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Utilizza la funzione Segnalibri Economia Aziendale MODULO VI - Impresa e azienda - II Indice del modulo VI 1. Impresa pubblica e regulation L’impresa pubblica La regulation Criteri di regulation Difficoltà della regulation 2. L’authority a tutela della concorrenza e del mercato: l’Antitrust. Caratteristiche dell’antitrust Comportamenti proibiti Critiche all’antitrust 3. La Corporate Governance Definizioni e struttura Modelli Domande di esame 1. L’impresa pubblica: ragioni e modalità 2. Criteri di regulation 3. I comportamenti proibiti dall’antitrust 1. Impresa pubblica e regulation L’impresa pubblica Per ragioni di carattere economico o politico l’impresa può essere assoggettata nei mercati a diverse modalità di controllo pubblico. Queste modalità si possono distinguere in due categorie principali. a) La nazionalizzazione di un settore, con la costituzione di un’impresa pubblica, in regime di monopolio pubblico. E’ il modello europeo, che ha visto prevalere le imprese pubbliche in settori considerati strategici o in settori nei quali le imprese private non sarebbero state operative a causa di costi eccessivi o di rischi eccessivi, ad es. nei settori siderurgico, elettrico, ferroviario, assicurativo, nel trasporto aereo, nei servizi di pubblica utilità, nelle telecomunicazioni, nel settore bancario. La presenza di imprese pubbliche o a partecipazione pubblica di controllo è cominciata a decadere a partire dagli anni ’80 del sec. XX in seguito a processi di privatizzazione che hanno visto la trasformazione di aziende pubbliche in società di capitali private con azioni vendute progressivamente sul mercato di capitali. 1

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Utilizza la funzione Segnalibri Economia Aziendale MODULO VI - Impresa e azienda - II

Indice del modulo VI

1. Impresa pubblica e regulation L’impresa pubblica

La regulation Criteri di regulation

Difficoltà della regulation

2. L’authority a tutela della concorrenza e del mercato: l’Antitrust. Caratteristiche dell’antitrust

Comportamenti proibiti Critiche all’antitrust

3. La Corporate Governance Definizioni e struttura

Modelli

Domande di esame 1. L’impresa pubblica: ragioni e modalità 2. Criteri di regulation 3. I comportamenti proibiti dall’antitrust

1. Impresa pubblica e regulation L’impresa pubblica

Per ragioni di carattere economico o politico l’impresa può essere assoggettata nei mercati a diverse modalità di controllo pubblico. Queste modalità si possono distinguere in due categorie principali.

a) La nazionalizzazione di un settore, con la costituzione di un’impresa pubblica, in regime di monopolio pubblico. E’ il modello europeo, che ha visto prevalere le imprese pubbliche in settori considerati strategici o in settori nei quali le imprese private non sarebbero state operative a causa di costi eccessivi o di rischi eccessivi, ad es. nei settori siderurgico, elettrico, ferroviario, assicurativo, nel trasporto aereo, nei servizi di pubblica utilità, nelle telecomunicazioni, nel settore bancario. La presenza di imprese pubbliche o a partecipazione pubblica di controllo è cominciata a decadere a partire dagli anni ’80 del sec. XX in seguito a processi di privatizzazione che hanno visto la trasformazione di aziende pubbliche in società di capitali private con azioni vendute progressivamente sul mercato di capitali.

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b) La regulation, che si realizza imponendo ad imprese private vincoli ed obblighi di comportamento. E’ il modello statunitense ed il modello seguito dopo le privatizzazioni nei paesi europei, anche per impedire che gli ex monopoli pubblici si comportassero come monopoli privati.

L’impresa pubblica è uno strumento di controllo diretto, di proprietà e con gestione esclusiva di soggetti pubblici, utilizzato per fini di politica economica.

Le ragioni per giustificare l’esistenza dell'impresa pubblica storicamente sono state molteplici.

1. Alcune riguardano l’allocazione delle risorse:

- evitare strutture monopolistiche o regimi di mercato inefficienti; - produrre beni e servizi con benefici sociali, che non sono considerati da imprese private; - assicurare servizi di pubblica utilità che imprese private offrirebbero in quantità insufficiente e che non a tutti i consumatori potrebbero permettersi perché a prezzi eccessivi (forniture di acqua, gas, elettricità, servizi telefonici e postali, trasporti urbani).

2. Altre ragioni sottolineano l’opportunità che imprese pubbliche producano beni e servizi che le imprese private, per ragioni di costi o di rischi eccessivi, non offrirebbero (trasporti ferroviari e aerei, siderurgia, telecomunicazioni, energia);

3. oppure che producano beni e servizi ritenuti di carattere strategico, (ad es. per ragioni industriali e militari) ed evitare di importarli e dipendere da paesi terzi.

4. All’impresa pubblica sono stati assegnati obiettivi di effettuare interventi di redistribuzione ed incrementare l’occupazione in alcuni settori o aree geografiche, e di

5. svolgere attività a fini di sviluppo economico potenziando settori ad alta tecnologia importanti per lo sviluppo, e incentivano la diffondere di innovazioni.

Gli interventi delle imprese pubbliche sono stati spesso di carattere sussidiario rispetto alle imprese private e sono state istituite là dove non ancora le imprese private, per ragioni di costo, di rischio, di tecnologia, di profitto insufficiente, non potevano operare. Col tempo sono mutate le condizioni dell’economia e le tecnologie, per cui attività delle imprese pubbliche sono state trasferite ad imprese private con i processi di privatizzazione. L’obiettivo del profitto è presente nel monopolio fiscale, dove l’impresa pubblica agisce in regime di monopolio ed intende massimizzare il profitto, applicando i prezzi più elevati. Tali caratteristiche si ritrovano nella vendita in esclusiva di beni dai quali l’impresa mira a trarre il massimo guadagno (ad es. dalla vendita del sale, dei tabacchi, di altri prodotti non essenziali). Nell’impresa pubblica i prezzi si definiscono tariffe. Nel monopolio fiscale sono applicate tariffe di monopolio, che possono anche essere differenziate a seconda delle caratteristiche dei consumatori, ma sempre a fini di massimizzazione del profitto. Nel monopolio sociale, invece, l’impresa pubblica privilegia l’obiettivo della diffusione del consumo di beni e servizi ritenuti socialmente utili e con tariffe accessibili anche ai meno abbienti. In questo caso le tariffe sono fissate in modo che l’impresa abbia un profitto minimo, molto inferiore a quello di monopolio, oppure le tariffe possono essere così basse (rappresentando un sussidio ai consumatori) da non coprire i costi e l’impresa pubblica opera in perdita. In quest’ultimo caso all’impresa pubblica sono necessari trasferimenti da altri (dallo Stato, da un ente locale). L’impresa pubblica può differenziare le tariffe, vendendo a prezzi più elevati a consumatori ad alto reddito ed a prezzi inferiori al costo a consumatori a basso reddito (ad es. appartenenti alle c.d. fasce sociali). Una particolare tariffa è la c.d. tariffa a due parti, composta da:

a) una parte fissa: un canone annuale, o fisso, come per i servizi telefonici, o commisurato alla potenza di erogazione, come per le forniture di elettricità, acqua, gas;

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b) una parte variabile commisurata al consumo effettivo: questa parte può essere suddivisa in fasce successive di consumi con tariffe crescenti o decrescenti.

Le critiche alle imprese pubbliche si sono concentrate soprattutto sulle inefficienze gestionali e sugli eccessi di costi di produzione e di personale assunto per ragioni politiche. Alle imprese pubbliche si attribuisce la mancanza di incentivi a minimizzare i costi, in quanto sono sottratte alle pressioni del mercato e della concorrenza e risentono degli influssi dei poteri politici.

La regulation

La regulation consiste di un insieme di regole applicate ad imprese private, in particolare a quelle che producono servizi di pubblica utilità, o a professionisti e consumatori. Si tratta di regole di comportamento imposte direttamente, con norme di legge, regolamentari o con provvedimenti amministrativi, oppure indirettamente attraverso un’agenzia o un’autorità di settore (Authority – autorità amministrativa indipendente). La regulation mira a prevenire effetti negativi o a favorire il verificarsi di effetti che altrimenti sarebbero assenti. La regulation è considerata una modalità di legislazione secondaria, che vuol rendere effettiva, tenendo conto delle mutevoli circostanze, una legislazione primaria. Esempi di regulation

1. I controlli su: a) prezzi e tariffe di alcuni beni e servizi; b) l’ entrata in alcuni mercati; c) il funzionamento dei mercati (ad es. il mercato finanziario); d) le vendite di prodotti.

2. La determinazione e l’imposizione di: a) livelli minimi di salari o di tariffe professionali; b) livelli di occupazione in alcune industrie; c) standard di qualità nella produzione di beni e servizi;

d) limitazioni alle emissioni inquinanti; l’imposizione di obblighi assicurativi; e) livello massimo di profitto o di tasso di profitto.

3. Gli obblighi di: a) informare sul contenuto e la qualità di beni e servizi; b) produrre determinate quantità minime di beni e di servizi; c) offrire beni e servizi a determinate categorie di consumatori e utenti.

La regulation può essere introdotta in molti casi in cui esistono fallimenti dei mercati.

Per contrastare i monopoli naturali: si ha una situazione di monopolio naturale quando, per via delle economie di scala in un settore di produzione, si ha l’efficienza massima con una sola impresa monopolistica. Si presentano economie di scala se, all’aumentare della dimensione dell’impresa e del volume della produzione, il costo unitario della produzione di un bene o di un servizio diminuisce. Ciò impedisce la concorrenza in un mercato. Se un’impresa cresce più rapidamente delle altre riesce ad escluderle dal mercato perché, con costi più bassi, può applicare prezzi più bassi. Altre imprese non entrano nel mercato a far concorrenza perché il monopolista ha una posizione di privilegio preminente, il c.d. vantaggio della prima mossa. Il monopolio naturale tende ad instaurarsi in settori quali le comunicazioni telefoniche e televisive, l’elettricità, l’acqua, i servizi postali, i trasporti. Il monopolio naturale può dipendere:

a) dal controllo esclusivo di un’impresa su di una risorsa (ad es. l’acqua); b) dalle grandi dimensioni degli impianti, con dei costi che implicano forti barriere all’entrata di

altre imprese, perché sono eccessivi i costi degli investimenti iniziali.

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Il monopolio naturale può essere nazionalizzato e diventare un’impresa pubblica oppure essere un’impresa privata assoggettata a regulation. ……………………………………………………… Il monopolio naturale può essere temporaneo, nel senso che nuove tecnologie possono permettere la presenza di più imprese e la concorrenza. Inoltre un monopolista può essere obbligato solo dalla possibilità di concorrenza (e quindi dal timore che alti livelli di profitto possano attrarre nel mercato imprese concorrenti, quando il mercato è facilmente accessibile) a comportarsi come se operasse in un mercato concorrenziale e tenere i prezzi bassi, almeno prossimi a quelli che si stabilirebbero in un mercato in concorrenza.

Quando ci sono esternalità negative, come ad es. la regulation ambientale per contenere attività

inquinanti. Per controllare, soprattutto nei mercati finanziari, i comportamenti di imprese che vendono prodotti

finanziari agli individui e possono approfittare delle asimmetrie di informazione, nel senso che i venditori di prodotti finanziari dispongono di informazioni che gli acquirenti non hanno.

Nei casi di rischi di irreversibilità: la possibilità che comportamenti negativi di consumatori e di

produttori presenti possono causare danni irreversibili per le generazioni future, ad es. determinando l’esaurimento di risorse non riproducibili.

