capatosta

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Romanzo

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Page 3: Capatosta

BEPPE LOPEZ

CapatostarOmanZO

Page 4: Capatosta

Impaginazione e grafica Loredana My

©Salento BooksVia Duca degli Abruzzi, 13/15

73048 Nardò (LE)Tel. +39 0833.871608Fax +39 178 277 [email protected]

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indice

la nascita

musi appesi e risate

zi’ marisabbell’

l’amoreggiamento

il dispetto

la prima notte

puzze e mazzate

il maloverme

lo sponsalizio

la separazione

la morte

Postfazionepiccolo viaggio critico attorno a capatosta

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Dedicato ad Antonietta Sassanelli,una capatosta che non lasciò

nessun segno nella storia,ma nella vita sì, a cominciare da quella

dei figli capatosta Pinucc’ e Vitin’e, attraverso loro, dei nipoti capatosta

Cico, Corallina e Olivia,e dei capatosta che questiinevitabilmente finiranno

per mettere al mondo, aprendo la stradaad altre svariate generazioni di capatosta.

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Questo racconto, partendo da situazioni reali e dalle vicende di persone effettivamente vissute o ancora in vita, descrive fatti e caratteri certamen-te verosimili e significativi (di un’epoca, di un mondo, forse persino di una certa maniera di stare al mondo, se non semplicemente dello stare al mondo, sempre e ovunque) ma da considerarsi puro frutto della fantasia dell’autore, risultando ampiamente arricchiti o impoveriti, fortemente distorti o raddrizzati, arbitrariamente stravolti o appianati rispetto agli spunti iniziali. Perciò desumere dal testo riferimenti a specifiche persone e a specifiche vicende sarebbe, sia sul piano formale che su quello sostan-ziale, assolutamente sbagliato e arbitrario.

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la nascita

Appena Donna Sabbedd’ si sgravò, la creatura non avette manco il tempo di pigliare fiato che fu vestita di nero.

Tanto per cominciare, naturalmente, l’ammatassarono stretta stretta con le fasce di lino bianco che allora, siccome non ci stava lo sciupasciupa di mo, passavano per risparmio da un piccininno che cresceva a un altr’uno che nasceva. Pure a lei lasciarono libere solo le braccia piccinonne pic-cinonne e la capa, quella capa gloriosa dove già si potevano intravvedere la babbìscia (sì, il mento pronunciato, come si dice in italiano) e, con una certa fantasia, pure i capelli on-dulati che da giovane l’avrebbero fatta assomigliare nientedi-meno che ad Alida Valli. E ci sta da dire che con quelle fasce la stringèttero, sin dal primo dì, con tanta forza da tradire qualche speranza segreta, se non l’intenzione vera e propria di strozzarne lo sviluppo, di soffocarne la vita, insomma di farla tornare là da dove era venuta, non chiamata e meno che meno desiderata.

Ma, quasi a eliminare pure la minima possibilità che qualche uno potesse confondere per segnale di buon ricevi-mento quella fasciatura che in effetti gareggiava per purezza e per innocenza con l’incarnato suo, la pupa fu vestita, da sopra, tutta di nero.

Il corredino colore della morte era pronto da due semane prima che nascesse quella vita nova: scuffiette nere, calzini neri, scarpettine nere, vestine nere, neri persino i primi bava-glini di Iangiuasandin’. L’aveva preparato, ogni volta lavan-dosi prima le mani, la figlia grande di Felucc’ del Baccalà, detto pure Felucc’ il Norvegese. Come si chiamava quella ’uagnedda, quella ragazza? Ah sì, Varv’ la Zoppa. Era so-prannominata così, la poveredda, perché teneva la gamba offesa. Varv’ dava una mano dentro il negozio di famiglia, in via Bovio, dove si vendevano all’ingrosso balle di baccalà e

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pezzi di stoccafisso. Ma tra una pesata e l’altra faceva corre-dini e maglioncini, più per la soddisfazione che per i tornesi. Anzi, erano più le volte che non si faceva pagare. Proprio come con Donna Sabbedd’, dalla quale non aveva voluto nulla più che la lana, le pezze e le spagnolette di filo nero. Tra l’altro, Varv’ non se l’era proprio sentita di presentarsi lei da Momen’ della Mercerì ad accattare tanta robba nera come per un lutto. Ma aveva accettato d’impegnarsi con quel cor-redino perché Donna Sabbedd’ era una fèmmena sventurata senza marito. E così si era messa a incrociare i ferri per un mese sano sano, col dolore in corpo per la povera creatura alla quale stavano preparando quella sorta di scherzo, chia-miamolo così, e con la complicazione di tenere i dìsciti della mano destra sempre a forma di corna, contro la iettatura. Ma in conclusione era venuto proprio un bel lavoretto, che però Varv’ non potette pigliarsi nemmeno la soddisfazione di farselo decantare dentro il rione. Si vergognava a mostrar-lo, per via del colore. Che avrebbe detto la gente? Che era ammattita? Che una cimice aveva avuto la bella pensata di trasirle dentro la rècchia, facendola sragionare? Una cosa è certa: dal momento che avesse fatto vedere alle commaredde quel corredino nero, tutti l’avrebbero poi scansata con una scusa o con l’altra e gli iùmmini, soprattutto loro, si sareb-bero grattati in mezzo alle gambe – parlando con decenza – solo a sentirla nominare.

Sin dalla seranotte, quando cominciarono le doglie di Donna Sabbedd’, si era scatenata senza preavviso una tem-pesta schiantosa di acqua e di mota. Non si era mai vista una tragedia simile. Per le strate e persino dentro le case tutti erano bagnati come pulcini. Dove ti voltavi e giravi, vedevi facce stralunate. Si sfrantumarono un sacco di case. Il fan-go ammantò, almeno per un metro di altezza, mezzo paese: dalla stazione, dove tutti i treni furono poi bloccati per una semana, a via Napoli, a Carrassi, sino alla Madonnella. È da quella notte che le scarpe, da noi, si chiamano fangose.

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E la matina, quando Chell’ la Vammara tirò finalmente fuori dal ventre di Donna Sabbedd’ quella piccinenna con-dannata a chiamarsi Iangiuasand’ dal nome dell’attano suo, del papà suo – invece che, come vole la tradizione, col nome della mamma dell’attano, insomma della nononna – sopra il terreno si contarono diciannove poveri cristi morti, cinquan-ta feriti e mezzo miliardo di danni (mezzo miliardo di lire degli anni Venti). In compenso, si sa com’è la provvidenza, al municipio furono segnate sedici nascite, compresa quella che non era venuta a rallegrare la casa di Donna Sabbedd’.

Ma non fu per i dolori e per i lutti provocati da quella tempesta che Iangiuasandin’, appena nata, fu vestita di nero e che tutti chiangèvano tanto di lagrime attorno al letto della sgravata...

Donna Sabbedd’ non era più una nanetta sprofumosa come una volta, quando si permetteva pure di girare con il cappellino ben sistemato sopra il cheggheruzzo, al braccio di quella sorta d’òmmeno del marito. Mo aveva perduto le penne e abbasciato la cresta. Ed era al quinto parto. Mai un aborto, sia mai! ’Mba Iangiuasand’ l’aveva sempre portata in palmo di mano e, al contrario di tutti gli altri màscui che conoscevano, non aveva mai permesso che Sebellin’ – come la chiamava lui – si facesse ruinare il piccioncino dai ferri di qualche vammara senza Dio. Di troppe disgrazie e di troppo sangue aveva sentito parlare ’Mba Iangiuasand’, nonostante il fatto che questi fastidi le fèmmene procuravano di scìrseli a levare da sole, senza manco avvisare i mariti. Sì, erano cose da nascondere, da vergognarsene persino con le altre fèm-mene che non erano parenti strette, diciamo una mamma o una sora. Sebellin’, lei, non aveva da fare mai nulla da sola e, del resto, non teneva né mamma né sore. Aveva da fare tutto con lui: informarlo prima di qualsiasi cosa e obbedire agli ordini suoi. ’Mba Iangiuasand’ stravedeva per lei e le dava sempre gli ordini giusti. La teneva dentro una campana di vetro la mogliera giovane giovane. E poi, per tornare al

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fatto nostro, «i figghi so’ la benedizione di Gesù». Lo diceva sempre ’Mba Iangiuasand’...

Ora, attorno a loro due, mamma e figlia appena nata, chiangèvano tutti.

«Era mègghio che non nascivi» gridava, chiangeva, si di-sperava e si strazzava i capelli Donna Sabbedd’. «Speramo che mori subito, accosì non ci dài tanti doluri e non te ne pigghi. Cristo, acchiàmatela a te domani, magari oggi stes-so».

E tutti squadravano la creatura senza essere capaci di na-scondere il veleno e il furore di chi si sottomette a una tri-bolazione che ti manda il cielo e che ti devi caricare sopra la schiena, senza rimedio.

Ma non morette quel dì, Iangiuasandin’, né il dì dopo. E più che una disgrazia, per tutta la vita sua tribolata, fu una disgraziata: dette filo da torcere, certamente, ma tanto, tanto di più ne dettero a lei, insieme a infelicità, mortificazioni e mazzate.

’Mba Iangiuasand’ era morto acciso da nove mesi. Per la precisione, da nove mesi meno un dì. La sera prima della più grande sciagura della vita sua, Sebellin’ se la ricordò poi per sempre. Fu quella sera l’ultima volta che facette cich-e-ciàch con il marito: lei, piccinonna e tracagnotta, sdegnosa e petulante, che però si squagliava come un gelato al sole tra le braccia forti forti di quel gigante che era ’Mba Iangiuasand’, e lui alto e bello, coi mustazzi all’insù che gli tremuàvano tutti, sino all’ultimo pelo, quando abbrazzava la mogliera. Buono come il pane, pulito come un bicchiere di acqua, gentile come un signore, voluto bene e rispettato da tutti, pure con la pelle bianca ma faticatore e forte. E nessuno po-teva dire pure solo una parola fuoriposto innanzi a lui.

Quella sera – chissà, forse per un presentimento – quel colosso domandò a Sebellin’ di levarsi la sottoveste e di voltar-si, perché le voleva vedere per una volta la schiena. «Vògghio

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proprio miràrmela e rimiràrmela, almeno per una volta. Ad accarezzarla, pare proprio un velluto». Lo domandò dolce dolce e abbasciando la voce in maniera da non farsi sentire dai figli, che avevano da stare a dormire ma potevano stare discetati, e quasi pure per non sentirsi lui stesso. Sebellin’, tutta vergognosa, si avvertette che pure lui era tutto vergo-gnoso. E questo le dette tranquillità. Perciò, senza il corag-gio di fissarlo dentro gli occhi, si voltò di schiena, adàscio adàscio si levò la sottoveste e se ne stette ferma ferma, con la faccia premuta sopra i cuscini, che quasi manco respirava. Sentette che lui l’esaminava e intuette dal sopraffiato suo che più la esaminava e più si accalorava. E si accalorava pure lei, sentendo gli aghi di quegli occhi che la pungevano millime-tro per millimetro. E s’immaginava le mani del marito, mani abituate e strabituate a caricare e a scaricare, bloccate dal ri-spetto e dal pudore. Con un piede, istintivamente, Sebellin’ lo cercò e lo toccò, forse per non farsi sentire troppo in alto e troppo lontana da lui, che dentro certi momenti, effettiva-mente, esagerava a estasiarsi innanzi a lei come se fosse una santa o una regina. E quella sera, come era successo altre quattro volte (con la conseguenza degli altri quattro figli), lui aveva capito checcosa lei volesse dire con quel toccamen-to di piede malandrino e l’aveva abbrazzata, forte forte. La pigliò così, come non aveva fatto mai, penetrandola dentro la natura ma da dreto, come fanno ancora le bestie e come una volta, anticamente, facevano tutti gli iùmmini con le fèmmene loro quando erano meno delicati ma pure meno complicati di mo...

Che stavamo a dire? Ah, sì... ’Mba Iangiuasand’, dunque, finette al Creatore nove mesi meno un dì prima della nasci-ta di Iangiuasandin’. Insomma, troppo in anticipo perché quella creatura potesse essere considerata veramente una be-nedizione di Dio per quella casa e troppo tardi, invece, per fare a meno di mettere al mondo una sciagurata.

Nove mesi meno un dì prima della nascita di

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Iangiuasandin’, ’Mba Iangiuasand’ si era visto arrivare, alla cava, il carro e la mula di un giornaliero menati – invece che dal riconosciuto proprietario loro – da un ’uagnone, un ragazzo. «Addo’ sta Colin’?» aveva domandato ’Mba Iangiuasand’ a quel ’uagnone, quasi un piccininno, «e addo’ cappro vai tu, col carro e con la mula, a fare danni?»

E quello, abbasciando la capa per la vergogna, si giusti-ficò: «Io so’ il fìgghio di Colin’. Papà sta ammalato e m’ha ammandato a me per abbuscarci la scirnata».

’Mba Iangiuasand’ prima lo cacciò, ma poi avette com-passione e lo richiamò: «Vabbuono, arrimani pure qua, col carro e con la mula, ad agguadagnarti la scirnata. Ma sei quattrossa, non ce la fasci ad accaricare. Stàttene vicino alla mula, mentre noi accaricamo. Almeno vedi di farla stare fer-ma, accosì non facimo doppia fatica».

Solo da un annetto ’Mba Iangiuasand’ si era fatto la cava. Da ’uagnungiddo era stato operaio. Ma pure mo, più che atteggiarsi a patrone vero e proprio, da operaio faticava. Caricava e scaricava più dei lavoranti stessi. La ditta comin-ciava a ingranare. Una volta era venuto al cantiere, per la ve-rità casualmente, persino un industriale del Norditalia, uno importante. Mentre veniva portato a vedere un oleificio, dopo che aveva fatto visita e dato consigli dentro un’officina, l’ingegner Olivetti si era avvicinato per curiosità alla cava, che stava sopra la strata, e gli aveva stretto la mano compli-mentandosi con lui. «Bravo, bravo» gli dicette sinceramente quella sorta d’ingegnere del settentrione, «mi hanno detto che lei si è fatto da solo, che viene dal nulla. Bravo, bravo, è su gente come lei che sono riposte le speranze di tutti gli italiani per la rinascita del Sud». Comunque, Iangiuasand’ era diventato ’Mba Iangiuasand’ e con i tufi suoi e le mani sue – senza essere ingegnere, anzi senza avere nemmeno la quinta elementare – si era fatto pure una bella casa, che fa-ceva la figura sua in mezzo a tutti quei cafurchi di case di via Mirenghi. Del resto, tutti lo consideravano un òmmeno attivo e concreto. Tanto concreto che, quando aveva scavato

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le fondamenta della casa, dopo dieci minuti si era già stanca-to di aspettare – come facevano tutti – che passasse per caso da là un cristiano o un gatto per murarne l’ombra sotto il primo tufo del primo strato di tufi.

«Mica potimo stare qua ad appèrdere mezza scirnata, ac-così, ad aggirarci i dìsciti» scattò all’improvviso. «Facimo che sopr’alla calce stampamo l’ombra mia e l’augurio della casa lo faccio io stesso».

Dicendo così, si mettette tra il sole e lo scasso, ordinando agli operai di piazzare i primi tufi sopra l’ombra sua stessa, mentre attorno c’era chi inutilmente gli gridava, chi gli rac-comandava e chi gli intimava di non farlo perché “apporta scommònica” (insomma, porta malaugurio). A uno che ave-va fatto quella stessa strafottenza – lo sapevano tutti dentro il quartiere – era capitato di morire acciso prima che la casa fosse tutta finita.

Com’è e come non è, in effetti la casa di via Mirenghi non era ancora stata completata quando quella matina al cantiere era venuto, al posto di Colin’, il figlio suo. Il ’uagnone non fu capace di farla stare ferma la mula. Anzi, giuocando con la scuriata, ad un certo punto facette schiantare la bestia, che scattò all’andreto improvvisamente, piombando carro e tut-to sopra ’Mba Iangiuasand’ da un’altezza di dodici metri.

Il marito di Sabbedd’ e capo di famiglia responsabile di quattro figli morette quella giornata stessa all’ospedale, dove si dannarono l’anima per cercare di salvarlo ma, per la verità, con la speranza di non farcela, date le tante ossa che si erano spaccate e immaginando il dolore e le umiliazioni che quel povero disgraziato avrebbe sopportato se fosse sopravvissuto. Lasciava la famiglia senza capo. Sabbedd’ era praticamente ancora una ’uagnedda, perché così ’Mba Iangiuasand’, pace all’anima sua, aveva voluto che rimanesse. Anzi, se fosse di-peso da lui, Sebellin’ avrebbe fatto la pupa per tutta la vita, senza pensieri e senza responsabilità. Se li caricava addosso tutti lui i problemi della casa e dei figli...

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Ma Sebellin’ mo era vìdua, con due figli màscui, Diador’ e Diopold’, ancora troppo piccinunni per portare soldi a casa e con quelle due cambiali di Bellònia e Fifin’ che, un dì o l’altro, avrebbe dovuto sfrangiare. Tali erano considerate le figlie fèmmene a quei tempi: cambiali di una certa con-sistenza e con una scadenza sempre troppo ravvicinata per essere umanamente sopportabili. E, per buon peso, Sebellin’ era pure incinta, come scoprette quando non le arrivarono le regole.

Dentro quella casa scoppiò la tragedia. Furono nove mesi di disperazione, di svenimenti, di rigetti, di depressione, di maledizioni e di attacchi isterici. Donna Sabbedd’ mo faceva gialla gialla, poi a furia di grattarsi diventava tutta una piaga. Per due volte fu preparata ogni cosa per l’aborto, per gettarla in terra quella creatura, frutto (ricordava Sabbedd’ con ver-gogna e con un brutto presentimento) di un accoppiamento alla maniera degli animali. Ma per due volte durante la notte lo spirito di ’Mba Iangiuasand’ venette ad assettarsi ai piedi del letto di quella cacasotto di Donna Sabbedd’. La bona-nima era diventato l’augurio della casa e se ne stava tutto il dì dentro il cesso, che non ce l’aveva fatta a piastrellare prima di rimanere acciso. Per due volte, eccezionalmente, quel fantasma di due metri si alzò dal cesso e si permettette di appoggiare il culo sopra la manta di raso del letto matri-moniale, per parlare alla vìdua disorientata, per ricordarle che nessuno le aveva toccato il barbagianni prima di lui e per ordinarle che nessuno aveva da toccarlo dopo di lui. Tanto meno per una cosa schifosa come l’aborto.

Nemmeno il decotto di foglie di alloro Donna Sabbedd’ avette il coraggio di bersi. Una notte, piena di dolori e di-sperata, era sciuata zitta zitta dal letto e in cucina, sola sola, si era messa a còcere dentro l’acqua sette foglie di alloro. Poi l’aveva svacata, filtrandola, dentro una tazza. Qualche una le aveva garantito che sarebbe bastata questa bevuta calda per abortire. Si era portata la tazza dentro la camera da letto, l’aveva appoggiata sopra il comodino e se la stette un poco

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a rimirare per pigliare coraggio. Stava praticamente per ag-guantarla e portarsela alla bocca quando, improvvisamente, sentette rimbombare la voce terribile dello spirito di ’Mba Iangiuasand’, che facette tremuare il lumino appicciato sotto la fotografia sua stessa: «Fermati Sebellin’, te lo approibisco. E attenta alla maledizione di Dio».

Così la gravida, paralizzata dalla pavura e dalla supersti-zione, rimanette gravida, aspettando la rottura delle acque come si aspetta la morte.

L’ultima mazzata Donna Sabbedd’ la ricevette quella ma-tina, quando sentette la voce di Chell’ la Vammara che le aveva appena tirato fuori la creatura, gridare delusa: «Mala nottata e fìgghia fèmmena».

Dunque, un’altra bocca da sfamare e, perdipiù, un’altra fèmmena. Donna Sabbedd’ non volette manco surchiare, come di usanza, il brodo di palumbo (palumbo nel senso di uccello colombo, non nel senso del pesce palombo, che noi nominiamo più propriamente penna). Era stato prepa-rato dalla specialista del quartiere, Melin’ la Fruttaiola, che a Donna Sabbedd’ lo aveva già servito per amicizia, comparizio e vicinanza di strata in occasione degli altri quattro parti, ma che questa volta dovette riportarselo a casa sua senza manco che qualche uno avesse avuto la sensibilità di dirle grazie. Teneva proprio la capa al brodo di palumbo e a Melin’ la Fruttaiola, dentro quel momento, Donna Sabbedd’! Come sarebbe mai arrivata – si disperava – a sfrangiare questa terza cambiale? Altro che chiamarla “Benedetta”, il nome prefe-rito da ’Mba Iangiuasand’. “Maledetta” era il nome giusto per quella figlia della morte. Ma gli impiegati del Comune avrebbero certamente fatto storie. Che allora si chiamasse come lui, fèmmena e tutta: Iangiuasand’. Lui l’aveva voluta? E lui se la caricasse sopra la schiena.

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musi appesi e risate

«Iangiuasandin’, vai ad accattare una spagnoletta di coto-ne grigio» le ordinava la sora grande, Bellònia.

Ma la piccinenna, che da un paio di anni frequentava pure la règia scuola elementare intitolata “Pietro Toselli” e che sin da quando era dentro le fasce non se ne faceva passa-re una, era lei che per tutta risposta domandava provocante a Bellònia: «Quest’ordine, però, è robba tua o è robba di màmmeta?»

La sora allora aveva da precisare, rassegnata e risenti-ta: «Ti do quest’ordine a nome e per incarico di mamma. Vabbuono?»

«Sì, accosì vabbuono» concludeva la piccinonna di casa, che allora se ne fusceva scattosa scattosa da Momen’ del-la Mercerì. E, quando tornava, chiamava dal pianerottolo Bellònia e praticamente le sbatteva la spagnoletta sopra la mano, precisando con la voce tosta tosta: «Ecco la spagno-letta per màmmeta».

Sempre la stessa scena, sempre lo stesso tiatro, ogni volta che serviva di mandarla da qualche banda quella schecchia-tedda.

Così Bellònia si affacciava dalla porta di casa e le gridava, per risparmiarsi le precisazioni delle altre volte: «Senti, ha detto mamma di scire dal fornaro a pigghiare due pagnot-te».

Quella malcreata allora rispondeva a tono: «E màmmeta non pote venire lei ad addomandàrmelo a me?»

Ma, appena quella quattrofacce di Bellònia si volta-va verso l’interno della casa per dire «Mamma, vedi che Iangiuasandin’ non vole...», la piccinenna si alzava, scendeva come una saetta i gradini a due a due tenendo le mani sopra la ringhiera per non indirupicare e fusceva dal fornaro.

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Insomma, erano passati gli anni ma Donna Sabbedd’ quel-la nascita non l’aveva digerita. Anzi, più la figlia del morto cresceva, più si accumulavano musi appesi e punizioni, osti-lità e dispetti. Donna Sabbedd’ diceva il minimo indispen-sabile a quella figlia maledetta, solo quando era strettamente necessario e se non ci stava sottomano Bellònia per dire a lei checcosa aveva da riportare o da far fare a Iangiuasandin’.

Praticamente sin da quando Iangiuasandin’ aveva preteso di mettere la capa fuori dal ventre suo, non l’aveva mai vo-luta vedere.

Succede. Certe volte, una nascita rivela a tutti qualchec-cosa che si sarebbe preferito tenere segreto. Oppure non ci sta in casa la possibilità di sfamare un’altra bocca. Oppure, ancora, la creatura nasce strepiata. In questi tre casi può suc-cedere che, per rifiuto della nascita, la sgravata non tiene il core di allumare dentro la naca e quando allatta manco l’adocchia quella bocca allupata che le sùrchia l’anima. Ma normalmente la storia dura qualche dì, al massimo una se-mana. Mica si può rimanere come un manico di scopa in-nanzi allo spettacolo della tenerezza dei piccininni piccinun-ni piccinunni, a quell’innocenza, a quella fragilità. E quegli occhi che si aprono? e quelle recchietedde che si arrìzzano man’a mano che cominciano a distinguere voci e rumori? e quel naso così rincagnato e ridicoloso? e quelle braccia picci-nonne piccinonne che fanno sopra e sotto, come se volessero volare? Per questa ragione pure la mamma più disperata, più disgraziata e più scalognata, ad un certo punto, si squaglia e comincia a mirarsela e ad accarezzarsela quella carne della carne sua, e poi a spupazzarsela e a vasarsela con esagerazione sino quasi a sciuparla, a struggerla, un poco per recuperare il tempo perduto e un poco per il rimorso di quella semana di cattiveria.

Donna Sabbedd’ invece no. A lei non bastò una semana per ripigliarsi. Non bastarono nemmeno gli anni. Troppo

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’uagneddozza e capafresca era rimasta dentro le mani di ’Mba Iangiuasand’, e troppo era stato il dolore per quella morte prematura, troppo la sentiva quella mancanza. Perciò quella vita nata mentre moriva la vita della vita sua l’aveva odiata dal primo momento. L’aveva sentita subito come il sigillo di una esistenza che si sarebbe trascinata sino alla fine, sino alla morte, senza remissione, con il colore del lutto e la malinconia della viduanza.

Per una semana, dopo il parto, Donna Sabbedd’ manco si era alzata dal letto, lei che le altre quattro volte pratica-mente aveva figliato all’inpiedi. Le si ghiacciava il sangue all’idea di passare innanzi alla naca e di essere costretta a vedere com’era fatta, e magari a intenerirsi per quella quat-trossa che lei era stata obbligata a farsi crescere in seno, man-giando e respirando nove mesi abbondanti con lei e per lei, e a cacciarla poi fuori con fatica pigliando aria e spingendo, pigliando aria e spingendo, sino a svenire, sino quasi a mori-re per lo sforzo e per la disperazione. Un paio di volte dentro quella semana, quando non ci stava nessuno a vederla, quel-la mamma snaturata stava pure lei per squagliarsi e difatti era sciuata dal letto, spinta dalla forza della natura a scire vicino alla naca, a scostare la tendina di tulle e a pigliarsela in braccio, a strìngersela al petto quella pupa, che qualche uno le aveva accennato essere bellafatta come ’Mba Iangiuasand’ però alla femminile, diciamo all’Alida Valli. Ma l’odio era stato più forte della natura. Tutt’e due le volte si era paraliz-zata un momento prima di scostare la tendina, tornando a infuriarsi sotto le lenzuola.

La cattiveria contro la piccinenna arrivò al punto di sec-carle le menne, proprio a lei che le altre quattro volte soffriva di montate di latte che sarebbero bastate per uno iazzo sano sano di agnelli senza mamme. E così Iangiuasandin’ fu co-stretta ad attaccarsi alle menne di un’estranea...

Non furono della mamma ma nemmeno di estranei le mani che l’aiutarono a fare i primi passi. Ci pensarono il

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più piccinunno dei due frati e soprattutto la più piccinon-na delle due sore. Per tutte queste ragioni, le prime parole che pronunciò la più rinnegata delle figlie non furono “ma-ma” né “pa-pa”, bensì “fi-fi” e “dio-dio”. Fifin’ e Diopold’ se la portavano a giuocare sopra il pianerottolo se la mamma stava arricettando in casa. Sapevano invece che avevano da farla sfuare in casa quando la mamma se ne stava asseduta a chiacchierare dentro il portone. Avevano da badare a farla mangiare – e mangiare loro stessi – prima o dopo la mam-ma. Ed erano loro a vestirla e a puliziarle il culo, a spogliarla e a metterla a dormire.

Era notorio che Donna Sabbedd’ non la voleva tra i piedi quella specie di diavola sempre vestita a nero. Certo, il più se lo caricavano addosso Fifin’, che poveredda pareva pure lei tenere ancora la bocca di latte, e Diopold’, che aveva l’età e le energie da starsene a fare i fatti suoi con gli amici. Ma ognuno faceva la parte sua – figli, parenti, amici e coinquili-ni – per sparagnare a Donna Sabbedd’ malosangue e a quella povera creatura innocente di Iangiuasandin’ maledizioni e malacera. Dalla mamma, peraltro, mica da qualche uno che passasse da là per caso!

Dentro quella casa era un tiatro continuo. «Attenzione, attenzione, porta la piccinenna da là ché qua sta mamma». Oppure: «Allora, io con una scusa acchiamo mamma ’ncu-cina e tu porti la menenna a farci fare una caminata»... Con tutto ciò, era robba giornaliera che mamma e menenna ca-pitassero a tu per tu. Donna Sabbedd’ rimaneva impassibile, continuando a fare i fatti suoi, oppure voltava di scatto la schiena e cangiava stanza, quando Iangiuasandin’, vedendo-la, cominciò a tartagliare la parola “ma-ma”, senza che nes-suno, manco Fifin’ e Diopold’, sapesse dove l’aveva sentita e come mai la collegava proprio alla vista di quella che, in effetti, le era mamma ma che si comportava con lei come un’estranea, anzi come una nemica.

Man’a mano che cresceva, Iangiuasandin’ quell’odio lo sentette, lo intuette, lo capette. Per un certo periodo, ogni

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tanto aveva tentato di zomparle in braccio alla mamma, così come faceva con gli altri. Ma quella, col muso appeso, si scostava. E siccome non le capitava mai di stare asseduta alla tavola, a mangiare, insieme alla mamma – era il tempo in cui l’innocente non era ancora in grado di concepire tant’odio e tanta ostilità – appena la vedeva asseduta, tach, si assedeva pure lei e le faceva una risa per accattivarsela. Ma quella, Donna Sabbedd’, come reagiva? Gettava dentro il piatto la cucchiara che teneva in mano, si alzava e drizzava il piede da un’altra banda. E quante volte la sprovveduta aveva tentato d’inseguire la mamma dentro la camera da letto, con l’inten-zione di stendersi con lei! Tutte le volte si era vista sbattere la porta in faccia da Bellònia, che invece vi dormiva regolar-mente, o dalla mamma stessa se Bellònia non le stava dreto come una malombra.

Una faccia brutta oggi, una porta sbattuta in faccia do-mani, alla fine la picciuedda cominciò a intostarsi. Tu non mi vuoi? allora io ti voglio ancora di meno. Tu non mi vuoi bene come una figlia? allora io non ti rispetto come mamma... Dopo tante umiliazioni patite senza che nemme-no sapesse checcosa fossero, quando arrivò all’età in cui le capette – pure quelle passate – Iangiuasandin’ principiò a difendersi e poi ad attaccare. Nascette allora la dispettosa, la capatosta, la scontrosa. Non ne facette più passare una liscia alla mamma e naturalmente nemmeno a Bellònia, de-legata dalla mamma a trattare con lei, come delegato alle mazzate vere e proprie era il frate grande. Robba di ogni sera: appena rientrava dalla fatica, Diador’ era chiamato a rapporto dalla mamma e da Bellònia in camera da letto. E si sapeva già checcosa avrebbe fatto dopo. Pigliava per una rècchia Iangiuasandin’, se la metteva sopra le ginocchia e le dava dieci o venti schiaffi al popò, a seconda della gravità delle malazioni fatte e della strafottenza delle parole dette, e a seconda che le avesse fatte e indirizzate a Bellònia o, inca-ricando Bellònia, alla mamma...

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«Iangiuasandin’, vedi che abbàscio sta ad appassare il ce-neraro» l’avvisava Bellònia, «va’ e dicci che mamma tene ab-bisogno di un chilo di cenere».

«Sei proprio assicura che màmmeta non t’ha detto a te di scìrcela a pigghiare la cenere?» provocava Iangiuasandin’. «Sei tu che hai d’allavare la robba, mica io».

«Allora vuoi scire, sì o no?»«Io vado» rispondeva la sfacciata, «ma vògghio essere as-

sicura che màmmeta non te l’ha detto a te di scire dal cene-raro, e che tu non stai a scaricare sopr’a me una ordinazione che è stata fatta a te».

Bellònia sapeva che allora aveva da voltarsi verso l’interno e gettare la voce: «Mamma, vedi che Iangiuasandin’...»

A quel punto Iangiuasandin’, immancabilmente, scatta-va, scendeva le scale a spezzacollo e fusceva dal ceneraro.

Insomma faceva come il sorcio che giuoca con la gatta – e la gatta non era certo Bellònia ma la mamma – rischiando sempre di essere agguantato e sbranato, e questo solo per il piacere di sfotterla un poco, di stuzzicarla, d’indispettirla la gatta, visto e considerato che purtroppo mai e poi mai il sorcio (non il sorcio-zòccana, che è tutta un’altra cosa) po-trebbe arrivare alla grossezza e alla forza sua...

Iangiuasandin’ si avvertiva che la mamma faceva di tutto per non vederla e che non le parlava. Figuriamoci poi ad ab-brazzarla o solo a toccarla, a sfiorarla. La sentette pure, una volta, che bestemmiava in maniera specifica la giornata in cui l’aveva messa al mondo, mentre contava i guai suoi a una commaredda. E un’altra volta la spiò, mentre stava da sola in camera da letto a pregare, anzi proprio a parlare con la foto-grafia di ’Mba Iangiuasand’, quella con il lumino sempre ap-picciato, e sentette che malediceva, sì, una giornata specifica, ma non quella in cui Chell’ la Vammara le tirò fuori la figlia della morte: discorreva con lo spirito del marito di una volta che stavano insieme loro due, lei e il marito ancora vivo, e lei – Iangiuasandin’ non capette bene checcosa significasse – si

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era girata di schiena. «Perché mi hai fatto avvoltare di schie-na quella sera, delinquente?» diceva alla fotografia la mam-ma. «La faccia sopr’al cuscino mi facesti mettere... Certo, accome faccio ad annascòndertelo proprio a te, mica io non avvolevo... Però tu eri l’òmmeno di casa, il patruno della vita mia, quello che addecideva tutto e apprevedeva tutto... E poi ti vai a mìttere pure sotto a quel carretto? E mi allassi sola sola con quel peso dentro alla ventre? Almeno mo dimmi, dammi un segno: checcosa posso fare con questa menenna? Non ci arriesco, non ci arriesco proprio a fare la faccia lavata, a fare finta che non m’arricorda morte e doluri...»

Però, una cosa è non saper fare la faccia lavata – ave-va avuto la tentazione di gridarle Iangiuasandin’, aprendo la porta da dove spiava e impatronendosi della tranquillità della camera della mamma – e un’altra cosa è maltrattarmi e farmi maltrattare dalla matina alla sera. Senza contare della crudeltà di tutti quei vestiti neri...

Man’a mano che cresceva e metteva cervello, Iangiuasandin’ teneva la sensazione sempre più netta che i cristiani s’impres-sionavano per la maniera sua di vestirsi. Le altre menenne e gli altri meninni, ma diciamo pure tutti gli altri cristiani, portavano gonnelline, calzoni, maglioni e cammise di tutti i colori, perlopiù il marrone e il grigio, ma pure il rosso e il giallo, il verde e il celeste, per non parlare del bianco di certe belle cammise e cammisedde per la domenica. Al contrario, le scarpe sue di pezza e di vernice, i calzetti e i calzettoni, le vesticedde e le cammisedde, persino le canottiere e le mu-tandine sue erano sempre e solo di un colore, il nero. Era tal-mente abituata e strabituata, addirittura da quando dormiva dentro la naca, a vedersi sempre con quel nero addosso, che non realizzava sino in fondo le ragioni dell’imbarazzo e della sensazione di diversità che da un certo punto in poi aveva cominciato a provare, in mezzo alla strata ma pure in casa, fra tutti quei colori. Per lei era sempre stata come natura-le, una specie di seconda pelle, quella colorazione di nero.

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Come se fosse un destino inevitabile. Non ci stava forse chi nasceva strepiato, chi a un occhio, chi con una voglia di còti-ca stampata sopra la faccia, chi brutto come il debito, chi più corto dei nani del Circo Togni? ’Mbe, lei era nata con quel nero addosso. Che ci poteva fare? E poi, alla fine, che ci stava di male?

Ma la tragedia del colore nero era destinata a scoppiare, un dì o l’altro. E scoppiò. Fu quando Iangiuasandin’ facette l’entrata sua dentro il mondo della cultura, della lettura e della tabellina. Fu il primo dì della prima elementare alla “Pietro Toselli”, quella bella scola che stava in via Modugno, affian-co alle case popolari. Già uno stratone prima Iangiuasandin’, che teneva una manina dentro la manina di Fifin’ e l’altra manina dentro la manona di Diopold’, avette un colpo. Da lontano s’individuavano tutti i meninni, da una banda, con il sinale nero e il fiocco blu, e tutte le menenne dall’altra, con il fiocco pure loro blu ma con il sinale bianco bianco. Iangiuasandin’ dette pure un’occhiata al sinale della sora, che quel dì cominciava la quarta elementare. E di che colore era il sinale di Fifin’? Era bianco bianco come il latte, imma-colato come la neve appena caduta, praticamente luminoso come l’argento. E poi si dette un’occhiata al sinale suo stesso, che pure già sapeva di che colore era: nero.

Fu una rivelazione, quella matina. Non era come le altre volte. E difatti la differenza fra il nero e il grigio, e fra questo e il marrone, e fra il marrone e il giallo sporco e fra questo e il bianco sporco e fra questo e il bianco bianco non è che poi ti zompa agli occhi come ti zompa invece la diversità imme-diata, anzi il contrasto secco fra una massa di bianco e una massa di nero. Innanzi a quella netta separazione fra sinali bianchi e sinali neri, tra fèmmene e màscui, Iangiuasandin’ capette all’improvviso l’anormalità di tutto quel nero che si metteva addosso ogni dì. Provò una vergogna insopporta-bile non solo per la figura che mo stava per fare, avendo da trasire vestita di nero dentro quel mare di sinali bianchi, ma pure per la pena che certamente faceva a tutti quelli che la vedevano, sempre in nero, da quando era nata...

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La piccinenna istintivamente si fermò, squadrò prima Fifin’ e poi Diopold’. La sora e il frate capèttero pure loro istintivamente che Iangiuasandin’ aveva finalmente capito e, capendo, era mo stordita da una vergogna e da una pena sconfinata per se stessa, piccinenna e tutta. E difatti non voleva scire innanzi, tentava di ritirare le manine, probabil-mente per fuscìrsene vergognosa vergognosa a casa, maga-ri a nascondersi sotto il letto. Allora loro ce le stringèttero quelle manine, con le lagrime agli occhi. La trattenèttero, farfugliarono qualcheccosa tipo: «Ma checcosa te ne freca a te del colore del sinale» e praticamente se la tirarono sino ai gradini di marmo che portavano all’entrata della “Pietro Toselli”. Dentro quel preciso momento le due colonne di studenti, quella bianca e quella nera, pigliarono a salire ri-spettivamente per lo scalone interno di destra e per quello di sinistra, verso i corridoi di destra e verso i corridoi di sinistra, per raggiungere una le aule delle fèmmene e l’altra le aule dei màscui.

Checcosa facette allora quella piccinenna reattiva e ve-stita a nero, vedendo quelle due colonne moversi, dopo che Diopold’ aveva salutato le due sore per scìrsene a fare i fatti suoi? Iangiuasandin’ facette una cosa semplice semplice, ma che la dice lunga a proposito del carattere che già teneva, a un’età in cui le piccinenne invece fanno praticamente tutte le stesse cose e tutte paiono avere lo stesso carattere.

«Allora, tu va’ con quelle vestite accome a te, e io vado con quelli vestiti accome a me» dicette Iangiuasandin’ di cor-sa, lasciando la manina di Fifin’ e fuscèndosene a mischiarsi dentro la colonna di sinistra.

Del resto, a quell’età mascuitiddi e femmenedde, se vestono uguali, come fai a distinguerli? Certo, la capa di Iangiuasandin’ non era proprio rapata a carosello, come quella della maggior parte di quei piccininni. Ma ce n’era pure qualche uno che pareva più fèmmena di lei, con certi boccoli che ci potevi fare passare una littorina in mezzo e con bocche così carnose e rosse che non le potevano vanta-

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re manco certe regine del cinematografo. Fifin’ non avette il coraggio né la prontezza di precipitarsi da una colonna all’altra per recuperare quel diavolo di sora. E poi era sicura che Iangiuasandin’ avrebbe puntato i piedi, impedendole di trascinarsela appresso.

Iangiuasandin’ quella matina fu trascinata da un bidello per una rècchia, da un’aula all’altra, da un corridoio all’altro, quando una maestra scoprette che tra gli allievi suoi, tutti màscui, ce n’era uno non suo, anzi una non sua. E ogni ma-tina, per una semana, fu trascinata mo da un bidello e mo da un altro, ma sempre per la stessa rècchia, la sinistra, da un’aula maschile alla sua, femminile. Ogni matina, difatti, Iangiuasandin’ faceva la stessa improvvisata alla sora, gri-dandole di corsa le stesse parole, infilandosi – lei, col sinale nero – dentro la colonna dei sinali neri, caminando per quei lunghi corridoi pieni di sinali neri e ficcandosi dentro una delle tante aule, la maggioranza, con quaranta o cinquanta sinali neri per una.

«Donna Sabbedd’, ’sta storia ha d’acconcludersi» alla fine della semana un bidello fu incaricato di venire a dire alla mamma che non voleva dare alla propria figlia fèmmena il sinale bianco obbligatorio. «Certo, la piccinenna tene un bel carattere, ma tene pure rascione! Comunque, a casa vostra facite il comodo vostro, avvestìtela e arrivestìtela da lutto o da matrimonio o accome vi pare e appiace, ma alla scola le fèmmene hanno da venire con il sinale bianco. Sennò, non ammandàtela per nulla da lunedì. Il direttore ha detto che non la fasce manco trasire più».

Così, in fretta e furia, con le mani sue stesse, Donna Sabbedd’ fu costretta a rompere quell’incantesimo. Forse, sottosotto, ma proprio sottosotto, fu una specie di liberazio-ne pure per lei. Comunque non la facette volentieri quella prima veste non nera di Iangiuasandin’, quel sinale bianco bianco di picchè che era addirittura il contrario esatto di una veste nera. E difatti lo cominciò il sabato, quando erano sca-polate da scola le due figlie e, con loro, quel bidello informa-

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tore, e il lunedì matina non era ancora finito. Bellònia ce le curò praticamente addosso, a Iangiuasandin’, le rifiniture del sinale, e proprio all’ultimo minuto. Fu sopra il pianerottolo, anzi abbàscio, dentro il portone, che le cucette la martingala e le fissò i bottoncini.

Ma una piccinenna, che aveva agguantato questa sorta di vittoria, poteva mo rassegnarsi a tornare al nero, ognì dì, appena rientrata a casa? Certamente non Iangiuasandin’.

«Perché stai ancora col sinale? Perché non ti vai a cangia-re?» la rimproverò Bellònia quel lunedì, un’oretta dopo che le due menenne erano tornate da scola. «Perché non fasci accome ha fatto Fifin’, che ha già appeso alla crocetta il si-nalino suo?»

«Perché... perché non so’ fatti tuoi» le rispondette sfron-tata Iangiuasandin’, fuscèndosene abbàscio al portone.

«Iangiuasandin’, ha detto mamma di salire sopra!» la ri-chiamò la rappresentante della mamma.

«Checcosa vole mamma?» allora facette finta d’informarsi provocatoriamente Iangiuasandin’, tornata sopra il pianerot-tolo, sapendo perfettamente quello che la mamma voleva e quello che la mamma avrebbe saputo, tempo un paio di minuti.

«Mamma vole che ti levi il sinale, sennò te l’imbratti e domani non sapimo accome farti scire alla scola».

«...Allora hai da dire a mamma che io non me lo posso levare il sinale stamatina».

«E perché non te lo puoi levare ’sto sinale, accome face-sti sempre, sino a sabato, con il sinale nero? Che, t’appiace tanto ’sto sinale bianco che non te lo vuoi levare per avere la soddisfazione di farti avvedere da tutti senza il lutto ad-dosso?»

«...Non accapisco ’ste cose che stai a dire» replicò a que-sto punto la bardàscia, non è chiaro se con innocenza o con qualche intenzione di caricatura della sora. «Hai da dire a mamma solamente che non mi levo il sinale perché non me lo posso levare. E non me lo posso levare perché non tengo nulla sotto».

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«Accome non tieni nulla sotto?» si preoccupò Bellònia. «Che, sei stata alla scola solo col sinale e tutta all’anuta sot-to?»

«No, non hai da dire alla mamma che sto all’anuta, per-ché non è vero» volette precisare quella malazionante di pic-cinenna, che onde evitare a Bellònia un ingiustificato so-spiro di sollievo, per conto suo o per conto della mamma, specificò ulteriormente: «Il fatto preciso preciso è che so-pr’alle mutandine e alla canottiera non tengo la veste. Tengo direttamente il sinale».

«Accome? E perché?» si scandalizzò la sora grande, che però manco si preoccupò del freddo che certamente stava pigliando la sora piccinonna, senza un maglione e senza una gonna.

«...Hai da dire alla mamma che Iangiuasandin’ sta solo con il sinale perché di vesti non ne tene».

«Checcosa è ’st’assurdità che stai a dire?» domandò Bellònia, cominciando ad alzare le antenne. «Ma non tenite il comò, tu e Fifin’, pieno pieno di vesti?»

«Hai da dire alla mamma che dentro a quel comò i tiretti di Fifin’ so’ pieni pieni di vesti e i tiretti miei vacanti vacan-ti».

«Accome, vacanti?» si allarmò definitivamente Bellònia.«Hai da dire alla mamma che dentro a quel comò non ci

sta più una sola veste o un solo maglione o una sola cam-misedda nera e che da domani, anzi da oggi, io non sàccio checcosa mi ho da mettere sotto a ’sto sinale o al posto di ’sto sinale» arrivò alla conclusione del discorso Iangiuasandin’.

«Mamma, mamma!» gridò allora Bellònia, precipitandosi in casa.

E si scoprette che in effetti tutte le robbe di Iangiuasandin’, meno le mutandine e la canottiera che quella sconsiderata almeno teneva addosso, erano sparite.

Quel lunedì, la sera, la piccinenna di casa fu tirata per la rècchia da Diador’, che se la portò in cucina, chiudette le porte e ce ne dette di santa ragione, sopra il popò. Ogni

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tanto si fermava, per riposarsi e per domandarle: «Checcosa hai fatto dei vestiti? Addo’ li annascondesti?» Ma quella non rispondeva e lui ripigliava a darle mazzate e schiaffoni sopra il popò, a decine, a centinaia.

Fu tutto inutile. Diador’, dopo cento, duecento schiaffo-ni sopra il culo di Iangiuasandin’, non se le sentiva più quelle mani e quelle braccia delicate da aspirante parrucchiere fino. E poi avette pure un poco di pietà per quella piccinenna che, nonostante l’età, stringeva i denti e non gettava manco una lagrima.

Fatto sta che quella bocca non dicette quella sera (e non dicette mai) che fine avessero fatto tutti quei calzettoni, quelle gonnelline e quei maglioncini neri neri.

E la matina dopo, subito subito, Donna Sabbedd’ già si preparava a scire da Momen’ della Mercerì per accattare qualcheccosa da far mettere a Iangiuasandin’, sotto il sinale.

«Mamma, non starti a incaricare tu di scire da Momen’ della Mercerì» la fermarono Diador’ e Diapold’, «facimo noi un salto, accosì tu continui ad arricettare ’ncasa».

Tacchiàrono e tornarono. Donna Sabbedd’ e Bellònia, già allertate dal fatto che per la prima volta i due màscui si offrivano di fare un servizio e per giunta insieme, loro che erano come il diavolo e l’acqua santa, aprèttero il pacco del-la robba accattata da Momen’ della Mercerì con un brutto presentimento.

E difatti, appena vedèttero checcosa ci stava dentro, per un filo non svenèttero. Certo è che rimanèttero mute e alli-bite: non avevano portato robba nera, ma una gonna rosso bordò e un maglioncino addirittura giallo canarino, quei due scapecerrati di figli (“s-capo-cirrati” alla latina, ma non perché avessero i capelli a cirri, ma perché accirrate e arruffa-te avevano le idee, in quel momento, secondo le due fèmme-ne di casa). “Ma site matti!” teneva intenzione di gridare e avrebbe gridato Donna Sabbedd’, se non avesse avuto la gola seccata dalla sorpresa, diciamo pure dallo sfregio strafottente di quei due colori appicciati. “Delinquenti, apportate momò

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’sta robba ’ndreto” avette l’istinto di sbottare Bellònia, che però fu trattenuta dalla sbiancata della mamma e dall’oc-chiata aspra di Diador’.

«Mamma, mo abbasta! ’Sta commedia, anzi ’sta tragedia dei vestiti neri di Iangiuasandin’ è ora che finisce»: fu la pri-ma volta che Diador’ parlava da màscuo più grande della casa. «E vuoi assapere una cosa? La piccinenna tene rascione. E ha fatto ’bbuono a fare scomparire tutto quel mortorio dai tiretti».

Donna Sabbedd’ non gli parlò per una semana al figlio del core suo, Diador’, e nemmeno al figlio della simpatia sua, Diopold’, che in occasione della sparata di Diador’ sopra i diritti di Iangiuasandin’ aveva mostrato per la prima e unica volta di essere d’accordo per filo e per segno con il frate mag-giore, con il quale invece stava sempre di punta e sempre lo sarebbe stato. Pure Bellònia, naturalmente, per una semana non parlò né a Diador’ né a Diopold’. Per quella semana, fu Fifin’ a fare da rappresentante della mamma con i due màscui, oltre che con Iangiuasandin’, la prima naturalmente con la quale mamma e sora grande non parlarono. Ma quel-la gonna di colore rosso bordò e quel maglione giallo cana-rino non furono riportati ’ndreto quella sera a Momen’ della Mercerì né il dì dopo. Furono al contrario i primi vestiti veri e propri di Iangiuasandin’, che non se li levò per una sema-na, tanta era la contentezza e pure perché non teneva mate-rialmente la possibilità di cangiarsi. Con tutti quei cristiani che non parlavano e non si parlavano dentro quella casa, era umanamente impensabile che qualche uno potesse badare alla necessità di altri vestiti non neri per quella nata orfana.

Passata una semana di musi appesi e di bocche chiuse, la vita dentro quella casa non ripigliò a scorrere esattamente come prima. Oramai l’incantesimo si era rotto. La situazio-ne generale dei rapporti pareva essersi finalmente sbloccata.

Prima ci stava solo lei, la regina della casa, Donna Sabbedd’, con una coda che si chiamava Bellònia, e attorno

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a lei solo ’uagnuni e ’uagnedde di casa che se ne stavano al posto loro e non ci pensavano manco a dire o a fare qual-checcosa che non nascesse dalla capa, dalle valutazioni, dalle decisioni e pure dai capricci della mamma. Non che Donna Sabbedd’ stesse là come una iena con la pavura di farsi met-tere i piedi in capa dai figli o che ci tenesse a comandare. No, lei non pigliava piacere a dare ordini. Non è che volesse sconoscere i diritti naturali di quei cinque figli, anzi di quei tre, visto che in effetti a Iangiuasandin’ sconosceva tutto, pure il diritto all’esistenza, e che Bellònia per conto suo non pareva tenesse nessuna intenzione di rivendicare autonomia o cose di questo tipo. Quello della regina della casa era solo il ruolo che le aveva assegnato di autorità la malasorte e che il destino la costringeva a interpretare. Anzi, sottosotto, non vedeva l’ora che almeno Diador’ crescesse e si cominciasse a pigliare lui qualche peso e qualche responsabilità sopra la schiena. Capiva lei stessa che le cose non potevano scire in-nanzi per tanto tempo ancora così, cominciando dalla soffe-renza di quella povera picciredda di Iangiuasandin’, senza il fiato e persino senza le parole della mamma, per non parlare di tutto quel nero che era costretta a portarsi addosso da quando era nata. Quella nervatura continua, quell’ingiu-stizia – Donna Sabbedd’ cominciava a capacitarsi pure di questo – si rifletteva poi sopra la vita di tutta la famiglia e di tutta la casa, con quelle facce scocciate e quei toni di voce permanentemente fastidiati...

E mo, dopo la ribellione di Iangiuasandin’ e l’alzata di capa di Diador’, peraltro questa collegata a quella, una certa ventata di liberazione si contrappose a quell’aria pesante, a quel grigiore che aveva sempre angustiato la casa di Donna Sabbedd’ da quando ’Mba Iangiuasand’ – pace all’anima sua – aveva avuto la bella pensata di scìrsene al Creatore. Una ventata di colori, certamente: i colori sgargianti che mo Iangiuasandin’ si portava addosso continuamente, da una banda all’altra della casa, da una camera all’altra, giuocando

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e ridendo. Peraltro, nessuno si sentiva più in dovere di badare dalla matina alla sera che Donna Sabbedd’ e Iangiuasandin’ non stessero tutt’e due dentro la stessa stanza. Piano piano, l’incompatibilità non fu più una regola. Fu come se quella girata di autorità di Diador’ avesse liberato Donna Sabbedd’ stessa dalla rigidità che, sei anni prima, l’aveva trasformata da ’uagneddozza in una mazza di scopa. Cominciò a trattare il figlio grande – e a farlo trattare – come si tratta il màscuo della casa. Dopo sbuffate e scocciamenti di mesi, dicette fi-nalmente a Bellònia, chiaro e tondo, di scìrsene per la strata con le compagne sue quando non teneva nulla da fare in casa, invece di stare sempre addosso a lei come una sanguet-ta, cominciando pure a pensare ad apparolarsi con un bravo ’uagnone ché oramai l’età ce l’aveva...

E un poco per forza, un poco per la curiosità, Donna Sabbedd’ lanciò le prime occhiate di sfusciuta a quel concen-trato di vitalità che corrispondeva al nome di Iangiuasandin’ e oramai pure al soprannone di Capatosta. Le capitò, una notte, di rimiràrsele le due picciredde sue, che dormivano insieme sopra la branda: accarezzò la capa a tutt’e due! E poi una matina, addirittura, capitò che aggiustasse il fiocco non solo a Fifin’ ma pure a Iangiuasandin’, che per la verità stava là, affianco alla sora, come se se lo aspettasse, come se avesse capito che quella matina la poteva richiedere alla mamma la prima gentilezza.

Insomma, non ci fu una rivoluzione vera e propria in quella casa – o comunque, se ci fu, non arrivò al punto di convincere e di permettere a Donna Sabbedd’ di trattare finalmente Iangiuasandin’ come una figlia o almeno come una estranea con la quale si possa parlare serenamente – però almeno non si aveva più da stare tutti con la schien’aper-ta come prima. Solo Bellònia approfittò per tanti anni an-cora del fatto che mamma Sabbedd’, nonostante che l’aria non fosse più quella di una volta, non ce la faceva proprio a parlare schietta schietta con Iangiuasandin’. Così la brut-

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ta della famiglia non resisteva alla tentazione di bagnarci il pane sopra quel residuo d’incomunicabilità, esagerando con la mamma i dispetti, la malacreanza e le mancanze di Iangiuasandin’ e, con Iangiuasandin’, la severità, l’acidità e l’asprezza della mamma.

Da un certo momento in poi, però, all’incirca ai tempi della seconda e terza elementare di Iangiuasandin’, dentro quella casa cominciò un tale viavai di gente e di cose, di chiacchiere e di attività, che la vita per tutt’e quattro quelle fèmmene e femmenedde cangiò da così a così. Diventò più allegra, più incasinata, più festaiuola. Succedèttero infatti due cose. La prima: che quella casa si trasformò, quasi senza che se ne avvertissero, in una specie di grande sartoria. La seconda: che dentro quella casa, senza che nessuno lo avesse deciso, a un dato momento non ci stava più una famiglia, ma ce ne stavano praticamente due.

Cominciamo dalla sartoria. Per la verità, più che una sar-toria vera e propria, la casa di Donna Sabbedd’ diventò una bottoneria. O forse il nome più giusto era un altro ancora: passanteria-bottoneria. Fatto sta che, piano piano, quella casa fu inondata da un mare di divise. Divise dei Figli della Lupa, dei Balilla, delle Piccole Italiane, degli Avanguardisti, dei Giovani Fascisti, delle Giovani Italiane, dei Guf e dei Fascisti veri e propri. Per non parlare delle saariane nere. Loro, la vìdua e le figlie della bonanima di ’Mba Iangiuasand’, non c’entravano nulla con il taglio e la cucitura delle divise, che arrivavano in via Mirenghi già bell’e fatte, ma senza bottoni né occhielli né passanti. I lavoranti del negozio di divise “La Compatriota” le trasferivano col triciclo, a decine, a centi-naia alla volta, e le scaricavano in casa di Donna Sabbedd’, dove però si caricavano delle divise da portare alla stiratura finale.

Che cap’all’erta quell’Andrè Pàtrios, oramai chiamato da tutti Compà Pàtrios, dagli amici soprannominato per fare

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subito Compàtrios e dai clienti battezzato sbrigativamente Compatriota! Di lui tutto si poteva dire meno che venisse da una famiglia di compatrioti nostrani, dato che non solo erano greci il nonno suo e l’attano e il nonno del nonno suo e tutti i morti e gli stramorti suoi, ma pure l’attano suo pro-prio e la mamma sua dalla Grecia erano venuti. Eppure ave-va sfruttato il cognome suo, greco che più greco non si può, per alzarsi nientedimeno che un negozio patriottico italia-no. Ma, a parte questo fatto di furbizia e di carta d’identità, che faceva Pàtrios? Con sistemi che si possono immaginare, essendo lui greco, cioè più barese dei baresi, convinceva il Partito a dargli l’appalto per fare le divise, e accattava all’in-grosso, ma proprio all’ingrosso all’ingrosso, balle di stoffa e di fodera a centinaia, a migliaia, e bottoni a milioni. E a una famiglia faceva fare le maniche, a un’altr’una affidava i calzoni. Poi ci stava la famiglia più esperta che si dedicava alle fodere e alle imbottiture. Da un’altra banda una famiglia numerosa gli diceva sempre grazie al greco perché le faceva guadagnare due lire con i colletti e i revèr...

