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Corsi di Laurea in GIURISPRUDENZA ed in SCIENZE POLITICHE UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PERUGIA Corso breve di Scienza delle finanze 2016-2017 Giuseppe Dallera con la collaborazione della dott. Rosa De Simone Masaccio: Il pagamento del tributo Cappella Brancacci, Santa Maria del Carmine, Firenze (1424)

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Corsi di Laurea in

GIURISPRUDENZA ed in

SCIENZE POLITICHE UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PERUGIA

Corso breve di

Scienza delle finanze 2016-2017

Giuseppe Dallera con la collaborazione della dott. Rosa De Simone

Masaccio: Il pagamento del tributo Cappella Brancacci, Santa Maria del Carmine, Firenze (1424)

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I. Il settore pubblico

1. Il settore pubblico:

introduzione

- Il settore pubblico

dell’economia

- I fallimenti del mercato

- Le funzioni del settore

pubblico

- Operatori e mercati: i settori

istituzionali

- Il circuito economico ed il

settore pubblico

2. Il settore pubblico: la

sua struttura economica

e finanziaria

- Le Amministrazioni

Pubbliche

- Il Conto Consolidato delle

Amministrazioni Pubbliche

- Il fabbisogno ed il debito

pubblico

- La pressione tributaria

- APPENDICE

- Sommario: mercato,

imperfezioni, organizzazioni

private e pubbliche

II. Le spese pubbliche

1. Beni e servizi pubblici

- Classificazioni della spesa

pubblica

- Le caratteristiche di beni e

servizi pubblici

- Modelli di beni pubblici

2. La spesa pubblica in

trasferimenti

- Modelli

- La previdenza e la

redistribuzione del reddito

- Spese pubbliche per sanità

ed istruzione

3. Beni e servizi pubblici locali. I

fallimenti del governo

- Beni e servizi pubblici locali

- I fallimenti del governo

III. Le entrate pubbliche

1. Classificazione delle entrate

- Tipologie di entrate

- Classificazione delle imposte

- I contributi sociali

2. I principi delle imposte

- Principi generali

- Equità

- Neutralità

3. Le Imposte personali sul

reddito

3.1 Imposta sul reddito delle

persone fisiche

- Il reddito imponibile

- La progressività

- L’unità impositiva

- Reddito guadagnato e

reddito speso

- La rimozione e

l’ammortamento

3.2 Imposte personali sul

reddito delle società.

IV. Altre imposte

1. Tassazione dei

plusvalori e dei redditi

finanziari

- Tassazione dei plusvalori

- Tassazione dei redditi

finanziari e dei fondi

pensione

2. Le imposte patrimoniali

- Imposta ordinaria sul

patrimonio

- Imposte sui trasferimenti

- Imposte di successione

3. Imposte indirette

- Tipologie

- Imposta sul valore aggiunto

4. Le imposte straordinarie

5. Principi di tassazione

internazionale

6. Effetti delle imposte

3

GRAFICI

con A il grafico è costruito con passaggi successivi guidati

con B la costruzione è automatica dopo l’avvio

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I. Il settore pubblico

1. Il settore pubblico: introduzione

- Il settore pubblico dell’economia

- I fallimenti del mercato

- Le funzioni del settore pubblico

- Operatori e mercati: i settori istituzionali

- Il circuito economico ed il settore pubblico

2. Il settore pubblico: la sua struttura economica e finanziaria

- Le Amministrazioni Pubbliche

- Il Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche

- Il fabbisogno ed il debito pubblico

- La pressione tributaria

- APPENDICE

- Sommario: mercato, imperfezioni, organizzazioni private e pubbliche

1. Il settore pubblico: introduzione

Il settore pubblico dell’economia

La definizione Scienza delle finanze deriva dal tedesco Finanzwissenschaft. Era intesa come Scienza delle

leggi della ricchezza pubblica e venne introdotta in Italia fin dal 1878 come materia d’insegnamento

universitario nella Facoltà di Giurisprudenza. E’ stata definita anche come finanza pubblica, economia

pubblica, economia del settore pubblico. Studia la struttura, gli operatori, i comportamenti, gli effetti

economici degli operatori, delle decisioni e delle attività del settore pubblico.

L’organizzazione economica delle attività del settore pubblico, sia questo un regno o un impero del

passato, un principato o una signoria, uno stato moderno centrale o federale, un’unione economica fra Stati

diversi, è sempre fondamentale per l’esistenza, il rafforzamento e la continuità della struttura politica. Perciò

lo studio dell’attività economica pubblica ha carattere fondamentale per comprendere lo sviluppo e la

trasformazione delle istituzioni pubbliche nonché per fornire strumenti pratici che possano orientare i

governanti nelle decisioni di rilevanza economica.

Le ragioni che hanno dato giustificazioni della presenza di un settore pubblico, definito anche bilancio

pubblico, nei sistemi capitalistici di economia mista sono divisibili in due gruppi.

- Ragioni di carattere storico-politico collegate alla nascita ed all’evoluzione dello stato moderno a

partire dalla metà del sec. XVII e che privilegiano le spiegazioni che attribuiscono al settore

pubblico diversi ruoli e finalità.

1. Il settore pubblico è stato inteso come regolatore dei conflitti tra le classi sociali.

2. Con altra interpretazione è stato considerato il risultato di un contratto sociale che lega individui

e gruppi in attività di convenienza comune e che permette forme di democrazia partecipativa

nelle decisioni collettive;

3. In una prospettiva più pessimistica è stato interpretato come lo strumento di una classe

dominante (ruling class, un gruppo di élite) per affermare le proprie scelte utilizzando le regole

della democrazia politica. Così il settore pubblico impone scelte proprie, correggendo e

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sostituendo scelte private. In questa chiave è stato considerato in modo diverso a seconda delle

situazioni storiche e delle interpretazioni politiche.

a) Come un attore di tipo paternalistico, un tutore che impone proprie scelte nell’interesse dei

cittadini.

b) Come semplice strumento delle classi dominanti e difensore degli interessi economici di

queste. Il rapporto conflittuale tra classi dirigenti e classi dominate viene composto nelle

strutture politiche. Questa impostazione ha avuto diverse varianti:

da una parte il settore pubblico è considerato uno strumento di consenso politico. Le

istituzioni politiche sono utilizzate come strumento di scelte pubbliche nell’interesse

di politici e burocrati, ma che provvedono anche ad una legittimazione del potere

acquisendo il consenso degli elettori per poter conservare il potere medesimo.

Talora si è interpretato il settore pubblico come strumento di sfruttamento di una

classe sulle altre nella lotta di classe.

Sulla teoria sociologico-politica della scienza delle finanze ha influito il c.d. elitismo, che è una teoria

elaborata dalla scienza politica e dalla sociologia (Mosca, Pareto, Michels) basata sul principio

minoritario, secondo il quale il potere è sempre in mano ad una minoranza.

Secondo G. Mosca (1858-1941) esiste una sola forma di governo, l’oligarchia con due classi,

governanti (elite) e governati: la prima, la classe politica, ha capacità di organizzarsi ed usa anche il

bilancio pubblico per mantenere la sua posizione e tutelare i propri interessi: democrazia,

parlamentarismo e socialismo sono utopie, l’oligarchia dà la riproduzione del potere.

L’elite è organizzata e così ha la forza per mantenere il potere. Consegue una critica alla democrazia

(il popolo non ha la capacità di autogovernarsi), con venature di antiparlamentarismo, ponendo

argomenti contro il pluralismo, il quale considera il potere diviso tra gruppi che si equilibrano, senza

formare oligarchie né monopoli.

Secondo V. Pareto (1848-1923) governa un’elite aristocratica, composta dai migliori, in ogni ambito

della società; le elite nel tempo vengono sostituite da altre.

R. Michels (1876-1936) elaborò una legge ferrea dell’oligarchia, in Political Parties (1915)

interpretando il comportamento politico delle elite e rilevando come nelle organizzazioni (Stato,

partiti) si hanno processi oligarchici. Burocrazie e partiti si accordano nei parlamenti contro la

democrazia, avendo interesse solo a farsi rieleggere ed a perpetuare il potere, senza vera concorrenza

tra i partiti. Per Michels le classi politiche non si sostituiscono, come per Pareto, ma si servono della

captazione per non perdere il loro potere.

- Ragioni dell’esistenza di un settore pubblico sono state dedotte, secondo principi astratti di teoria

economica, fondati sulla logica dell’efficienza e dell’equilibrio dei mercati e dei settori produttivi,

soprattutto in base alla teoria economica neoclassica.

La teoria economica neoclassica afferma che i mercati funzionano in modo efficiente quando:

i consumatori e le imprese hanno informazioni complete e la possibilità di prevedere

perfettamente il futuro;

c’è concorrenza tra le imprese; i prezzi sono flessibili e c’è facilità di variazioni delle

quantità, dei prezzi e dei redditi di prodotti e mobilità dei fattori. Individui ed imprese

possono contrattare continuamente, a parità di condizioni, senza costi e su tutto;

c’è la possibilità di effettuare decisioni razionali e coerenti, in assenza di rischi.

Se vengono a mancare queste condizioni (ad es. in presenza di monopoli, di informazioni imperfette, di

impossibilità di contrattazioni, di rischi privati e sociali, di effetti negativi di decisioni dei soggetti privati) si

possono giustificare interventi esterni di un soggetto pubblico che possa correggere le imperfezioni.

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Un’impostazione teorica propone di esaminare la finanza pubblica dal punto di vista della c.d. economia

costituzionale. E’ importante, in questa prospettiva, l’adozione di regole di decisione di lungo periodo (la

costituzione economica) che stabiliscano le caratteristiche del bilancio pubblico, quindi le tipologie delle

imposte e delle spese, la possibilità dell’indebitamento pubblico, i limiti dell’intervento pubblico

nell’economia, la gestione della moneta. Questa prospettiva vuole tutelare essenzialmente le libertà delle

scelte individuali contro possibili abusi da parte dello stato, delle burocrazie, dei partiti politici ed è stata

sostenuta in particolare dalla scuola americana della Teoria delle scelte pubbliche (public choice).

La teoria delle scelte pubbliche ha i maggiori contributi nelle opere di J. M.

Buchanan. Altri autori ai quali viene fatto riferimento per tale teoria sono L. Mises,

F. Hayek, W. Niskanen, G.Stigler, G. Becker, D. Black, G. Tullock, M. Olson.

Per un importante dibattito sull’interpretazione della finanza pubblica si veda, di J. M. Buchanan e di

R. A. Musgrave, Public finance and public choice (1999).

Si rinvia ad alcuni trattati istituzionali ‘classici’ della Scienza delle finanze

E. Sax: Principi teoretici dell’economia di Stato (1887)

C. F. Bastable: Public Finance (1892)

P. Leroy-Beaulieu: Traité de la Science des Finances (1906) Tome 1, Tome 2

A. Wagner: La scienza delle finanze (1910-12) vol. 1 vol. 2

E. Barone: Principi di economia finanziaria (1937)

A.C. Pigou: A study in public finance (1947)

I fallimenti del mercato

Le ragioni di carattere teorico, costruite in riferimento alla teoria pura degli equilibri di mercato, giustificano

la presenza di un soggetto pubblico con la presenza di imperfezioni della teoria pura. Nei mercati esistono

incertezza, informazioni incomplete ed asimmetriche, elementi e situazioni che si sottraggono alle

contrattazioni, impossibilità di realizzare sempre scambi volontari, rigidità e vischiosità nei meccanismi di

aggiustamento, situazioni di monopolio ed oligopolio che contraddicono la concorrenza, orizzonti temporali

differenziati e limitati, irrazionalità nelle decisioni di individui ed imprese, presenza di rischi individuali e

sociali.

L’analisi della finanza pubblica negli ultimi decenni è stata approfondita soprattutto nel contesto

dell’economia del benessere, un insieme di teorie sviluppate nel secolo XX, sulla base di studi iniziati

dall’economista inglese A.C. Pigou nell’opera The economics of welfare (1920). L’economia del benessere

ha carattere normativo ed applica definizioni e principi di utilità individuale e di benessere sociale per

valutare i guadagni e le perdite da interventi pubblici (imposte, spese, vincoli, proibizioni ed obblighi) e

stabilire quali situazioni siano socialmente più desiderabili rispetto ad altre.

In quel contesto sono stati formulati due principi, noti come primo e secondo teorema fondamentale

dell’economia del benessere.

Il primo teorema: la massima efficienza negli scambi e nella produzione è raggiungibile solo in un

equilibrio di concorrenza perfetta.

Il secondo teorema: per ciascuna distribuzione iniziale delle risorse economiche (redditi, patrimoni e

fattori di produzione) si raggiungerà un diverso equilibrio concorrenziale. Quindi modificando la

situazione iniziale si può raggiungere un altro equilibrio efficiente, a condizione che gli agenti

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(consumatori e imprese) siano liberi di contrattare. Si distingue tra una funzione allocativa (che porta

all’efficienza) successiva ad una funzione redistributiva di risorse.

In alcune situazioni i due teoremi fondamentali non trovano applicazione, in quanto i meccanismi di mercato

non funzionano e falliscono (si parla di fallimenti del mercato – market failures). Ciò avviene quando

esistono:

Situazioni non concorrenziali, come i monopoli.

Situazioni in cui esistano beni e servizi che tecnicamente non si possono vendere sul

mercato ed ai quali non si possono attribuire prezzi (è il caso dei c.d. beni e servizi pubblici).

Situazioni in cui la produzione di beni e servizi privati provoca danni a consumatori ed

imprese (è il caso delle c.d. esternalità negative, ad es. i danni ambientali).

Mancanza di profitto per alcuni beni e servizi (culturali, sanitari, prodotti di artigianato) che

il mercato non ha interesse a produrre e che scomparirebbero o si ridurrebbero a quantità

minime.

Mancanza di informazioni in alcuni mercati (ad es. nei mercati finanziari, nella sanità,

nell’istruzione).

Costi o rischi eccessivi di alcune produzioni, che i privati non possono o non si vogliono

assumere.

Lentezza eccessiva nei meccanismi di mercato negli aggiustamenti, come nel riassorbire

effetti negativi (ad es. la disoccupazione).

Sperequazioni ingiustificate nella distribuzione, tra le famiglie, di redditi e di patrimoni.

Al soggetto pubblico viene attribuito il ruolo di una struttura e di un insieme di meccanismi che eliminano o

minimizzano queste difficoltà.

Le funzioni del settore pubblico

Già Adam Smith, nella Ricchezza delle Nazioni (1776) attribuiva al settore pubblico funzioni passive

(protezione degli individui e della proprietà, mantenimento della sicurezza interna ed esterna) e funzioni

attive (istruzione, opere di utilità pubblica che i privati non costruirebbero per mancanza di convenienza

privata).

Nel tempo gli studiosi hanno individuato molteplicità di funzioni che giustificano la presenza di un settore

pubblico a fianco del settore privato.

In sintesi il settore pubblico, rispetto al settore privato, svolge (o dovrebbe svolgere) funzioni:

- sostitutive o sussidiarie, quando il mercato privato non funziona e non interviene;

- complementari ed integrative: il settore pubblico di effettua scelte di lungo periodo, mentre

individui e mercati fanno scelte di breve periodo: l’orizzonte temporale è più ampio per il settore

pubblico, che guarda più lontano e considera anche le generazioni future;

- assicurative: il settore pubblico rende possibili decisioni rischiose;

- correttive di effetti negativi dei mercati;

- accelerative di meccanismi propri dei mercati privati, quando gli aggiustamenti sono troppo lenti;

- di diffusione di informazioni;

- di controllo e garanzia del funzionamento corretto di meccanismi privati nei mercati interni (ad es.

la tutela civilistica e penalistica dei rapporti economici);

- di protezione esterna dei mercati, ad es. con la difesa nazionale e nei rapporti internazionali;

- di interventi di salvataggio nelle situazioni di grave crisi di grandi imprese private, in particolare nel

settore finanziario ed in altri settori (siderurgia, industria estrattiva, telecomunicazioni, trasporti).

8

Tali funzioni sono state raggruppate in tre gruppi, secondo R.A Musgrave :

Allocazione delle risorse economiche: consiste nell’influire sull’efficienza della produzione e dei

consumi, sul miglior impiego dei fattori di produzione; nell’indirizzare la destinazione dei fattori e

nel produrre beni e servizi che il mercato privato non è in grado di produrre; nel massimizzare il

benessere sociale (funzione allocativa).

Distribuzione: correggere le distribuzioni dei redditi, dei patrimoni e dei consumi perché rispettino

criteri di equità (funzione distributiva).

Stabilizzazione: controllare gli aggregati dell’economia (redditi, consumi, investimenti, produzione,

prezzi) per favorire la crescita, l’occupazione, e per controllare i processi inflazionistici e di

stagnazione dell’economia (funzione di stabilizzazione).

Le modalità di intervento del settore pubblico sono di tipo:

diretto,

a) attraverso il bilancio pubblico, con le entrate pubbliche e le spese pubbliche;

b) attraverso le imprese pubbliche, le quali gestiscono direttamente la produzione e la

distribuzione di beni e di servizi;

indiretto, attraverso l’imposizione di controlli, di vincoli e di comportamenti ad imprese

private ed a consumatori, ad es. con gli interventi di regulation (controllo di quantità, prezzi,

mercati).

Operatori e mercati: i settori istituzionali

Si riassumono alcuni concetti di contabilità nazionale.

Si distingue tra i seguenti operatori, soggetti che svolgono attività economiche, definiti settori

istituzionali: famiglie, imprese, amministrazioni pubbliche, resto del mondo. Seguendo la terminologia della

contabilità nazionale, i settori istituzionali sono raggruppamenti di unità istituzionali che hanno autonomia e

capacità di decisione in campo economico-finanziario e che, fatta eccezione per le famiglie, tengono

scritture contabili separate. Il Sistema Europeo dei Conti (SEC ) classifica le unità istituzionali in base alla

funzione principale ed alla tipologia del produttore.

Il sistema di contabilità nazionale può essere consultato in

EUROPEAN SYSTEM OF ACCOUNTS ESA 2010, in le linee guida internazionali stabilite nel Sistema dei conti nazionali

delle Nazioni Unite (2008 SNA).

1) Famiglie e istituzioni senza scopo di lucro al servizio delle famiglie: sono le unità che offrono lavoro

alle imprese, ricevono redditi, effettuano decisioni di consumo e di risparmio. L’insieme delle famiglie è

l’Aggregato Famiglie. Consistono degli individui o dei gruppi di individui nella loro funzione di

consumatori o in quella di produttori di beni e servizi (imprese famigliari e individuali con meno di 5

addetti), purché il loro comportamento non configuri una quasi-società.

2) Imprese: sono le unità di produzione e di commercializzazione di beni e servizi, pagano redditi alle

famiglie, decidono su investimenti, produzione, vendite, occupazione. L’insieme delle imprese è

l’Aggregato Imprese. Si suddividono in società finanziarie e società non finanziarie:

2a) Società non finanziarie: sono le società e quasi-società private e pubbliche. Le società pubbliche

includono le aziende autonome, le Ferrovie dello Stato, le aziende municipalizzate e consortili, l’Enel, le

imprese a partecipazione statale, le altre imprese pubbliche. Per quasi-società si intendono quelle unità che

sono prive di personalità giuridica, ma tengono contabilità completa ed hanno un comportamento economico

separabile da quello dei proprietari: comprendono le società in nome collettivo e in accomandita semplice, le

società semplici e di fatto e le imprese individuali con più di 5 addetti.

2b) Società finanziarie: includono:

2b.1) Istituzioni finanziarie monetarie: la Banca d’Italia e le altre istituzioni bancarie;

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2b.2) Altri intermediari finanziari: società di finanziamento e di intermediazione mobiliare, società

fiduciarie di gestione, fondi comuni;

2b.3) Ausiliari finanziari: le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nell’esercitare attività

strettamente connesse all’intermediazione finanziaria. Comprende le autorità centrali di controllo dei mercati

finanziari, quali la Consob e l’Isvap, enti vari preposti al funzionamento dei mercati, associazioni tra banche

e tra imprese finanziarie e assicurative, società che gestiscono fondi comuni, mediatori e promotori

finanziari, agenti di cambio con più di un addetto.

2.b.4) Imprese di assicurazione e fondi pensione.

3) Amministrazioni Pubbliche:si suddividono in tre sottosettori:

3.1) Amministrazioni centrali;

3.2) Amministrazioni locali;

3.3) Enti di previdenza e assistenza sociale.

4) Resto del mondo: comprende famiglie, società, settori pubblici di altri paesi.

Il settore pubblico include le Amministrazioni pubbliche (3) e le imprese pubbliche (comprese in 2)

Il settore pubblico talvolta è identificato con termini generici, ad es. con erario e fisco.

Erario deriva da aerarium, che era il tesoro comune dello Stato presso l’antica Roma, distinto dal publicum, che era il

tesoro del popolo e dei patrizi. Conteneva, nel tempio di Saturno, il denaro pubblico ed i conti delle entrate, delle

spese, dei debiti. L’aerarium era diviso in tesoro comune, al quale affluivano le imposte regolari (tributa, vectigalia,

ecc.) e dal quale si traevano le risorse per le spese normali, e l’aerarium sanctum, destinato a spese eccezionali in caso

di pericolo per lo stato.

Con Augusto venne istituito un aerarium militare, una tesoreria destinata solo al finanziamento delle spese militari.

Inoltre Augusto suddivise le province in due gruppi, uno appartenente al Senato, un altro appartenente a Cesare.

L’aerarium riceveva le imposte dalle province appartenenti al Senato, mentre un nuovo soggetto, il fiscus riceveva le

entrate dalle proprietà dell’imperatore. Il termine fiscus indicava un cesto, un paniere nel quale i Romani portavano

grandi somme di denaro. Successivamente (con Adriano) aerarium e fiscus vennero a convergere in unica proprietà

statale, così che i due termini vennero utilizzati come sinonimi.

Il circuito economico ed il settore pubblico

Si considerano i seguenti mercati:

beni di consumo privato e servizi privati: sono prodotti da imprese private ed acquistati dalle

famiglie (mercato dei beni di consumo);

beni di investimento: beni strumentali prodotti dalle imprese, acquistati dalle imprese private e dal

settore pubblico (mercato dei beni di investimento);

beni pubblici e servizi pubblici: sono prodotti dal settore pubblico, direttamente o tramite imprese

private; sono beni di consumo, servizi e beni di investimento e sono utilizzati da famiglie, imprese e

settore pubblico; in gran parte sono beni e servizi non destinati alla vendita, ma offerti

gratuitamente;

risparmio: il risparmio affluisce da famiglie ed imprese (mercato del risparmio); ritorna a famiglie

ed imprese che si indebitano, con mutui e prestiti, per consumare e per produrre; il settore pubblico

contribuisce a formare risparmio e preleva risparmio col debito pubblico.

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Le relazioni tra settori istituzionali (aggregati) e mercati sono illustrate dai flussi all’interno del circuito

economico. Possono essere rappresentate da frecce (movimenti di redditi, prestazioni e beni verso e da).

Distinguiamo due situazioni, a seconda dell’assenza o della presenza del settore pubblico.

senza settore pubblico

con il settore pubblico

Il segno indica i redditi, i beni, i servizi che al settore pubblico vanno dagli altri aggregati e dai

mercati (imposte, beni e servizi acquistati dal settore pubblico).

Il segno indica i pagamenti effettuati con spese pubbliche (alle famiglie con stipendi e pensioni,

alle imprese con contributi, ecc.) dal settore pubblico.

Le famiglie consumano beni e servizi pubblici, oltre a quelli privati.

Le imprese producono ed utilizzano beni e servizi pubblici per svolgere attività industriale e

commerciale.

FAMIGLIE

IMPRESE

Mercato del

risparmio

Mercato dei beni di

consumo privato e dei

servizi privati

privati

Mercato dei beni

privati di

investimento

Beni pubblici

e servizi

pubblici

RESTO

DEL

MONDO

Mercato dei beni di

consumo privato e

servizi privati

Mercato dei

beni privati di

investimento SSETTORE

PUBBLICO

Mercato del

risparmio

RESTO

DEL

MONDO

IMPRESE

FAMIGLIE

11

2. Il settore pubblico: la sua struttura economica e finanziaria

Le Amministrazioni Pubbliche

Per la terminologia si fa rinvio al GLOSSARIO della Banca

d’Italia, al GLOSSARIO dell’ISTAT ed al GLOSSARY dell’OECD.

Per il settore pubblico in particolare si veda il GLOSSARY dell’IMF ed

i l GLOSSARIO DI CONTABILITA’ ECONOMICA della

Ragioneria Generale dello Stato

Le Amministrazioni pubbliche includono, secondo il criterio della contabilità nazionale, le unità

istituzionali le cui funzioni principali consistono nel:

a) produrre beni e servizi non destinabili alla vendita;

b) operare una redistribuzione del reddito e della ricchezza del Paese.

Il settore è suddiviso in tre sottosettori:

Amministrazioni centrali, che in Italia comprendono le amministrazioni centrali dello Stato e gli

enti economici, di assistenza e di ricerca, che estendono la loro competenza su tutto il territorio del

Paese (Stato, organi costituzionali, Anas, gestione delle ex Foreste demaniali, Istat, altri); in altri

paesi comprendono lo le amministrazioni centrali dello Stato federale;

Amministrazioni locali, che in Italia comprendono gli enti pubblici la cui competenza è limitata a

una sola parte del territorio. Il sottosettore è articolato in: a) enti territoriali (Regioni, Province,

Comuni), b) aziende sanitarie locali e ospedaliere, c) istituti di cura a carattere scientifico e cliniche

universitarie, d) enti assistenziali locali (università e istituti di istruzione universitaria, opere

universitarie, istituzioni di assistenza e beneficenza, altri), e) enti economici locali (camere di

commercio, industria, artigianato e agricoltura, enti provinciali per il turismo, istituti autonomi case

popolari, enti regionali di sviluppo, comunità montane, altri); nei paesi a struttura federale

comprendono gli Stati (ad es. negli U.S.A.) o le Province (in Canada), o i Lander (nella Repubblica

Federale di Germania);

Enti di previdenza, che comprendono le unità istituzionali centrali e locali la cui attività principale

consiste nell’erogare prestazioni sociali finanziate attraverso contributi generalmente di carattere

obbligatorio (INPS, INAIL ed altri).

Nell’ambito del settore pubblico si distingue tra settore statale, settore pubblico e settore pubblico

allargato.

Il Settore statale comprende, in Italia, lo Stato in senso stretto (le Amministrazioni Centrali o

bilancio statale + tesoreria, in termini economico-finanziari), le ex Aziende Autonome

dell’Amministrazione centrale (Poste, Ferrovie, Anas), la Cassa Depositi e Prestiti, altri enti centrali

(es. Istat).

Il Settore Pubblico è composto dal settore statale + le altre Amministrazioni Pubbliche (locali, enti

di previdenza) + Imprese pubbliche locali (aziende pubbliche regionali, provinciali, comunali)

Il Settore Pubblico Allargato: è composto dal settore pubblico + altre imprese pubbliche (la più

importante è l’ENEL).

Sulla contabilità del Settore Pubblico si veda il Government Finance

Statistics Manual 2014 dell’International Monetary Fund (IMF)

12

Le Amministrazioni Pubbliche hanno, ciascuna, un proprio Bilancio. Esiste quindi un bilancio dello Stato,

un bilancio per ogni altra amministrazione pubblica, un bilancio per ciascun ente pubblico.

Quanto ai tempi di registrazione degli importi di entrata e di spesa nei bilanci pubblici nei vari paesi si

distinguono tre criteri principali di contabilità (sistemi di registrazione):

o di competenza giuridica: riporta gli accertamenti di entrate (autorizzazioni ad incassare) e gli

impegni di spese (autorizzazioni a spendere); è un bilancio di autorizzazione (il Parlamento

autorizza il Governo ad incassare ed a spendere). Le spese autorizzate e non effettuate nell’esercizio

sono i residui passivi, che si potranno spendere in esercizi successivi, le entrate autorizzate e non

realizzate sono i residui attivi, che si potrebbero incassare in esercizi futuri. E’ il bilancio

tradizionalmente utilizzato in Italia fin dal 1884. Le transazioni di un soggetto sono registrate nel

momento in cui nasce in capo all’operatore pubblico un’obbligazione giuridicamente perfezionata.

L’importo registrato è pari all’entità dell’obbligazione. La registrazione per competenza giuridica

“misura” gli impegni di spesa e gli accertamenti di entrata.

o Di competenza economica (accrual accounting): registra la formazione di crediti e debiti, dove

conta il momento di maturazione dei fatti gestionali e non quello dell’incasso o del pagamento; è

utilizzato dai paesi anglosassoni e dalla Francia, è consigliato nell’ambito dell’Unione Europea; le

transazioni poste in essere da un soggetto economico sono registrate nel momento in cui il valore

economico è creato, trasformato, scambiato, trasferito o estinto. Gli effetti degli eventi economici

sono registrati quando avvengono, indipendentemente dal fatto che l’introito di cassa sia ricevuto o il

pagamento effettuato. Questo principio coincide in pratica con quello della contabilità di impresa,

nella quale sono registrati i costi/ricavi per i quali l’obbligo di pagamento/diritto di incassare è

maturato nell’esercizio corrente perché i relativi beni e servizi sono stati acquisiti/ceduti in tale

esercizio (anche se il corrispondente movimento di cassa è rinviato ad esercizi futuri o è avvenuto in

esercizi passati). L’importo registrato è quello del valore economico creato, trasformato, scambiato,

trasferito o estinto. L’applicazione del criterio della competenza economica può determinare

l’imputazione di importi a cui non corrispondono effettivi flussi finanziari.

o Di cassa: rileva i fatti finanziari delle riscossioni effettive di entrate ed i pagamenti effettivi

(erogazioni) di spese. Le transazioni economiche di un soggetto sono registrate nel momento in cui

esse danno origine a un effettivo passaggio di fondi da o verso tale soggetto. L’importo registrato

corrisponde all’ammontare dell’effettivo passaggio di fondi. La registrazione per cassa, quindi,

“misura” pagamenti e incassi effettivi.

In Italia si è seguito il solo bilancio di competenza giuridica fino alla legge 468 del 1978, che ha

introdotto anche il bilancio di cassa (doppio bilancio). Il bilancio dello Stato è stato riformato a partire

dalla Legge 31 dicembre 2009 n. 196 ["Legge di contabilità e finanza pubblica", modellata

sull’esempio francese de La réforme budgétaire (LOLF 2001) (texte)], che prevedeva la transizione

al solo bilancio di cassa, ma successivamente (l. 39/2011) è stato ripristinato il ‘doppio bilancio ’, di

competenza e di cassa. Il bilancio di competenza economica è stato introdotto per la prima volta in

Gran Bretagna, sostituendo il bilancio di cassa.

Si vedano Il bilancio in breve del MEF e Accrual Budgeting and Accounting sul bilancio di

competenza economica.

Attualmente in Italia accade che:

- Il Bilancio dello Stato è redatto in base a criteri sia di competenza giuridica che di cassa;

il Fabbisogno del settore statale e del settore pubblico è redatto con criteri di cassa;

l’ Indebitamento netto delle AP è redatto con criteri di competenza economica (in base al

SEC 2010, per le valutazioni in sede EU).

13

L’elenco delle Amministrazioni Pubbliche inserite nel Conto Economico

Consolidato è pubblicato annualmente dall’ISTAT.

Si vedano, sempre dell’ISTAT, i Conti ed aggregati economici delle

Amministrazioni pubbliche (SEC) anni 1995-2015.

Il Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche

In Italia non viene costruito un bilancio unico del settore pubblico. Invece, in base ai dati di cassa, è

costruito (da Istat - Banca d’Italia) un Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche all’interno del

quale si elidono, per non contarli più volte, i trasferimenti effettuati tra Amministrazioni Pubbliche. Ad es. se

dal bilancio dello Stato si trasferiscono 100 alle Regioni e questo importo di 100 è trasferito successivamente

ai Comuni si conta solo il trasferimento iniziale di 100.

Nel Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche si riportano

ENTRATE TOTALI (ET), suddivise in

- entrate correnti (EC)

- entrate in conto capitale (ECC)

ET = EC + ECC

SPESE TOTALI (ST), suddivise in

- spese correnti (SC)

- spese in conto capitale (SCC)

ST = SC + SCC Dalle voci indicate si ricavano:

EC – SC = DC Saldo corrente delle Amministrazioni

pubbliche, che può essere

- Disavanzo Corrente se EC < SC

- Avanzo corrente o Risparmio Pubblico se

EC > SC

Disavanzo primario

EC – (SC – Spese per interessi)

ECC- SCC = DCC Disavanzo in conto capitale

DC + DCC =

(EC+ECC) – (SC+SCC) =

ET – ST = IN

Indebitamento Netto, se negativo, come

accade regolarmente, in quanto ST>ET

A proposito del saldo corrente e dell’indebitamento netto si utilizzano altri due concetti:

Il saldo delle Amministrazioni Pubbliche corretto per il ciclo è il saldo delle Amministrazioni

pubbliche corretto per gli effetti del ciclo economico: fornisce una stima del saldo che si

registrerebbe qualora il sistema economico procedesse sul sentiero di crescita tendenziale, senza

fluttuazioni cicliche.

Il saldo tendenziale è il saldo dei conti pubblici valutato nell’ipotesi di assenza di interventi da

parte dell’autorità responsabile della politica di bilancio.

Si utilizza l’analisi di stock-flow-adjustment (SFA) per valutare l’andamento congiunto

dell’indebitamento netto (flow) e del debito pubblico (stock). Lo SFA indica la differenza, misurata

in valore assoluto o in rapporto al PIL, tra la variazione annuale del debito pubblico e l’ammontare

di indebitamento netto nello stesso anno. Lo SFA è positivo se la variazione annuale del debito è superiore all’indebitamento, negativo nel caso opposto.

14

Le transazioni di un soggetto/operatore economico si classificano in due conti:

1 Il conto economico: comprende le transazioni di natura non finanziaria, relative a

produzione, distribuzione e impiego del reddito dell’operatore, sia per il consumo che per la

costituzione di attività reali. Si distinguono due sezioni: quella relativa alle transazioni correnti

(parte corrente) e quella relativa alle transazioni in conto capitale (conto capitale).

Per l’operatore pubblico le principali poste della parte corrente del conto economico sono, dal lato

delle entrate, i tributi, i contributi sociali e i redditi da capitale (dividendi, interessi attivi, ecc.) e, dal

lato delle uscite, le spese per il personale, quelle per i consumi intermedi (o acquisto di beni e servizi), i

trasferimenti (a famiglie, imprese, organismi internazionali, ecc.) e gli interessi passivi. Nel conto

capitale: dal lato delle spese, la costituzione di capitali fissi (investimenti) e i trasferimenti (come per

la parte corrente, anche in questo caso, a famiglie, imprese, organismi internazionali, ecc.); dal lato

delle entrate, le entrate non ricorrenti o straordinarie.

2. Il conto finanziario: registra le transazioni di natura finanziaria, relative alla modifica del

livello e della composizione delle attività e passività finanziarie dell’operatore economico. Si

distinguono il conto delle transazioni in attività finanziarie (partite finanziarie) e quello delle

transazioni in passività finanziarie (debiti).

Per l’operatore pubblico le principali transazioni in attività finanziarie riguardano, in uscita ed in

entrata, acquisizioni e cessioni di partecipazioni al capitale di società, concessioni e rimborsi di crediti,

aumenti e diminuzioni di depositi bancari.

Le transazioni in passività finanziarie includono principalmente, in entrata e in uscita, emissioni e

rimborsi di titoli obbligazionari e sottoscrizioni e rimborsi di mutui.

Nella rappresentazione contabile completa delle attività di un soggetto uscite ed entrate complessive

sono in pareggio per definizione, mentre possono non essere nulli i saldi di sottoinsiemi di

transazioni. Le uscite complessive di un soggetto economico, date dalla somma di spese correnti, in

conto capitale, acquisizione di attività finanziarie e rimborso di prestiti devono necessariamente essere

bilanciate dalle entrate complessive di tale soggetto: quelle che provengono dall’attività economica

dell’operatore (entrate correnti, in conto capitale, cessione di attività finanziarie) e quelle che

provengono dall’accensione di nuovi prestiti. Pertanto il saldo relativo al complesso delle transazioni

incluse nelle due aree sopra definite (quella economica e quella finanziaria) è sempre nullo. Invece le

uscite correnti non sono generalmente bilanciate dalle entrate correnti, né sono generalmente nulli il

saldo del conto economico e quello del conto finanziario.

Nei saldi di finanza pubblica, tenendo conto della distinzione dei conti, economico e finanziario, si

distinguono:

Il Risparmio pubblico

E’ la differenza tra il totale delle ENTRATE TRIBUTARIE ed EXTRATRIBUTARIE ed il totale delle

SPESE CORRENTI. Con riferimento al bilancio pluriennale, esso costituisce, nel corso della gestione,

il parametro per il riscontro di copertura delle nuove o maggiori spese correnti e per il rimborso di

prestiti. Se è positivo (entrate maggiori delle spese), misura la quota di risorse correnti destinabile al

finanziamento delle spese in conto capitale; se è negativo (entrate minori delle spese), identifica la

quota delle spese correnti da soddisfare ricorrendo all'indebitamento. Riferito ai conti consolidati della

Pubblica Amministrazione e del Settore Pubblico Allargato esso misura quando e' positivo (avanzo

corrente) la quota di risparmio generata, quando è negativo (disavanzo corrente) la quota di risparmio

assorbita dai settori intestatari dei conti.

Il Saldo netto da finanziare

E’ la differenza risultante dalle operazioni finali, rappresentate da tutte le ENTRATE e le SPESE,

15

escluse le operazioni di accensione e rimborso di prestiti. Con riferimento al bilancio pluriennale,

costituisce, nel corso della gestione, il parametro per il riscontro di copertura delle nuove o maggiori

spese in conto capitale.

Il Ricorso al mercato

E’ la differenza tra il totale delle ENTRATE FINALI ed il totale delle SPESE COMPLESSIVE. Indica

l’ammontare dell'indebitamento a medio e a lungo termine potenzialmente effettuabile nell'anno di

riferimento ed è determinato in sede previsionale: esso concorre, con le entrate, a determinare le

disponibilità per la copertura di tutte le spese da iscrivere nel bilancio annuale.

CONTO CONSOLIDATO DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE

(in miliardi di euro - anno 2015) BANCA D’ITALIA Appendice alla Relazione annuale sul 2015 (Tavola a11.1 Conto Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche 2015)

ENTRATE

ENTRATE CORRENTI (EC) VENDITE 38

IMPOSTE DIRETTE 242

IMPOSTE INDIRETTE 249

CONTRIBUTI SOCIALI 219

REDDITI DA CAPITALE 11

ALTRE ENTRATE CORRENTI 20

TOTALE EC 779

ENTRATE IN CONTO CAPITALE (EEC)

IMPOSTE IN CONTO CAPITALE 1

ALTRE ENTRATE IN CC 4

TOTALE ECC 5

TOTALE ENTRATE (EC+ECC) 784

(48% PIL)

SPESE

SPESE CORRENTI (SC)

REDDITI LAVORO DIPENDENTE 162

CONSUMI INTERMEDI 89

PRESTAZIONI SOCIALI 377

CONTRIBUTI PRODUZIONE 28

INTERESSI 68

ALTRE SPESE CORRENTI 37

TOTALE SC 761

SPESE IN CONTO CAPITALE (SCC)

INVESTIMENTI FISSI LORDI 37

CONTRIBUTI A INVESTIMENTI 16

ALTRE SPESE IN CC 14

TOTALE SCC 67

TOTALE SPESE SC+SCC 828

(51 % PIL)

SALDO PRIMARIO (SC– INTERESSI) – EC= (761 – 68) – 779 = 693 - 779 = - 86 [1,6% PIL]

DISAVANZO PARTE CORRENTE (EC – SC) = 779 - 761 = 18

DISAVANZO CONTO CAPITALE = (ECC – SCC) = 5 – 67 = - 62

INDEBITAMENTO NETTO (ET – ST )= 828- 784 = - 62+18 = - 44 [2,6 % PIL]

16

Il fabbisogno ed il debito pubblico

Il fabbisogno è dato da

indebitamento netto + saldo delle operazioni di Tesoreria.

Le operazioni di Tesoreria sono:

a) gli incassi ed i pagamenti di bilancio (il saldo è l’indebitamento netto);

b) gli introiti e le erogazioni della gestione di Tesoreria, riguardanti cioè i debiti ed i crediti di Tesoreria (le

operazioni, su conti correnti, svolte dalla Tesoreria con altri soggetti: Regioni, ex aziende autonome, ecc.).

E' un risultato differenziale dei conti consolidati di cassa dei settori statale e pubblico allargato e misura

l'eccedenza delle erogazioni sugli incassi con riferimento al complesso delle operazioni correnti, in conto

capitale e finanziarie.

Il fabbisogno tendenziale è quello che risulterebbe, in assenza di interventi correttivi di politica fiscale, dai

conti consolidati di cassa dei settori statale e pubblico allargato, costruiti sulla base di ipotesi e previsioni di

evoluzione tendenziale delle variabili macroeconomiche rilevanti (reddito nazionale, prezzi, produzione,

ecc.)

Il fabbisogno complessivo risulta dalla somma

fabbisogno del settore statale (o del Tesoro) + fabbisogno delle Amministrazioni Locali.

Il fabbisogno è un concetto di flusso: si forma nel corso di un anno, comprende l’emissione di nuovi

strumenti finanziari destinati a coprire la differenza tra spese ed entrate complessive e rappresenta i nuovi

debiti annuali.

Questi strumenti sono:

- titoli del debito pubblico, con scadenza a breve termine (entro un anno: i buoni ordinari del tesoro

bot) ed a medio-lungo termine (più di un anno; rappresentano la componente più rilevante:certificati

di credito del tesoro cct, i buoni poliennali del tesoro bpt,ecc.)

- raccolta postale

- indebitamento con la Banca d’Italia

- indebitamento con istituzioni bancarie

- indebitamento con l’estero.

Con l’adesione all’UE ed all’euro è venuto meno il finanziamento con l’emissione di nuova moneta da parte

della Banca Centrale per finanziare il fabbisogno attraverso un conto corrente di tesoreria.

17

Il debito pubblico

Con il termine debito pubblico si intende la consistenza (o stock) dei debiti del settore pubblico, incluso il

debito fluttuante (e gli altri debiti a breve) e l'indebitamento verso la Banca d'Italia. Secondo il Trattato di

Maastricht per debito pubblico si intende il debito lordo consolidato della P.A. (lordo significa al lordo delle

attività del settore; consolidato significa che sono state annullate le poste di debito e credito reciproche tra

gli enti all'interno della P.A.).

Le componenti finanziarie del debito pubblico sono le stesse che concorrono a formare il fabbisogno. Si

distinguono:

- il c.d. debito fluttuante: è il complesso delle operazioni destinate al finanziamento a breve del

fabbisogno del settore statale. A formare il debito fluttuante concorrono le operazioni relative:

a) ai buoni ordinari del Tesoro (bot);

b) ai conti correnti con la Cassa Depositi e Prestiti, l'INPDAP ed altri Istituti finanziari.

- Il c. d. debito patrimoniale: è l’ indebitamento con il quale si effettua il finanziamento a medio-

lungo termine del fabbisogno del Tesoro. Esso comprende i debiti pubblici (consolidati, redimibili,

buoni del Tesoro poliennali, certificati di credito del Tesoro, debiti esteri) e gli altri debiti (mutui

obbligazionari con istituti di credito).

I titoli del debito pubblico, oltre che per scadenza, si distinguono per:

- modalità di emissione (diretta: vendita diretta al pubblico; indiretta: vendita ad un consorzio di banche,

assicurazioni, istituti previdenziali che assicurano la sottoscrizione di tutti i titoli emessi; mista: una parte è

sottoscritta dal pubblico, un parte eventualmente residua è sottoscritta da un consorzio);

- emissione alla pari: un titolo con valore nominale di 100 è sottoscritto e rimborsato, alla scadenza,

a 100;

- emissione sotto la pari: un titolo di valore nominale 100 è sottoscritto, ad es. a 95 e, alla scadenza,

è rimborsato a 100: la differenza, 100 - 95 = 5, è lo scarto di emissione. …

I titoli vengono aggiudicati a chi offre di acquistarli attraverso dei sistemi di. asta periodica. Esistono

diverse procedure d’asta utilizzate per il collocamento dei titoli di Stato italiani e nelle operazioni di mercato

aperto dell’Eurosistema. All’asta partecipano gli intermediari finanziari i quali operano per conto dei propri

clienti (famiglie, imprese). Gli intermediari fanno offerte su quantità richieste di titoli e sui tassi di interesse

pretesi (i prezzi di sottoscrizione). I titoli sono assegnati, per la quantità richiesta, in successione, prima alle

offerte che pretendono interessi più bassi e poi a domande con interessi via via crescenti fino ad esaurire la

quantità di titoli prefissata. Sono fissati anche: a) un prezzo massimo accoglibile, ad impedire che i titoli

abbiano rendimenti troppo bassi e non siano convenienti per i sottoscrittori; b) un prezzo di esclusione, ad

impedire che i rendimenti siano troppo elevati e non convenienti per chi li emette (Tesoro).

Si distingue tra:

- asta competitiva: l’aggiudicazione dei titoli (a scadenza breve e brevissima) è effettuata ad un prezzo

pari a quello al quale vengono presentate le richieste, quindi a prezzi differenziati pari alle offerte successive,

iniziando da quelle con interessi più bassi e poi passando via via a quelle con interessi più elevati.

