli ven-
di Danilo Cecchi
176 MAGGIO 2017
Questi personaggi dominano ovunque, nel-
le evocazioni dell’arte del passato come in
quelle del più moderno canone artistico: il
bel cavaliere impennato sul piedistallo “Big
Mac” al centro di una piazza metropolitana,
la macchinina in mano al Gesù bambino di
un quadro rinascimentale, la Venere mec-
canica che fa il verso alle nudità marmoree
e spezzate di un torso antico. Come un tarlo
spiazzante, una intrusione, sorridente di un
sorriso appena appena beffardo, appena ap-
pena inquietante. Il paradosso e la logica, la
poesia e i casi concreti della vita, la felicità
e il dubbio.
Per questa volta l’amico Alessandro Gog-
gioli non avrà un vero critico d’arte a in-
trodurre in maniera colta e specialistica le
sue ultime opere, ma solo la penna di una
spettatrice, della visitatrice di una delle
sue mostre. In particolare di quella che si
sta allestendo a Gualdo Tadino (Perugia).
Uno sguardo, vorrei però rassicurare, forse
inesperto ma non disattento. E chissà che
l’inesperienza specifica non conferisca alla
riflessione quel tanto di sincera meraviglia
che può scarseggiare nelle parole di chi è
più “scafato”.
Il fatto è che i lavori di Alessandro vanno
guardati, direi scrutati, con pazienza, at-
tenzione e scrupolo. Con lo stesso atteg-
giamento con cui (balza subito agli occhi)
vengono ideati, composti, realizzati. Non
c’è, nel tratto meticoloso dell’autore, nes-
suna improvvisazione, nessuno scatto im-
paziente, nessuna fretta. È come se invece
egli si proponesse di trasportare l’osserva-
tore in un altro luogo, ma un po’ alla volta,
in modo cortese e implacabile, con metodo,
quasi con pudore, usando come tramite una
tecnica sicura, un disegno senza sbavature,
colori brillanti, composizioni in equilibrio.
Il luogo di cui ci schiude la porta è un luogo
magico, un luogo di scenari improbabili, a
volte lucidi di quella lacca che hanno i so-
gni, a volte “sgarrupati” e sbrecciati, sempre
attraversati da una traccia sottile di iperrea-
lismo: muri senza intonaco, strade ingorga-
te, campagne o paesaggi marini semideserti.
Cumuli di oggetti, vecchi scarponi, pile di
valige in bilico. Nature morte secondo la
più schietta tradizione pittorica.
Questo universo poetico, a momenti perfi-
no lirico, è popolato da una umanità appa-
rentemente stranìta ma di fatto ben consa-
pevole del clima fiabesco in cui è immersa
e del tutto consapevole di sé e del proprio
ruolo. Una “umanità” di giocattoli mecca-
nici, quelli vecchi di latta con la carica a
molla, che entrano in scena senza timidez-
za e cambiano, di colpo, le carte in tavola: il
minaccioso robot della nostra infanzia che
fa capolino tra le fette sanguigne di angu-
ria, il tamburino-panda che sembra scandi-
re implacabilmente, finchè dura la carica, il
ritmo della partenza dei migranti con la va-
ligia, la bambola che balla inconsapevole (o
indifferente) mentre la nave si inabissa, gli
uccelli meccanici che cinquettano impettiti
tra gli alberi di un paesaggio che sa di Rina-
scimento fiorentino, i topini meccanici che
fanno il verso alle pere oblunghe nel cesto.
di Susanna Cressati
Arte senza fretta
186 MAGGIO 2017
ti o come un catino di plastica Moplen.
Rovesciando la tartaruga l’artista ha compiuto,
forse, un misfatto contro la tartaruga animale,
che se rovesciata rischia di morire schiacciata
dal suo stesso peso, ma sopratutto ha compiuto
una operazione squisitamente intellettuale e
concettuale.