E in conclusione – con tanti tricicli che vedevi scire in-nanzi e ’ndreto, dalla matina alla sera, dal centro ai rioni più sperduti, dalla Madonnella a via Napoli, da Barivecchia all’estramurale – tutti quei pezzi di stoffa tagliati e cuciti finivano sotto le mani di non più di cinque famiglie che si erano specializzate con l’imbastitura e il confezionamento definitivo della divisa. A quel punto mancavano solo i bot-toni con gli occhielli loro e i passanti: ed era una famiglia, una sola, appunto la famiglia di Donna Sabbedd’, quella po-vera vìdua con cinque figli da mantenere, che aveva avuto la fortuna di essere incaricata da quel sant’òmmeno di greco di provvedervi. Da via Mirenghi, prima di finire appese dentro i lunghi corridoi di deposito, esposizione e vendita de “La Compatriota” o di essere consegnati certe volte – data l’ur-genza – direttamente al Partito, avevano da passare sotto i ferri da stiro dell’ultima famiglia della catena umana forgiata da quel chiavicone di Pàtrios.

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Nessuno seppe mai con sicurezza come Andrè Pàtrios fosse capitato in via Mirenghi e perché avesse regalato quel bendidio di fatica e di guadagno a quella famiglia di fèmme-ne che peraltro ne teneva proprio bisogno. Tra un’orlatura e una cucitura, tra una consegna e l’altra, Donna Sabbedd’ non precisò mai, nemmeno alle figlie o ai parenti stretti, l’origine esatta di quel privilegio. Forse Andrè, da giovane, era stato lavorante dentro la cava di ’Mba Iangiuasand’ e a lui la vìdua, sotto disposizione del morto, aveva affidato, diciamo pure regalato, la cava. Forse da quel “regalo” era cominciata la fortuna del greco da una banda e, dall’altra banda, era stata possibile la sopravvivenza per qualche an-netto della famiglia del morto acciso. Interrogata a proposi-to, Donna Sabbedd’ non aveva mai respinto scandalizzata la voce che voleva Andrè, sì, primo lavorante alla cava di ’Mba Iangiuasand’ ma altresì primo responsabile della morte sua: per non ruinarlo, pure perché non teneva ancora tutti i do-cumenti apposto come residente in Italia, ci si sarebbe messi d’accordo per scaricare la colpa dell’incidente sopra quel po-vero ’uagnone del figlio di Colin’ e soprattutto sopra la mula loro. E, prima di perdere completamente e definitivamen-te i sensi, ’Mba Iangiuasand’ avrebbe dato in consegna la cava e la famiglia sua al migliore amico suo, che era appunto Andrè, facendosi promettere da Donna Sabbedd’ che non lo avrebbe denunziato. Verità? Chiacchiere di rione? Testimoni diretti della morte di ’Mba Iangiuasand’, di quelli che sta-vano dentro la cava quella matina, ne erano sopravvissuti solo tre o quattro, e faticavano tutti a “La Compatriota”, compreso il figlio di Colin’. Andrè se li era assunti per ami-cizia e pietà o proprio per accattàrseli? E chi poteva saperlo! Rimaneva la testimone numero uno, Donna Sabbedd’, che però sopra tale questione non pronunciò mai una parola, che fosse solo una.

Del resto, nessuno la sentette mai chiamare direttamente o nominare almeno indirettamente il greco. Se lo avesse fat-to e se avesse detto per esempio “Andrè”, si sarebbe potuto

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concludere che lei era in confidenza con lui o lo era stata da giovane. Se avesse fatto ricorso invece al cognome “Pàtrios” o magari più completamente ad “Andrè Pàtrios”, uno avreb-be potuto ricavarne che teneva, sì, rapporti personali con lui, ma rapporti non così stretti. Se avesse utilizzato “Compà Pàtrios” o “Compàtrios”, avrebbe potuto far capire che si conoscevano da tempo e avevano rapporti personali diretti e che magari lui era stato amico o addirittura socio – e non dipendente – di ’Mba Iangiuasand’. Se poi Donna Sabbedd’ avesse fatto riferimento al greco pronunciando, con freddez-za, l’espressione commerciale “il Compatriota”, allora due sarebbero state le possibilità, una minima e l’altra massima. E cioè: che tutte quelle congetture di quartiere a proposito dei vecchi rapporti fra il greco, ’Mba Iangiuasand’ e Donna Sabbedd’ erano solo ed esclusivamente chiacchiere, senza nessun fondamento, oppure che quella eccessiva indifferen-za in Donna Sabbedd’, al contrario, nascondeva un vecchio o addirittura continuato rapporto a due, fra lei e il greco salvatore. Come avrebbe potuto, infatti, ridurre a semplice relazione commerciale il rapporto suo con un òmmeno che, in definitiva, aveva salvato dalla miseria lei e tutta la famiglia sua, permettendole (o, chissà, imponendole) di respingere decine di ambasciate di vìdui e pure di scapoli bellifatti e con il posto fisso?

Donna Sabbedd’ aveva detto di no pure a Marchionn’, il capo della seconda famiglia che si venette a sistemare dentro quella casa (salvo che per dormire). Era un cugino alla lon-tana della mamma di ’Mba Iangiuasand’. All’epoca dei fatti nostri, quando rivedette quella vìdua giovane e scattosa con cinque figli a carico, Marchionn’ teneva già cinquant’anni. Ma era pure lui, come ’Mba Iangiuasand’, un òmmeno tut-to d’un pezzo che faceva scire in pappa-di-lino indifferente-mente fèmmene fatte e picciuedde. Rispetto alla bonanima del marito di Donna Sabbedd’, poi, teneva un portamento di autorità ancora più giustificato e più apprezzabile. Più

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giustificato, perché quell’attivo attivo di ’Mba Iangiuasand’ era stato stroncato dalla morte all’inizio della carriera bril-lantissima che avrebbe certamente fatto, mentre Marchionn’ la carriera sua di faticatore, di patrone e di ricco che si era arricchito da sé l’aveva già fatta. E più apprezzabile, diciamo pure più amabile appariva il portamento suo perché, mentre ’Mba Iangiuasand’, buono come il pane e rispettoso pure delle mosche, scoppiava comunque di energia e d’impazien-za giovanile, e te le faceva sentire ogni punto e momento questa energia e questa impazienza, al contrario le parole e il portamento di Marchionn’ ti davano tranquillità perché lo sentivi che ne aveva passate tante, che la strata sua l’aveva già fatta e che, mo, desiderava solo starsene in pace e far stare in pace quelli che vivevano con lui.

Per la verità, quando si affacciò in via Mirenghi e venette a tizzuare alla porta di Donna Sabbedd’, dopo anni che non si faceva vedere, Marchionn’ non era in grado, né interessa-to a fare ambasciate. Difatti, dentro quel periodo campava ancora la mogliera, Prescianz’, per la quale Marchionn’ si sarebbe fatto tagliare un braccio.

«Beato a chi ti gode, Marchionn’» fu il bongiorno e un poco il rimprovero di Donna Sabbedd’ a quella specie di procugino, che era sempre stato portato ad esempio in fa-miglia come uno che si era saputo sistemare e arricchire. E Marchionn’ in effetti si era alzato e portava innanzi – in via Napoli, oltre il giardino Garibaldi – un cafè, orgoglio e bandiera dei baresi, che potevano permettersi di scire ogni tanto a Napoli, ad assedersi al “Gambrinus”, senza vergo-gnarsi delle cose nostre. Si era pure accattato nientedimeno che un palazzo di tre piani affianco al cafè. Ma da lui Donna Sabbedd’, per tutti gli anni della miseria più nera seguiti alla morte di ’Mba Iangiuasand’, non aveva mai avuto la faccia di scire a tizzuare per una mano di aiuto.

«Sebellin’, ti veggo proprio assistemata» le rispon-dette Marchionn’, che da Sebellin’ l’aveva conosciuta ai tempi dell’amoreggiamento e del matrimonio con ’Mba

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Iangiuasand’ e Sebellin’ l’avrebbe continuata a chiamare. Marchionn’ rispondeva senza manco avvertirsi del tono un poco di rimprovero, se non di caricatura, del bongiorno ri-cevuto, assettandosi sopra una seggia che Donna Sabbedd’ aveva sgombrato da una ventina di saariane nere...

Era già scattato il periodo fortunato di quella casa. Ci stavano giornate che non ci si poteva manco mòvere fra tutti quei mucchi di divise. Era un’impresa passare da una stan-za all’altra, scansando e spostando montagne di giacchette e calzoni, stando attenti a non sciuare mettendo il piede sopra un rocchetto e a non appoggiarsi con una mano sopra un ago infilato. Divise sopra i letti e le brande, sopra le segge e i puffi, sopra la tavola e i tavolini, sopra il comò e il buffè, so-pra l’armadio e il cassettone; divise per terra, da tutte le ban-de, sopra il lavandino della cucina, sotto i letti, all’ingresso, sopra la tazza del cesso e certe volte – mettendo qualche uno di guardia – persino fuori di casa, sopra il pianerottolo. E divise da completare subito di bottoni e passanti, perché i lavoranti di Pàtrios stavano sempre abbàscio ad aspettare. Molte volte, non si faceva in tempo a spicciare le divise di una stanza che te ne arrivavano altrettante...

«Non me la so’ appassata sempre accosì, cuggino Marchionn’» tenette a precisare Donna Sabbedd’. «Dopo la morte della bonanima, avimo dovuto fare qualche sacrificio. Non tengo brevogna ad ammettere che, qualche dì, non ci stava ’ncasa manco uno stezzo di pane per levarsi la fame. Ma, grazie a Dio, ce l’avimo fatta. E speramo che accontìnua accosì. Ma tu, ma tu, Marchionn’, accome ti vanno le cose? Accontìnui a ’ngranare col cafè? E di tutti i tornesi che tieni, che te ne fasci? T’accatti un altro palazzo?»

«Sapessi, Sebellin’, sapessi...»«Dimmi, Marchionn’, dimmi...» lo invitò Donna

Sabbedd’, che gli domandò con una punta di sfottimento: «Tieni abbisogno di qualcheccosa?»

«Per la verità sì» rispondette Marchionn’, che da tempo non era più capace di usare e nemmeno di capire accenni

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di rimprovero, di caricatura o di sfottimento. «Tengo ab-bisogno che tu m’aiutassi a cercare, da ’ste bande, un buco addo’ potimo venire a starcene io, Prescianz’ e i tre figghi che abitano con noi».

«Un buco? Tu, Prescianz’ e i figghi vostri dentro a un cafùrchio, da ’ste bande? Ma stai a scherzare?»

«Ma quale scherzare e scherzare, Sebellin’!» la smontò Marchionn’. «Ci sta la crisi... Per salvarsi dalla crisi hai da fare gli imbrogghi accome agli altri... Non ti dà una mano d’aiuto nisciuno... Anzi, chi pote t’ammena uno sgambet-to... E se tu sei caduto o ti sei avvoltato da una banda, statti sicura che dall’altra banda ci sta qualche uno che ti dà una pugnalata alla schiena...»

«Madonna, la stai a vedere proprio nera!» commentò Donna Sabbedd’, sinceramente dispiaciuta. «Ma checcosa ti è assuccesso? Parevi accomandare alla vita tua accome un grande marinaro accomanda alla varca dentro al mare ’ntem-pesta; con l’allegria tua eri l’attrazione principale del cafè che t’ha fatto ricco, accattavi palazzi interi... E mo ti sei arridotto a vedere la vita accosì nera e addirittura a cercare una casa-redda dentro a ’sto quartiere di povere vìdue e d’operai. Ti ha da essere assuccessa proprio una brutta cosa!»

«Lo puoi dire, purtroppo, Sebellin’. Lo puoi dire...» E così Marchionn’ si decidette finalmente a contare alla cugi-na le venture e le sventure passate da lui e dalla famiglia sua dentro gli ultimi anni.

Marchionn’ cominciò da lontano, sia per l’annata, dal 1929, sia per la località, dall’America. «A me m’ha ruinato la crisi di Uol Strit» spiegò. «Quel cataclisma di tornesi e d’interessi si sentette pure da noi e tuttora ne soffrimo le conseguenze...» Marchionn’ era stato colpito da quella crisi internazionale mentre, per la prima volta dentro la vita sua, stava a fare il passo più lungo della gamba. «Tu lo sai, il locale del cafè non era il mio, mi costava venticinque lire al mese. E il desiderio di farmi una proprietà era forte. Quei tornesi che adàscio adàscio stavo ad agguadagnare avevano

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da avere uno sfogo. Il primo tentativo fu naturalmente quel-lo d’accattarmi il locale del cafè, ma il patruno mi dicette chiaro e tunno che non lo vendeva e che se ne voleva tenere stretta stretta la proprietà sino alla morte. Si vendeva però il palazzo affianco al cafè, a sessanta mila lire. E lo accattai. Era il ’24. Quarantamila lire le tenevo astipate in banca e venti le pigghiai a interesse...»

«Io non me n’intendo di ’ste cose» si gettò innanzi per non cadere Donna Sabbedd’, «ma mi pare che, per uno che ’ncassava accome a te, appagare ventimila lire, tanto al mese per una decina d’anni e pure considerando gli interessi, non era poi un azzardo».

«Eh sì, fu lo stesso ragionamento mio. Perciò mi gettai dentro a quell’impresa» confermò Marchionn’, «ma non feci i conti con Uol Strit, che cinque anni dopo mi dette un bel colpo pure a me, oltre che ai miliardari americani e ai capi-talisti e alle nazioni di tutto il mondo. E poi, accome se non abbastasse Uol Strit, mi spezzò definitivamente le gambe la mafia dei costruttori».

«Ecchè, esiste la mafia dei costruttori?» s’informò Donna Sabbedd’, che solo mo si stava a lanciare dentro il mondo degli affari con aghi, cotone e macchina per cucire.

«Essì che esiste!» le rispondette Marchionn’. «Accattando quel palazzo a quel prezzo, evidentemente, avevo dato un dispiacere a qualche uno. Fatto sta che, rifacendo un palazzo che stava attaccato al mio, l’impresa edilizia di uno scornac-chiato che poi me lo dicette, a quattr’occhi, che me l’aveva fatto apposta, che facette? Indebolette le volte, che tenevano ’npiedi pure la proprietà mia. Accosì il palazzo accattato con tanti sacrifici e tanti rischi sconocchiò, tanto che simo stati costretti a scasare e a ricoverarci dentro a un altro appar-tamento appagato a peso d’oro. E sai a chi mi so’ dovuto affidare per il restauro del palazzo? Proprio a quello scornac-chiato, che però all’epoca io non sapevo che proprio con me ce l’avesse. Naturalmente mi ha ammandato alla ruina. Mo aumentavano i materiali, mo la sorpresa di un altro danno alle fondamenta, mo saliva il costo della manodopera...»

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«E mo, accome sta la situazione?» volette sapere Donna Sabbedd’.

«Il calo degli incassi del cafè, il fiume di tornesi che s’è bevuto il palazzo e l’impossibilità di stare dreto ai pagamenti dei soldi a interesse e dei fornitori mi hanno fatto chiecare le ginocchia...»

«Perché allora non vendi il palazzo, cercando accosì di risollevarti» lo consigliò Donna Sabbedd’.

«Già fatto. Ma col culo ’nterra stavo e col culo ’nterra sto».

«E mo?»«Mo sto ad affecuare dentro a un mare di scadenze, di

tratte e di cambiali».«E accome pensi di potèrtene assire?» volette arrivare alle

conclusioni Donna Sabbedd’, «venendo ad annascònderti da ’ste bande?»

«Suppergiù...» le dicette Marchionn’, lanciandole un’oc-chiata di considerazione. «Ma lo sai che sei arrivata alla stessa conclusione dell’avvocato mio? A te te lo posso acconfessare: l’avvocato Pagliònico m’ha consigliato di fare un finto falli-mento. Tieni cinquant’anni, m’ha detto, chi te lo fasce fare a stare a combattere ancora per una decina d’anni contro ai debiti? E m’ha convinto ad annascòndere da qualche banda la merce che tengo depositata, dalle attrezzature ai sacchi di cafè e di zucchero, e ad annascòndere me stesso e la famìg-ghia mia dentro a una casa da quattrosoldi. “Alzo le mani” m’ha consigliato di dire ai creditori. “Avvoltàtemi e arrivol-tàtemi quanto volite, ma non tengo più una lira”. E subito dopo sparisco dalla circolazione. Accosì spero d’appassare la tempesta. Poi, a tempesta appassata, metto in vendita la merce depositata, arracìmolo quelle quattro lire avanzate da tanta ricchezza e mi apporto la famìgghia a Milano, addo’ tengo già due figghi, che faticano uno alla Pirelli e uno da barista alla Motta».

«Ma tu non tenivi un ’uagnone che faceva il banconista al bar Vox, ’nvia Sparano?» divagò Donna Sabbedd’.

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«Sì, Gesepp’. Ed è quello che appensammo di fare scire apposta a Milano in avanscoperta, ad apprepararci un poco la piazza, ’nsieme a Velardin’...»

«Velardin’? Chi, il pilota?»«Sì, fìgghiemo che era arrivato al grado di maresciallo pi-

lota e che è stato il primo a scìrsene a Milano. Fasce il col-laudatore alla Pirelli...»

«E quindi, mo, quanti figghi abitano con voi?» domandò concretamente Donna Sabbedd’, pensando già a una casa vacante adatta per loro. Immaginava che, trasferendosi da quelle bande, la famiglia precipitata dalle stelle alle stalle sa-rebbe stata spesso e volentieri a casa sua, e cercava già di prevedere i fastidi che forse ne avrebbe ricavato.

«Tre figghi. Checchell’, la più grande, forse te l’arricordi» facette l’elenco Marchionn’. «Poi ci sta Colettudd’, lo stu-dentino, e Tonin’, il più piccinunno».

Quei cinque cristiani ai quali avevano spezzato le gambe la crisi di Uol Strit e la mafia dei costruttori venèttero a na-scondersi – aspettando che passasse la bufera dei copponi (i debiti nostri vengono dal francese “coupon”) – dentro due locali miseri miseri di via Giovanni Iatta, che a quei tem-pi delimitava la zona di via Mirenghi e praticamente era il confine del paese abitato. Oltre via Iatta stava la campagna, anzi il campo che arrivava sino a via Napoli e che durante la prima guerra mondiale era servito da campo di aviazione. Mo era tutto erba e pietre, pietre ed erba. Ci stavano solo la capanna di Velas’ il Pecorale, con le bestie sue, e la chiesa del-le Carmelitane, che facevano pure l’asilo per i piccininni...

Veniva mandato sempre lo studentino, Colettudd’, ad accattare ogni volta, con la bottiglia, mezzo quinto di pe-trolio. Serviva per le lampade, dato che in via Giovanni Iatta quegli stretti-di-culo della Sgpe, che poi era la Società Generale Pugliese di Elettricità, non avevano avuto ancora la compiacenza di fare arrivare la luce. In via Mirenghi, a cin-

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que metri di distanza, già ci stava. Ma in via Giovanni Iatta no. Perciò Colettudd’ cominciò lui a venirsene ogni tanto la sera in casa di Zi’ Sabbedd’, per fare le lezioni. Poi venette ogni sera e, con lui, mo veniva un altro della famiglia sua e mo un’altra... In capo a qualche semana, quelle due famiglie furono tutt’una. Del resto, Donna Sabbedd’ e Bellònia, con tutte quelle divise e con l’aiuto della sola Fifin’, come pote-vano portare pure innanzi la casa, fare da mangiare, tenere dreto a Capatosta, lavare la robba, spolverare e puliziare in terra, eccetera eccetera? Così Donna Sabbedd’ sistemava i passanti alla macchina da cucire e Commà Prescianz’ mette-va qualcheccosa sopra il gas, Bellònia e Checchell’ attaccava-no bottoni, Colettudd’ e Iangiuasandin’ studiavano, Diador e Diopold’ comparivano e scomparivano, e pure Marchionn’ alla sera si faceva vedere per spizzuare un boccone e per fare quattro chiacchiere con le fèmmene e i ’uagnuni. Ma qual-che altra volta era Donna Sabbedd’ che si metteva ai for-nelli, mentre Commà Prescianz’ pigliava confidenza con discitale, ago e bottoni, Bellònia fissava alla Singer i passan-ti, Checchell’ e Fifin’ sistemavano le divise, e Colettudd’ le faceva sbambarare tutte quante con giuochi di parole, bar-zellette e storie che non finivano mai. E le fèmmene, mentre cucivano e cucinavano, si mettevano pure loro a contare i fatti del quartiere e i detti e i mottetti di una volta...

In effetti, ci sta da dire che l’arrivo di tutti questi altri cri-stiani, cangiando completamente la vita dentro quella casa, facette passare in second’ordine pure la vecchia malinconia da vìdua di Donna Sabbedd’ e soprattutto l’ostilità con la quale lei aveva sempre angosciato Iangiuasandin’. Mo la pic-cinenna zompava come un grillo pure innanzi alla mamma, qualche volta la mamma si faceva addirittura sfuscire una risa per le pagliacciate sue e tutti quanti parevano più allegri e spensierati. E stava quella bella radio, la Radio Fonola, che faceva sentire tante belle canzoni. Era Colettudd’ a sfogliarsi ogni matina il Radiocorriere e ad avvisare tutti quanti – anzi,

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tutte quante – che a tal’ora e a tal’altra ci stava questo pro-gramma o questa opera o questo varietà. E le posizioni di ciascuno di loro dentro quelle stanze, così come l’ora per faticare e per mangiare, erano determinate, oltre che dalle consegne a “La Compatriota”, pure dalla programmazione dell’Eiar e dalle lezioni che tenevano da fare e dalla fantasia del momento di Colettudd’ e Iangiuasandin’.

«Capatosta non vole arare alla scola» aveva detto Donna Sabbedd’ a Colettudd’, che con i quattordici anni suoi fa-ceva già la quarta magistrale inferiore, pregandolo di darle una mano a quella delinquente. Ma Colettudd’ si avvertette subito che quella capa era tosta solo di carattere ma non per incapacità di capire. E difatti, se non si distraeva, impara-va tutto avvolo. Soprattutto se le promettevi, come faceva Colettudd’, che poi le avresti contato una storia.

«...Le sentinedde del castiddo svevo stavano con tanto d’occhi e tantissimo di rècchie» pigliò a contare una sera Colettudd’ per farsi promettere da Iangiuasandin’ che avreb-be imparato a memoria le tabelline dell’otto e del nove, ma pure per far divertire tutte le fèmmene di quella casa che sta-vano chi a mettere bottoni, chi a pedalare sopra la macchina per cucire e chi a girare i maccaroni, «...le sentinedde erano state accomandate dalla Principessa di tenere sotto control-lo da una banda il mare, d’addo’ poteva arrivare il pericolo turco, e dall’altra banda la campagna, d’addo’ avevano d’ar-rivare i rinforzi militari al comando del Grande Cenerale. “Sento rumuri di corazze e armature nostrane” avvertette una sentinedda, la più giovane, affacciandosi dalla banda del ponte levatoio. “Ma che corazze e corazze!” l’arrimproverò la sentinedda più anziana, appigghiàndolo per cravattina e attrascinàndolo dalla banda che dava sopr’al mare, “non sin-ti che si tratta di rumuri di navi di pirati?” Accontinuando il disaccordo, fuscèttero tutt’e due dalla sentinedda capa. Il soldato senza peli e senza malizia la ’nformò che stavano ad arrivare i rinforzi e abbisognava perciò abbasciare veloce

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veloce il ponte levatoio, ma il soldato con la barba longa e bianca allertò invece la sentinedda capa sopr’al fatto che, tempo qualche minuto, il castiddo e tutto il paese sarebbero stati distrutti dall’orda turchesca. La sentinedda capa non sapeva cheffare. Allora acchiamò a rapporto tutte le altre sentinedde, le piazzò – e si piazzò pure lui – al centro della piazza d’armi del castiddo, ordinò a tutti di stare citti citti e a ognuno di loro addomandò checcosa sentivano che stava ad assuccèdere fori dal castiddo...»

«Colettudd’, stasera la stai a fare troppo alla longa!» lo rimproverò mamma Prescianz’, con la risa sopra la bocca e, pure lei, con la curiosità dentro gli occhi.

«Statti citta, statti citta» la rimproverarono Iangiuasandin’ e Tonin’. «Facci sentire da Colettudd’ accome affinisce la storia».

«Statti citta tu, Capatosta, non fare la scostumata con Zi’ Prescianz’» intervenette Bellònia per rimproverare, natural-mente, la piccinenna di casa.

«Bellònia, pure tu ti mitti» si facette sentire Donna Sabbedd’, rimproverando dalla cucina la figlia grande.

«E fàtelo affinire a Colettudd’, che conta accosì ’bbuono» pregò tutti Fifin’ la Fricamidolce, che lanciò al pro-procugi-no un’occhiata dolce e tenera che lo facette squagliare, ben sapendo che lui si squagliava ogni volta che lei lo sbirciava così.

E Colettudd’ continuò: «...La sentinedda capa le interro-gava a una a una le sentinedde semplici. “Sinti rumuri tu?” ci addomandava. Quella arrispondeva: “Signorsì, sento ru-muri”. Seconda domanda: “Sinti rumuri forti o rumuri de-boli?” Stessa risposta da tutte le sentinedde: “Rumuri deboli, signora sentinedda capa”. E si passava allora alla terza do-manda: “Sinti rumuri deboli di corazze e armature, di navi e remate oppure di qualche altra cosa?” Tutte arrispondèttero: “Sento rumuri deboli di qualche altra cosa, signora senti-nedda capa”. A quel punto, che aveva da fare la sentinedda capa? Aveva da fare a tutte le sentinedde sottoposte, a una

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a una, la stessa quarta domanda: “E di quale altra cosa pòz-zono essere i rumuri deboli deboli che però si sentono sino a qua, seconno te?” E ce la facette ’sta quarta domanda. La prima risposta della prima sentinedda ’nterrogata fu che...»

«Allora tene rascione Commà Prescianz’ che stasera la stai a fare proprio troppo alla longa, Colettudd’!» gli troncò la storia Donna Sabbedd’, mentre appuntava i sei bottoni della brachetta di un paio di calzoni da Giovane Fascista. «Ci vuoi pigghiare proprio a caricatura tutte quante, stasera!»

«Statti citta, statti citta, mamma» si permettette Bellònia, che pure lei voleva sapere assolutamente come finiva quella storia di sentinelle e di rumori. «Se l’interrompete sempre Colettudd’, è chiaro che poi non arrivamo mai alla conclu-sione del fatto».

«Statti citta tu, Bellònia, e non ti appermèttere di fare la maleducata con mamma» la pigliò a caricatura Capatosta.

«’Uagnedde, ma lo avite accapito sì o no che ’sto disgra-ziato di fìgghiemo non lo sape manco lui accome va ad af-finire la storia, perché la sta inventando momò, mentre la conta?» tentò di richiamarle alla realtà Commà Prescianz’.

«E fàtelo affinire a Colettudd’, che conta accosì ’bbuono» dicette da capo Fifin’, lanciando al pro-procugino un’altra occhiata da fricamidolce. «Colettudd’, ce lo dici checcosa arrispondette alla quarta domanda della sentinedda capa la prima sentinedda semplice ’nterrogata?»

«Allora, Fifin’» le domandò Colettudd’, «ti sta proprio a piacere ’sta storia?»

«Tanto, tanto» gli confermò la Fricamidolce.«Mi sta proprio a piacere tanto tanto pure a me» s’intro-

mettette Capatosta, gelosa che mo al maestro suo gli veniva lo sghiribizzo di fare lo scemo con la sora.

«Ci sta proprio a piacere a tutti quanti ’sta storia, Colettudd’» s’intromettette Tonin’, geloso del frate, «e quin-di, invece di fare tante mosse, perché non l’accontìnui?»

«Eeeeeh!» gridarono insieme le due mamme presenti alla scena che pure loro, quindi, sollecitavano lo studentino a scire innanzi anziché perdersi a fare gli occhi dolci a Fifin’.

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«E vabbuono, accontinuamo...» si ripigliò Colettudd’, che continuò. «Dunque, alla quarta domanda della senti-nedda capa, la prima sentinedda semplice azzardò: “I ru-muri deboli deboli che si sentono sino a qua, seconno me, li stonno a fare le fèmmene del paese, lavanno tutte quante ’nsieme le cazzarole dalla polvere e dalla fuliggine e appre-parànnosi a venire sotto al castiddo a fare la iosa perché tè-neno fame e non tèneno manco un pizzo di pane da darci ai piccininni loro”. La sentinedda capa si scandalizzò: “Accome t’appermitti d’appensare a una cosa simile. In cella, in cel-la!”. E l’achiudèttero in cella la prima sentinedda semplice. “Seconna sentinedda” gridò allora la sentinedda capa, “se non so’ di corazze, né di navi, né di cazzarole i rumuri deboli deboli che però si sentono sino a qua, rumuri di quale altra cosa so’, seconno te?”. E la seconda sentinedda arrischiò: “A occhio e crosce, a me pàrono i rumuri che fàsceno sopr’agli scogghi i piedi dei compagnucci miei che non tèneno la for-tuna d’agguadagnarsi la zuppetedda facenno i soldati e che per poter ammangiare vonno a pùlipi e pelose”. La sentined-da capa s’alterò: “Ah, è ’sto grattagratta che fàsceno i com-pagnucci tuoi e magari pure tu, aqquanno stai in borghese? arrubbate i pùlipi e le pelose di proprietà della Principessa? In cella, in cella!” E pure la seconda sentinedda semplice fu mettuta ai firri. “E tu, terza sentinedda semplice, che ne pinsi di ’sti rumuri?” Tremuando tremuando, quella tentò: “A me personalmente mi pàrono i rumuri caratteristici della galoppata dei cavaddi salernitani che vèneno in frett’e furia ad apportare alla Principessa nostra l’ambasciata del Principe di Benevento”. S’infuriò, a ’ste parole, la sentinedda capa: “Accome t’appermitti, cafone, vastaso e ruzzulano che non sei altro, d’intromìttirti dentro a ’ste cose delicate di princi-pesse e prìncipi? In cella, in cella!”. E la terza sentinedda fu sbattuta pure lei dentro al reclusorio...»

«E spìcciala, Colettudd’» lo invitò a stringere la mamma. «Quante sentinedde so’ state piazzate stavolta a fare la uàrdia al castiddo svevo? Cento?»

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A quel punto, in effetti, Colettudd’ accorciò un poco tutte le fantasie che quella storia gli aveva fatto spuntare in capa. «Dunque, la quarta sentinedda semplice, ’nterro-gata pure lei sopr’al mistero di quei rumuri, arrispondette senz’esitazioni. E rivelò: “Non tengo dubbianza. So’ loro, quegli insaziabili dei commercianti. Hanno organizzato tre varcuni, anzi tre navi vere e proprie, chiene chiene di grano accattato a Foggia, con la scusa che lo vògghiono scire a vèn-nere nientedimeno che al mercato di Antiochia. ’Sti rumuri vèneno dal molo perché quelle tre navi stonno per partire”. Facette avvedere d’interessarsi alla cosa la sentinedda capa, che ci tirò le cime di rapa alla quarta sentinedda semplice, addomandando: “E dimmi, dimmi sentinedda semplice ac-così accorta e ’nformata! Se quella di scire a vènnere il grano di Foggia ad Antiochia è una scusa bella e bona, quale sa-rebbe la vera rascione di ’sto importante, costuso e faticuso viaggio?” E quel povero-a-lui parlò: “Ma è un segreto che sape pure Pulcinedda, sentinedda capa! I commercianti vòg-ghiono scire ad arrubbare l’ossa di quel grande santo che è Santa Nicola, miracoluso vescovo di Mira, in Asia Minore, liberànnolo dalle mani degli infedeli mussulmani e appor-tànnoselo qua, accosì noi ci potimo addedicare pure una basilica, la più bella e la più granne di tutte, e arrivano tanti pellegrini, miliuni di pellegrini da tutta l’Italia e pure da fori dell’Italia, dalla Frangia e dalla Germania, e allàssano qua tanti di quei soldi che i commercianti nostri se li mettono sotto al mattone e addivènnano milionari!” Alla sentinedda capa salette il sangue agli occhi: “Ah, accosì una sentinedda semplice s’addiverte a sputtanare a tutti i segriti di Stato? In cella, in cella”. E pure lei fu ’ncarcerata. “E tu, quinta e ultima sentinedda semplice” gridò allora, “tieni il coraggio e il cerviddo per dirmi tu chesso’ ’sti rumuri, se non so’ di corazze, né di navi, né di cazzarole, né di pùlipi sbattuti, né di zoccoli di cavaddi principeschi, né di vari clandestini di Stato? Su parla, parla sentinedda!” Tremuando tremuan-do, quest’ultima dicette sinceramente ciò che appensava:

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“Evidentemente, per la quinta volta in dieci dì, quei banditi di repubblicani stonno ad alzare l’Albero della Libertà che noi, per cunto e per incarico della Principessa, per quattro volte avimo già vittoriosamente abbattuto”. Lo bloccò la sen-tinedda capa: “Accome dicisti? Dicisti: per cunto e incarico della Principessa?” “...Sì, sì” arrisponnette quella, mo incerta e cacazzosa. “Eh tu, la vedisti mai la Principessa? T’ha mai apparlato la Principessa a te?” “...No, no” arrisponnette quel-la, oramai rassegnata al peggio trattamento. “Allora, sai qual è il dovere tuo mo?” facette la faccia brutta il comandante in capo delle sentinedde del castiddo: “Quella è la direzione della galera, accammìnami ’nnanzi, io ti vengo dreto e accosì achiudo dentro a quella gabbia fetosa e umida umida pure lo spione ’nfame e spudorato che sei tu”. E accosì facette, arrimanèndo a solo a solo a uàrdia del castiddo e alla difesa della Principessa...»

«E mo, che assuccede?» domandò speranzosa Iangiuasandin’. «Mica la storia affinisce accosì?»

«Capatosta, statti citta e fallo finire» la rimproverò Bellònia, «ché mo avimo d’accapire se ci sta una conclusione degna della lunghezza della storia o se Colettudd’ ci ha pig-ghiato per il naso a tutte quante stasera».

«Mo vi do un boffettone a tutt’e due, se non la spicciate» tagliò Donna Sabbedd’, minacciando uno liscio-e-busso di origine spagnola (“bofeton”).

E Colettudd’ potette continuare: «La sentinedda capa, a sola a sola, qualche rumore stavolta lo assentette pure lui. Appizzò le rècchie e accapette che una voce cavernosa aggrida-va qualcheccosa d’abbàscio. Non addistingueva le finali delle parole, ma ci stava chiaramente qualche uno che si spolmo-nava per farsi sentire: “Volet... sent... aprit... il porton... del cast...” E ancora: “Ma che non ci sta nisciun... È da un’or... che chiam... Son... il cenerà...” La sentinedda capa s’avvicinò di più alla porta del castiddo, assentette un poco mègghio: “Aprit... sono il cenerà...” e scattò istintivamente sopr’all’at-tenti. Dunque, si dicette fra sé e sé, è arrivato il Cenerale,

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il Grande Cenerale. Fuscette dalla Principessa. “Principessa, Principessa, è arrivato il Cenerale” l’avvertette. Ma lei non ci accredeva: “Il Cenerale, già oggi? Ma se l’aspettavo per la semana che viene! Non è che si tratta di un trabocchet-to?” E si spostarono ’nsieme sino alla porta, per sentire mèg-ghio quella voce. E sentirono nettamente dall’altra banda: “Aprit... son... il cenerà...” Perciò si acconvincèttero tutt’e due: era arrivato finalmente il Grande Cenerale con tutti i rinforzi militari e abbisognava, mo, prepararci in frett’e furia un accoglimento trionfale, all’altezza della gloria sua e della utilità sua per la salvezza del castiddo, della Principessa e di tutta la popolazione. Allora la sentinedda capa alliberò le sentinedde ’ncarcerate per farsi aiutare da loro a discetare tutti i lavoranti e i cortigiani del castiddo, s’avvestèttero tutti a festa, i musicanti accordarono gli strumenti e s’appiazzàro-no affianco all’entrata del castiddo, i cucinieri appreparàro-no in cinque minuti un pranzo principesco e generalesco in quanto a qualità e soldatesco in quanto a quantità, i camariri in due minuti e mezzo assistemàrono tavole, tavolini e tavo-luni chieni chieni di piatti, piattuni, bicchieri, bottìgghie, caraffe, salviette, cucchiare, forcine e cortiddi, i trombettiri accominzàrono a provare le trombette, i ballerini a ballare il flamenco, le ballerine a fare la danza della panza, i buffuni a zompare e a fare ridere, i saltimbanchi a giuocare con le orsacchiotte... Fiumi di miero rosso di Barletta sboccarono dalle cantine, ’nsieme a intere partite di frutta tropicale e di frutta fuoristagione. Gli iùmmini di forza si scolarono litri di petrògghio e dalle vocche accominzàrono a lanciare per prova fiammate più alte della torre più alta innalzata, pietra sopr’a pietra, da bizantini, longobardi, normanni, svivi, an-gioini e aragonisi. Sentinedda capa e sentinedde semplici si mettèttero in fila, a parata. E finalmente dall’appartamento principesco s’addegnò d’assire la Principessa, tutta vestuta d’oro e d’arginto, con le trasparenze dell’ametista e la mez-zatrasparenza dell’agata, seguita da sette ancedde ognuna ve-stuta di un colore diverso, rispettivamente di russo rubino,

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di azzurro zaffiro, di verde smeraldo, di giallo topazio, di viola ametista, di bianco avorio e di grigio madreperla. La Principessa s’affermò sopr’al ballatoio principesco, ’ncima allo scalone principesco e, con una mossa di mano principe-sca, ordinò che si poteva aprire e far trasire dentro al castid-do il Grande Cenerale. I trombettiri facèttero pepperepè, i cannuni facèttero bumburubùm, la porta fu aperta, il ponte levatoio fu abbasciato ed eccolo il Grande Cen... Ma chi era quel vecchiariddo tutto ’mbrattato di bianco che apparette, a solo a solo – dentro alla cornice della porta aperta – con la faccia schiantata per tutto quel trionfale ricevimento? E il Grande Cenerale? E tutti i rinforzi militari? “E il Cenerale addo’ sta” aggridò feroce al vecchiariddo la sentinedda capa che, più facciatosta di tutti, fu il primo a ripigghiarsi dal-la sorpresa e dalla delusione. “Quale Cenerale e Cenerale?” addomannò quel vecchiariddo alla capa sentinedda. “Il Grande Cenerale di tutti i rinfurzi militari che assèrvo-no alla Principessa nostra, al castiddo e alla difesa di tutta la popolazione!”. E quello: “Che ne sàccio io del Grande Cenerale?” Di rincalzo la capa sentinedda: “Accome che ne sai tu? Ci stivi tu ’nnanzi alla porta aqquanno il Grande Cenerale ci avvertiva gridanno: Aprite, aprite la porta, sono il Cenerale!”. E quello: “Vedite, sentinedda capa, che vi state a sbagliare. Io stavo ’nnanzi alla porta ma non ci stava ni-sciun Cenerale”. E la sentinedda capa: “Allora, ad aggridare: Aprite, sono il Cenerale! chi era? lo spirito dei murti e degli stramurti tuoi?” E quello: “Se appermettite, ero io che stavo ad aggridare, visto e considerato che nisciuno m’assentiva e nisciuno m’apriva”. E la sentinedda capa: “Ma allora, si pote accapire chiccazzo sei tu e checcazzo aggridavi?” E quello: “Io so’ il ceneraro. M’è stato accomannato dalla camarera della Principessa d’apportare al castiddo la cenere per lava-re la robba. E io con la cenere mi so’ appresentato ’nnanzi al castiddo. Ma io tizzuavo alla porta e nisciuno m’apriva. E allora mi so’ mettuto ad aggridare: Aprite, aprite sono il ceneraro”. E la sentinedda capa: “No, tu aggridavi: Aprite,

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aprite sono il Cenerale”. E quello: “No, io aggridavo: Aprite, aprite, sono il ceneraro”. E la sentinedda capa...»

A questo punto quello spiritoso di Colettudd’ fu assalito da due fèmmene grandi, due ’uagnedde, una ’uagneddozza, una piccinenna e un piccininno che gliene dettero tanti, ma proprio tanti di schiaffi, pizzichi in culo e chéggheri sopra il cheggheruzzo. Ma dentro tutta quella confusione ci fu pure una mano che facette una carezza sopra la faccia di quel ’ua-gnone…

Si giuocava e si rideva continuamente, dentro quella casa, in contemporanea alla cucitura dei bottoni e dei passanti. E Colettudd’ non era sempre il solo màscuo che si trattene-va la sera in mezzo a quelle fèmmene cucitrici e cuciniere. Ogni tanto facevano la parte loro, dentro quel tiatro, pure Marchionn’, Diador’ e Diopold’.

Il procugino di Donna Sabbedd’, in attesa che si risolves-se quell’imbroglio del finto fallimento, se ne stava chiuso in casa o al giardino Garibaldi, a spatriare sopra una panchina insieme a qualche compagno dell’età sua. E la sera se ne ve-niva tra le fèmmene in via Mirenghi, per mangiarsi all’inpie-di un poco di pane e provolone (o pane e olive fritte) e per partecipare pure lui alle chiacchiere.

E contava qualche fatto che conosceva lui. Come quello di uno ziano suo, Don Gesepp’, nato stagnaro fino, poi tito-lare della prima licenza per costruire pesi e misure rilasciata dentro il 1860 dal règio governo ancora con sede a Torino, e diventato fondatore e proprietario della primissima azien-da d’inscatolamento di pomodori. E poi che facette Don Gesepp’? Vendette tutto e si mettette a vivere di rendita, con la figlia grande, dentro il palazzo che si era alzato in via Giandomenico Petroni 33, affittando i sottani alla strata e tutto il pianoterra. Beato lui!

E poi Marchionn’ contava la storia di Fracasso, il patrone del palazzo di mobili in via Pietro Ràvanas che per un cer-to periodo lo aveva chiamato a fare il guardiano notturno.

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Fracasso era stato daziere, poi si dimettette e improvvisa-mente si alzò nientedimeno che un palazzo di mobili di cin-que piani. Come aveva fatto un povero impiegato del dazio a farsi tanti tornesi? Fu processato Fracasso. «I superiori suoi lo avevano alluzzato, avevano accapito che lui ai cristiani di un certo livello il dazio praticamente ce lo abbonava. Appena arrivava lui dentro a un ufficio del dazio, subito le entrate di quell’ufficio accalàvano. ’Nsomma, Fracasso si faceva dare i tornesi lui personalmente, sottosotto, da quei grossi com-mercianti e achiudeva un occhio e pure tutt’e due sopr’alle partite di robba che quelli accattàvano e avvendèvano, e so-pr’al dazio che quelli a ’sto punto non appagàvano. Ma mai nisciuno l’aveva appigghiato con le mani dentro alla farina, dicimo accosì. Quel fatto del palazzo, però, facette tanto in-cazzare la direzione centrale del dazio comunale che la cosa fu assegnalata al tribunale. “Signor Fracasso” ci aggridò il giudice con una voce terribile al processo, “siete accusato di aver sottratto ingenti somme di danari all’amministrazione daziaria, in concorso con commercianti e operatori econo-mici disonesti. Ma la giustizia deve ammettere che non ci sono documenti o testimonianze definitive a vostro carico. Adesso dovete però confessare l’origine di tutti i soldi che vi sono serviti per comprare quel palazzo di cinque piani in via Pietro Ràvanas, in contanti, e per avviare l’esercizio commer-ciale”. E sapite accome arrispondette quel fìgghio di bona-mamma di Fracasso, appigghiando per il naso tutti quanti, giudici compresi, e assalvàndosi dalla galera? Arrispondette con una domanda di nove parole: “E che ne sapite voi chec-cosa facesse mia moglie?” Che drittezza, no?»

«Dritto sì, ma pure cornuto e contento!» bagnò il pane Checchell’.

«Scusate, ma mi sfusce la conclusione del fatto» si mettet-te in mezzo Fifin’, fricamidolce ma ingenua ingenua.

«Zi’ Marchionn’» le spiegò mamma Sabbedd’ «ha detto a noi che Fracasso ha fatto accapire al giudice che la mogghiera sua faceva la malafèmmena. Perciò, grazie alla fatica di ma-

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lafèmmena della mogghiera, aveva fatto tanti soldi da potersi accattare il palazzo di cinque piani in via Pietro Ràvanas».

«Ma se la mogghiera faceva la malafèmmena e appassava i tornesi a lui» gridò Iangiuasandin’, collegando le parole di Zi’ Marchionn’ e della mamma a certe cose che aveva sentito a scola da quella maliziosa della compagna sua di banco, «allora vole dire che Fracasso non era dritto e cornuto contento, ma ricottaro!»

Bellònia stavolta ce lo dette, e forte, un boffettone a quella sfacciata della sora piccinonna.

«Ma allassàtela stare Iangiuasandin’» la difendette Colettudd’. «Bellònia, non accapisci che la piccinenna non sape manco checcosa assignìficano le parole malafèmmena e ricottaro!»

«No, io lo sàccio, io lo sàccio» si voleva fare rispettare Iangiuasandin’: «la malafèmmena addorme dentro il letto con i mariti delle altre, che ci danno i soldi. E lei i soldi non se li tene, ma li dà al marito suo, che perciò s’acchiama ricotta-ro».

«Ma lo vedi che non lo sai checcosa assignìficano ’ste paro-le!» tentò d’imbrogliare le carte Colettudd’, il cianciaruso. «E tu, Bellònia» continuò, facendo l’occhiolino alla pro-procugi-na grande, «ti sei acconvinta mo che Iangiuasandin’ non sape di checcosa stamo a parlare?»

«No, io lo sàccio, io lo sàccio» gridava ancora Iangiuasandin’, battendo i piedi. «Io lo sàccio, io lo sàccio...»

E questo le procurò, quella volta, uno dei primi attacchi diretti della mamma. «Mo abbasta, affinìscila» dicette secca secca Donna Sabbedd’ e le dette un bel boffettone in fac-cia. Un fatto che quindi fu pure positivo, oltre che doloro-so, perché finalmente Donna Sabbedd’ la toccava e le parlava direttamente a quella figlia che aveva quasi completamente ignorato dalla nascita...

Zi’ Marchionn’ sparigliò quella scena imbarazzante atteg-giandosi a Duce che mette il piede da dominatore sopra il mappamondo – in verità, sopra una seggia – come dentro il

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quadro gigantesco che Fracasso aveva fatto pittare dal ma-estro Colonna, aveva fatto stampare sopra mille cartoline pubblicitarie spedite in tutto il mondo e poi aveva regalato alla Federazione. «Quanti tornesi che spende e spande quel culaperto per accattare i cristiani» osservò l’ex guardiano notturno provvisorio di Fracasso. «E sì che lui lo sape acco-me si fasce a farsi accattare!»

Certe altre volte Marchionn’ attaccava con le storie dei due figli emigrati a Milano, Velardin’ il collaudatore e Gesepp’ il banconista. «A Velardin’ la fatica alla Pirelli ce l’ha approcu-rata lo ziano» ricordava. «Forse l’acconosci pure tu, Sebellin’. Te l’arricordi il marito della sora di Prescianz’, il marescial-lo dei carabinieri? Sì, proprio lui. Mo, a Milano, il canato di Prescianz’ è un pezzo grosso. Accomanda la stazione dei carabinieri di via Moscova. Fu lui che si facette arricévere dall’ingegner Pirelli in persona. E Pirelli s’impegnò a fare faticare Velardin’. Perciò ammandammo Velardin’ a Milano. Ma non era quello il destino suo, il destino di collaudatore. Lui voleva fare il carabiniere, accome al canato della mam-ma. Perciò aveva fatto il concorso per allievi ufficiali dei ca-rabinieri. E con gli studi, l’esperienza e la specializzazione sua se li bevette gli esami del concorso. Ma fu arrespinto lo stesso. E sapite perché? Stava scritto chiaro chiaro sopr’alla comunicazione che ci arrivò: è stato arrespinto “avente zio anarchico”. Proprio accosì: “Avente zio anarchico”. Cioè per colpanza di quel matto di Zi’ Pasqualin’. Sebellin’, tu te l’ar-ricordi Zi’ Pasqualin’, il frate di Prescianz’?»

«Eccome no!» gli rispondette Sabbedd’. «Zi’ Pasqualin’, il calderaro specializzato che teneva quella bella fatica alle Ferrovie e che non s’apperdeva un’opera al Petruzzelli. Da dicembre a marzo non lo potivi tuccuare: passava tutta la scirnata ad apprepararsi per scire a tiatro. Si stirava da se stesso il vestito buono, si lavava da capo a piedi e ’ntanto si sentiva al grammofono i pezzi più importanti dell’opera che aveva da sentire a tiatro quella sera... Ma che assignìfica che è anarchico?»

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«Zi’ Pasqualin’ ha sempre tenuto la politica ’ncapa» spie-gò Marchionn’, «ma una politica contraria a quella del Duce nostro. Prima ancora della Marcia su Roma, se ne stette con tanti altri spostati accome a lui a fare casino, per una se-man’intera, ad Ancona. E poi è sempre stato antifascista. Ha fatto il matto contro al fascismo, facendosi pure la galera al castiddo svevo. Dentro alla stessa cella sua stava Gesepp’ Di Vittorio, un grand’òmmeno. Era un bracciante povero po-vero di Cerignola. Poi accominciò a capire e a lottare contro lo sfruttamento. E siccome è cerveddino, è addiventato un grand’òmmeno».

«Ma che assignìfica esattamente essere anarchico?» insi-steva Sabbedd’.

«...Mo il discorso si fasce troppo lengo e difficile» tagliò Marchionn’. «’Nsomma, Zi’ Pasqualin’ si è arruinato con le mani sue stesse, mettendosi contro il Duce e il Partito. Ma ha arruinato pure a noi. E accosì Velardin’, quel povero ’ua-gnone, non ha potuto fare il carabiniere perché il frate di Prescianz’ non la pensa accome a Mussolini. Protestammo, scrivemmo, chiarimmo che Pasqualin’ non lo avvedevamo da anni, mettemmo naturalmente in mezzo il canato cara-biniere di Prescianz’... Nulla da fare. Disperata, Prescianz’ si gettò ai piedi del comandante della legione dei carabinieri di Bari. “Eccome” s’allagnò con lui, “conta uno ziano anarchico per essere arrespinto dal corso ufficiali dei carabinieri, e non conta per essere accettato uno ziano che è comandante della stazione dei carabinieri di via Moscova a Milano?” Proprio accosì: l’anarchico contava negativamente e il comandante della stazione non contava positivamente...»

Intanto che i grandi parlavano di Zi’ Pasqualin’, Colettudd’, che dallo ziano anarchico aveva ereditato la passione per la musica, quella sera – era il ’39 – stava a pi-strigghiare, cioè a pasticciare, con la radio. La matina, in via Imbriani, da un gruppo di studenti grandi che stava-no appoggiati al muro, fra l’entrata dell’Istituto Magistrale

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“Dottula” e la libreria Accolti Gil, aveva saputo che quella sera Radio Londra avrebbe trasmesso in diretta dal celebre tiatro Coven Garden nientedimeno che la Boèm in italia-no. Colettudd’ girava continuamente a destra e a sinistra il bottone della radio. La linea delle stazioni faceva inutil-mente innanzi e ’ndreto. Fischi, soffi, sirene, scoppi, gri-da, qualche cantata all’italiana: tutto si sentiva dalla radio, quella sera, meno che musica orchestrale e meno che meno la Boèm. Del resto, chi l’aveva pigliata mai la stazione di Londra, capitale degli inglesi! Colettudd’ continuava oramai a girare quel bottone tanto per fare qualcheccosa, per un tentativo senza speranza, seguito con gli occhi scatesciati da Iangiuasandin’ e con gli occhi di fricamidolce da Fifin’ la Buona. Era tanto da fricamidolce l’occhiata di Fifin’ quella sera, che Colettudd’ a un certo punto sospendette la ricerca disperata della Bibbissì, per convincere l’amore segreto suo a mollare per un momento la giacca alla quale stava a cucire il bottone della mariola, che poi è la palda interna della giacca, e a levarsi quel discitale che le stava a ruinare il dìscito. E ce lo girava tra le mani sue quel dìscito («Accosì ci facimo accircolare da capo liberamente il sangue»), quando si avver-tette che Iangiuasandin’ si era messa lei a pistrigghiare con i bottoni della radio.

Stava per gridarle di non toccare i bottoni della radio ché lui l’aveva quasi pigliata Radio Londra, quando dentro quel-la stanza piena di divise e di fèmmene faticatrici si sentette a tutto volume una bella voce di tenore che cantava: «Che gelida manina, se la lasci riscaldar». Colettudd’ si mettet-te quasi a chiàngere per la gioia. Iangiuasandin’, intuendo la grande impresa che era stata capace di fare, zompava e ballava per la soddisfazione ma senza fare rumore, per non disturbare Colettudd’. Arrivò dentro quel momento pure Diopold’.

«Cazzo, la Boèm» gridò il secondo figlio màscuo di Donna Sabbedd’ e si assedette. Ma non chiudette completamente la bocca. «Mo hai d’avvedere che tengo rascione io» sussurrò

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dentro la rècchia di Colettudd’. «Quello a un certo punto canta: “Cercar per Giove!” perché non arriesce ad arrecupe-rare la chiave. “Cercar per Giove!”»

«Ancora con questa storia!» rispondette a voce bassa Colettudd’, «ancora non ti vuoi arrassegnare? Sei proprio capatosta accome a sòreta piccinonna! Quello non canta: “Cercar per Giove!” Quello canta: “Cercar che giova?” Ecco quello che canta. Ma mo statti citto accosì sentimo...»

E arrivati al punto di “Cercar”, tanto i due si mettèttero a dire: «Mo hai d’avvedere che ho rascione io» e «Statti citto che mo sentimo» e «Statti citto tu altrimenti non sentimo nulla», che nessuno capette le parole esatte pronunziate dal cantante e non fu possibile assodare una volta per tutte se Puccini avesse musicato un’imprecazione o un interrogati-vo.

«Vabbuono, dicimo che tieni rascione tu» alzò le mani Colettudd’, «abbasta che mo ci fasci sentire ’sta bella Boèm che stanno a sonare e a cantare a Londra proprio dentro a ’sto momento che la sentimo noi».

«E dalli con Boèm e Boèm» si sentette improvvisamen-te la voce di Diador’, che tornava dentro quel momento a casa dall’albergo diurno. «Ma quante volte te l’ho da dire? Si dice: Boemè, Boemè, con la “è” finale frangese».

«Ma che, state a dare i numeri stasera tutti quanti» sbottò Colettudd’. «Io faccio il frangese da tre anni e qualchecco-sa di musica la sàccio. Te lo posso proprio assicurare che si dice Boèm e non Boemè. Accome insisto e dico, a quell’altro campione di fràteto, che il tenore non canta “Cercar per Giove!” ma “Cercar che giova?”»

«Ahò» gli rispondette con l’aria del patrone di casa Diador’, facendogli toch-toch sopra la schiena con la punta dei dìsciti tesi tesi, «io faccio il parrucchiere fino, mica il vastaso al porto. E ti posso assicurare a te, con tutta la quarta magistrale inferiore tua – dico inferiore, non superiore – che quest’opera parigina si chiama Boemè, Boemè».

«Ma vaffaculo tu, l’albergo diurno e tutta l’ignoranza

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che tieni, ’nsieme a quella di fràteto» reagette Colettudd’. «Mègghio che me ne vado, altrimenti qua assuccede un no-vantanove». E sbattette, ma non troppo forte, la porta.

Ogni tanto capitava che ’uagnuni, ’uagnedde e piccinin-ni di quelle due famiglie così unite facessero questione. Ma poi tornava subito la pace. Pure perché era bello starsene in pace dentro quella casa mentre si cuciva, si cucinava, si puli-ziava in terra, si facevano le lezioni, si sentiva la radio, si con-tavano le storie di principesse e di briganti, si riportavano i sogni fatti la notte prima (e tutti tentavano d’interpretarli e di ricavarne qualche numero per il lotto), si commentavano le calunnie che circolavano sopra questa o quella vicina di casa, si malignava sopra fatti di corna e di commari...

Ma una brutta giornata finette in via Mirenghi quel pe-riodo di chiacchiere, di storie, di questioni fra ’uagnuni e di risate. Da un certo momento in poi, Prescianz’ di Marchionn’ aveva cominciato a lamentarsi per i dolori di reni. Il dottore della farmacia Ciaciulli la tastò un poco, sentette come si lamentava e scuduò preoccupato la capa: «Dobbiamo fare una prova per vedere se è nefrite. E se è nefrite, non la veg-go buona la situazione». Facèttero la prova. Quella povera fèmmena si rassegnò a fare la pipì direttamente dentro una fialetta. Marchionn’ riscaldò la fialetta con un fulminante. E vi spremette dentro un poco di limone. A quel punto, se la pipì fosse rimasta limpida, avrebbe voluto dire che non c’era nefrite, ma se si fosse intorbidata allora la conclusione sarebbe stata una sola: nefrite.

La pipì di Commà Prescianz’ si era intorbidata. Non ba-stò a salvarla l’alimentazione a base di verdure e di pesce in bianco, né le cure che ricevette all’ospedale dell’universi-tà, né quelle che continuarono a praticarle all’ospedale San Pietro di Barivecchia.