Per obbligare le imprese che offrono servizi di pubblica utilità a differenziare le tariffe in modo da

raggiungere anche consumatori a basso reddito o residenti in località disagiate.

Nei casi di privatizzazione quando si trasformano monopoli pubblici in monopoli privati.

Per realizzare obiettivi di redistribuzione agevolando alcune categorie di consumatori, considerati meritevoli per ragioni di bisogni particolari o di reddito insufficiente.

Per contenere i costi per alcune imprese ed i prezzi per alcuni consumi di beni e servizi.

Criteri di regulation La regulation può usare alcuni criteri o regole di intervento. Se ne indicano alcune. - La regola delle 3R (Rate of Return Regulation): l’authority fissa la percentuale massima di rendimento del capitale proprio dell’impresa. Quindi la regulation si applica al tasso di rendimento. Il prezzo regolato si può aumentare quando il tasso di rendimento diventa troppo basso. Deve essere abbassato se il tasso di rendimento effettivo supera quello prefissato. Esempio. Se K è il capitale proprio, l’authority predetermina r, il tasso di rendimento, e l’impresa può guadagnare al massimo un reddito netto di R = rK, applicando un prezzo p. Se, al prezzo p, guadagna un reddito netto superiore ad R, p potrà essere diminuito. Se guadagna un reddito inferiore ad R, p potrà essere aumentato. Un comportamento delle imprese che devono seguire la regola delle 3R è quello che conduce ad eccessi di investimento. Se le imprese sono interessate alla dimensione di R (ad es. con un criterio di massimizzazione del profitto per distribuire più dividendi ed influire sul valore dell’impresa) dovranno aumentare K per mantenersi nel rapporto prefissato r. Perciò, partendo da un capitale di 1000, con un tasso di rendimento imposto del 4%, potrebbero avere un R massimo di 40. Se ritengono di dover avere almeno 60, per mantenere il rapporto del 4% con il capitale dovranno aumentare il capitale, con nuovi investimenti, da 1000 a 1500. Difatti 4%1500 = 60. - La price regulation: è la definizione diretta dei prezzi fatti pagare ai consumatori dalle imprese, private o pubbliche, che offrono servizi di pubblica utilità. Questi pressi sono differenziati con diverse modalità:

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a) tariffa differenziata semplice: i prezzi individuali sono differenziati in base a caratteristiche del consumatore. Queste caratteristiche possono includere i livelli di reddito (tariffa discriminata per fascia sociale) o la tipologia dell’impianto (ad es. se riferito alla prima abitazione).

b) tariffa differenziata a due parti (v. supra MODULO II): la parte variabile può essere discriminata come la tariffa differenziata semplice.

- Il price cap: si usa in settori come quelli di telefoni, gas, elettricità e acqua per incentivare l’impresa ad abbassare i prezzi (le tariffe) ai consumatori, nel presupposto che l’impresa sia in grado, meglio di chi applica la regulation, di valutare e sviluppare comportamenti efficienti. I prezzi p sono fissati inizialmente in modo che l’impresa riceva il costo del capitale (un tasso di rendimento soddisfacente e comparabile con rendimenti medi in altri settori). Successivamente i prezzi possono crescere di un importo (dp) pari al tasso d’inflazione (I) diminuito di una percentuale fissa (x, che dovrebbe tener conto dei guadagni attesi di produttività), secondo la formula dp = I – x. Il price cap va riveduto periodicamente per valutare se x è una percentuale realistica e per aggiustare questa deduzione. Si ha concorrenza nel common carriage quando diverse imprese offrono lo stesso prodotto standardizzato con la medesima infrastruttura (rete, intesa come common carrier o ‘trasporto comune’), ad es. nell’elettricità, nelle telecomunicazioni, ma anche nei trasporti ferroviari. L’intervento pubblico serve ad impedire l’integrazione verticale di monopolisti (ad es. separando la produzione di energia elettrica dalla distribuzione dell’elettricità). L’accesso alla rete deve essere libero per le imprese che distribuiscono ed il costo di accesso deve essere soggetto a regulation. Esistono effetti di rete positivi per i consumatori, quando beni e servizi vengono standardizzati, migliorando di qualità, quando è obbligato l’uso di un’infrastruttura unica, ad es. nelle telecomunicazioni. Per garantire la concorrenza l’authority di settore deve impedire la concentrazione verticale, in modo che un produttore unico non sia proprietario esclusivo anche della rete di distribuzione e vi sia libero accesso di diversi produttori all’unica rete. In alternativa il network unico può essere una struttura pubblica. L’autorità di regulation ha informazioni diverse ed incomplete rispetto all’impresa che deve controllare. Non sa se e quanto l’impresa sia efficiente. Esiste quindi un’asimmetria di informazione tra regulator e controllata. Il regulator può incentivare un monopolio regolato a comportarsi in modo efficiente. Le modalità possono essere due.

1. Effettuare una regulation di quantità e prezzi basandosi sull’osservazione di qualche misura osservabile assoluta (costi, profitti).

2. Utilizzare un criterio di concorrenza surrogata (yardstick competition).

Il regulator effettua confronti di performance tra imprese simili. Ad esempio in situazioni in cui esistono diversi monopoli regionali (elettricità, telefoni, acqua) il prezzo che può applicare un’impresa dipende dal confronto con i prezzi degli altri monopoli in altre località. Si tratta di misure relative. Si può effettuare una procedura di c.d. benchmarking, cioè la ricerca di uno standard di riferimento: si individua l’impresa o la struttura migliore (la miglior organizzazione di vendita, il miglior servizio clienti, il miglior servizio di manutenzione) e la si utilizza come livello di riferimento per migliorare la qualità nei servizi. Il benchmarking è applicato dai responsabili di gestione per migliorare le performance delle organizzazioni. E’ strumento di possibile utilizzo per le imprese assoggettate a regulation come criterio di indirizzo per l’autorità di controllo.

La regulation può controllare la concorrenza tra imprese per l’accesso al mercato attraverso:

- il franchising: la concessione esclusiva e temporanea, con contratti di lungo periodo, utilizzata soprattutto per alcuni servizi di pubblica utilità (ad es. l’acqua) in paesi europei;

- l’ outsourcing: servizi e prodotti sono acquisiti al di fuori di un’azienda al fine di ridurre i costi. Può riguardare funzioni aziendali (marketing, gestione del personale e della contabilità), processi operativi (produzione industriale, acquisto di scorte), infrastrutture (servizi informatici,

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servizi di sicurezza, servizi di pulizia). L’outsourcing comporta relazioni contrattuali che ‘esternalizano’ attività nella ricerca di risorse al di fuori dell’organizzazione, quando è più conveniente che siano offerte da un’impresa diversa. Ciò avviene quando un’impresa esterna specializzata riduce i costi unitari, per le economie di scala, rispetto ad un servizio di dimensioni ridotte prodotto all’interno dell’impresa. Il risparmio di costi attraverso l’outsourcing può essere imposta dall’autorità di controllo.

La regulation nei controlli di tipo finanziario può utilizzare diverse tipologie di intervento.

L’obbligo di quotazione nel mercato dei capitali per un monopolio naturale privato. La trasparenza finanziaria e il valore di borsa evidenziano inefficienze o eccessivi profitti di un’impresa e la mantengono sotto pressione per una gestione efficiente.

La golden share e la poison pill. Nei processi di privatizzazione possono essere introdotte

misure a vantaggio di soggetti pubblici che vogliono mantenere qualche potere di controllo sulle società pubbliche privatizzate, al fine di impedire che soggetti non graditi (concorrenti nazionali e, soprattutto, stranieri) diventino azionisti di controllo.

a) la golden share (l’azione d’oro) consiste nel potere di veto, esercitabile da azionisti

pubblici di minoranza, su decisioni importanti (cessione del controllo della società, fusione con altre imprese, OPA ostile). Può permettere all’azionista pubblico di regolamentare i prezzi della società partecipata. Talora è stata considerata una misura restrittiva alla libera circolazione dei capitali in ambito UE.

b) la poison pill (la pillola avvelenata) è pure una misura contro le possibilità di acquisto

del controllo di una società o un’OPA ostile su di una società nella quale abbia partecipazione un soggetto pubblico. L’azionista pubblico può chiedere, anche contro gli interessi degli altri azionisti che potrebbero considerare conveniente un mutamento di struttura o di proprietà, che siano emesse nuove azioni preferenziali o nuovi strumenti finanziari collegati al patrimonio della società, tali da prevedere pesanti condizioni di acquisto da parte di nuovi acquirenti. In questo modo il capitale viene diluito e l’acquisto della società diventa più costoso per gli estranei.

La regulation a favore dei consumatori prevede interventi di autorità pubbliche per obbligare le imprese a garantire standard minimi di qualità dei prodotti, a fornire informazioni su caratteristiche e contenuti dei prodotti, ad assumersi responsabilità ed obblighi di risarcimento. Difficoltà della regulation I processi di regulation incontrano alcune difficoltà e sono soggetti a critiche.

La teoria della cattura spiega come gruppi privati con la regulation possono riuscire a tutelare interessi di gruppo anziché interessi pubblici. Chi è addetto alla regulation può essere ‘catturato’, nel senso che può essere influenzato e indirizzato nelle decisioni dalle imprese assoggettate alla regulation. Perciò, con l’andar del tempo le authority possono rischiare di essere dominate dalle stesse imprese assoggettate a regulation, anche attraverso i processi della politica. I politici ed i burocrati pubblici, che dovrebbero agire nella tutela di interessi pubblici, finiscono per tutelare interessi privati. Si è usata l’espressione “il guardacaccia si trasforma in bracconiere’.

Con gli arbitraggi si possono aggirare i vincoli della regulation, ad es. nei mercati finanziari,

utilizzando investimenti internazionali ed approfittando degli escamotage offerti dagli strumenti finanziari. L'arbitraggio consiste nell'acquistare un bene o un prodotto finanziario in un mercato A e rivenderlo poi in un mercato B, approfittando delle differenze di prezzo per guadagnare. L'arbitraggio

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è conveniente se il guadagno ottenuto è maggiore dei costi di trasferimento del bene o prodotto da un mercato all'altro e non ci sono rischi di altro tipo.

Differenza tra speculazione ed arbitraggio: - la speculazione ricerca il lucro con acquisto/rivendita differiti nel tempo (rivendita in un momento successivo all'acquisto) in base a previsioni di variazioni di prezzo in aumento; - l'arbitraggio lo ricerca con acquisto/rivendita contestuali nello spazio (acquisto e vendita dal mercato A al mercato B), in base alla conoscenza dell’esistenza contemporanea di prezzi diversi. La pratica degli arbitraggi tende a far diventare uguali i prezzi nel mercato A e nel mercato B. ………………………………………………………………………………………..