Non si ricrea un cambiamento di senso simile
alle operazioni dada o surrealiste, in quanto la
lampada rimane tale e serve ad illuminare se
stessa nella nuova duplice funzione di lampa-
da e di opera d’arte contemporaneamente, ma
sussiste un cambiamento prospettico generato
dalla grandezza diversa delle parti che la com-
pongono.
Non si crea nemmeno una fuga dall’anonima-
to in quanto la tartaruga è talmente un oggetto
familiare che non basta a farlo divenire bizzar-
ro né il rovesciamento, né l’uso che slitta da
esterno ad interno, né l’inserimento del colore,
essendo questo un arancione tipico della pla-
stica e quindi continua l’effetto “camouflage”.
Una lampada che si chiama Lampada, che si
trasforma in opera d’arte contemporanea pur
continuando ad emettere luce come una lam-
pada senza, tuttavia, esserlo più.
Questa scultura luminosa di Margherita Mo-
scardini è stata realizzata nel 2010 in occasio-
ne di una mostra dal titolo “Una stanza/fuori
luogo” e come è sua prassi è intervenuta sulla
divisione dello spazio della galleria, modifican-
done la struttura e creando uno luogo aseman-
tico o meglio togliendo significato semantico
all’involucro che convenzionalmente conside-
riamo come casa temporanea di opere d’arte.
Nella fattispecie ha inserito nella nuova archi-
tettura, ottenuta dopo avere sezionato alcune
pareti divisorie fra la parte espositiva e quella
destinata alle funzioni più private dello spazio,
come l’ufficio e il magazzino, degli oggetti fun-
zionali al mostrare nel modo migliore le opere.
Cosa c’è di più funzionale, per far vedere una
scultura, di una lampada? Solamente che la
scultura era ed è la lampada stessa.
Ne aveva esposte due, una in cemento, copia
di una reale lampada in ferro e vetro a ioduri
metallici ed un l’altra, quella di cui parliamo
nell’articolo.
Realizzata prendendo come “objet trouvé” un
lampada tartaruga da esterno, ma modifican-
dola facendo un calco della base di una secon-
da lampada, uguale, ma di misura superiore, e
ottenendo da questo calco una copia in porcel-
lana di quanto normalmente è di plastica (ho
saputo dal gallerista che si è rivolta alla Fabbri-
ca di porcellana Richard Ginori per ottenere
questo pezzo).
L’oggetto così formatosi è di colore arancione
ed essendo di una misura superiore alla re-
stante parte in vetro e griglia metallica, non
si adatta a questo e conseguentemente non si
può chiudere e a sottolineare l’aspetto di inuti-
lità assunto in tale modo da questo oggetto, ha
sistemato la guarnizione di gomma, indispen-
sabile per garantirne la tenuta stagna, accanto
alla stessa come un motivo decorativo.
Riepilogando, la lampada è formata da due
pezzi di misure diverse, la parte che normal-
mente si fissa al muro non è più di plastica
bensì di porcellana e sta capovolta, mostrando-
si e diffondendo una luce colorata attraverso la
traslucidità del materiale.
La tartaruga, dal design essenziale, mantiene
del nome il bisogno di riscaldarsi, come tutti
i rettili, col calore del sole o di una lampada,
quindi di per sé instaura un rimando circola-
re di significato funzionale e di necessità. Un
nome azzeccatissimo per un oggetto a noi fa-
miliare come la macchinetta per il caffè Bialet-
di Claudio Cosma
Mimetica è anche l’operazione di usare una
lampada o un faretto in una galleria d’arte, il
genio consiste, da parte della Moscardini, nel
provocare la riflessione che siamo tenuti a fare,
nel costringerci a considerare auto illuminan-
te un lavoro d’arte, come naturalmente è il
processo che l’arte mette in moto (il termine
illuminante va preso in senso lato, un qualcosa
che è di per se stesso generatore di significati e
di scoperte) .