E quella brutta giornata arrivò. Prescianz’ di Marchionn’ lasciò questo mondo, il marito e cinque figli piena di dolori,

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prima di trasire dentro quell’altro mondo di pace e serenità che era il camposanto di via Modugno. Fu uno sconquasso. L’unica figlia fèmmena della morta, Checchell’, mo se ne sta-va sempre chiusa in casa, in via Giovanni Iatta, a fare i servizi e a tentare di tenere sotto controllo Tonin’, che però si sfre-nava tutta la giornata in mezzo alla strata. Solo Colettudd’, lo studentino innamorato, continuò a scire innanzi e ’ndre-to, fra via Iatta e via Mirenghi, un poco con la scusa che teneva da far fare le lezioni a Iangiuasandin’, che in effetti le faceva solo se ce le faceva fare lui, un poco per quegli occhi e quella risa da fricamidolce di Fifin’, e un poco pure perché da Zi’ Sabbedd’ si mangiava meglio che a via Giovanni Iatta. Diciamo pure che là si mangiava – e sopra Colettudd’, secco e scavato, aleggiavano sempre il sospetto e la pavura della tibiccì – mentre qua, al massimo, ci si poteva mettere ogni tanto qualcheccosa dentro lo stomaco. Quando ci stava, na-turalmente, perché l’imbroglio del fallimento finto pareva non sbrogliarsi mai. Anzi. I tornesi non si vedevano e invece l’avvocato Pagliònico sì!

Marchionn’ facette la proposta di matrimonio a Donna Sabbedd’ dopo un anno di quella vita. E la facette proprio il dì che si potette permettere di tenere dentro una mano le carte della chiusura definitiva del fallimento e dentro l’altra la moneta della vendita di tutta la robba che aveva nascosto e, finalmente, smerciato.

«Sebellin’, io oggi ti ho da dire una cosa che da qualche mese m’aggira ’ncapa» le dicette quella sera, assedèndosi in cucina, mentre lei arricettava e ’uagnuni, ’uagnedde e picci-ninni stavano per i fatti loro, dentro la stanza centrale della casa.

«Ma se ’sta cosa t’aggira ’ncapa da mesi senz’assirti dalla vocca, che razza di cosa è? Una cosa brutta?» commentò in-genuamente Donna Sabbedd’.

«No, non è una cosa brutta» la rassicurò subito il procu-gino, «anzi, pote essere una bella cosa per tutti quanti noi,

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accominciando dai ’uagnuni e dalle ’uagnedde. Stanno ac-così ’bbuono tutt’insieme, pàrono una sola famìgghia. E io, mo, le tengo assistemate tutte le cose mie, avendo realizzato pure un certo capitale...»

«So’ proprio accontenta per te» dicette Donna Sabbedd’, cominciando a subodorare qualcheccosa, «accosì mo ti puoi assistemare con Checchell’, Colettudd’ e Tonin’ dentro a una casa più civile di quel buco di via Giovanni Iatta. E magari puoi accercare pure una brava fèmmena che si pìgghia cura di te e di quei tre figghi. Mica sei vecchio!»

«E proprio sopr’a ’sto fatto stavo ad arragionare. Proprio questa è la cosa che m’aggira ’ncapa da mesi. E appensavo che tu...»

«Io? Io checcosa?» gli tagliò le conclusioni la procugina vìdua. «Io, grazie a Dio, con questo viavai di divise ce la faccio a campare e spero di farcela sino a quando Diador’ e magari pure Diopold’ hanno d’agguadagnare qualche cifra consistente... Poi ci stanno ’ste tre cambiali di fèmmene che una dì o l’altra ho da sfrangiare... Non tengo proprio la capa a me stessa. Ho d’appensare a loro...»

«Mica ti stavo a dire d’appensare a te e non a loro! Al contrario...» cercò di convincerla Marchionn’ sopra una cosa che peraltro non aveva ancora detto chiaramente. «Un fiato e un aiuto di màscuo a te e di capofamìgghia a loro, ai ’ua-gnuni e alle ’uagnedde tue, ci vole, accome ci vole un fiato e un aiuto di mamma ai ’uagnuni e alla ’uagnedda mia...»

«’Uagnuni e ’uagnedde li chiami tu! Ma oramai so’ iùm-mini e fèmmene» cominciò praticamente a dirgli di no Donna Sabbedd’. «Tu tieni figghi d’oro e pure io non mi posso allagnare. Ma una cosa è stare ’nsieme accome ami-ci, accome pronipoti e prozii, e accome procugini, e tutta un’altra cosa...»

«Ma, mo, io tengo due strate ’nnanzi a me» la bloccò Marchionn’. «O pìgghio ’sti tre figghi che tengo qua e me li apporto là, a Milano, addo’ stanno gli altri due e addo’ uno accome a me una cosa da fare l’agguanta senz’altro, oppure se tu volessi...»

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«Statti citto Marchionn’, stati citto, avessero da sentirti i ’uagnuni da quella banda...» lo fermò Donna Sabbedd’. «Io so’ una fèmmena. Io ho da stare al posto mio. E il posto mio è qua, ’nvia Mirenghi, tra ’sti muri fabbricati personalmente da Iangiuasand’ mio, a tirare la carretta sino a quando non mi dà il càngio Diador’... Sei tu che sei un òmmeno, tu puoi fare quello che vuoi... E forse fasci ’bbuono a pensare di scire a Milano, arrimettendo ’nsieme la famìgghia. E magari t’accàpita una brava milanese che ti dà una mano ad am-mandare ’nnanzi la casa».

Così finette quella stagione in via Mirenghi. Marchionn’ e i figli suoi, Colettudd’ compreso, partirono per Milano, tra lagrime e pianti. Dentro la casa di Donna Sabbedd’ non fu più aria di barzellette e di risate, e nessuno più contava storie vere o storie inventate. La radio, mo, non l’appiccia-vano nemmeno più. Iangiuasandin’, a scola, tornò ad essere la capa-di-ciùccio che era. E tra lei e la mamma ricominciò a scorrere il veleno. Non come prima, naturalmente, quando manco si parlavano, ma sempre in quantità tale da ostaco-lare un rapporto normale tra mamma e figlia. Un rapporto, perciò, esposto alle conseguenze più disastrose.

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zi’ marisabbell’

Capitò che a una fèmmena grande si affezionasse Iangiuasandin’, da ’uagnedda. Naturalmente a una fèmmena sbagliata, secondo l’opinione di mamma Sabbedd’, perché questa fèmmena portava la nòmina di essere praticamente un’imbrattata. Sta di fatto che sarebbe stato meglio pure per lei che non le si fosse affezionata come a una mamma o forse, più esattamente, come a una ziana, a Marisabbell’ – la figlia di Felucc’ il Norvegese e sora gemella di Varv’ la Zoppa – che tutti cimentàvano con il nome di Pittotunno perché teneva il petto più grosso e più tondo di tutto il quartiere, per non parlare del culo. Sia chiaro, si può dire solo a cose fatte che sarebbe stato meglio, sapendo come in effetti quell’amicizia finette. Quando le si era proprio affezionata affezionata, in-fatti, Zi’ Marisabbell’ sparette o, più esattamente, fu costret-ta a levarsi dalla circolazione. E Iangiuasandin’, già orfana di attano e praticamente senza amore di mamma o di sora grande o di pro-procugino, subette un altro contraccolpo, come se n’avesse sofferti pochi sino ad allora.

Dunque, quando Iangiuasandin’ teneva una quindicina di anni, Donna Sabbedd’ pensò di mandare ogni tanto quel-la scapestrata da Zi’ Varv’ – promossa a Zi’ Commara per via del corredino colore della morte che solo lei, quando fu necessario, aveva avuto lo stomaco di confezionare su or-dinazione della vìdua prena di ’Mba Iangiuasand’– perché imparasse almeno l’arte di fare i maglioni invece di starsene in casa a far fare veleno o in mezzo alla strata a fare la ma-scuona. Iangiuasandin’ imparò e non imparò quest’arte e, più che affezionarsi a Zi’ Commara, seccasecca e zittazitta, si attaccò alla sora di Zi’ Commara più simpaticona e più boccabocca. E con lei se ne stava a fare chiacchiere ore e ore, con lei papereggiò sino al centro arrivando qualche volta al lungomare. E lei, Marisabbell’, a Iangiuasandin’ contava tut-

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ti i fatti suoi, spontaneamente, mettendosi allo stesso livello suo, come se avesse la stessa età. No, non era una culaper-ta come dicevano tutti, scoprette subito Iangiuasandin’, ma una povera ’uagnedda, a dispetto dell’età di fèmmena fatta e di quella sorta di bellezza provocante che si portava stampata in faccia, sopra il petto e sopra il culo.

“Almeno Varv’ una sistemazione sua la tene” si rodeva ogni matina Marisabbell’ – e lo riconosceva sinceramente, apertamente con Iangiuasandin’ – quando vedeva la sora tra-sire contenta e spensierata dentro il negozio, direttamente dalla camera da pranzo, con la caminata tràppeta-trapp’ per via di quei due centimetri che le facevano difetto alla gamba destra. Varv’, beata lei, non teneva preoccupazioni: ferri in mano e baccalà, uncinetto e stoccafisso. Sempre dentro il negozio a fare maglioni e a trattare con quella ventina di pe-sciaiuoli sbulinati che ogni semana venivano ad accattare da loro. Pure dentro la casa, che poi erano tre cameredde dreto il negozio, ci stava praticamente solo la notte e, il dì, per mangiare avvolo e fare i piatti. Unico svago, la spesa. Era lei che, ogni mezzodì, mentre papà Felucc’ stava attento al ne-gozio, passava dal formaggiaro e dalla fruttaiola, e n’appro-fittava per farsi rimirare da qualche commara le cosaredde che faceva con ferri e uncinetto. Era la sola vanteria sua. Mai una passeggiata, mai una pretesa, mai una parola di più, mai un dispiacere a papà. “E né pruriti né sfottimenti né rodi-menti” era convinta Marisabbell’: “tutto il contrario mio”.

Varv’ sempre appizzicata a papà e lei, Marisabbell’, sem-pre in guerra con papà. Anzi, di papà Felucc’ non ce ne stava uno, ma ce ne stavano praticamente due: uno con la risa stampata sopra la faccia e con le mani pronte alla carezza per Varv’, e un altr’uno sempre abbafacchiato e col quar-to all’ammerso per Marisabbell’. Da quando era diventata quasi una fèmmena, non si permetteva più di menarla: ma quante, quante volte si era gettato come una furia sopra a lei, senza ragione e senza umanità, sfraganàndola con quei

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pesci secchi secchi e tosti tosti, attorno ai quali girava tut-ta la vita loro. E quanto facevano male, quando l’attano la centrava alla capa o alle gambe, quelle specie di mazze che raschiàvano pure con le code e le pinne. Lasciavano segni che duravano semane.

“Beata a lei, Varv’ la Zoppa”. Gli iùmmini non la sfotte-vano ogni volta che la vedevano, i giovanotti non tentavano di pigliarsi qualche passaggio, i piccininni non le gridavano dreto le cose brutte. E il primo aprile non le menavano sopra la schiena la pezza di panno a forma di pesce, imbiancata col gesso, che quando si staccava lasciava la stampa sopra il vestito o la giacchetta senza che te ne avvertivi.

A lei, a Marisabbell’, i piccininni una volta le stam-parono dreto una forma grande di pezza. Ci stava pure Iangiuasandin’ e nemmeno lei se n’avvertette. Più che sopra la schiena, la forma si fissò precisamente sopra quel mazzo delle meraviglie che Marisabbell’ si portava sempre appresso e che faceva scatesciare gli occhi a tutti i màscui che la incro-ciavano. Il gesso non era bianco, ma rosso. E non si trattava di una forma di pesce con il buco dell’occhio, il triangolino della pinna e le curve della coda, ma di un pesce per modo di dire, grosso grosso, con la capocchia e due palle. E non era manco il primo aprile.

Per tutta la passeggiata che facette con Iangiuasandin’ e una compagna dell’età sua quella sera, sino al lungomare, passando prima per il giardino Garibaldi, facendosi tutto cor-so Vittorio Emanuele e poi tornando ’ndreto, Marisabbell’ se ne caminò – come se ne caminava lei, menne a meloni di prora e culo a cofanetto di poppa – con quella sorta di regalo che non sapeva di avere ricevuto. Fu una scena che nessuno avrebbe più scordato: né lei, né la tragginatrice (quella tra-ditora della compagna) che si era avvertita dello scherzo ma non dicette nulla all’inizio e non avette il coraggio di dire nulla poi, man’a mano che il fatto si faceva grosso, né quei quattro o cinque piccininni che l’avrebbero contata poi a tutti ridendo come matti.

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Quella sorta di triglione con le palle fu stampato sopra lo scapezzato di Marisabbell’ all’inizio della passeggiata, di-ciamo una decina di metri dopo il Supercinema. Per la veri-tà, l’intenzione di quei quattro schicchiatiddi era proprio di farla passare, con quel siluro stampato sopra lo scapezzato, innanzi all’adunata di perditempo che pigliavano aria all’en-trata del cinematografo, tra il carretto dei fichi d’India, la cassetta dei bombolotti e il triciclo del gelato a limone. Ma avevano sgarrato il tiro e Marisabbell’, senza saperlo, ave-va evitato almeno lo sfottimento di quegli sbagugliati del Supercinema. Già al giardino Garibaldi, però, teneva quel bel cannone stampato pall’e tutte al posto giusto, con l’incli-nazione giusta, rosso, sopra la gonna del taierino bianco che praticamente la spremeva, evidenziandone la corporatura, come se ce ne fosse stato bisogno.

Quante risate e quante malignità, quella sera, dreto la schiena di Marisabbell’. Lei non sgamò nulla per tutta la ca-minata. Iangiuasandin’ nemmeno. Certo, si erano avvertite che quei quattro fessacchiotti di piccininni non le lasciavano di piede e si facevano tanti segnali fra loro, ridendo sguaiati. Ma non era una novità. Quante volte l’avevano seguita per ore – piccininni, giovanotti e iùmmini grandi – godendo-si lo spettacolo di quel culo di Marisabbell’ che pareva un monumento ambulante, tanto più appetitoso per i màscui e scandaloso per le fèmmene perché si allargava sotto un giro di vita stretto stretto, e che lei storceva ad ogni passo non sapendo più nemmeno lei stessa se perché costretta dalla na-tura e da quelle cosce carnose carnose o se perché oramai av-velenata dentro il cervello dai pensieri scostumati, diciamo pure indecenti, che l’asfissiavano da tutte le bande.

Iangiuasandin’ si era pure avvertita che la compagna di Marisabbell’, ogni tanto, non ce la faceva a trattenere una risa tutta imbarazzata e lanciava occhiate maliziose all’an-dreto. Ma pure questo non succedeva la prima volta. Ci ave-vano fatto il callo, lei e per prima Marisabbell’, che peraltro faceva finta di non vedere e di non sentire tutte le porcherie

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che, appena compariva, spuntavano dalla bocca ed eviden-temente pure dentro la capa e tra le gambe dei màscui. E tutte le amiche che passeggiavano con lei da sola o con lei e Iangiuasandin’, ogni volta si voltavano in effetti incurio-site e meravigliate a mirare le facce che facevano iùmmini, ’uagnuni e ’uagnungiddi, attirati dalle menne e dal culo di Marisabbell’ come se quelle e questo fossero calamite poten-tissime.

Perciò, senza curarsi di nulla e di nessuno – mentre Iangiuasandin’ se lo facette fuori in due minuti il gelato mo-retto comprato innanzi al Supercinema – Pittotunno quella sera sfilò per tutto il corso dando mòzzichi e leccando lenta lenta il gelato moretto suo, come faceva ogni sera. Ficcava dentro la bocca quella capocchia di crema ghiacciata con la crostacedda di cioccolata, la ritirava fuori ma trattenendola sopra la punta del muso, poi se la spingeva un’altra volta dentro la bocca, ciucciàndola e anzi quasi surchiàndola, e la tirava fuori, se la rimetteva dentro la bocca e la ritirava fuori... E dopo aver sciolto, staccato e inghiottito tutta la crostacedda di cioccolata, si era messa a leccare con impegno la palla di gelato vero e proprio, allisciàndola lentamente con la lingua, prima facendo con la capa sopra e sotto, sopra e sotto, dalla corona dello scartùccio alla punta arrotondata del gelato vero e proprio, poi allisciàndola attorno attorno, tenendo la capa ferma e facendo ruzzuare lo scartùccio.

Tutti la squadravano, gli iùmmini con gli occhi di fuori e le fèmmene con la faccia schifata, ma lei non si curava di nessuno. Gli occhi dritti, sino ad agguantare il profilo rococò, laggiù, del cine-teatro Margherita, dove comincia il lungomare, Marisabbell’ continuò lo spettacolo del leccalec-ca e della ’uagnedda perduta. Come ogni volta che metteva piede fuori di casa, in definitiva si assoggettava, pure se con il core spaccato, proprio a quello che i porci e le malelingue di via Bovio volevano: caminare e moversi come una che ne ha fritti di polipi! E così caminando, con quella provocazio-ne di capocchia dentro la bocca e con quell’altro disonore

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di capocchia sopra lo scapezzato, Marisabbell’ continuava incurante la passerella, senza convincere nessuno però che veramente non le importasse nulla del mondo attorno a lei.

Certo, se Pittotunno avesse appizzato di più le rècchie al tiatro che stavano a fare, dreto a loro, quei quattro figli di avanzi-di-galera che non volevano lasciarla perdere e che le stavano ruinando la passeggiata, e se avesse fatto funzio-nare di più le rotelle del cervello, invece di pensare solo a leccare e a surchiare così sboccatamente il moretto, forse sa-rebbe arrivata a capire la situazione e a scotolarsi dal mazzo quell’indecenza che faceva scoppiare dalle risate, alle spalle sue, tutta la popolazione che a quell’ora si ritirava a casa dal lungomare. Forse si sarebbe avvertita di come cangiavano la faccia, il tono e le parole degli iùmmini e delle famiglie che le passavano vicino: muti per la sorpresa e l’imbarazzo d’innanzi, una volta dreto se la indicavano l’uno con l’altro, come se fosse un pagliaccio del circo. Avrebbe colto, dentro il lampo delle occhiate che l’amica sua lanciava dreto, quel-la sera, non solo seccatura e malizia, ma pure complicità: complicità con tutti quelli che stavano attorno a lei – facce conosciute e facce mai viste, facce belle e facce da tre di ba-stone – meno che con lei, anzi contro di lei. Marisabbell’ era però troppo impegnata a fronteggiare gli altri, alla maniera sua s’intende, per avvertirsi degli altri. E si portò appizzicato sopra il culo per tutto il corso, andata-e-ritorno, quella sorta di manganiddo con le palle.

E Iangiuasandin’? Non era stata una piccinenna attiva at-tiva, sempre con le antenne allertate e con la risposta pronta? Possibile che di nulla si avvertisse, almeno lei? Che ci vole-va a seguire la direzione di tutte quelle occhiate, scoprendo quindi la ragione di tutte quelle risate? Non le voleva forse bene a Zi’ Marisabbell’? Non l’aveva da difendere? No, non l’aveva da difendere. Anzi. Iangiuasandin’ aveva scoperto una fèmmena fatta che, finalmente, si occupava di lei, era attenta a lei e la trattava da ’uagnedda giudiziosa. E poi, considerava

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quella fèmmena una fèmmena che sapeva il fatto suo: bella, bona, forte, che non indietreggiava e non abbasciava la capa quando era cimentata, che non si nascondeva e non aveva pavura di riconoscere pure le debolezze e le sofferenze sue proprie, e che affrontava di petto situazioni difficili e cri-stiani malintenzionati, a cominciare dall’attano. Pittotusto – altro che Pittotunno – l’avrebbe chiamata Iangiuasandin’, se non la chiamasse giustamente già per quello che era, Zi’ Marisabbell’. Appunto, una ziana, peraltro specificamente voluta più che acquisita. Perciò, quando passeggiava con Zi’ Marisabbell’, non era certamente lei che aveva da difenderla, semmai era lei stessa che aveva da essere difesa. Ogni tanto se la guardava con orgoglio quella sorta di ziana e pure lei si metteva a fissare dritto dritto il Margherita, strafrecàndosene di tutto quello che succedeva attorno. Era come se si sentis-se abbellita dalla tanta bellezza di Zi’ Marisabbell’, come se pure lei fosse al centro della passerella in mezzo a mille occhi scatesciati per l’ammirazione e l’invidia. Non è escluso che le sfuscesse ogni tanto d’imitare senza avvertìrsene la caminata della ziana e di storcere pure lei lo scapezzato, come se lo tenesse pure lei appetitoso e scandaloso, mentre al massimo con quei colpi di reni faceva ballare un poco l’orlatura della vesticedda.

E poi Iangiuasandin’, come capita a quell’età, era dentro un periodo stralunato. Le antenne da piccinenna erano ca-dute e scomparse, e quelle da fèmmena ancora avevano da accimare. Perciò non era più reattiva (e quanto!) come da menenna e non ancora reattiva come sarebbe diventata (e quanto!) da signorina vera e propria…

Fu al ritorno, dentro il vialetto scuro tra la fontana cen-trale del giardino Garibaldi e lo spunto di via Manzoni, che Marisabell’ sentette come se qualche uno tentasse di palparle il cofanetto. Lei reagette d’istinto, cercando di colpire con la borsetta, in faccia, quell’ombra di lupo. Ma quelle mani di orco intercettarono e bloccarono la borsetta.

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«Signorina» si facette sentire quella voce di leone, «non è accosì che si dice grazie a un ’uagnone che t’ha fatto un piacere».

Marisabbell’ si svincolò: «Fasci pure lo spiritoso, screan-zato che non sei altro. Te n’approfitti ché qua non ci sta papà. Te lo faceva avvedere lui chi so’ io».

E quello: «Io lo sàccio chi sei tu, lo sàpeno tutti. Vuoi che io t’attocco con una mano per pigghiarmi solo ’sto sfizio? Se uno passa all’attacco con te, altro che mano! Ma stavolta t’avvolevo fare solo un piacere. T’avvolevo solo dire e indi-care checcosa t’avevano stampato sopra... alla schiena quei quattro fetenti».

A quelle parole, i quattro piccininni se ne fuscèttero, se la filò pure quella svergognata della compagna e Marisabbell’ e Iangiuasandin’ seguirono l’indicazione della mano del giovanotto. Grazie a uno sprazzo di luce di lampione che s’infiltrava tra le foglie di un oleandro e i rami di un pino, individuarono finalmente quella stampa rossastra e improv-visamente capèttero. Ricostruirono dentro un momento tutta la passeggiata, atteggiamenti, battute, risate, movimen-to di mani e di occhi... «Oh Gesù, m’ammanca l’aria» so-spirò Marisabbell’ e cadette in terra. Toccò a Iangiuasandin’ bagnare alla fontana il fazzoletto e aiutare quella volta Zi’ Marisabbell’ a rinvenire…

“Beata a Varv’, zopp’e tutta” si amareggiava Marisabbell’. La sora era offesa a una gamba ma la gente, curiosamente, non la sfotteva come faceva sempre con zoppi, sciancati e sgobbati. E nemmeno ne diffidava, come in genere il po-polino faceva – ingiustamente e crudelmente – con tutti quei poveri disgraziati “segnati da Dio”. A lei, anzi, la ri-spettavano. Quella mancanza pareva darle qualcheccosa di più, una specie di autorità. Persino lei, Marisabbell’, tratta-va la sora come se questa fosse più grande di lei (del resto, non trattava praticamente da pari a pari quella menenna di Iangiuasandin’?). Invece avevano la stessa età le due gemel-

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le sparigliate di via Bovio. Anzi, Marisabbell’ era nata pure qualche minuto prima di Varv’.

«Beata a lei, senza preoccupazioni» si sfogava Marisabbell’ con Iangiuasandin’, «lei è zoppa e io so’ facciabella, ma papà se ne va in pappa-di-lino solo per lei. Tutti sempre a dire: ma quant’è buona e brava Varv’. E poi l’aggiunta, accome a una pugnalata: peccato che tene una sora che è mègghio che Gesù se l’acchiama. So’ bella? so’ carnosa? Ma mi pare che qua la sola a essere frecata so’ io».

I fianchi, chiamiamoli così, non scherzavano, ma la “fre-catura” più grossa di Marisabbell’ erano le menne, una parola che viene dall’antichitate latina, “minae” (protuberanze). Ma quelle di Marisabbell’ erano proprio menne. Non le minne delle fèmmene dei calabresi e dei siciliani che, più grosse, sarebbero uno spreco o, come diciamo noi, uno schiaffo a Cristo, dato che a quei màscui corti e pelosi basta che una fèmmena li smicci di sfusciuta per farci salire il sangue agli occhi. Né le mennodde di certe baresodde di mo che, se ten-gono appena due albicocche sopra il petto, si sentono fèm-mene perdute. Marisabbell’ le teneva proprio grosse, come si usavano una volta. “Ritonde menne” le chiamava giustap-punto quel malizionante di Giuann’ Boccaccio. Quelle di Marisabbell’ non solo non erano minne né mennodde, ma non erano manco menne e basta. Erano mennazze, mennàc-chie, un’enormità, bianche bianche e molle molle come la burratina di Andria.

La natura, forse, aveva voluto fare un regalo a Marisabbell’, la ricchezza della carne, e un dispetto a Varv’, rubandole due centimetri a una gamba e strepiàndola. Ma la natura è una cosa, la vita è un’altra. La vita la fanno i cristiani. Così la bellezza diventò una condanna e la sciancatura fu promossa a dote. Se poi Varv’ non era già maritata e autonoma a casa sua, era solo perché aveva addirittura detto di no all’amba-sciata di Ucc’ il Vìduo, impiegato comunale con due figli a carico, “mentre a nisciuno appassa manco per la capa di pigghiarsi una cagna accome a me”. Marisabbell’ ricorda-

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va ancora le parole esatte di quella vasata-in-fronte-dalla-fortuna: «Io vògghio stare sempre con papà. Accome pote campare papà senza di me?» E si vedeva che non era stato un sacrificio, per lei, rinunciare a un òmmeno. Che stranez-za! Lei, Marisabbell’, un màscuo se lo sognava la notte, se l’immaginava ogni minuto del dì. Un màscuo, un màscuo qualsiasi, magari un mascuone forte e bellofatto ma pure un pensionato storciuto e scalcagnato: sarebbe bastato che fosse gentile con lei e le facesse sentire che era bellafatta. Punto e basta. Lo desiderava tanto un màscuo, perlomeno quan-to i màscui di via Bovio sbavavano per lei. Ma loro non la vedevano come una ’uagnedda bella e mennaruta, che uno poteva sposarsela e godersela: la vedevano come una cagna che voleva fare, che voleva essere fatta, che si torceva tutta quando caminava per mettere in mostra merce da vendere, che chissà quante ne aveva fatte, che si vedeva a occhio che teneva il prurito dentro tutti i pertusi...

Lo sapeva che era indirizzata a lei la canzone degli im-briachi, la notte: «Pittotunno, ce purti sotto?/ purti il canale dell’acquedotto/ Pittotunno, ce purti sotto?/ purti la pena du giovanotto/ Pittotunno, ce purti ’npitto?/ non so’ menne so’ saitte».

Faceva finta di nulla quando passava innanzi a un por-tone e due o tre fèmmene, che facevano qualche servizio all’aria aperta, a buono a buono si mettevano a canticchiare la stessa musica con altre parole: «Ti si fatta la permanente/ con i soldi du tenente/ Ti si fatta la vesta gialla/ con i soldi du maresciallo/ Ti si fatta la vesta rosc’/ quando camini ti fasci accanosc’/ Ti si fatta la vesta strett’/ con il culo a cufa-nett’».

Perdeva il controllo solo qualche volta, quando si metteva a rincorrere un piccininno più baldanzoso degli altri che le cantava proprio in faccia la solita canzone: «Pittotunno, dre-to alla meta/ ti facevano ’nnanz’e dreto/ Pittotunno, dreto a lu puzzo/ ti sucavi lu merluzzo».

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E ne chiangeva tante di lagrime quando il più spudora-to dei ’uagnuni di via Bovio, facendo la voce di fèmmena, insomma facendo la caricatura alla voce sua, rispondeva alle strofe dei piccininni da un terrazzo: «No, non mi cimentate/ io so’ tanta sfortunata/ oh mamma mia/ io me ne vengo qua».

«Magari me ne potevo venire da te, mamma» si disperava Marisabbell’, «ma tu, tu addo’ stai?»

La mogliera di Felucc’ il Norvegese li aveva mollati un dì, lui e le due figlie, per scire dreto a un panettiere di Carbonara con il ciuffo in fronte che aveva deciso di tentare la fortuna in America. Forse mo se ne stava con quel bellimbusto in Canadà, a fare la bella vita. E lei l’aveva lasciata sola e dispe-rata, con quei due, papà e Varv’, che filavano così d’amore e d’accordo. «Te ne potivi pure scire da casa, se volivi, ma per-ché non apportarmi con te? e perché poi farmi accosì, con queste menne grosse grosse? che, me le ho da tagghiare per non essere trattata da tutti accome a una fèmmena di strata? e le puttane non so’ pure loro povere disgraziate?»

Quante ne aveva sentite Marisabbell’. «Zizza cresciuta, fèmmena perduta», «Zucchero e mammelle fanno cresce-re puttanelle», «Pitto a mennavacca, fèmmena baldracca», «Fèmmene co’ le poppe so’ peggio delle zoppe», «Grossa la menna, s’intosta la penna»... Quante ne aveva sentite. Aveva fatto l’indiana, aveva fatto la sorda, aveva fatto la cecata e la muta, aveva fatto la scema, aveva fatto finta di ridere, qual-che volta aveva risposto con le unghie e le stampate, certe altre volte era scoppiata a chiàngere... Ma lo sfottimento continuava, continuava sempre, a ogni spunto di strata, a ogni punto e momento.

E nessuno, poi, che la chiamasse col nome suo. Per tutti era “Pittotunno”. E, quando pronunciavano questo sopran-nome, istintivamente le fèmmene di via Bovio movevano le mani in maniera da formare due coppe sopra il petto. I mà-scui, invece, per dire che era passata lei, facevano: «È passata Pittotunno» e le mani loro formavano, a mezz’altezza, qual-

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checcosa a metà fra le coppe delle menne e il mappamondo dei fianchi. Anzi, il più delle volte manco si fastidiavano ad aprire la bocca per pronunciare “Pittotunno”: bastava che uno facesse quelle mosse con le mani e l’altro indovinava subito la bestia umana alla quale quello si voleva riferire.

«So’ stata Marisabbell’ per tutti sino a quattordici-quindici anni, proprio l’età che tieni mo tu» contava a Iangiuasandin’, «quando all’improvviso mi s’aggonfiàrono l’anteriore di so-pra e il posteriore di sotto». Fu una questione di mesi, den-tro il ricordo suo addirittura di due dì: un dì aveva ancora il petto liscio liscio per cui, d’estate, poteva giuocare in mezzo alla strata con i pantaloncini corti e i sandali, senza nemme-no la canottiera, insieme agli altri piccininni di via Bovio, e il dì dopo, capitando casualmente innanzi allo specchio prima di scire a sfrenarsi all’aria aperta, avette la sorpresa di quelle due mortadelle appese e le venette un mancamento. Per tre dì non volette assire dalla camera dove dormiva con la sora. Rimanette in casa più di un mese. Mamma era già in Canadà o dove cazzo era lei. Zi’ Agnes’, che veniva a dare una mano di aiuto in casa al frate suo, Felucc’, rimasto senza mogliera e con due figlie fèmmene piccinonne da mantene-re, era l’ultima alla quale avrebbe potuto dare e dalla quale avrebbe potuto avere spiegazioni a proposito delle menne che improvvisamente spuntano sopra il petto delle ’uagned-dozze. E poi, Marisabbell’ odiava Zi’ Agnes’ perché, per ogni sciocchezza, quella la ingiuriava. «Tale madre, tale fìgghia» le gridava appresso. Oppure la umiliava proprio: «Sei proprio accome a quella vavosa di màmmeta».

A parlare a papà Felucc’ dell’improvvisata delle menne di Marisabbell’ fu Varv’, che aveva capito da sola, pur non sapendo nemmeno dove le menne stessero di casa (liscia come una tavola era e liscia come una tavola sarebbe rimasta praticamente tutta la vita). Se n’era avvertita perché, nono-stante fosse estate, Marisabbell’ dormiva per la prima volta con la canottiera e, alzandosi dalla branda, s’infilò subito la veste. E l’individuò quel rigonfiamento sopra il petto della

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sora. Un’occhiata di sfusciuta e concludette che era diven-tata fèmmena. Ma la faccia sua, a Marisabbell’, non dicette nulla: né curiosità né invidia né pena. La sora zoppa aveva capito e tirava innanzi.

La vita di Marisabbell’ cangiò invece, dentro un solo dì, da così a così. Ancora durante la quarantena, erano i picci-ninni che si affacciavano inutilmente al negozio o, dal por-tone, alla porta che dava direttamente sopra la camera da pranzo. «Addo’ sta Marisabbell’?» domandavano, «avimo da giuocare con i coperchietti al Giro d’Italia». Quando invece, dopo un mese, avette la sfrontatezza di mettere il muso fuori della porta di casa, i piccininni nemmeno se n’avvertèttero della presenza sua. Era come se si fossero stranamente scor-dati della compagna loro. Di più: come se quella sagoma di fèmmena che faceva mo la comparsa sua dentro il quartiere appartenesse senzameno a un altro mondo, al mondo dei grandi. E in effetti tutti i giovanotti e gli iùmmini fatti le attaccarono addosso un’occhiata da scornacchiati spogghia-madonne che da quel dì la inseguette sempre e dovunque, e le fèmmene la puntarono per la prima volta indignate e ar-raggiate come l’avrebbero sempre puntata da quel momento in poi.

Da allora fu, per tutti, Pittotunno. Forse persino per se stessa. Sbraitava e batteva i piedi, pretendendo di farsi chia-mare con il nome suo vero e proprio, e respingendo come un oltraggio quel soprannome, ma sotto sotto non le dispiaceva tanto di essere diventata l’invidia e la nemica di tutte quelle povere sciacquette di via Bovio che passavano la vita a fare i piatti e a servire da innanzi e da dreto i mariti, che poi il sa-bato scomparivano tutti per scire a pizza-e-birra e conclude-vano la serata a fèmmene. E molti di loro, poi, avevano pure la commara dentro qualche altro quartiere o dentro un altro paese, e magari altri due o tre figli bastardi da mantenere.

Sì, quel soprannome, quell’insulto piano piano penetrò e si sistemò dentro il cervello di quella povera ’uagnedda, dopo essersi insinuato e averne conformato la corporatu-

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ra. Piano piano quella disgraziata cominciò a comportarsi, persino a sentirsi lei stessa, non più Marisabbell’, ’uagnedda pulita e senza pensieri per la capa, ma proprio Pittotunno, provocatrice di màscui galletti e umiliatrice di fèmmene gal-line. «Accosì mi volite?» si rassegnò alla fine, dopo anni di lagrime mute, di angosce notturne e di svenimenti diurni, «e vabbuono, sia fatta la volontà di Dio. Accosì mo ho da essere».

«Che belle menne che tieni» le sussurravano i màscui dentro la rècchia quando lei passava, se per caso stava qual-che altra fèmmena che poteva sentire, là vicino. Se invece la pizzicavano da sola, gridavano senza pudore: «Vieni con me che ti faccio avvedere io che ci metto ’mmenz’a quelle menne». Non poteva passare innanzi a un mellonaro. Ce n’era uno a ogni spunto di strata che vendeva meloni gialli e rossi: ad un certo prezzo quelli “a sorpresa”, che te li tagliavi per i fatti tuoi a casa scoprendo che era maturo o che avevi pigliato una frecatura, e ad un prezzo più alto quelli “con la prova” (avevi diritto a spiarvi dentro con un coltello, prima di accattarlo). «Che belli meluni che tieni ’npitto» diceva a Marisabbell’ proprio il mellonaro o uno degli sfaticati che gli stavano appresso, «vieni qua che ti facimo la prova».

E il primo, l’unico ’uagnone che le aveva fatto scattare un pensiero in capa? Lei era ’uagnedda ’uagnedda, lui ’uagnone ’uagnone, anzi un ’uagnungiddo attivo attivo che faticava dal fornaro. Le aveva fatto l’occhiolino. Lei aveva risposto d’istinto, per simpatia, facendo pure lei l’occhiolino. Fu la prima e l’ultima volta. Dentro quel periodo lei faceva di tutto per non farsi scoprire la forma e soprattutto la proporzione delle menne, stringendosele, anzi proprio cazzàndosele con la fasciatura da neonata – sua e di Varv’ – che aveva scovato in fondo a un tiretto del comò della mamma.

«Non hai da dare scandalo, non hai far venire i cattivi pen-sieri ai màscui» fu la raccomandazione, in confessione, del parroco del Redentore. Con lui a quel tempo Marisabbell’

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si confidava ogni tanto, contando di tutte quelle zampe da lupo, di quelle occhiate da porco e di quelle parole da volpe che la circondavano ovunque, sacrestia compresa. «Sì, però, pure tu fìgghia mia...» era sbottato il prèvito, quando lei gli rivelò la bella sorpresa che le aveva fatto una volta il vicciere. Era stata mandata alla vicciaria, al posto di Varv’, per accat-tare tre fette di carne di cavallo. E il vicciere, domandandole per piacere di pigliargli lei dalla palda dei calzoni gli spiccioli per il resto perché lui aveva le mani lorde di carne insangui-nata, le aveva fatto lo scherzo della fodera della palda straz-zata. E così, al posto dei soldi spiccioli, lei aveva stretto con quei dìsciti piccinunni e innocenti un pezzo di carne viva lungo e grosso quanto un filone di pane da mezzo chilo. «Pure tu, fìgghia mia» scoppiò il prèvito, «non devi indurre in tentazione gli iùmmini, che so’ deboli. Pure questo è pec-cato». Così per qualche mese lei aveva girato tutta soffocata da quelle fasce strette strette. Lo faceva per non offendere Gesù, per non provocare i màscui e pure per non umiliare le altre fèmmene, che non potevano vantare quella sorta di bendidio.

Ma quella sera sapeva che era aspettata e sarebbe stata pe-dinata dal lavorante del fornaro. Voleva essere bella. E d’im-pulso si liberò le menne, insomma mettette in mostra la cosa più bella che teneva, infilandosi un reggipetto della mamma che da tanto tempo aveva adocchiato dentro il comò e che sino a quel momento non aveva avuto manco il coraggio di toccare. Lo pigliò e se lo mettette. Un pennello! Segno che pure la mamma aveva da tenere un bel pettorale.

Con quei due fiori di primavera sbocciati sopra il petto e facendo finta di non avvertirsi di essere pedinata, arrivò alla zona più appartata del giardino Garibaldi. Lui si avvicinò e, tremuando tremuando, le pigliò una mano. Ma, quan-do tentò di abbrazzarla, avette la sorpresa di scontrarsi con quella montagna di carne matura, massiccia, inaspettata, sconosciuta, incomprensibile, estranea, viziosa... Rimanette di ghiaccio il ’uagnungiddo. Non sapeva dove mettere le

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mani, checcosa fare, checcosa pensare... Marisabbell’ lo ve-dette sbiancare, arrossire, girarsi attorno e, improvvisamente, gridare verso un’ombra, al di là dell’aiuola: «Ahò, addo’ va’? al biliardo? aspettami, ché vengo pur’io». E se ne era fusciuto senza una parola, lasciandola stranita, sola, con l’occhio fisso sopra tutta quella carne che tanti dolori le stava dando già da ’uagnedda. Figuriamoci da fèmmena grande.

Fu la prima volta che Marisabbell’ si permettette il lus-so di un sentimento per un ’uagnone. Diciamo pure, più semplicemente, di un sentimento. E difatti per l’attano non provava nulla perché nulla lui provava per lei, come se avesse voluto chiudere con la figlia – che tanto assomigliava alla mamma, fisicamente e di carattere – quando la tragginatrice era fusciuta via in America con quello sfasulato che porta-va ogni semana le forme di pane di Carbonara a tutta via Bovio. A Varv’, sì, in fondo in fondo, Marisabbell’ voleva bene, ma non parlavano mai. Oltre che zoppa, la sora pareva pure sorda e muta. Sempre zitta, sempre per i fatti suoi, sem-pre con gli occhi sopra la stadera e sopra i conti del baccalà. Non aveva la minima idea di checcosa tenesse in capa Varv’. E poi, che sapeva della vita sua? Non di quella che viveva (quella era conosciuta e straconosciuta: stavano tutto il dì là, gettate in via Bovio) ma di quella che teneva in capa: a chi voleva bene? a chi pensava? verso quale destino voleva scire? e che le piaceva? chi le piaceva? “Sì, vole bene a papà, non ci fasce ammancare nulla a lui, come se volesse darci tutte le cose che mamma ci aveva levato fuscèndosene di casa” si diceva Marisabbell’. “Ma dopo di ciò? Mica la vita si pote arridurre a fare i servizi a papà. Chissà checcosa tene ’ncapa quella!” L’attano così, la sora così, tutti gli altri così: dove poteva scire a piantarli i sentimenti suoi, a coltivarli, a coglierne i fiori? Ogni tanto si domandava persino se valesse la pena vivere sopra questa terra, in quella maniera...

“Almeno Varv’ una sistemazione la tene” si ripeteva Marisabbell’, vedendo la sora incastrarsi dentro la porticina

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del negozio, con la caminata sua tràppeta-trapp’. La “siste-mazione” di Varv’ la vedeva chiara: papà e baccalà, ferri e spesa. E lei, invece, lei che teneva? La passeggiata e il gelato. E la vita? Ecco la sora che si preparava a vendere baccalà e stoccafisso. Ecco per lei, invece, un’altra giornata vacante.

Da quando era diventata una ’uagnona, quella porta che avevi da abbasciarti per oltrepassarla, non l’aveva più oltre-passata. «Io dentro al negozio non ci vengo» aveva detto bat-tendo i piedi, forse proprio perché l’attano non le aveva mai domandato di dargli una mano al commercio: si era sempre fidato solo ed esclusivamente di Varv’. Lei, Marisabbell’, se la filava e tornava in casa dal portone e, se teneva qualcheccosa da dire all’attano o alla sora, lo faceva affacciandosi appena al negozio, dal marciapiede. In genere non salutava nemmeno, né quando scompariva per il passeggio né quando rientrava. Però, si vedevano ogni dì, alle stesse ore: la matina appena discetati, all’una per mangiare e all’otto di sera per mettere dentro lo stomaco una cosa qualsiasi. Ogni dì, alle stesse ore, le stesse cose. Solo che loro due, papà e Varv’, stavano sempre insieme a parlare, vendevano, trattavano, vedevano gente, campavano con tutti i cristiani di via Bovio, e lei in-vece non faceva nulla. Né in casa né fuori. Che significato aveva la vita sua, oltre a quello di essere sfottuta da tutti per le menne? Nessuno. La sola cosa che tutti si aspettavano da lei era che quelle due pagnotte se le facesse palpeggiare e imbottire, a turno, dai màscui di via Bovio e che diventas-se finalmente “la fèmmena di tutti”, come si poteva leggere dentro il destino scritto dalla natura e da quella snaturata della mamma...

Un dì, mentre stava con Iangiuasandin’, sentette dreto la schiena una strofa nuova della solita canzone: «Con una ’nghianata di treno/ Pittotunno è assuta prena».

Pure quella volta Iangiuasandin’ non capette. Cioè la pi-gliò come una semplice canzone a sfottò. Ma Marisabbell’ invece capette. Cioè intuette che quella non era solo una

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canzone a sfottò. Checcos’era questa storia? si domandò la sventurata. A chi poteva passare per la capa di cantarle dreto che aveva ricevuto, per dirla alla gentile, una bella spinta di treno che l’aveva messa incinta?

E notò, poi, meno allegria in faccia agli sfottitori, da quel dì. C’era improvvisamente un poco di pena, un poco di pietà dentro le occhiate delle fèmmene verso di lei, mentre qualche ’uagnone pareva addirittura un poco imbarazzato quando lei passava. E certi piccininni le fissavano dritti dritti la panza, che pure era quella di sempre, tosta tosta ma bella rotonda, una specie di mezzo pallone gonfiato che partiva da sotto le menne, proprio al centro fra l’una e l’altra, e finiva a strapiombo tra le cosce...

Quando pure a lei, Marisabbell’, parette quasi di sentire qualcheccosa che si moveva, proprio sotto l’ombelico, pro-prio come un animale piccinunno che tirasse a calci, fu tut-to definitivamente chiaro. Insomma, circolava la chiacchiera che Pittotunno, a furia di giuocare con le pompette, era ri-masta schizzata. Che chi aveva bagnato il biscotto chissà chi era, magari qualche delinquente di Barivecchia amante della galera, qualche contrabbandiere o ricottaro che l’aveva con-vinta ad aprirgli il conno fra gli scogli, sotto il Margherita e poi magari l’aveva messa a giro.

Povera disgraziata di Marisabbell’. Tanto la gente si aspet-tava che un dì o l’altro sciuasse, tanto la gente lo desiderava e da tanto oramai girava quella maldicenza della spinta di treno, che Marisabbell’, senza avvertìrsene, senza dirselo, ad un certo punto cominciò a caminare come se fosse effettiva-mente incinta.

«Ci te l’ha fatto fa?/ vacantì potivi stare/ oh Pittotunno/ ci te l’ha fatto fa?» E mo? Pigliare di petto gli oltraggiatori? Scovare l’infame, trascinarla per la cima dei capelli e svergo-gnarla in piena via Bovio, innanzi a tutti? Bastava solo pen-sarci per concludere subito che non era possibile: qualsiasi infame, màscuo o fèmmena, grande o piccinunno, sano o strepiato, sensato o matto, sarebbe stato comunque più cre-

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duto di lei. Avrebbero certamente dato credito a chi avesse detto: “Io a far accircolare la voce che sei stata infornata? Ma chi t’acconosce! Accerca piuttosto d’accomportarti accome a una brava cristiana e di non sfottere i cristiani apposto”. E si può stare sicuri che avrebbero creduto pure a chiunque aves-se ammesso: “Sì, me la so’ fatta sfuscire io con le commari la notizia che sei stata ’nseminata. Me l’ha detta chi sàccio io. Che male ci sta a dire la verità? Tu, piuttosto, accome t’appermitti con quella ventre di vacca prena di criticare una fèmmena pulita accome a me? Asciàcquati trenta volte la vocca con l’acito apprima di parlare con me”. Checcosa ne avrebbe ricavato, Marisabbell’, da un tentativo di svergogna-mento pubblico dell’infame? Nulla. Sarebbe stata ancora più svergognata lei... E poi, in effetti, lei la panza ce l’aveva. Era quella di sempre ma, a fissarla, poteva proprio parere il ven-tre di una che sa cos’è la vita e che mo sta per darla, la vita, a un’altra povera creatura disgraziata come lei.

Fu allora che Iangiuasandin’ cominciò a capire. Non solo la questione di Pittotunno prena o, più esattamente, la calunnia dell’apertura del conno di Pittotunno a beneficio di qualche spadaccino di màscuo e di conseguenza la falsi-tà della malanova dell’ingravidatura (Zi’ Marisabbell’ ce lo aveva detto e garantito che lei il conno se l’era tenuto sempre stretto stretto e nessuna spada di fuoco aveva incendiato il pagliaro suo, e lei a Zi’ Marisabbell’ sapeva di poter credere alla cecata). Iangiuasandin’ capette pure perché si era attac-cata a quella fèmmena: perché le pareva una specie di dop-pione suo, solo con una quindicina di anni di più. Povera creatura disgraziata come lei, senza mamma e con l’attano contro (e lei, Iangiuasandin’, non era forse senza attano e con la mamma contro?), con la sora così attaccata attaccata all’attano (così come attaccata attaccata a mamma Sabbedd’ era Bellònia)… Ma, a parte queste rassomiglianze di paren-tela, era dentro il core e dentro la capa che Iangiuasandin’ in-dividuava le rassomiglianze più forti e più dolorose. Dentro

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il core della sofferenza e dentro la capa della tostaggine. E si domandava, angosciata: era più o meno così, come Zi’ Marisabbell’, sola e disperata, che lei sarebbe diventata da grande? Quello era pure il destino suo?

Intanto Marisabbell’ – ancora più sola e disperata perché, mo, non teneva manco più il sollievo del piccolo fiato che le dava Iangiuasandin’, chiusa in casa da Donna Sabbedd’ quando tutto il rione si convincette definitivamente, data l’ingravidatura, che Pittotunno faceva la lorda al lungoma-re – non avette manco il tempo di pensare a cosa fare, per assìrsene con la faccia pulita da quell’inguàcchio.

Senza che lei se l’aspettasse, Papà Felucc’ l’affrontò. Non le parlava praticamente da mesi, forse da anni. «Fìgghia – chè fìgghia mi sei ancora – non vògghio assapere né chi, né aqquando, né addo’, né accome... A che asserve? Chi è che si pote pigghiare a una accome a te? D’impulso so’ stato tentato di fare una sciocchezza, di tagghiarti la ventre, di levarti dal mondo e di scirmi a fare dreto alle sbarre la vita che m’arrimane da fare. Ma non me la so’ sentuta d’allassarla sola a Varv’, scalognata e innocente. Che peccato ha fatto lei? Perché ha d’appagare per un’imbrattata accome a te? Poi so’ arrivato al punto d’offrire una fìgghia mia a un òmmeno. Che brevogna! Ma Ucc’ il Vìduo, che pure oramai non si regge manco all’inpiedi, m’ha dato un rifiuto. “Tutte, una qualsiasi” m’ha detto, “ma Pittotunno no, proprio no. E poi, Felucc’, tu che sei sempre stato un bravo cristiano, perché vuoi offendere un povero disgraziato accome a me? Perché proprio io mi ho da pigghiare per mogghiera una che ha fat-to la bella vita e mo ci ha lassato pure le penne? Felucc’, e che so’ io? La merda delle merde?” Ma Ucc’ teneva rascione... Io volevo una decisione da lui, ma la decisione l’avimo da pigghiare noi… Ed è stata pigghiata. Una decisione terribile, che non aggiusta le cose una volta per tutte ma che ci aiuta almeno a mettere una pezza a colore. Poi si tratta d’avvedere il resto. Parla con Varv’. Lei sape tutto, ha organizzato tutto. Povera Varv’, povera fìgghia mia innocente».

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Sin dall’inizio della sparata dell’attano, Marisabbell’ ave-va tentato di fermarlo, di spiegare che non ci stava nulla di cui preoccuparsi o vergognarsi, che lei non era mai stata toccata da nessuno, che la serratura era rimasta chiusa così come mamma l’aveva fatta, che quella panza non era una novità perché lei l’aveva sempre avuta come un pallone gon-fiato, che era ora di finirla con tutte quelle falsità e calunnie, che quelle mormorazioni le stavano ad avvelenare la vita, che non ce la faceva più a sopportare il peso di tutte quelle ma-lignità e di tutti quegli attacchi, che un dì o l’altro avrebbe potuto fare una sciocchezza, che proprio dall’attano non se l’aspettava che si mettesse pure lui a screditarla e a tagliarle i panni addosso, che lei era una picciuedda senza colpe, che proprio lui avrebbe dovuto invece difenderla dalle lingue lunghe che le sparlavano dreto la schiena, che non era un peccato e comunque non dipendeva da lei se aveva il culo grosso e le menne grosse, che non poteva fare pagare a lei il fatto che la mamma lo aveva scaricato perché non ce la face-va più a misurare il baccalà con la stadera e aveva preferito mettersi a vendere il pane a forma...

Ma il queto Felucc’ il Norvegese non era mai stato così aspro e violento dentro la vita sua e mai lo sarebbe stato più. Gli occhi di fuoco, la voce ferma, le mani che gli tre-muàvano, aveva impedito a Marisabbell’ di dire pure solo una parola. E poi, a sapere che papà aveva fatto quell’offerta a Ucc’ il Vìduo (che la sora, Varv’ la Zoppa, non aveva vo-luto nemmeno quando quel povero-a-lui si teneva ancora all’inpiedi), quasi le venette un mancamento per la ràggia e la vergogna. Alla fine, piena di quelle mazzate, si era perduta dentro il nulla. L’avevano richiamata alla realtà quelle poche, ultime parole a proposito di Varv’ che “sape tutto” e che “ha organizzato tutto”.

Organizzato checcosa? E perché poi Varv’, sapendo ciò che “assapèvano” papà e la gente, non era venuta a parlare con lei? S’intendevano poco, sì, e ancora meno si parlavano. Ma il minimo indispensabile e le cose più importanti se le

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dicevano. Checcos’era successo? Checcosa stava succeden-do?

Nemmeno a questo proposito Marisabbell’ avette il tem-po di riflettere, non si capisce se per la velocità dei fatti, per la concitazione dei due parenti stretti o per la lentezza dei riflessi suoi. Certo è che, mentre lei cercava Varv’ affaccian-dosi al negozio, fu pizzicata da Varv’ che, per la prima volta, rincasava da dentro al portone. Quasi a volerla pigliare da dreto la schiena.

Aveva lei, Marisabbell’, delle domande da fare alla sora – e che domande! – ma fu invece Varv’ che l’anticipò, sen-tenziando secca secca: «Non potimo appermètterci lo scan-dalo di un bastardo. Ci sta solo una cosa da fare: gettarlo ’nterra».

Cheee? Pure se Marisabbell’ rimanette senza parole, la reazione della faccia stralunata parlava più che a sufficienza per lei. Ma non bastò perché la sora si fermasse per aspettare le spiegazioni ed eventualmente le decisioni sue.

Varv’ difatti continuò: «…Sì, gettarlo ’nterra, eliminarlo. Non ci sta altro da fare, non ci potimo appermèttere ’sto scandalo. Sàccio io il posto giusto per questa brutta cosa. Papà m’ha dato i soldi che ci assèrvono. È tutto addeciso, tutt’organizzato. Partimo domani stesso. Alla gente facimo accrèdere di scire da Checchin’ a Brindisi. È tanto tempo che non la vedimo, la cugina nostra. Pure Zi’ Agnes’ non ha d’accapire ciò che sta ad assuccèdere: voccavocca com’è, è accapace di farsi sfuscire la novità un minuto dopo che l’ha assaputa. Del resto, è proprio lei che mi dice sempre: va’, va’ ad acconfortare Checchin’ a Brindisi, che sta sempre sola col marito e cinque figghi e non avvede mai un parente, fasce la monaca di clausura tutta la dì ’ncasa, a lavare, a stirare e a cucinare. E noi mo ci appresentamo veramente a Brindisi, stamo a casa sua e poi, alla scordata, facimo finta che as-succede qualcheccosa e c’intrattenimo un paro di dì da chi sàccio io per aggiustare il fatto».

Mentre la sora parlava, Marisabbell’ la squadrava, con

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sorpresa e curiosità. Ecco qua Varv’, l’amore di papà: zoppa, secca secca e buona. Per la verità non proprio secca secca come una volta, anzi mo pareva avere un bel colorito, forse perché tutta infervorata per la discussione, e pure ai fianchi non le si vedevano le ossa come una volta. E nemmeno tanto buona, con questi ragionamenti così freddi e malvagi. Ecco: Varv’ come papà, si dicette Marisabbell’, non teneva nessuna intenzione di sapere la verità. “E poi, perché dìrcela?” pensò. “Che ci agguadagno? Partimo pure a Brindisi. Almeno, mi faccio il primo viaggio della vita mia”.

In via Bovio, la gente vedette partire le due sore “che vanno a stare un paro di mesi a Brindisi da Checchin’, che tene tanto abbisogno d’aiuto e di consolazione”. Ma tutti sapevano la “vera verità”: Varv’ la Zoppa, la sora buona, ac-compagnava Marisabbell’, la sora svergognata, ad abortire, a gettarlo in terra il figlio dello scandalo.

Nonostante che le avessero scompagnate, Zi’ Marisabbell’ ce la facette a salutare Iangiuasandin’ prima di partire per Brindisi, spiegandole che non teneva nessuna volontà di ruinare la sopresa a Varv’. «Vògghio proprio avvedere sino addo’ so’ accapaci d’arrivare, lei e papà. In quanto a me» le anticipò, «tengo intenzione di fermare il ballo solo all’ultimo momento, solo ’nnanzi alla vammara che sta per infilarmi i ferri». E si lasciò quasi allegramente con la compagnedda sua, promettendole che al ritorno – tempo tre o quattro dì – le avrebbe contato tutto.

Ma Pittotunno non tornò più in via Bovio. Vi tornò in-vece Varv’, con la faccia bianca bianca, senza la sora, tenen-do in braccio un piccininno piccinunno piccinunno, chiara-mente affacciatosi al mondo solo da qualche dì. E a nessuno, nemmeno a Felucc’ il Norvegese, passò fosse pure solo per l’anticamera del cervello che quel figlio della colpa potesse non essere di quella sconsiderata di Marisabbell’.

Alla gente contarono che quel pupo era stato figliato da chissà quale sventurata brindisina e abbandonato di notte innanzi alla chiesa del rione di Checchin’, che il parroco ave-

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va cercato per le case qualche anima buona che se lo pigliasse a carico e che Varv’ se l’era pigliato per fare un atto di carità e per portare un poco di allegria dentro quella casa sempre zittazitta di via Bovio, contando al prèvito la buscìa che la mamma e l’attano stavano insieme, si volevano bene come due ziti freschi e avevano proprio il desiderio di adottare un piccininno perché non ne potevano avere più...

E Marisabbell’? Alla gente dicèttero proforma che non era tornata perché le piaceva stare a Brindisi dalla cugina e poi in via Bovio, lo sapevano tutti, non teneva manco una compagna vera e propria (in via Bovio a quella ’uagneddozza di via Mirenghi nominata Capatosta non la consideravano proprio), non aveva legato con nessuno e con l’attano, che è l’attano, non parlava...