Esistono rischi di perdite nel passaggio da monopoli pubblici con bassi profitti a monopoli privati con regulation, per la necessità di offrire opportunità di profitto maggiori alle imprese private. Tali rischi riguardano le svalutazioni del capitale, le dismissioni di strutture obsolete ed inutilizzabili, i licenziamenti di personale eccessivo. Le imprese pubbliche solitamente sono caratterizzate da overmanning, un eccesso di personale rispetto ad imprese private, e considerate poco produttive anche per questa ragione. In Europa i molteplici processi di privatizzazione di monopoli e di imprese pubbliche, con liberalizzazioni e deregulation, sono stati determinati dalle necessità di:

a) Ridurre il peso della spesa publica nei vari stati, riducendo i disavanzi e il debito pubblico. b) Dare maggiore efficienza alle imprese che venivano privatizzate, incentivando contenimenti di costi,

nuovi investimenti ed introduzione di nuove tecnologie. c) Contenere gli interventi di protezionismo degli stati aderenti all’Unione Europea in alcuni settori,

così da aprire il mercato dell’Unione e favorire i movimenti di capitali. La regulation nei mercati finanziari è esercitata da autorità di settore. Un’authority che si occupa della tutela degli investitori, dell’efficienza, della trasparenza e della crescita del mercato dei capitali in Italia è la Consob (Commissione Nazionale per la Società e la Borsa, dal 1974, sul modello della Security and Exchange Commission – SEC, istituita negli S.U. nel 1934. Il controllo si applica a:

a) Mercati finanziari. Concerne la trasparenza nella contrattazione, nei prezzi e nell’uso di informazioni, in particolare nel mercato borsistico. L’authority accerta irregolarità sulla negoziazione di titoli e sull’abuso di informazioni privilegiate, il c.d. insider trading, e su operazioni di aggiotaggio.

b) Intermediari finanziari. Riguarda la correttezza di comportamento delle società di gestione e dei promotori. Sono autorizzate le pubblicazioni di prospetti informativi su offerte pubbliche di vendita e di acquisto.

c) Prodotti finanziari. Sono regolamentati gli obblighi delle società quotate in borsa di fornire informazioni sulle offerte di strumenti finanziari: azioni, obbligazioni private e pubbliche, fondi comuni, ecc.. Le società di gestione dei fondi comuni hanno obblighi di fornire prospetti informativi, rendiconti periodici sull’andamento e sulle quotazioni, i regolamenti di gestione.

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Per l’Italia si possono vedere Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas Un elenco delle Commissioni di controllo dei titoli e dei mercati finanziari nei vari paesi è in International Organization of Securities Commissions (IOSCO) Per l’energia International Energy Regulation Network (IERN) Si veda, per le comunicazioni ICT Regulation Toolkit Per altri paesi si possono vedere: CANADA Canadian Radio-Television and Communications Commission Office of the Superintendent of Financial Institutions FRANCIA Autorité des marchés financieres (AMF) GERMANIA Bundesanstalt für Finanzdienstleistungsaufsicht (BAFIN) GIAPPONE Financial Services Agency (FSA) GRAN BRETAGNA OFCOM (Office of Communications) OFGEM (gas and electricity) Finacial Services Authority RUSSIA Federal Financial Market Service SPAGNA Comisiòn Nacional del Mercado de Valores (CNMV) STATI UNITI U.S. Security and Exchange Commission (SEC) Commodity Futures Trading Commission SVEZIA Finansinspektionen

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2. L’authority a tutela della concorrenza e del mercato: l’Antitrust. Caratteristiche dell’antitrust Un’Autorità amministrativa indipendente con compiti antitrust in Italia è stata introdotta nel 1990 con l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM). Nell’Unione Europea la competenza antitrust è riservata alla Direzione Generale IV della Commissione Europea a Bruxelles (Politiche della Concorrenza, Affari Internazionali e Relazioni con altre Istituzioni).

Per l’Italia si può consultare il sito dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dove si trovano informazioni sulla struttura, il funzionamento e la documentazione dell’Autorità. Per l’Unione Europea si possono vedere il sito della Direzione generale della concorrenza, quello della concorrenza e quello relativo all’antitrust.

La normativa antimonopolistica è nata e si è sviluppata negli Stati Uniti, dalla fine del sec. XIX.

Lo Sherman Antitrust Act detto anche semplicemente Sherman Act, è la prima (1890) legge antitrust degli Stati Uniti per limitare i monopoli ed i cartelli. Lo Sherman Act fu firmato dal Presidente Benjamin Harrison e prende il nome dal suo autore, il senatore repubblicano John Sherman. Colpiva accordi (collusioni) tra imprese e cartelli "in restraint of trade" e proibiva i monopoli, non in quanto tali, ma in quanto le imprese tentassero di costituire nuove ‘posizioni dominanti’. Lo Stato federale poteva intentare azione civile (con ‘ingiunzioni’) o penale (con pene pecuniarie e detentive).

Il Clayton Antitrust Act del 1914 fu approvato negli Stati uniti per rafforzare la normativa antitrust: per far questo venivano proibite alcune pratiche anticoncorrenziali nel momento in cui si affermavano, con la proibizione di particolari tipi di comportamento, come:

• La discriminazione di prezzo tra diversi acquirenti, se tale discriminazione ha un effetto sostanziale di riduzione della concorrenza o tende a creare un monopolio.

• Le fusioni e le acquisizioni di imprese, quando l’effetto di queste può essere quello di una riduzione sostanziale della concorrenza.

• Le vendite condizionate dalla proibizione di trattare con altri venditori (exclusive dealing) o con l’obbligo di acquisto di altri prodotti insieme a quello acquistato (tying).

• La possibilità per la stessa persona di essere direttore di due o più imprese in concorrenza.

Il Clayton Act colpiva le pratiche non solo concretamente anticoncorrenziali, ma anche quelle che potessero essere anticoncorrenziali anche solo in via di presunzione, individuando dei comportamenti che potevano condurre verso situazioni di monopolio. L’applicazione della normativa antitrust è demandata all’autorità giudiziaria e non ad autorità amministrative.

Il Robinson-Patman Act (noto anche come Anti-Justice League Discrimination Act), è una legge federale del 1936 che proibiva alcune pratiche anticoncorrenziali di produttori e venditori (la discriminazione dei prezzi), praticate soprattutto dai venditori di grandi catene di distribuzione che potevano acquistare a prezzi più bassi rispetto ai piccoli venditori al dettaglio. Vietava le vendite a prezzi discriminati di beni a venditori, nella distribuzione, che avessero la stessa localizzazione, quando gli effetti fossero di ridurre la concorrenza.

Il Celler-Kefauver Act (o Anti-merger Act) è una legge federale introdotta nel 1950 impediva che si aggirasse il Clayton Act, proibendo l’acquisto anche delle attività (asset acquisition) di un’impresa concorrente, pratica usata per aggirare il divieto di acquisto del capitale azionario. Il Celler-Kefauver Act proibiva questa pratica, ostacolando così le fusioni verticali e le fusioni ‘conglomerate’ che potevano limitare la concorrenza.

Lo Hart-Scott-Rodino Antitrust Improvements Act (1976) conteneva emendamenti alla normativa preesistente (in particolare al Clayton Act), imponendo l’obbligo di comunicazione alla FTC ed alla Antitrust Division del Department of Justice di alcune tipologie di fusioni, offerte di acquisto ed altre transazioni relative all’acquisizione di imprese.

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La Federal Trade Commission (FTC) è un’agenzia indipendente del Governo degli Stati Uniti, istituita nel 1914 dal Presidente Wilson, in particolare contro i cartelli, con il Federal Trade Commission Act. La sua finalità fondamentale è quella della protezione dei consumatori e la prevenzione, o l’eliminazione, di pratiche commerciali considerate anticompetitive. In particolare la FTC intende:

- definire regole di condotta per individuare con precisione pratiche ingannevoli o ingiuste e stabilire criteri per impedire l’attuazione di tali pratiche: [dal 1938 la FTC assume compiti di tutela diretta dei consumatori, ad es. contro la pubblicità ingannevole];

- effettuare controlli e indagini su imprese, organizzazioni e comportamenti commerciali, esercitando così una generica funzione di vigilanza, ed esaminare preventivamente le pratiche commerciali e gli accordi che potrebbero comportare restrizioni della concorrenza;

- intervenire su segnalazioni di consumatori ed imprese, su indicazioni dei media, su inchieste ufficiali che segnalino frodi e pubblicità ingannevole;

- prevenire metodi di concorrenza sleale ed atti ingannevoli dannosi per il mercato;

- redigere rapporti e formulare proposte al Congresso;

- stabilire risarcimenti e ammende per comportamenti dannosi nei confronti dei consumatori.

La FTC può intervenire sulle imprese con un consent order (un accordo vincolante tra le parti) o con una sanzione amministrativa oppure iniziando un giudizio federale.

Il Bureau of Competition è la divisione della FTC che deve provvedere a prevenire ed eliminare le pratiche anticoncorrenziali, applicando la normativa antitrust, valutando le proposte di fusioni e le pratiche di restrizioni con accordi tra imprese in concorrenza diretta o tra imprese a differenti livelli nella stessa industria (ad es. produttori e grossisti, o grossisti e dettaglianti). La FTC applica la normativa antitrust insieme all’Antitrust Division del Department of Justice, che dal 1870 ha la competenza di perseguire chi viola leggi federali. Mentre l’applicazione civilistica della normativa è comune alla FTC ed all’Antitrust Division, quest’ultima ha anche il potere di perseguire penalmente chi viola la normativa antitrust. Nata originariamente per combattere i trust (cartelli), l’antitrust ha progressivamente ampliato le sue competenze nell’interpretare ed applicare le normative a tutela della concorrenza. Mira a promuovere e difendere la concorrenza tra imprese ed a proibire pratiche anticoncorrenziali con l’obiettivo di garantire la tutela della concorrenza per la protezione del consumatore. Quest’obiettivo ha privilegiato il benessere del consumatore rispetto all’efficienza dell’impresa. La concorrenza è considerata preferibile al monopolio ed ai cartelli perché fa vendere di più ed a prezzi più bassi ed i consumatori ne beneficiano. Il monopolio può essere creato dalla legge (monopolio legale) oppure dal mercato attraverso processi di concentrazione. Se viene ridotto il potere di cartelli e di oligopolisti questi dovrebbero abbassare i prezzi, incrementare la produzione e tenere in maggior conto le preferenze dei consumatori. I vantaggi per i consumatori consistono, oltre che nella riduzione dei prezzi, nella diversificazione dei prodotti. Il cartello è un gruppo di imprese indipendenti che fissano i prezzi, limitano le vendite, si spartiscono le quote e le aree geografiche del mercato. E’ il caso dell’oligopolio concentrato: poche imprese che producono lo stesso prodotto o servizio omogeneo si accordano su quantità e prezzi, ed il cartello agisce come unica impresa monopolistica. I cartelli si presentano come organizzazioni instabili, in quanto a lungo andare prevalgono tendenze centrifughe degli aderenti. I poteri di cartello possono essere creati a livello internazionale da accordi e trattati (ad es. i cartelli del petrolio). Nei mercato globali esistono misure ed organizzazioni di antitrust internazionale con accordi di assistenza reciproca tra stati.