18

- asta marginale: i titoli (a scadenza media e lunga) vengono aggiudicati con un prezzo unico, pari

all’offerta marginale. Se ci sono offerte, in successione, di sottoscrivere al 2%, al 2,50%, al 3% l’emissione è

fatta al 3% (offerta marginale con il tasso più elevato) anche per chi ha offerto di sottoscrivere ad un tasso

più basso. Gli intermediari che si sono aggiudicati i titoli li pagano al medesimo ‘prezzo marginale’ (l’ultimo

prezzo accoglibile, al quale è aggiudicato l’intero importo offerto).

Con l’emissione a rubinetto (più antica) l'emittente fissa il prezzo (tasso di interesse) dei titoli, ma non la

loro quantità. Le domande di sottoscrizione possono pervenire in tempi lunghi, con la possibilità di

modificare il prezzo. Così possono essere ridotti eventuali eccessi di domanda/offerta, con riduzioni/aumenti

dei tassi di interesse.

I titoli del debito pubblico dopo essere stati emessi ed acquistati nel mercato primario circolano nel

mercato secondario (in borsa). Lo spread è un differenziale tra tassi di interesse, è calcolato su titoli con la

stessa scadenza (ad es. quinquennale, decennale) ed è espresso in punti per cento (la differenza moltiplicata

per cento), i c.d. punti base.

a) Lo spread si può riferire a differenziali di interessi su titoli emessi in monete diverse: ad es. un titolo in

dollari rende il 4%, uno in euro il 6%: la differenza (6% - 4%) = 2% = 200 punti base.

b) Lo spread si può riferire a differenziali tra tassi di interesse su titoli emessi nella stessa moneta da paesi

diversi (come nell’area euro): se un titolo tedesco rende il 2% ed un titolo italiano (entrambi in euro) il 5%:la

differenza (3%) è di 300 punti base di spread.

Dipende da aspettative su rischi: a) dal rischio di insolvenza (default): un paese potrebbe non essere in

grado di rimborsare il prestito ai sottoscrittori; b) dal rischio di cambio: potrebbe variare il rapporto tra euro o

dollaro o un paese dell’Eurozona potrebbe uscire dall’euro con la riconversione di monete (il ritorno al marco,

alla lira, alla dracma …). Quindi lo spread si può considerare equivalente ad un tasso di interesse coperto

contro rischi di capitale. Tanto più lontana è la scadenza di un titolo tanto maggiori possono essere i rischi e

l’incertezza: quindi lo spread è maggiore per i titoli a scadenza lunga.

Un aumento o una riduzione dello spread su titoli emessi influisce sul tasso di interesse dei titoli di nuova

emissione: se lo spread nel mercato secondario aumenta diventa più costoso il rinnovo o una nuova emissione

di titoli dello stesso tipo e viceversa.

Lo spread si forma prima nel mercato secondario, dove i titoli vengono scambiati e possono anche essere

oggetto di speculazione:(per costringere un paese ad aumentare i rendimenti dei propri titoli di stato);

aumenta se i titoli vengono venduti e perdono di valore a parità di interessi; diminuisce se i titoli vengono

acquistati (ad es. con interventi di banche nazionali o della BCE).

Si vedano le voci Debito Pubblico (Enciclopedia delle Scienze Sociali) e Debito Pubblico nell’Enciclopedia Treccani.

Il Trattato di Maastricht (1992) ha fissato alcuni criteri per adesione all’Unione Monetaria Europea. Il

rapporto tra l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche ed il prodotto interno lordo deve avere un

limite massimo del 3%; il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo non deve superare il 60%). Il

Patto di stabilità del 1997 (Amsterdam) ha previsto che i paesi aderenti abbiano come obiettivo il bilancio

pubblico in pareggio.

La Repubblica Federale Tedesca ha inserito (nel 2009) nella Costituzione (art. 110.1) l’obbligo di pareggio

del bilancio, già presente nella Costituzione svizzera (art. 126) come equilibrio di lungo periodo. La

Costituzione ungherese limita il debito pubblico al 50% del PIL.

In Italia nel 2012 si è provveduto a modificare l’art. 81 della Costituzione, stabilendo il principio

dell’equilibrio tra entrate e spese nel bilancio pubblico, compatibilmente con l’andamento ciclico

dell’economia.

Art. 81. Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio

bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo

economico.

19

Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli

effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata

a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi

eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai

mezzi per farvi fronte.

Nell’Unione Europea i diversi paesi aderenti emettono titoli del debito pubblico in Euro. Dato che la

solidità economica ed i rischi di default sono differenziati, tali titoli hanno diversi gradi di solidità e di

fiducia in base ai possibili ‘rischi di default’. Il default (insolvenza) è la possibilità che un paese non riesca a

rimborsare i titoli alla scadenza (rischio che nel 2010-2011 ha visto coinvolti alcuni paesi dell’UE) e che

quindi sia obbligato a ricorrere al c.d. consolidamento (prolungamento forzoso delle scadenze e rimborso

differito, abbassamento dei tassi di interesse sui titoli pubblici). La differenza di tasso d’interesse tra titoli

sicuri (ad es. i Bund tedeschi) ed i titoli dello stesso tipo di altri paesi è il c.d. spread. Questo differenziale

nei tassi di interesse è una misura del rischio dei titoli e si misura in punti percentuali: ad es. se il tasso

d’interesse sui Bund è del 2% ed i titoli di un altro paese hanno uno spread di 250 il tasso di interesse sarà di

4,50% (250 significa 2,50%; 320 significherebbe 3,20%).

Per le difficoltà finanziarie di alcuni Stati dell’area euro che rischiavano il default per il debito pubblico è

stato istituito nel 2012 l’ European Stability Mechanism, che può emettere titoli (garantiti dai paesi

dell’area euro) per finanziare aiuti ad uno Stato in difficoltà e può acquistare titoli del debito pubblico di uno

Stato dell’UE che accetti di concordare misure ed impegni di ‘rientro’.

FABBISOGNO E DEBITO PUBBLICO (2015 mld euro)

COMPONENTI FABBISOGNO DEBITO PUBBLICO Monete e depositi 5 178

Titoli a breve termine -9 115

Titoli a ml termine 44 1707

Prestiti 1 171

Disponibilità liquide Tesoro 11

Totale 52 2173

% PIL 3,1 132,7

La pressione tributaria

La pressione tributaria misura il sacrificio imposto ad una collettività dalle entrate tributarie. Esistono

diversi concetti di pressione. Considerando tutte le imposte in senso stretto Tp = Td + Ti, i contributi

sociali CS ed il prodotto interno lordo Y abbiamo:

20

Pressione Tributaria in senso stretto (non considerando i CS come imposte): Td+Ti

Y

Pressione del Prelievo Obbligatorio : Td+Ti+ CS

Y

Comunemente si usa il termine pressione tributaria per indicare la pressione del prelievo obbligatorio.

Sono utilizzate alcune varianti di questo indice. Ad esempio, considerando il totale delle entrate tributarie

T=Tp + CS:

- L’ Indice di pressione tributaria di Frank (F): considerando la popolazione N di un paese l’indice è

riferito al prodotto interno lordo pro capite e si scrive

F = (T/Y) = TN

(Y/N) Y2

- L’Indice di pressione tributaria di Bird (B), dove si utilizza la differenza tra prodotto interno lordo Y e

totale delle entrate tributarie T: scrivendo D = Y - T

B = (T/D) = TN = TN = TN .

(Y/N) YD [Y(Y-T)] (Y2-TY)

- Un Indice misto: la radice quadrata del prodotto dell’indice di Frank e di quello di Bird:

IM = √BxF

- Un Indice che considera anche S (i benefici che la spesa pubblica restituisce in parziale compensazione

dei sacrifici causati dalle le imposte prelevate ) ed M (il minimo vitale della popolazione, che non può

essere tassato); l’indice diventa

(T - S) , o anche (T - S) ..

(Y - M) (D - M)

21

APPENDICE I

ENTRATE TRIBUTARIE STATALI (2015 - mld euro)

IMPOSTE DIRETTE

IRPEF 166

IRES 22

SOSTITUTIVE 11

ALTRE 7

TOTALE 206

IMPOSTE INDIRETTE

IVA 101

OLI MINERALI 26

REGISTRO BOLLO 15

ENERGIA 18

TABACCHI 11

LOTTO 7

ALTRE 71

TOTALE 249

ENTRATE TRIBUTARIE DELLE AMMINISTRAZIONI CENTRALI E LOCALI

(2015 - mld euro)

AMMIN. CENTRALI AMMIN. LOCALI TOTALE

IMPOSTE DIRETTE 206 36 (IMU 20) 242

IMPOSTE INDIRETTE 180 69 (IRAP 28) 249

TOTALE 386 105 491

Grado di autonomia tributaria delle amministrazioni locali (Imposte Locali /Totale Imposte):

Imposte dirette 36/242 = 15% Imposte indirette 69/249 = 28% Totale imposte 105/491 =

21%

APPENDICE II - IL BILANCIO DELLO STATO

Si rinvia alla Legge di contabilità e finanza pubblica 196/2009 riformata dalla legge

163/2016, dalla legge 39/2011, dal D.lgs. 90/2016, dal D.lgs. 93/2016

Il bilancio dello Stato è il documento contabile di previsione, indicante le entrate e le uscite

dell'amministrazione statale, relative ad un determinato periodo di tempo (esercizio finanziario). Il progetto

di bilancio annuale di previsione è redatto sulla base dei criteri e dei parametri indicati nel documento di

programmazione economico-finanziaria, come deliberato dal Parlamento.

Il bilancio ha diverse funzioni: contabile (permette di conoscere la situazione contabile

dell'Amministrazione e di regolarne l'attività futura); di garanzia (per i cittadini nei confronti

dell'amministratore pubblico); politica (nel rapporto tra governo e parlamento); giuridica (il bilancio ha

forza di legge e vincola alla sua osservanza l'attività della p.a.); economica (è strumento di programmazione,

che permette di valutare gli effetti dell'attività finanziaria e di orientare gli interventi di politica economica).

Il bilancio di previsione dello Stato è un atto con forma di legge, predisposto su base annuale e

pluriennale, sia in termini di competenza che di cassa, col quale il Parlamento autorizza il Governo a

prelevare ed utilizzare le risorse pubbliche necessarie per l’esecuzione delle politiche pubbliche e delle

22

attività amministrative dello Stato e rappresenta il principale documento contabile per l’allocazione, la

gestione e il monitoraggio delle risorse finanziarie dello Stato. Il nuovo disegno di legge di bilancio viene

presentato al Parlamento entro il 20 ottobre di ogni anno, dando avvio all’iter normativo che porta,

all’approvazione del testo definitivo entro il 31 dicembre. Costituisce la manovra di finanza pubblica Il

bilancio di previsione è costituito da uno stato di previsione dell'entrata e da tanti stati di previsione della

spesa quanti sono i ministeri con portafoglio, con allegate le appendici dei bilanci delle amministrazioni

autonome e con il quadro generale riassuntivo con riferimento al triennio.

E’ stata data natura sostanziale alla legge di bilancio, divisa in due sezioni. La Sezione I, dedicata alle

innovazioni legislative, e la Sezione II, contenente il bilancio a legislazione vigente e le variazioni non

determinate da innovazioni normative: rimodulazioni compensative verticali (nello stesso esercizio, tra

capitoli di spesa) e orizzontali (tra vari esercizi, su uno stesso capitolo di spesa), nonché rifinanziamenti,

definanziamenti e riprogrammazioni di spese disposte da norme preesistenti.

Il bilancio di previsione dello Stato deve essere approvato con la legge di bilancio (art. 81 della

Costituzione) e si riferisce ad un periodo triennale. Comprende:

A) il bilancio di competenza (attualmente per il triennio 2017-2019)

B) il bilancio di cassa (attualmente per triennio 2017-2019)

Il bilancio di previsione è un doppio bilancio:

- Bilancio decisionale (bilancio annuale di previsione) è articolato, per l'entrata e per la spesa, in unità

previsionali di base. Per la decisione parlamentare è strutturato per missioni e programmi (unità di voto

parlamentare). Le MISSIONI sono le funzioni principali e obiettivi strategici perseguiti con la spesa.

Possono riguardare più ministeri. Le risorse stanziate con il bilancio si suddividono in 34 missioni. I

PROGRAMMI (unità di voto parlamentare per le spese) sono aggregati diretti al perseguimento dei

risultati, definiti in termini di prodotti e di servizi finali, per conseguire gli obiettivi stabiliti nelle missioni.

La realizzazione di ciascun programma è affidata ad un unico centro di responsabilità amministrativa. I

programmi sono a loro volta articolati in azioni, le quali descrivono l’assegnazione delle risorse destinate al

programma tra le diverse attività che lo compongono. Principalmente per ragioni gestionali, le azioni sono

ulteriormente suddivise in capitoli e questi ultimi in piani gestionali. I capitoli di bilancio sono

accompagnati da un sistema di codici (classificazioni) che si conforma al SEC.

In un programma si trovano tre tipologie di spese:

- Oneri inderogabili sono le spese vincolate a meccanismi o parametri che ne regolano l’evoluzione,

determinati da leggi o altri atti normativi, comprese le spese obbligatorie (es. spese per il personale, pensioni,

interessi passivi …);

- Fattori legislativi sono tetti di spesa stabiliti da leggi sostanziali che ne determinano l’ importo e la durata;

- Spese di adeguamento al fabbisogno sono spese non prefissate legislativamente ma quantificate in

funzione delle esigenze delle amministrazioni (es. consumi intermedi);

- Bilancio gestionale (o amministrativo) è suddiviso in capitoli, e in articoli. Non costituisce oggetto di

deliberazione parlamentare ed e' redatto ai soli fini della gestione e della rendicontazione. E’ strutturato per

unità elementari di bilancio (macroaggregati, capitoli di bilancio e articoli, per le entrate) o per piani di

gestione (per le spese).

Le previsioni pluriennali di competenza e di cassa della legge di bilancio sono formulate predisponendo un

piano finanziario dei pagamenti (Cronoprogramma).

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APPENDICE III - SEMESTRE EUROPEO E DOCUMENTI DI FINANZA PUBBLICA

IL SEMESTRE EUROPEO

Gli Stati dell’UE si sono impegnati a realizzare gli obiettivi della strategia del Patto Europa 2020. Quindi

l'UE ha istituito un ciclo annuale di coordinamento delle politiche economiche detto semestre europeo

durante i quali gli Stati dell’UE devono allineare le loro politiche economiche agli obiettivi definiti a livello

dell'UE. Ogni anno la Commissione compie un'analisi dettagliata dei programmi di riforma finanziaria,

macroeconomica e strutturale degli Stati membri dell'UE e rivolge a ciascuno di essi delle raccomandazioni

per i successivi 12-18 mesi.

A settembre il presidente della Commissione europea indica le priorità politiche ed economiche

nel discorso sullo stato dell' UE.

A ottobre gli Stati membri dell'area dell'euro presentano i documenti programmatici di bilancio per l'anno

successivo. A novembre la Commissione formula un parere su ciascuno di essi e valuta se sono conformi ai

requisiti del patto di stabilità e crescita.

A novembre la Commissione adotta l’analisi annuale della crescita e la relazione sul meccanismo di

allerta (sulla base di un insieme di indicatori economici e sociali, questa identifica gli Stati membri che

richiedono un'ulteriore analisi, sotto forma di esame approfondito, per verificare l'eventuale esistenza di

squilibri e la loro natura), e le valutazioni dei documenti programmatici di bilancio degli Stati dell'eurozona.

A febbraio la Commissione pubblica una valutazione economica analitica per ogni Stato membro, che ne

esamina la situazione economica, i programmi di riforma e gli eventuali squilibri da risanare.

A marzo il Consiglio fa il punto della situazione macroeconomica generale e dei progressi realizzati nei

confronti degli obiettivi della strategia Europa 2020 ed elabora orientamenti strategici sulle riforme

finanziarie, macroeconomiche e strutturali.

Ad aprile gli Stati presentano i piani per il risanamento dei conti pubblici (programmi di stabilità o

convergenza) e le misure che intendono adottare per conseguire una crescita sostenibile e solidale in settori

come l'occupazione, l'istruzione, la ricerca, l'innovazione, l'energia o l'integrazione sociale (programmi

nazionali di riforma).

A maggio la Commissione rivolge una serie di raccomandazioni a ciascun paese fornendo indicazioni

strategiche in settori considerati prioritari per i successivi 12-18 mesi. Le raccomandazioni sono discusse ed

approvate dal Consiglio europeo. Le indicazioni strategiche sono trasmesse agli Stati prima che abbiano

ultimato i bilanci preventivi per l'anno successivo.

A fine giugno - inizio luglio il Consiglio formalizza le raccomandazioni per ogni paese.

I DOCUMENTI DI FINANZA PUBBLICA

Oltre al Bilancio dello Stato esistono diversi documenti di finanza pubblica.

Il Documento di Economia e Finanza (DEF) viene presentato alle Camere entro il 10 aprile di ogni anno.

E’ il principale strumento della programmazione economico-finanziaria ed indica la strategia economica e di

finanza pubblica nel medio termine. E’ proposto dal Governo ed approvato dal Parlamento. Si compone di

tre sezioni e di allegati. Il DEF è composto da tre sezioni:.

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Il Programma di Stabilità dell’Italia contiene gli obiettivi da conseguire per la riduzione del debito

pubblico e gli obiettivi di politica economica per il triennio successivo; l'aggiornamento delle

previsioni per l'anno in corso; l'indicazione dell'evoluzione economico-finanziaria internazionale; gli

obiettivi programmatici.

L’ Analisi e tendenze della finanza pubblica contiene analisi del conto economico e del conto di

cassa nell'anno precedente, le previsioni tendenziali del saldo di cassa del settore statale e le

indicazioni sulle modalità di copertura. E’ allegata una Nota metodologica con i criteri di

formulazione delle previsioni tendenziali a legislazione vigente per il triennio successivo.

Il Programma Nazionale di Riforma indica lo stato di avanzamento delle riforme, gli squilibri

macroeconomici nazionali ed i fattori di natura macroeconomica che incidono sulla competitività, le

priorità del Paese e le principali riforme da attuare.

Entro il 15 ottobre di ogni anno gli Stati membri dell’UE trasmettono alla Commissione Europea e

all'Eurogruppo un progetto di Documento programmatico di Bilancio (DP) per l’anno successivo, nel quale

illustrano all’Europa il proprio progetto di bilancio. Il DPB contiene l'obiettivo di saldo di bilancio e le

proiezioni delle entrate e delle spese.

Il Rendiconto Generale dello Stato è il documento di consuntivo che espone i risultati della gestione del

bilancio dello Stato dell’esercizio finanziario scaduto il 31 dicembre dell'anno precedente. Consente di

verificare le modalità e la misura in cui ogni Amministrazione ha dato attuazione alle previsioni del bilancio.

Il MEF deve inviare il Rendiconto generale dell'esercizio entro il 31 maggio alla Corte dei Conti per il

giudizio di parificazione che ne attesta la regolarità e che entro il 30 giugno lo presenti al Parlamento per

l’approvazione. L’Ecorendiconto è un allegato al Rendiconto generale che illustra i risultati delle spese

ambientali e delle spese aventi per finalità la protezione dell’ambiente e l’uso e gestione delle risorse.

APPENDICE IV: Teorie del settore pubblico

A partire dalla seconda metà del sec. XVIII sono state elaborate diverse teorie sulla natura

economica dell’attività del settore pubblico.

Teorie dello scambio: secondo studiosi inglesi dei sec. XVIII-XIX nel settore pubblico si svolgono

processi di scambi contrattuali tra individui e soggetti pubblici. Le imposte e le tariffe pubbliche

sono i prezzi di beni e servizi pubblici (imposta-controprestazione) e, per mantenere queste

caratteristiche ‘contrattualiste’ il settore pubblico deve avere dimensioni limitate, in modo che vi sia

consapevolezza di questa natura di scambio. Secondo Adam Smith le spese pubbliche rappresentano

un consumo improduttivo di ricchezza, se non assistono la produzione privata e non avvantaggiano

l’industria (ad es. con infrastrutture come strade, porti, canali). I servizi pubblici sono considerati

lavori improduttivi, nel senso che scompaiono nel momento stesso in cui sono prodotti e le imposte

mantengono lavoratori improduttivi, che sono rappresentati dal sovrano, dai funzionari pubblici, da

magistrati e militari. Il consumo comune di servizi pubblici è improduttivo. Smith ammette pure che,

di seguito al consumo improduttivo pubblico, possa seguire un aumento della produzione privata.

Secondo studiosi francesi del sec. XIX il contratto assume la forma di un contratto di assicurazione:

le imposte non sarebbero altro che un premio di assicurazione pagato per avere beni e servizi

pubblici che proteggano contro l’insicurezza ed i rischi della vita associata. Le teorie dello scambio

derivano dal contratto sociale, la controprestazione corrisponde allo stato di diritto ed il settore

pubblico è generato dallo scambio.

Teorie del consumo: sono formulate da studiosi inglesi e francesi del sec. XIX. Le attività

economiche del settore pubblico sono attività di consumo, nel senso che i redditi ed i patrimoni

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acquisiti con le imposte sono destinati a fornire ‘servizi immateriali’ (i.e. servizi pubblici) e non a

produrre beni materiali. Il consumo di servizi pubblici è considerato improduttivo perché avviene

contemporaneamente alla produzione. L’attività economica del settore pubblico equivale ad un

consumo di ricchezza privata: i beni materiali privati sono trasformati, con imposte-spese, in beni a

consumo immediato. Una teoria distingue tra beni pubblici di godimento, che implicano consumo

congiunto dei cittadini (le infrastrutture, i parchi pubblici, le strutture sportive, musei e teatri) ed i

beni pubblici di sfruttamento (stipendi e consumi dei dipendenti pubblici).

Teorie della produzione: si tratta soprattutto di alcune teorie di studiosi tedeschi (Wagner, List,

Dietzel, Wagner, Stein,) della seconda metà del sec. XIX. Si tratta di teorie che evidenziano un ruolo

dello Stato come produttore autonomo. Una teoria più antica sosteneva che lo Stato agisce come

un’azienda privata, che c’è equiparazione tra privato e pubblico e che il sovrano agisce nell’interesse

del popolo (Stato poliziesco-eudemonistico). La teoria della produttività di List sostiene che la

nazione sacrifica beni per acquisire ‘forze spirituali e sociali’ (giustizia, difesa, istruzione): lo Stato,

quando non produce direttamente valori genera forze produttive, nuove energie morali e fisiche per la

produzione di valori. Secondo Dietzel lo Stato con i beni capitali produce direttamente beni

immateriali ed è esso stesso un grande capitale immateriale e produttivo. I beni destinate a soddisfare

i bisogni comuni sono prodotti in gran parte immateriali di un processo comune di produzione: difesa,

giustizia, istruzione sono considerati beni immateriali dello Stato. Per Wagner lo Stato trasforma beni

naturali in beni immateriali ed è produttore di beni immateriali (servizi pubblici): sicurezza, giustizia,

benessere ed in forze produttive (energie morali e fisiche): esiste una generale commutatività di beni

e servizi pubblici ed il consumo pubblico è produttivo.

Teoria della riproduttività. La teoria della riproduttività (Stein) ha carattere normativo, più che

interpretativo. Afferma che lo Stato-organismo, che amministra le entrate sostituendosi agli individui

per i bisogni della collettività, nell’economia ha il fine di mantenere l’ordine e reintegrare le forze

economiche. Pertanto deve seguire il criterio della riproduttività. Ogni organismo per essere vitale

deve poter riprodurre le condizioni per la sua esistenza. Le spese pubbliche sono il costo di

produzione dello Stato. Le prestazioni che il cittadino fa allo Stato (imposte) sono parte del costo di

produzione privato. L’uso di beni privati (entrate) deve essere riproduttivo, l’amministrazione deve

costare meno di quello che acquisisce. L’uso di beni e redditi privati da parte dello Stato è giustificato

solo se è riproduttivo. D’altra parte i beni privati non si possono godere senza un contestuale

godimento dei beni pubblici. Le spese statali sono produttive se permettono la riproduttività del

consumo individuale.

____ Le teorie economiche sulle imposte e sulle spese pubbliche sono state formulate, in modo compiuto,

fin dai sec. XVII-XVIII. Già, ad es., in A treatise of taxes and contributions (1662) di William Petty

(1623-1687) ed in Of Taxes (1752) di David Hume (1711-1776); tra i Fisiocratici francesi (2a metà

sec. XVIII, v. anche Physiocrats), Mirabeau (1715 - 1789) elabora una teoria dell’imposta unica

sulla terra (1760). Tra gli studiosi dell’Europa continentale vanno ricordate le opere dell’austriaco E.

Sax (1845 – 1927) e del rappresentante della scuola storica tedesca A. Wagner (1835-1917). Tra gli

studiosi italiani si ricordano gli illuministi di Milano Pietro Verri (1728-1797), Della Economia

Politica (1781) e Cesare Beccaria (1738-1794), Economia Pubblica (1760). Dell’ambiente culturale

di Napoli si possono ricordare Antonio Genovesi (1713-1769) nelle Lezioni di commercio o sia di

economia civile (1766-67), Ferdinando Galiani (1728-1787), Gaetano Filangieri (1752-1788) in

Delle leggi politiche ed economiche, nella Scienza della legislazione (1785-88), e specialmente

Carlo Antonio Broggia (1683-1763) nel Trattato dei tributi (1743) e Giuseppe Palmieri (1721-

1793) nelle Riflessioni sulla pubblica felicità (1788).

Nelle grandi opere dei ‘padri’ della teoria economica in ambiente inglese (Smith, Ricardo, J. Stuart

Mill) si trovano approfondimenti su imposte e spese pubbliche.

Adam Smith (1723-1790), in An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations

(1776), in particolare:

Book V: Of the Revenue of the Sovereign or Commonwealth

26

V.1. Of the Expences of the Sovereign or Commonwealth

V.2. Of the Sources of the General or Public Revenue of the Society

V.3. Of Public Debts

David Ricardo (1772-1823), in On the Principles of Political Economy and Taxation (1817), in

particolare:

8. On Taxes

9. Taxes on Raw Produce

10. Taxes on Rent

11. Tithes

12. Land-Tax

13. Taxes on Gold

14. Taxes on Houses

15. Taxes on Profits

16. Taxes on Wages

17. Taxes on other Commodities than Raw Produce

John Stuart Mill (1806-1883), in Principles of Political Economy with some of their Applications

to Social Philosophy (1848), in particolare:

Book V On the Influence of Government

V.I Of the Functions of Government in General

V.II On the General Principles of Taxation

V.III Of Direct Taxes

V.IV Of Taxes on Commodities

V.V Of some other Taxes

V.VI Comparison between Direct and Indirect Taxation

V.VII Of a National Debt

E’ esistita una Scuola italiana di Scienza delle finanze, iniziata nel

sec. XIX e sviluppata nel sec. XX.

Si possono ricordare alcuni studiosi:

Francesco Ferrara (1810 - 1900)

Luigi Cossa (1831 – 1896)

Giuseppe Ricca Salerno (1849-1912)

Amilcare Puviani (1854-1907)

Maffeo Pantaleoni (1857- 1924)

Antonio De Viti De Marco (1858-1941)

Enrico Barone (1859-1924)

Ugo Mazzola (1863-1899)

Carlo Angelo Conigliani (1868 - 1901)

Luigi Einaudi (1874-1961)

Mauro Fasiani (1900-1950)

Cesare Cosciani (1908-1985)

Sergio Steve (1915-2006)

Cenni storici fino al sec. XIX si trovano in G. Ricca Salerno,

Storia delle dottrine finanziarie in Italia (1896)i Ricca Salerno

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II. Le spese pubbliche

a. Beni e servizi pubblici

Classificazioni della spesa pubblica

Le caratteristiche di beni e servizi pubblici

Tipologie e modelli

b. La spesa pubblica in trasferimenti

Modelli

La previdenza e la redistribuzione del reddito

Spese pubbliche per sanità ed istruzione

c. Beni e servizi pubblici locali. I fallimenti del governo

Beni e servizi pubblici locali

I fallimenti del governo

1. Beni e servizi pubblici

Classificazioni della spesa pubblica

- Classificazione amministrativa: le spese sono classificate in base alle competenze delle diverse

unità amministrative del governo che hanno il potere di spendere e di incassare, in modo da

individuare la responsabilità della gestione.

- Classificazione economica: inserisce i dati delle attività finanziarie pubbliche nella contabilità

nazionale: distingue tra incassi e pagamenti correnti (che riguardano flussi) ed in conto capitale

(che determinano variazioni di patrimonio).

- Classificazione funzionale: le spese sono classificate in base alla loro funzione (destinazione per

obiettivi), in modo da evidenziare programmi, carichi di lavoro e costi delle attività.

Il modello di classificazione delle funzioni di governo (COFOG) segue quello delle NAZIONI

UNITE - COFOG (Classification of the Functions of Government) e dell’Organizzazione per la

Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OECD). La classificazione COFOG è articolata in 10

Divisioni, ciascuna suddivisa in Gruppi e Classi

01. - SERVIZI GENERALI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

02. - DIFESA

03. - ORDINE PUBBLICO E SICUREZZA

04. - AFFARI ECONOMICI

05. - PROTEZIONE DELL' AMBIENTE

06. - ABITAZIONI E ASSETTO TERRITORIALE

07. - SANITA’

08. - ATTIVITA' RICREATIVE, CULTURALI E DI CULTO

09. - ISTRUZIONE

10. - PROTEZIONE SOCIALE

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Beni e servizi pubblici

Difesa

Giustizia

Ordine

pubblico

Trasporti

Opere pubbliche

Istruzione

Sanità

TV

internet

La distinzione tra beni e servizi pubblici e privati non si trova nella qualità, pubblica o privata, di un

soggetto proprietario di un bene o gestore di un servizio, ma è oggettiva, in quanto si fonda sulla tecnologia

del consumo o della produzione.

Si classificano:

- Beni pubblici (di consumo o di produzione): sono beni fisici, in particolare immobili, come

opere ed infrastrutture pubbliche, impianti per il tempo libero, strutture culturali, ma anche

beni immateriali (ordine pubblico, pace, benessere sociale);

- Servizi pubblici: si tratta di attività complesse, costituite da beni fisici e da personale, che

generano output assimilabili a beni pubblici (difesa, polizia, giustizia, sanità, istruzione).

Come i beni pubblici sono offerti anche se non sono domandati.

- Servizi di pubblica utilità: come le forniture di energia elettrica, gas, acqua, telefoni,

comunicazioni, trasporti, servizi postali. Sono servizi prodotti e venduti da imprese

pubbliche o da imprese private regolate e pagati a tariffa in base alla domanda.

I beni ed i servizi pubblici e di pubblica utilità possono essere prodotti e gestiti sia da soggetti pubblici che

privati. Beni e servizi pubblici sono definiti nella contabilità nazionale come beni e servizi non destinabili

alla vendita.

Le caratteristiche distintive di beni privati e pubblici sono nelle modalità di accesso e di consumo. Sono

distinguibili e classificabili i beni pubblici e privati in base a:

consumo congiunto/disgiunto;

escludibilità/non escludibilità,

rivalità/non rivalità,

esternalità/non esternalità.

I beni privati sono beni a consumo disgiunto. I beni sono consumati separatamente. Si sommano le

diverse quantità dei beni consumate dai singoli individui per avere il consumo totale. Ogni

individuo paga un prezzo uguale e distinto. La spesa complessiva per beni privati si ottiene

sommando i prezzi uguali pagati da singoli.

Un esempio è dato da un bene di consumo alimentare.

I beni pubblici sono beni a consumo necessariamente congiunto. Si distinguono dai beni privati a

consumo ripetibile ma distinto (beni di consumo durevole), per i quali è possibile un consumo da

parte di individui diversi, ma in successione temporale distinta (prima Tizio, poi Caio, poi

Sempronio). I beni pubblici sono caratterizzati da contemporaneità nel consumo da parte di più

individui. Si sommano gli individui che possono consumare la stessa quantità di bene pubblico. Il

pagamento per il costo della stessa quantità di bene pubblico può essere frazionato, in quote diverse,

tra più consumatori. I consumatori pagano somme individuali differenziate per la stessa quantità.

29

L’esempio più antico di consumo congiunto gratuito è quello del faro o del lampione.

I beni privati sono beni escludibili: se Tizio consuma un bene privato X, dopo averlo acquistato e

pagato, impedisce a Caio di consumare lo stesso bene X.

I beni pubblici sono beni non escludibili: se Tizio consuma Y non può impedire a Caio di consumare

la stessa quantità di Y. La non escludibilità implica che chi non può essere escluso possa tentare di

approfittare per non pagare la sua quota di costo e comportarsi in modo opportunistico (free rider).

I beni privati sono beni rivali: non è possibile aggiungere altri consumatori della stessa quantità di

X. La rivalità si definisce anche concorrenza nel consumo e sottraibilità (un consumatore

aggiuntivo sottrae una parte del consumo agli altri).

I beni pubblici sono non rivali: è possibile aggiungere altri consumatori della stessa quantità di Y

senza ridurre il livello di consumo per altri.

I beni privati non producono esternalità. I beni pubblici producono esternalità.

L’esternalità ( o effetto esterno) è un effetto, positivo o negativo, che consegue ad un’attività di

produzione e di consumo e che va a finire a soggetti estranei, senza che questi debbano pagare un

corrispettivo come prezzo (esternalità positiva: un beneficio, un incremento di reddito, di

patrimonio, di utilità e di benessere) o senza che possano ricevere un indennizzo (esternalità

negativa, che è un danno, un costo aggiuntivo, una diminuzione di utilità). Dato che non è un

effetto contrattato o concordato si dice che l’esternalità non passa dal mercato.

Un esempio di esternalità positive: Tizio ascolta buona musica, Caio ha utilità

nell’ascoltarla senza dover pagare. Per i beni/servizi pubblici: quando sono offerti a Tizio

sono contemporaneamente consumati da Caio e questi ne beneficia senza pagare e senza

averli richiesti. Inoltre, per i beni ed i servizi pubblici: un’opera pubblica può ridurre i

costi di produzione delle imprese; l’istruzione e la sanità possono migliorare la qualità

della vita; i servizi di giustizia e di polizia possono dare sicurezza, proteggere l’attività

contrattuale ed i patrimoni.

Un esempio di esternalità negativa: è il caso dell’inquinamento ambientale o acustico

derivante da produzione o uso di beni o servizi privati. Un soggetto produce un bene o un

servizio e contemporaneamente danneggia un soggetto terzo estraneo a rapporti

contrattuali, che non riceve indennizzo/risarcimento.

Esistono beni pubblici che producono sia esternalità positive che negative (ad es. un impianto

di smaltimento rifiuti, una centrale elettrica, un’opera pubblica con forte impatto ambientale).

Alcuni servizi pubblici sono a domanda individuale, ma l’accesso non può essere precluso (ad es. nei

servizi di pubblica utilità). Alcuni consumi di servizi pubblici sono obbligatori (ad es. nell’istruzione, sanità,

giustizia, difesa).

Il grado in cui sono presenti le caratteristiche è variabile. Sono tutte presenti al massimo grado nei beni

privati puri e nei beni pubblici puri. Ma esistono un gran numero di casi intermedi (beni privati non puri e

beni pubblici non puri).

Ad es.: per alcuni beni e servizi pubblici quando aumenta il numero di utenti oltre un certo livello non

sono più beni pubblici puri. Si presentano fenomeni di congestione che limitano il consumo degli utenti

(la non rivalità si attenua: ad es. un’autostrada, i servizi sanitari). Per altri (un teatro, uno stadio) è

possibile l’esclusione (la limitazione degli ingressi), ma rimane il consumo congiunto.

Le risorse comuni o beni ad accesso libero sono beni non escludibili ma rivali. Si tratta di beni

patrimoniali, per lo più immobili, che generano flussi di beni o servizi che i consumatori hanno diritto ad

utilizzare, senza discriminazione, in parte, senza danneggiare i beni. Esempi: i diritti gratuiti di attingere

30

acqua per uso domestico o per irrigazione, i diritti di pesca, di raccogliere prodotti agricoli, legname,

materiali, una biblioteca pubblica. Sono soggetti al rischio di eccessi di uso, che possono impoverire o

annullare le risorse se si ha una congestione di consumatori e mancanza di incentivi alla manutenzione ed

alla conservazione del patrimonio di uso comune. Questi beni (ad es. gli usi civici) sono caratterizzati da non

escludibilità, ma non da consumo congiunto né da non rivalità. Di solito sono autogestiti da comunità

locali. L’evoluzione e la teoria delle risorse comuni è connessa a diritti individuali fondamentali (ad es. per

la garanzia del minimo vitale, per il diritto di cittadinanza) che devono essere offerti a ciascun componente di

una comunità. Così il diritto di uso/accesso a risorse comuni si fonda su diritti che nascono dall’appartenenza

ad una comunità.

I beni di club sono beni escludibili, ma non-rivali proprio in quanto escludibili. Si può limitare l’accesso

dei consumatori, ma quelli che sono ammessi al club hanno un consumo congiunto in cui il consumo da parte

di un soggetto non limita il consumo da parte di altri. L’esclusione di alcuni garantisce che non si verifichi

congestione (rivalità) nel consumo. L’uso congiunto del bene o del servizio è ristretto ai soggetti che pagano

l’accesso al club. La ricerca della dimensione ottima del club comporta un confronto tra:

- i benefici ricevuti dal pagamento per l’accesso: quanto maggiore è il numero di aderenti tanto più si può

ridurre la quota individuale, ed

- i costi: il numero crescente di consumatori impone costi crescenti di gestione e di manutenzione e costi

derivanti dal presentarsi in grado crescente della rivalità nel consumo.

Aumentando il numero di soci si hanno minori pagamenti individuali ma, da un certo livello, rappresentato

dalle dimensioni e dalla capacità di un impianto (impianto sportivo, cinema, circolo di tennis o di golf)

minori benefici individuali.

Il club comporta un’autorità collettiva che decide sull’ammissione al club e sulla gestione. Diversi beni e

servizi pubblici locali, offerti da amministrazioni locali, hanno le caratteristiche dei beni di club.

Gli esempi che approssimano i beni di club sono quelli di un teatro, di uno stadio, di una piscina comunale,

di un museo.

Beni escludibili ma non rivali, a domanda individuale. Esistono beni e servizi che hanno la caratteristica

dell’escludibilità nell’accesso, ma non sono rivali, per quanti consumatori possano aggiungersi. Pertanto

l’esclusione dipende solo dalla volontà di assicurare un accesso individuale a pagamento. L’esempio

comunemente richiamato è quello della televisione criptata con decoder o della tv via cavo, dove esiste un

sistema per far pagare i consumi individuali, escludendo chi non paga. Una televisione non criptata è invece

non escludibile e non rivale, ma il consumo può essere individualmente rifiutato. La differenza rispetto ad un

bene o servizio pubblico puro risiede nel tipo di non escludibilità. Nel caso di beni e servizi pubblici puri

come la difesa, la polizia, la giustizia non è possibile al singolo individuo autoescludersi dal consumo, che è

imposto ed obbligatorio. Nel caso della televisione il consumo o il non consumo dipendono da una scelta

individuale.

L’informazione può essere classificata come bene pubblico particolare vicino a questa tipologia. Da una

parte l’informazione può essere:

- ad accesso costoso ed escludibile quando un individuo o un’impresa hanno difficoltà a

reperire informazioni e devono impiegare risorse (misurate in moneta e tempo) per

acquisirle, anche da soggetti specializzati che pretendono un pagamento; in questo caso la

domanda individuale è preminente, l’informazione è un investimento privato ed è finalizzata

a conseguire guadagni privati (ad es. nei mercati finanziari o in altri mercati); in tale ipotesi

si costituiscono le asimmetrie informative;

- ad accesso gratuito e non escludibile quando l’informazione è diffusa senza necessità di

pagamento e i soggetti privati non sono rivali e difficilmente escludibili (è il caso della

pubblicità, dell’informazione politica, del software gratuito), ed in questo caso le

caratteristiche pubbliche sono più evidenti.

Si definiscono anche i beni di merito. Sono beni e servizi a consumo imposto. Non sono riconosciuti utili

immediatamente dai consumatori che sono obbligati a consumarli e si rivelano utili con il passare del tempo

(ad es. l’istruzione obbligatoria, le vaccinazioni obbligatorie, le misure contro le droghe). L’autorità pubblica

interferisce nelle scelte dei consumatori ed interviene a correggere le difficoltà e gli errori nei processi di

31

scelta individuali, quando queste sono basate su mancanza di informazione o sull’incapacità di prevedere

effetti lontani nel tempo. Non hanno caratteristiche di non rivalità e non escludibilità. Si tratta di ipotesi

verificate, nei casi estremi, nel paternalismo o nello stato etico.

Esternalità e ‘teorema di Coase’

La presenza di esternalità negative può essere eliminate in diversi modi:

a) Attraverso l’imposizione di regole e limitazioni (regulation) che controllino i

comportamenti di imprese e consumatori;

b) Con l’intervento giudiziario: è un giudice che su ricorso della parte offesa dall’esternalità

stabilisce se questa può continuare ad esistere, se deve essere eliminata o se comporta

indennizzi e compensazioni;

Con alcune condizioni si possono eliminare contrattualmente i fallimenti del mercato dovuti

alle esternalità attraverso processi di privatizzazione/ contrattualizzazione (‘far passare dal

mercato’ anche le esternalità): il ‘teorema di Coase’ afferma che le esternalità negative non

portano necessariamente a giustificare un intervento pubblico perché possono essere ‘contrattate’ e

controllate in modo efficiente attraverso scambi di mercato. Il soggetto in grado di realizzare il

maggior beneficio economico ha un incentivo a pagare gli altri perché non limitino la sua attività.

Condizione ovvia per la ‘contrattazione delle esternalità’ è che il guadagno del soggetto che causa

l’esternalità deve essere sufficiente per pagare una compensazione agli altri.

Le esternalità secondo questo ‘teorema’ possono essere eliminate con accordi volontari a due

condizioni:

1. ci deve essere una precisa assegnazione dei diritti di proprietà nell’uso delle risorse. Non

importa come sono distribuiti questi diritti tra gli individui, purché siano definiti con chiarezza.

Questa corretta assegnazione fa sì che sia chiaro chi deve pagare e chi deve essere indennizzato.

In pratica si fanno dipendere le esternalità dalla mancanza di una corretta definizione di diritti di

proprietà.

2. Inoltre la possibilità di eliminare esternalità per via contrattuale, così che i soggetti possano

pervenire ad un accordo volontario, richiede che non vi sia interferenza dei ‘costi di transazione’.

Questi sono i costi relativi alle negoziazioni ed agli scambi tra agenti economici per definire i

contratti privati e sono crescenti con il numero di soggetti coinvolti nelle contrattazioni. In

particolare, ciò che è necessario per lo scambio efficiente è la raccolta e la diffusione delle

informazioni necessarie per concludere contratti.

Nel caso delle risorse comuni si possono formare esternalità per gli eccessi d’uso da parte di

qualcuno che può limitare o impedire i diritti di consumo di altri. Quindi anche per le risorse

comuni è necessario definire i diritti di proprietà (diritti di uso e di accesso individuale).

Un esempio. Un soggetto A (consumatore o impresa) guadagna 100 imponendo a B (altro

consumatore o altra impresa) un’esternalità negativa di 80.

I casi sono due: 1. A ha il diritto di imporre un’esternalità a B; 2. B ha diritto a non essere

danneggiato da un’esternalità prodotta da A. Se B ha un diritto di proprietà che non può essere

violato può concordare con A un indennizzo di almeno 80, così che A continuerebbe a guadagnare

20 indennizzando A che resterebbe almeno al livello precedente di utilità o di produzione.

B potrebbe eliminare l’esternalità per A, ad es. contrattando un indennizzo in moneta, pagando

strumenti per eliminare l’esternalità: questa eliminazione può essere realizzata con strumenti

tecnologici, ad es. con diversa tecnologia, con depuratori o insonorizzatori, realizzati e pagati o da

A o da B.

Con una soluzione di mercato si individua la soluzione meno costosa e più efficiente contro

l’esternalità, o da parte di A che adotta soluzioni per eliminarla in quanto produttore, o di B che

adotta soluzioni per proteggersi da A che pure continua a produrre l’effetto esterno negativo.

32

Se A e B appartenessero allo stesso imprenditore questi pure avrebbe convenienza a realizzare un

profitto complessivo massimo di 130, sia pure con diversa distribuzione dei profitti tra le due

imprese.

Un sommario: la combinazione delle caratteristiche dei beni

I beni, privati e pubblici, si possono combinare in base alla combinazione delle loro caratteristiche.

Considerando due di queste, la non escludibilità e la non rivalità, variabili dallo 0% al 100%, si

possono immaginare combinazioni come nello schema seguente.

0% non escludibilità

100%

Beni privati puri

( beni alimentari, vestiario)

Risorse comuni,

autostrade, mezzi di

trasporto pubblico,

internet

beni di club,

(teatri, stadi, piscine,

biblioteche, musei)

televisione criptata

Beni pubblici puri

(difesa nazionale,

ordine pubblico)

100%

I beni privati puri sono completamente escludibili e rivali; in più sono privi di esternalità, non

avendo effetti su altri soggetti quando sono consumati da un individuo. I beni pubblici puri sono

non escludibili e non rivali al 100% ed hanno esternalità generali, per via del consumo

necessariamente congiunto.

Vi sono poi beni non escludibili ma rivali e beni escludibili ma non rivali. Beni come teatri, stadi,

piscine, beni di club possono essere regolati nel diritto di accesso così da impedire fenomeni di

congestione e di rivalità nel consumo. Nel caso della tv criptata è possibile l’escludibilità in base al

pagamento per l’accesso, anche se non c’è possibilità di congestione. Per internet, come per la tv

non criptata, è possibile l’autoescludibilità, nel senso del rifiuto individuale del servizio che pure

non ha problemi di rivalità. Le caratteristiche sono presenti in combinazioni con percentuali

variabili, e questo permette di classificare un bene più verso i beni privati puri o verso i beni

pubblici puri.