La gente facette due più due e credette di smagare il retroscena: forse avevano avuto qualche problema con la vammara incaricata di fare l’aborto o forse qualche proble-ma l’aveva avuto la vammara stessa innanzi a quel piccione d’imbrattata ruinato e straruinato da tanti assalti di màscui senza scrupoli o forse, ancora, l’ingravidatura datava oramai da troppo tempo perché potesse essere bloccata. Certo è che Marisabbell’ aveva figliato lontano da casa e mo Felucc’ e Varv’ la Zoppa, che Gesù li benedicesse, si caricavano so-pra la schiena quella povera creatura, ma lei, la zoccoletta, non teneva la faccia di ripresentarsi in via Bovio. E poi, si sa come sono fatte le bestie: che ce ne freca a loro della creatura che mettono al mondo? Chissà da chi si faceva sbattere mo a Brindisi...

Ci pensò Zi’ Agnes’ a mettere la firma sotto i pettegolez-zi: «Io so’ la ziana. Non sàccio nulla e non vògghio assapere nulla. Dico solo una cosa: tale madre, tale fìgghia».

Fra tutti, naturalmente, il più perplesso agli inizi fu pro-prio Felucc’ il Norvegese. Aveva mandato le due figlie a Brindisi, con i soldi giusti giusti perché Marisabbell’ abor-tisse e si era già preparato all’inferno che sarebbe diventata la vita loro dopo quell’esperienza terribile. Si vedeva invece

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arrivare in casa un piccininno “che non ne aveva voluto as-sapere di morire”. E delle due figlie era tornata solo Varv’, la più amata, che difatti divideva con lui il segreto più grande che possano tenere nascosto in due, solo in due, un attano praticamente vìduo e una figlia zoppa senza ’uagnone e sen-za marito.

A proposito dell’altra figlia, Felucc’ si avvertette subito di vivere l’assenza di Marisabbell’ come una liberazione. Facesse quello che voleva, ogni tanto le poteva pure far ar-rivare qualche soldo per le mani di Checchin’. Così, tanto per coscienza. Ma se non si faceva vedere più, erano solo preoccupazioni in meno.

E quel piccininno? E quella carne della carne “di Marisabbell’”? Al principio Felucc’ provò, per tale questio-ne, un certo disorientamento. Sentette pure, istintivamente, che quelle fasce nascondevano più segreti e più imbrogli di quelli che lui potesse o volesse immaginare. Ma gli bastò mirare Varv’, che si perdeva beata e felice a curare il pupo – proprio la figurina di una madonna col bambingesù – per convincerlo che comunque Varv’ aveva fatto una cosa giusta e delicata. Mo, potevano essere proprio una bella famiglia, loro tre, senza la zoccolona che trombava il pane e si faceva trombare dal panettiere carbonarese in Canadà e senza la zoccoletta figlia degna sua.

Felucc’ il Norvegese non era mai stato così felice e non aveva alcuna intenzione di cercare di capire più di quan-to non gli convenisse sapere. E le malelingue di via Bovio («L’avevo sempre detto io: quella era una zòccana, nata zòc-cana») erano così soddisfatte che, dopo solo un paio di gior-nate dal ritorno di Varv’ da Brindisi, si convincèttero che quella famiglia oramai non poteva più dare materia di chiac-chiere stuzzicose e si ficcarono dentro altre storie e dentro altre case.

L’unica a rimanere con l’amarezza e la curiosità fu Iangiuasandin’. Amarezza per quest’altra illusione e man-

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canza che pativa la vita sua, avendo intravvisto e goduto di un attaccamento di fèmmena grande e avendolo subito perduto, per giunta con una conclusione che pareva dare ancora una volta ragione alla mamma sua («E con chi ti potivi mettere a fare ciù-ciù-ciù e a papereggiare? Con una disgraziata più disgraziata di te!»). A proposito della curio-sità, poi, Iangiuasandin’ si mangiò il cervello anni e anni per indovinare ciò che potesse essere successo a Brindisi tra Zi’ Marisabbell’ e Zi’ Commara. Contrariamente a tutti gli altri, Iangiuasandin’ credette veramente alla storia della cre-atura gettata innanzi a una chiesa e poi adottata, a nome dell’attano, dalla Zi’ Commara. Del resto, lei lo sapeva: Zi’ Marisabbell’ non solo non era incinta ma il conno non lo aveva mai aperto a nessuno. E allora, che fine aveva fatto la povera Pittotunno? Checcos’è che le impediva di tornare a casa? E perché Zi’ Commara se l’era trascinata con tanta convinzione a Brindisi, strafottèndosene sin dall’inizio delle spiegazioni e dei sentimenti della sora?

In conclusione, Iangiuasandin’ dicette addio a distanza e con dolore all’unico fiato di grande che aveva tenuto da ’ua-gnedda, dopo aver detto addio all’attano prima ancora di na-scere e, da menenna, a Colettudd’. Sentette che l’esperienza dell’amicizia con Zi’ Marisabbell’ e della scomparsa sua im-provvisa e misteriosa l’aveva segnata in profondità dentro il core e dentro la capa. Stranamente, da un certo punto di vi-sta, perché in definitiva aveva frequentato quella compagna grande solo per qualche mese. Però evidentemente è tale la capacità delle ’uagnedde e dei ’uagnuni che hanno l’età che aveva allora Iangiuasandin’ di surchiare e di accumulare – senza darlo a vedere e senza che loro stessi ne siano coscienti – esperienze, intuizioni e sensazioni destinate a formarne il carattere e a determinarne la vita, e tale era evidentemente la ricettività che contraddistingueva in particolare una ’ua-gnedda sola e senza amore come Iangiuasandin’, che forse non ci sta tanto da meravigliarsi se si sentette segnata, anzi proprio marchiata da quell’esperienza. Era come se il destino

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amaro di Zi’ Marisabbell’ avesse definitivamente chiarito a Iangiuasandin’ un pensiero e una pavura che l’amareggia-vano da sempre: che pure a lei era stato assegnato, chissà perché, un destino di solitudine e d’infelicità. Più o meno come quello di Zi’ Marisabbell’.

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l’amoreggiamento

Era proprio un bell’elemento Cilluzz’, figlio gagariddo di Martemè Cioladoro, il pesciaiuolo zoppo di via Modugno, e di Tarattè l’Acconzaossa, quella santa fèmmena che si faceva ogni matina alle quattro, al Redentore, la prima messa e che alle quattro del pomeriggio, a casa sua – dreto il locale dove vendevano cozze nere, cozze pelose, frutta di mare in genere, baccalà, stoccafisso e, qualche volta, il pesce – comandava il rosario in latino, senza sapere una parola di latino né d’ita-liano.

Cilluzz’ giurava e spergiurava a Iangiuasandin’, oramai si-gnorina, di tenere la stessa età sua, ma si vedeva a occhio che era più piccinunno di lei. Al principio lei l’aveva mandato a fafòttere proprio per questo motivo. «Ecché» lo sbeffeggiava, «ti ho da dare la pappina?»

Ma lui era tornato alla carica sventolando vittoriosamen-te la carta d’identità. «Vedi, vedi sopr’al documento, leggi» si vantò, «tengo diciott’anni accome a te, so’ grande, mica mi hai da dare la pappina».

Si vedeva chiaramente che la carta era stata truccata: ave-va aumentato l’età di un anno. Ma questa cosa piacette a Iangiuasandin’, anzi l’inorgogliette. «’Sto fatto assignìfica che lui mi vole afforza» concludette. «E poi, mica è un brut-to ’uagnone. Sape pure l’italiano. Mi attratta con rispetto, anzi con soggezione. Io questo me lo ammanovro accome vògghio».

In effetti, Cilluzz’ pareva ancora più piccinunno dell’età sua ed era gentile gentile, secco secco come un malato di tubercolosi, alto, quasi un signorino fra tutti quei cortagni vastasi e malacarne di via Modugno. Pure la scola aveva fat-to: non ci stava un altr’uno, dal giardino Garibaldi al cam-posanto, che avesse arato nientedimeno che sino alla terza avviamento. L’attano non gli aveva fatto mancare mai nulla. Bastava che ordinasse.

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Una volta pigliò il pìccio per il ciùccio: non il succhiotto per i piccininni, sia chiaro, ma proprio lui, il quattrozampe più capatosta e ridicoloso che esiste. Pure gli altri piccininni, qualche volta, pigliavano il pìccio per un’animale di com-pagnia e chiangèvano e sbraitavano finché i grandi non ci davano il permesso di tenerselo in casa o dentro il portone. No, non si trattava di cani o di gatti: i primi allora erano al più amici di strata e in strata avevano da rimanersene, senza calore e senza carezze, con la conseguenza che certe volte ti mozzicavano alle gambe; i secondi invece – pur rimanen-do talmente selvatici che qualche volta di sera, forse perché paurosi loro stessi, scattavano dall’oscuro e ti zompavano ad-dosso – erano liberi di fare innanzi-e-dreto da dentro le case perché, in contraccàngio di questa libertà, liberavano case e portoni da sorci e zòccane o perlomeno impedivano che dalla matina alla sera questi quattrozampe maligni e malefici spatriassero senza limiti fra marciapiedi e credenze. Gli altri piccininni ce la facevano a farsi dare il permesso, ma per animali più piccinunni e meno ingombranti del ciùccio, per esempio una testuggine o una cicala senza ali che faceva fri-fri-fri dalla matina alla sera (perciò una “cicala fèmmena”, come si diceva allora, nonostante che la scienza garantisca che, al contrario, quelle che cantano sono e sono sempre state solo le cicale màscue: ma si poteva mai ammettere, al-lora, che a “fare la cicala” fosse un màscuo e non una fèm-mena?)…

Da piccinunno, dunque, Cilluzz’ aveva pigliato il pìc-cio per il ciùccio e Cioladoro gli aveva fatto vincere pure questo pìccio al primo figlio del core suo, accattàndogli un bel ciùccio, con due rècchie pelose pelose di mezzo metro l’una, che qualche uno trovava grazioso come i ciucci della Dalmazia e qualche altro dozzinale come i ciucci da fatica di Martina Franca. Lo tenevano dentro lo stallone che stava proprio attaccato alla pescheria. Per la verità, il piccininno pretendeva che il ciùccio dormisse pure la notte con lui, ma in casa dormivano, mangiavano e facevano i fatti loro già in

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cinque. Difatti Cilluzz’ teneva due sore: Marì la Grossa, che frequentava inutilmente una sarta fina tentando d’imparare un mestiere che non era unghia la sua, e Iann’ la Matta, la più piccinonna, che ricamava che era una delizia, prima solo a mano e poi pure con la Singer. Dentro il portone ci stava sì una specie di stalla, ma era un buco che bastava a malapena per sistemarvi a stampate in culo la mula dei cozzali – così qua si chiamano i contadini – che scomparivano la matina subito e tornavano solo quando faceva scuro dal campiceddo che tenevano a Santa Fara, dove seminavano e adacquavano fave e pomodori. Quei cozzali venivano a dormire e a fare i fatti loro, dentro un cafùrchio attaccato alla stalla, in tre: i due vecchi, tatà e mammà, e il figlio loro nominato Chelin’ Vienimimmocca, lo scemo vero che stava tutte le sere in-nanzi al portone a mirare il passeggio e a farsi cimentare dai piccininni che spatriavano in mezzo alla strata.

Lo stallone pareva che stesse là apposta, proprio affianco alla casa-e-bottega di Cioladoro. E il ciùccio là dormiva la notte. Ambulanti, cozzali, fruttaiuoli, pesciaiuoli, cocchieri e calessieri vi venivano a ricoverare banchi e cavalletti, carri, carretti e carrozze, calessi e cavalli, stigli, tende e tendoni, secchi e secchioni. E poi si assedevano cazza-e-cucchiara (come a dire, culo-e-cammmisa) con imbriaconi, mozzona-ri, viziosi e senzacasa a un tavolone della cantina, dove gli stessi patroni dello stallone servivano il pezzo di vitellone o la brasciola di cavallo al suco, fette di pane di Carbonara sfornato da tre-quattro dì e un miero così allentato che non si capiva più se era di Barletta o “dell’Acquedotto Pugliese” (proprio il posto, insomma, dove il vino in tutti i modi si poteva nominare meno che come lo chiamiamo noi dall’an-tichitate, miero, che viene dal latino “merum”: vino puro, cioè almeno senza acqua).

Ma non passò tanto tempo che Cilluzz’ si scocciò di ti-rare e di farsi tirare dal ciùccio per tutta la giornata. E poi, gli altri piccininni lo cimentàvano. Lo seguivano come ma-lombre, gridando e ripetendo: «Ciu-ccio-ciò, ciu-ccio-ciò,

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ciu-ccio-ciò», sino a che lui non fusceva a chiudere il ciùccio dentro lo stallone e la faccia sua tutta rossa dentro la casa. E pure i grandi, dentro la cantina, al cafè di Don Mingh’ e quando spassavano il tempo sopra il marciapiede, lo comin-ciavano già a soprannominare Cilluzz’ il Ciùccio. Perciò ad un certo punto stabilette che il ciùccio non lo voleva più. E Cioladoro ordinò di venderlo, così come aveva ordinato di accattarlo, a Col’ Settecerviddi, che con i sette cervelli suoi faceva almeno sette mestieri alle dipendenze di Martemè, dal servitore allo spallaccia, dallo scaricatore al ragioniere. Era lui che stava dreto i conti della pescheria e si preoccupava di pagare le bollette, lui che ogni matina alle quattro si veniva a caricare il patrone sopra il traìno e se lo portava al mercato all’ingrosso, lui che lo aiutava a capare le partite di cozze più buone e più mercate (che costavano di meno, insomma), lui che trattava con Felucc’ del Baccalà eccetera eccetera.

E non era solo per l’età e per quel fatto del ciùccio, no-torio dentro tutto il rione, che Iangiuasandin’ non ne voleva sapere inizialmente del figlio di Cioladoro. Ma pure per cer-te cose sporche che le avevano rivelato anni prima, da picci-nenna, le due figlie di Melin’ la Fruttaiola, e che poi erano diventate una storia che la sera tardi i grandi si contavano in casa e i meninni si godevano da dreto le porte invece di dor-mire. Da piccinunno, insomma, Cilluzz’ e i compagnucci suoi di via Modugno avevano fatto le fetenzarie con le me-nenne di via Modugno che, per le menenne di via Mirenghi, erano in effetti tutte delle zòccane culaperte.

Dunque, ogni tanto le due piccinenne della Fruttaiola scomparivano da casa e non si facevano vedere per tutto il pomeriggio e per tutta la sera, e tornavano poi contente contente solo all’ora di mangiare e di coricarsi. Ma la mam-ma non capette mai perché, quando Angiolett’ e Colett’ scomparivano per ore e ore, con gli altri piccininni di via Modugno, dentro il portone che stava appresso alla droghe-ria Carofìglio (l’unico portone della strata che si chiudeva

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da dentro), poi non toccavano nulla all’ora di mangiare, la sera tardi. Pane e mortadella? La banana? Una zuppa di latte? Nulla di nulla. Dicevano che non tenevano fame e si getta-vano sopra la branda. Le prime volte Melin’ si mettette in pensiero, ma poi non ci facette manco più caso. Capa a loro teneva! Con tutte le preoccupazioni che le dava il negozio, ci mancava pure che, mo, si facesse pigliare dalla disperazione perché due piccinenne facevano storie innanzi al piatto. Se tenevano fame, la credenza la sapevano dove stava ed erano tutti a disposizione loro quegli stigli traboccanti di scope di uva, di mele rosse, di amìnue (le mandorle, dentro l’antichi-tate, si chiamavano “amygdalae”) e del bendidio che veniva fuori dalla terra, per la verità con l’aiuto e il sudore di tutti quegli sposseduti che passavano la vita capasotto dentro la campagna senza venire mai al paese o, se venivano, vi veni-vano la sera praticamente solo per dormire.

Dreto quel portone, chiuso, succedeva di tutto. E loro due, Angiolett’ e Colett’, erano le regine della serata. Gli al-tri erano tutti màscui: Narducc’ il figlio del Marmeraro, Cir’ il figlio del Formaggiaro, appunto Cilluzz’ figlio del pescia-iuolo zoppo e i due figli di Don Mingh’ del cafè, Lorenz’ e Donatin’. Alle due picciuedde della Fruttaiola questi cinque malizionanti, malintenzionati e malazionanti regalavano le paste ma in compenso pretendevano lo spogliarello. E quelle due sfacciate lo spogliarello lo facevano veramente, in con-traccàngio delle paste. Perciò, spògliati e mangia, spògliati e mangia, poi la sera a casa non tenevano fame.

Lorenz’ e Donatin’, prima di venire dentro il portone, s’imbottivano di paste secche le palde. Soprattutto di quelle con la cerasa sopra che tanto piacevano a quelle due smor-fiose. Cir’, invece, nulla: non ci stava verso di fargli rubare nulla all’attano, che pure ne teneva di cose appetitose dentro il negozio. Il Formaggiaro lo seguiva in permanenza con tan-to d’occhi quel mammalucco del figlio suo, tenendo chissà perché qualche sospetto, e gli ordinava sempre di non fre-quentare quei ’uagnunastri di via Modugno che la fatica la

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volevano sparare e la scola la volevano accìdere. E si sapeva già come sarebbero finiti, cioè dentro il negozio degli attani loro, mentre lui, Cir’, aveva assolutamente da studiare e da diventare un cristiano importante, in pratica un professore o un avvocato.

Una volta, la prima e l’ultima, Cir’ provò a grattare dalla vetrina dell’attano due formaggini a triangolo, uno di cioc-colato e uno di crema, ficcandoseli in fretta e furia uno den-tro una palda e l’altro dentro l’altra.

«Fammi avvedere checcosa tieni dentro alle palde» gridò sospettoso il Formaggiaro al figlio.

«Nulla» tentò di rispondere Cir’, diventando rosso e ver-de, battendo forte le mani sopra le palde per fare vedere che erano vacanti vacanti e non ci stavano rigonfiamenti, e fu-scéndosene via per non farsi rovistare.

Quando arrivò dentro il portone e i compagni lo invita-rono a tirare fuori i formaggini, Cir’ ancora con la faccia ros-sa e verde si avvertette che dei formaggini era rimasta solo la carta scazzata, mentre la cioccolata e la crema si erano sciol-te e appizzicate alla fodera, ai calzoncini e direttamente alle gambe. Perciò, nulla regalo per le due signorinelle e nulla spogliarello in contraccàngio, quella sera. E per un mese Cir’ non venette più in via Modugno, perché papà e mamma se ne erano avvertiti del furto, per via dei calzoni imbrattati, e non l’avevano più fatto assire. Quante sere passò a chiàngere Cir’, immaginando come si stavano a sbambarare i compa-gnucci suoi dentro il portone del droghiere, mentre lui era costretto a starsene chiuso in casa. Ma poi pure lui tornò in via Modugno, a godersi gli spogliarelli di quelle due belle piccinenne.

«E levate ’a cammesell’...» cantava Cilluzz’. «La cammesell’ ’gnor no ’gnor no» era la risposta cantata

di Angiolett’, la falsa vergognosa. «Se non te la vuoi levar, me suso e me ne vado da ’ccà...

Se non te la vuoi levar, me suso e me ne vado da ’ccà» face-va minaccioso il cantante Cilluzz’, che a quel punto, tach,

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tirava fuori dalla palda la pasta secca e la regalava alla finta contegnosa.

Allora Angiolett’ si metteva in bocca la pasta – come aveva fatto prima, quando si era sfilato le scarpe e dopo, quando era venuto il turno dei calzetti – e adàscio adàscio si spuntava la cammisedda, se la levava, la consegnava alla sora piccinonna e, storcendosi tutta, con la bocca ancora piena di pasta secca sfrantumata, cantava: «Va ’bbuono, me l’aggio levata, Ciccillo, contento, fa quello che vuo’... Va ’bbuono me l’aggio levata, Ciccillo, contento, fa quello che vuo’».

Dopo la cammisedda, un’altra pasta e si calava la gon-nellina. E dopo la gonnellina, un’altra pasta e si sfilava la canottiera. E rimaneva con le mutandine.

E ogni volta, a quel punto, Cilluzz’ insisteva con la stessa musica: «E levate le mutandine...»

Ma Angiolett’, come faceva Colett’ quand’era il turno suo a spogliarsi, a quel punto della sceneggiata si bloccava e ribatteva a Cilluzz’ facendo la faccia brutta: «E che sei, ammalato ’ncapa? Le fèmmene corrette non si levano le mu-tandine!»

Sempre la stessa scena, ogni sera, a ogni spogliarello. Quei cinque malandrini lo sapevano che mai e poi mai quel-le cannarute (golose, no?) si sarebbero levate le mutandine, eppure ci provavano sempre. Immaginavano che, sottosotto, una possibilità ci poteva stare. Magari una sopra un milione, una sopra un miliardo, ma ci aveva da stare! E questa possi-bilità – ne erano sicuri tutti e cinque quei maligni – la si po-teva cercare solo dentro il cannarile di Angiolett’ e Colett’. Insomma, se volevano accarezzare la speranza di godersele senza mutandine quelle due canzonettiste, si trattava di con-tinuare a incannarirle con il dolce.

E una volta, dopo aver passato un’altra matinata inte-ra sopra il marciapiede di via Modugno a pensare a come farcele levare finalmente quelle benedette mutandine alle figlie non completamente traviate di Melin’ la Fruttaiola, a Cilluzz’ venette l’idea buona. E organizzarono un furto in

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grande stile al cafè di Don Mingh’. Cilluzz’ si presentò den-tro la gelateria con un bollitoio e ordinò un quarto di lat-te bollito con lo zucchero (come faceva peraltro quasi ogni matina e ogni sera, e perciò Don Mingh’ non s’insospettì). Lorenz’ e Donatin’, figli degenerati, parteciparono al tranel-lo contro l’attano loro allineandosi innanzi alle paste piene. Così Narducc’ e Cir’ potettero ficcare le mani dentro quella vetrina senza essere visti e rubare una pasta-percoco per uno. Lo sapevano che, per la pasta più grossa e desiderata della vetrina di Don Mingh’ – tutta zuccherata, piena piena di crema, rossa, rotonda e con la spaccazza in mezzo, appunto come un percoco – tutti in via Modugno avrebbero fatto una mattezza. Figuriamoci quelle due, che già con le paste secche si mettevano quasi completamente all’anuta.

E così quella sera, dopo che Colett’ si levò la canottiera – quella sera toccava a lei fare lo spogliarello per prima – Lorenz’ le cantò come le altre sere: «E lèvate le mutandine...» Ma, prima che la vergognosa gli gridasse tutta scandalizzata: «E che sei, ammalato ’ncapa?», le mettette sotto il muso la pasta-percoco.

La piccinenna non se l’aspettava, quell’“E che sei...” le rimanette in bocca. Lanciò con un occhio un’occhiata avi-da a quel percoco e con l’altro occhio, per capire checcosa avesse da fare, un’occhiata interrogativa alla sora. E questa, Angiolett’, che era la più drittacedda, pigliò la situazione in mano. «Vabbuono, ci levamo le mutandine» sentenziò, «ma senza luce, all’oscuro».

Angiolett’ non aveva manco finito di pronunziare que-sta decisione che Cilluzz’ e Donatin’, mettendosi uno sopra l’altro, svitarono la lampadina. E dentro l’oscurità, sentètte-ro Angiolett’ che istruiva Colett’ e Colett’ che cantava: «Va ’bbuono, me l’aggio levate, Ciccillo, contento, fa quello che vuo’... Va ’bbuono me l’aggio levate, Ciccillo, contento, fa quello che vuo’».

Qualche uno di loro, i màscui, credette d’intravvedere qualcheccosa, un certo movimento dalla banda delle picci-

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nenne, forse le mani di Colett’ che si levava effettivamente e si rimetteva in fretta e furia le mutandine. E poi, autorizzati da Angiolett’, riavvitarono la lampadina e rivedèttero con le mutandine Colett’, che subito pretendette e si mettette a mangiare la pasta-percoco, mentre si rinfilava canottiera, cammisedda, gonnellina, calzetti e scarpe, e saliva sopra il gradino Angiolett’. Era il turno suo.

Con lo stesso accordo, naturalmente. «Pure le mutandine, ma all’oscuro, e voi m’allentate il percoco» mettette in chiaro quella malfidata, che si assicurò: «ma lo tenite veramente un altro percoco per me? Apprima fàtemelo avvedere»...

Così da quella sera si alternarono, dentro il portone af-fianco alla drogheria Carofìglio, serate con paste secche e serate con paste-percoco, spogliarelli totali escluse le mutan-dine e (come credevano o facevano finta di credere, all’oscu-ro, quei cinque malcreati) spogliarelli totali comprese le mu-tandine...

Con Rosett’ e Carmelin’, invece, bastavano le paste sec-che. Ma non per vedere: era proibito. Per toccare. Le figlie di Commà Marteredd’ parevano vergognose vergognose, tutt’e due bianche bianche di carnagione, una secca secca e l’al-tra grossa grossa, sempre vestite di nero perché ci era morto l’attano giovane giovane. Non volevano venire mai dentro il portone appresso alla drogheria. Stavano sempre assettate innanzi al portone di casa loro – proprio dirimpetto alla dro-gheria – con la mamma e la nonna, e certe volte, quando le due fèmmene grandi arricettavano in casa, da sole.

E loro, quegli incantatori, le invitavano sempre: «Venite con noi, venite dentro al portone del droghiere, ché ci addi-vertimo. Ci stanno pure altre due fèmmene accome a voi».

Ma loro, Rosett’ e Carmelin’, nulla. Manco risponde-vano. Si voltavano dall’altra banda e facevano finta di non avere sentito.

Finché una volta, dentro un periodo che Angiolett’ e Colett’ stavano a farsi una semana in villeggiatura da una ziana di Torre a Mare, in campagna, Rosett’ e Carmelin’ a

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quell’invito rispondéttero: «Perché avimo da scire dentro al portone del droghiere? Noi tenimo un bell’àstrico addo’ non ci sta nisciuno e potimo stare a soli a soli, noi piccininni».

Così salèttero all’àstrico. Non si erano ancora assettati in terra, sopra l’àstrico nero nero di pece, sotto un cielo scuro scuro che pareva pure lui di pece, che subito Cilluzz’ propo-nette: «Sentite, se noi vi damo le paste, voi ci facite avvedere le menne e in mezzo alle cosce?»

Rosett’ e Carmelin’ che, chissà come, già sapevano chec-cosa succedeva dentro il portone del droghiere, si aspettava-no la proposta. E infatti Rosett’ rispondette di scatto: «Noi non ci facimo avvedere da nisciuno, mica simo accome a quelle due smorfiose culaperte delle compagne vostre».

«E allora, checcosa facimo?» domandò sbrigativamente la facciatosta Cir’.

«Noi non potimo fare troppa quaquagna, troppa confusio-ne, sennò mamma e nononna se n’avvèrtono. Accordàmoci accosì: voi ci apportate almeno dieci paste secche con la ce-rasa rossa in mezzo e, a turno, uno alla volta, salite con me o con Carmelin’ sopr’all’àstrico, mentre l’altra sta a specchiet-to per avvertirci se arriva qualche uno».

Narducc’, che cominciava a non capire più nulla, s’infor-mò: «Ma qua, sopr’all’àstrico, che potimo avvedere? Non ci sta manco una lampadina?»

«Allora non vuoi proprio accapire. Qua, non ci sta nulla d’avvedere. Noi ci avvergognamo».

«E allora?» azzardò Cir’, che forse cominciava a capire ma non si voleva capacitare.

«Io, all’oscuro, senza spogghiarmi, mi faccio tuccuare poco poco in mezzo alle cosce, con un dìscito, da sotto alle mutandine. E Carmelin’, aqquando è il turno suo, senza spogghiarsi si fasce tuccuare le menne, che lei le tene già. Ma pure lei all’oscuro, con un dìscito e da sotto alla canot-tiera».

Così facèttero la prima volta e le altre volte. E così passa-vano la vita – tra gli spogliarelli di Angiolett’ e Colett’, che

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non si volevano far toccare, e le toccate all’oscuro di Rosett’ e Carmelin’, che si vergognavano a farsi vedere all’anuta – quei cinque piccininni che tenevano in bocca ancora l’addo-re del latte ma erano già così pieni di malizia…

Questa era la storia delle fetenzarie che facevano i pic-cininni di via Modugno, Cilluzz’ compreso. Ma oramai era una cosa di altri tempi. Mo Cilluzz’ era un ’uagnone. E quando aveva cominciato a mettere i peli, scoprette e precisò che non voleva fare il pesciaiuolo come l’attano suo, perché si puzzava sempre, si tenevano sempre le mani dentro l’ac-qua e ti veniva pure l’artrosi giovane giovane. E poi, che ave-va studiato a fare? Perciò gli facèttero agguantare un posto alle Ferrovie. Ci aveva pensato un amico di Settecerviddi che per sette mesi, dal primo dì di fatica di Cilluzz’ alle Ferrovie, passò ogni dì dalla pescheria a fare la pesca senza esca e senza tornesi. Ma Cilluzz’ aveva detto baibai a quella sistemazio-ne, perché non voleva tornare a casa da solo, la sera. Teneva pavura dei cani. Faceva giri larghi larghi per scansarli ma poi, tàcchete, come se quelli lo facessero apposta, ce ne stava sempre almeno uno innanzi a lui, a minacciarlo. Un paio di volte se l’era proprio vista brutta. Lui, culocacato com’era, fusceva solo a vederli quei bastardi arraggiati che parevano tanti lupi affamati di cristiani e stazionavano arrotando i denti agli spunti delle strate, vicino ai mucchi del remmato (la monnezza nostra ha conservato la derivazione diretta dal greco, “rumma, rummatos”). Ma fuscendo se li tirava prati-camente lui stesso addosso.

Ogni sera tornava a casa bianco come una fasciacuscini, con la bava alla bocca, gli occhi girati con la palla bianca innanzi e il tremuizzo alle mani. E dopo che una volta si ritirò con la gamba mozzicata e il sangue che gli colava sopra i calzetti e sopra le fangose, Cioladoro non se la sentette di farlo continuare così. E lui, Cilluzz’, si convincette: meglio pesciaiuolo ma patrone che ferroviere e merdanculo…

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Iangiuasandin’ li conosceva, Martemè e Tarattè, perché dentro certi pomeriggi d’estate veniva spedita da Donna Sabbedd’ ad accattare un poco di merosca. Quei pesci pic-cinunni piccinunni se li frecavano crudi, assedute al fresco, sopra il marciapiede, inghiottendo le alicette spin’e tutte, ma staccando e sputando la capa delle sardine prima di accom-pagnarle in bocca con un pizzico di pane.

Il baccalà non lo accattavano mai da Martemè perché tutti dicevano che lui lo metteva a bagno dentro la calce, per farlo diventare alto e bianco, e pure per farlo pesare di più. E difatti il baccalà di Martemè ti attirava proprio, per quanto era alto, bianco e amoruso (noi usiamo dire “amore” per sapore, per gusto, per aroma...). Un lavorante, che era stato a semana da loro per qualche mese, li aveva poi svergognati per vendicarsi del licenziamento, facendo sapere a tutti che quelli il baccalà lo tenevano affogato pure quattro dì dentro il “bianchetto” – il nome sdrèuso usato dai pesciaiuoli per riferirsi alla calce in presenza di estranei – e mettevano le ta-volette sopra le vasche per nascondere tutto quel veleno, di-modoché non se n’avvertivano le guardie dell’Annona quan-do venivano a fare l’ispezione. Che poi quelli dell’Annona, quando facevano le ispezioni, prima avvisavano e gli occhi, quei mangiamàngia, se li facevano chiudere con mezzo chilo di merosca o con una dozzina di noci reali...

Invece le cozze nere di Cioladoro, bisogna ammetterlo, erano proprio le più asprigne e le più piene d’amore di mare, pure ad aprirle una a una dentro ogni pertuso dove le vende-vano, dalla tomba di Santa Nicola al camposanto. Per spera-re di scovarne di così carnose, si aveva da arrivare al mercato di via Nicolai, dove uno faceva la spesa grossa. Ma la spesa giornaliera, in quanto a frutta di mare, eri praticamente ob-bligato a farla da Cioladoro. E poi, se lui feteva più di tutte le stalle del rione messe insieme e, giuocando e ridendo, col bastone tentava sempre di toccare le fèmmene e, qualche volta, alzava le gonne delle ’uagnedde (l’aveva fatto pure con Iangiuasandin’, quando era più piccinonna), a Tarattè tutti

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la rispettavano e la riverivano. Per interesse, perché a tutti poteva capitare un dì o l’altro, facendo le corna, di pigliare una sciuata e di venire fuscendo e scappando da lei per farsi mettere a posto un piede o un braccio. Ma pure per rispetto, perché Tarattè era veramente di core, buona come il pane, tanto buona quanto pesava. E pesava tanto.

Tutti, almeno una volta dentro la vita, la vedèttero tra-scinarsi verso il Redentore, con il quintale di grasso che si portava addosso, farfugliando le preghiere. Per non perdersi la messa delle quattro, aveva da assire praticamente alle tre. E al ritorno ci metteva pure più di un’ora, perché ogni quat-tro passi si fermava per pigliare fiato, sempre tartagliando le orazioni in latino, con una bizzoca che faceva la stessa strata sua. Non sapeva il latino e non sapeva nulla di nulla, tanto meno di medicina o di ortopedìa. Eppure non esisteva stret-tegghiatura o sveldatura di ossa che non sapesse aggiustare con una miracolosa strofinazione di acito, con una tirata di forza che ti levava pure l’anima o con una giudiziosa stop-pata che lei faceva all’istante, appena serviva, con bambagia, chiara di uovo sbattuta e cenere...

Iangiuasandin’ non si capacitava proprio a dargli confi-denza a quel pappamosca di Cilluzz’. L’attano e la mamma di tornesi certamente ne incassavano, ma tenevano le mani tanto sciuose da parere poveriddi. La casa loro dicevano tutti che era lorda e fetente. Non si lavavano mai, fetèvano pure la figlia signorina e la figlia piccinonna. Almeno Cilluzz’ si metteva un poco di brillantina e qualche volta, quando pas-sava prima dal salone, addirittura addorava. Si erano fatta la stanzetta del cesso, ma poi ricorrevano sempre a monzignore – parlando con decenza – non solo di notte ma, per abitu-dine, pure con la luce di Cristo. Lo si vedeva con gli occhi e, prima di tutto, lo si sentiva col naso quando gli aiutanti svacavano quel tazzone dentro il pozzo nero dello stallone, la sera, dopo aver chiuso la pescheria e buscato la giornata. E in effetti il monzignore, che però tutti chiamavano più normal-

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mente priso (dal francese antico “privaise”) o, alla greca, càn-tero o, alla napoletana, zipeppe, stava sempre pronto sotto il letto di Martemè e Tarattè. Bastava solo alzare il giraletto e stare un poco accorto a non trascinarti sotto le cosce, al posto suo, il boccaccio delle melanzane sottolio.

Da là, mentre stavi assettato a svacarti l’intestino o all’in-piedi a cangiare l’acqua alle olive – e cioè a fare, come dicono i piccininni, il gabinetto grande o il gabinetto piccolo – po-tevi peraltro continuare a controllare la cassa del negozio: però avevi da usare la furbizia di lasciare la porta tra la came-ra da letto e la cucina aperta per metà a destra, e la porta tra la cucina e il negozio aperta per metà a sinistra. Da là potevi smicciare senza essere veduto né dai clienti né dai lavoranti. Almeno ne erano convinti Martemè, la mogliera e i tre figli. Ma chissà se era proprio vero che dal negozio non fosse pos-sibile allumare uno che stava asseduto ad arricrearsi sopra il priso con la convinzione (o l’illusione) di spiare senza essere veduto. In tutti i casi era vero, c’è da dire, che i lavoranti non li avevi mai da perdere d’occhio, perché avevano tutti il vizio di mettersi ogni tanto dentro la palda qualche cento lire, invece di farle arrivare al posto loro, dentro la cassetta...

La prima volta che Donna Sabbedd’ li pizzicò insieme, alla sprovvista, Iangiuasandin’ e Cilluzz’ stavano a fare ciù-ciù-ciù allo spunto di via Mirenghi con via Modugno. Anzi, era Cilluzz’ che praticamente faceva ciù-ciù-ciù da solo come un povero-a-lui. Teneva la posizione di uno che vole convincere qualche una di qualcheccosa, mentre lei, altez-zosa altezzosa, pareva non avvertirsi manco della presenza sua, degnandosi appena di sentire il rumore di quella voce, con gli occhi fissi lontano e la risata sfottente stampata so-pra il muso. Dentro una mano, il ’uagnone teneva la carta degli gnomeriddi caldi caldi, appena accattati. Ogni tanto, a turno, se ne frecavano uno di quegli involtini di frattaglie di agnello (te li cocevano all’istante sopra il fuoco scaduto, agli spunti delle strate, servendoteli ancora bollenti e con un

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pizzico di sale). E si leccavano ogni volta i dìsciti, sia per farsi passare la brusciatura sia per il piacere della leccata salata.

La mamma l’aveva pigliata per la cima dei capelli Iangiuasandin’, proprio dentro il momento che Cilluzz’ sta-va per mettere un dìscito suo salato in bocca alla ’uagnedda, per farselo leccare. Perciò non si saprà mai se Iangiuasandin’ quel dìscito, forse proprio quello centrale della mano destra di Cilluzz’, se lo sarebbe fatto ficcare in bocca o se avrebbe fatto resistenza con la bocca chiusa o se si sarebbe proprio levato d’innanzi, una volta per tutte, quello screanzato con una stampata dritta dritta sopra i contrappesi (e lei ne sareb-be stata capace, altro che no).

«Tu, ’uagnunastro senz’arte e senza mestiere» escla-mò Donna Sabbedd’ contro il figlio pupo-di-zucchero di Martemè Cioladoro, piombando come un’indemoniata in mezzo a quella scena e spostando la figlia con una forza che lasciò di stucco tutti e tre, «non t’hai da fare avvedere più vi-cino a casa nostra, non t’hai d’appermèttere più di dire un’al-tra sola parola a ’sta sciagurata, ché ti faccio fare un paliatone da chi sàccio io». E Cilluzz’, che non sapeva lo spagnolo, né tanto meno la parola “palear”, bastonare, comuque capette avvolo che aveva da cangiare aria e la cangiò.

«E tu, sventura della vita mia, albero del tosco della casa nostra» si spolmonò contro la figlia, per farsi sentire da tutti, mentre quello sparafucile di Cilluzz’ già scompariva verso via Bovio, «addo’ mi vuoi ammandare? ’ngalera? al campo-santo? Tu hai da stare accepponata ’ncasa. Possibile che non vuoi sentire a nisciuno? Tu a me m’hai d’arrispettare... Non hai d’addisonorare la famìgghia nostra... Pìgghia esempio dalle sore tue... Mo ti hai da mettere pure con quel fesso del fìgghio di Cioladoro, zeppo e puerco? Mègghio zitella, accosì almeno m’aiuti a fare i servizi ’ncasa».

Dopo quel fatto, l’“irresponsabilità” di Iangiuasandin’ diventò il problema centrale di quella casa. Appena due della famiglia si vedevano, di che parlavano? Delle preoccu-pazioni che dava Iangiuasandin’, appunto la pecora zoppa

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della famiglia. Se qualche uno vedeva per la strata Donna Sabbedd’ o Bellònia e la salutava, domandando per creanza: «Accome state?», che rispondeva quella? «Lo sai, se non fosse per Iangiuasandin’ non ci potimo allamentare». Se Donna Sabbedd’ voleva fare questione con Bellònia o Fifin’, come le provocava? «Che è, pure tu accome a Iangiuasandin’ mi vuoi ammandare al camposanto?» E persino se spariva qual-checcosa dalla credenza o si rompeva un piatto o qualche commara grossa, assedèndosi, faceva crepare una sedia, di chi era la colpa? Di Iangiuasandin’. La mamma si faceva la croce all’ammerso, ogni volta che la vedeva. E ad un certo punto cominciò a fare le corna con tutt’e due le mani contro di lei – con i pugni uno attaccato all’altro e i soli mignoli tesi a fare da corna – per neutralizzare, con tutta la forza che teneva, quel “carico ambulante di sventure”.

Ci sta da dire che, dentro quella casa, da un poco di tem-po si era oramai piazzata una quinta fèmmena, Serafin’, la zita di Diador’, che animava ogni dì quelle quattro mura di chiacchiere e pistrigghi, come se non ne facessero già abbastanza, per conto loro, le quattro fèmmene della fami-glia originaria. Serafin’ era spiccicata la mamma, Natin’ dei Matarazzi, un’altra bellapelle, che girava per le case a svacare e a rifare letti, di crine quelli dei poveri disgraziati e di lana buona quelli di chi teneva i tornesi. Spiccicata non solo di faccia, ma pure di carattere. Per dire della mamma, nessuno capette mai se Natin’ fosse costretta a stare sempre in mezzo ai fatti degli altri per colpa di quel mestiere che la ficcava ogni semana dentro una casa diversa, o se avesse pigliato quel mestiere proprio per la passione naturale d’intrometter-si. Una cosa è certa: passava le giornate a governare e a sgo-vernare, oltre che i letti, pure la vita degli altri, combinando e scombinando – come se fosse pagata per farlo, ma non lo era – apparolamenti, matrimoni e comparaggi.

Lo stesso vizio teneva Serafin’, che poi per Iangiuasandin’, la canata più piccinonna e più drittacedda, teneva una sim-

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patia sin dalla prima volta che Diador’ le aveva accennato i caratteri delle tre sore sue: la brutta acida, la buona fri-camidolce e la capatosta. E da quando quel maledetto dì-scito che il figlio di Cioladoro stava per mettere in bocca a Iangiuasandin’ aveva scatenato la disperazione di Donna Sabbedd’, che mo non sapeva dove sbattere la capa, Serafin’ ci aveva pensato e ripensato, e alla fine si era fatta la con-vinzione che “una maniera per sbrogghiare la matassa ci sta”. E dopo qualche dì lo dicette alla suocera: «Il filo per farci assire da ’sto labirinto tene un nome preciso preciso: Cazzulìcchio».

Cazzulìcchio era un bravo e onesto faticatore, che aveva amoreggiato per un poco di tempo, alla nascosta da tutti, proprio con lei. E Serafin’ sopra Cazzulìcchio teneva ancora un certo dominio, forse perché gli aveva fatto vedere qual-checcosa che teneva sotto la veste e che lo aveva particolar-mente impressionato o perché addirittura gliel’aveva fatta toccare. O comunque per fatti loro. Quello che interessa è che, pure se non stavano più insieme, Serafin’ a quel dolce-di-sale di Cazzulìcchio se lo faceva tuttora come voleva e, dove lo metteva lei, là lui rimaneva. Cazzulìcchio, detto tra parentesi, non aveva proprio capito perché lei, di punto in bianco, avesse deciso di scombinare con lui. Forse perché voleva diventare una signora e Diador’ con quel mestiere di aspirante parrucchiere fino chissà dove poteva arrivare, o forse perché era una fèmmena che voleva sempre comandare e Diador’ era più zittozitto o forse, ancora, per via di quel nome, “Cazzulìcchio”, e per quel poco che di conseguenza si poteva immaginare che lui tenesse tra le gambe.

Dunque, Serafin’ si era fissata che – data la cocciuta e do-lorosa opposizione di Donna Sabbedd’ allo scapricciamento del figlio di Cioladoro e dell’Acconzaossa per la ’uagnedda più scriteriata e, diciamo la verità, più bellafatta di quella casa – bisognasse però dare uno sfogo a Iangiuasandin’, non a caso soprannominata Capatosta, aiutandola a non intestar-dirsi con l’unico ciolone di màscuo che forse l’aveva saputa

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solleticare e che lei giustamente aveva pigliato in considera-zione. A parte, chissà quali pensieri impenetrabili Serafin’ continuava a fare sopra Cazzulìcchio e chissà se, per il pro-prio comodo, volesse mantenerselo in famiglia, a portata di mano, pure senza sposarlo...

Fatto sta che Serafin’ fu capace di farli stare insieme cin-que volte Iangiuasandin’ e Cazzulìcchio, a casa della ’ua-gnedda o a casa del ’uagnone (con la scusa che Diador’ e Cazzulìcchio erano compagni da piccininni e non ci stava nulla di strano se ogni tanto si vedevano a casa di uno o dell’altro). E qualcheccosa pareva nascere tra i due, che già si lanciavano occhi dolci e sorrisi intenzionati. Almeno così se la vendeva Serafin’. «Non un granché per quella civetta senza malizia di Iangiuasandin’» la nora garantiva, a consolazione della suocera, «ma sempre qualcheccosa è».

Ci fu però qualche uno che riportò tutte queste ruffiane-rie a Cilluzz’, senza tanti complimenti, anzi bagnandoci il pane dentro: questo qualche uno fu Iangiuasandin’ stessa.

«Tu l’hai da spicciare di starmi sempre dreto dreto» gli dicette sopra il muso. «Io non so’ fatta per te. Mamma non vole che io mi metto con il fìgghio di Cioladoro. Nulla da dire sopr’a màmmeta, una santa fèmmena. Ma Cioladoro è proprio un puerco, le sore tue non si lavano mai e tu, lo sàpeno tutti, te ne vai sempre a Torre Tresca, in mezzo a quegli avanzi della società, addo’ vieni arricevuto accome a un principe delle puercarie da ziàneta e da cuggìneta. E non fatichi e non vuoi faticare. Lo sàccio accome vai a finire: pure tu a fare il pesciaiuolo, con tutta la terza avviamento tua. E io un pesciaiuolo non lo vògghio, sempre con le mani dentro all’acqua, che fete di baccalà. E poi... E poi sto per pigghiare impegno con un altr’uno».

Iangiuasandin’, mentre allentava parole in maniera così strafottente, vedette che a Cilluzz’ arrivavano il rosso agli oc-chi e il tremuizzo alle mani. Intuette che stava per succedere un quarantotto o un novantanove, ma non si trattenette,

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caprigna com’era, e arrivò sino alla mazzata finale («Sto per pigghiare impegno con un altr’uno»). Cilluzz’, per la parte sua, sentette che stava per perdere il controllo della situazio-ne. E alla mazzata finale, effettivamente, lo perdette. Non ci vedette più. Facette una mattezza. Senza pensarci manco una volta, l’assaltò quella dispettosa, tramortèndola con una scarica di cazzotti, di liscio-e-busso e di va-e-vieni, centran-dola in faccia, sopra il ventre e dentro i fianchi. La mazziava come un ossesso ma l’abbrazzava pure per non farla cadere in terra, la sfraganava di faccia e la stringeva per non farla fu-scire, e intanto la mozzicava e la vasava in bocca, le sputava e la succhiava sopra il collo. Le teneva le braccia strette contro il corpo, imprigionandole, e la premeva contro se stesso con le mani affondate dentro la carne della ’uagnedda.

Pigliata alla sprovvista, Iangiuasandin’ prima incassò e svenette, poi si ripigliò. Era ancora tutta intontita. Invasa dalla violenza cecata e dalla passione sconcertata di quel matto, avette pavura ma sentette pure attrazione. Perduta e accalorata, per quella bocca che la leccava e l’addentava, per quelle mani che la rovistavano da tutte le bande, per le lagri-me che sentiva scenderle dagli occhi, per la faccia di Cilluzz’ scombussolata dall’azzardo e dalla mancanza di controllo, e per l’agitazione che sentiva tra le gambe di quello spostato di Bisceglie, Iangiuasandin’ stava quasi quasi per vasarlo pure lei e per infuocarsi pure lei tra le gambe, quando recupe-rò invece la forza di reazione, usando le mani per dare lei un lavamuso a Cilluzz’, che stava tutto squilibrato e non se l’aspettava, e perciò cadette in terra.

«Merda di un pesciaiuolo fìgghio di ’ndròcchia, questo te lo faccio appagare amaramente, arricòrdatene» gridò e se ne fuscette.

A casa Donna Sabbedd’, quella sera, non si avvertette né della faccia alterata né dei lividi da succhione né dell’accalo-ramento di Iangiuasandin’. Ma, la matina dopo, provvedèt-tero la curiosita’ di Serafin’ e l’intromissione di Matalen’ la Ghiacciara a fare arrivare il quadro alla piazza.

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La prima aveva appena detto bongiorno che alzò l’an-tenne. Quella cavalla matta di Iangiuasandin’, stranamente, stava zitta zitta e calma calma e, quelle poche parole che di-ceva e quei pochi movimenti che faceva, le diceva e li faceva con un imbarazzo che non aveva mai saputo nemmeno dove fosse di casa, boccabocca e dispettosa com’era.

«Per caso, signorì, sapite checcosa è assuccesso a Capatosta?» domandò Serafin’ a Donna Sabbedd’.

«Nulla che io sàccio. Perché?» «La veggo strana, accome se annascondesse qualcheccosa.

Forse una lite con il fìgghio di Martemè?»Donna Sabbedd’ scattò: «Che c’entra, mo, quello? Non

s’avvèdono più da semane. Iangiuasandin’ sape che, per lei, è proibito e straproibito frequentarlo». E poi congetturò, per cacciare i cattivi pensieri: «Forse tene il mal di capa. Lo sai, ne assoffre».

Ma Serafin’ non era una ficcanaso da quattrosoldi, era una professionista. Di più: era figlia di Natin’ dei Matarazzi. Perciò, tanto si mettette dreto a Iangiuasandin’ a domanda-re, a insistere, a babbuare, a incalzarla, a dire e non dire, a sollecitarla, a tormentarla, a indagarla, a provocarla, a farle l’occhiolino e a pungerla che ad un certo punto la ’uagned-da avette una specie di scossa elettrica. Fu giusto quando la canata, che sapeva sette lingue, le mettette dentro la rècchia che «il fìgghio di Martemè pare che è un puttaniere».

Iangiuasandin’ non rispondette con le parole a questa malignità, né si facette vincere dalla curiosità. La conosce-va bene quella ferùscula della canata, disonesta e furbetta come una fera selvatica. Avette però uno scatto d’occhi che a una fèmmena normale non avrebbe detto granché, ma che a Serafin’ svelò quasi tutto. E poi, come mai stasera si era mes-sa un fulàr al collo, la bardàscia di casa? e quei segni bluastri che il fulàr non nascondeva all’occhio indagatore della figlia di Natin’ dei Matarazzi? e quei lividi sopra il braccio? E prin-cipalmente, checcos’era quella specie di malinconia che ogni tanto si accavallava ai lampi di dispetto dentro gli occhi di Iangiuasandin’?

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L’altra, Matalen’ la Ghiacciara, vendeva sbarre, mezze-sbarre e quarti di sbarra di ghiaccio a via Rogadeo col mari-to, che però non ci stava quasi mai perché gli piaceva la can-tina e là s’intratteneva, a mangiare le brasciole a gnomeriddo e a bere con i viziosi come lui. E ogni semana quel disonesto – disonesto ma pure vieniminbocca – scompariva proprio dalla circolazione per due giornate e due notti, dal sabato matina al lunedì matina. Tutti lo sapevano che se ne stava dalla commara, che poi era quella scorrotta che vendeva le grattate e i bombolotti all’entrata del cinema-pidocchietto di via Napoli. E che con quella là si faceva fuori, dentro le vicciarie di Carbonara, strafocàndosi di carne buona, tutti i tornesi guadagnati col ghiaccio dal lunedì matina al venerdì sera. Perciò dentro la casa alla strata con la comodità dello sgabuzzino del cesso – proprio faccia in fronte al magazzi-no del ghiaccio – alloggiavano quasi sempre solo in due, Matalen’ e Ninett’, e cioè mamma e figlia grande. L’altra fi-glia, la più piccinonna, se ne era fusciuta, quando teneva tre-dici anni ma pareva già una fèmmena fatta, con un marinaro di Molfetta e mo si faceva vedere solo ogni tanto, quando il marito stava imbarcato. Ninett’ detta la Cimmaruta perché sgobbata, oltre che offesa a una gamba, faceva la maiesta. Dava cioè l’“intrattieno” ai figli più piccinunni delle fèmme-ne che non sapevano come combattere tutta la giornata con sei ma pure con dodici, quattordici figli. A quelle ire-di-dio Ninett’, con la terza elementare sua, ogni dì faceva fare i numeri e imparare le cantilene. Ma soprattutto lasciava che si pigliassero a raschi, asseduti sopra i panchetti che si porta-vano da casa. L’importante era che non crescessero in mezzo alla strata a fare i delinquenti, a strazzarsi le canottiere, a ma-liziarsi e a farsi scazzare sotto le rote delle carrozze che passa-vano allegre allegre per via Modugno verso il camposanto.

Matalen’ e Ninett’ si facevano sempre i fatti degli altri, la mamma soprattutto con la bocca e la figlia soprattutto con le rècchie (se uno ha perduto l’innocenza e il ricordo di quando era piccininno, non può manco immaginare quanti

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segreti e quante vergogne scoperchiavano, senza avvertìrse-ne, quegli innocenti di Dio asseduti sopra i panchetti, tutti insieme dentro una camera, sotto il controllo della maiesta. Altro che finire in bocca ai barbieri!).

Perciò quella matina stessa Ninett’ seppe che al campo di via Napoli la figlia piccinonna di Donna Sabbedd’, la sera prima, si era abbrazzata e vasata assai con un giovanotto che non teneva le mani apposto e forse stavano per fare la frit-tata, e che ad un certo punto la ’uagnedda se ne era fusciu-ta tutta rossa, con la gonna alzata e le menne di fuori. E Ninett’ subito scattò, abbandonando piccinunni e panchetti alla sorte loro, e fuscendo a contare il fatto alla mamma. E Matalen’, che non voleva che le potesse capitare pure il guaio di una figlia disonorata a quella brava e onesta cristiana di Donna Sabbedd’ – visto che già le era morto giovane giova-ne il marito, un òmmeno tutto d’un pezzo, e non ne aveva voluto poi sapere di rimaritarsi, a dispetto delle mille amba-sciate che riceveva continuamente e di quelle tre cambiali da sfrangiare delle figlie – e Matalen’ dunque che aveva da fare a quel punto, dopo aver sentito da Ninett’ il fatto che questa aveva saputo da Damianucc’, il figlio della sora della can-tinera di via Francesco Netti? Matalen’ facette la cosa che, appicciafuoco o fèmmena sensata che fosse, sentiva di avere il diritto e il dovere di fare: drizzò il piede verso il portone di via Mirenghi dove abitava la famiglia della bonanima di ’Mba Iangiuasand’, lasciando il ghiaccio in mano a Ninett’, che aveva messo quelle venticinque creature del diavolo in mano a Damianucc’, che a cinque anni era il più grande di tutti loro, il capo.

Matalen’ tizzuò alla porta di Donna Sabbedd’ quando Serafin’ di Diador’ si stava ancora a mangiare il cervello a proposito delle reazioni e dei lividi di Iangiuasandin’, cer-cando di tirare qualche conclusione da sfruttare con la suo-cera e con la canata a favore di Cazzulìcchio.

«Scusa, Donna Sabbedd’, se m’intrometto» esordette Matalen’ assedèndosi per la stanchezza, senza aspettare di

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essere invitata a farlo, sopra un puffo, «ma tu lo sai accome so’ fatta io. Se non faccio il bene alla gente non sto contenta. E poi, a te so’ sempre stata affezionata. T’arricordi quante volte avimo giuocato ’nsieme alla campana, alla riverenza e ai cerchietti? E ’Mba Iangiuasand’? Che òmmeno! Ti ho d’acconfessare un segreto: quando ero piccinonna ci feci un pensiero sopr’a Iangiuasand’. Altro che quel gagà zumpafus-si di marìtemo, sempre a vizio e a fèmmene, a farsi frecare i tornesi del ghiaccio».

Donna Sabbedd’ incoraggiò quella boccabocca di Matalen’ a intromettersi pure. S’immaginava che avesse da riportarle una delle solite chiacchiere sopra le liti fra qualche parente o vicino di casa. «Nulla preamboli con me, Matalen’» tagliò, «e nulla complimenti. Io sàccio accome sei fatta tu e tu sai accome so’ fatta io».

E Matalen’, abbasciando la voce per non farsi sentire dall’altra stanza, dove aveva intravvisto Iangiuasandin’ e Serafin’ di Diador’, passò a contare: due ’uagnuni contro il muro, gonna alzata, calzoni abbasciati, menne di fuori, abbrazzi stretti stretti e la fusciuta... «Io non vògghio dire che è assuccesso già qualcheccosa d’irreparabile» concludette Matalen’. «Dio non volesse che fosse già assuccesso. Ma pote assuccèdere, Sabbedd’, pote assuccèdere da una dì all’altra. Non è per metterti il sale sopr’alla piaga, ma sta’ all’erta. Io non sàccio chi è lui, non è stato visto, perché Capatosta se ne è scappata da qua e lui se l’è filata da là. Ma se ha fatto ’sta cosa alla fìgghia di Donna Sabbedd’, dev’essere proprio una carnetta. Forse uno di quegli sbulinati che se la spassano tra puercarie e ladrimenti a Torre Tresca. Attenta, Sabbedd’, statt’all’erta».

Per capire che Matalen’ aveva fatto centro sopra il con-cetto di onore – che cioè l’infamona a fin di bene, fosse o no questo l’obiettivo suo, le aveva messo il coltello in mano alla vìdua di ’Mba Iangiusand’ – bastava vedere Donna Sabbedd’ allisciarsi continuamente il frontale e i capelli sino a dreto, al tuppo, man’a mano che la Ghiacciara contava. La faccia

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della mamma addolorata di Iangiuasandin’ passava dal rosso al bianco, la bocca le tremuava tutta lasciando intravvedere denti piccinunni e intatti (una rarità dentro quel mondo di denti storciuti, sovrapposti, cariati, caduti, spezzati, cavati con dolore e mai rimpiazzati). Donna Sabbedd’ vedeva, di punto in bianco, pericolanti la dignità, il decoro e il rispetto di quella famiglia e di quella casa “senz’òmmeno”, insieme all’onore stipato come la cosa più preziosa dentro tutti que-gli anni di sacrifici e di salti mortali per assicurarsi da man-giare e da vestirsi in sei.