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Il concetto di concorrenza non è univoco. Si può distinguere tra la concorrenza come processo e la concorrenza come regime di mercato. a) La concorrenza come processo consiste in un insieme di procedure, strategie e comportamenti di imprese che vogliono guadagnare, in relazioni di conflitto, quote di mercato e clienti sottraendoli ad altre imprese, attraverso riduzioni di prezzo, incrementi di quantità, pubblicità, operazioni di marketing e di promozione commerciale. La concorrenza come processo è incompatibile con un regime di mercato concorrenziale e non ha ragion d’essere in monopolio, dove esiste una sola impresa, ma è tipica di mercati in concorrenza imperfetta. Nei processi concorrenziali rilevano le modalità con cui le imprese si comportano strategicamente nei confronti delle imprese rivali, effettive o potenziali, come ad esempio i comportamenti deterrenti credibili e non credibili nell’escludere i concorrenti. Concentrandosi su questo concetto di concorrenza si privilegia l’analisi dei comportamenti strategici delle imprese in concorrenza imperfetta e delle politiche dei prezzi, anziché della struttura del mercato. b) La concorrenza come regime di mercato è una situazione di equilibrio in cui produttori e venditori sono in numero elevato, ciascuno ha piccole dimensioni e nessuno è in grado di influire sul prezzo e si vende ad un prezzo molto vicino al costo minimo, così da permettere la sopravvivenza dell’impresa. In tale regime si massimizza la produzione al prezzo più basso rispetto ad altri regimi di mercato, con il massimo vantaggio, in termini di prezzo e di quantità, per i consumatori. Dato che un regime di concorrenza pura è impossibile da realizzarsi nella pratica è stato proposto il concetto di concorrenza praticabile come obiettivo dell’antitrust. I criteri proposti per individuare una concorrenza praticabile riguardano il numero e le dimensioni delle imprese (in funzione delle economie di scala), la pubblicità (dovrebbe informare e non ingannare), le spese promozionali (non dovrebbero essere eccessive). Una situazione di concorrenza praticabile è in grado di offrire ai consumatori una ragionevole libertà di scelta, intesa come presenza di alternative di acquisto. Tra le critiche agli interventi dell’antitrust è frequente quella che sarebbero indirizzati più alla protezione dei concorrenti esistenti in un dato momento che non alla tutela della concorrenza come processo. Nella teoria economica neoclassica la concorrenza perfetta (o pura) è un modello teorico astratto che rappresenta una forma (o regime) di mercato caratterizzata dall'impossibilità degli imprenditori di fissare il prezzo di vendita dei beni o servizi che producono. I prezzi dipendono solo dall'incontro della domanda e dell'offerta. La domanda dipende dall’utilità e dal reddito, l’offerta dipende dal costo di produzione. Gli individui consumatori e le imprese che producono e vendono si sforzano, indipendentemente, di acquistare e di vendere di più nei termini più favorevoli. Gli uni puntano alla massima soddisfazione distribuendo il reddito tra gli acquisti, le altre mirano ad avere il maggior numero di clienti.

Le caratteristiche della concorrenza perfetta comprendono un elenco di ipotesi restrittive, che riguardano sia i consumatori (clienti) che le imprese (produttori, venditori).

1. Il bene o servizio venduto è omogeneo (standardizzato) ed è prodotto, con caratteristiche identiche, da tutte le imprese. I consumatori sono consapevoli di questa identità e del fatto che possano richiedere lo stesso prodotto a qualsiasi impresa, senza difficoltà o costi aggiuntivi (ad es. costi di trasporto, costi di ricerca). Se qualche impresa decidesse di aumentare il prezzo esistente i consumatori si rivolgerebbero immediatamente ad altre imprese.

2. I consumatori e le imprese hanno informazione perfetta, disponendo di informazioni complete sui costi di produzione, i prezzi, i redditi.

3. Le imprese che operano sul mercato perfettamente concorrenziale hanno una dimensione atomistica, tale da non poter influenzare i prezzi di vendita. Nessuna ha una quota significativa di mercato. Le imprese sono price takers e non sono in grado di praticare strategie contro le altre imprese né contro i consumatori. Non sono in grado di mettersi d’accordo con altre imprese per influire sui prezzi di vendita o sulle quote di mercato.

4. Nel mercato perfettamente concorrenziale non esistono barriere all'ingresso e all'uscita dei concorrenti. Il mercato è aperto alla concorrenza di nuove imprese che vogliano accedere.

5. Tutte le imprese hanno uguali possibilità di accesso alle tecnologie ed agli inputs di produzione. Le innovazioni nella tecnologia di produzione di un’impresa si possono diffondere rapidamente e senza restrizioni a tutte le imprese.

6. I fattori di produzione, in particolare il capitale ed il lavoro, sono perfettamente sostituibili fra loro, e possono essere riallocati alla produzione di diversi beni.

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7. Non esistono esternalità nella produzione e nel consumo: l’utilità di un consumatore e la produzione di un’impresa non sono soggette ad influenze e condizionamenti da parte di consumi di altri consumatori e dalla produzione di altre imprese. Non ci sono, in concorrenza pura, costi o benefici sociali che divergono da costi e benefici privati.

Tenendo conto delle caratteristiche elencate, il grado di concorrenzialità di un mercato o di un’industria (il mercato o l’industria si riferiscono alla produzione di un bene o servizio: più beni e più servizi individuano più mercati e più industrie) dipende dal numero di imprese che producono e vendono, dall’omogeneità del prodotto, dal numero di consumatori, dalle possibilità di entrata in un mercato, dal grado in cui le imprese possono agire in modo collusivo e concordato, dall’assenza di restrizioni legali (es. brevetti).

Lo spettro della concorrenza varia dalla concorrenza perfetta, una situazione essenzialmente teorica, al monopolio, in cui esiste una sola impresa nell’industria, impresa che ha considerevole discrezione nel fissare prezzi o quantità. Le situazioni di concorrenza imperfetta si classificano a seconda che siano più vicine ad un estremo dello spettro (concorrenza perfetta) o all’altro (monopolio). I movimenti di un’impresa in concorrenza imperfetta verso il monopolio, con una diminuzione del grado di concorrenzialità, sono considerati negativi per i consumatori. La ragionevolezza di comportamenti e di pratiche delle imprese si trova nelle motivazioni di un comportamento, che potrebbero condurre ad una nuova situazione di maggior efficienza rispetto a quella esistente. Nel confronto con il monopolio la concorrenza è ritenuta più efficiente. L’efficienza indica la minimizzazione di input per un output dato, oppure la massimizzazione di output da un dato input. Sinteticamente, indica il miglior uso possibile dei fattori produttivi. L’efficienza è considerata un risultato ed una proprietà della concorrenza. Più in dettaglio, per efficienza si può intendere:

L’efficienza allocativa: dice che gli input sono i migliori possibili per dati output, oppure che gli output sono i migliori possibili con dati input. In regime di concorrenza, rispetto a situazioni di monopolio e di concorrenza imperfetta, la produzione è maggiore, gli incentivi sono più forti si sfruttano meglio le risorse disponibili, i consumatori si trovano con prezzi più bassi e con benessere più elevato. (‘allocazione’ significa ‘assegnazione’, ‘utilizzo’, ‘destinazione’)

L’efficienza produttiva (minimizzazione dei costi) è propria della concorrenza in quanto incentiva le imprese a ridurre i costi per fronteggiare le imprese rivali.

L’efficienza nell’innovazione e nel mercato è pure tipica della concorrenza che spinge, più del monopolio, ad investire ed a scegliere le migliori tecniche di marketing e di vendita.

Un’impresa ha efficienza X se produce il massimo output da input dati (anche se questi non sono i migliori input), con la miglior tecnica di produzione. L’inefficienza X indica l’incapacità di un’azienda di ottenere il massimo output dai suoi input, per la mancanza di incentivi concorrenziali. In concorrenza se un’impresa è meno efficiente delle altre deve abbandonare il mercato. Situazioni non concorrenziali possono permettere ad un’impresa di rimanere nel mercato perché la mancanza di concorrenza non incentiva all’uso delle tecniche di produzione più efficienti.

La concorrenza impone vincoli ai comportamenti non corretti delle imprese per la presenza di:

- concorrenza potenziale da parte di altre imprese; - sostituibilità della domanda: le imprese sono tanto meno in grado di comportarsi da monopolisti

quanto più facilmente i consumatori possono spostarsi da un prodotto di un’impresa a quello di un’altra impresa;

- sostituibilità dell’offerta: il venir meno dell’offerta di un’impresa è rapidamente compensata dall’incremento di offerta di altre imprese.

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Le normative antitrust proibiscono comportamenti e strutture che favoriscano l’instaurazione o il rafforzamento di regimi di mercato non concorrenziali. Pertanto pongono limiti alle pratiche commerciali anticoncorrenziali non ragionevoli che impediscono, restringono o attenuano la concorrenza. Ne sono esempi gli accordi tra concorrenti effettivi o potenziali per fissare i prezzi, dividersi i mercati, limitare la produzione e la distribuzione, impedire la diffusione del progresso tecnico, bloccare gli investimenti, imporre discriminazioni di prezzo tra consumatori e vincoli di acquisto e di vendita, utilizzare tecniche pubblicitarie scorrette ed ingannevoli.

L’antitrust ha come obiettivo quello di impedire o limitare:

c) comportamenti unilaterali che riguardano una sola impresa, oppure comportamenti che riguardano più imprese (ad es. le intese collusive di cartello, le fusioni);

d) comportamenti contrattuali (ad es. contratti di vendita e di acquisto, fusioni) o accordi informali extra contrattuali (ad es. le intese tacite);

e) comportamenti effettivi oppure comportamenti presunti o semplicemente possibili. Possono essere vietati comportamenti che di per sé non sono negativi, ma che implicano la probabilità o la possibilità di un comportamento successivo, anche distante nel tempo. L’antitrust può colpire le intenzioni di comportamento attribuite ad un’impresa, più che i comportamenti reali.

In particolare l’antitrust vuole impedire:

1. Le intese collusive tra imprese, tali da imporre restrizioni alla commercializzazione di beni e servizi. Si tratta in particolare di accordi di cartello, ovvero di accordi anticoncorrenziali tra imprese, formalizzati oppure soltanto taciti, che risultino in restrizioni commerciali. Ne sono esempi tipici le intese di price fixing (la determinazione di un prezzo unico o una differenziazioni di prezzi concordata in modo che i consumatori non possano scegliere tra l’offerta di diverse imprese) e le intese per la ripartizione del mercato (le imprese si ripartiscono le aree geografiche di vendita, in modo che in ciascuna area ogni impresa operi come un monopolista). L’intesa è un accordo collusivo, antitetico al conflitto concorrenziale. Appartengono alla categorie delle intese collusive le restrizioni verticali, che sono accordi o pratiche concordate tra due o più imprese. Ogni impresa opera ad uno stadio economico diverso, per quanto riguarda la fornitura, l'acquisto di beni destinati alla vendita o alla trasformazione, oppure la vendita di servizi. L'accordo disciplina le condizioni a cui le parti possono acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi. Le restrizioni verticali possono avere effetti positivi se favoriscono la concorrenza tra imprese su aspetti diversi da quello del prezzo e incentivano a migliorare la qualità dei servizi. Il monopolio anziché da un’impresa unica può risultare dalla somma di più imprese che concordano il loro comportamento segmentando il mercato.

2. Gli abusi di posizione dominante. Un'impresa ha una posizione dominante se

può comportarsi in modo indipendente dai concorrenti e dai consumatori. Ciò avviene quando essa possiede quote elevate di vendite in un determinato mercato e quando le possibilità di reazione degli altri concorrenti, effettivi o potenziali, sono limitate. Pertanto una o più imprese sono in una posizione dominante se dispongono di un potere economico capace, almeno in teoria, di influenzare i parametri della concorrenza, cioè i prezzi, la produzione, la distribuzione, l'innovazione, e di limitare sensibilmente la concorrenza. La concentrazione del mercato è considerata requisito necessario, anche se non sufficiente, perché ci sia potere di mercato. La legge non vieta la posizione dominante in quanto tale, ma impone vincoli ai possibili comportamenti di un'impresa che si trova in questa situazione. Un'impresa in posizione dominante potrebbe essere portata a sfruttare tale posizione, ad esempio, per imporre prezzi eccessivi o per concedere vantaggi, in modo discriminante, per condizionare il comportamento dei clienti o per escludere i concorrenti dal mercato. L’abuso si realizza con:

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a) sconti, premi di fedeltà, convenzioni commerciali, che vincolano clienti e venditori ad un’impresa;

b) la pratica di prezzi non ragionevoli o di condizioni di acquisto con oneri ingiustificati: vi rientra il caso degli ostacoli posti alla c.d. interoperabilità: ad es. un’impresa con posizione dominante nel mercato del software, come è accaduto per la Microsoft, può imporre prezzi esorbitanti e negare informazioni o componenti di software ad utenti e produttori di software che vogliono interagire con server e programmi estranei all’impresa dominante;

c) l'adozione di comportamenti volti ad ostacolare l’accesso al mercato di altri concorrenti o a indurre quelli già presenti ad abbandonare l’attività.

