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Corsi di Laurea in
GIURISPRUDENZA ed in
SCIENZE POLITICHE UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PERUGIA
Corso breve di
Scienza delle finanze 2016-2017
Giuseppe Dallera con la collaborazione della dott. Rosa De Simone
Masaccio: Il pagamento del tributo Cappella Brancacci, Santa Maria del Carmine, Firenze (1424)
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I. Il settore pubblico
1. Il settore pubblico:
introduzione
- Il settore pubblico
dell’economia
- I fallimenti del mercato
- Le funzioni del settore
pubblico
- Operatori e mercati: i settori
istituzionali
- Il circuito economico ed il
settore pubblico
2. Il settore pubblico: la
sua struttura economica
e finanziaria
- Le Amministrazioni
Pubbliche
- Il Conto Consolidato delle
Amministrazioni Pubbliche
- Il fabbisogno ed il debito
pubblico
- La pressione tributaria
- APPENDICE
- Sommario: mercato,
imperfezioni, organizzazioni
private e pubbliche
II. Le spese pubbliche
1. Beni e servizi pubblici
- Classificazioni della spesa
pubblica
- Le caratteristiche di beni e
servizi pubblici
- Modelli di beni pubblici
2. La spesa pubblica in
trasferimenti
- Modelli
- La previdenza e la
redistribuzione del reddito
- Spese pubbliche per sanità
ed istruzione
3. Beni e servizi pubblici locali. I
fallimenti del governo
- Beni e servizi pubblici locali
- I fallimenti del governo
III. Le entrate pubbliche
1. Classificazione delle entrate
- Tipologie di entrate
- Classificazione delle imposte
- I contributi sociali
2. I principi delle imposte
- Principi generali
- Equità
- Neutralità
3. Le Imposte personali sul
reddito
3.1 Imposta sul reddito delle
persone fisiche
- Il reddito imponibile
- La progressività
- L’unità impositiva
- Reddito guadagnato e
reddito speso
- La rimozione e
l’ammortamento
3.2 Imposte personali sul
reddito delle società.
IV. Altre imposte
1. Tassazione dei
plusvalori e dei redditi
finanziari
- Tassazione dei plusvalori
- Tassazione dei redditi
finanziari e dei fondi
pensione
2. Le imposte patrimoniali
- Imposta ordinaria sul
patrimonio
- Imposte sui trasferimenti
- Imposte di successione
3. Imposte indirette
- Tipologie
- Imposta sul valore aggiunto
4. Le imposte straordinarie
5. Principi di tassazione
internazionale
6. Effetti delle imposte
3
GRAFICI
con A il grafico è costruito con passaggi successivi guidati
con B la costruzione è automatica dopo l’avvio
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I. Il settore pubblico
1. Il settore pubblico: introduzione
- Il settore pubblico dell’economia
- I fallimenti del mercato
- Le funzioni del settore pubblico
- Operatori e mercati: i settori istituzionali
- Il circuito economico ed il settore pubblico
2. Il settore pubblico: la sua struttura economica e finanziaria
- Le Amministrazioni Pubbliche
- Il Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche
- Il fabbisogno ed il debito pubblico
- La pressione tributaria
- APPENDICE
- Sommario: mercato, imperfezioni, organizzazioni private e pubbliche
1. Il settore pubblico: introduzione
Il settore pubblico dell’economia
La definizione Scienza delle finanze deriva dal tedesco Finanzwissenschaft. Era intesa come Scienza delle
leggi della ricchezza pubblica e venne introdotta in Italia fin dal 1878 come materia d’insegnamento
universitario nella Facoltà di Giurisprudenza. E’ stata definita anche come finanza pubblica, economia
pubblica, economia del settore pubblico. Studia la struttura, gli operatori, i comportamenti, gli effetti
economici degli operatori, delle decisioni e delle attività del settore pubblico.
L’organizzazione economica delle attività del settore pubblico, sia questo un regno o un impero del
passato, un principato o una signoria, uno stato moderno centrale o federale, un’unione economica fra Stati
diversi, è sempre fondamentale per l’esistenza, il rafforzamento e la continuità della struttura politica. Perciò
lo studio dell’attività economica pubblica ha carattere fondamentale per comprendere lo sviluppo e la
trasformazione delle istituzioni pubbliche nonché per fornire strumenti pratici che possano orientare i
governanti nelle decisioni di rilevanza economica.
Le ragioni che hanno dato giustificazioni della presenza di un settore pubblico, definito anche bilancio
pubblico, nei sistemi capitalistici di economia mista sono divisibili in due gruppi.
- Ragioni di carattere storico-politico collegate alla nascita ed all’evoluzione dello stato moderno a
partire dalla metà del sec. XVII e che privilegiano le spiegazioni che attribuiscono al settore
pubblico diversi ruoli e finalità.
1. Il settore pubblico è stato inteso come regolatore dei conflitti tra le classi sociali.
2. Con altra interpretazione è stato considerato il risultato di un contratto sociale che lega individui
e gruppi in attività di convenienza comune e che permette forme di democrazia partecipativa
nelle decisioni collettive;
3. In una prospettiva più pessimistica è stato interpretato come lo strumento di una classe
dominante (ruling class, un gruppo di élite) per affermare le proprie scelte utilizzando le regole
della democrazia politica. Così il settore pubblico impone scelte proprie, correggendo e
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sostituendo scelte private. In questa chiave è stato considerato in modo diverso a seconda delle
situazioni storiche e delle interpretazioni politiche.
a) Come un attore di tipo paternalistico, un tutore che impone proprie scelte nell’interesse dei
cittadini.
b) Come semplice strumento delle classi dominanti e difensore degli interessi economici di
queste. Il rapporto conflittuale tra classi dirigenti e classi dominate viene composto nelle
strutture politiche. Questa impostazione ha avuto diverse varianti:
da una parte il settore pubblico è considerato uno strumento di consenso politico. Le
istituzioni politiche sono utilizzate come strumento di scelte pubbliche nell’interesse
di politici e burocrati, ma che provvedono anche ad una legittimazione del potere
acquisendo il consenso degli elettori per poter conservare il potere medesimo.
Talora si è interpretato il settore pubblico come strumento di sfruttamento di una
classe sulle altre nella lotta di classe.
Sulla teoria sociologico-politica della scienza delle finanze ha influito il c.d. elitismo, che è una teoria
elaborata dalla scienza politica e dalla sociologia (Mosca, Pareto, Michels) basata sul principio
minoritario, secondo il quale il potere è sempre in mano ad una minoranza.
Secondo G. Mosca (1858-1941) esiste una sola forma di governo, l’oligarchia con due classi,
governanti (elite) e governati: la prima, la classe politica, ha capacità di organizzarsi ed usa anche il
bilancio pubblico per mantenere la sua posizione e tutelare i propri interessi: democrazia,
parlamentarismo e socialismo sono utopie, l’oligarchia dà la riproduzione del potere.
L’elite è organizzata e così ha la forza per mantenere il potere. Consegue una critica alla democrazia
(il popolo non ha la capacità di autogovernarsi), con venature di antiparlamentarismo, ponendo
argomenti contro il pluralismo, il quale considera il potere diviso tra gruppi che si equilibrano, senza
formare oligarchie né monopoli.
Secondo V. Pareto (1848-1923) governa un’elite aristocratica, composta dai migliori, in ogni ambito
della società; le elite nel tempo vengono sostituite da altre.
R. Michels (1876-1936) elaborò una legge ferrea dell’oligarchia, in Political Parties (1915)
interpretando il comportamento politico delle elite e rilevando come nelle organizzazioni (Stato,
partiti) si hanno processi oligarchici. Burocrazie e partiti si accordano nei parlamenti contro la
democrazia, avendo interesse solo a farsi rieleggere ed a perpetuare il potere, senza vera concorrenza
tra i partiti. Per Michels le classi politiche non si sostituiscono, come per Pareto, ma si servono della
captazione per non perdere il loro potere.
- Ragioni dell’esistenza di un settore pubblico sono state dedotte, secondo principi astratti di teoria
economica, fondati sulla logica dell’efficienza e dell’equilibrio dei mercati e dei settori produttivi,
soprattutto in base alla teoria economica neoclassica.
La teoria economica neoclassica afferma che i mercati funzionano in modo efficiente quando:
i consumatori e le imprese hanno informazioni complete e la possibilità di prevedere
perfettamente il futuro;
c’è concorrenza tra le imprese; i prezzi sono flessibili e c’è facilità di variazioni delle
quantità, dei prezzi e dei redditi di prodotti e mobilità dei fattori. Individui ed imprese
possono contrattare continuamente, a parità di condizioni, senza costi e su tutto;
c’è la possibilità di effettuare decisioni razionali e coerenti, in assenza di rischi.
Se vengono a mancare queste condizioni (ad es. in presenza di monopoli, di informazioni imperfette, di
impossibilità di contrattazioni, di rischi privati e sociali, di effetti negativi di decisioni dei soggetti privati) si
possono giustificare interventi esterni di un soggetto pubblico che possa correggere le imperfezioni.
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Un’impostazione teorica propone di esaminare la finanza pubblica dal punto di vista della c.d. economia
costituzionale. E’ importante, in questa prospettiva, l’adozione di regole di decisione di lungo periodo (la
costituzione economica) che stabiliscano le caratteristiche del bilancio pubblico, quindi le tipologie delle
imposte e delle spese, la possibilità dell’indebitamento pubblico, i limiti dell’intervento pubblico
nell’economia, la gestione della moneta. Questa prospettiva vuole tutelare essenzialmente le libertà delle
scelte individuali contro possibili abusi da parte dello stato, delle burocrazie, dei partiti politici ed è stata
sostenuta in particolare dalla scuola americana della Teoria delle scelte pubbliche (public choice).
La teoria delle scelte pubbliche ha i maggiori contributi nelle opere di J. M.
Buchanan. Altri autori ai quali viene fatto riferimento per tale teoria sono L. Mises,
F. Hayek, W. Niskanen, G.Stigler, G. Becker, D. Black, G. Tullock, M. Olson.
Per un importante dibattito sull’interpretazione della finanza pubblica si veda, di J. M. Buchanan e di
R. A. Musgrave, Public finance and public choice (1999).
Si rinvia ad alcuni trattati istituzionali ‘classici’ della Scienza delle finanze
E. Sax: Principi teoretici dell’economia di Stato (1887)
C. F. Bastable: Public Finance (1892)
P. Leroy-Beaulieu: Traité de la Science des Finances (1906) Tome 1, Tome 2
A. Wagner: La scienza delle finanze (1910-12) vol. 1 vol. 2
E. Barone: Principi di economia finanziaria (1937)
A.C. Pigou: A study in public finance (1947)
I fallimenti del mercato
Le ragioni di carattere teorico, costruite in riferimento alla teoria pura degli equilibri di mercato, giustificano
la presenza di un soggetto pubblico con la presenza di imperfezioni della teoria pura. Nei mercati esistono
incertezza, informazioni incomplete ed asimmetriche, elementi e situazioni che si sottraggono alle
contrattazioni, impossibilità di realizzare sempre scambi volontari, rigidità e vischiosità nei meccanismi di
aggiustamento, situazioni di monopolio ed oligopolio che contraddicono la concorrenza, orizzonti temporali
differenziati e limitati, irrazionalità nelle decisioni di individui ed imprese, presenza di rischi individuali e
sociali.
L’analisi della finanza pubblica negli ultimi decenni è stata approfondita soprattutto nel contesto
dell’economia del benessere, un insieme di teorie sviluppate nel secolo XX, sulla base di studi iniziati
dall’economista inglese A.C. Pigou nell’opera The economics of welfare (1920). L’economia del benessere
ha carattere normativo ed applica definizioni e principi di utilità individuale e di benessere sociale per
valutare i guadagni e le perdite da interventi pubblici (imposte, spese, vincoli, proibizioni ed obblighi) e
stabilire quali situazioni siano socialmente più desiderabili rispetto ad altre.
In quel contesto sono stati formulati due principi, noti come primo e secondo teorema fondamentale
dell’economia del benessere.
Il primo teorema: la massima efficienza negli scambi e nella produzione è raggiungibile solo in un
equilibrio di concorrenza perfetta.
Il secondo teorema: per ciascuna distribuzione iniziale delle risorse economiche (redditi, patrimoni e
fattori di produzione) si raggiungerà un diverso equilibrio concorrenziale. Quindi modificando la
situazione iniziale si può raggiungere un altro equilibrio efficiente, a condizione che gli agenti
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(consumatori e imprese) siano liberi di contrattare. Si distingue tra una funzione allocativa (che porta
all’efficienza) successiva ad una funzione redistributiva di risorse.
In alcune situazioni i due teoremi fondamentali non trovano applicazione, in quanto i meccanismi di mercato
non funzionano e falliscono (si parla di fallimenti del mercato – market failures). Ciò avviene quando
esistono:
Situazioni non concorrenziali, come i monopoli.
Situazioni in cui esistano beni e servizi che tecnicamente non si possono vendere sul
mercato ed ai quali non si possono attribuire prezzi (è il caso dei c.d. beni e servizi pubblici).
Situazioni in cui la produzione di beni e servizi privati provoca danni a consumatori ed
imprese (è il caso delle c.d. esternalità negative, ad es. i danni ambientali).
Mancanza di profitto per alcuni beni e servizi (culturali, sanitari, prodotti di artigianato) che
il mercato non ha interesse a produrre e che scomparirebbero o si ridurrebbero a quantità
minime.
Mancanza di informazioni in alcuni mercati (ad es. nei mercati finanziari, nella sanità,
nell’istruzione).
Costi o rischi eccessivi di alcune produzioni, che i privati non possono o non si vogliono
assumere.
Lentezza eccessiva nei meccanismi di mercato negli aggiustamenti, come nel riassorbire
effetti negativi (ad es. la disoccupazione).
Sperequazioni ingiustificate nella distribuzione, tra le famiglie, di redditi e di patrimoni.
Al soggetto pubblico viene attribuito il ruolo di una struttura e di un insieme di meccanismi che eliminano o
minimizzano queste difficoltà.
Le funzioni del settore pubblico
Già Adam Smith, nella Ricchezza delle Nazioni (1776) attribuiva al settore pubblico funzioni passive
(protezione degli individui e della proprietà, mantenimento della sicurezza interna ed esterna) e funzioni
attive (istruzione, opere di utilità pubblica che i privati non costruirebbero per mancanza di convenienza
privata).
Nel tempo gli studiosi hanno individuato molteplicità di funzioni che giustificano la presenza di un settore
pubblico a fianco del settore privato.
In sintesi il settore pubblico, rispetto al settore privato, svolge (o dovrebbe svolgere) funzioni:
- sostitutive o sussidiarie, quando il mercato privato non funziona e non interviene;
- complementari ed integrative: il settore pubblico di effettua scelte di lungo periodo, mentre
individui e mercati fanno scelte di breve periodo: l’orizzonte temporale è più ampio per il settore
pubblico, che guarda più lontano e considera anche le generazioni future;
- assicurative: il settore pubblico rende possibili decisioni rischiose;
- correttive di effetti negativi dei mercati;
- accelerative di meccanismi propri dei mercati privati, quando gli aggiustamenti sono troppo lenti;
- di diffusione di informazioni;
- di controllo e garanzia del funzionamento corretto di meccanismi privati nei mercati interni (ad es.
la tutela civilistica e penalistica dei rapporti economici);
- di protezione esterna dei mercati, ad es. con la difesa nazionale e nei rapporti internazionali;
- di interventi di salvataggio nelle situazioni di grave crisi di grandi imprese private, in particolare nel
settore finanziario ed in altri settori (siderurgia, industria estrattiva, telecomunicazioni, trasporti).
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Tali funzioni sono state raggruppate in tre gruppi, secondo R.A Musgrave :
Allocazione delle risorse economiche: consiste nell’influire sull’efficienza della produzione e dei
consumi, sul miglior impiego dei fattori di produzione; nell’indirizzare la destinazione dei fattori e
nel produrre beni e servizi che il mercato privato non è in grado di produrre; nel massimizzare il
benessere sociale (funzione allocativa).
Distribuzione: correggere le distribuzioni dei redditi, dei patrimoni e dei consumi perché rispettino
criteri di equità (funzione distributiva).
Stabilizzazione: controllare gli aggregati dell’economia (redditi, consumi, investimenti, produzione,
prezzi) per favorire la crescita, l’occupazione, e per controllare i processi inflazionistici e di
stagnazione dell’economia (funzione di stabilizzazione).
Le modalità di intervento del settore pubblico sono di tipo:
diretto,
a) attraverso il bilancio pubblico, con le entrate pubbliche e le spese pubbliche;
b) attraverso le imprese pubbliche, le quali gestiscono direttamente la produzione e la
distribuzione di beni e di servizi;
indiretto, attraverso l’imposizione di controlli, di vincoli e di comportamenti ad imprese
private ed a consumatori, ad es. con gli interventi di regulation (controllo di quantità, prezzi,
mercati).
Operatori e mercati: i settori istituzionali
Si riassumono alcuni concetti di contabilità nazionale.
Si distingue tra i seguenti operatori, soggetti che svolgono attività economiche, definiti settori
istituzionali: famiglie, imprese, amministrazioni pubbliche, resto del mondo. Seguendo la terminologia della
contabilità nazionale, i settori istituzionali sono raggruppamenti di unità istituzionali che hanno autonomia e
capacità di decisione in campo economico-finanziario e che, fatta eccezione per le famiglie, tengono
scritture contabili separate. Il Sistema Europeo dei Conti (SEC ) classifica le unità istituzionali in base alla
funzione principale ed alla tipologia del produttore.
Il sistema di contabilità nazionale può essere consultato in
EUROPEAN SYSTEM OF ACCOUNTS ESA 2010, in le linee guida internazionali stabilite nel Sistema dei conti nazionali
delle Nazioni Unite (2008 SNA).
1) Famiglie e istituzioni senza scopo di lucro al servizio delle famiglie: sono le unità che offrono lavoro
alle imprese, ricevono redditi, effettuano decisioni di consumo e di risparmio. L’insieme delle famiglie è
l’Aggregato Famiglie. Consistono degli individui o dei gruppi di individui nella loro funzione di
consumatori o in quella di produttori di beni e servizi (imprese famigliari e individuali con meno di 5
addetti), purché il loro comportamento non configuri una quasi-società.
2) Imprese: sono le unità di produzione e di commercializzazione di beni e servizi, pagano redditi alle
famiglie, decidono su investimenti, produzione, vendite, occupazione. L’insieme delle imprese è
l’Aggregato Imprese. Si suddividono in società finanziarie e società non finanziarie:
2a) Società non finanziarie: sono le società e quasi-società private e pubbliche. Le società pubbliche
includono le aziende autonome, le Ferrovie dello Stato, le aziende municipalizzate e consortili, l’Enel, le
imprese a partecipazione statale, le altre imprese pubbliche. Per quasi-società si intendono quelle unità che
sono prive di personalità giuridica, ma tengono contabilità completa ed hanno un comportamento economico
separabile da quello dei proprietari: comprendono le società in nome collettivo e in accomandita semplice, le
società semplici e di fatto e le imprese individuali con più di 5 addetti.
2b) Società finanziarie: includono:
2b.1) Istituzioni finanziarie monetarie: la Banca d’Italia e le altre istituzioni bancarie;
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2b.2) Altri intermediari finanziari: società di finanziamento e di intermediazione mobiliare, società
fiduciarie di gestione, fondi comuni;
2b.3) Ausiliari finanziari: le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nell’esercitare attività
strettamente connesse all’intermediazione finanziaria. Comprende le autorità centrali di controllo dei mercati
finanziari, quali la Consob e l’Isvap, enti vari preposti al funzionamento dei mercati, associazioni tra banche
e tra imprese finanziarie e assicurative, società che gestiscono fondi comuni, mediatori e promotori
finanziari, agenti di cambio con più di un addetto.
2.b.4) Imprese di assicurazione e fondi pensione.
3) Amministrazioni Pubbliche:si suddividono in tre sottosettori:
3.1) Amministrazioni centrali;
3.2) Amministrazioni locali;
3.3) Enti di previdenza e assistenza sociale.
4) Resto del mondo: comprende famiglie, società, settori pubblici di altri paesi.
Il settore pubblico include le Amministrazioni pubbliche (3) e le imprese pubbliche (comprese in 2)
Il settore pubblico talvolta è identificato con termini generici, ad es. con erario e fisco.
Erario deriva da aerarium, che era il tesoro comune dello Stato presso l’antica Roma, distinto dal publicum, che era il
tesoro del popolo e dei patrizi. Conteneva, nel tempio di Saturno, il denaro pubblico ed i conti delle entrate, delle
spese, dei debiti. L’aerarium era diviso in tesoro comune, al quale affluivano le imposte regolari (tributa, vectigalia,
ecc.) e dal quale si traevano le risorse per le spese normali, e l’aerarium sanctum, destinato a spese eccezionali in caso
di pericolo per lo stato.
Con Augusto venne istituito un aerarium militare, una tesoreria destinata solo al finanziamento delle spese militari.
Inoltre Augusto suddivise le province in due gruppi, uno appartenente al Senato, un altro appartenente a Cesare.
L’aerarium riceveva le imposte dalle province appartenenti al Senato, mentre un nuovo soggetto, il fiscus riceveva le
entrate dalle proprietà dell’imperatore. Il termine fiscus indicava un cesto, un paniere nel quale i Romani portavano
grandi somme di denaro. Successivamente (con Adriano) aerarium e fiscus vennero a convergere in unica proprietà
statale, così che i due termini vennero utilizzati come sinonimi.
Il circuito economico ed il settore pubblico
Si considerano i seguenti mercati:
beni di consumo privato e servizi privati: sono prodotti da imprese private ed acquistati dalle
famiglie (mercato dei beni di consumo);
beni di investimento: beni strumentali prodotti dalle imprese, acquistati dalle imprese private e dal
settore pubblico (mercato dei beni di investimento);
beni pubblici e servizi pubblici: sono prodotti dal settore pubblico, direttamente o tramite imprese
private; sono beni di consumo, servizi e beni di investimento e sono utilizzati da famiglie, imprese e
settore pubblico; in gran parte sono beni e servizi non destinati alla vendita, ma offerti
gratuitamente;
risparmio: il risparmio affluisce da famiglie ed imprese (mercato del risparmio); ritorna a famiglie
ed imprese che si indebitano, con mutui e prestiti, per consumare e per produrre; il settore pubblico
contribuisce a formare risparmio e preleva risparmio col debito pubblico.
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Le relazioni tra settori istituzionali (aggregati) e mercati sono illustrate dai flussi all’interno del circuito
economico. Possono essere rappresentate da frecce (movimenti di redditi, prestazioni e beni verso e da).
Distinguiamo due situazioni, a seconda dell’assenza o della presenza del settore pubblico.
senza settore pubblico
con il settore pubblico
Il segno indica i redditi, i beni, i servizi che al settore pubblico vanno dagli altri aggregati e dai
mercati (imposte, beni e servizi acquistati dal settore pubblico).
Il segno indica i pagamenti effettuati con spese pubbliche (alle famiglie con stipendi e pensioni,
alle imprese con contributi, ecc.) dal settore pubblico.
Le famiglie consumano beni e servizi pubblici, oltre a quelli privati.
Le imprese producono ed utilizzano beni e servizi pubblici per svolgere attività industriale e
commerciale.
FAMIGLIE
IMPRESE
Mercato del
risparmio
Mercato dei beni di
consumo privato e dei
servizi privati
privati
Mercato dei beni
privati di
investimento
Beni pubblici
e servizi
pubblici
RESTO
DEL
MONDO
Mercato dei beni di
consumo privato e
servizi privati
Mercato dei
beni privati di
investimento SSETTORE
PUBBLICO
Mercato del
risparmio
RESTO
DEL
MONDO
IMPRESE
FAMIGLIE
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2. Il settore pubblico: la sua struttura economica e finanziaria
Le Amministrazioni Pubbliche
Per la terminologia si fa rinvio al GLOSSARIO della Banca
d’Italia, al GLOSSARIO dell’ISTAT ed al GLOSSARY dell’OECD.
Per il settore pubblico in particolare si veda il GLOSSARY dell’IMF ed
i l GLOSSARIO DI CONTABILITA’ ECONOMICA della
Ragioneria Generale dello Stato
Le Amministrazioni pubbliche includono, secondo il criterio della contabilità nazionale, le unità
istituzionali le cui funzioni principali consistono nel:
a) produrre beni e servizi non destinabili alla vendita;
b) operare una redistribuzione del reddito e della ricchezza del Paese.
Il settore è suddiviso in tre sottosettori:
Amministrazioni centrali, che in Italia comprendono le amministrazioni centrali dello Stato e gli
enti economici, di assistenza e di ricerca, che estendono la loro competenza su tutto il territorio del
Paese (Stato, organi costituzionali, Anas, gestione delle ex Foreste demaniali, Istat, altri); in altri
paesi comprendono lo le amministrazioni centrali dello Stato federale;
Amministrazioni locali, che in Italia comprendono gli enti pubblici la cui competenza è limitata a
una sola parte del territorio. Il sottosettore è articolato in: a) enti territoriali (Regioni, Province,
Comuni), b) aziende sanitarie locali e ospedaliere, c) istituti di cura a carattere scientifico e cliniche
universitarie, d) enti assistenziali locali (università e istituti di istruzione universitaria, opere
universitarie, istituzioni di assistenza e beneficenza, altri), e) enti economici locali (camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura, enti provinciali per il turismo, istituti autonomi case
popolari, enti regionali di sviluppo, comunità montane, altri); nei paesi a struttura federale
comprendono gli Stati (ad es. negli U.S.A.) o le Province (in Canada), o i Lander (nella Repubblica
Federale di Germania);
Enti di previdenza, che comprendono le unità istituzionali centrali e locali la cui attività principale
consiste nell’erogare prestazioni sociali finanziate attraverso contributi generalmente di carattere
obbligatorio (INPS, INAIL ed altri).
Nell’ambito del settore pubblico si distingue tra settore statale, settore pubblico e settore pubblico
allargato.
Il Settore statale comprende, in Italia, lo Stato in senso stretto (le Amministrazioni Centrali o
bilancio statale + tesoreria, in termini economico-finanziari), le ex Aziende Autonome
dell’Amministrazione centrale (Poste, Ferrovie, Anas), la Cassa Depositi e Prestiti, altri enti centrali
(es. Istat).
Il Settore Pubblico è composto dal settore statale + le altre Amministrazioni Pubbliche (locali, enti
di previdenza) + Imprese pubbliche locali (aziende pubbliche regionali, provinciali, comunali)
Il Settore Pubblico Allargato: è composto dal settore pubblico + altre imprese pubbliche (la più
importante è l’ENEL).
Sulla contabilità del Settore Pubblico si veda il Government Finance
Statistics Manual 2014 dell’International Monetary Fund (IMF)
12
Le Amministrazioni Pubbliche hanno, ciascuna, un proprio Bilancio. Esiste quindi un bilancio dello Stato,
un bilancio per ogni altra amministrazione pubblica, un bilancio per ciascun ente pubblico.
Quanto ai tempi di registrazione degli importi di entrata e di spesa nei bilanci pubblici nei vari paesi si
distinguono tre criteri principali di contabilità (sistemi di registrazione):
o di competenza giuridica: riporta gli accertamenti di entrate (autorizzazioni ad incassare) e gli
impegni di spese (autorizzazioni a spendere); è un bilancio di autorizzazione (il Parlamento
autorizza il Governo ad incassare ed a spendere). Le spese autorizzate e non effettuate nell’esercizio
sono i residui passivi, che si potranno spendere in esercizi successivi, le entrate autorizzate e non
realizzate sono i residui attivi, che si potrebbero incassare in esercizi futuri. E’ il bilancio
tradizionalmente utilizzato in Italia fin dal 1884. Le transazioni di un soggetto sono registrate nel
momento in cui nasce in capo all’operatore pubblico un’obbligazione giuridicamente perfezionata.
L’importo registrato è pari all’entità dell’obbligazione. La registrazione per competenza giuridica
“misura” gli impegni di spesa e gli accertamenti di entrata.
o Di competenza economica (accrual accounting): registra la formazione di crediti e debiti, dove
conta il momento di maturazione dei fatti gestionali e non quello dell’incasso o del pagamento; è
utilizzato dai paesi anglosassoni e dalla Francia, è consigliato nell’ambito dell’Unione Europea; le
transazioni poste in essere da un soggetto economico sono registrate nel momento in cui il valore
economico è creato, trasformato, scambiato, trasferito o estinto. Gli effetti degli eventi economici
sono registrati quando avvengono, indipendentemente dal fatto che l’introito di cassa sia ricevuto o il
pagamento effettuato. Questo principio coincide in pratica con quello della contabilità di impresa,
nella quale sono registrati i costi/ricavi per i quali l’obbligo di pagamento/diritto di incassare è
maturato nell’esercizio corrente perché i relativi beni e servizi sono stati acquisiti/ceduti in tale
esercizio (anche se il corrispondente movimento di cassa è rinviato ad esercizi futuri o è avvenuto in
esercizi passati). L’importo registrato è quello del valore economico creato, trasformato, scambiato,
trasferito o estinto. L’applicazione del criterio della competenza economica può determinare
l’imputazione di importi a cui non corrispondono effettivi flussi finanziari.
o Di cassa: rileva i fatti finanziari delle riscossioni effettive di entrate ed i pagamenti effettivi
(erogazioni) di spese. Le transazioni economiche di un soggetto sono registrate nel momento in cui
esse danno origine a un effettivo passaggio di fondi da o verso tale soggetto. L’importo registrato
corrisponde all’ammontare dell’effettivo passaggio di fondi. La registrazione per cassa, quindi,
“misura” pagamenti e incassi effettivi.
In Italia si è seguito il solo bilancio di competenza giuridica fino alla legge 468 del 1978, che ha
introdotto anche il bilancio di cassa (doppio bilancio). Il bilancio dello Stato è stato riformato a partire
dalla Legge 31 dicembre 2009 n. 196 ["Legge di contabilità e finanza pubblica", modellata
sull’esempio francese de La réforme budgétaire (LOLF 2001) (texte)], che prevedeva la transizione
al solo bilancio di cassa, ma successivamente (l. 39/2011) è stato ripristinato il ‘doppio bilancio ’, di
competenza e di cassa. Il bilancio di competenza economica è stato introdotto per la prima volta in
Gran Bretagna, sostituendo il bilancio di cassa.
Si vedano Il bilancio in breve del MEF e Accrual Budgeting and Accounting sul bilancio di
competenza economica.
Attualmente in Italia accade che:
- Il Bilancio dello Stato è redatto in base a criteri sia di competenza giuridica che di cassa;
il Fabbisogno del settore statale e del settore pubblico è redatto con criteri di cassa;
l’ Indebitamento netto delle AP è redatto con criteri di competenza economica (in base al
SEC 2010, per le valutazioni in sede EU).
13
L’elenco delle Amministrazioni Pubbliche inserite nel Conto Economico
Consolidato è pubblicato annualmente dall’ISTAT.
Si vedano, sempre dell’ISTAT, i Conti ed aggregati economici delle
Amministrazioni pubbliche (SEC) anni 1995-2015.
Il Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche
In Italia non viene costruito un bilancio unico del settore pubblico. Invece, in base ai dati di cassa, è
costruito (da Istat - Banca d’Italia) un Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche all’interno del
quale si elidono, per non contarli più volte, i trasferimenti effettuati tra Amministrazioni Pubbliche. Ad es. se
dal bilancio dello Stato si trasferiscono 100 alle Regioni e questo importo di 100 è trasferito successivamente
ai Comuni si conta solo il trasferimento iniziale di 100.
Nel Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche si riportano
ENTRATE TOTALI (ET), suddivise in
- entrate correnti (EC)
- entrate in conto capitale (ECC)
ET = EC + ECC
SPESE TOTALI (ST), suddivise in
- spese correnti (SC)
- spese in conto capitale (SCC)
ST = SC + SCC Dalle voci indicate si ricavano:
EC – SC = DC Saldo corrente delle Amministrazioni
pubbliche, che può essere
- Disavanzo Corrente se EC < SC
- Avanzo corrente o Risparmio Pubblico se
EC > SC
Disavanzo primario
EC – (SC – Spese per interessi)
ECC- SCC = DCC Disavanzo in conto capitale
DC + DCC =
(EC+ECC) – (SC+SCC) =
ET – ST = IN
Indebitamento Netto, se negativo, come
accade regolarmente, in quanto ST>ET
A proposito del saldo corrente e dell’indebitamento netto si utilizzano altri due concetti:
Il saldo delle Amministrazioni Pubbliche corretto per il ciclo è il saldo delle Amministrazioni
pubbliche corretto per gli effetti del ciclo economico: fornisce una stima del saldo che si
registrerebbe qualora il sistema economico procedesse sul sentiero di crescita tendenziale, senza
fluttuazioni cicliche.
Il saldo tendenziale è il saldo dei conti pubblici valutato nell’ipotesi di assenza di interventi da
parte dell’autorità responsabile della politica di bilancio.
Si utilizza l’analisi di stock-flow-adjustment (SFA) per valutare l’andamento congiunto
dell’indebitamento netto (flow) e del debito pubblico (stock). Lo SFA indica la differenza, misurata
in valore assoluto o in rapporto al PIL, tra la variazione annuale del debito pubblico e l’ammontare
di indebitamento netto nello stesso anno. Lo SFA è positivo se la variazione annuale del debito è superiore all’indebitamento, negativo nel caso opposto.
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Le transazioni di un soggetto/operatore economico si classificano in due conti:
1 Il conto economico: comprende le transazioni di natura non finanziaria, relative a
produzione, distribuzione e impiego del reddito dell’operatore, sia per il consumo che per la
costituzione di attività reali. Si distinguono due sezioni: quella relativa alle transazioni correnti
(parte corrente) e quella relativa alle transazioni in conto capitale (conto capitale).
Per l’operatore pubblico le principali poste della parte corrente del conto economico sono, dal lato
delle entrate, i tributi, i contributi sociali e i redditi da capitale (dividendi, interessi attivi, ecc.) e, dal
lato delle uscite, le spese per il personale, quelle per i consumi intermedi (o acquisto di beni e servizi), i
trasferimenti (a famiglie, imprese, organismi internazionali, ecc.) e gli interessi passivi. Nel conto
capitale: dal lato delle spese, la costituzione di capitali fissi (investimenti) e i trasferimenti (come per
la parte corrente, anche in questo caso, a famiglie, imprese, organismi internazionali, ecc.); dal lato
delle entrate, le entrate non ricorrenti o straordinarie.
2. Il conto finanziario: registra le transazioni di natura finanziaria, relative alla modifica del
livello e della composizione delle attività e passività finanziarie dell’operatore economico. Si
distinguono il conto delle transazioni in attività finanziarie (partite finanziarie) e quello delle
transazioni in passività finanziarie (debiti).
Per l’operatore pubblico le principali transazioni in attività finanziarie riguardano, in uscita ed in
entrata, acquisizioni e cessioni di partecipazioni al capitale di società, concessioni e rimborsi di crediti,
aumenti e diminuzioni di depositi bancari.
Le transazioni in passività finanziarie includono principalmente, in entrata e in uscita, emissioni e
rimborsi di titoli obbligazionari e sottoscrizioni e rimborsi di mutui.
Nella rappresentazione contabile completa delle attività di un soggetto uscite ed entrate complessive
sono in pareggio per definizione, mentre possono non essere nulli i saldi di sottoinsiemi di
transazioni. Le uscite complessive di un soggetto economico, date dalla somma di spese correnti, in
conto capitale, acquisizione di attività finanziarie e rimborso di prestiti devono necessariamente essere
bilanciate dalle entrate complessive di tale soggetto: quelle che provengono dall’attività economica
dell’operatore (entrate correnti, in conto capitale, cessione di attività finanziarie) e quelle che
provengono dall’accensione di nuovi prestiti. Pertanto il saldo relativo al complesso delle transazioni
incluse nelle due aree sopra definite (quella economica e quella finanziaria) è sempre nullo. Invece le
uscite correnti non sono generalmente bilanciate dalle entrate correnti, né sono generalmente nulli il
saldo del conto economico e quello del conto finanziario.
Nei saldi di finanza pubblica, tenendo conto della distinzione dei conti, economico e finanziario, si
distinguono:
Il Risparmio pubblico
E’ la differenza tra il totale delle ENTRATE TRIBUTARIE ed EXTRATRIBUTARIE ed il totale delle
SPESE CORRENTI. Con riferimento al bilancio pluriennale, esso costituisce, nel corso della gestione,
il parametro per il riscontro di copertura delle nuove o maggiori spese correnti e per il rimborso di
prestiti. Se è positivo (entrate maggiori delle spese), misura la quota di risorse correnti destinabile al
finanziamento delle spese in conto capitale; se è negativo (entrate minori delle spese), identifica la
quota delle spese correnti da soddisfare ricorrendo all'indebitamento. Riferito ai conti consolidati della
Pubblica Amministrazione e del Settore Pubblico Allargato esso misura quando e' positivo (avanzo
corrente) la quota di risparmio generata, quando è negativo (disavanzo corrente) la quota di risparmio
assorbita dai settori intestatari dei conti.
Il Saldo netto da finanziare
E’ la differenza risultante dalle operazioni finali, rappresentate da tutte le ENTRATE e le SPESE,
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escluse le operazioni di accensione e rimborso di prestiti. Con riferimento al bilancio pluriennale,
costituisce, nel corso della gestione, il parametro per il riscontro di copertura delle nuove o maggiori
spese in conto capitale.
Il Ricorso al mercato
E’ la differenza tra il totale delle ENTRATE FINALI ed il totale delle SPESE COMPLESSIVE. Indica
l’ammontare dell'indebitamento a medio e a lungo termine potenzialmente effettuabile nell'anno di
riferimento ed è determinato in sede previsionale: esso concorre, con le entrate, a determinare le
disponibilità per la copertura di tutte le spese da iscrivere nel bilancio annuale.
CONTO CONSOLIDATO DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
(in miliardi di euro - anno 2015) BANCA D’ITALIA Appendice alla Relazione annuale sul 2015 (Tavola a11.1 Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche 2015)
ENTRATE
ENTRATE CORRENTI (EC) VENDITE 38
IMPOSTE DIRETTE 242
IMPOSTE INDIRETTE 249
CONTRIBUTI SOCIALI 219
REDDITI DA CAPITALE 11
ALTRE ENTRATE CORRENTI 20
TOTALE EC 779
ENTRATE IN CONTO CAPITALE (EEC)
IMPOSTE IN CONTO CAPITALE 1
ALTRE ENTRATE IN CC 4
TOTALE ECC 5
TOTALE ENTRATE (EC+ECC) 784
(48% PIL)
SPESE
SPESE CORRENTI (SC)
REDDITI LAVORO DIPENDENTE 162
CONSUMI INTERMEDI 89
PRESTAZIONI SOCIALI 377
CONTRIBUTI PRODUZIONE 28
INTERESSI 68
ALTRE SPESE CORRENTI 37
TOTALE SC 761
SPESE IN CONTO CAPITALE (SCC)
INVESTIMENTI FISSI LORDI 37
CONTRIBUTI A INVESTIMENTI 16
ALTRE SPESE IN CC 14
TOTALE SCC 67
TOTALE SPESE SC+SCC 828
(51 % PIL)
SALDO PRIMARIO (SC– INTERESSI) – EC= (761 – 68) – 779 = 693 - 779 = - 86 [1,6% PIL]
DISAVANZO PARTE CORRENTE (EC – SC) = 779 - 761 = 18
DISAVANZO CONTO CAPITALE = (ECC – SCC) = 5 – 67 = - 62
INDEBITAMENTO NETTO (ET – ST )= 828- 784 = - 62+18 = - 44 [2,6 % PIL]
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Il fabbisogno ed il debito pubblico
Il fabbisogno è dato da
indebitamento netto + saldo delle operazioni di Tesoreria.
Le operazioni di Tesoreria sono:
a) gli incassi ed i pagamenti di bilancio (il saldo è l’indebitamento netto);
b) gli introiti e le erogazioni della gestione di Tesoreria, riguardanti cioè i debiti ed i crediti di Tesoreria (le
operazioni, su conti correnti, svolte dalla Tesoreria con altri soggetti: Regioni, ex aziende autonome, ecc.).
E' un risultato differenziale dei conti consolidati di cassa dei settori statale e pubblico allargato e misura
l'eccedenza delle erogazioni sugli incassi con riferimento al complesso delle operazioni correnti, in conto
capitale e finanziarie.
Il fabbisogno tendenziale è quello che risulterebbe, in assenza di interventi correttivi di politica fiscale, dai
conti consolidati di cassa dei settori statale e pubblico allargato, costruiti sulla base di ipotesi e previsioni di
evoluzione tendenziale delle variabili macroeconomiche rilevanti (reddito nazionale, prezzi, produzione,
ecc.)
Il fabbisogno complessivo risulta dalla somma
fabbisogno del settore statale (o del Tesoro) + fabbisogno delle Amministrazioni Locali.
Il fabbisogno è un concetto di flusso: si forma nel corso di un anno, comprende l’emissione di nuovi
strumenti finanziari destinati a coprire la differenza tra spese ed entrate complessive e rappresenta i nuovi
debiti annuali.
Questi strumenti sono:
- titoli del debito pubblico, con scadenza a breve termine (entro un anno: i buoni ordinari del tesoro
bot) ed a medio-lungo termine (più di un anno; rappresentano la componente più rilevante:certificati
di credito del tesoro cct, i buoni poliennali del tesoro bpt,ecc.)
- raccolta postale
- indebitamento con la Banca d’Italia
- indebitamento con istituzioni bancarie
- indebitamento con l’estero.
Con l’adesione all’UE ed all’euro è venuto meno il finanziamento con l’emissione di nuova moneta da parte
della Banca Centrale per finanziare il fabbisogno attraverso un conto corrente di tesoreria.
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Il debito pubblico
Con il termine debito pubblico si intende la consistenza (o stock) dei debiti del settore pubblico, incluso il
debito fluttuante (e gli altri debiti a breve) e l'indebitamento verso la Banca d'Italia. Secondo il Trattato di
Maastricht per debito pubblico si intende il debito lordo consolidato della P.A. (lordo significa al lordo delle
attività del settore; consolidato significa che sono state annullate le poste di debito e credito reciproche tra
gli enti all'interno della P.A.).
Le componenti finanziarie del debito pubblico sono le stesse che concorrono a formare il fabbisogno. Si
distinguono:
- il c.d. debito fluttuante: è il complesso delle operazioni destinate al finanziamento a breve del
fabbisogno del settore statale. A formare il debito fluttuante concorrono le operazioni relative:
a) ai buoni ordinari del Tesoro (bot);
b) ai conti correnti con la Cassa Depositi e Prestiti, l'INPDAP ed altri Istituti finanziari.
- Il c. d. debito patrimoniale: è l’ indebitamento con il quale si effettua il finanziamento a medio-
lungo termine del fabbisogno del Tesoro. Esso comprende i debiti pubblici (consolidati, redimibili,
buoni del Tesoro poliennali, certificati di credito del Tesoro, debiti esteri) e gli altri debiti (mutui
obbligazionari con istituti di credito).
I titoli del debito pubblico, oltre che per scadenza, si distinguono per:
- modalità di emissione (diretta: vendita diretta al pubblico; indiretta: vendita ad un consorzio di banche,
assicurazioni, istituti previdenziali che assicurano la sottoscrizione di tutti i titoli emessi; mista: una parte è
sottoscritta dal pubblico, un parte eventualmente residua è sottoscritta da un consorzio);
- emissione alla pari: un titolo con valore nominale di 100 è sottoscritto e rimborsato, alla scadenza,
a 100;
- emissione sotto la pari: un titolo di valore nominale 100 è sottoscritto, ad es. a 95 e, alla scadenza,
è rimborsato a 100: la differenza, 100 - 95 = 5, è lo scarto di emissione. …
I titoli vengono aggiudicati a chi offre di acquistarli attraverso dei sistemi di. asta periodica. Esistono
diverse procedure d’asta utilizzate per il collocamento dei titoli di Stato italiani e nelle operazioni di mercato
aperto dell’Eurosistema. All’asta partecipano gli intermediari finanziari i quali operano per conto dei propri
clienti (famiglie, imprese). Gli intermediari fanno offerte su quantità richieste di titoli e sui tassi di interesse
pretesi (i prezzi di sottoscrizione). I titoli sono assegnati, per la quantità richiesta, in successione, prima alle
offerte che pretendono interessi più bassi e poi a domande con interessi via via crescenti fino ad esaurire la
quantità di titoli prefissata. Sono fissati anche: a) un prezzo massimo accoglibile, ad impedire che i titoli
abbiano rendimenti troppo bassi e non siano convenienti per i sottoscrittori; b) un prezzo di esclusione, ad
impedire che i rendimenti siano troppo elevati e non convenienti per chi li emette (Tesoro).
Si distingue tra:
- asta competitiva: l’aggiudicazione dei titoli (a scadenza breve e brevissima) è effettuata ad un prezzo
pari a quello al quale vengono presentate le richieste, quindi a prezzi differenziati pari alle offerte successive,
iniziando da quelle con interessi più bassi e poi passando via via a quelle con interessi più elevati.
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- asta marginale: i titoli (a scadenza media e lunga) vengono aggiudicati con un prezzo unico, pari
all’offerta marginale. Se ci sono offerte, in successione, di sottoscrivere al 2%, al 2,50%, al 3% l’emissione è
fatta al 3% (offerta marginale con il tasso più elevato) anche per chi ha offerto di sottoscrivere ad un tasso
più basso. Gli intermediari che si sono aggiudicati i titoli li pagano al medesimo ‘prezzo marginale’ (l’ultimo
prezzo accoglibile, al quale è aggiudicato l’intero importo offerto).