Certo, Bellònia non era una Clara Calamai e teneva pure un brutto carattere, ma aveva amoreggiato sempre e solo con Gamidd’ il Muto (muto non per mancanza di voce ma per volontà e dispetto, non si seppe mai contro chi). E quel luposordo di Gamidd’ l’avrebbe poi regolarmente sposata con la speranza di sistemarsi, come si sarebbero in effetti sistemati, dentro la stessa casa fabbricata personalmente da ’Mba Iangiuasand’ con le mani sue e i tufi suoi. E Fifin’? Una pupetta che sapeva stare al posto suo e nessuno aveva mai avuto da dire nemmeno “a” sopra a lei. Diador’ aveva lasciato la scola, lui che vi era tanto portato, ma teneva un fisico così elegante che giovane giovane aveva cominciato a portare i tornesi in casa, dato che si era messo capasotto a imparare il mestiere di parrucchiere all’albergo diurno, pri-ma fuscendo ad accattare le fumose per le clienti più viziose e puliziando in terra, poi passando i bigodini ai lavoranti e facendo i primi sciampi e le prime tinture, venendo alla fine promosso ai tagli e alle permanenti. A dare un poco da pensare era Diopold’, ma risultava così simpatico, alle-gro e benvoluto che una strata buona l’avrebbe rintracciata certamente. Insomma, una famiglia onorata, di faticatori e di fèmmene corrette, se non fosse stato per quell’ossesso di ’uagnedda nata dopo la morte dell’attano suo stesso...

«Disgrazia della vita mia» si addolorava Donna Sabbedd’, asseduta sopra la branda, faccia in fronte al puffo dove si era accomodata Matalen’, facendo innanzi e ’ndreto col busto.

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«M’ha apportato lutto, disdetta e tribolazione dal primo mo-mento che ha mettuto la capa fuori da ’sta ventre. Maledetta quella dì». E con un soprassalto che la facette quasi scire all’andreto, contro il muro: «Ma un provvedimento l’ho da pigghiare. Non la faccio assire più di casa. Per un mese, per un anno: sempre ’ncasa accepponata a fare i servizi e a pig-ghiare mazzate ha da stare, fin’aqquando non s’addrizza. E se non s’addrizza, l’apporto dentro a un convento, la sbatto fuori di casa a fare la puttana, ma mo abbasta!»

All’improvviso il va-e-vieni del busto si bloccò e la faccia di Donna Sabbedd’ sbiancò. Un lampo le aveva illuminato il cervello e poi un tuono l’aveva fatto rimbombare: “E se avesse già fatto l’inguàcchio?”

Si pigliò fra le mani la capa, una capa piccinonna picci-nonna, le palme sopra il frontale e i dìsciti che praticamente avvolgevano tutti i capelli e le arrivavano sino a dreto, alla noce del collo, passando ai lati del tuppo. «E chi è ’sto ma-landrino? Magari non tene manco le lagrime per chiànge-re. Chi si pote pigghiare quella disgraziata? Un disgraziato morto di fame, senz’arte né parte. Uno sbulinato senza co-scienza. Un gagariddo senza sensi. Magari proprio il fìgghio di Cioladoro. Che disgrazia, che guaio, che iattura, che iet-tatura, che malaugurio, che sciagura, che tribolazione, che dolore!»

Man’a mano che faceva questo elenco di tipi di sventu-re, aveva alzato progressivamente la voce, sino a gridare. E quando oramai la sentivano pure dall’estramurale e pareva, più che una mamma accasciata, una gallina strozzata, capet-te che non ci stavano più parole da dire. Allora zompò dalla branda e scattò come una iena verso il punto della casa dove sapeva che stava Iangiuasandin’.

Matalen’, intanto, fatto il dovere suo di portarle quella sorta di malanova a Donna Sabbedd’, poteva alzarsi dal puf-fo e tornare alle sbarre di ghiaccio, permettendo a Ninett’ di tornare a fare la maiesta e a quella povera creatura di Damianucc’ di tornare fra i piccininni.

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Donna Sabbedd’ si precipitò dentro l’altra stanza, si lan-ciò sopra Iangiuasandin’, l’agguantò e la trascinò per i capel-li, gettandola in terra e pigliandola a stampate e schiaffoni, a raschi e mozzichi. «Checcosa accombinasti?» strillava, «brut-ta disgraziata, disonore della famìgghia. Ma io t’addrizzo a te. Un anno, dieci anni achiusa ’ncasa ti faccio stare».

Iangiuasandin’, superata la sorpresa, non sottostette più senza reagire. Tanto che, ad un certo punto, Donna Sabbedd’ pensò bene di allontanarsi in fretta e furia da quella belva ferita che rispondeva a tu per tu, colpo a colpo, mozzico a mozzico. «Oh Gesù, mo dà pure mazzate alla mamma» si lamentò, «ma lo dico a Diador’ stasera aqquando torna, statti sicura, e lui ti fasce nera nera. Gesù, Gesepp’ e Marì, ha alzato le mani sopr’a me! Un anno, dieci anni ’ncasa hai da stare, sin’aqquando non t’addrizzi». E chiudette la camera sbattendo la porta, a sentenziare che da quel momento co-minciavano clausura e tortura.

Serafin’, con le rècchie appizzute, aveva sgamato tutto mentre Matalen’ contava il fatto alla suocera. Due e due fanno quattro: Iangiuasandin’ aveva avuto a che fare certa-mente con Cilluzz’. Rimaneva un interrogativo: erano riu-sciti a fermarsi prima di combinare l’inguàcchio? Ma se non l’avevano ancora fatta, la frittata, quei due, pieni di salute e di pruriti com’erano, certamente stavano là là per rompere l’ova. Se non si stringeva mo, a favore di quel provolone di Cazzulìcchio, non si stringeva più.

Quando era scoppiata la discussione fra la suocera e la canata, Serafin’ non era intervenuta. Non tanto per discre-zione, figuriàmoci, quanto perché schiantata – sino a farsela sotto e a ricorrere alla tazza del cesso – prima dalla sfuriata della fèmmena fatta e poi dal furore della ’uagnedda. Ma, ripigliandosi, pensò che a questo punto il polipo si era cuci-nato dentro l’acqua sua stessa e che finalmente mo si poteva mettere in mezzo al giuoco Cazzulìcchio. E poi, bisognava pure cominciare a levare qualche bocca da sfamare da sopra la schiena di Diador’, altrimenti non si sarebbe mai deci-

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so, fesso e buono com’era e “accomandato a bacchetta dalla mamma”, a sposarsi e a lasciare la famiglia.

«Mamma Sabbedd’» dicette la nora, portando un bic-chiere d’acqua fresca alla suocera agitata e assedèndosi pure lei al tavolo della cucina, «io un pensiero fisso ce l’ho».

«Che pensiero, fìgghia mia bella?» domandò la suocera, con la bocca almeno un poco sciacquata da quel veleno ama-ro che le aveva fatto fare la figlia sbagliata avuta da ’Mba Iangiuasand’.

Risposta secca: «Cazzulìcchio». Reazione di Donna Sabbedd’: «Magari! Che bravo giova-

ne accreanzato, il fìgghio di Simin’ il Panettiere!» Sorridette per un attimo. Però la risa le si astutò subito sopra il muso: «Ma chi se la pìgghia più a quella disgraziata, dopo che è arrivato il quadro alla piazza dell’amoreggiamento di via Napoli?»

E Serafin’: «Facìtemi fare a me, signorì. Io sàccio accome parlare a Cazzulìcchio e a quella sciagurata di Iangiuasandin’. Non vi appreoccupate. Io ’sta cosa ve l’organizzo. E state tranquilla: Iangiuasandin’ è ancora sana... Io lo so... Facìtemi fare a me».

Dentro quelle giornate Iangiuasandin’ fu prigioniera in casa, senza potere assire manco per assedersi innanzi al por-tone, sopra il marciapiede, a mirare la gente che passava e a fare quattro chiacchiere almeno con la mogliera di Noffrin’ lo Stagnaro che contava sempre di quando erano emigrati in Francia e del figlio, che era rimasto là perché aveva messo le mani sopra una francese e non le aveva volute staccare più, sposandosela.

Che voglia che teneva Iangiuasandin’ di fargliela pagare a Cilluzz’ per quel paliatone che le aveva fatto. Sottosotto – ma questo lei, capatosta come una capra, non lo poteva capire – quel fulmine di violenza da un ’uagnone che aveva consi-derato sempre un quaquà, che era più piccinunno di lei, che aveva fatto le fetenzarie da meninno, che aveva vinto persino

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il pìccio di girare con un ciùccio e che le pareva proprio uno smidollato, non l’aveva lasciata indifferente. E poi, il ricordo di quelle mani che non volevano stare ferme, di quei vasi che pareva volessero surchiarle la carne, di quell’agitazione fra le gambe sue, sue proprie e sue di Cilluzz’... Non l’aveva mai sentito prima di allora quella sorta di capitone che ad un certo punto quello screanzato le aveva premuto contro il ventre. Solo qualche parola qua e là, per strata: «Vieni qua, che ti do il capitone fuori stagione!», «E la banana, t’appiace la banana?», «Che stai stanca? appòggiati a ’sto bastone!»... Iangiuasandin’ continuava ancora a sentirselo il capitone di Cilluzz’. Si scoprette a ricordarselo esatto esatto – una punta in pressione che più lui premeva, più sciuava a destra e a si-nistra – e ad avere la curiosità, chiamiamola così, di fermar-glielo, di stringerglielo con una mano. Insomma, di sentire con i dìsciti almeno una volta com’era fatta quella benedetta spada di fuoco che tengono i mascuoni e che si dice che fa incendiare i pagliari delle fèmmene...

Serafin’ di Diador’ l’aveva intuito che Capatosta comin-ciava a sentire qualche prurito di quelli che non si posso-no sopportare senza grattarseli. Così, tra gli argomenti che sfruttò per convincerla a vedersi in casa qualche altra volta con Cazzulìcchio, mettette in mezzo pure un leggero accen-no allo strumento che quel bravo giovane, come tutti gli iùmmini, teneva tra le gambe, ovviamente sorvolando sopra alle dimensioni sue. E Capatosta era ancora troppo ingenua per mettere subito in collegamento i soprannoni con i difetti fisici nascosti dei cristiani.

«Nulla di ufficiale, nulla di impegnativo, sia chiaro» assi-curò Serafin’ a Iangiuasandin’: Cazzulìcchio sarebbe venuto qualche volta in casa, con la scusa di accompagnare Diador’. Una chiacchiaredda, un bicchierino di rosòlio e avrebbero potuto conoscersi meglio e, magari, piacersi.

“Che ci apperdo io?” pensò Iangiuasandin’. “Cazzulìcchio non lo vògghio e non vògghio manco Cilluzz’. Achiusa ’nca-

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sa sto e qualche chiacchiaredda con un ’uagnone è sempre mègghio di nulla”.

Cazzulìcchio era un giovane quadrato, né smidollato né sparafucile. Era benvoluto da tutti. Giudizioso, sempre zitto-zitto, faceva i fatti. Stava pigliando la mano dentro il forno di papà. Da piccinonna, Iangiuasandin’ era stata spedita qual-che volta da loro, in via Princip’Amedé, ad accattare la car-bonella per il braciere o una rota di pane. Da Simin’ Donna Sabbedd’ mandava sempre a còcere la tiella di patate, riso e cozze, il calzone di cipolla e, di Pasqua, le scarcelle a forma di cestino o di galluccio a uno, due, tre o quattr’ova a seconda della vicinanza di parentela dei piccininni che le avrebbero ricevute. Per il tredici giugno, portava a fare da Simin’ pure il pane di Sand’Andonio, per i poveriddi e i morti di fame: la massa la teneva a crescere mezza giornata sotto l’imbottita, ai piedi del letto. A trombare il pane sopra la tavola ci pensa-vano Donna Sabbedd’ e Bellònia. Di schicchiatiddi ai quali dare qualche lira per portare da Simin’ la tiella con la massa intrecciata erano piene le strate. A distribuirlo, poi, ci pensa-vano i piccininni vestiti da Sand’Andonio, con la tonaca e il cappuccio marrone, il cordoncino bianco alla vita e la capa rapata a carosello.

Poi Simin’ aveva alzato il passo: e da Simin’ il Fornaro era diventato, dentro il giro di qualche anno, Simin’ il Panettiere. Voleva diventare, un dì, Simin’ il Salumiere: ma ci sarebbero voluti ancora sacrifici, tornesi e rischi. E poi, chissà, forse non lo sarebbe mai diventato. In compenso avrebbe prepa-rato il terreno a Cazzulìcchio, che sarebbe potuto diventare, lui sì, Cazzulìcchio il Salumiere.

“Nulla di che” pensava Iangiuasandin’. “Sì, è bravo, ri-spettoso, sta sempre al posto suo, non alza mai la voce, tutti dicono che è bellofatto e in effetti è squarciato di schiena accome a Sansone contro i filistei, tene la vocca carnosa e i mustazzi accome a quelli della bonanima di papà, giusta la fotografia che sta sopr’al comò di mamma col lumino appic-ciato... Ma a me non m’appiace. Non mi dice nulla, è scon-

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zato, sciapito. E poi, checcosa vògghiono da me? Io so’ una ’uagnedda e mi vògghio addivertire. Che me ne freca a me di Cazzulìcchio, per non parlare di quel puerco delinquente di Cilluzz’? Ah, che teneva ’ncorpo! Dare mazzate a me! A me non mi dà mazzate manco Diador’, che è l’òmmeno di casa. E mamma, che ci ha provato, se n’è pentita. Nisciuno mi ha da tuccuare a me!”

E se ne stava cocciuta dentro la clausura. Con la mam-ma non parlava e Diador’ non le parlava. Bellònia le dava voce solo per ricordarle gli sbagli che faceva e che avrebbe pagato amaramente dentro la vita, e il dolore che dava alla mamma, che proprio non se lo meritava. Scangiava qualche bongiorno con Diopold’, che mo stava sempre fuori di casa a faticare dal barbiere o con gli amici e tornava a casa esclusi-vamente per mangiare, dormire e dare alla mamma le regalìe dei clienti. Iangiuasandin’ si confidava solo con Fifin’, la sora buona, e del resto lei, quella zittazitta di Fifin’, si confidava solo con Iangiuasandin’.

Quante chiacchiaredde, dentro il mese di clausura, fra le due figlie piccinonne di Donna Sabbedd’. Fifin’ capette den-tro quei trenta dì che Iangiuasandin’ non voleva bene e non voleva male a nessuno, e che ce l’aveva solo con la mamma e con Cilluzz’, per le prepotenze sopportate. E Iangiuasandin’ era venuta a sapere che quella fricamidolce di Fifin’, senza dìre nulla a nessuno, teneva il zito: Tatucc’, un maestro di scola, figlio naturale di un tappezziere.

«Loiàcono? Ma che, è parente di Martemè delle cozze? Pure loro s’acchiàmano Loiàcono, vèneno da Barivecchia» s’incuriosette Iangiuasandin’.

Fifin’ rispondette che no, non erano parenti. Lei glie-lo aveva domandato a Tatucc’, quando ne aveva saputo il cognome, ma lui aveva risposto che manco lo conosceva a Martemè e che la mamma, dalla quale aveva pigliato il co-gnome, era originaria della provincia di Lecce.

«Che stranezza» annotò Iangiuasandin’, divertita: «se per caso io mi fossi apparolata con Cilluzz’, potevamo avere lo

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stesso cognome sia da signorine che da maritate. E i due iùmmini non si acconòscono nemmeno. E poi Bellònia non si è mettuta con Gamidd’, che s’acchiama Buonvino, accome alla bonanima di papà e accome a tutti noi? Doppia stranezza. Chissà cosa vole dire. Ma tanto: fra me e quel puerco di Cilluzz’ non ci sta nulla. E affinìscono le stranezze apprima ancora di nascere».

Dunque, la mamma di Tatucc’ era solo la commara del tappezziere, che però ad un certo punto, dopo dieci anni di doppia vita, di doppia casa e di doppia famiglia, non ce l’aveva fatta più e aveva salutato la mogliera legittima per venire a starsene con la commara, che oramai gli aveva figlia-to tre creature. Nessuno aveva mai visto questo maestro di scola in via Mirenghi, nessuno conosceva i parenti suoi, che abitavano lontano, in fondo a via Calefati, verso il centro. Chissà come aveva fatto a conoscere Tatucc’ e come faceva a frequentarlo quella sottosotto di Fifin’...

“Io so’ una ’uagnedda e mi vògghio addivertire” si ripete-va Iangiuasandin’.

Ma, aspettando di potersi divertire come voleva lei, ac-cettò di vedersi con Cazzulìcchio. E permetteva che le chiacchiaredde senza importanza che facevano quando ve-niva in casa gli facessero nascere dentro il core una speranza che, bicchierino dopo bicchierino, diventava convinzione. Donna Sabbedd’ si faceva il segno della croce all’ammerso, per la sorpresa e per augurio. Serafin’ l’aveva convinta ad allargare, dì dopo dì, le maglie della clausura. Mo per gli gnomeriddi, mo per la merosca, mo per i fichi d’India, i due ’uagnuni – sempre accompagnati da Serafin’ e Diador’ o da Serafin’ da sola – ogni tanto si facevano pure una caminata di qualche stratone.

E Cilluzz’? Più volte l’aveva visto, dal balcone, appostato allo spunto della strata, insieme ad altri tre o quattro cacam-merda come lui, a giocare allo stecchino con i fichi d’India. Lei subito indietreggiava e poi veniva a sapere da Fifin’ che

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il fico con lo stecchino finiva sempre in bocca a lui e che quindi a pagare per tutti i fichi d’India toccava sempre a lui, giacché gli altri per aggabbarlo approfittavano del fatto che Cilluzz’ teneva sempre la capa voltata verso il balcone loro.

Tre o quattro volte stava per succedere il quarantotto o il novantanove: lei e Cazzulìcchio, insieme a Serafin’, che si palleggiavano in bocca uno gnomeriddo bollente per farselo squagliare un poco, masticarlo appena e poi lasciarselo sciua-re dentro il cannarile prima che si raffreddasse, e Cilluzz’ che con la caminata a gambe larghe e a piedi piatti si riconosceva a un chilometro di distanza. La prima a vederlo era sempre quella gattamorta di Serafin’, che a quel punto faceva di tut-to perché, a buono a buono, cangiassero strata o perlome-no direzione, e perché Iangiuasandin’ non si avvertisse della vera ragione dei capricci suoi. «Giramo da qua» pretendeva improvvisamente Serafin’. Oppure: «Abbasta, mi so’ stan-cata d’accaminare, tornamo ’ndreto». Ma se Serafin’ teneva le antenne, Iangiuasandin’, piccinonna e buona, le teneva doppie. Faceva finta di non capire e di sottomettersi, accet-tando la stretta di braccio e seguendo il passo di Serafin’. Lei gli dava però un’occhiata di sfusciuta a Cilluzz’ – appena il tempo per convincersi che quella faccia rossa di natura era diventata bianca bianca dalla disperazione perché lei non lo voleva e lui non sapeva dove sbattere la capa – e seguiva Serafin’. E dreto a lei veniva quel tòtaro di Cazzulìcchio, che non sapeva nulla e non si avvertiva di nulla. Era proprio un buono. E sopra il muso di Iangiuasandin’ si disegnava una smorfia di soddisfazione (“Cilluzz’ sta soffrendo accome a un puerco acciso perché vede che a me non me ne freca nulla di lui”) che Cazzulìcchio scangiava per altro: soddisfazione per lo gnomeriddo e per il mezzo apparolamento.

La prima a parlare di apparolamento fu naturalmen-te Serafin’. Lo dicette, sottovoce, a Donna Sabbedd’. Convincette con una parola Diador’. L’ultimo a saperlo, fra quelli che avevano da saperlo, fu Cazzulìcchio. Ma Serafin’ conosceva i pesci suoi: lui non aspettava altro, anzi era con-

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vinto da tempo che il frutto fosse oramai maturo, da co-gliere, ma per rispetto non l’aveva detto sinora a Serafin’, che il fatto aveva inventato e che la barca l’avrebbe saputa certamente menare dentro il porto.

Iangiuasandin’, lei, non aveva da sapere nulla fino all’ulti-mo momento. Ma Serafin’ era sicura che si sarebbe piegata, forse pure volentieri. Non lo dicette a Donna Sabbedd’ né a Diador’, per non dare loro un dispiacere e per delicatezza, ma pensava sinceramente che Iangiuasandin’ avrebbe accet-tato almeno per due motivi: perché non vedeva l’ora di fu-scìrsene dal dominio della mamma e perché voleva sentire bene di màscuo.

A Fifin’ contarono il minimo indispensabile, perché avrebbe potuto riportare tutto alla sora preferita, eppure aveva da essere proprio Fifin’ a capire quale anello di apparo-lamento piacesse a Iangiuasandin’ («Capatosta è accapace di far zompare pure il matrimonio per un pìccio» temeva quel-la sputasentenze di Serafin’). Aveva da farselo dire passando insieme a lei “casualmente” innanzi alla vetrina di Chiarin’ degli Aniddi.

A Cazzulìcchio, a Simin’ e alla mogliera non era stato precisato che si trattava di pigliare Iangiuasandin’ all’infame, che cioè per quel sabato alla ’uagnedda era stato prepara-to un bel piattino: un apparolamento vero e proprio, con Cazzulìcchio e i suoceri a mangiare in casa e con l’anello infilato all’anulare, senza leggere e scrivere, tra il cafè e il rosòlio.

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il dispetto

Quel giovedì, a seranotte, si decidette il destino di Iangiuasandin’, che chiaramente perdette il diritto alla “in” finale e da là in poi fu chiamata da tutti giustogiusto come l’attano suo, praticamente alla maschile, Iangiuasand’ (e cioè “angelo santo”, a dispetto della mamma e di tutti quelli che dicevano che era invece un diavolo assatanato).

Dentro la camera delle due ’uagnedde piccinonne era rimasto appicciato solo il lumino sotto la figurina dei santi medici Cosma e Damian’ di Bitonto. Fifin’ invitò Iangiuasandin’, che dormiva nella stessa branda ma dalla parte opposta, a venirsi a mettere affianco a lei, a capitale: «No, non per la puzza dei piedi ma per stare ’nsieme» preci-sò (quando Iangiuasandin’ aveva lasciato con le gambe sue la naca, salendo sopra il letto delle sore dentro il tinello e in-filandosi allegra allegra fra le gambe di Fifin’, Bellònia si era trasferita dalla mamma, dentro la camera da letto, mentre i due màscui continuarono a dormire sopra due letticeddi, all’entrata).

E le due sore s’infilarono insieme dalla stessa banda del lettino, come quand’erano piccinonne piccinonne, teneva-no pavura dello scuro e si facevano coraggio l’una con l’altra, manina dentro la manina, trattenendo la risa dentro il can-narile e dentro gli occhi, finché non si abbrazzàvano strette strette e pigliavano finalmente sonno...

Dalla camera da letto non si sentiva più nulla: Donna Sabbedd’ e Bellònia avevano finito di accordarsi sopra il cheffare domani, la spesa, la cucina e chissà sopra checcos’al-tro. La porta col vetro ghiacciato era chiusa, cioè accostata perché da tempo non funzionava la maniglia, che poi non si capiva a checcosa potesse servire. Il tinello era diviso dall’en-trata con un tramezzo, che si fermava a un metro dalla volta. Così dentro il tinello, durante il dì, arrivava la luce della

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cucina attraverso l’ingresso, ma di notte non c’era nulla che impedisse alle chiacchiaredde e alla risa delle due figlie pic-cinonne di Donna Sabbedd’ di arrivare alle rècchie dei due màscui.

Nessun problema per Diador’ o da Diador’: quando tor-nava con una giornata di fatica sopra la schiena dalla casa di Serafin’ (ora mangiava a casa sua la sera), il frate grande si gettava sopra la branda, qualche volta senza manco spogliar-si, e dalli a dormire. Se era particolarmente stanco e strut-to grufuava, ma quelle due era come se non lo sentissero. Ridevano, chiacchieravano, si abbrazzàvano e dormivano.

Qualche problema lo creava Diopold’, che quasi sem-pre tornava pure lui dopo che le fèmmene si erano coricate. Tanto per cominciare, tizzuava e bisognava alzarsi per scirgli ad aprire. Tizzuava piano piano per non discetare la mamma né, se per caso si fosse già ritirato, Diador’, l’unico insieme a Donna Sabbedd’ ad avere possesso della chiave di casa.

Prima, Diopold’ rincasava sempre tardi. Ma Diador’ ve-niva montato contro di lui da Donna Sabbedd’ e ancora di più da Bellònia, che pretendevano che il ’uagnone si ritirasse a un’ora più da cristiani evitando brutte compagnie e occa-sioni pericolose. Ne aveva sopportato di grida e di mazzate Diopold’, sino a quando una volta reagette Era oramai di-ventato un ominìcchio, cominciava a portare i primi soldi a casa e rispondette con le mani a Diador’. Non si sa se per una spinta del frate minore o se per una sciuata casuale, certo è che ad un dato momento della discussione il frate maggiore finette in terra. Stava per succedere una tragedia. Diador’ capette che, se non reagiva a dovere, Diopold’ gli pigliava le misure e lui lo perdeva di mano per sempre, e Diopold’ dalla banda sua intuette che mo poteva nascere un secondo òm-meno in casa. Se Diador’, rialzandosi, avesse fatto magari il sostenuto ma sostanzialmente non avesse reagito, allora era fatta: da quel momento in poi si sarebbero dovuti rispettare l’uno con l’altro, quasi come due pari. Ma se quello, essendo il màscuo grande della casa, avesse deciso di fare il màscuo

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grande, allora erano guai. Se Diador’ si fosse quindi gettato sopra a lui per dargli una lezione, per rimetterlo al posto suo pure con un solo boffettone, checcosa avrebbe dovuto fare Diopold’? Se, zitto e buono, se lo fosse tenuto il boffettone o se si fosse limitato a scansarlo e ad arretrare con la coda tra le gambe, a Diador’ sarebbe stato ratificato il potere assoluto dentro quella casa, messo in discussione solo per qualche secondo (il tempo della sciuata).

Diopold’ quella sera non se la sentiva però d’indietreg-giare, di abbasciare la capa ancora una volta come se fosse un meninno di quattro mesi, e sopra la bilancia bisognava pure mettere che mo era come una belva che aveva sentito, diciamo così, l’addore del sangue. Epperò, checcosa sarebbe successo se avesse contraccangiato cazzotto con cazzotto? Si sarebbero fermati ai cazzotti o ad un certo punto, visto che quando arriva il sangue agli occhi non si capisce più nulla, uno dei due si sarebbe precipitato dentro la cucina per ac-ciuffare un coltello?

Le fèmmene indovinarono avvolo checcosa stava a scop-piare dentro quelle due cape màscue e si ficcarono in mezzo. Donna Sabbedd’ e Bellònia aiutarono Diador’ a rialzarsi, im-briacàndolo di chiacchiere, di comprensione e di conferma della posizione sua di “òmmeno di casa”, accompagnandolo dentro la cucina per servigli un bicchiere di acqua e pregan-dolo di compiatirlo quello scapecerrato del frate minore che era ancora un ’uagnone senza la responsabilità e le preoccu-pazioni che teneva invece lui. E pure Fifin’ e Iangiuasandin’ facèttero la parte loro, trascinandosi Diopold’ vicino alla branda del tinello, agguantandolo una con un braccio e una con l’altro, e accarezzandogli le mani che tremuàvano tutte per la ràggia.

Quante chiacchiere e, dopo, passato il pericolo, quanta risa quella sera. Ma, da allora in poi, Diador’ non reagette più ai ritardi di Diopold’: o era lui ad arrivare più tardi o, rientrando prima, dormiva o faceva finta di dormire quando sentiva rincasare il frate più giovane...

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Ma non ci stava solo da scirgli ad aprire a quel còmodo-còmodo di Diopold’, quando decideva di ritirarsi, la sera. Bisognava pure starselo a sentire che faceva rumori den-tro la cucina, si ricoceva e si mangiava – appizzicati sotto, grattandoli dal fondo della cazzarola – i mezziziti avanzati a mezzodì, si scolava un paio di bicchieri di miero e acqua, sciacquava e s’inghiottiva a bocconi grossi una pera spadona, e si chiudeva dentro il cesso a fare i fatti suoi (se ci stava già Diador’, non scaricava, per non discetarlo: tanto la prima ad alzarsi la matina era sempre Donna Sabbedd’, che avreb-be capito e scaricato lei). Finalmente, caminando scalzato per non fare rumore, senza nemmeno respirare, s’infilava dentro il letto, tirando un lungo sospiro di sollievo. Ma poi mica dormiva subito, quello scapestrato di Diopold’. Fifin’ e Iangiuasandin’ erano sicure che lui rimaneva con le rècchie appizzute per capire tutto quello che loro si dicevano a mez-za voce e che pigliava sonno solo dopo che stavano zitte e non c’erano più segreti da rubare. E la risa un poco sfottente che Diopold’ teneva sopra la faccia ogni matina – o almeno così pareva a loro – le convinceva che in effetti quell’intri-gante aveva sentito tutte le chiacchiaredde che si erano fatte la sera prima...

«Che, tieni pavura stasera?» domandò Iangiuasandin’, portandosi dai piedi a capitale del letto e mettendosi sotto la coperta dalla banda di Fifin’.

«No, non tengo nulla, ma ti ho d’acconfidare una cosa...» Diador’ grufuava e quindi non avrebbe sentito niente e nes-suno, ma Fifin’ non aveva mai parlato così a bassa voce. «...Iangiuasandin’, ti stanno a fare un tradimento» soffiò Fifin’ dentro la rècchia della sora, mentre la stringeva, quasi a di-fenderla fisicamente dal pericolo. «Ti vògghiono far apparo-lare con Cazzulìcchio senza dirti nulla, mettendoti ’nnan-zi al piatto pronto. Ha organizzato tutto quella strega di Serafin’. Mamma s’è fatta solo acconvìncere. Tutto è stato appreparato per dopodomani, perciò vèneno a mangiare da

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noi Simin’ il Panettiere e la mogghiera. M’hanno mettuta in mezzo pure a me: domani ti ho da far appassare ’nnanzi alla vetrina di Chiarin’ degli Aniddi e farti dire quale aniddo t’appiace di più, così loro l’accàttano, ti fàsceno contenta e tu t’apparoli».

Iangiuasandin’ si sentette pugnalata alle schiena. E re-agette alla maniera sua, senza riflettere: «Questo, mamma e Serafin’ me l’appàgano. Sàccio io accome me l’appàga-no: loro non vògghiono che io mi metto con Cilluzz’? e io Cilluzz’ mi pìgghio!»

Fifin’, preoccupata, obiettò: «Pigghiarti quel fessacchiot-to di Cilluzz’? Ma se non t’appiace nemmeno. Che, per fare uno sfregio a mamma t’arruini per tutta la vita?»

Capatosta non ci vedeva dal desiderio di vendetta e di dispetto: «Sàccio io le cose mie. Sàccio più di te di Cilluzz’: è pure peggio di quello che pare. Ma mamma me l’ha d’appa-gare. Ce lo dò io Cazzulìcchio, a lei e a quell’imbrogghiona di Serafin’. Se io mi pìgghio Cilluzz’, mamma schiatta. E io la vògghio fare schiattare. Lei sopr’a me non accomanda. So’ io che accomando sopr’a me».

Quel giovedì notte Iangiuasandin’ definette – natural-mente senza riflettere, ma d’istinto – tutta la vita sua. Pigliò una decisione, per dispetto e per sfregio, che ne segnò tutta l’esistenza.

Il venerdì matina Donna Sabbedd’ concedette il permes-so alla figlia snaturata di assire con Fifin’: avrebbero fatto due passi insieme fino a Simin’ per pigliare la carbonella e un po’ di cinigia, e potevano approfittarne per accattare dal formag-giaro qualcheccosa di dolce. Iangiuasandin’ per prima cosa ci tenette, così, “per curiosità”, a passare comunque innanzi alla vetrina di Chiarin’. Capò subito il “suo” gioiello di appa-rolamento e lo segnalò a Fifin’: una specie di serpente tutto intortigliato sino a fare una capa d’anello d’oro massiccio. Ma, poi, tanto costringette Fifin’ a fare innanzi e ’ndreto, tagliando due, tre, quattro volte via Modugno, che alla fine

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si facette “scoprire” e pedinare da Cilluzz’, che dopo un paio di stratoni, non avvertendosi di essere cacciato e credendo di cacciare, affrontò faccia a faccia Iangiuasandin’.

«Ma potimo accontinuare accosì?» le dicette accorato. «Io abbrùscio dalla passione per te, per te faccio il matto e tu scompari dalla circolazione e, quando mi vedi, fusci!»

«Abbrùsci dalla passione? Fasci il matto? M’aqquando mai?» facette finta di scendere dalle nuvole lei, babbuàndolo. «Apprima mi fasci quello che mi facesti e poi hai pavura pure d’affrontarmi. E chi ti dice che non mi è appiaciuto? Sei pro-prio un piccininno... che non accapisce i segreti dell’anima di una donna».

«M’accome ho da fare con te? Se tu non mi vuoi...»«La verità è che tu sei uno scocchiato, tutto voccavocca e

nulla fatti. Un malimparato senza sangue. Sei buono solo a fare il capuzzillo, ad alzare le mani sopr’alle ’uagnedde. Ma mi dicesti mai: Iangiuasandin’, pigghiamo e fuscimo, dato che màmmeta non mi vole? Mai!»

«Ma te lo potevo dire? Aqquando te lo avevo da dire?» tentava di controbattere lui, sconcertato.

«Pure ieri, pure mo».A questo punto Cilluzz’, pescato, avette subito la sen-

sazione di averla dentro la rete e dicette, con uno slancio istantaneo, quasi non credendo alla propria determinazione ma con la convinzione di chi si ritiene messo senza preavviso innanzi all’occasione della vita: «Te lo dico mo: vuoi fuscire con me?»

«Aqquando? Accome?» rispondette lei immediatamente, senza manco dargli il tempo di riflettere sopra quello che stava a succedere.

«Pure domani sera?» azzardò lui.«E perché no stanotte?» lo smontò lei, con una smorfia

all’Alida Valli che mai aveva fatto e mai più avrebbe fatto così bene (lo dicevano tutti che assomigliava a quella sorta di fèmmena e di artista che faceva scire in pappa-di-lino iùm-mini importantissimi ai quali capitava la fortuna e il guaio

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d’intravvedere solo per una volta quegli occhi e quella bocca, e pure lei ne era ormai convinta avendola vista, una volta, con Eduardo, Peppino e Titina De Filippo ne L’amor mio non muore).

«Stanotte, a mezzanotte, sto sotto a casa tua, tu scendi e ce ne fuscimo». L’òmmeno pigliava in mano la situazione.

«...Ma addo’ pensi d’apportarmi? Tieni un posto per an-nascònderci?» Iangiuasandin’ per un momento pensò, con un poco di sconcerto, che non conosceva nulla di quell’òm-meno, nulla della vita sua, nulla del carattere intimo suo. Eppure stava a mettere la vita propria dentro quelle mani. Ma fu solo un momento. Capatosta era tutta un dispetto.

«Ti porto addo’ sàccio io, attocca a me organizzare la cosa. Tu non ammangiarti la capa. Abbasta che sei puntuale: a mezzanotte esatta esatta, allo spunto di via Mirenghi con via Modugno» concludette Cilluzz’ e, senza nemmeno salu-tare, scomparette per scìrsene chissà dove a organizzarsi.

Pure Fifin’ era stata pigliata alla sprovvista da quell’ira-diddio della sora. Manco il tempo di assire di casa e di farsi agganciare da quella pellepulita di Cilluzz’, manco il tempo di farlo respirare quello scapocchione ed ecco che quella fa-fuoco di Iangiuasandin’, con due battute di quelle sue – non più di due – aveva già provveduto a tutto per fuscìrsene di casa, nientedimeno che quella seranotte stessa. E con chi poi? Con un òmmeno sistemato, patrone della vita sua stes-sa? o con un giovane bellofatto e volenteroso, che si avviasse a diventare patrone della vita sua stessa? No, proprio con quello spatriato senza arte e senza sensi, invece, che passava tutta la giornata caminando con le mani dentro le palde dei calzoni e un palìcchio fra i denti come un guappo di car-tone, e che pareva addirittura orgoglioso di quei piedi alle dieci-e-dieci che lo facevano letteralmente spostare, a ogni passo, mo a destra e mo a sinistra, mo a destra e mo a sini-stra, come un pupazzo.

E con questo movimento ridicoloso, che lo faceva com-piatire dalle fèmmene sensate ma che lui era convinto faces-

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se scire in pappa-di-lino le femmenedde che lo miravano e ridevano sottosotto tra loro, si girava una decina di volte al dì corso Vittorio Emanuele, corso Càvur (noi lo chiamiamo così) e via Sparano. Al primo giro, venendo da casa, cor-so Vittorio Emanuele naturalmente se lo faceva tutto tutto, lasciando il giardino Garibaldi, passando senza degnare di un’occhiata il palazzo veneziano (a quell’altezza, lo incurio-sivano di più le fotografie degli sponsalizi esposte da Foto Ficarelli), più in là facendo una smorfia verso la statua di Niccolò Piccinni, informandosi dell’ora all’orologio del pa-lazzo rosso del Governo, leggendosi tutte le locandine del Teatro Piccinni e poi continuando dritto sino alla fine del Corso. Là si fermava un poco, allumava attorno sempre con le mani dentro le palde, spostava con la lingua il palìcchio da una banda all’altra della bocca, si leggeva ogni volta la lapide sopra la casa dove il 24 aprile del 1813 Gioacchino Murat piazzò “la prima pietra di un borgo che gli abitanti di Bari si propongono di edificare per supplire all’insufficienza di una città che si accresce tutti i giorni”, un’occhiata al mercato all’ingrosso del pesce, una sputazza in terra e poi girava a destra e si faceva sotto gli alberi tre quarti di corso Càvur – mangiandosi un panzarotto al Gran Caffè Italia – sino a via Dante. Qua girava a destra e incrociava via Sparano, e da qua, a destra, sino a rincrociare corso Vittorio Emanuele. E ricominciava il giro, sempre quello, per tutta la serata, per tutti i dì...

Fifin’ era rimasta senza parole, trasecolata. L’ultima cosa che avrebbe potuto fare era mettersi in mezzo a quei due e tentare di farli ragionare. Farli ragionare! La sora non era certo il tipo da furia francese e ritirata spagnola. Quando attaccava non si fermava più, manco se sapeva che poi si sa-rebbe spaccata la capa, anzi manco quando se l’era già spac-cata. Lui sì, si sgamava a occhio il tipo: sapeva checcos’erano la pavura, l’indecisione e la marcia all’andreto. Ma Fifin’ lo vedeva com’era ridotto: con gli occhi fissi dentro gli occhi

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di Iangiuasandin’, ipnotizzato, affatturato, completamente dominato da quella capa-di-pippo.

Fricamidolce con tutti meno che con la sora piccinonna, Fifin’ pensò che Iangiuasandin’ stava proprio a combinare un guaio grosso quanto una montagna, ma la vedeva dentro uno di quei momenti suoi che non ci stava verso di farla tornare ’ndreto o pure solo di farla stare ferma. Ripigliò fia-to solo dopo che Cilluzz’ si era levato dalla circolazione con quella caminata sua da pupazzo, e le dicette, però sconsolata e rassegnata: «Ti rendi conto di quello che stai per fare? Ti vuoi arruinare per tutta la vita».

Oramai Iangiuasandin’, avendo peraltro manovrato come voleva e portato dove voleva Cilluzz’, che l’ultima vol-ta si era permesso addirittura di metterle le mani addosso, pregustava il dispetto contro la mamma: «Lei mi vole dare Cazzulìcchio? E io mi pìgghio Cilluzz’. Ci faccio avvedere io se mi faccio accomandare da lei...»

Quella notte le batteva il core a Iangiuasandin’. Batteva forte forte pure a Fifin’. Le ’uagnedde si meravigliavano che il frastuono della emozione loro non discetasse Diador’ né Diopold’, ma i frati quella sera parevano proprio cotti, spro-fondati dentro un sonno dal quale non li avrebbero tirati fuori manco le cannonate. E per un momento, solo per un momento, Iangiuasandin’ avette la sensazione – mentre si rivestiva, mentre vedeva Fifin’ trattenere i singhiozzi, mentre arrivava alla porta, l’apriva adàscio adàscio e l’accostava – avette la sensazione che dentro uno spigolo dell’anima sua o della capa sua o delle viscere sue in agitazione volesse pigliare aria la speranza che Diador’ o almeno Diopold’, quel fesso, che stava sempre discetato sino a tardi e che proprio quella notte era subito crollato, che uno dei due insomma si disce-tasse e la scoprisse, mazziàndola e bloccandola in casa.

Ma fu solo un momento, una sensazione. Il dispetto l’ave-va fatta diventare leggera leggera come una piuma, la molla della branda non si lamentò come pure faceva ogni volta che

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una vi si gettava sopra o vi si alzava, i vestiti non facèttero il minimo fruscìo, Fifin’ chiangeva per la prima volta zittazit-ta dentro la vita sua, le fangose non le sfuscèttero di mano mentre se le infilava (quante volte le erano sfusciute!), Fifin’ li trattenette proprio i singhiozzi quando si abbrazzàrono e vasàrono “per l’ultima volta”, Diador’ e Diopold’ non si mo-vèttero nemmeno quando Fifin’ avette l’impressione di avere fatto apposta un poco di rumore con la porta che divideva la stanza loro dal corridoio con i due letti dei frati. E, quando Iangiuasandin’ tirò il ferro alla porta di casa, le parette come se uno ci avesse messo il grasso appena da qualche minuto, per la velocità e soprattutto per la silenziosità con cui cedette sotto la pressione dei dìsciti.

Fatto sta che, ad un certo punto, quella disgraziata si sor-prendette fuori dal mondo suo di sempre, scendette veloce-mente la scala che portava dal pianerottolo di casa al piano-terra, facette quei dieci passi verso il portone spiando all’an-dreto verso la porta di Noffrin’ lo Stagnaro, si bloccò un momento sopra la soglia della casa costruita da quel gigante dell’attano suo che non aveva mai conosciuto e che aveva sempre creduto, chissà perché, essere morto per colpa sua, e s’incaminò dolce dolce verso le due sagome – una delle quali era certamente quella di Cilluzz’ – che aveva intravvisto allo spunto con via Modugno, vicino a una carrozza.

A metà strata fra il portone di casa e la carrozza che l’avrebbe portata chissà dove, sentette dreto la schiena il rumore di qualche uno che veniva di corsa verso di lei. Si girò di scatto e vedette Fifin’, che infatti si precipitava da lei. Pensò – o sperò? – d’un tratto che la mamma o i frati aves-sero smagato tutto, che magari Fifin’ avesse fatto l’infame e li avesse discetati. Si facette agguantare.

«Checcosa assuccede? Facesti l’infamona?» la rimproverò Iangiuasandin’, cercando di parere ammolata.

«No, no» diceva Fifin’ tra le lagrime.«Se ne so’ avvertiti? Sta a scendere Diopold’ per venirni

ad acciuffare?»

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«No, no» chiangeva disperata Fifin’.«Si sta avvestendo Diador’, per piombare abbàscio, pig-

ghiarmi per la cima dei capiddi e arriportarmi a casa?»«No, no».«Bellònia si è avvertita di tutto e li sta discetando a tut-

ti?»«No, no».«Mamma sta a venire abbàscio col battipanni?»«No, no».«E allora, perché scendesti?» concludette Iangiuasandin’,

che si lasciò sfuscire uno scatto di delusione. Ma si ripigliò subito: «...Vuoi fare scoprire tutto? Non avvedi che quei due ci stanno già? Checcosa vuoi?»

«Iangiuasandin’, torn’a casa, stai ancora in tempo» ten-tava di dire senza convinzione fra le lagrime e i singhiozzi Fifin’.

«Non ci penso proprio! Loro mi vògghiono obbligare ad apparolarmi con Cazzulìcchio e io li freco. Mi pìgghio chi vògghio io» rispondette Iangiuasandin’, spingendo la sora verso casa e riflettendo che aveva da parere ben decisa se, nemmeno dentro questo momento, Fifin’ si faceva pure lontanamente sfiorare dal pensiero di poterla effettivamente trattenere e convincerla a tornare.

Erano mo, tutt’e due, sopra la soglia del portone. I due iùmmini, dallo spunto, facevano segnali sempre più agitati. E ad un certo punto, zompando come un pupazzo, Cilluzz’ le raggiungette, praticamente le spartette, pigliò per un brac-cio la zita (che mo tale stava per diventare veramente) e, senza dire bongiorno o bonanotte, se la trascinò verso la car-rozza.

Fifin’ vedette “per l’ultima volta” la sora signorina che sali-va sopra la carrozza di Rocch’ il Calessiere (che di là a qualche anno sarebbe diventato Rocch’ il Tassista). Iangiuasandin’, un poco spinta per il culo da Cilluzz’, tenette sino all’ultimo la faccia rivolta verso di lei e verso la casa della vita sua.

La vita che finiva là, dentro quel momento.

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la prima notte

Quella prima notte, a casa di Zi’ Tares’ la Zoppa, Iangiuasandin’ la scordò subito. Sentette istintivamente che da quell’oppressione aveva da liberarsi senza pensarci manco un secondo, per non morire di disperazione e di crepacore. Che aveva da svincolarsene per spirito di sopravvivenza. E poi pure, più dolorosamente, per la necessità di fare posto agli altri incubi, alle angosce, ai pesi, agli affanni e allo scon-forto che dalla matina dopo, da quella stessa notte lunga e avvelenata, dì per dì, ora per ora, avrebbero preteso scorrot-tamente da lei – senza mai saziarsi – spazio, tempo, persino vitalità e, se si può dire, soddisfazione. Mangiàndosela ossa e tutte la vita sua, surchiàndosela come una sgravata si surchia un brodo di palumbo, avvolgendola interamente, esauren-dola e trasformandola in una valle di lagrime.

Non la “valle di lagrime” immaginaria che stava dentro le preghiere di una come Tarattè, ma quella vera dove, quan-do non chiangevi e non ti davano la razione giornaliera tua di mazzate, avevi da ringraziare il cielo e da vasare in ter-ra. E, quando non succedeva nulla, proprio questo avevi da affrettarti a ritenere ragione di contentezza. Iangiuasandin’ avrebbe continuato per tutta la vita ininterrottamente, inu-tilmente – animale ferito e condannato a morte – a tenta-re di dare un senso e una prospettiva alla propria esistenza come se tenesse una specie di febbre che le dava un calore e una frenesia a fare, a scire innanzi, a combattere, a piglia-re di petto nemici e furfanti, a farsi le cose da sola senza dipendere da nessuno, a non abbasciare mai la capa e anzi a partire in quarta al minimo segnale di cattiveria e di pre-potenza. Un’energia che chissà da dove le veniva a quella vasata-in-fronte-dalla-sfortuna: una forza misteriosa, senza forma e senza nome, segnata da una direzione oscura che lei, con il cervello appannato dall’incoscienza e dal risentimen-

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to, non avrebbe mai capito. Ammesso e non concesso che questa non sia, sottosotto, in definitiva, la direzione della vita di tutti quanti noi, che pure siamo capaci di darle tanti di quei nomi e tante di quelle forme, con la consapevolez-za nostra, la sensata capacità nostra di sopportazione e la fantasia nostra. Una direzione precisata esatta esatta da una specie di freccia, con la coda – per esempio – fra le chiome di oleandri e di pini del giardino Garibaldi e la punta centrata giusto giusto fra i due cipressi di entrata al camposanto di via Modugno...

Ma torniamo a quella seranotte in cui cominciò l’incubo che fu praticamente tutta la vita di Iangiuasand’, dopo che si era gettata alle spalle la condizione di signorina pulita e tesa, di ’uagnedda di buona famiglia.

Il cavallo si portò la carrozza di Rocch’ per via Modugno, verso il camposanto, ma senza arrivarvi. Duecento metri prima di quel giardino di consolazione e di arricreamento, svoltò a sinistra, attraversò i binari e poi la campagna di San Giorgio, campagna di fichi-fichi e di gelsi rossi, sino al cana-lone con le pareti piene di fichi d’India, lo costeggiò diciamo per un chilometro e poi imboccò al passo, senza fare tan-to rumore, una viottua di polvere e di pietrodde che faceva zig-e-zag tra baracche, case sfasciate, tettoie scafuate, tuguri, capanne, catapecchie, ricoveri improvvisati...

Per tutto il viaggio, i due ’uagnuni se n’erano stati as-seduti, l’uno faccia in fronte all’altra, a dieci centimetri di distanza, zitti zitti e immobili. Non una parola, non un la-gno, non un movimento. Cilluzz’ era livido, la capa calata, gli occhi fissati sopra il fondo della carrozza, completamente svacato d’intenzioni e di energia. Pareva rassegnato a quel-lo che stava succedendo, come se non fosse dipeso e non dipendesse da lui. E invece dentro Iangiuasandin’ si erano scatenati lampi e tuoni, combattuta com’era tra il dispetto e il disorientamento, fra la cocciutaggine e la sensazione della brutta piega che pigliava, mo, la vita sua proprio per colpa sua, della capa sua.

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Quando si decidette di spiarlo quel campione, per un momento, senza farsene avvertire, forse solo per curiosità, capette di essere trasportata chissà dove da qualche volontà sconosciuta, oscura, indecifrabile e forse inesistente: no, non era quell’òmmeno, quel ’uagnone rammollito e scoraggiato – lo intuiva precisamente dentro quel momento – che stava decidendo della vita loro. E allora? Chi aveva deliberato la fusciuta? E perché? E chi le avrebbe pigliate, d’allora in poi, tutte le altre decisioni che si pigliano quando si campa in due dentro la stessa casa? Chi avrebbe comandato? Lei no, perché era una fèmmena. Lui no, perché non pareva all’al-tezza di farlo. Chi allora, checcosa avrebbe guidato la vita loro? il cielo? il destino? il caso? E com’erano la vita e il caso fuori dal dominio di Donna Sabbedd’ e dal mondo delle chiacchiaredde con Fifin’?

Non avette però il tempo di darsi nemmeno una risposta, che è una, sbattuta come un polipo fra il desiderio di bru-sciare sino in fondo il dispetto alla mamma – affrontando tutto il rischio e il dolore inevitabili – e il desiderio di tor-nare a casa, per ricominciare tutto da capo. Ricominciare da capo? Se avesse potuto ricominciare da capo, checcosa avrebbe fatto? E chi lo sa? Due cose erano sicure e chiare: da una banda, con Cilluzz’, la mancanza assoluta di sentimenti e dall’altra, con Cazzulìcchio, la mancanza assoluta di pas-sione. E perché poi sbattere afforza da una banda all’altra? Tanto valeva la pena di starsene quieta a godersi la gioventù e poi, col tempo... Stava quasi per cominciare a ragionare, quando la carrozza si fermò. Fu stretta per un braccio da Cilluzz’ e forzata a scendere.

«Ma qua è Torre Tresca!» gridò Iangiuasandin’, appena mettette il piede in terra, sprofondando dentro la lota.

«E allora?» rispondette lui, senza convinzione, voltando imbarazzato gli occhi e il passo verso una baracca di mattoni e lamiere.

«Ué, che stai a fare l’indiano?» si dimenò Iangiuasandin’, gettando gli occhi scatesciati attorno attorno, a vedere tut-

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te quelle baracche e quella povertà, quella miseria e quella sporcizia, «qua è pieno di puttane, di ricottari e di borsaiuo-li. Vuoi che io non lo sàccio? Addo’ m’apportasti, disgrazia-to? È qua che s’apporta una ’uagnedda la prima notte? Ma checcosa tieni ’ncapa, la segatura? Appòrtami proprio mo, ma proprio momò, lontano da qua. Accome t’appermitti? Mica so’ una della razza tua, io!»

Fu dentro quel momento che Iangiuasandin’, mentre si allontanavano irreparabilmente i rumori degli zoccoli del ca-vallo e la carrozza di Rocch’, vedette per la prima volta Zi’ Tares’ la Zoppa. Anzi, conoscette prima la cattiveria e la forza delle braccia sue tutt’ossa. Non aveva finito di pronunziare la parola “razza” che uno spintone, da dreto, la gettò in terra, fra le pietre e la lota. Stava per rialzarsi, ma fu bloccata, tutta imbrattata, dal bastone che Zi’ Tares’ le aveva puntato alla base del collo, un poco sopra il petto, che ansimava tutto.

«Tu, da mo in poi, t’hai d’asciacquare la vocca con l’acito trenta volte apprima d’apparlare della razza nostra» intimò la sora grande di Martemè Cioladoro. «Io non sàccio esatta-mente se sei una fìgghia di zòccana o solo una povera sciac-quetta. Ma con me fili liscio, non si sgarra!» Quindi si voltò al nipote del core suo, che fissava con il terrore dentro gli occhi il bastone che lei roteava: «Io ero sicura e mo so’ stra-sicura: tu da ’sta signorinedda ti sei fatto affrecare. M’avivi da dare adenza a me, m’avivi da sentire, avivi d’allassarla per-dere a ’sta ’uagnonastra. Ma mo, la frittata è fatta. Perciò, mìttila apposto apprima che lei si mette a te sotto ai piedi. La mala dì s’avvede dalla mala matina. E mo, tutti dentro: i cazzi nostri non li avimo da fare assapere a tutti».

Iangiuasandin’ non vedette e non ricordò mai com’era fatta esattamente quella casa, da dentro. Vivette quella not-te, per istinto di sopravvivenza, praticamente senza vedere e senza pensare. C’era per tutta la casa, questo sì, la puzza propria delle vecchie che non si lavano da mesi, da anni. E fieti di pisciaturo, di merda e di sburro. Tares’ ai ziti dette il letto suo, che stava dentro la seconda camera: un buco di tre

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metri per tre, con una branda a una piazza e mezza, un comò senza specchio, una colonnetta, un lumino appicciato (Zi’ Tares’ sapeva che mai e poi mai il nipote avrebbe dormito allo scuro), una ballerina con la specchiera e, in uno spigolo, il priso di creta. Nessuna finestra o apertura, salvo la porta con una tendina appesa a un pezzo di ferfilato che dava so-pra la prima camera, con un brandina stretta stretta (quella della figlia della Zoppa, Tetedd’, trasferita per l’occasione chissà dove), un tavolo con un tiretto per le cucchiare, un fornellino a gas e un bussolotto a due sportelli per il pane, il sale, lo zucchero, tre piatti e tre bicchieri. Per l’acqua biso-gnava assire fuori: ci stava una fontana di fortuna al centro di Torre Tresca, con l’acqua rubata dalle tubature dell’Ac-quedotto Pugliese.

Due cose, dentro quella casa nera e lorda, erano inaspet-tatamente bianche bianche, proprio del colore del latte, pu-liziate e profumate, come se fosse passata da là, appena da qualche minuto, una lavorante di lavanderia-stireria a fare le consegne: le lenzuola lisce lisce sotto le quali s’infilaro-no Iangiuasandin’ e Cilluzz’, quasi senza manco avvertirsi di quello che stavano a fare, e la cammisa da notte che quella strega di Zi’ Tares’, chissà in base a quale inspiegabile e im-penetrabile pensiero gentile, aveva lavata, stirata e piegata sotto il cuscino della zita fusciuta.

I due ’uagnuni disorientati, stesi sopra il letto di Zi’ Tares’ s’interrogavano – lui se stesso, lei se stessa – sopra checcosa ci stessero a fare là, dato che quella matina stavano praticamen-te ancora a giuocare e forse il dì dopo cominciava l’inferno. Lei castano-bionda, con la cammisa da notte che le arrivava ai piedi, tutta spostata da una banda del letto, dentro un vor-tice di pavura e di confusione, che gli dava la schiena a lui. E lui, bianco come il lenzuolo eppure rosso malpelo, pieno di nei, lentiggini, efelidi e macchie solari, con la maglia della salute e le mutande lunghe di lana, sdraiato di schiena, con gli occhi fissi al soffitto della baracca.

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Un poco per stanchezza, un poco per vigliaccheria, un poco come per fuscìrsene senza essere visti da quella situa-zione disperata e senza sbocchi, quelle due anime-di-dio si appapagnàrono. Non se ne avvertèttero nemmanco se dor-mèttero propriamente. Fatto sta che, durante la notte, forse discetati dai movimenti della tendina – segno che Zi’ Tares’ era venuta dentro la camera per afferrare il priso, facendovi il comodo suo e riportandolo poi dentro la camera dei due con quell’altra esalazione – si spostarono un poco tra la ve-glia e il sonno, e per caso si toccarono. Ma forse non solo per caso.

Si sa la vita com’è strana e misteriosa, e com’è complicata soprattutto la capa degli iùmmini (e pure delle fèmmene, naturalmente). Mo, è mai possibile che quei due, dopo tutto quello che era successo, mentre a due passi da loro ci stava quell’iradiddio di Zi’ Tares’, e poi, parlando con decenza, con tutte quelle pestilenze dentro l’aria e dentro i nasi, pos-sibile che quei due potessero pensare a toccarsi e, magari, a fare certe cose? Possibile, possibile. Forse perché uno, arri-vato ad un certo punto, tiene bisogno di abbandonarsi, di sfuarsi e di svacarsi dai pensieri.