Solo se un’impresa è in grado di attuare queste pratiche di abuso è in posizione dominante. Pertanto è l’insorgenza di comportamenti proibiti che indica la presenza effettiva di una posizione dominante.

3. Le fusioni tra imprese che impediscono o ostacolano la concorrenza determinando concentrazioni di mercato ed aumenti di prezzi. La fusione è l’unificazione di due o più imprese in una sola società.

Si ricorda che una fusione (si veda MODULO V) si può realizzare in due modi. Per incorporazione: la società A assorbe la società B che si estingue trasferendo ad A tutte le sue attività ed il suo patrimonio. La società A si ingrandisce e la società B scompare. Gli azionisti di B ricevono nuove azioni di A. Per consolidamento: A e B costituiscono una nuova società C alla quale trasferiscono patrimoni ed attività e scompaiono entrambe. Le imprese possono considerare, in alternativa alle fusioni, altre opportunità nelle quali si realizzano modalità di proprietà comune senza l’estinzione di società preesistenti: - la società A acquista la maggioranza di controllo della società B senza fondersi con questa, di modo che l’impresa B è subordinata ad A; - le due società trovano la convenienza ad un rapporto di controllo reciproco ed incrociato: l’impresa A acquista la maggioranza delle azioni di B e B acquista la maggioranza delle azioni di A; - una società C (ad es. una holding) acquista la maggioranza di controllo di A e di B.

Un’impresa può crescere con l’acquisizione di un’altra impresa. Ma può crescere anche:

con aumento di capitale finanziato con l’emissione di nuove azioni; con il passaggio a capitale di utili accantonati a riserva (crescita interna); con l’indebitamento.

Il perseguire solo un comportamento di crescita (la fusione) rispetto ad altri può rappresentare una discriminazione antieconomica. L’autorità antitrust nell’autorizzare una fusione può imporre l’obbligo di dismissioni e lo scorporo di attività per ridurre il peso della concentrazione. Gli indici di concentrazione sono utilizzati per valutare il potere di mercato delle imprese.

Esistono diversi indici di concentrazione per misurare la posizione di un’impresa in relazione alla quota di mercato, come indicatore della sua posizione, più concorrenziale o più monopolistica. La quota di mercato di un’impresa è un valore percentuale e si calcola come il fatturato dell’impresa in rapporto al fatturato di tutte le imprese operanti nel mercato. Se c’è un’impresa sola (un monopolio) la sua quota di mercato è del 100%. Se dopo un’operazione di mercato la quota di un’impresa aumenta si immagina che si sia spostata verso una posizione più monopolistica. Se diminuisce, verso una posizione più concorrenziale. La quota di mercato e le sue variazioni non sono, tuttavia, indicatori determinanti del grado di concorrenza. Ad esempio, un’impresa A ha il 30% delle quote, un’impresa B il 10%, un’impresa C il 40%, un’impresa D il 20%. Se l’impresa C abbandona il mercato la sua quota viene ripartita tra le altre imprese, che aumentano le proprie quote senza aver fatto nulla.

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Gli indici di concentrazione di mercato più utilizzati sono i seguenti.

- C4: è la somma delle quote di mercato delle prime 4 imprese di maggiori dimensioni (i.e. col maggior fatturato) operanti nel mercato;

- Indice di Lorenz: indica il rapporto tra la percentuale delle imprese in un mercato e la percentuale del fatturato complessivo nello stesso mercato. Un’impresa che abbia il 100% del fatturato è un monopolio. Se tutte le imprese (in numero elevato) hanno una percentuale minima ed eguale c’è perfetta concorrenza.

- Indice di Herfindahl: è la somma delle quote di mercato di ciascuna impresa, ognuna delle quote è elevata al quadrato (la somma dei quadrati delle quote di mercato). Riflette il numero delle imprese e la loro dimensione relativa.

- Indice di Theil: misura la dispersione delle imprese in un mercato e si calcola sommando le quote di mercato di ciascuna impresa; ogni quota è moltiplicata per il suo logaritmo.

Il grado di monopolio di un’impresa si costruisce con una frazione. Al numeratore si indica la differenza tra il prezzo ed il costo medio, al denominatore il prezzo. Rappresenta la quota di profitto sul prezzo. Maggiore la quota, maggiore il grado di monopolio e maggiore il potere di mercato. In concorrenza il prezzo tende al costo medio minimo, annullando il profitto e quindi il grado di monopolio è pari a zero. Il costo medio può essere il costo medio variabile o il costo medio totale. …………………

Definizioni richiamate: Periodo di tempo e costi

Per quanto riguarda il periodo di tempo nel quale opera l’impresa si distingue tra:- Periodo di tempo brevissimo (o di magazzino): la struttura dell’impresa è data e non varia e la produzione è già stata effettuata: il prodotto (una merce fisica) può essere solo: a) venduto; b) in parte venduto ed in parte conservato in magazzino per una vendita successiva; c) parzialmente distrutto per non far crollare i prezzi di mercato, se è eccessiva la quantità prodotta (è il caso di alcune produzioni agricole quando c’è eccedenza di produzione) o quando sarebbero eccessivi i costi di conservazione in magazzino (per beni deperibili); nel periodo di tempo brevissimo l’impresa può decidere solo sulla destinazione del prodotto. - Periodo di tempo breve: la struttura dell’impresa (dimensione, impianti, scala di produzione) è data e non varia, ma l’impresa può decidere quanto produrre con quella struttura (da una produzione nulla alla produzione corrispondente al massimo sfruttamento della struttura e dei fattori da essa utilizzabili). - Periodo di tempo lungo: l’impresa può modificare la sua struttura, ampliarsi, acquisire nuovi impianti e nuove tecnologie, mutare le qualità della produzione, trasformarsi e rivolgersi a nuovi mercati, far variare la capacità di produzione massima.

Il concetto di periodo di tempo non ha una dimensione temporale (mesi, anni), ma riguarda le possibilità di comportamento dell’impresa.

Per quanto riguarda i costi si distingue tra:

Costi fissi: sono costi indipendenti dalla produzione, che rimangono fissi e che l’impresa deve comunque sostenere (ad es. le assicurazioni, le spese per la sicurezza, i canoni); nel priodo di tempo lungo anche i costi fissi possono variare, quando varia la dimensione strutturale dell’impresa.

Costi variabili: sono costi che variano con la produzione: aumentano se questa cresce, diminuiscono se la produzione decresce (ad es. le materie prime, i semilavorati, le spese per l’energia e per i lavoratori).

Costi totali = Costi fissi + costi variabili. Costo medio variabile: costo variabile/quantità prodotta. Costo medio totale: costi totali/ quantità prodotta. Costo marginale: è il costo di ogni unità aggiuntiva prodotta (può essere costante, crescente o

decrescente).

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Comportamenti proibiti Nel valutare i comportamenti anticompetitivi degli abusi di posizione dominante o del potere di mercato si seguono due impostazioni diverse.

- Un’impostazione strutturale, o CSP (Concentration-Structure-Performance), diffusa negli Stati Uniti negli anni ’50 e ’60, afferma che il grado di concentrazione del mercato determina la struttura concorrenziale o monopolistica ed il potere di mercato dell’impresa e quindi il comportamento monopolistico è una conseguenza necessaria ed indiscutibile. Conta esclusivamente la constatazione oggettiva che esiste un livello di concentrazione di mercato. La concentrazione del mercato determina la struttura industriale, più concorrenziale o più monopolistica, cui necessariamente seguono comportamenti..presunti..delle..imprese. Ne consegue la c.d. per se rule: viene proibita la costituzione di una concentrazione monopolistica o è vietato un comportamento indipendentemente da altre considerazioni (ad es. l’efficienza aziendale conseguente ad una concentrazione, l’assenza di comportamenti non monopolistici nella produzione e nelle vendite). L’impostazione strutturale equivale ad un principio di prevalenza della concorrenza come struttura sull’efficienza. Il criterio equivale al principio melius prevenire quam reprimere nella presunzione (juris et de jure) che certi comportamenti pericolosi conseguano necessariamente alle dimensioni di un’impresa. Il principio trova applicazioni in casi come i seguenti: 1. obbligo di cessione/vendita/chiusura di sportelli, agenzie o filiali di un’impresa (ad es. banca,

assicurazione) che ne acquista un’altra o che è acquisita da un’altra: ciò al fine di impedire il formarsi di una posizione dominante nel mercato.

2. Obbligo di cessione di attività connesse, anche di carattere complementare, a quelle di nuova acquisizione: ad es. l’obbligo di vendere testate giornalistiche o reti televisive per un’impresa che acquisti reti o testate. Tale obbligo mira, in particolare, ad impedire la formazione di posizioni dominanti nel campo dell’informazione e della pubblicità che può essere diffusa con diversi media.

3. Lo scorporo di rete: esistono imprese che hanno una rete fissa (per le telecomunicazioni, le ferrovie, la distribuzione del gas, dell’elettricità, dell’acqua, ecc.) che le pone in condizioni di vantaggio rispetto ad altre imprese che devono accedere alla rete senza esserne proprietarie. Si tratta di infrastrutture in monopolio naturale che danno privilegi per l’accesso ed il trasporto all’impresa proprietaria. Così vanno separate l’impresa proprietaria della rete (es. ferroviaria, di impianti di trasmissioni radiotelevisive, della rete di distribuzione dell’energia elettrica, dei telefoni, del gas, dell’acqua) dalle imprese che producono e vendono i servizi sulla rete. Nella politica antitrust si impone, quanto meno, l’obbligo all’impresa proprietaria di tenere una contabilità regolatoria e separata della rete, per ragioni di trasparenza. Le alternative fondamentali, in questi casi, sono: a) la separazione funzionale: la rete è attribuita ad una divisione dell’impresa proprietaria; b) la separazione strutturale: la rete è conferita in un’impresa autonoma, una società di capitali le azioni della quale possono essere vendute, o al pubblico o riservate le imprese in concorrenza che utilizzano la rete. Un’altra alternativa è quella di pubblicizzare la rete facendola gestire ad un’impresa pubblica o ad un’impresa privata a controllo pubblico.

- Un’impostazione comportamentista, affermatasi negli anni ’70 e ’80 sempre negli Stati Uniti, tiene conto dei comportamenti effettivi di un’impresa. Pertanto si applica la c.d. rule of reason (regola di ‘ragionevolezza’): si deve esaminare, caso per caso, se vi siano ragioni economiche valide che giustifichino un processo di concentrazione o se vi sia un comportamento che sia di tipo monopolistico. Con questa regola può essere considerato lecito un accordo proibito dalla normativa antitrust se questo accordo è ‘ragionevole e proficuo’ negli interessi della collettività e non è tale da alterare il ‘bene comune’.

La concentrazione nel mercato potrebbe essere giustificata da ragioni di maggiori efficienza. Si devono

bilanciare gli effetti contro la concorrenza e quelli a favore della concorrenza per valutare il singolo caso.

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Si applica l’ipotesi dell’efficienza differenziale: la concentrazione del mercato non conduce necessariamente ad elevati margini di prezzo sui costi (profitti monopolistici), perché le imprese più efficienti ottengono naturalmente, attraverso un processo evolutivo e selettivo di per sé efficiente, ampie quote di mercato ed i vantaggi di costo e di qualità permettono di realizzare un margine sui costi senza elevare i prezzi. L’impostazione comportamentista equivale ad un principio di prevalenza dell’efficienza sulla concorrenza come struttura.