Beni come le risorse comuni, le strade ed autostrade, i mezzi di trasporto pubblici non sono

escludibili (il diritto di accesso può essere libero e gratuito oppure può venir fatto pagare, ma non

limitato), ma oltre certi limiti presentano fenomeni di rivalità.

Beni privati e pubblici sono talora distinti in base ad un criterio di proprietà. Va precisato che i diritti di

proprietà (property rights) nella terminologia economico-giuridica anglosassone, indicano poteri di

controllo esclusivo dell’uso di un bene, intesi quindi come diritto di utilizzare un bene o un servizio

escludendo altri. Sono uno jus utendi, indipendente dalla proprietà in senso civilistico proprio.

non

rivalità

33

Nei beni privati puri l’esclusività è sia un diritto che una possibilità tecnica.

Nei beni pubblici puri l’esclusività tecnica è impossibile.

Nei beni di club l’esclusione di altri è preliminare al diritto d’uso congiunto senza (o con ridotta)

rivalità.

Nei beni comuni l’impossibilità (giuridica) di esclusione determina possibili effetti di

rivalità/congestione/riduzione di possibilità d’uso in funzione crescente del numero di utenti

effettivi.

Beni e servizi con caratteristiche miste private e pubbliche possono essere studiati in funzione delle

dimensioni e dei contenuti dei property rights. Questi nascono e si trasformano, sempre secondo la teoria

economica, come incentivi a comportamenti efficienti.

La property rights economics studia l’allocazione di risorse e l’efficienza che deriva dalla corretta

definizione (giuridica) degli stessi. Secondo questa impostazione si trasferiscono i diritti di proprietà,

anziché direttamente i beni ed i servizi. Studia altresì come questi diritti influiscano sugli incentivi

individuali e come i comportamenti individuali possano variare in funzione di questi incentivi. Si dice,

sinteticamente, che i diritti di proprietà esistono per ‘internalizzare le esternalità’, cioè per attribuire prezzi o

valori di indennizzo a benefici e costi non trattabili nel mercato. I ‘diritti di proprietà’ vengono definiti in

funzione di una riduzione dei ‘costi di transazione’. Tale impostazione è stata utilizzata per spiegare

l’evoluzione storica di istituti giuridici, che sono nati e si sono trasformati appunto per consentire economie

ed eliminare o limitare le esternalità. Quindi spiegazioni dei processi di evoluzione, di crescita e di crisi

hanno trovato fondamento anche in questo schema interpretativo.

Il problema del ‘free rider’

La produzione di beni pubblici genera esternalità positive che non si possono far pagare. Pertanto nessuna

impresa privata ha incentivi a produrli volontariamente. I consumatori, per via dell’impossibilità di

esclusione, beneficiano dei beni pubblici senza dover contribuire al loro costo di produzione. Ciò li induce a

comportarsi egoisticamente in modo opportunistico, appropriandosi i benefici senza pagare i costi (il già

ricordato free rider) o pagandoli in misura ridotta. Di per sé ciò impedisce di attuare la produzione e lo

scambio di beni e servizi pubblici come se si trattasse di uno scambio volontario. Le conseguenze sono:

- la tendenza ad un’insufficiente produzione di beni e servizi pubblici;

- l’incentivo all’evasione, cioè a sottrarsi al pagamento delle quote di costo individuale

(imposte) per finanziare la produzione di beni e servizi pubblici;

- l’impossibilità di escogitare sistemi per indurre gli individui a rivelare correttamente le loro

preferenze per beni e servizi pubblici e quindi la loro effettiva disponibilità a pagare;

- la difficoltà di applicare il c.d. principio del beneficio alle spese pubbliche.

Beni pubblici intermedi

Esistono beni pubblici che sono utilizzati dalle imprese come beni strumentali. Si tratta di beni che sono

considerabili fattori di produzione o beni intermedi (rispetto a beni finali privati). E’ il caso del c.d. capitale

pubblico e degli input pubblici. Il carattere pubblico è definito dalla possibilità di utilizzo congiunto da parte

delle imprese.

Ad es. sono beni pubblici intermedi le infrastrutture pubbliche (vie di comunicazione, network, infrastrutture

ferroviarie, portuali, di trasporto aereo, ecc.) utilizzabili per la produzione di beni privati (acquisizione di

input e distribuzione di output da parte delle imprese private) e per la produzione di beni pubblici. Talvolta lo

stesso bene pubblico intermedio può essere utilizzato sia per il consumo, anche come bene complementare

per consumi privati, che per la produzione. I beni pubblici intermedi sono valutati, economicamente, in

quanto aumentano la produttività dei fattori di produzione privati ed in passato erano definiti come

necessariamente complementari a questi.

34

Il ruolo del governo come impresa produttiva, che deve dare un contributo, diretto (con produzione propria

di beni e servizi) o indiretto (con beni intermedi per le imprese private), alla produzione nazionale era stato

definito già nella seconda metà del sec. XIX.

Modelli di beni pubblici

Nella teoria economica, a partire dalla fine del sec. XIX, sono stati formalizzati modelli di domanda dei

beni pubblici.

Alcuni modelli sono basati su una c.d. ‘teoria dello scambio volontario’ in cui gli individui pagano prezzi

anche per i beni pubblici, così come per i beni privati. In particolare si è definita la domanda congiunta di

beni pubblici da parte di più individui che consumano la stessa quantità di beni pubblici. Mentre con i beni

privati si sommano distinte quantità allo stesso presso, con i beni pubblici la conclusione è che si sommano

le domande individuali per le stesse quantità di beni pubblici ed i prezzi individuali sono differenziati.

LLLAAA DDDOOOMMMAAANNNDDDAAA DDDIII BBBEEENNNIII PPPUUUBBBBBBLLLIIICCCIII AAA BBB

In questa impostazione un modello di riferimento è stato elaborato (1919) dall’economista

svedese E. Lindahl (1891-1960), della scuola svedese (come K. Wicksell (1851–1926): due soggetti

(gruppi sociali o partiti in un’approvazione parlamentare sul bilancio pubblico) devono concordare:

a) l’ammontare di spesa pubblica, b) il riparto tra i due gruppi del costo della spesa. Dopo una

‘contrattazione’ su a) e b) emerge una soluzione che ha l’approvazione di entrambi i soggetti. Tale

soluzione concordata ed unanimistica si può generalizzare da 2 a più soggetti. Alla fine tutti sono

d’accordo sull’ammontare di spesa pubblica e sulle quote di costo.

IIILLL MMMOOODDDEEELLLLLLOOO DDDIII LLLIIINNNDDDAAAHHHLLL AAA BBB

Successivamente si è evidenziato come il meccanismo della differenziazione dei ‘prezzi individuali’ con i

beni pubblici dipenda dai meccanismi di decisione collettiva, in particolare dalle regole elettorali di

votazioni. Queste regole adottano l’unanimità solo in rarissimi casi, in quanto si tratta di una regola che

difficilmente porta a soluzioni, per il ‘potere di veto’ individuale che paralizza le decisioni unanimistiche.

Perciò sono state analizzate regole di decisione non unanimistiche (di maggioranza semplice o qualificata)

che non richiedono l’adesione di tutti.

L’economista americano H.R. Bowen (1948) ha studiato le modalità di decisione nelle votazioni, a livello

locale, sulle spese pubbliche (con un modello di referendum su spese/imposte possibile in alcune realtà

istituzionali, ad es. in Stati degli S.U. ed in Svizzera). Gli elettori sono suddivisi in gruppi, più o meno

numerosi, con preferenze differenziate, più o meno favorevoli a spese su determinati beni e servizi pubblici.

La distribuzione delle preferenze tra i diversi gruppi è importante per far emergere una maggioranza che

approvi un livello di spesa pubblica. Bowen esamina il caso di ‘distribuzione normale’ delle preferenze. Le

analisi successive hanno evidenziato il ruolo dell’elettore mediano come ago della bilancia nelle decisioni

elettorali, anche su spese pubbliche ed imposte.

IIILLL MMMOOODDDEEELLLLLLOOO DDDIII BBBOOOWWWEEENNN AAA BBB

LLLAAA TTTEEEOOORRRIIIAAA DDDEEELLLLLL ’’’ EEELLLEEETTTTTTOOORRREEE MMMEEEDDDIIIAAANNNOOO 111 AAA BBB

35

LLLAAA TTTEEEOOORRRIIIAAA DDDEEELLLLLL ’’’ EEELLLEEETTTTTTOOORRREEE MMMEEEDDDIIIAAANNNOOO 222 AAA BBB L’analisi economica delle regole di decisione nelle votazioni ha posto in evidenza alcuni problemi.

- Le difficoltà di aggregazione delle preferenze individuali in una decisione collettiva. Esistono meccanismi

che rendono impossibile tale aggregazione. Uno dei più richiamati, che risale almeno a Condorcet (1743-

1794), è il c.d. paradosso delle votazioni o della maggioranza ciclica.

Vi siano tre soggetti (I, II, III) che devono decidere sull’ordine di preferenza fra 3 alternative (A,B,C). Gli

ordini di preferenza individuale siano

1° 2° 3°

I A B C

II B C A

III C A B

Scrivendo > (preferisce a) si ha che

I A > B > C II B > C > A III C > A > B

Se A, B e C vengono messi in votazione:

contemporaneamente, prendono un voto ciascuno e non si ha alcuna maggioranza;

con un sistema di ballottaggio (votazione di un’alternativa contro un’altra) si ha:

A contro B vince A 2-1 (I e III preferiscono A a B, II preferisce B ad A)

B contro C vince B 2-1 (I e II preferiscono B a C, III preferisce C a B)

A contro C vince C 2-1 (II e III preferiscono C ad A, I preferisce A a C)

Un’alternativa perde contro un’altra, questa perde con una terza alternativa che a sua volta vince con la

prima. Il risultato dipende dal momento in cui un’alternativa entra in ballottaggio: più tardi entra, maggiori

sono le probabilità di vittoria. E’ necessario ricorrere a sistemi di decisione diversi dalla maggioranza (ad es.

con una votazione a punteggio: non si indica solo un ordine di preferenza, ma anche un punteggio per ogni

alternativa, con ogni elettore che dispone di un certo numero di punti [v. il Metodo di Borda (Borda Count)]

e vince l’alternativa con il punteggio complessivo più alto.

La Teoria della scelta collettiva è inserita nell’economia del benessere e nella costruzione delle funzioni di

benessere sociale (v. Social welfare function, Social welfare e Welfare Economics), con elaborazioni che

risalgono a Pareto (1906, 1916).

Per costruire la Funzione di benessere sociale (FBS) il benessere collettivo (come grado di soddisfazione

dei bisogni umani per una collettività nel suo insieme), è stato inteso in vari significati. La FBS dovrebbe

permettere di ordinare le situazioni sociali possibili e far scegliere la migliore, quella di massimo

benessere sociale. Ne sono state proposte diverse varianti. a) FBS cardinale: è la somma algebrica delle

utilità individuali misurabili (utilitarismo di Bentham: non conta la distribuzione dell’utilità tra individui,

ma solo la somma).

b) FBS calcolata con un indice basato su elementi (ritenuti, secondo giudizi di valore, rilevanti per la

società e per i suoi componenti) che influiscono sul benessere collettivo: la FBS determina l’ordine di

importanza di tali elementi, che sono combinati, anziché sommati, così che non si deve ricorrere ai

confronti interpersonali di utilità.

c) FBS ordinale: è una regola che aggrega le preferenze individuali in un’unica preferenza collettiva:

l’utilità sommabile è sostituita dalle preferenze individuali espresse con razionalità.

La teoria delle scelte collettive si trasforma in teoria delle scelte sociali, che dà prevalenza all’analisi dei

36

metodi di aggregazione delle preferenze individuali (regole di scelta collettiva, in particolare le regole di

votazione).

In questo contesto è rilevante la critica del Teorema dell’impossibilità di Arrow (v. AIT):

non esiste alcuna regola di aggregazione di preferenze che soddisfi alcune condizioni basilari. Ne

consegue che i meccanismi di voto sono regole imperfette di aggregazione delle preferenze.

Si rinvia a K. Arrow Social Choice and Individual Values (1951) ed al Gibbard–Satterthwaite

theorem. Si vedano anche di A. Downs An Economic Theory of Democracy (1957) e di M. Olson The

Logic of Collective Action (1965), nonché le opere di Rawls, Harsanyi, Sen, Nash.

- La presenza di costi nelle decisioni elettorali. Le regole di votazione sono costose, nel senso che

implicano costi per gli elettori, distinti in: a) costi che dipendono dall’essere esclusi dalle decisioni e

vedersi imposta da altri una decisione sulla quale non si concorda (imposte sgradite, spese

pubbliche non condivise), e b) costi necessari per formare gruppi che impongano una decisione (ad

es. costi per raggiungere il consenso su misure fiscali). La regola migliore (ottima, la più efficiente)

sarebbe quella meno costosa, nel senso che minimizza i costi delle decisioni. Non sarà una regola

definibile in assoluto (unanimità, maggioranza semplice o speciale) ma dipenderà dalle

caratteristiche del gruppo sociale, dalle diversità di preferenze al suo interno, dalle strutture

istituzionali, dai momenti e dalle circostanze in cui si decide. In questa prospettiva sarebbe

opportuno distinguere tra: scelte costituzionali di lungo periodo, prese all’unanimità, quando chi

decide non è in grado di prevedere le sue posizioni future, nelle maggioranze o nelle minoranze;

regole di decisione operative, per decidere di volta in volta. La decisione unanime costituzionale

può implicare la scelta di regole di decisione diverse dalla maggioranza.

III CCCOOOSSSTTTIII DDDEEELLLLLLEEE VVVOOOTTTAAAZZZIIIOOONNNIII EEE LLLAAA RRREEEGGGOOOLLLAAA ‘‘‘OOOTTTTTTIIIMMMAAA ’’’ AAA BBB

La teoria delle scelte costituzionali/operative è stata formulata da J. M. Buchanan e da G. Tullock in The Calculus of Consent: Logical Foundations of Constitutional Democracy (1962).

L’inserimento dei beni pubblici in equilibrio generale, come è stato fatto da P. A. Samuelson

(1915-2009) nel 1954, ha messo insieme le preferenze individuali di più soggetti e l’efficienza nella

produzione di beni privati e di beni pubblici (con la funzione o frontiera di trasformazione). Le

condizioni di equilibrio generale con beni privati sono state modificate con l’introduzione di beni

pubblici a consumo congiunto e indivisibile.

BBBEEENNNIII PPPUUUBBBBBBLLLIIICCCIII IIINNN EEEQQQUUUIIILLLIIIBBBRRRIIIOOO GGGEEENNNEEERRRAAALLLEEE --- 111 AAA BBB

BBBEEENNNIII PPPUUUBBBBBBLLLIIICCCIII IIINNN EEEQQQUUUIIILLLIIIBBBRRRIIIOOO GGGEEENNNEEERRRAAALLLEEE --- 222 AAA BBB

37

2. La spesa pubblica in trasferimenti

Modelli

Le spese pubbliche in trasferimenti si raggruppano nelle prestazioni del Welfare State, nato nella seconda

metà del sec. XIX e sviluppato soprattutto nella seconda metà del sec. XX.

L’obiettivo del Welfare State è quello di tutelare i lavoratori nella società industriale contro alcuni rischi

(disoccupazione, vecchiaia, malattie), assicurando livelli di reddito e servizi.

Nelle diverse situazioni storiche e politiche si sono sviluppati differenti modelli:

a) Modello universalistico - egalitario della socialdemocrazia scandinava: la copertura assicurativa è

omogenea ed estesa a tutti, è considerata un diritto dei cittadini e si prescinde dallo stato di bisogno. La

fiscalità generale è il metodo di finanziamento prevalente. Il modello inglese è il prototipo di sistema

sanitario nazionale universalistico.

b) Modello corporativo - assicurativo (tedesco - francese): è un modello poco omogeneo, di area tedesca e

latina. Si fonda sulla corrispondenza tra contributi versati e livello delle prestazioni cui si ha diritto.

Svolgono ruoli rilevanti il mercato del lavoro e la famiglia. Gli interventi sono ottenuti dai sindacati, sono

differenziati per categoria di lavoratori, comportano privilegi per i dipendenti pubblici, sono mirati alle

esigenze della famiglia, sono finanziati essenzialmente con contributi sociali di categoria. I sindacati

ottengono livelli di protezione differenziata nelle pensioni e nell’assistenza sanitaria. La protezione è

differenziata in base alla posizione nel mercato del lavoro. Le casse mutue di categoria sono lo strumento

finanziario per coprire la previdenza e l’assistenza.

c) Modello liberale - anglosassone di tipo individualistico: l’intervento pubblico è limitato a casi di forte

disagio sociale per le classi di meno abbienti e il sistema di assicurazioni private interviene per la

previdenza. Il sistema si può estendere alla sanità (negli Stati Uniti). Si tratta di un modello c.d. residuale.

Gli interventi pubblici dipendono dall’accertamento dell’effettivo stato di bisogno in base a parametri di

necessità.

La previdenza, la distribuzione e la redistribuzione del reddito

Le spese previdenziali (pensioni) fanno parte delle assicurazioni obbligatorie e sono una forma di risparmio

forzoso, che assicura un reddito differito, quando è cessata la produzione di reddito di lavoro. Le pensioni

sono:

a) di vecchiaia (corrisposte ad una data età anagrafica);

b) di anzianità (corrisposte dopo un certo numero di anni di lavoro);

c) di invalidità (per menomazioni che impediscono di lavorare);

d) ai superstiti (trasferite a famigliari in caso di decesso del titolare).

Il meccanismo di finanziamento delle pensioni, dai contributi sociali, attraverso gli enti previdenziali, si può

rappresentare come segue:

38

I lavoratori attivi pagano i contributi, i lavoratori usciti dal mercato del lavoro (per vecchiaia o anzianità)

percepiscono le pensioni.

Si definisce tasso di dipendenza il rapporto Lavoratori attivi/Pensionati che corrisponde al rapporto

Contributi/Pensioni. Questo tasso dipende anche dall’andamento demografico.

L’importo delle pensioni può essere calcolato con due metodi diversi.

- Metodo a ripartizione, in uso prevalente nei paesi dell’Europa continentale, fino agli anni ’90 del sec. XX:

i lavoratori pagano i contributi sR agli enti di previdenza ogni anno e questi contributi vengono

immediatamente utilizzati per pagare le pensioni. Le pensioni sono calcolate con riferimento a

a) medie dei redditi di lavoro degli ultimi anni (da 20 a 5) e

b) durata del periodo di tempo in cui si è lavorato (più lungo è il periodo più elevata la pensione).

Può essere:

a) di tipo retributivo se la pensione è determinata, in prevalenza, dall’ammontare del reddito di lavoro

dipendente;

b) di tipo contributivo se la pensione è più immediatamente collegata all’ammontare di contributi

versati.

Il metodo a ripartizione è un metodo a prestazioni definite, nel senso le prestazioni previdenziali sono

chiaramente conosciute in anticipo.

Il metodo a ripartizione è esposto a due rischi che possono rendere insufficiente il finanziamento delle

pensioni attuali con i contributi attuali e quindi richiedere finanziamenti aggiuntivi attraverso trasferimenti

dal bilancio pubblico:

- rischio demografico: i contributi sono insufficienti per pagare le pensioni, perché, in seguito a

processi di invecchiamento e cali di natalità, si ha un eccesso di pensionati-pensioni rispetto a lavoratori-

contributi: Il rapporto pensionati/occupati si definisce indice di dipendenza dei pensionati dagli occupati: in

pratica è un indice di dipendenza degli anziani dai giovani. L’indice di vecchiaia è il rapporto tra la

popolazione con più di 65 anni e la popolazione con meno di 14 anni.

Schematicamente, un rischio demografico per un sistema retributivo si ha quando c’è sproporzione tra

lavoratori e pensionati:

Per attenuare il rischio demografico vari sistemi pensionistici prevedono l’adeguamento delle pensioni in

base alle variazioni delle aspettative di vita. Quando si ampliano tali aspettative, in base all’allungamento

della vita, si prevede pure un allungamento dell’età pensionabile e/o un incremento dei contributi.

- rischio di produttività del lavoro: la base di calcolo dei contributi è il reddito di lavoro, che

dipende dalla produttività del lavoro (il reddito che il fattore lavoro riesce a produrre). Questa produttività

può essere, o diventare nel tempo, insufficiente per garantire il pagamento delle pensioni.

- Metodo a capitalizzazione. Durante il periodo lavorativo si accumulano i contributi, presso imprese di

assicurazioni, come se fossero premi periodici di assicurazione. Queste imprese (i fondi pensione) li

Contributi sociali Enti di

previdenza PENSIONI

Lavoratori in attività

[CONTRIBUTI]

Pensionati

[PENSIONI]

39

investono nel mercato finanziario (in azioni, obbligazioni, titoli pubblici, fondi comuni) e costituiscono alla

fine un montante contributivo che, in base a dei coefficienti, determina l’importo della pensione.

Il metodo a capitalizzazione è un metodo a contribuzioni definite, nel senso che è predefinito l’importo dei

contributi-premi annuali, ma le prestazioni previdenziali future sono di ammontare incerto perché dipendono

essenzialmente dall’accumulazione finanziaria collegata all’andamento degli investimenti finanziari

effettuati.

Anche il metodo a capitalizzazione è esposto a due rischi, propri del mercato finanziario nel quale sono

investiti i contributi e che dipendono dalle incertezze proprie di questi mercati:

- rischio di tasso d’interesse futuro: i rendimenti dei contributi versati possono ridursi in seguito

ad andamenti negativi dei mercati finanziari;

- il rischio di inflazione futura: nel caso di processi inflazionistici i contributi versati si possono

svalutare e l’importo della pensione futura può essere inferiore alle aspettative.

- Metodi misti: possono:

a) combinare il calcolo della pensione pubblica, in parte riferendolo alle medie dei redditi ed in parte al

montante contributivo versato;

b) combinare una pensione pubblica (con metodo retributivo o contributivo) con una pensione privata

dei fondi pensione (con metodo contributivo)

La redistribuzione del reddito

Parte della spesa pubblica in trasferimenti si concentra nei programmi di assistenza e contrasto alla povertà.

Si tratta di trasferimenti in denaro ed in natura con offerta gratuita o agevolata di beni e servizi: questi

ultimi possono essere ad accesso diretto o essere concessi nella forma di buoni di acquisto (vouchers),

liberamente spendibili solo per acquisti di determinati servizi e non trasformabili in moneta attraverso

cessioni a terzi.

Il fondamento economico della redistribuzione si giustifica da diversi punti di vista.

- la redistribuzione può essere interpretata come un bene pubblico, con esternalità positive, perché determina

la riduzione dei fenomeni di indigenza e di povertà, che sono esternalità negative, ed a loro volta causano

criminalità e deterioramenti ambientali);

- la redistribuzione può entrare nelle funzioni di utilità individuali e giustificarsi come manifestazione di

altruismo, un bene immateriale gratificante per gli individui e fonte di utilità;

- la redistribuzione può essere vista come una misura di politica economica che dà sostegno alla domanda

aggregata, favorisce i consumi e quindi la produzione e l’occupazione, giovando alle imprese ed ai lavoratori

del settore privato.

40

Le politiche redistributive comportano dei rischi, in particolare il disincentivo al lavoro (chi migliora il

proprio reddito perde sussidi e perciò non conviene lavorare per migliorare la propria posizione: è la c.d.

trappola della povertà) e poi il rischio di sprechi (è probabile che buona parte di chi pretende i sussidi non

ne abbia diritto ed è troppo costoso impedire l’accesso ai non aventi titolo ai sussidi).

Masaccio, la distribuzione delle elemosine,

S. Maria del Carmine, Firenze, (1427)

Le prestazioni di assistenza ai poveri possono essere erogate con differenti sistemi.

Sistema selettivo: le prestazioni sono selettive, bisogna certificare lo stato di bisogno anche con delle

prove (i c.d. means test, le ‘prove dei mezzi’ di sussistenza: possono comportare violazioni di

privacy).

Sistema universalistico: le prestazioni sono erogate a tutti, indipendentemente dall’accertamento

dello stato di bisogno (in base al c.d. diritto di cittadinanza).

Assistenza per categorie: è riserva a favore di alcune categorie e non di altre (lavoratori dipendenti,

di pensionati, di anziani, di portatori di handicap).

Per valutare la situazione economica famigliare, al fine dell’assegnazione di agevolazioni,

trasferimenti, prestazioni previdenziali ed assistenziali, si utilizzano indicatori di situazione

economica equivalente (ISEE): si tratta della somma dei redditi (di lavoro, di capitale, di altro

tipo) e di quote dei patrimoni (immobili, patrimoni finanziari) nel nucleo famigliare (Indicatore di

Situazione Economica – ISE) divisa per un parametro presunto dalla scala di equivalenza. La

scala di equivalenza si costruisce assegnando un parametro al numero dei componenti il nucleo

famigliare, ad es.

Componenti del ..

nucleo famigliare

Parametro

1

2

3

4

5

1,00

1,57

2,04

2,46

2,85

Per l’Italia il Nuovo ISEE è calcolabile nel sito dell’INPS, con una Dichiarazione Sostitutiva

Unica (DSU). Si può anche vedere la Guida, per dettagli.

Si definisce, per selezionare gli interventi, il livello di povertà che si può intendere come:

povertà assoluta: è data dalle spese necessarie per minimo acquisto di beni e servizi necessari

(alimentari, abitazione, vestiario):

povertà relativa: si indica in base ad una soglia di povertà (poverty line): ha una definizione relativa

e statistica (ad es. la metà del reddito medio, o il 60% del reddito mediano di una popolazione.).

41

Il poverty gap misura la distanza delle famiglie, al di sotto della soglia di povertà, da questa soglia ed

indica l’ammontare di risorse totali (necessarie per portare tutte le famiglie povere al livello della soglia

di povertà) divisa per il numero di tutte le famiglie.

In Italia l’ISTAT stima dell’incidenza della povertà relativa (la percentuale di famiglie e persone

relativamente povere sul totale delle famiglie e persone residenti), calcolata in base ad una soglia

convenzionale (linea di povertà) che fissa il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una

famiglia è definita povera in termini relativi. La stima dell’incidenza della povertà assoluta è calcolata

in base ad una soglia di povertà che corrisponde alla spesa mensile minima necessaria per acquisire

un determinato paniere di beni e servizi, che rappresenta l’insieme dei beni e servizi che, nel contesto

italiano e per una determinata famiglia, sono considerati essenziali a conseguire uno standard di vita

minimamente accettabile.

Si veda ISTAT 2016: La povertà in Italia (2015). Testo integrale

La valutazione della povertà e della disuguaglianza è fatta, statisticamente, con appositi indicatori. Le

misure della disuguaglianza riguardano la distribuzione di indici di ricchezza (redditi, patrimoni). Esistono

diversi indicatori o indici che misurano la concentrazione dei redditi o dei patrimoni. Uno dei più semplici e

diffusi è l’indice di Lorenz che è un indice sintetico, in quanto si rappresenta con un numero.

Sulla distribuzione della ricchezza delle famiglie in Italia è utile la consultazione della ricerca pubblicata

annualmente dalla Banca d’Italia.

LLL ’’’IIINNNDDDIIICCCEEE DDDIII LLLOOORRREEENNNZZZ ––– 111 AAA BBB

LLL ’’’IIINNNDDDIIICCCEEE DDDIII LLLOOORRREEENNNZZZ ––– 222 AAA BBB

LLL ’’’IIINNNDDDIIICCCEEE DDDIII LLLOOORRREEENNNZZZ EEE IIIMMMPPPOOOSSSTTTEEE///SSSPPPEEESSSEEE AAA BBB

LLL ’’’IIINNNDDDIIICCCEEE DDDIII LLLOOORRREEENNNZZZ EEE IIIMMMPPPOOOSSSTTTEEE AAA BBB

LLL ’’’IIINNNDDDIIICCCEEE DDDIII LLLOOORRREEENNNZZZ EEE IIIMMMPPPOOOSSSTTTEEE///SSSUUUSSSSSSIIIDDDIII AAA BBB

Il reddito minimo ed il dividendo sociale hanno l’obiettivo di garantire un livello minimo di reddito,

sia a chi lavora sia a chi è non lavora. Si hanno diverse categorie.

- Pensione minima pagata a chi non ha diritto a pensione, o come integrazione delle

pensioni più basse fino a portarle ad un livello minimo.

- Reddito minimo garantito a chi non è in grado di lavorare, per età o per invalidità.

- Reddito minimo garantito a chi non lavora ma si impegna ad accettare un lavoro offerto da

un’agenzia o da un ufficio del lavoro.

- Dividendo sociale: ingloba le categorie precedenti. E’un reddito minimo uguale, assicurato a

chi aderisce ad un piano che comporta, per chi fa parte della forza lavoro, l’obbligo di

accettare un lavoro e per chi non ne fa parte sostituisce le pensioni minime ed i redditi

minimi.

Le proposte di un reddito minimo di cittadinanza (definito anche reddito di sussistenza) si fanno risalire a

Thomas Paine (1795). Si tratta di un trasferimento monetario corrisposto ad intervalli regolari (es. mensili,

trimestrali) a tutti coloro che, cittadini e residenti in un paese, non sono in grado di raggiungere un livello di

vita minimo dignitoso; tale reddito può integrare altri redditi insufficienti ed è indipendente da attività

lavorativa e da altre caratteristiche diverse dal reddito, ed è erogato finché perdura lo status di povertà. Una

42

definizione più generale, di un reddito minimo universale (o reddito di base) ed illimitato erogato a tutti i

cittadini, senza tener conto del livello di reddito, è stata formulata da Philippe Van Parijs (1995).

Gli ammortizzatori sociali sono sussidi che operano nel mercato del lavoro per chi ha un’occupazione.

Prevedono il pagamento temporaneo di una quota del reddito di lavoro dipendente nel caso di

sospensione temporanea dell’attività;

passaggio di un lavoratore da un datore di lavoro ad un altro (indennità di mobilità);

licenziamento (indennità di disoccupazione per tutela temporanea).

Le assicurazioni obbligatorie, a carico di imprese e dipendenti, riguardano

1. Assicurazione per gli infortuni sul lavoro.

2. Assicurazione di malattia, che integra il mancato guadagno per l’assenza

dal lavoro.

3. Assicurazione per maternità e congedi.

Di recente sono state introdotte in Italia alcune misure a vantaggio dei disoccupati, in sostituzione

delle precedenti.

INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE (NASPI) E' una prestazione economica, istituita dal

2015, Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego. È una prestazione a domanda, erogata a favore

dei lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente l'occupazione.

I requisiti sono: a) stato di disoccupazione involontario; b) requisito contributivo (contribuzione

minima precedente); c) requisito lavorativo (30 giorni nell’anno precedente).

ASSEGNO SOCIALE DI DISOCCUPAZIONE (ASDI) E’ un’indennità economica della

durata massima di 6 mesi, per la ricollocazione dei lavoratori disoccupati. Spetta a lavoratori

disoccupati che abbiano usufruito della NASPI per intero, che abbiano: a) nucleo familiare con

almeno un minore di anni 18; b) età pari o superiore a 55 anni e mancata maturazione dei requisiti di

pensione anticipata di vecchiaia c) un’attestazione ISEE con un valore pari od inferiore ad euro

5.000.

L’imposta negativa sul reddito, che venne formulata per la prima volta da Friedman (1960) negli Stati

Uniti, consiste nella trasformazione di prelievi (imposte positive) in sussidi (imposte negative). Si definisce

imposta negativa perché è in continuità con l’imposta positiva, ma applicandosi al di sotto del minimo

imponibile si trasforma in sussidio.

Se RE è il reddito effettivo e RM il reddito minimo, la differenza RM – RE dà lo scarto tra minimo

indispensabile e reddito effettivo, che va integrato con un’imposta negativa IN (un trasferimento).

Il calcolo può essere indicato con una formula:

IN = n(RM – RE)

Nei vari progetti di imposta negativa a partire dagli anni ’60 del sec. XX, si sono indicati valori di:

n = 50% (l’integrazione verso il redito minimo è pari alla metà della differenza tra questo ed il

reddito effettivo). Se RM = 3000 e RE = 2000 si calcola IN = 50%(3000-2000) = 50% 1000 =

500. Con RE = 0 (reddito di partenza nullo, povertà assoluta) IN = 50% (3000-0) = 1500 (sussidio

massimo).

n =100% (tutta la differenza è pagata come sussidio e tutti i redditi inferiori vengono portati a livello

RM). Per due redditi di 1800 e di 500 il sussidio sarà di 1200 per il primo e di 2500 per il secondo,

in modo che, con il sussidio, raggiungano entrambi il livello di 3000. Il minimo imponibile è

riconosciuto come reddito necessario minimo.

43

Si è anche proposto un tasso crescente di imposta negativa in funzione della differenza: tra RM ed

RE tanto più un soggetto è povero, tanto maggiore è un sussidio, ma in modo più che

proporzionale. Un RE di 1800 ha una differenza di 1200 ed n = 50%, con un sussidio di 600. Un

RE di 500 ha una differenza di 2500 n = 60%, con un sussidio di 1500.

LLL ’’’IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA NNNEEEGGGAAATTTIIIVVVAAA SSSUUULLL RRREEEDDDDDDIIITTTOOO (((FFFRRRIIIEEEDDDMMMAAANNN))) AAA BBB

L’imposta negativa sul patrimonio è stato un progetto che prevedeva l’assegnazione di una somma una

tantum (un capitale) per favorirne l’impiego da parte di un soggetto di giovane età che si propone di entrare

nel mercato del lavoro o di intraprendere un’attività economica.

La somma fissa può essere:

a) condizionata ad un rimborso futuro, con il reddito conseguito: è il caso di una somma prestata per

intraprendere o completare un corso di studi o di qualificazione professionale;

b) senza rimborso: è una somma a fondo perduto, o collegata ad alcune spese documentate per

intraprendere un’attività (es. costi fissi, investimenti), per favorire settori o tipologie di

imprenditoria. Si immagina che sia recuperata attraverso le imposte pagate da chi ha intrapreso

l’attività economica.

Il dividendo sociale come progetto di assegnazione di un sussidio unico, un importo in

denaro sostitutivo di assegni di disoccupazione, di pensioni minime, di assegni di povertà,

e condizionato all’accettazione di un lavoro, pena la perdita del sussidio, venne formulato

per la prima volta in Lady Rhys-Williams, Taxation and incentive (1953).

In Gran Bretagna a partire dai 18 anni chi non ha un lavoro e non ha risparmi oltre un minimo ha diritto all'

Income-based Jobseeker's Allowance (Jsa) per un periodo di tempo illimitato1. A questa cifra si aggiungono

l'affitto dell'alloggio (Housing Benefit) ed assegni per i figli. E’ imitato in altri paesi, come Australia ed

Irlanda.

In Francia per avere diritto al Revenu minimum d'insertion (Rmi, tra il 1988 ed il 2009) bisognava aver

compiuto 25 anni (se non si hanno figli) Il Rmi prevedeva l’integrazione del reddito ad un minimo mensile

per un disoccupato solo, che aumentava per coppie e per figli aggiuntivi. Dal 2004 è stato affiancato da un

Revenu minimum d'activité (RMA) destinato a facilitare il reinserimento nel lavoro dei beneficiari del RMI.

Dal 2009 il Rmi è stato sostituito dal Revenu de solidarité active (Rsa) che comporta l’obbligo di cercare un

lavoro o di seguire un programma di qualifica professionale, a fronte del sussidio ricevuto. E’ finanziato con

i proventi della tassazione di attività finanziarie.

In Germania tra 16 e i 65 anni si può disporre dell' Arbeitslosengeld II mensile più i costi dell'affitto e del

riscaldamento (Miete und Heizkosten).

La raccomandazione 92/441 della Comunità Europea sulla Garanzia minima di risorse impegnava già nel

1992 tutti gli stati membri ad adottare misure di garanzia di reddito come elemento qualificante del modello

di Europa sociale. In Austria il reddito minimo è considerato chiaramente un diritto soggettivo.

L'Italia nell’Unione Europea è il paese che dedica la maggior parte delle risorse destinate alla protezione

sociale alle pensioni, mentre è nelle ultime posizioni per la percentuale di risorse assegnate alle famiglie, ai

disoccupati ed ai contributi per l’alloggio e per l’esclusione sociale (definita come livello di povertà unito

all’emarginazione sociale).

44

Dal 2016 è stata introdotta in Italia la CARTA SIA Il Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA) è una misura a

contrasto della povertà. Prevede un sussidio, con carta prepagata, alle famiglie economicamente svantaggiate

nelle quali siano presenti minorenni, figli disabili o donne in stato di gravidanza consiste in un contributo

economico di 80 euro a persona, che può aumentare in funzione del numero dei componenti del nucleo

familiare fino ad un massimo di 400 euro. La carta è subordinata all’accettazione, da parte dei beneficiari, di

partecipare ad un progetto di attivazione sociale e lavorativa, gestito dai Comuni, che aiuti la famiglia.

Spese pubbliche per sanità ed istruzione

Le spese pubbliche per servizi sanitari e servizi di istruzione hanno alcune caratteristiche comuni.

Le informazioni sull’utilità, sulle caratteristiche e sui costi di tali servizi sono scarse e difficilmente

acquisibili dagli individui che possono raccogliere solo informazioni insufficienti sui costi e sugli

effetti futuri. Gli individui non sono in grado di prevedere gli effetti futuri, poiché ragionano con

orizzonti temporali limitati.

Tali spese hanno caratteristiche dei beni e servizi di merito: il loro consumo può essere imposto per

ragioni sociali e di diffusione di esternalità positive o per prevenire esternalità negative (ad es.

istruzione obbligatoria, trattamenti sanitari obbligatori).

Sono entrambe tipologie di spese che si riferiscono al capitale umano: l’istruzione è destinata a

formare il capitale umano (far acquisire conoscenze, formazione e tecniche da impiegare per

aumentare la produttività del lavoro e produrre reddito in futuro), mentre la sanità mira a mantenere

in buone condizioni il capitale umano (permettere la continuità nel produrre reddito e nel consumare

e sostenere la domanda; le condizioni di buona salute hanno effetti positivi sulla produttività del

lavoro).

Sia le prestazioni dei servizi sanitari e l’istruzione sono considerate servizi intermedi, rispetto a beni

finali (salute e qualifica professionale), che sono beni privati con alcune caratteristiche pubbliche

(esternalità positive, come effetti differiti nel qualificare la forza lavoro, i livelli culturali, la qualità

e la durata della vita, le tipologie di consumo).

Le ragioni di equità sono importanti per questi due tipi di spese. Nei paesi più avanzati esiste sempre

un livello minimo gratuito e garantito per tutti di servizi sanitari e di servizi di istruzione. Si rileva

come il mercato privato, di per sé, fornirebbe un’offerta insufficiente sull’intero territorio nazionale,

in quanto l’offerta sarebbe in perdita in alcuni luoghi, ed i privati non sarebbero indotti ad

intervenire.

Il settore pubblico deve intervenire con certificazione di qualità di strutture sanitarie e di istruzione e

dei titoli di istruzione e di formazione.

45

La Sanità

Masaccio: San Pietro risana gli infermi,

Cappella Brancacci, S. M. del Carmine, Firenze, 1426

Considerando il ciclo vitale di una persona la domanda di servizi sanitari è elevata nel periodo iniziale

della vita, poi si riduce e, nella parte più avanzata, cresce rapidamente in funzione dell’età. Pertanto i

processi di invecchiamento e le modifiche nella composizione demografica hanno forti effetti sulla crescita

della domanda di servizi sanitari. Gli individui hanno informazioni imperfette e non conoscono i costi delle

prestazioni sanitarie. Le assicurazioni private funzionano parzialmente e non assicurano i casi di maggior

bisogno e rischio, in quanto la copertura dei costi da parte di soggetti privati sarebbe in perdita.

Nell’organizzazione dei servizi sanitari si trovano diversi modelli.

Modello pubblico (scandinavo-inglese): operano strutture pubbliche, le prestazioni di servizi sono uniformi

per tutti i cittadini, il finanziamento è effettuato con imposte o contributi sociali.

Modello privato (U.S.A.): funziona con assicurazioni private e con strutture private (ospedali, ambulatori,

istituti assistenziali, medici) in concorrenza. Sono previsti, con finanziamento pubblico, interventi pubblici

residuali per le categorie non protette e non in grado di pagarsi le assicurazioni.

Modello misto (Europa continentale): ha diverse varianti e si caratterizza per la presenza di strutture

pubbliche e private, con finanziamento pubblico e con assicurazioni private, con le convenzioni tra le

strutture private e un’amministrazione pubblica. Le strutture private possono avere funzione complementare

o sostitutiva di quelle pubbliche. Possono essere pagate dagli utenti o dalle amministrazioni pubbliche.

Alcuni sistemi prevedono le mutue con prestazioni a rimborso (assistenza indiretta). Il cittadino paga

contributi ad un ente mutualistico, poi paga i servizi ad un soggetto erogante (privato o pubblico) e riceve il

rimborso dalla propria mutua.

Le spese sanitarie si suddividono in:

a) assistenza di base;

b) spese per visite specialistiche, servizi diagnostici, ricoveri ospedalieri;

c) spesa farmaceutica.

Una proposta ricorrente è quella di utilizzare vouchers per la sanità. Per la copertura universale ognuno

dovrebbe ricevere un voucher (buono) per un pacchetto standard di prestazioni gratuite (visite generiche e

specialistiche, ricette, terapie ospedaliere e domiciliari), aderendo a piani sanitari predisposti. I voucher

danno titolo a prestazioni, ma non a pagamenti in moneta.

Chi lo desidera può acquistare a pagamento altre prestazioni. I piani ed i servizi sono offerti da strutture

pubbliche e private ed i pazienti, scegliendo i piani predisposti, possono scegliere le strutture, alle quali

andranno i rimborsi da finanziamenti pubblici, in base ai voucher. In questo modo le strutture migliori

dovrebbero attrarre più voucher e si instaurerebbe una concorrenza tra le strutture che migliorerebbe la

qualità delle prestazioni.

46

L’ Istruzione

L’istruzione è un servizio che può essere offerto da soggetti pubblici e privati e da questo punto di vista,

così come per la sanità, si distingue in pubblica e privata. Ha caratteristiche pubbliche e private (dei beni di

club, esternalità, ecc.). Si intende come un investimento in capitale umano con redditività differita nel

mercato del lavoro, nella preparazione professionale, nelle future opportunità di guadagno. L’istruzione

pubblica è caratterizzata dalla gratuità, o dal pagamento di tasse in percentuale molto bassa rispetto al costo.

L’istruzione obbligatoria, quella primaria e parte di quella secondaria (tra i 5 ed i 18 anni, nei vari paesi), è

tipico bene di merito.

Due profili sono fondamentali per le spese di istruzione:

1. Una, relativa all’efficienza intertemporale: si tratta di spese produttive in futuro, che

daranno aumenti di reddito nazionale e di imponibili;

2. una, collegata alla prima, riguarda la connessione delle spese per l’istruzione con l’equità e

redistribuzione: l’offerta di qualificazione e di istruzione deve essere indipendentemente dal

reddito e dalla posizione sociale, sia per diritto fondamentale, sia perché non si devono

perdere i soggetti potenzialmente migliori.

Il controllo pubblico si esercita sulla qualificazione dei titoli conseguiti negli istituti di istruzione, pubblici e

privati (ad es. con gli esami di stato, la certificazione pubblica dei titoli conseguiti).

Per l’istruzione superiore offerta da strutture private si hanno diverse impostazioni:

1. Quando c’è un sistema di istruzione pubblica non ci devono essere finanziamenti pubblici a

strutture di istruzione privata, che devono coprire interamente i costi con pagamenti dalle

famiglie;

2. Anche quando c’è un sistema di istruzione pubblica ci possono essere finanziamenti pubblici

a istituzioni private di istruzione, in compartecipazione con spese private delle famiglie, in

base a due argomenti: a) gli istituti privati possono sostituire localmente istituzioni

pubbliche e permettere risparmi di costi e i spese pubbliche su queste; b) gli studenti formati

nelle istituzioni private in futuro produrranno imponibili (redditi, patrimoni, consumi) sui

quali verranno pagate imposte, pertanto ai finanziamenti attuali corrisponderanno entrate

tributarie future.

Oltre alla pratica dei sussidi, come le borse di studio, anche per l’istruzione, come per la sanità, è stata

ripetutamente formulata la proposta di attribuire un voucher (buono scuola) ad ogni famiglia con studenti,

che si possa spendere presso un istituto di istruzione, pubblico o privato, a scelta, così da incentivare la

concorrenza verso una migliore qualità dell’insegnamento. Esistono comunque delle difficoltà a valutare

correttamente i servizi di istruzione e ad attribuire un prezzo.:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::

Una proposta complementare, più diffusa nella pratica, è quella del prestito d’onore, in particolare per le

spese dell’università. Si tratta di prestiti bancari a condizioni agevolate cui possono accedere gli studenti e

che potranno restituire dopo il conseguimento della laurea.

47

3. Beni e servizi pubblici locali. I fallimenti del governo.

Beni e servizi pubblici locali

Beni e servizi pubblici possono essere offerti a livello centralizzato dalle Amministrazioni Centrali o a

livello locale dalle Amministrazioni Locali. Alcuni beni e servizi possono essere offerti solo a livello

centrale, per altri è possibile un’offerta localizzata. I confini tra queste due tipologie non sono ben definiti.

Storicamente si è dibattuto se sia preferibile un’offerta centralizzata o un’offerta locale. Per la situazione in

vari paesi si rinvia al Fiscal Federalism Network dell’OECD.