Con l’emissione a rubinetto (più antica) l'emittente fissa il prezzo (tasso di interesse) dei titoli, ma non la
loro quantità. Le domande di sottoscrizione possono pervenire in tempi lunghi, con la possibilità di
modificare il prezzo. Così possono essere ridotti eventuali eccessi di domanda/offerta, con riduzioni/aumenti
dei tassi di interesse.
I titoli del debito pubblico dopo essere stati emessi ed acquistati nel mercato primario circolano nel
mercato secondario (in borsa). Lo spread è un differenziale tra tassi di interesse, è calcolato su titoli con la
stessa scadenza (ad es. quinquennale, decennale) ed è espresso in punti per cento (la differenza moltiplicata
per cento), i c.d. punti base.
a) Lo spread si può riferire a differenziali di interessi su titoli emessi in monete diverse: ad es. un titolo in
dollari rende il 4%, uno in euro il 6%: la differenza (6% - 4%) = 2% = 200 punti base.
b) Lo spread si può riferire a differenziali tra tassi di interesse su titoli emessi nella stessa moneta da paesi
diversi (come nell’area euro): se un titolo tedesco rende il 2% ed un titolo italiano (entrambi in euro) il 5%:la
differenza (3%) è di 300 punti base di spread.
Dipende da aspettative su rischi: a) dal rischio di insolvenza (default): un paese potrebbe non essere in
grado di rimborsare il prestito ai sottoscrittori; b) dal rischio di cambio: potrebbe variare il rapporto tra euro o
dollaro o un paese dell’Eurozona potrebbe uscire dall’euro con la riconversione di monete (il ritorno al marco,
alla lira, alla dracma …). Quindi lo spread si può considerare equivalente ad un tasso di interesse coperto
contro rischi di capitale. Tanto più lontana è la scadenza di un titolo tanto maggiori possono essere i rischi e
l’incertezza: quindi lo spread è maggiore per i titoli a scadenza lunga.
Un aumento o una riduzione dello spread su titoli emessi influisce sul tasso di interesse dei titoli di nuova
emissione: se lo spread nel mercato secondario aumenta diventa più costoso il rinnovo o una nuova emissione
di titoli dello stesso tipo e viceversa.
Lo spread si forma prima nel mercato secondario, dove i titoli vengono scambiati e possono anche essere
oggetto di speculazione:(per costringere un paese ad aumentare i rendimenti dei propri titoli di stato);
aumenta se i titoli vengono venduti e perdono di valore a parità di interessi; diminuisce se i titoli vengono
acquistati (ad es. con interventi di banche nazionali o della BCE).
Si vedano le voci Debito Pubblico (Enciclopedia delle Scienze Sociali) e Debito Pubblico nell’Enciclopedia Treccani.
Il Trattato di Maastricht (1992) ha fissato alcuni criteri per adesione all’Unione Monetaria Europea. Il
rapporto tra l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche ed il prodotto interno lordo deve avere un
limite massimo del 3%; il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo non deve superare il 60%). Il
Patto di stabilità del 1997 (Amsterdam) ha previsto che i paesi aderenti abbiano come obiettivo il bilancio
pubblico in pareggio.
La Repubblica Federale Tedesca ha inserito (nel 2009) nella Costituzione (art. 110.1) l’obbligo di pareggio
del bilancio, già presente nella Costituzione svizzera (art. 126) come equilibrio di lungo periodo. La
Costituzione ungherese limita il debito pubblico al 50% del PIL.
In Italia nel 2012 si è provveduto a modificare l’art. 81 della Costituzione, stabilendo il principio
dell’equilibrio tra entrate e spese nel bilancio pubblico, compatibilmente con l’andamento ciclico
dell’economia.
Art. 81. Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio
bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo
economico.
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Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli
effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata
a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi
eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai
mezzi per farvi fronte.
Nell’Unione Europea i diversi paesi aderenti emettono titoli del debito pubblico in Euro. Dato che la
solidità economica ed i rischi di default sono differenziati, tali titoli hanno diversi gradi di solidità e di
fiducia in base ai possibili ‘rischi di default’. Il default (insolvenza) è la possibilità che un paese non riesca a
rimborsare i titoli alla scadenza (rischio che nel 2010-2011 ha visto coinvolti alcuni paesi dell’UE) e che
quindi sia obbligato a ricorrere al c.d. consolidamento (prolungamento forzoso delle scadenze e rimborso
differito, abbassamento dei tassi di interesse sui titoli pubblici). La differenza di tasso d’interesse tra titoli
sicuri (ad es. i Bund tedeschi) ed i titoli dello stesso tipo di altri paesi è il c.d. spread. Questo differenziale
nei tassi di interesse è una misura del rischio dei titoli e si misura in punti percentuali: ad es. se il tasso
d’interesse sui Bund è del 2% ed i titoli di un altro paese hanno uno spread di 250 il tasso di interesse sarà di
4,50% (250 significa 2,50%; 320 significherebbe 3,20%).
Per le difficoltà finanziarie di alcuni Stati dell’area euro che rischiavano il default per il debito pubblico è
stato istituito nel 2012 l’ European Stability Mechanism, che può emettere titoli (garantiti dai paesi
dell’area euro) per finanziare aiuti ad uno Stato in difficoltà e può acquistare titoli del debito pubblico di uno
Stato dell’UE che accetti di concordare misure ed impegni di ‘rientro’.
FABBISOGNO E DEBITO PUBBLICO (2015 mld euro)
COMPONENTI FABBISOGNO DEBITO PUBBLICO Monete e depositi 5 178
Titoli a breve termine -9 115
Titoli a ml termine 44 1707
Prestiti 1 171
Disponibilità liquide Tesoro 11
Totale 52 2173
% PIL 3,1 132,7
La pressione tributaria
La pressione tributaria misura il sacrificio imposto ad una collettività dalle entrate tributarie. Esistono
diversi concetti di pressione. Considerando tutte le imposte in senso stretto Tp = Td + Ti, i contributi
sociali CS ed il prodotto interno lordo Y abbiamo:
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Pressione Tributaria in senso stretto (non considerando i CS come imposte): Td+Ti
Y
Pressione del Prelievo Obbligatorio : Td+Ti+ CS
Y
Comunemente si usa il termine pressione tributaria per indicare la pressione del prelievo obbligatorio.
Sono utilizzate alcune varianti di questo indice. Ad esempio, considerando il totale delle entrate tributarie
T=Tp + CS:
- L’ Indice di pressione tributaria di Frank (F): considerando la popolazione N di un paese l’indice è
riferito al prodotto interno lordo pro capite e si scrive
F = (T/Y) = TN
(Y/N) Y2
- L’Indice di pressione tributaria di Bird (B), dove si utilizza la differenza tra prodotto interno lordo Y e
totale delle entrate tributarie T: scrivendo D = Y - T
B = (T/D) = TN = TN = TN .
(Y/N) YD [Y(Y-T)] (Y2-TY)
- Un Indice misto: la radice quadrata del prodotto dell’indice di Frank e di quello di Bird:
IM = √BxF
- Un Indice che considera anche S (i benefici che la spesa pubblica restituisce in parziale compensazione
dei sacrifici causati dalle le imposte prelevate ) ed M (il minimo vitale della popolazione, che non può
essere tassato); l’indice diventa
(T - S) , o anche (T - S) ..
(Y - M) (D - M)
21
APPENDICE I
ENTRATE TRIBUTARIE STATALI (2015 - mld euro)
IMPOSTE DIRETTE
IRPEF 166
IRES 22
SOSTITUTIVE 11
ALTRE 7
TOTALE 206
IMPOSTE INDIRETTE
IVA 101
OLI MINERALI 26
REGISTRO BOLLO 15
ENERGIA 18
TABACCHI 11
LOTTO 7
ALTRE 71
TOTALE 249
ENTRATE TRIBUTARIE DELLE AMMINISTRAZIONI CENTRALI E LOCALI
(2015 - mld euro)
AMMIN. CENTRALI AMMIN. LOCALI TOTALE
IMPOSTE DIRETTE 206 36 (IMU 20) 242
IMPOSTE INDIRETTE 180 69 (IRAP 28) 249
TOTALE 386 105 491
Grado di autonomia tributaria delle amministrazioni locali (Imposte Locali /Totale Imposte):
Imposte dirette 36/242 = 15% Imposte indirette 69/249 = 28% Totale imposte 105/491 =
21%
APPENDICE II - IL BILANCIO DELLO STATO
Si rinvia alla Legge di contabilità e finanza pubblica 196/2009 riformata dalla legge
163/2016, dalla legge 39/2011, dal D.lgs. 90/2016, dal D.lgs. 93/2016
Il bilancio dello Stato è il documento contabile di previsione, indicante le entrate e le uscite
dell'amministrazione statale, relative ad un determinato periodo di tempo (esercizio finanziario). Il progetto
di bilancio annuale di previsione è redatto sulla base dei criteri e dei parametri indicati nel documento di
programmazione economico-finanziaria, come deliberato dal Parlamento.
Il bilancio ha diverse funzioni: contabile (permette di conoscere la situazione contabile
dell'Amministrazione e di regolarne l'attività futura); di garanzia (per i cittadini nei confronti
dell'amministratore pubblico); politica (nel rapporto tra governo e parlamento); giuridica (il bilancio ha
forza di legge e vincola alla sua osservanza l'attività della p.a.); economica (è strumento di programmazione,
che permette di valutare gli effetti dell'attività finanziaria e di orientare gli interventi di politica economica).
Il bilancio di previsione dello Stato è un atto con forma di legge, predisposto su base annuale e
pluriennale, sia in termini di competenza che di cassa, col quale il Parlamento autorizza il Governo a
prelevare ed utilizzare le risorse pubbliche necessarie per l’esecuzione delle politiche pubbliche e delle
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attività amministrative dello Stato e rappresenta il principale documento contabile per l’allocazione, la
gestione e il monitoraggio delle risorse finanziarie dello Stato. Il nuovo disegno di legge di bilancio viene
presentato al Parlamento entro il 20 ottobre di ogni anno, dando avvio all’iter normativo che porta,
all’approvazione del testo definitivo entro il 31 dicembre. Costituisce la manovra di finanza pubblica Il
bilancio di previsione è costituito da uno stato di previsione dell'entrata e da tanti stati di previsione della
spesa quanti sono i ministeri con portafoglio, con allegate le appendici dei bilanci delle amministrazioni
autonome e con il quadro generale riassuntivo con riferimento al triennio.
E’ stata data natura sostanziale alla legge di bilancio, divisa in due sezioni. La Sezione I, dedicata alle
innovazioni legislative, e la Sezione II, contenente il bilancio a legislazione vigente e le variazioni non
determinate da innovazioni normative: rimodulazioni compensative verticali (nello stesso esercizio, tra
capitoli di spesa) e orizzontali (tra vari esercizi, su uno stesso capitolo di spesa), nonché rifinanziamenti,
definanziamenti e riprogrammazioni di spese disposte da norme preesistenti.
Il bilancio di previsione dello Stato deve essere approvato con la legge di bilancio (art. 81 della
Costituzione) e si riferisce ad un periodo triennale. Comprende:
A) il bilancio di competenza (attualmente per il triennio 2017-2019)
B) il bilancio di cassa (attualmente per triennio 2017-2019)
Il bilancio di previsione è un doppio bilancio:
- Bilancio decisionale (bilancio annuale di previsione) è articolato, per l'entrata e per la spesa, in unità
previsionali di base. Per la decisione parlamentare è strutturato per missioni e programmi (unità di voto
parlamentare). Le MISSIONI sono le funzioni principali e obiettivi strategici perseguiti con la spesa.
Possono riguardare più ministeri. Le risorse stanziate con il bilancio si suddividono in 34 missioni. I
PROGRAMMI (unità di voto parlamentare per le spese) sono aggregati diretti al perseguimento dei
risultati, definiti in termini di prodotti e di servizi finali, per conseguire gli obiettivi stabiliti nelle missioni.
La realizzazione di ciascun programma è affidata ad un unico centro di responsabilità amministrativa. I
programmi sono a loro volta articolati in azioni, le quali descrivono l’assegnazione delle risorse destinate al
programma tra le diverse attività che lo compongono. Principalmente per ragioni gestionali, le azioni sono
ulteriormente suddivise in capitoli e questi ultimi in piani gestionali. I capitoli di bilancio sono
accompagnati da un sistema di codici (classificazioni) che si conforma al SEC.
In un programma si trovano tre tipologie di spese:
- Oneri inderogabili sono le spese vincolate a meccanismi o parametri che ne regolano l’evoluzione,
determinati da leggi o altri atti normativi, comprese le spese obbligatorie (es. spese per il personale, pensioni,
interessi passivi …);
- Fattori legislativi sono tetti di spesa stabiliti da leggi sostanziali che ne determinano l’ importo e la durata;
- Spese di adeguamento al fabbisogno sono spese non prefissate legislativamente ma quantificate in
funzione delle esigenze delle amministrazioni (es. consumi intermedi);
- Bilancio gestionale (o amministrativo) è suddiviso in capitoli, e in articoli. Non costituisce oggetto di
deliberazione parlamentare ed e' redatto ai soli fini della gestione e della rendicontazione. E’ strutturato per
unità elementari di bilancio (macroaggregati, capitoli di bilancio e articoli, per le entrate) o per piani di
gestione (per le spese).
Le previsioni pluriennali di competenza e di cassa della legge di bilancio sono formulate predisponendo un
piano finanziario dei pagamenti (Cronoprogramma).
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APPENDICE III - SEMESTRE EUROPEO E DOCUMENTI DI FINANZA PUBBLICA
IL SEMESTRE EUROPEO
Gli Stati dell’UE si sono impegnati a realizzare gli obiettivi della strategia del Patto Europa 2020. Quindi
l'UE ha istituito un ciclo annuale di coordinamento delle politiche economiche detto semestre europeo
durante i quali gli Stati dell’UE devono allineare le loro politiche economiche agli obiettivi definiti a livello
dell'UE. Ogni anno la Commissione compie un'analisi dettagliata dei programmi di riforma finanziaria,
macroeconomica e strutturale degli Stati membri dell'UE e rivolge a ciascuno di essi delle raccomandazioni
per i successivi 12-18 mesi.
A settembre il presidente della Commissione europea indica le priorità politiche ed economiche
nel discorso sullo stato dell' UE.
A ottobre gli Stati membri dell'area dell'euro presentano i documenti programmatici di bilancio per l'anno
successivo. A novembre la Commissione formula un parere su ciascuno di essi e valuta se sono conformi ai
requisiti del patto di stabilità e crescita.
A novembre la Commissione adotta l’analisi annuale della crescita e la relazione sul meccanismo di
allerta (sulla base di un insieme di indicatori economici e sociali, questa identifica gli Stati membri che
richiedono un'ulteriore analisi, sotto forma di esame approfondito, per verificare l'eventuale esistenza di
squilibri e la loro natura), e le valutazioni dei documenti programmatici di bilancio degli Stati dell'eurozona.
A febbraio la Commissione pubblica una valutazione economica analitica per ogni Stato membro, che ne
esamina la situazione economica, i programmi di riforma e gli eventuali squilibri da risanare.
A marzo il Consiglio fa il punto della situazione macroeconomica generale e dei progressi realizzati nei
confronti degli obiettivi della strategia Europa 2020 ed elabora orientamenti strategici sulle riforme
finanziarie, macroeconomiche e strutturali.
Ad aprile gli Stati presentano i piani per il risanamento dei conti pubblici (programmi di stabilità o
convergenza) e le misure che intendono adottare per conseguire una crescita sostenibile e solidale in settori
come l'occupazione, l'istruzione, la ricerca, l'innovazione, l'energia o l'integrazione sociale (programmi
nazionali di riforma).
A maggio la Commissione rivolge una serie di raccomandazioni a ciascun paese fornendo indicazioni
strategiche in settori considerati prioritari per i successivi 12-18 mesi. Le raccomandazioni sono discusse ed
approvate dal Consiglio europeo. Le indicazioni strategiche sono trasmesse agli Stati prima che abbiano
ultimato i bilanci preventivi per l'anno successivo.
A fine giugno - inizio luglio il Consiglio formalizza le raccomandazioni per ogni paese.
I DOCUMENTI DI FINANZA PUBBLICA
Oltre al Bilancio dello Stato esistono diversi documenti di finanza pubblica.
Il Documento di Economia e Finanza (DEF) viene presentato alle Camere entro il 10 aprile di ogni anno.
E’ il principale strumento della programmazione economico-finanziaria ed indica la strategia economica e di
finanza pubblica nel medio termine. E’ proposto dal Governo ed approvato dal Parlamento. Si compone di
tre sezioni e di allegati. Il DEF è composto da tre sezioni:.
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Il Programma di Stabilità dell’Italia contiene gli obiettivi da conseguire per la riduzione del debito
pubblico e gli obiettivi di politica economica per il triennio successivo; l'aggiornamento delle
previsioni per l'anno in corso; l'indicazione dell'evoluzione economico-finanziaria internazionale; gli
obiettivi programmatici.
L’ Analisi e tendenze della finanza pubblica contiene analisi del conto economico e del conto di
cassa nell'anno precedente, le previsioni tendenziali del saldo di cassa del settore statale e le
indicazioni sulle modalità di copertura. E’ allegata una Nota metodologica con i criteri di
formulazione delle previsioni tendenziali a legislazione vigente per il triennio successivo.
Il Programma Nazionale di Riforma indica lo stato di avanzamento delle riforme, gli squilibri
macroeconomici nazionali ed i fattori di natura macroeconomica che incidono sulla competitività, le
priorità del Paese e le principali riforme da attuare.
Entro il 15 ottobre di ogni anno gli Stati membri dell’UE trasmettono alla Commissione Europea e
all'Eurogruppo un progetto di Documento programmatico di Bilancio (DP) per l’anno successivo, nel quale
illustrano all’Europa il proprio progetto di bilancio. Il DPB contiene l'obiettivo di saldo di bilancio e le
proiezioni delle entrate e delle spese.
Il Rendiconto Generale dello Stato è il documento di consuntivo che espone i risultati della gestione del
bilancio dello Stato dell’esercizio finanziario scaduto il 31 dicembre dell'anno precedente. Consente di
verificare le modalità e la misura in cui ogni Amministrazione ha dato attuazione alle previsioni del bilancio.
Il MEF deve inviare il Rendiconto generale dell'esercizio entro il 31 maggio alla Corte dei Conti per il
giudizio di parificazione che ne attesta la regolarità e che entro il 30 giugno lo presenti al Parlamento per
l’approvazione. L’Ecorendiconto è un allegato al Rendiconto generale che illustra i risultati delle spese
ambientali e delle spese aventi per finalità la protezione dell’ambiente e l’uso e gestione delle risorse.
APPENDICE IV: Teorie del settore pubblico
A partire dalla seconda metà del sec. XVIII sono state elaborate diverse teorie sulla natura
economica dell’attività del settore pubblico.
Teorie dello scambio: secondo studiosi inglesi dei sec. XVIII-XIX nel settore pubblico si svolgono
processi di scambi contrattuali tra individui e soggetti pubblici. Le imposte e le tariffe pubbliche
sono i prezzi di beni e servizi pubblici (imposta-controprestazione) e, per mantenere queste
caratteristiche ‘contrattualiste’ il settore pubblico deve avere dimensioni limitate, in modo che vi sia
consapevolezza di questa natura di scambio. Secondo Adam Smith le spese pubbliche rappresentano
un consumo improduttivo di ricchezza, se non assistono la produzione privata e non avvantaggiano
l’industria (ad es. con infrastrutture come strade, porti, canali). I servizi pubblici sono considerati
lavori improduttivi, nel senso che scompaiono nel momento stesso in cui sono prodotti e le imposte
mantengono lavoratori improduttivi, che sono rappresentati dal sovrano, dai funzionari pubblici, da
magistrati e militari. Il consumo comune di servizi pubblici è improduttivo. Smith ammette pure che,
di seguito al consumo improduttivo pubblico, possa seguire un aumento della produzione privata.
Secondo studiosi francesi del sec. XIX il contratto assume la forma di un contratto di assicurazione:
le imposte non sarebbero altro che un premio di assicurazione pagato per avere beni e servizi
pubblici che proteggano contro l’insicurezza ed i rischi della vita associata. Le teorie dello scambio
derivano dal contratto sociale, la controprestazione corrisponde allo stato di diritto ed il settore
pubblico è generato dallo scambio.
Teorie del consumo: sono formulate da studiosi inglesi e francesi del sec. XIX. Le attività
economiche del settore pubblico sono attività di consumo, nel senso che i redditi ed i patrimoni
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acquisiti con le imposte sono destinati a fornire ‘servizi immateriali’ (i.e. servizi pubblici) e non a
produrre beni materiali. Il consumo di servizi pubblici è considerato improduttivo perché avviene
contemporaneamente alla produzione. L’attività economica del settore pubblico equivale ad un
consumo di ricchezza privata: i beni materiali privati sono trasformati, con imposte-spese, in beni a
consumo immediato. Una teoria distingue tra beni pubblici di godimento, che implicano consumo
congiunto dei cittadini (le infrastrutture, i parchi pubblici, le strutture sportive, musei e teatri) ed i
beni pubblici di sfruttamento (stipendi e consumi dei dipendenti pubblici).
Teorie della produzione: si tratta soprattutto di alcune teorie di studiosi tedeschi (Wagner, List,
Dietzel, Wagner, Stein,) della seconda metà del sec. XIX. Si tratta di teorie che evidenziano un ruolo
dello Stato come produttore autonomo. Una teoria più antica sosteneva che lo Stato agisce come
un’azienda privata, che c’è equiparazione tra privato e pubblico e che il sovrano agisce nell’interesse
del popolo (Stato poliziesco-eudemonistico). La teoria della produttività di List sostiene che la
nazione sacrifica beni per acquisire ‘forze spirituali e sociali’ (giustizia, difesa, istruzione): lo Stato,
quando non produce direttamente valori genera forze produttive, nuove energie morali e fisiche per la
produzione di valori. Secondo Dietzel lo Stato con i beni capitali produce direttamente beni
immateriali ed è esso stesso un grande capitale immateriale e produttivo. I beni destinate a soddisfare
i bisogni comuni sono prodotti in gran parte immateriali di un processo comune di produzione: difesa,
giustizia, istruzione sono considerati beni immateriali dello Stato. Per Wagner lo Stato trasforma beni
naturali in beni immateriali ed è produttore di beni immateriali (servizi pubblici): sicurezza, giustizia,
benessere ed in forze produttive (energie morali e fisiche): esiste una generale commutatività di beni
e servizi pubblici ed il consumo pubblico è produttivo.
Teoria della riproduttività. La teoria della riproduttività (Stein) ha carattere normativo, più che
interpretativo. Afferma che lo Stato-organismo, che amministra le entrate sostituendosi agli individui
per i bisogni della collettività, nell’economia ha il fine di mantenere l’ordine e reintegrare le forze
economiche. Pertanto deve seguire il criterio della riproduttività. Ogni organismo per essere vitale
deve poter riprodurre le condizioni per la sua esistenza. Le spese pubbliche sono il costo di
produzione dello Stato. Le prestazioni che il cittadino fa allo Stato (imposte) sono parte del costo di
produzione privato. L’uso di beni privati (entrate) deve essere riproduttivo, l’amministrazione deve
costare meno di quello che acquisisce. L’uso di beni e redditi privati da parte dello Stato è giustificato
solo se è riproduttivo. D’altra parte i beni privati non si possono godere senza un contestuale
godimento dei beni pubblici. Le spese statali sono produttive se permettono la riproduttività del
consumo individuale.
____ Le teorie economiche sulle imposte e sulle spese pubbliche sono state formulate, in modo compiuto,
fin dai sec. XVII-XVIII. Già, ad es., in A treatise of taxes and contributions (1662) di William Petty
(1623-1687) ed in Of Taxes (1752) di David Hume (1711-1776); tra i Fisiocratici francesi (2a metà
sec. XVIII, v. anche Physiocrats), Mirabeau (1715 - 1789) elabora una teoria dell’imposta unica
sulla terra (1760). Tra gli studiosi dell’Europa continentale vanno ricordate le opere dell’austriaco E.
Sax (1845 – 1927) e del rappresentante della scuola storica tedesca A. Wagner (1835-1917). Tra gli
studiosi italiani si ricordano gli illuministi di Milano Pietro Verri (1728-1797), Della Economia
Politica (1781) e Cesare Beccaria (1738-1794), Economia Pubblica (1760). Dell’ambiente culturale
di Napoli si possono ricordare Antonio Genovesi (1713-1769) nelle Lezioni di commercio o sia di
economia civile (1766-67), Ferdinando Galiani (1728-1787), Gaetano Filangieri (1752-1788) in
Delle leggi politiche ed economiche, nella Scienza della legislazione (1785-88), e specialmente
Carlo Antonio Broggia (1683-1763) nel Trattato dei tributi (1743) e Giuseppe Palmieri (1721-
1793) nelle Riflessioni sulla pubblica felicità (1788).
Nelle grandi opere dei ‘padri’ della teoria economica in ambiente inglese (Smith, Ricardo, J. Stuart
Mill) si trovano approfondimenti su imposte e spese pubbliche.
Adam Smith (1723-1790), in An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations
(1776), in particolare:
Book V: Of the Revenue of the Sovereign or Commonwealth
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V.1. Of the Expences of the Sovereign or Commonwealth
V.2. Of the Sources of the General or Public Revenue of the Society
V.3. Of Public Debts
David Ricardo (1772-1823), in On the Principles of Political Economy and Taxation (1817), in
particolare:
8. On Taxes
9. Taxes on Raw Produce
10. Taxes on Rent
11. Tithes
12. Land-Tax
13. Taxes on Gold
14. Taxes on Houses
15. Taxes on Profits
16. Taxes on Wages
17. Taxes on other Commodities than Raw Produce
John Stuart Mill (1806-1883), in Principles of Political Economy with some of their Applications
to Social Philosophy (1848), in particolare:
Book V On the Influence of Government
V.I Of the Functions of Government in General
V.II On the General Principles of Taxation
V.III Of Direct Taxes
V.IV Of Taxes on Commodities
V.V Of some other Taxes
V.VI Comparison between Direct and Indirect Taxation
V.VII Of a National Debt
E’ esistita una Scuola italiana di Scienza delle finanze, iniziata nel
sec. XIX e sviluppata nel sec. XX.
Si possono ricordare alcuni studiosi:
Francesco Ferrara (1810 - 1900)
Luigi Cossa (1831 – 1896)
Giuseppe Ricca Salerno (1849-1912)
Amilcare Puviani (1854-1907)
Maffeo Pantaleoni (1857- 1924)
Antonio De Viti De Marco (1858-1941)
Enrico Barone (1859-1924)
Ugo Mazzola (1863-1899)
Carlo Angelo Conigliani (1868 - 1901)
Luigi Einaudi (1874-1961)
Mauro Fasiani (1900-1950)
Cesare Cosciani (1908-1985)
Sergio Steve (1915-2006)
Cenni storici fino al sec. XIX si trovano in G. Ricca Salerno,
Storia delle dottrine finanziarie in Italia (1896)i Ricca Salerno
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II. Le spese pubbliche
a. Beni e servizi pubblici
Classificazioni della spesa pubblica
Le caratteristiche di beni e servizi pubblici
Tipologie e modelli
b. La spesa pubblica in trasferimenti
Modelli
La previdenza e la redistribuzione del reddito
Spese pubbliche per sanità ed istruzione
c. Beni e servizi pubblici locali. I fallimenti del governo
Beni e servizi pubblici locali
I fallimenti del governo
1. Beni e servizi pubblici
Classificazioni della spesa pubblica
- Classificazione amministrativa: le spese sono classificate in base alle competenze delle diverse
unità amministrative del governo che hanno il potere di spendere e di incassare, in modo da
individuare la responsabilità della gestione.
- Classificazione economica: inserisce i dati delle attività finanziarie pubbliche nella contabilità
nazionale: distingue tra incassi e pagamenti correnti (che riguardano flussi) ed in conto capitale
(che determinano variazioni di patrimonio).
- Classificazione funzionale: le spese sono classificate in base alla loro funzione (destinazione per
obiettivi), in modo da evidenziare programmi, carichi di lavoro e costi delle attività.
Il modello di classificazione delle funzioni di governo (COFOG) segue quello delle NAZIONI
UNITE - COFOG (Classification of the Functions of Government) e dell’Organizzazione per la
Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD). La classificazione COFOG è articolata in 10
Divisioni, ciascuna suddivisa in Gruppi e Classi
01. - SERVIZI GENERALI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI
02. - DIFESA
03. - ORDINE PUBBLICO E SICUREZZA
04. - AFFARI ECONOMICI
05. - PROTEZIONE DELL' AMBIENTE
06. - ABITAZIONI E ASSETTO TERRITORIALE
07. - SANITA’
08. - ATTIVITA' RICREATIVE, CULTURALI E DI CULTO
09. - ISTRUZIONE
10. - PROTEZIONE SOCIALE
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Beni e servizi pubblici
Difesa
Giustizia
Ordine
pubblico
Trasporti
Opere pubbliche
Istruzione
Sanità
TV
internet
La distinzione tra beni e servizi pubblici e privati non si trova nella qualità, pubblica o privata, di un
soggetto proprietario di un bene o gestore di un servizio, ma è oggettiva, in quanto si fonda sulla tecnologia
del consumo o della produzione.
Si classificano:
- Beni pubblici (di consumo o di produzione): sono beni fisici, in particolare immobili, come
opere ed infrastrutture pubbliche, impianti per il tempo libero, strutture culturali, ma anche
beni immateriali (ordine pubblico, pace, benessere sociale);
- Servizi pubblici: si tratta di attività complesse, costituite da beni fisici e da personale, che
generano output assimilabili a beni pubblici (difesa, polizia, giustizia, sanità, istruzione).
Come i beni pubblici sono offerti anche se non sono domandati.
- Servizi di pubblica utilità: come le forniture di energia elettrica, gas, acqua, telefoni,
comunicazioni, trasporti, servizi postali. Sono servizi prodotti e venduti da imprese
pubbliche o da imprese private regolate e pagati a tariffa in base alla domanda.
I beni ed i servizi pubblici e di pubblica utilità possono essere prodotti e gestiti sia da soggetti pubblici che
privati. Beni e servizi pubblici sono definiti nella contabilità nazionale come beni e servizi non destinabili
alla vendita.
Le caratteristiche distintive di beni privati e pubblici sono nelle modalità di accesso e di consumo. Sono
distinguibili e classificabili i beni pubblici e privati in base a:
consumo congiunto/disgiunto;
escludibilità/non escludibilità,
rivalità/non rivalità,
esternalità/non esternalità.
I beni privati sono beni a consumo disgiunto. I beni sono consumati separatamente. Si sommano le
diverse quantità dei beni consumate dai singoli individui per avere il consumo totale. Ogni
individuo paga un prezzo uguale e distinto. La spesa complessiva per beni privati si ottiene
sommando i prezzi uguali pagati da singoli.
Un esempio è dato da un bene di consumo alimentare.
I beni pubblici sono beni a consumo necessariamente congiunto. Si distinguono dai beni privati a
consumo ripetibile ma distinto (beni di consumo durevole), per i quali è possibile un consumo da
parte di individui diversi, ma in successione temporale distinta (prima Tizio, poi Caio, poi
Sempronio). I beni pubblici sono caratterizzati da contemporaneità nel consumo da parte di più
individui. Si sommano gli individui che possono consumare la stessa quantità di bene pubblico. Il
pagamento per il costo della stessa quantità di bene pubblico può essere frazionato, in quote diverse,
tra più consumatori. I consumatori pagano somme individuali differenziate per la stessa quantità.
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L’esempio più antico di consumo congiunto gratuito è quello del faro o del lampione.
I beni privati sono beni escludibili: se Tizio consuma un bene privato X, dopo averlo acquistato e
pagato, impedisce a Caio di consumare lo stesso bene X.
I beni pubblici sono beni non escludibili: se Tizio consuma Y non può impedire a Caio di consumare
la stessa quantità di Y. La non escludibilità implica che chi non può essere escluso possa tentare di
approfittare per non pagare la sua quota di costo e comportarsi in modo opportunistico (free rider).
I beni privati sono beni rivali: non è possibile aggiungere altri consumatori della stessa quantità di
X. La rivalità si definisce anche concorrenza nel consumo e sottraibilità (un consumatore
aggiuntivo sottrae una parte del consumo agli altri).
I beni pubblici sono non rivali: è possibile aggiungere altri consumatori della stessa quantità di Y
senza ridurre il livello di consumo per altri.
I beni privati non producono esternalità. I beni pubblici producono esternalità.
L’esternalità ( o effetto esterno) è un effetto, positivo o negativo, che consegue ad un’attività di
produzione e di consumo e che va a finire a soggetti estranei, senza che questi debbano pagare un
corrispettivo come prezzo (esternalità positiva: un beneficio, un incremento di reddito, di
patrimonio, di utilità e di benessere) o senza che possano ricevere un indennizzo (esternalità
negativa, che è un danno, un costo aggiuntivo, una diminuzione di utilità). Dato che non è un
effetto contrattato o concordato si dice che l’esternalità non passa dal mercato.
Un esempio di esternalità positive: Tizio ascolta buona musica, Caio ha utilità
nell’ascoltarla senza dover pagare. Per i beni/servizi pubblici: quando sono offerti a Tizio
sono contemporaneamente consumati da Caio e questi ne beneficia senza pagare e senza
averli richiesti. Inoltre, per i beni ed i servizi pubblici: un’opera pubblica può ridurre i
costi di produzione delle imprese; l’istruzione e la sanità possono migliorare la qualità
della vita; i servizi di giustizia e di polizia possono dare sicurezza, proteggere l’attività
contrattuale ed i patrimoni.
Un esempio di esternalità negativa: è il caso dell’inquinamento ambientale o acustico
derivante da produzione o uso di beni o servizi privati. Un soggetto produce un bene o un
servizio e contemporaneamente danneggia un soggetto terzo estraneo a rapporti
contrattuali, che non riceve indennizzo/risarcimento.
Esistono beni pubblici che producono sia esternalità positive che negative (ad es. un impianto
di smaltimento rifiuti, una centrale elettrica, un’opera pubblica con forte impatto ambientale).
Alcuni servizi pubblici sono a domanda individuale, ma l’accesso non può essere precluso (ad es. nei
servizi di pubblica utilità). Alcuni consumi di servizi pubblici sono obbligatori (ad es. nell’istruzione, sanità,
giustizia, difesa).
Il grado in cui sono presenti le caratteristiche è variabile. Sono tutte presenti al massimo grado nei beni
privati puri e nei beni pubblici puri. Ma esistono un gran numero di casi intermedi (beni privati non puri e
beni pubblici non puri).
Ad es.: per alcuni beni e servizi pubblici quando aumenta il numero di utenti oltre un certo livello non
sono più beni pubblici puri. Si presentano fenomeni di congestione che limitano il consumo degli utenti
(la non rivalità si attenua: ad es. un’autostrada, i servizi sanitari). Per altri (un teatro, uno stadio) è
possibile l’esclusione (la limitazione degli ingressi), ma rimane il consumo congiunto.
Le risorse comuni o beni ad accesso libero sono beni non escludibili ma rivali. Si tratta di beni
patrimoniali, per lo più immobili, che generano flussi di beni o servizi che i consumatori hanno diritto ad
utilizzare, senza discriminazione, in parte, senza danneggiare i beni. Esempi: i diritti gratuiti di attingere
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acqua per uso domestico o per irrigazione, i diritti di pesca, di raccogliere prodotti agricoli, legname,
materiali, una biblioteca pubblica. Sono soggetti al rischio di eccessi di uso, che possono impoverire o
annullare le risorse se si ha una congestione di consumatori e mancanza di incentivi alla manutenzione ed
alla conservazione del patrimonio di uso comune. Questi beni (ad es. gli usi civici) sono caratterizzati da non
escludibilità, ma non da consumo congiunto né da non rivalità. Di solito sono autogestiti da comunità
locali. L’evoluzione e la teoria delle risorse comuni è connessa a diritti individuali fondamentali (ad es. per
la garanzia del minimo vitale, per il diritto di cittadinanza) che devono essere offerti a ciascun componente di
una comunità. Così il diritto di uso/accesso a risorse comuni si fonda su diritti che nascono dall’appartenenza
ad una comunità.
I beni di club sono beni escludibili, ma non-rivali proprio in quanto escludibili. Si può limitare l’accesso
dei consumatori, ma quelli che sono ammessi al club hanno un consumo congiunto in cui il consumo da parte
di un soggetto non limita il consumo da parte di altri. L’esclusione di alcuni garantisce che non si verifichi
congestione (rivalità) nel consumo. L’uso congiunto del bene o del servizio è ristretto ai soggetti che pagano
l’accesso al club. La ricerca della dimensione ottima del club comporta un confronto tra:
- i benefici ricevuti dal pagamento per l’accesso: quanto maggiore è il numero di aderenti tanto più si può
ridurre la quota individuale, ed
- i costi: il numero crescente di consumatori impone costi crescenti di gestione e di manutenzione e costi
derivanti dal presentarsi in grado crescente della rivalità nel consumo.
Aumentando il numero di soci si hanno minori pagamenti individuali ma, da un certo livello, rappresentato
dalle dimensioni e dalla capacità di un impianto (impianto sportivo, cinema, circolo di tennis o di golf)
minori benefici individuali.
Il club comporta un’autorità collettiva che decide sull’ammissione al club e sulla gestione. Diversi beni e
servizi pubblici locali, offerti da amministrazioni locali, hanno le caratteristiche dei beni di club.
Gli esempi che approssimano i beni di club sono quelli di un teatro, di uno stadio, di una piscina comunale,
di un museo.
Beni escludibili ma non rivali, a domanda individuale. Esistono beni e servizi che hanno la caratteristica
dell’escludibilità nell’accesso, ma non sono rivali, per quanti consumatori possano aggiungersi. Pertanto
l’esclusione dipende solo dalla volontà di assicurare un accesso individuale a pagamento. L’esempio
comunemente richiamato è quello della televisione criptata con decoder o della tv via cavo, dove esiste un
sistema per far pagare i consumi individuali, escludendo chi non paga. Una televisione non criptata è invece
non escludibile e non rivale, ma il consumo può essere individualmente rifiutato. La differenza rispetto ad un
bene o servizio pubblico puro risiede nel tipo di non escludibilità. Nel caso di beni e servizi pubblici puri
come la difesa, la polizia, la giustizia non è possibile al singolo individuo autoescludersi dal consumo, che è
imposto ed obbligatorio. Nel caso della televisione il consumo o il non consumo dipendono da una scelta
individuale.
L’informazione può essere classificata come bene pubblico particolare vicino a questa tipologia. Da una
parte l’informazione può essere:
- ad accesso costoso ed escludibile quando un individuo o un’impresa hanno difficoltà a
reperire informazioni e devono impiegare risorse (misurate in moneta e tempo) per
acquisirle, anche da soggetti specializzati che pretendono un pagamento; in questo caso la
domanda individuale è preminente, l’informazione è un investimento privato ed è finalizzata
a conseguire guadagni privati (ad es. nei mercati finanziari o in altri mercati); in tale ipotesi
si costituiscono le asimmetrie informative;
- ad accesso gratuito e non escludibile quando l’informazione è diffusa senza necessità di
pagamento e i soggetti privati non sono rivali e difficilmente escludibili (è il caso della
pubblicità, dell’informazione politica, del software gratuito), ed in questo caso le
caratteristiche pubbliche sono più evidenti.
Si definiscono anche i beni di merito. Sono beni e servizi a consumo imposto. Non sono riconosciuti utili
immediatamente dai consumatori che sono obbligati a consumarli e si rivelano utili con il passare del tempo
(ad es. l’istruzione obbligatoria, le vaccinazioni obbligatorie, le misure contro le droghe). L’autorità pubblica
interferisce nelle scelte dei consumatori ed interviene a correggere le difficoltà e gli errori nei processi di
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scelta individuali, quando queste sono basate su mancanza di informazione o sull’incapacità di prevedere
effetti lontani nel tempo. Non hanno caratteristiche di non rivalità e non escludibilità. Si tratta di ipotesi
verificate, nei casi estremi, nel paternalismo o nello stato etico.
Esternalità e ‘teorema di Coase’
La presenza di esternalità negative può essere eliminate in diversi modi:
a) Attraverso l’imposizione di regole e limitazioni (regulation) che controllino i
comportamenti di imprese e consumatori;
b) Con l’intervento giudiziario: è un giudice che su ricorso della parte offesa dall’esternalità
stabilisce se questa può continuare ad esistere, se deve essere eliminata o se comporta
indennizzi e compensazioni;
Con alcune condizioni si possono eliminare contrattualmente i fallimenti del mercato dovuti
alle esternalità attraverso processi di privatizzazione/ contrattualizzazione (‘far passare dal
mercato’ anche le esternalità): il ‘teorema di Coase’ afferma che le esternalità negative non
portano necessariamente a giustificare un intervento pubblico perché possono essere ‘contrattate’ e
controllate in modo efficiente attraverso scambi di mercato. Il soggetto in grado di realizzare il
maggior beneficio economico ha un incentivo a pagare gli altri perché non limitino la sua attività.
Condizione ovvia per la ‘contrattazione delle esternalità’ è che il guadagno del soggetto che causa
l’esternalità deve essere sufficiente per pagare una compensazione agli altri.
Le esternalità secondo questo ‘teorema’ possono essere eliminate con accordi volontari a due
condizioni:
1. ci deve essere una precisa assegnazione dei diritti di proprietà nell’uso delle risorse. Non
importa come sono distribuiti questi diritti tra gli individui, purché siano definiti con chiarezza.
Questa corretta assegnazione fa sì che sia chiaro chi deve pagare e chi deve essere indennizzato.
In pratica si fanno dipendere le esternalità dalla mancanza di una corretta definizione di diritti di
proprietà.
2. Inoltre la possibilità di eliminare esternalità per via contrattuale, così che i soggetti possano
pervenire ad un accordo volontario, richiede che non vi sia interferenza dei ‘costi di transazione’.
Questi sono i costi relativi alle negoziazioni ed agli scambi tra agenti economici per definire i
contratti privati e sono crescenti con il numero di soggetti coinvolti nelle contrattazioni. In
particolare, ciò che è necessario per lo scambio efficiente è la raccolta e la diffusione delle
informazioni necessarie per concludere contratti.
Nel caso delle risorse comuni si possono formare esternalità per gli eccessi d’uso da parte di
qualcuno che può limitare o impedire i diritti di consumo di altri. Quindi anche per le risorse
comuni è necessario definire i diritti di proprietà (diritti di uso e di accesso individuale).
Un esempio. Un soggetto A (consumatore o impresa) guadagna 100 imponendo a B (altro
consumatore o altra impresa) un’esternalità negativa di 80.
I casi sono due: 1. A ha il diritto di imporre un’esternalità a B; 2. B ha diritto a non essere
danneggiato da un’esternalità prodotta da A. Se B ha un diritto di proprietà che non può essere
violato può concordare con A un indennizzo di almeno 80, così che A continuerebbe a guadagnare
20 indennizzando A che resterebbe almeno al livello precedente di utilità o di produzione.
B potrebbe eliminare l’esternalità per A, ad es. contrattando un indennizzo in moneta, pagando
strumenti per eliminare l’esternalità: questa eliminazione può essere realizzata con strumenti
tecnologici, ad es. con diversa tecnologia, con depuratori o insonorizzatori, realizzati e pagati o da
A o da B.
Con una soluzione di mercato si individua la soluzione meno costosa e più efficiente contro
l’esternalità, o da parte di A che adotta soluzioni per eliminarla in quanto produttore, o di B che
adotta soluzioni per proteggersi da A che pure continua a produrre l’effetto esterno negativo.
32
Se A e B appartenessero allo stesso imprenditore questi pure avrebbe convenienza a realizzare un
profitto complessivo massimo di 130, sia pure con diversa distribuzione dei profitti tra le due
imprese.
Un sommario: la combinazione delle caratteristiche dei beni
I beni, privati e pubblici, si possono combinare in base alla combinazione delle loro caratteristiche.
Considerando due di queste, la non escludibilità e la non rivalità, variabili dallo 0% al 100%, si
possono immaginare combinazioni come nello schema seguente.
0% non escludibilità
100%
Beni privati puri
( beni alimentari, vestiario)
Risorse comuni,
autostrade, mezzi di
trasporto pubblico,
internet
beni di club,
(teatri, stadi, piscine,
biblioteche, musei)
televisione criptata
Beni pubblici puri
(difesa nazionale,
ordine pubblico)
100%
I beni privati puri sono completamente escludibili e rivali; in più sono privi di esternalità, non
avendo effetti su altri soggetti quando sono consumati da un individuo. I beni pubblici puri sono
non escludibili e non rivali al 100% ed hanno esternalità generali, per via del consumo
necessariamente congiunto.
Vi sono poi beni non escludibili ma rivali e beni escludibili ma non rivali. Beni come teatri, stadi,
piscine, beni di club possono essere regolati nel diritto di accesso così da impedire fenomeni di
congestione e di rivalità nel consumo. Nel caso della tv criptata è possibile l’escludibilità in base al
pagamento per l’accesso, anche se non c’è possibilità di congestione. Per internet, come per la tv
non criptata, è possibile l’autoescludibilità, nel senso del rifiuto individuale del servizio che pure
non ha problemi di rivalità. Le caratteristiche sono presenti in combinazioni con percentuali
variabili, e questo permette di classificare un bene più verso i beni privati puri o verso i beni
pubblici puri.