Le discriminazioni nelle vendite, come abusi di posizione dominante, si possono realizzare con più modalità.

Imposizione di contratti collegati (tying contracts). La vendita di un prodotto X è condizionata all’acquisto di un altro prodotto Y, che può essere complementare al primo e quindi trovare talvolta una giustificazione commerciale (ad es. la carta per una fotocopiatrice o una pellicola per una macchina fotografica) oppure no. Con la pratica del tying un’impresa può tentare di danneggiare la concorrenza di altre imprese che vendono separatamente il prodotto X o il prodotto Y. Questi contratti danno luogo a leverage e rafforzano posizioni dominanti. Si ha leveraging quando un’impresa approfitta del vantaggio derivante dall’operare in un mercato per guadagnare altri vantaggi nel vendere in altri mercati, di solito connessi al primo. Il leveraging può favorire oppure ostacolare la concorrenza. Può funzionare come un’integrazione verticale: un’impresa può ridurre i costi di informazione, migliorare la catena di distribuzione e la qualità dei prodotti e beneficiare i consumatori con politiche di sconti sui prezzi dei prodotti collegati. Ma può anche servire per far crescere i costi di concorrenza per le imprese rivali e ridurne i profitti per eliminarle dal mercato. Una volta realizzato questo obiettivo l’impresa può aumentare i prezzi nel mercato del primo prodotto ed in quello del prodotto collegato. Il primo tipo di leveraging non dovrebbe essere colpito dall’antitrust, il secondo sì. Va fatta distinzione tra tying orizzontale quando ai consumatori è imposto di acquistare insieme al prodotto X anche il prodotto Y che con X non ha nessuna relazione (ad es. un bene di tipo alimentare insieme con un bene di vestiario) e tying verticale, quando X ed Y sono complementari o correlati. Il tying orizzontale è più facilmente colpito dall’antitrust, il secondo può avere giustificazioni di efficienza (di carattere tecnologico, assicurativo, ecc.).

Vendor lock in: si tratta di un vincolo imposto da un venditore ad un consumatore. Il consumatore

non può cambiare venditore senza sopportare costi pesanti. In questo modo è favorito il venditore e danneggiato il consumatore. I costi di lock in possono rappresentare barriere all’entrata (v. infra) di nuove imprese, impedendo ai consumatori di spostarsi come clienti. Il vincolo può essere di tipo contrattuale (ad es. un obbligo di acquisto di licenza) o tecnologico (per l’incompatibilità di un prodotto con un altro). Ad es. le imprese possono obbligare i consumatori all’acquisto, presso le stesse imprese o imprese collegate, di parti di ricambio dei prodotti venduti, o vincolare gli acquirenti dei loro prodotti all’uso di prodotti complementari (ad es. i sistemi operativi ed i programmi per i computer, i software) incompatibili con altri prodotti. L’antitrust colpisce più facilmente il lock in contrattuale.

Imposizione di prezzi predatori (Predatory pricing): un’impresa che vuole proteggere o ampliare la

sua quota di mercato e la sua posizione dominante contro concorrenti esistenti o potenziali abbassa temporaneamente i prezzi dei propri prodotti anche al di sotto dei costi, per eliminare i profitti o infliggere delle perdite ai concorrenti. Ciò può scoraggiare l’ingresso di nuove imprese, eliminare dal mercato imprese già operanti, indebolire imprese che si vogliono acquistare. I prezzi predatori sono, immediatamente, a vantaggio dei consumatori, ma l’authority immagina che saliranno e si porteranno verso prezzi di monopolio quando sarà rafforzata la posizione dominante dell’impresa che li ha applicati. Il predatory pricing si presenta con alcune condizioni:

a. l’impresa deve avere un sufficiente potere di mercato per aumentare

unilateralmente i prezzi; b. ci deve essere una ragionevole aspettativa che l’impresa possa recuperare le

perdite in seguito, con un aumento dei prezzi e sfruttamento dei consumatori; c. il prezzo deve essere abbassato al di sotto di un costo medio standard, che viene

generalmente ricondotto o al costo medio totale (la somma dei costi fissi e variabili

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in rapporto alla produzione totale: il c.d. prezzo di esclusione, che impedisce l’accesso ai concorrenti eliminando le possibilità di profitto) oppure al costo medio variabile (costi medi variabili in rapporto alla produzione: il c.d. prezzo di eliminazione, che obbliga i concorrenti ad uscire immediatamente dal mercato, in quanto determina condizioni di perdita sui costi variabili, oltre che sui costi fissi).

Si ritiene talvolta che il predatory pricing non sia negativo in sé, perché può giovare ai consumatori e che sia meglio contrastato dal libero mercato piuttosto che da un’authority.

Price fixing: le imprese trovano un accordo collusivo (conspiracy) nel concordare i prezzi di vendita

dei loro prodotti, così da impedire la mobilità dei clienti da un’impresa all’altra. Sono considerate violazioni per se. La flessibilità dei prezzi è considerata una caratteristica della concorrenza. Esempi di price fixing sono gli accordi per:

o vendere ad un prezzo fisso o con il limite di un prezzo minimo o aderire ad un listino prezzi

concordato; o stabilire costi uniformi ed applicare margini uniformi sui costi; o acquistare ad un prezzo massimo dai fornitori; o fissare le modalità di credito ai consumatori e le modalità per concedere sconti; o ridurre le vendite per non far diminuire i prezzi; o fissare aree di mercato esclusive con prezzi tali da impedire la mobilità dei consumatori tra

aree; o far aderire nuove imprese a precedenti termini di vendita già concordati.

Un caso diverso di price fixing è la resale price maintenance (prezzo di rivendita imposto). Si verifica quando un’impresa industriale impone ad un grossista o ad un venditore al dettaglio di vendere ad un determinato prezzo, oppure fissa un prezzo minimo al di sotto del quale non si può vendere. L’impresa può voler tenere alti i prezzi dei rivenditori per tenere alti i propri profitti, oppure perché ha interesse che anche i rivenditori abbiano profitti e si facciano poca concorrenza. Ma può anche volerli tenere bassi per impedire che i rivenditori restringano il mercato del prodotto. Ciò impedisce sia la concorrenza tra rivenditori nell’abbassare i prezzi ed i profitti sia un rialzo eccessivo che crei posizioni monopolistiche tra i rivenditori. Tale imposizione può ostacolare la concorrenza commerciale, ma può anche avere giustificazioni economiche nel senso di mirare a garantire un minimo di rendimento ai rivenditori o di impedire una cattiva immagine del prodotto venduto ad un prezzo troppo basso (soprattutto per i beni che hanno prezzi considerati come indicatori di qualità, caso tipico dei beni di lusso). E’ un tipo di restrizione verticale che potrebbe servire per coordinare imprese a monte ed a valle del processo di produzione e distribuzione di un prodotto. I prezzi liberamente fissati da imprese nella catena verticale potrebbero danneggiare le altre perché troppo alti o troppo bassi.

Il bid rigging, considerato un tipo di price fixing, è un’intesa illegale tra due o più imprese

concorrenti in un’asta pubblica, bandita da un’amministrazione o da un ente pubblico, di fornitura di beni o servizi, intesa per fissare un prezzo o per ripartirsi il mercato. Riguarda anche la fornitura di servizi di pubblica utilità in un network comune (ad es. l’elettricità). Le imprese concordano su chi si aggiudicherà l’asta ed a quale prezzo. In questo modo contraddicono il funzionamento dell’asta, che dovrebbe mirare a contenere i prezzi con l’aggiudicazione della fornitura al migliore offerente, in concorrenza ( gara) con gli altri. Le pratiche di bid rigging possono riguardare:

d) l’accordo per cui un’impresa rinuncia a partecipare alla gara in favore di un’altra impresa; e) l’accordo di subappalto successivo ad un’impresa che rinuncia a partecipare all’asta; f) le offerte di copertura, con cui un’impresa fa offerte eccessivamente elevate al solo fine di

favorire un’altra impresa, per far alzare il prezzo di aggiudicazione; g) la rotazione concordata delle assegnazioni in gare successive. Queste pratiche possono essere combinate tra di loro. Il danno del bid rigging, che oltre

all’antitrust interessa la legislazione penale, è sia nei confronti dell’amministrazione pubblica che

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bandisce le gare, sia nei confronti dei consumatori che possono trovarsi a pagare prezzi eccessivi, come nei casi di monopolizzazioni.

Il mercato rilevante che si considera nella prospettiva dell’ antitrust è, contemporaneamente: - il mercato del prodotto rilevante riguarda beni e servizi che sono considerati intercambiabili e sostituibili in base a caratteristiche, prezzi e utilizzo; - il mercato geografico rilevante è l’area nella quale le imprese agiscono e dove esistono condizioni di concorrenza abbastanza omogenee che differenziano quest’area dalle altre. Per definire correttamente un mercato geografico rilevante si devono considerare anche i costi di trasporto di imprese diverse, l’esistenza di barriere all’entrata, le preferenze dei consumatori.

La politica antitrust seguita dall'Unione Europea (articoli 81-89 del Trattato) si articola sui seguenti obiettivi:

• divieto di pratiche concordate, di accordi e di associazioni tra imprese che possano pregiudicare il commercio tra gli Stati membri impedendo, ostacolando o falsando la concorrenza all'interno del mercato comune;

• divieto dell’ abuso di una posizione dominante sul mercato comune se è pregiudizievole agli scambi commerciali tra Stati membri;

• controllo sugli aiuti concessi dagli Stati membri sotto qualsiasi forma, suscettibili di falsare la concorrenza favorendo determinate imprese o produzioni;

• controllo preventivo sulle operazioni di concentrazione di dimensioni europee, autorizzandole o vietandole; le fusioni sono autorizzate se non creano né rafforzano un posizione dominante: il criterio seguito è quello oggettivo della quota di mercato e la posizione dominante implica una quota superiore al 50%;

• liberalizzazione di alcuni settori in cui aziende pubbliche o private operano in una situazione di monopolio, come il settore dei trasporti, dell'energia e delle telecomunicazioni.

L’UE può concedere deroghe se:

- un determinato accordo tra imprese permette di migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti ovvero di promuovere il progresso tecnico;

- nel caso di aiuti di Stato se si concedono per ragioni di carattere sociale o sono destinati a finalità di promozione e salvaguardia della cultura e del patrimonio culturale.

L'UE interviene affinché:

• la ricerca della concorrenza nel mercato interno non comporti l'indebolimento della competitività delle imprese europee nei mercati mondiali;

• le liberalizzazioni e le privatizzazioni non comportino riduzioni nei livelli di servizi di interesse generale che rispondono a bisogni fondamentali.

Alcuni possibili effetti negativi delle restrizioni verticali che l’antitrust dell’Unione Europea vuole impedire sono:

• l’ esclusione di fornitori o di acquirenti tramite la creazione di barriere all'entrata; • la riduzione della concorrenza tra marchi delle imprese presenti in un mercato ed all'interno di un

marchio tra i distributori; • la limitazione della libertà dei consumatori di acquistare beni o servizi in uno Stato membro.

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Critiche all’antitrust Sono state formulate osservazioni critiche e indicazioni di prudenza per gli interventi dell’antitrust.

Le strategie di mercato necessarie per la concorrenza possono essere considerate da un’authority comportamenti anticoncorrenziali e perciò l’ antitrust si può trasformare in un disincentivo alla concorrenza.