Una riflessione che l’apparente minimalismo
della scultura non ostacola nel suo fluire, un
oggetto funzionale che la sua gigantesca dif-
fusione ha reso invisibile, l’operazione di una
artista che mescola due oggetti d’uso di gran-
dezze diverse che ci evidenziano una uscita
dalla quotidianità, generando una “impasse”
di senso, alimentata dal titolo della scultura,
che come avrete notato è “Lampada” e che
lascia i più sgomenti e in tale stato risospinti
nel labirinto senza uscita dell’arte contempo-
ranea.
di nomeLampadaLampada
196 MAGGIO 2017
Si parte dalla stazione centrale di Firen-
ze, dove al momento di salire sul treno si è
ormai costituito un buon gruppo di amici,
ricchi di esperienza e di anni, ma sempre
curiosi del nuovo, attirati fin qui, alle 7,30
del mattino, dal programma turistico cul-
turale che Marco ha confezionato e diffuso
via web ormai da un paio di settimane: gita
a Brisighella, cittadina medievale che con-
serva interessanti vestigia di epoche e do-
minazioni diverse. Ad attenderci, dopo due
ore di treno sulla linea Firenze Faenza, at-
traverso un Appennino verde di una prima-
vera appena insediata, troveremo Carlo, un
amico, appassionato esperto locale, che ci
dedicherà la sua domenica, accompagnan-
doci da un sito all’altro ed illustrandoci con
competenza e passione gli elementi storici
ed artistici più rilevanti depositati nella
struttura cittadina nel corso di otto secoli.
Brisighella nasce alla fine del 1200, quando
le mire espansionistiche di Maghinardo Pa-
gani, ghibellino amico della guelfa Firenze
e signore di Palazzolo sul Senio, lo portaro-
no ad assaltare le terre contigue, controllate
dai Signori di Faenza, ponendo l’assedio ad
un castellaccio, poco più di una torre arma-
ta, che su quelle terre vigilava. Per meglio
condurre l’assedio e precostituire una testa
di ponte nei nuovi territori, fece intanto co-
struire una sua torre su uno dei tre pinnacoli
che caratterizzano l’orografia di Brisighella,
emergenze rocciose di quella vena del gesso
che segna potentemente i territori della val-
le del Lamone. Alla caduta del castellaccio
nemico i sopravvissuti furono in qualche
modo convinti a sottomettersi alla nuova
signoria, dando origine al piccolissimo bor-
go stretto tra le pareti rocciose della Rocca
e le mura esterne di difesa, in uno spazio
così esiguo che nel tempo strutture civili e
militari si sono fuse in un unico complesso,
percorso nella sua breve lunghezza da una
via sopraelevata, la via degli Asini o del
Borgo, che fu nel tempo fronte di battaglia
addossato alle merlature di difesa, cortile
delle abitazioni operaie, transito degli asini,
per l’appunto, con i loro carichi di gesso da
portare alla fusione; per finire poi coperta
poco a poco dalle sopraelevazioni delle abi-
tazioni ad esso addossate. Oggi ammiriamo
un percorso unico nel genere, ben ristruttu-
rato e illuminato dalle rustiche arcate delle
vecchie sopraelevazioni che danno luce alle
antiche case tuttora abitate. Alcune targhe
commemorative sulle pareti della viuzza ci
ricordano che Brisighella fu terra di spade e
di Chiesa: di mercenari e capitani di ventu-
ra, per lo più al soldo di Venezia, e di grandi
vescovi e cardinali ai vertici della Chiesa
Romana. Dal borgo si sale alla prima torre,
quella di Maghinardo, di cui non resta che
un muro sbrecciato proprio sulla cima dello
sperone roccioso. Su questo modesto rude-
re nell’ottocento è stata costruita la Torre
dell’Orologio, cui si arriva con un cammino
in salita che ci apre ad ogni passo la vista
ampia e soleggiata della valle sottostante.
Dalla sommità nei giorni più limpidi, si
scorge il mare della Romagna.