Beni come le risorse comuni, le strade ed autostrade, i mezzi di trasporto pubblici non sono
escludibili (il diritto di accesso può essere libero e gratuito oppure può venir fatto pagare, ma non
limitato), ma oltre certi limiti presentano fenomeni di rivalità.
Beni privati e pubblici sono talora distinti in base ad un criterio di proprietà. Va precisato che i diritti di
proprietà (property rights) nella terminologia economico-giuridica anglosassone, indicano poteri di
controllo esclusivo dell’uso di un bene, intesi quindi come diritto di utilizzare un bene o un servizio
escludendo altri. Sono uno jus utendi, indipendente dalla proprietà in senso civilistico proprio.
non
rivalità
33
Nei beni privati puri l’esclusività è sia un diritto che una possibilità tecnica.
Nei beni pubblici puri l’esclusività tecnica è impossibile.
Nei beni di club l’esclusione di altri è preliminare al diritto d’uso congiunto senza (o con ridotta)
rivalità.
Nei beni comuni l’impossibilità (giuridica) di esclusione determina possibili effetti di
rivalità/congestione/riduzione di possibilità d’uso in funzione crescente del numero di utenti
effettivi.
Beni e servizi con caratteristiche miste private e pubbliche possono essere studiati in funzione delle
dimensioni e dei contenuti dei property rights. Questi nascono e si trasformano, sempre secondo la teoria
economica, come incentivi a comportamenti efficienti.
La property rights economics studia l’allocazione di risorse e l’efficienza che deriva dalla corretta
definizione (giuridica) degli stessi. Secondo questa impostazione si trasferiscono i diritti di proprietà,
anziché direttamente i beni ed i servizi. Studia altresì come questi diritti influiscano sugli incentivi
individuali e come i comportamenti individuali possano variare in funzione di questi incentivi. Si dice,
sinteticamente, che i diritti di proprietà esistono per ‘internalizzare le esternalità’, cioè per attribuire prezzi o
valori di indennizzo a benefici e costi non trattabili nel mercato. I ‘diritti di proprietà’ vengono definiti in
funzione di una riduzione dei ‘costi di transazione’. Tale impostazione è stata utilizzata per spiegare
l’evoluzione storica di istituti giuridici, che sono nati e si sono trasformati appunto per consentire economie
ed eliminare o limitare le esternalità. Quindi spiegazioni dei processi di evoluzione, di crescita e di crisi
hanno trovato fondamento anche in questo schema interpretativo.
Il problema del ‘free rider’
La produzione di beni pubblici genera esternalità positive che non si possono far pagare. Pertanto nessuna
impresa privata ha incentivi a produrli volontariamente. I consumatori, per via dell’impossibilità di
esclusione, beneficiano dei beni pubblici senza dover contribuire al loro costo di produzione. Ciò li induce a
comportarsi egoisticamente in modo opportunistico, appropriandosi i benefici senza pagare i costi (il già
ricordato free rider) o pagandoli in misura ridotta. Di per sé ciò impedisce di attuare la produzione e lo
scambio di beni e servizi pubblici come se si trattasse di uno scambio volontario. Le conseguenze sono:
- la tendenza ad un’insufficiente produzione di beni e servizi pubblici;
- l’incentivo all’evasione, cioè a sottrarsi al pagamento delle quote di costo individuale
(imposte) per finanziare la produzione di beni e servizi pubblici;
- l’impossibilità di escogitare sistemi per indurre gli individui a rivelare correttamente le loro
preferenze per beni e servizi pubblici e quindi la loro effettiva disponibilità a pagare;
- la difficoltà di applicare il c.d. principio del beneficio alle spese pubbliche.
Beni pubblici intermedi
Esistono beni pubblici che sono utilizzati dalle imprese come beni strumentali. Si tratta di beni che sono
considerabili fattori di produzione o beni intermedi (rispetto a beni finali privati). E’ il caso del c.d. capitale
pubblico e degli input pubblici. Il carattere pubblico è definito dalla possibilità di utilizzo congiunto da parte
delle imprese.
Ad es. sono beni pubblici intermedi le infrastrutture pubbliche (vie di comunicazione, network, infrastrutture
ferroviarie, portuali, di trasporto aereo, ecc.) utilizzabili per la produzione di beni privati (acquisizione di
input e distribuzione di output da parte delle imprese private) e per la produzione di beni pubblici. Talvolta lo
stesso bene pubblico intermedio può essere utilizzato sia per il consumo, anche come bene complementare
per consumi privati, che per la produzione. I beni pubblici intermedi sono valutati, economicamente, in
quanto aumentano la produttività dei fattori di produzione privati ed in passato erano definiti come
necessariamente complementari a questi.
34
Il ruolo del governo come impresa produttiva, che deve dare un contributo, diretto (con produzione propria
di beni e servizi) o indiretto (con beni intermedi per le imprese private), alla produzione nazionale era stato
definito già nella seconda metà del sec. XIX.
Modelli di beni pubblici
Nella teoria economica, a partire dalla fine del sec. XIX, sono stati formalizzati modelli di domanda dei
beni pubblici.
Alcuni modelli sono basati su una c.d. ‘teoria dello scambio volontario’ in cui gli individui pagano prezzi
anche per i beni pubblici, così come per i beni privati. In particolare si è definita la domanda congiunta di
beni pubblici da parte di più individui che consumano la stessa quantità di beni pubblici. Mentre con i beni
privati si sommano distinte quantità allo stesso presso, con i beni pubblici la conclusione è che si sommano
le domande individuali per le stesse quantità di beni pubblici ed i prezzi individuali sono differenziati.
LLLAAA DDDOOOMMMAAANNNDDDAAA DDDIII BBBEEENNNIII PPPUUUBBBBBBLLLIIICCCIII AAA BBB
In questa impostazione un modello di riferimento è stato elaborato (1919) dall’economista
svedese E. Lindahl (1891-1960), della scuola svedese (come K. Wicksell (1851–1926): due soggetti
(gruppi sociali o partiti in un’approvazione parlamentare sul bilancio pubblico) devono concordare:
a) l’ammontare di spesa pubblica, b) il riparto tra i due gruppi del costo della spesa. Dopo una
‘contrattazione’ su a) e b) emerge una soluzione che ha l’approvazione di entrambi i soggetti. Tale
soluzione concordata ed unanimistica si può generalizzare da 2 a più soggetti. Alla fine tutti sono
d’accordo sull’ammontare di spesa pubblica e sulle quote di costo.
IIILLL MMMOOODDDEEELLLLLLOOO DDDIII LLLIIINNNDDDAAAHHHLLL AAA BBB
Successivamente si è evidenziato come il meccanismo della differenziazione dei ‘prezzi individuali’ con i
beni pubblici dipenda dai meccanismi di decisione collettiva, in particolare dalle regole elettorali di
votazioni. Queste regole adottano l’unanimità solo in rarissimi casi, in quanto si tratta di una regola che
difficilmente porta a soluzioni, per il ‘potere di veto’ individuale che paralizza le decisioni unanimistiche.
Perciò sono state analizzate regole di decisione non unanimistiche (di maggioranza semplice o qualificata)
che non richiedono l’adesione di tutti.
L’economista americano H.R. Bowen (1948) ha studiato le modalità di decisione nelle votazioni, a livello
locale, sulle spese pubbliche (con un modello di referendum su spese/imposte possibile in alcune realtà
istituzionali, ad es. in Stati degli S.U. ed in Svizzera). Gli elettori sono suddivisi in gruppi, più o meno
numerosi, con preferenze differenziate, più o meno favorevoli a spese su determinati beni e servizi pubblici.
La distribuzione delle preferenze tra i diversi gruppi è importante per far emergere una maggioranza che
approvi un livello di spesa pubblica. Bowen esamina il caso di ‘distribuzione normale’ delle preferenze. Le
analisi successive hanno evidenziato il ruolo dell’elettore mediano come ago della bilancia nelle decisioni
elettorali, anche su spese pubbliche ed imposte.
IIILLL MMMOOODDDEEELLLLLLOOO DDDIII BBBOOOWWWEEENNN AAA BBB
LLLAAA TTTEEEOOORRRIIIAAA DDDEEELLLLLL ’’’ EEELLLEEETTTTTTOOORRREEE MMMEEEDDDIIIAAANNNOOO 111 AAA BBB
35
LLLAAA TTTEEEOOORRRIIIAAA DDDEEELLLLLL ’’’ EEELLLEEETTTTTTOOORRREEE MMMEEEDDDIIIAAANNNOOO 222 AAA BBB L’analisi economica delle regole di decisione nelle votazioni ha posto in evidenza alcuni problemi.
- Le difficoltà di aggregazione delle preferenze individuali in una decisione collettiva. Esistono meccanismi
che rendono impossibile tale aggregazione. Uno dei più richiamati, che risale almeno a Condorcet (1743-
1794), è il c.d. paradosso delle votazioni o della maggioranza ciclica.
Vi siano tre soggetti (I, II, III) che devono decidere sull’ordine di preferenza fra 3 alternative (A,B,C). Gli
ordini di preferenza individuale siano
1° 2° 3°
I A B C
II B C A
III C A B
Scrivendo > (preferisce a) si ha che
I A > B > C II B > C > A III C > A > B
Se A, B e C vengono messi in votazione:
contemporaneamente, prendono un voto ciascuno e non si ha alcuna maggioranza;
con un sistema di ballottaggio (votazione di un’alternativa contro un’altra) si ha:
A contro B vince A 2-1 (I e III preferiscono A a B, II preferisce B ad A)
B contro C vince B 2-1 (I e II preferiscono B a C, III preferisce C a B)
A contro C vince C 2-1 (II e III preferiscono C ad A, I preferisce A a C)
Un’alternativa perde contro un’altra, questa perde con una terza alternativa che a sua volta vince con la
prima. Il risultato dipende dal momento in cui un’alternativa entra in ballottaggio: più tardi entra, maggiori
sono le probabilità di vittoria. E’ necessario ricorrere a sistemi di decisione diversi dalla maggioranza (ad es.
con una votazione a punteggio: non si indica solo un ordine di preferenza, ma anche un punteggio per ogni
alternativa, con ogni elettore che dispone di un certo numero di punti [v. il Metodo di Borda (Borda Count)]
e vince l’alternativa con il punteggio complessivo più alto.
La Teoria della scelta collettiva è inserita nell’economia del benessere e nella costruzione delle funzioni di
benessere sociale (v. Social welfare function, Social welfare e Welfare Economics), con elaborazioni che
risalgono a Pareto (1906, 1916).
Per costruire la Funzione di benessere sociale (FBS) il benessere collettivo (come grado di soddisfazione
dei bisogni umani per una collettività nel suo insieme), è stato inteso in vari significati. La FBS dovrebbe
permettere di ordinare le situazioni sociali possibili e far scegliere la migliore, quella di massimo
benessere sociale. Ne sono state proposte diverse varianti. a) FBS cardinale: è la somma algebrica delle
utilità individuali misurabili (utilitarismo di Bentham: non conta la distribuzione dell’utilità tra individui,
ma solo la somma).
b) FBS calcolata con un indice basato su elementi (ritenuti, secondo giudizi di valore, rilevanti per la
società e per i suoi componenti) che influiscono sul benessere collettivo: la FBS determina l’ordine di
importanza di tali elementi, che sono combinati, anziché sommati, così che non si deve ricorrere ai
confronti interpersonali di utilità.
c) FBS ordinale: è una regola che aggrega le preferenze individuali in un’unica preferenza collettiva:
l’utilità sommabile è sostituita dalle preferenze individuali espresse con razionalità.
La teoria delle scelte collettive si trasforma in teoria delle scelte sociali, che dà prevalenza all’analisi dei
36
metodi di aggregazione delle preferenze individuali (regole di scelta collettiva, in particolare le regole di
votazione).
In questo contesto è rilevante la critica del Teorema dell’impossibilità di Arrow (v. AIT):
non esiste alcuna regola di aggregazione di preferenze che soddisfi alcune condizioni basilari. Ne
consegue che i meccanismi di voto sono regole imperfette di aggregazione delle preferenze.
Si rinvia a K. Arrow Social Choice and Individual Values (1951) ed al Gibbard–Satterthwaite
theorem. Si vedano anche di A. Downs An Economic Theory of Democracy (1957) e di M. Olson The
Logic of Collective Action (1965), nonché le opere di Rawls, Harsanyi, Sen, Nash.
- La presenza di costi nelle decisioni elettorali. Le regole di votazione sono costose, nel senso che
implicano costi per gli elettori, distinti in: a) costi che dipendono dall’essere esclusi dalle decisioni e
vedersi imposta da altri una decisione sulla quale non si concorda (imposte sgradite, spese
pubbliche non condivise), e b) costi necessari per formare gruppi che impongano una decisione (ad
es. costi per raggiungere il consenso su misure fiscali). La regola migliore (ottima, la più efficiente)
sarebbe quella meno costosa, nel senso che minimizza i costi delle decisioni. Non sarà una regola
definibile in assoluto (unanimità, maggioranza semplice o speciale) ma dipenderà dalle
caratteristiche del gruppo sociale, dalle diversità di preferenze al suo interno, dalle strutture
istituzionali, dai momenti e dalle circostanze in cui si decide. In questa prospettiva sarebbe
opportuno distinguere tra: scelte costituzionali di lungo periodo, prese all’unanimità, quando chi
decide non è in grado di prevedere le sue posizioni future, nelle maggioranze o nelle minoranze;
regole di decisione operative, per decidere di volta in volta. La decisione unanime costituzionale
può implicare la scelta di regole di decisione diverse dalla maggioranza.
III CCCOOOSSSTTTIII DDDEEELLLLLLEEE VVVOOOTTTAAAZZZIIIOOONNNIII EEE LLLAAA RRREEEGGGOOOLLLAAA ‘‘‘OOOTTTTTTIIIMMMAAA ’’’ AAA BBB
La teoria delle scelte costituzionali/operative è stata formulata da J. M. Buchanan e da G. Tullock in The Calculus of Consent: Logical Foundations of Constitutional Democracy (1962).
L’inserimento dei beni pubblici in equilibrio generale, come è stato fatto da P. A. Samuelson
(1915-2009) nel 1954, ha messo insieme le preferenze individuali di più soggetti e l’efficienza nella
produzione di beni privati e di beni pubblici (con la funzione o frontiera di trasformazione). Le
condizioni di equilibrio generale con beni privati sono state modificate con l’introduzione di beni
pubblici a consumo congiunto e indivisibile.
BBBEEENNNIII PPPUUUBBBBBBLLLIIICCCIII IIINNN EEEQQQUUUIIILLLIIIBBBRRRIIIOOO GGGEEENNNEEERRRAAALLLEEE --- 111 AAA BBB
BBBEEENNNIII PPPUUUBBBBBBLLLIIICCCIII IIINNN EEEQQQUUUIIILLLIIIBBBRRRIIIOOO GGGEEENNNEEERRRAAALLLEEE --- 222 AAA BBB
37
2. La spesa pubblica in trasferimenti
Modelli
Le spese pubbliche in trasferimenti si raggruppano nelle prestazioni del Welfare State, nato nella seconda
metà del sec. XIX e sviluppato soprattutto nella seconda metà del sec. XX.
L’obiettivo del Welfare State è quello di tutelare i lavoratori nella società industriale contro alcuni rischi
(disoccupazione, vecchiaia, malattie), assicurando livelli di reddito e servizi.
Nelle diverse situazioni storiche e politiche si sono sviluppati differenti modelli:
a) Modello universalistico - egalitario della socialdemocrazia scandinava: la copertura assicurativa è
omogenea ed estesa a tutti, è considerata un diritto dei cittadini e si prescinde dallo stato di bisogno. La
fiscalità generale è il metodo di finanziamento prevalente. Il modello inglese è il prototipo di sistema
sanitario nazionale universalistico.
b) Modello corporativo - assicurativo (tedesco - francese): è un modello poco omogeneo, di area tedesca e
latina. Si fonda sulla corrispondenza tra contributi versati e livello delle prestazioni cui si ha diritto.
Svolgono ruoli rilevanti il mercato del lavoro e la famiglia. Gli interventi sono ottenuti dai sindacati, sono
differenziati per categoria di lavoratori, comportano privilegi per i dipendenti pubblici, sono mirati alle
esigenze della famiglia, sono finanziati essenzialmente con contributi sociali di categoria. I sindacati
ottengono livelli di protezione differenziata nelle pensioni e nell’assistenza sanitaria. La protezione è
differenziata in base alla posizione nel mercato del lavoro. Le casse mutue di categoria sono lo strumento
finanziario per coprire la previdenza e l’assistenza.
c) Modello liberale - anglosassone di tipo individualistico: l’intervento pubblico è limitato a casi di forte
disagio sociale per le classi di meno abbienti e il sistema di assicurazioni private interviene per la
previdenza. Il sistema si può estendere alla sanità (negli Stati Uniti). Si tratta di un modello c.d. residuale.
Gli interventi pubblici dipendono dall’accertamento dell’effettivo stato di bisogno in base a parametri di
necessità.
La previdenza, la distribuzione e la redistribuzione del reddito
Le spese previdenziali (pensioni) fanno parte delle assicurazioni obbligatorie e sono una forma di risparmio
forzoso, che assicura un reddito differito, quando è cessata la produzione di reddito di lavoro. Le pensioni
sono:
a) di vecchiaia (corrisposte ad una data età anagrafica);
b) di anzianità (corrisposte dopo un certo numero di anni di lavoro);
c) di invalidità (per menomazioni che impediscono di lavorare);
d) ai superstiti (trasferite a famigliari in caso di decesso del titolare).
Il meccanismo di finanziamento delle pensioni, dai contributi sociali, attraverso gli enti previdenziali, si può
rappresentare come segue:
38
I lavoratori attivi pagano i contributi, i lavoratori usciti dal mercato del lavoro (per vecchiaia o anzianità)
percepiscono le pensioni.
Si definisce tasso di dipendenza il rapporto Lavoratori attivi/Pensionati che corrisponde al rapporto
Contributi/Pensioni. Questo tasso dipende anche dall’andamento demografico.
L’importo delle pensioni può essere calcolato con due metodi diversi.
- Metodo a ripartizione, in uso prevalente nei paesi dell’Europa continentale, fino agli anni ’90 del sec. XX:
i lavoratori pagano i contributi sR agli enti di previdenza ogni anno e questi contributi vengono
immediatamente utilizzati per pagare le pensioni. Le pensioni sono calcolate con riferimento a
a) medie dei redditi di lavoro degli ultimi anni (da 20 a 5) e
b) durata del periodo di tempo in cui si è lavorato (più lungo è il periodo più elevata la pensione).
Può essere:
a) di tipo retributivo se la pensione è determinata, in prevalenza, dall’ammontare del reddito di lavoro
dipendente;
b) di tipo contributivo se la pensione è più immediatamente collegata all’ammontare di contributi
versati.
Il metodo a ripartizione è un metodo a prestazioni definite, nel senso le prestazioni previdenziali sono
chiaramente conosciute in anticipo.
Il metodo a ripartizione è esposto a due rischi che possono rendere insufficiente il finanziamento delle
pensioni attuali con i contributi attuali e quindi richiedere finanziamenti aggiuntivi attraverso trasferimenti
dal bilancio pubblico:
- rischio demografico: i contributi sono insufficienti per pagare le pensioni, perché, in seguito a
processi di invecchiamento e cali di natalità, si ha un eccesso di pensionati-pensioni rispetto a lavoratori-
contributi: Il rapporto pensionati/occupati si definisce indice di dipendenza dei pensionati dagli occupati: in
pratica è un indice di dipendenza degli anziani dai giovani. L’indice di vecchiaia è il rapporto tra la
popolazione con più di 65 anni e la popolazione con meno di 14 anni.
Schematicamente, un rischio demografico per un sistema retributivo si ha quando c’è sproporzione tra
lavoratori e pensionati:
Per attenuare il rischio demografico vari sistemi pensionistici prevedono l’adeguamento delle pensioni in
base alle variazioni delle aspettative di vita. Quando si ampliano tali aspettative, in base all’allungamento
della vita, si prevede pure un allungamento dell’età pensionabile e/o un incremento dei contributi.
- rischio di produttività del lavoro: la base di calcolo dei contributi è il reddito di lavoro, che
dipende dalla produttività del lavoro (il reddito che il fattore lavoro riesce a produrre). Questa produttività
può essere, o diventare nel tempo, insufficiente per garantire il pagamento delle pensioni.
- Metodo a capitalizzazione. Durante il periodo lavorativo si accumulano i contributi, presso imprese di
assicurazioni, come se fossero premi periodici di assicurazione. Queste imprese (i fondi pensione) li
Contributi sociali Enti di
previdenza PENSIONI
Lavoratori in attività
[CONTRIBUTI]
Pensionati
[PENSIONI]
39
investono nel mercato finanziario (in azioni, obbligazioni, titoli pubblici, fondi comuni) e costituiscono alla
fine un montante contributivo che, in base a dei coefficienti, determina l’importo della pensione.
Il metodo a capitalizzazione è un metodo a contribuzioni definite, nel senso che è predefinito l’importo dei
contributi-premi annuali, ma le prestazioni previdenziali future sono di ammontare incerto perché dipendono
essenzialmente dall’accumulazione finanziaria collegata all’andamento degli investimenti finanziari
effettuati.
Anche il metodo a capitalizzazione è esposto a due rischi, propri del mercato finanziario nel quale sono
investiti i contributi e che dipendono dalle incertezze proprie di questi mercati:
- rischio di tasso d’interesse futuro: i rendimenti dei contributi versati possono ridursi in seguito
ad andamenti negativi dei mercati finanziari;
- il rischio di inflazione futura: nel caso di processi inflazionistici i contributi versati si possono
svalutare e l’importo della pensione futura può essere inferiore alle aspettative.
- Metodi misti: possono:
a) combinare il calcolo della pensione pubblica, in parte riferendolo alle medie dei redditi ed in parte al
montante contributivo versato;
b) combinare una pensione pubblica (con metodo retributivo o contributivo) con una pensione privata
dei fondi pensione (con metodo contributivo)
La redistribuzione del reddito
Parte della spesa pubblica in trasferimenti si concentra nei programmi di assistenza e contrasto alla povertà.
Si tratta di trasferimenti in denaro ed in natura con offerta gratuita o agevolata di beni e servizi: questi
ultimi possono essere ad accesso diretto o essere concessi nella forma di buoni di acquisto (vouchers),
liberamente spendibili solo per acquisti di determinati servizi e non trasformabili in moneta attraverso
cessioni a terzi.
Il fondamento economico della redistribuzione si giustifica da diversi punti di vista.
- la redistribuzione può essere interpretata come un bene pubblico, con esternalità positive, perché determina
la riduzione dei fenomeni di indigenza e di povertà, che sono esternalità negative, ed a loro volta causano
criminalità e deterioramenti ambientali);
- la redistribuzione può entrare nelle funzioni di utilità individuali e giustificarsi come manifestazione di
altruismo, un bene immateriale gratificante per gli individui e fonte di utilità;
- la redistribuzione può essere vista come una misura di politica economica che dà sostegno alla domanda
aggregata, favorisce i consumi e quindi la produzione e l’occupazione, giovando alle imprese ed ai lavoratori
del settore privato.
40
Le politiche redistributive comportano dei rischi, in particolare il disincentivo al lavoro (chi migliora il
proprio reddito perde sussidi e perciò non conviene lavorare per migliorare la propria posizione: è la c.d.
trappola della povertà) e poi il rischio di sprechi (è probabile che buona parte di chi pretende i sussidi non
ne abbia diritto ed è troppo costoso impedire l’accesso ai non aventi titolo ai sussidi).
Masaccio, la distribuzione delle elemosine,
S. Maria del Carmine, Firenze, (1427)
Le prestazioni di assistenza ai poveri possono essere erogate con differenti sistemi.
Sistema selettivo: le prestazioni sono selettive, bisogna certificare lo stato di bisogno anche con delle
prove (i c.d. means test, le ‘prove dei mezzi’ di sussistenza: possono comportare violazioni di
privacy).
Sistema universalistico: le prestazioni sono erogate a tutti, indipendentemente dall’accertamento
dello stato di bisogno (in base al c.d. diritto di cittadinanza).
Assistenza per categorie: è riserva a favore di alcune categorie e non di altre (lavoratori dipendenti,
di pensionati, di anziani, di portatori di handicap).
Per valutare la situazione economica famigliare, al fine dell’assegnazione di agevolazioni,
trasferimenti, prestazioni previdenziali ed assistenziali, si utilizzano indicatori di situazione
economica equivalente (ISEE): si tratta della somma dei redditi (di lavoro, di capitale, di altro
tipo) e di quote dei patrimoni (immobili, patrimoni finanziari) nel nucleo famigliare (Indicatore di
Situazione Economica – ISE) divisa per un parametro presunto dalla scala di equivalenza. La
scala di equivalenza si costruisce assegnando un parametro al numero dei componenti il nucleo
famigliare, ad es.
Componenti del ..
nucleo famigliare
Parametro
1
2
3
4
5
1,00
1,57
2,04
2,46
2,85
Per l’Italia il Nuovo ISEE è calcolabile nel sito dell’INPS, con una Dichiarazione Sostitutiva
Unica (DSU). Si può anche vedere la Guida, per dettagli.
Si definisce, per selezionare gli interventi, il livello di povertà che si può intendere come:
povertà assoluta: è data dalle spese necessarie per minimo acquisto di beni e servizi necessari
(alimentari, abitazione, vestiario):
povertà relativa: si indica in base ad una soglia di povertà (poverty line): ha una definizione relativa
e statistica (ad es. la metà del reddito medio, o il 60% del reddito mediano di una popolazione.).
41
Il poverty gap misura la distanza delle famiglie, al di sotto della soglia di povertà, da questa soglia ed
indica l’ammontare di risorse totali (necessarie per portare tutte le famiglie povere al livello della soglia
di povertà) divisa per il numero di tutte le famiglie.
In Italia l’ISTAT stima dell’incidenza della povertà relativa (la percentuale di famiglie e persone
relativamente povere sul totale delle famiglie e persone residenti), calcolata in base ad una soglia
convenzionale (linea di povertà) che fissa il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una
famiglia è definita povera in termini relativi. La stima dell’incidenza della povertà assoluta è calcolata
in base ad una soglia di povertà che corrisponde alla spesa mensile minima necessaria per acquisire
un determinato paniere di beni e servizi, che rappresenta l’insieme dei beni e servizi che, nel contesto
italiano e per una determinata famiglia, sono considerati essenziali a conseguire uno standard di vita
minimamente accettabile.
Si veda ISTAT 2016: La povertà in Italia (2015). Testo integrale
La valutazione della povertà e della disuguaglianza è fatta, statisticamente, con appositi indicatori. Le
misure della disuguaglianza riguardano la distribuzione di indici di ricchezza (redditi, patrimoni). Esistono
diversi indicatori o indici che misurano la concentrazione dei redditi o dei patrimoni. Uno dei più semplici e
diffusi è l’indice di Lorenz che è un indice sintetico, in quanto si rappresenta con un numero.
Sulla distribuzione della ricchezza delle famiglie in Italia è utile la consultazione della ricerca pubblicata
annualmente dalla Banca d’Italia.
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Il reddito minimo ed il dividendo sociale hanno l’obiettivo di garantire un livello minimo di reddito,
sia a chi lavora sia a chi è non lavora. Si hanno diverse categorie.
- Pensione minima pagata a chi non ha diritto a pensione, o come integrazione delle
pensioni più basse fino a portarle ad un livello minimo.
- Reddito minimo garantito a chi non è in grado di lavorare, per età o per invalidità.
- Reddito minimo garantito a chi non lavora ma si impegna ad accettare un lavoro offerto da
un’agenzia o da un ufficio del lavoro.
- Dividendo sociale: ingloba le categorie precedenti. E’un reddito minimo uguale, assicurato a
chi aderisce ad un piano che comporta, per chi fa parte della forza lavoro, l’obbligo di
accettare un lavoro e per chi non ne fa parte sostituisce le pensioni minime ed i redditi
minimi.
Le proposte di un reddito minimo di cittadinanza (definito anche reddito di sussistenza) si fanno risalire a
Thomas Paine (1795). Si tratta di un trasferimento monetario corrisposto ad intervalli regolari (es. mensili,
trimestrali) a tutti coloro che, cittadini e residenti in un paese, non sono in grado di raggiungere un livello di
vita minimo dignitoso; tale reddito può integrare altri redditi insufficienti ed è indipendente da attività
lavorativa e da altre caratteristiche diverse dal reddito, ed è erogato finché perdura lo status di povertà. Una
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definizione più generale, di un reddito minimo universale (o reddito di base) ed illimitato erogato a tutti i
cittadini, senza tener conto del livello di reddito, è stata formulata da Philippe Van Parijs (1995).
Gli ammortizzatori sociali sono sussidi che operano nel mercato del lavoro per chi ha un’occupazione.
Prevedono il pagamento temporaneo di una quota del reddito di lavoro dipendente nel caso di
sospensione temporanea dell’attività;
passaggio di un lavoratore da un datore di lavoro ad un altro (indennità di mobilità);
licenziamento (indennità di disoccupazione per tutela temporanea).
Le assicurazioni obbligatorie, a carico di imprese e dipendenti, riguardano
1. Assicurazione per gli infortuni sul lavoro.
2. Assicurazione di malattia, che integra il mancato guadagno per l’assenza
dal lavoro.
3. Assicurazione per maternità e congedi.
Di recente sono state introdotte in Italia alcune misure a vantaggio dei disoccupati, in sostituzione
delle precedenti.
INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE (NASPI) E' una prestazione economica, istituita dal
2015, Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego. È una prestazione a domanda, erogata a favore
dei lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente l'occupazione.
I requisiti sono: a) stato di disoccupazione involontario; b) requisito contributivo (contribuzione
minima precedente); c) requisito lavorativo (30 giorni nell’anno precedente).
ASSEGNO SOCIALE DI DISOCCUPAZIONE (ASDI) E’ un’indennità economica della
durata massima di 6 mesi, per la ricollocazione dei lavoratori disoccupati. Spetta a lavoratori
disoccupati che abbiano usufruito della NASPI per intero, che abbiano: a) nucleo familiare con
almeno un minore di anni 18; b) età pari o superiore a 55 anni e mancata maturazione dei requisiti di
pensione anticipata di vecchiaia c) un’attestazione ISEE con un valore pari od inferiore ad euro
5.000.
L’imposta negativa sul reddito, che venne formulata per la prima volta da Friedman (1960) negli Stati
Uniti, consiste nella trasformazione di prelievi (imposte positive) in sussidi (imposte negative). Si definisce
imposta negativa perché è in continuità con l’imposta positiva, ma applicandosi al di sotto del minimo
imponibile si trasforma in sussidio.
Se RE è il reddito effettivo e RM il reddito minimo, la differenza RM – RE dà lo scarto tra minimo
indispensabile e reddito effettivo, che va integrato con un’imposta negativa IN (un trasferimento).
Il calcolo può essere indicato con una formula:
IN = n(RM – RE)
Nei vari progetti di imposta negativa a partire dagli anni ’60 del sec. XX, si sono indicati valori di:
n = 50% (l’integrazione verso il redito minimo è pari alla metà della differenza tra questo ed il
reddito effettivo). Se RM = 3000 e RE = 2000 si calcola IN = 50%(3000-2000) = 50% 1000 =
500. Con RE = 0 (reddito di partenza nullo, povertà assoluta) IN = 50% (3000-0) = 1500 (sussidio
massimo).
n =100% (tutta la differenza è pagata come sussidio e tutti i redditi inferiori vengono portati a livello
RM). Per due redditi di 1800 e di 500 il sussidio sarà di 1200 per il primo e di 2500 per il secondo,
in modo che, con il sussidio, raggiungano entrambi il livello di 3000. Il minimo imponibile è
riconosciuto come reddito necessario minimo.
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Si è anche proposto un tasso crescente di imposta negativa in funzione della differenza: tra RM ed
RE tanto più un soggetto è povero, tanto maggiore è un sussidio, ma in modo più che
proporzionale. Un RE di 1800 ha una differenza di 1200 ed n = 50%, con un sussidio di 600. Un
RE di 500 ha una differenza di 2500 n = 60%, con un sussidio di 1500.
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L’imposta negativa sul patrimonio è stato un progetto che prevedeva l’assegnazione di una somma una
tantum (un capitale) per favorirne l’impiego da parte di un soggetto di giovane età che si propone di entrare
nel mercato del lavoro o di intraprendere un’attività economica.
La somma fissa può essere:
a) condizionata ad un rimborso futuro, con il reddito conseguito: è il caso di una somma prestata per
intraprendere o completare un corso di studi o di qualificazione professionale;
b) senza rimborso: è una somma a fondo perduto, o collegata ad alcune spese documentate per
intraprendere un’attività (es. costi fissi, investimenti), per favorire settori o tipologie di
imprenditoria. Si immagina che sia recuperata attraverso le imposte pagate da chi ha intrapreso
l’attività economica.
Il dividendo sociale come progetto di assegnazione di un sussidio unico, un importo in
denaro sostitutivo di assegni di disoccupazione, di pensioni minime, di assegni di povertà,
e condizionato all’accettazione di un lavoro, pena la perdita del sussidio, venne formulato
per la prima volta in Lady Rhys-Williams, Taxation and incentive (1953).
In Gran Bretagna a partire dai 18 anni chi non ha un lavoro e non ha risparmi oltre un minimo ha diritto all'
Income-based Jobseeker's Allowance (Jsa) per un periodo di tempo illimitato1. A questa cifra si aggiungono
l'affitto dell'alloggio (Housing Benefit) ed assegni per i figli. E’ imitato in altri paesi, come Australia ed
Irlanda.
In Francia per avere diritto al Revenu minimum d'insertion (Rmi, tra il 1988 ed il 2009) bisognava aver
compiuto 25 anni (se non si hanno figli) Il Rmi prevedeva l’integrazione del reddito ad un minimo mensile
per un disoccupato solo, che aumentava per coppie e per figli aggiuntivi. Dal 2004 è stato affiancato da un
Revenu minimum d'activité (RMA) destinato a facilitare il reinserimento nel lavoro dei beneficiari del RMI.
Dal 2009 il Rmi è stato sostituito dal Revenu de solidarité active (Rsa) che comporta l’obbligo di cercare un
lavoro o di seguire un programma di qualifica professionale, a fronte del sussidio ricevuto. E’ finanziato con
i proventi della tassazione di attività finanziarie.
In Germania tra 16 e i 65 anni si può disporre dell' Arbeitslosengeld II mensile più i costi dell'affitto e del
riscaldamento (Miete und Heizkosten).
La raccomandazione 92/441 della Comunità Europea sulla Garanzia minima di risorse impegnava già nel
1992 tutti gli stati membri ad adottare misure di garanzia di reddito come elemento qualificante del modello
di Europa sociale. In Austria il reddito minimo è considerato chiaramente un diritto soggettivo.
L'Italia nell’Unione Europea è il paese che dedica la maggior parte delle risorse destinate alla protezione
sociale alle pensioni, mentre è nelle ultime posizioni per la percentuale di risorse assegnate alle famiglie, ai
disoccupati ed ai contributi per l’alloggio e per l’esclusione sociale (definita come livello di povertà unito
all’emarginazione sociale).
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Dal 2016 è stata introdotta in Italia la CARTA SIA Il Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA) è una misura a
contrasto della povertà. Prevede un sussidio, con carta prepagata, alle famiglie economicamente svantaggiate
nelle quali siano presenti minorenni, figli disabili o donne in stato di gravidanza consiste in un contributo
economico di 80 euro a persona, che può aumentare in funzione del numero dei componenti del nucleo
familiare fino ad un massimo di 400 euro. La carta è subordinata all’accettazione, da parte dei beneficiari, di
partecipare ad un progetto di attivazione sociale e lavorativa, gestito dai Comuni, che aiuti la famiglia.
Spese pubbliche per sanità ed istruzione
Le spese pubbliche per servizi sanitari e servizi di istruzione hanno alcune caratteristiche comuni.
Le informazioni sull’utilità, sulle caratteristiche e sui costi di tali servizi sono scarse e difficilmente
acquisibili dagli individui che possono raccogliere solo informazioni insufficienti sui costi e sugli
effetti futuri. Gli individui non sono in grado di prevedere gli effetti futuri, poiché ragionano con
orizzonti temporali limitati.
Tali spese hanno caratteristiche dei beni e servizi di merito: il loro consumo può essere imposto per
ragioni sociali e di diffusione di esternalità positive o per prevenire esternalità negative (ad es.
istruzione obbligatoria, trattamenti sanitari obbligatori).
Sono entrambe tipologie di spese che si riferiscono al capitale umano: l’istruzione è destinata a
formare il capitale umano (far acquisire conoscenze, formazione e tecniche da impiegare per
aumentare la produttività del lavoro e produrre reddito in futuro), mentre la sanità mira a mantenere
in buone condizioni il capitale umano (permettere la continuità nel produrre reddito e nel consumare
e sostenere la domanda; le condizioni di buona salute hanno effetti positivi sulla produttività del
lavoro).
Sia le prestazioni dei servizi sanitari e l’istruzione sono considerate servizi intermedi, rispetto a beni
finali (salute e qualifica professionale), che sono beni privati con alcune caratteristiche pubbliche
(esternalità positive, come effetti differiti nel qualificare la forza lavoro, i livelli culturali, la qualità
e la durata della vita, le tipologie di consumo).
Le ragioni di equità sono importanti per questi due tipi di spese. Nei paesi più avanzati esiste sempre
un livello minimo gratuito e garantito per tutti di servizi sanitari e di servizi di istruzione. Si rileva
come il mercato privato, di per sé, fornirebbe un’offerta insufficiente sull’intero territorio nazionale,
in quanto l’offerta sarebbe in perdita in alcuni luoghi, ed i privati non sarebbero indotti ad
intervenire.
Il settore pubblico deve intervenire con certificazione di qualità di strutture sanitarie e di istruzione e
dei titoli di istruzione e di formazione.
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La Sanità
Masaccio: San Pietro risana gli infermi,
Cappella Brancacci, S. M. del Carmine, Firenze, 1426
Considerando il ciclo vitale di una persona la domanda di servizi sanitari è elevata nel periodo iniziale
della vita, poi si riduce e, nella parte più avanzata, cresce rapidamente in funzione dell’età. Pertanto i
processi di invecchiamento e le modifiche nella composizione demografica hanno forti effetti sulla crescita
della domanda di servizi sanitari. Gli individui hanno informazioni imperfette e non conoscono i costi delle
prestazioni sanitarie. Le assicurazioni private funzionano parzialmente e non assicurano i casi di maggior
bisogno e rischio, in quanto la copertura dei costi da parte di soggetti privati sarebbe in perdita.
Nell’organizzazione dei servizi sanitari si trovano diversi modelli.
Modello pubblico (scandinavo-inglese): operano strutture pubbliche, le prestazioni di servizi sono uniformi
per tutti i cittadini, il finanziamento è effettuato con imposte o contributi sociali.
Modello privato (U.S.A.): funziona con assicurazioni private e con strutture private (ospedali, ambulatori,
istituti assistenziali, medici) in concorrenza. Sono previsti, con finanziamento pubblico, interventi pubblici
residuali per le categorie non protette e non in grado di pagarsi le assicurazioni.
Modello misto (Europa continentale): ha diverse varianti e si caratterizza per la presenza di strutture
pubbliche e private, con finanziamento pubblico e con assicurazioni private, con le convenzioni tra le
strutture private e un’amministrazione pubblica. Le strutture private possono avere funzione complementare
o sostitutiva di quelle pubbliche. Possono essere pagate dagli utenti o dalle amministrazioni pubbliche.
Alcuni sistemi prevedono le mutue con prestazioni a rimborso (assistenza indiretta). Il cittadino paga
contributi ad un ente mutualistico, poi paga i servizi ad un soggetto erogante (privato o pubblico) e riceve il
rimborso dalla propria mutua.
Le spese sanitarie si suddividono in:
a) assistenza di base;
b) spese per visite specialistiche, servizi diagnostici, ricoveri ospedalieri;
c) spesa farmaceutica.
Una proposta ricorrente è quella di utilizzare vouchers per la sanità. Per la copertura universale ognuno
dovrebbe ricevere un voucher (buono) per un pacchetto standard di prestazioni gratuite (visite generiche e
specialistiche, ricette, terapie ospedaliere e domiciliari), aderendo a piani sanitari predisposti. I voucher
danno titolo a prestazioni, ma non a pagamenti in moneta.
Chi lo desidera può acquistare a pagamento altre prestazioni. I piani ed i servizi sono offerti da strutture
pubbliche e private ed i pazienti, scegliendo i piani predisposti, possono scegliere le strutture, alle quali
andranno i rimborsi da finanziamenti pubblici, in base ai voucher. In questo modo le strutture migliori
dovrebbero attrarre più voucher e si instaurerebbe una concorrenza tra le strutture che migliorerebbe la
qualità delle prestazioni.
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L’ Istruzione
L’istruzione è un servizio che può essere offerto da soggetti pubblici e privati e da questo punto di vista,
così come per la sanità, si distingue in pubblica e privata. Ha caratteristiche pubbliche e private (dei beni di
club, esternalità, ecc.). Si intende come un investimento in capitale umano con redditività differita nel
mercato del lavoro, nella preparazione professionale, nelle future opportunità di guadagno. L’istruzione
pubblica è caratterizzata dalla gratuità, o dal pagamento di tasse in percentuale molto bassa rispetto al costo.
L’istruzione obbligatoria, quella primaria e parte di quella secondaria (tra i 5 ed i 18 anni, nei vari paesi), è
tipico bene di merito.
Due profili sono fondamentali per le spese di istruzione:
1. Una, relativa all’efficienza intertemporale: si tratta di spese produttive in futuro, che
daranno aumenti di reddito nazionale e di imponibili;
2. una, collegata alla prima, riguarda la connessione delle spese per l’istruzione con l’equità e
redistribuzione: l’offerta di qualificazione e di istruzione deve essere indipendentemente dal
reddito e dalla posizione sociale, sia per diritto fondamentale, sia perché non si devono
perdere i soggetti potenzialmente migliori.
Il controllo pubblico si esercita sulla qualificazione dei titoli conseguiti negli istituti di istruzione, pubblici e
privati (ad es. con gli esami di stato, la certificazione pubblica dei titoli conseguiti).
Per l’istruzione superiore offerta da strutture private si hanno diverse impostazioni:
1. Quando c’è un sistema di istruzione pubblica non ci devono essere finanziamenti pubblici a
strutture di istruzione privata, che devono coprire interamente i costi con pagamenti dalle
famiglie;
2. Anche quando c’è un sistema di istruzione pubblica ci possono essere finanziamenti pubblici
a istituzioni private di istruzione, in compartecipazione con spese private delle famiglie, in
base a due argomenti: a) gli istituti privati possono sostituire localmente istituzioni
pubbliche e permettere risparmi di costi e i spese pubbliche su queste; b) gli studenti formati
nelle istituzioni private in futuro produrranno imponibili (redditi, patrimoni, consumi) sui
quali verranno pagate imposte, pertanto ai finanziamenti attuali corrisponderanno entrate
tributarie future.
Oltre alla pratica dei sussidi, come le borse di studio, anche per l’istruzione, come per la sanità, è stata
ripetutamente formulata la proposta di attribuire un voucher (buono scuola) ad ogni famiglia con studenti,
che si possa spendere presso un istituto di istruzione, pubblico o privato, a scelta, così da incentivare la
concorrenza verso una migliore qualità dell’insegnamento. Esistono comunque delle difficoltà a valutare
correttamente i servizi di istruzione e ad attribuire un prezzo.:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::
Una proposta complementare, più diffusa nella pratica, è quella del prestito d’onore, in particolare per le
spese dell’università. Si tratta di prestiti bancari a condizioni agevolate cui possono accedere gli studenti e
che potranno restituire dopo il conseguimento della laurea.
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3. Beni e servizi pubblici locali. I fallimenti del governo.
Beni e servizi pubblici locali
Beni e servizi pubblici possono essere offerti a livello centralizzato dalle Amministrazioni Centrali o a
livello locale dalle Amministrazioni Locali. Alcuni beni e servizi possono essere offerti solo a livello
centrale, per altri è possibile un’offerta localizzata. I confini tra queste due tipologie non sono ben definiti.
Storicamente si è dibattuto se sia preferibile un’offerta centralizzata o un’offerta locale. Per la situazione in
vari paesi si rinvia al Fiscal Federalism Network dell’OECD.
Per quanto riguarda le distribuzioni delle funzioni del settore pubblico:
a) la funzione di allocazione è ripartita tra amministrazioni centrali e locali, a seconda della tipologia di
beni e servizi (nazionali o locali): essenzialmente si tratta di una funzione concorrente.
b) La funzione di stabilizzazione dell’economia è prerogativa dell’amministrazione centrale: si devono
evitare conflitti, specialmente quando sono necessarie manovre restrittive di politica economica che
potrebbero essere contrastate con misure opposte (soprattutto per finalità politico-elettorali) degli
enti locali; inoltre la stabilizzazione realizzata con la politica monetaria è di competenza
necessariamente centralizzata, nella UE a livello sopranazionale.
c) Anche la funzione di redistribuzione è da attribuire sia alle amministrazioni centrali che a quelle
locali, con prevalenza delle prime (ad es. per le spese previdenziali); la redistribuzione come ‘bene
pubblico’ è stata talora considerata anche, parzialmente, come bene pubblico locale.