Per quanto riguarda le distribuzioni delle funzioni del settore pubblico:

a) la funzione di allocazione è ripartita tra amministrazioni centrali e locali, a seconda della tipologia di

beni e servizi (nazionali o locali): essenzialmente si tratta di una funzione concorrente.

b) La funzione di stabilizzazione dell’economia è prerogativa dell’amministrazione centrale: si devono

evitare conflitti, specialmente quando sono necessarie manovre restrittive di politica economica che

potrebbero essere contrastate con misure opposte (soprattutto per finalità politico-elettorali) degli

enti locali; inoltre la stabilizzazione realizzata con la politica monetaria è di competenza

necessariamente centralizzata, nella UE a livello sopranazionale.

c) Anche la funzione di redistribuzione è da attribuire sia alle amministrazioni centrali che a quelle

locali, con prevalenza delle prime (ad es. per le spese previdenziali); la redistribuzione come ‘bene

pubblico’ è stata talora considerata anche, parzialmente, come bene pubblico locale.

Ragioni a favore dell’accentramento:

Uniformità a livello nazionale nella prestazione, almeno ad un livello minimo, di servizi pubblici (ad

es. sanità, istruzione) per una realizzazione del principio di uguaglianza.

Economie di scala: crescendo la dimensione si hanno risparmi di costi e si possono avere beni e

servizi di dimensioni maggiori.

Possibilità di gestione di strumenti di politica economica: per essere efficace deve essere una

funzione centrale, anche perché opera in contesto internazionale.

Ragioni a favore del decentramento:

Vicinanza alla preferenze (domanda) dei consumatori, rispetto delle diversità demografiche e

politiche e delle preferenze differenziate, diverse articolazioni di offerte di beni e servizi pubblici a

livello locale.

Responsabilizzazione delle amministrazioni locali, controllabili con le elezioni locali, partecipazione

politica dei cittadini alle decisioni.

Beni e servizi pubblici locali talvolta hanno caratteristiche di non escludibilità e di rivalità, quando non si

possono escludere consumatori appartenenti ad altri enti locali. Le esternalità di questi beni e servizi

traboccano, superando i confini territoriali da un ente locale ad un altro. Si definiscono spillover positivi, ad

es. nel caso di una biblioteca, un teatro, un ospedale, un istituto di istruzione; o negativi, come una discarica

con inceneritore, una centrale elettrica, un’opera pubblica con effetti ambientali negativi.

In altri casi, quando il loro consumo è limitabile ai residenti (ad es. quando ci può essere un accesso

selettivo: asili nido, parcheggi, piscine; o quando il servizio è localizzato: illuminazione pubblica, raccolta

rifiuti, servizi antincendi), hanno le caratteristiche di beni di club.

Il problema consiste nelle possibilità di

definire correttamente la dimensione del club,

stabilire l’ampiezza del bene/servizio prodotto nel club,

restringere l’accesso nei limiti territoriali di un ente locale.

48

La convenienza ad associarsi nel club dipende dalle economie di scala (ad es. una piscina condominiale o

una piscina comunale rispetto ad una piscina privata: sommando più utenti paganti si riducono i costi unitari;

la dimensione ottima del bene di club è quella che minimizza i costi per ogni utente, sfruttando tutte le

economie di scala).

La mobilità spaziale da un ente locale ad un altro è un meccanismo con il quale gli individui manifestano

preferenze per località dove i servizi sono migliori o le imposte locali meno elevate. Se i cittadini sono

informati e non ci sono limiti alla mobilità questo meccanismo può essere efficiente.

Teoricamente nel definire il riparto di funzioni tra diversi livelli di governo ci si richiama al principio di

sussidiarietà.

Il principio di sussidiarietà, introdotto nel Trattato di Maastricht (1992), nel Progetto (non approvato) di

Trattato costituzionale dell’UE (2005, v. TESTO) ed in alcune Costituzioni nazionali di paesi aderenti

all’UE stabilisce che le attività economiche e la produzione di beni e servizi con caratteristiche pubbliche

devono essere gestite dall’autorità a livello più basso. Le decisioni devono essere più vicine possibili alla

famiglia ed all’individuo.

Ordinando le amministrazioni pubbliche, le autorità di governo superiori intervengono solo, in maniera

sussidiaria e sostitutiva, a svolgere funzioni che non possono essere trattate in modo efficiente a livello

inferiore, per inefficienze, impossibilità o difficoltà anche temporanee. La sussidiarietà è una caratteristica

del federalismo.

Si distingue tra:

Sussidiarietà orizzontale: quando è tecnicamente possibile le amministrazioni pubbliche devono

lasciare all’iniziativa ed alla gestione privata anche attività considerate tradizionalmente pubbliche.

La gestione pubblica, anche in attività private, è residuale ed interviene quando non sia possibile

soddisfare esigenze generali con gestioni private.

Sussidiarietà verticale: le funzioni pubbliche, anche di entrate e spese pubbliche, sono assegnate

partendo dal basso. Alle amministrazioni pubbliche minori sono assegnate tutte le attribuzioni

possibili escludendo quelle che non sono in grado di svolgere per dimensioni o capacità. Quelle

escluse sono assegnate ad amministrazioni progressivamente superiori, fino a risalire allo stato

centrale o ad un’amministrazione sopranazionale.

Un sistema che non si basa direttamente su imposte, centrali o locali, e che può essere sia alternativo che

condizionato alle imposte, è quello dei trasferimenti dal bilancio di un’amministrazione più ampia ad

amministrazioni locali (ad es. da uno Stato federale o dall’UE agli Stati membri; dallo Stato centrale alle

Regioni ed ai Comuni, dalla Regione ai Comuni). Tali trasferimenti possono essere:

a) a destinazione libera (incondizionati): l’amministrazione che li riceve può usarli discrezionalmente;

b) a destinazione vincolata (condizionati): possono essere usati solo per finalità e nei limiti stabiliti

dall’amministrazione che li trasferisce;

c) in forma fissa: in ammontare fisso, ad es. pro capite rispetto alla popolazione locale;

d) collegati a parametri (ad es.: composizione della popolazione per età, reddito pro capite, tasso di

disoccupazione, tasso di emigrazione, condizioni ambientali, ecc.);

e) integrativi: sono collegati a particolari spese necessarie che non riescono a trovare copertura con

imposte locali; sono i c.d. fondi centrali di cofinanziamento;

f) perequativi: intendono ridurre le differenze tra amministrazioni locali, rispetto alle risorse proprie ed

alla diversa capacità di finanziare autonomamente le spese locali.

Definendo:

Bisogno fiscale (BF): l’ammontare di spese necessarie di un’amministrazione locale;

Sforzo fiscale (SF): il massimo gettito teorico delle imposte applicabili da un’amministrazione

locale con l’aliquota massima prevista

il trasferimento perequativo (TP) è pari a TP = BF – SF, in modo che vengono premiate le

49

amministrazioni più impegnate nell’acquisire risorse attraverso imposte proprie.

Il residuo fiscale di un’amministrazione fiscale è la differenza tra la spesa pro capite nell’area

geografica di competenza e le imposte pro capite incassate nella stessa area ed è un indicatore dei

trasferimenti.

I fallimenti del governo

Si è visto come i fallimenti del mercato, in presenza di beni pubblici, esternalità, monopoli, carenze

informative, inefficienze distributive, possano giustificare gli interventi pubblici, di carattere

complementare, correttivo o sostitutivo.

Gli interventi pubblici, nella forma di imposte e spese, di gestione diretta di imprese pubbliche o nei

controlli di imprese private (regulation), possono a loro volta presentare inefficienze per via dei c.d.

fallimenti del governo (government failures), messi in evidenza soprattutto dagli studiosi di public choice.

Fallimenti del governo si presentano quando il settore pubblico, sostituendosi al mercato per porre rimedio a

situazioni di fallimenti del mercato, non riesce ad allocare in modo efficiente beni e servizi a consumatori ed

imprese determinando effetti disincentivanti e perdite di benessere.

La presenza di fallimenti del governo è utilizzata per criticare organizzazioni pubbliche inefficienti e per

sostenere l’opportunità di sostituirle con organizzazioni private, ad es. con processi di privatizzazione, e di

ricorrere a meccanismi di mercato al posto di decisioni di carattere discrezionale ed amministrativo.

Gli interventi pubblici diventano operativi attraverso processi politici (elezioni, delibere di assemblee di

amministrazioni pubbliche) e di processi discrezionali delle burocrazie pubbliche.

Le interpretazioni positive della burocrazia si riconducono essenzialmente a Max Weber (1864-1917)

in particolare a Wirtschaft und Gesellschaft, part III, cap. 6, dove la burocrazia è intesa come un

sistema efficiente di organizzazione di quell'apparato che deve dare esecuzione alle decisioni prese

dall'autorità statale. Per Weber l'esercizio del potere politico deve essere legittimato, ha bisogno di una

struttura amministrativa e del monopolio legittimo della forza. Weber usa il termine burocrazia per

definire l'organizzazione amministrativa. Definisce un tipo ideale di burocrazia, con alcune principali

caratteristiche (divisione e specializzazione dei compiti; struttura gerarchica, contratto e remunerazione

in denaro del personale; separazione tra le persone ed i mezzi di amministrazione; separazione tra le

persone e gli uffici; presenza di controlli e di regolamenti). Interpretazioni opposte a quella di Weber, si trovano ad es. già in L. Von Mises (1881-1973), v. Human Action: A Treatise on Economics, e specialmente Bureaucracy (1944) dove Mises dà una

visione negativa sulla burocrazia, conseguenza del monopolio dell’intervento pubblico, struttura opposta

alla creatività del mercato e limite alla libertà ed all’autonomia individuale. Un esempio più recente è il

lavoro di W.A. Niskanen, che ha proposto(1971), in un contesto di Rational Choice, l’interpretazione

della burocrazia con un budget-maximizing model.

Si elencano alcuni casi di fallimenti del governo.

1. Conseguenze non intenzionali. Il governo interviene per correggere o eliminare esternalità o

situazioni negative e talora, anziché risolvere, peggiora la situazione. E’ una conseguenza delle

informazioni imperfette in base alle quali il governo opera. Alcuni esempi. Spese destinate a

favorire la concorrenza delle imprese possono aggravano la concentrazione ed i poteri monopolistici.

Spese destinate a ridurre le disuguaglianze finiscono per aumentare le disuguaglianze stesse. Misure

per favorire l’occupazione irrigidiscono il mercato del lavoro ed aggravano il problema. Eccessi di

50

occupazione nelle amministrazioni e nelle imprese pubbliche possono aggravare la spesa pubblica e

ridurre la produttività complessiva del lavoro. Controlli dei prezzi possono aumentare l’inflazione.

Raccogliere informazioni sufficienti non è più facile per le authority e le amministrazioni pubbliche

rispetto a imprese ed individui. Il governo non ha informazioni complete su prezzi, costi, benefici,

effetti di lungo periodo, mutamenti dei comportamenti di individui e gruppi in reazione alle

imposte ed alle spese. Non conosce esattamente gli effetti di impatto ambientale. Può non rendersi

conto che misure positive nell’immediato hanno conseguenze negative a distanza di tempo.

Alcune conseguenze non intenzionali dipendono dai rischi di miopia nelle decisioni del settore

pubblico con soluzioni a breve termine che impediscono soluzioni strutturali (ad es. sussidi a

imprese che stanno per uscire dal mercato, sussidi protezionistici all’agricoltura, costruzioni di

infrastrutture che aggraveranno problemi ambientali in futuro; spese che determinano maggior

inflazione ed aumento dei tassi di interesse).

2. Ricerca di interessi egoistici da parte di politici e burocrati pubblici, i quali, ragionando con criteri

di massimizzazione della propria utilità e di self interest, determinano inefficienti allocazioni di

risorse (sprechi nella spesa pubblica, posizioni di privilegio nel settore pubblico, bilanci

sovradimensionati di amministrazioni ed enti pubblici, imposte distorsive, ecc.). Politici e burocrati

profittano di posizioni di asimmetria informativa, (è la condizione in cui una parte degli agenti

interessati ha maggiori informazioni rispetto agli altri partecipanti e può trarre un vantaggio da

questa asimmetria) in quanto hanno informazioni migliori rispetto agli elettori e, in più, i burocrati

hanno informazioni più specializzate e complete che non i politici, rispetto ai quali si trovano in

rapporti di principal/agent. Quindi, nei rapporti di delega, mandato, affidamento che si instaurano

tra elettori e politici e tra burocrati e politici esistono incentivi a deviare dalle intenzioni di chi si è

affidato e ha dato mandato. Inoltre rilevano i costi delle burocrazie pubbliche, intesi come compensi

elevati, eccessi di personale, bassa produttività, tempi di decisione lunghi, errori ed arbitrii

discrezionali che determinano rallentamenti e ricorsi. Il problema si presenta, in vari paesi, nella

sanità, nell’assistenza, nell’istruzione, nella giustizia, nei lavori pubblici e può avere conseguenti

effetti disincentivanti ed esternalità negative.

3. Conseguenze dei sistemi di decisione collettiva e politica.

- Per la presenza di ignoranza razionale gli elettori non raccolgono tutte le informazioni necessarie

per decidere, in quanto ci sono costi (monetari, in termini di tempo impiegato) per raccogliere le

informazioni stesse e quindi non sono rappresentati correttamente. L’elettore-contribuente è

consapevole del peso ridotto della sua partecipazione, è incerto delle conseguenze e si rende conto

che non è conveniente investire troppe risorse per decidere. Il voto non è assimilabile ad un prezzo

che abbia un corrispettivo immediato ed un pagamento diretto. Pertanto i sistemi elettorali non

sono in grado di rivelare le preferenze di consumatori ed imprese e la loro disponibilità a pagare per

interventi pubblici.

- Il logrolling è la pratica di scambiarsi i voti nelle decisioni parlamentari e nelle assemblee

deliberanti delle istituzioni pubbliche. Porta a decidere allocazioni di risorse a progetti di spesa

secondari, o inutili, in cambio dell’appoggio per far approvare altri progetti di spesa di interesse

particolare. La spesa pubblica, in conseguenza, cresce e si disperde in destinazioni particolaristiche

anziché in progetti di interesse generale.

- Esistono, in ogni sistema, pressioni elettorali di gruppi di interesse e lobby su politici e burocrati

per acquisire, in cambio, sussidi settoriali, infrastrutture inutili, privilegi corporativi.

- Con il termine rent seeking si indicano costi e risorse impiegate da individui ed imprese per

acquisire vantaggi competitivi da parte di legislatori e di autorità di regulation (controlli pubblici

sulle aziende private) influendo su decisioni senza aumentare produttività e senza creare nuova

ricchezza. Un rent seeker riesce ad ottenere, da parte di soggetti pubblici, protezioni vantaggiose

per sé a danno di consumatori e produttori. L’appropriazione politica permette di concentrare i

benefici in un’impresa o in un gruppo ristretto, mentre i costi vengono diluiti nella società su più

soggetti. Ci sono imprese che trovano meno costoso acquisire vantaggi nelle decisioni di autorità

politiche anziché concorrere nei mercati. La rent seeking è definita come la spesa di risorse scarse

per acquisire un trasferimento creato artificiosamente con un intervento pubblico. Con

l’imposizione interessata di vincoli, autorizzazioni e licenze, le restrizioni all’entrata nei mercati, le

proibizioni (ad es. di importazioni, di produzioni concorrenti), le imposte discriminanti,

agevolazioni fiscali e sussidi, spesso imprese interessate possono ridurre la concorrenza, creare

51

cartelli e far crescere i loro profitti, a spese di altri soggetti. Un’impresa calcola la convenienza ad

investire per aumentare la propria produttività e competitività nel mercato oppure a spendere

(improduttivamente) per ottenere posizioni rendita, protette e di favore a danno di altri, attraverso

interventi pubblici. Se è più conveniente investire in rent seeking si ha un’allocazione di risorse

inefficiente. La rent seeking è associata con la corruzione e con le pressioni su politici e burocrati

da parte di lobby organizzate.

4. Regulation: la teoria della cattura evidenzia come le agenzie di regulation di autorità pubbliche

tendano a cooptare rappresentanti delle imprese assoggettate a regulation, e possono così impedire

al mercato di funzionare correttamente.

La crescita della spesa pubblica

Si è spesso dibattuto se esistano determinanti di lungo periodo che spieghino la crescita del

settore pubblico, in assoluto e in percentuale del Prodotto Interno Lordo di un paese. Diversi

studi evidenziano questo processo di crescita, nella maggior parte dei paesi. Si sono date

alcune interpretazioni delle cause della crescita.

Elasticità delle spese pubbliche alla crescita del reddito nazionale. Beni e servizi pubblici

hanno le caratteristiche dei beni e servizi ‘di lusso’, con elasticità crescente al crescere del

reddito, nel senso che quando cresce il reddito la domanda di questi beni e servizi cresce più

che proporzionalmente, mentre la domanda di beni essenziali (privati, come alimentazione e

vestiario) cresce meno che proporzionalmente. La legge di Wagner, proposta dall’economista

tedesco Adolph Wagner (1835-1917) afferma che la crescita nel tempo di un’economia

industriale è accompagnata da una crescita della quota della spesa pubblica nel reddito

nazionale. Ciò è determinato dal progressivo sviluppo di un welfare state e dalla crescita

conseguente di beni e servizi di carattere sociale. La crescita della spesa pubblica più che

proporzionale al reddito nazionale dipende da: a) attività sociali dello Stato (assicurazioni

sociali, sanità e istruzione, protezione ambientale, interventi in occasione di calamità); b)

interventi pubblici crescenti nella tecnologia, nelle scienze e nei progetti di investimento in

questi campi; c) aumento del ricorso al debito pubblico e crescita cumulativa di questo con gli

interessi.

Fattori demografici: le spese di previdenza e sanità crescono con l’invecchiamento della

popolazione.

La trasformazione, al crescere del reddito nazionale, di spese private in spese pubbliche: è il

caso delle spese per l’istruzione e la sanità, la sostituzione di risparmio privato con la

previdenza pubblica.

Effetto ‘scalino’: eventi eccezionali (guerre, calamità naturali) determinano esplosioni della

spesa pubblica, che poi si trasforma in altre spese pubbliche, ma non torna al livello di

partenza.

Strutture democratiche (regole di maggioranza) nella formazione del bilancio pubblico: nei

sistemi parlamentari a larga base elettorale le decisioni parlamentari sul bilancio aggregano

più gruppi portatori di interessi, settoriali e collettivi, che si riflettono nell’incremento delle

spese pubbliche; i partiti al governo, inoltre, utilizzano le spese pubbliche per il ‘consenso’ e

la rielezione.

Sviluppo squilibrato. Secondo una teoria elaborata nella seconda metà del sec. XX

dall’economista statunitense Baumol, nell’economia di un paese industriale avanzato si

distingue tra un settore progressivo ed un settore non progressivo. Il primo ha innovazioni

tecnologiche, alta produttività, tendenza alla riduzione dell’occupazione, accumulazione di

capitale. Il secondo ha lavoro a bassa produttività, attività improduttive ed inefficienti,

impossibilità di coprire gli incrementi di costi, in particolare del lavoro, con incrementi di

produttività. Nel secondo settore si concentrano le attività e le istituzioni pubbliche e l’offerta

di lavoro e parte del settore non sopravvivrebbe senza l’intervento pubblico. Per finanziare il

settore non progressivo, che comprende il settore pubblico, è necessario aggravare la

pressione tributaria sul primo settore. Il secondo settore tende a crescere, più che

proporzionalmente, a spese del primo ed il settore pubblico cresce più che proporzionalmente

sia al primo che al secondo. La bassa o mancante crescita di produttività nel settore pubblico è

addebitata all’ eccesso di fattore lavoro nello stesso settore oltre che dalla mancanza di

innovazioni tecnologiche. Gli aumenti dei costi del lavoro nel settore pubblico non dipendono

da aumenti di produttività, ma da un effetto di trascinamento degli aumenti nel settore

progressivo, dove sono determinati da aumenti di produttività.

52

III. Le entrate pubbliche

1. Classificazione delle entrate

- Tipologie di entrate

- Classificazione delle imposte

- I contributi sociali

2. I principi delle imposte

- Principi generali

- Equità

- Neutralità

3. Le Imposte personali sul reddito

3.1 Imposta sul reddito delle persone fisiche

- Il reddito imponibile

- La progressività

- L’unità impositiva

- Reddito guadagnato e

reddito speso

3.2 Imposte personali sul reddito delle società

1. Classificazione delle entrate

Tipologie di entrate

Si distinguono, in base ad una classificazione di tipo economico, le entrate correnti e le entrate in conto

capitale.

ENTRATE CORRENTI

1. Prezzo privato e quasi privato

Sono entrate derivanti dalla gestione di beni e servizi prodotti e venduti sul mercato da soggetti del settore

pubblico in concorrenza con produttori e venditori del settore privato. Le entrate sono assimilabili ai prezzi

di beni e servizi privati. Tale genere di entrate era diffusa in periodi precedenti nella c.d. finanza

patrimoniale e rappresentava una quota consistente delle entrate pubbliche (ad es. nel sec. XIX). Nel prezzo

privato si possono far rientrare i proventi da vendite di prodotti provenienti da beni del demanio o del

patrimonio pubblico e quelli dei monopoli fiscali (imprese pubbliche operanti in regime di monopolio nella

produzione di beni e servizi e che servono solo a fini di garantire entrate, non per finalità sociali). Vi sono

anche le entrate che provengono dalla gestione di patrimoni, reali e finanziari, di soggetti pubblici: canoni di

locazione e concessioni, interessi, dividendi.

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Si parlava di prezzo quasi privato quando, nella produzione e nella vendita di alcuni beni e servizi (ad es.

nella vendita di prodotti del demanio forestale o nella gestione delle banche pubbliche) era presente qualche

elemento di controllo e di indirizzo di politica economica a tutela di interessi generali.

2. Prezzo pubblico

Si tratta delle tariffe pubbliche, ovvero delle tariffe applicate dalle imprese pubbliche, le quali producono e

vendono servizi a pagamento. Ne sono esempio le tariffe dei servizi di pubblica utilità (luce, gas, acqua,

telefono, raccolta rifiuti, trasporti, servizi postali). Le tariffe possono essere discriminate, perciò possono

variare a seconda della tipologia del contribuente, della quantità di consumo, dall’essere riferite alla prima

casa o ad altre abitazioni, dalla dimensione della famiglia o anche dal livello di reddito famigliare.

Una caratteristica del prezzo pubblico è quella di contenere elementi di socialità che mancano nel prezzo

privato, così da permettere il consumo di beni e servizi con caratteristiche pubbliche anche a persone a basso

reddito o ritenute meritevoli (ad es. gli abbonamenti ai trasporti per studenti, pendolari, anziani, i consumi

per fasce sociali per altri servizi) attraverso riduzioni di prezzi individualizzati per categoria.

Il prezzo pubblico può essere considerato come una variante pubblica della discriminazione di prezzi del

monopolista.

Altra caratteristica del prezzo pubblico è quella di puntare alla copertura dei costi. Alcuni utenti pagano

meno del costo medio altri pagano di più, in modo che le differenze si compensino attraverso un meccanismo

di redistribuzione. Alcuni consumatori finanziano il consumo di altri.

L’efficienza di un’impresa pubblica è interpretata come requisito minimo del pareggio del bilancio delle

imprese pubbliche. In realtà l’obiettivo del pareggio è realistico per alcune imprese pubbliche, per altre non

lo è (ad es. nei trasporti, nelle forniture di acqua). Per altre ancora è considerata l’opportunità che vi siano

profitti anche per l’autofinanziamento degli investimenti.

Il monopolio sociale è un’impresa gestita, a livello nazionale o a livello locale, da un soggetto pubblico che

mira a realizzare finalità ritenute meritevoli perché socialmente apprezzabili. Solitamente agisce in perdita,

in quanto la copertura, totale o parziale, dei costi non è affidata alle tariffe, ma è rinviata alla fiscalità

generale (trasferimenti ed imposte) e quindi non c’è una stretta relazione tra utenti e tariffe pagate.

3. Prezzo politico

I prezzi politici hanno la caratteristica di coprire solo in parte i costi di produzione di beni e servizi pubblici.

Sono tipi di prezzi politici:

a) La tassa: si tratta del pagamento per un bene o servizio pubblico domandato individualmente. Tale

pagamento è inferiore al costo del bene o del servizio, talvolta ne rappresenta solo una quota minima. Ne

sono esempio le tasse per l’istruzione pubblica e le tasse per i servizi sanitari pubblici (ticket). Se non c’è

domanda privata per il bene/servizio pubblico non si paga una tassa.

b) Il contributo speciale: è un pagamento forzoso, che viene imposto quando, ad es. con la costruzione di

un’opera pubblica (strada, metropolitana, porto) o di un piano regolatore urbanistico, aumenta il valore dei

terreni e dei fabbricati nell’area interessata. Una parte di questo incremento di valore viene recuperata

attraverso il pagamento di un contributo speciale (un esempio è l’antico contributo di migliorìa), ma questo

recupero non copre il costo di tutta l’opera.

Nel caso dei prezzi politici si ha un finanziamento parziale del costo di beni e servizi pubblici e necessita un

finanziamento aggiuntivo.

4. Imposte

Sono prelievi forzosi che non sono collegati direttamente all’erogazione di beni e servizi. Sono pagate

prevalentemente in moneta, ma possono consistere in acquisizione forzosa di prodotti o di beni. Le imposte

nel corso del tempo, si sono trasformate da prelievi in natura (l’istituto medievale delle decime dei raccolti

da versare al clero, già esistenti nel sistema romano antico) e da prestazioni personali imposte in modo

coercitivo (servizi personali obbligatori, già le liturgie in Atene, le corvée, apparse in Francia nel sec.

IX, come lavoro obbligatorio o anche forzato prestato gratuitamente ad un signore, anche nella forma di

prestazioni militari, e già presenti, nella sostanza, in tempi precedenti) in prelievi monetari. Secondo il principio dell’unità dei bilanci pubblici tutte le entrate sono un insieme unico e tutte le spese

sono pure un insieme unico e non ci possono essere legami contabili tra i due insiemi. Così in generale non

si possono introdurre vincoli di destinazione di imposte al finanziamento di spese specifiche né vincoli di

54

dipendenza di una spesa con un’entrata. In casi anomali ci può essere una destinazione precisa del gettito di

un’imposta ad un tipo di spesa (si parla, in questo caso, di imposta di scopo).

Come sinonimo si usa il termine tributo, dal termine tributum del fisco dell’antica Roma. Molte imposte

moderne nascono dall’evoluzione di diritti e tributi feudali.

Sulle imposte nell’antichità, ad es. in Grecia e Roma, v. Dictionary of Greek and Roman

Antiquities; brevi ed interessanti notizie storiche sono in L.A. Muratori (1751).

Classificazione delle imposte

Due definizioni preliminari:

- Contribuenti: i soggetti, persone fisiche o giuridiche, tenuti a pagare l’imposta.

- Imponibili: gli elementi economici alla base del calcolo dell’imposta.

-

Una distinzione generale delle imposte è per imponibili:

Imposte Dirette su reddito e patrimonio; si pagano con regolarità temporale in determinati periodi

dell’anno, in base ad incassi annuali, guadagni netti, proprietà.

Imposte Indirette su consumo, scambio, produzione, vendite, prezzi, fatturato, trasferimenti: si

pagano in occasione di determinati atti economici, principalmente passaggi e movimenti di merci e

servizi.

La classificazione delle imposte adottata nel sistema di contabilità ESA comprende:

1. Imposte sulla produzione e sulle importazioni (D.2), suddivise in:

a) imposte sui prodotti e sulle importazioni (D.21)

(1) imposte sul valore aggiunto (D.211)

(2) imposte e prelievi sulle importazioni (esclusa IVA) (D.212)

- dazi di importazione (D.2121)

- altre imposte sulle importazioni (D.2122)

b) imposte su prodotti e importazioni, esclusa IVA (D.214) (accise, imposte di

bollo e registro, imposte su assicurazioni, giochi, transazioni finanziarie,

imposte generali sulle vendite diverse da IVA).

c) Altre imposte sulla produzione (D.29) (imposte pagate dalle imprese per uso di

immobili, impianti e macchinari, imposte commisurate al monte salari,

strumenti finanziari, licenze, imposte per inquinamento).

2. Imposte correnti su reddito, patrimonio, ecc. (D.5):

a) Imposte sul reddito (D.51) (imposte su reddito di lavoro, profitti, proprietà).

b) Altre imposte sul reddito (D.59) (imposte sulla spesa, imposte fisse, imposte sul

capitale, su licenze, su transazioni internazionali).

3. Imposte in conto capitale (D.91) (sui trasferimenti di proprietà, donazioni, successioni,

imposte straordinarie sul patrimonio).

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La struttura delle imposte dirette e indirette: imponibile, aliquota, gettito

Una distinzione antica delle imposte:

per contingente (prima l’ammontare aggregato delle imposte è determinato per una categoria di

contribuenti o di imponibili: successivamente si procede al riparto delle imposte tra i contribuenti);

per quotità (l’imposta si calcola come quota percentuale di un imponibile).

In base all’uso di aliquote ed imponibili si distingue tra imposte dirette ed indirette.

Imposte dirette

R è l’imponibile (ad es. il Reddito); t l’aliquota o tasso dell’imposta (in %); T il gettito (o l’imposta):

T = tR dall’imponibile R si sottrae l’imposta tR; quindi R - tR = R(1 - t).

Esempio: un reddito R di 100 è tassato con un’aliquota t del 30%; risulta 100 – 30 = 70.

L’imponibile R (100) è ridotto dell’ammontare dell’imposta diretta T (30) e diventa reddito netto R(1-t)

(70). Il contribuente con un reddito R si trova con un reddito diminuito, perché l’imposta è tolta

dall’imponibile.

Imposte indirette

P è l’imponibile (ad es. il Prezzo); ti l’aliquota o tasso (in %); Ti il gettito (o l’imposta):

al prezzo P si aggiunge l’imposta tiP; quindi abbiamo P + tiP = P(1 + ti)

Esempio: P = 100; ti = 20%; 100 + 20 = 120.

L’imponibile P (100) è aumentato dell’ammontare dell’imposta indiretta Ti (20) e diventa prezzo lordo

P(1 + ti) (120). Il contribuente paga un prezzo più alto perché l’imposta indiretta è aggiunta all’imponibile.

Si ricordi che T e Ti sono valori assoluti, mentre t e ti sono valori percentuali.

Tasso nominale/effettivo

Talora ci si trova di fronte ad un imponibile che è stato ridotto da un’imposta diretta o aumentato da

un’imposta indiretta ed il contribuente deve calcolarsi l’imposta già applicata. Per far questo si definisce il

tasso effettivo (o aliquota effettiva) di un’imposta diretta o di un’imposta indiretta.

Le aliquote t e ti sono tassi nominali, che si applicano all’imponibile per avere l’imposta.

Si definiscono tassi effettivi:

- per l’imposta diretta: l’aliquota (o tasso) t* che, applicata sull’imponibile netto R(1 - t), dà lo

stesso gettito T ricavato applicando t ad R. Quindi:

-

t*R(1- t) = tR , da cui t* = t/(1- t).

- per l’imposta indiretta: l’aliquota (o tasso) ti* che, applicato su P(1 + ti), dà lo stesso gettito di ti

applicata a P; quindi

ti*P(1 + ti)=tiP, da cui ti*= ti/(1+ti).

56

Dalle due formule si ricava che

a) t* > t : il tasso effettivo è maggiore del tasso nominale per un’imposta diretta;

b) ti* < ti: il tasso effettivo è minore del tasso nominale per un’imposta indiretta.

Nella classificazione delle imposte si trovano altre distinzioni.

Imposte reali: sono imposte che si applicano considerando oggettivamente la natura

economica dell’imponibile e non il soggetto (persona fisica o impresa) che percepisce gli

imponibili. Si chiamano anche imposte cedolari. Ad esempio, per tassare il reddito si

applicano aliquote diverse sul reddito di lavoro, sul reddito degli immobili, sui redditi

finanziari, indipendentemente da chi li percepisce.

Imposte personali: sono imposte che si applicano considerando soggettivamente un

imponibile costruito e riferito ad un contribuente. Il contribuente può essere una persona

fisica, oppure un’unità famigliare, un’impresa, o anche una società di capitale.

Imposte generali: si applicano su tutti gli imponibili appartenenti ad una categoria generale:

ad es. imposte che colpiscono tutti i redditi (imposta generale sul reddito), tutti i consumi

(imposta generale sul consumo), tutti i patrimoni (imposta generale sul patrimonio). In

pratica esistono imposte solo tendenzialmente generali, in quanto è impossibile tassare tutti i

redditi, tutti i consumi o tutti i patrimoni.

Imposte speciali: si applicano solo su uno o su alcuni imponibili appartenenti ad una

categoria. Ad es. un’imposta che tassi solo il reddito dei fabbricati e non il reddito di lavoro

e gli altri redditi; un’imposta che colpisca il patrimonio immobiliare ed esenti i patrimoni

finanziari.

Imposte fisse (lump sum tax): sono imposte che vengono fatte pagare in una somma

definita e che individuano solo un contribuente, ma non sono collegate ad un imponibile

(livello di reddito, consumo, patrimonio). Ne erano esempi l’antico testatico (il pagamento

di una somma fissa a testa) e le imposte di capitazione (pure calcolate e addebitate pro

capite). Oggi esistono rari esempi di piccole imposte addebitate in somma fissa (lump sum)

ai contribuenti.

Imposte specifiche: sono imposte che si commisurano a caratteristiche fisiche di un

imponibile e non al suo valore monetario (prezzo, valore monetario di un reddito o di un

patrimonio). Ad es. l’imposta può far riferimento alla quantità o al numero di beni prodotti

o venduti (un’imposta fissa per unità prodotta o venduta), al volume, al peso, alla

gradazione alcolica. Ne sono esempi le imposte di fabbricazione sugli oli minerali, le

imposte sugli spiriti, le imposte sul consumo di alcuni prodotti (caffè, tabacchi). Si noti che

le imposte specifiche possono essere speciali o generali. Si chiamano anche con il termine di

accise.

Imposte ad valorem: si tratta di imposte che si commisurano a prezzi espressi in

valore monetari.

Imposte ordinarie e straordinarie

La differenza sta nella presenza più o meno continua nell’ordinamento tributario.

Le imposte ordinarie sono presenti in diversi esercizi e servono al finanziamento normale delle spese

pubbliche. Si tratta di strumenti di finanza ordinaria.

Le imposte straordinarie sono invece strumenti di finanza straordinaria (ENTRATE/IMPOSTE IN

CONTO CAPITALE) Sono introdotte soprattutto per far fronte a necessità eccezionali dovute ad eventi

negativi. Si usano, ad esempio, nei dopoguerra per le necessità di ricostruzione o in seguito ad eventi naturali

disastrosi. Richiedono generalmente una situazione di eccezionalità che garantisca margini di consenso di

gran parte dei contribuenti, ma non possono permanere come istituto tributario stabile. Ne sono esempi le

imposte straordinarie sul patrimonio (miranti ad obbligare alcuni contribuenti a smobilizzare patrimoni

57

‘non meritati’). Hanno aliquote molto forti, così che l’imposta non può essere pagata solo con il reddito

dell’anno, ma richiede la liquidazione di una quota del patrimonio.

In forma più attenuata sono state utilizzate, come imposte straordinarie in forma temporanea, aumenti di

imposte di fabbricazione o anche incrementi temporanei di imposte sul reddito (ad es. per l’adesione

all’UE).

Può accadere che imposte straordinarie si trasformino in ordinarie con una successiva riduzione di aliquote

(un’imposta straordinaria sul patrimonio del 20% diventa imposta ordinaria sul patrimonio con aliquota dello

0,5%). In un processo inverso con un forte aumento di aliquote si possono trasformare imposte ordinarie in

imposte straordinarie (un’imposta sul reddito di aliquota 10% vede crescere l’aliquota al 120%). L’imposta

straordinaria talora è considerata come anticipazione di pagamenti futuri di un’imposta ordinaria.

Per le imposte in Italia si trovano utili riferimenti nel Glossario di FiscoOggi.

Imposte centrali e locali

Una distinzione tra le imposte riguarda i livelli di governo nelle quali sono applicate. Si distingue tra

imposte centrali (federali o statali) ed imposte locali (regionali, provinciali, comunali).

Le imposte locali

Si è già rilevato che esiste una distinzione tra le imposte riguarda i livelli di governo nelle quali sono

applicate. Si riassumono i metodi di finanziamento degli enti locali (il c.d. federalismo fiscale indica

l’organizzazione di entrate e trasferimenti per diversi livelli di governo).

a) Imposte autonome

Si tratta di imposte su imponibili localizzati e facilmente individuabili nell’ambito di un’amministrazione

locale.

Si prestano di più le imposte reali (localizzazione dell’imponibili) rispetto alle imposte personali (residenza

del contribuente). Già nel sec. XIX si teorizzava che le imposte personali dovessero essere centrali e le

imposte reali dovessero essere locali.

Le imposte autonome più utilizzate a livello locale sono:

- le imposte patrimoniali su immobili (terreni e fabbricati);

- le imposte su redditi immobiliari;

- le imposte sui consumi finali.

Si prestano meno le imposte generali, dirette o indirette, le imposte personali, le imposte sulla produzione,

perché finiscono con l’essere pagate anche da contribuenti residenti in altre amministrazioni locali.

Le imposte locali autonome possono:

1. essere introdotte e determinate, negli imponibili e nelle aliquote, dalle singole amministrazioni locali;

2. essere stabilite a livello centrale e le amministrazioni locali possono decidere se adottarle ed

eventualmente fissare le aliquote, all’interno di limiti prefissati.

b) Addizionali e sovrimposte

La sovrimposta è commisurata ad un imponibile definito per un’imposta centrale (comunque di

un’amministrazione pubblica più ampia di quella che applica la sovrimposta), per la parte dell’imponibile (ad

es. reddito, consumo) localizzato nell’ambito territoriale dell’amministrazione locale.…

L' addizionale è invece commisurata ad un'imposta centrale, per aggiungere una parte riscossa a livello

locale...

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Se tc è l'aliquota dell’imposta centrale, tl l'aliquota locale e R l’imponibile:

> la sovrimposta è pari a tlR; l’imposta totale per il contribuente è tcR + tlR = (tc + tl)R.

> l’addizionale è tltcR; l’imposta totale per il contribuente è tcR + tltcR = tc(1 + tl)R

La sovrimposta è di solito proporzionale, anche se ci sono esempi di sovrimposte locali progressive sul

reddito (negli S.U., in Svezia). Può essere deducibile o detraibile dall’imponibile o dall’imposta centrale.

L'addizionale è proporzionale. S e l'imposta centrale è progressiva, il gettito dell’addizionale cresce più che

proporzionalmente al crescere dell'imponibile, anche se l'aliquota è proporzionale.

c) Compartecipazione al gettito di imposte di altre amministrazioni pubbliche

Un’amministrazione locale ha diritto ad una quota del gettito dell'imposta di un’amministrazione più ampia

(la regione che riceve una quota di un’imposta statale) o, più raramente, di un’amministrazione più piccola

(ad es. una regione potrebbe aver diritto alla quota di un’imposta comunale o provinciale). Se T è il gettito di

un’imposta prelevata dall’amministrazione A, questo viene ripartito in due (o più, se sono coinvolte più di

due amministrazioni) quote: una percentuale a va all’amministrazione A, mentre la quota residua (1 – a) è

attribuita ad un’altra amministrazione B: quindi aT va ad A, (1 – a)T va a B.

La descrizione delle imposte nei loro effetti economici può essere fatta con alcuni grafici:

RRREEETTTTTTAAA DDDIII BBBIIILLLAAANNNCCCIIIOOO,,, IIIMMMPPPOOOSSSTTTEEE EEE SSSUUUSSSSSSIIIDDDIII AAA BBB

DDDOOOMMMAAANNNDDDAAA EEEDDD IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA SSSUUULLL RRREEEDDDDDDIIITTTOOO AAA BBB

DDDOOOMMMAAANNNDDDAAA EEEDDD IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA IIINNNDDDIIIRRREEETTTTTTAAA AAA BBB

IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA SSSPPPEEECCCIIIFFFIIICCCAAA AAA BBB

IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA AAADDD VVVAAALLLOOORRREEEMMM AAA BBB

I contributi sociali

I contributi sociali, definiti anche oneri sociali, hanno natura affine alle imposte e sono collocati tra le

entrate tributarie nei bilanci pubblici. Si differenziano dalle imposte perché hanno una destinazione specifica

al finanziamento di prestazioni individualizzate (pensioni, assistenza sanitaria). Si distingue tra:

Contributi sociali effettivi

Indicano i versamenti che i lavoratori assicurati ed i loro datori di lavoro effettuano agli enti di

previdenza ed assistenza che erogano prestazioni sociali, per poter avere il diritto a prestazioni

previdenziali (contributi previdenziali) e sanitarie (contributi sanitari).

Contributi sociali figurativi

Si tratta di prestazioni sociali corrisposte direttamente dai datori di lavoro ai propri dipendenti o ex

dipendenti. Comprendono le pensioni provvisorie corrisposte dalle Amministrazioni Pubbliche ai propri

dipendenti, le aggiunte di famiglia, l’equo-indennizzo, i sussidi al personale, le rendite, le indennità

temporanee e le spese per cure ed infortuni.

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Considerando un reddito di lavoro dipendente R, un’aliquota t dell’imposta sul reddito ed un tasso

percentuale s di contributi sociali abbiamo:

- Il datore di lavoro paga R al lavoratore dipendente e versa sR ad un ente previdenziale: in totale i

pagamenti del datore di lavoro ammontano a R + sR = R(1 + s): questo è il costo del lavoro.

- Il lavoratore incassa un reddito netto R(1 - t), in quanto tR vanno al fisco.

- Per cuneo fiscale CF si intende la differenza tra il costo del lavoro ed il reddito netto del lavoratore:

CF = R(1 + s) – R(1- t) = sR + tR = (s + t)R.

2. I principi delle imposte

Principi generali

Alcuni dei principi delle imposte sono stati già definiti fin da A. Smith nella Ricchezza delle Nazioni

(1776): l’imposta, secondo Smith, deve essere proporzionale, economica, efficiente, certa. Questi ed altri

principi sono, tradizionalmente, ripresi nella letteratura economica, da J.S. Mill (1848), da H. George in

Progress and Poverty (1879), da A. Wagner in vol. 1.

Riferimenti brevi si possono vedere

per A. Smith, H. George, A. Wagner.

Successivamente alcuni dei principi generali hanno avuto definizioni approfondite.

Principio del beneficio o della controprestazione

Le imposte devono essere pagate come se fossero prezzi per le prestazioni ricevute come spesa pubblica in

beni e servizi. Si collega la spesa all’imposta, come se vi fosse un rapporto di scambio volontario (un

rapporto contrattuale di prestazione/controprestazione) tra governo e contribuenti. I contribuenti devono

pagare imposte in proporzione ai benefici ricevuti dalla spesa. Esclude misure redistributive e giustifica la

proporzionalità delle imposte. E’ un’impostazione diffusa nei sec. XVIII e XIX, che trova ancora sostenitori,

in particolar modo per decidere incrementi di imposte per finanziare nuove spese. Nei bilanci pubblici, come

già ricordato, non è possibile collegare spese ad imposte, sia per le grandi dimensione dei bilanci, sia perché

il più delle volte non è possibile individuare le domande individuali di beni e servizi pubblici, proprio per le

caratteristiche dei beni e dei servizi pubblici, né si possono differenziare le imposte per ogni contribuente in

base alla domanda. Il principio, se applicato in generale, avrebbe come scopo la trasparenza nel bilancio

pubblico: il controllo dei contribuenti sull’uso del gettito ed il vincolo del gettito all’uso voluto dagli elettori-

contribuenti.

Principio della capacità contributiva

E’ un principio che si è affermato dalla fine del sec. XIX, in alternativa al principio del beneficio. Le

imposte vanno pagate secondo le dimensioni dell’imponibile e non per quello che si riceve in cambio come

beni e servizi pubblici. La teoria è stata sviluppata prima per giustificare l’imposta proporzionale (ciascuno

ritrae dal complesso delle spese pubbliche benefici proporzionali alla propria ricchezza, quindi deve pagare

in proporzione a questa) e poi per giustificare anche l’imposta progressiva. E’ connesso anche con la crescita

delle dimensioni del bilancio pubblico, che rendono impossibili i collegamenti tra le entrate e le spese.

Se le imposte sono indipendenti dalle spese e l’individuazione dei beneficiari non è un criterio di

riferimento servono indici di capacità contributiva (reddito, patrimonio, consumo, produzione) che misurino

60

il sacrificio dei contribuenti, in funzione degli elementi economici che vengono sottratti dall’imposta. In

base alla capacità contributiva sono stati definiti criteri di applicazione delle imposte. Queste devono essere

distribuite a seconda delle capacità economiche del contribuente.

Il problema può essere posto con modalità diverse:

a) i contribuenti devono avere lo stesso sacrificio assoluto, uguale per ciascuno (principio del

sacrificio uguale);

b) i contribuenti devono avere lo stesso sacrificio in proporzione all’utilità della loro ricchezza

(sacrificio proporzionale o equiproporzionalità)

d) si deve minimizzare il sacrificio del totale dei contribuenti (sacrificio minimo aggregato).

La progressività delle imposte è stata teorizzata (alla fine del sec. XIX) come principio di eguaglianza. Le

imposte su due redditi diversi dovrebbero imporre lo stesso sacrificio di utilità (la stessa perdita di benessere)

a due contribuenti ( o allo stesso contribuente in due situazioni di reddito diverse).

Equità

Il concetto di equità è della parità di trattamento (non discriminazione) di contribuenti e di imponibili. Si

distinguono due concetti.