Certo è che mentre tentava di sistemarsi più comoda-mente, non si sa se dentro la veglia o dentro il sonno, fu proprio lei, la schizzinosa, a sfiorargli inavvertitamente un piede a quel maulone. E lui, invece di limitarsi per gentilezza a spostarsi un poco più in là o comunque di riflettere sopra tutti i guai che stava a combinare insieme a quell’altra mal-creata, si era sentito in dovere, a quel punto, di fare la parte sua. E che facette allora, quello spudorato? Piano piano, leg-gero leggero, sicuro o quasi sicuro di non discetarla, le pigliò la cammisa dai piedi alla bella addormentata e cominciò ad alzarla. Le scoprette le gambe, poi le cosce e alla vita si fer-mò. Che spettacolo! Sotto la cammisa, Iangiuasandin’ era all’anuta. Cilluzz’ non sapeva se era all’anuta per abitudine o per malizia, ma avvedèndosi che quella svergognata, forse però più dentro il sonno che dentro la veglia, non si moveva,

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non si abbasciava offesa la cammisa, non protestava e non si voltava per dargli un liscio-e-busso, il ’uagnone piano piano, leggero leggero, si era abbasciato lui le mutande sue proprie sino sotto le ginocchia.

Mirando stordito quel personale delizioso mezzo all’anu-ta che, senza che manco più se lo aspettasse, mo pareva pro-prio a disposizione sua, Cilluzz’ si capacitò che non aveva mai visto né lontanamente immaginato un pezzo di corpo umano così delicato e pulito che gli pareva una volgarità chiamare culo o posteriore o ponente o scapezzato. E che apparteneva nientedimeno che alla zita sua. Che tentazione di stringerla, che desiderio di abbrazzarla! Ma non si faceva coraggio e intanto si toccava invece lui innanzi. E ad un cer-to punto pigliò fiato, s’illuminò tutto: sì, s’intostava, poteva continuare, era all’altezza...

E con ardimento passò all’attacco, accarezzandola con la mano libera la zita, sfiorandolo appena quel palloncino di carne bianca che sorprendentemente Iangiuasandin’ teneva appizzicato dreto, insomma tentando (e tentandola) con de-licatezza e ancora con qualche preoccupazione. Poi, con la gamba destra un poco accavallata sopra i piedi e poi sopra le gambe di lei, piano piano, l’aveva premuta sino a farla voltare quella dispettosa. E lei si facette voltare, ma come se stesse ancora tra la veglia e il sonno.

Di schiena sopra il letto, quella capatosta continuava a tenere la faccia dall’altra banda, verso la ballerina, mante-nendo le braccia tese tese. Mezza all’anuta ma sempre ferma come una morta, immobile come una mummia, insensibile come un pezzo di marmo. La verità è che, dentro di lei, la fermezza del risentimento combatteva contro il bisogno di consolazione, per non parlare della battaglia fra i soldati dell’orgoglio e i guerrieri del piacere, fra i militari della ripic-ca e la ciurmaglia della distrazione, del genio, della baldoria, dello spassatempo...

Iangiuasandin’ sentette che una specie di calore di brace le riscaldava progressivamente tutto il corpo, cominciando

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dai piedi e arrivando sino alla cima dei capelli. Chissà den-tro quale piega del cervello – ma certamente fu là, dentro la sostanza grigia – scoppiò la scintilla della capitolazione. La vampa la identificò dentro il petto, il fuoco vero e proprio si appicciò dentro il ventre ma fu tra le cosce che l’incendio bruciò tutte le resistenze di quella vergine che non aveva visto mai bene.

Provvedèttero i dìsciti, i dìsciti suoi stessi, a tradire Iangiuasandin’, alla quale pure sino a quel momento era sta-to possibile trattenere tutto dentro, senza fare una smorfia, senza manco voltarsi verso di lui. Furono i dìsciti che le sfu-scèttero di mano. Furono più forti della volontà sua di non scoprirsi con quel delinquente, che stava a diventare sempre più pesante e più materiale. Per la precisione, un dìscito ma-landrino e senza responsabilità, l’indice della mano destra, approfittando della vicinanza con il ventre del ’uagnone, si alzò appena e glielo toccò, glielo sfruguliò il pisello, che era stato sfruguliato già abbastanza dal patrone suo stesso.

Si sa come sono i piselli dei ’uagnuni: se ci dai un dìsci-to si pigliano tutto il braccio e qualcheccosa di più. E si sa pure come sono questi dìsciti di ’uagnedde portabandiere di grandi agitazioni corporali e di memorabili curiosità. Perciò mo la mano di Iangiuasand’ – Iangiuasandin’ veramente non esisteva più, a questo punto – ispezionava preliminarmente tutta la zona circostante, prima di concentrarsi sopra quella mazza prepotente che certo avrebbe preteso da lei, tempo un paio di secondi, tutte le attenzioni possibili e immaginabili. E Cilluzz’ si faceva fare, ci mancherebbe altro, godendosela – pure lui steso mo sopra la schiena – quella mano viziosa e, insieme, vergognosa. Sempre con la capa voltata verso la ballerina, Iangiuasand’ piano piano gli allisciava la pelle del ventre tesa tesa come quella di un tamburello.

Gli sfrizzolava leggera leggera il cespuglio dei peli rizzi, come se stesse a fare un giuocariddo di meninni. Gli pigliava dolce dolce fra i dìsciti la pelle tenera tenera della borsa e poi quella pallina là dentro che, appena la stringeva, sfusceva...

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Non aveva fatto in tempo a toccargli la pallina, che sen-tette improvvisamente il corpo di Cilluzz’ crollare sfianca-to sopra il letto, come se sino ad allora fosse stato in aria, tenuto teso dall’emozione e appeso dal desiderio. D’istinto Iangiuasand’ risalette con la mano, per ripigliargli tra i dìsci-ti e il palmo quella sorta di banana che aveva appena toccata e che evidentemente non aspettava altro che di essere sbuc-ciata, ma scoprette che là oramai della banana ci stava solo l’ombra, al più una specie di palloncino sgonfiato.

Allora si voltò finalmente verso Cilluzz’. Un paio di lagri-me gli scendevano dagli occhi chiusi sopra la faccia disperata a quel disadattato. La bocca gli si moveva appena appena.

«Non ce la faccio, non ce la faccio, tengo solo una palla» si ripeteva Cilluzz’, spiccicando le parole sempre più chiara-mente e a voce sempre più alta. «Non ce la faccio, non ce la faccio» oramai gridava.

Ed ecco la riapparizione di Zi’ Tares’, che lo rimproverò rimanendo all’inpiedi vicino al letto: «Ti vuoi stare citto o ti ho da spaccare la capa col bastone? Prova, prova, sgàrzala, che ce la fasci! Ma chi t’ha mettuto ’ncapa che non ce la fasci?» E indicando col bastone Iangiuasand’: «La colpanza è la tua. Tutto fumo e nulla arrosto. Una iena a rompere i cogghiuni, una fessa a letto. Datti da fare, stronza. Non accapisci che oramai questo è marìteto. Tiènitelo buono e fallo addivertire, fallo arrapare, fàglielo intostare, pìgghialo ’mmocca, fìccatelo dentro il piccione, incàstratelo ’nculo, fa’ ciò che vuoi, ma fa’ la fèmmena accosì lui fasce il màscuo».

Cilluzz’ chiangeva per il difetto e per la vergogna, Iangiuasand’ chiangeva per la disperazione e per il disorien-tamento. Continuarono a chiàngere – dopo che la Zoppa tornò a cuccia, dentro l’ingresso – senza lontanamente pen-sare a toccarsi e senza lanciarsi manco un’occhiata.

Lui mormorava, tra le lagrime e i singhiozzi: «Tengo solo una palla, solo una palla». Chiangeva e sussurrava: «Non ce la faccio, tengo solo una palla. Non ce la faccio…» E pia-no piano si addormentò quel povero disgraziato senza spina dorsale.

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Non aveva mai capito né accettato, per ignoranza ma soprattutto per la cacazza dei medici e delle medicine che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita, quel fatto della “ritenzione testicolare” di cui aveva parlato un professore, che lo aveva visitato da ’uagnungiddo. «Uno dei due testi-coli» aveva spiegato quello scienziato a Martemè e a Tarattè «gli è rimasto dentro all’inguine dalla nascita al ragazzo. Basterebbe una piccola operazione, un tàgghio piccinunno piccinunno, per consentire il ritorno della ghiandola den-tro alla sua posizione naturale». Ma solo a sentire parlare di taglio a Cilluzz’ gli veniva il mancamento, figuriamoci a farselo fare. E non se la facette mai quell’operazione. Tarattè, per la disperazione di quel piccininno che mo teneva pure pavura di essere condannato a diventare ricchiniddo (una maniera gentile di dire ricchione), ma che comunque non voleva scire al Policlinico a farsi l’operazione, provò senza convinzione con i metodi suoi. Per mesi e mesi, ogni sera, gli facette strofinazioni e massaggi sopra il ventre, in mezzo alle cosce e sopra i fianchi. Ma la palla, dentro la borsa, una era e una rimaneva. «Signori, ve lo arripeto» fu l’accoglienza del Professore, la seconda e ultima volta che Martemè e Tarattè tizzuàrono alla porta e alla scienza sua, «si tratta di un sem-plice fenomeno di ectopìa, di e-cto-pi-a, cioè di anormale posizione della ghiandola». La pavura della ricchionàggine? «Ma signori» cercò di tranquillizzarli come fanno i professo-ri, «non diciamo bestialità. Questa ritenzione non può avere alcuna seria conseguenza sull’integrità e sulla funzionalità sessuale dell’organismo di questo bel ’uagnungiddo. Ve lo garantisco io: cento per cento di secrezione interna, ed è ciò che conta per la scienza medica, e cinquanta per cento di secrezione esterna, cioè dell’eiaculazione. Insomma, potenza coeundi e generandi intatta, ed è ciò che conta per i màscui e per le fèmmene loro. Non è vero?» Vero, vero: potenza teoricamente intatta. Ma di fatto – questo il Professore non lo dicette e non lo prevedette – una vita devastata dal terrore dell’inadeguatezza sessuale...

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Mentre Cilluzz’ dormiva e chiangeva, voltandosi e rivol-tandosi come un piccininno, soffrendo e lamentandosi come un vecchio, dato che sognava il Professore che con coltelli e marrazzi gli tagliava la borsa e il ventre ma della seconda pal-la non s’intravvedeva nemmeno l’ombra, Iangiuasand’ non si addormentò più quella notte. Quanti pensieri. Quanto pentimento. E questo Cilluzz’ – con una sola palla! – che si faceva comandare come una femmenedda da Zi’ Tares’. Che vita d’inferno che le si prospettava. Lui smidollato, a farsi mettere i piedi in capa fuori di casa e a sentirsi capo-di-robba solo in casa, a farsi comandare da tutti e sfuàndosi a coman-dare solo sopra a lei, e lei, che mai nessuno l’aveva messa sotto, fresca come una rosa che sta per sbocciare, vergine...

Iangiuasand’ realizzò all’improvviso di essere ancora si-gnorina. Allora la fusciuta non valeva! La mamma se n’era certamente avvertita a quell’ora, Fifin’ forse già le aveva con-tato tutto, ma Martemè e Tarattè magari nemmeno se lo immaginavano (non era la prima volta che Cilluzz’, senza dire nulla, rimaneva a dormire da Zi’ Tares’) e certamente la gente non sapeva ancora. E poi, pure se avesse saputo, qua il forno era rimasto chiuso. Tutto forse poteva ancora essere riportato a qualche ora ’ndreto, si dicette speranzosa Iangiuasand’.

Da sotto la tendina si era infilata un po’ di luce di Cristo. Fuori era già l’alba. Cilluzz’ dormiva, quella strega di Zi’ Tares’ pure. Iangiuasand’, pigliando una decisione alla ma-niera sua, senza nemmeno dirsela, senza ragionarci tanto, sciuò fuori dal letto, zittazitta s’infilò la veste e le scarpe, scostò la tenda, arrivò come una piuma alla porta passando a pochi centimetri dalla branda di Zi’ Tares’, che dormiva vestita scarp’e tutte, e lasciò a piedi Torre Tresca, fra la cu-riosità – ma non di più – dei primi abitanti discetati di quel quartiere puzzolente che erano abituati e strabituati alle ap-parizioni più strane e alle scene più indelicate.

Le cose brutte che si contavano sopra quelli che abita-vano a Torre Tresca erano tante. A Iangiuasand’, che pure

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si sentiva così forte perché aveva avuto il coraggio di fusci-re la prima notte nientedimeno che dal letto della fusciuta, le venette improvvisamente la cacazza. Chissà, mo, cosa le poteva capitare, dentro quella campagna, prima di arrivare dalle bande di casa.

Ma, senza che quasi se ne avvertisse, si scoprette a fare gli stessi passi, fianco affianco, con una ’uagnedda come lei. Quella prima la squadrò, sospettosa, poi evidentemen-te capette suppergiù con chi aveva a che fare e si avvicinò. Facèttero conoscenza e la strata insieme. E scoprèttero che, forse, si erano pure viste qualche volta, perché quella ’uag-nedda, Palmin’, serviva in via Princip’Amedé, ad appena due stratoni da via Mirenghi.

Ogni matina Palmin’ se ne fusceva subito subito da casa, se si può avere la sfacciataggine di chiamare “casa” quelle quat-tro mura nere e quelle quattro cose lorde. Appena all’aperto, tirava un sospiro di sollievo che non finiva mai, come se avesse trattenuto il fiato dalla sera prima, rientrando, sino a quando si era chiusa la porta dreto la schiena per fuscìrsene da quella gabbia di matti in libertà. E arrivata all’ultima casa di Torre Tresca, ma proprio l’ultima l’ultima, insomma la prima venendo da Bari, immancabilmente si voltava a consi-derare quelle quattro baracche e una voce che le sgorgava dal core esclamava sempre: «Che brutta gente!» Sputava in terra per sfregio e, drizzando il piede verso il centro, si metteva a cantare allegra allegra: «Oh, bella piccinina/ che passi ogni mattina...» Pareva proprio un’altr’una, rispetto ad appena qualche metro e a qualche minuto prima.

Il fatto è che non li poteva proprio digerire quegli spi-docchioni che se ne stavano tutto il dì a Torre Tresca, gettati da qualche banda, a non fare nulla: disperati, imbriaconi, profughi abruzzesi, cercalemòsina, pecorali senza pecore, strepiati, puttane, cozzali senzaterra, scansafatiche, pezzenti, marinari senza barca, briganti, senzacasa, sfalliti... E tanti, tanti di quei piccininni che per tutto il dì, mezzi all’anuta, si

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arrutuàvano dentro la lota, si pigliavano a mazzate, giuoca-vano al pallone, spaccavano i vetri, tiravano le pietre contro gli invalidi, rubavano i cappelli ai vecchi, gridavano, face-vano il trenino, mangiavano pane e pomodoro con le mani lorde di merda, inseguivano i sorci-zòccana che fuscévano da ogni pertuso e quando ne pigliavano uno l’accidèvano annecàndolo dentro un secchio di acqua e se lo lanciavano appresso, levavano i coperchietti alle biciclette e le foravano, stavano sempre a spiare quando uno cacava, catturavano le lacerte e ci spaccavano il ventre per fare la strafottenza di mangiarsene l’entrame...

Palmin’ di Torre Tresca li schifava, li odiava quei picci-ninni perché schifava, odiava gli attani e le mamme loro, gli ziani e i nononni loro. La schifava, la odiava tutta quella gente che si era ammassata come fanno le bestie, senza pen-sieri e senza dignità, una sopra l’altra, dentro le baracche di quel campo di concentramento dove erano stati chiusi prima americani e inglesi, e poi tedeschi e fascisti. Erano arrivati là quegli animali, chi a solo e chi a gruppo, avevano visto quei quattro buchi e si erano ficcati dentro, senza ri-costruire, senza puliziare, senza sistemare nulla, fra pietre e remmato, lota e ferri arrugginiti, zòccane e vipere. Avevano fissato qualche pezza alle finestre, inchiodato due tavole alle porte, gettato in terra un matarazzo di fortuna, steso sopra i tetti crepati un taglio d’incerata rubata chissà dove, e si era-no messi a campare là, senza acqua, senza cesso, senza gusto, senza desideri e senza speranza.

Pure i tre piccininni suoi, carne della carne sua, erano come quei piccininni e stavano tutto il dì a fare le stesse cose. Li odiava, le facevano schifo e ribrezzo pure loro?

Pure il marito, come tutti gli altri iùmmini di Torre Tresca, passava il dì gettato in terra a fumare le Alfa e ogni tanto faceva lo sforzo di scire a svacarsi gli intestini o a bere due bicchieri di miero allo spaccio. L’odiava, le faceva schifo pure lui?

E la mamma e l’attano suo non stavano là, a Torre Tresca,

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tutto il dì spettinati, disperati senza saperlo, imbrattati sen-za avvertìrsene, fetosi, scalzati senza badarci, con la morte stampata in faccia ma senza uno specchio per non mettersi pavura? Li odiava, le facevano schifo pure loro?

E tutte le serve che, come lei, ogni matina se ne fuscéva-no spettinate da Torre Tresca per scire a servizio da qualche famiglia d’impiegato o di avvocato, e che si voltavano e spu-tavano in terra appena arrivavano all’ultima casa di quella fognatura umana all’aperto che era Torre Tresca, e che driz-zando il piede verso il centro si mettevano a cantare, e che ti-ravano fuori dalla palda la pettinessa per darsi una residuata ai capelli e un fulàr per parere quasi una cristiana normale, e che la sera quando tornavano si rimettevano dentro la palda il fulàr e si spettinavano apposta per non parere tanto diver-se da quegli sbagugliati che erano rimasti tutto il dì a Torre Tresca, e che la domenica restavano pure loro a Torre Tresca tutto il dì e allora erano proprio spiccicate come tutti loro, tutte le serve come lei le odiava e le facevano schifo pure loro?

“No, non mi faccio schifo. Mi faccio pena, mi faccio pietà” si rispondeva da sola la seranotte, quando non aveva requie dentro quella camera nera e fetente dove dormivano in cinque. Cioè dove dormivano in quattro – il marito e i tre figli, che per qualche ora almeno, speriamo per loro, col pensiero non stavano a Torre Tresca – perché lei, che per tut-to il dì era stata fuori da quel manicomio, durante la notte rimaneva con gli occhi scatesciati e il cervello in ebollizione inchiodata proprio là, a Torre Tresca.

E hai voglia a cercare di pensare alla camera da letto del-la Signora con l’imbottita di raso rosa e la pupa al centro, a quei profumi di saponetta, a quelle graziose cammise da notte della Signora bianche bianche con il pizzo, ai colli ina-midati del Professore, a quella bella credenza piena di pane e di ogni bendidio, a quei piccininni con i boccoli e il cra-vattino, a quei bei lampadari di vetro di Murano colorati... Hai voglia a cercare di pensare alle cose belle. Il pensiero pa-

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reva rimbalzare da quei muri neri, da quelle porte di tavole di cantiere e tornava ’ndreto, costringendola a fissare Torre Tresca, a vivere a Torre Tresca, a sentirsi una di Torre Tresca sino alle viscere.

Così era tutta la notte, ma poi finalmente si poteva capire pure dentro quel miserabile cafùrchio che fuori era comin-ciato il dì. Immediatamente Palmin’, in fretta e furia, si alza-va senza fare rumore, si vestiva senza discetare quelle anime del diavolo che dormivano dentro la camera sua, attraversava con le scarpe in mano il corridoio dove grufuavano l’attano e la mamma sopra due brande separate, una contro il muro di destra e l’altra contro il muro di sinistra, apriva e chiudeva adàscio adàscio la porta e fusceva. Ogni notte, ogni matina.

Ma quando oltrepassava quell’ultima catapecchia, così scafuata che Palmin’ non aveva mai capito come facesse a tenersi all’inpiedi, era una liberazione. Diventava un’altra cristiana. E non tanto per la residuata ai capelli e per il fulàr, che certo la parte loro la facevano. Ma soprattutto in capa, dentro il core, dentro le gambe si sentiva proprio un’altr’una. Una normale. O quasi.

Pareva un marchio per quelli di Torre Tresca: erano tutti sgobbati, curvati, con la capa che pendeva, mo da qua e mo da là, come un batacchio senza campana. Pure lei, Palmin’, a Torre Tresca caminava così. Ma, appena superava quella fetente di ultima casa di Torre Tresca, era come se la schiena le si drizzasse. Le gambe diventavano leggere leggere. E alza-va il passo, non tanto per scire più veloce ma praticamente per ballare caminando con il ritmo della canzone: «Oh, bella piccinina/ che passi ogni mattina/ sgambettando allegra fra la gente...» E sentiva che pure la pelle della faccia le si sten-deva, diventava liscia liscia. Gli occhi le si aprivano, diventa-vano grandi grandi.

Quanti profumi, improvvisamente, attorno a lei (segno che pure il naso, sino a quel momento, se ne era stato spon-taneamente tappato, per non disturbarsi con tutti quegli ad-dori, diciamo così, tipici di Torre Tresca). I fiori, la mentuc-

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cia, l’amore del mare che si faceva sentire arrivando parete parete per il canalone e poi, dopo il passaggio a livello di via Brigata Regina, il fumo del treno, gli zoccoli di un cavallo ferrati a caldo, la vernice spruzzata dentro le carrozzerie, la cacca gialla dei cavalli delle carrozze che se la filavano matina matina al camposanto portandovi le fèmmene più fresche di vìduanza e quindi ancora vergognose di farsi vedere a piedi tutte vestite di nero e con il mazzo di fiori in mano...

E poi l’addore della strata bagnata dalle pompe della macchina degli spazzini modernizzati, la segatura gettata dal portinaro della Signora per asciugare (dopo il lavaggio) il pavimento del portone e dei pianerottoli, l’olio dato da poco agli stipiti dell’ascensore e quel profumo di latte caldo e di cafè bollente che proveniva dalla porta della Signora...

Palmin’ di Torre Tresca sonava il campanello, diceva “bongiorno” in italiano, si chiudeva dentro lo stanzino e si metteva la veste sua. Anzi, a piacere, una delle quattro ve-sti che le aveva regalato la Signora e che lei, nonostante le insistenze, non aveva mai voluto portare a Torre Tresca. Un poco per rispetto di quegli animali senza vestiti che stavano a Torre Tresca, un poco per non apparire con loro troppo sprofumosa ma un poco pure per dispetto. Forse soprattutto per dispetto e per staccare con quel mondo che le dava solo incubi di notte e, improvvisamente, pidocchi il dì.

Eh sì, non passava dì che due o tre pidocchi, da una del-le mille tane loro nascoste dentro il sottobosco dei capelli, non se ne venissero a fare una passeggiata attorno al collo di Palmin’ o addirittura ai bordi del colletto della cammisedda. Che vergogna, che scorno. Hai voglia a trattarti la capa ogni dì col pettinino stretto, a gettare dentro il cesso a decine e decine quei maledetti. Chissà come, chissà da dove, spunta-vano sempre fuori quando meno te l’aspettavi. Appena po-teva, Palmin’ stava sempre a mirarsi innanzi allo specchio e così, molte volte, lo smicciava lei il pidocchio, lo arrestava con un pizzico prima che si nascondesse chissà dove e lo get-tava vivo dentro il cesso, tirando la catena, perché le faceva

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schifo accìderlo tra le unghie come facevano tutti quei man-giammerda di Torre Tresca che gareggiavano a chi l’accideva più grosso e poi manco si lavavano e se ne stavano tutto il dì con le unghie lorde di quel sangue schifoso.

Era terribile quando il pidocchio sopra il collo ce lo ve-devano gli altri. Se era la Signora, almeno, lei si limitava a squadrarla zittazitta, con gli occhi di rimprovero e di schi-fo. Palmin’ capiva, diventava rossa rossa come un paperusso (nominati così nonostante che i peperoni, oltre che rossi, sono pure verdi e gialli) e fusceva dentro il bagno, si liberava di quella bestia disonorevole e ricompariva dopo un quarto d’ora, il tempo di farsi passare il rosso dalla faccia. Ma se era-no i piccininni della Signora ad adocchiare quel punto nero disgustoso che caminava sopra il collo della serva, allora era proprio un guaio. Quei due figli di ’ndròcchia si mettevano a gridare per tutta la casa: «Palmin’ tene il pidocchio! Palmin’ tene il pidocchio!» E tutti venivano a conoscenza del fatto vergognoso.

Il peggio capitava col Professore. Quando era lui ad av-vertìrsene del pidocchio, per esempio mentre Palmin’ lo serviva a tavola o gli portava le scarpe puliziate in camera, almeno per una semana poi non la voleva manco vedere. E Palmin’ sapeva che, quei dì, la Signora faceva la guerra col marito per convincerlo del fatto che, per un pidocchio, non si poteva cacciare di casa quella ’uagnedda che era così ap-posto, onesta manco a dirlo e zittazitta, e che sapeva lavare e stirare così bene. Dove la potevano pigliare un’altra che non ti combinava guai, non ti rubava nulla e non contava in mezzo alla piazza – come facevano le altre serve – tutte le cose che succedevano dentro le case dei signori?

Quando il Professore aveva queste crisi era proprio un guaio, non solo per la vergogna e per il rischio di essere cac-ciata da quella bella casa (dove l’avrebbe scovata più, Palmin’, una Signora così buona e rispettosa, che manco ti faceva sentire di essere una serva?). Difatti quelle sere il Professore, per punizione, non l’accompagnava con la macchina a casa,

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come faceva sempre, venendola a scaricare proprio innanzi alla prima catapecchia di Torre Tresca. Allora o Palmin’ se ne tornava piede piede, ma anticipando a moversi prima che venisse scuro o la veniva a ritirare il marito con la bicicletta. Lui, il marito, non era contento di assìrsene da Torre Tresca e di farsi poi tutto quel viaggio di ritorno con la mogliera sopra la canna. Ma certe volte era proprio costretto e, farfu-gliando giaculatorie da figlio del diavolo, l’andava a caricare dal Professore e la scaricava a casa.

E non ci stavano solo i pidocchi a rivelare, a chi non lo sapesse, che Palmin’ non era propriamente una signora. Ci stava pure quell’altro fatto: il fatto che si sputava sempre dentro le mani e poi se le strofinava, come a lavarsele. Non lo faceva nessuno di quelli che conosceva: né quelli di Torre Tresca, che le mani le tenevano sempre lorde e non se ne preoccupavano per nulla, né quelli della casa del Professore che, quando s’imbrattavano pure un poco poco le manine, correvano a sciacquarsele sotto il rubinetto e qualche volta persino a lavarsele con la saponetta.

Del resto, non è che Palmin’ si sputacchiasse e si strofi-nasse le mani quando erano lorde. No. Rispetto alla lordura, faceva come gli altri: se stava a Torre Tresca non ci pensava nemmeno, né si sputava né si lavava, e le mani rimanevano asciutte e lorde; se stava invece a casa della Signora, si chiu-deva dentro il bagno e si lavava, con acqua e saponetta.

Il fatto è che Palmin’ si sputava o, più semplicemente, si bagnava le mani di sputo – passandosele vicino alla bocca e facendovi colare dentro lo sputo – sempre e solamente a casa della Signora e quando aveva da tenere afforza le mani puliziate. Né a lei stessa quel vizio pareva assomigliante a quello dei vastasi che, prima di pigliare tra le mani un peso da caricare sopra le spalle, in effetti le mani se le sputazzano, forse per aumentarne la capacità di presa o, così, per sfizio di categoria.

E allora perché lei, invece, teneva questo brutto vizio? Non se lo spiegava proprio. Non era per lavarsi. Non era

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per un vizio di vastasa, perché allora si sarebbe sputacchia-ta pure quando pigliava qualcheccosa di pesante in mano a Torre Tresca. Lei invece si sputacchiava solo in casa della Signora, solo quando teneva le mani pulite e, per completare il quadro, non lo faceva nemmeno quando aveva da pigliare qualcheccosa di pesante o pure semplicemente qualcheccosa in mano. No. Si sputacchiava così, tanto per farlo, appena stava sola ed era sicura che nessuno la vedeva. “Sputt” faceva con la bocca e si strofinava le mani, sino a fare scomparire ogni traccia di schiuma di sputo. Però le rimaneva attorno – non solo attorno alle mani, ma addirittura dentro tutta la stanza dove lei stava ferma più di due minuti – un addore forte forte, diciamo una puzza, che neppure a lei piaceva. Figuriamoci agli altri.

E allora, perché lo faceva? Una volta aveva avuto una sen-sazione: era come se quelle mani, che pure parevano puli-te, le ricordassero Torre Tresca, come se le rappresentassero quello che era il mondo suo veramente, quello che era lei. Ed era come se gli volesse dare una punizione a quel mondo e a se stessa, a “quella” Palmin’, come se si volesse fare uno sfregio. E così si sputava (in effetti un segnale di sfregio, di schifo e, dato che veniva lanciato contro se stessa, pure di disperazione).

Ogni volta, appena la vedeva, la Signora le addorava le mani e, sentendo la puzza dello sputo, le gridava appresso che non aveva da fare sapere afforza a tutti che era di Torre Tresca e le ordinava di lavarsi le mani con l’acqua del ru-binetto e la saponetta. Palmin’ naturalmente non teneva il coraggio di rispondere alla Signora che quelli di Torre Tresca non si sputazzavano mai sopra le mani – semmai ti sputava-no in faccia a te – e fusceva rossa rossa al bagno per lavarsi.

Ma poi non resisteva alla tentazione di sputarsi un’altra volta dentro le mani. Così, tempo una mezzoretta, appena si vedeva sola lo faceva un’altra volta. Ma la Signora oramai la conosceva e perciò, appena la rivedeva, le ordinava di aprire le mani, ce le addorava, faceva la faccia schifata e la mandava dritta dentro il bagno per lavarsi.

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Per il resto Palmin’, quando stava in via Princip’Amedé, non pareva proprio di Torre Tresca. Tutti la rispettavano: dal portinaro al fruttaiuolo, dal vicciere al formaggiaro, dal-lo scarparo al droghiere, dal pesciaiuolo al molaforbici, da Piripìcchio che veniva sotto il balcone con il fisarmonicista-trombettista-iazzbannista a fare Sciarlot per buscarsi la gior-nata all’acconzaombrelli, dall’acconzapiatti, all’acconzacal-dare… E tutti rimanevano meravigliati quando scoprivano che, invece, era di Torre Tresca.

Mentre caminavano insieme, non è che Palmin’ dicette a Iangiuasand’ tutte queste cose, ché nemmeno se le sapeva lei stessa tutte quante, ma quello che sentette e quello che ve-dette bastò per far crescere dentro la capa della signorinedda di via Mirenghi lo schifo e la pavura per ciò che lei stessa sta-va per diventare, appunto una di Torre Tresca. Niente di più facile che quello scapocchione di Cilluzz’ proprio là avesse intenzione di portarla ad abitare, dalla ziana. “Meno male che me ne so’ fusciuta: mo torno a casa di mamma” pensava Iangiuasand’, alzando il passo, “e mi faccio apperdonare”.

Quanti passi che facette quella matina Iangiuasand’, pri-ma con Palmin’ e poi, dall’altezza di via Princip’Amedé, sola sola! Ma si sentiva liberata, leggera: le pareva di volare. Tutta quella strata che aveva fatto all’andata in carrozza – un viag-gio che pareva non finire mai – al ritorno, a piedi, manco se ne avvertette che l’aveva fatta tutta ed era già arrivata innanzi alla porta di casa, di casa sua.

La vedette accostata la porta. Spingette il battente e si scoprette fissata da dieci occhi che non volevano credere a quello che vedevano. Tutto si aspettavano quella matina, Donna Sabbedd’ e i quattro figli suoi con la capa apposto, fuorché di rivedere quella sfacciata di Iangiuasand’.

Il primo a ripigliarsi fu Diador’: «Sapimo tutto. Ce l’ha detto Fifin’. Mo il posto tuo non è più qua, ma ’ncasa di ma-rìteto. Addov’è lui? E tu che vuoi, mo? Sei venuta a ritirare i vestiti? Nisciuna preoccupazione! te li ammandamo noi. Ma questa non è più casa tua. Esci, sgualdrina!»

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Donna Sabbedd’ scattò come un bersagliere per scir-si a chiudere dentro la camera sua a chiàngere, seguita da Bellònia. Diopold’, che si era preoccupato a vedere quel-la scalognata sora sua piccinonna così bianca bianca e così disorientata, si precipitò dentro la cucina per servirle un bicchiere di acqua. Fifin’ la fissava impietrita: aveva passato tutta la notte in bianco, con quella espressione terrorizzata e avvilita stampata sopra la faccia.

Diador’ precisò, per chiarire sino in fondo il disastro fat-to da Iangiuasand’: «Sto ad arrischiare di essere allicenziato dalla fatica, per colpa tua, stamatina».

Pure Iangiuasand’ scattò per raggiungere Donna Sabbedd’, che stava stesa sopra il letto, con la faccia contro l’imbottita rosa, mentre la spallaccia Bellònia cercava di confortarla.

«Non lo faccio più, mamma» gridò Iangiuasand’, forse sinceramente pentita. «Non lo faccio più. Non è assuccesso nulla».

«Checcosa non fasci più, brutta spudorata?» avette un sussulto Donna Sabbedd’. «E che ha d’assuccèdere di più di quello che è già assuccesso, disgrazia della casa nostra?»

Si era già ripigliata dalla depressione. Agguantò la figlia fusciuta e se la trascinò fuori di casa, fuori dal portone, fuori da via Mirenghi, mentre Iangiuasand’ gridava: «T’aggiuro, mamma, t’aggiuro: non è assuccesso nulla, non mi ha man-co tuccuata, so’ ancora sana sana accome mi facesti tu».

Ma la mamma manco la stava a sentire: da quella figlia sua aveva sopportato tutto il dolore del mondo, sin dalla morte prematura del marito suo, adorato come un santo e forte come una roccia. Lo sapeva da sempre che l’avrebbe pure disonorata. Non ci stava null’altro da fare che rasse-gnarsi al destino.

«Pigghiàtevela» dicette appena arrivarono innanzi alla pescheria di Martemè. «Lei lo ha voluto, lui se la godette e pace all’anima vostra». Donna Sabbedd’ abbandonò la scena come una furia e Iangiuasand’ si sentette sola e abbandona-ta in mezzo a una strata. Di più: prigioniera dentro quella casa.

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Quando erano arrivate, Martemè Cioladoro, appoggian-dosi al bastone, si stava appuntando la brachetta, lasciando come al solito un bottone fuori dall’occhietto, non si sa se solo per sbulinatezza o per malizia. Perciò, quando era asse-duto, in genere si vedeva il bianco giallastro delle mutande di lana e, qualche volta, s’intravvedeva pure la grande ciola che era il vanto suo da giovane e, da vecchio zoppo, l’orgo-glio suo. Per chiarezza, c’è da dire che la “ciola” è un aciddo, un uccello, in tutti i sensi: dalla “ciaula”, la gazza, gàzzera o cecca cantata dai napoletani, alla cornacchia, corvo nero o tàccola della Puglia, dove si conta ai piccininni pure di un aciddo fantastico con questo nome che li spia quando fanno le cose brutte. Ma se Martemè lo avevano soprannominato Cioladoro non era certamente per riferirsi a un aciddo vo-lante, ma proprio a una delle “tre gambe” sue, come diceva-no i ’uagnuni: “quella che sta in mezzo”. Ma ci sono forse altre due parole, spagnole, all’origine della ciola dei baresi come Martemè, oltre all’uccellone àpulo-napoletano: “chul-la”, che significa fetta di prosciutto (probabilmente per via della forma del prosciutto non ancora affettato) e soprat-tutto “chullo”, che tradotto dal vocabolario italiano sta per “drudo” e nel vocabolario della vita indica l’amico fedele, l’amante dissoluto, il ganzo vizioso...

È con quella sorta di strumento che Martemè aveva con-vinto Tarattè, che imparava da monaca dentro un convento di Barivecchia, a lasciare sorelle e badessa e a farsi impalma-re da quell’armadio d’òmmeno che tutti conoscevano come grande faticatore e grande puttaniere. Era stato pure in gale-ra, e se ne vantava, per una storia di fèmmene: aveva insegui-to con un rasoio sin sotto il letto di casa – facendogli in faccia lo sfregio di Gano di Maganza – uno della stessa età sua che si era permesso di dire una parola gentilmente intenzionata a una che si teneva lui. Solo un albero di barca, spiantato in mezzo al mare da una brutta tempesta e precipitàtogli sopra la gamba, aveva spezzato la carriera di quel marinaro, dotato di robustezza e di carattere, sempre il primo a lanciarsi, ad

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avvertire, a calatafare, a scaricare, a tirare di cazzotti e a scire a vizi. Allora era diventato marinaro di terra, un pesciaiuolo. Della vecchia, bella vita gli erano rimasti due brutti segni: la gamba strepiata e la sifilide. Così Tarattè, monaca e vergine, dal grande aciddo di Martemè fu smonacata e impestata.

E non si era pentita mai di quella scelta: lui faceva un poco il galletto, ma quella gamba sempre tesa lo inchioda-va a starsene asseduto tutto il dì, affianco alla mostra delle cozze e del baccalà e, quando c’era, del pesce. Qualche vol-ta – Tarattè lo sapeva – il marito si faceva portare in casa di qualche puttana a fare le cose sporche. Ma lei era una fèmmena di chiesa, certe cose non poteva farle ed era giu-sto che un màscuo ogni tanto si sfuasse con qualche pove-ra fèmmena che praticava quel mestiere per guadagnarsi la zuppetedda. Per il resto, Martemè la rispettava veramente: anzi, la fede della mogliera per Dio, Gesuccristo Redentore e la Madonna lo metteva un poco in soggezione. Sentiva istintivamente che quella fèmmena teneva dentro qualchec-cosa di più forte e di più importante di tutto quello che lui era in grado pure solo d’immaginare. E poi, le puttane erano l’unico svago di quell’òmmeno vigoroso ridotto a vecchio strepiato, insieme alle reti e alle partite della squadra bianco-rossa. Faceva e riparava reti: da pesca per i marinari e da por-ta per i giuocatori di pallone. Le faceva sopra il marciapiede, affianco alla pescheria o, se il sole era là, sopra il marciapiede faccia in fronte. Qualche volta, gli toccava riparare le reti dov’erano, al posto loro: al lungomare, vicino alle barche o sopra qualche campo sportivo. Ve lo portava con la bicicletta quel bravo ’uagnone di Uelin’ il Provolone. Lui si assedeva sopra la canna e Uelin’ si metteva a pedalare come un ciùccio di fatica, facendosi venire i muscoli di Ercole alle gambe…

Quando Iangiuasand’ fu scaricata dalla mamma dentro la pescheria che mo diventava casa sua, Cilluzz’ non era an-cora rientrato dalla casa di Zi’ Tares’. E, mentre Martemè levava il baccalà dall’acqua col bianchetto e lo sciacquava,

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Iangiuasand’ avette agio di conoscere subito e veramente Tarattè, che da allora, per anni, fu per lei l’unico, pure se inadeguato conforto.

«Fìgghia mia bella» le dicette la suocera, che suocera ora-mai le era, «noi simo dentro a una valle di lagrime. Dio ha da mettere alla prova la fede tua. Hai d’assoffrire, ma addèdica alla Madonna tutto il dolore che hai da provare. Statti citta se t’appròvocano o t’accolpìscono, abbuzzisci, prega, prega sempre. Accosì hai da raggiungere la pace con te stessa e con Gesù, che è dentro al core tuo. E poi, aqquando ha da essere il momento, hai da salire su, dentro al regno dei cieli, accan-to a Lui e alla Madonna».

Tarattè diceva cose sottomesse, usava un linguaggio sup-plichevole e aveva un tono mortificato che normalmente avrebbero fatto imbestialire Iangiuasand’, tutta il contrario come carattere, ma la faccia e gli occhi di Tarattè erano tal-mente sinceri che le apparèttero, quel dì e poi dentro gli anni a venire, sopportabili, quasi convincenti, di certo un momento di sostegno e qualche volta di sollievo.

Iangiuasand’ sbirciò attorno. La pescheria era grande, con le vaschette per il baccalà, il banco di marmo e, appoggiati al muro, i cavalletti e le tavole che servivano per la mostra – innanzi e ai lati della porta – sopra il marciapiede. Dreto la pescheria, la cucina provvista di tavolo per mangiare, fornel-lo, buffè e qualche seggia, con lo sgabuzzino del cesso. Dreto la cucina, un camerone tagliato a metà fra zona dì, con la branda di Cilluzz’ e il tavolo da ricamo di Iann’ la Matta, e zona notte, con il letto matrimoniale. E in alto, una specie di mezzanino, dov’erano sistemate le due brande delle ’ua-gnedde, che sovrastava sia la zona dì che la zona notte. Una tendina scendeva dal soffitto al pavimento del mezzanino per staccare, per quanto possibile, il mondo innocente di Marì e Iann’ dall’oscuro regno notturno dove dominava la notoria “ciola d’oro” di Martemè.

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puzze e mazzate

Iangiuasand’ scoprette subito che quella era, sì, una valle di lagrime, di mazzate e di mortificazioni, ma soprattutto di puzze, di fieti, di addori forti, di profumi all’ammerso, di aromi di remmato e di esalazioni che ti facevano svenire se non ci eri abituato. Soltanto a fare l’elenco di quelle fragran-ze puzzolenti, ci vorrebbe una semana: il priso pieno di schi-fezze che nessuno svacava mai prima di sera, gli zampilli di pisciaturo sopra il muro dello stanzino del cesso, la lordura che nessuno puliziava sopra il pavimento della casa perché le spruzzate di acqua si fermavano al negozio, il fetore di chiu-so dentro quelle due camere che pure stavano sempre aperte, i tanfi di robba da mangiare inacidita, le muffe di tutti i tipi, le incrostrazioni annuali di sudore sotto le ascelle e sopra il collo per non parlare del resto, i miasmi di viscere rinfrescate solo una volta al mese dalla magnesia San Pellegrino, le puz-zolenze che non si capiva mai se fossero di animali morti o di pesce affetisciuto o di ricotta ascuante, i fiati pesanti che ti dicevano chiaramente che sarebbero passate almeno altre due generazioni prima che a qualche uno di quegli sposse-duti gli capitasse casualmente tra le mani uno spazzolino per i denti, cercando qualche altra cosa, sopra uno stìglio fuorimano della drogheria Carofìglio...

Senza contare le conseguenze per il naso e per lo stomaco, oltre che per le rècchie, di pèpiti, strazzaculi, loffe, scorregge e puzzette che erano rispettivamente le cinque specialità di ognuno dei cinque figli di Dio che abitavano in quella casa – in ordine di età, a cominciare dal più grande per finire alle due più piccinonne – quando si liberavano gli intestini dei gas e delle tempeste.

Ma Iangiuasand’ s’impressionò, in particolare, per la ca-

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pacità di penetrazione, compenetrazione e irremovibilità della puzza di formaggio dei piedi. Ne aveva sentito parla-re da Diador’. Certe volte al diurno si presentavano poveri cristiani che non si lavavano da mesi, qualche uno da anni e, quando si sfilavano i calzetti, il frate grande quasi sveni-va e scopriva, parlando con decenza, piedi talmente lordi da parere neri di natura con qualche scarsa venatura bianca o grigia. E Diador’ concludeva sempre alla stessa maniera: «Ma quella puzza di formaggio dei piedi è una cosa che non si pote addescrìvere. O la si sente o non ci si accrede».

A casa di Donna Sabbedd’, invece, tutti si lavavano ogni matina i piedi dentro il bacile e le ascelle sopra il lavandino della cucina. Eppure a Iangiuasandin’ un filo di addore di formaggio dei piedi era arrivato, qualche volta, dal secchio della robba sporca, prima che Bellònia la lavasse: veniva pro-priamente dai calzetti di Diopold’. E Iangiuasandin’, l’in-nocente, credeva che fosse quella la puzza di formaggio dei piedi.

Ma in effetti non aveva avuto mai la minima idea della vera e propria puzza di formaggio dei piedi, prima di trasire in casa di Martemè. Qua quella peste era praticamente stam-pata sopra i vestiti, i calzetti e le lenzuola, che pure venivano lavate una volta ogni tre mesi col sapone giallo e una volta all’anno bolliti.

E quello che feteva più di tutti ai piedi, forse per via di quell’angolazione alle dieci-e-dieci, chissà, era proprio Cilluzz’, che per conto suo non aveva la minima idea di quella che era una casa senza puzza di formaggio dei piedi. E perciò non ci faceva manco caso. Per lui, quello era l’addore della casa.

L’unica a sentire un poco, ma solo un poco, la differenza fra una vita con la puzza di formaggio dei piedi e una senza, era Marì, per via dei pomeriggi che passava fuoricasa, dal-la sarta. Iann’, invece, stava praticamente sempre in casa e manco immaginava che si potesse respirare un’aria diversa da quella.

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Quella puzza era la cosa più naturale di questo mondo pure per Tarattè, che però avrebbe potuto vantare (ma non lo faceva, riservata e semplice com’era) piedi che addoràva-no, chissà come, addirittura di rose. Si trattava dello stesso addore che gettava fuori dalla bocca quando diceva il ro-sario, non sapendo neppure lei alcunché dell’invenzione e dell’esistenza dello spazzolino per i denti. Da dove veniva quell’addore di rose? «È un segno di Dio» spiegava a tutti il parroco del Redentore, «Tarattè è una santa! Accome vi spiegate che sape il rosario in latino mègghio di me, che pure vengo dal seminario? E tutta quella scienza ortopedica, d’addove accredete che vene? Dal Policlinico certamente no. Vene da Dio. Il latino spontaneo, la scienza infusa e l’addore incorporato vèneno tutt’e tre da Dio!» Non c’è quindi da meravigliarsi se ci stava chi la trattava, già da viva, come se fosse la Madonna addolorata.

Dal cielo, quindi, c’era evidentemente chi provvedeva, senza che lei se ne avvertisse – per ringraziarla delle tante messe, dei rosari giornalieri, del bene che faceva ai cristiani e dell’esempio di bontà che dava a tutti i parrocchiani – a pu-liziarla e a spruzzarla di profumo di rose. Primo, perché con tutta quella massa di lardo, quando mai si sarebbe potuta lavare da sola, la poveredda? Secondo, per non far fare una brutta figura a Nostro Signore Gesuccristo, che non poteva certo mandare da qua e da là a rappresentarlo una vecchia lardosa che spurgasse, fra le altre, puzza di formaggio dei piedi.

Passando a Martemè c’è da dire che, un dì sì e uno no, si faceva fare ai piedi e alle gambe le strofinazioni con acqua di mare: era un giovanotto appena strepiato quando qual-che uno gli aveva detto che un marinaro senza mare poteva sanare da tutte le malatie se si strofinava, un dì sì e uno no, con l’acqua di mare. Perciò lui, Martemè, pure se involon-tariamente, la puzza di formaggio ai piedi non la teneva. E comunque non l’avrebbe sentita per via della prevalenza dell’addore di creapòpolo – un fieto peraltro notoriamente

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dominante – emanato permanentemente dalle mutande sue stesse, dai calzoni e dal letto matrimoniale, che certe volte, d’estate, era un’impestatura per l’aria di tutto il quartiere e, a un naso fino, avrebbe detto qualcheccosa pure dal giardino Garibaldi.

E la puzza delle zòccane, dentro quella casa? Anzi le puz-ze: quella delle zòccane vive e quella delle zòccane morte. Eh sì, i signori che non hanno esperienza di zòccane in casa – di zòccane a quattro zampe, s’intende – credono che i sorci fèteno solo da morti, magari stesi sotto il sole, con le mo-sche che ci vanno a sfottere l’entrame. E invece no: esiste l’addore di zòccana viva, che tu la senti che ci sta e che si move da qua e da là pure se non fa manco un rumore o un fruscìo, che tu capisci da quell’esalazione che ti sta a spiare per non essere agguantata, che ti tiene discetato la notte ter-rorizzandoti senza bisogno di fare squit-squit ma solo con quell’addore suo – come si può dire? – di morte, di falsità e d’inganno. Un addore che assomiglia alla pavura che ti fa un’ombra nera che improvvisamente ti può dare una pugna-lata alla schiena. Una presenza inaspettata, misteriosa e che sai violenta, dentro una camera all’oscuro. Insomma, la zòc-cana viva tiene un addore terribile e inconfondibile, come imparò subito quella signorinedda di Iangiuasand’ dentro la seconda casa della vita sua.

Se avevi la fortuna di catturarne viva una di quelle bestie, con la gabbietta e il pezzo di formaggio, facevi subito ad annecarla, gabbietta e tutta, tenendola calata dentro un sec-chio di acqua e a scaricarla morta vicino a qualche cumulo di remmato, allo spunto della strata. Ma se uno di quegli animali schifosi mangiava il veleno e si trascinava a gettare l’ultimo respiro chissà dove, era destino startene per tutto il dì, per dì e dì, con la puzza di putrefazione. Una tortura che finiva relativamente subito, se capitava che quella zòccana stendeva le zampe dentro un pertuso individuabile e rag-giungibile. Ma che non finiva mai se il sorcio avvelenato si

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faceva dare l’estrema unzione dai compagnucci suoi dentro qualche tana segreta, dove i cadaveri di quella razza nociva di quattrozampe non li poteva acciuffare nessuno. E così quella puzza schifosa la spicciava di avvelenarti la vita solo dopo tre a quattro semane, quando scoprivi, insieme, che ti eri abituato a respirarla senza avvertìrtene e che chissà come e perché si era dispersa.

E se le zòccane, pur facendosi sentire ogni notte e rosi-candosi ogni dì qualcheccosa dentro la credenza, si vedevano – diciamo - una volta alla semana, invece i pidocchi, che rin-graziando il cielo almeno non puzzano, tenevano sostenute quelle pettinature in permanenza, facendosi vedere e rivede-re durante la giornata.

Pare strano a dirlo, mo che siamo diventati tutti signori – ’mbe, proprio tutti signori no, diciamo la maggioranza – ma allora i pidocchi erano pure uno spassatempo, dentro quelle giornate tutte uguali. Se te ne capitavano due o tre all’im-provviso sopra il collo o l’individuavi sopra il cuscino o sopra una cammisa, era quasi una soddisfazione farli schiattare fra le unghie dei due pollici e avvicinare la rècchia per accertarti distintamente che facevano “trach”. E ti sentivi poi proprio appagato quando ti passavi il pettinino bianco, che era fatto apposta con i denti stretti da una banda e quelli stretti stretti dall’altra, per catturare pure i pidocchi più piccinunni (un pettinino di questo tipo lo trovavi immancabilmente sopra il primo stìglio a destra, sia da Momen’ della Mercerì sia alla drogheria Carofìglio). Alla fine dell’operazione, dopo una decina di passate con la dentatura più allentata e una decina con la dentatura più densa, facendo tanti “trach”, uno dreto l’altro, di pidocchi non ne catturavi più. E ti potevi godere la bella sensazione di averli eliminati tutti, nonostante che ricordassi perfettamente che il dì prima avevi avuto la stessa impressione e pur sapendo già che il dì dopo ti saresti levato ancora lo sfizio di scazzarne a decine. Insomma, sapevi che quella dentatura di pettinino, stretta stretta quanto vuoi,

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di ova di pidocchi non se ne trascinava appresso nemmeno uno, ma ti volevi convincere lo stesso che quella battaglia quotidiana aveva da essere combattuta e valeva la pena di es-sere combattuta. Del resto, la fascia centrale di quel pettini-no, larga larga e liscia liscia, pareva servire proprio a questo, a permettere lo scazzamento agevole di quelle belve nere. E poi, non era forse bianco bianco proprio per questo, per individuarle meglio e pure per scazzarle con precisione?

Comunque, scazzati e pistrigghiati tra le unghie dei due pollici o scazzati e pistrigghiati con una sola unghia sopra la fascia centrale del pettinino stretto, quel trach-e-trach era una soddisfazione, un giuoco che non costava nulla, un pia-cere che ti potevi pigliare da solo tra un pensiero e l’altro o, in compagnia, fra una chiacchiera e l’altra. Tanto che da ’ua-gnungiddo ti dispiacevi pure quando màmmeta, scoprendo preoccupata che il pettinino tratteneva non due o tre pidoc-chi a passata ma intere cavallerie, decideva di darti una bella spruzzata di flit in capa. Bastava però che ci pensavi un mo-mento e ti ricordavi che quel flit ne accideva, sì, di pidocchi, ma non li sterminava completamente: perciò, dopo una o al massimo due semane potevi ricominciare con quell’arricre-ante trach-e-trach...

Non è che i pidocchi a Iangiuasand’ si rivelarono improv-visamente, per la prima volta, dentro la casa della famiglia di Cilluzz’. Ma c’è da dire che – un poco per la pulizia generale che regnava dentro la casa di Donna Sabbedd’, un poco per la superiorità del didittì rispetto al flit e soprattutto grazie a Diador’, che man’a mano che saliva di grado all’albergo diurno diventava signore e pretendeva che pure la famiglia sua fosse all’altezza della carriera e della stessa pulizia sua – dentro la casa di signorina di Iangiuasand’ di pidocchi se ne vedevano pochi. E comunque non rappresentavano né ragione di vanto né un giuocariddo, anzi una vergogna. Chi si faceva pizzicare con un pidocchio addosso, era chiamato e trattato da porco. Perciò, se ti capitava la disgrazia di ve-dertene uno sopra il collo – e poteva capitare a tutti, pure a

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Diador’ – ti vergognavi, correvi a nasconderti dentro il cesso e, senza farti vedere da nessuno, nemmeno da màmmeta o da sòreta, ti levavi quel disonore.

Di una cosa Iangiuasand’ non si capacitò mai, nonostan-te che pure in capa a lei, man’a mano che rimaneva den-tro quella casa di via Modugno, i pidocchi aumentassero di numero, di proporzione e di vivacità, angustiandola, umi-liandola e costringendola a lavarsi i capelli addirittura ogni mese: quei porci di Cioladoro e dei parenti e dei lavoranti suoi non si scandalizzavano né si preoccupavano per tutti quei pidocchi che si portavano appresso. Anzi ci giuocavano, si contavano volentieri uno con l’altro i risultati delle passate di pettinino fatte a casa, si vedevano e si grattavano in capa uno con l’altro, se li tiravano appresso per scherzo e se ne vantavano pure...

Ma dentro quella vallata di puzze – che, annusate una alla volta, forse ti avrebbero levato il respiro ma che tutte insie-me era come se ti s’intrufolassero dentro i polmoni e le ossa e tu diventavi tutt’uno con loro e con la casa che le conteneva e se ne impregnava, e alla fine non ti davano nemmeno più fastidio, anzi... – sopra tutte quelle puzze dominava incon-trastato, quale re, papa e cardinale, l’addore del baccalà. Un tutt’uno con mobili, matarazzi, coperte, lenzuola, cuscini, asciugamani, strofinacci, vestiti, scarpe e fazzoletti. Il pane? Pareva trombato con il baccalà. Ti bevevi un bicchiere di acqua e ti sentivi sciuare dentro il cannarile quel sapore di-sgustoso. Ed era inutile lavarli i calzoni, le gonne, i maglioni, i cappotti, le mutande, le canottiere e le maglie della salute: erano fatti oramai di cotone e addore di baccalà, di percalle e addore di baccalà, di lino e addore di baccalà, di lana e addore di baccalà. Poi, passavano mesi prima che arrivasse il tempo di lavarli. E nessuno li avrebbe gettati sino a quando non si fossero letteralmente strutti e strazzati: non c’era nes-suno che li rammendasse come dentro le altre case. Iann’? Che c’entra, lei ricamava. E Marì? Sarta fina. Mica potevano perdere il tempo a rappezzare scuciture e strazzature!

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Una vita di animali, insomma. Una vita lorda e vacan-te. Senza impegni e senza passioni. Senza allegria e senza risa. Senza sentimenti e senza nulla. Ci si alzava la matina e, quando arrivava la sera, non rimaneva alcuna memoria di quello che era stato fatto durante la giornata. Sei persone che giravano a vuoto, che sopravvivevano, che ripetevano le stes-se cose e si scangiavano le stesse parole – una ventina al più – ogni dì. Un vecchio paralizzato, in fondo in fondo sazio di quella vita senza senso; una santa fèmmena infiacchita dalla pesantezza della carne sua propria e dall’ignoranza; due ’ua-gnedde infastidite, stranite; uno smidollato senza nemmeno l’ombra di una determinazione o di un’idea della vita, e lei, Iangiuasand’, una capa più tosta della pietra, capricciosa ma pure addolorata, piena di energie eppure abbattuta da una specie di dolore che neppure lei sapeva checcosa fosse e da dove venisse esattamente. Un dolore che si teneva dentro e, del resto, inimmaginabile per quella marmaglia di poveri cristi che, più o meno abitualmente, frequentavano quelle sei anime sospese fra la miseria morale e il nulla.

Due tipi di avvenimenti si sviluppavano parallelamente dentro quella casa durante la giornata, con intrecci che però non lasciavano tracce né dentro le persone né dentro i rap-porti fra quella famiglia e il resto del mondo. Ci stavano le cose e i fatti del commercio comandati da Martemè: il mercato all’ingrosso la matina subito, il ritorno con la robba accattata, la preparazione della mostra, le pesate, gli incassi e la chiusura, con la pompa che spruzzava acqua pulizian-do negozio e marciapiede. E ci stavano le cose e i fatti del mondo di Tarattè: l’avvicinamento lento lento alla chiesa del Redentore all’alba, la messa, il ritorno faticoso faticoso a casa, il trambusto che succedeva quando arrivavano cristiani sofferenti e bisognosi di scrocchiamenti e strofinazioni, la capera il pomeriggio e il rosario subito appresso.