Ragioni a favore dell’accentramento:
Uniformità a livello nazionale nella prestazione, almeno ad un livello minimo, di servizi pubblici (ad
es. sanità, istruzione) per una realizzazione del principio di uguaglianza.
Economie di scala: crescendo la dimensione si hanno risparmi di costi e si possono avere beni e
servizi di dimensioni maggiori.
Possibilità di gestione di strumenti di politica economica: per essere efficace deve essere una
funzione centrale, anche perché opera in contesto internazionale.
Ragioni a favore del decentramento:
Vicinanza alla preferenze (domanda) dei consumatori, rispetto delle diversità demografiche e
politiche e delle preferenze differenziate, diverse articolazioni di offerte di beni e servizi pubblici a
livello locale.
Responsabilizzazione delle amministrazioni locali, controllabili con le elezioni locali, partecipazione
politica dei cittadini alle decisioni.
Beni e servizi pubblici locali talvolta hanno caratteristiche di non escludibilità e di rivalità, quando non si
possono escludere consumatori appartenenti ad altri enti locali. Le esternalità di questi beni e servizi
traboccano, superando i confini territoriali da un ente locale ad un altro. Si definiscono spillover positivi, ad
es. nel caso di una biblioteca, un teatro, un ospedale, un istituto di istruzione; o negativi, come una discarica
con inceneritore, una centrale elettrica, un’opera pubblica con effetti ambientali negativi.
In altri casi, quando il loro consumo è limitabile ai residenti (ad es. quando ci può essere un accesso
selettivo: asili nido, parcheggi, piscine; o quando il servizio è localizzato: illuminazione pubblica, raccolta
rifiuti, servizi antincendi), hanno le caratteristiche di beni di club.
Il problema consiste nelle possibilità di
definire correttamente la dimensione del club,
stabilire l’ampiezza del bene/servizio prodotto nel club,
restringere l’accesso nei limiti territoriali di un ente locale.
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La convenienza ad associarsi nel club dipende dalle economie di scala (ad es. una piscina condominiale o
una piscina comunale rispetto ad una piscina privata: sommando più utenti paganti si riducono i costi unitari;
la dimensione ottima del bene di club è quella che minimizza i costi per ogni utente, sfruttando tutte le
economie di scala).
La mobilità spaziale da un ente locale ad un altro è un meccanismo con il quale gli individui manifestano
preferenze per località dove i servizi sono migliori o le imposte locali meno elevate. Se i cittadini sono
informati e non ci sono limiti alla mobilità questo meccanismo può essere efficiente.
Teoricamente nel definire il riparto di funzioni tra diversi livelli di governo ci si richiama al principio di
sussidiarietà.
Il principio di sussidiarietà, introdotto nel Trattato di Maastricht (1992), nel Progetto (non approvato) di
Trattato costituzionale dell’UE (2005, v. TESTO) ed in alcune Costituzioni nazionali di paesi aderenti
all’UE stabilisce che le attività economiche e la produzione di beni e servizi con caratteristiche pubbliche
devono essere gestite dall’autorità a livello più basso. Le decisioni devono essere più vicine possibili alla
famiglia ed all’individuo.
Ordinando le amministrazioni pubbliche, le autorità di governo superiori intervengono solo, in maniera
sussidiaria e sostitutiva, a svolgere funzioni che non possono essere trattate in modo efficiente a livello
inferiore, per inefficienze, impossibilità o difficoltà anche temporanee. La sussidiarietà è una caratteristica
del federalismo.
Si distingue tra:
Sussidiarietà orizzontale: quando è tecnicamente possibile le amministrazioni pubbliche devono
lasciare all’iniziativa ed alla gestione privata anche attività considerate tradizionalmente pubbliche.
La gestione pubblica, anche in attività private, è residuale ed interviene quando non sia possibile
soddisfare esigenze generali con gestioni private.
Sussidiarietà verticale: le funzioni pubbliche, anche di entrate e spese pubbliche, sono assegnate
partendo dal basso. Alle amministrazioni pubbliche minori sono assegnate tutte le attribuzioni
possibili escludendo quelle che non sono in grado di svolgere per dimensioni o capacità. Quelle
escluse sono assegnate ad amministrazioni progressivamente superiori, fino a risalire allo stato
centrale o ad un’amministrazione sopranazionale.
Un sistema che non si basa direttamente su imposte, centrali o locali, e che può essere sia alternativo che
condizionato alle imposte, è quello dei trasferimenti dal bilancio di un’amministrazione più ampia ad
amministrazioni locali (ad es. da uno Stato federale o dall’UE agli Stati membri; dallo Stato centrale alle
Regioni ed ai Comuni, dalla Regione ai Comuni). Tali trasferimenti possono essere:
a) a destinazione libera (incondizionati): l’amministrazione che li riceve può usarli discrezionalmente;
b) a destinazione vincolata (condizionati): possono essere usati solo per finalità e nei limiti stabiliti
dall’amministrazione che li trasferisce;
c) in forma fissa: in ammontare fisso, ad es. pro capite rispetto alla popolazione locale;
d) collegati a parametri (ad es.: composizione della popolazione per età, reddito pro capite, tasso di
disoccupazione, tasso di emigrazione, condizioni ambientali, ecc.);
e) integrativi: sono collegati a particolari spese necessarie che non riescono a trovare copertura con
imposte locali; sono i c.d. fondi centrali di cofinanziamento;
f) perequativi: intendono ridurre le differenze tra amministrazioni locali, rispetto alle risorse proprie ed
alla diversa capacità di finanziare autonomamente le spese locali.
Definendo:
Bisogno fiscale (BF): l’ammontare di spese necessarie di un’amministrazione locale;
Sforzo fiscale (SF): il massimo gettito teorico delle imposte applicabili da un’amministrazione
locale con l’aliquota massima prevista
il trasferimento perequativo (TP) è pari a TP = BF – SF, in modo che vengono premiate le
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amministrazioni più impegnate nell’acquisire risorse attraverso imposte proprie.
Il residuo fiscale di un’amministrazione fiscale è la differenza tra la spesa pro capite nell’area
geografica di competenza e le imposte pro capite incassate nella stessa area ed è un indicatore dei
trasferimenti.
I fallimenti del governo
Si è visto come i fallimenti del mercato, in presenza di beni pubblici, esternalità, monopoli, carenze
informative, inefficienze distributive, possano giustificare gli interventi pubblici, di carattere
complementare, correttivo o sostitutivo.
Gli interventi pubblici, nella forma di imposte e spese, di gestione diretta di imprese pubbliche o nei
controlli di imprese private (regulation), possono a loro volta presentare inefficienze per via dei c.d.
fallimenti del governo (government failures), messi in evidenza soprattutto dagli studiosi di public choice.
Fallimenti del governo si presentano quando il settore pubblico, sostituendosi al mercato per porre rimedio a
situazioni di fallimenti del mercato, non riesce ad allocare in modo efficiente beni e servizi a consumatori ed
imprese determinando effetti disincentivanti e perdite di benessere.
La presenza di fallimenti del governo è utilizzata per criticare organizzazioni pubbliche inefficienti e per
sostenere l’opportunità di sostituirle con organizzazioni private, ad es. con processi di privatizzazione, e di
ricorrere a meccanismi di mercato al posto di decisioni di carattere discrezionale ed amministrativo.
Gli interventi pubblici diventano operativi attraverso processi politici (elezioni, delibere di assemblee di
amministrazioni pubbliche) e di processi discrezionali delle burocrazie pubbliche.
Le interpretazioni positive della burocrazia si riconducono essenzialmente a Max Weber (1864-1917)
in particolare a Wirtschaft und Gesellschaft, part III, cap. 6, dove la burocrazia è intesa come un
sistema efficiente di organizzazione di quell'apparato che deve dare esecuzione alle decisioni prese
dall'autorità statale. Per Weber l'esercizio del potere politico deve essere legittimato, ha bisogno di una
struttura amministrativa e del monopolio legittimo della forza. Weber usa il termine burocrazia per
definire l'organizzazione amministrativa. Definisce un tipo ideale di burocrazia, con alcune principali
caratteristiche (divisione e specializzazione dei compiti; struttura gerarchica, contratto e remunerazione
in denaro del personale; separazione tra le persone ed i mezzi di amministrazione; separazione tra le
persone e gli uffici; presenza di controlli e di regolamenti). Interpretazioni opposte a quella di Weber, si trovano ad es. già in L. Von Mises (1881-1973), v. Human Action: A Treatise on Economics, e specialmente Bureaucracy (1944) dove Mises dà una
visione negativa sulla burocrazia, conseguenza del monopolio dell’intervento pubblico, struttura opposta
alla creatività del mercato e limite alla libertà ed all’autonomia individuale. Un esempio più recente è il
lavoro di W.A. Niskanen, che ha proposto(1971), in un contesto di Rational Choice, l’interpretazione
della burocrazia con un budget-maximizing model.
Si elencano alcuni casi di fallimenti del governo.
1. Conseguenze non intenzionali. Il governo interviene per correggere o eliminare esternalità o
situazioni negative e talora, anziché risolvere, peggiora la situazione. E’ una conseguenza delle
informazioni imperfette in base alle quali il governo opera. Alcuni esempi. Spese destinate a
favorire la concorrenza delle imprese possono aggravano la concentrazione ed i poteri monopolistici.
Spese destinate a ridurre le disuguaglianze finiscono per aumentare le disuguaglianze stesse. Misure
per favorire l’occupazione irrigidiscono il mercato del lavoro ed aggravano il problema. Eccessi di
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occupazione nelle amministrazioni e nelle imprese pubbliche possono aggravare la spesa pubblica e
ridurre la produttività complessiva del lavoro. Controlli dei prezzi possono aumentare l’inflazione.
Raccogliere informazioni sufficienti non è più facile per le authority e le amministrazioni pubbliche
rispetto a imprese ed individui. Il governo non ha informazioni complete su prezzi, costi, benefici,
effetti di lungo periodo, mutamenti dei comportamenti di individui e gruppi in reazione alle
imposte ed alle spese. Non conosce esattamente gli effetti di impatto ambientale. Può non rendersi
conto che misure positive nell’immediato hanno conseguenze negative a distanza di tempo.
Alcune conseguenze non intenzionali dipendono dai rischi di miopia nelle decisioni del settore
pubblico con soluzioni a breve termine che impediscono soluzioni strutturali (ad es. sussidi a
imprese che stanno per uscire dal mercato, sussidi protezionistici all’agricoltura, costruzioni di
infrastrutture che aggraveranno problemi ambientali in futuro; spese che determinano maggior
inflazione ed aumento dei tassi di interesse).
2. Ricerca di interessi egoistici da parte di politici e burocrati pubblici, i quali, ragionando con criteri
di massimizzazione della propria utilità e di self interest, determinano inefficienti allocazioni di
risorse (sprechi nella spesa pubblica, posizioni di privilegio nel settore pubblico, bilanci
sovradimensionati di amministrazioni ed enti pubblici, imposte distorsive, ecc.). Politici e burocrati
profittano di posizioni di asimmetria informativa, (è la condizione in cui una parte degli agenti
interessati ha maggiori informazioni rispetto agli altri partecipanti e può trarre un vantaggio da
questa asimmetria) in quanto hanno informazioni migliori rispetto agli elettori e, in più, i burocrati
hanno informazioni più specializzate e complete che non i politici, rispetto ai quali si trovano in
rapporti di principal/agent. Quindi, nei rapporti di delega, mandato, affidamento che si instaurano
tra elettori e politici e tra burocrati e politici esistono incentivi a deviare dalle intenzioni di chi si è
affidato e ha dato mandato. Inoltre rilevano i costi delle burocrazie pubbliche, intesi come compensi
elevati, eccessi di personale, bassa produttività, tempi di decisione lunghi, errori ed arbitrii
discrezionali che determinano rallentamenti e ricorsi. Il problema si presenta, in vari paesi, nella
sanità, nell’assistenza, nell’istruzione, nella giustizia, nei lavori pubblici e può avere conseguenti
effetti disincentivanti ed esternalità negative.
3. Conseguenze dei sistemi di decisione collettiva e politica.
- Per la presenza di ignoranza razionale gli elettori non raccolgono tutte le informazioni necessarie
per decidere, in quanto ci sono costi (monetari, in termini di tempo impiegato) per raccogliere le
informazioni stesse e quindi non sono rappresentati correttamente. L’elettore-contribuente è
consapevole del peso ridotto della sua partecipazione, è incerto delle conseguenze e si rende conto
che non è conveniente investire troppe risorse per decidere. Il voto non è assimilabile ad un prezzo
che abbia un corrispettivo immediato ed un pagamento diretto. Pertanto i sistemi elettorali non
sono in grado di rivelare le preferenze di consumatori ed imprese e la loro disponibilità a pagare per
interventi pubblici.
- Il logrolling è la pratica di scambiarsi i voti nelle decisioni parlamentari e nelle assemblee
deliberanti delle istituzioni pubbliche. Porta a decidere allocazioni di risorse a progetti di spesa
secondari, o inutili, in cambio dell’appoggio per far approvare altri progetti di spesa di interesse
particolare. La spesa pubblica, in conseguenza, cresce e si disperde in destinazioni particolaristiche
anziché in progetti di interesse generale.
- Esistono, in ogni sistema, pressioni elettorali di gruppi di interesse e lobby su politici e burocrati
per acquisire, in cambio, sussidi settoriali, infrastrutture inutili, privilegi corporativi.
- Con il termine rent seeking si indicano costi e risorse impiegate da individui ed imprese per
acquisire vantaggi competitivi da parte di legislatori e di autorità di regulation (controlli pubblici
sulle aziende private) influendo su decisioni senza aumentare produttività e senza creare nuova
ricchezza. Un rent seeker riesce ad ottenere, da parte di soggetti pubblici, protezioni vantaggiose
per sé a danno di consumatori e produttori. L’appropriazione politica permette di concentrare i
benefici in un’impresa o in un gruppo ristretto, mentre i costi vengono diluiti nella società su più
soggetti. Ci sono imprese che trovano meno costoso acquisire vantaggi nelle decisioni di autorità
politiche anziché concorrere nei mercati. La rent seeking è definita come la spesa di risorse scarse
per acquisire un trasferimento creato artificiosamente con un intervento pubblico. Con
l’imposizione interessata di vincoli, autorizzazioni e licenze, le restrizioni all’entrata nei mercati, le
proibizioni (ad es. di importazioni, di produzioni concorrenti), le imposte discriminanti,
agevolazioni fiscali e sussidi, spesso imprese interessate possono ridurre la concorrenza, creare
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cartelli e far crescere i loro profitti, a spese di altri soggetti. Un’impresa calcola la convenienza ad
investire per aumentare la propria produttività e competitività nel mercato oppure a spendere
(improduttivamente) per ottenere posizioni rendita, protette e di favore a danno di altri, attraverso
interventi pubblici. Se è più conveniente investire in rent seeking si ha un’allocazione di risorse
inefficiente. La rent seeking è associata con la corruzione e con le pressioni su politici e burocrati
da parte di lobby organizzate.
4. Regulation: la teoria della cattura evidenzia come le agenzie di regulation di autorità pubbliche
tendano a cooptare rappresentanti delle imprese assoggettate a regulation, e possono così impedire
al mercato di funzionare correttamente.
La crescita della spesa pubblica
Si è spesso dibattuto se esistano determinanti di lungo periodo che spieghino la crescita del
settore pubblico, in assoluto e in percentuale del Prodotto Interno Lordo di un paese. Diversi
studi evidenziano questo processo di crescita, nella maggior parte dei paesi. Si sono date
alcune interpretazioni delle cause della crescita.
Elasticità delle spese pubbliche alla crescita del reddito nazionale. Beni e servizi pubblici
hanno le caratteristiche dei beni e servizi ‘di lusso’, con elasticità crescente al crescere del
reddito, nel senso che quando cresce il reddito la domanda di questi beni e servizi cresce più
che proporzionalmente, mentre la domanda di beni essenziali (privati, come alimentazione e
vestiario) cresce meno che proporzionalmente. La legge di Wagner, proposta dall’economista
tedesco Adolph Wagner (1835-1917) afferma che la crescita nel tempo di un’economia
industriale è accompagnata da una crescita della quota della spesa pubblica nel reddito
nazionale. Ciò è determinato dal progressivo sviluppo di un welfare state e dalla crescita
conseguente di beni e servizi di carattere sociale. La crescita della spesa pubblica più che
proporzionale al reddito nazionale dipende da: a) attività sociali dello Stato (assicurazioni
sociali, sanità e istruzione, protezione ambientale, interventi in occasione di calamità); b)
interventi pubblici crescenti nella tecnologia, nelle scienze e nei progetti di investimento in
questi campi; c) aumento del ricorso al debito pubblico e crescita cumulativa di questo con gli
interessi.
Fattori demografici: le spese di previdenza e sanità crescono con l’invecchiamento della
popolazione.
La trasformazione, al crescere del reddito nazionale, di spese private in spese pubbliche: è il
caso delle spese per l’istruzione e la sanità, la sostituzione di risparmio privato con la
previdenza pubblica.
Effetto ‘scalino’: eventi eccezionali (guerre, calamità naturali) determinano esplosioni della
spesa pubblica, che poi si trasforma in altre spese pubbliche, ma non torna al livello di
partenza.
Strutture democratiche (regole di maggioranza) nella formazione del bilancio pubblico: nei
sistemi parlamentari a larga base elettorale le decisioni parlamentari sul bilancio aggregano
più gruppi portatori di interessi, settoriali e collettivi, che si riflettono nell’incremento delle
spese pubbliche; i partiti al governo, inoltre, utilizzano le spese pubbliche per il ‘consenso’ e
la rielezione.
Sviluppo squilibrato. Secondo una teoria elaborata nella seconda metà del sec. XX
dall’economista statunitense Baumol, nell’economia di un paese industriale avanzato si
distingue tra un settore progressivo ed un settore non progressivo. Il primo ha innovazioni
tecnologiche, alta produttività, tendenza alla riduzione dell’occupazione, accumulazione di
capitale. Il secondo ha lavoro a bassa produttività, attività improduttive ed inefficienti,
impossibilità di coprire gli incrementi di costi, in particolare del lavoro, con incrementi di
produttività. Nel secondo settore si concentrano le attività e le istituzioni pubbliche e l’offerta
di lavoro e parte del settore non sopravvivrebbe senza l’intervento pubblico. Per finanziare il
settore non progressivo, che comprende il settore pubblico, è necessario aggravare la
pressione tributaria sul primo settore. Il secondo settore tende a crescere, più che
proporzionalmente, a spese del primo ed il settore pubblico cresce più che proporzionalmente
sia al primo che al secondo. La bassa o mancante crescita di produttività nel settore pubblico è
addebitata all’ eccesso di fattore lavoro nello stesso settore oltre che dalla mancanza di
innovazioni tecnologiche. Gli aumenti dei costi del lavoro nel settore pubblico non dipendono
da aumenti di produttività, ma da un effetto di trascinamento degli aumenti nel settore
progressivo, dove sono determinati da aumenti di produttività.
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III. Le entrate pubbliche
1. Classificazione delle entrate
- Tipologie di entrate
- Classificazione delle imposte
- I contributi sociali
2. I principi delle imposte
- Principi generali
- Equità
- Neutralità
3. Le Imposte personali sul reddito
3.1 Imposta sul reddito delle persone fisiche
- Il reddito imponibile
- La progressività
- L’unità impositiva
- Reddito guadagnato e
reddito speso
3.2 Imposte personali sul reddito delle società
1. Classificazione delle entrate
Tipologie di entrate
Si distinguono, in base ad una classificazione di tipo economico, le entrate correnti e le entrate in conto
capitale.
ENTRATE CORRENTI
1. Prezzo privato e quasi privato
Sono entrate derivanti dalla gestione di beni e servizi prodotti e venduti sul mercato da soggetti del settore
pubblico in concorrenza con produttori e venditori del settore privato. Le entrate sono assimilabili ai prezzi
di beni e servizi privati. Tale genere di entrate era diffusa in periodi precedenti nella c.d. finanza
patrimoniale e rappresentava una quota consistente delle entrate pubbliche (ad es. nel sec. XIX). Nel prezzo
privato si possono far rientrare i proventi da vendite di prodotti provenienti da beni del demanio o del
patrimonio pubblico e quelli dei monopoli fiscali (imprese pubbliche operanti in regime di monopolio nella
produzione di beni e servizi e che servono solo a fini di garantire entrate, non per finalità sociali). Vi sono
anche le entrate che provengono dalla gestione di patrimoni, reali e finanziari, di soggetti pubblici: canoni di
locazione e concessioni, interessi, dividendi.
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Si parlava di prezzo quasi privato quando, nella produzione e nella vendita di alcuni beni e servizi (ad es.
nella vendita di prodotti del demanio forestale o nella gestione delle banche pubbliche) era presente qualche
elemento di controllo e di indirizzo di politica economica a tutela di interessi generali.
2. Prezzo pubblico
Si tratta delle tariffe pubbliche, ovvero delle tariffe applicate dalle imprese pubbliche, le quali producono e
vendono servizi a pagamento. Ne sono esempio le tariffe dei servizi di pubblica utilità (luce, gas, acqua,
telefono, raccolta rifiuti, trasporti, servizi postali). Le tariffe possono essere discriminate, perciò possono
variare a seconda della tipologia del contribuente, della quantità di consumo, dall’essere riferite alla prima
casa o ad altre abitazioni, dalla dimensione della famiglia o anche dal livello di reddito famigliare.
Una caratteristica del prezzo pubblico è quella di contenere elementi di socialità che mancano nel prezzo
privato, così da permettere il consumo di beni e servizi con caratteristiche pubbliche anche a persone a basso
reddito o ritenute meritevoli (ad es. gli abbonamenti ai trasporti per studenti, pendolari, anziani, i consumi
per fasce sociali per altri servizi) attraverso riduzioni di prezzi individualizzati per categoria.
Il prezzo pubblico può essere considerato come una variante pubblica della discriminazione di prezzi del
monopolista.
Altra caratteristica del prezzo pubblico è quella di puntare alla copertura dei costi. Alcuni utenti pagano
meno del costo medio altri pagano di più, in modo che le differenze si compensino attraverso un meccanismo
di redistribuzione. Alcuni consumatori finanziano il consumo di altri.
L’efficienza di un’impresa pubblica è interpretata come requisito minimo del pareggio del bilancio delle
imprese pubbliche. In realtà l’obiettivo del pareggio è realistico per alcune imprese pubbliche, per altre non
lo è (ad es. nei trasporti, nelle forniture di acqua). Per altre ancora è considerata l’opportunità che vi siano
profitti anche per l’autofinanziamento degli investimenti.
Il monopolio sociale è un’impresa gestita, a livello nazionale o a livello locale, da un soggetto pubblico che
mira a realizzare finalità ritenute meritevoli perché socialmente apprezzabili. Solitamente agisce in perdita,
in quanto la copertura, totale o parziale, dei costi non è affidata alle tariffe, ma è rinviata alla fiscalità
generale (trasferimenti ed imposte) e quindi non c’è una stretta relazione tra utenti e tariffe pagate.
3. Prezzo politico
I prezzi politici hanno la caratteristica di coprire solo in parte i costi di produzione di beni e servizi pubblici.
Sono tipi di prezzi politici:
a) La tassa: si tratta del pagamento per un bene o servizio pubblico domandato individualmente. Tale
pagamento è inferiore al costo del bene o del servizio, talvolta ne rappresenta solo una quota minima. Ne
sono esempio le tasse per l’istruzione pubblica e le tasse per i servizi sanitari pubblici (ticket). Se non c’è
domanda privata per il bene/servizio pubblico non si paga una tassa.
b) Il contributo speciale: è un pagamento forzoso, che viene imposto quando, ad es. con la costruzione di
un’opera pubblica (strada, metropolitana, porto) o di un piano regolatore urbanistico, aumenta il valore dei
terreni e dei fabbricati nell’area interessata. Una parte di questo incremento di valore viene recuperata
attraverso il pagamento di un contributo speciale (un esempio è l’antico contributo di migliorìa), ma questo
recupero non copre il costo di tutta l’opera.
Nel caso dei prezzi politici si ha un finanziamento parziale del costo di beni e servizi pubblici e necessita un
finanziamento aggiuntivo.
4. Imposte
Sono prelievi forzosi che non sono collegati direttamente all’erogazione di beni e servizi. Sono pagate
prevalentemente in moneta, ma possono consistere in acquisizione forzosa di prodotti o di beni. Le imposte
nel corso del tempo, si sono trasformate da prelievi in natura (l’istituto medievale delle decime dei raccolti
da versare al clero, già esistenti nel sistema romano antico) e da prestazioni personali imposte in modo
coercitivo (servizi personali obbligatori, già le liturgie in Atene, le corvée, apparse in Francia nel sec.
IX, come lavoro obbligatorio o anche forzato prestato gratuitamente ad un signore, anche nella forma di
prestazioni militari, e già presenti, nella sostanza, in tempi precedenti) in prelievi monetari. Secondo il principio dell’unità dei bilanci pubblici tutte le entrate sono un insieme unico e tutte le spese
sono pure un insieme unico e non ci possono essere legami contabili tra i due insiemi. Così in generale non
si possono introdurre vincoli di destinazione di imposte al finanziamento di spese specifiche né vincoli di
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dipendenza di una spesa con un’entrata. In casi anomali ci può essere una destinazione precisa del gettito di
un’imposta ad un tipo di spesa (si parla, in questo caso, di imposta di scopo).
Come sinonimo si usa il termine tributo, dal termine tributum del fisco dell’antica Roma. Molte imposte
moderne nascono dall’evoluzione di diritti e tributi feudali.
Sulle imposte nell’antichità, ad es. in Grecia e Roma, v. Dictionary of Greek and Roman
Antiquities; brevi ed interessanti notizie storiche sono in L.A. Muratori (1751).
Classificazione delle imposte
Due definizioni preliminari:
- Contribuenti: i soggetti, persone fisiche o giuridiche, tenuti a pagare l’imposta.
- Imponibili: gli elementi economici alla base del calcolo dell’imposta.
-
Una distinzione generale delle imposte è per imponibili:
Imposte Dirette su reddito e patrimonio; si pagano con regolarità temporale in determinati periodi
dell’anno, in base ad incassi annuali, guadagni netti, proprietà.
Imposte Indirette su consumo, scambio, produzione, vendite, prezzi, fatturato, trasferimenti: si
pagano in occasione di determinati atti economici, principalmente passaggi e movimenti di merci e
servizi.
La classificazione delle imposte adottata nel sistema di contabilità ESA comprende:
1. Imposte sulla produzione e sulle importazioni (D.2), suddivise in:
a) imposte sui prodotti e sulle importazioni (D.21)
(1) imposte sul valore aggiunto (D.211)
(2) imposte e prelievi sulle importazioni (esclusa IVA) (D.212)
- dazi di importazione (D.2121)
- altre imposte sulle importazioni (D.2122)
b) imposte su prodotti e importazioni, esclusa IVA (D.214) (accise, imposte di
bollo e registro, imposte su assicurazioni, giochi, transazioni finanziarie,
imposte generali sulle vendite diverse da IVA).
c) Altre imposte sulla produzione (D.29) (imposte pagate dalle imprese per uso di
immobili, impianti e macchinari, imposte commisurate al monte salari,
strumenti finanziari, licenze, imposte per inquinamento).
2. Imposte correnti su reddito, patrimonio, ecc. (D.5):
a) Imposte sul reddito (D.51) (imposte su reddito di lavoro, profitti, proprietà).
b) Altre imposte sul reddito (D.59) (imposte sulla spesa, imposte fisse, imposte sul
capitale, su licenze, su transazioni internazionali).
3. Imposte in conto capitale (D.91) (sui trasferimenti di proprietà, donazioni, successioni,
imposte straordinarie sul patrimonio).
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La struttura delle imposte dirette e indirette: imponibile, aliquota, gettito
Una distinzione antica delle imposte:
per contingente (prima l’ammontare aggregato delle imposte è determinato per una categoria di
contribuenti o di imponibili: successivamente si procede al riparto delle imposte tra i contribuenti);
per quotità (l’imposta si calcola come quota percentuale di un imponibile).
In base all’uso di aliquote ed imponibili si distingue tra imposte dirette ed indirette.
Imposte dirette
R è l’imponibile (ad es. il Reddito); t l’aliquota o tasso dell’imposta (in %); T il gettito (o l’imposta):
T = tR dall’imponibile R si sottrae l’imposta tR; quindi R - tR = R(1 - t).
Esempio: un reddito R di 100 è tassato con un’aliquota t del 30%; risulta 100 – 30 = 70.
L’imponibile R (100) è ridotto dell’ammontare dell’imposta diretta T (30) e diventa reddito netto R(1-t)
(70). Il contribuente con un reddito R si trova con un reddito diminuito, perché l’imposta è tolta
dall’imponibile.
Imposte indirette
P è l’imponibile (ad es. il Prezzo); ti l’aliquota o tasso (in %); Ti il gettito (o l’imposta):
al prezzo P si aggiunge l’imposta tiP; quindi abbiamo P + tiP = P(1 + ti)
Esempio: P = 100; ti = 20%; 100 + 20 = 120.
L’imponibile P (100) è aumentato dell’ammontare dell’imposta indiretta Ti (20) e diventa prezzo lordo
P(1 + ti) (120). Il contribuente paga un prezzo più alto perché l’imposta indiretta è aggiunta all’imponibile.
Si ricordi che T e Ti sono valori assoluti, mentre t e ti sono valori percentuali.
Tasso nominale/effettivo
Talora ci si trova di fronte ad un imponibile che è stato ridotto da un’imposta diretta o aumentato da
un’imposta indiretta ed il contribuente deve calcolarsi l’imposta già applicata. Per far questo si definisce il
tasso effettivo (o aliquota effettiva) di un’imposta diretta o di un’imposta indiretta.
Le aliquote t e ti sono tassi nominali, che si applicano all’imponibile per avere l’imposta.
Si definiscono tassi effettivi:
- per l’imposta diretta: l’aliquota (o tasso) t* che, applicata sull’imponibile netto R(1 - t), dà lo
stesso gettito T ricavato applicando t ad R. Quindi:
-
t*R(1- t) = tR , da cui t* = t/(1- t).
- per l’imposta indiretta: l’aliquota (o tasso) ti* che, applicato su P(1 + ti), dà lo stesso gettito di ti
applicata a P; quindi
ti*P(1 + ti)=tiP, da cui ti*= ti/(1+ti).
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Dalle due formule si ricava che
a) t* > t : il tasso effettivo è maggiore del tasso nominale per un’imposta diretta;
b) ti* < ti: il tasso effettivo è minore del tasso nominale per un’imposta indiretta.
Nella classificazione delle imposte si trovano altre distinzioni.
Imposte reali: sono imposte che si applicano considerando oggettivamente la natura
economica dell’imponibile e non il soggetto (persona fisica o impresa) che percepisce gli
imponibili. Si chiamano anche imposte cedolari. Ad esempio, per tassare il reddito si
applicano aliquote diverse sul reddito di lavoro, sul reddito degli immobili, sui redditi
finanziari, indipendentemente da chi li percepisce.
Imposte personali: sono imposte che si applicano considerando soggettivamente un
imponibile costruito e riferito ad un contribuente. Il contribuente può essere una persona
fisica, oppure un’unità famigliare, un’impresa, o anche una società di capitale.
Imposte generali: si applicano su tutti gli imponibili appartenenti ad una categoria generale:
ad es. imposte che colpiscono tutti i redditi (imposta generale sul reddito), tutti i consumi
(imposta generale sul consumo), tutti i patrimoni (imposta generale sul patrimonio). In
pratica esistono imposte solo tendenzialmente generali, in quanto è impossibile tassare tutti i
redditi, tutti i consumi o tutti i patrimoni.
Imposte speciali: si applicano solo su uno o su alcuni imponibili appartenenti ad una
categoria. Ad es. un’imposta che tassi solo il reddito dei fabbricati e non il reddito di lavoro
e gli altri redditi; un’imposta che colpisca il patrimonio immobiliare ed esenti i patrimoni
finanziari.
Imposte fisse (lump sum tax): sono imposte che vengono fatte pagare in una somma
definita e che individuano solo un contribuente, ma non sono collegate ad un imponibile
(livello di reddito, consumo, patrimonio). Ne erano esempi l’antico testatico (il pagamento
di una somma fissa a testa) e le imposte di capitazione (pure calcolate e addebitate pro
capite). Oggi esistono rari esempi di piccole imposte addebitate in somma fissa (lump sum)
ai contribuenti.
Imposte specifiche: sono imposte che si commisurano a caratteristiche fisiche di un
imponibile e non al suo valore monetario (prezzo, valore monetario di un reddito o di un
patrimonio). Ad es. l’imposta può far riferimento alla quantità o al numero di beni prodotti
o venduti (un’imposta fissa per unità prodotta o venduta), al volume, al peso, alla
gradazione alcolica. Ne sono esempi le imposte di fabbricazione sugli oli minerali, le
imposte sugli spiriti, le imposte sul consumo di alcuni prodotti (caffè, tabacchi). Si noti che
le imposte specifiche possono essere speciali o generali. Si chiamano anche con il termine di
accise.
Imposte ad valorem: si tratta di imposte che si commisurano a prezzi espressi in
valore monetari.
Imposte ordinarie e straordinarie
La differenza sta nella presenza più o meno continua nell’ordinamento tributario.
Le imposte ordinarie sono presenti in diversi esercizi e servono al finanziamento normale delle spese
pubbliche. Si tratta di strumenti di finanza ordinaria.
Le imposte straordinarie sono invece strumenti di finanza straordinaria (ENTRATE/IMPOSTE IN
CONTO CAPITALE) Sono introdotte soprattutto per far fronte a necessità eccezionali dovute ad eventi
negativi. Si usano, ad esempio, nei dopoguerra per le necessità di ricostruzione o in seguito ad eventi naturali
disastrosi. Richiedono generalmente una situazione di eccezionalità che garantisca margini di consenso di
gran parte dei contribuenti, ma non possono permanere come istituto tributario stabile. Ne sono esempi le
imposte straordinarie sul patrimonio (miranti ad obbligare alcuni contribuenti a smobilizzare patrimoni
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‘non meritati’). Hanno aliquote molto forti, così che l’imposta non può essere pagata solo con il reddito
dell’anno, ma richiede la liquidazione di una quota del patrimonio.
In forma più attenuata sono state utilizzate, come imposte straordinarie in forma temporanea, aumenti di
imposte di fabbricazione o anche incrementi temporanei di imposte sul reddito (ad es. per l’adesione
all’UE).
Può accadere che imposte straordinarie si trasformino in ordinarie con una successiva riduzione di aliquote
(un’imposta straordinaria sul patrimonio del 20% diventa imposta ordinaria sul patrimonio con aliquota dello
0,5%). In un processo inverso con un forte aumento di aliquote si possono trasformare imposte ordinarie in
imposte straordinarie (un’imposta sul reddito di aliquota 10% vede crescere l’aliquota al 120%). L’imposta
straordinaria talora è considerata come anticipazione di pagamenti futuri di un’imposta ordinaria.
Per le imposte in Italia si trovano utili riferimenti nel Glossario di FiscoOggi.
Imposte centrali e locali
Una distinzione tra le imposte riguarda i livelli di governo nelle quali sono applicate. Si distingue tra
imposte centrali (federali o statali) ed imposte locali (regionali, provinciali, comunali).
Le imposte locali
Si è già rilevato che esiste una distinzione tra le imposte riguarda i livelli di governo nelle quali sono
applicate. Si riassumono i metodi di finanziamento degli enti locali (il c.d. federalismo fiscale indica
l’organizzazione di entrate e trasferimenti per diversi livelli di governo).
a) Imposte autonome
Si tratta di imposte su imponibili localizzati e facilmente individuabili nell’ambito di un’amministrazione
locale.
Si prestano di più le imposte reali (localizzazione dell’imponibili) rispetto alle imposte personali (residenza
del contribuente). Già nel sec. XIX si teorizzava che le imposte personali dovessero essere centrali e le
imposte reali dovessero essere locali.
Le imposte autonome più utilizzate a livello locale sono:
- le imposte patrimoniali su immobili (terreni e fabbricati);
- le imposte su redditi immobiliari;
- le imposte sui consumi finali.
Si prestano meno le imposte generali, dirette o indirette, le imposte personali, le imposte sulla produzione,
perché finiscono con l’essere pagate anche da contribuenti residenti in altre amministrazioni locali.
Le imposte locali autonome possono:
1. essere introdotte e determinate, negli imponibili e nelle aliquote, dalle singole amministrazioni locali;
2. essere stabilite a livello centrale e le amministrazioni locali possono decidere se adottarle ed
eventualmente fissare le aliquote, all’interno di limiti prefissati.
b) Addizionali e sovrimposte
La sovrimposta è commisurata ad un imponibile definito per un’imposta centrale (comunque di
un’amministrazione pubblica più ampia di quella che applica la sovrimposta), per la parte dell’imponibile (ad
es. reddito, consumo) localizzato nell’ambito territoriale dell’amministrazione locale.…
L' addizionale è invece commisurata ad un'imposta centrale, per aggiungere una parte riscossa a livello
locale...
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Se tc è l'aliquota dell’imposta centrale, tl l'aliquota locale e R l’imponibile:
> la sovrimposta è pari a tlR; l’imposta totale per il contribuente è tcR + tlR = (tc + tl)R.
> l’addizionale è tltcR; l’imposta totale per il contribuente è tcR + tltcR = tc(1 + tl)R
La sovrimposta è di solito proporzionale, anche se ci sono esempi di sovrimposte locali progressive sul
reddito (negli S.U., in Svezia). Può essere deducibile o detraibile dall’imponibile o dall’imposta centrale.
L'addizionale è proporzionale. S e l'imposta centrale è progressiva, il gettito dell’addizionale cresce più che
proporzionalmente al crescere dell'imponibile, anche se l'aliquota è proporzionale.
c) Compartecipazione al gettito di imposte di altre amministrazioni pubbliche
Un’amministrazione locale ha diritto ad una quota del gettito dell'imposta di un’amministrazione più ampia
(la regione che riceve una quota di un’imposta statale) o, più raramente, di un’amministrazione più piccola
(ad es. una regione potrebbe aver diritto alla quota di un’imposta comunale o provinciale). Se T è il gettito di
un’imposta prelevata dall’amministrazione A, questo viene ripartito in due (o più, se sono coinvolte più di
due amministrazioni) quote: una percentuale a va all’amministrazione A, mentre la quota residua (1 – a) è
attribuita ad un’altra amministrazione B: quindi aT va ad A, (1 – a)T va a B.
La descrizione delle imposte nei loro effetti economici può essere fatta con alcuni grafici:
RRREEETTTTTTAAA DDDIII BBBIIILLLAAANNNCCCIIIOOO,,, IIIMMMPPPOOOSSSTTTEEE EEE SSSUUUSSSSSSIIIDDDIII AAA BBB
DDDOOOMMMAAANNNDDDAAA EEEDDD IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA SSSUUULLL RRREEEDDDDDDIIITTTOOO AAA BBB
DDDOOOMMMAAANNNDDDAAA EEEDDD IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA IIINNNDDDIIIRRREEETTTTTTAAA AAA BBB
IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA SSSPPPEEECCCIIIFFFIIICCCAAA AAA BBB
IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA AAADDD VVVAAALLLOOORRREEEMMM AAA BBB
I contributi sociali
I contributi sociali, definiti anche oneri sociali, hanno natura affine alle imposte e sono collocati tra le
entrate tributarie nei bilanci pubblici. Si differenziano dalle imposte perché hanno una destinazione specifica
al finanziamento di prestazioni individualizzate (pensioni, assistenza sanitaria). Si distingue tra:
Contributi sociali effettivi
Indicano i versamenti che i lavoratori assicurati ed i loro datori di lavoro effettuano agli enti di
previdenza ed assistenza che erogano prestazioni sociali, per poter avere il diritto a prestazioni
previdenziali (contributi previdenziali) e sanitarie (contributi sanitari).
Contributi sociali figurativi
Si tratta di prestazioni sociali corrisposte direttamente dai datori di lavoro ai propri dipendenti o ex
dipendenti. Comprendono le pensioni provvisorie corrisposte dalle Amministrazioni Pubbliche ai propri
dipendenti, le aggiunte di famiglia, l’equo-indennizzo, i sussidi al personale, le rendite, le indennità
temporanee e le spese per cure ed infortuni.
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Considerando un reddito di lavoro dipendente R, un’aliquota t dell’imposta sul reddito ed un tasso
percentuale s di contributi sociali abbiamo:
- Il datore di lavoro paga R al lavoratore dipendente e versa sR ad un ente previdenziale: in totale i
pagamenti del datore di lavoro ammontano a R + sR = R(1 + s): questo è il costo del lavoro.
- Il lavoratore incassa un reddito netto R(1 - t), in quanto tR vanno al fisco.
- Per cuneo fiscale CF si intende la differenza tra il costo del lavoro ed il reddito netto del lavoratore:
CF = R(1 + s) – R(1- t) = sR + tR = (s + t)R.
2. I principi delle imposte
Principi generali
Alcuni dei principi delle imposte sono stati già definiti fin da A. Smith nella Ricchezza delle Nazioni
(1776): l’imposta, secondo Smith, deve essere proporzionale, economica, efficiente, certa. Questi ed altri
principi sono, tradizionalmente, ripresi nella letteratura economica, da J.S. Mill (1848), da H. George in
Progress and Poverty (1879), da A. Wagner in vol. 1.
Riferimenti brevi si possono vedere
per A. Smith, H. George, A. Wagner.
Successivamente alcuni dei principi generali hanno avuto definizioni approfondite.
Principio del beneficio o della controprestazione
Le imposte devono essere pagate come se fossero prezzi per le prestazioni ricevute come spesa pubblica in
beni e servizi. Si collega la spesa all’imposta, come se vi fosse un rapporto di scambio volontario (un
rapporto contrattuale di prestazione/controprestazione) tra governo e contribuenti. I contribuenti devono
pagare imposte in proporzione ai benefici ricevuti dalla spesa. Esclude misure redistributive e giustifica la
proporzionalità delle imposte. E’ un’impostazione diffusa nei sec. XVIII e XIX, che trova ancora sostenitori,
in particolar modo per decidere incrementi di imposte per finanziare nuove spese. Nei bilanci pubblici, come
già ricordato, non è possibile collegare spese ad imposte, sia per le grandi dimensione dei bilanci, sia perché
il più delle volte non è possibile individuare le domande individuali di beni e servizi pubblici, proprio per le
caratteristiche dei beni e dei servizi pubblici, né si possono differenziare le imposte per ogni contribuente in
base alla domanda. Il principio, se applicato in generale, avrebbe come scopo la trasparenza nel bilancio
pubblico: il controllo dei contribuenti sull’uso del gettito ed il vincolo del gettito all’uso voluto dagli elettori-
contribuenti.
Principio della capacità contributiva
E’ un principio che si è affermato dalla fine del sec. XIX, in alternativa al principio del beneficio. Le
imposte vanno pagate secondo le dimensioni dell’imponibile e non per quello che si riceve in cambio come
beni e servizi pubblici. La teoria è stata sviluppata prima per giustificare l’imposta proporzionale (ciascuno
ritrae dal complesso delle spese pubbliche benefici proporzionali alla propria ricchezza, quindi deve pagare
in proporzione a questa) e poi per giustificare anche l’imposta progressiva. E’ connesso anche con la crescita
delle dimensioni del bilancio pubblico, che rendono impossibili i collegamenti tra le entrate e le spese.
Se le imposte sono indipendenti dalle spese e l’individuazione dei beneficiari non è un criterio di
riferimento servono indici di capacità contributiva (reddito, patrimonio, consumo, produzione) che misurino
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il sacrificio dei contribuenti, in funzione degli elementi economici che vengono sottratti dall’imposta. In
base alla capacità contributiva sono stati definiti criteri di applicazione delle imposte. Queste devono essere
distribuite a seconda delle capacità economiche del contribuente.
Il problema può essere posto con modalità diverse:
a) i contribuenti devono avere lo stesso sacrificio assoluto, uguale per ciascuno (principio del
sacrificio uguale);
b) i contribuenti devono avere lo stesso sacrificio in proporzione all’utilità della loro ricchezza
(sacrificio proporzionale o equiproporzionalità)
d) si deve minimizzare il sacrificio del totale dei contribuenti (sacrificio minimo aggregato).
La progressività delle imposte è stata teorizzata (alla fine del sec. XIX) come principio di eguaglianza. Le
imposte su due redditi diversi dovrebbero imporre lo stesso sacrificio di utilità (la stessa perdita di benessere)
a due contribuenti ( o allo stesso contribuente in due situazioni di reddito diverse).
Equità
Il concetto di equità è della parità di trattamento (non discriminazione) di contribuenti e di imponibili. Si
distinguono due concetti.
Equità orizzontale: i contribuenti e gli imponibili con le stesse caratteristiche devono essere tassati
con le stesse modalità. Si fonda sul principio della capacità contributiva. L’eguaglianza di imponibile
comporta eguaglianza di trattamento.. In base al principio del beneficio la parità di trattamento
sarebbe conseguente all’eguaglianza dei benefici ricevuti dalla spesa pubblica.
Equità verticale: i contribuenti e gli imponibili con caratteristiche diverse devono essere tassati con
modalità differenti. In base alla capacità contributiva le imposte devono essere differenziate.
Si riportano casi tipici nei quali si richiama l’applicazione del principio di equità. La differenziazione
delle aliquote è necessaria per l’eguaglianza nel trattamento.