Equità orizzontale: i contribuenti e gli imponibili con le stesse caratteristiche devono essere tassati

con le stesse modalità. Si fonda sul principio della capacità contributiva. L’eguaglianza di imponibile

comporta eguaglianza di trattamento.. In base al principio del beneficio la parità di trattamento

sarebbe conseguente all’eguaglianza dei benefici ricevuti dalla spesa pubblica.

Equità verticale: i contribuenti e gli imponibili con caratteristiche diverse devono essere tassati con

modalità differenti. In base alla capacità contributiva le imposte devono essere differenziate.

Si riportano casi tipici nei quali si richiama l’applicazione del principio di equità. La differenziazione

delle aliquote è necessaria per l’eguaglianza nel trattamento.

1. Reddito di lavoro e di capitale (la c.d. discriminazione qualitativa dei redditi): il reddito di lavoro

comporta un sacrificio personale nella produzione, sacrificio consistente nell’impiego di tempo

sottratto al consumo, nella stanchezza fisica, nell’assoggettarsi ad obblighi non graditi, mentre il

reddito di capitale non comporta questi sacrifici. Due redditi eguali, dal punto di vista monetario,

uno di 100 come reddito di lavoro, uno di 100 come reddito di capitale, avranno la stessa utilità

lorda per un contribuente, ma il reddito di lavoro ha un’utilità netta inferiore per un reddito di

lavoro. Ad es., se si quantifica l’utilità in 40 unità per il reddito di capitale, per il reddito di lavoro da

questa utilità di 40 va sottratto un sacrificio (ad es. di 25), pertanto il reddito di capitale ha un’utilità

netta di 40, mentre il reddito di capitale ha un’utilità netta di 15.

2. Reddito temporaneo e reddito perpetuo. A parità di valore monetario un reddito temporaneo va

tassato meno di un reddito perpetuo. Il reddito di lavoro è temporaneo, il reddito di capitale è

(almeno tendenzialmente) perpetuo. Il criterio guida dell’equità è quello di tassare meno il reddito di

lavoro perché questo, attraverso l’accumulazione di risparmio, possa costituire nel tempo un capitale,

trasformandosi, quando è cessata la produzione di reddito di lavoro (ad es. per il pensionamento), si

possa avere un reddito di capitale, sostitutivo del precedente reddito di lavoro. L’idea si applica, in

pratica, nell’esenzione del risparmio da reddito di lavoro (risparmio forzoso o volontario) per

costituire fondi pensionistici.

3. Reddito risparmiato e reddito speso: il ragionamento precedente si può estendere per sostenere che

il reddito risparmiato va tassato meno del reddito speso. Il risparmio è un rinvio di attività che

generano utilità individuale, è un’utilità futura che va tassata in futuro, mentre il consumo è utilità

attuale che va tassata subito. Inoltre, secondo un’altra argomentazione, il consumo del reddito è

61

qualcosa di personale ed egoistico che distrugge risorse, mentre il risparmio ha un’importanza

‘sociale’, nel senso che va a vantaggio della collettività e permette accumulazione di capitale.

4. Reddito rischioso e reddito sicuro: a parità di valore monetario il reddito (o il patrimonio) rischioso

ha un valore effettivo minore rispetto ad un reddito (patrimonio) sicuro. Il rischio consiste nella

probabilità che il reddito venda a cessare, temporaneamente o definitivamente. Per equiparare, ad

esempio, un reddito sicuro di 100 ad un reddito rischioso di 100 quest’ultimo dovrebbe essere reso

sicuro attraverso un’assicurazione. Per assicurare un reddito rischioso si dovrebbe pagare ad

un’assicurazione un premio, in funzione della gravità del rischio, ad es. di 30. Pertanto il reddito di

100 in pratica vale 100 – 30 = 70, e solo questo importo andrebbe tassato.

Equità intertemporale e intergenerazionale

I contribuenti attuali possono modificare il benessere dei contribuenti futuri. Le imposte attuali

possono, ad esempio, ridurre la formazione di capitale disponibile per le generazioni future. Le

generazioni attuali possono influire negativamente sulle future con la distruzione di risparmio e di

risorse non riproducibili.

Possono esserci trasferimenti di carichi fiscali alle generazioni future con debiti attuali che dovranno

essere ripagati in futuro, ad es. con il finanziamento della spesa pubblica mediante debito pubblico o con

il finanziamento del sistema pensionistico. Succede che contribuenti più giovani pagheranno, in futuro,

per spese i benefici delle quali sono a vantaggio di contribuenti attuali. Le generazioni sono sempre

parzialmente sovrapposte, per via della compresenza di soggetti appartenenti a più generazioni (la

composizione demografica) e si instaurano i c.d. patti intergenerazionali. Una generazione più forte (i

più giovani) danno sostegno finanziario una più debole (i più anziani), ad esempio finanziando, con i

propri imponibili, spese sanitarie e pensionistiche.

E’ un principio ulteriore l’idea che con gli strumenti fiscali non si devono alterare le posizioni relative dei

contribuenti (equità fiscale). Si possono ridurre le differenze tra i contribuenti, ma non far sì che il

contribuente Tizio più ricco di Caio prima dell’applicazione di imposte/spese diventi poi più povero di Caio

solo in seguito agli interventi fiscali.

Neutralità

Il principio di neutralità delle imposte è assimilato all’efficienza ed afferma che:

Le imposte non devono creare distorsioni degli equilibri che si stabiliscono nei mercati. Il principio

di neutralità indica la necessità che le imposte non interferiscano con gli equilibri economici. Non

devono provocare distorsioni nelle scelte, rispetto a quelle che verrebbero prese in assenza di

imposte.

Non devono generare effetti di sostituzione: per gli individui e le imprese non devono far spostare le

preferenze rispetto a decisioni prese in assenza di imposte. Questi effetti dipendono da

comportamenti determinati da tentativi dei contribuenti di ridurre le imposte dovute riducendo, o

evitando se possibile, gli imponibili (reddito, prodotti, consumo, ecc.).

Il tema della neutralità era già stato discusso da Enrico Barone (1912) nel confronto tra un’imposta

diretta sul reddito ed un’imposta indiretta speciale sul consumo.

IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII BBBAAARRROOONNNEEE AAA PPPAAARRRIIITTTAAA ’’’ DDDIII SSSAAACCCRRRIIIFFFIIICCCIIIOOO AAA BBB

IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII BBBAAARRROOONNNEEE AAA PPPAAARRRIIITTTAAA ’’’ DDDIII GGGEEETTTTTTIIITTTOOO AAA BBB

Esempi di effetti di sostituzione:

62

a) per un consumatore: tra consumare il bene X (non tassato o tassato di meno) piuttosto che il bene Y

(tassato o tassato di più): un bene tassato è parzialmente sostituito con un bene non tassato: il

fenomeno è più evidente per i beni surrogati (sostituibili perché appartenenti ad una stessa classe)

nel consumo;

b) per un produttore: tra produrre il bene X (non tassato o tassato di meno) piuttosto che il bene Y

(tassato o tassato di più);

c) per un lavoratore: tra lavorare o non lavorare, se è tassato il reddito di lavoro;

d) per un’impresa: tra l’impiego di un fattore di produzione (lavoro, capitale) ed un altro fattore se uno

è tassato più dell’altro;

e) per una società: tra la costituzione di una società di capitali o di una società di persone, quando è

tassata di più la società di capitali (o viceversa);

f) per una società di capitali: tra finanziarsi con capitale proprio (risparmio, accantonamenti) e

l’indebitarsi, se le imposte sono più pesanti con un tipo di finanziamento rispetto all’altro;

g) nella scelta di uno status famigliare piuttosto che di un altro, se le imposte sulla famiglia sono

discriminanti;

h) per individui ed imprese: a scegliere un paese piuttosto che un altro per svolgere attività economiche

o incassare redditi (assenza di neutralità internazionale).

o La presenza di effetti di sostituzione è sintomo di perdite di benessere, nel senso che i

soggetti economici sono indotti a scelte diverse da quelle che ritenevano le migliori, in

assenza di imposta. Perciò la neutralità è assimilata all’efficienza (massimo benessere,

massimo di produzione, minimi costi, di produzione o psicologici).

o L’unica imposta che non permette al contribuente effetti di sostituzione perché non può

influire sul suo ammontare è l’imposta fissa, assai poco pratica.

o Perciò nei confronti tra le imposte, per decidere qual è la più efficiente, si vede quale

imposta minimizza le distorsioni e le perdite di benessere determinando un minor onere in

termini di sacrificio, a parità di gettito con altre.

Talora le imposte intenzionalmente sono non neutrali, in quanto vogliono creare distorsioni, per incentivare

o disincentivare una scelta o un comportamento. Gli incentivi si realizzano con esenzioni da alcune imposte

o con aliquote più basse per gli imponibili incentivati rispetto agli altri. I disincentivi si realizzano con

imposte speciali o con aliquote maggiorate rispetto ad altri imponibili.

Esempi di imposte incentivanti:

- si tassa il reddito risparmiato con aliquote più basse (o si esenta del tutto) rispetto al reddito speso,

per favorire l’accumulazione di risparmio;

- si tassa un bene di produzione interna di meno rispetto a beni importati, per favorire il consumo

interno di beni di produzione nazionale;

- si tassa con aliquote basse o si esenta un prodotto che viene esportato per favorire la competitività

sui mercati internazionali;

- si abbassano le aliquote di un’imposta indiretta su di una merce per favorirne il consumo;

- si riduce un’imposta sui profitti a condizione che l’impresa aumenti l’occupazione.

Esempi di imposte disincentivanti:

- si tassano le produzioni, le emissioni o i carburanti inquinanti per ridurre o eliminare gli effetti di

inquinamento e indurre a utilizzare diverse tecnologie e carburanti migliori (le c.d. imposte verdi, la

carbon tax sulle emissioni di CO2, ecc.).

- Si tassano i comportamenti che hanno effetti inflazionistici (ad es. profitti eccessivi delle imprese,

incrementi eccessivi dei redditi di lavoro, incrementi eccessivi dei prezzi di alcuni prodotti, ecc.:

eccessivi rispetto ad una media di incrementi di prezzi o di redditi o di profitti).

- Si tassano i trasferimenti nei mercati finanziari (ad es. le compravendite di titoli in borsa) per

rallentare la velocità dei trasferimenti e contenere i rischi di speculazione e di instabilità (ad es. la

Tobin tax).

- Si tassano di più alcuni consumi legalmente ammessi, ma ritenuti socialmente non meritevoli o

dannosi (tabacchi, alcoolici, giochi e scommesse).

63

- Si tassano di più i profitti distribuiti dalle imprese rispetto ai profitti accantonati, con l’obiettivo di

favorire la capitalizzazione (i.e. un maggior capitale proprio) delle imprese.

Si utilizzava, già nel sec. XIX, il termine neutralità riferito all’intero bilancio pubblico ed

alla finanza pubblica, anziché solo alle imposte. Tale neutralità si sarebbe dovuta

realizzare in due modi:

- per dimensioni del bilancio pubblico, così ridotte da non influire praticamente su

produzione e distribuzione di mercato (neutralità per dimensione);

- per compensazione: gli effetti positivi della spesa compensano esattamente quelli

del prelievo: si trattava di un argomento anche a favore del bilancio in pareggio

(neutralità per compensazione).

Qualche altro principio delle imposte, già presente nella classificazione di Smith, viene pure richiamato.

Economicità

Le imposte devono essere scelte e strutturate secondo criteri di economicità, nel senso che devono quindi

minimizzare alcuni costi:

a) costi per il contribuente che paga l’imposta (adempimenti, assistenza, tempo perso);

b) costi per l’amministrazione che riscuote: costi burocratici nell’organizzare uffici, modalità di riscossione

e costi degli intermediari esattori, costi degli accertamenti e del contenzioso per contrastare l’evasione; questi

costi equivalgono ad una riduzione del gettito da destinare alla spesa pubblica;

c) costi per l’economia: effetti negativi quali aumenti di prezzi, riduzione di redditi e della produzione,

discriminazioni; si tratta, in gran parte, di costi connessi all’assenza di neutralità.

Certezza

L’imposta deve essere certa nella definizione normativa e nell’applicabilità delle norme riguardanti

l’imponibile, l’aliquota. La certezza nel gettito significa che l’imposta non deve presentarsi come strumento

al quale il contribuente possa facilmente sottrarsi, attraverso processi di evasione ed elusione. La certezza del

contribuente significa che il contribuente dovrebbe essere colui che effettivamente è individuato dalla norma

tributaria.

3. Le imposte personali sul reddito

3.1 Imposta sul reddito delle persone fisiche

Imposta sul reddito delle persone fisiche: il reddito

La definizione di reddito è stata piuttosto elaborata e complessa e, dalla fine del sec. XIX, ha sviluppato

concetti diversi.

Reddito prodotto: è il concetto di contabilità nazionale, che è stata sviluppata a partire dagli anni

’30 del sec. XX: èl’insieme di beni e servizi valutabili in moneta prodotti in un anno in un ambito

territoriale (nuova ricchezza). Non vi rientrano i trasferimenti (redditi prodotti da qualche soggetto e

trasferiti ad altri) né i plusvalori (v. infra).

Reddito entrata: è il consumo (C) di un anno sommato alla variazione di patrimonio dall’inizio alla

fine dell’anno (DK): quindi

Reddito entrata = C + DK che è uguale a Consumo + Risparmio + Plusvalori – Perdite patrimoniali).

64

Il reddito entrata comprende sia il reddito prodotto, sia i trasferimenti che i plusvalori ed è il concetto

che le imposte sul reddito tengono presente in prevalenza.

Altre distinzioni riguardano:

o Reddito ordinario o normale: si usa per definire, in alcuni casi, il reddito presunto di

terreni, fabbricati, piccole imprese, quando è troppo costoso accertare per il singolo caso il

reddito effettivo. Il reddito ordinario è un reddito medio presunto, costruito a campione. Di

solito diverge dal reddito effettivo. Per il reddito ordinario si utilizza il catasto (dei terreni,

dei fabbricati) o si costruiscono delle imprese rappresentative di settori e categorie. Talvolta

è stato considerato come eventuale imponibile il reddito potenziale di un individuo o di

un’impresa, sulla base di capacità di produzione di reddito anche non sfruttate (abilità e

qualificazione personale, potenzialità produttiva, v. ad es. in Italia gli studi di settore). o Sovrareddito: è la differenza di un reddito effettivo rispetto ad un reddito medio. Ad es. il

sovrapprofitto è l’eccesso di reddito sul rendimento normale del capitale investito.

o Plusvalore o incremento di valore patrimoniale (plusvalenza, per le società di capitali): è

l’incremento di valore di un cespite (un capitale immobiliare o finanziario) al quale non

corrisponde produzione di nuova ricchezza. Ad es. un fabbricato (o un titolo di credito),

acquistato a 100, dopo qualche tempo può essere rivenduto a 150. La differenza (50), se non

dipende soltanto da un incremento del livello generale dei prezzi, contiene un plusvalore.

Nel caso di un decremento o perdita di valore di un cespite si è in presenza di minusvalore (o di

minusvalenza per le società di capitali).

Si rinvia ad un ‘classico’ sulla tassazione personale: H. Simons: Personal income taxation (1920)

La progressività

Definizione di proporzionalità, progressività, regressività.

Imposta proporzionale: è un’imposta con aliquota costante: quando l’imponibile aumenta o

diminuisce, l’aliquota rimane costante.

Imposta progressiva: è un’imposta con aliquota crescente: quando l’imponibile cresce, l’aliquota

aumenta.

Imposta regressiva: è un’imposta con aliquota decrescente: quando l’imponibile cresce, l’aliquota

diminuisce.

Imponibile imposta proporzionale imposta progressiva imposta regressiva

R T T/R = t T T/R = t T T/R = t

100 10 10/100 = 10% 5 5/100 = 5% 20 20/100 = 20%

200 20 20/200 = 10% 20 20/200 = 10% 30 30/200 = 15%

400 40 40/400 = 10% 60 60/400 = 15% 40 40/400 = 10%

Si distingue tra:

Aliquota media: è il rapporto tra l’imposta T e l’imponibile R: T/R.

Aliquota marginale: è il rapporto tra una variazione di imposta (Δ e la corrispondente variazione

di imponibile (ΔR).

65

- le variazioni di R (ΔR) sono da 100 a 200 (ΔR ΔR=200)

- per le imposte:

per l’imposta proporzionale le variazioni sono da 10 a 20 (ΔT = 10) e da 20 a 40 (ΔT = 20).

Nel passaggio da 100 a 200 si ha:

ΔT = 10 = 10% e nel passaggio da 200 a 400 ΔT = 20 = 10%

ΔR 100 ΔR 200

per l’imposta progressiva le variazioni sono da 5 a 20 (ΔT = 15) e da 20 a 60 (ΔT = 40).

Nel passaggio da 100 a 200 si ha:

ΔT = 15 = 15% e nel passaggio da 200 a 400 ΔT = 40 = 20%

ΔR 100 ΔR 200

per l’imposta regressiva le variazioni sono da 20 a 30 (ΔT= 10) e da 30 a 40 (ΔT = 10).

Nel passaggio da 100 a 200 si ha:

ΔT = 10 = 10% e nel passaggio da 200 a 400 ΔT = 10 = 5%

ΔR 100 ΔR 200

Elasticità dell’imposta

Si definisce elasticità dell’imposta:

il rapporto tra la variazione dell’imposta e la variazione dell’imponibile:

Δ (ΔR/R)

che si può esprimere anche come il rapporto tra aliquota marginale e aliquota media:

(ΔT/ΔR)/(T/R)

Dall’esempio precedente si conclude che:

- l’elasticità è uguale ad 1 con imposta proporzionale

- è maggiore di 1 con imposta progressiva

- è minore di 1 con imposta regressiva.

Oltre all’elasticità dell’imposta esistono diverse misure di progressività/proporzionalità/regressività,

che esprimono relazioni matematiche tra imponibili ed imposte.

Sia R l’imponibile e T l’imposta; si prendono due imponibili, R0 ed R1 ai quali corrispondono due

imposte, T0 e T1 e sia T/R = ta e tm = ΔT/ΔR = tm . Si hanno, così, alcune misure:

1. progressività dell’aliquota media ta nel passaggio da un imponibile R0 ad un imponibile maggiore

R1: (ta1 – ta0)/(R1 – R0) = Δta/ ΔR: misura la variazione dell’aliquota media ed è uguale a 0 per

l’imposta proporzionale, > 0 (positiva) quando l’imposta è progressiva, < 0 (negativa) quando

l’imposta è regressiva;

2. progressività dell’aliquota marginale tm nel passaggio da un imponibile R0 ad un imponibile

maggiore R1: (tm1 – tm0)/(R1 - R0) = Δtm/ΔR: misura la variazione dell’aliquota marginale ed è

uguale a 0 per l’imposta proporzionale, > 0 (positiva) quando l’imposta è progressiva, < 0 (negativa)

quando l’imposta è regressiva;

66

3. progressività dell’imponibile residuo: è il rapporto tra la variazione percentuale dell’imponibile

dopo l’imposta e la variazione percentuale dell’imponibile prima dell’imposta: [(R1 – T1) – (R0 –

T0)]/(R0 - T0) / [(R1 - R0)/R0] : è uguale ad 1 per un’imposta proporzionale, minore di 1 per l’imposta

progressiva, maggiore di 1 per un’imposta regressiva;

4. elasticità ponderata dell’imposta: è il rapporto tra l’aliquota marginale (tm) divisa per il suo

complemento ad 1 (1 – tm) e l’aliquota media (ta) divisa per il suo complemento ad 1 (1 - ta):

[tm/(1– tm)]/[ta/(1 - ta)] = (tm/ta)/[(1 – ta)/(1 – tm)]: è uguale ad 1 per l’imposta proporzionale, > 1 per

quella progressiva, < 1 per quella proporzionale.

Ragioni della progressività

La necessità di un’imposta progressiva è stata sostenuta, nel tempo, con diverse motivazioni.

- Giustizia e redistribuzione: se si ritiene che i mercati privati, nella produzione e nella distribuzione

dei redditi, non operino secondo criteri di giustizia (valutati da un punto di vista politico), si può

pensare di poter correggere tale distribuzione anche con un’imposta progressiva. L’idea della

progressività a fini redistributivi è relativamente più recente di altre giustificazioni e si può far

risalire alla discussione, nella rivoluzione francese, sulla costituzionalizzazione dell’imposta

progressiva, come avvenne poi con l’art. 53 della Costituzione italiana; come principio

‘rivoluzionario’ risale almeno a Marx-Engels nel Manifesto (1848).

- L’utilità ed il principio del sacrificio: nel finanziare una spesa pubblica è corretto prelevare risorse

là dove si impongono sacrifici minori. Ne consegue che è corretto tassare più che proporzionalmente

i redditi più elevati, in modo che il sacrificio aggregato sia minimo. 100 euro sottratte ad un

contribuente povero rappresentano un grosso sacrificio, mentre 100 euro sottratte ad un contribuente

ricco comportano un sacrificio molto inferiore. Se necessita una somma per finanziare una spesa

pubblica bisogna cominciare a tassare i redditi più elevati e poi scendere a tassare via via quelli

inferiori: così si realizza un sacrificio minimo per la collettività.

- La compensazione: è un’idea che risale al sec. XVIII: dato che le imposte sui consumi sono

regressive rispetto al reddito, per compensare questo difetto è necessaria un’imposta progressiva sul

reddito. Così l’insieme delle imposte, dirette e indirette, potrebbe essere almeno proporzionale.

- Il surplus o sovrareddito: un reddito di lavoro, o di capitale, corrisponde ad un rendimento normale

delle ore lavorate o dell’ammontare di capitale e questo reddito va tassato con una certa aliquota. Se

il rendimento è maggiore (ad es. del 6% rispetto ad una ‘normalità’ del 4%) la differenza (del 2%) va

tassata con aliquota superiore, in quanto corrisponde a situazioni di privilegio (di rendita, di

monopolio). Quindi il reddito di lavoro, ad esempio, si trasforma in un reddito diverso, il reddito di

capitale si trasforma in eccesso di profitto o in una forma di surplus.

Sulla progressività si trovano diverse opere classiche, da Jollivet (1795) a Mazzola

(1895), a Masé Dari (1897) a Seligman (1894).

Storicamente sono stati individuati diversi casi, alcuni alquanto dubbi, di imposte

progressive; un esempio è quello della ‘decima scalata’ a Firenze nel 1499.

Tecniche di applicazione dell’imposta progressiva

a) Progressività per deduzione/detrazione

E’ la forma più antica di progressività, che si fa risalire a Bentham (1838). Si tratta di un’imposta

proporzionale corretta. Prima di applicare l’aliquota t ogni reddito R viene diminuito di un importo

fisso D. L’imposta è

67

T = t(R –D). La formula può essere riscritta come T = tR – tD. L’importo può essere sottratto

da R (ed allora si definisce deduzione D) o da T (ed allora si definisce detrazione tD). Nel primo

caso si ha un’imposta progressiva per deduzione, nell’altro un’imposta progressiva per detrazione.

Esempio di imposta progressiva per deduzione con D = 100 e t = 50%

R R-D t(R-D) t(R-D)/R

150 50 25 25/150 = 16, %

200 100 50 50/200 = 25%

400 300 150 150/400 = 37, %

Si vede come diventa crescente il rapporto tra imposta ed R.

E’una progressività ad aliquota marginale unica (c.d. flat rate).

LLL ’’’IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA PPPRRROOOGGGRRREEESSSSSSIIIVVVAAA PPPEEERRR DDDEEEDDDUUUZZZIIIOOONNNEEE AAA BBB

PPPRRROOOGGGRRREEESSSSSSIIIVVVIIITTTAAA ’’’ PPPEEERRR DDDEEEDDDUUUZZZIIIOOONNNEEE::: AAALLLIIIQQQUUUOOOTTTEEE MMMEEEDDDIIIEEE/// MMMAAARRRGGGIIINNNAAALLLIII AAA BBB

La Flat Tax dagli anni ’90 ha avuto diffusione continua nei

paesi dell’Europa dell’est, con aliquote uniche dal 12% al 26%.

b) Progressività per classi

Gli imponibili sono ripartiti in classi. A ciascuna classe corrisponde un’aliquota proporzionale

diversa. Esempio:

Classe Redditi Aliquota

I da 0 a 100 10%

II da 0 a 200 12%

III da 0 a 400 15%

Un reddito di 80 appartiene alla classe I (tassato al 10%); un reddito di 160 alla classe II (tassato al

12%); un reddito di 340 alla classe III (tassato al 15%).

In Italia l’imposta sul valore locativo era, fino al 1974, un’imposta comunale

diretta, progressiva per classi: 5 classi con aliquote del 5%, 6%, 7%, 8%, 9%.

Colpiva il valore locativo di un’immobile, calcolato in base al canone di

locazione reale o presunto. Era previsto un valore minimo imponibile, aumentato

in funzione delle dimensioni della famiglia, e con detrazioni percentuali in base

al numero dei figli a carico. Si trattava di un’imposta progressiva per classi dove,

in ogni classe, erano introdotti elementi di personalizzazione (deduzioni a

carattere famigliare).

68

c) Progressività per scaglioni

Il reddito viene ripartito in scaglioni. Ogni scaglione ha una sua aliquota marginale tm.

Esempio, con 3 scaglioni ed un imponibile di 500:

Scaglioni tm R=500 tmR

I da 0 a 100 5% 100 + 5 +

II da 101 a 300 10% 200 + 20 +

III da 301 a 600 15% 200 = 30 =

500 55

L’imposta totale si ottiene sommando le imposte calcolate in ogni scaglione: 5+20+30 = 55; l’aliquota

media sul reddito di 500 è data da 55/500 = 11%.

La progressività per scaglioni è la più comune. Anni addietro gli scaglioni, nei vari paesi, erano molto

numerosi (anche una trentina), poi si sono ridotti a 3-5.

Vi può essere uno scaglione iniziale, di dimensioni variabili in funzione delle caratteristiche del

contribuente, con aliquota 0%: il reddito compreso in questo scaglione non è tassato.

La progressività, riducendo il numero di scaglioni, può essere rafforzata utilizzando un livello di

deduzione decrescente rispetto all’imponibile, fino a raggiungere una struttura di imposta progressiva

per deduzione con:

- aliquota marginale fissa (flat rate);

- deduzione decrescente.

In pratica, anziché far crescere le aliquote marginali (con gli scaglioni) al crescere dell’imponibile, si fa

diminuire la deduzione all’aumentare del reddito.

L’irpef, introdotta in Italia nel 1974, nel corso degli anni ha avuto

diverse variazioni sia nel numero di scaglioni che nel livello delle

aliquote: uno schema semplificato è il seguente:

ANNI 1974 1983 1989 2010

Numero degli scaglioni 32 9 7 5

Aliquota minima 10% 18% 10% 23%

Aliquota massima 82% 65% 50% 43%

d) Progressività continua

L’imposta è calcolata con una formula. Per ogni minima variazioni di imponibile si ha un incremento

dell’aliquota marginale.

Una formula generale di imposta progressiva continua è del tipo T = aRb

, dove R è l’imponibile, a

un valore inferiore ad 1, b un valore maggiore di 1 (è l’elasticità dell’imposta). a aveva, in Italia, un

valore intorno al 2% e b era di 1,5%. Si definisce continua perché la progressività varia continuamente:

ad ogni minimo incremento del reddito imponibile c’è un incremento continuo dell’aliquota marginale.

Un’imposta progressiva continua è stata utilizzata in Italia: si trattava dell’ imposta

complementare progressiva sul reddito, imposta personale istituita, a partire dal 1925

(rd 3062 del 30.12.1923) sul reddito complessivo, con deduzioni, una fissa (lire 240

69

mila) ed altre per carichi di famiglia. L’imposta è stata soppressa dal 1974 e sostituita

dall’Irpef.

La formula per il calcolo dell’aliquota media t da applicare sul reddito R era la

seguente:

t = 0,023 √(R - 0,0000472R) + 0,00874 per R fino a 5 milioni.

t = 0,06 +0,027√(R – 5) per R oltre i 5 milioni. Le aliquote andavano dal 2% al 65%.

Gli scaglioni dell’IRPEF nel 1974 erano stati costruiti con riferimento alla struttura,

semplificata, dell’imposta complementare, secondo una funzione T = aRb , dove a era

un coefficiente pari a 0,02 e b era l’elasticità dell’imposta, predeterminata costante a

1,5.

LLL ’’’IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA PPPRRROOOGGGRRREEESSSSSSIIIVVVAAA CCCOOONNNTTTIIINNNUUUAAA AAA BBB

Struttura dell’imposta progressiva

L’imposta progressiva, nel tempo ed in diversi paesi, ha strutture molto differenziate. Le sue caratteristiche,

oltre alla scala di aliquote marginali ed al numero di scaglioni, comprendono:

1. Minimo imponibile: è un livello di reddito minimo non tassabile. Il minimo imponibile può

essere individuale o famigliare: se è famigliare tiene conto delle esigenze di un nucleo

(coniuge, figli, altri famigliari a carico, con deduzioni/detrazioni per carichi di famiglia).

2. Detrazioni e deduzioni: sono deducibili o detraibili alcuni tipi di spese:

a) le spese di produzione del reddito: gli oneri sostenuti per costi di trasporto, canoni;

b) spese sanitarie, spese di istruzione;

c) spese di gestione famigliare (ad es. assistenza domestica) e spese dovute ad eventi

negativi;

d) altre imposte sul reddito, applicabili a livello locale;

e) spese per interessi su mutui, per assicurazioni, previdenza e sanità integrative;

f) spese incentivate: donazioni, contributi di carattere culturale, religioso.

g) Possono esistere deduzioni o detrazioni speciali, ad es. per il reddito di lavoro dipendente o

di pensione.

Alcune deduzioni sono di carattere analitico (l’importo deve essere documentato, di solito fino

ad un massimo), altre di carattere forfetario (l’importo è fisso e non richiede documentazione);

le detrazioni sono di importo forfetario, fisso o decrescente al crescere del reddito.

La deducibilità può essere realizzata:

- sottraendo dal reddito complessivo lordo gli oneri e poi applicando l’imposta sull’imponibile

ricavato per differenza;

- tassando prima il reddito lordo (e calcolando un’imposta lorda TL), poi calcolando un’imposta sugli

importi degli oneri deducibili (con l’aliquota del primo scaglione o con un’aliquota distinta e

ricavando TD), quindi calcolando l’imposta netta TL-TD; in questo modo si combinano deduzioni

e detrazioni.

La progressività, oltre che come struttura dell’imposta, può essere considerata per i suoi effetti sulla

concentrazione degli imponibili (redditi, patrimoni). L’insieme delle imposte (il sistema tributario) può

essere valutato come progressivo, regressivo o proporzionale in base a questi effetti, come già visti con

l’indice di concentrazione.

70

Redditi fluttuanti

Alcuni redditi sono discontinui nei singoli anni , ma sono uguali alla fine di un periodo

(ad es. di 3 anni).

Anno 1 Anno 2 Anno 3 Totale

300 300 300 900

400 0 500 900

0 900 0 900

Con imposta proporzionale del 10% (aliquota media costante)

Anno 1 Anno 2 Anno 3 Totale

30 30 30 90

40 0 50 90

0 900 0 90

Con imposta progressiva, ad aliquote medie crescenti:

Reddito t

300 10%

400 12%

500 15%

900 20%

le imposte sono:

Anno 1 Anno 2 Anno 3 Totale

30 30 30 90

48 0 75 123

0 180 0 180

Prendiamo un reddito che a fine periodo sia di 900 e risulti dalla somma di redditi

annuali fluttuanti:

Anno Reddito Aliquota media Imposta

1 300 15% 45

2 100 10% 10

3 500 20% 100

Tot 900 Tot 155

Si usano diversi metodi per correggere le sperequazioni.

Media aritmetica semplice. E’ un metodo che si applica ad intervalli di più anni. Ogni

anno si applica l’aliquota propria del reddito dell’anno. Alla fine di un periodo

predeterminato (nell’esempio, un triennio) si sommano i redditi annuali e si divide il

totale per il numero degli anni (3): 900/3 = 300, che è il reddito medio annuo del

triennio. L’aliquota media su 300 è 15%, che si applica su 900. 15%900 = 135. Poiché

nel triennio si è pagato 155 il contribuente ha diritto ad un rimborso di 20 (= 155-135).

Media mobile. Si applica ogni anno, con riferimento al reddito dell’anno ed ai redditi dei

due anni precedenti, sempre se il periodo di riferimento è il triennio, come nell’esempio

precedente. Sul reddito di 500 si applica l’aliquota corrispondente al reddito medio del

triennio, 900/3 = 300. L’aliquota media propria di 300 si applica su 500 e sul reddito del

terzo anno si paga 75 anziché 100. Quindi prima di pagare l’imposta sul reddito

dell’ultimo anno si calcola la media degli imponibili dei tre anni. Non c’è necessità di

rimborsi.

71

Media mobile per tasso effettivo. Come la media mobile si applica ogni anno per

calcolare l’imposta sul reddito dell’ultimo anno. Si sommano le imposte pagate nei due

anni precedenti (45+10) e l’imposta che si dovrebbe pagare nel terzo anno (100), ma che

non va pagata in tale ammontare. La somma delle imposte (45+10+100=155) è divisa per

i redditi del triennio. 155/900 =17,2% dà l’aliquota media effettiva, da applicare a 500, il

reddito del terzo anno. 17,2%500 = 86, che è l’imposta da pagare nel terzo anno, anziché

100.

Media cumulativa. E’ un’articolazione della media aritmetica. Si sommano i redditi degli anni e

si includono in scaglioni pluriennali.

Esempio.

Scaglioni annuali Scaglioni triennali Aliquote

da 0 a 100 da 0 a 300 10%

da 101 a 300 da 301 a 900 15%

da 301 a 600 da 901 a 1800 20%

Gli scaglioni possono essere estesi fino a comprendere tutto il reddito conseguito nella vita del

contribuente (lifetime income): i limiti degli scaglioni dovrebbero essere moltiplicati, rispetto a

quelli annuali, per il numero di anni che si considerano e che variano in funzione della durata del

periodo nel quale si conseguono redditi. Gli scaglioni annuali servirebbero a calcolare acconti di

imposta, e poi andrebbero corretti con quelli pluriennali e le imposte periodicamente aggiustate:

redditi ed imposte, data la distribuzione temporale, andrebbero corrette con tassi di interesse.

Nell’esempio, un reddito di 900 nel triennio andrebbe sempre tassato, come con la media

semplice, al 15%, indipendentemente dal fatto che risulti dalla somma di tre redditi annuali di

300, o da due redditi annuali di 450 o da un unico reddito annuale di 900.

L’unità impositiva: la tassazione del reddito famigliare

Il contribuente dell’imposta sul reddito delle persone fisiche può essere:

- l’individuo: si tengono in conto principalmente le caratteristiche individuali e si ammettono detrazioni e

deduzioni per caratteristiche famigliari solo in quanto queste possono influire sulla dimensione del reddito

individuale (spese per persone a carico, coniuge e figli, individuate da vincoli famigliari); nel caso della

famiglia civilistica, si procede alla tassazione separata del reddito dei coniugi.

- La famiglia: intesa, in senso stretto, come famiglia civilistica o, in senso più ampio, come unità di

convivenza (focus). L’imponibile è il reddito famigliare, al quale contribuiscono tutti i componenti della

famiglia. Per la tassazione del reddito famigliare si possono seguire diversi metodi:

a) il cumulo dei redditi: si sommano i redditi e si tassano come se fossero un reddito unico: questo

sistema è fondato sull’idea che il matrimonio e la permanenza in un’unità di convivenza

generino un maggior reddito per la presenza di economie interne che permettono di risparmiare

con l’uso di beni e servizi comuni e per i redditi derivanti da reciproca assistenza. Da altro

punto di vista il cumulo è stato considerato un disincentivo al matrimonio o un ingiustificato

aggravio tributario sul reddito di uno o più dei soggetti conviventi.

b) Lo splitting (metodo tedesco-americano): prevede la possibilità prima di sommare i redditi dei

coniugi (famiglia civilistica), poi di suddividere a metà la somma, quindi l’applicazione delle

aliquote proprie di questa metà del reddito. Il metodo punta ad abbassa le aliquote sul reddito

famigliare e si fonda sull’idea di una comunione (comproprietà al 50%) dei redditi tra i coniugi,

indipendentemente da chi li guadagna. Introdotto in seguito a sentenza della Corte

Costituzionale tedesca nel 1968. La scala di aliquote progressive per lo splitting di solito

è distinta da quella per la tassazione dei redditi separati. Talvolta lo splitting è stato

considerato metodo alternativo rispetto alla tassazione separata, in base alla convenienza

dei contribuenti, che hanno opzione tra diversi metodi.

72

c) Il quoziente familiare (metodo francese): mira ad abbassare le aliquote in funzione del numero

dei componenti di una famiglia, e quindi a premiare/ incentivare le famiglie numerose. Prima si

sommano tutti i redditi dei componenti ((coniugi, figli, ascendenti diretti dei coniugi, ed

eventualmente altri parenti conviventi), poi la somma si divide per il numero (corretto) dei

componenti (inclusi quelli che non hanno reddito) e si determina l’aliquota da applicare a tutto il

reddito famigliare. Il reddito Un sistema più antico attribuiva lo stesso valore di 1 a

ciascun componente. La somma, Rn, corretta per le deduzioni famigliari, si divideva per

il numero dei componenti (n) maggiorato di un numero fisso (2 o 3) e si otteneva un

reddito medio famigliare Rm

in base al quale si individuava l’aliquota media t, da

applicare poi sull’intero reddito famigliare. Così, a parità di reddito famigliare, l’aliquota

è inversamente collegata al numero dei componenti.

Con una formula, se n sono i componenti si ha ΣRn

= Rm

T = tRm

n

2+n

In una modalità più recente del quoziente famigliare francese la somma dei redditi si divide

in quote, sulla base ad un numero divisore, parametrato alla composizione della famiglia,

dopo le deduzioni dei carichi di famiglia. Si sommano i redditi famigliari e si dividono per il

numero divisore proprio della famiglia. L’imponibile risultante è tassato con l’imposta

progressiva e poi l’imposta si moltiplica per il numero delle parti (componenti corretti con

numeri divisori). Si consideri una famiglia con figli a carico. Ciascuno dei coniugi è posto

pari ad 1, ogni figlio è pari a 0,5. La persona singola, se ha figli, è assimilata alla coppia di

coniugi. I numeri divisori sono determinati come segue:

Composizione della famiglia Numero divisore

Persona singola, divorziata, vedova, senza persone a

carico

1

Persona singola o divorziata con un figlio a carico 1,5

Coniugi senza figli a carico

Persona singola o divorziata con 2 figli a carico

2

Coniugi o vedova/o con un figlio a carico 2,5

Coniugi o vedova/o con 2 figli a carico

Persona singola o divorziata con 3 figli a carico

3

Coniugi o vedova/o con 3 figli a carico

Persona singola o divorziata con 4 figli a carico

4

Il metodo francese nuovo (dal 2003) si può vedere nel Code General des impots artt. 193-

194

____

Famiglia monoreddito e bireddito.

Due famiglie, 1 e 2, con reddito complessivo uguale di 400 hanno il reddito suddiviso in

modo differente tra i due coniugi (A e B per la famiglia 1, C e D per la famiglia 2). L’aliquota

media dell’imposta progressiva sia del 10% su 200 e del 15% su 400. Si ha quindi

Famiglia 1 2

Coniugi A B C D

Redditi 200 200 0 400

Imposta 20 20 0 60

Si ha una discriminazione in quanto lo stesso reddito complessivo famigliare è tassato di più

nella famiglia con il reddito concentrato in uno solo dei componenti. Le soluzioni possono

essere:

73

a) cumulo totale: la prima famiglia è tassata su 400 (200+200) ed entrambe le

famiglie pagano 60 (la famiglia 1 paga 60 come la famiglia 2);

b) splitting: il reddito delle due famiglie è diviso a metà ed entrambe pagano

l’aliquota corrispondente a 200 (la famiglia 2 paga 20 come la famiglia 1).

Per definire il reddito a livello familiare, e rilevarne la differenza rispetto al reddito individuale, si può

ricorrere anche alla definizione di reddito familiare equivalente. E’ un reddito corretto in base alle

dimensioni, alle caratteristiche del nucleo familiare ed alla disponibilità di patrimoni. Permette di confrontare

unità familiari di diversa ampiezza e composizione demografica. Considera l’esistenza di economie di scala

collegate alla dimensione della famiglia. Sono previsti pesi diversi in base al numero ed all’età dei

componenti (ad es. il capofamiglia vale 1, i componenti con più di 14 anni valgono 0,5, quelli con meno di

14 anni 0,3).

Una definizione più complessa di capacità contributiva famigliare intesa come potere economico

discrezionale a livello di famiglia indica la capacità della famiglia nel suo complesso di acquistare beni e

servizi dopo aver soddisfatto le necessità dei componenti. Il potere economico discrezionale è stato definito

su base annuale come risultante dalla differenza A – B, dove A è il potere che ha la famiglia di disporre di

beni e servizi per gli usi personali dei componenti, mentre B è il potere economico necessario per mantenere

la famiglia ad un tenore di vita appropriato in relazione alle altre famiglie (in pratica un minimo imponibile

famigliare). A include:

1. i consumi della famiglia (valore di beni e servizi consumati in un anno);

2. le donazioni effettuate verso altre famiglie (i patrimoni ed i redditi usciti dall’ambito famigliare);

3. la variazione delle attività nette della famiglia (risparmio, variazioni di patrimonio per donazioni ed

eredità ricevute, incrementi di valore patrimoniale).

Il flusso di ricchezza annuale della famiglia si ottiene sommando ai redditi tutti gli incrementi di

patrimonio. Eredità e donazioni ricevute sono tassate come reddito, mentre sono esenti da imposta le eredità

e le donazioni all’interno della famiglia, in quanto non modificano il potere economico discrezionale della

famiglia stessa.. Sono tassati come reddito i trasferimenti da componenti della famiglia a soggetti all’esterno

della famiglia.

Indicizzazione dell’imposta progressiva

L’inflazione ha effetti distorsivi sulla progressività. Un reddito di 100 è tassato con aliquota

media di 10%, l’imposta è 10 ed il reddito netto 90 (100 – 10); se ci fosse un’inflazione del

100% ed il reddito raddoppiasse a 200 il suo valore reale resterebbe immutato, pur

raddoppiando il valore monetario, ma l’aliquota media crescerebbe, ad es. al 15%: l’imposta

sarebbe di 30, il redito netto di 170 (200-30), il reddito netto reale di 85 (170/2). Si definisce

drenaggio fiscale (fiscal drag) l’aumento più che proporzionale dell’imposta dovuto

all’aumento nominale dell’imponibile in presenza di inflazione. Nell’esempio è dovuto alla

variazione di aliquota media dal 10% al 15%.

Per correggere le distorsioni d’imposta dovute alla progressività il metodo più semplice è

quello di indicizzare dei limiti degli scaglioni, delle deduzioni e delle detrazioni.

Esempio. Indicizzazione dei limiti degli scaglioni, con un tasso d’inflazione δ:

Scaglioni di reddito

imponibile

Scaglioni indicizzati

δ=10% aliquote

0 - 100 0 - 110 10%

101 - 300 111 - 330 15%

301 - 500 331 - 550 20%

Un altro metodo è quello di procedere in due fasi, lasciando invariata la struttura dell’imposta:

- nell’anno A1 si deflazionano gli imponibili in base al tasso d’inflazione δ rispetto

all’anno precedente A0 e si calcola l’imposta T;

74

- la stessa imposta T è aumentata del tasso d’inflazione δ e diventa T(1+ δ).

Con un’imposta progressiva continua dove T = a(R-D)b

– d, se δ è il tasso d’inflazione da A0

ad A1 i due metodi di indicizzazione sono, rispettivamente:

1. a[R(1-δ)-D(1+δ)]b- d(1+δ) : si indicizzano D e d; l’imponibile è ridotto del tasso

d’inflazione δ.

2. {a[R/(1+δ)-D]b- d}(1+ δ) : si deflaziona R per (1+ δ) e si calcola l’imposta,

riportando imponibile ed imposta da A1 ad A

0. Successivamente è

indicizzata l’imposta, riportata ad A1.

Reddito guadagnato o reddito speso: la doppia imposizione del risparmio

La tassazione del reddito può dar rilievo al momento in cui il reddito viene guadagnato (incassato,

percepito) da un percettore persona fisica o il momento in cui viene speso. Le conseguenze, sul piano

dell’equità, sono diverse.

Esempio. Tizio e Caio, due contribuenti guadagnano, nello stesso anno, un reddito R. Tizio spende tutto e

Caio risparmia tutto. Vi sia un’imposta su R di aliquota t applicata sul reddito guadagnato. Al momento

dell’incasso del reddito questo viene tassato e la situazione dei due individui è uguale. Abbiamo:

Reddito netto di Tizio Reddito netto di Caio

R(1 - t) R(1 - t)

Imposta pagata da Tizio Imposta pagata da Caio

tR tR

Ora supponiamo che Tizio spenda subito tutto il suo reddito netto. Caio, invece, preferisce risparmiare tutto

R(1- t), percepire un interesse annuo a tasso r e spendere ogni anno l’interesse sul risparmio, pari a

rR(1- t).

Tizio non paga altre imposte oltre a tR. Caio invece ogni anno dovrà pagare un’imposta, sempre di aliquota

t, sull’interesse rR(1 - t), che rappresenta nuovo reddito guadagnato. Quindi ogni anno futuro pagherà

tR(1- t). Quest’imposta può essere capitalizzata e corrisponde a trR(1-t)/r = tR(1- t).