Qualche volta, quando la capera non poteva venire pri-ma del rosario per pettinare Tarattè, le due cose si facevano insieme. E così l’acconzaossa più considerata da tutta la po-

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polazione che passava le giornate fra il giardino Garibaldi e il camposanto in lunghezza, e fra il Redentore e via Napoli in larghezza, insomma l’acconzaossa numero uno di tutto il quartiere e forse di tutto il paese nostro di allora, comanda-va certi dì il rosario mentre la capera le scioglieva comple-tamente i capelli che arrivavano sino in terra, le passava la pettinessa, le passava e ripassava il pettinino stretto per spi-docchiarla quell’anima di Dio, ce li allisciava lisci lisci quei capelli neri neri da madonna sconsolata e poi, piano piano, le rifaceva trecce e tuppo...

E gli altri: Cilluzz’, Iangiuasand’, Marì la Grossa e Iann’ la Matta, checcosa facevano tutta la giornata? E chi lo sa! Nemmeno loro lo sapevano.

Cilluzz’ si pigliava e non si pigliava il fastidio di scire al mercato generale, non serviva quasi mai i clienti, stava sem-pre al cafè di Don Mingh’ a non far nulla e a regalare da bere a tutti, dormiva due o tre ore ogni pomeriggio, si faceva portare dal bar il cafè con un sussurro di cognàcch, diceva immancabilmente «Io me ne vado» e scompariva da casa. Qualche passeggiata a vuoto sino al lungomare, un’occhiata attorno attorno senza interesse e poi rincasava.

Le stesse cose Cilluzz’ continuò a fare pure dopo l’arrivo di Iangiuasand’ dentro quella casa, con l’inserimento im-mediato di un paio di scazzi giornalieri che diventarono, dì per dì, sempre più rumorosi e, per lei, sempre più dolorosi. Vivevano insieme, dormivano dentro lo stesso letto, ma lei non voleva essere toccata e non voleva nemmeno parlargli. Praticamente non parlava quasi con nessuno, i primi tempi, perché non aveva ancora digerito la fusciuta di casa di cui si era pentita quella notte stessa e di conseguenza non voleva accettare la situazione dentro la quale si era messa e dalla quale voleva assolutamente assire ma non poteva assoluta-mente assire. Il carico da undici, poi, ce lo metteva la totale mancanza di carattere, di gentilezza e di fantasia di Cilluzz’. Quella capatosta cocciuta, muta e sorda – che non stava più

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dentro la casa da signorina e non vi poteva tornare più ma proprio là voleva tornare, e non voleva stare dentro la casa di signorina fusciuta ma là stava e là era condannata a rimanere – il figlio di Martemè non ce la faceva a pigliarla di autorità e non sapeva pigliarla con la dolcezza. Che gli rimaneva? Una sola strata: le mazzate. E mazzate le dava, appena poteva.

Per Iangiuasand’ fu il periodo più misterioso della vita sua: non seppe mai dire checcosa facesse, né checcosa avesse fatto dentro quei dì, quei mesi. Un poco come succede ai ’ua-gnuni – e pure a lei era già successo una volta, da ’uagnedda, ai tempi di Zi’ Marisabbell’ – che non sono più piccininni e passano quegli anni strani dentro i quali pare che non faccia-no nulla, non pensino a nulla e non capiscano nulla, e poi, a buono a buono, te li vedi affamati di vita e curiosi di tutto. Solo che lei non stava a crescere: al contrario, stava a scire all’andreto. Non si capiva verso checcosa, ma lei stessa aveva la sensazione di sprofondare, ogni dì più abbàscio. Dentro la sporcizia e la miseria. Ma non dentro la miseria di tornesi, sia chiaro: la moneta là correva, pure assai. Dentro la miseria dei pensieri, dentro la mancanza di rispetto per gli altri (e per se stessi, che è poi la stessa cosa)...

«Tu non hai sogni né ambizioni» Iangiuasand’ gridò una volta a Cilluzz’, ripetendo una frase che aveva imparato a memoria da un libro d’amore – l’unico che aveva letto (rilet-to e straletto) sino ad allora – ma le pareva sinceramente di pensarla così a proposito delle giornate vacanti che si viveva-no dentro quella casa fetosa.

Cilluzz’ quella volta non le sganciò subito un cazzotto, fermandosi e fissandola dentro gli occhi come a domandarle spiegazioni e, se si può dire, l’autorizzazione a colpirla.

E lei spiegò, alla maniera sua: «Tu e i parenti tuoi non site accome agli altri cristiani, che affatìcano per addiventare signori, che accombàttono per scire ’nnanzi dentro alla vita, che da pesciaiuoli per esempio si danno da fare per addi-ventare grossisti, che mandano i fìgghi alla scola per farli addiventare dottori, che mettono i tornesi sotto al mattone

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per accattarsi una casa da cristiani. Voi appassate le scirnate a mangiare, a vendere e a dormire. Accome a tanti animali».

A questa parola, “animali”, Cilluzz’ capette che Iangiuasand’ stava proprio a sfruguliare. Perciò si sentette autorizzato ad allentarle il liscio-e-busso della giornata, e ce lo allentò, gettandola in terra e avvertendo, come ogni po-meriggio: «Io me ne vado». E tacchiò, sbattendo la porta.

Marì qualcheccosa in casa la faceva, il minimo indispen-sabile, e poi amoreggiava con Sepp’, che ogni tanto scom-pariva per mesi seguendo qualche circo – sapeva far man-giare le bestie, puliziava e dava una mano ai pagliacci – un poco per scappare da casa e un poco per cercare la vita che evidentemente non gli davano né la famiglia sua né quel-la sposseduta di Marì. Una volta fu veduto da tutti, dato che il circo dove faticava arrivò al paese e facette la sfilata per la strata. Lui stava asseduto nientedimeno che sopra un elefante. Quella volta era pittato da negro d’America, con un cappellino ridicoloso sopra il cheggheruzzo e una specie di tuta di trentamila colori. Quel santo dell’attano, che poi era il meglio guarnimentaio di cavalli che fosse mai nato e stava sempre a capasotto quando faticava, aveva lasciato la bottega seccato e incuriosito da tutta quella quaquagna. Improvvisamente si vedette innanzi quella sorta di animale. Alzò la capa e individuò il figlio, acconciato a quella manie-ra. Non voleva credere agli occhi suoi, ma tutti attorno at-torno facevano con la capa e con gli occhi innanzi e ’ndreto fra lui e quel pagliaccio sopra l’elefante, il pagliaccio adoc-chiava verso di lui, poi verso la gente e poi ancora verso di lui. E lui stesso fissava mo il pagliaccio mo i conoscenti dello stratone, mo il pagliaccio mo i coinquilini, mo il pagliaccio mo i piccininni che se la ridevano… Insomma, il mondo si mettette a girare come una trottola attorno al povero guar-nimentaio – abituato alla calma della bottega sua – che non avette più dubbianza ad un certo punto sopra la sensazione che aveva avuto dal primo momento e che cioè quel buffone

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da quattrosoldi era proprio quello scapestrato di Sepp’. Gli venette un mancamento a quel bravo cristiano, che cadette in terra azzoppando la capa. Un mese poi stette con la vergo-gna della capa fasciata, avendo da spiegare a tutti i calessieri clienti suoi checcos’era successo...

Sepp’ era l’òmmeno più allegro, l’unico òmmeno alle-gro che circolasse dentro quel mondo di tristagnuoli e di capecalde. Teneva pure il grammofono a casa e una deci-na di dischi allegri allegri: Ma le gambe, ma le gambe a me piacciono di più, la fisarmonica di Peppino Principe, che poi era della provincia di Foggia, Arriva Cosimo con la chitarra in man (proprio lui, Cosimo Di Ceglie, paesano di Andria, emigrato a Milano per fare fortuna), Ho un sassolino nella scarpa pennellata da Natalino Otto, Op op trotta cavallino… Quando Sepp’ ballava faceva ridere, un poco perché si mo-veva a tempo di musica così elegantemente che pareva qua-si un femmeniddo e un poco perché istintivamente, ad un certo punto, si metteva a fare proprio il pagliaccio. Ballava appena poteva e tentava sempre di convincere gli altri a far-lo. Pure le fèmmene cercava sempre di farle zompare con lui, non la sola Marì, e se le tirava in mezzo a una pista da ballo che esisteva solo dentro l’immaginazione sua, facendo-le ridere e sbambarare. Lui lo faceva così, per allegria e senza nessuna malizia, e ciononostante si guadagnava antipatie di ziti e malacera di mariti...

Iann’, invece, stava tutto il dì a fare centrini, a ricamare fasciacuscini e pure lenzuola. Qualche volta si vasava dentro il portone di casa con Amblet’, un cameriere che teneva le punte dei piedi ancora più aperte di quelli di Cilluzz’, quasi alle nove-e-un-quarto, ma che si buscava tante regalìe e un dì sarebbe diventato proprietario di bar come quell’òmmeno con la capa sopra il collo di Don Mingh’…

Chi cucinava dentro quella casa? E si cucinava? Probabilmente sì, qualcheccosa in definitiva vi si mangiava. Beninteso, dentro cazzarole e tiani che non venivano lavati

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per semane intere. Ma non ci stava nemmeno il posto per assedersi alla tavola, per fermarsi un momento a mangiare insieme. Una cosa sbrigativa sopra il fornello, qualche tubet-to con le cozze, il suco con le brasciole la domenica, e sem-pre all’inpiedi, chi qua e chi là, chi mo e chi dopo. E più di una volta a semana si ricorreva al fornaro. Soprattutto per la debolezza numero uno di Cilluzz’, cioè la capuzza di agnello o la capa di cavallo, cervello e tutto. E la tiella di patate, riso e cozze, quando la si faceva, la si faceva grossa grossa in ma-niera che durasse almeno qualche dì. Fredda – assicuravano tutti – era pure più amorosa.

La matina, appena discetate, le ’uagnedde a turno face-vano una scappata al bar di Don Mingh’, per accattarsi un quarto di latte bollito con lo zucchero. Era così scarso il sen-so della casa e della famiglia là dentro, da impedire persino che ci si mettesse al fornello a bollire la matina il latte o, almeno, che si gettasse dentro il latte bollito da Don Mingh’ un poco di zucchero e lo si girasse con la cucchiara. Pure la sera, quando si alzava, Cilluzz’ ordinava sempre a qual-che aiutante di scirgli a pigliare un cafè col sussurro da Don Mingh’. Nessuno che abbia mai preparato un cafè dentro quella casa, dove forse manco ci stava la ciclatera. La colazio-ne? il pranzo? Parole e concetti totalmente ignorati. La cena? E checcosa è, robba che si mangia?

Certo, ci stava pure il fatto che durante la giornata, specialmente il pomeriggio e la sera, si pizzuava sempre qualcheccosa sopra il bancone. Qualche cozza nera o pelo-sa e, quando c’erano, un paio di polipetti. La fissazione di Iangiuasand’ erano le noci reali, quelle con la lingua rossa che si move, contrariamente a Cilluzz’, al quale facevano tanta impressione e che per questo mai le mangiò, mai le toccò e mai le vendette. E poi, ci stava sempre qualche sfizio che, tra una cosa e l’altra, uno si gettava in bocca. Mo passava il carretto dei fichi d’India, mo si faceva vedere il cozzalo che vendeva fasci di ceciariddi, mo arrivava l’òmmeno dei gelsi rossi e te li metteva con una cucchiara dentro un piatto con

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il suco rosso che colava da loro stessi, mo uno si faceva ve-nire l’idea di scire ad accattare una dozzina di gnomeriddi... Perciò da Martemè non si mangiava mai, a tavola, alle ore canoniche: si stava sempre a pizzuare, per tutta la giornata, e quindi a uno si spezzava la fame.

E, quando arrivava la stagione loro, non si finiva mai di affettare meloni. Non quelli di acqua, né quelli di pane, ma solo quelli gialli gialli, perché la debolezza numero due di Cilluzz’ erano perlappunto i sementi di melone giallo. Lui nemmeno lo toccava: né per tagliarlo né per frecàrse-lo. Praticamente manco lo voleva vedere e per lui potevano pure gettarlo dentro la monnezza, spaccato in due o a fette. Pretendeva solo che venisse accattato, che gliene mettessero da una banda il core filaccioso, che gli sciacquassero appun-to i sementi e li mettessero ad asciugare. Solo a quel punto interveniva lui, facendoseli fuori tutti in mezza giornata. Ma una cosa è certa e stracerta: ogni melone che faceva la com-parsa sua dentro quella casa aveva da essere – senza discus-sione – giallo, di quelli gialli gialli da fuori e praticamente bianchi da dentro.

Senza discussione? Iangiuasand’ non era proprio una che accetta un’imposizione senza fare storie. Dire che le prime liti fra loro due furono sopra i meloni è però dire una fesse-ria. Certo, prima di rassegnarsi ai meloni gialli – lei prima mangiava solo meloni rossi, quelli con la scorza tutta verde che vengono da Brindisi – ce ne furono di discussioni, occhi storciuti e chiazzate (che è la traduzione letterale dell’italiano “piazzate” e pure quella sostanziale di “chiassate”). Ma liti e mazzate fra Iangiuasand’ e Cilluzz’ furono originate da cose ben più serie dei sementi, del colore e del sapore dei meloni. E avèttero conseguenze ben più serie di qualche melone get-tato in terra o lanciato appresso a qualche una.

Quante volte Tarattè, dentro quei mesi e quegli anni, si gettò in mezzo a Cilluzz’ e Iangiuasand’ per spartirli, crol-lando volontariamente in terra con tutta la corporatura sua e

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spaccandosi ogni volta le ginocchia (perciò stava quasi sem-pre con i lividi e gli impacchi di acqua e acito). Alzava le braccia grosse grosse al cielo per pregare Signoriddio d’illu-minare il cervello di quel figlio suo impetuoso e violento ma pure per impedire che i cazzotti e gli schiaffoni che lui allen-tava arrivassero sopra la faccia delicata di quella picciuedda, innocente ma sconsiderata, che si era incatenata per tutta la vita a un ’uagnone che di fatto manco conosceva.

Supplicava il figlio indemoniato di sfuarsi con lei: «Accolpìscimi a me, accolpìscimi a me, ma pietà per que-sta povera ’uagnedda». E roteando quegli occhi suoi, grandi grandi e acquosi, occhi forse tipici di quelli che soffrono di diabete – e lei ne soffriva – si voltava al cielo, come aveva vi-sto mille volte sopra le figurine dei santi e supplicava Cristo di perdonarlo quell’ossesso del figlio suo che «non sape quel-lo che fasce».

E Cilluzz’ si frenava e non si frenava: si mangiava le mani dalla ràggia, cercava di trattenersi da pigliare a palate pure la mamma, ma tentava comunque di assestare qualche colpo a quella ’uagnedda che praticamente gli era mogliera e, nono-stante ciò, non voleva abbasciare la capa.

Iangiuasand’, con la faccia abbottata e rossa rossa per le mazzate e con gli occhi neri neri come le malandre dei po-lipi, non gli dava nemmeno la soddisfazione di un grido di dolore o di una lagrima. Questo faceva imbestialire ancora di più Cilluzz’, e più lui si aspettava che lei gridasse e chianges-se e più lei stringeva i denti, inghiottendo le lagrime prima ancora che arrivassero agli occhi. Lo puntava dritto dritto in faccia quel quaquà che si permetteva di darle mazzate solo perché lui era màscuo e lei fèmmena. E più lei lo squadrava, sfottente, ridendo pure, con quella maniera provocante che una volta aveva veduto fare ad Alida Valli o mettendosi certe volte la mano a imbuto in bocca per dirgli che aveva abboc-cato pure stavolta il vienimimbocca, più a Cilluzz’ saliva il sangue agli occhi.

E quasi ogni dì l’Acconzaossa si pigliava la razione sua di

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stampate ai fianchi che Cilluzz non ce la faceva a far arrivare alla destinazione loro, avendo poi da assire di casa con la ràg-gia per non essersi sfuato contro quella figlia di ’ndròcchia di Iangiuasand’ e con il rimorso di aver mazziato nulladimeno che quella santa fèmmena della mamma.

Non passarono più di due mesi dentro quella casa che, da quella bocca che non sapeva stare zitta, zomparono e fini-rono in terra, a uno a uno, i bellissimi denti di Iangiuasand’ che tanti mozzichi avevano dato sino ad allora. E da allora, ogni sera prima di coricarsi, lei per vendetta metteva la den-tiera dentro un bicchiere di acqua, sopra la colonnetta af-fianco al letto, sempre alla presenza di Cilluzz’. Aveva capito che a lui gli dava fastidio quella mossa: non perché gli ricor-dava, a quell’òmmeno senza core, il male che faceva a una ’uagnedda che, a quell’età, già non teneva più la dentatura naturale, ma piuttosto perché gli faceva disgusto pensare che la zita sua teneva la bocca con le gengive all’aria come le vecchie. E poi perché, sin dalla prima volta, quella mossa gli era apparsa come un atteggiamento insopportabile di voluta strafottenza contro di lui.

Lui quasi sempre faceva tardi, perché se ne stava al cafè di Don Mingh’ e, per avere l’illusione di essere un òmmeno rispettato e benvoluto, offriva da bere a tutti. E tutti i man-giapane-a-tradimento di via Modugno ne approfittavano, passandosi la voce («Oh, va’ al bar che sta quel cap’all’aria di Cilluzz’ a pagare da bere a tutti»). E mentre lui si faceva spennare come una gallina, lei lo aspettava discetata pure se teneva sonno, con la dentiera in bocca, per fargli quello sfregio di tògliersela quando stava lui presente.

Appena Cilluzz’, senza calzoni, si avvicinava al letto, lei con una mossa lenta lenta della mano si staccava la dentiera, piano piano la portava verso il bicchiere e la lasciava sciuare dentro l’acqua, in maniera che facesse “ploff ”. E lo fissava dritto dentro gli occhi, accennando a canzoni romantiche che parlavano di risa e di bocche d’innamorate. Per esem-pio, «Ba-ba-baciami piccina sulla bo-bo-bocca piccolina...»

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E cioè, in pratica gli diceva: vedi, mo ti faccio dormire con una senza denti, e ben ti sta! Lui, arraggiato come un cane alla catena, non poteva reagire, non poteva nemmeno darle qualche carezza delle sue perché quella provocatrice si sa-rebbe messa a gridare, e allora la mamma si sarebbe disceta-ta e subito messa a strillare pure lei, invocando Gesuccristo Redentore e la Madonna, e alzando le braccia verso il mezza-nino, dove i due ziti erano stati sistemati provvisoriamente. Dentro quei momenti, Cilluzz’ non poteva fare di più che bestemmiare a voce bassa le bestemmie più terribili contro quella “fìgghia di zòccana” che del resto pure quando lui la sfraganava di faccia non si sottometteva e non chiangeva nemmeno.

«Facimo i conti domani matina» minacciava Cilluzz’ infilandosi sotto le coperte con le mutande lunghe di lana grossa.

«Vògghio proprio avvedere domani matina checcosa sai fare» rispondeva quella sfrontata.

La matina Cilluzz’ era sempre l’ultimo ad alzarsi, pure se da un certo momento in poi avette il disturbo di scire ad aprire, ogni matina, il chiosco in via San Frangisch’. Glielo aveva procurato naturalmente l’attano. Oramai lo sponsali-zio fra quei due ’uagnuni non poteva più essere rimandato. Perciò, Cilluzz’ aveva da cominciare a faticare per conto suo, a pigliarsi le responsabilità sue, a guadagnarsi qualcheccosa lui personalmente con le mani sue, potendo scìrsene final-mente a casa sua con la mogliera sua.

Avere un banco al mercato di via Nicolai non era facile. Col’ per mesi tizzuò alle porte di chi poteva, offrette da bere e dette da mangiare ai tipi giusti, alzò la voce, pregò parenti, amici e compari. Nulla da fare, per ora. E poi, diciamo la verità, non è che Cilluzz’ sbavasse dalla voglia di diventare definitivamente un vero e proprio pesciaiuolo, un òmmeno con la capa sopra il collo e con gli obblighi e i pesi di un capofamiglia. Alzarsi alle quattro, scire con un aiutante pri-ma in via Nicolai a sistemare il banco e poi sino al mercato

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all’ingrosso, trattare con quei volponi dei grossisti e degli operai loro, capare le cozze, studiare il pesce, indovinare la partita buona, caricare e scaricare la robba, fare lite con quel-li degli altri banchi per rubarsi i clienti, cercare di lanciare le grida più forti e più curiose per attirarli, stare cap’all’erta per non farsi frecare dagli aiutanti che cercavano sempre di mettersi dentro la palda i tornesi di qualche pesata, e poi magari, alla fine della giornata, tenersi sopra lo stomaco il pesce avanzato, metterlo sotto il ghiaccio...

Allora, per cominciare, meglio un bel chioschetto. Solo uno o al massimo due quintali di cozze nere a giornata, qual-che decina di chili di cozze pelose quando ci stavano e un paio di pezzi di baccalà, di quello preparato da Martemè. Uno sgabuzzino di quattro per quattro, fabbricato da un mastrodàscia amico di Col’ con quattro lire, all’incrocio di via San Frangisch’ con via Napoli. Ma Cilluzz’ non durò più di una semana a gettarsi dal letto alle quattro in punto, per scire al mercato all’ingrosso. Dall’ottavo dì, provvedèttero Col’ e Cioladoro pure alla robba per il chiosco del pupo-di-zucchero di casa. Cilluzz’ aveva cominciato un’altra volta ad alzarsi tardi, alle sette e qualche volta alle sette e mezzo, per scire al chiosco, dove mo stava per lui praticamente il piatto pronto.

A quell’ora Iangiuasand’ si era già alzata e se ne stava con Marì o Iann’ o appizzicata appizzicata a Tarattè. Nulla maz-zate, perciò. Il turno delle mazzate veniva spostato al po-meriggio. Quando Cilluzz’ tornava dal chiosco con le cozze avanzanti, si precipitava subito sopra il mezzanino. Tirava la cassetta dei tornesi da sotto il letto, l’apriva con la chiave che portava sempre con sé, vi metteva dentro l’incasso della gior-nata, la richiudeva, la ripiazzava sotto il letto in maniera tale che se ne sarebbe avvertito se qualche uno l’avesse toccata e scendeva, per mangiarsi all’inpiedi un piatto di maccaro-ni, tenendolo in mano e facendo sopra e sotto per il locale. Finito di strafocarsi, risaliva sopra il mezzanino per dormire. Le mazzate, per Iangiuasand’, arrivavano dopo, quando lui si alzava fresco e riposato.

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E tra mazzate e dispetti, la vita di Iangiuasand’ trascorret-te per un anno senza amore e senza carezze. Da quella prima notte a casa di Zi’ Tares’, non si erano più toccati.

A questo proposito, ci sta da dire che Iangiuasand’ im-parò subito che l’offesa più grossa che poteva usare contro Cilluzz’, quella che gli faceva perdere il controllo prima e più di tutte, era appunto un accenno a quel problema della palla mancante al cannone e conseguentemente della spada che quell’amico-del-sole non ce la faceva a sguainare. E appena poteva, Iangiuasand’ ricorreva a quest’oltraggio. Era la rispo-sta preferita sua alle mazzate. Una mossa veloce, che durante le liti faceva naturalmente da sopra le spalle di Tarattè ingi-nocchiata, per non farsene avvertire dalla suocera: si toccava con pollice e indice il pezzo della rècchia dove si ficcano gli orecchini, come a dirgli che era ricchione, e a lui gli saliva subito il sangue agli occhi.

E notti, matine e serate si ripetevano tutte uguali. Lui pigliava sonno di colpo, impotente con quella ’uagnedda dispettosa che dormiva dentro lo stesso letto suo e che gli piaceva ma non dominava, poco convinto dalle prove d’im-portanza che dava al bar offrendo da bere a tutti e stremato dalle prove di superiorità di màscuo che inutilmente – come lui stesso in fondo sapeva – sentiva l’obbligo di dare ogni pomeriggio a Iangiuasand’.

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il maloverme

Iangiuasand’ si era avvertita da un poco di tempo che Martemè, stranamente, non la trattava sempre alla stessa maniera.

Per la verità, sin dall’inizio si era sentita puntualmente imbarazzata quando capitava che lei e il suocero stessero dentro la stessa camera o comunque a portata d’occhi. La ’uagnedda non ne individuava la ragione, pure in conside-razione del fatto che non era mai stata vergognosa o timida con qualche uno. Anzi, se di una cosa l’avevano sempre rim-proverata in casa della mamma era che non teneva sogge-zione di nessuno. Invece quel vecchio la faceva stare sempre a schien’aperta, vale a dire inquieta e sospettosa. Specie da quando intuette da dove nasceva quella specie di ritegno che la bloccava in presenza dell’attano di Cilluzz’. Nasceva ap-punto dal fatto che lui si comportava con lei – ecco la prima cosa che le fu chiara e le cominciò ad aprire gli occhi – con certe maniere la matina, quando Cilluzz’ non circolava per casa perché stava a vendere al chiosco, e con altre maniere il pomeriggio e la sera.

Già all’ora che si sapeva che Cilluzz’ poteva ritirarsi da un momento all’altro, Martemè manco l’adocchiava più né le parlava. Iangiuasand’ era come se non esistesse per lui. Se ne stava accepponato al posto suo, sopra il marciapiede, affian-co alla mostra per controllare che nessuno approfittasse di tutto quel bendidio, né gli aiutanti senza onestà, né i clienti senza soldi e né qualche piccininno che avvolo poteva ag-guantarsi, passando fuscendo, una zampata di cozze pelose. E non le domandava di fare nemmeno un servizio alla nora ’uagnedda. Tanto, per fargli qualche servizio dentro casa o dentro qualche negozio là vicino, ci stavano sempre i lavo-ranti della pescheria che non gli potevano certamente dire di no. E se per caso si sfioravano, quelle pochissime volte

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che Martemè, appoggiandosi con pesantezza al bastone, fa-ceva qualche passo dentro il negozio di pomeriggio e di sera, per adacquare il pesce o per fare qualche pesata tanto per non perdere completamente l’abitudine e il mestiere, lui era come se nemmeno se ne avvertisse. Lei, la nora giovane con la faccia dispettosa, per lui non esisteva proprio.

Ma, durante le ore della matina, Iangiuasand’ sentiva di essere sempre al centro delle occhiate sue e dei pensieri suoi. «Pensieri cattivi, pensieri luridi» concludette dopo qualche mese di osservazione e di riflessione.

All’inizio le pareva che quel vecchio non perdesse occasio-ne di studiarla solo perché forse voleva capire chi si era mes-so in casa. Che la stesse studiando, insomma, per valutare il carattere e la creanza della picciuedda che se n’era fusciuta con il primo e unico figlio màscuo suo e che per tutta la vita aveva da stare con lui, regalandogli la felicità o condannan-dolo all’afflizione perpetua. Perciò, i primi tempi, un poco per dovere e un poco per giuoco, Iangiuasand’ aveva con-traccangiato le occhiate e gli rispondeva pure con una risa dolce a Martemè. Però lui, il vecchio, stranamente rimaneva serio serio, continuandola a fissare, con le sopracciglia che si arcuavano sempre di più: ma non la fissava dentro gli occhi, la fissava addosso, la puntava, anzi la squadrava, la squadrava e la riquadrava, la soppesava e la esaminava, quasi che ne volesse imparare a memoria la corporatura pezzo a pezzo, centimetro per centimetro, dai piedi alla cima dei capelli.

Insomma, a ogni punto e momento della matina, Iangiuasand’ si sentiva quegli occhi, freddi ma penetranti, centrati senza requie addosso a lei. Qualunque cosa facesse e in qualsiasi posizione stesse, quegli occhi la seguivano, la in-seguivano, la pedinavano, la spiavano... Le facevano la posta pure quando lei stava in casa e lui, il suocero, fuori. Persino quando lei si chiudeva dentro il cesso per fare i fatti suoi. Appena si riaffacciava al negozio, eccoli sempre là quegli oc-chi a inchiodarla, come se fossero stati fissi sopra la porta da dove lei sarebbe rispuntata per tutto il tempo che lei era stata in casa o dentro il cesso.

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E Iangiuasand’, l’innocente – detto seriamente, senza sfottitura – fu particolarmente impressionata all’inizio dal fatto che quegli occhi, di fuoco e di ghiaccio, erano come se dicessero tutto e nulla. Cioè si trattava di occhiate, fisse o sottosotto, in faccia in faccia o da dreto la schiena, che certo sentiva che erano cariche cariche d’intenzioni, ma non capiva esattamente di quali intenzioni. Non scordiamoci che stiamo a parlare di una picciuedda appena fusciuta dalla casa della mamma e che per giunta si riteneva pure arzilla arzilla. Perciò né vantava esperienza di certe cose né era così umile da mettersi dentro le condizioni d’intuirle d’istinto. Non sapeva per esempio che, in presenza di comportamenti curiosi e inspiegabili di un màscuo rispetto a una fèmmena – fèmmena fatta o ’uagnedda, impegnata o libera non ha importanza – uno si può e si ha da sforzare naturalmente per capirne la sostanza e il significato, ma che se alla fine degli sforzi e delle analisi quelle azioni gli rimangono curiose e inspiegabili, questo non significa che sta punto e da capo. Al contrario: proprio dentro questo caso, difatti, ci sta una spiegazione, una sola spiegazione. La spiegazione più vecchia del mondo: quell’òmmeno a quella fèmmena se la vole fare. Ma prima di arrivare a queste conclusioni semplici semplici ce ne vogliono di anni e di pazienza. E Iangiuasand’ di anni ne teneva pochi e di pazienza ancora meno.

Così, a causa dell’età e del carattere, a Iangiuasand’ vera-mente non passò manco per la capa – almeno all’inizio – che un vecchio paralizzato e fetente potesse pensare a certe cose e che potesse fare certi pensieri sopra una ’uagnedda, che poi era addirittura la zita del figlio. Perciò i primi tempi gli ride-va a quel malintenzionato. E se le passava vicino sfiorandola, lei si scostava e, domandandogli scusa perché non si era av-vertita che stava arrivando e non si era spostata prima, di-ceva: «Appoggiàtevi, appoggiàtevi pure a me» e gli faceva da bastone sinistro, aiutandolo a tornare ad assedersi. E manco ci faceva caso se, per metterle il braccio sopra la spalla, il vecchio si fermava con la mano ad allisciarle un poco il collo

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suo di velluto oppure faceva sciuare la mano innanzi, sino a toccarle di sfusciuta le mennodde. Né dava importanza al fatto che, quando lei saliva sopra il mezzanino, se poteva quel brigante se ne stava abbàscio, proprio ai piedi della sca-la, avendo la possibilità di spiarla da sotto la veste. Che ne sapeva allora, quel fiore di mamma, del maloverme che qual-che volta nasce, cresce e si allunga esageratamente dentro la capa di un òmmeno grande, di un vecchio, addirittura di un suocero, sino a disorientarlo, a dominarlo, a comandarlo a bacchetta, a fargli fare pure cose che, per qualche lampo di godimento o comunque di debolezza, possono creare sfra-celli familiari?

Ma poi, un poco alla volta, Iangiuasand’ cominciò ad aprire gli occhi, a scostarsi, a prevenire... Pure le rècchie ap-pizzò. Difatti si avvertette che, in presenza sua, il vecchio qualche volta era come se si dicesse qualcheccosa, fra lui e lui, movendo appena la bocca. Una specie di mormorìo, un sussurro che a lei capitava quasi d’identificare quando gli passava innanzi e se lo sentiva dreto la schiena, ma non ca-pette mai checcosa dicesse esattamente. Una sensazione pre-cisa però la davano quelle parole indecifrabili e quei bisbigli oscuri: un mìschio di cose belle e di cose brutte, di compli-menti e di minacce.

Però, dì per dì, le espressioni malvage della faccia e della voce pigliàvano sempre di più il sopravvento. E Iangiuasand’ cominciò a non ridere più quando lo vedeva e cercò pure di non allumarlo più, a meno che non era strasicura che lui non la stesse a spiare.

“Ma che vole ’sto fesso da me?” cominciò a domandarsi senza essere capace di darsi una risposta. Comunque, senza leggere e scrivere, a un dato momento pigliò le distanze da quello che percepiva oramai come un pericolo. Era sconcer-tata, non capiva e non sapeva esattamente checcosa potesse fare. Sentiva però che un fucile puntato la teneva sempre di mira.

Ma non si trattava solo del fatto che non capiva e che,

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sottosotto, cominciava a sentire addore di brusciato. Ci sta-va pure il fatto che quella ostinata non aveva abbasciato la capa con nessuno, nemmeno con la mamma o con il zito, e figuriàmoci se mo poteva abbasciarla con il suocero. Eppoi, lo sappiamo, se si metteva a capa abbasciata, lo faceva solo per attaccare.

Pure quel vecchio lurido lo pigliò di petto, passando adà-scio adàscio dalla sorpresa alla difesa e, con la velocità di un siluro, dalla difesa all’attacco. A modo suo, naturalmente. Per esempio, quando non si moriva di freddo, faceva innanzi e ’ndreto sopra il mezzanino, per mettere a posto le cose e per rifare il letto, con le mutandine e le gambe all’anuta. “Io posso scire accaminando vestita o all’anuta, come mi pare e appiace. Questa è pure casa mia” si era detta, una volta che ci aveva pensato. “È lui, il malacarne, che ha da stare al posto suo, che si ha d’accontrollare”.

E quando faceva freddo e s’imbacuccava dentro una ve-staglia di flanella che la teneva calda calda, quella sprudente manco se ne avvertiva se, piegandosi verso il letto, si scopri-va tutte le gambe da dreto, dimodoché le avrebbe potuto adocchiare le cosce e le mutandine chi fosse passato da sotto, dentro la camera da letto di Martemè e Tarattè, o chi si fosse semplicemente affacciato alla porta tra il negozio e la casa e avesse sbirciato all’insù. Eppure aveva oramai appurato che la matina Martemè si alzava in continuazione dal posto di vedetta, fuori dal negozio. E quando lei faceva le cose sue sopra il mezzanino, lui più di una volta s’inoltrava sino alla cucina, mo con una scusa e mo con l’altra, mo per l’urgenza di pisciare e mo per pigliare una pillola da sopra il comò. E per esempio stava ore piazzato vicino alla cassetta dei soldi, appoggiato alla vasca, facendo finta di spostare e rispostare ogni tanto il baccalà per agevolare la penetrazione della calce dentro tutti i pezzi, e di parlare con i ’uagnuni, ma per la ve-rità di Cristo quasi sempre con gli occhi verso l’interno della casa, attraverso la porta mezza chiusa. E gli occhi loro, della nora e del suocero, qualche volta s’incrociavano.

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Nemmeno quando lei scendeva abbàscio dal mezzanino, naturalmente, Martemè la finiva di starle addosso. Anzi. Lui si piazzava quasi sempre alle strettoie, fra il muro e il tavolo, fra una seggia e il buffè, fra lo stipite chiuso e l’altro aperto di una porta, proprio quando lei passava da là. E se stava lei a fare qualcheccosa dentro una zona stretta, ecco che, per caso, pure lui teneva cheffare proprio da quelle bande o comunque proprio da là aveva bisogno di passare. E passa-va, tenendo sempre il culo dall’altra banda e strusciandosi sopra la ’uagnedda. Che però, mo, non si spostava. “È lui che vene a sfòttere, è lui che si ha da spostare, non io” pen-sava Iangiuasand’, bloccandosi sopra i mattoni e dentro la posizione che teneva. E là rimaneva fino a che quel malizio-nante non passava e ripassava, pigliandosi appunto passaggi che Iangiuasand’, mancante di esperienza ed eccessivamente piena invece di dispettosità, non sapeva manco checcosa fos-sero. Ma che per lui, il vecchio, erano proprio passaggi. E il maloverme – si sa – di passaggi si abboffa, e più si abboffa e più ne vole.

Una volta Martemè, mentre passava dreto di lei per scire a mettere i tornesi di una pesata dentro la cassetta, torcendosi per la gamba paralizzata e per il bastone – lei teneva l’abitu-dine di appoggiarsi con le braccia sopra il banco del pesce, a godersi lo spettacolo di quelli che passeggiavano per la strata o si fermavano innanzi al negozio – rischiò di cadere in terra. Il bastone zompò all’aria e lui si mantenette in equilibrio agguantandosi ai fianchi di Iangiuasand’ e stringendosi forte forte a lei. Ma la verginedda si liberò di scatto di quella pre-sa, strafrecàndosene della posizione instabile di quel vecchio strepiato ed essendo interessata solo ed esclusivamente a non farsi mettere le mani addosso da quella zecca. Martemè quel-la volta non finette culo in terra – con quale conseguenza per la salute sua, non si sa – solo perché intervenette a salvarlo dalla caduta Uelin’ il Provolone.

Il ’uagnone stava a specchietto sin da quando Cioladoro

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si era alzato dal posto suo per una pesata di cozze che invece poteva far fare tranquillamente a lui, spiandolo man’a mano che procedeva tràppeta-trapp’ verso l’interno del negozio. Era sicuro che, per pigliarsi un passaggio sopra la nora, quel vecchio vizioso avrebbe gettato i tornesi delle cozze dentro la cassetta dei tornesi del pesce, anzichè dentro la cassetta loro, quella di destra. Faceva finta di stare attento a quello che succedeva sopra il marciapiede, ma teneva gli occhi pratica-mente rivoltati all’andreto per marcare il patrone che, invece di girare a destra, sterzò difatti a sinistra.

Aveva cominciato a preoccuparsi seriamente quando lo aveva visto ondeggiare, tra il bastone e la gamba buo-na. Uelin’ lo conosceva il patrone suo, sapeva il malacarne che era, aveva indovinato da tempo checcosa teneva in capa a proposito della nora, perciò quell’ondeggiamento non lo sorprendeva ma lo inquietava. Non lo sorprendeva perché rappresentava chiaramente l’oscillazione del vecchio fra la tentazione di toccarla da dreto quella ’uagnedda, che inge-nuamente non si era avvertita del pericolo che si avvicinava, e la preoccupazione di non farsi scoprire dai lavoranti e dai clienti che lui arrivava addirittura a sfottere la zita del figlio. Ma quell’ondeggiamento della corporatura, che non lo sor-prendeva perché rispecchiava l’oscillazione dei pensieri che aveva già radiografato dentro il cervello del vecchio, inquie-tava Uelin’ per due ragioni. Primo, perché se sopra la preoc-cupazione avesse vinto la tentazione, là poteva succedere mo un quarantotto o un novantanove. Secondo, perché dalla caminata ondeggiante è facile che un vecchio zoppo, peral-tro con certe tentazioni per la capa, passi alla caduta quando meno te l’aspetti.

E difatti, ad un certo punto, Uelin’ aveva visto volare il bastone ed era scattato. Né si era fermato quando il patrone era rimasto in equilibrio appoggiandosi e stringendosi alla patrona giovane. Figuriàmoci – realizzò d’istinto – se quella ci stava a farsi mettere le mani addosso, pure se con la scusa, anzi con la necessità vera che teneva il vecchio quella volta,

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di agguantarsi a qualcheccosa o a qualche uno per non ca-dere malamente in terra, con il pericolo di spaccarsi forse la spina dorsale. Sapeva già che Iangiuasand’ l’avrebbe gettato all’aria quel vecchio vizioso: perciò Uelin’ non si fermò. E solo per questa ragione, tutto rosso in faccia per la vergogna di aver spiato quel tentativo di sfottimento, arrivò ad ag-guantarlo il vecchio un momento prima che azzoppasse con violenza sopra le chianche del pavimento…

Ma, durante i primi mesi della vita di Iangiuasand’ dentro quella casa, questo era stato l’unico incidente vero e proprio con quell’òmmeno che, per matinate intere, non la perdeva mai di vista.

Col passare del tempo, le azioni e i movimenti dei due diventarono sempre più uguali a se stessi, fatti e rifatti sem-pre alla stessa maniera, quasi che fossero un giuoco o una commedia già scritta che loro non potevano cangiare.

Del resto, per esempio, lei checcosa poteva fare, come poteva reagire? Lo aveva da mettere al posto suo, quel porco? Eccome? Lui era grande, era l’attano del marito suo, era il patrone della casa. Se lo avesse pigliato a tu per tu, era lui che avrebbe messo apposto lei! E allora? Fare uno scandalo? E sopra checcosa poi? E con chi parlarne: con Tarattè? con Cilluzz’? con quel poveriddo di Uelin’? E che avrebbero po-tuto fare, loro? E poi, parlare di checcosa? In definitiva, mica il suocero l’aveva pigliata a boffettoni. Di checcosa avrebbe potuto lamentarsi con Tarattè o Cilluzz’ o qualche altra ani-ma buona? Delle occhiate, degli adocchiamenti, dei sottec-chi? delle intenzioni di Martemè? delle sensazioni che lui le provocava? Bastava solo pensarci per concludere che sopra questa strata non avrebbe ricavato granché, se non guai e sputtanamento. “Ma non so’ questi gli stessi problemi che teneva Zi’ Marisabbell’? gli stessi ragionamenti che faceva lei?” si ricordò e si dicette ad un certo punto. “A me nisciu-no mi pote nominare imbrattata e le menne mie so’ nor-mali, non so’ scandalose accome erano effettivamente quelle di Pittotunno, eppure sotto alle mazzate accome a lei sto.

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Perché? Per la rascione che so’ capatosta accome a lei o più semplicemente perché so’ fèmmena? E in effetti un màscuo capatosta non vene nominato imbrattato e nemmeno pro-priamente capatosta. Di lui si dice, al contrario, che tene i cogghiuni, che è un òmmeno in sesto, che nisciuno pote pronunziare pure una sola parola fuori posto ’nnanzi a lui. E perché a noi fèmmene invece ci pòteno pigghiare a male parole e a mazzate? Perché a noi ci hanno da mettere i piedi e le mani addosso, e noi ci avimo da stare pure citte citte, senza reagire?”…

Un carcere era diventata quella situazione con il suocero, per Iangiuasand’. E siccome si sentiva dentro una situazione senza vie di uscita, per reazione faceva – un poco per inespe-rienza e un poco per dispetto – praticamente quello che il suocero si aspettava che lei facesse. Sì, stava sopra il mezza-nino proprio quando lui poteva venirla a spiare. E allora? Sì, si metteva ai punti della casa e del negozio dove lui poteva tentare di sfiorarla? E allora? Che ci provasse! Sì, lei faceva il passa-e-spassa fuori e dentro il negozio più del necessario quando era il vecchio a tenere cuita alla mostra delle cozze (“cuita” non è una parola che viene dall’italiano ma dallo spagnolo “cuidar”, aver cura). E allora? Che, la strata era la sua? E, senza sapere esattamente ciò che faceva, imparò pure a torcersi caminando – imparò? più semplicemente si ricordò di come caminava Zi’ Marisabell’ – e lo faceva a proposito quando sapeva che quel vecchio bacucco la spia-va. Per sfida. Come per dirgli: “Vecchio rattuso, io so’ una ’uagnedda bellafatta, tengo diritto di stare addove vògghio e accome vògghio, e tu t’hai da stare al posto tuo”.

E Uelin’ il Provolone? Uelin’ parlava poco e stava al posto suo. Ma era un posto, diciamo così, da dove si vedeva tutto e, con un poco di sale in capa, si capiva tutto ciò che succe-deva dentro quella casa. Che poi non era un complesso di cose così complicato. Certo, prima dell’irruzione di quella ’uagnedda di via Mirenghi, tutto era più semplice e scorre-

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va dolce dolce, senza scatti e senza questioni. Iangiuasand’ aveva scombussolato quella vita: mo Cilluzz’ circolava sem-pre con la capa guastata e la nervatura, Marì e Iann’ erano venute a dormire abbàscio – dove apprima ci stava la branda di Cilluzz’ – per lasciare il mezzanino ai due ziti, Tarattè te-neva il pensiero fisso di difendere Iangiuasand’ dalle mazzate del figlio e Martemè, con quell’altro pensiero fisso suo che sarebbe stato meglio per tutti che se lo fosse levato, metteva in agitazione sia naturalmente quella povera ’uagnedda di Iangiuasand’ sia Uelin’ stesso, forse l’unico della casa a sape-re di quella brutta malatia che si era pigliata il vecchio.

Rispetto a tutti gli altri, Uelin’ teneva il vantaggio di stare per ore e ore solo con Martemè, quando lo portava a fare qualche servizio, al mercato, a rappezzare reti da qual-che banda o in casa di qualche signorina a pagamento, ché pure lui teneva diritto di sfuare l’istinto di màscuo con una fèmmena vera e propria, dato che non lo poteva certamente fare sino in fondo, detto senza voler offendere nessuno, con quell’elefante di Tarattè. E asseduto sopra la bicicletta – con la gamba tesa tesa che costringeva Uelin’ a tenersi ad almeno un metro e mezzo di distanza dai motori o dalle macchi-ne che passavano o stavano parcheggiate sopra la destra – a Martemè gli piaceva parlare. Con il vento in faccia, con quei quattro capelli che gli rimanevano in capa tutti arruffati, quel culoseduto parlava, parlava... Parlava sempre lui, parla-va continuamente. Allora si misurava in effetti la fiducia che teneva per Uelin’. Il massimo della fiducia che uno può avere per un altr’uno: non lo considerava proprio.

Evidentemente voleva sfuarsi pure con la bocca. E sfuarsi senza rischi, senza che qualche uno potesse approfittarne o riportarlo a qualcun altro o offendersi o fare delle doman-de. E così di fatto si parlava a lui stesso, parlava all’aria, al cielo, al vento e alle rècchie di Provolone. Parlava di spese e guadagni, dei parenti loro, della sora Tares’ la Zoppa che Martemè non voleva che manco si affacciasse al negozio per quanto era intrigante, delle malatie di Tarattè, dei fastidi che

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gli dava la sifilide, dei culi e delle menne delle fèmmene che passavano innanzi al negozio, delle partite del Bari... Pure dei figli suoi e delle scemetùdini che facevano. E, parlando di questo e di quello, un paio di volte si facette sfuscire qual-che battuta a proposito della nora, senza contare la conferma di una cosa che sapevano tutti e che cioè tra Cilluzz’ e la zita le liti erano assai e il disaccordo totale, sia a piano terra sia sopra il mezzanino. E poi: «Se non era che Cilluzz’ è fìgghi-emo!» Oppure: «Va sempre papereggiando con quelle gonne strette strette!» O ancora «Quella vocca che parla sempre, ’nvece di fare cose più concrete»... Battute che a Uelin’ ri-velarono chiaramente e definitivamente il maloverme che si era intrufolato dentro la capa del patrone.

Non a caso soprannominato Provolone, pareva scordarsi tutto quello che aveva sentito, appena scendeva dalla bici-cletta e accompagnava il patrone ad assedersi. Faceva finta di non sapere, di non vedere e di non capire. E rimaneva sem-pre muto, con la capa un poco abbasciata. Le parole avevi da tirargliele con la tenaglia e, per fargliela alzare quella capa, ci volevano gli spari di Santa Nicola. Ma in effetti non gli sfusceva nulla a quel cervellino. La bocca stava sì chiusa, la capa stava sì abbasciata, ma le rècchie le teneva sempre ap-pizzute appizzute. Sentiva tutto, pure la caduta di una foglia d’insalata di scarto dentro il negozio di Melin’ la Fruttaiola. Sapeva più di tutti, seguiva tutto e intuiva dalle azioni di quelli che abitavano e passavano dentro quella casa più di quanto loro stessi non immaginassero. Se fosse stato mal-vagio, con quel quadro completo della situazione che aveva accumulato in capa, avrebbe potuto fare in quella casa il pa-trone e il sotto. Ma forse gli dicevano e gli facevano sentire tutto proprio perché era così, buono e onesto. Lo sapevano tutti che a lui non gli piaceva fare né il patrone né il sotto. Lui si accontentava di starsene da una banda, al posto suo, per i fatti suoi. Punto e basta.

Ma mo Uelin’ era un poco agitato. La venuta di quella ’uagnedda aveva scombussolato pure la vita sua. No, a lui

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non era venuto il maloverme in capa: ci mancherebbe altro che gli fosse venuto di fare qualche pensiero sopra la zita del figlio del patrone! Ma a Iangiuasand’, parlando con rispetto, le aveva voluto bene sin dal primo momento. L’aveva vista così piccinonna e così pulita. Aveva capito subito che si era messa dentro quella situazione per un dispetto scemo. Avette il presentimento, anzi la sicurezza dei guai e delle tribola-zioni che quell’irresponsabile avrebbe sofferto dentro quella casa e con quei cristiani, che non c’entravano proprio nul-la con lei. Perciò gli facette subito tanta pietà Iangiuasand’. Sin dal primo momento sentette che, dentro i limiti suoi s’intende, aveva da aiutarla e spalleggiarla. E man’a mano che Iangiuasand’ pigliava cazzotti da quello scornacchiato di Cilluzz’, crescevano dentro Uelin’ il bene e la considerazione per la patrona ’uagnedda. E quante volte l’aveva salvata, av-visando lui Tarattè che i ziti si stavano a pigliare e che aveva da correre a mettersi in mezzo, a spartirli.

Sapeva che quella situazione poteva cangiare solo in peg-gio. Ma quando si avvertette di certe occhiate e di certi movi-menti di Martemè, e quando poi sentette quelle battute sue sopra le “gonne strette strette” e sopra le “cose più concrete” che avrebbe dovuto fare la bocca della nora, capette che i fat-ti stavano a precipitare pure più velocemente di quanto lui temesse. Uelin’ passava quelle lunghe matinate con la faccia sempre rossa – a causa della vergogna che provava per quel vecchio prepotente e della pena per quella ’uagnedda spru-dente ma innocente – e col core che gli batteva come uno stantuffo di ciuff-ciuff. Teneva pavura che da un momento all’altro potesse succedere una cosa brutta assai dentro quella famiglia, che poi era l’unica famiglia che la vita gli avesse dato.

Uelin’ veniva da Napoli o da qualche paese là vicino. Era figlio di enne-enne, non teneva nessuno, manco un cugino o un parente alla lontana. Nessuno sapeva nemmeno dove dormisse. Forse dentro una baracca, in campagna. Se n’era fusciuto da un orfanotrofio. Aveva fatto lo schiavo, di mas-

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seria in masseria, sino ad avvicinarsi prima alla zona portuale di Brindisi, dove facette lo scaricatore e poi a Bari, senza nemmeno sapere perché e percome. Una volta, la prima vol-ta che quel napoletano capitò al mercato all’ingrosso del pe-sce, Martemè praticamente se lo vedette sotto le stanghe del traìno a portargli la robba in via Modugno. Senza che nessu-no gli avesse domandato nulla. Martemè e Col’ lo avevano lasciato fare. Il ’uagnone pareva serio e poco pretenzioso. Forse era proprio l’aiuto che ci voleva, all’età loro. Oramai Col’ non ce la faceva più a portare il traìno, col doppio cari-co delle cozze e del patrone strepiato. E da quel dì, ogni dì, Uelin’ fu di casa. Lo chiamarono subito con un altro nome, “il Provolone”, perché per molti mesi non fu necessario dar-gli nemmeno una lira per la fatica che faceva. Una pagnotta con il provolone e la mortadella a mezzodì, e una pagnotta con la mortadella e il provolone la sera, e lui era contento.

E non ci volle molto a Martemè per avvertirsi che lui era l’unico degli aiutanti, anzi l’unico di tutti quelli che giravano per quella pescheria e per quella casa, che non rubava manco una lira dalla cassetta e che non si faceva sciuare dentro la palda il pagamento fosse solo di una pesata. Fu dopo molte insistenze del patrone che cominciò a spizzuare, ogni tanto, qualche cozza o qualche polipetto. Là, invece, tutti quanti si levavano le pieghe a furia di strafocarsi. Così, dopo qualche mese, Martemè cominciò a mettergli in mano, alla fine della giornata, quattro soldi. Ma si scoprette che con quelle due pagnotte continuava a campare. Stipando i tornesi che gli dava Martemè, si era accattato gli avanzi della bicicletta che quel macaco del figlio grande di Melin’ la Fruttaiola ave-va sfracassato la prima e ultima volta che l’usò, sbattendo contro il carretto del marmeraro. E piano piano, pezzo a pezzo, se l’era rimessa a posto. Così, a buono a buono, se lo vedéttero arrivare alla pescheria, invece che piede piede, so-pra una bella bicicletta. «Vedite ’ste belle due rote?» dichiarò subito al patrone: «D’ora in poi queste so’ le gambe vostre». E da allora, difatti, il pesciaiuolo zoppo di via Modugno po-

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tette scire innanzi e ’ndreto a piacimento suo, attaccandosi naturalmente sempre di più a quel ’uagnone più che a un figlio...

A Uelin’ quei movimenti fra suocero e nora gli facevano venire una goccia, ogni dì. Alcune volte, quando credeva che la scintilla stesse per scoppiare, cercava gli occhi, quasi a do-mandare aiuto, di Tarattè, se c’era, o di Marì e Iann’, se ca-pitavano da quelle bande. Ma quelle parevano non avvertirsi mai di nulla, non voler vedere, non interessarsi di nulla...

Quel dì Cioladoro aveva fatto alzare il figlio ordinandogli di scire al mercato all’ingrosso al posto suo e se ne era rima-sto a letto. «Brividi di freddo, pesantezza di stomaco e mal di capa»: così si era lamentato quel busciardo.

Mo erano soli: lui abbàscio, a letto e lei, la ’uagnedda, sopra il mezzanino, a fare innanzi e ’ndreto in vestaglia. Lui, il feruscolone, sapeva che si sarebbe goduto lo spettacolo delle cosce e delle mutandine che le altre matine adocchiava da lontano, dalla cucina se non, attraverso la porta aperta, dal negozio. E difatti, ecco la ’uagnedda che si piegava per fare il letto, manovrando con il risvolto della coperta e coi cuscini, e si scopriva da dreto sino alle cosce. Si può imma-ginare checcosa succedeva dentro la capa e tra le gambe del vecchio, con la faccia e gli occhi voltati verso il mezzanino. Iangiuasand’ ad un certo punto si sentette fissata e, istinti-vamente, sbirciò da sotto le braccia, abbàscio, verso il letto dei vecchi. E la vedette quella faccia da tre di bastone con gli occhi puntati proprio in mezzo alle gambe sue. Quello spudorato non sbirciava di sottecchi. E gli occhi suoi non cangiarono direzione, quando s’incrociarono con quelli del-la ’uagnedda.

Per la prima volta, si parlarono veramente con quegli oc-chi. Lui che le diceva, in sostanza: “Ma una dì o l’altra ti ho d’agguantare a te”. E lei che gli rispondeva, sempre con gli occhi: “Se t’appermitti solo di tuccuarmi, ti faccio fare un volo che te l’arricordi per tutta la vita”. Fu un momento, ma un momento decisivo per capirsi fra quei due.

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La prima tentazione di Iangiuasand’, appena vedette quei due occhi allupati, fu di risollevarsi e di scire a tirare la ten-da, che forse Cilluzz’ aveva lasciato aperta e che lei stessa, mentre faceva i servizi, sprudentemente non aveva pensato a chiudere, forse perché di solito a quell’ora non ci stava nessuno abbàscio e, soprattutto, non ci stava quello sfacci-mo. Ma pigliò il sopravvento la dispettosa. “È lui che si ha da spostare, è lui che non ha d’affissare gli occhi quassopra” pensò, “io a casa mia posso stare accome vògghio, mica ho da tenere sempre la schien’aperta pure a casa mia”. E conti-nuò a stare piegata sino a quando non finette di farlo il letto. Poi, con il comodo suo, tirò la tenda e si vestette.

Quando scendette, era vestita. E drizzò il piede verso il negozio, senza nemmene salutarlo. Ma quello zozzoso la fer-mò con la voce, domandole di preparagli una borsa di acqua calda.

«E mamma? E Marì? E Iann’?» fu il suo no. «L’hai da fare tu l’acqua calda» insistette lui, con il tono

del capofamiglia, «perché stanno tutt’e tre fuori stamatina. Me l’ha già fatta Tarattè una borsa, apprima d’assire, ma mo s’è arraffreddata».

E di malavoglia Iangiuasand’ si mettette a scaldare l’ac-qua dentro una cazzarola. Mentre l’acqua ferveva, cercava inutilmente la borsa di gomma in cucina. Si affacciò dentro la camera da letto, per vedere se fosse sopra il comò o sopra il letto dei vecchi. Nulla. Tornò in cucina per astutare il gas sotto la cazzarola.

Fu a quel punto che lui la informò dal letto: «La borsa sta qua».

«Qua addo’?» domandò lei, affacciandosi alla camera per dormire.

«Qua, sotto alla coverta» le rispondette lui. «Allora pigghiàtela e dàtemela». E lui: «Non posso chiecarmi, tengo i doluri alla schiena,

vieni qua e mitti tu una mano sotto alla coverta per pig-ghiarla».

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«No, io la mano sotto alla coverta non la metto».«E perché non la vuoi mettere».«Perché lo sàccio io».«Fa’ subito ché l’acqua si arraffredda».«No, io la mano sotto alla coverta non la metto».Allora lui, cedendo proforma: «Vabbuono, avimo acca-

pito, vuoi fare la smorfiosa stamatina. Allora la borsa la pìg-ghio io, ma tu vieni qua vicino al letto, da ’sta banda, accosì io te la posso appassare».

Iangiuasand’ si avvicinò, passò innanzi ai piedi del let-to, evitò il monzignore puzzolente che era proprio dentro quello spigolo e s’infilò fra il muro e il letto, dalla banda in cui si coricava Martemè. “’Sto vecchio puerco tene brutte intenzioni, lo so, ma se tenta di farmi qualcheccosa gli svaco il priso ’ncapa” pensava la ’uagnedda avvicinandosi al suo-cero, che invece sfilò la borsa da sotto la coperta, piegandosi innanzi e lagnandosi per il dolore alla schiena, e ce la dette.