1. Reddito di lavoro e di capitale (la c.d. discriminazione qualitativa dei redditi): il reddito di lavoro
comporta un sacrificio personale nella produzione, sacrificio consistente nell’impiego di tempo
sottratto al consumo, nella stanchezza fisica, nell’assoggettarsi ad obblighi non graditi, mentre il
reddito di capitale non comporta questi sacrifici. Due redditi eguali, dal punto di vista monetario,
uno di 100 come reddito di lavoro, uno di 100 come reddito di capitale, avranno la stessa utilità
lorda per un contribuente, ma il reddito di lavoro ha un’utilità netta inferiore per un reddito di
lavoro. Ad es., se si quantifica l’utilità in 40 unità per il reddito di capitale, per il reddito di lavoro da
questa utilità di 40 va sottratto un sacrificio (ad es. di 25), pertanto il reddito di capitale ha un’utilità
netta di 40, mentre il reddito di capitale ha un’utilità netta di 15.
2. Reddito temporaneo e reddito perpetuo. A parità di valore monetario un reddito temporaneo va
tassato meno di un reddito perpetuo. Il reddito di lavoro è temporaneo, il reddito di capitale è
(almeno tendenzialmente) perpetuo. Il criterio guida dell’equità è quello di tassare meno il reddito di
lavoro perché questo, attraverso l’accumulazione di risparmio, possa costituire nel tempo un capitale,
trasformandosi, quando è cessata la produzione di reddito di lavoro (ad es. per il pensionamento), si
possa avere un reddito di capitale, sostitutivo del precedente reddito di lavoro. L’idea si applica, in
pratica, nell’esenzione del risparmio da reddito di lavoro (risparmio forzoso o volontario) per
costituire fondi pensionistici.
3. Reddito risparmiato e reddito speso: il ragionamento precedente si può estendere per sostenere che
il reddito risparmiato va tassato meno del reddito speso. Il risparmio è un rinvio di attività che
generano utilità individuale, è un’utilità futura che va tassata in futuro, mentre il consumo è utilità
attuale che va tassata subito. Inoltre, secondo un’altra argomentazione, il consumo del reddito è
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qualcosa di personale ed egoistico che distrugge risorse, mentre il risparmio ha un’importanza
‘sociale’, nel senso che va a vantaggio della collettività e permette accumulazione di capitale.
4. Reddito rischioso e reddito sicuro: a parità di valore monetario il reddito (o il patrimonio) rischioso
ha un valore effettivo minore rispetto ad un reddito (patrimonio) sicuro. Il rischio consiste nella
probabilità che il reddito venda a cessare, temporaneamente o definitivamente. Per equiparare, ad
esempio, un reddito sicuro di 100 ad un reddito rischioso di 100 quest’ultimo dovrebbe essere reso
sicuro attraverso un’assicurazione. Per assicurare un reddito rischioso si dovrebbe pagare ad
un’assicurazione un premio, in funzione della gravità del rischio, ad es. di 30. Pertanto il reddito di
100 in pratica vale 100 – 30 = 70, e solo questo importo andrebbe tassato.
Equità intertemporale e intergenerazionale
I contribuenti attuali possono modificare il benessere dei contribuenti futuri. Le imposte attuali
possono, ad esempio, ridurre la formazione di capitale disponibile per le generazioni future. Le
generazioni attuali possono influire negativamente sulle future con la distruzione di risparmio e di
risorse non riproducibili.
Possono esserci trasferimenti di carichi fiscali alle generazioni future con debiti attuali che dovranno
essere ripagati in futuro, ad es. con il finanziamento della spesa pubblica mediante debito pubblico o con
il finanziamento del sistema pensionistico. Succede che contribuenti più giovani pagheranno, in futuro,
per spese i benefici delle quali sono a vantaggio di contribuenti attuali. Le generazioni sono sempre
parzialmente sovrapposte, per via della compresenza di soggetti appartenenti a più generazioni (la
composizione demografica) e si instaurano i c.d. patti intergenerazionali. Una generazione più forte (i
più giovani) danno sostegno finanziario una più debole (i più anziani), ad esempio finanziando, con i
propri imponibili, spese sanitarie e pensionistiche.
E’ un principio ulteriore l’idea che con gli strumenti fiscali non si devono alterare le posizioni relative dei
contribuenti (equità fiscale). Si possono ridurre le differenze tra i contribuenti, ma non far sì che il
contribuente Tizio più ricco di Caio prima dell’applicazione di imposte/spese diventi poi più povero di Caio
solo in seguito agli interventi fiscali.
Neutralità
Il principio di neutralità delle imposte è assimilato all’efficienza ed afferma che:
Le imposte non devono creare distorsioni degli equilibri che si stabiliscono nei mercati. Il principio
di neutralità indica la necessità che le imposte non interferiscano con gli equilibri economici. Non
devono provocare distorsioni nelle scelte, rispetto a quelle che verrebbero prese in assenza di
imposte.
Non devono generare effetti di sostituzione: per gli individui e le imprese non devono far spostare le
preferenze rispetto a decisioni prese in assenza di imposte. Questi effetti dipendono da
comportamenti determinati da tentativi dei contribuenti di ridurre le imposte dovute riducendo, o
evitando se possibile, gli imponibili (reddito, prodotti, consumo, ecc.).
Il tema della neutralità era già stato discusso da Enrico Barone (1912) nel confronto tra un’imposta
diretta sul reddito ed un’imposta indiretta speciale sul consumo.
IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII BBBAAARRROOONNNEEE AAA PPPAAARRRIIITTTAAA ’’’ DDDIII SSSAAACCCRRRIIIFFFIIICCCIIIOOO AAA BBB
IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII BBBAAARRROOONNNEEE AAA PPPAAARRRIIITTTAAA ’’’ DDDIII GGGEEETTTTTTIIITTTOOO AAA BBB
Esempi di effetti di sostituzione:
62
a) per un consumatore: tra consumare il bene X (non tassato o tassato di meno) piuttosto che il bene Y
(tassato o tassato di più): un bene tassato è parzialmente sostituito con un bene non tassato: il
fenomeno è più evidente per i beni surrogati (sostituibili perché appartenenti ad una stessa classe)
nel consumo;
b) per un produttore: tra produrre il bene X (non tassato o tassato di meno) piuttosto che il bene Y
(tassato o tassato di più);
c) per un lavoratore: tra lavorare o non lavorare, se è tassato il reddito di lavoro;
d) per un’impresa: tra l’impiego di un fattore di produzione (lavoro, capitale) ed un altro fattore se uno
è tassato più dell’altro;
e) per una società: tra la costituzione di una società di capitali o di una società di persone, quando è
tassata di più la società di capitali (o viceversa);
f) per una società di capitali: tra finanziarsi con capitale proprio (risparmio, accantonamenti) e
l’indebitarsi, se le imposte sono più pesanti con un tipo di finanziamento rispetto all’altro;
g) nella scelta di uno status famigliare piuttosto che di un altro, se le imposte sulla famiglia sono
discriminanti;
h) per individui ed imprese: a scegliere un paese piuttosto che un altro per svolgere attività economiche
o incassare redditi (assenza di neutralità internazionale).
o La presenza di effetti di sostituzione è sintomo di perdite di benessere, nel senso che i
soggetti economici sono indotti a scelte diverse da quelle che ritenevano le migliori, in
assenza di imposta. Perciò la neutralità è assimilata all’efficienza (massimo benessere,
massimo di produzione, minimi costi, di produzione o psicologici).
o L’unica imposta che non permette al contribuente effetti di sostituzione perché non può
influire sul suo ammontare è l’imposta fissa, assai poco pratica.
o Perciò nei confronti tra le imposte, per decidere qual è la più efficiente, si vede quale
imposta minimizza le distorsioni e le perdite di benessere determinando un minor onere in
termini di sacrificio, a parità di gettito con altre.
Talora le imposte intenzionalmente sono non neutrali, in quanto vogliono creare distorsioni, per incentivare
o disincentivare una scelta o un comportamento. Gli incentivi si realizzano con esenzioni da alcune imposte
o con aliquote più basse per gli imponibili incentivati rispetto agli altri. I disincentivi si realizzano con
imposte speciali o con aliquote maggiorate rispetto ad altri imponibili.
Esempi di imposte incentivanti:
- si tassa il reddito risparmiato con aliquote più basse (o si esenta del tutto) rispetto al reddito speso,
per favorire l’accumulazione di risparmio;
- si tassa un bene di produzione interna di meno rispetto a beni importati, per favorire il consumo
interno di beni di produzione nazionale;
- si tassa con aliquote basse o si esenta un prodotto che viene esportato per favorire la competitività
sui mercati internazionali;
- si abbassano le aliquote di un’imposta indiretta su di una merce per favorirne il consumo;
- si riduce un’imposta sui profitti a condizione che l’impresa aumenti l’occupazione.
Esempi di imposte disincentivanti:
- si tassano le produzioni, le emissioni o i carburanti inquinanti per ridurre o eliminare gli effetti di
inquinamento e indurre a utilizzare diverse tecnologie e carburanti migliori (le c.d. imposte verdi, la
carbon tax sulle emissioni di CO2, ecc.).
- Si tassano i comportamenti che hanno effetti inflazionistici (ad es. profitti eccessivi delle imprese,
incrementi eccessivi dei redditi di lavoro, incrementi eccessivi dei prezzi di alcuni prodotti, ecc.:
eccessivi rispetto ad una media di incrementi di prezzi o di redditi o di profitti).
- Si tassano i trasferimenti nei mercati finanziari (ad es. le compravendite di titoli in borsa) per
rallentare la velocità dei trasferimenti e contenere i rischi di speculazione e di instabilità (ad es. la
Tobin tax).
- Si tassano di più alcuni consumi legalmente ammessi, ma ritenuti socialmente non meritevoli o
dannosi (tabacchi, alcoolici, giochi e scommesse).
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- Si tassano di più i profitti distribuiti dalle imprese rispetto ai profitti accantonati, con l’obiettivo di
favorire la capitalizzazione (i.e. un maggior capitale proprio) delle imprese.
Si utilizzava, già nel sec. XIX, il termine neutralità riferito all’intero bilancio pubblico ed
alla finanza pubblica, anziché solo alle imposte. Tale neutralità si sarebbe dovuta
realizzare in due modi:
- per dimensioni del bilancio pubblico, così ridotte da non influire praticamente su
produzione e distribuzione di mercato (neutralità per dimensione);
- per compensazione: gli effetti positivi della spesa compensano esattamente quelli
del prelievo: si trattava di un argomento anche a favore del bilancio in pareggio
(neutralità per compensazione).
Qualche altro principio delle imposte, già presente nella classificazione di Smith, viene pure richiamato.
Economicità
Le imposte devono essere scelte e strutturate secondo criteri di economicità, nel senso che devono quindi
minimizzare alcuni costi:
a) costi per il contribuente che paga l’imposta (adempimenti, assistenza, tempo perso);
b) costi per l’amministrazione che riscuote: costi burocratici nell’organizzare uffici, modalità di riscossione
e costi degli intermediari esattori, costi degli accertamenti e del contenzioso per contrastare l’evasione; questi
costi equivalgono ad una riduzione del gettito da destinare alla spesa pubblica;
c) costi per l’economia: effetti negativi quali aumenti di prezzi, riduzione di redditi e della produzione,
discriminazioni; si tratta, in gran parte, di costi connessi all’assenza di neutralità.
Certezza
L’imposta deve essere certa nella definizione normativa e nell’applicabilità delle norme riguardanti
l’imponibile, l’aliquota. La certezza nel gettito significa che l’imposta non deve presentarsi come strumento
al quale il contribuente possa facilmente sottrarsi, attraverso processi di evasione ed elusione. La certezza del
contribuente significa che il contribuente dovrebbe essere colui che effettivamente è individuato dalla norma
tributaria.
3. Le imposte personali sul reddito
3.1 Imposta sul reddito delle persone fisiche
Imposta sul reddito delle persone fisiche: il reddito
La definizione di reddito è stata piuttosto elaborata e complessa e, dalla fine del sec. XIX, ha sviluppato
concetti diversi.
Reddito prodotto: è il concetto di contabilità nazionale, che è stata sviluppata a partire dagli anni
’30 del sec. XX: èl’insieme di beni e servizi valutabili in moneta prodotti in un anno in un ambito
territoriale (nuova ricchezza). Non vi rientrano i trasferimenti (redditi prodotti da qualche soggetto e
trasferiti ad altri) né i plusvalori (v. infra).
Reddito entrata: è il consumo (C) di un anno sommato alla variazione di patrimonio dall’inizio alla
fine dell’anno (DK): quindi
Reddito entrata = C + DK che è uguale a Consumo + Risparmio + Plusvalori – Perdite patrimoniali).
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Il reddito entrata comprende sia il reddito prodotto, sia i trasferimenti che i plusvalori ed è il concetto
che le imposte sul reddito tengono presente in prevalenza.
Altre distinzioni riguardano:
o Reddito ordinario o normale: si usa per definire, in alcuni casi, il reddito presunto di
terreni, fabbricati, piccole imprese, quando è troppo costoso accertare per il singolo caso il
reddito effettivo. Il reddito ordinario è un reddito medio presunto, costruito a campione. Di
solito diverge dal reddito effettivo. Per il reddito ordinario si utilizza il catasto (dei terreni,
dei fabbricati) o si costruiscono delle imprese rappresentative di settori e categorie. Talvolta
è stato considerato come eventuale imponibile il reddito potenziale di un individuo o di
un’impresa, sulla base di capacità di produzione di reddito anche non sfruttate (abilità e
qualificazione personale, potenzialità produttiva, v. ad es. in Italia gli studi di settore). o Sovrareddito: è la differenza di un reddito effettivo rispetto ad un reddito medio. Ad es. il
sovrapprofitto è l’eccesso di reddito sul rendimento normale del capitale investito.
o Plusvalore o incremento di valore patrimoniale (plusvalenza, per le società di capitali): è
l’incremento di valore di un cespite (un capitale immobiliare o finanziario) al quale non
corrisponde produzione di nuova ricchezza. Ad es. un fabbricato (o un titolo di credito),
acquistato a 100, dopo qualche tempo può essere rivenduto a 150. La differenza (50), se non
dipende soltanto da un incremento del livello generale dei prezzi, contiene un plusvalore.
Nel caso di un decremento o perdita di valore di un cespite si è in presenza di minusvalore (o di
minusvalenza per le società di capitali).
Si rinvia ad un ‘classico’ sulla tassazione personale: H. Simons: Personal income taxation (1920)
La progressività
Definizione di proporzionalità, progressività, regressività.
Imposta proporzionale: è un’imposta con aliquota costante: quando l’imponibile aumenta o
diminuisce, l’aliquota rimane costante.
Imposta progressiva: è un’imposta con aliquota crescente: quando l’imponibile cresce, l’aliquota
aumenta.
Imposta regressiva: è un’imposta con aliquota decrescente: quando l’imponibile cresce, l’aliquota
diminuisce.
Imponibile imposta proporzionale imposta progressiva imposta regressiva
R T T/R = t T T/R = t T T/R = t
100 10 10/100 = 10% 5 5/100 = 5% 20 20/100 = 20%
200 20 20/200 = 10% 20 20/200 = 10% 30 30/200 = 15%
400 40 40/400 = 10% 60 60/400 = 15% 40 40/400 = 10%
Si distingue tra:
Aliquota media: è il rapporto tra l’imposta T e l’imponibile R: T/R.
Aliquota marginale: è il rapporto tra una variazione di imposta (Δ e la corrispondente variazione
di imponibile (ΔR).
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- le variazioni di R (ΔR) sono da 100 a 200 (ΔR ΔR=200)
- per le imposte:
per l’imposta proporzionale le variazioni sono da 10 a 20 (ΔT = 10) e da 20 a 40 (ΔT = 20).
Nel passaggio da 100 a 200 si ha:
ΔT = 10 = 10% e nel passaggio da 200 a 400 ΔT = 20 = 10%
ΔR 100 ΔR 200
per l’imposta progressiva le variazioni sono da 5 a 20 (ΔT = 15) e da 20 a 60 (ΔT = 40).
Nel passaggio da 100 a 200 si ha:
ΔT = 15 = 15% e nel passaggio da 200 a 400 ΔT = 40 = 20%
ΔR 100 ΔR 200
per l’imposta regressiva le variazioni sono da 20 a 30 (ΔT= 10) e da 30 a 40 (ΔT = 10).
Nel passaggio da 100 a 200 si ha:
ΔT = 10 = 10% e nel passaggio da 200 a 400 ΔT = 10 = 5%
ΔR 100 ΔR 200
Elasticità dell’imposta
Si definisce elasticità dell’imposta:
il rapporto tra la variazione dell’imposta e la variazione dell’imponibile:
Δ (ΔR/R)
che si può esprimere anche come il rapporto tra aliquota marginale e aliquota media:
(ΔT/ΔR)/(T/R)
Dall’esempio precedente si conclude che:
- l’elasticità è uguale ad 1 con imposta proporzionale
- è maggiore di 1 con imposta progressiva
- è minore di 1 con imposta regressiva.
Oltre all’elasticità dell’imposta esistono diverse misure di progressività/proporzionalità/regressività,
che esprimono relazioni matematiche tra imponibili ed imposte.
Sia R l’imponibile e T l’imposta; si prendono due imponibili, R0 ed R1 ai quali corrispondono due
imposte, T0 e T1 e sia T/R = ta e tm = ΔT/ΔR = tm . Si hanno, così, alcune misure:
1. progressività dell’aliquota media ta nel passaggio da un imponibile R0 ad un imponibile maggiore
R1: (ta1 – ta0)/(R1 – R0) = Δta/ ΔR: misura la variazione dell’aliquota media ed è uguale a 0 per
l’imposta proporzionale, > 0 (positiva) quando l’imposta è progressiva, < 0 (negativa) quando
l’imposta è regressiva;
2. progressività dell’aliquota marginale tm nel passaggio da un imponibile R0 ad un imponibile
maggiore R1: (tm1 – tm0)/(R1 - R0) = Δtm/ΔR: misura la variazione dell’aliquota marginale ed è
uguale a 0 per l’imposta proporzionale, > 0 (positiva) quando l’imposta è progressiva, < 0 (negativa)
quando l’imposta è regressiva;
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3. progressività dell’imponibile residuo: è il rapporto tra la variazione percentuale dell’imponibile
dopo l’imposta e la variazione percentuale dell’imponibile prima dell’imposta: [(R1 – T1) – (R0 –
T0)]/(R0 - T0) / [(R1 - R0)/R0] : è uguale ad 1 per un’imposta proporzionale, minore di 1 per l’imposta
progressiva, maggiore di 1 per un’imposta regressiva;
4. elasticità ponderata dell’imposta: è il rapporto tra l’aliquota marginale (tm) divisa per il suo
complemento ad 1 (1 – tm) e l’aliquota media (ta) divisa per il suo complemento ad 1 (1 - ta):
[tm/(1– tm)]/[ta/(1 - ta)] = (tm/ta)/[(1 – ta)/(1 – tm)]: è uguale ad 1 per l’imposta proporzionale, > 1 per
quella progressiva, < 1 per quella proporzionale.
Ragioni della progressività
La necessità di un’imposta progressiva è stata sostenuta, nel tempo, con diverse motivazioni.
- Giustizia e redistribuzione: se si ritiene che i mercati privati, nella produzione e nella distribuzione
dei redditi, non operino secondo criteri di giustizia (valutati da un punto di vista politico), si può
pensare di poter correggere tale distribuzione anche con un’imposta progressiva. L’idea della
progressività a fini redistributivi è relativamente più recente di altre giustificazioni e si può far
risalire alla discussione, nella rivoluzione francese, sulla costituzionalizzazione dell’imposta
progressiva, come avvenne poi con l’art. 53 della Costituzione italiana; come principio
‘rivoluzionario’ risale almeno a Marx-Engels nel Manifesto (1848).
- L’utilità ed il principio del sacrificio: nel finanziare una spesa pubblica è corretto prelevare risorse
là dove si impongono sacrifici minori. Ne consegue che è corretto tassare più che proporzionalmente
i redditi più elevati, in modo che il sacrificio aggregato sia minimo. 100 euro sottratte ad un
contribuente povero rappresentano un grosso sacrificio, mentre 100 euro sottratte ad un contribuente
ricco comportano un sacrificio molto inferiore. Se necessita una somma per finanziare una spesa
pubblica bisogna cominciare a tassare i redditi più elevati e poi scendere a tassare via via quelli
inferiori: così si realizza un sacrificio minimo per la collettività.
- La compensazione: è un’idea che risale al sec. XVIII: dato che le imposte sui consumi sono
regressive rispetto al reddito, per compensare questo difetto è necessaria un’imposta progressiva sul
reddito. Così l’insieme delle imposte, dirette e indirette, potrebbe essere almeno proporzionale.
- Il surplus o sovrareddito: un reddito di lavoro, o di capitale, corrisponde ad un rendimento normale
delle ore lavorate o dell’ammontare di capitale e questo reddito va tassato con una certa aliquota. Se
il rendimento è maggiore (ad es. del 6% rispetto ad una ‘normalità’ del 4%) la differenza (del 2%) va
tassata con aliquota superiore, in quanto corrisponde a situazioni di privilegio (di rendita, di
monopolio). Quindi il reddito di lavoro, ad esempio, si trasforma in un reddito diverso, il reddito di
capitale si trasforma in eccesso di profitto o in una forma di surplus.
Sulla progressività si trovano diverse opere classiche, da Jollivet (1795) a Mazzola
(1895), a Masé Dari (1897) a Seligman (1894).
Storicamente sono stati individuati diversi casi, alcuni alquanto dubbi, di imposte
progressive; un esempio è quello della ‘decima scalata’ a Firenze nel 1499.
Tecniche di applicazione dell’imposta progressiva
a) Progressività per deduzione/detrazione
E’ la forma più antica di progressività, che si fa risalire a Bentham (1838). Si tratta di un’imposta
proporzionale corretta. Prima di applicare l’aliquota t ogni reddito R viene diminuito di un importo
fisso D. L’imposta è
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T = t(R –D). La formula può essere riscritta come T = tR – tD. L’importo può essere sottratto
da R (ed allora si definisce deduzione D) o da T (ed allora si definisce detrazione tD). Nel primo
caso si ha un’imposta progressiva per deduzione, nell’altro un’imposta progressiva per detrazione.
Esempio di imposta progressiva per deduzione con D = 100 e t = 50%
R R-D t(R-D) t(R-D)/R
150 50 25 25/150 = 16, %
200 100 50 50/200 = 25%
400 300 150 150/400 = 37, %
Si vede come diventa crescente il rapporto tra imposta ed R.
E’una progressività ad aliquota marginale unica (c.d. flat rate).
LLL ’’’IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA PPPRRROOOGGGRRREEESSSSSSIIIVVVAAA PPPEEERRR DDDEEEDDDUUUZZZIIIOOONNNEEE AAA BBB
PPPRRROOOGGGRRREEESSSSSSIIIVVVIIITTTAAA ’’’ PPPEEERRR DDDEEEDDDUUUZZZIIIOOONNNEEE::: AAALLLIIIQQQUUUOOOTTTEEE MMMEEEDDDIIIEEE/// MMMAAARRRGGGIIINNNAAALLLIII AAA BBB
La Flat Tax dagli anni ’90 ha avuto diffusione continua nei
paesi dell’Europa dell’est, con aliquote uniche dal 12% al 26%.
b) Progressività per classi
Gli imponibili sono ripartiti in classi. A ciascuna classe corrisponde un’aliquota proporzionale
diversa. Esempio:
Classe Redditi Aliquota
I da 0 a 100 10%
II da 0 a 200 12%
III da 0 a 400 15%
Un reddito di 80 appartiene alla classe I (tassato al 10%); un reddito di 160 alla classe II (tassato al
12%); un reddito di 340 alla classe III (tassato al 15%).
In Italia l’imposta sul valore locativo era, fino al 1974, un’imposta comunale
diretta, progressiva per classi: 5 classi con aliquote del 5%, 6%, 7%, 8%, 9%.
Colpiva il valore locativo di un’immobile, calcolato in base al canone di
locazione reale o presunto. Era previsto un valore minimo imponibile, aumentato
in funzione delle dimensioni della famiglia, e con detrazioni percentuali in base
al numero dei figli a carico. Si trattava di un’imposta progressiva per classi dove,
in ogni classe, erano introdotti elementi di personalizzazione (deduzioni a
carattere famigliare).
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c) Progressività per scaglioni
Il reddito viene ripartito in scaglioni. Ogni scaglione ha una sua aliquota marginale tm.
Esempio, con 3 scaglioni ed un imponibile di 500:
Scaglioni tm R=500 tmR
I da 0 a 100 5% 100 + 5 +
II da 101 a 300 10% 200 + 20 +
III da 301 a 600 15% 200 = 30 =
500 55
L’imposta totale si ottiene sommando le imposte calcolate in ogni scaglione: 5+20+30 = 55; l’aliquota
media sul reddito di 500 è data da 55/500 = 11%.
La progressività per scaglioni è la più comune. Anni addietro gli scaglioni, nei vari paesi, erano molto
numerosi (anche una trentina), poi si sono ridotti a 3-5.
Vi può essere uno scaglione iniziale, di dimensioni variabili in funzione delle caratteristiche del
contribuente, con aliquota 0%: il reddito compreso in questo scaglione non è tassato.
La progressività, riducendo il numero di scaglioni, può essere rafforzata utilizzando un livello di
deduzione decrescente rispetto all’imponibile, fino a raggiungere una struttura di imposta progressiva
per deduzione con:
- aliquota marginale fissa (flat rate);
- deduzione decrescente.
In pratica, anziché far crescere le aliquote marginali (con gli scaglioni) al crescere dell’imponibile, si fa
diminuire la deduzione all’aumentare del reddito.
L’irpef, introdotta in Italia nel 1974, nel corso degli anni ha avuto
diverse variazioni sia nel numero di scaglioni che nel livello delle
aliquote: uno schema semplificato è il seguente:
ANNI 1974 1983 1989 2010
Numero degli scaglioni 32 9 7 5
Aliquota minima 10% 18% 10% 23%
Aliquota massima 82% 65% 50% 43%
d) Progressività continua
L’imposta è calcolata con una formula. Per ogni minima variazioni di imponibile si ha un incremento
dell’aliquota marginale.
Una formula generale di imposta progressiva continua è del tipo T = aRb
, dove R è l’imponibile, a
un valore inferiore ad 1, b un valore maggiore di 1 (è l’elasticità dell’imposta). a aveva, in Italia, un
valore intorno al 2% e b era di 1,5%. Si definisce continua perché la progressività varia continuamente:
ad ogni minimo incremento del reddito imponibile c’è un incremento continuo dell’aliquota marginale.
Un’imposta progressiva continua è stata utilizzata in Italia: si trattava dell’ imposta
complementare progressiva sul reddito, imposta personale istituita, a partire dal 1925
(rd 3062 del 30.12.1923) sul reddito complessivo, con deduzioni, una fissa (lire 240
69
mila) ed altre per carichi di famiglia. L’imposta è stata soppressa dal 1974 e sostituita
dall’Irpef.
La formula per il calcolo dell’aliquota media t da applicare sul reddito R era la
seguente:
t = 0,023 √(R - 0,0000472R) + 0,00874 per R fino a 5 milioni.
t = 0,06 +0,027√(R – 5) per R oltre i 5 milioni. Le aliquote andavano dal 2% al 65%.
Gli scaglioni dell’IRPEF nel 1974 erano stati costruiti con riferimento alla struttura,
semplificata, dell’imposta complementare, secondo una funzione T = aRb , dove a era
un coefficiente pari a 0,02 e b era l’elasticità dell’imposta, predeterminata costante a
1,5.
LLL ’’’IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA PPPRRROOOGGGRRREEESSSSSSIIIVVVAAA CCCOOONNNTTTIIINNNUUUAAA AAA BBB
Struttura dell’imposta progressiva
L’imposta progressiva, nel tempo ed in diversi paesi, ha strutture molto differenziate. Le sue caratteristiche,
oltre alla scala di aliquote marginali ed al numero di scaglioni, comprendono:
1. Minimo imponibile: è un livello di reddito minimo non tassabile. Il minimo imponibile può
essere individuale o famigliare: se è famigliare tiene conto delle esigenze di un nucleo
(coniuge, figli, altri famigliari a carico, con deduzioni/detrazioni per carichi di famiglia).
2. Detrazioni e deduzioni: sono deducibili o detraibili alcuni tipi di spese:
a) le spese di produzione del reddito: gli oneri sostenuti per costi di trasporto, canoni;
b) spese sanitarie, spese di istruzione;
c) spese di gestione famigliare (ad es. assistenza domestica) e spese dovute ad eventi
negativi;
d) altre imposte sul reddito, applicabili a livello locale;
e) spese per interessi su mutui, per assicurazioni, previdenza e sanità integrative;
f) spese incentivate: donazioni, contributi di carattere culturale, religioso.
g) Possono esistere deduzioni o detrazioni speciali, ad es. per il reddito di lavoro dipendente o
di pensione.
Alcune deduzioni sono di carattere analitico (l’importo deve essere documentato, di solito fino
ad un massimo), altre di carattere forfetario (l’importo è fisso e non richiede documentazione);
le detrazioni sono di importo forfetario, fisso o decrescente al crescere del reddito.
La deducibilità può essere realizzata:
- sottraendo dal reddito complessivo lordo gli oneri e poi applicando l’imposta sull’imponibile
ricavato per differenza;
- tassando prima il reddito lordo (e calcolando un’imposta lorda TL), poi calcolando un’imposta sugli
importi degli oneri deducibili (con l’aliquota del primo scaglione o con un’aliquota distinta e
ricavando TD), quindi calcolando l’imposta netta TL-TD; in questo modo si combinano deduzioni
e detrazioni.
La progressività, oltre che come struttura dell’imposta, può essere considerata per i suoi effetti sulla
concentrazione degli imponibili (redditi, patrimoni). L’insieme delle imposte (il sistema tributario) può
essere valutato come progressivo, regressivo o proporzionale in base a questi effetti, come già visti con
l’indice di concentrazione.
70
Redditi fluttuanti
Alcuni redditi sono discontinui nei singoli anni , ma sono uguali alla fine di un periodo
(ad es. di 3 anni).
Anno 1 Anno 2 Anno 3 Totale
300 300 300 900
400 0 500 900
0 900 0 900
Con imposta proporzionale del 10% (aliquota media costante)
Anno 1 Anno 2 Anno 3 Totale
30 30 30 90
40 0 50 90
0 900 0 90
Con imposta progressiva, ad aliquote medie crescenti:
Reddito t
300 10%
400 12%
500 15%
900 20%
le imposte sono:
Anno 1 Anno 2 Anno 3 Totale
30 30 30 90
48 0 75 123
0 180 0 180
Prendiamo un reddito che a fine periodo sia di 900 e risulti dalla somma di redditi
annuali fluttuanti:
Anno Reddito Aliquota media Imposta
1 300 15% 45
2 100 10% 10
3 500 20% 100
Tot 900 Tot 155
Si usano diversi metodi per correggere le sperequazioni.
Media aritmetica semplice. E’ un metodo che si applica ad intervalli di più anni. Ogni
anno si applica l’aliquota propria del reddito dell’anno. Alla fine di un periodo
predeterminato (nell’esempio, un triennio) si sommano i redditi annuali e si divide il
totale per il numero degli anni (3): 900/3 = 300, che è il reddito medio annuo del
triennio. L’aliquota media su 300 è 15%, che si applica su 900. 15%900 = 135. Poiché
nel triennio si è pagato 155 il contribuente ha diritto ad un rimborso di 20 (= 155-135).
Media mobile. Si applica ogni anno, con riferimento al reddito dell’anno ed ai redditi dei
due anni precedenti, sempre se il periodo di riferimento è il triennio, come nell’esempio
precedente. Sul reddito di 500 si applica l’aliquota corrispondente al reddito medio del
triennio, 900/3 = 300. L’aliquota media propria di 300 si applica su 500 e sul reddito del
terzo anno si paga 75 anziché 100. Quindi prima di pagare l’imposta sul reddito
dell’ultimo anno si calcola la media degli imponibili dei tre anni. Non c’è necessità di
rimborsi.
71
Media mobile per tasso effettivo. Come la media mobile si applica ogni anno per
calcolare l’imposta sul reddito dell’ultimo anno. Si sommano le imposte pagate nei due
anni precedenti (45+10) e l’imposta che si dovrebbe pagare nel terzo anno (100), ma che
non va pagata in tale ammontare. La somma delle imposte (45+10+100=155) è divisa per
i redditi del triennio. 155/900 =17,2% dà l’aliquota media effettiva, da applicare a 500, il
reddito del terzo anno. 17,2%500 = 86, che è l’imposta da pagare nel terzo anno, anziché
100.
Media cumulativa. E’ un’articolazione della media aritmetica. Si sommano i redditi degli anni e
si includono in scaglioni pluriennali.
Esempio.
Scaglioni annuali Scaglioni triennali Aliquote
da 0 a 100 da 0 a 300 10%
da 101 a 300 da 301 a 900 15%
da 301 a 600 da 901 a 1800 20%
Gli scaglioni possono essere estesi fino a comprendere tutto il reddito conseguito nella vita del
contribuente (lifetime income): i limiti degli scaglioni dovrebbero essere moltiplicati, rispetto a
quelli annuali, per il numero di anni che si considerano e che variano in funzione della durata del
periodo nel quale si conseguono redditi. Gli scaglioni annuali servirebbero a calcolare acconti di
imposta, e poi andrebbero corretti con quelli pluriennali e le imposte periodicamente aggiustate:
redditi ed imposte, data la distribuzione temporale, andrebbero corrette con tassi di interesse.
Nell’esempio, un reddito di 900 nel triennio andrebbe sempre tassato, come con la media
semplice, al 15%, indipendentemente dal fatto che risulti dalla somma di tre redditi annuali di
300, o da due redditi annuali di 450 o da un unico reddito annuale di 900.
L’unità impositiva: la tassazione del reddito famigliare
Il contribuente dell’imposta sul reddito delle persone fisiche può essere:
- l’individuo: si tengono in conto principalmente le caratteristiche individuali e si ammettono detrazioni e
deduzioni per caratteristiche famigliari solo in quanto queste possono influire sulla dimensione del reddito
individuale (spese per persone a carico, coniuge e figli, individuate da vincoli famigliari); nel caso della
famiglia civilistica, si procede alla tassazione separata del reddito dei coniugi.
- La famiglia: intesa, in senso stretto, come famiglia civilistica o, in senso più ampio, come unità di
convivenza (focus). L’imponibile è il reddito famigliare, al quale contribuiscono tutti i componenti della
famiglia. Per la tassazione del reddito famigliare si possono seguire diversi metodi:
a) il cumulo dei redditi: si sommano i redditi e si tassano come se fossero un reddito unico: questo
sistema è fondato sull’idea che il matrimonio e la permanenza in un’unità di convivenza
generino un maggior reddito per la presenza di economie interne che permettono di risparmiare
con l’uso di beni e servizi comuni e per i redditi derivanti da reciproca assistenza. Da altro
punto di vista il cumulo è stato considerato un disincentivo al matrimonio o un ingiustificato
aggravio tributario sul reddito di uno o più dei soggetti conviventi.
b) Lo splitting (metodo tedesco-americano): prevede la possibilità prima di sommare i redditi dei
coniugi (famiglia civilistica), poi di suddividere a metà la somma, quindi l’applicazione delle
aliquote proprie di questa metà del reddito. Il metodo punta ad abbassa le aliquote sul reddito
famigliare e si fonda sull’idea di una comunione (comproprietà al 50%) dei redditi tra i coniugi,
indipendentemente da chi li guadagna. Introdotto in seguito a sentenza della Corte
Costituzionale tedesca nel 1968. La scala di aliquote progressive per lo splitting di solito
è distinta da quella per la tassazione dei redditi separati. Talvolta lo splitting è stato
considerato metodo alternativo rispetto alla tassazione separata, in base alla convenienza
dei contribuenti, che hanno opzione tra diversi metodi.
72
c) Il quoziente familiare (metodo francese): mira ad abbassare le aliquote in funzione del numero
dei componenti di una famiglia, e quindi a premiare/ incentivare le famiglie numerose. Prima si
sommano tutti i redditi dei componenti ((coniugi, figli, ascendenti diretti dei coniugi, ed
eventualmente altri parenti conviventi), poi la somma si divide per il numero (corretto) dei
componenti (inclusi quelli che non hanno reddito) e si determina l’aliquota da applicare a tutto il
reddito famigliare. Il reddito Un sistema più antico attribuiva lo stesso valore di 1 a
ciascun componente. La somma, Rn, corretta per le deduzioni famigliari, si divideva per
il numero dei componenti (n) maggiorato di un numero fisso (2 o 3) e si otteneva un
reddito medio famigliare Rm
in base al quale si individuava l’aliquota media t, da
applicare poi sull’intero reddito famigliare. Così, a parità di reddito famigliare, l’aliquota
è inversamente collegata al numero dei componenti.
Con una formula, se n sono i componenti si ha ΣRn
= Rm
T = tRm
n
2+n
In una modalità più recente del quoziente famigliare francese la somma dei redditi si divide
in quote, sulla base ad un numero divisore, parametrato alla composizione della famiglia,
dopo le deduzioni dei carichi di famiglia. Si sommano i redditi famigliari e si dividono per il
numero divisore proprio della famiglia. L’imponibile risultante è tassato con l’imposta
progressiva e poi l’imposta si moltiplica per il numero delle parti (componenti corretti con
numeri divisori). Si consideri una famiglia con figli a carico. Ciascuno dei coniugi è posto
pari ad 1, ogni figlio è pari a 0,5. La persona singola, se ha figli, è assimilata alla coppia di
coniugi. I numeri divisori sono determinati come segue:
Composizione della famiglia Numero divisore
Persona singola, divorziata, vedova, senza persone a
carico
1
Persona singola o divorziata con un figlio a carico 1,5
Coniugi senza figli a carico
Persona singola o divorziata con 2 figli a carico
2
Coniugi o vedova/o con un figlio a carico 2,5
Coniugi o vedova/o con 2 figli a carico
Persona singola o divorziata con 3 figli a carico
3
Coniugi o vedova/o con 3 figli a carico
Persona singola o divorziata con 4 figli a carico
4
Il metodo francese nuovo (dal 2003) si può vedere nel Code General des impots artt. 193-
194
____
Famiglia monoreddito e bireddito.
Due famiglie, 1 e 2, con reddito complessivo uguale di 400 hanno il reddito suddiviso in
modo differente tra i due coniugi (A e B per la famiglia 1, C e D per la famiglia 2). L’aliquota
media dell’imposta progressiva sia del 10% su 200 e del 15% su 400. Si ha quindi
Famiglia 1 2
Coniugi A B C D
Redditi 200 200 0 400
Imposta 20 20 0 60
Si ha una discriminazione in quanto lo stesso reddito complessivo famigliare è tassato di più
nella famiglia con il reddito concentrato in uno solo dei componenti. Le soluzioni possono
essere:
73
a) cumulo totale: la prima famiglia è tassata su 400 (200+200) ed entrambe le
famiglie pagano 60 (la famiglia 1 paga 60 come la famiglia 2);
b) splitting: il reddito delle due famiglie è diviso a metà ed entrambe pagano
l’aliquota corrispondente a 200 (la famiglia 2 paga 20 come la famiglia 1).
Per definire il reddito a livello familiare, e rilevarne la differenza rispetto al reddito individuale, si può
ricorrere anche alla definizione di reddito familiare equivalente. E’ un reddito corretto in base alle
dimensioni, alle caratteristiche del nucleo familiare ed alla disponibilità di patrimoni. Permette di confrontare
unità familiari di diversa ampiezza e composizione demografica. Considera l’esistenza di economie di scala
collegate alla dimensione della famiglia. Sono previsti pesi diversi in base al numero ed all’età dei
componenti (ad es. il capofamiglia vale 1, i componenti con più di 14 anni valgono 0,5, quelli con meno di
14 anni 0,3).
Una definizione più complessa di capacità contributiva famigliare intesa come potere economico
discrezionale a livello di famiglia indica la capacità della famiglia nel suo complesso di acquistare beni e
servizi dopo aver soddisfatto le necessità dei componenti. Il potere economico discrezionale è stato definito
su base annuale come risultante dalla differenza A – B, dove A è il potere che ha la famiglia di disporre di
beni e servizi per gli usi personali dei componenti, mentre B è il potere economico necessario per mantenere
la famiglia ad un tenore di vita appropriato in relazione alle altre famiglie (in pratica un minimo imponibile
famigliare). A include:
1. i consumi della famiglia (valore di beni e servizi consumati in un anno);
2. le donazioni effettuate verso altre famiglie (i patrimoni ed i redditi usciti dall’ambito famigliare);
3. la variazione delle attività nette della famiglia (risparmio, variazioni di patrimonio per donazioni ed
eredità ricevute, incrementi di valore patrimoniale).
Il flusso di ricchezza annuale della famiglia si ottiene sommando ai redditi tutti gli incrementi di
patrimonio. Eredità e donazioni ricevute sono tassate come reddito, mentre sono esenti da imposta le eredità
e le donazioni all’interno della famiglia, in quanto non modificano il potere economico discrezionale della
famiglia stessa.. Sono tassati come reddito i trasferimenti da componenti della famiglia a soggetti all’esterno
della famiglia.
Indicizzazione dell’imposta progressiva
L’inflazione ha effetti distorsivi sulla progressività. Un reddito di 100 è tassato con aliquota
media di 10%, l’imposta è 10 ed il reddito netto 90 (100 – 10); se ci fosse un’inflazione del
100% ed il reddito raddoppiasse a 200 il suo valore reale resterebbe immutato, pur
raddoppiando il valore monetario, ma l’aliquota media crescerebbe, ad es. al 15%: l’imposta
sarebbe di 30, il redito netto di 170 (200-30), il reddito netto reale di 85 (170/2). Si definisce
drenaggio fiscale (fiscal drag) l’aumento più che proporzionale dell’imposta dovuto
all’aumento nominale dell’imponibile in presenza di inflazione. Nell’esempio è dovuto alla
variazione di aliquota media dal 10% al 15%.
Per correggere le distorsioni d’imposta dovute alla progressività il metodo più semplice è
quello di indicizzare dei limiti degli scaglioni, delle deduzioni e delle detrazioni.
Esempio. Indicizzazione dei limiti degli scaglioni, con un tasso d’inflazione δ:
Scaglioni di reddito
imponibile
Scaglioni indicizzati
δ=10% aliquote
0 - 100 0 - 110 10%
101 - 300 111 - 330 15%
301 - 500 331 - 550 20%
Un altro metodo è quello di procedere in due fasi, lasciando invariata la struttura dell’imposta:
- nell’anno A1 si deflazionano gli imponibili in base al tasso d’inflazione δ rispetto
all’anno precedente A0 e si calcola l’imposta T;
74
- la stessa imposta T è aumentata del tasso d’inflazione δ e diventa T(1+ δ).
Con un’imposta progressiva continua dove T = a(R-D)b
– d, se δ è il tasso d’inflazione da A0
ad A1 i due metodi di indicizzazione sono, rispettivamente:
1. a[R(1-δ)-D(1+δ)]b- d(1+δ) : si indicizzano D e d; l’imponibile è ridotto del tasso
d’inflazione δ.
2. {a[R/(1+δ)-D]b- d}(1+ δ) : si deflaziona R per (1+ δ) e si calcola l’imposta,
riportando imponibile ed imposta da A1 ad A
0. Successivamente è
indicizzata l’imposta, riportata ad A1.
Reddito guadagnato o reddito speso: la doppia imposizione del risparmio
La tassazione del reddito può dar rilievo al momento in cui il reddito viene guadagnato (incassato,
percepito) da un percettore persona fisica o il momento in cui viene speso. Le conseguenze, sul piano
dell’equità, sono diverse.
Esempio. Tizio e Caio, due contribuenti guadagnano, nello stesso anno, un reddito R. Tizio spende tutto e
Caio risparmia tutto. Vi sia un’imposta su R di aliquota t applicata sul reddito guadagnato. Al momento
dell’incasso del reddito questo viene tassato e la situazione dei due individui è uguale. Abbiamo:
Reddito netto di Tizio Reddito netto di Caio
R(1 - t) R(1 - t)
Imposta pagata da Tizio Imposta pagata da Caio
tR tR
Ora supponiamo che Tizio spenda subito tutto il suo reddito netto. Caio, invece, preferisce risparmiare tutto
R(1- t), percepire un interesse annuo a tasso r e spendere ogni anno l’interesse sul risparmio, pari a
rR(1- t).
Tizio non paga altre imposte oltre a tR. Caio invece ogni anno dovrà pagare un’imposta, sempre di aliquota
t, sull’interesse rR(1 - t), che rappresenta nuovo reddito guadagnato. Quindi ogni anno futuro pagherà
tR(1- t). Quest’imposta può essere capitalizzata e corrisponde a trR(1-t)/r = tR(1- t).
Confrontando nel tempo la situazione di Tizio e Caio vediamo che si è stabilita una discriminazione:
Totale imposte pagate da Tizio Totale imposte pagate da Caio
tR tR + trR(1 - t)/r
Caio, il risparmiatore, viene a pagare imposte due volte, una volta per il reddito guadagnato R e poi per gli
interessi. Si conclude che un’imposta sul reddito guadagnato discrimina contro il risparmio ed incentiva il
consumo del reddito.