Confrontando nel tempo la situazione di Tizio e Caio vediamo che si è stabilita una discriminazione:

Totale imposte pagate da Tizio Totale imposte pagate da Caio

tR tR + trR(1 - t)/r

Caio, il risparmiatore, viene a pagare imposte due volte, una volta per il reddito guadagnato R e poi per gli

interessi. Si conclude che un’imposta sul reddito guadagnato discrimina contro il risparmio ed incentiva il

consumo del reddito.

Per eliminare questa discriminazione e per rendere l’imposta neutrale sulla scelta tra consumo e risparmio

si sono suggerite alcune soluzioni.

Oltre a quella di mantenere la tassazione del reddito guadagnato, ma esentando gli interessi, si è formulata

la proposta di tassare il reddito al momento in cui viene speso.

Vediamo cosa succede a Tizio ed a Caio con la tassazione di R con aliquota t, spostando il momento della

tassazione.

Tizio consegue un Reddito R che spende tutto: è tassato al momento della spesa ed il suo reddito diventa

R(1 - t) e paga di imposta tR.

Caio ha lo stesso reddito R di Tizio. Non spende nulla nel primo anno e quindi R non viene tassato.

Nell’anno successivo consegue un interesse di rR che decide di spendere e che viene tassato: quindi spende

rR(1 - t) e paga di imposta trR. Se negli anni futuri Caio decide di spendere i frutti annuali (rR)

75

lasciando invariato l’R iniziale vi sarà un flusso di imposte annuali sul reddito di capitale speso, flusso che,

attualizzato, darà trR/r = tR, che è uguale all’imposta pagata da Caio interamente nel primo anno.

L’imposta così è neutrale, perché non influisce sulle decisioni individuali di risparmio e di consumo.

Esempio numerico (sulla base di formulazioni di L. Einaudi e I.

Fisher).

Tizio e Caio guadagnano entrambi un reddito di 100.000. Tizio spende

tutto il suo reddito, Caio risparmia l’intero reddito e, negli anni a

venire, spende i frutti del risparmio (gli interessi al tasso del 5%),

lasciando invariato il capitale. Sia t=10%.

a) Imposta sul reddito guadagnato:

Reddito R Tizio Caio

R guadagnato 100.000 100.000

tR su

R guadagnato RG 10.000 10.000

RG(1-t) 90.000 90.000

RG(1-t) = R speso RS 90.000 0

rRG(1-t) 4500

trRG(1-t) 450

[trR(1-t)/r]

imposta capitalizzata

9000

(450/5%)

b) Imposta sul reddito speso:

Reddito R Tizio Caio

R guadagnato 100.000 100.000

R speso RS 100.000 0

tRS 10.000 0

RS(1-t) 90.000 0

rR 0 5000

trR 500

(trR)/r

imposta capitalizzata

10. 000

(500/5%)

Le indicazioni sull’esenzione del risparmio sono rafforzate da considerazioni, che risalgono a J.S. Mill,

sulla necessità di esentare il risparmio derivante dal reddito di lavoro. Confrontando due redditi di

ammontare uguale, uno di capitale ed uno di lavoro, si constata che uno dei due ha una durata limitata nel

tempo (quello di lavoro), mentre l’altro ha durata indefinita (è tendenzialmente ‘perpetuo’) Per eguagliare i

due redditi bisognerebbe permettere a chi percepisce il reddito di lavoro di accantonare risparmio durante la

vita attiva, così che, cessato di produrre reddito di lavoro, si sarà accumulato un capitale, attraverso il

risparmio, che dia un rendimento pari all’altro reddito, pure di capitale. Tale risparmio del lavoratore non

andrebbe tassato, proprio in vista della costituzione di un capitale. Successivamente sarà tassato il reddito del

capitale proveniente dal reddito di lavoro risparmiato.

La rimozione e l’ammortamento dell’imposta

La rimozione è l’effetto di un’imposta sul reddito di lavoro rispetto all’offerta individuale di lavoro. Se il

reddito di lavoro dipende direttamente dall’offerta individuale di lavoro (più lavoro uguale più reddito, meno

lavoro uguale meno reddito), una simile imposta può:

76

a) avere un effetto incentivante e far aumentare l’offerta di lavoro ed il tempo di lavoro di un soggetto

(rimozione positiva), in modo che il contribuente-lavoratore produce un reddito lordo più elevato in

reazione all’imposta. Il suo reddito netto può risultare, dopo la rimozione, maggiore, minore o

uguale al reddito iniziale in assenza dell’imposta.

b) Produrre un effetto disincentivante e far diminuire l’offerta di lavoro ed il tempo di lavoro

(rimozione negativa), così che il contribuente produce un reddito lordo inferiore a quello di partenza

e rimane con un reddito netto inferiore.

c) L’imposta potrebbe anche non avere effetti sull’offerta individuale di lavoro (assenza di rimozione).

In questo caso il contribuente avrà un reddito lordo invariato rispetto a quello prodotto in assenza

d’imposta ed un reddito netto inferiore a quello di partenza.

La rimozione ha diversi effetti a seconda che si tratti di imposta fissa, proporzionale o progressiva. Mettendo

a confronto queste imposte (a parità di sacrificio o a parità di gettito) si conclude che:

d. l’imposta fissa ha effetto incentivante al lavoro, più di un’imposta proporzionale;

e. l’imposta proporzionale e l’imposta progressiva possono determinare sia una rimozione

negativa che una rimozione positiva;

f. l’imposta progressiva ha effetti più disincentivanti di quella proporzionale.

RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE CCCOOONNN IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA FFFIIISSSSSSAAA AAA BBB

RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE CCCOOONNN IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA PPPRRROOOPPPOOORRRZZZIIIOOONNNAAALLLEEE AAA BBB

RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE CCCOOONNN IIIMMMPPPOOOSSSTTTAAA PPPRRROOOGGGRRREEESSSSSSIIIVVVAAA AAA BBB

LLLAAA ‘‘‘CCCUUURRRVVVAAA DDDIII LLLAAAFFFFFFEEERRR AAA BBB

CCCUUURRRVVVAAA DDDIII LLLAAAFFFFFFEEERRR EEE RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE AAA BBB

OOOFFFFFFEEERRRTTTAAA IIINNNDDDIIIVVVIIIDDDUUUAAALLLEEE DDDIII LLLAAAVVVOOORRROOO EEE RRRIIIMMMOOOZZZIIIOOONNNEEE AAA BBB

Un’imposta ottima sul reddito di lavoro è definita quella che minimizza l’effetto di disincentivo al lavoro e

la rimozione negativa. Un’idea che ha trovato rare applicazioni è quella dell’imposta degressiva,; in pratica,

si dovrebbero far salire le aliquote (medie e marginali) fino al punto in cui la rimozione è positiva e

l’imposta incentiva l’offerta di lavoro, poi, quando comincia a manifestarsi l’effetto di rimozione negativa e

quindi la distruzione di imponibile, le aliquote marginali dovrebbero decrescere per eliminare l’effetto

negativo. Quindi le aliquote marginali assumerebbero un andamento “ad U rovesciata”, prima crescenti e poi

decrescenti. Le proposte ricorrenti di detassazione dei redditi di lavoro più elevati (o di quelli marginali come

la remunerazione degli ‘straordinari) hanno un vago fondamento anche su questa considerazione.

La giustificazione della discriminazione tra reddito di capitale, da tassare di più, e reddito di lavoro, da

tassare di meno, è stata data in base alla ‘rendita differenziale’ che ha un reddito di capitale, che non

richiede sforzo di lavoro individuale per la sua produzione, e reddito di lavoro che invece richiede tale sforzo

ed ha una ‘penosità’.

IIIMMMPPPOOOSSSTTTEEE SSSUUULLL RRREEEDDDDDDIIITTTOOO EEE RRREEENNNDDDIIITTTAAA DDDIIIFFFFFFEEERRREEENNNZZZIIIAAALLLEEE (((WWWAAAGGGNNNEEERRR))) AAA BBB

In una prospettiva diversa si è sostenuto che il reddito di lavoro va tassato di meno rispetto al reddito di

capitale, con due tipi di argomentazioni.

77

1. Una, più antica, rilevava che il reddito di capitale rischioso andrebbe tassato meno

di un reddito di lavoro sicuro, in quanto nel reddito di capitale è incluso un

elemento di tipo assicurativo (chi rischia per produrre reddito di capitale vuol

essere ‘assicurato’ contro il rischio di perdita o diminuzione di tale reddito):

sarebbe il rischio l’elemento discriminante, in quanto a parità di valore nominale,

un reddito rischioso vale meno di un reddito sicuro;

2. Una, più recente, è la giustificazione della c.d. imposta duale sul reddito (dual

income tax), introdotta negli anni ’80-’90 del sec. XX in paesi del nord Europa

sulla base di un ragionamento pratico. Dato che i capitali sono diventati sempre

più facilmente trasferibili da un paese all’altro, gli stessi capitali si muovono

verso i paesi che tassano con aliquote più basse i rendimenti dei capitali. Pertanto,

per ragioni imposte dalla concorrenza fiscale’ tra i diversi paesi, bisogna

abbassare la tassazione su tali rendimenti ed adeguarla ai livelli di chi li tassa di

meno (fino eventualmente all’esenzione totale). Il lavoro, invece, si muove tra

diversi paesi con difficoltà molto maggiori e perciò può essere tassato di più, con

imposte progressive diversificate tra diverse nazioni. Il capitale è mobile mentre il

lavoro è immobile.

L’ammortamento dell’imposta è un effetto della tassazione del reddito di capitale. Indica la diminuzione di

valore capitale in seguito all’introduzione di un’imposta reale sul reddito di quel capitale. In pratica un

capitale, in seguito alla tassazione del suo reddito, vale di meno perché rende di meno.

Per esemplificare prendiamo un capitale K con un tasso di rendimento r e con un reddito R, secondo la

formula

R = rK, dove K = R/r e r = R/K

Si dice, con la formula, che un Reddito R si capitalizza in un Capitale K con un tasso di capitalizzazione

r. Dati due dei tre valori (R, K, r) si trova il terzo.

Introduciamo un’imposta reale di aliquota t sul reddito di capitale R, con gettito tR (uguale a T) ed un

reddito netto R(1 - t).

La seconda delle formule precedenti K = R/r si modifica in

K* = R(1-t)/r

Ora abbiamo la capitalizzazione con r di un reddito netto R(1 - t). La formula può anche essere scritta

come

K* = R/r – tR/r = R/r – T/r

Risulta che K*= K- T/r, che si può riscrivere come T/r = K – K*

Il nuovo valore capitale K* è pari al capitale iniziale K diminuito di T/r. Quest’ultima frazione indica

l’imposta capitalizzata.

Esempio. Sia K = 1.000, r = 5%, R= 50. Si applichi t = 20%.

Abbiamo T = tR = 20%50 = 10 e R - tR = 50-10 = 40.

Ora capitalizziamo R(1 - t) al tasso r: abbiamo R(1 - t)/r = 40/5% che si può

scrivere (essendo 5% pari a 5/100) come (40/5)x100 = 800. Il valore di K

(1000) si abbassa a K* (800). L’imposta capitalizzata è di T/r = (10/5)x100 =

200. Quindi K - T/r = K* = 1.000-200=800.

L’ammortamento è legato al fatto che il tasso d’interesse r rimanga

invariato. Se invece dovesse diminuire (ad es. dal 5% al 4%) nell’esempio

precedente non vi sarebbe ammortamento dell’imposta: difatti il reddito netto

R (1-t)/r diventerebbe (40/4)x100 = 1.000.

Una teoria riteneva che l’ammortamento fosse possibile solo con

un’imposta speciale su un determinato tipo di reddito di capitale, mentre

un’imposta generale, riducendo tutti i rendimenti di capitale, avrebbe ridotto

il tasso di interesse; nell’esempio precedente un’imposta generale su tutti i

78

redditi di capitale avrebbe fatto abbassare il tasso di interesse. Se r, per

ipotesi, fosse sceso dal 5% al 4% un reddito netto di 4000 si sarebbe

capitalizzato (4.000/4%) a 100.000, con lo stesso valore capitale iniziale.

3.2 Imposte personali sul reddito delle società.

L’imposta personale sul reddito delle società è stata introdotta negli S.U. nel 1913, in Italia nel 1954. Prima

si trattava di imposte speciali sui profitti di banche ed assicurazioni e poi vennero generalizzate.

Sono soggetti contribuenti le società di capitali ed altri enti industriali e commerciali, pubblici e privati.

Le giustificazioni di un’imposta autonoma sul reddito delle società (indicata anche come imposta sul

reddito delle persone giuridiche o imposta sui profitti) sono state fondate su queste affermazioni:

- colpisce una capacità contributiva maggiore delle società di capitali rispetto a quella delle persone

fisiche: la limitazione di responsabilità al valore del capitale permetterebbe alle società di capitali di

assumere maggiori rischi e di conseguire maggiori redditi rispetto alle persone fisiche ed alle società

di persone, che hanno responsabilità illimitata;

- realizza una discriminazione rispetto al reddito di lavoro con un’imposta aggiuntiva su di un reddito

di capitale;

- è strumento di politica economica, perché può essere usata per orientare gli investimenti con

variazioni delle aliquote e con crediti d’imposta;

- equivale ad un metodo di riscossione: concentrando l’imposta su pochi contribuenti di

grandi dimensioni, anziché sugli individui, si ha un gettito più sicuro. Le società,

successivamente, provvedono a far pagare le imposte alle persone fisiche includendole nei

prezzi di vendita e in pratica trasformano un’ imposta diretta sul loro reddito in un’imposta

indiretta sulle vendite, pagata dai consumatori.

In Italia l’imposta sulle società (introdotta con la l. 6.8.1954, n. 603), tassava:

- il patrimonio netto delle società con aliquota dell0 0,75%;

- il reddito complessivo eccedente il 6% di tale patrimonio con aliquota del 6%.

Se K è il patrimonio netto (capitale sociale + riserve + utili di esercizi precedenti riportati a

nuovo), tK l’aliquota dello 0,75% e tR quella del 6% il gettito è T = tKK + tR (R – 0,06K)

Soppressa nel 1974 è stata sostituita dall’imposta sulle persone giuridiche (IRPEG). L’imposta

ha poi subìto diverse trasformazioni. Nel 1978 veniva introdotto nell’IRPEG il credito d’imposta

totale, su modello tedesco. L’aliquota era del 25%, il tasso del credito d’imposta sui dividendi era

pari ad 1/3 (= 25%/75%). Nel 1983 l’aliquota era portata al 36% ed il tasso del credito d’imposta

a 9/16 (36%/64%). L’IRPEG nel 2004 è sostituita dall’imposta sulle società (IRES), con schema

più vicino alla ritenuta ‘secca’ ed al metodo classico della doppia imposizione parziale sui

dividendi.

Imposte sul profitto contabile

Con la contabilità di esercizio il bilancio di una società di capitali evidenzia, ogni anno, l’esistenza o meno

di profitti. Si vede se ha un utile (ricavi netti, i ricavi superano i costi), una perdita (costi superiori ai ricavi)

o un pareggio (ricavi uguali ai costi).

L’utile di esercizio può essere distribuito come dividendo o accantonato a riserva. I dividendi possono

provenire anche da utili di esercizi precedenti.

Per sintetizzare scriviamo:

Utili = Dividendi + Accantonamenti U = D + A.

79

UT è anche indicato con il termine di reddito della società o più semplicemente di profitto.

Come sommario di terminologia si ricordano alcuni cenni (più in dettaglio v. Codice civile)

sui conti aziendali con riguardo al bilancio di esercizio.

Nel corso dell’esercizio si hanno annualmente due flussi rilevanti:

un Flusso di Ricavi proveniente dalla Vendita di beni e servizi

un Flusso di Costi derivanti dall’acquisto e dal pagamento di fattori produttivi e dal

processo di trasformazione aziendale.

Annualmente,

se il Flusso dei Ricavi è superiore al Flusso dei Costi si ha un Utile di Esercizio

se il Flusso dei Ricavi è inferiore al Flusso dei Costi si ha una Perdita di Esercizio

Il Conto Economico è il documento di bilancio che, confrontando costi e ricavi

dell’esercizio, illustra il risultato economico della gestione evidenziando l'incremento o

il decremento del capitale netto aziendale. Dal conto economico si evidenziano i seguenti

risultati:

Risultato della gestione caratteristica. Si considerano i ricavi dalle vendite e dalle

prestazioni di servizi, dai quali vanno sottratti i costi di produzione e le spese

commerciali, amministrative e generali.

Risultato dopo la gestione (extra-caratteristica). In questa rientrano quelle operazioni

(pure ricavi e costi) estranee alla gestione caratteristica, ma che si verificano con

continuità nel corso dell'esercizio.

Risultato dopo la gestione finanziaria. È l'attività di reperimento dei mezzi finanziari

necessari all'attività dell’azienda e ad assicurare la liquidità aziendale evitando sia che

l’azienda sia sottocapitalizzata, sia un indebitamento eccessivo.

Risultato dopo la gestione straordinaria: si distinguono le componenti ordinarie e

ripetibili del reddito distinguendole da quelle straordinarie irripetibili.

Risultato prima delle imposte.

Risultato dell'esercizio derivante dalla gestione complessiva, al netto delle imposte.

Lo Stato Patrimoniale riporta gli investimenti esistenti in un determinato momento ed indica

in che modo essi sono stati finanziati, attraverso le passività ed il capitale netto. In particolare

indica alla fine dell’esercizio la situazione dell’azienda e rileva il suo effettivo patrimonio

(capitale netto).

Il Patrimonio Netto è indicato nello Stato Patrimoniale

Gli investimenti dell’impresa costituiscono il Valore Attivo

Le Risorse finanziarie costituiscono i Debiti

Patrimonio Netto = Valore Attivo – Debiti

Lo Stato Patrimoniale comprende: A) le attività o investimenti; B) le passività ed il capitale

netto.

A) Attività o Investimenti:

Le attività (assets: gli investimenti o impieghi dell'azienda), si dividono in circolanti e

immobilizzate, a seconda della possibilità di trasformarle in liquidità, entro un termine a breve

o lunga scadenza. Le attività circolanti sono l’insieme degli investimenti che rimangono

nell’azienda per un breve periodo di tempo, in quanto, essendo destinati ad un rapido impiego

o ad essere prontamente venduti o incassati, si trasformano in forma liquida a breve scadenza

(non superiore all’anno. Le attività immobilizzate (fisse) comprendono investimenti di durata

80

pluriennale in immobilizzazioni tecniche, materiali e immateriali, e immobilizzazioni

finanziarie, che resteranno vincolati all’azienda per lungo tempo, generando flussi monetari in

entrata in un periodo di tempo superiore all'anno. Le immobilizzazioni tecniche sono impieghi

in fattori produttivi che costituiscono la struttura operativa dell'impresa; si distinguono in

materiali ed immateriali. Le immobilizzazioni finanziarie includono impieghi durevoli a

carattere finanziario, come i crediti di finanziamento a medio e lungo termine e le

partecipazioni.

B) Passività e Capitale Netto

Le passività (liabilities) ed il capitale netto sono le fonti di finanziamento del capitale

investito. Indicano chi ed in che misura ha fornito il capitale necessario per finanziare le

attività. Il totale delle passività corrisponde ai debiti contratti dall’azienda con i terzi e,

dunque, rappresentano i diritti che questi ultimi vantano nei confronti dell’azienda.

Le passività a breve scadenza sono collegate a prestiti che l’azienda ottiene per

finanziare gli investimenti dell'attivo circolante e sono impegni da soddisfare entro un

termine inferiore all’anno.

Le passività a media e lunga scadenza sono le fonti esterne di finanziamento del

fabbisogno connesso agli investimenti in immobilizzazioni e comportano un impegno

al rimborso ed al pagamento di interessi ad una scadenza superiore all'anno.

Il capitale netto è pari alla differenza tra le attività e le passività patrimoniali.

Rappresenta la misura di quanto resta delle attività dopo che sono stati rimborsati tutti

i creditori nonché i soci.

Il capitale netto è costituito: a) dai conferimenti, in denaro o in natura, eseguiti dal

proprietario o dai soci al momento della costituzione dell'azienda (il c.d. capitale sociale) e

dai suoi eventuali aumenti successivi; b) dall'accantonamento a riserva degli utili

conseguiti, non distribuiti ai soci e reinvestiti nell’impresa. Il patrimonio netto aumenta in

presenza di utili non distribuiti, mentre diminuisce in conseguenza di perdite.

Riassumiamo le possibili modalità di imposizione basate sulla tassazione dell’utile, considerando una

società che distribuisca dividendi ed un socio persona fisica che li incassa. L’aliquota sul reddito della

società è t, l’aliquota marginale applicata sul reddito del socio persona fisica è tm.

1. Metodo classico (o della doppia imposizione)

Questo metodo, adottato negli Stati Uniti, comporta l’applicazione dell’aliquota t all’utile, prima che venga

distribuito.

Il gettito dell’imposta è pari a tU = tD + tA.

L’utile netto è U - tU = U(1- t); quando viene distribuito o accantonato dividendi e

accantonamenti sono già ridotti dell’imposta: pertanto

U(1- t) = D(1- t)+A(1- t).

Il dividendo è pagato ad un socio persona fisica che ha, in base al suo reddito personale, un’aliquota

marginale tm. Questa aliquota si applica sul dividendo netto, quindi l’imposta è pari a tmD(1- t). Si ha

una doppia imposizione sui dividendi, in quanto il dividendo, già tassato a livello di società con t è tassato

ancora a livello di socio con tm. Se il percettore del dividendo fosse un’altra società di capitali e risultasse

81

reddito anche per questa sarebbe tassato con t. L’accantonamento è tassato solamente con t. La doppia

imposizione si ha solo con la distribuzione dei dividendi, o dall’utile dell’anno o da accantonamenti di anni

precedenti. Questo metodo può essere un disincentivo a distribuire dividendi e ad autofinanziarsi con la

costituzione di riserve. L’aliquota marginale (variabile a seconda del reddito del socio) sul dividendo netto

può essere sostituita da un’aliquota fissa sugli utili netti distribuiti (metodo tedesco e italiano più recente).

Anche in questo caso gli accantonamenti si tassano una volta ed i dividendi due volte, pur senza essere

inclusi nell’imponibile del socio persona fisica. L’aliquota dell’imposta personale del socio persona fisica

può essere applicata su una quota dei dividendi nel caso la persona fisica abbia una partecipazione rilevante

nel capitale della società: ad es. il 10% dei dividendi ricevuti può essere tassato con tm ed il 90% con

un’aliquota proporzionale.

2. Doppia aliquota

L’aliquota t dell’imposta sulla società è sdoppiata in ta (aliquota applicata sui redditi accantonati) ed in td

(aliquota applicata sui dividendi distribuiti). L’imposta è applicata dopo che è stata deliberata la destinazione

dell’utile a dividendi ed accantonamenti.

L’imposta diventa: taA + tdD;

l’accantonamento netto è A(1 - ta);

il dividendo netto è D(1 - td).

Sul dividendo percepito da una persona fisica si applica l’aliquota marginale propria del reddito di

quest’ultima: tmD(1 - td).

Se il dividendo è incassato da un’altra società di capitali e costituisce reddito bisogna ancora attendere la sua

destinazione (a dividendo o accantonamento) prima di applicare l’imposta.

L’aliquota dell’imposta sui dividendi td è inferiore a quella sugli accantonamenti ta in quanto sui dividendi

si applicano 2 aliquote (prima td e poi tm) mentre sugli accantonamenti si applica un’aliquota sola (ta). In

pratica il sistema equivale ad una doppia imposizione attenuata sui dividendi.

E’un metodo che, in passato, ha trovato applicazione in Germania e nel Regno Unito. Se, per ragioni di

politica economica (ad es. perché un eccesso nella distribuzione di dividendi favorisce l’indebitamento o ha

effetti inflazionistici), si vogliono incentivare gli accantonamenti e scoraggiare la distribuzione di dividendi,

td potrebbe essere superiore a ta.

3. Deduzione del dividendo

Il dividendo è assimilato agli altri costi finanziari. Come gli interessi sono deducibili in quanto costi del

capitale preso a prestito (pagamenti a chi ha prestato fondi), così i dividendi sono deducibili in quanto costi

del capitale proprio (pagamenti a chi percepisce dividendi in quanto possessore di azioni). L’imposta sulle

società diventa un’imposta sui soli accantonamenti. Sul dividendo corrisposto ad una persona fisica si

applica l’aliquota marginale propria del reddito di quest’ultima.

L’imposta è

tA a livello di società;

tmD a livello di persona fisica.

Questo metodo ha trovato applicazioni temporanee in pochi paesi.

L’equiparazione nel trattamento tributario tra dividendi ed interessi favorisce la neutralità dell’imposta

rispetto alla scelta tra le fonti di finanziamento della società (capitale proprio o capitale preso in prestito).

Tale neutralità è ottenuta, in questo caso, esentando dall’imposta sulle società sia gli interessi che i

dividendi. Un altro modo di trattamento non discriminante sarebbe quello di includere nell’imponibile sia i

dividendi che gli interessi e di tassarli entrambi.

82

4. Credito d’imposta parziale

Nei sistemi di credito d’imposta la società si sostituisce al socio nel versare l’imposta. Il socio è

successivamente tenuto a calcolare eventuali conguagli o a chiedere rimborsi in base alla propria aliquota

marginale.

Il sistema del credito d’imposta parziale (metodo francese) tassa l’utile prima della sua destinazione a

dividendi e accantonamenti. Il percettore del dividendo (persona fisica o altra società) ha un credito

d’imposta inferiore all’imposta pagata a livello di società sui dividendi.

Si procede nel modo seguente:

si definiscono un’aliquota t ed un tasso percentuale di credito d’imposta c;

si applica t ad U e si ottengono l’imposta tU e l’utile netto U(1 - t);

U(1 - t) è ripartito in A(1 - t) e D(1 - t);

il socio persona fisica che riceve D(1- t) è accreditato anche di un credito d’imposta parziale pari a

cD(1 - t); il suo imponibile è pari a D(1 - t)+cD(1 - t);

su questo imponibile si calcola, in base a tm, un’imposta di tm[D(1 - t)+cD(1 - t)];

dall’imposta si detrae il credito d’imposta e si ottiene l’imposta netta:

tm[D(1 - t)+cD(1 - t)] – cD(1 - t).

Esempio: sia U =1000; t = 50%; c = 50%. Si ha:

tU = 50%1000 = 500 e U - tU = U(1 - t) = 1000 – 500 = 500

Tutto l’utile, per semplificare il calcolo, è distribuito: U(1- t) = D(1- t)

Il socio persona fisica, con aliquota tm = 20% riceve un dividendo netto di 500 ed un

credito d’imposta di cD(1 - t) = 50%500 = 250.

L’imponibile del socio è dato dalla somma di dividendo netto e credito d’imposta: 500 +

250 = 750; su 750 si applica l’aliquota marginale del 20%; 20% 750 = 150.

Da 150 si detrae il credito d’imposta di 250: 150-250= -100. La differenza, negativa,

significa che il contribuente ha diritto a ricevere un rimborso di 150 dal fisco, in quanto

l’imposta trattenuta dalla società è eccessiva rispetto all’imposta dovuta in base a tm.

Se il socio avesse avuto una tm del 60% il 60% di 750 sarebbe stato di 450 (differenza

positiva); detraendo 250 (il credito d’imposta) sarebbe rimasto da pagare un conguaglio

d’imposta di 200. L’imposta trattenuta dalla società sarebbe stata insufficiente rispetto a

quella dovuta con una tm del 60%.

Il credito d’imposta prima si somma al dividendo netto per definire l’imponibile e poi si detrae dall’imposta

calcolata per definire l’imposta netta, con eventuale rimborso o conguaglio.

Non c’è una relazione precisa tra t e c, ma il tasso del credito d’imposta è scelto in modo che la

restituzione al socio dell’imposta pagata dalla società sul dividendo sia solo parziale.

5. Credito d’imposta totale

Il sistema del credito d’imposta totale (precedente metodo tedesco-italiano) tassa l’utile prima della sua

destinazione a dividendi e accantonamenti. Il percettore del dividendo (persona fisica o altra società) ha un

credito d’imposta uguale all’imposta pagata a livello di società sui dividendi. Equivale alla deduzione del

dividendo. L’imposta sui dividendi è solo un acconto sull’imposta del percettore del dividendo.

In questo sistema c’è una relazione precisa tra t e c, poiché il tasso del credito d’imposta è scelto in modo

che la restituzione al socio dell’imposta pagata dalla società sul dividendo sia totale.

Pertanto, una volta definita l’aliquota t, il tasso del credito d’imposta c è definito in modo che

83

tU = cU(1 - t), perciò c = t/(1 - t).

c risulta essere il tasso effettivo di t. Il meccanismo, nella forma, è simile a quello del caso precedente.

si applica t ad U e si ottengono l’imposta tU e l’utile netto U(1 - t);

U(1 - t) è ripartito in A(1 - t) e D(1 - t);

il socio persona fisica che riceve D(1 - t) è accreditato anche di un credito d’imposta totale pari a

cD(1 - t) che è uguale a tD; il suo imponibile è pari a D(1 - t) + tD = D, cioè al dividendo

senza l’imposta applicata a livello della società;

su questo imponibile si calcola, in base a tm, un’imposta di tmD;

dall’imposta si detrae il credito d’imposta e si ottiene l’imposta netta:

tmD – cD(1-t).

Tutta l’imposta pagata a livello di società è accreditata al socio. Questo metodo ha trovato applicazione in

Italia dal 1978 al 2004.

Esempio: prendiamo il sistema iniziale dell’Italia (dal 1978): sia U =1000; t = 25%; c si

calcola come t/(1 - t) = 25%/(1-25%) = 25%/75% = 1/3.

Si ha:

tU = 25%1000 = 250 e U - tU = U(1 - t) = 1000 – 250 = 750

Tutto l’utile, per semplificare il calcolo, è distribuito: U(1-t) = D(1- t)

Il socio persona fisica, con aliquota tm = 20% riceve un dividendo netto di 750 ed

un credito d’imposta di cD(1 - t) = 1/3 di 750 = 250.

L’imponibile del socio è dato dalla somma di dividendo netto e credito d’imposta:

750 + 250 = 100; su 100 si applica l’aliquota marginale del 20%; 20% 1000 =

200.

Da 200 si detrae il credito d’imposta di 250: 200-250= -100. La differenza,

negativa, significa che il contribuente ha diritto a ricevere un rimborso di 50 dal

fisco, in quanto l’imposta trattenuta dalla società è eccessiva rispetto all’imposta

dovuta in base a tm.

Se il socio avesse avuto una tm del 60% il 60% di 1000 sarebbe stato di 600

(differenza positiva); detraendo 250 (il credito d’imposta) sarebbe rimasto da

pagare un conguaglio d’imposta di 350. L’imposta trattenuta dalla società sarebbe

stata insufficiente rispetto a quella dovuta con una tm del 60%.

6. Ritenuta sui dividendi.

Un metodo piuttosto semplice è quello di applicare un’aliquota t sull’utile, come nel caso del sistema

classico e poi di aggiungere un’altra aliquota fissa t1 sui dividendi netti:

prima tU = tA + tD e poi t1D(1 - t). Questa seconda imposta si può considerare:

o definitiva: in questo caso il contribuente non paga più nulla, in particolare non deve fare

riferimento alla propria aliquota marginale tm se è persona fisica (ritenuta a titolo

definitivo d’imposta o ritenuta secca). Questo metodo si avvicina a quello della doppia

aliquota o anche del sistema classico, con un aggravio di tassazione dei dividendi rispetto

agli accantonamenti, con un’imposta personale t ed un’imposta reale t1.

84

o Di acconto: in questo caso al percettore del dividendo è comunicato l’importo trattenuto

dalla società t1D(1 - t) come acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Il

socio contribuente dovrà prima includere dividendo netto e acconto nell’imponibile,

applicare l’aliquota tm, calcolare l’imposta lorda, da questa detrarre la ritenuta di acconto

t1D(1 - t) e vedere se deve ricevere un rimborso oppure pagare un conguaglio. Il

meccanismo funziona come il credito d’imposta, senza che esista la necessità, per il socio, di

calcolare da sé il credito d’imposta partendo dal dividendo netto.

Talora la scelta tra ritenuta definitiva o ritenuta di acconto è un’opzione del contribuente, il quale preferirà

la ritenuta secca se la sua aliquota marginale tm è superiore a t1. Opterà per la ritenuta di acconto se prevede

di ottenere un rimborso dal fisco, in quanto t1 è superiore a tm. Con questo sistema si agevolano i redditi

con aliquote marginali più elevate.

Qualche sistema prevede l’inclusione obbligatoria nel reddito tassato con tm del dividendo con ritenuta

d’acconto solo per i soci che hanno una partecipazione qualificata al capitale azionario e quindi sono

azionisti di controllo, mentre gli altri hanno una tassazione con ritenuta secca.

7. Il regime della trasparenza

Tratta le società di capitali come le società di persone e implica l'imputazione del reddito ai soci

indipendentemente dall'effettiva percezione degli utili. La società trasparente o partecipata non risulta

debitrice nei confronti dell'Erario, in quanto i responsabili sono i soci. Al socio persona fisica, con aliquota

marginale tm, viene imputata, in base alla partecipazione al capitale, una quota di utile, senza distinguere tra

accantonamenti e dividendi. Quindi pagherà tmD + tmA. Il contribuente paga anche su di un imponibile

(gli accantonamenti) che non è entrato nella sua disponibilità immediata come i dividendi.

8. Imposte a base mista

Le società di capitale possono essere tassate anche con imposte che non assumano immediatamente il

reddito netto come imponibile, ma possono far riferimento anche al patrimonio netto o lordo.

Il patrimonio netto (K) è il capitale proprio, definito come somma del capitale sociale (sottoscritto e

versato: il capitale azionario nelle società per azioni) e delle riserve.

Il patrimonio lordo comprende il patrimonio netto e il capitale di terzi preso in prestito = capitale azionario

+ capitale obbligazionario.

L’imposta sul patrimonio netto può essere aggiuntiva rispetto all’imposta sul reddito. Oltre all’applicazione

di questa ci può essere un’altra imposta di aliquota tk, con gettito tkK. Questa può anche essere detraibile

dall’imposta sul reddito.

Una variante dell’imposta a base mista consiste nel differenziare il reddito da tassare: una parte di tale

reddito può essere considerato ‘rendimento normale’ del patrimonio netto e tassato come gli interessi, mentre

si applica l’imposta sulle società sulla parte eccedente (anche questa è stata definita imposta duale).

Altre modalità d’imposta sono state suggerite:

a) la tassazione della somma di dividendi e interessi, per la neutralità sulle scelte di finanziamento,

mantenendo la deducibilità delle quote annuali di ammortamento.

b) La tassazione della differenza tra:

entrate complessive della società (escluse le entrate derivanti dalla vendita di azioni) –

spese totali, incluse quelle per investimenti, eliminando gli ammortamenti annuali.

c) La tassazione della somma di dividendi, accantonamenti e interessi, eliminando la deducibilità

degli ammortamenti e permettendo la deducibilità integrale, nell’anno di acquisto, delle spese per

beni di investimento (v. infra, imposta sul Flusso di Fondi).

85

La tassazione di una base ancora più estesa includendo in c) anche i ricavi da operazioni finanziarie

della società.

Di recente sono state introdotte, nelle strutture d’imposta sulle società in diversi paesi, alcuni principi.

La regola della capitalizzazione sottile (Thin Capitalization Rule o thin cap) consiste nell’assimilare agli

utili distribuiti la remunerazione di finanziamenti eccedenti un dato rapporto capitale proprio/capitale di

terzi.

Il trattamento differenziato di dividendi ed interessi costituisce causa di non neutralità. Di solito i dividendi

sono trattati come imponibili e gli interessi come costi deducibili. Perciò sugli interessi INT la società

risparmia tINT, e questo rappresenta un risparmio sul costo (interessi netti) del capitale preso a prestito.

Invece sono tassati i rendimenti del capitale proprio (dividendi ed accantonamenti) e questo rappresenta una

riduzione dei rendimenti stessi. Questa discriminazione è un incentivo all’indebitamento ed inoltre potrebbe

indurre un socio a fare prestiti alla società di cui è azionista per eludere un’imposta sulle società.

Ad es. il socio Tizio presta 1000 alla sua società ed incassa 100 di interessi, anziché incassare 100 di

dividendi. La convenienza sta nel fatto che, se 100 di interessi sono tassati al 10% mentre 100 di dividendi

sono tassati al 40%, Tizio con gli interessi incassa 90, mentre con i dividendi incasserebbe 60. Allora

prestando fondi alla sua società trasforma i dividendi in interessi. Nell’esempio precedente gli interessi

sarebbero deducibili come costo e farebbero scomparire i 100 di dividendi. Per evitare che il finanziamento

con debito sia eccessivo rispetto al patrimonio proprio della società, si adotta il sistema della thin cap, che

consiste nel considerare eccessivi gli interessi oltre un certo limite, assimilandoli ai dividendi e tassandoli

come questi. E’ una misura che vuole limitare la sottocapitalizzazione e l’eccesso di indebitamento,

determinando gli interessi indeducibili in presenza di finanziamenti da parte dei soci. Questa disciplina

prevede l'indeducibilità, dal reddito imponibile della società, della remunerazione dei finanziamenti erogati o

garantiti da un socio qualificato, che abbia una partecipazione azionaria al di sopra di un livello minimo. Gli

interessi passivi per effetto dell’applicazione della thin cap sono quelli erogati o garantiti dal socio

qualificato intendendo per tali quelli derivanti da mutui, da depositi di danaro e da ogni altro in eccedenza di

un determinato valore del rapporto indebitamento/patrimonio netto (varia da 4/ 1 a 2/1 nei diversi paesi).

L’esenzione delle partecipazioni (Participation Exemption - PEX). Sono talvolta previste esenzioni

dall’imposta sulle società per le cessioni di partecipazioni costituenti patrimonio immobilizzato, dopo che

queste sono state tenute da una società di capitali per un periodo minimo (ad es. 1 anno). La percentuale di

esenzione può essere variabile (del 100% o di una percentuale inferiore) e può essere previsto un livello di

partecipazione minima (es. 5%) al capitale della società le azioni della quale vengono cedute. L’asimmetria

tra l’esenzione della plusvalenza da cessione di azioni e la deducibilità della minusvalenza possono

rappresentare occasioni di risparmio fiscale per la società. Se le plusvalenze sono esenti le minusvalenze, per

simmetria, non dovrebbero essere deducibili. Una pratica elusiva è quella del dividend washing. Consiste

nell’acquisto di azioni prima della distribuzione di dividendi e nella successiva cessione dopo aver incassato

il dividendo. Con la vendita si determina una riduzione di valore del titolo e ne consegue una minusvalenza

in capo a chi vende. Si può avere un effetto di elusione dell’imposta sulle società se è ammessa l’esenzione,

o una tassazione ridotta, dei dividendi e la deducibilità piena delle minusvalenze realizzate su azioni

vendute.

La tassazione del consolidato. Si è diffusa la tassazione consolidata di gruppo di società di capitali,

realizzata con la somma algebrica degli imponibili, aggregando i dati di tutte le società che partecipano al

gruppo in unica dichiarazione. Si distingue tra:

Consolidato domestico o nazionale

E’ previsto quando la società controllante (capogruppo) è residente oppure ha una stabile

organizzazione nel paese che applica la tassazione su base imponibile consolidata. L’opzione per la

tassazione di gruppo può essere esercitata esclusivamente dalle società controllate residenti. Sono

considerate controllate le società in cui la capogruppo detiene, direttamente o indirettamente, la

maggioranza dei diritti di voto.

86

Consolidato multinazionale o mondiale

Per evitare effetti di doppia imposizione, può essere previsto il riconoscimento delle imposte pagate

all’estero mediante il meccanismo del credito d‘imposta ed il concorso dei redditi prodotti all’estero alla

formazione del reddito base imponibile del gruppo. Diversamente da quanto avviene con il consolidato

nazionale il consolidamento multinazionale delle basi imponibili avviene in base al criterio

proporzionale di partecipazione (si effettua la somma algebrica degli imponibili proporzionali alle quote

di partecipazione). E’ inclusa nel consolidamento solo la quota di utile o perdita detenuta dal gruppo.

L’ imposta personale sulla spesa delle persone fisiche

L’imposta personale sulla spesa è una proposta ricorrente, soprattutto in Gran Bretagna (1955,

1978) e negli Stati Uniti (1930, 1947, 1977) che nasce fin da T. Hobbes (1588-1679) nel

Leviathan (1651, ch. XXX) e dalle riflessioni di John Stuart Mill nei Principles (1848, Book V,

ch. 2) e che vuole esentare il risparmio dall’imposta sul reddito. Storicamente ha trovato solo rare e

temporanee applicazioni. Si rinvia ai lavori di W. Vickrey (1914-1996), N. Kaldor, An

Expenditure Tax (1956), I. Fisher (1867-1947), U.S. Treasury Blueprints for basic tax reform

(1977) ed in Italia a L. Einaudi (1874-1961).

Nello schema teorico si applica un’imposta progressiva sul reddito guadagnato diminuito del

risparmio ed aumentato del consumo di risparmio ed i debiti. La spesa in beni di consumo durevole

e diretto (come l’abitazione) viene ammortizzata: il loro valore è tassato pro quota su base

pluriennale.

L’imposta personale sulla spesa tende ad accertare la spesa con un metodo personale indiretto,

costruendo la base imponibile (spesa personale lorda) come risultante dalla differenza tra il potere

di spesa teorico in un anno ed il residuo di fine anno:

(A +B + E) – (C+D), dove

A Incassi correnti 1. Saldi delle disponibilità monetarie (conti bancari e denaro liquido) all’inizio dell’anno;

2. incassi correnti (monetari e reali) come stipendi, interessi, dividendi, quote.

B Incassi in conto capitale 3. donazioni, eredità, vincite occasionali;

4. denaro preso in prestito e denaro ricevuto in restituzione di prestiti;

5. incassi da vendite di beni di investimento e di beni di consumo durevole (inclusi gli

immobili).

C Spesa lorda in conto capitale

6. Denaro dato in prestito o denaro trasferito per estinguere precedenti prestiti;

7. Acquisto di beni di investimento (inclusi gli immobili);

8. Saldi delle disponibilità monetarie (conti bancari e denaro liquido) a fine anno.

D 9. Spese personali esenti;

10. Ammortamenti delle spese in beni durevoli di uso diretto (come le abitazioni);

E 11. Quota di spese in beni durevoli sostenute in anni precedenti e incluse nell’anno in corso.

L’imposta sul Flusso di Fondi della società di capitali

Le imposte sui profitti generalmente applicate sono imposte sui profitti contabili. La base è costituita dai

profitti correnti reali, distribuiti o accantonati. Sono deducibili gli interessi netti sui debiti, una quota di

ammortamento corretta per il tasso di inflazione. Si aggiungono le plusvalenze reali sulle attività della società,

si correggono in base all’inflazione i valori delle azioni ed i valori monetari di attivo e passivo. Questa struttura

è piuttosto complessa da realizzare completamente, perciò si applica con delle approssimazioni, in particolare

87

per gli adeguamenti dei valori monetari all’inflazione.

E’ stata avanzata in Gran Bretagna (1978) una proposta di imposta sul flusso di fondi che merita qualche

attenzione, anche se non ha avuto conseguenze pratiche. Si veda Meade Committee: The structure and reform

of direct taxation.

L’imponibile è costituito dalla differenza tra

Flussi in entrata (INFLOWS) e Flussi in uscita (OUTFLOWS)

La base imponibile è rappresentata dal flusso di fondi (flow of funds)

Si distingue tra:

Imposta su base reale R

Imposta su base reale (R) e finanziaria (F) R+F

Imposta su base reale, finanziaria ed azionaria (R+F+S)

Tipo di Base Imponibile Flussi in entrata (INFLOWS) Flussi in uscita (OUTFLOWS)

Reale R Vendita di prodotti, servizi,

attività fisse reali

Acquisto di materiali, lavoro

(salari), attività fisse reali

Finanziaria R + F Nuovo indebitamento, interessi

incassati, riduzione di liquidità

Restituzione di debiti, interessi

pagati, aumento di liquidità

Azionaria S Aumento di azioni proprie,

diminuzione di azioni di altre

società, dividendi ricevuti da altre

società

Riduzione di azioni proprie,

aumento di azioni di altre società,

pagamento di dividendi

Imposte..T Imposte rimborsate Imposte pagate

Totale dei flussi netti (INFLOWS - OUTFLOWS) R+F+S+T

La base imponibile può essere costruita includendo flussi di diverso tipo:

1 - Imposta sul flusso di fondi reali R (base R)

RICAVI TOTALI - RETRIBUZIONI - ACQUISTI (materie prime, beni per la produzione, servizi,

investimenti) =

VALORE AGGIUNTO - RETRIBUZIONI - INVESTIMENTI =

DIVIDENDI + ACCANTONAMENTI + INTERESSI - INVESTIMENTI

2 - Imposta sul flusso di fondi reali e finanziari R + F

Alla base R si aggiunge la base F

R + VARIAZIONE DELL’INDEBITAMENTO DELLA SOCIETA’ +

(INTERESSI ATTIVI – INTERESSI PASSIVI) =

PROFITTI + VARIAZIONE DELL’INDEBITAMENTO - INVESTIMENTI

3 - Imposta sul flusso di fondi reali, finanziari e della variazione della base azionaria R + F + S

88

Gli ammortamenti

L’ammortamento è un procedimento contabile con cui si iscrive a bilancio il

deprezzamento di un bene strumentale, per obsolescenza, come quota di costo annuale

rispetto alla spesa di acquisto. I beni di investimento, strumentali per la produzione e le

vendite, rimangono in uso in più esercizi.