Gite sociali alla maniera del Grand tourdi Andrea Caneschi
206 MAGGIO 2017
L’ho “conosciuto”, si fa per dire, grazie a Rossa-
no che mi suggerisce pagine Facebook di col-
lezionisti. Ce ne sono molte e sono per lo più
davvero spettacolari, come quella gestita da
Paolo Marchesi, 44 anni, di Vigevano. Lo con-
tatto e lo intervisto. Quando studiava, insieme
ad una amica, nella meritata pausa merenda,
si facevano una birretta, le bottiglie consuma-
te venivano archiviate. Arrivato a possederne
circa 8000, di tutto il mondo, si rese conto che
questo genere di raccolta sarebbe stato senza
fine e forse di non estremo interesse, le conser-
va comunque. Decise allora di specializzarsi
in birre antiche, all’inizio solo italiane, dall’ini-
zio del Novecento agli anni ‘40, poi si è messo
a cercare, nei vari mercatini, oggetti che ne ac-
compagnavano produzione, vendita, commer-
cializzazione e consumo, dello stesso periodo.
Oggi si trova con circa 800 “vecchie” bottiglie
di birra, 100 casse antiche, di legno pesante,
quelle che le contenevano e in cui venivano
trasportate, un centinaio di apribottiglie, lega-
ti alle birre italiane, sempre antichi, circa 600
boccali delle varie edizioni dell’Oktober Fest,
una trentina di calendari perpetui Roy Vercel-
li ed altrettante bottiglie di seltz, dedicati alla
birra ovvio e, soprattutto, circa 100, bellissime,
targhe pubblicitarie, orgoglio e passione recen-
ti. Tutte queste cose sono in buone condizioni,
ben catalogate ed esposte nelle varie stanze del
villino a due piani che abita da solo, traformato
in una specie di Museo. Non fa commercio di
ciò che possiede, se mai compra oggetti vari da
vendere a collezionisti amici ed usa i soldi per
altre preziose acquisizioni per sè, dice “quan-
do si ha molto si mira sempre più in alto”. In
una delle foto che mi manda, in cui compaio-
no intere pareti rivestite di boccali dell’Okto-
ber Fest, appare in primo piano una sorta di
scudo, è in realtà un pesantissimo spillatore in
ghisa, ottenuto con la metodica della fusione a
cera persa, pezzo originale ed unico che pro-
viene dalla Fabbrica Bosio Caratsch. Trattasi
del primo birrifico italiano, aveva come motto
“bona cervisia laetificat cor hominum”, fon-
dato a Torino nel 1845 e rimasto attivo come
tale fino al 1937, assorbito dalla Pedavena, fu
chiuso definitivamente nel ‘69. Questo pezzo
proviene dal primo insediamento, abbattuto
quasi del tutto negli anni ‘20 in occasione del
trasferimento in un’altra, più moderna, sede,
Paolo lo ha comprato da un anziano signore
che abitava vicino alla fabbrica, è sicuramente
fine ‘800. Frequentando mercatini, consiglia-
to da “Maestri” collezionisti, si è sempre più
appassionato alle latte, smaltate e litografate,
a vassoi, manifesti e segnapunti pubblicitari.
di Cristina Pucci
Il birresco di Vigevano
Oltre ad offrirvi una mini panoramica di que-
sti reperti vi segnalo due manifesti, telati ed
incorniciati, antichi e particolarmente belli,
uno della citata ditta Bosio Caratsch, in cui
compaiono e l’indirizzo dello stabilimento,
“Cor. Prin. Oddone”, il che lo fa risalire a pri-
ma del 1930, epoca in cui ci fu il trasloco ad
altra sede, ed il nome “Barabino e Graeve”che
lo indica stampato da questa importante in-
dustria genovese. Il materiale grafico da essa
ben conservato ha costituito il nucleo portante
dell’Archivio Storico della Pubblicità che con-
sta oggi di circa 35.000 bozzetti originali e che
è l’unico del suo genere. L’altro, bellissimo e
dall’aria liberty, pubblicizza la Birra Borgono-
vo, prodotta da uno stabilimento sito appun-
to a Borgonovo d’Ivrea, attivo fra il 1890 e il
1937. Prossimamente dedicherò attenzione
alla ancora più splendida collezione di scatole
di latta di Paolo.