Per eliminare questa discriminazione e per rendere l’imposta neutrale sulla scelta tra consumo e risparmio
si sono suggerite alcune soluzioni.
Oltre a quella di mantenere la tassazione del reddito guadagnato, ma esentando gli interessi, si è formulata
la proposta di tassare il reddito al momento in cui viene speso.
Vediamo cosa succede a Tizio ed a Caio con la tassazione di R con aliquota t, spostando il momento della
tassazione.
Tizio consegue un Reddito R che spende tutto: è tassato al momento della spesa ed il suo reddito diventa
R(1 - t) e paga di imposta tR.
Caio ha lo stesso reddito R di Tizio. Non spende nulla nel primo anno e quindi R non viene tassato.
Nell’anno successivo consegue un interesse di rR che decide di spendere e che viene tassato: quindi spende
rR(1 - t) e paga di imposta trR. Se negli anni futuri Caio decide di spendere i frutti annuali (rR)
75
lasciando invariato l’R iniziale vi sarà un flusso di imposte annuali sul reddito di capitale speso, flusso che,
attualizzato, darà trR/r = tR, che è uguale all’imposta pagata da Caio interamente nel primo anno.
L’imposta così è neutrale, perché non influisce sulle decisioni individuali di risparmio e di consumo.
Esempio numerico (sulla base di formulazioni di L. Einaudi e I.
Fisher).
Tizio e Caio guadagnano entrambi un reddito di 100.000. Tizio spende
tutto il suo reddito, Caio risparmia l’intero reddito e, negli anni a
venire, spende i frutti del risparmio (gli interessi al tasso del 5%),
lasciando invariato il capitale. Sia t=10%.
a) Imposta sul reddito guadagnato:
Reddito R Tizio Caio
R guadagnato 100.000 100.000
tR su
R guadagnato RG 10.000 10.000
RG(1-t) 90.000 90.000
RG(1-t) = R speso RS 90.000 0
rRG(1-t) 4500
trRG(1-t) 450
[trR(1-t)/r]
imposta capitalizzata
9000
(450/5%)
b) Imposta sul reddito speso:
Reddito R Tizio Caio
R guadagnato 100.000 100.000
R speso RS 100.000 0
tRS 10.000 0
RS(1-t) 90.000 0
rR 0 5000
trR 500
(trR)/r
imposta capitalizzata
10. 000
(500/5%)
Le indicazioni sull’esenzione del risparmio sono rafforzate da considerazioni, che risalgono a J.S. Mill,
sulla necessità di esentare il risparmio derivante dal reddito di lavoro. Confrontando due redditi di
ammontare uguale, uno di capitale ed uno di lavoro, si constata che uno dei due ha una durata limitata nel
tempo (quello di lavoro), mentre l’altro ha durata indefinita (è tendenzialmente ‘perpetuo’) Per eguagliare i
due redditi bisognerebbe permettere a chi percepisce il reddito di lavoro di accantonare risparmio durante la
vita attiva, così che, cessato di produrre reddito di lavoro, si sarà accumulato un capitale, attraverso il
risparmio, che dia un rendimento pari all’altro reddito, pure di capitale. Tale risparmio del lavoratore non
andrebbe tassato, proprio in vista della costituzione di un capitale. Successivamente sarà tassato il reddito del
capitale proveniente dal reddito di lavoro risparmiato.
La rimozione e l’ammortamento dell’imposta
La rimozione è l’effetto di un’imposta sul reddito di lavoro rispetto all’offerta individuale di lavoro. Se il
reddito di lavoro dipende direttamente dall’offerta individuale di lavoro (più lavoro uguale più reddito, meno
lavoro uguale meno reddito), una simile imposta può:
76
a) avere un effetto incentivante e far aumentare l’offerta di lavoro ed il tempo di lavoro di un soggetto
(rimozione positiva), in modo che il contribuente-lavoratore produce un reddito lordo più elevato in
reazione all’imposta. Il suo reddito netto può risultare, dopo la rimozione, maggiore, minore o
uguale al reddito iniziale in assenza dell’imposta.
b) Produrre un effetto disincentivante e far diminuire l’offerta di lavoro ed il tempo di lavoro
(rimozione negativa), così che il contribuente produce un reddito lordo inferiore a quello di partenza
e rimane con un reddito netto inferiore.
c) L’imposta potrebbe anche non avere effetti sull’offerta individuale di lavoro (assenza di rimozione).
In questo caso il contribuente avrà un reddito lordo invariato rispetto a quello prodotto in assenza
d’imposta ed un reddito netto inferiore a quello di partenza.
La rimozione ha diversi effetti a seconda che si tratti di imposta fissa, proporzionale o progressiva. Mettendo
a confronto queste imposte (a parità di sacrificio o a parità di gettito) si conclude che:
d. l’imposta fissa ha effetto incentivante al lavoro, più di un’imposta proporzionale;
e. l’imposta proporzionale e l’imposta progressiva possono determinare sia una rimozione
negativa che una rimozione positiva;
f. l’imposta progressiva ha effetti più disincentivanti di quella proporzionale.
RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE CCCOOONNN IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA FFFIIISSSSSSAAA AAA BBB
RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE CCCOOONNN IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA PPPRRROOOPPPOOORRRZZZIIIOOONNNAAALLLEEE AAA BBB
RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE CCCOOONNN IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA PPPRRROOOGGGRRREEESSSSSSIIIVVVAAA AAA BBB
LLLAAA ‘‘‘CCCUUURRRVVVAAA DDDIII LLLAAAFFFFFFEEERRR AAA BBB
CCCUUURRRVVVAAA DDDIII LLLAAAFFFFFFEEERRR EEE RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE AAA BBB
OOOFFFFFFEEERRRTTTAAA IIINNNDDDIIIVVVIIIDDDUUUAAALLLEEE DDDIII LLLAAAVVVOOORRROOO EEE RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE AAA BBB
Un’imposta ottima sul reddito di lavoro è definita quella che minimizza l’effetto di disincentivo al lavoro e
la rimozione negativa. Un’idea che ha trovato rare applicazioni è quella dell’imposta degressiva,; in pratica,
si dovrebbero far salire le aliquote (medie e marginali) fino al punto in cui la rimozione è positiva e
l’imposta incentiva l’offerta di lavoro, poi, quando comincia a manifestarsi l’effetto di rimozione negativa e
quindi la distruzione di imponibile, le aliquote marginali dovrebbero decrescere per eliminare l’effetto
negativo. Quindi le aliquote marginali assumerebbero un andamento “ad U rovesciata”, prima crescenti e poi
decrescenti. Le proposte ricorrenti di detassazione dei redditi di lavoro più elevati (o di quelli marginali come
la remunerazione degli ‘straordinari) hanno un vago fondamento anche su questa considerazione.
La giustificazione della discriminazione tra reddito di capitale, da tassare di più, e reddito di lavoro, da
tassare di meno, è stata data in base alla ‘rendita differenziale’ che ha un reddito di capitale, che non
richiede sforzo di lavoro individuale per la sua produzione, e reddito di lavoro che invece richiede tale sforzo
ed ha una ‘penosità’.
IIIMMMPPPOOOSSSTTTEEE SSSUUULLL RRREEEDDDDDDIIITTTOOO EEE RRREEENNNDDDIIITTTAAA DDDIIIFFFFFFEEERRREEENNNZZZIIIAAALLLEEE (((WWWAAAGGGNNNEEERRR))) AAA BBB
In una prospettiva diversa si è sostenuto che il reddito di lavoro va tassato di meno rispetto al reddito di
capitale, con due tipi di argomentazioni.
77
1. Una, più antica, rilevava che il reddito di capitale rischioso andrebbe tassato meno
di un reddito di lavoro sicuro, in quanto nel reddito di capitale è incluso un
elemento di tipo assicurativo (chi rischia per produrre reddito di capitale vuol
essere ‘assicurato’ contro il rischio di perdita o diminuzione di tale reddito):
sarebbe il rischio l’elemento discriminante, in quanto a parità di valore nominale,
un reddito rischioso vale meno di un reddito sicuro;
2. Una, più recente, è la giustificazione della c.d. imposta duale sul reddito (dual
income tax), introdotta negli anni ’80-’90 del sec. XX in paesi del nord Europa
sulla base di un ragionamento pratico. Dato che i capitali sono diventati sempre
più facilmente trasferibili da un paese all’altro, gli stessi capitali si muovono
verso i paesi che tassano con aliquote più basse i rendimenti dei capitali. Pertanto,
per ragioni imposte dalla concorrenza fiscale’ tra i diversi paesi, bisogna
abbassare la tassazione su tali rendimenti ed adeguarla ai livelli di chi li tassa di
meno (fino eventualmente all’esenzione totale). Il lavoro, invece, si muove tra
diversi paesi con difficoltà molto maggiori e perciò può essere tassato di più, con
imposte progressive diversificate tra diverse nazioni. Il capitale è mobile mentre il
lavoro è immobile.
L’ammortamento dell’imposta è un effetto della tassazione del reddito di capitale. Indica la diminuzione di
valore capitale in seguito all’introduzione di un’imposta reale sul reddito di quel capitale. In pratica un
capitale, in seguito alla tassazione del suo reddito, vale di meno perché rende di meno.
Per esemplificare prendiamo un capitale K con un tasso di rendimento r e con un reddito R, secondo la
formula
R = rK, dove K = R/r e r = R/K
Si dice, con la formula, che un Reddito R si capitalizza in un Capitale K con un tasso di capitalizzazione
r. Dati due dei tre valori (R, K, r) si trova il terzo.
Introduciamo un’imposta reale di aliquota t sul reddito di capitale R, con gettito tR (uguale a T) ed un
reddito netto R(1 - t).
La seconda delle formule precedenti K = R/r si modifica in
K* = R(1-t)/r
Ora abbiamo la capitalizzazione con r di un reddito netto R(1 - t). La formula può anche essere scritta
come
K* = R/r – tR/r = R/r – T/r
Risulta che K*= K- T/r, che si può riscrivere come T/r = K – K*
Il nuovo valore capitale K* è pari al capitale iniziale K diminuito di T/r. Quest’ultima frazione indica
l’imposta capitalizzata.
Esempio. Sia K = 1.000, r = 5%, R= 50. Si applichi t = 20%.
Abbiamo T = tR = 20%50 = 10 e R - tR = 50-10 = 40.
Ora capitalizziamo R(1 - t) al tasso r: abbiamo R(1 - t)/r = 40/5% che si può
scrivere (essendo 5% pari a 5/100) come (40/5)x100 = 800. Il valore di K
(1000) si abbassa a K* (800). L’imposta capitalizzata è di T/r = (10/5)x100 =
200. Quindi K - T/r = K* = 1.000-200=800.
L’ammortamento è legato al fatto che il tasso d’interesse r rimanga
invariato. Se invece dovesse diminuire (ad es. dal 5% al 4%) nell’esempio
precedente non vi sarebbe ammortamento dell’imposta: difatti il reddito netto
R (1-t)/r diventerebbe (40/4)x100 = 1.000.
Una teoria riteneva che l’ammortamento fosse possibile solo con
un’imposta speciale su un determinato tipo di reddito di capitale, mentre
un’imposta generale, riducendo tutti i rendimenti di capitale, avrebbe ridotto
il tasso di interesse; nell’esempio precedente un’imposta generale su tutti i
78
redditi di capitale avrebbe fatto abbassare il tasso di interesse. Se r, per
ipotesi, fosse sceso dal 5% al 4% un reddito netto di 4000 si sarebbe
capitalizzato (4.000/4%) a 100.000, con lo stesso valore capitale iniziale.
3.2 Imposte personali sul reddito delle società.
L’imposta personale sul reddito delle società è stata introdotta negli S.U. nel 1913, in Italia nel 1954. Prima
si trattava di imposte speciali sui profitti di banche ed assicurazioni e poi vennero generalizzate.
Sono soggetti contribuenti le società di capitali ed altri enti industriali e commerciali, pubblici e privati.
Le giustificazioni di un’imposta autonoma sul reddito delle società (indicata anche come imposta sul
reddito delle persone giuridiche o imposta sui profitti) sono state fondate su queste affermazioni:
- colpisce una capacità contributiva maggiore delle società di capitali rispetto a quella delle persone
fisiche: la limitazione di responsabilità al valore del capitale permetterebbe alle società di capitali di
assumere maggiori rischi e di conseguire maggiori redditi rispetto alle persone fisiche ed alle società
di persone, che hanno responsabilità illimitata;
- realizza una discriminazione rispetto al reddito di lavoro con un’imposta aggiuntiva su di un reddito
di capitale;
- è strumento di politica economica, perché può essere usata per orientare gli investimenti con
variazioni delle aliquote e con crediti d’imposta;
- equivale ad un metodo di riscossione: concentrando l’imposta su pochi contribuenti di
grandi dimensioni, anziché sugli individui, si ha un gettito più sicuro. Le società,
successivamente, provvedono a far pagare le imposte alle persone fisiche includendole nei
prezzi di vendita e in pratica trasformano un’ imposta diretta sul loro reddito in un’imposta
indiretta sulle vendite, pagata dai consumatori.
In Italia l’imposta sulle società (introdotta con la l. 6.8.1954, n. 603), tassava:
- il patrimonio netto delle società con aliquota dell0 0,75%;
- il reddito complessivo eccedente il 6% di tale patrimonio con aliquota del 6%.
Se K è il patrimonio netto (capitale sociale + riserve + utili di esercizi precedenti riportati a
nuovo), tK l’aliquota dello 0,75% e tR quella del 6% il gettito è T = tKK + tR (R – 0,06K)
Soppressa nel 1974 è stata sostituita dall’imposta sulle persone giuridiche (IRPEG). L’imposta
ha poi subìto diverse trasformazioni. Nel 1978 veniva introdotto nell’IRPEG il credito d’imposta
totale, su modello tedesco. L’aliquota era del 25%, il tasso del credito d’imposta sui dividendi era
pari ad 1/3 (= 25%/75%). Nel 1983 l’aliquota era portata al 36% ed il tasso del credito d’imposta
a 9/16 (36%/64%). L’IRPEG nel 2004 è sostituita dall’imposta sulle società (IRES), con schema
più vicino alla ritenuta ‘secca’ ed al metodo classico della doppia imposizione parziale sui
dividendi.
Imposte sul profitto contabile
Con la contabilità di esercizio il bilancio di una società di capitali evidenzia, ogni anno, l’esistenza o meno
di profitti. Si vede se ha un utile (ricavi netti, i ricavi superano i costi), una perdita (costi superiori ai ricavi)
o un pareggio (ricavi uguali ai costi).
L’utile di esercizio può essere distribuito come dividendo o accantonato a riserva. I dividendi possono
provenire anche da utili di esercizi precedenti.
Per sintetizzare scriviamo:
Utili = Dividendi + Accantonamenti U = D + A.
79
UT è anche indicato con il termine di reddito della società o più semplicemente di profitto.
Come sommario di terminologia si ricordano alcuni cenni (più in dettaglio v. Codice civile)
sui conti aziendali con riguardo al bilancio di esercizio.
Nel corso dell’esercizio si hanno annualmente due flussi rilevanti:
un Flusso di Ricavi proveniente dalla Vendita di beni e servizi
un Flusso di Costi derivanti dall’acquisto e dal pagamento di fattori produttivi e dal
processo di trasformazione aziendale.
Annualmente,
se il Flusso dei Ricavi è superiore al Flusso dei Costi si ha un Utile di Esercizio
se il Flusso dei Ricavi è inferiore al Flusso dei Costi si ha una Perdita di Esercizio
Il Conto Economico è il documento di bilancio che, confrontando costi e ricavi
dell’esercizio, illustra il risultato economico della gestione evidenziando l'incremento o
il decremento del capitale netto aziendale. Dal conto economico si evidenziano i seguenti
risultati:
Risultato della gestione caratteristica. Si considerano i ricavi dalle vendite e dalle
prestazioni di servizi, dai quali vanno sottratti i costi di produzione e le spese
commerciali, amministrative e generali.
Risultato dopo la gestione (extra-caratteristica). In questa rientrano quelle operazioni
(pure ricavi e costi) estranee alla gestione caratteristica, ma che si verificano con
continuità nel corso dell'esercizio.
Risultato dopo la gestione finanziaria. È l'attività di reperimento dei mezzi finanziari
necessari all'attività dell’azienda e ad assicurare la liquidità aziendale evitando sia che
l’azienda sia sottocapitalizzata, sia un indebitamento eccessivo.
Risultato dopo la gestione straordinaria: si distinguono le componenti ordinarie e
ripetibili del reddito distinguendole da quelle straordinarie irripetibili.
Risultato prima delle imposte.
Risultato dell'esercizio derivante dalla gestione complessiva, al netto delle imposte.
Lo Stato Patrimoniale riporta gli investimenti esistenti in un determinato momento ed indica
in che modo essi sono stati finanziati, attraverso le passività ed il capitale netto. In particolare
indica alla fine dell’esercizio la situazione dell’azienda e rileva il suo effettivo patrimonio
(capitale netto).
Il Patrimonio Netto è indicato nello Stato Patrimoniale
Gli investimenti dell’impresa costituiscono il Valore Attivo
Le Risorse finanziarie costituiscono i Debiti
Patrimonio Netto = Valore Attivo – Debiti
Lo Stato Patrimoniale comprende: A) le attività o investimenti; B) le passività ed il capitale
netto.
A) Attività o Investimenti:
Le attività (assets: gli investimenti o impieghi dell'azienda), si dividono in circolanti e
immobilizzate, a seconda della possibilità di trasformarle in liquidità, entro un termine a breve
o lunga scadenza. Le attività circolanti sono l’insieme degli investimenti che rimangono
nell’azienda per un breve periodo di tempo, in quanto, essendo destinati ad un rapido impiego
o ad essere prontamente venduti o incassati, si trasformano in forma liquida a breve scadenza
(non superiore all’anno. Le attività immobilizzate (fisse) comprendono investimenti di durata
80
pluriennale in immobilizzazioni tecniche, materiali e immateriali, e immobilizzazioni
finanziarie, che resteranno vincolati all’azienda per lungo tempo, generando flussi monetari in
entrata in un periodo di tempo superiore all'anno. Le immobilizzazioni tecniche sono impieghi
in fattori produttivi che costituiscono la struttura operativa dell'impresa; si distinguono in
materiali ed immateriali. Le immobilizzazioni finanziarie includono impieghi durevoli a
carattere finanziario, come i crediti di finanziamento a medio e lungo termine e le
partecipazioni.
B) Passività e Capitale Netto
Le passività (liabilities) ed il capitale netto sono le fonti di finanziamento del capitale
investito. Indicano chi ed in che misura ha fornito il capitale necessario per finanziare le
attività. Il totale delle passività corrisponde ai debiti contratti dall’azienda con i terzi e,
dunque, rappresentano i diritti che questi ultimi vantano nei confronti dell’azienda.
Le passività a breve scadenza sono collegate a prestiti che l’azienda ottiene per
finanziare gli investimenti dell'attivo circolante e sono impegni da soddisfare entro un
termine inferiore all’anno.
Le passività a media e lunga scadenza sono le fonti esterne di finanziamento del
fabbisogno connesso agli investimenti in immobilizzazioni e comportano un impegno
al rimborso ed al pagamento di interessi ad una scadenza superiore all'anno.
Il capitale netto è pari alla differenza tra le attività e le passività patrimoniali.
Rappresenta la misura di quanto resta delle attività dopo che sono stati rimborsati tutti
i creditori nonché i soci.
Il capitale netto è costituito: a) dai conferimenti, in denaro o in natura, eseguiti dal
proprietario o dai soci al momento della costituzione dell'azienda (il c.d. capitale sociale) e
dai suoi eventuali aumenti successivi; b) dall'accantonamento a riserva degli utili
conseguiti, non distribuiti ai soci e reinvestiti nell’impresa. Il patrimonio netto aumenta in
presenza di utili non distribuiti, mentre diminuisce in conseguenza di perdite.
Riassumiamo le possibili modalità di imposizione basate sulla tassazione dell’utile, considerando una
società che distribuisca dividendi ed un socio persona fisica che li incassa. L’aliquota sul reddito della
società è t, l’aliquota marginale applicata sul reddito del socio persona fisica è tm.
1. Metodo classico (o della doppia imposizione)
Questo metodo, adottato negli Stati Uniti, comporta l’applicazione dell’aliquota t all’utile, prima che venga
distribuito.
Il gettito dell’imposta è pari a tU = tD + tA.
L’utile netto è U - tU = U(1- t); quando viene distribuito o accantonato dividendi e
accantonamenti sono già ridotti dell’imposta: pertanto
U(1- t) = D(1- t)+A(1- t).
Il dividendo è pagato ad un socio persona fisica che ha, in base al suo reddito personale, un’aliquota
marginale tm. Questa aliquota si applica sul dividendo netto, quindi l’imposta è pari a tmD(1- t). Si ha
una doppia imposizione sui dividendi, in quanto il dividendo, già tassato a livello di società con t è tassato
ancora a livello di socio con tm. Se il percettore del dividendo fosse un’altra società di capitali e risultasse
81
reddito anche per questa sarebbe tassato con t. L’accantonamento è tassato solamente con t. La doppia
imposizione si ha solo con la distribuzione dei dividendi, o dall’utile dell’anno o da accantonamenti di anni
precedenti. Questo metodo può essere un disincentivo a distribuire dividendi e ad autofinanziarsi con la
costituzione di riserve. L’aliquota marginale (variabile a seconda del reddito del socio) sul dividendo netto
può essere sostituita da un’aliquota fissa sugli utili netti distribuiti (metodo tedesco e italiano più recente).
Anche in questo caso gli accantonamenti si tassano una volta ed i dividendi due volte, pur senza essere
inclusi nell’imponibile del socio persona fisica. L’aliquota dell’imposta personale del socio persona fisica
può essere applicata su una quota dei dividendi nel caso la persona fisica abbia una partecipazione rilevante
nel capitale della società: ad es. il 10% dei dividendi ricevuti può essere tassato con tm ed il 90% con
un’aliquota proporzionale.
2. Doppia aliquota
L’aliquota t dell’imposta sulla società è sdoppiata in ta (aliquota applicata sui redditi accantonati) ed in td
(aliquota applicata sui dividendi distribuiti). L’imposta è applicata dopo che è stata deliberata la destinazione
dell’utile a dividendi ed accantonamenti.
L’imposta diventa: taA + tdD;
l’accantonamento netto è A(1 - ta);
il dividendo netto è D(1 - td).
Sul dividendo percepito da una persona fisica si applica l’aliquota marginale propria del reddito di
quest’ultima: tmD(1 - td).
Se il dividendo è incassato da un’altra società di capitali e costituisce reddito bisogna ancora attendere la sua
destinazione (a dividendo o accantonamento) prima di applicare l’imposta.
L’aliquota dell’imposta sui dividendi td è inferiore a quella sugli accantonamenti ta in quanto sui dividendi
si applicano 2 aliquote (prima td e poi tm) mentre sugli accantonamenti si applica un’aliquota sola (ta). In
pratica il sistema equivale ad una doppia imposizione attenuata sui dividendi.
E’un metodo che, in passato, ha trovato applicazione in Germania e nel Regno Unito. Se, per ragioni di
politica economica (ad es. perché un eccesso nella distribuzione di dividendi favorisce l’indebitamento o ha
effetti inflazionistici), si vogliono incentivare gli accantonamenti e scoraggiare la distribuzione di dividendi,
td potrebbe essere superiore a ta.
3. Deduzione del dividendo
Il dividendo è assimilato agli altri costi finanziari. Come gli interessi sono deducibili in quanto costi del
capitale preso a prestito (pagamenti a chi ha prestato fondi), così i dividendi sono deducibili in quanto costi
del capitale proprio (pagamenti a chi percepisce dividendi in quanto possessore di azioni). L’imposta sulle
società diventa un’imposta sui soli accantonamenti. Sul dividendo corrisposto ad una persona fisica si
applica l’aliquota marginale propria del reddito di quest’ultima.
L’imposta è
tA a livello di società;
tmD a livello di persona fisica.
Questo metodo ha trovato applicazioni temporanee in pochi paesi.
L’equiparazione nel trattamento tributario tra dividendi ed interessi favorisce la neutralità dell’imposta
rispetto alla scelta tra le fonti di finanziamento della società (capitale proprio o capitale preso in prestito).
Tale neutralità è ottenuta, in questo caso, esentando dall’imposta sulle società sia gli interessi che i
dividendi. Un altro modo di trattamento non discriminante sarebbe quello di includere nell’imponibile sia i
dividendi che gli interessi e di tassarli entrambi.
82
4. Credito d’imposta parziale
Nei sistemi di credito d’imposta la società si sostituisce al socio nel versare l’imposta. Il socio è
successivamente tenuto a calcolare eventuali conguagli o a chiedere rimborsi in base alla propria aliquota
marginale.
Il sistema del credito d’imposta parziale (metodo francese) tassa l’utile prima della sua destinazione a
dividendi e accantonamenti. Il percettore del dividendo (persona fisica o altra società) ha un credito
d’imposta inferiore all’imposta pagata a livello di società sui dividendi.
Si procede nel modo seguente:
si definiscono un’aliquota t ed un tasso percentuale di credito d’imposta c;
si applica t ad U e si ottengono l’imposta tU e l’utile netto U(1 - t);
U(1 - t) è ripartito in A(1 - t) e D(1 - t);
il socio persona fisica che riceve D(1- t) è accreditato anche di un credito d’imposta parziale pari a
cD(1 - t); il suo imponibile è pari a D(1 - t)+cD(1 - t);
su questo imponibile si calcola, in base a tm, un’imposta di tm[D(1 - t)+cD(1 - t)];
dall’imposta si detrae il credito d’imposta e si ottiene l’imposta netta:
tm[D(1 - t)+cD(1 - t)] – cD(1 - t).
Esempio: sia U =1000; t = 50%; c = 50%. Si ha:
tU = 50%1000 = 500 e U - tU = U(1 - t) = 1000 – 500 = 500
Tutto l’utile, per semplificare il calcolo, è distribuito: U(1- t) = D(1- t)
Il socio persona fisica, con aliquota tm = 20% riceve un dividendo netto di 500 ed un
credito d’imposta di cD(1 - t) = 50%500 = 250.
L’imponibile del socio è dato dalla somma di dividendo netto e credito d’imposta: 500 +
250 = 750; su 750 si applica l’aliquota marginale del 20%; 20% 750 = 150.
Da 150 si detrae il credito d’imposta di 250: 150-250= -100. La differenza, negativa,
significa che il contribuente ha diritto a ricevere un rimborso di 150 dal fisco, in quanto
l’imposta trattenuta dalla società è eccessiva rispetto all’imposta dovuta in base a tm.
Se il socio avesse avuto una tm del 60% il 60% di 750 sarebbe stato di 450 (differenza
positiva); detraendo 250 (il credito d’imposta) sarebbe rimasto da pagare un conguaglio
d’imposta di 200. L’imposta trattenuta dalla società sarebbe stata insufficiente rispetto a
quella dovuta con una tm del 60%.
Il credito d’imposta prima si somma al dividendo netto per definire l’imponibile e poi si detrae dall’imposta
calcolata per definire l’imposta netta, con eventuale rimborso o conguaglio.
Non c’è una relazione precisa tra t e c, ma il tasso del credito d’imposta è scelto in modo che la
restituzione al socio dell’imposta pagata dalla società sul dividendo sia solo parziale.
5. Credito d’imposta totale
Il sistema del credito d’imposta totale (precedente metodo tedesco-italiano) tassa l’utile prima della sua
destinazione a dividendi e accantonamenti. Il percettore del dividendo (persona fisica o altra società) ha un
credito d’imposta uguale all’imposta pagata a livello di società sui dividendi. Equivale alla deduzione del
dividendo. L’imposta sui dividendi è solo un acconto sull’imposta del percettore del dividendo.
In questo sistema c’è una relazione precisa tra t e c, poiché il tasso del credito d’imposta è scelto in modo
che la restituzione al socio dell’imposta pagata dalla società sul dividendo sia totale.
Pertanto, una volta definita l’aliquota t, il tasso del credito d’imposta c è definito in modo che
83
tU = cU(1 - t), perciò c = t/(1 - t).
c risulta essere il tasso effettivo di t. Il meccanismo, nella forma, è simile a quello del caso precedente.
si applica t ad U e si ottengono l’imposta tU e l’utile netto U(1 - t);
U(1 - t) è ripartito in A(1 - t) e D(1 - t);
il socio persona fisica che riceve D(1 - t) è accreditato anche di un credito d’imposta totale pari a
cD(1 - t) che è uguale a tD; il suo imponibile è pari a D(1 - t) + tD = D, cioè al dividendo
senza l’imposta applicata a livello della società;
su questo imponibile si calcola, in base a tm, un’imposta di tmD;
dall’imposta si detrae il credito d’imposta e si ottiene l’imposta netta:
tmD – cD(1-t).
Tutta l’imposta pagata a livello di società è accreditata al socio. Questo metodo ha trovato applicazione in
Italia dal 1978 al 2004.
Esempio: prendiamo il sistema iniziale dell’Italia (dal 1978): sia U =1000; t = 25%; c si
calcola come t/(1 - t) = 25%/(1-25%) = 25%/75% = 1/3.
Si ha:
tU = 25%1000 = 250 e U - tU = U(1 - t) = 1000 – 250 = 750
Tutto l’utile, per semplificare il calcolo, è distribuito: U(1-t) = D(1- t)
Il socio persona fisica, con aliquota tm = 20% riceve un dividendo netto di 750 ed
un credito d’imposta di cD(1 - t) = 1/3 di 750 = 250.
L’imponibile del socio è dato dalla somma di dividendo netto e credito d’imposta:
750 + 250 = 100; su 100 si applica l’aliquota marginale del 20%; 20% 1000 =
200.
Da 200 si detrae il credito d’imposta di 250: 200-250= -100. La differenza,
negativa, significa che il contribuente ha diritto a ricevere un rimborso di 50 dal
fisco, in quanto l’imposta trattenuta dalla società è eccessiva rispetto all’imposta
dovuta in base a tm.
Se il socio avesse avuto una tm del 60% il 60% di 1000 sarebbe stato di 600
(differenza positiva); detraendo 250 (il credito d’imposta) sarebbe rimasto da
pagare un conguaglio d’imposta di 350. L’imposta trattenuta dalla società sarebbe
stata insufficiente rispetto a quella dovuta con una tm del 60%.
6. Ritenuta sui dividendi.
Un metodo piuttosto semplice è quello di applicare un’aliquota t sull’utile, come nel caso del sistema
classico e poi di aggiungere un’altra aliquota fissa t1 sui dividendi netti:
prima tU = tA + tD e poi t1D(1 - t). Questa seconda imposta si può considerare:
o definitiva: in questo caso il contribuente non paga più nulla, in particolare non deve fare
riferimento alla propria aliquota marginale tm se è persona fisica (ritenuta a titolo
definitivo d’imposta o ritenuta secca). Questo metodo si avvicina a quello della doppia
aliquota o anche del sistema classico, con un aggravio di tassazione dei dividendi rispetto
agli accantonamenti, con un’imposta personale t ed un’imposta reale t1.
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o Di acconto: in questo caso al percettore del dividendo è comunicato l’importo trattenuto
dalla società t1D(1 - t) come acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Il
socio contribuente dovrà prima includere dividendo netto e acconto nell’imponibile,
applicare l’aliquota tm, calcolare l’imposta lorda, da questa detrarre la ritenuta di acconto
t1D(1 - t) e vedere se deve ricevere un rimborso oppure pagare un conguaglio. Il
meccanismo funziona come il credito d’imposta, senza che esista la necessità, per il socio, di
calcolare da sé il credito d’imposta partendo dal dividendo netto.
Talora la scelta tra ritenuta definitiva o ritenuta di acconto è un’opzione del contribuente, il quale preferirà
la ritenuta secca se la sua aliquota marginale tm è superiore a t1. Opterà per la ritenuta di acconto se prevede
di ottenere un rimborso dal fisco, in quanto t1 è superiore a tm. Con questo sistema si agevolano i redditi
con aliquote marginali più elevate.
Qualche sistema prevede l’inclusione obbligatoria nel reddito tassato con tm del dividendo con ritenuta
d’acconto solo per i soci che hanno una partecipazione qualificata al capitale azionario e quindi sono
azionisti di controllo, mentre gli altri hanno una tassazione con ritenuta secca.
7. Il regime della trasparenza
Tratta le società di capitali come le società di persone e implica l'imputazione del reddito ai soci
indipendentemente dall'effettiva percezione degli utili. La società trasparente o partecipata non risulta
debitrice nei confronti dell'Erario, in quanto i responsabili sono i soci. Al socio persona fisica, con aliquota
marginale tm, viene imputata, in base alla partecipazione al capitale, una quota di utile, senza distinguere tra
accantonamenti e dividendi. Quindi pagherà tmD + tmA. Il contribuente paga anche su di un imponibile
(gli accantonamenti) che non è entrato nella sua disponibilità immediata come i dividendi.
8. Imposte a base mista
Le società di capitale possono essere tassate anche con imposte che non assumano immediatamente il
reddito netto come imponibile, ma possono far riferimento anche al patrimonio netto o lordo.
Il patrimonio netto (K) è il capitale proprio, definito come somma del capitale sociale (sottoscritto e
versato: il capitale azionario nelle società per azioni) e delle riserve.
Il patrimonio lordo comprende il patrimonio netto e il capitale di terzi preso in prestito = capitale azionario
+ capitale obbligazionario.
L’imposta sul patrimonio netto può essere aggiuntiva rispetto all’imposta sul reddito. Oltre all’applicazione
di questa ci può essere un’altra imposta di aliquota tk, con gettito tkK. Questa può anche essere detraibile
dall’imposta sul reddito.
Una variante dell’imposta a base mista consiste nel differenziare il reddito da tassare: una parte di tale
reddito può essere considerato ‘rendimento normale’ del patrimonio netto e tassato come gli interessi, mentre
si applica l’imposta sulle società sulla parte eccedente (anche questa è stata definita imposta duale).
Altre modalità d’imposta sono state suggerite:
a) la tassazione della somma di dividendi e interessi, per la neutralità sulle scelte di finanziamento,
mantenendo la deducibilità delle quote annuali di ammortamento.
b) La tassazione della differenza tra:
entrate complessive della società (escluse le entrate derivanti dalla vendita di azioni) –
spese totali, incluse quelle per investimenti, eliminando gli ammortamenti annuali.
c) La tassazione della somma di dividendi, accantonamenti e interessi, eliminando la deducibilità
degli ammortamenti e permettendo la deducibilità integrale, nell’anno di acquisto, delle spese per
beni di investimento (v. infra, imposta sul Flusso di Fondi).
85
La tassazione di una base ancora più estesa includendo in c) anche i ricavi da operazioni finanziarie
della società.
Di recente sono state introdotte, nelle strutture d’imposta sulle società in diversi paesi, alcuni principi.
La regola della capitalizzazione sottile (Thin Capitalization Rule o thin cap) consiste nell’assimilare agli
utili distribuiti la remunerazione di finanziamenti eccedenti un dato rapporto capitale proprio/capitale di
terzi.
Il trattamento differenziato di dividendi ed interessi costituisce causa di non neutralità. Di solito i dividendi
sono trattati come imponibili e gli interessi come costi deducibili. Perciò sugli interessi INT la società
risparmia tINT, e questo rappresenta un risparmio sul costo (interessi netti) del capitale preso a prestito.
Invece sono tassati i rendimenti del capitale proprio (dividendi ed accantonamenti) e questo rappresenta una
riduzione dei rendimenti stessi. Questa discriminazione è un incentivo all’indebitamento ed inoltre potrebbe
indurre un socio a fare prestiti alla società di cui è azionista per eludere un’imposta sulle società.
Ad es. il socio Tizio presta 1000 alla sua società ed incassa 100 di interessi, anziché incassare 100 di
dividendi. La convenienza sta nel fatto che, se 100 di interessi sono tassati al 10% mentre 100 di dividendi
sono tassati al 40%, Tizio con gli interessi incassa 90, mentre con i dividendi incasserebbe 60. Allora
prestando fondi alla sua società trasforma i dividendi in interessi. Nell’esempio precedente gli interessi
sarebbero deducibili come costo e farebbero scomparire i 100 di dividendi. Per evitare che il finanziamento
con debito sia eccessivo rispetto al patrimonio proprio della società, si adotta il sistema della thin cap, che
consiste nel considerare eccessivi gli interessi oltre un certo limite, assimilandoli ai dividendi e tassandoli
come questi. E’ una misura che vuole limitare la sottocapitalizzazione e l’eccesso di indebitamento,
determinando gli interessi indeducibili in presenza di finanziamenti da parte dei soci. Questa disciplina
prevede l'indeducibilità, dal reddito imponibile della società, della remunerazione dei finanziamenti erogati o
garantiti da un socio qualificato, che abbia una partecipazione azionaria al di sopra di un livello minimo. Gli
interessi passivi per effetto dell’applicazione della thin cap sono quelli erogati o garantiti dal socio
qualificato intendendo per tali quelli derivanti da mutui, da depositi di danaro e da ogni altro in eccedenza di
un determinato valore del rapporto indebitamento/patrimonio netto (varia da 4/ 1 a 2/1 nei diversi paesi).
L’esenzione delle partecipazioni (Participation Exemption - PEX). Sono talvolta previste esenzioni
dall’imposta sulle società per le cessioni di partecipazioni costituenti patrimonio immobilizzato, dopo che
queste sono state tenute da una società di capitali per un periodo minimo (ad es. 1 anno). La percentuale di
esenzione può essere variabile (del 100% o di una percentuale inferiore) e può essere previsto un livello di
partecipazione minima (es. 5%) al capitale della società le azioni della quale vengono cedute. L’asimmetria
tra l’esenzione della plusvalenza da cessione di azioni e la deducibilità della minusvalenza possono
rappresentare occasioni di risparmio fiscale per la società. Se le plusvalenze sono esenti le minusvalenze, per
simmetria, non dovrebbero essere deducibili. Una pratica elusiva è quella del dividend washing. Consiste
nell’acquisto di azioni prima della distribuzione di dividendi e nella successiva cessione dopo aver incassato
il dividendo. Con la vendita si determina una riduzione di valore del titolo e ne consegue una minusvalenza
in capo a chi vende. Si può avere un effetto di elusione dell’imposta sulle società se è ammessa l’esenzione,
o una tassazione ridotta, dei dividendi e la deducibilità piena delle minusvalenze realizzate su azioni
vendute.
La tassazione del consolidato. Si è diffusa la tassazione consolidata di gruppo di società di capitali,
realizzata con la somma algebrica degli imponibili, aggregando i dati di tutte le società che partecipano al
gruppo in unica dichiarazione. Si distingue tra:
Consolidato domestico o nazionale
E’ previsto quando la società controllante (capogruppo) è residente oppure ha una stabile
organizzazione nel paese che applica la tassazione su base imponibile consolidata. L’opzione per la
tassazione di gruppo può essere esercitata esclusivamente dalle società controllate residenti. Sono
considerate controllate le società in cui la capogruppo detiene, direttamente o indirettamente, la
maggioranza dei diritti di voto.
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Consolidato multinazionale o mondiale
Per evitare effetti di doppia imposizione, può essere previsto il riconoscimento delle imposte pagate
all’estero mediante il meccanismo del credito d‘imposta ed il concorso dei redditi prodotti all’estero alla
formazione del reddito base imponibile del gruppo. Diversamente da quanto avviene con il consolidato
nazionale il consolidamento multinazionale delle basi imponibili avviene in base al criterio
proporzionale di partecipazione (si effettua la somma algebrica degli imponibili proporzionali alle quote
di partecipazione). E’ inclusa nel consolidamento solo la quota di utile o perdita detenuta dal gruppo.
L’ imposta personale sulla spesa delle persone fisiche
L’imposta personale sulla spesa è una proposta ricorrente, soprattutto in Gran Bretagna (1955,
1978) e negli Stati Uniti (1930, 1947, 1977) che nasce fin da T. Hobbes (1588-1679) nel
Leviathan (1651, ch. XXX) e dalle riflessioni di John Stuart Mill nei Principles (1848, Book V,
ch. 2) e che vuole esentare il risparmio dall’imposta sul reddito. Storicamente ha trovato solo rare e
temporanee applicazioni. Si rinvia ai lavori di W. Vickrey (1914-1996), N. Kaldor, An
Expenditure Tax (1956), I. Fisher (1867-1947), U.S. Treasury Blueprints for basic tax reform
(1977) ed in Italia a L. Einaudi (1874-1961).
Nello schema teorico si applica un’imposta progressiva sul reddito guadagnato diminuito del
risparmio ed aumentato del consumo di risparmio ed i debiti. La spesa in beni di consumo durevole
e diretto (come l’abitazione) viene ammortizzata: il loro valore è tassato pro quota su base
pluriennale.
L’imposta personale sulla spesa tende ad accertare la spesa con un metodo personale indiretto,
costruendo la base imponibile (spesa personale lorda) come risultante dalla differenza tra il potere
di spesa teorico in un anno ed il residuo di fine anno:
(A +B + E) – (C+D), dove
A Incassi correnti 1. Saldi delle disponibilità monetarie (conti bancari e denaro liquido) all’inizio dell’anno;
2. incassi correnti (monetari e reali) come stipendi, interessi, dividendi, quote.
B Incassi in conto capitale 3. donazioni, eredità, vincite occasionali;
4. denaro preso in prestito e denaro ricevuto in restituzione di prestiti;
5. incassi da vendite di beni di investimento e di beni di consumo durevole (inclusi gli
immobili).
C Spesa lorda in conto capitale
6. Denaro dato in prestito o denaro trasferito per estinguere precedenti prestiti;
7. Acquisto di beni di investimento (inclusi gli immobili);
8. Saldi delle disponibilità monetarie (conti bancari e denaro liquido) a fine anno.
D 9. Spese personali esenti;
10. Ammortamenti delle spese in beni durevoli di uso diretto (come le abitazioni);
E 11. Quota di spese in beni durevoli sostenute in anni precedenti e incluse nell’anno in corso.
L’imposta sul Flusso di Fondi della società di capitali
Le imposte sui profitti generalmente applicate sono imposte sui profitti contabili. La base è costituita dai
profitti correnti reali, distribuiti o accantonati. Sono deducibili gli interessi netti sui debiti, una quota di
ammortamento corretta per il tasso di inflazione. Si aggiungono le plusvalenze reali sulle attività della società,
si correggono in base all’inflazione i valori delle azioni ed i valori monetari di attivo e passivo. Questa struttura
è piuttosto complessa da realizzare completamente, perciò si applica con delle approssimazioni, in particolare
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per gli adeguamenti dei valori monetari all’inflazione.
E’ stata avanzata in Gran Bretagna (1978) una proposta di imposta sul flusso di fondi che merita qualche
attenzione, anche se non ha avuto conseguenze pratiche. Si veda Meade Committee: The structure and reform
of direct taxation.
L’imponibile è costituito dalla differenza tra
Flussi in entrata (INFLOWS) e Flussi in uscita (OUTFLOWS)
La base imponibile è rappresentata dal flusso di fondi (flow of funds)
Si distingue tra:
Imposta su base reale R
Imposta su base reale (R) e finanziaria (F) R+F
Imposta su base reale, finanziaria ed azionaria (R+F+S)
Tipo di Base Imponibile Flussi in entrata (INFLOWS) Flussi in uscita (OUTFLOWS)
Reale R Vendita di prodotti, servizi,
attività fisse reali
Acquisto di materiali, lavoro
(salari), attività fisse reali
Finanziaria R + F Nuovo indebitamento, interessi
incassati, riduzione di liquidità
Restituzione di debiti, interessi
pagati, aumento di liquidità
Azionaria S Aumento di azioni proprie,
diminuzione di azioni di altre
società, dividendi ricevuti da altre
società
Riduzione di azioni proprie,
aumento di azioni di altre società,
pagamento di dividendi
Imposte..T Imposte rimborsate Imposte pagate
Totale dei flussi netti (INFLOWS - OUTFLOWS) R+F+S+T
La base imponibile può essere costruita includendo flussi di diverso tipo:
1 - Imposta sul flusso di fondi reali R (base R)
RICAVI TOTALI - RETRIBUZIONI - ACQUISTI (materie prime, beni per la produzione, servizi,
investimenti) =
VALORE AGGIUNTO - RETRIBUZIONI - INVESTIMENTI =
DIVIDENDI + ACCANTONAMENTI + INTERESSI - INVESTIMENTI
2 - Imposta sul flusso di fondi reali e finanziari R + F
Alla base R si aggiunge la base F
R + VARIAZIONE DELL’INDEBITAMENTO DELLA SOCIETA’ +
(INTERESSI ATTIVI – INTERESSI PASSIVI) =
PROFITTI + VARIAZIONE DELL’INDEBITAMENTO - INVESTIMENTI
3 - Imposta sul flusso di fondi reali, finanziari e della variazione della base azionaria R + F + S
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Gli ammortamenti
L’ammortamento è un procedimento contabile con cui si iscrive a bilancio il
deprezzamento di un bene strumentale, per obsolescenza, come quota di costo annuale
rispetto alla spesa di acquisto. I beni di investimento, strumentali per la produzione e le
vendite, rimangono in uso in più esercizi.
L’obsolescenza è il processo di invecchiamento di un bene strumentale. E’ dovuto sia al
passaggio del tempo che alle modifiche di tecnologia. Per definire la quota del valore del
bene che viene dedotta in ogni esercizio si deve fare riferimento ad un costo, che può essere:
costo storico (costo originario o costo di acquisto) del bene strumentale, oppure
costo di sostituzione (o di riacquisto) riferito ad un bene sostitutivo, identico
oppure analogo per caratteristiche.