L’obsolescenza è il processo di invecchiamento di un bene strumentale. E’ dovuto sia al

passaggio del tempo che alle modifiche di tecnologia. Per definire la quota del valore del

bene che viene dedotta in ogni esercizio si deve fare riferimento ad un costo, che può essere:

costo storico (costo originario o costo di acquisto) del bene strumentale, oppure

costo di sostituzione (o di riacquisto) riferito ad un bene sostitutivo, identico

oppure analogo per caratteristiche.

Il costo dell’investimento va ripartito negli anni di utilizzo del bene e le quote di costo

deducibile (quote di ammortamento) sono determinate in ogni esercizio aziendale.

Vanno definiti:

- Il periodo di ammortamento: il numero di anni nei quali sarà

presumibilmente utilizzato il bene strumentale.

- Il valore residuo: quello che avrà il bene strumentale una volta trascorso il

periodo di ammortamento (è il valore di rivendita o, se inutilizzabile,

l’eventuale valore di rottamazione).

Se A è il valore annuale di ammortamento e t l’aliquota, l’imponibile, al netto degli altri

costi deducibili, diventa R - A e l’imposta è t(R - A). - tA è il risparmio d’imposta

realizzato con l’ammortamento.

Le quote di ammortamento possono essere uguali in ogni esercizio oppure possono essere

variabili.

Abbiamo quindi metodi differenti di ammortamento.

- Ammortamento lineare o a quote costanti

Si divide il costo storico del bene strumentale per il numero di anni in cui lo stesso va

ammortizzato. La risultante è la quota di ammortamento deducibile ogni anno dai ricavi.

Esempio. Il valore da ammortizzare in 4 anni sia 1000. Si calcola 1000/4 = 250 ed in

ognuno dei quattro anni si ammortizza la quota di 250.

- Metodo delle unità di produzione

Si fonda sull’assunzione che il deprezzamento di un bene di investimento si basi

esclusivamente sull’uso, mentre il trascorrere del tempo non ha rilevanza. La durata

della vita di un bene è espressa nella forma della sua capacità produttiva. La quota di

ammortamento si calcola dividendo il costo ammortizzabile per la capacità produttiva e

si determina un tasso di ammortamento per unità di utilizzo (il numero di unità di

produzione stimate nella vita utile del bene stesso). Le unità di utilizzo vengono

misurate, ad esempio, con la quantità di prodotti, le ore di utilizzo, le quantità

trasportate, il chilometraggio di percorso, ecc.. Il metodo si applica quando l’utilizzo di

un bene presenta forte variabilità da un anno all’altro.

- Metodi di ammortamento accelerato

Si abbrevia il periodo di ammortamento e si calcolano quote di ammortamento

maggiori per i

primi anni, assumendo che un bene perda in questi primi anni quote maggiori del

proprio valore

iniziale. Comprendono alcuni metodi:

89

1. Sum of the Years Digits (SYD)

Si calcola in anni la durata di un bene ammortizzabile e poi si sommano gli anni. Ad

es., se la durata prevista è di 10 anni si sommano

10 + 9 + 8 + 7 + 6 +5 + 4 + 3 + 2 + 1 = 55

La quota di ammortamento del primo anno è pari a 10/55, la quota del secondo anno a

9/55, del terzo anno a 8/55 e così via.

2. Double Declining Balance Depreciation (DDBD)

Con questo metodo si applica prima un ammortamento lineare. Poi si raddoppia la

percentuale di ammortamento del primo anno. In ciascuno degli anni successivi la stessa

percentuale è moltiplicata per il residuo da ammortizzare. Alla fine si ammortizza la

quota lineare.

… Esempio. Si ammortizza in 4 anni un valore di 1000. A quote costanti si avrebbero

quote di 250 l’anno, corrispondente al 25% di 1000. Raddoppiando la percentuale al

50% si ammortizzano:

1° anno il 50% di 1000 500 (valore residuo 500)

2° anno il 50% di 500 250 (valore residuo 250)

3° anno 250 (valore residuo 0).

Quando il valore residuo è uguale, o inferiore, al valore corrispondente alla quota

lineare (250) la quota di ammortamento è uguale a quest’ultima. In pratica si applica un

tasso costante sul valore residuo. Nell’esempio il periodo si riduce da 4 a 3 anni.

- L’ammortamento istantaneo prevede la deducibilità immediata, nell’anno di acquisto,

dell’intero importo della spesa di acquisto di un bene di investimento.

Il magazzino

Nel magazzino entrano beni che verranno utilizzati per la produzione. Vi sono quindi beni

in entrata ed in uscita. La determinazione annuale del valore del magazzino è importante per

stabilire:

a) il valore delle merci giacenti in magazzino a fine esercizio;

b) i costi delle merci entrate nella produzione nel corso dell’esercizio, costi che

servono a determinare il livello del reddito netto.

Si utilizzano diversi metodi di calcolo.

1. Costo ad identificazione specifica. Ogni merce (bene intermedio o materia prima)

giacente in magazzino è valutata col relativo costo specifico effettivo. Si sommano i

valori di acquisto dei beni rimasti in giacenza nel magazzino.Tale metodo si può

applicare se le giacenze sono formate da beni identificabili e di valore elevato per

ciascuna unità.

2. Costo medio ponderato. Si calcola con la media aritmetica ponderata dei valori di

acquisto, senza distinguere tra i periodi in cui sono entrati i beni in magazzino. Con

tale metodo i beni omogenei, acquistati o prodotti in periodi diversi e con costi

diversi, sono valutati a un costo pari alla media ponderata dei vari costi di acquisto.

90

3. Costo standard. L’azienda calcola un valore normale (standard) del singolo bene,

tenendo conto:

a) del valore medio degli acquisti dai fornitori; b) del tempo impiegato per la

produzione; c) del

grado di utilizzo dei macchinari,. Il costo standard dipende dall’esperienza e dalla

capacità

produttiva dell’azienda e dalle condizioni d’acquisto nel mercato.

4. Metodo FIFO (first in first out: il primo entrato è il primo uscito). La merce entrata

per prima in magazzino è la prima ad uscire. Si assume che l’entrata di una merce

nel ciclo di produzione segua la stessa sequenza temporale con cui è entrata in

magazzino.

Esempio: in corso d’anno entrano in magazzino due beni eguali in tempi diversi, il

primo ad un costo di 60, il secondo ad un costo di 80. Si produce un solo bene

venduto a 100. Col FIFO dal ricavo di 100 si sottrae 60 (il costo del bene entrato

prima) con un reddito netto di 40 e si immagina che in magazzino sia rimasto quello

che vale 80. Si dice che il magazzino è valutato al costo più recente ed il reddito al

costo più antico.

5. il metodo LIFO (last in first out: l’ultimo entrato è il primo uscito). La merce

entrata per ultima in magazzino è la prima ad uscire. Si assume che l’entrata di una

merce nel ciclo di produzione segua la sequenza temporale inversa rispetto a

quella con cui è entrata in magazzino.

Nell’esempio precedente: col LIFO dal ricavo di 100 si sottrae 80 (il costo del bene

entrato dopo), con un reddito netto di 20 e si immagina che in magazzino sia

rimasto quello che vale 60. Si dice che il magazzino è valutato al costo più antico

ed il reddito al costo più recente.

6. il metodo NIFO (next in, first out: il prossimo entrato è il primo uscito): dal ricavo

si sottrae il costo di riacquisto o di sostituzione del bene in magazzino.

Indicizzazione dell’ imposta sulle società

L’inflazione ha effetti distorsivi sull’imposta che colpisce il reddito delle società, in

particolare se è commisurata al profitto contabile.

Un esempio. Una società di capitale acquista un bene strumentale al costo storico CS, che

viene ammortizzato in quote annuali A1, A2, A3, A4. Ad es. un CS = 1000 è ammortizzato a

quote annuali di 250 in 4 anni. In presenza di inflazione le quote di ammortamento perdono

valore. Con un tasso d’inflazione nel primo anno pari a δ la quota A1 perde valore e diventa

A1/(1+ δ). Con δ = 10% la quota vale 250/1,1. Un’indicizzazione completa dovrebbe

prevedere l’adeguamento di A1 ad A1/(1+ δ) (250 x 1,1 = 275). Senza indicizzazione il

risparmio d’imposta tsA1,dove ts è l’aliquota dell’imposta sulle società. è pure svalutato. I

correttivi possono essere basati su diversi metodi.

1. Metodo diretto. Il capitale sociale KS è composto da beni generalmente acquistati in

anni diversi a costi storici diversificati nel tempo. K è composto da diversi cespiti

rivalutabili, K1, K2,…, Kn. Questi cespiti vengono rivalutati con coefficienti di

rivalutazione differenziati a seconda della tipologia di cespite e della distanza

temporale dell’acquisto. Un cespite acquistato in anni più lontani avrà un

coefficiente di rivalutazione maggiore rispetto ad un cespite della stessa natura

acquistato in tempi più recenti. Sul saldo di rivalutazione, che va ad aumentare Ks,

si applica un’imposta proporzionale speciale.

91

Tipologia

di K

Coefficienti

di

rivalutazione

Saldo di

rivalutazione

Coefficienti di

ammortamento

Ammortamenti

aggiuntivi

K1 = 1000 5% 50 40% 20

K2 = 2000 6% 120 50% 60

Kn = 2500 10% 250 70% 175

KS = 5500 Tot 420 Tot 255

2. Metodo indiretto. Anziché rivalutare direttamente le singole componenti di KS si il

totale KS con un coefficiente unico di rivalutazione. Il saldo di rivalutazione,

tassato con imposta speciale ed aggiunto a KS, è ripartito, a discrezione della

società, tra le componenti K1, K2,…, Kn. Quindi può essere attribuito a cespiti che si

sono svalutati di più o di meno rispetto al tasso d’inflazione, e alcuni cespiti

possono anche non essere rivalutati. La società può voler attribuire una quota

sproporzionata ad un cespite che intende vendere, perché così facendo si riduce o si

annulla una plusvalenza (differenza tra valore di vendita e valore di acquisto ad un

costo storico più che rivalutato).

IV. Altre imposte

1. Tassazione dei plusvalori e dei redditi finanziari

- Tassazione dei plusvalori

- Tassazione dei redditi finanziari e dei fondi pensione

2. Le imposte patrimoniali

- Imposta ordinaria sul patrimonio

- Imposte sui trasferimenti

- Imposte di successione

3. Imposte indirette

- Tipologie

- Imposta sul valore aggiunto

4. Le imposte straordinarie

5. Principi di tassazione internazionale

6. Effetti delle imposte

92

1. Tassazione dei plusvalori e dei redditi finanziari.

Tassazione dei plusvalori

Per plusvalore, o incremento di valore patrimoniale, si intende un incremento di valore di un cespite

(capitale fisico, come un immobile, un bene di consumo durevole, o capitale finanziario, come un’azione,

un’obbligazione) da un momento di tempo T0 ad un momento successivo T1. Ad es. un’abitazione acquistata

a 200 mila euro in T0 viene rivenduta a 280 mila euro in T1 (ad es. dopo 10 anni). Come si intende, da un

punto di vista fiscale, la differenza di valore (80 mila euro)? Non è reddito prodotto né nuovo patrimonio

(la consistenza fisica dell’immobile è la stessa). Rientra in una categoria diversa dal reddito e dal patrimonio.

Intanto si deve trattare di un incremento reale. Dal momento T0 a T1 il livello generale di prezzi P può

essere aumentato, pertanto il valore differenziale deve essere corretto. Se dK è la variazione di valore del

cespite, questa deve essere corretta per la variazione del livello generale dei prezzi.

Si compra un bene immobile (ad es. un appartamento) a 200.000 € e dopo un po’ lo si rivende a 240.000 €.

Si acquistano in borsa a 40.000 € alcune azioni di una società quotata e, passato del tempo, le si rivendono a

60.000 €. Come si interpreta la differenza tra prezzo di rivendita e prezzo di acquisto (240.000 – 200.000 per

l’appartamento, 60.000 - 40.000 = 20.000 per le azioni)? Indica la disponibilità di un quantitativo di moneta

superiore a quello impiegato per l’acquisto, ma non si tratta di reddito prodotto, in quanto a quelle differenze

non corrisponde un flusso di nuovi beni o servizi, né si tratta di un trasferimento. E’ un incremento di valore

patrimoniale, concettualmente diverso da reddito. Si usa anche il termine plusvalore. Come già detto, per le

società si usa il termine plusvalenza (e minusvalenza, se si tratta di una perdita: ad es. un bene strumentale

acquistato da una società a 100 viene rivenduto a 80, con una perdita di 20).

La distinzione tra reddito e plusvalore è fatta, secondo un’interpretazione di studiosi tedeschi alla fine del

sec. XIX, in base all’intendimento speculativo. E’ da ricercare nella psicologia del contribuente, in quanto si

tratta dell’intento preordinato di lucrare la differenza tra prezzo di rivendita e prezzo di acquisto. Non avendo

riscontri oggettivi tale intendimento, si ricorre ad una distinzione empirica basata su di un elemento

temporale.

Due elementi sono necessari per definire il plusvalore tassabile.

Uno è il periodo di tempo nel quale si forma un plusvalore: lo stesso plusvalore di 100 si può

formare in 2 anni oppure in 5 anni, ed è considerato meritevole di tassazione più pesante quello che

si forma nel periodo più breve.

L’altro elemento è la percentuale di variazione del valore iniziale del cespite, che è un elemento

patrimoniale, reale (ad es. un terreno, un fabbricato) o finanziario (ad es. un’azione,

un’obbligazione). Lo stesso plusvalore di 100 si può formare rispetto ad un cespite del valore

iniziale di 1000 (un plusvalore del 10%) oppure rispetto ad un cespite del valore iniziale di 10.000

(un plusvalore dell’1%). Si considera meritevole di tassazione più pesante quello che si forma

rispetto ad un cespite di valore iniziale inferiore e che corrisponde ad una percentuale di incremento

maggiore.

Pertanto le aliquote delle imposte si plusvalori hanno una progressività funzione inversa del tempo di

formazione ed in funzione diretta della percentuale di variazione del valore iniziale.

I plusvalori si possono formare per:

variazioni di prezzi di alcuni patrimoni (reali o finanziari) superiori alle variazioni del livello

generale dei prezzi;

previsioni di maggiori reddito futuro da un patrimonio (attualizzazione di redditi futuri maggiorati)

aspettative di aumenti di domanda futura di certe categorie di patrimoni

variazioni dei tassi di interesse per capitali che danno redditi fissi.

PPPLLLUUUSSSVVVAAALLLOOORRRIII EEEDDD rrr AAA BBB

I plusvalori possono essere tassati come il reddito o con un’imposta speciale.

93

a) Tassati come il reddito: un plusvalore può essere incluso nel reddito imponibile, assimilato a questo

e tassato con le normali imposte sul reddito. Ciò accade:

- con le società di capitali, i plusvalori (plusvalenze) che si formano da cessioni di beni reali e

finanziari sono generalmente inclusi nell’imponibile;

- con le persone fisiche quando i plusvalori dipendono da un intendimento speculativo che si

verifica quando un soggetto compie un’operazione intenzionale di compravendita di un cespite,

con acquisto ad un prezzo più basso del valore di vendita per speculare sulla differenza.

L’intendimento speculativo si presume in base al tempo che intercorre tra acquisto e rivendita.

Per gli immobili, di solito si considera un tempo inferiore ai 5 anni; per gli strumenti finanziari

un periodo più breve.

b) Tassati con imposte speciali:

- per le società di capitali, distinguendo le plusvalenze realizzate con la cessione di beni

strumentali, tassate come reddito, da quelle realizzate con la cessione di partecipazioni

finanziarie, tassate con aliquota più bassa e con un’imposta reale;

.

- Per le persone fisiche: si ricorre ad imposte progressive speciali. Queste imposte hanno le

seguenti proprietà:

1. tassano il plusvalore netto, deducendo la componente dovuta ad inflazione: tengono conto

dell’incremento di prezzi che c’è stato tra l’acquisto e la cessione del cespite.

2. Le aliquote sono progressive non in funzione dell’ammontare dell’imponibile, ma in funzione di due

elementi:

a) delle percentuali di incremento del valore del cespite;

b) dell’intervallo di tempo intercorso tra acquisto e cessione.

Esempi. Un plusvalore netto di 100 si può essersi formato su di un valore di 1000

(10%) o di 10000 (1%): il primo va tassato più del secondo.

Tra due plusvalori di 100, formatisi su due cespiti uguali di 1000, ma il

primo formato in 6 anni, il secondo in 10 anni, si dovrà tassare il primo

con un’aliquota maggiore rispetto al secondo.

Per discriminare in base all’intervallo si può prevedere una deduzione D, dal plusvalore netto

(PN), proporzionale (secondo un tasso percentuale b) all’intervallo tra acquisto e cessione (ad

es. di n anni) secondo la formula D = nbPN. In questo modo quando il periodo è abbastanza

lungo (15 - 20 anni) l’imponibile si annulla ed il plusvalore non è più tassato.

La tassazione che considera l’intervallo di tempo può dar luogo ad un c. d. effetto di ritenzione

(lock in), che è un caso di non neutralità. Il contribuente può essere incentivato a differire il

realizzo del plusvalore con la vendita del cespite perché più tempo passa e più si riduce

l’imposta. Si può prevedere, per attenuare questo effetto, che siano pagati interessi sul

differimento dell’imposta.

E’ importante selezionare il momento della tassazione. Si possono individuare due momenti.

- Il momento della formazione del plusvalore. Il plusvalore è rilevante fiscalmente nel momento in cui si

forma l’incremento di valore di un cespite, anche se questo non viene trasferito. E’ di applicazione

complessa. E’ più facile da individuare per le società di capitali se c’è l’obbligo di esporre in bilancio il

plusvalore nell’esercizio in cui si forma, mentre è più difficile per le persone fisiche.

94

- Il momento del realizzo. Il plusvalore è imponibile quando è effettivamente monetizzato con una cessione

del cespite (vendita di un immobile, di azioni). E’ il sistema adottato generalmente per le persone fisiche.

E’ possibile un rinvio (deferral) dell’imposta se i proventi della cessione vengono reinvestiti in cespiti della

stessa tipologia. Ad esempio, si vende una casa di abitazione per comprarne un’altra; si vendono azioni per

comprarne altre. Il reinvestimento fa sì che non si applichi l’imposta sui plusvalori, la quale è rinviata al

momento in cui la cessione dei cespiti non comporti reinvestimenti.

Tassazione dei plusvalori: modalità

I valori nominali variano nel tempo e in seguito a variazioni dei prezzi. Tali

variazioni possono riguardare solo i singoli cespiti oppure possono riguardare la

variazione del livello generale dei prezzi P.

Esempio

Sia K0 il cespite nel momento M

0, K

n il valore nominale di K nel momento M

n,

ΔK è l’incremento nominale di valore nell’intervallo M0 - M

n,

δ = ΔP/P è la variazione percentuale del livello generale dei prezzi P nell’intervallo

M0 - M

n.

K0 K

n ΔK δ = ΔP/P K

0 (1+δ) ΔK

r

100 110 10 10% 110 0

100 110 10 5% 105 5

100 110 10 20% 120 -10

L’incremento di valore patrimoniale ΔKr si calcola indicizzando K in M

n: K

0 (1+δ) e

facendo la differenza ΔKr = K

n - K(1+ δ).

Il plusvalore reale può essere tassato in modo diverso. Intanto tale valore può essere

ridotto in base al tempo nel quale si è formato. Se il tempo è espresso in numero di

anni n, si può fissare una percentuale z , prima da moltiplicare per n e poi da sottrarre

da ΔKr. Ad es. se la percentuale z è del 10% la riduzione per tre anni è del 30%, per 6

anni del 60%, per 8 anni dell’80%: dopo 10 anni il plusvalore non è più tassabile.

a) Si può utilizzare l’imposta personale progressiva sul reddito del percettore

del plusvalore, con due modalità.

1. Il plusvalore è tassato con un’aliquota media (fissa o mobile) come

un reddito fluttuante (v. supra);

2. Il plusvalore è incluso nello scaglione marginale dell’anno e tassato

con l’aliquota marginale propria.

In queste ipotesi il plusvalore non viene tassato nella sua totalità, ma con un

abbattimento (del 40-50%).

b) Si ricorre ad un’imposta progressiva speciale. In questo caso la progressività

è funzione di due elementi: 1. L’ammontare del plusvalore reale, 2. la

percentuale di incremento reale di K. Si può vedere una formula.

Si prefissa un’aliquota t ed una deduzione nzΔKr : l’imposta si calcola con

T = t[ΔKr - nzΔK

r].

t è calcolata in funzione crescente della percentuale ΔKr/K: ad es.

ΔKr/K t

5% 6%

10% 12%

20% 25%

95

Si può ricorrere ad un’imposta progressiva a scaglioni: ad es.

1° scaglione la parte di ΔKr

fino al 10% di K aliquota 6%

2° scaglione la parte di ΔKr

dal 10% e fino al 25% di K aliquota 15%

3° scaglione la parte di ΔKr oltre il 25% di K aliquota 26%

Tassazione dei redditi finanziari e dei fondi pensione

I redditi finanziari (ad es. gli interessi su obbligazioni pubbliche e private, su depositi, i rendimenti di fondi

comuni, ecc.) possono essere tassati con diverse modalità.

- Solo con imposte reali, considerate imposte sostitutive dell’imposta personale. Persone fisiche e

società di capitali non devono includere nel proprio reddito imponibile i redditi finanziari

incassati. Chi eroga (ad es. una banca che paga interessi sui depositi, una società che ha emesso

obbligazioni) redditi finanziari (INT) deve versare al fisco un’imposta con aliquota

proporzionale tr di ammontare trINT e pagare ai percettori di interessi un reddito netto di

INT (1 - tr).

- Con imposte personali: prima si applicano imposte reali che sono considerate ritenute

d’acconto, poi si applicano imposte personali (di persone fisiche o di società di capitali);

se tm l’aliquota marginale della persona fisica, questa pagherà

tm [INT(1 - tr) + trINT] – trINT.

- Talora il fisco opera una distinzione: se il percettore è una persona fisica il reddito finanziario è

tassato solo con l’imposta reale, se è una persona giuridica è tassato con ritenuta d’acconto e poi

con l’imposta personale.

I fondi pensione sono costituiti da contribuenti che versano contributi periodici ad un fondo (aziendale,

assicurativo, bancario). Questi contributi si accumulano e daranno diritto a prestazioni pensionistiche.

In base a questi 3 momenti (versamento dei contributi, redditi di capitale che si accumulano nel fondo,

pagamento di pensioni) si possono distinguere diverse modalità di tassazione:

Schema EET, è il modello consigliato a livello di UE:

- esenzione dei contributi(E) nel senso di deducibilità dal reddito imponibile individuale;

- esenzione dei redditi di capitale percepiti durante l’accumulazione nel fondo, cioè i rendimenti

maturati dalle attività (E);

- tassazione delle prestazioni pensionistiche erogate (T).

Schema ETT: deducibilità dei contributi (E), tassazione dei redditi di capitale (T), tassazione delle

prestazioni (T).

Schema TEE: indeducibilità dei contributi (T), esenzione dei redditi degli investimenti

finanziari (E), esenzione delle prestazioni (E).

Schema TTE: tassazione dei contributi, non deducibili (T), tassazione dei redditi di

capitale durante l’accumulazione (T), esenzione delle prestazioni pensionistiche (E).

96

3. Le imposte patrimoniali

Imposta ordinaria sul patrimonio

Le imposte sul patrimonio, che è uno stock (consistenza) definito anche con i termini ‘cespite’ e ‘capitale’,

e che può avere diversa natura (immobiliare, come terreni e fabbricati, mobiliare fisico, come macchinari e

beni mobili di consumo durevole, finanziario come moneta, titoli, depositi, fondi) possono essere:

- Dirette: sono imposte ordinarie ed annuali, su patrimoni in proprietà, possesso o oggetto di diritti

reali.

- Indirette sui trasferimenti (imposte sui trasferimenti immobiliari o di beni mobili registrati, imposte

sulle successioni e sulle donazioni): si applicano in occasione di eventi particolari (trasferimenti),

e non su base annuale.

Inoltre si classificano in:

- Reali: sono commisurate ad una tipologia di patrimonio (es. immobili, beni di consumo durevole,

cespiti finanziari).

- Personali (o sul patrimonio netto): si commisurano alla somma di elementi patrimoniali riferiti ad

un soggetto, persona fisica o giuridica, somma corretta per i debiti contratti per acquisire componenti

del patrimonio personale.

- Generali: sono imposte che si applicano su tutti i patrimoni.

- Speciali: colpiscono solo alcuni tipi di patrimoni (ad es. gli immobili o solo le abitazioni, come le

imposte sulla proprietà (property tax).

Si tratta di imposte di origine molto remota, come il censo presso l’antica Roma e l’antica Grecia e molto

diffuse nel medioevo.

La giustificazione dell’esistenza di imposte patrimoniali nell’ordinamento tributario si fonda su alcune

considerazioni.

- Il patrimonio è un indicatore di capacità contributiva come il reddito ed il consumo e di per sé

genera redditi e consumi. In molti casi è un indicatore più completo del reddito.

- I patrimoni danno prestigio sociale e sicurezza economica: si tratta di utilità che non sono colpite da

un’imposta sul reddito.

- Le variazioni patrimoniali sono meglio tassabili se è colpito direttamente il patrimonio: si ricordi il

concetto di reddito-entrata.

- In base al principio del beneficio gli incrementi dei patrimoni dovuti alla spesa pubblica (ad es. gli

effetti delle infrastrutture urbanistiche sui valori degli immobili) con la tassazione patrimoniale

evidenziano un rapporto di scambio tra spese ed imposte (l’antico ruolo dello Stato come tutore

della proprietà)

- I trasferimenti di patrimoni per donazione e successione, che non trovano fondamento nel lavoro e

nel merito individuale e che sono causa di forti disuguaglianze, rappresentano imponibili

storicamente preferenziali per finalità redistributive.

Il patrimonio è un imponibile costruito con diverse modalità, variabili a seconda delle tipologie di cespiti.

97

- Alcuni patrimoni si possono valutare correttamente in base al loro valore di mercato, dedotto dai

prezzi di vendita; è il metodo più sicuro e più realistico, ma applicabile solo quando i patrimoni sono

scambiati in mercati abbastanza efficienti.

- Altri patrimoni sono ricostruiti attraverso una capitalizzazione dei redditi: il valore del patrimonio

(stock) è ricavato dall’attualizzazione dei redditi futuri previsti (flussi) e generati dallo stesso

patrimonio: è un metodo che si presta ad essere utilizzato per alcuni redditi/patrimoni finanziari,

quando sono noti i tassi di attualizzazione, mentre per altri può essere improprio (ad es. valutando

un immobile capitalizzando canoni di locazione);

- Altri patrimoni sono definiti in base a valori accertati dal fisco, attraverso riferimenti a patrimoni

noti, con presunzioni ed approssimazioni: è il metodo meno affidabile, che può creare sperequazioni

tra i contribuenti, ricorsi contro il fisco, perdite di gettito.

All’imponibile patrimonio si applicano le aliquote. Per le imposte dirette (reali e personali) sul patrimonio:

sia K l’imponibile, tk l’aliquota e Tk l’imposta. Avremo

Tk = tkK.

Si noti che l’imposta sul reddito è in realtà un’imposta sul reddito patrimoniale, ma che è commisurata al

patrimonio K anziché al reddito R e decurta in reddito, non il patrimonio. Si dice che non deve essere ad

incidenza patrimoniale, nel senso che non deve obbligare il contribuente a vendersi parte del patrimonio per

ottenere la liquidità necessaria per pagare l’imposta. Pertanto l’imposta deve essere contenuta nel rendimento

annuale del patrimonio tassato (rK, dove r è il tasso di rendimento di K).

Vi è quindi un’equivalenza tra imposta commisurata al patrimonio K ed un’imposta commisurata al reddito

R del patrimonio stesso (R = rK).

Per questa equivalenza dovrà essere

tR = tkK . Poiché K = R/r abbiamo tR = tk R/r e quindi

t = tk/r e tk = tr

relazioni che indicano come passare da un’aliquota ad un’altra, su due diversi imponibili, R e K, per avere

parità di gettito.

Questa equivalenza non è sempre vera in quanto esistono patrimoni infruttiferi che, anche

temporaneamente, non danno reddito (un terreno non coltivato, un’immobile non locato e non utilizzato,

un’azione che non dà dividendi). Altri patrimoni danno un reddito psicologico (è il caso dei beni di lusso, dei

beni di antiquariato, dei gioielli, delle opere d’arte, delle collezioni), ma non un reddito monetario. In questi

casi non si può tassare un reddito patrimoniale, ma deve essere tassato direttamente il valore del patrimonio.

L’imposta sul patrimonio è utilizzata come complemento dell’imposta sul reddito e non come sostituto.

Essa permette di:

a) discriminare tra reddito di lavoro ed altri redditi;

b) avere un effetto incentivante, se induce ad utilizzare un cespite in modo fruttifero, in modo da avere

redditi per pagare l’imposta;

c) tassare il reddito psicologico che sfugge ad una definizione economicamente precisa, ma che

rappresenta un’utilità per il contribuente e quindi tassare redditi non compresi nel reddito entrata;

d) realizzare una progressività nel sistema tributario che le imposte sul reddito da sole non possono

dare.

Progressività, regressività ed imponibili.

Il concetto di imposta progressiva si riferisce ad un determinato imponibile. Può succedere che:

a) un’imposta proporzionale su un imponibile sia progressiva se riferita ad un altro imponibile, e

b) un’imposta proporzionale su un imponibile sia regressiva su di un altro imponibile.

98

Vediamo il caso a). Si prenda un’imposta generale sul patrimonio K e si vedano tre imponibili crescenti. Si

è empiricamente constatato come il reddito, per le famiglie che abbiano sia K che R, normalmente cresca in

modo meno rapido rispetto a quello con cui crescono i patrimoni (nell’esempio, se un patrimonio si triplica il

reddito raddoppia). Sia tk = 1%.

Patrimoni K Redditi R Imposta su K (=tkK) tkK/R

1000 100 10 10/100 = 10%

3000 200 30 30/200 = 15%

9000 400 90 90/400 = 22,5%

Si vede come un’imposta proporzionale generale sul patrimonio si comporta come un’imposta generale

progressiva sul reddito. La conclusione è dovuta allo statistico Rodolfo Benini (negli anni ’20 del sec. XX).

IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII BBBEEENNNIIINNNIII AAA BBB

Il caso b) si può illustrare con un’imposta speciale sul patrimonio. I valori dei patrimoni speciali (ad es. le

abitazioni) crescono più lentamente dei redditi delle famiglie proprietarie. L’esempio diventa, con tk = 1%

Patrimoni K Redditi R Imposta su K (= tkK) tkK/R

1000 100 10 10/100 = 10%

1500 200 15 15/200 = 7,5%

2000 400 20 20/400 = 5%

Un’imposta speciale proporzionale sul patrimonio può essere regressiva se riferita al reddito. Dato che tali

imposte patrimoniali speciali sono abbastanza diffuse (negli USA con la property tax, in paesi europei con

imposte locali sul patrimonio immobiliare) sono stati introdotti alcuni correttivi proprio per evitare o limitare

gli effetti di regressività, ad es.: a) limitando l’imposta speciale ad una quota del reddito complessivo della

persona fisica o della famiglia; b) concedendo esenzioni, parziali o totali (come per l’abitazione di

residenza, o con una deduzione fissa); c) differenziando le aliquote per tipologie o valore degli immobili,

così da approssimare un’imposizione progressiva (o almeno proporzionale, quando riferita al reddito) pur

utilizzando un’imposizione di tipo reale.

Imposta sul patrimonio ed imposta sul reddito: la neutralità rispetto al rischio

Il rendimento del patrimonio sicuro è inferiore a quello del patrimonio rischioso. Chi rischia pretende un

rendimento maggiore. Questo maggior rendimento include un ‘premio di rischio’, da intendersi come una

modalità di assicurazione, un reddito che potrebbe essere pagato ad una società di assicurazioni per

trasformare il patrimonio da rischioso in sicuro. Perciò, al netto di questo premio, sarebbero uguali i

rendimenti netti del patrimonio rischioso e di quello sicuro.

Un esempio.

Siano KR e KS capitale rischioso e sicuro, entrambi = 1000. Il rendimento di KS sia di r = 5%, di

KR sia r* = 10%, dove r* = r + a. Questo 10% risulta composto da un 5% (r) uguale al tasso di

rendimento di KS più un altro 5% (a) che indica il premio percentuale per il rischio. Il rendimento

di KS è di rKS = 50, quello complessivo di KR di r*KR = 100 (50 + 50), ma quello netto è di 50,

così come per KS.

99

Un’imposta sul reddito con t = 20%:

- per il reddito del capitale sicuro

trKS = 20% 50 = 10 , il reddito netto è 50-10=40;

- per il reddito del capitale rischioso

tr*KR = 20% 100 = 20; il reddito netto è 100 – 20 = 80. Da questo reddito netto va tolta la

componente dovuta al rischio, che è rimasta pari ad aKR = 50, e si ha 80 – 50 = 30: il reddito netto

di KR è diventato inferiore al reddito netto di KS.

L’imposta sul reddito colpisce tutto il reddito senza distinguere tra reddito e componente dovuta

alla presenza di rischi. Pertanto riduce il reddito netto di più per i capitali rischiosi,

disincentivando gli investitori e orientandoli verso patrimoni sicuri, discriminando a favore di

questi ultimi. I redditi dei capitali rischiosi determinano, al netto dell’imposta sul reddito, un

processo di ammortamento dell’imposta più forte rispetto ai redditi dei capitali futuri,e quindi alla

fine sarà KS > KR.

Un’imposta sul patrimonio con tK = 1%

KS = 1000 KR= 1000

tKKS = 10 e rKS- tKKS = 50 -10 = 40 tKKR = 10 r*KR - tKKR - aKR = 100 -10 - 50 = 40

L’imposta sul patrimonio lascia inalterato il rendimento netto perché non tassa la quota

corrispondente al maggior rischio e non influisce sulla scelta tra patrimoni sicuri e patrimoni

rischiosi.

Il rischio è la probabilità di perdita che possono avere un valore capitale o un reddito. Si

distingue tra:

a) rischio di capitale: è la probabilità di perdita di un capitale, ed è il rischio più grave:

b) rischio di reddito: è la probabilità di perdita di un reddito che, temporaneamente, può non

manifestarsi (ad es. un dividendo, un canone di locazione), ma non implica perdita del

capitale;

c) rischio di liquidità: indica la possibile difficoltà di trasformare un patrimonio, reale o

finanziario, in forma liquida (in moneta) con una vendita, per temporanee difficoltà di

mercato.

Un’imposta ordinaria sul patrimonio venne istituita in Italia nel 1939 (rdl

12.10.1939, n. 1529) e soppressa nel 1947, dopo essere stata trasformata in

imposta straordinaria, che anticipava (i.e. attualizzava) il gettito futuro

dell’imposta ordinaria. Colpiva, con aliquota dello 0,5%, poi elevata a 0,75%

il patrimonio netto, di persone fisiche e giuridiche, costituito da beni esistenti

nello Stato.

Per notizie storiche v. il Progetto Meda (1919), nonché di C. Cosciani,

L’imposta ordinaria sul patrimonio nella teoria finanziaria (1940). In

Francia l’impôt sur les grandes fortunes introdotta nel 1982 è stata soppressa

nel 1987 e sostituita con l’ impôt de solidarité sur la fortune nel 1989: 6

scaglioni, con aliquote da 0,55% a 1,80% ed un elevato limite di esenzione

iniziale (CGI artt. 885 sgg).

Imposte sui trasferimenti patrimoniali

Sono imposte di origine piuttosto antica e che si commisurano a trasferimenti inter vivos di elementi

patrimoniali, reali o finanziari. Hanno avuto, ed hanno ancora, particolari funzioni, come:

100

1. approssimare un’imposizione annuale sul patrimonio: anziché tassare il patrimonio anno per anno, lo si

tassa al momento del trasferimento: in questo modo si ritiene che si possa semplificare, come costi di

amministrazione e come costi per il contribuente, la tassazione ordinaria;

2. approssimare la tassazione dei plusvalori formatisi su beni immobili o su prodotti finanziari: tassando

l’intero valore di cessione, al momento del trasferimento, si riducono le difficoltà di calcolo del plusvalore

incluso;

3. essere sostitutive di imposte indirette generali:

a) le imposte indirette generali si applicano quando il soggetto che vende (o, più in generale,

trasferisce) è un’impresa;

b) le imposte sui trasferimenti patrimoniali si applicano quando il soggetto che vende è una persona

fisica.

In Italia nel 1923 venne istituita, riordinando imposte precedenti, l’imposta di registro,

vigente ancora oggi, che tassava le trasmissioni di proprietà e di altri diritti reali, insieme

agli atti in forma pubblica e privata, giudiziali e stragiudiziali, i contratti relativi a beni

immobili; l’imposta era determinata con aliquote progressive, proporzionali o fisse, a

seconda degli atti imponibili.

Dal 1973 è in regime di alternatività all’IVA: sostituisce l’IVA quando in un atto di

cessione il cedente non è un’impresa.

Si consideri la possibilità di equivalenza tra un’imposta annuale Ta = taK ed

un’imposta sui trasferimenti TT = tTK.

Vi sia un tasso di interesse r. Lo spostamento di un’imposta annuale Ta all’anno

successivo comporta il pagamento di un interesse rTa, così che il totale nel secondo

anno diventa Ta(1+r); se si sposta di due anni si aggiunge un ulteriore interesse di

rTa(1+r) ed il totale diventa Ta(1+r)(1+r) = Ta(1+r)2. Lo spostamento in avanti

all’anno n fa diventare l’imposta pari a Ta(1+r)n.

Una successione di imposte annuali Ta + Ta + Ta +…+ Ta = taKn equivale a

Ta(1+r)n +…+ Ta(1+r)

2 +Ta(1+r) +Ta = taK[(1+r)

n +…+ (1+r)

2 + (1+r) + 1]

L’aliquota che permette di eguagliare la somma dei gettiti di un’imposta annuale al

gettito di un’unica imposta sui trasferimenti è tT = ta[(1+r)n +…+ (1+r)

2 + (1+r) +

1]: l’aliquota dell’imposta annuale è moltiplicata in funzione dei tassi di interesse

annuali e cresce in funzione dell’intervallo devolutivo.

Le imposte sui trasferimenti oltre ad essere state considerate un’alternativa pratica ad imposte ordinarie sul

patrimonio e ad imposte sui plusvalori, possono avere un ruolo come misure di politica economica. Ad es.,

come già ricordato (Tobin tax), e come pure accennato già da Keynes, imposte sui trasferimenti di titoli ed in

genere di prodotti finanziari negoziati in borsa servono per rallentare (come ‘sand in the wheels’) i processi

di contrattazione e scambio nei mercati finanziari che, se troppo accelerati, possono generare bolle

speculative o crolli dei corsi, innescando pericolose euforie o momenti di panico.

101

Imposte sulle successioni e sulle donazioni

Sono tra le imposte più antiche (come quella istituita da Augusto con una Lex Julia Vicesimaria del 5 d.C.

che tassava la vicesima (pars) hereditatum et legatorum, al 5%). La giustificazione economica dell’imposta

sulle successioni è stata basata sul ‘diritto di coeredità’ che avrebbe lo Stato sui patrimoni trasferiti

mortis causa, o anche sul recupero di imposte sui consumi non effettuati dal de cuius in vita.

La struttura è generalmente consistente di due componenti:

- un’imposta sull’asse ereditario netto (il valore patrimoniale dei cespiti lasciati dal de cuius,

diminuito dei debiti): è un’imposta patrimoniale personale, sul patrimonio netto, progressiva con una

forte deduzione iniziale;

- imposte sulle singole quote ereditarie: le quote sono tassate con imposte progressive; queste

imposte sono progressive in funzione del grado di parentela (più stretto è il vincolo di parentela

dell’erede con il de cuius, tanto più basse sono le aliquote).

Sono state proposte diverse strutture di imposte sulle successioni:

- un’imposta solo sulle singole quote ereditarie: a questa è stata successivamente affiancata (in Italia

nel 1923) l’altra imposta, sull’asse ereditario netto, che sostituisse un’imposta annuale sul

patrimonio.

- Un’imposta progressiva in cui le singole quote di eredità prima di essere tassate dovessero essere

sommate al patrimonio dell’erede, così da far aumentare le aliquote marginali in funzione della

ricchezza di quest’ultimo.

- Un’imposta discriminata in funzione dell’età dell’erede: quanto più giovane è l’erede tanto più

gravosa dovrebbe essere l’imposta, in quanto le aspettative di utilizzo del patrimonio ricevuto in

eredità sono riferite a tempi più lunghi, pertanto, a parità di aliquote, il valore del patrimonio

dovrebbe stimarsi calcolando l’usufrutto presumibile del patrimonio stesso, in base alle tavole di

mortalità ed alle aspettative di vita dell’erede, e poi capitalizzando l’usufrutto.

- Un’imposta discriminata in funzione del numero di passaggi per via ereditaria: la quota di eredità

di un solo passaggio (proprietà accumulata dal testatore e trasmessa all’erede) andrebbe tassata

normalmente; quella già ricevuta in eredità dal testatore e trasmessa all’erede andrebbe tassata al

50%, quella frutto di due passaggi ereditari andrebbe tassata al 100% e confiscata. La logica della

proposta si trova nel rapporto tra lavoro del de cuius e patrimonio ricevuto dall’erede. Si ritiene più

meritato il patrimonio realizzato dal de cuius con il proprio lavoro in vista della trasmissione

ereditaria, rispetto a quello accumulato da soggetti precedenti e già trasmesso una o due volte in

eredità. E’ il progetto formulato da Rignano (1901) e ripreso successivamente per incentivare la

mobilizzazione dei patrimoni con trasferimenti inter vivos, ostacolando la concentrazione ereditaria

nelle famiglie.

L’imposta sulle successioni include le donazioni, per evitare una facile elusione dell’imposta attraverso una

donazione che precede il passaggio di eredità. Quindi le donazioni già ricevute dall’erede si sommano

(istituto della c.d. collazione) alla quota ereditaria e l’imposta si calcola sul totale. Al momento della

donazione è già pagata in acconto un’imposta che poi verrà in detrazione dall’imposta sulle successioni.

102

3. Le imposte indirette

Tipologie

Storicamente le imposte indirette nascono come imposte speciali di fabbricazione, accise, imposte di bollo,

imposte speciali ad valorem. Colpiscono il produttore o il venditore di un bene o servizio. Un esempio sono

le gabelle, ad es. sul sale. Il metodo di applicazione è abbastanza semplice. L’imposta speciale si può

commisurare alla quantità (ed essere un’imposta unitaria Ti) e quindi sommarsi al prezzo unitario (p+Ti) o

al costo di produzione, oppure si può commisurare, con aliquota ti, al prezzo, p(1+ti). Le imposte indirette

speciali, specifiche o ad valorem, hanno particolari effetti e caratteristiche.

In primo luogo si deve vedere qual è il massimo gettito di un’imposta specifica/ad valorem, problema già

affrontato da J. Dupuit.

IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII DDDUUUPPPUUUIIITTT ––– 111 AAA BBB

IIILLL TTTEEEOOORRREEEMMMAAA DDDIII DDDUUUPPPUUUIIITTT ––– 222 AAA BBB

La relazione tra imposta indiretta, domanda individuale ed eccesso di pressione, in modo da

definire imposte indirette ottime, è fondata su due regole.

- Regola di Ramsey (da F. P. Ramsey): per minimizzare l’eccesso di pressione complessivo le

aliquote delle imposte indirette, per ottenere un gettito complessivo dato, devono essere scelte in

modo da determinare riduzioni percentuali uguali nella quantità domandata di ciascun bene. Ne

segue la

- Regola dell’elasticità inversa: se due beni non sono collegati nel consumo (non sono complementari

né surrogati) le aliquote di imposte indirette ottime devono essere inversamente proporzionali

all’elasticità della domanda di ciascun bene: devono essere tassati con aliquote più alte i beni a

domanda più rigida.

LLLAAA RRREEEGGGOOOLLLAAA DDDEEELLLLLL ’’’EEELLLAAASSSTTTIIICCCIIITTTAAA ’’’ IIINNNVVVEEERRRSSSAAA AAA BBB

Tali regole spiegano come imposte indirette ad aliquota unica su tutti i beni non siano ottime. Le

aliquote dovrebbero, invece, essere differenziate a seconda dell’elasticità. Si tratta di un principio

teorico di scarsa praticità, sia perché è difficile determinare l’elasticità della domanda individuale

(si tratterebbe di imposte ‘individualizzate’), sia perché andrebbero tassati di più i consumi

necessari, a domanda più rigida, con effetti evidenti di regressività rispetto al reddito.

Intorno agli anni ’30 del sec. XX nascono le imposte indirette generali, che poi si diffondono nei paesi

europei negli anni ’40 e ’50. L’origine delle imposte indirette generali è fatta risalire fin alla centesima

rerum venalium di Giulio Cesare, all’alcabala spagnola introdotta intorno al 1340. Gabella ed alcabala

hanno probabilmente la stessa etimologia.

Si distinguono le fasi a) della produzione e b) della distribuzione. Sia nella produzione che nella

distribuzione possono esservi più fasi, ciascuna corrispondente ad una diversa impresa. Nella produzione vi

può essere un produttore di materie prime, un successivo produttore di semilavorati ed infine un produttore

103

del prodotto finito. Nella distribuzione vi può essere un venditore all’ingrosso (grossista), che acquista il

prodotto finito dall’ultimo produttore, ed un venditore al dettaglio (dettagliante), che acquista dal grossista e

poi vende al consumatore finale. Il processo di cessione/acquisto che va dal produttore al venditore al

dettaglio è detto a valle; in senso inverso, dal venditore al dettaglio verso il primo produttore, è a monte.