216 MAGGIO 2017
Ristorante La LoggiaIn 50 per la prima edizione di
Piazzale Michelangelo, 1 Firenze – Italy
www.ristorantelaloggia.it
+39 055 2342832
La prima fase del concorso letterario “Racconti Commestibili” si è chiusa con l’arrivo di cin-
quanta racconti.
La prima giuria, composta da redattori di Maschietto e di Cultura Commestibile, sta lavorando
per selezionare i dieci racconti finalisti, che verranno affidati alla giuria tecnica, composta da
Francesco Mencacci, Sandra Salvato e Marco Vichi, per la scelta del vincitore e del secondo e
terzo classificato.
I finalisti saranno contattati direttamente entro la prima metà del mese di maggio.
Tutti i partecipanti al concorso e i lettori di Cultura Commestibile sono invitati a partecipare
all’evento di premiazione che si terrà al Ristorante Caffetteria La Loggia al Piazzale Michelan-
gelo a Firenze il 21 maggio.
PRIMA EDIZIONE 2017
premio letterario
Maschietto Editore
Il Ristorante Caffetteria La Loggia è il nuovo
spazio cittadino per l’approfondimento artistico
e culturale.
I suoi magnifici locali, interni ed esterni, vengono
aperti all’arte e alla cultura con dibattiti, incontri,
conferenze, proiezioni e letture.
Sabato 19 aprile si è svolta nella Sala Spadolini
una prima conversazione sul contemporaneo a
partire dalla figura della grande critica d’arte Lara
Vinca Masini, animata da Francesca Merz, Anto-
nio Natali, Adolfo Natalini e Simone Siliani, con
grande coinvolgimento del pubblico.
Domenica 21 maggio si svolgerà la premiazione
del concorso letterario “Racconti Commestibili”:
saranno letti brani dei dieci testi finalisti e la giuria
tecnica – composta da Francesco Mencacci, San-
dra Salvato e Marco Vichi – nominerà i vincitori.
Vi aspettiamo!
La Sala Spadolini gremita per Lara Vinca Masini
226 MAGGIO 2017
pritore di talenti dell’avanguardia, Paul
Rosemberg, curata dalla nipote Anne
Sainclair, notissima giornalista francese,
conosciuta anche da noi, malgré soi, con
lo scandalo newyorkese del marito Domi-
nique Strauss-Kahn. L’indirizzo del titolo
della mostra è quello della mitica galleria
che dal 1910 al 1940 fu punto d’incon-
tro di artisti come Picasso, Leger, Braque,
Matisse....e lì, come si vede dalle tante
foto d’epoca, erano esposti i 60 capolavo-
ri in mostra al Maillol. Durante la guerra
Rosemberg, ebreo, fu costretto a fuggire a
New York dove aprì un’altra galleria con-
tinuando anche lì ad essere ambasciatore
dell’arte moderna. La galleria in rue La
Boétie, spogliata e saccheggiata dai nazi-
sti delle opere ritenute arte degenerata,
divenne la sede dell’Istitud d’etude des
Questions Juives, luogo di diffusione della
propaganda antisemita. Nel dopoguerra
Rosemberg si dedicherà con straordinario
impegno al recupero delle circa 400 opere
rubate pur non riuscendo a ritrovarle tutte.
Ed infine una chicca per gli amanti del ge-
nere. Alla Fondation EDF in rue Récam-
ier 6 fino al 27 agosto la mostra Game, le
jeu vidéo à travers les temps. La mostra si
sviluppa su tre piani in un percorso proget-
tato da Jean Zeid, giornalista specializza-
to, che presenta il mondo dei videogiochi
come fenomeno artistico nella sua evolu-
zione negli ultimi 50 anni. È un’esposizio-
ne interattiva, dei 60 giochi esposti, alcuni
leggendari, si può giocare con più della
metà.
Una breve selezione di tre mostre, molto
differenti tra loro, che Parigi propone in
questo periodo.
Al Louvre la mostra-evento Vermeer et les
maitres de la peinture de genre, fino al 22
maggio, ha avuto un successo clamoroso.