Il costo dell’investimento va ripartito negli anni di utilizzo del bene e le quote di costo
deducibile (quote di ammortamento) sono determinate in ogni esercizio aziendale.
Vanno definiti:
- Il periodo di ammortamento: il numero di anni nei quali sarà
presumibilmente utilizzato il bene strumentale.
- Il valore residuo: quello che avrà il bene strumentale una volta trascorso il
periodo di ammortamento (è il valore di rivendita o, se inutilizzabile,
l’eventuale valore di rottamazione).
Se A è il valore annuale di ammortamento e t l’aliquota, l’imponibile, al netto degli altri
costi deducibili, diventa R - A e l’imposta è t(R - A). - tA è il risparmio d’imposta
realizzato con l’ammortamento.
Le quote di ammortamento possono essere uguali in ogni esercizio oppure possono essere
variabili.
Abbiamo quindi metodi differenti di ammortamento.
- Ammortamento lineare o a quote costanti
Si divide il costo storico del bene strumentale per il numero di anni in cui lo stesso va
ammortizzato. La risultante è la quota di ammortamento deducibile ogni anno dai ricavi.
Esempio. Il valore da ammortizzare in 4 anni sia 1000. Si calcola 1000/4 = 250 ed in
ognuno dei quattro anni si ammortizza la quota di 250.
- Metodo delle unità di produzione
Si fonda sull’assunzione che il deprezzamento di un bene di investimento si basi
esclusivamente sull’uso, mentre il trascorrere del tempo non ha rilevanza. La durata
della vita di un bene è espressa nella forma della sua capacità produttiva. La quota di
ammortamento si calcola dividendo il costo ammortizzabile per la capacità produttiva e
si determina un tasso di ammortamento per unità di utilizzo (il numero di unità di
produzione stimate nella vita utile del bene stesso). Le unità di utilizzo vengono
misurate, ad esempio, con la quantità di prodotti, le ore di utilizzo, le quantità
trasportate, il chilometraggio di percorso, ecc.. Il metodo si applica quando l’utilizzo di
un bene presenta forte variabilità da un anno all’altro.
- Metodi di ammortamento accelerato
Si abbrevia il periodo di ammortamento e si calcolano quote di ammortamento
maggiori per i
primi anni, assumendo che un bene perda in questi primi anni quote maggiori del
proprio valore
iniziale. Comprendono alcuni metodi:
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1. Sum of the Years Digits (SYD)
Si calcola in anni la durata di un bene ammortizzabile e poi si sommano gli anni. Ad
es., se la durata prevista è di 10 anni si sommano
10 + 9 + 8 + 7 + 6 +5 + 4 + 3 + 2 + 1 = 55
La quota di ammortamento del primo anno è pari a 10/55, la quota del secondo anno a
9/55, del terzo anno a 8/55 e così via.
2. Double Declining Balance Depreciation (DDBD)
Con questo metodo si applica prima un ammortamento lineare. Poi si raddoppia la
percentuale di ammortamento del primo anno. In ciascuno degli anni successivi la stessa
percentuale è moltiplicata per il residuo da ammortizzare. Alla fine si ammortizza la
quota lineare.
… Esempio. Si ammortizza in 4 anni un valore di 1000. A quote costanti si avrebbero
quote di 250 l’anno, corrispondente al 25% di 1000. Raddoppiando la percentuale al
50% si ammortizzano:
1° anno il 50% di 1000 500 (valore residuo 500)
2° anno il 50% di 500 250 (valore residuo 250)
3° anno 250 (valore residuo 0).
Quando il valore residuo è uguale, o inferiore, al valore corrispondente alla quota
lineare (250) la quota di ammortamento è uguale a quest’ultima. In pratica si applica un
tasso costante sul valore residuo. Nell’esempio il periodo si riduce da 4 a 3 anni.
- L’ammortamento istantaneo prevede la deducibilità immediata, nell’anno di acquisto,
dell’intero importo della spesa di acquisto di un bene di investimento.
Il magazzino
Nel magazzino entrano beni che verranno utilizzati per la produzione. Vi sono quindi beni
in entrata ed in uscita. La determinazione annuale del valore del magazzino è importante per
stabilire:
a) il valore delle merci giacenti in magazzino a fine esercizio;
b) i costi delle merci entrate nella produzione nel corso dell’esercizio, costi che
servono a determinare il livello del reddito netto.
Si utilizzano diversi metodi di calcolo.
1. Costo ad identificazione specifica. Ogni merce (bene intermedio o materia prima)
giacente in magazzino è valutata col relativo costo specifico effettivo. Si sommano i
valori di acquisto dei beni rimasti in giacenza nel magazzino.Tale metodo si può
applicare se le giacenze sono formate da beni identificabili e di valore elevato per
ciascuna unità.
2. Costo medio ponderato. Si calcola con la media aritmetica ponderata dei valori di
acquisto, senza distinguere tra i periodi in cui sono entrati i beni in magazzino. Con
tale metodo i beni omogenei, acquistati o prodotti in periodi diversi e con costi
diversi, sono valutati a un costo pari alla media ponderata dei vari costi di acquisto.
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3. Costo standard. L’azienda calcola un valore normale (standard) del singolo bene,
tenendo conto:
a) del valore medio degli acquisti dai fornitori; b) del tempo impiegato per la
produzione; c) del
grado di utilizzo dei macchinari,. Il costo standard dipende dall’esperienza e dalla
capacità
produttiva dell’azienda e dalle condizioni d’acquisto nel mercato.
4. Metodo FIFO (first in first out: il primo entrato è il primo uscito). La merce entrata
per prima in magazzino è la prima ad uscire. Si assume che l’entrata di una merce
nel ciclo di produzione segua la stessa sequenza temporale con cui è entrata in
magazzino.
Esempio: in corso d’anno entrano in magazzino due beni eguali in tempi diversi, il
primo ad un costo di 60, il secondo ad un costo di 80. Si produce un solo bene
venduto a 100. Col FIFO dal ricavo di 100 si sottrae 60 (il costo del bene entrato
prima) con un reddito netto di 40 e si immagina che in magazzino sia rimasto quello
che vale 80. Si dice che il magazzino è valutato al costo più recente ed il reddito al
costo più antico.
5. il metodo LIFO (last in first out: l’ultimo entrato è il primo uscito). La merce
entrata per ultima in magazzino è la prima ad uscire. Si assume che l’entrata di una
merce nel ciclo di produzione segua la sequenza temporale inversa rispetto a
quella con cui è entrata in magazzino.
Nell’esempio precedente: col LIFO dal ricavo di 100 si sottrae 80 (il costo del bene
entrato dopo), con un reddito netto di 20 e si immagina che in magazzino sia
rimasto quello che vale 60. Si dice che il magazzino è valutato al costo più antico
ed il reddito al costo più recente.
6. il metodo NIFO (next in, first out: il prossimo entrato è il primo uscito): dal ricavo
si sottrae il costo di riacquisto o di sostituzione del bene in magazzino.
Indicizzazione dell’ imposta sulle società
L’inflazione ha effetti distorsivi sull’imposta che colpisce il reddito delle società, in
particolare se è commisurata al profitto contabile.
Un esempio. Una società di capitale acquista un bene strumentale al costo storico CS, che
viene ammortizzato in quote annuali A1, A2, A3, A4. Ad es. un CS = 1000 è ammortizzato a
quote annuali di 250 in 4 anni. In presenza di inflazione le quote di ammortamento perdono
valore. Con un tasso d’inflazione nel primo anno pari a δ la quota A1 perde valore e diventa
A1/(1+ δ). Con δ = 10% la quota vale 250/1,1. Un’indicizzazione completa dovrebbe
prevedere l’adeguamento di A1 ad A1/(1+ δ) (250 x 1,1 = 275). Senza indicizzazione il
risparmio d’imposta tsA1,dove ts è l’aliquota dell’imposta sulle società. è pure svalutato. I
correttivi possono essere basati su diversi metodi.
1. Metodo diretto. Il capitale sociale KS è composto da beni generalmente acquistati in
anni diversi a costi storici diversificati nel tempo. K è composto da diversi cespiti
rivalutabili, K1, K2,…, Kn. Questi cespiti vengono rivalutati con coefficienti di
rivalutazione differenziati a seconda della tipologia di cespite e della distanza
temporale dell’acquisto. Un cespite acquistato in anni più lontani avrà un
coefficiente di rivalutazione maggiore rispetto ad un cespite della stessa natura
acquistato in tempi più recenti. Sul saldo di rivalutazione, che va ad aumentare Ks,
si applica un’imposta proporzionale speciale.
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Tipologia
di K
Coefficienti
di
rivalutazione
Saldo di
rivalutazione
Coefficienti di
ammortamento
Ammortamenti
aggiuntivi
K1 = 1000 5% 50 40% 20
K2 = 2000 6% 120 50% 60
Kn = 2500 10% 250 70% 175
KS = 5500 Tot 420 Tot 255
2. Metodo indiretto. Anziché rivalutare direttamente le singole componenti di KS si il
totale KS con un coefficiente unico di rivalutazione. Il saldo di rivalutazione,
tassato con imposta speciale ed aggiunto a KS, è ripartito, a discrezione della
società, tra le componenti K1, K2,…, Kn. Quindi può essere attribuito a cespiti che si
sono svalutati di più o di meno rispetto al tasso d’inflazione, e alcuni cespiti
possono anche non essere rivalutati. La società può voler attribuire una quota
sproporzionata ad un cespite che intende vendere, perché così facendo si riduce o si
annulla una plusvalenza (differenza tra valore di vendita e valore di acquisto ad un
costo storico più che rivalutato).
IV. Altre imposte
1. Tassazione dei plusvalori e dei redditi finanziari
- Tassazione dei plusvalori
- Tassazione dei redditi finanziari e dei fondi pensione
2. Le imposte patrimoniali
- Imposta ordinaria sul patrimonio
- Imposte sui trasferimenti
- Imposte di successione
3. Imposte indirette
- Tipologie
- Imposta sul valore aggiunto
4. Le imposte straordinarie
5. Principi di tassazione internazionale
6. Effetti delle imposte
92
1. Tassazione dei plusvalori e dei redditi finanziari.
Tassazione dei plusvalori
Per plusvalore, o incremento di valore patrimoniale, si intende un incremento di valore di un cespite
(capitale fisico, come un immobile, un bene di consumo durevole, o capitale finanziario, come un’azione,
un’obbligazione) da un momento di tempo T0 ad un momento successivo T1. Ad es. un’abitazione acquistata
a 200 mila euro in T0 viene rivenduta a 280 mila euro in T1 (ad es. dopo 10 anni). Come si intende, da un
punto di vista fiscale, la differenza di valore (80 mila euro)? Non è reddito prodotto né nuovo patrimonio
(la consistenza fisica dell’immobile è la stessa). Rientra in una categoria diversa dal reddito e dal patrimonio.
Intanto si deve trattare di un incremento reale. Dal momento T0 a T1 il livello generale di prezzi P può
essere aumentato, pertanto il valore differenziale deve essere corretto. Se dK è la variazione di valore del
cespite, questa deve essere corretta per la variazione del livello generale dei prezzi.
Si compra un bene immobile (ad es. un appartamento) a 200.000 € e dopo un po’ lo si rivende a 240.000 €.
Si acquistano in borsa a 40.000 € alcune azioni di una società quotata e, passato del tempo, le si rivendono a
60.000 €. Come si interpreta la differenza tra prezzo di rivendita e prezzo di acquisto (240.000 – 200.000 per
l’appartamento, 60.000 - 40.000 = 20.000 per le azioni)? Indica la disponibilità di un quantitativo di moneta
superiore a quello impiegato per l’acquisto, ma non si tratta di reddito prodotto, in quanto a quelle differenze
non corrisponde un flusso di nuovi beni o servizi, né si tratta di un trasferimento. E’ un incremento di valore
patrimoniale, concettualmente diverso da reddito. Si usa anche il termine plusvalore. Come già detto, per le
società si usa il termine plusvalenza (e minusvalenza, se si tratta di una perdita: ad es. un bene strumentale
acquistato da una società a 100 viene rivenduto a 80, con una perdita di 20).
La distinzione tra reddito e plusvalore è fatta, secondo un’interpretazione di studiosi tedeschi alla fine del
sec. XIX, in base all’intendimento speculativo. E’ da ricercare nella psicologia del contribuente, in quanto si
tratta dell’intento preordinato di lucrare la differenza tra prezzo di rivendita e prezzo di acquisto. Non avendo
riscontri oggettivi tale intendimento, si ricorre ad una distinzione empirica basata su di un elemento
temporale.
Due elementi sono necessari per definire il plusvalore tassabile.
Uno è il periodo di tempo nel quale si forma un plusvalore: lo stesso plusvalore di 100 si può
formare in 2 anni oppure in 5 anni, ed è considerato meritevole di tassazione più pesante quello che
si forma nel periodo più breve.
L’altro elemento è la percentuale di variazione del valore iniziale del cespite, che è un elemento
patrimoniale, reale (ad es. un terreno, un fabbricato) o finanziario (ad es. un’azione,
un’obbligazione). Lo stesso plusvalore di 100 si può formare rispetto ad un cespite del valore
iniziale di 1000 (un plusvalore del 10%) oppure rispetto ad un cespite del valore iniziale di 10.000
(un plusvalore dell’1%). Si considera meritevole di tassazione più pesante quello che si forma
rispetto ad un cespite di valore iniziale inferiore e che corrisponde ad una percentuale di incremento
maggiore.
Pertanto le aliquote delle imposte si plusvalori hanno una progressività funzione inversa del tempo di
formazione ed in funzione diretta della percentuale di variazione del valore iniziale.
I plusvalori si possono formare per:
variazioni di prezzi di alcuni patrimoni (reali o finanziari) superiori alle variazioni del livello
generale dei prezzi;
previsioni di maggiori reddito futuro da un patrimonio (attualizzazione di redditi futuri maggiorati)
aspettative di aumenti di domanda futura di certe categorie di patrimoni
variazioni dei tassi di interesse per capitali che danno redditi fissi.
PPPLLLUUUSSSVVVAAALLLOOORRRIII EEEDDD rrr AAA BBB
I plusvalori possono essere tassati come il reddito o con un’imposta speciale.
93
a) Tassati come il reddito: un plusvalore può essere incluso nel reddito imponibile, assimilato a questo
e tassato con le normali imposte sul reddito. Ciò accade:
- con le società di capitali, i plusvalori (plusvalenze) che si formano da cessioni di beni reali e
finanziari sono generalmente inclusi nell’imponibile;
- con le persone fisiche quando i plusvalori dipendono da un intendimento speculativo che si
verifica quando un soggetto compie un’operazione intenzionale di compravendita di un cespite,
con acquisto ad un prezzo più basso del valore di vendita per speculare sulla differenza.
L’intendimento speculativo si presume in base al tempo che intercorre tra acquisto e rivendita.
Per gli immobili, di solito si considera un tempo inferiore ai 5 anni; per gli strumenti finanziari
un periodo più breve.
b) Tassati con imposte speciali:
- per le società di capitali, distinguendo le plusvalenze realizzate con la cessione di beni
strumentali, tassate come reddito, da quelle realizzate con la cessione di partecipazioni
finanziarie, tassate con aliquota più bassa e con un’imposta reale;
.
- Per le persone fisiche: si ricorre ad imposte progressive speciali. Queste imposte hanno le
seguenti proprietà:
1. tassano il plusvalore netto, deducendo la componente dovuta ad inflazione: tengono conto
dell’incremento di prezzi che c’è stato tra l’acquisto e la cessione del cespite.
2. Le aliquote sono progressive non in funzione dell’ammontare dell’imponibile, ma in funzione di due
elementi:
a) delle percentuali di incremento del valore del cespite;
b) dell’intervallo di tempo intercorso tra acquisto e cessione.
Esempi. Un plusvalore netto di 100 si può essersi formato su di un valore di 1000
(10%) o di 10000 (1%): il primo va tassato più del secondo.
Tra due plusvalori di 100, formatisi su due cespiti uguali di 1000, ma il
primo formato in 6 anni, il secondo in 10 anni, si dovrà tassare il primo
con un’aliquota maggiore rispetto al secondo.
Per discriminare in base all’intervallo si può prevedere una deduzione D, dal plusvalore netto
(PN), proporzionale (secondo un tasso percentuale b) all’intervallo tra acquisto e cessione (ad
es. di n anni) secondo la formula D = nbPN. In questo modo quando il periodo è abbastanza
lungo (15 - 20 anni) l’imponibile si annulla ed il plusvalore non è più tassato.
La tassazione che considera l’intervallo di tempo può dar luogo ad un c. d. effetto di ritenzione
(lock in), che è un caso di non neutralità. Il contribuente può essere incentivato a differire il
realizzo del plusvalore con la vendita del cespite perché più tempo passa e più si riduce
l’imposta. Si può prevedere, per attenuare questo effetto, che siano pagati interessi sul
differimento dell’imposta.
E’ importante selezionare il momento della tassazione. Si possono individuare due momenti.
- Il momento della formazione del plusvalore. Il plusvalore è rilevante fiscalmente nel momento in cui si
forma l’incremento di valore di un cespite, anche se questo non viene trasferito. E’ di applicazione
complessa. E’ più facile da individuare per le società di capitali se c’è l’obbligo di esporre in bilancio il
plusvalore nell’esercizio in cui si forma, mentre è più difficile per le persone fisiche.
94
- Il momento del realizzo. Il plusvalore è imponibile quando è effettivamente monetizzato con una cessione
del cespite (vendita di un immobile, di azioni). E’ il sistema adottato generalmente per le persone fisiche.
E’ possibile un rinvio (deferral) dell’imposta se i proventi della cessione vengono reinvestiti in cespiti della
stessa tipologia. Ad esempio, si vende una casa di abitazione per comprarne un’altra; si vendono azioni per
comprarne altre. Il reinvestimento fa sì che non si applichi l’imposta sui plusvalori, la quale è rinviata al
momento in cui la cessione dei cespiti non comporti reinvestimenti.
Tassazione dei plusvalori: modalità
I valori nominali variano nel tempo e in seguito a variazioni dei prezzi. Tali
variazioni possono riguardare solo i singoli cespiti oppure possono riguardare la
variazione del livello generale dei prezzi P.
Esempio
Sia K0 il cespite nel momento M
0, K
n il valore nominale di K nel momento M
n,
ΔK è l’incremento nominale di valore nell’intervallo M0 - M
n,
δ = ΔP/P è la variazione percentuale del livello generale dei prezzi P nell’intervallo
M0 - M
n.
K0 K
n ΔK δ = ΔP/P K
0 (1+δ) ΔK
r
100 110 10 10% 110 0
100 110 10 5% 105 5
100 110 10 20% 120 -10
L’incremento di valore patrimoniale ΔKr si calcola indicizzando K in M
n: K
0 (1+δ) e
facendo la differenza ΔKr = K
n - K(1+ δ).
Il plusvalore reale può essere tassato in modo diverso. Intanto tale valore può essere
ridotto in base al tempo nel quale si è formato. Se il tempo è espresso in numero di
anni n, si può fissare una percentuale z , prima da moltiplicare per n e poi da sottrarre
da ΔKr. Ad es. se la percentuale z è del 10% la riduzione per tre anni è del 30%, per 6
anni del 60%, per 8 anni dell’80%: dopo 10 anni il plusvalore non è più tassabile.
a) Si può utilizzare l’imposta personale progressiva sul reddito del percettore
del plusvalore, con due modalità.
1. Il plusvalore è tassato con un’aliquota media (fissa o mobile) come
un reddito fluttuante (v. supra);
2. Il plusvalore è incluso nello scaglione marginale dell’anno e tassato
con l’aliquota marginale propria.
In queste ipotesi il plusvalore non viene tassato nella sua totalità, ma con un
abbattimento (del 40-50%).
b) Si ricorre ad un’imposta progressiva speciale. In questo caso la progressività
è funzione di due elementi: 1. L’ammontare del plusvalore reale, 2. la
percentuale di incremento reale di K. Si può vedere una formula.
Si prefissa un’aliquota t ed una deduzione nzΔKr : l’imposta si calcola con
T = t[ΔKr - nzΔK
r].
t è calcolata in funzione crescente della percentuale ΔKr/K: ad es.
ΔKr/K t
5% 6%
10% 12%
20% 25%
95
Si può ricorrere ad un’imposta progressiva a scaglioni: ad es.
1° scaglione la parte di ΔKr
fino al 10% di K aliquota 6%
2° scaglione la parte di ΔKr
dal 10% e fino al 25% di K aliquota 15%
3° scaglione la parte di ΔKr oltre il 25% di K aliquota 26%
Tassazione dei redditi finanziari e dei fondi pensione
I redditi finanziari (ad es. gli interessi su obbligazioni pubbliche e private, su depositi, i rendimenti di fondi
comuni, ecc.) possono essere tassati con diverse modalità.
- Solo con imposte reali, considerate imposte sostitutive dell’imposta personale. Persone fisiche e
società di capitali non devono includere nel proprio reddito imponibile i redditi finanziari
incassati. Chi eroga (ad es. una banca che paga interessi sui depositi, una società che ha emesso
obbligazioni) redditi finanziari (INT) deve versare al fisco un’imposta con aliquota
proporzionale tr di ammontare trINT e pagare ai percettori di interessi un reddito netto di
INT (1 - tr).
- Con imposte personali: prima si applicano imposte reali che sono considerate ritenute
d’acconto, poi si applicano imposte personali (di persone fisiche o di società di capitali);
se tm l’aliquota marginale della persona fisica, questa pagherà
tm [INT(1 - tr) + trINT] – trINT.
- Talora il fisco opera una distinzione: se il percettore è una persona fisica il reddito finanziario è
tassato solo con l’imposta reale, se è una persona giuridica è tassato con ritenuta d’acconto e poi
con l’imposta personale.
I fondi pensione sono costituiti da contribuenti che versano contributi periodici ad un fondo (aziendale,
assicurativo, bancario). Questi contributi si accumulano e daranno diritto a prestazioni pensionistiche.
In base a questi 3 momenti (versamento dei contributi, redditi di capitale che si accumulano nel fondo,
pagamento di pensioni) si possono distinguere diverse modalità di tassazione:
Schema EET, è il modello consigliato a livello di UE:
- esenzione dei contributi(E) nel senso di deducibilità dal reddito imponibile individuale;
- esenzione dei redditi di capitale percepiti durante l’accumulazione nel fondo, cioè i rendimenti
maturati dalle attività (E);
- tassazione delle prestazioni pensionistiche erogate (T).
Schema ETT: deducibilità dei contributi (E), tassazione dei redditi di capitale (T), tassazione delle
prestazioni (T).
Schema TEE: indeducibilità dei contributi (T), esenzione dei redditi degli investimenti
finanziari (E), esenzione delle prestazioni (E).
Schema TTE: tassazione dei contributi, non deducibili (T), tassazione dei redditi di
capitale durante l’accumulazione (T), esenzione delle prestazioni pensionistiche (E).
96
3. Le imposte patrimoniali
Imposta ordinaria sul patrimonio
Le imposte sul patrimonio, che è uno stock (consistenza) definito anche con i termini ‘cespite’ e ‘capitale’,
e che può avere diversa natura (immobiliare, come terreni e fabbricati, mobiliare fisico, come macchinari e
beni mobili di consumo durevole, finanziario come moneta, titoli, depositi, fondi) possono essere:
- Dirette: sono imposte ordinarie ed annuali, su patrimoni in proprietà, possesso o oggetto di diritti
reali.
- Indirette sui trasferimenti (imposte sui trasferimenti immobiliari o di beni mobili registrati, imposte
sulle successioni e sulle donazioni): si applicano in occasione di eventi particolari (trasferimenti),
e non su base annuale.
Inoltre si classificano in:
- Reali: sono commisurate ad una tipologia di patrimonio (es. immobili, beni di consumo durevole,
cespiti finanziari).
- Personali (o sul patrimonio netto): si commisurano alla somma di elementi patrimoniali riferiti ad
un soggetto, persona fisica o giuridica, somma corretta per i debiti contratti per acquisire componenti
del patrimonio personale.
- Generali: sono imposte che si applicano su tutti i patrimoni.
- Speciali: colpiscono solo alcuni tipi di patrimoni (ad es. gli immobili o solo le abitazioni, come le
imposte sulla proprietà (property tax).
Si tratta di imposte di origine molto remota, come il censo presso l’antica Roma e l’antica Grecia e molto
diffuse nel medioevo.
La giustificazione dell’esistenza di imposte patrimoniali nell’ordinamento tributario si fonda su alcune
considerazioni.
- Il patrimonio è un indicatore di capacità contributiva come il reddito ed il consumo e di per sé
genera redditi e consumi. In molti casi è un indicatore più completo del reddito.
- I patrimoni danno prestigio sociale e sicurezza economica: si tratta di utilità che non sono colpite da
un’imposta sul reddito.
- Le variazioni patrimoniali sono meglio tassabili se è colpito direttamente il patrimonio: si ricordi il
concetto di reddito-entrata.
- In base al principio del beneficio gli incrementi dei patrimoni dovuti alla spesa pubblica (ad es. gli
effetti delle infrastrutture urbanistiche sui valori degli immobili) con la tassazione patrimoniale
evidenziano un rapporto di scambio tra spese ed imposte (l’antico ruolo dello Stato come tutore
della proprietà)
- I trasferimenti di patrimoni per donazione e successione, che non trovano fondamento nel lavoro e
nel merito individuale e che sono causa di forti disuguaglianze, rappresentano imponibili
storicamente preferenziali per finalità redistributive.
Il patrimonio è un imponibile costruito con diverse modalità, variabili a seconda delle tipologie di cespiti.
97
- Alcuni patrimoni si possono valutare correttamente in base al loro valore di mercato, dedotto dai
prezzi di vendita; è il metodo più sicuro e più realistico, ma applicabile solo quando i patrimoni sono
scambiati in mercati abbastanza efficienti.
- Altri patrimoni sono ricostruiti attraverso una capitalizzazione dei redditi: il valore del patrimonio
(stock) è ricavato dall’attualizzazione dei redditi futuri previsti (flussi) e generati dallo stesso
patrimonio: è un metodo che si presta ad essere utilizzato per alcuni redditi/patrimoni finanziari,
quando sono noti i tassi di attualizzazione, mentre per altri può essere improprio (ad es. valutando
un immobile capitalizzando canoni di locazione);
- Altri patrimoni sono definiti in base a valori accertati dal fisco, attraverso riferimenti a patrimoni
noti, con presunzioni ed approssimazioni: è il metodo meno affidabile, che può creare sperequazioni
tra i contribuenti, ricorsi contro il fisco, perdite di gettito.
All’imponibile patrimonio si applicano le aliquote. Per le imposte dirette (reali e personali) sul patrimonio:
sia K l’imponibile, tk l’aliquota e Tk l’imposta. Avremo
Tk = tkK.
Si noti che l’imposta sul reddito è in realtà un’imposta sul reddito patrimoniale, ma che è commisurata al
patrimonio K anziché al reddito R e decurta in reddito, non il patrimonio. Si dice che non deve essere ad
incidenza patrimoniale, nel senso che non deve obbligare il contribuente a vendersi parte del patrimonio per
ottenere la liquidità necessaria per pagare l’imposta. Pertanto l’imposta deve essere contenuta nel rendimento
annuale del patrimonio tassato (rK, dove r è il tasso di rendimento di K).
Vi è quindi un’equivalenza tra imposta commisurata al patrimonio K ed un’imposta commisurata al reddito
R del patrimonio stesso (R = rK).
Per questa equivalenza dovrà essere
tR = tkK . Poiché K = R/r abbiamo tR = tk R/r e quindi
t = tk/r e tk = tr
relazioni che indicano come passare da un’aliquota ad un’altra, su due diversi imponibili, R e K, per avere
parità di gettito.
Questa equivalenza non è sempre vera in quanto esistono patrimoni infruttiferi che, anche
temporaneamente, non danno reddito (un terreno non coltivato, un’immobile non locato e non utilizzato,
un’azione che non dà dividendi). Altri patrimoni danno un reddito psicologico (è il caso dei beni di lusso, dei
beni di antiquariato, dei gioielli, delle opere d’arte, delle collezioni), ma non un reddito monetario. In questi
casi non si può tassare un reddito patrimoniale, ma deve essere tassato direttamente il valore del patrimonio.
L’imposta sul patrimonio è utilizzata come complemento dell’imposta sul reddito e non come sostituto.
Essa permette di:
a) discriminare tra reddito di lavoro ed altri redditi;
b) avere un effetto incentivante, se induce ad utilizzare un cespite in modo fruttifero, in modo da avere
redditi per pagare l’imposta;
c) tassare il reddito psicologico che sfugge ad una definizione economicamente precisa, ma che
rappresenta un’utilità per il contribuente e quindi tassare redditi non compresi nel reddito entrata;
d) realizzare una progressività nel sistema tributario che le imposte sul reddito da sole non possono
dare.
Progressività, regressività ed imponibili.
Il concetto di imposta progressiva si riferisce ad un determinato imponibile. Può succedere che:
a) un’imposta proporzionale su un imponibile sia progressiva se riferita ad un altro imponibile, e
b) un’imposta proporzionale su un imponibile sia regressiva su di un altro imponibile.
98
Vediamo il caso a). Si prenda un’imposta generale sul patrimonio K e si vedano tre imponibili crescenti. Si
è empiricamente constatato come il reddito, per le famiglie che abbiano sia K che R, normalmente cresca in
modo meno rapido rispetto a quello con cui crescono i patrimoni (nell’esempio, se un patrimonio si triplica il
reddito raddoppia). Sia tk = 1%.
Patrimoni K Redditi R Imposta su K (=tkK) tkK/R
1000 100 10 10/100 = 10%
3000 200 30 30/200 = 15%
9000 400 90 90/400 = 22,5%
Si vede come un’imposta proporzionale generale sul patrimonio si comporta come un’imposta generale
progressiva sul reddito. La conclusione è dovuta allo statistico Rodolfo Benini (negli anni ’20 del sec. XX).
IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII BBBEEENNNIIINNNIII AAA BBB
Il caso b) si può illustrare con un’imposta speciale sul patrimonio. I valori dei patrimoni speciali (ad es. le
abitazioni) crescono più lentamente dei redditi delle famiglie proprietarie. L’esempio diventa, con tk = 1%
Patrimoni K Redditi R Imposta su K (= tkK) tkK/R
1000 100 10 10/100 = 10%
1500 200 15 15/200 = 7,5%
2000 400 20 20/400 = 5%
Un’imposta speciale proporzionale sul patrimonio può essere regressiva se riferita al reddito. Dato che tali
imposte patrimoniali speciali sono abbastanza diffuse (negli USA con la property tax, in paesi europei con
imposte locali sul patrimonio immobiliare) sono stati introdotti alcuni correttivi proprio per evitare o limitare
gli effetti di regressività, ad es.: a) limitando l’imposta speciale ad una quota del reddito complessivo della
persona fisica o della famiglia; b) concedendo esenzioni, parziali o totali (come per l’abitazione di
residenza, o con una deduzione fissa); c) differenziando le aliquote per tipologie o valore degli immobili,
così da approssimare un’imposizione progressiva (o almeno proporzionale, quando riferita al reddito) pur
utilizzando un’imposizione di tipo reale.
Imposta sul patrimonio ed imposta sul reddito: la neutralità rispetto al rischio
Il rendimento del patrimonio sicuro è inferiore a quello del patrimonio rischioso. Chi rischia pretende un
rendimento maggiore. Questo maggior rendimento include un ‘premio di rischio’, da intendersi come una
modalità di assicurazione, un reddito che potrebbe essere pagato ad una società di assicurazioni per
trasformare il patrimonio da rischioso in sicuro. Perciò, al netto di questo premio, sarebbero uguali i
rendimenti netti del patrimonio rischioso e di quello sicuro.
Un esempio.
Siano KR e KS capitale rischioso e sicuro, entrambi = 1000. Il rendimento di KS sia di r = 5%, di
KR sia r* = 10%, dove r* = r + a. Questo 10% risulta composto da un 5% (r) uguale al tasso di
rendimento di KS più un altro 5% (a) che indica il premio percentuale per il rischio. Il rendimento
di KS è di rKS = 50, quello complessivo di KR di r*KR = 100 (50 + 50), ma quello netto è di 50,
così come per KS.
99
Un’imposta sul reddito con t = 20%:
- per il reddito del capitale sicuro
trKS = 20% 50 = 10 , il reddito netto è 50-10=40;
- per il reddito del capitale rischioso
tr*KR = 20% 100 = 20; il reddito netto è 100 – 20 = 80. Da questo reddito netto va tolta la
componente dovuta al rischio, che è rimasta pari ad aKR = 50, e si ha 80 – 50 = 30: il reddito netto
di KR è diventato inferiore al reddito netto di KS.
L’imposta sul reddito colpisce tutto il reddito senza distinguere tra reddito e componente dovuta
alla presenza di rischi. Pertanto riduce il reddito netto di più per i capitali rischiosi,
disincentivando gli investitori e orientandoli verso patrimoni sicuri, discriminando a favore di
questi ultimi. I redditi dei capitali rischiosi determinano, al netto dell’imposta sul reddito, un
processo di ammortamento dell’imposta più forte rispetto ai redditi dei capitali futuri,e quindi alla
fine sarà KS > KR.
Un’imposta sul patrimonio con tK = 1%
KS = 1000 KR= 1000
tKKS = 10 e rKS- tKKS = 50 -10 = 40 tKKR = 10 r*KR - tKKR - aKR = 100 -10 - 50 = 40
L’imposta sul patrimonio lascia inalterato il rendimento netto perché non tassa la quota
corrispondente al maggior rischio e non influisce sulla scelta tra patrimoni sicuri e patrimoni
rischiosi.
Il rischio è la probabilità di perdita che possono avere un valore capitale o un reddito. Si
distingue tra:
a) rischio di capitale: è la probabilità di perdita di un capitale, ed è il rischio più grave:
b) rischio di reddito: è la probabilità di perdita di un reddito che, temporaneamente, può non
manifestarsi (ad es. un dividendo, un canone di locazione), ma non implica perdita del
capitale;
c) rischio di liquidità: indica la possibile difficoltà di trasformare un patrimonio, reale o
finanziario, in forma liquida (in moneta) con una vendita, per temporanee difficoltà di
mercato.
Un’imposta ordinaria sul patrimonio venne istituita in Italia nel 1939 (rdl
12.10.1939, n. 1529) e soppressa nel 1947, dopo essere stata trasformata in
imposta straordinaria, che anticipava (i.e. attualizzava) il gettito futuro
dell’imposta ordinaria. Colpiva, con aliquota dello 0,5%, poi elevata a 0,75%
il patrimonio netto, di persone fisiche e giuridiche, costituito da beni esistenti
nello Stato.
Per notizie storiche v. il Progetto Meda (1919), nonché di C. Cosciani,
L’imposta ordinaria sul patrimonio nella teoria finanziaria (1940). In
Francia l’impôt sur les grandes fortunes introdotta nel 1982 è stata soppressa
nel 1987 e sostituita con l’ impôt de solidarité sur la fortune nel 1989: 6
scaglioni, con aliquote da 0,55% a 1,80% ed un elevato limite di esenzione
iniziale (CGI artt. 885 sgg).
Imposte sui trasferimenti patrimoniali
Sono imposte di origine piuttosto antica e che si commisurano a trasferimenti inter vivos di elementi
patrimoniali, reali o finanziari. Hanno avuto, ed hanno ancora, particolari funzioni, come:
100
1. approssimare un’imposizione annuale sul patrimonio: anziché tassare il patrimonio anno per anno, lo si
tassa al momento del trasferimento: in questo modo si ritiene che si possa semplificare, come costi di
amministrazione e come costi per il contribuente, la tassazione ordinaria;
2. approssimare la tassazione dei plusvalori formatisi su beni immobili o su prodotti finanziari: tassando
l’intero valore di cessione, al momento del trasferimento, si riducono le difficoltà di calcolo del plusvalore
incluso;
3. essere sostitutive di imposte indirette generali:
a) le imposte indirette generali si applicano quando il soggetto che vende (o, più in generale,
trasferisce) è un’impresa;
b) le imposte sui trasferimenti patrimoniali si applicano quando il soggetto che vende è una persona
fisica.
In Italia nel 1923 venne istituita, riordinando imposte precedenti, l’imposta di registro,
vigente ancora oggi, che tassava le trasmissioni di proprietà e di altri diritti reali, insieme
agli atti in forma pubblica e privata, giudiziali e stragiudiziali, i contratti relativi a beni
immobili; l’imposta era determinata con aliquote progressive, proporzionali o fisse, a
seconda degli atti imponibili.
Dal 1973 è in regime di alternatività all’IVA: sostituisce l’IVA quando in un atto di
cessione il cedente non è un’impresa.
Si consideri la possibilità di equivalenza tra un’imposta annuale Ta = taK ed
un’imposta sui trasferimenti TT = tTK.
Vi sia un tasso di interesse r. Lo spostamento di un’imposta annuale Ta all’anno
successivo comporta il pagamento di un interesse rTa, così che il totale nel secondo
anno diventa Ta(1+r); se si sposta di due anni si aggiunge un ulteriore interesse di
rTa(1+r) ed il totale diventa Ta(1+r)(1+r) = Ta(1+r)2. Lo spostamento in avanti
all’anno n fa diventare l’imposta pari a Ta(1+r)n.
Una successione di imposte annuali Ta + Ta + Ta +…+ Ta = taKn equivale a
Ta(1+r)n +…+ Ta(1+r)
2 +Ta(1+r) +Ta = taK[(1+r)
n +…+ (1+r)
2 + (1+r) + 1]
L’aliquota che permette di eguagliare la somma dei gettiti di un’imposta annuale al
gettito di un’unica imposta sui trasferimenti è tT = ta[(1+r)n +…+ (1+r)
2 + (1+r) +
1]: l’aliquota dell’imposta annuale è moltiplicata in funzione dei tassi di interesse
annuali e cresce in funzione dell’intervallo devolutivo.
Le imposte sui trasferimenti oltre ad essere state considerate un’alternativa pratica ad imposte ordinarie sul
patrimonio e ad imposte sui plusvalori, possono avere un ruolo come misure di politica economica. Ad es.,
come già ricordato (Tobin tax), e come pure accennato già da Keynes, imposte sui trasferimenti di titoli ed in
genere di prodotti finanziari negoziati in borsa servono per rallentare (come ‘sand in the wheels’) i processi
di contrattazione e scambio nei mercati finanziari che, se troppo accelerati, possono generare bolle
speculative o crolli dei corsi, innescando pericolose euforie o momenti di panico.
101
Imposte sulle successioni e sulle donazioni
Sono tra le imposte più antiche (come quella istituita da Augusto con una Lex Julia Vicesimaria del 5 d.C.
che tassava la vicesima (pars) hereditatum et legatorum, al 5%). La giustificazione economica dell’imposta
sulle successioni è stata basata sul ‘diritto di coeredità’ che avrebbe lo Stato sui patrimoni trasferiti
mortis causa, o anche sul recupero di imposte sui consumi non effettuati dal de cuius in vita.
La struttura è generalmente consistente di due componenti:
- un’imposta sull’asse ereditario netto (il valore patrimoniale dei cespiti lasciati dal de cuius,
diminuito dei debiti): è un’imposta patrimoniale personale, sul patrimonio netto, progressiva con una
forte deduzione iniziale;
- imposte sulle singole quote ereditarie: le quote sono tassate con imposte progressive; queste
imposte sono progressive in funzione del grado di parentela (più stretto è il vincolo di parentela
dell’erede con il de cuius, tanto più basse sono le aliquote).
Sono state proposte diverse strutture di imposte sulle successioni:
- un’imposta solo sulle singole quote ereditarie: a questa è stata successivamente affiancata (in Italia
nel 1923) l’altra imposta, sull’asse ereditario netto, che sostituisse un’imposta annuale sul
patrimonio.
- Un’imposta progressiva in cui le singole quote di eredità prima di essere tassate dovessero essere
sommate al patrimonio dell’erede, così da far aumentare le aliquote marginali in funzione della
ricchezza di quest’ultimo.
- Un’imposta discriminata in funzione dell’età dell’erede: quanto più giovane è l’erede tanto più
gravosa dovrebbe essere l’imposta, in quanto le aspettative di utilizzo del patrimonio ricevuto in
eredità sono riferite a tempi più lunghi, pertanto, a parità di aliquote, il valore del patrimonio
dovrebbe stimarsi calcolando l’usufrutto presumibile del patrimonio stesso, in base alle tavole di
mortalità ed alle aspettative di vita dell’erede, e poi capitalizzando l’usufrutto.
- Un’imposta discriminata in funzione del numero di passaggi per via ereditaria: la quota di eredità
di un solo passaggio (proprietà accumulata dal testatore e trasmessa all’erede) andrebbe tassata
normalmente; quella già ricevuta in eredità dal testatore e trasmessa all’erede andrebbe tassata al
50%, quella frutto di due passaggi ereditari andrebbe tassata al 100% e confiscata. La logica della
proposta si trova nel rapporto tra lavoro del de cuius e patrimonio ricevuto dall’erede. Si ritiene più
meritato il patrimonio realizzato dal de cuius con il proprio lavoro in vista della trasmissione
ereditaria, rispetto a quello accumulato da soggetti precedenti e già trasmesso una o due volte in
eredità. E’ il progetto formulato da Rignano (1901) e ripreso successivamente per incentivare la
mobilizzazione dei patrimoni con trasferimenti inter vivos, ostacolando la concentrazione ereditaria
nelle famiglie.
L’imposta sulle successioni include le donazioni, per evitare una facile elusione dell’imposta attraverso una
donazione che precede il passaggio di eredità. Quindi le donazioni già ricevute dall’erede si sommano
(istituto della c.d. collazione) alla quota ereditaria e l’imposta si calcola sul totale. Al momento della
donazione è già pagata in acconto un’imposta che poi verrà in detrazione dall’imposta sulle successioni.
102
3. Le imposte indirette
Tipologie
Storicamente le imposte indirette nascono come imposte speciali di fabbricazione, accise, imposte di bollo,
imposte speciali ad valorem. Colpiscono il produttore o il venditore di un bene o servizio. Un esempio sono
le gabelle, ad es. sul sale. Il metodo di applicazione è abbastanza semplice. L’imposta speciale si può
commisurare alla quantità (ed essere un’imposta unitaria Ti) e quindi sommarsi al prezzo unitario (p+Ti) o
al costo di produzione, oppure si può commisurare, con aliquota ti, al prezzo, p(1+ti). Le imposte indirette
speciali, specifiche o ad valorem, hanno particolari effetti e caratteristiche.
In primo luogo si deve vedere qual è il massimo gettito di un’imposta specifica/ad valorem, problema già
affrontato da J. Dupuit.
IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII DDDUUUPPPUUUIIITTT ––– 111 AAA BBB
IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII DDDUUUPPPUUUIIITTT ––– 222 AAA BBB
La relazione tra imposta indiretta, domanda individuale ed eccesso di pressione, in modo da
definire imposte indirette ottime, è fondata su due regole.
- Regola di Ramsey (da F. P. Ramsey): per minimizzare l’eccesso di pressione complessivo le
aliquote delle imposte indirette, per ottenere un gettito complessivo dato, devono essere scelte in
modo da determinare riduzioni percentuali uguali nella quantità domandata di ciascun bene. Ne
segue la
- Regola dell’elasticità inversa: se due beni non sono collegati nel consumo (non sono complementari
né surrogati) le aliquote di imposte indirette ottime devono essere inversamente proporzionali
all’elasticità della domanda di ciascun bene: devono essere tassati con aliquote più alte i beni a
domanda più rigida.
LLLAAA RRREEEGGGOOOLLLAAA DDDEEELLLLLL ’’’EEELLLAAASSSTTTIIICCCIIITTTAAA ’’’ IIINNNVVVEEERRRSSSAAA AAA BBB
Tali regole spiegano come imposte indirette ad aliquota unica su tutti i beni non siano ottime. Le
aliquote dovrebbero, invece, essere differenziate a seconda dell’elasticità. Si tratta di un principio
teorico di scarsa praticità, sia perché è difficile determinare l’elasticità della domanda individuale
(si tratterebbe di imposte ‘individualizzate’), sia perché andrebbero tassati di più i consumi
necessari, a domanda più rigida, con effetti evidenti di regressività rispetto al reddito.
Intorno agli anni ’30 del sec. XX nascono le imposte indirette generali, che poi si diffondono nei paesi
europei negli anni ’40 e ’50. L’origine delle imposte indirette generali è fatta risalire fin alla centesima
rerum venalium di Giulio Cesare, all’alcabala spagnola introdotta intorno al 1340. Gabella ed alcabala
hanno probabilmente la stessa etimologia.
Si distinguono le fasi a) della produzione e b) della distribuzione. Sia nella produzione che nella
distribuzione possono esservi più fasi, ciascuna corrispondente ad una diversa impresa. Nella produzione vi
può essere un produttore di materie prime, un successivo produttore di semilavorati ed infine un produttore
103
del prodotto finito. Nella distribuzione vi può essere un venditore all’ingrosso (grossista), che acquista il
prodotto finito dall’ultimo produttore, ed un venditore al dettaglio (dettagliante), che acquista dal grossista e
poi vende al consumatore finale. Il processo di cessione/acquisto che va dal produttore al venditore al
dettaglio è detto a valle; in senso inverso, dal venditore al dettaglio verso il primo produttore, è a monte.