Il movimento a valle è così indicato:

produttore => grossista => dettagliante => consumatore finale

In questa sequenza avremo 3 prezzi: quello pagato dal grossista al produttore pg, quello pagato dal

dettagliante al grossista pd, quello pagato dal consumatore al dettagliante pc (il prezzo finale).

Nel movimento a valle i prezzi crescono.

Il grossista aggiunge, al prezzo pg pagato al produttore, sia i costi da lui sostenuti (acquisti di

materiali di consumo, spese per beni strumentali, costi di energia, di trasporti, di assicurazioni, di

vigilanza, ecc.) sia il valore aggiunto (i redditi corrisposti ai lavoratori, i canoni di locazione, gli

interessi, il suo margine di profitto) ed include tutto questo, insieme a pg, nel prezzo pd fatto pagare

al dettagliante.

Il dettagliante aggiunge al prezzo pd i suoi costi ed il suo valore aggiunto e li trasferisce in pc,

aumentando il prezzo al consumatore.

L’obiettivo delle imposte indirette generali è di tassare i valori, espressi nei prezzi di scambio tra imprese

fino ai consumatori finali, che si formano nei processi di produzione e vendite. L’imposta può essere

applicata sull’intero prezzo del bene o servizio, comprensivo del valore aggiunto e degli acquisti (valore

pieno), oppure sul valore aggiunto, scorporando gli acquisti dai redditi formati in quella fase di produzione

o distribuzione.

L’imposta indiretta generale può essere applicata:

- in una sola fase, vale a dire in un solo passaggio da un imprenditore ad un altro (imposta monofase);

- in più fasi, quindi in più passaggi tra imprenditori (imposta plurifase).

Imposta monofase

Si applica in una sola fase, ad esempio:

1. nel passaggio dal produttore al grossista (monofase alla produzione: è pagata dal grossista al

produttore, che poi la versa al fisco);

2. nel passaggio dal grossista al dettagliante (monofase all’ingrosso: è pagata dal dettagliante al

grossista, che la versa);

3. nel passaggio dal dettagliante al consumatore finale (monofase al dettaglio o pura: è pagata dal

consumatore finale al dettagliante, che la versa).

L’imposta monofase può essere commisurata al prezzo di un bene o servizio (pg, pd o pc) come imposta

speciale, o all’insieme dei prezzi di vendita (fatturato) di un’impresa. Può essere generale o speciale.

Imposte plurifase cumulative

Le imposte plurifase, che si applicano in tutte le fasi della produzione e della distribuzione, o comunque in

più fasi, possono essere a) cumulative, e b) non cumulative.

L’imposta plurifase cumulativa è la più antica delle imposte indirette generali di tipo moderno.

Diffusa in Europa a partire dagli anni ’30 del sec. XIX, è stata sostituita, negli anni ’60 -’70 del sec. XX,

dall’imposta sul valore aggiunto (in Italia nel 1973), che è un’imposta plurifase non cumulativa. In Italia

l’imposta plurifase cumulativa ha avuto la forma di un’imposta generale sull’entrata (IGE) dal 1940 al

1972. L’IGE aveva un’aliquota normale (3,30-4%) e tante aliquote maggiorate (fino al 20%).

104

Le modalità di applicazione sono semplici.

- L’imposta è pagata dall’acquirente sul prezzo pieno (che include le imposte pagate in precedenza).

Non si tiene conto delle imposte già pagate, che sono incorporate nel prezzo.

Esempio. L’impresa A vende a B ad un prezzo di 100. B paga un’imposta del 10% (= 10) ed il

prezzo diventa 110. B vende a C aggiungendo un suo margine, di costi e di valore aggiunto, di 50 ed

il prezzo complessivo è di 160 (110+50) sul quale si applica un’aliquota del 10% (=16); il prezzo

complessivo è di 176. L’imposta del 10% si applica su di un imponibile che comprende l’imposta

precedente di 10 (c.d. effetto a cascata o cumulo dell’imposta).

- L’ammontare dell’imposta dipende dal numero di passaggi tra imprese prima di arrivare al

consumatore finale. Meno passaggi comportano minori imposte. Se A e B si fondono e vendono a C

per 150 (senza dover pagare la prima imposta su 100) si pagherebbe solo 15 (10% su 150).

L’imposta, pertanto, non è neutrale rispetto alla struttura di un processo produttivo ed incentiva le

imprese ad integrarsi, nel senso di fondersi ed assumere più fasi al loro interno, evitando il

replicarsi dell’imposta sull’imposta.

- L’imposta non è facilmente individuabile nel prezzo all’esportazione, dato che non sono noti i

passaggi precedenti, pertanto è difficile o impossibile procedere al rimborso dell’imposta

all’esportazione in termini esatti: i vecchi sistemi di rimborso, con tariffe forfetarie, diventavano

sussidi all’esportazione, quando si restituiva più dell’imposta pagata o tassavano parzialmente le

esportazioni quando il rimborso era solo parziale.

2. Imposta plurifase non cumulativa (imposta sul valore aggiunto - IVA).

Ha origine da un’imposta francese ‘a pagamenti frazionati’ della fine degli anni ’40 del secolo scorso.

L’obiettivo è quello di approssimare una monofase al dettaglio tassando solo il valore aggiunto in ogni fase

in cui si forma e di non ostacolare il commercio internazionale.

- L’imposta è pagata dall’acquirente sul prezzo netto (che non include le imposte pagate in

precedenza). Si tiene conto delle imposte già pagate, che sono scorporate nel prezzo.

Esempio. L’impresa A vende a B ad un prezzo di 100. B paga un’imposta del 10% (= 10) ed il

prezzo per B è di 110. B vende a C aggiungendo un suo margine, di costi e di valore aggiunto, di 50

ed il prezzo complessivo per C è di 160 (110+50). Ora l’aliquota del 10% si applica su 150 e non su

160 (=15). C calcola 15, ma siccome B ha già pagato 10, C paga solo la differenza (15 – 10 = 5). Il

prezzo per B è di 165 (150+15). L’imposta del 10% si applica su di un imponibile che esclude

l’imposta precedente di 10 pagata da A.

- L’ammontare dell’imposta non dipende dal numero di passaggi tra imprese prima di arrivare al

consumatore finale. Se A e B si fondono l’imposta rimane dello stesso importo (15), solo che

verrebbe pagata in unica soluzione. L’imposta è neutrale rispetto alla struttura di un processo

produttivo e non incentiva le imprese ad integrarsi.

- L’imposta è facilmente individuabile nel prezzo all’esportazione ed è possibile procedere al

rimborso dell’imposta all’esportazione.

Esistono diverse tipologie di imposte plurifase non cumulative sul valore aggiunto.

1. IVA per addizione o per somma

L’imponibile è costruito, a livello di impresa e di contabilità aziendale, sommando i redditi distribuiti ai

fattori di produzione: redditi di lavoro dipendente (RLD), profitti (sia accantonamenti che dividendi)

(UT), interessi (INT), rendite (es. canoni di locazione) (RN), compensi a terzi (CT). L’insieme delle

remunerazioni pagate dall’impresa ai fattori di produzione (lavoro, capitale, ecc.) costituisce il valore

aggiunto.

Data un’aliquota ti, l’imposta è Ti = ti (RLD+UT+INT+RN+CT).

L’imponibile a livello aggregato coincide con il valore aggiunto aggregato o prodotto nazionale lordo,

calcolato come somma delle remunerazioni dei fattori di tutte le imprese.

105

Questa imposta richiede che siano deducibili, a livello di ciascuna impresa, per evitare doppie imposizioni:

a) i redditi ricevuti da altre imprese e già assoggettati a tassazione;

b) le quote di ammortamento degli impianti.

La struttura dell’IVA per addizione, commisurandosi a tutti i redditi prodotti, si avvicina ad un’imposta

diretta generale sul reddito, con la differenza che non riduce direttamente l’importo dei redditi prodotti

come un’imposta sul reddito.

Esempi di questa modalità di tassazione si ritrovano, nella forma di business taxes, in alcuni stati degli S.U.

2. IVA per sottrazione o differenza

In questo genere di imposta sul valore aggiunto all’imponibile valore aggiunto si arriva operando una

sottrazione tra due termini. Le modalità di applicazione sono suddivisibili in due gruppi.

2a. IVA PER SOTTRAZIONE SU BASE EFFETTIVA

L’imposta vuole tassare il valore aggiunto della produzione. L’imponibile si costruisce sottraendo dal

valore della produzione dell’anno (VPA) il valore degli acquisti (effettuati nell’anno oppure in periodi

precedenti) immessi nella produzione dell’anno (VAP).

L’imposta è Ti = ti(VPA-VAP).

Non conta se i prodotti dell’anno sono venduti interamente o sono conservati in magazzino, come

scorte, per essere venduti in esercizi successivi.

L’effetto dell’imposta è di tassare le scorte derivanti dalla produzione dell’anno che verranno

vendute successivamente. L’impresa è obbligata ad anticipare l’imposta rispetto alle entrate

provenienti dalla vendita futura delle scorte.

2b. IVA PER SOTTRAZIONE SU BASE FINANZIARIA

L’imposta tassa il valore aggiunto calcolato su vendite ed acquisti. L’imponibile è definito come differenza

tra fatturato di vendite dell’anno (FVA) e fatturato di acquisti dell’anno (FAA). Il fatturato delle vendite

dell’anno può dipendere sia dalla vendita di prodotti dell’anno che dalla vendita di prodotti di anni

precedenti conservati in magazzino. Egualmente gli acquisti dell’anno si possono riferire a prodotti immessi

nella produzione dell’anno o conservati in magazzino per essere immessi nella produzione di anni futuri.

Il valore aggiunto tassabile è VA = FVA – FAA.

Per le spese di acquisto di beni di investimento a durata pluriennale si hanno diverse possibilità:

Iva tipo prodotto: non sono deducibili gli acquisti di beni pluriennali di investimento (c.d. IVA al

lordo degli impianti): era la prima e più antica struttura dell’imposta sul valore aggiunto in Francia.

Iva tipo reddito: sono deducibili da FVA anche le quote di ammortamento dei beni pluriennali

(c.d. IVA al netto degli ammortamenti).

Iva tipo consumo: gli acquisti di beni di investimento sono interamente deducibili da FVA

nell’anno in cui è sostenuta la spesa (c. d. IVA al netto delle spese per gli impianti). E’ la modalità

attuata nei paesi dell’UE.

L’IVA per differenza può essere applicata con due modalità:

con il sistema della deduzione base da base: prima si fa la differenza tra i fatturati di vendite ed

acquisti e poi si applica l’imposta: Ti = ti(FVA – FAA). Era un progetto tedesco di

applicazione dell’imposta in sede di Comunità Europea, che però non venne adottato.

Con il sistema della detrazione imposta da imposta: l’imposta applicata sugli acquisti è detratta

dall’imposta calcolata sulle vendite: Ti = tiFVA – tiFAA. Prima si calcolano le imposte e poi si

fa la differenza tra le imposte. Questo era il metodo francese, che venne adottato per tutti i paesi

della Comunità Europea in seguito alle Direttive del 1967.

106

Esempio. In un anno un’impresa vende con un fatturato di 600 (FVA) ed acquista con un fatturato di 400

(FAA). Il valore aggiunto imponibile è FVA - FAA = 600 – 400 = 200. Sia ti = 20%.

Con la deduzione base da base: ti(FVA – FAA) = 20%(600 – 400) =

20% 200 = 40 (Ti).

Con la detrazione imposta da imposta: tiFVA – tiFAA = 20%600 – 20%400 =

120-80 = 40 (Ti).

Il risultato è identico se l’aliquota ti è la stessa su vendite ed acquisti. L’IVA ha aliquote diverse nei vari

paesi e, all’interno dei paesi esistono aliquote differenziate. Si distingue tra:

un’aliquota standard (la più diffusa su cessioni di beni e servizi)

una o più aliquote ridotte (inferiori a quella standard)

una o più aliquote maggiorate (rispetto a quella standard).

Le aliquote ridotte si applicano su beni e servizi ritenuti meritevoli da un punto di vista sociale (ad es. latte,

pane, vestiario), mentre le aliquote maggiorate possono colpire beni e servizi considerati di lusso. Questo si

fa per limitare gli effetti regressivi (rispetto al reddito) di un’imposta indiretta generale come l’IVA.

Gli effetti di regressività sul reddito delle imposte sui consumi sono noti da tempo. Sono gravi soprattutto se

le imposte colpiscono beni di prima necessità, i consumi dei quali sono in elevata quota del reddito per i più

poveri, mentre la quota decresce man mano che il reddito aumenta. In generale i consumi, al crescere del

reddito, crescono meno che proporzionalmente. L’effetto di regressività si può vedere con l’esempio di

un’imposta generale (o speciale) sui consumi, con ti = 10%

Consumi C Redditi R Imposta su C (= tiC) tiC/R

80 100 8 8/100 = 10%

140 200 14 14/200 = 7%

240 400 24 24/400 = 6%

I consumi aumentano meno che proporzionalmente rispetto al reddito, quindi un’imposta proporzionale sui

consumi può diventare regressiva se riferita al reddito.

Un futuro modello dell’UE PER L’IVA prevede due forchette di aliquote, in pratica due scaglioni: nel

primo, aliquote ridotte, comprese tra un massimo ed un minimo, nel secondo aliquote standard, pure

comprese tra un massimo ed un minimo.

L’acquirente di un bene o servizio paga l’IVA inclusa nelle fatture dei suoi acquisti ed a sua volta addebita

l’IVA nelle sue fatture di vendita, poi versa al fisco la differenza tra IVA da lui pagata e IVA da lui

addebitata. Per evitare possibilità di evasione specialmente in alcuni settori come edilizia, subappalti e

materiale informatico (l’IVA è l’imposta con il maggior tasso di evasione) è stato previsto il meccanismo di

inversione contabile (o reverse charge) che elimina la detrazione dell'Iva sugli acquisti. Se il cliente è

imprenditore o professionista, l'Iva non viene applicata. Il cedente/prestatore di beni/ servizi emette fattura

senza IVA, indicando che l’operazione è assoggettata ad inversione contabile, mentre il destinatario integra

nella fattura ricevuta l’aliquota IVA dell’operazione. Il fine di questo meccanismo è di evitare, nei rapporti

intracomunitari, che la detrazione di IVA sia applicata da fornitori esteri ed incassata da Stati esteri o che non

venga versata, dato che le detrazioni Iva nei rapporti transnazionali andrebbero regolate con una stanza di

compensazione comunitaria, mai istituita. L’inversione contabile è utilizzata pure per contrastare le c.d.

frodi carosello, dove, nei passaggi internazionali, il fornitore non versa l'IVA (anche interponendo

107

intermediari fittizi e di comodo), mentre il cliente ha diritto alla detrazione. L’obbligo dell’imposizione

tributaria è trasferito dal venditore all’acquirente e si concretizza nell’emissione di un’autofattura, così che

sia il destinatario a corrispondere l’IVA al fisco anziché il fornitore.

Sempre di recente è stato previsto che, con lo split payment, la Pubblica Amministrazione versi ai suoi

fornitori l’importo delle fatture, relative a cessioni o prestazioni, al netto dell’IVA e successivamente

provveda a versare l’importo dell’IVA direttamente al Fisco.

4. Le imposte straordinarie

Come già ricordato nel primo capitolo, sono misure di finanza straordinaria, entrate in conto capitale

introdotte per far fronte ad esigenze eccezionali del bilancio pubblico (guerre, calamità naturali, crisi

economiche gravi) con imposte che hanno antichi esempi fin dall’eisphorà ateniese e che rimangono solo

temporaneamente nell’ordinamento tributario. L’eccezionalità del momento fa sì che sull’imposta

straordinaria si formi un consenso sociale che non vi sarebbe in altri momenti. Ciò è evidente quando si tratta

di tassare ‘profitti di guerra’ non meritati, come avviene nei periodi di dopoguerra, o quando si tratta di

ricorrere alla solidarietà collettiva. Si tratta di solito di imposte ad incidenza patrimoniale, nel senso che

obbligano il contribuente a liquidare parte del suo patrimonio per pagare l’imposta, non essendo sufficiente

il reddito, ma si possono avere, nelle altre circostanze, imposte straordinarie e temporanee anche su altri

imponibili.

Le imposte straordinarie possono essere introdotte con diverse modalità:

a. si introduce un’imposta del tutto nuova, diversa da quelle esistenti

nell’ordinamento tributario, ad es. un’imposta straordinaria

progressiva su patrimonio con aliquote elevate;

b. si introducono addizionali o sovrimposte su imposte esistenti;

c. si aumentano fortemente le aliquote di imposte esistenti: ad es. le

aliquote di un’imposta sul reddito possono essere aumentate, magari

solo per alcuni scaglioni se c’è un’imposta progressiva, al di sopra

del 100%, così da obbligare il contribuente a far ricorso al

patrimonio per pagare l’imposta.

d. Si capitalizza un’imposta esistente: un’imposta ordinaria sul

patrimonio è trasformata in imposta straordinaria aumentando le

aliquote esistenti, così da anticipare incassi futuri (è quanto

accaduto in Italia con l’imposta straordinaria sul patrimonio del

1947).

In Italia venne istituita un’imposta straordinaria sul patrimonio nel 1947: l’imposta

tassava con aliquote dal 6% al 61.61% i patrimoni suddivisi in 9 classi, con imposte

continue tra i limiti delle classi. Era intesa come riscatto dell’imposta ordinaria del 1940,

che così venne soppressa. Si rinvia a C. Cosciani: L’imposta straordinaria sul

patrimonio(1946). Per l’imposta straordinaria del primo dopoguerra v. A. Cabiati (1920).

Un’antica e tradizionale discussione sulle misure di finanza straordinaria riguarda la eventuale alternativa

tra un’imposta straordinaria sul patrimonio ed il debito pubblico. Secondo un’antica teoria, risalente al sec.

XVIII, con il debito pubblico si sarebbe trasferito alle generazioni future un onere che altrimenti graverebbe

sui contribuenti attuali. D. Ricardo (1772-1823) in On the Principles of Political Economy and Taxation

(1817), ch. 17.3 aveva già contestato questa affermazione, dimostrando che imposta e debito erano da

considerarsi equivalenti (la c.d. ‘equivalenza ricardiana’).

108

L’esempio di Ricardo è semplice.

Tizio ha un patrimonio K di 100.000. Lo Stato deve finanziare una spesa di 20.000 ed ha

due alternative.

- Tassare K con un’aliquota tK del 20%: tKK = 20% 100.000 = 20.000.

K – tKK = 100.000 – 20.000 = 80.000, che è il patrimonio al netto dell’imposta

straordinaria; Tizio trasmetterà ai suoi eredi (la generazione futura, un patrimonio ridotto).

Se il tasso di rendimento r è del 5% il precedente reddito rK = 5% 100.000 = 5.000 diventa

5% 80.000 = 4.000.

- Prendere a prestito 20.000 dal proprietario di K, così che Tizio avrà il suo patrimonio

suddiviso in 80.000 (il patrimonio residuo) più 20.000 (i titoli del debito pubblico).

Trasmetterà agli eredi un patrimonio, apparentemente, di 100.000, mutato non nel valore

complessivo, ma solo nella composizione. Il rendimento dei titoli del debito, al 5%, è di

1.000 (5% 20.000). Lo Stato dovrà ottenere questa somma tassando il reddito delle 80.000

(4.000) al 25% (25% 4000 = 1.000), oppure tassando tutto il reddito (4.000+1.000) al 20%,

con lo stesso gettito di 1.000. Quindi Tizio avrà 3.000 come reddito netto delle 80.000 e

1.000 come interessi sui titoli del debito (20.000), o 4.000 come reddito complessivo netto

(3.200+800). Complessivamente 4.000, come nel caso dell’imposta straordinaria. Gli eredi

riceveranno un patrimonio che vale esattamente come nel caso dell’imposta straordinaria.

Capitalizzando, R(1-t)/r, 4.000/5% = 80.000, come con l’imposta straordinaria. Con il

debito pubblico si ha uno spostamento dell’onere del debito in futuro (onere per le

generazioni future).

Secondo Ricardo è preferibile l’imposta straordinaria, perché il debito può avere effetti di

illusione finanziaria sul contribuente, che potrebbe non rendersi conto, col debito,

dell’ammortamento del flusso di imposte future, che riducono il valore del suo patrimonio,

mentre l’imposta straordinaria, più evidente nei suoi effetti, lo potrebbe stimolare di più a

lavorare per ricostituire il patrimonio.

Naturalmente l’equivalenza ricardiana vale con ipotesi ben precise: che il contribuente che

ha il patrimonio sia lo stesso che paghi le imposte per finanziare gli interessi (il ‘servizio’

del debito), che il contribuente sappia capitalizzare il flusso di imposte future sul reddito,

che non vi siano processi di traslazione né modifiche dei tassi di interesse, ecc.

5. Principi di tassazione internazionale.

Il coordinamento nel commercio internazionale è affidato a livello mondiale ad organismi quali il WTO

(World Trade Organization). Questo coordinamento mira ad evitare distorsioni nel commercio

internazionale e nella circolazione dei fattori di produzione. Le difficoltà provengono da diversità delle

moneta e dei cambi, dalla diversità delle imposte gravanti su beni, servizi e redditi, dalla presenza di dazi, di

vincoli quantitativi alle importazioni, di sussidi alle esportazioni, da politiche di protezionismo.

In alcune aree geografiche abbastanza omogenee sono state costituite, nel sec. XX, diverse zone di libero

scambio: in Europa (l’Unione Europea), nell’America Centrale (Sistema di integrazione del Cento America

SICA), tra S.U., Canada e Messico (NAFTA), tra i Paesi del Patto Andino (Comunidad Andina).

109

Si distinguono due tipi di organizzazione economica tra stati, l’Unione Doganale ed il Mercato Comune.

Unione Doganale

E’ l’unione commerciale di diversi paesi che eliminano sia dazi e restrizioni all’importazione ed

all’esportazione di merci e servizi, sia sussidi alle esportazioni.

I dazi sono imposte sulle importazioni (imposte ad valorem o specifiche) che rendono più costosi

e meno convenienti gli acquisti di prodotti esteri. Possono essere, più raramente, applicati sulle

esportazioni.

Esistono anche dazi di transito, applicati da paesi (ad es. Austria, Svizzera) che ritengono di

dover tassare le merci trasportate, da e per altri paesi, attraverso il loro territorio creando problemi

di inquinamento, di congestione di traffici, di consumi di infrastrutture.

Un antico esempio di dazio su importazioni ed esportazioni, nel diritto romano, era il portorium.

DDDAAAZZZIIIOOO DDDIII IIIMMMPPPOOORRRTTTAAAZZZIIIOOONNNEEE AAA BBB

Verso l’esterno l’unione doganale mantiene dazi unici e non diversificati tra i vari paesi (cinta

daziaria).

Ogni paese dell’Unione ha una moneta propria, una politica monetaria e fiscale propria.

L’obiettivo dell’Unione Doganale è di eliminare i vincoli alla concorrenza commerciale, ma non

mira a favorire la concorrenza dei fattori di produzione (lavoro e capitale) nella mobilità tra i diversi

stati.

Il c.d. Mercato Comune Europeo (MEC), istituito con il Trattato di Roma del 1957, era nato in realtà come

un’unione doganale e solo di recente si sta trasformando in un vero Mercato Comune.

Nell’unione doganale, per mantenere livelli di competitività eguali tra i vari paesi aderenti, è necessario

proibire le discriminazioni fiscali. Il problema dell'armonizzazione fiscale è strettamente legato a quello

della concorrenza fiscale: le imposte non devono diventare uno strumento per favorire la concorrenza dei

propri prodotti e redditi né per limitare la concorrenza di prodotti e redditi di altri paesi dell’unione doganale.

Pertanto le imposte e gli imponibili devono essere omogenei nella definizione e nelle aliquote, anche se

risulta impossibile che diventino identici in tutti i paesi. Perciò si parla di armonizzazione piuttosto che di

uniformità.

Tra i paesi membri di un’Unione Doganale si applica il principio della tassazione nel paese di

destinazione. Vuol dire che all’interno di un paese nessun prodotto può essere tassato in modo diverso a

seconda che sia di produzione interna o estera (di un altro paese dell’Unione Doganale). Le imposte si

applicano là dove un prodotto viene consumato e dove il reddito viene incassato (il domicilio del percettore

del reddito), indipendentemente da dove beni, servizi e redditi vengano prodotti. Il principio si concretizza

con l’esenzione delle esportazioni e la tassazione delle importazioni e si applica con la cessione detassata nel

paese di origine dei beni e dei redditi e la tassazione nel paese in cui gli stessi sono destinati.

In pratica, a questi fini, si opera con:

a) l’esenzione dall’imposta (non si applica l’imposta interna ad un bene o reddito che viene esportato);

b) il rimborso dell’imposta all’esportatore che abbia eventualmente pagata l’imposta all’interno;

c) la tassazione all’entrata, di un prodotto o di un reddito esterni, con le aliquote proprie degli imponibili

interni;

d) il diritto compensativo: è un’imposta aggiuntiva su beni e redditi di importazione per la differenza tra

imposte interne (maggiori) ed imposte estere (inferiori e già applicate dal paese estero).

Rispettano questo principio sia la tassazione del valore aggiunto che un’imposta monofase sull’ultimo

venditore sia le imposte plurifase non cumulative che esentano le esportazioni. In sede di Unione Europea si

è puntato soprattutto all’armonizzazione delle imposte indirette generali, del tipo imposte sul valore

aggiunto.

110

Per le imposte dirette sul reddito delle società si può applicare il meccanismo del credito d’imposta,

accreditando ad un reddito (ad es. un dividendo) l’imposta già pagata all’estero, o prevedendo l’esenzione

dall’imposta interna. Per le imposte reali (ad es. sugli interessi) è pensabile un’aliquota unica nei diversi

paesi.

L’unione doganale conserva le frontiere fiscali per effettuare e controllare i prelievi ed i rimborsi su beni e

redditi che passano da un paese all’altro.

Mercato Comune (o Unione Economica)

Tra i paesi aderenti ad un Mercato Comune oltre alla mancanza di vincoli, restrizioni e sussidi al commercio

si mira all’effettiva e piena libertà di circolazione dei fattori di produzione, realizzando un mercato interno

che include diversi paesi. L’obiettivo è quello di assimilare diversi paesi ad un mercato interno unico.

Necessitano, a questi fini:

a) una moneta unica, una banca centrale unica dell’Unione Economica, come la Banca Centrale Europea,

oltre alle banche centrali dei paesi aderenti, ed una politica monetaria unica;

b) l’attenuazione, fino alla soppressione, delle barriere fiscali interne, con l’armonizzazione delle imposte,

che dovrebbero convergere verso strutture omogenee nei diversi stati e con una pressione tributaria

tendenzialmente equiparata;

c) lo spostamento a livello centrale dell’Unione Economica di parte della finanza pubblica statale, con un

bilancio pubblico dell’Unione Economica accanto ai bilanci statali.

E’ vietato costituire, all’interno di un mercato comune, zone di rifugio e paradisi fiscali, cioè aree nelle

quali la tassazione è ridotta rispetto a quella vigente nei paesi aderenti e dove si applicano principi quali il

segreto bancario anche a fini fiscali e che possono favorire processi di evasione delle imposte nazionali.

Il principio che si applica in un mercato comune è quello della tassazione nel paese di origine. I beni ed i

redditi sono tassati nel paese in cui vengono prodotti e non nel paese (del mercato comune) dove sono

destinati. Il principio implica la detassazione delle importazioni e la tassazione, con imposte interne, delle

esportazioni. Con questo principio si mira a sopprimere le frontiere fiscali, come in un vero mercato interno.

La concorrenza internazionale richiede la c.d. neutralità fiscale internazionale: che può essere intesa in

due significati distinti.

- Neutralità nell’esportazione di capitali (CEN - Capital Export Neutrality), è un regime di

tassazione mondiale o di neutralità nazionale (worldwide taxation).

Il reddito di investimento del soggetto interno di un paese è assoggettato alle aliquote vigenti nel paese

stesso, indipendentemente dalla localizzazione, all’interno o all’estero, dell’investimento. Quello che

conta per individuare l’aliquota è il criterio soggettivo della residenza del soggetto che produce il

reddito. L’investitore straniero paga in base alle aliquote del suo paese, indipendentemente dalla

localizzazione dell’investimento. Il reddito di un investimento straniero è assoggettato all’aliquota

straniera. La CEN non incentiva i soggetti di un paese a portare all’estero i loro capitali. E’ indifferente

investire all’interno o all’estero. Il reddito è tassato allo stesso modo dalle autorità del paese cui

appartiene il contribuente, indipendentemente da dove è guadagnato (all’interno o all’estero). Il criterio

CEN non influisce sull’allocazione di risorse di un paese. Gli investitori decidono di distribuire i loro

capitali, tra l’interno e l’estero, in modo da avere gli stessi rendimenti netti finali, indipendentemente

dalle diversità di imposte. Il sistema, se non è adottato da tutti i paesi, causa doppie tassazioni, evitabili

con trattati internazionali contro le doppie imposizioni.

- Neutralità nell’importazione di capitali (CIN - Capital Import Neutrality), è un regime di tassazione

su base territoriale.

Il criterio per applicare l’imposta è quello oggettivo della località, cioè dell’ambito territoriale in cui il

reddito viene prodotto, senza tener conto della nazionalità e della residenza del soggetto (nazionale o

straniero) che lo produce e senza tener conto nemmeno della destinazione (all’interno o all’estero) del

reddito stesso. Quindi il reddito è tassato là dove è prodotto. Il reddito proveniente dall’estero è distinto

da quello prodotto all’interno. Le imposte su redditi di imprese straniere costituiscono un gettito notevole

per molti paesi. Per evitare doppie imposizioni si utilizzano crediti d’imposta per imposte pagate

111

all’estero su redditi rimpatriati. La concessione del credito d’imposta può essere unilaterale ed

indipendente da un Trattato contro le doppie imposizioni. Quindi il reddito di un investimento interno

(dividendo, interesse) è assoggettato all’aliquota interna, indipendentemente dalla residenza del

contribuente. Il reddito proveniente da un investimento all’estero è assoggettato all’aliquota del paese

straniero, indipendentemente dalla residenza del contribuente (quindi anche se risiede nel paese in cui

arriva il reddito). Ne consegue che tutte le imprese che operano nello stesso paese sono tassate con la

stessa aliquota. Gli Stati Uniti seguono una versione attenuata del CIN, in quanto esentano dalla

tassazione con imposte interne i redditi stranieri finché non vengono rimpatriati (sistema del c.d.

deferral). Quando tali redditi vengono rimpatriati gli S.U. adottano un CEN modificato, permettendo la

detrazione dall’imposta interna delle imposte pagate all’estero, ma non restituendo al contribuente

eventuali eccedenze. Quindi, se l’imposta pagata all’estero è del 45% e l’aliquota interna del 30% è

concessa la detraibilità dall’imposta interna fino al massimo del 30%.

Per riassumere, immaginiamo due paesi e poniamoci dal punto di vista di uno, interno, con un’aliquota di td,

in modo che l’altro sia un paese estero (con aliquota tf), distinguendo l’ipotesi di un reddito prodotto

all’interno da quella di un reddito prima prodotto all’estero e poi trasferito all’interno.

La Commissione UE ha proposto di rendere obbligatoria in tutti i paesi dell'Unione una ritenuta alla fonte

(un’imposta proporzionale reale) sui redditi di capitale. Questa ritenuta sarebbe portata in detrazione, totale

o parziale, quando il residente di ogni paese dovesse dichiarare quei redditi nel proprio paese, secondo le

norme tributarie proprie.

Nell’UE l’armonizzazione della tassazione del reddito d'impresa non richiede l’uniformità nelle aliquote

delle varie imposte sui redditi d'impresa. Si sono stabilite regole uniformi per varie operazioni societarie

(fusioni di società, trasformazioni, scambi di azioni) che interessano società di diversi Paesi nell'Unione. Si

mira a rendere queste operazioni fiscalmente neutrali in senso internazionale, in maniera da non incentivare

le imprese ad insediarsi in un paese piuttosto che in un altro al solo fine di risparmiare sulle imposte.

L’IVA nell’Unione Europea venne introdotta secondo il modello francese e con il principio di tassazione del

paese di destinazione. Successivamente, con la progressiva trasformazione della Comunità Europea in

Unione Economica, si decise in sede comunitaria di applicare all’IVA il criterio del paese di origine. Le

aliquote, in questa eventualità, non dovrebbero essere molto dissimili tra i vari paesi dell’UE, altrimenti le

produzioni dei paesi dove l'IVA è elevata sarebbero svantaggiate rispetto a quelle dei paesi in cui l'IVA è più

bassa.

Per imposte e principi tributari nell’Unione Europea v. Taxation e

per la tassazione internazionale International Tax, International

Manual dell’HMS e la sezione Tax dell’OECD

6. Effetti delle imposte

Gli effetti delle imposte comprendono la rimozione, l’ammortamento, la traslazione, l’elusione, l’evasione.

La rimozione e l’ammortamento dell’imposta sono già stati esaminati trattando dell’imposta sul reddito.

La traslazione

E’ un insieme di effetti economici di imposte che passano da contribuenti ed imponibili ad altri contribuenti

ed imponibili. Si distingue tra:

a) percussione dell’imposta: indica l’applicazione dell’imposta su di un imponibile definito dalle

norme tributarie che individuano il contribuente di diritto, tenuto a versare l’ammontare

dell’imposta.

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b) incidenza dell’imposta: è l’effetto economico finale di un’imposta, in seguito all’eventuale

spostamento dell’onere tributario da un contribuente (di diritto) ad un altro contribuente (di fatto) o

da un imponibile ad un altro imponibile. Il contribuente di diritto può tentare, in modo conforme alla

legge, di far pagare l’imposta, versata da lui al fisco, ad altri. Ciò può essere fatto, ad esempio, da un

venditore, con un aumento dei prezzi di vendita; da un lavoratore dipendente con la richiesta di

aumenti salariali.

La traslazione indica il processo di spostamento dell’onere economico dell’imposta dal contribuente di

diritto al contribuente di fatto (o dal contribuente percosso a quello inciso). La traslazione può essere in

avanti (per lo più con un aumento dei prezzi: si tassa il reddito di A e questi vende i suoi prodotti a prezzi

maggiorati), o all’indietro (con una riduzione delle remunerazione dei fattori di produzione: si tassa il

reddito di A e questi riduce i pagamenti a fornitori e lavoratori) oppure obliqua (si sposta l’onere su soggetti

ed imponibili non direttamente coinvolti nella produzione e negli scambi: si mette un’imposta sul bene X ed

aumenta il prezzo del bene Y).

L’elusione

E’ un comportamento lecito con il quale il contribuente si riduce l’imposta sostituendo, parzialmente o

totalmente, imponibili tassati con aliquote più basse o esenti agli imponibili tassati con una determinata

aliquota. Si tratta, di solito, di beni e redditi sostituibili. L’elusione documenta difetti del sistema tributario,

che permette effetti di sostituzione, e si presenta in assenza di neutralità.

L’evasione

E’ un comportamento contra legem, in violazione delle norme tributarie. Il contribuente occulta, totalmente

o parzialmente, l’imponibile e non versa, del tutto o in parte, l’imposta che sarebbe dovuta. E’ realizzata con

occultamento della qualifica di contribuente, omissione di dichiarazione, oneri deducibili falsi o non dovuti,

false fatturazioni, dichiarazione di imponibili in misura ridotta rispetto a quella effettiva, mancato

versamento di imposte. L’amministrazione procede ad accertamenti e si può instaurare un contenzioso con il

contribuente. Il contribuente, per calcolare la convenienza ad evadere fa un calcolo di tipo probabilistico.

Mette a confronto la probabilità di essere scoperto (ed il costo di questa scoperta in termini di pagamento di

penalità ed interessi) ed il guadagno derivante dal mancato pagamento di imposte. Quanto minore è la

probabilità di scoperta, tanto maggiore l’incentivo e la convenienza ad evadere.

L’evasione può dipendere da:

- complessità dell’imposta: un’imposta può essere così complicata che il contribuente non è in grado

di dichiarare e pagare correttamente; il costo dell’assistenza fiscale può essere così elevato che il

contribuente è indotto ad evadere: questi sono i c.d. ‘costi di adempimento’ (compliance costs):

tempo e denaro impiegati dal contribuente per adempiere agli obblighi fiscali. Questi costi (perdite di

tempo per raccogliere informazioni, costo dei consulenti ed intermediari, ecc.) si aggiungono ai costi

monetari rappresentati dall’imposta e possono essere considerati troppo onerosi dal contribuente.

- Difficoltà di riscossione: le imposte più difficili da incassare sono le più facili da evadere. Esistono

costi amministrativi (administration costs) per le amministrazioni che debbono gestire un’imposta,

così che queste amministrazioni non sono in grado di fronteggiare l’evasione proprio per i costi di

gestione delle imposte. Tali costi di amministrazione si verificano a più livelli: 1. nella fase di la

scoperta e di accertamento degli imponibili e delle imposte evase; 2. nella definizione in giudizio

(contenzioso) di quanto accertato; 3. nella la riscossione vera e propria da parte degli esattori. Il

sistema di riscossione attraverso gli esattori era diventato pubblico già nella Francia del 1670 ad

opera di Colbert. Come già aveva fatto Augusto, estromettendo gli esattori privati (i pubblicani,

come San Matteo). In alternativa alla riscossione diretta da parte dello Stato un sistema storicamente

molto diffuso, anche in Italia fino al 2006, è stato quello di affidare (tramite concessione o appalto) a

privati (banche, persone fisiche) la riscossione delle imposte, pagando una quota di quanto riscosso

(aggio). E’ un sistema che spesso si è dimostrato inefficiente e fonte di abusi.

-

113

J. S. van Hemessen

San Matteo, l’esattore (1536)

- Difficoltà di accertamento: dipende sia dalla complessità dell’imposta che dalle possibilità effettive

dell’amministrazione tributaria di procedere ad accurati accertamenti (ad es. per la scarsità di

personale qualificato, per corruzione, ecc.).

- Bassa redditività del contenzioso: se il recupero di imposte evase attraverso il contenzioso presenta

un basso rapporto tra quanto viene effettivamente pagato e quanto viene accertato, poiché il

contenzioso si risolve per lo più a favore del contribuente o perché si presentano eccessive difficoltà

di riscuotere quanto accertato, esiste un ulteriore incentivo ad evadere.

- Scarsa coscienza civica, incentivata dal criticabile uso del gettito: se il gettito è destinato a spese non

condivise (ad es. a favore di categorie privilegiate o non meritevoli, a spese ed opere ritenute inutili e

di spreco) l’evasione può essere presentata come forma di protesta (la c.d. obiezione fiscale).

- Situazioni di disagio sociale o attività economiche di piccole dimensioni, che non vengono

perseguite per opportunità (ad es. lavoro nero ai livelli inferiori, piccolo commercio, piccole imprese,

lavori domestici, lavori di artigianato) o perché il costo del recupero dell’evasione (costi del

personale, costi delle attività di accertamento, costi del contenzioso) per l’amministrazione pubblica

potrebbe essere uguale o superiore al gettito recuperato.

Per contrastare l’evasione e garantire livelli di gettito, quando non ci si può attendere molto dall’attività di

accertamento, si utilizzano:

a) semplificazioni della struttura delle imposte e delle modalità di riscossione;

b) imposte fisse o forfetarie, sostitutive di altre imposte più complesse, per i contribuenti minimi;

c) definizioni di imponibili in base a parametri oggettivi di attività, in pratica sostituendo imponibili

virtuali o potenziali a quelli effettivi, ad es. collegando il livello di imponibile alla struttura

patrimoniale di un’azienda, al numero di dipendenti, alla tipologia di attività, alla localizzazione;

d) condoni periodici: in ricorrenze temporali, a distanza di alcuni anni ed in sostituzione di imposte

straordinarie, o in occasione del passaggio da un tipo di imposte ad un altro, si incentivano i

contribuenti a pagare una quota ridotta delle imposte evase, in cambio dell’impegno da parte

dell’amministrazione pubblica di non procedere ad accertamenti. Il successo dei condoni dipende sia

dall’ammontare dell’evasione precedente, sia dalla credibilità delle possibilità di accertamento. La

certezza della frequenza dei condoni è, di per sé, un altro incentivo ad evadere in quanto genera

aspettative di condoni prossimi. Quanto più si ritiene prossimo un condono tanto maggiore diventa

l’incentivo ad evadere. Temporaneamente, subito dopo un condono, l’evasione si può ridurre in

quanto i contribuenti che si sono autodenunciati come evasori non tornano immediatamente ad

evadere, perché il fisco li può tenere sotto controllo, ma attendono qualche anno, quando si formano

aspettative di un nuovo condono. L’alternativa al condono, per il fisco, può essere la certezza di

perdere gettito per via della prescrizione delle possibilità di ricercare le imposte evase. In questa

prospettiva il condono è sintomo dell’inefficienza dell’amministrazione.

114

APPENDICE: Caratteristiche del mercato concorrenziale perfetto ed

imperfezioni nelle organizzazioni private e pubbliche

Mercato perfetto

Imperfezioni del mercato

Gli individui e le imprese hanno informazioni

complete ed uguali, hanno capacità di far previsioni

in modo corretto e di formulare aspettative fondate.

E’ il mercato a diffondere le informazioni.

Le informazioni sono incomplete, la raccolta di

informazioni è costosa, le informazioni sono distribuite in

modo disuguale (asimmetria informativa), si commettono

errori di previsione e si formulano aspettative non

corrette.

Gli individui e le imprese si comportano in modo

perfettamente razionale e sono in grado di decidere

correttamente anche per il futuro.

La razionalità è vincolata dalla scarsità di informazioni e

dalle limitate capacità di elaborazione di individui ed

imprese. Gli orizzonti temporali sono limitati.

Gli individui massimizzano (l’utilità) e le imprese

massimizzano (i profitti).

La massimizzazione non è possibile a causa

dell’incompletezza di informazioni e della razionalità

vincolata. Le imprese massimizzano altri obiettivi (la

sicurezza e la stabilità, le vendite, la quota di mercato) e

puntano ad un profitto soddisfacente.

I mercati funzionano con imprese in concorrenza

perfetta.

I mercati sono per lo più strutture a concorrenza

imperfetta con monopoli ed oligopoli.

Nei mercati si raggiungono rapidamente posizioni di

equilibrio stabile attraverso la concorrenza, il tempo

non è considerato perché i processi di aggiustamento

degli squilibri sono immediati.

I mercati sono caratterizzati da processi continuamente

mutevoli, non ci sono equilibri stabili, il tempo è

importante ed i processi di aggiustamento degli squilibri

sono lenti e costosi.

L’impresa è gestita dal proprietario ed i manager

coincidono, per interessi e comportamenti, con i

proprietari.

La grande impresa è gestita da manager e da una struttura

complessa, nella quale la proprietà è separata dal

controllo. I manager hanno obiettivi propri, distinti e

conflittuali con quelli dei proprietari.

I prezzi dei prodotti e dei fattori di produzione sono

perfettamente flessibili, c’è perfetta mobilità dei

fattori e l’accesso e l’uscita dai mercati (dei prodotti

e dei fattori) sono facili e non comportano costi.

I prezzi si adeguano immediatamente quando

variano le quantità.

I prezzi sono caratterizzati da rigidità e da vischiosità

nelle variazioni. Gli accessi ai mercati sono difficoltosi e

costosi (barriere all’entrata). L’uscita dai mercati può

essere costosa (costi non recuperabili all’uscita).

I prezzi sono rigidi o variano lentamente e sono le

quantità ad adattarsi ai prezzi.

Esiste forte sostituibilità tra i prodotti e tra i fattori

di produzione. Beni, servizi e fattori sono omogenei.

La sostituibilità è piuttosto limitata e talvolta costosa o

impossibile (ad es. quando si tratta di beni, servizi o fattori

specifici per un’impresa). Beni, servizi e fattori sono

differenziati e non omogenei.

Tutti i beni ed i servizi possono essere sempre

scambiati con un prezzo.

Esistono casi in cui i meccanismi di prezzo tecnicamente

non si possono applicare (i c.d. fallimenti del mercato)

115

Il mercato è l’organizzazione più efficiente perché

realizza contratti ad informazione completa.

Talora una struttura con organizzazione gerarchica

(impresa, amministrazione pubblica) può essere più

efficiente del mercato, se permette di risparmiare sui costi

di transazione dei contratti evitando molteplici contratti

con una struttura organizzativa diversa dal mercato.

I comportamenti di individui ed imprese nel mercato

sono separati e concorrenziali.

Le strategie di mercato sono di tipo cooperativo, collusivo

e corporativo.

Manager pubblici, burocrati e politici decidono

nell’interesse degli elettori ed agiscono come

rappresentanti.

Manager pubblici, burocrati e politici perseguono interessi

propri esercitando poteri discrezionali, mirando alla

crescita della spesa e ad ampliare la dimensione del

bilancio sotto il loro controllo.

Perugino: Il pagamento del tributo (particolare)

Cappella Sistina, Roma (1481-82)

Nella scienza delle finanze “le azioni … non sono del genere delle azioni logiche, di cui si occupa

l'economia politica, e di cui la teoria è meno difficile; ma sono del genere delle azioni non-logiche, di cui la

teoria è molto più difficile … La «scienza» delle finanze poco sa dell'equilibrio economico, e niente

dell'equilibrio sociologico; quindi alla conoscenza degli effetti reali sostituisce la presunzione di effetti

immaginari … La dicono una scienza e non è neppure un'arte … “

Vilfredo Pareto (1916 - 17)