L’esclusione dal mercato di un concorrente non significa che la concorrenza sia impedita o che abbia

termine. Si deve distinguere tra concorrenza intesa come insieme di condizioni (libertà di entrata, livello dei prezzi e dei profitti, processi di efficienza, incentivi all’innovazione) e concorrenza intesa come pluralità di imprese concorrenti; l’antitrust dovrebbe proteggere la concorrenza e non i concorrenti.

Il monopolio è una situazione transitoria; è utile per l’innovazione, poiché gli elevati profitti di

monopolio possono essere investiti nella ricerca e quindi nello sviluppo delle tecnologie. Lo sfruttamento di nuovi brevetti è costoso e troppo rischioso per le imprese concorrenziali con profitti minimi. Le innovazioni introdotte dal monopolio si possono diffondere successivamente e modificare il mercato verso strutture più concorrenziali.

Talvolta le fusioni possono permettere risparmi di costi , ad es. di costi connessi con la concorrenza,

per pubblicità e conquista di consumatori, costi per transazioni e contratti, risparmi non realizzabili con un’espansione interna. Esistono efficienze proprie delle fusioni, che non si possono realizzare con altri modi di crescita.

Il processo di crescita interno di un’impresa non è assoggettato al controllo dell’antitrust. Lo è,

invece, la crescita per fusione. Le normative antitrust fissano soglie di fatturato al di là delle quali le fusioni devono essere valutate ed autorizzate. A questo fine bisogna tener conto, oltre alla variazione delle quote di mercato, anche delle efficienze derivanti da fusioni. Le fusioni di piccole imprese possono accentuare la concorrenza. Anche se la concorrenza sul prezzo diminuisce in seguito ad una fusione questo effetto negativo può essere più che compensato da altri effetti positivi. Le efficienze delle fusioni sono conseguenti a sostanziali riduzioni di costi unitari per via di economie di scala e di sinergie derivanti da operazioni congiunte. Il beneficio essenziale di una fusione è l’incremento potenziale di efficienza che si può trasformare in riduzione dei prezzi per i consumatori, che si vengono a trovare in una situazione migliore. Non è necessario che le efficienze siano trasferite ai consumatori. Possono essere utilizzate dall’impresa risultante da fusione per rafforzare la propria struttura.

Impedire la fusione tra imprese può causare la scomparsa per fallimento di un’impresa che si

sarebbe trasformata con la fusione e quindi vi sarebbero egualmente effetti di concentrazione nel mercato.

La corretta misura delle efficienze e delle inefficienze non è alla portata del legislatore né di

un’authority. L’antitrust sarebbe tenuta a guardare al futuro e ad effettuare una valutazione probabilistica degli effetti di una fusione o di certe politiche di prezzo o di vendite. L’idea che si è affermata è che si dovrebbe massimizzare la probabilità di realizzare efficienze da parte dell’impresa e contemporaneamente minimizzare il rischio di danno al consumatore.

Le barriere all’entrata sono state studiate sia come ostacoli alla concorrenza sia come possibili effetti della concorrenza e quindi come risultati efficienti. Dal primo punto di vista sono state considerate:

a) ostacoli all’ingresso di concorrenti potenziali in un mercato dominato da una o da poche imprese; b) ostacoli a contrattazioni efficienti tra consumatori ed imprese che potrebbero entrare nel mercato; c) nuovi costi di produzione che un’impresa entrante deve sostenere, ma che già sono stati sostenuti in

passato dalle imprese già operanti nel mercato. Sono quindi dei costi asimmetrici e costituiscono un

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importante sostegno al potere di mercato ed al potere monopolistico in particolare, perché tendono ad impedire l’ingresso di concorrenti.

d) Le barriere all’entrata permettono, in quanto ostacoli per i concorrenti, ad un’impresa di alzare il prezzo al di sopra di un costo medio minimo senza indurre l’entrata di concorrenti nel mercato in cui opera.

Le barriere all’entrata si distinguono in:

a) Barriere tecnologiche: 1. le economie di scala, derivanti dalle dimensioni (il costo unitario diminuisce con

l’aumentare delle dimensioni dell’azienda). 2. vantaggi di costo (l’esperienza derivante dall’aver operato in un mercato già da tempo

permette di ridurre alcuni costi rispetto ai nuovi che non hanno pratica). b) Barriere legali (brevetti, concessioni e diritti di esclusiva); vi rientrano anche le barriere

internazionali: si tratta delle eventuali restrizioni imposte contro la concorrenza internazionale (dazi, quote, tariffe, autorizzazioni).

c) Barriere finanziarie: - l’accesso al credito bancario ed al mercato dei capitali è meno costoso per chi è già noto rispetto ai nuovi entranti; - spese per la pubblicità e per il marketing (sono nuove spese più gravose per chi entra: chi è già sul mercato le sostiene in misura ridotta); - spese per ricerca e sviluppo di nuovi prodotti (quelle sostenute in passato dalle imprese operanti hanno ridotto i costi unitari; per le imprese nuove sono spese che aumentano i costi unitari).

Esistono anche barriere all’uscita di un’azienda da un mercato, che possono ostacolare l’entrata di nuove imprese, per il timore di dover sostenere costi eccessivi nel caso di abbandono di un mercato:

a) i costi di liquidazione di un’azienda: quando un’azienda esce dal mercato deve sostenere costi aggiuntivi per il personale e per chiudere i contratti con i fornitori ed i canoni di locazione.

b) Le perdite di reputazione e di avviamento; inoltre le spese per continuare la manutenzione e la fornitura dei ricambi dei prodotti già venduti ai consumatori.

c) I c.d. sunk costs (costi non recuperabili all’uscita) sono alcuni costi che non possono essere recuperati al momento della cessione o della liquidazione dell’azienda. Alcuni esempi. Le spese già effettuate per pubblicità, marketing e ricerca, che non possono essere trasferite ad altra produzione. Le spese per capitali che sono specifici di un’attività produttiva e non possono essere destinati ad altra attività e quindi vanno perdute al cessare della produzione. Così la creazione di un nuovo marchio o di un’immagine dell’azienda possono richiedere costi elevati. Per alcune imprese i costi di uscita sono elevati. L’uscita dal mercato comporta una perdita definitiva di questi costi.

A proposito dei sunk costs si richiama il concetto della c. d. asset specificity la quale si riferisce (v. MODULO I) alle difficoltà che si possono trovare nel trasferire assets destinati ad un utilizzo specifico ad altri utilizzi. Gli assets,intendendo con questo termine il capitale fisico, finanziario, umano ed immateriale, sono spesso unici e non riproducibili. La specificità, valutabile in diversi gradi, indica la destinazione di una risorsa ad un uso esclusivo non sostituibile facilmente o assolutamente insostituibile e quindi difficile o impossibile da cedere nel mercato. Gli assets ad alta specificità sono sunk costs, perché non è possibile destinarli ad altri impieghi e vengono perduti con l’estinzione di un’azienda. La specificità dipende da:

1 localizzazione di un impianto, di un immobile, di un punto vendita ed impossibilità fisica di trasferirlo;

2 caratteristiche fisiche specifiche di un bene non standardizzato, ma costruito per finalità particolari e destinato ad un impiego esclusivo che non ha possibili alternative;

3 caratteristiche e preparazione professionali specifiche del fattore umano (lavoratori ed amministratori specializzati e con lunga esperienza);

4 marchi di prodotti e brevetti.

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La teoria economica dei mercati contendibili ha messo in evidenza un aspetto importante in alcuni settori industriali, con riguardo alle possibilità di accesso e di uscita da un mercato. Se l’entrata non è costosa non ci sarà potere di mercato monopolistico anche se ci sono economie di scala così grandi che una sola impresa domina il mercato. Esiste il rischio, per l’unica impresa presente nel mercato, che un’impresa potenziale entrante le sottragga il mercato in caso di aumento dei prezzi. Quindi l’impresa presente nel mercato si comporta come se fosse in concorrenza, mantenendo i prezzi a livelli bassi, in pratica al livello del prezzo di esclusione. Il prezzo di esclusione dei concorrenti potenziali, praticato dal monopolista, viene a coincidere col prezzo che si stabilirebbe in libera concorrenza, con più imprese. La teoria dei mercati contendibili estende le condizioni di concorrenza perfetta (in particolare il prezzo prossimo al costo medio minimo e l’estensione della quantità) alle altre strutture di mercato in cui sia presente concentrazione, fino al monopolio. I vantaggi per i consumatori possono essere gli stessi, in termini di prezzi e quantità, con una sola impresa o con più imprese concorrenti. La perfetta contendibilità richiede che l’impresa potenziale entrante:

a) abbia la stessa tecnologia, la stessa informazione e la stessa possibilità di produzione dell’impresa presente nel mercato;

b) abbia costi non recuperabili (sunk costs) pari a zero, così che l’uscita dal mercato sia senza costi, e non esistano barriere all’uscita;

c) possa entrare effettivamente prima che l’impresa già operante sia in grado di abbassare i prezzi.

Le economie di scopo (o di differenziazione o di diversificazione) sono diminuzioni di costi medi dovute a cambiamenti nella combinazione di due o più prodotti. Mentre le economie di scala dipendono dall’ampliamento della scala di produzione di un singolo prodotto (l’offerta), le economie di scopo dipendono dall’ampliamento della commercializzazione di diversi prodotti (la domanda), nonché dalla produzione congiunta di più beni o servizi. Sono dovute ad un passaggio dalla specializzazione alla differenziazione dei prodotti. Ad esempio una struttura-amministrativo contabile aziendale, uno stesso punto vendita, un magazzino, un mezzo di trasporto, uno stesso network si possono utilizzare per più prodotti. Un marchio conosciuto per un prodotto può accompagnare la vendita di altri prodotti. Le economie di scopo si realizzano con la produzione o la distribuzione e la vendita congiunte di prodotti differenti. Nella pubblicità quando aumenta il numero di prodotti pubblicizzati e si passa a strumenti pubblicitari più importanti si riducono i costi medi. Un’impresa può voler profittare di queste economie acquistando altre imprese e fondendosi o accordandosi con queste. La formazione di conglomerati dipende anche dalla presenza di economie di scopo.

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L’elenco completo delle Authorities che si occupano di concorrenza è fornito dalla lista dei membri dell’INTERNATIONAL COMPETITION NETWORK Si indicano, di seguito, alcune delle Authorities di singoli paesi.

CANADA Competition Bureau

COREA Free Trade Commission

FRANCIA Conseil de la concurrence

GERMANIA Bundeskartellamt

GIAPPONE Japan Fair Trade Commission

GRAN BRETAGNA

Office of Fair Trading Competition Commission

INDIA Competition Commission

ISRAELE Israel Antitrust Authority

RUSSIA Federal Antimonopoly Service

SPAGNA Comision Nacional de la Competencia

SVEZIA Konkurrensverket

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3. La Corporate Governance Definizioni e struttura La Corporate Governance è il sistema attraverso il quale un’impresa viene gestita e controllata. E’ l’insieme delle istituzioni e delle regole giuridiche e tecniche, dei comportamenti, dei processi e dei sistemi aziendali finalizzati ad assicurare la tutela degli stakeholders, cioè di tutti coloro che, dall’interno o dall’esterno, partecipano ed hanno interessi in un’impresa, tutela realizzata attraverso la corretta gestione dell’impresa in termini di governo, controllo e di processo decisionale di un’impresa. La Governance, in sintesi, è l’insieme delle attività di esercizio dell’autorità, della direzione, del controllo d’impresa.

Comprende l’insieme di relazioni tra azionisti, manager, consigli di amministrazione ed organi di sorveglianza. E tra questi e i dipendenti, i clienti, i fornitori, le banche, le autorità di regulation.