Il movimento a valle è così indicato:
produttore => grossista => dettagliante => consumatore finale
In questa sequenza avremo 3 prezzi: quello pagato dal grossista al produttore pg, quello pagato dal
dettagliante al grossista pd, quello pagato dal consumatore al dettagliante pc (il prezzo finale).
Nel movimento a valle i prezzi crescono.
Il grossista aggiunge, al prezzo pg pagato al produttore, sia i costi da lui sostenuti (acquisti di
materiali di consumo, spese per beni strumentali, costi di energia, di trasporti, di assicurazioni, di
vigilanza, ecc.) sia il valore aggiunto (i redditi corrisposti ai lavoratori, i canoni di locazione, gli
interessi, il suo margine di profitto) ed include tutto questo, insieme a pg, nel prezzo pd fatto pagare
al dettagliante.
Il dettagliante aggiunge al prezzo pd i suoi costi ed il suo valore aggiunto e li trasferisce in pc,
aumentando il prezzo al consumatore.
L’obiettivo delle imposte indirette generali è di tassare i valori, espressi nei prezzi di scambio tra imprese
fino ai consumatori finali, che si formano nei processi di produzione e vendite. L’imposta può essere
applicata sull’intero prezzo del bene o servizio, comprensivo del valore aggiunto e degli acquisti (valore
pieno), oppure sul valore aggiunto, scorporando gli acquisti dai redditi formati in quella fase di produzione
o distribuzione.
L’imposta indiretta generale può essere applicata:
- in una sola fase, vale a dire in un solo passaggio da un imprenditore ad un altro (imposta monofase);
- in più fasi, quindi in più passaggi tra imprenditori (imposta plurifase).
Imposta monofase
Si applica in una sola fase, ad esempio:
1. nel passaggio dal produttore al grossista (monofase alla produzione: è pagata dal grossista al
produttore, che poi la versa al fisco);
2. nel passaggio dal grossista al dettagliante (monofase all’ingrosso: è pagata dal dettagliante al
grossista, che la versa);
3. nel passaggio dal dettagliante al consumatore finale (monofase al dettaglio o pura: è pagata dal
consumatore finale al dettagliante, che la versa).
L’imposta monofase può essere commisurata al prezzo di un bene o servizio (pg, pd o pc) come imposta
speciale, o all’insieme dei prezzi di vendita (fatturato) di un’impresa. Può essere generale o speciale.
Imposte plurifase cumulative
Le imposte plurifase, che si applicano in tutte le fasi della produzione e della distribuzione, o comunque in
più fasi, possono essere a) cumulative, e b) non cumulative.
L’imposta plurifase cumulativa è la più antica delle imposte indirette generali di tipo moderno.
Diffusa in Europa a partire dagli anni ’30 del sec. XIX, è stata sostituita, negli anni ’60 -’70 del sec. XX,
dall’imposta sul valore aggiunto (in Italia nel 1973), che è un’imposta plurifase non cumulativa. In Italia
l’imposta plurifase cumulativa ha avuto la forma di un’imposta generale sull’entrata (IGE) dal 1940 al
1972. L’IGE aveva un’aliquota normale (3,30-4%) e tante aliquote maggiorate (fino al 20%).
104
Le modalità di applicazione sono semplici.
- L’imposta è pagata dall’acquirente sul prezzo pieno (che include le imposte pagate in precedenza).
Non si tiene conto delle imposte già pagate, che sono incorporate nel prezzo.
Esempio. L’impresa A vende a B ad un prezzo di 100. B paga un’imposta del 10% (= 10) ed il
prezzo diventa 110. B vende a C aggiungendo un suo margine, di costi e di valore aggiunto, di 50 ed
il prezzo complessivo è di 160 (110+50) sul quale si applica un’aliquota del 10% (=16); il prezzo
complessivo è di 176. L’imposta del 10% si applica su di un imponibile che comprende l’imposta
precedente di 10 (c.d. effetto a cascata o cumulo dell’imposta).
- L’ammontare dell’imposta dipende dal numero di passaggi tra imprese prima di arrivare al
consumatore finale. Meno passaggi comportano minori imposte. Se A e B si fondono e vendono a C
per 150 (senza dover pagare la prima imposta su 100) si pagherebbe solo 15 (10% su 150).
L’imposta, pertanto, non è neutrale rispetto alla struttura di un processo produttivo ed incentiva le
imprese ad integrarsi, nel senso di fondersi ed assumere più fasi al loro interno, evitando il
replicarsi dell’imposta sull’imposta.
- L’imposta non è facilmente individuabile nel prezzo all’esportazione, dato che non sono noti i
passaggi precedenti, pertanto è difficile o impossibile procedere al rimborso dell’imposta
all’esportazione in termini esatti: i vecchi sistemi di rimborso, con tariffe forfetarie, diventavano
sussidi all’esportazione, quando si restituiva più dell’imposta pagata o tassavano parzialmente le
esportazioni quando il rimborso era solo parziale.
2. Imposta plurifase non cumulativa (imposta sul valore aggiunto - IVA).
Ha origine da un’imposta francese ‘a pagamenti frazionati’ della fine degli anni ’40 del secolo scorso.
L’obiettivo è quello di approssimare una monofase al dettaglio tassando solo il valore aggiunto in ogni fase
in cui si forma e di non ostacolare il commercio internazionale.
- L’imposta è pagata dall’acquirente sul prezzo netto (che non include le imposte pagate in
precedenza). Si tiene conto delle imposte già pagate, che sono scorporate nel prezzo.
Esempio. L’impresa A vende a B ad un prezzo di 100. B paga un’imposta del 10% (= 10) ed il
prezzo per B è di 110. B vende a C aggiungendo un suo margine, di costi e di valore aggiunto, di 50
ed il prezzo complessivo per C è di 160 (110+50). Ora l’aliquota del 10% si applica su 150 e non su
160 (=15). C calcola 15, ma siccome B ha già pagato 10, C paga solo la differenza (15 – 10 = 5). Il
prezzo per B è di 165 (150+15). L’imposta del 10% si applica su di un imponibile che esclude
l’imposta precedente di 10 pagata da A.
- L’ammontare dell’imposta non dipende dal numero di passaggi tra imprese prima di arrivare al
consumatore finale. Se A e B si fondono l’imposta rimane dello stesso importo (15), solo che
verrebbe pagata in unica soluzione. L’imposta è neutrale rispetto alla struttura di un processo
produttivo e non incentiva le imprese ad integrarsi.
- L’imposta è facilmente individuabile nel prezzo all’esportazione ed è possibile procedere al
rimborso dell’imposta all’esportazione.
Esistono diverse tipologie di imposte plurifase non cumulative sul valore aggiunto.
1. IVA per addizione o per somma
L’imponibile è costruito, a livello di impresa e di contabilità aziendale, sommando i redditi distribuiti ai
fattori di produzione: redditi di lavoro dipendente (RLD), profitti (sia accantonamenti che dividendi)
(UT), interessi (INT), rendite (es. canoni di locazione) (RN), compensi a terzi (CT). L’insieme delle
remunerazioni pagate dall’impresa ai fattori di produzione (lavoro, capitale, ecc.) costituisce il valore
aggiunto.
Data un’aliquota ti, l’imposta è Ti = ti (RLD+UT+INT+RN+CT).
L’imponibile a livello aggregato coincide con il valore aggiunto aggregato o prodotto nazionale lordo,
calcolato come somma delle remunerazioni dei fattori di tutte le imprese.
105
Questa imposta richiede che siano deducibili, a livello di ciascuna impresa, per evitare doppie imposizioni:
a) i redditi ricevuti da altre imprese e già assoggettati a tassazione;
b) le quote di ammortamento degli impianti.
La struttura dell’IVA per addizione, commisurandosi a tutti i redditi prodotti, si avvicina ad un’imposta
diretta generale sul reddito, con la differenza che non riduce direttamente l’importo dei redditi prodotti
come un’imposta sul reddito.
Esempi di questa modalità di tassazione si ritrovano, nella forma di business taxes, in alcuni stati degli S.U.
2. IVA per sottrazione o differenza
In questo genere di imposta sul valore aggiunto all’imponibile valore aggiunto si arriva operando una
sottrazione tra due termini. Le modalità di applicazione sono suddivisibili in due gruppi.
2a. IVA PER SOTTRAZIONE SU BASE EFFETTIVA
L’imposta vuole tassare il valore aggiunto della produzione. L’imponibile si costruisce sottraendo dal
valore della produzione dell’anno (VPA) il valore degli acquisti (effettuati nell’anno oppure in periodi
precedenti) immessi nella produzione dell’anno (VAP).
L’imposta è Ti = ti(VPA-VAP).
Non conta se i prodotti dell’anno sono venduti interamente o sono conservati in magazzino, come
scorte, per essere venduti in esercizi successivi.
L’effetto dell’imposta è di tassare le scorte derivanti dalla produzione dell’anno che verranno
vendute successivamente. L’impresa è obbligata ad anticipare l’imposta rispetto alle entrate
provenienti dalla vendita futura delle scorte.
2b. IVA PER SOTTRAZIONE SU BASE FINANZIARIA
L’imposta tassa il valore aggiunto calcolato su vendite ed acquisti. L’imponibile è definito come differenza
tra fatturato di vendite dell’anno (FVA) e fatturato di acquisti dell’anno (FAA). Il fatturato delle vendite
dell’anno può dipendere sia dalla vendita di prodotti dell’anno che dalla vendita di prodotti di anni
precedenti conservati in magazzino. Egualmente gli acquisti dell’anno si possono riferire a prodotti immessi
nella produzione dell’anno o conservati in magazzino per essere immessi nella produzione di anni futuri.
Il valore aggiunto tassabile è VA = FVA – FAA.
Per le spese di acquisto di beni di investimento a durata pluriennale si hanno diverse possibilità:
Iva tipo prodotto: non sono deducibili gli acquisti di beni pluriennali di investimento (c.d. IVA al
lordo degli impianti): era la prima e più antica struttura dell’imposta sul valore aggiunto in Francia.
Iva tipo reddito: sono deducibili da FVA anche le quote di ammortamento dei beni pluriennali
(c.d. IVA al netto degli ammortamenti).
Iva tipo consumo: gli acquisti di beni di investimento sono interamente deducibili da FVA
nell’anno in cui è sostenuta la spesa (c. d. IVA al netto delle spese per gli impianti). E’ la modalità
attuata nei paesi dell’UE.
L’IVA per differenza può essere applicata con due modalità:
con il sistema della deduzione base da base: prima si fa la differenza tra i fatturati di vendite ed
acquisti e poi si applica l’imposta: Ti = ti(FVA – FAA). Era un progetto tedesco di
applicazione dell’imposta in sede di Comunità Europea, che però non venne adottato.
Con il sistema della detrazione imposta da imposta: l’imposta applicata sugli acquisti è detratta
dall’imposta calcolata sulle vendite: Ti = tiFVA – tiFAA. Prima si calcolano le imposte e poi si
fa la differenza tra le imposte. Questo era il metodo francese, che venne adottato per tutti i paesi
della Comunità Europea in seguito alle Direttive del 1967.
106
Esempio. In un anno un’impresa vende con un fatturato di 600 (FVA) ed acquista con un fatturato di 400
(FAA). Il valore aggiunto imponibile è FVA - FAA = 600 – 400 = 200. Sia ti = 20%.
Con la deduzione base da base: ti(FVA – FAA) = 20%(600 – 400) =
20% 200 = 40 (Ti).
Con la detrazione imposta da imposta: tiFVA – tiFAA = 20%600 – 20%400 =
120-80 = 40 (Ti).
Il risultato è identico se l’aliquota ti è la stessa su vendite ed acquisti. L’IVA ha aliquote diverse nei vari
paesi e, all’interno dei paesi esistono aliquote differenziate. Si distingue tra:
un’aliquota standard (la più diffusa su cessioni di beni e servizi)
una o più aliquote ridotte (inferiori a quella standard)
una o più aliquote maggiorate (rispetto a quella standard).
Le aliquote ridotte si applicano su beni e servizi ritenuti meritevoli da un punto di vista sociale (ad es. latte,
pane, vestiario), mentre le aliquote maggiorate possono colpire beni e servizi considerati di lusso. Questo si
fa per limitare gli effetti regressivi (rispetto al reddito) di un’imposta indiretta generale come l’IVA.
Gli effetti di regressività sul reddito delle imposte sui consumi sono noti da tempo. Sono gravi soprattutto se
le imposte colpiscono beni di prima necessità, i consumi dei quali sono in elevata quota del reddito per i più
poveri, mentre la quota decresce man mano che il reddito aumenta. In generale i consumi, al crescere del
reddito, crescono meno che proporzionalmente. L’effetto di regressività si può vedere con l’esempio di
un’imposta generale (o speciale) sui consumi, con ti = 10%
Consumi C Redditi R Imposta su C (= tiC) tiC/R
80 100 8 8/100 = 10%
140 200 14 14/200 = 7%
240 400 24 24/400 = 6%
I consumi aumentano meno che proporzionalmente rispetto al reddito, quindi un’imposta proporzionale sui
consumi può diventare regressiva se riferita al reddito.
Un futuro modello dell’UE PER L’IVA prevede due forchette di aliquote, in pratica due scaglioni: nel
primo, aliquote ridotte, comprese tra un massimo ed un minimo, nel secondo aliquote standard, pure
comprese tra un massimo ed un minimo.
L’acquirente di un bene o servizio paga l’IVA inclusa nelle fatture dei suoi acquisti ed a sua volta addebita
l’IVA nelle sue fatture di vendita, poi versa al fisco la differenza tra IVA da lui pagata e IVA da lui
addebitata. Per evitare possibilità di evasione specialmente in alcuni settori come edilizia, subappalti e
materiale informatico (l’IVA è l’imposta con il maggior tasso di evasione) è stato previsto il meccanismo di
inversione contabile (o reverse charge) che elimina la detrazione dell'Iva sugli acquisti. Se il cliente è
imprenditore o professionista, l'Iva non viene applicata. Il cedente/prestatore di beni/ servizi emette fattura
senza IVA, indicando che l’operazione è assoggettata ad inversione contabile, mentre il destinatario integra
nella fattura ricevuta l’aliquota IVA dell’operazione. Il fine di questo meccanismo è di evitare, nei rapporti
intracomunitari, che la detrazione di IVA sia applicata da fornitori esteri ed incassata da Stati esteri o che non
venga versata, dato che le detrazioni Iva nei rapporti transnazionali andrebbero regolate con una stanza di
compensazione comunitaria, mai istituita. L’inversione contabile è utilizzata pure per contrastare le c.d.
frodi carosello, dove, nei passaggi internazionali, il fornitore non versa l'IVA (anche interponendo
107
intermediari fittizi e di comodo), mentre il cliente ha diritto alla detrazione. L’obbligo dell’imposizione
tributaria è trasferito dal venditore all’acquirente e si concretizza nell’emissione di un’autofattura, così che
sia il destinatario a corrispondere l’IVA al fisco anziché il fornitore.
Sempre di recente è stato previsto che, con lo split payment, la Pubblica Amministrazione versi ai suoi
fornitori l’importo delle fatture, relative a cessioni o prestazioni, al netto dell’IVA e successivamente
provveda a versare l’importo dell’IVA direttamente al Fisco.
4. Le imposte straordinarie
Come già ricordato nel primo capitolo, sono misure di finanza straordinaria, entrate in conto capitale
introdotte per far fronte ad esigenze eccezionali del bilancio pubblico (guerre, calamità naturali, crisi
economiche gravi) con imposte che hanno antichi esempi fin dall’eisphorà ateniese e che rimangono solo
temporaneamente nell’ordinamento tributario. L’eccezionalità del momento fa sì che sull’imposta
straordinaria si formi un consenso sociale che non vi sarebbe in altri momenti. Ciò è evidente quando si tratta
di tassare ‘profitti di guerra’ non meritati, come avviene nei periodi di dopoguerra, o quando si tratta di
ricorrere alla solidarietà collettiva. Si tratta di solito di imposte ad incidenza patrimoniale, nel senso che
obbligano il contribuente a liquidare parte del suo patrimonio per pagare l’imposta, non essendo sufficiente
il reddito, ma si possono avere, nelle altre circostanze, imposte straordinarie e temporanee anche su altri
imponibili.
Le imposte straordinarie possono essere introdotte con diverse modalità:
a. si introduce un’imposta del tutto nuova, diversa da quelle esistenti
nell’ordinamento tributario, ad es. un’imposta straordinaria
progressiva su patrimonio con aliquote elevate;
b. si introducono addizionali o sovrimposte su imposte esistenti;
c. si aumentano fortemente le aliquote di imposte esistenti: ad es. le
aliquote di un’imposta sul reddito possono essere aumentate, magari
solo per alcuni scaglioni se c’è un’imposta progressiva, al di sopra
del 100%, così da obbligare il contribuente a far ricorso al
patrimonio per pagare l’imposta.
d. Si capitalizza un’imposta esistente: un’imposta ordinaria sul
patrimonio è trasformata in imposta straordinaria aumentando le
aliquote esistenti, così da anticipare incassi futuri (è quanto
accaduto in Italia con l’imposta straordinaria sul patrimonio del
1947).
In Italia venne istituita un’imposta straordinaria sul patrimonio nel 1947: l’imposta
tassava con aliquote dal 6% al 61.61% i patrimoni suddivisi in 9 classi, con imposte
continue tra i limiti delle classi. Era intesa come riscatto dell’imposta ordinaria del 1940,
che così venne soppressa. Si rinvia a C. Cosciani: L’imposta straordinaria sul
patrimonio(1946). Per l’imposta straordinaria del primo dopoguerra v. A. Cabiati (1920).
Un’antica e tradizionale discussione sulle misure di finanza straordinaria riguarda la eventuale alternativa
tra un’imposta straordinaria sul patrimonio ed il debito pubblico. Secondo un’antica teoria, risalente al sec.
XVIII, con il debito pubblico si sarebbe trasferito alle generazioni future un onere che altrimenti graverebbe
sui contribuenti attuali. D. Ricardo (1772-1823) in On the Principles of Political Economy and Taxation
(1817), ch. 17.3 aveva già contestato questa affermazione, dimostrando che imposta e debito erano da
considerarsi equivalenti (la c.d. ‘equivalenza ricardiana’).
108
L’esempio di Ricardo è semplice.
Tizio ha un patrimonio K di 100.000. Lo Stato deve finanziare una spesa di 20.000 ed ha
due alternative.
- Tassare K con un’aliquota tK del 20%: tKK = 20% 100.000 = 20.000.
K – tKK = 100.000 – 20.000 = 80.000, che è il patrimonio al netto dell’imposta
straordinaria; Tizio trasmetterà ai suoi eredi (la generazione futura, un patrimonio ridotto).
Se il tasso di rendimento r è del 5% il precedente reddito rK = 5% 100.000 = 5.000 diventa
5% 80.000 = 4.000.
- Prendere a prestito 20.000 dal proprietario di K, così che Tizio avrà il suo patrimonio
suddiviso in 80.000 (il patrimonio residuo) più 20.000 (i titoli del debito pubblico).
Trasmetterà agli eredi un patrimonio, apparentemente, di 100.000, mutato non nel valore
complessivo, ma solo nella composizione. Il rendimento dei titoli del debito, al 5%, è di
1.000 (5% 20.000). Lo Stato dovrà ottenere questa somma tassando il reddito delle 80.000
(4.000) al 25% (25% 4000 = 1.000), oppure tassando tutto il reddito (4.000+1.000) al 20%,
con lo stesso gettito di 1.000. Quindi Tizio avrà 3.000 come reddito netto delle 80.000 e
1.000 come interessi sui titoli del debito (20.000), o 4.000 come reddito complessivo netto
(3.200+800). Complessivamente 4.000, come nel caso dell’imposta straordinaria. Gli eredi
riceveranno un patrimonio che vale esattamente come nel caso dell’imposta straordinaria.
Capitalizzando, R(1-t)/r, 4.000/5% = 80.000, come con l’imposta straordinaria. Con il
debito pubblico si ha uno spostamento dell’onere del debito in futuro (onere per le
generazioni future).
Secondo Ricardo è preferibile l’imposta straordinaria, perché il debito può avere effetti di
illusione finanziaria sul contribuente, che potrebbe non rendersi conto, col debito,
dell’ammortamento del flusso di imposte future, che riducono il valore del suo patrimonio,
mentre l’imposta straordinaria, più evidente nei suoi effetti, lo potrebbe stimolare di più a
lavorare per ricostituire il patrimonio.
Naturalmente l’equivalenza ricardiana vale con ipotesi ben precise: che il contribuente che
ha il patrimonio sia lo stesso che paghi le imposte per finanziare gli interessi (il ‘servizio’
del debito), che il contribuente sappia capitalizzare il flusso di imposte future sul reddito,
che non vi siano processi di traslazione né modifiche dei tassi di interesse, ecc.
5. Principi di tassazione internazionale.
Il coordinamento nel commercio internazionale è affidato a livello mondiale ad organismi quali il WTO
(World Trade Organization). Questo coordinamento mira ad evitare distorsioni nel commercio
internazionale e nella circolazione dei fattori di produzione. Le difficoltà provengono da diversità delle
moneta e dei cambi, dalla diversità delle imposte gravanti su beni, servizi e redditi, dalla presenza di dazi, di
vincoli quantitativi alle importazioni, di sussidi alle esportazioni, da politiche di protezionismo.
In alcune aree geografiche abbastanza omogenee sono state costituite, nel sec. XX, diverse zone di libero
scambio: in Europa (l’Unione Europea), nell’America Centrale (Sistema di integrazione del Cento America
SICA), tra S.U., Canada e Messico (NAFTA), tra i Paesi del Patto Andino (Comunidad Andina).
109
Si distinguono due tipi di organizzazione economica tra stati, l’Unione Doganale ed il Mercato Comune.
Unione Doganale
E’ l’unione commerciale di diversi paesi che eliminano sia dazi e restrizioni all’importazione ed
all’esportazione di merci e servizi, sia sussidi alle esportazioni.
I dazi sono imposte sulle importazioni (imposte ad valorem o specifiche) che rendono più costosi
e meno convenienti gli acquisti di prodotti esteri. Possono essere, più raramente, applicati sulle
esportazioni.
Esistono anche dazi di transito, applicati da paesi (ad es. Austria, Svizzera) che ritengono di
dover tassare le merci trasportate, da e per altri paesi, attraverso il loro territorio creando problemi
di inquinamento, di congestione di traffici, di consumi di infrastrutture.
Un antico esempio di dazio su importazioni ed esportazioni, nel diritto romano, era il portorium.
DDDAAAZZZIIIOOO DDDIII IIIMMMPPPOOORRRTTTAAAZZZIIIOOONNNEEE AAA BBB
Verso l’esterno l’unione doganale mantiene dazi unici e non diversificati tra i vari paesi (cinta
daziaria).
Ogni paese dell’Unione ha una moneta propria, una politica monetaria e fiscale propria.
L’obiettivo dell’Unione Doganale è di eliminare i vincoli alla concorrenza commerciale, ma non
mira a favorire la concorrenza dei fattori di produzione (lavoro e capitale) nella mobilità tra i diversi
stati.
Il c.d. Mercato Comune Europeo (MEC), istituito con il Trattato di Roma del 1957, era nato in realtà come
un’unione doganale e solo di recente si sta trasformando in un vero Mercato Comune.
Nell’unione doganale, per mantenere livelli di competitività eguali tra i vari paesi aderenti, è necessario
proibire le discriminazioni fiscali. Il problema dell'armonizzazione fiscale è strettamente legato a quello
della concorrenza fiscale: le imposte non devono diventare uno strumento per favorire la concorrenza dei
propri prodotti e redditi né per limitare la concorrenza di prodotti e redditi di altri paesi dell’unione doganale.
Pertanto le imposte e gli imponibili devono essere omogenei nella definizione e nelle aliquote, anche se
risulta impossibile che diventino identici in tutti i paesi. Perciò si parla di armonizzazione piuttosto che di
uniformità.
Tra i paesi membri di un’Unione Doganale si applica il principio della tassazione nel paese di
destinazione. Vuol dire che all’interno di un paese nessun prodotto può essere tassato in modo diverso a
seconda che sia di produzione interna o estera (di un altro paese dell’Unione Doganale). Le imposte si
applicano là dove un prodotto viene consumato e dove il reddito viene incassato (il domicilio del percettore
del reddito), indipendentemente da dove beni, servizi e redditi vengano prodotti. Il principio si concretizza
con l’esenzione delle esportazioni e la tassazione delle importazioni e si applica con la cessione detassata nel
paese di origine dei beni e dei redditi e la tassazione nel paese in cui gli stessi sono destinati.
In pratica, a questi fini, si opera con:
a) l’esenzione dall’imposta (non si applica l’imposta interna ad un bene o reddito che viene esportato);
b) il rimborso dell’imposta all’esportatore che abbia eventualmente pagata l’imposta all’interno;
c) la tassazione all’entrata, di un prodotto o di un reddito esterni, con le aliquote proprie degli imponibili
interni;
d) il diritto compensativo: è un’imposta aggiuntiva su beni e redditi di importazione per la differenza tra
imposte interne (maggiori) ed imposte estere (inferiori e già applicate dal paese estero).
Rispettano questo principio sia la tassazione del valore aggiunto che un’imposta monofase sull’ultimo
venditore sia le imposte plurifase non cumulative che esentano le esportazioni. In sede di Unione Europea si
è puntato soprattutto all’armonizzazione delle imposte indirette generali, del tipo imposte sul valore
aggiunto.
110
Per le imposte dirette sul reddito delle società si può applicare il meccanismo del credito d’imposta,
accreditando ad un reddito (ad es. un dividendo) l’imposta già pagata all’estero, o prevedendo l’esenzione
dall’imposta interna. Per le imposte reali (ad es. sugli interessi) è pensabile un’aliquota unica nei diversi
paesi.
L’unione doganale conserva le frontiere fiscali per effettuare e controllare i prelievi ed i rimborsi su beni e
redditi che passano da un paese all’altro.
Mercato Comune (o Unione Economica)
Tra i paesi aderenti ad un Mercato Comune oltre alla mancanza di vincoli, restrizioni e sussidi al commercio
si mira all’effettiva e piena libertà di circolazione dei fattori di produzione, realizzando un mercato interno
che include diversi paesi. L’obiettivo è quello di assimilare diversi paesi ad un mercato interno unico.
Necessitano, a questi fini:
a) una moneta unica, una banca centrale unica dell’Unione Economica, come la Banca Centrale Europea,
oltre alle banche centrali dei paesi aderenti, ed una politica monetaria unica;
b) l’attenuazione, fino alla soppressione, delle barriere fiscali interne, con l’armonizzazione delle imposte,
che dovrebbero convergere verso strutture omogenee nei diversi stati e con una pressione tributaria
tendenzialmente equiparata;
c) lo spostamento a livello centrale dell’Unione Economica di parte della finanza pubblica statale, con un
bilancio pubblico dell’Unione Economica accanto ai bilanci statali.
E’ vietato costituire, all’interno di un mercato comune, zone di rifugio e paradisi fiscali, cioè aree nelle
quali la tassazione è ridotta rispetto a quella vigente nei paesi aderenti e dove si applicano principi quali il
segreto bancario anche a fini fiscali e che possono favorire processi di evasione delle imposte nazionali.
Il principio che si applica in un mercato comune è quello della tassazione nel paese di origine. I beni ed i
redditi sono tassati nel paese in cui vengono prodotti e non nel paese (del mercato comune) dove sono
destinati. Il principio implica la detassazione delle importazioni e la tassazione, con imposte interne, delle
esportazioni. Con questo principio si mira a sopprimere le frontiere fiscali, come in un vero mercato interno.
La concorrenza internazionale richiede la c.d. neutralità fiscale internazionale: che può essere intesa in
due significati distinti.
- Neutralità nell’esportazione di capitali (CEN - Capital Export Neutrality), è un regime di
tassazione mondiale o di neutralità nazionale (worldwide taxation).
Il reddito di investimento del soggetto interno di un paese è assoggettato alle aliquote vigenti nel paese
stesso, indipendentemente dalla localizzazione, all’interno o all’estero, dell’investimento. Quello che
conta per individuare l’aliquota è il criterio soggettivo della residenza del soggetto che produce il
reddito. L’investitore straniero paga in base alle aliquote del suo paese, indipendentemente dalla
localizzazione dell’investimento. Il reddito di un investimento straniero è assoggettato all’aliquota
straniera. La CEN non incentiva i soggetti di un paese a portare all’estero i loro capitali. E’ indifferente
investire all’interno o all’estero. Il reddito è tassato allo stesso modo dalle autorità del paese cui
appartiene il contribuente, indipendentemente da dove è guadagnato (all’interno o all’estero). Il criterio
CEN non influisce sull’allocazione di risorse di un paese. Gli investitori decidono di distribuire i loro
capitali, tra l’interno e l’estero, in modo da avere gli stessi rendimenti netti finali, indipendentemente
dalle diversità di imposte. Il sistema, se non è adottato da tutti i paesi, causa doppie tassazioni, evitabili
con trattati internazionali contro le doppie imposizioni.
- Neutralità nell’importazione di capitali (CIN - Capital Import Neutrality), è un regime di tassazione
su base territoriale.
Il criterio per applicare l’imposta è quello oggettivo della località, cioè dell’ambito territoriale in cui il
reddito viene prodotto, senza tener conto della nazionalità e della residenza del soggetto (nazionale o
straniero) che lo produce e senza tener conto nemmeno della destinazione (all’interno o all’estero) del
reddito stesso. Quindi il reddito è tassato là dove è prodotto. Il reddito proveniente dall’estero è distinto
da quello prodotto all’interno. Le imposte su redditi di imprese straniere costituiscono un gettito notevole
per molti paesi. Per evitare doppie imposizioni si utilizzano crediti d’imposta per imposte pagate
111
all’estero su redditi rimpatriati. La concessione del credito d’imposta può essere unilaterale ed
indipendente da un Trattato contro le doppie imposizioni. Quindi il reddito di un investimento interno
(dividendo, interesse) è assoggettato all’aliquota interna, indipendentemente dalla residenza del
contribuente. Il reddito proveniente da un investimento all’estero è assoggettato all’aliquota del paese
straniero, indipendentemente dalla residenza del contribuente (quindi anche se risiede nel paese in cui
arriva il reddito). Ne consegue che tutte le imprese che operano nello stesso paese sono tassate con la
stessa aliquota. Gli Stati Uniti seguono una versione attenuata del CIN, in quanto esentano dalla
tassazione con imposte interne i redditi stranieri finché non vengono rimpatriati (sistema del c.d.
deferral). Quando tali redditi vengono rimpatriati gli S.U. adottano un CEN modificato, permettendo la
detrazione dall’imposta interna delle imposte pagate all’estero, ma non restituendo al contribuente
eventuali eccedenze. Quindi, se l’imposta pagata all’estero è del 45% e l’aliquota interna del 30% è
concessa la detraibilità dall’imposta interna fino al massimo del 30%.
Per riassumere, immaginiamo due paesi e poniamoci dal punto di vista di uno, interno, con un’aliquota di td,
in modo che l’altro sia un paese estero (con aliquota tf), distinguendo l’ipotesi di un reddito prodotto
all’interno da quella di un reddito prima prodotto all’estero e poi trasferito all’interno.
La Commissione UE ha proposto di rendere obbligatoria in tutti i paesi dell'Unione una ritenuta alla fonte
(un’imposta proporzionale reale) sui redditi di capitale. Questa ritenuta sarebbe portata in detrazione, totale
o parziale, quando il residente di ogni paese dovesse dichiarare quei redditi nel proprio paese, secondo le
norme tributarie proprie.
Nell’UE l’armonizzazione della tassazione del reddito d'impresa non richiede l’uniformità nelle aliquote
delle varie imposte sui redditi d'impresa. Si sono stabilite regole uniformi per varie operazioni societarie
(fusioni di società, trasformazioni, scambi di azioni) che interessano società di diversi Paesi nell'Unione. Si
mira a rendere queste operazioni fiscalmente neutrali in senso internazionale, in maniera da non incentivare
le imprese ad insediarsi in un paese piuttosto che in un altro al solo fine di risparmiare sulle imposte.
L’IVA nell’Unione Europea venne introdotta secondo il modello francese e con il principio di tassazione del
paese di destinazione. Successivamente, con la progressiva trasformazione della Comunità Europea in
Unione Economica, si decise in sede comunitaria di applicare all’IVA il criterio del paese di origine. Le
aliquote, in questa eventualità, non dovrebbero essere molto dissimili tra i vari paesi dell’UE, altrimenti le
produzioni dei paesi dove l'IVA è elevata sarebbero svantaggiate rispetto a quelle dei paesi in cui l'IVA è più
bassa.
Per imposte e principi tributari nell’Unione Europea v. Taxation e
per la tassazione internazionale International Tax, International
Manual dell’HMS e la sezione Tax dell’OECD
6. Effetti delle imposte
Gli effetti delle imposte comprendono la rimozione, l’ammortamento, la traslazione, l’elusione, l’evasione.
La rimozione e l’ammortamento dell’imposta sono già stati esaminati trattando dell’imposta sul reddito.
La traslazione
E’ un insieme di effetti economici di imposte che passano da contribuenti ed imponibili ad altri contribuenti
ed imponibili. Si distingue tra:
a) percussione dell’imposta: indica l’applicazione dell’imposta su di un imponibile definito dalle
norme tributarie che individuano il contribuente di diritto, tenuto a versare l’ammontare
dell’imposta.
112
b) incidenza dell’imposta: è l’effetto economico finale di un’imposta, in seguito all’eventuale
spostamento dell’onere tributario da un contribuente (di diritto) ad un altro contribuente (di fatto) o
da un imponibile ad un altro imponibile. Il contribuente di diritto può tentare, in modo conforme alla
legge, di far pagare l’imposta, versata da lui al fisco, ad altri. Ciò può essere fatto, ad esempio, da un
venditore, con un aumento dei prezzi di vendita; da un lavoratore dipendente con la richiesta di
aumenti salariali.
La traslazione indica il processo di spostamento dell’onere economico dell’imposta dal contribuente di
diritto al contribuente di fatto (o dal contribuente percosso a quello inciso). La traslazione può essere in
avanti (per lo più con un aumento dei prezzi: si tassa il reddito di A e questi vende i suoi prodotti a prezzi
maggiorati), o all’indietro (con una riduzione delle remunerazione dei fattori di produzione: si tassa il
reddito di A e questi riduce i pagamenti a fornitori e lavoratori) oppure obliqua (si sposta l’onere su soggetti
ed imponibili non direttamente coinvolti nella produzione e negli scambi: si mette un’imposta sul bene X ed
aumenta il prezzo del bene Y).
L’elusione
E’ un comportamento lecito con il quale il contribuente si riduce l’imposta sostituendo, parzialmente o
totalmente, imponibili tassati con aliquote più basse o esenti agli imponibili tassati con una determinata
aliquota. Si tratta, di solito, di beni e redditi sostituibili. L’elusione documenta difetti del sistema tributario,
che permette effetti di sostituzione, e si presenta in assenza di neutralità.
L’evasione
E’ un comportamento contra legem, in violazione delle norme tributarie. Il contribuente occulta, totalmente
o parzialmente, l’imponibile e non versa, del tutto o in parte, l’imposta che sarebbe dovuta. E’ realizzata con
occultamento della qualifica di contribuente, omissione di dichiarazione, oneri deducibili falsi o non dovuti,
false fatturazioni, dichiarazione di imponibili in misura ridotta rispetto a quella effettiva, mancato
versamento di imposte. L’amministrazione procede ad accertamenti e si può instaurare un contenzioso con il
contribuente. Il contribuente, per calcolare la convenienza ad evadere fa un calcolo di tipo probabilistico.
Mette a confronto la probabilità di essere scoperto (ed il costo di questa scoperta in termini di pagamento di
penalità ed interessi) ed il guadagno derivante dal mancato pagamento di imposte. Quanto minore è la
probabilità di scoperta, tanto maggiore l’incentivo e la convenienza ad evadere.
L’evasione può dipendere da:
- complessità dell’imposta: un’imposta può essere così complicata che il contribuente non è in grado
di dichiarare e pagare correttamente; il costo dell’assistenza fiscale può essere così elevato che il
contribuente è indotto ad evadere: questi sono i c.d. ‘costi di adempimento’ (compliance costs):
tempo e denaro impiegati dal contribuente per adempiere agli obblighi fiscali. Questi costi (perdite di
tempo per raccogliere informazioni, costo dei consulenti ed intermediari, ecc.) si aggiungono ai costi
monetari rappresentati dall’imposta e possono essere considerati troppo onerosi dal contribuente.
- Difficoltà di riscossione: le imposte più difficili da incassare sono le più facili da evadere. Esistono
costi amministrativi (administration costs) per le amministrazioni che debbono gestire un’imposta,
così che queste amministrazioni non sono in grado di fronteggiare l’evasione proprio per i costi di
gestione delle imposte. Tali costi di amministrazione si verificano a più livelli: 1. nella fase di la
scoperta e di accertamento degli imponibili e delle imposte evase; 2. nella definizione in giudizio
(contenzioso) di quanto accertato; 3. nella la riscossione vera e propria da parte degli esattori. Il
sistema di riscossione attraverso gli esattori era diventato pubblico già nella Francia del 1670 ad
opera di Colbert. Come già aveva fatto Augusto, estromettendo gli esattori privati (i pubblicani,
come San Matteo). In alternativa alla riscossione diretta da parte dello Stato un sistema storicamente
molto diffuso, anche in Italia fino al 2006, è stato quello di affidare (tramite concessione o appalto) a
privati (banche, persone fisiche) la riscossione delle imposte, pagando una quota di quanto riscosso
(aggio). E’ un sistema che spesso si è dimostrato inefficiente e fonte di abusi.
-
113
J. S. van Hemessen
San Matteo, l’esattore (1536)
- Difficoltà di accertamento: dipende sia dalla complessità dell’imposta che dalle possibilità effettive
dell’amministrazione tributaria di procedere ad accurati accertamenti (ad es. per la scarsità di
personale qualificato, per corruzione, ecc.).
- Bassa redditività del contenzioso: se il recupero di imposte evase attraverso il contenzioso presenta
un basso rapporto tra quanto viene effettivamente pagato e quanto viene accertato, poiché il
contenzioso si risolve per lo più a favore del contribuente o perché si presentano eccessive difficoltà
di riscuotere quanto accertato, esiste un ulteriore incentivo ad evadere.
- Scarsa coscienza civica, incentivata dal criticabile uso del gettito: se il gettito è destinato a spese non
condivise (ad es. a favore di categorie privilegiate o non meritevoli, a spese ed opere ritenute inutili e
di spreco) l’evasione può essere presentata come forma di protesta (la c.d. obiezione fiscale).
- Situazioni di disagio sociale o attività economiche di piccole dimensioni, che non vengono
perseguite per opportunità (ad es. lavoro nero ai livelli inferiori, piccolo commercio, piccole imprese,
lavori domestici, lavori di artigianato) o perché il costo del recupero dell’evasione (costi del
personale, costi delle attività di accertamento, costi del contenzioso) per l’amministrazione pubblica
potrebbe essere uguale o superiore al gettito recuperato.
Per contrastare l’evasione e garantire livelli di gettito, quando non ci si può attendere molto dall’attività di
accertamento, si utilizzano:
a) semplificazioni della struttura delle imposte e delle modalità di riscossione;
b) imposte fisse o forfetarie, sostitutive di altre imposte più complesse, per i contribuenti minimi;
c) definizioni di imponibili in base a parametri oggettivi di attività, in pratica sostituendo imponibili
virtuali o potenziali a quelli effettivi, ad es. collegando il livello di imponibile alla struttura
patrimoniale di un’azienda, al numero di dipendenti, alla tipologia di attività, alla localizzazione;
d) condoni periodici: in ricorrenze temporali, a distanza di alcuni anni ed in sostituzione di imposte
straordinarie, o in occasione del passaggio da un tipo di imposte ad un altro, si incentivano i
contribuenti a pagare una quota ridotta delle imposte evase, in cambio dell’impegno da parte
dell’amministrazione pubblica di non procedere ad accertamenti. Il successo dei condoni dipende sia
dall’ammontare dell’evasione precedente, sia dalla credibilità delle possibilità di accertamento. La
certezza della frequenza dei condoni è, di per sé, un altro incentivo ad evadere in quanto genera
aspettative di condoni prossimi. Quanto più si ritiene prossimo un condono tanto maggiore diventa
l’incentivo ad evadere. Temporaneamente, subito dopo un condono, l’evasione si può ridurre in
quanto i contribuenti che si sono autodenunciati come evasori non tornano immediatamente ad
evadere, perché il fisco li può tenere sotto controllo, ma attendono qualche anno, quando si formano
aspettative di un nuovo condono. L’alternativa al condono, per il fisco, può essere la certezza di
perdere gettito per via della prescrizione delle possibilità di ricercare le imposte evase. In questa
prospettiva il condono è sintomo dell’inefficienza dell’amministrazione.
114
APPENDICE: Caratteristiche del mercato concorrenziale perfetto ed
imperfezioni nelle organizzazioni private e pubbliche
Mercato perfetto
Imperfezioni del mercato
Gli individui e le imprese hanno informazioni
complete ed uguali, hanno capacità di far previsioni
in modo corretto e di formulare aspettative fondate.
E’ il mercato a diffondere le informazioni.
Le informazioni sono incomplete, la raccolta di
informazioni è costosa, le informazioni sono distribuite in
modo disuguale (asimmetria informativa), si commettono
errori di previsione e si formulano aspettative non
corrette.
Gli individui e le imprese si comportano in modo
perfettamente razionale e sono in grado di decidere
correttamente anche per il futuro.
La razionalità è vincolata dalla scarsità di informazioni e
dalle limitate capacità di elaborazione di individui ed
imprese. Gli orizzonti temporali sono limitati.
Gli individui massimizzano (l’utilità) e le imprese
massimizzano (i profitti).
La massimizzazione non è possibile a causa
dell’incompletezza di informazioni e della razionalità
vincolata. Le imprese massimizzano altri obiettivi (la
sicurezza e la stabilità, le vendite, la quota di mercato) e
puntano ad un profitto soddisfacente.
I mercati funzionano con imprese in concorrenza
perfetta.
I mercati sono per lo più strutture a concorrenza
imperfetta con monopoli ed oligopoli.
Nei mercati si raggiungono rapidamente posizioni di
equilibrio stabile attraverso la concorrenza, il tempo
non è considerato perché i processi di aggiustamento
degli squilibri sono immediati.
I mercati sono caratterizzati da processi continuamente
mutevoli, non ci sono equilibri stabili, il tempo è
importante ed i processi di aggiustamento degli squilibri
sono lenti e costosi.
L’impresa è gestita dal proprietario ed i manager
coincidono, per interessi e comportamenti, con i
proprietari.
La grande impresa è gestita da manager e da una struttura
complessa, nella quale la proprietà è separata dal
controllo. I manager hanno obiettivi propri, distinti e
conflittuali con quelli dei proprietari.
I prezzi dei prodotti e dei fattori di produzione sono
perfettamente flessibili, c’è perfetta mobilità dei
fattori e l’accesso e l’uscita dai mercati (dei prodotti
e dei fattori) sono facili e non comportano costi.
I prezzi si adeguano immediatamente quando
variano le quantità.
I prezzi sono caratterizzati da rigidità e da vischiosità
nelle variazioni. Gli accessi ai mercati sono difficoltosi e
costosi (barriere all’entrata). L’uscita dai mercati può
essere costosa (costi non recuperabili all’uscita).
I prezzi sono rigidi o variano lentamente e sono le
quantità ad adattarsi ai prezzi.
Esiste forte sostituibilità tra i prodotti e tra i fattori
di produzione. Beni, servizi e fattori sono omogenei.
La sostituibilità è piuttosto limitata e talvolta costosa o
impossibile (ad es. quando si tratta di beni, servizi o fattori
specifici per un’impresa). Beni, servizi e fattori sono
differenziati e non omogenei.
Tutti i beni ed i servizi possono essere sempre
scambiati con un prezzo.
Esistono casi in cui i meccanismi di prezzo tecnicamente
non si possono applicare (i c.d. fallimenti del mercato)
115
Il mercato è l’organizzazione più efficiente perché
realizza contratti ad informazione completa.
Talora una struttura con organizzazione gerarchica
(impresa, amministrazione pubblica) può essere più
efficiente del mercato, se permette di risparmiare sui costi
di transazione dei contratti evitando molteplici contratti
con una struttura organizzativa diversa dal mercato.
I comportamenti di individui ed imprese nel mercato
sono separati e concorrenziali.
Le strategie di mercato sono di tipo cooperativo, collusivo
e corporativo.
Manager pubblici, burocrati e politici decidono
nell’interesse degli elettori ed agiscono come
rappresentanti.
Manager pubblici, burocrati e politici perseguono interessi
propri esercitando poteri discrezionali, mirando alla
crescita della spesa e ad ampliare la dimensione del
bilancio sotto il loro controllo.
Perugino: Il pagamento del tributo (particolare)
Cappella Sistina, Roma (1481-82)
Nella scienza delle finanze “le azioni … non sono del genere delle azioni logiche, di cui si occupa
l'economia politica, e di cui la teoria è meno difficile; ma sono del genere delle azioni non-logiche, di cui la
teoria è molto più difficile … La «scienza» delle finanze poco sa dell'equilibrio economico, e niente
dell'equilibrio sociologico; quindi alla conoscenza degli effetti reali sostituisce la presunzione di effetti
immaginari … La dicono una scienza e non è neppure un'arte … “
Vilfredo Pareto (1916 - 17)