Per evitare le file lunghissime, è altamen-
te consigliabile prenotare biglietto e ora-
rio d’entrata on line, e anche così occorre
comunque più di mezz’ora d’attesa. Una
mostra che ha riportato a Parigi il pittore
olandese dopo oltre mezzo secolo e la cui
preparazione ha richiesto più di 4 anni
con il coinvolgimento d’importanti musei
europei e americani. Accanto alle 12 ope-
re esposte di Vermeer, tra cui la famosa
Lattaia custodita al Rijksrmuseum di Am-
sterdan, ci sono una sessantina di opere di
altri grandi maestri olandesi suoi coetanei.
L’intento della mostra è infatti quello di
sfatare il mito che ha sempre accompagna-
to Vermeer dell’artista solitario, quasi un
eremita isolato, per mostrarlo in mezzo a
una ricchissima rete di artisti con i quali
interagiva nell’Olanda del XVII secolo al
culmine della sua potenza economica.
Il raffinato museo Maillol, in rue de Gre-
nelle 59, presenta fino al 23 luglio la mo-
stra dal titolo
21 rue La Boétie dedicata ad uno dei più
grandi mercanti d’arte, collezionista e sco-
di Simonetta Zanuccoli
3 mostre parigine
È stata inaugurata mercoledi 3 maggio, nell’ex
carcere femminile di Santa Teresa a Firenze,
la nuova sede del Dipartimento di Architet-
tura dell’Università di Firenze La cerimonia
si è svolta con il consueto taglio del nastro alla
presenza del Rettore dell’Università di Firenze
Luigi Dei, del Sindaco di Firenze Dario Nar-
della, del Direttore del DiDA Saverio Mecca e
del progettista dell’intervento Alberto Breschi.
Per l’occasione il grande atrio e le nuove aule,
affollate di studenti, ospitavano un gran numero
di modelli di progetti. Prima dell’inaugurazio-
ne Alberto Breschi ha tenuto una lezione sul
Tema: “Per Talea. L’innesto del progetto con-
temporaneo nel tessuto storico”
Cultura Commestibile ha pubblicato un’artico-
lo sull’intervento sul numero 195 del 3 dicem-
bre 2016.
La nuovaSanta Teresa
Foto di Giuseppe Alberto Centauro
Maschietto Editore Novità
www.maschiettoeditore.com
M U S I C A E L E T T R I C Aimmagini da 30 anni di ricerca sonoraideazione di Francesco Giomia cura di Giulia Sarno, Loredana Terminio
128 pagine / 18 €
Musica Elettrica. Immagini da 30 anni di ricerca sonora nasce in occasione dei trent’anni dalla fondazione di Tempo Reale, centro internazionale di ricerca, produzione e didattica musicale, fondato da Luciano Berio a Firenze nel 1987. Il libro è pensato come un concerto visivo in cui fotografie storiche dialogano con immagini degli spettacoli e dei progetti più recenti. Attraverso un percorso articolato tra testi, fotografie, manifesti e didascalie narranti, viene presentata la poliedrica attività del centro, in stretto rapporto con la sua produzione grafica, un elemento distintivo che da oltre dieci anni ne determina in modo preciso l’identità. Testi di Luciano Berio, Maurizio De Santis, Francesco Giomi, Giulia Sarno e Loredana Terminio.Contiene i contributi e gli omaggi di musicisti, artisti, direttori, organizzatori, giornalisti, scrittori, poeti legati alla storia e ai progetti di Tempo Reale.
presentazione
Lunedì 15 maggio, ore 18.30Museo Marino Marini, piazza San Pancrazio, Firenze
IntervengonoMarco Brizzi, critico, curatore e docenteMaurizio De Santis, presidente Tempo RealeFrancesco Giomi, direttore Tempo RealeAdriano Guarnieri, compositore
Con il saluto di Patrizia AsproniPresidente del Museo Marino Marini
Durante l’incontro sarà proiettato un video dedicato alla produzione Symphony Device di Tempo Reale (Biennale Musica 2016).