Diffuso a partire dalla fine anni ’80 del sec. XX nei Paesi anglosassoni (U.K., U.S.A. e Canada) e, dalla metà degli anni ’90, esteso in tutti i Paesi industrializzati, il termine [Governance = metodo di governo] all’inizio si riferiva al comportamento dei Consigli di Amministrazione delle grandi società di capitali quotate in borsa. La Corporate governance ha assunto, nel tempo, distinti significati.

1. Secondo una definizione più antica essa tratta i meccanismi che assicurano agli investitori il rendimento del capitale finanziario fornito all’impresa (maximize shareholder’s wealth). Tale impostazione è connessa ad un’idea dell’impresa di old economy : l’impresa è una variabile, i mercati oligopolistici dipendono da grandi economie di scala e diversificazione le barriere all’entrata danno stabilità; l’elevata intensità di capitale genera proprietà frazionata e diversificazione dei rischi.

2. Con una definizione più recente la Corporate Governance ha riguardo per un interesse sociale (maximize stakeholder’s value) rivolgendosi a più soggetti in possibili conflitti di interessi con l’impresa. L’idea dipende da una diversa prospettiva, di new economy, in cui si inquadra l’impresa: lo spostamento del potere dal capitale fisico a quello umano; il ruolo prevalente della concorrenza internazionale, l’importanza della concorrenza istituzionale ed organizzativa e della mobilità professionale.

Negli ultimi decenni si sono evidenziate difficoltà di:

- valutare i contributi di ciascun soggetto al successo economico dell’impresa e di attribuire le sue conseguenti remunerazioni in base al merito;

- contrastare comportamenti opportunistici ed irrazionali di soggetti e gruppi partecipanti alla società, e le conseguenti necessità di:

- istituire nuovi metodi di vigilanza e comitati di controllo per contrastare scandali societari e pratiche illegali;

- apprezzare ed incentivare le c.d. rendite di organizzazione, derivanti dalla cooperazione tra più soggetti, ed i risultati residuali (utili e perdite) da ripartire;

- riconoscere la responsabilità sociale dell’impresa: l’obbligo di rispettare valori ed obiettivi sociali in relazione alle conseguenze negative per soggetti diversi dagli azionisti (sfruttamento, inquinamento, corruzione, danni a consumatori e ad altri soggetti);

- realizzare l’armonizzazione del diritto societario europeo, in corso dall’inizio degli anni ’70; - adottare una nozione allargata di stakeholder (coloro che hanno interessi nei confronti di una società,

che possono condizionarla o esserne condizionati): da una parte azionisti, dipendenti, amministratori e manager (stakeholder interni); e d’altra parte i clienti ed i fornitori, i finanziatori, le autorità pubbliche, la collettività in generale (stakeholder esterni).

La Governance è evoluta in funzione del modo in cui è stata intesa l’impresa. L’impostazione più antica trattava l’impresa come governata dalla mano invisibile, con l’influenza preponderante del capitale fisico

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nelle decisioni. Impostazioni più recenti hanno inquadrato l’impresa come insieme di asset intangibili (idee dei prodotti, conoscenze, nuovi metodi), con uno spostamento di ruolo dai redditi di capitale a quelli del lavoro manageriale. Nelle nuove impostazioni si accentua il ruolo del capitale organizzativo come elemento di differenziazione tra imprese e quello di reputazione e fiducia nelle relazioni contrattuali.

La società di capitali come ‘nexus of contracts’

La Corporate Governance si collega alla teoria della grande società di capitali come nexus of contracts, che definisce la società come un insieme di diversi gruppi di persone (gli stakeholder) collegati tra di loro tramite una rete di contratti, espliciti (scritti e formalizzati) ed impliciti. Queste diverse parti, che hanno interessi nelle società, per le condizioni di complessità e di incertezza non sono in grado di stabilire e porre in esecuzione un unico contratto completo. Pertanto istituiscono molteplici contratti in gran parte nella forma di accordi impliciti, non formalizzati, e quindi incompleti e non obbligatori. Questa non obbligatorietà permette all’autorità centralizzata nella società di modificarli e le parti coinvolte accettano questo comportamento in quanto la riduzione nei costi di transazione (v. supra, MODULO I) arreca benefici a tutti.

La società di capitali è uno strumento attraverso il quale il centro decisionale (gli amministratori) impiega diversi fattori di produzione, rappresentando la connessione (nexus) tra diversi contratti che costituiscono la società. Questo centro di decisione e di potere, che prende decisioni vincolanti per la società nel suo complesso, è una necessità che consegue alle asimmetrie di informazioni, di interessi e di poteri tra le varie componenti della società. Gli azionisti hanno interesse ai dividendi, i clienti alla qualità dei prodotti, i dipendenti alle remunerazioni ed alle condizioni di lavoro. La Corporate Governance mira a tutelare gli stakeholder nei loro contratti impliciti che non hanno tutela diretta, né contrattuale né giudiziale. Da un punto di vista teorico la necessità della Corporate Governance nasce per le seguenti ragioni.

- Quando il contratto iniziale è incompleto e non può determinare anticipatamente i criteri di allocazione degli utili e dei costi in ogni esercizio futuro. Si genera un contrasto tra le decisioni contrattuali iniziali e le decisioni successive quando si tratta di dividere utili e definire costi all’interno di una società in situazioni future.

- L’esigenza della Governance nasce perché nell’impresa manageriale si fonda la separazione

tra proprietà ed il controllo direzionale. Gli azionisti detengono la proprietà mentre i manager gestiscono l’impresa. Data la separazione tra la proprietà e i controllori la Corporate Governance dovrebbe servire a ridurre le asimmetrie di informazione tra i partecipanti.

- Tutti i partecipanti hanno interesse al buon funzionamento, all’efficienza ed ai migliori

risultati di un’azienda. La decisione di partecipare ad un’organizzazione e di sostenerla nel mercato finanziario dipende dalla previsione di ottenere una quota dei rendimenti dell’organizzazione aziendale. La continuità della partecipazione dipende dalla fiducia che la ripartizione dei rendimenti sia giusta.

Modelli Esistono diversi modelli di Corporate Governance, che si possono ricondurre a due tipologie generali.

- Modello liberale anglosassone (sistemi outsider, in USA, UK, Canada): incentiva l’innovazione radicale e la concorrenza per ridurre i costi, privilegiando gli interessi degli azionisti. E’ basato sul mercato dei capitali, che è ritenuto capace, di per sé, di disciplinare i manager. I mercati finanziari sono più liquidi, il costo del capitale è minore, è maggiore la capitalizzazione, la proprietà dell’impresa è diffusa tra più azionisti. Il modello riduce costi di impresa con acquisizioni ostili e incentivazioni ai manager, in modo da alleviare i conflitti tra azionisti e manager. I manager sono orientati a risultati positivi dell’impresa a lungo termine.

- Modello coordinato (sistemi insider, esistenti in Europa e Giappone: modello tedesco-renano,

giapponese, latino): la proprietà dell’impresa è concentrata in strutture proprietarie piramidali, c’è

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conflitto di interessi tra piccoli azionisti e grandi proprietari che si assicurano i benefici. I manager sono orientati a risultati economici positivi a breve termine. Le società tendono a finanziarsi con l’indebitamento, anche bancario, con le banche che controllano i profitti, e ad essere sottocapitalizzate. E’ diffuso il sistema di azioni con limitato diritto di voto, ed il controllo delle fiduciarie familiari. Il modello incentiva la concorrenza sulla qualità e l’innovazione graduale; attribuisce importanza anche agli interessi dei dipendenti, dei dirigenti, dei clienti e dei fornitori ed è basato su relazioni cooperative tra gruppi di interessi organizzati .

La Corporate Governance dipende da contabilità, revisione e controlli. La performance, i livelli di profitto ed il valore di borsa di un’impresa dipendono dalla Corporate Governance. Valori chiave della Corporate Governance sono considerate la fiducia, l’integrità, l’onestà, la responsabilità, il rispetto reciproco, la lealtà verso l’organizzazione, la trasparenza nelle informazioni finanziarie, l’assenza di conflitti di interesse, l’orientamento verso risultati efficienti. In particolare tali valori riguardano:

- Parità di trattamento degli azionisti - Responsabilità dei direttori - Integrità e comportamenti etici (indicati nei codici di condotta) - Indipendenza di controllori e revisori - Trasparenza nelle nomine - Gestione dei rischi

La Corporate Governance comporta che l’impresa abbia un sistema di controlli: - Controlli interni

- sui consigli di amministrazione - sulle remunerazioni (collegate ai risultati conseguiti, come i piani di incentivazione) di

amministratori e dirigenti. - Controlli esterni da parte di controllori e revisori esterni e delle autorità di regulation. Sono considerati meccanismi di controllo esterno sul comportamento dei manager anche il mercato dei capitali, gli investitori istituzionali, il mercato dei manager.

Per quanto riguarda la struttura della gestione e dei controlli si sono affermati due modelli diversi di governance.

1. Il più antico è il modello monistico. Il consiglio di amministrazione (CdA o board of directors) è l'organo collegiale che ha competenza sulla gestione delle società di capitali. Il Consiglio di Amministrazione demanda la direzione quotidiana dell'impresa ai manager, determinandone la nomina, la remunerazione, le scelte strategiche e ne controlla l’azione. I manager più importanti sono partecipano al Consiglio di Amministrazione. Esistono amministratori esecutivi (executive directors, partecipano al Consiglio di Amministrazione), che sono anche manager della società, ed amministratori non esecutivi (non-executive directors, che partecipano al Collegio Sindacale e non sono manager dell’impresa). I controlli sono affidati ad un Collegio di Sindaci (amministratori non esecutivi ed amministratori indipendenti).

2. La governance duale, o dualistica è una forma di gestione delle imprese, recentemente adottata come opzione anche in Italia, e considerata favorevolmente per le aziende bancarie ed assicurative. Nella governance duale è caratteristica la divisione delle attività gestionali e di controllo in due diversi organi di una società. Organi caratteristici della governance duale sono:

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• il Consiglio di sorveglianza, che svolge funzioni di controllo e determina le linee guida e di indirizzo dell’impresa.

• il Consiglio di gestione, che si occupa dell'amministrazione e gestione della società uniformandosi alle linee guida formulate dal Consiglio di sorveglianza.

Al Consiglio di gestione di solito partecipano uno o più Consiglieri delegati, figura simile a quelle dell’Amministratore Delegato nella governance classica, ai quali sono conferiti poteri di firma e di altri poteri di gestione.

I modelli di governance aziendale sono costruiti non attraverso norme rigide, data la necessità di mantenere flessibili tali modelli. Conseguente regolamentazione della materia, fin dall’origine e nei vari Paesi, viene effettuata attraverso Codici di Comportamento o di Condotta (Governance Codes), elaborati sia con norme di legge, sia da autorità amministrative indipendenti, sia da organizzazioni come le Borse Nazionali, le principali società quotate, gli investitori istituzionali, le associazioni industriali.

I Codici di Comportamento definiscono linee guida di modelli di organizzazione societaria per controllare i rischi d’impresa ed i potenziali conflitti di interesse tra gestione (amministratori, manager) e proprietà (azionisti).

I Codici di Comportamento fanno riferimento agli stessi principi base di Corporate Governance:

- la composizione e le responsabilità del CdA e del Collegio dei Sindaci,o dei Consigli di Gestione e di Sorveglianza

- la remunerazione degli amministratori - i diritti degli azionisti - i principi di disclosure (comunicazione) e trasparenza - i sistemi di controllo interno e di gestione dei rischi.

Un elenco di Governance Codes si trova in

European Corporate Governance Institute (ECGI)

Per l’Italia, in particolare, si può vedere

Codice di autodisciplina della Borsa (2006)

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