Iangiuasand’ la pigliò avvolo e fuscette verso la cucina, tutta rossa in faccia per i brutti sospetti e i cattivi pensieri fatti sopra il vecchio, che invece, poveriddo, non le aveva fat-to proprio nulla in definitiva. Mentre metteva l’acqua den-tro la borsa stava cercando di capire se, dentro le occhiate e i movimenti di tutti quei mesi, ci fossero veramente tutta la malizia e la cattiveria che lei aveva intravvedute oppure solo le fantasie sue, le pavure sue, l’antipatia sua per quel vec-chio strepiato che tutti chiamavano Cioladoro, lo schifo che sentiva per quella casa e la stessa angoscia per la situazione dentro la quale si era messa fuscendo con Cilluzz’.

E gli portò la borsa di acqua calda, un poco più rassi-curata. Ma mentre gliela porgeva, quasi pentita oramai per quello che aveva pensato sopra il vecchio dentro tutti quei mesi, per quelle passeggiate dispettose in mutandine sopra il mezzanino e pure per la sgarbatezza che gli aveva fatto pochi minuti prima, fu travolta da una furia selvaggia, dalla forza e dalla violenza di dieci marinari assatanati messi in-sieme. Con la mano sinistra Cioladoro si era liberato della

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coperta, scoprendosi completamente all’anuta dall’ombelico ai piedi – insomma, stava senza mutande – e con la destra le aveva acciuffato il collo tirandola verso di sè, contro il ventre peloso come quello di un cane. La ’uagnedda fu immobiliz-zata, le gambe imprigionate dalla gamba buona del vecchio contro la gamba paralizzata, e le braccia bloccate dreto la schiena dall’acciaio della mano sinistra di Martemè.

«Pìgghialo ’mmocca, pìgghialo ’mmocca» gridava come un ossesso il vecchio, che con la destra le forzava la capa tirandole forte forte i capelli che quasi le si staccavano pell’e tutta, «ti faccio avvedere io a fare la zòccanedda con gli aiu-tanti e poi non ti vuoi far attoccare da Cilluzz’ mio!»

Iangiuasand’ resistette poco, con la bocca stretta stretta e col collo teso teso, all’insù. Poi il collo cedette, ma tentò un’ultima resistenza premendo il muso con la bocca chiusa contro le gambe di quell’iradiddio, vicino ai ginocchi.

«Apri la vocca, zòccana, apri la vocca» gridava quell’as-satanato, cercando di spostarle la capa verso il centro delle cosce sue.

E quando non ce la facette più a resistere, la ’uagnedda si sentette la bocca, che alla fine aveva aperto per il dolore terribile di quei capelli tirati, piena come mai se l’era sentita e mai più se la sarebbe sentita. La capa le si annebbiò, perce-pette delle grida, intuette vagamente che non si trattava solo della voce del vecchio e svenette.

Quando ripigliò i sensi, si avvertette che Uelin’, tenen-dola per la vita, cercava di farla caminare, dalla cucina al negozio. E dal negozio, stretti stretti, per la strata.

«La patrona sta addisturbata» spiegò Uelin’ quella scena all’altro aiutante e a due clienti. «Dato che Tarattè non ci sta, l’accompagno io alla farmacia Ciaciulli per accapire checco-sa tene e checcosa ha da pigghiare».

Il ’uagnone avette, per un attimo, la tentazione di ag-guantare la bicicletta, di farvi montare sopra la canna quella bella ’uagnedda della patrona e di fuscire con lei da quel mondo schifoso. Ma fu soltanto la fantasia di un momento.

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Facèttero un giro a piedi, sino al campo di via Napoli. Là non ci stava nessuno. Piano piano Iangiuasand’ si ripigliò, ricominciò a ragionare e a capire. Ricordò che Uelin’, attira-to dalle grida e capendo avvolo checcosa stava a succedere, si era precipitato come una furia dentro la camera da letto di Martemè con il marrazzo per tagliare il baccalà.

«Patruno, io v’arrispetto accome e più che a un attano» gli aveva gridato a Martemè, con il sangue agli occhi per la prima e ultima volta dentro la vita sua, «ma se non al-lassate momò la ’uagnedda v’accido. Se l’allassate, vi do la parola d’onore che nisciuno ha d’assapere mai quello che è assuccesso e io torno a servirvi accome a sempre, se volite. Altrimenti me ne posso pure scire. Ma la ’uagnedda l’avite d’allassare. Subito, momò!»

Innanzi alla sorpresa dell’entrata da guerriero di quel bravo giovane, a quelle parole e a quella sorta di arma che stringeva in mano, Martemè era rimasto imbambolato, fer-mo, tenendo ancora bloccata la picciuedda fra le gambe e le mani, forti le une e le altre come la pietra. Poi finalmente aveva aperto le mani e le gambe e si era gettato all’andreto, sopra il cuscino, con gli occhi stralunati. E Uelin’, con uno scatto, prima che quell’assatanato ci potesse ripensare, si era piegato sopra il letto, pigliando la ’uagnedda e portandosela di peso verso la cucina...

Oramai Ingiuasand’ si moveva con le gambe sue e teneva dentro la capa un vulcano d’idee di guerra e di vendetta.

Ma, tornando alla pescheria, Iangiuasand’ si avvertette che per la prima volta dentro la vita sua stava a sentire il consiglio di un cristiano.

«A checcosa asserve fare una tragedia, mo?» le stava a con-sigliare Uelin’, che praticamente per la prima volta le parlava, «mègghio accercare di capire checcosa convene fare. Magari potite acconvìncere Cilluzz’ a cangiare casa finalmente. Per il vecchio, non vi state ad appreoccupare. Non vi fasce più nulla, mo. Sape che se v’attòcca pure con un dìscito, io che so’ buono e caro l’accido con le mani mie».

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Martemè intanto era tornato al solito posto suo, asseduto di vedetta, col bastone, affianco alla mostra del pesce e della frutta di mare. Nulla più brividi di freddo o pesantezza di stomaco o mal di capa. E nemmeno più maloverme in capa. Stava là – e là sarebbe rimasto tutta la vita – come se nulla fosse successo, come se la nora non l’avesse mai cimentata.

Lei tornò al negozio e salette dritta dritta sopra il mezza-nino. La capa le scoppiava, sentiva freddo e caldo e si gettò sotto le coperte.

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lo sponsalizio

Iangiuasand’ rimanette inchiodata al letto per un mese sano sano. Quell’abbattimento improvviso della zita di Cilluzz’, che era straconosciuta come una ’uagnedda tosta-redda anzichenò, fu una vera sorpresa per tutti, meno che naturalmente per quello sfottitore di picciuedde di casa che rispondeva all’eloquente soprannome di Cioladoro, e per quel Provolone di nome ma non di fatto che si era rivelato per una volta Uelin’. A nessuno risultava un incidente, pure un minimo infortunio, fosse pure una semplice sciuata o un’azzoppata di capa che potesse giustificare quella sorta di guaio capitato a Iangiuasand’.

La ’uagnedda mo s’irrigidiva e colava sudore freddo come una sbarra di ghiaccio e mo sprigionava calore come un vul-cano, un momento era gelata e bianca come una morta e un momento dopo avvampava. Rigettava puntualmente le due o tre cucchiare di pastina che ogni tanto accettava, tremuan-do per la febbre. Tre volte ogni ventiquattr’ore lanciava tutto all’aria e si metteva a chiàngere. Dormiva, agitata, durante la giornata e teneva invece gli occhi scatesciati di notte, ma non per questo ci stava modo di tirarle dalla bocca una sola parola. Insomma, pure per chi avesse saputo l’origine di quei malanni (e là almeno in due ne erano a conoscenza), sareb-be stato complicato assai capire se Iangiuasand’ non potesse parlare per quanto stava male o se stesse male per quanto non poteva dire. Certo è che Tarattè era la prima volta che vedeva una cosa del genere.

Ma non si limitò certamente a mettersi le mani dentro i capelli quella santa suocera della malata. Quante ne facette – e ne facette fare – per combattere contro la malatia che si era scatenata a buono a buono sopra quella povera ’uagnedda! Siccome i piedi dell’Acconzaossa non ce la facevano a porta-re sopra il mezzanino quella massa di lardo che a malapena

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si trascinavano terra terra, toccò a Marì e a Iann’ fare sopra e sotto per la scala di tavola con bicchieri, pillole, cucchiare, impiastri, termometro, piatti (spani e copputi, a seconda del tipo e della consistenza della portata), liquore di aglio per l’affanno, unguenti, camomille, zuppiere di siero di latte, borsa di acqua calda, bacili di acqua fredda, pannolini, faz-zoletti per stringere la capa, ova di pollastra, tazze di fiori della passione, acqua bollita di limone, decotti di rosolac-cio... Da sotto, Tarattè gridava alle due ’uagnedde quello che avevano da fare e da non fare, si faceva descrivere le reazioni della malata e ordinava le controreazioni che poteva arrivare a pensare un’acconzaossa con la scienza e la coscienza sua. Si azzardò a sperimentare alla cecata – fidandosi delle mani e della parole delle figlie – pure tentativi di medicatura mai provati sino ad allora sopra cristiano vivente.

Ma tutto fu inutile. Piena di dolori, ammagagnata, muta e accepponata al letto Iangiuasand’ stava, e piena di dolori, ammagagnata, muta e accepponata al letto rimaneva.

Per una volta si arrampicò sopra il mezzanino pure il Dottore, trattato sempre in pescheria con i guanti gialli, non tanto perché cliente fisso e buon pagatore quanto perché, essendocene la necessità e chiamato d’urgenza, correva sem-pre a fare da aiutante all’Acconzaossa, sostenendo con quelle quattro cose che aveva imparato all’università la giornaliera attività di prontosoccorso, salvamento e cura gratis-et-amo-re-dei che si praticava dentro la cucina, chiamiamola così, di quella casa di Dio e del diavolo. Mentre Provolone già gli incartava mezzo chilo di musci e mezzo di taratuffi, pure questi gratis-et-amore-dei, il Dottore si dichiarò dello stesso avviso di Tarattè: «È la prima volta che m’accàpita una mala-ta accosì», avendo però l’ardire di pronunziare la congettura che «forse è stato per un’agitazione». Ma nessuno seppe dir-gli se sì, la ’uagnedda si era agitata per qualcheccosa oppure che no, non si era pigliata assolutamente nessuna agitazione e nessuno schianto.

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«Ne sai nulla tu, Uelin’, che quella dì che Iangiuasand’ si sentette quel mancamento fosti il primo ad assoccòrrerla?» domandò ancora una volta Tarattè al ’uagnone, tanto per sicurezza.

«Che vi ho da dire?» tentennò un poco Uelin’, lancian-do un occhio dalla banda del patrone. «Patrona, vi posso dire una buscìa a signorì? Dal negozio la intravvidi la patro-na giovane che stava ’ncucina e che era addiventata bianca bianca accome a un lenzuolo. So’ scattato per assostenerla, ci feci bere un bicchiere d’acqua fresca e l’ho accompagnata fuori per farci pigghiare un poco d’aria. Punto e abbasta».

«E non avisti la curiosità d’addomandarci» s’informò la patrona, «che teneva? che ci era assuccesso?»

«Io m’appermisi d’addomandàrcelo, è vero» ammettette Uelin’, facendo innanzi e ’ndreto con gli occhi fra la patrona grossa e il patrone zoppo, «ma lei non m’arrispondette».

«E tu, Martemè» continuò gli interrogatori Tarattè, a be-neficio del Dottore, «tu che stavi a letto quella matina, pos-sibile che nulla sentisti e nulla vedesti?»

«Quante volte te l’ho da dire? Quella matina, aqquando la ’uagnedda scendette dal mezzanino, stavo più a dormire che discetato» confermò Martemè, mo mirando e rassicu-rando la mogliera, e mo sbirciando e venendo rassicurato da Uelin’, «e di quello che assuccedette ’ncucina, poi, non ne sàccio proprio nulla».

Tarattè era disperata, non solo perché non arrivava a ca-pire e soprattutto a farla rialzare dal letto quella benedetta nora, ma pure perché, per la prima volta dentro la vita sua, una malata non le dava nemmeno la soddisfazione di di-chiarare che provava un certo miglioramento. Tutti quelli che le erano capitati sotto le mani, dopo pure solo una stro-finazione o un impacco, immancabilmente si premuravano d’informarla che si sentivano già un poco meglio. Magari qualche volta lo facevano per ringraziarla, per farla contenta. Qualche altra volta il miglioramento era solo immaginario o apparente o provvisorio. Ma, senza contare naturalmente

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quelli ai quali Tarattè veramente restituiva la salute, quelli che cioè venivano portati a braccia dentro la pescheria, sve-nuti e piegati in due, e tornavano a casa con le gambe loro e con la risa stampata in faccia, una cosa è certa: un poco, un filo, uno stezzo, un’ombra, un’impressione di migliora-mento la dichiaravano tutti. Invece Iangiuasand’ nulla. Non solo non dichiarava di sentire qualcheccosa che forse poteva significare, pure alla lontana, che si stava a rimettere, ma non si dichiarava proprio. Non parlava per nulla. Manco per lamentarsi, manco per gelare Acconzaossa e figlie sbatten-doci in faccia che si sentiva male esattamente come prima, come il primo dì della crisi. Magari che addirittura si sentiva peggio di stomaco, per colpa di tutte quelle fetenzarie che le davano da bere e da inghiottire. Nulla. Iangiuasand’ pareva muta, muta e sorda.

«Però, commà Tarattè» concludette il Dottore, che si voleva spicciare a scìrsene a casa, sentendosi già in bocca l’amore dei taratuffi, quel sapore di acido fènico che solo i taratuffi tengono fra tutti i frutti di mare, «non stàtevi ad appreoccupare più del necessario. La ’uagnedda non tene nulla di grave. Il corpo è sano. Dev’essere una questione di capa, di nervatura. Un poco di pascienza, commà Tarattè, e tranquillità... Una camomilla la matina, riso in bianco a mezzodì e una camomilla la sera. Accosì ha da passare la ma-latia. L’importante è che la ’uagnedda la facite stare quieta quieta».

Nemmeno la messa al Redentore, le preghiere dell’andata e ritorno, e il rosario del pomeriggio arrivarono a cangiare la situazione. Ad un certo punto, “per penitenza”, l’Acconza-ossa cominciò a scire pure il pomeriggio in chiesa, e a reci-tare là il rosario, rinunziando alla capera. Insomma, facette il doppio voto di prostrarsi non una volta ma due volte ogni dì ai piedi di Cristo direttamente a casa Sua, e di non farsi pettinare i capelli sino a quando Iangiuasand’ non si fosse rialzata dal letto. Commà Catarin’, che vendeva vicino al Redentore quaderni e sinali per i piccininni della scola, ce

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lo diceva: «Commà Tarattè, non potite scire ’nnanzi accosì, a fare due volte alla dì casa-e-chiesa, casa-e-chiesa. Non site mica una ’uagneddozza, né pesate venti chili». Ma Tarattè accettava la seggia da Commà Catarin’, per riposarsi e forse per appapagnarsi un poco prima di farsi il ritorno a casa, ma non il consiglio. E continuò quel doppio voto, non solo diventando ogni dì più stanca e più bianca, ma pure dando agio ai pidocchi che teneva in capa di moltiplicarsi e spatria-re da una rècchia all’altra, dalla noce del collo sino agli occhi, come pareva e piaceva a loro, senza controllo di pettinino e senza che nessuna capera li catturasse e li accidesse.

Ma tutto era inutile. Camomilla, riso in bianco, sacrifi-ci, doppia visita giornaliera a Gesuccristo e moltiplicazione volontaria dei pidocchi. La ’uagnedda né stava peggio né meglio.

«Fàtela stare quieta, patrona. Ascommetto che, accosì ac-come è venuta, la malatia se ne va» tenette l’ardire di consi-gliare timido timido Uelin’ a Tarattè.

E Martemè, che non parlava mai di quell’argomento, quella volta dicette: «Tene rascione Provolone. La ’uagnedda ha da stare quieta quieta. Allassàtela stare. La malatia ha da fare il corso suo».

Perciò Tarattè fu contenta quando Cilluzz’, che non ce la faceva a vedere una pillola senza svenire (figuriàmoci quel va-e-vieni continuo di rimedi e di medicazioni) e che quella zita scattosa non l’avrebbe lasciata quieta manco se l’avesse vista sopra il letto della morte, le comunicò che per tutta la durata della malatia di Iangiuasand’ se ne sarebbe stato a dormire a casa di Zi’ Tares’. E così facette, quel cacazzoso.

Ma il trentesimo dì, alle cinque di pomeriggio, lo vedèt-tero ripresentarsi a casa. «Stanotte addormo qua» annun-ciò. E, innanzi alle facce interrogative della mamma e delle sore, spiegò: «Oramai è appassato un mese, la malatia di Iangiuasand’ stasera se ne va».

«E checcosa ne sai, tu, fìgghio mio bello, di ’ste cose» lo

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ripigliò sconsolata Tarattè. «Non ne accapisco e non arriesco a fare nulla io, non ne accapisce e non arriesce a fare nulla il Dottore, e pure la Madonna immacolata e addolorata, dopo tante preghiere, orazioni e rosari, non dà segni... E mo arrivi tu, frescofresco, non sei manco salito sopr’al mezzanino ad avvederla accome sta quella creatura di Cristo, non ti sei manco asseduto e ci dai ’sta bonanova... Volesse Dio!»

«Ahò, vedite che il mio non è un augurio che ci faccio a quella spostata, né un semplice presentimento» tentò di chia-rire Cilluzz’, che si avvertiva di non essere creduto. «Vi sto solo a ’nformare che stasera, fra un paro d’ore, Iangiuasand’ sta bell’e sanata e s’alza dal letto».

«M’accome fasci a dire ’ste cose, fìgghio mio bello? Ma che ne vuoi assapere tu di ’ste cose!» Nemmeno la mamma trattenette una risa tra l’amaro e il rimprovero, mentre Marì e Iann’ fuscèttero invece fuori per non fargli una risata in faccia al frate grande, per giunta con quella malata in casa che, dentro certi momenti, pareva stare più da là che da qua. «Che ne puoi assapere tu!» aggiungette sconfortata Tarattè.

«Lo sàccio io perché lo sàccio» rispondette il zito della malata, sapendo in effetti lui le cose sue ma non essendo a conoscenza e non avendo manco lontanamente il sospet-to della vera ragione dello sbattimento, dell’abbattimento e della malatia di Iangiuasand’. «...Lo sàccio io perché lo sàccio» ripetette. E preferette scìrsene alla cantina ad aspet-tare, innanzi a una brasciola col suco, che l’informazione portata in casa, tempo un paio di ore, si rivelasse esatta e si concretizzasse.

Cilluzz’ non tenette il coraggio di spiegare la ragione di questa sicurezza sua. Gli mancò la faccia di confessare, pur di farsi credere, che quella malatia di Iangiuasand’ la tene-va lui sopra la coscienza, anzi lui e quelle due malefèmme-ne di Tares’ la Zoppa e, tale mamma tale figlia, Tetedd’ la Settebellezze. Per convincere quelle miscredenti della mam-ma e delle sore che lui era perfettamente legittimato a sapere che quella sera stessa la zita sarebbe zompata dal letto con la

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sveltezza di un grillo, risanata e intatta come trenta dì prima, avrebbe dovuto contarci una storia brutt’assai.

Trenta dì prima, spinto da quella malaserpe della ziana e dalla cugina, signorina grande, aveva tagliato di notte un cirro di capelli a Iangiuasand’ per farle fare una fattura. Dài e dài, la Zoppa e la Settebellezze l’avevano convinto che la vita sua non poteva scire innanzi così, con una mogliera che non gli era mogliera né in chiesa, né per il municipio, né sopra il letto. Era buona solo a fargli salire il sangue agli occhi e a farsi dare mazzate. Lui o se l’aveva da levare dai piedi quella capaspostata o l’aveva da fare rigare dritta. Voleva ottenere uno di questi due risultati? ’Mbe, ci stava una masciara a Torre Tresca che non ne aveva sbagliata una di fattura. Loro due, mamma e figlia, le avevano già contato il fatto. E la sentenza di quella fèmmena valente era stata che il male-fìzio si poteva fare. Bastavano un cirro di capelli della ’ua-gnedda, un limone giallo, sette spilli e una fettuccia. Stava a lui decidere il colore della fettuccia: verde se voleva che a Iangiuasand’ le arrivasse una bella disgrazia che la faceva cre-scere una buona volta; nera, per una fattura a vita, così se la levava d’attorno e non se ne parlava più; rossa, caso mai lui volesse ancora perdere il tempo a tentare di farsi volere bene da quell’indemoniata.

Cilluzz’ non immaginava manco lontanamente checcosa avessero architettato quelle due fèmmene. La Zoppa oramai si era fissata: voleva che, piano piano, facendo lite prima con Iangiuasand’ e poi con l’attano e la mamma sua, e sentendo-si solo, Cilluzz’ se ne venisse a stare con lei e, piano piano, si mettesse con Tetedd’, nonostante che questa fosse più gran-de di età rispetto a lui, che gli rimanesse cugina e che avesse fatto la bella vita sino a qualche annetto prima.

Allora: verde, nera o rossa? Come la voleva ordinare la fettuccia, Cilluzz’, alla masciara? Con quale colore voleva at-torcigliare attorno agli spilli i cirri di capelli di quella diavola della zita sua? Col verde della speranza, col nero della morte o col rosso del core?

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«Vabbuono» rispondette Cilluzz’, voltando la faccia per la vergogna da un’altra banda, perché capiva che ci stava a dare una bella delusione a quella che gli voleva bene come una seconda mamma, pure se a modo suo, e a quella che al-meno lui considerava una terza sora, «vabbuono, mettìmoci la fettuccia rossa». Si sorprendette lui stesso a scoprire che in fondo in fondo a quella matta non le voleva male. Voleva, in fondo in fondo, che abbasciasse la capa come fanno tutte le altre fèmmene, insomma che gli portasse più affezione e più rispetto.

Solo alla trentesima giornata di dolori e tormenti per Iangiuasand’, quel citrone di Cilluzz’ realizzò l’inganno pa-tito e facette la facciatosta con Tetedd’. «Non è che m’avite fatto un bel traìno?» le domandò all’improvviso.

La Settebellezze fu lei, per la prima volta, a diventare ros-sa e gialla, sentendosi obbligata a fare “sì” con la capa. E se ne fuscette

Lui, il cugino, le si mettette dreto. Non la voleva perdere di piede. Era convinto che quella culaperta, mo, lo avrebbe portato dove, forse, si poteva riaggiustare il fatto. E si fer-marono innanzi al vecchio pozzo, pieno di remmato e di cani morti che stava proprio alle spalle della fontana di Torre Tresca. Tetedd’ si ficcò dentro il pozzo e, volta e rivolta, vol-ta e rivolta, lo rintracciò il limone. Cilluzz’ se ne avvertette di colpo: la fettuccia, stretta stretta attorno agli spilli e ai capelli di Iangiuasand’, era nera. Perciò tentò di sfilarcelo dalle mani il limone, con tutto quel veleno e quel tranello ingarbugliati attorno.

Ma Tetedd’ lo fermò, spiegandogli: «Statti fermo, sàccio io accome si fasce. Io gettai il limone dentro al pozzo e attoc-ca a me fare mo quello che ho da fare».

Cilluzz’ la fissò e concludette che si poteva fidare: quella selvatica aveva finalmente capito che con lui, in quanto a letto, non ci stavano speranze. Perciò abbasciò le braccia e la lasciò fare. E la mirò mentre tirava a uno a uno i sette spilli, e a ogni spillo diceva le parole magiche che le aveva confidato

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la masciara: «Accosì tiro ’sti spilli, accosì si hanno da levare dalle carni della patita».

E mentre Cilluzz’ correva a casa, per verificare gli effetti della controfattura, Tetedd’ sfaceva i nodi della fettuccia e appicciava con un fulminante fettuccia e capelli, pronun-ziando tre volte la formula segreta: «Fusci malefìzio ché il fuoco abbrùscia...»

«La malatia di Iangiuasand’, stasera, se ne va» aveva anti-cipato Cilluzz’ tornando in via Modugno. Ma, senza manco sapere la storia della fattura e della controfattura, chi gli po-teva credere a quel fatuo? Del resto, quale esperienza di cose di salute poteva vantare, se se ne fusceva sempre, per l’im-pressione, pure quando la mamma aveva da tirare con forza qualche braccio stortigghiato per rimetterlo apposto?

Ma quella sera Cilluzz’ si pigliò una bella rivincita so-pra tutti quanti. Improvvisamente e immotivatamente, così come erano arrivati trenta giornate prima, dal corpo di Iangiuasand’ sparirono febbre, macchie, dolori di capa, agitazione e tremuizzi. Così, inaspettatamente e inspiegabil-mente. Cilluzz’ l’aveva detto, nessuno gli aveva creduto e mo si realizzava esatta esatta la profezia sua. Che, era diventato un mago? o un dottore? o più semplicemente, tira e tira, si era avvertito di volerla bene a quella picciuedda scalognata e tanto aveva pregato a Cristo quel sacrìlego pentito che, il trentesimo dì, Cristo gliela aveva fatta la grazia, preavvisan-dolo? Senza considerare che, pur escludendo magia, scienza e fede, si sa che se uno la vole una cosa, se la vole con tutto il core e con determinazione, alla fine riesce a spostare pure le montagne. O quasi.

“Quelle due so’ proprio due assassine” tirò le somme, sol-levato, Cilluzz’.

«Gesù, grazie» gridò Tarattè, che all’istante ordinò di sci-re a chiamare la capera perché corresse a levarle dalla capa quella tortura dei mille, dei diecimila pidocchi che si erano ingrassati e moltiplicati durante le giornate di voto, diven-

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tando naturalmente ogni dì più potenti e più prepotenti.«Meno male, è affinito ’sto sopra-e-sotto» si dicèttero

Marì e Iann’. “Che schianto che mi aveva fatto pigghiare” pensò

Martemè.«Povera ’uagnedda» chiangette emozionato Uelin’ sopra

la bicicletta, per tutta la strata che lo portava dalla pescheria a casa, in campagna.

E lei, Iangiuasand’? Quando aprette gli occhi, dopo tren-ta giornate di assenza dalla vita, si vedette sopra il naso una rècchia di Cilluzz’, che stava a sentire se respirasse regolar-mente e se si ripigliasse finalmente. La prima tentazione del-la resuscitata fu di staccargli una rècchia con i denti, ma si sorprendette a vincerla, questa tentazione, e a far finta di discetarsi adàscio adàscio, dandogli il tempo di allontanarsi e di assedersi dall’altra banda del letto. Che stranezza, quasi quasi era contenta di vederselo affianco.

Il tempo di scendere dal mezzanino e già aveva deciso checcosa sarebbe successo, mo, della vita sua. Tanto per co-minciare, aveva da dire baibai a quella casa. Quel vecchio porco non voleva nemmeno vederlo più. E poi, finché stava-no tutta la giornata insieme a Martemè e Tarattè, dentro la stessa casa, a mangiare dentro gli stessi piatti, Cilluzz’ rima-neva ’uagnone e se ne approfittava. E lei rimaneva appesa, né signorina né patrona di casa, né con Cilluzz’ né senza Cilluzz’. “Mo abbasta” pensò, “chi vole la vita che se la cam-pa”. E quella sera stessa passò all’attacco. Per la prima volta, da quando era capitata dentro quella casa e salita sopra quel mezzanino, gli parlò sinceramente a quel povero disgraziato che le avrebbe dovuto essere marito.

«Senti, Cilluzz’, accosì non potimo accontinuare» gli di-cette e lui quasi non credeva agli occhi suoi e alle rècchie sue, sentendo quel tono di voce e osservando quella espressione di faccia. «Senti» continuò la zita, «’sta vita di mazzate e di dispetti non pote scire ’nnanzi. E non potimo stare ancora dentro alla casa di màmmeta. Qua il patruno è Martemè

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e la patrona Tarattè. Che accomandamo, noi, sopr’alla vita nostra? Perché non ci facimo una casaredda nostra? Ci ab-basta una stanza. Tanto, il chiosco mo lo tieni e ascommetto che fra poco t’arriva pure il banco a via Nicolai. Mica poi ci vògghiono tanti tornesi per una stanza e per un boccone a mezzadì».

Cilluzz’ era stato pigliato alla sprovvista da quell’iradid-dio di ’uagnedda. «Ma se non simo manco marito e mog-ghiera?» balbettò.

E lei: «Appunto, che aspetti a organizzare il matrimonio e a pigghiare in affitto una casaredda solo per noi?»

«Ma io addicevo marito e mogghiera a letto...»Iangiuasand’, a quel punto, avette un’illuminazione e ca-

pette dove stava portando il giuoco suo senza che nemmeno lei stessa lo avesse voluto consapevolmente. «Tu sei ammala-to ’ncapa se credi che io mi metto a fare con te, senza che mi sposi, ’nchiesa, e senza una casa tutta per noi, addo’ io so’ la patrona e tu porti i calzuni».

«Ma io accredevo che tu non m’avvolivi».«E tu m’hai addomandato mai se io t’avvolevo?»«...Allora?» domandò lui speranzoso e sconcertato, già ve-

dendosi all’anuta e patrone, sopra quella matta tutta all’anu-ta pure lei che si torceva dal gusto.

«Allora? Allora checcosa? Fissamo il matrimonio, pig-ghiamo una casa e fuscìmocene da qua».

«Aqquando?» domandò Cilluzz’, riperdendosi innanzi a tutte quelle decisioni da pigliare.

«Aqquando? Aqquando?» gli facette la caricatura Iangiuasand’, cangiando però subito tono: «Mo, momò. Domani stesso facimo le carte».

«E la casa?» tentò di tirarsi ’ndreto Cilluzz’. «Mica l’arri-cùperi accosì una casa giusta, a un prezzo giusto».

Qua lo voleva portare a quel tordo e qua lo aveva portato. A proposito della casa, Iangiuasand’ teneva la risposta pronta da quando aveva avuto l’illuminazione sopra il giuoco che si era messa istintivamente a giuocare con quello sbarbatiddo

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di Cilluzz’, che in effetti non aveva mai toccato un mazzo di carte in vita sua, mai fatto una mano a patrone-e-sotto e mai palleggiato con parole e pensieri. E mo Iangiuasand’ aveva pure capito perché prima di cadere malata si era interessata “per semplice curiosità” al Si loca appeso sopra il portone affianco alla farmacia Ciaciulli. Pareva fatto apposta per due ziti freschi: una stanza col cesso, al primo piano, addirittu-ra col balcone, proprio all’incrocio fra via Modugno e via Mirenghi. Fatto apposta per loro due, dato che rimaneva praticamente a settanta metri dalla pescheria di Martemè e a settanta dalla casa dov’era nata e cresciuta lei, sino a quando aveva avuto quella bella pensata di fuscire per fare un dispet-to alla mamma.

«La casa?» dicette lasciandolo di stucco, «la casa ci sta, ci sta. Sta proprio qua vicino, sopr’alla farmacia Ciaciulli».

«Ma magari è troppo grande per noi» azzardò una resi-stenza Cilluzz’.

«No, non è troppo grande per noi» lo informò Iangiuasand’, «anzi, ci sta giusta giusta. Una bella stanza col cesso. E te ne puoi pure assire sopr’a un bel balcone, per pigghiare aria e per affumarti una fumosa».

«Ma magari il patruno della casa vole i numeri. Allassamo stare...»

«Ma che numeri e numeri. Il prezzo che appretende è giusto, è alla portata nostra».

«Ma che ne sai tu che s’affitta? che ne sai tu che non l’ha già pigghiata qualcun altro?»

«...Senti Cilluzz’, è inutile che accerchi scuse» riepilogò il fatto Iangiuasand’: «la casa sta libera e noi ne avimo abbiso-gno accome al pane. Non potimo più stare qua. Lo accapisci da solo... Ma accome ti ho da dire che ti vògghio essere mog-ghiera a tutti gli effetti e vògghio che tu mi sei marito a tutti gli effetti? Mica parlo georgianese...»

Cilluzz’ drizzò le antenne: «Allora vuoi fare la pace con me?»

«Ma sei proprio beduino?» si sentette rispondere da

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Iangiuasand’, che ripetette: «Ti vògghio essere mogghiera a tutti gli effetti e vògghio che tu mi sei marito a tutti gli effet-ti. Te l’ho d’addichiarare sopr’alla carta bollata?»

«Facìmola allora ’sta pace» si squagliò definitivamente Cilluzz’, avvicinandosi a lei con gli occhi di pesce lessato.

«Ma che ti sei mettuto ’ncapa?» lo smontò lei, scostan-dosi. «La pace, accome la vuoi fare tu, la facimo dentro alla casa che sta sopr’alla farmacia Ciaciulli, da sposati. O là o nulla».

Lo fissò con intenzione e malizia dentro gli occhi, con la mano lenta lenta si levò la dentiera, lenta lenta l’avvicinò al bicchiere e la lasciò cadere dentro l’acqua. “Ploff ” si sentet-te sopra il mezzanino, lei canticchiò sottovoce: «I’ te vurria vasà, i’ te vurria vasà, ma ’o core nun m’ ’oddice ‘e te scetà, ‘e te scetà…» e si voltò dall’altra banda.

Lui pensò che Iangiuasand’ era proprio una figlia di zòc-cana che non abbasciava mai la capa, ma non lo gridò quella volta. Non solo perché non si voleva far sentire abbàscio, dai vecchi, ma pure perché, mo, con la decisione pigliata, cominciava a intravvedere la possibilità di metterla sotto. Sì, l’avrebbe sposata: e che poteva fare di diverso? Sì, avrebbero scasato: e poteva forse per tutta la vita stare a sopportare la patronanza dell’attano, l’autorità della mamma e il fastidio delle sore? Ma, a quel punto, a soli a soli dentro la casa loro, lei non avrebbe avuto più scuse e si sarebbe fatta mettere finalmente sotto. Da tutti i punti di vista. Avrebbe abbascia-to la capa. E se fiatava, mazzate. Se fiatava ancora, mazzate ancora, sino a quando non fiatava più. Non ci sarebbe stata nemmeno Tarattè a salvarla, dentro quella casa sopra la far-macia Ciaciulli...

Quattro e quattr’otto, Col’ facette le carte e contrattò col farmacista quella stanza col cesso al primo piano. E fu fissata la data dello sponsalizio. Ma il segnale che mandò Gesuccristo, quella giornata, fu ancora più feroce della tem-pesta con diciannove morti, cinquanta feriti e mezzo miliar-

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do di danni che si era scatenata quando Iangiuasandin’ fu tirata fuori dal ventre di Donna Sabbedd’.

Non avevano manco messo piede dentro il Redentore i due ziti, tutti i parenti e i conoscenti di lui – della famiglia di Iangiuasand’ nemmeno l’ombra – che si sentette un colpo che facette tremuare l’altare, scoppiare la vetrata a colori con la Madonna, Gesù e San Gesepp’, e svenire tutte le fèmme-ne. I màscui di via Modugno, per la prima volta dentro la vita loro, si facèttero il segno della croce in chiesa. E subito si riseppe: era scoppiata una nave al porto, trecentosessanta morti e millesettecento feriti.

Certo, sedici mesi prima era successa una cosa ancora più tragica: diciotto navi incendiate, mille morti e una distribu-zione di veleno dentro l’acqua e dentro l’aria che avrebbe continuato ad accìdere e a far soffrire gente per cinquant’an-ni e forse di più. Alle otto di sera di quella giornata di se-dici mesi prima, però, al massimo Iangiuasand’ (all’epoca Iangiuasandin’) stava a fare qualche dispetto alla mamma: nulla, comunque, che potesse giustificare una reazione di Cristo così spietata e sanguinaria.

Ma stavolta, con quei trecentosessanta morti, forse Domineddio voleva proprio dire qualcheccosa a proposito del matrimonio della figlia capamatta della bonanima di ’Mba Iangiuasand’, che possa riposare in pace, con il figlio capapersa di Martemè Cioladoro. Era il 1945, per la preci-sione il 9 aprile 1945. Al porto era scoppiata la nave alleata Henderson. Il governo si pigliò il fastidio di destinare, per i primi soccorsi, undici milioni di lire. Tanta fu l’impressio-ne generale, che venette da queste bande il Luogotenente in persona, senza contare il ministro Gasparotto. Dentro le stesse giornate, la nona armata americana oltrepassava l’Elba e marciava sopra Berlino. La terza armata ucraina arrivava a Linz. I tedeschi perdevano Vienna e Dresda. Si calcolava che, tempo un mese, anzi di meno, Berlino sarebbe stata occupa-ta o liberata, a seconda del punto di osservazione. Il nazismo stava a morire (qualche uno diceva che Itler era già morto

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acciso, forse fatto fucilare da quell’altra iena di Immler). Il fascismo, poi, lo aveva notoriamente preceduto, e il Duce stava passando un brutto quarto d’ora, insieme a tutta la Repubblica Sociale sua: diciamo pure l’ultimo quarto d’ora, suo e di questa. La quinta armata americana e i partigiani conquistavano Carrara. Gli inglesi, i polacchi, i neozelan-desi e gli indiani dell’ottava armata alleata oltrepassavano il Santerno e penetravano dentro la pianura padana...

Insomma, ne stavano a succedere di cose dentro il mon-do. E al paese nostro – non l’Italia, ma proprio il paese no-stro – checcosa succedeva d’importante, oltre allo sponsali-zio di Iangiuasand’ e Cilluzz’? Filovie ferme per mancanza di rote di ricàngio. Coprifuoco per mancanza di carbone. Mancanza di grano e farina, e quindi pane razionato e di una qualità che pure i cani lo schifavano. Una mancanza generale, una mancanza di tutto, meno che di bocche da sfamare. Ce ne stavano diecimila di profughi a Bari, cinesi compresi. E dove ti voltavi e giravi, vedevi cristiani di tutti i colori e di tutte le razze, persino del Canadà, della Nuova Zelanda e dell’India. E attorno a loro, per colpa loro e con-tro di loro, borsaneristi, imbriaconi, signorine per modo di dire, intrallazzisti, e la povera gente obbligata a inventare ogni dì la maniera per mettersi qualcheccosa dentro lo sto-maco. Eppoi, come se non fosse bastata la guerra con tutte le conseguenze sue, non pioveva. La terra teneva arsura, mori-va dall’arsura. Stretto di culo il cielo è sempre stato, con noi, in quanto ad acqua. E durante quel periodo particolarmente disgraziato e tragico, il cielo in quanto ad acqua fu con noi particolarmente stretto di culo. E che filosofia mettono in capa ai poveri cristi l’arsura, la fame e la disperazione? Una sola: chi vole la vita che se la campa. Così il forte rubò al debole e l’accavallato (di mitra, di coltello o di prepotenza) rapinò il disarmato.

Vale a dire che la storia, come raramente è successo, si faceva sentire pure dalle bande nostre. Nientediché: ventri vacanti e rubaruba. Pure lei, la storia è sempre stata stretta

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di culo con questi paesi nostri. In via Modugno e in via Mirenghi, poi, non si era proprio mai vista. Del resto, biso-gna dire onestamente che tutti quei poveri cristi del quartie-re Africa – così chiamavano quelle strate i signori del centro – erano pure loro a essere stretti di culo con la storia, con tutti quelli che non abitavano da quelle bande e con tutto quello che non fosse l’apertura di bocca, l’apertura di conno e l’apertura dei negozi. Chissà, forse non erano in fondo in fondo tanto diversi, in quanto a impulsi e bisogni, da quelli che abitavano al centro, ma il fatto è che, a differen-za di loro, non si facevano tutta la scola dalle elementari all’università e non leggevano dalla matina alla sera libri e giornali. E così non avevano manco imparato a identificare e a nominare in una qualche maniera impulsi e bisogni per-sonali, riconoscendoli conseguentemente legittimi per loro stessi e per gli altri. Quelli del centro, come quelli del centro di tutti i paesi della terra, campavano e davano un nome a quello che facevano, che volevano o non avevano. Invece quelli del quartiere Africa – che per la verità al municipio veniva nominato, forse con una buscìa, quartiere Libertà – campavano e basta…

Quel dì, comunque, con quella nave alleata scoppiata e quei trecentosessanta morti e millesettecento feriti, la storia si era fatta sentire forte pure da quelle bande. E chi teneva più la capa, dentro il Redentore, a fare le cose obbligatorie per gli sponsalizi in chiesa, dopo quella sorta di colpo e con tutto quel viavai di cristiani agitati, di grida e di notizie di sangue? Il prèvito non facette manco la predica. Capiva da solo che ogni parola sua, pure senza quell’apocalisse scoppia-ta al porto, sarebbe stata praticamente inutile con il zito che pareva che manco c’entrasse con quel matrimonio e con la zita in taièr, senza il velo delle vergini, che si vedeva subito che non le frecava nulla della funzione e non vedeva l’ora di scìrsene alla Casa del Mutilato a ballare. Che aveva da dire? Che non si fanno le cose brutte, pur sapendo tutti che quei

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due le avevano già fatte, fuscendo? E checcosa raccomanda-re – senza essere pigliato a pernacchie – a tutta quell’altra marmaglia di gente senzadio, morti di fame, scansafatiche, contrabbandieri, amanti del miero e cercaliti, per i quali esi-stevano solo la tavola, il cich-e-ciàch e il portafoglio?

Pareva che dentro il Redentore ci fossero solo il prèvito e Tarattè: lui, con l’occhio fisso sopra la faccia di Tarattè per ri-cevere conforto dall’unica cristiana che capiva, si fa per dire, le orazioni latine e l’importanza della funzione; lei, Tarattè, che fissava in alto, oltrepassando con l’innocenza la barriera degli angeli e dei santi pittati sopra il soffitto e arrivando a ringraziare personalmente Gesù, Gesepp’ e Marì per quel miracolo.

«Cilluzz’ e Iangiuasand’ sposati!» rideva e chiange-va Tarattè l’Acconzaossa, parlando tra lei stessa e l’Aldilà. «Pìgghiali ’nconzegna tu, Cristo Redentore, e fa’ la grazia a ’sta povera fèmmena, che t’apprega in ginocchio, di farli sci-re d’accordo. Lo sàccio, è difficile pure per te. Ma fammi ’sta grazia! Da ’sto momento mi impegno a recitare, in più, un Pater e un’Avemaria ogni ora che tu ammandi ’nterra, con la speranza che ’sti due ’uagnuni arrièscono a scoprire una ma-niera accome a un’altra per stare ’nsieme senza scannarsi».

Cilluzz’, alla Casa del Mutilato, facette per tutta la festa l’unica cosa che sapeva fare: ballare. Che tanghi che disegnò, con i piedi alle dieci-e-dieci che volavano a tre o quattro centimetri di altezza, con il braccio destro stretto stretto alla vita della dama e i dìsciti della mano dritti dritti, con quei quattro peli dei mustazzi che tentava di farsi crescere tutti ar-rizzati per la contentezza. E rideva, rideva. Gli venette pure la risata da malandrino. Fu il vero re della festa, a prescinde-re dal fatto che era il zito. Si rivelò così a Iangiuasand’, che non sapeva nulla di questa passione sua, un grande maestro di ballo. Comandò la quadriglia con tutti i richiami e le gri-da in francese, e tutti lo capivano e facevano per filo e per segno i passi e i contropassi che ordinava lui, pur sapendo il francese quanto lui, cioè zero. «Turdemé, valansè!» Dame

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e cavalieri si lasciavano e si ripigliavano, giravano tutti at-torno attorno alla pista a serpentina e facevano all’indrè, lui rimaneva fuori dal cerchio sempre comandando in francese e controllando la situazione, con una occhiata complessiva da comandante di nave, poi rientrava e ordinava che si ri-formassero a caso le coppie. «L’archè!» E i cavalieri da una banda e le dame dall’altra facevano la galleria e, a una a una, le stesse coppie ci passavano sotto. E ricominciava la quadri-glia. Iangiuasand’ non aveva mai lontanamente immaginato che quello smidollato di Cilluzz’, ad un certo punto, come stava a succedere dentro quel momento, potesse diventare il capo della situazione. Che valzer che facette, lui e la dama parevano mo due palomme leggere leggere che volavano dal centro della sala al posto dei compari, mo due grilli che zom-pavano dalla porta dei camerieri alla pedana dell’orchestra, mo due serpenti che strisciavano dalla tavola delle pagnotte al tavolino delle paste secche. E poi, quel ballo lento lento, lui abbrazzato abbrazzato alla dama, la faccia di lui appiz-zicata appizzicata alla faccia di lei, lui che fissava da qua e lei che fissava da là, eppure mai uno sbaglio, non una sola distrazione, non un passo falso.

Iangiuasand’ non facette manco un ballo. Più Cilluzz’ si esibiva in zompi e piroette con questa e con quella, più lui si appassionava facendo i tanghi con Tetedd’ la Settebellezze – che aveva fatto la vita ma, quando ballava, pareva effettiva-mente che non avesse fatto niente altro sino a quel momen-to che ballare con Cilluzz’, per quanto erano perfetti quei passi lenti e quei movimenti improvvisi, e per come pareva-no divertirsi alla faccia di tutti gli altri che erano convenuti alla sala degli sponsalizi e delle feste da ballo della Casa del Mutilato – più la zita faceva veleno. Per tutta la serata non dicette una sola parola. Teneva la faccia tutta abbafacchiata.

«Ti sei addivertito?» gli domandò con la bocca e le mani che le tremuàvano, appena furono a soli a soli, dentro la stanza sopra la farmacia Ciaciulli, per la prima notte di ma-trimonio.

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«’Mbe, sì...» rispondette lui che, fatuo e sventato di pri-mordine, non si era avvertito per tutto il pomeriggio e la serata del muso appeso e dell’abbafacchiamento della zita, né mo del veleno che sprizzava da quella battuta. Era tanto tempo che non si sfrenava a ballare. E poi, senza contare la soddisfazione di dansè – e di dansè tanto bene da farsi fare gli applausi da una masnada di apatici che normalmen-te manco lo smicciavano – Cilluzz’ era allegro allegro per-ché finalmente, mo, quella mogliera sua ribelle si sarebbe spogliata per lui. Mo si sarebbero messi uno sopra l’altra, all’anuta tutti e due, e lei avrebbe cominciato ad abbasciare la capa come tutte le mogliere. «...Era tanto tempo che non abballavo» spiegò Cilluzz’ con tutta sincerità.

«’Mbe» lo ghiacciò lei, acida acida, «mo il divertimento è affinito».

Solo a quel punto lui finalmente capette checcosa stava a maturare. Con Iangiuasand’ mo cominciava tutto punto e da capo. Improvvisamente Cilluzz’ vedette crollare il castello che si era costruito con tutta la pazienza sua, man’a mano che procedevano i preparativi per lo sponsalizio, e che si era completato e abbellito proprio quella giornata con balli e liquori, lui che non ballava oramai da anni e non aveva mai toccato bottiglia in vita sua. Realizzò solo allora che, in ef-fetti, la zita era stata zittazitta durante tutta la serata e teneva una faccia come se l’avesse mozzicata un cane arraggiato.

Balbettò Cilluzz’: «Che ti è assuccesso? Non ti volivi spo-sare? Non ti è appiaciuta la festa?»

«La festa? Quale festa? Tu ti sei addivertito, sino a mo, con quelle sfondate e quei cornutazzi dei parenti tuoi, al-lassàndomi sola sola accome a una bestia appestata» sbottò Iangiuasand’, chiudendosi dentro il cesso e continuando a parlare da dreto la porta, «e mo ti vuoi sbambarare con me? Te lo scordi. Addo’ facesti l’estate, là vai a fare l’inverno».

Cilluzz’ era in bilico, fra il disorientamento totale e l’am-mattimento, fra l’esplosione e il controllo. Tentò ancora, cercando di contenersi e tizzuando piano piano alla porta

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del cesso: «Vedi che stai a sbagliare... Sei tu che te ne sei stata sempre asseduta, muta e sorda, senza parlare con nisciuno... Io accredevo che tu eri emozionata e te ne volivi stare per i fatti tuoi...»

«Ma che emozione ed emozione... Io volevo abballare, era la festa mia, la zita ero io e ’nvece tu abballasti sempre con le altre» insistette da dreto la porta quella capatosta di ’uagned-da. «T’appiaceva a stringerle, a tuccuarle, a strusciarti, a fare cich-tu-cich? Puerco e delinquente. Ma me l’appaghi, l’hai d’avvedere accome me l’appaghi...»

A quel punto Iangiuasand’ sentette un grido. Cilluzz’ aveva pigliato la strata dell’ammattimento e dell’esplosione, scansando il disorientamento e perdendo il controllo. La zita fresca facette appena in tempo a schiantarsi e a vedere la porta del cesso sfasciata da un cazzottone di Cilluzz’, che si gettò come una furia sopra a lei, ancora asseduta a fare i fatti suoi, e le dette un boffettone che la facette sbattere contro il muro...

Quando la zita si ripigliò, la prima cosa che vedette fu la faccia bianca da cadavere ambulante di Tarattè. Era successo che Cilluzz’, innanzi al corpo della ’uagnedda immobile in terra, con la capa e la faccia piene di sangue, aveva fatto ri-corso fuscendo fuscendo alla mamma.

Appena aveva veduto e sentito il figlio, Tarattè capette e gridò: «Checcosa accombinasti, fìgghio del demonio?»

Cilluzz’ era bianco come un lenzuolo e tremuava. «Vai a casa» dicette appena, «ché mi scappò di fare una fessaria».

Tarattè per la prima volta dentro la vita sua, per la prima e unica volta, voltò verso il cielo una faccia di rimprovero e di delusione. Ma fu solo un momento. Reagette, pigliò il rosario e, pregando pregando, si facette venire il sopraffiato alzando il passo per quei settanta metri che parevano settan-ta chilometri e quelle due scale che non finivano mai, tanto lunghe e ripide che pareva potessero portare in paradiso e invece ascendèvano (certo “ascendere” in italiano significa salire, ma da noi significherebbe più propriamente scende-

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re), ascendèvano all’inferno, l’inferno che era già diventata quella casa alla prima notte di matrimonio.

Ed eccola là quella povera ’uagnedda, stesa in terra. «Meno male...» tirò subito il fiato Tarattè, avvertendosi che Iangiuasand’ respirava. «Non è nulla...» dicette al figlio, che solo a vedere il sangue di un raschio quasi sveniva ma che quella sera facette la fatica di Ercole di pigliarlo addirittura in braccio il corpo pieno di sangue della ’uagnedda e lo spo-stò sopra il letto.

Tarattè sciacquò la faccia alla ’uagnedda, con un pan-nolino e un poco di spirito le puliziò il sangue dalla capa, gliela fasciò, la vasò in fronte e sgombrò. Pensava che lei, là, non teneva niente altro cheffare o cheddire, e che da mo in poi quei due – oramai sposati – avevano da vedersela loro e Gesuccristo.

I ziti passarono dodici mesi e due dì, dentro quella stanza col cesso sopra la farmacia Ciaciulli, senza dirsi mai bongior-no né bonasera ma chitemmurto e stramurto sì. Iangiuasand’ gliela facette pagare a Cilluzz’, e Cilluzz’ si convinceva sem-pre di più che quella spostata era proprio la sciagura della vita sua. Lui non le dava i soldi e lei non cucinava, lei non preparava nulla da mangiare e lui le dava mazzate, lei non gli lavava la robba e lui le dava mazzate, lei allora gli rideva in faccia e gli faceva “ricchione” toccandosi la rècchia con due dìsciti e lui, col sangue agli occhi, più mazzate le dava.

Avevano da vedersela loro e Gesuccristo, era stato il pen-siero di Tarattè quella prima brutta sera di matrimonio. Ma Gesuccristo aveva delegato proprio Tarattè, per la vicinan-za che lei teneva sia con la casa dei ziti sia con la casa del Signore, a vedersela con loro. E così fu. La robba di Cilluzz’ continuò a lavarla lei, con l’aiuto di Marì e Iann’. Un bocco-ne per Cilluzz’ a casa della mamma ci stava sempre. E dentro i viaggi che ognì dì, per dodici mesi e due dì, facette da casa sua a casa dei ziti, Tarattè imparò subito che settanta metri equivalevano a metà rosario, almeno con la velocità del lepre

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che ci metteva lei a recitare le orazioni e con la lentezza della testuggine che tenevano al contrario i piedi suoi. E, dentro quel va-e-vieni, si poteva fare un rosario intero. Così, dato che le preghiere lei non era capace di pensarle, d’immagi-narle, ma aveva da dirle con la bocca, con la voce, come se parlasse a Qualche Uno, per quelle due maledette scale che portavano al primo piano del palazzo della farmacia Ciaciulli si permetteva d’interrompere le preghiere, ripigliando fiato. Del resto sapeva che, dentro la casa dei ziti, di fiato ne avreb-be avuto bisogno. Là ci stava da faticare, aveva da mettersi a fasciare e a sfasciare, a medicare, a strofinare, a nettare ferite, a preparare borse di acqua calda, a fare impiastri, se neces-sario a mettere e levare sanguette, insomma a sfruttare tutte le arti che aveva imparato in tanti anni passati ad aggiustare ossa e a fare prontosoccorso.

Per tutti quei dodici mesi e due dì, gli unici conforti di Iangiuasand’ – non quelli per il corpo, ai quali era delegata la suocera, ma quelli della capa e del core – furono la novità del Grand Hotel e la scappata che, un dì sì e uno no, faceva da lei Fifin’ la Fricamidolce.

Quando stava sola, specialmente la sera, Iangiuasand’ non sapeva proprio dove sbattere la capa. I servizi li faceva e non li faceva: e per la verità, dentro quella sola stanza col cesso, li poteva sbrigare subito subito. Certe volte se li trascinava per tutto il dì, spostando mo una sedia e mo l’altra, puliziando prima un pezzo di pavimento e poi l’altro, sbattendo e ri-sbattendo il matarazzo oltre il necessario, lavando prima una forcina e poi una cucchiara, eccetera eccetera, ma era chiaro che si trattava di perdere il tempo. E soprattutto di cercare di non pensare alla situazione senza sbocchi dentro la quale era prigioniera. Perché, peraltro, più ci pensava e più la sera di-ventava provocante con Cilluzz’, e più provocazioni faceva o comunque più era reattiva con lui e più mazzate rimediava.

E allora? Che aveva da fare tutto il dì, dato che di assi-re non ne aveva proprio voglia, pure perché quasi sempre teneva un braccio fasciato e appeso al collo o un occhio a

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melanzana e non voleva fare sapere a tutti che le pigliava? Per qualche tempo le facèttero compagnia due libri, forse i soli due libri che circolavano dentro tutto il quartiere, insieme a quello d’amore senza copertina (e perciò senza titolo) che lei aveva letto, riletto e straletto a casa della mamma e che là aveva abbandonato fuscendo quella notte maledetta con Cilluzz’. Una volta, per passare il tempo puliziando sopra il gabbiotto del cesso, grazie alla scaletta bianca prestatale dal ’uagnone della farmacia Ciaciulli, spostò una càscia per la frutta piena di bottiglie vacanti e scoprette tutt’impolverati quei due libri, tutti e due con la copertina grigia come la pol-vere stessa. Li aveva scordati, evidentemente, il professore di scola che prima abitava da solo dentro quella casa e che mo, da solo, si era promosso a cittadino del centro (noi diciamo “professore di scola” e non solo professore, per distinguerli dai “professori di concertino”, allora ben più considerati e più titolati per essere chiamati semmai loro “professori” e basta). Grazie alla copertina, quei due libri avevano pure un titolo: “Alessandro Manzoni, I promessi sposi, Storia milanese del secolo XVII, commento storico-estetico e note illustrative di Fortunato Rizzi, collezione scolastica Marzotto, Firenze 1940”, un volumone di seicentosettanta pagine con le lette-re piccinonne piccinonne che a quel professore era costato, ai tempi suoi, lire 20; “Giuseppe Arbore, Fatti di casa nostra, Letture storiche per i ragazzi delle scuole medie inferiori di Terra di Bari, Trani, Tip. Ed. Paganelli 1945”, che poteva essere accattato a lire 120, come stava scritto sopra la co-pertina di dreto, “presso la libreria Fiore, Via Duomo 69, Corato (Bari)”.

Sarà stato per quelle lettere piccinonne, peraltro stampate sopra pagine pure loro grigie quasi quanto la copertina, sarà stato per lo spavento che le facevano quelle seicentosettan-ta pagine, fatto sta che Iangiuasand’ s’intratteneva più col prof. Arbore da Corato che con l’illustrissimo Manzoni da Milano. Per vincere l’angoscia che le faceva quel volumone, lo leggeva a scarti e rimbalzi, soffermandosi sopra una scena

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ogni dieci-venti pagine, zompando senza pensarci manco un momento descrizioni e ragionamenti per lei praticamente incomprensibili e comunque pallosi, e attardandosi invece, per gusto e per minore difficoltà di lettura, sopra le battute che si scangiàvano i protagonisti di quella storia milanese. Ci sta da dire, per onestà, che dopo mesi e mesi di sforzi e cefalee non arrivò mai oltre la pagina duecentonovantadue, dove Renzo esce da un’osteria, incaminandosi “dalla parte opposta a quella per cui era venuto”. Del resto, pure se molte delle parole scritte dallo stesso prof. Arbore non le capiva ve-ramente, almeno qua le lettere erano grosse e chiare, stampa-te sopra una carta gialla che le faceva risaltare ancora di più. E poi, qua, ci stava la leggenda di Enea che da Troia “spiegò le vele verso le coste della Puglia, chiamata allora Japigia”, si contava di quando a Bari comandavano i Saraceni, si de-scriveva il matrimonio a Trani tra il figlio di Federico II, Manfredi, ed Elena Commeno, figlia di Michele Commeno, “despota d’Epiro, prìncipe di Tessaglia e d’Etolia”, si parlava pure dell’arcivescovo barese Bartolomeo Prignano diventato papa correndo il 1378 col nome di Urbano VI, della disfida di Barletta, della peste a Bari correndo il 1656-57, eccetera eccetera. Le centoquarantatré pagine del prof. Arbore sì che se le leggette tutte, anzi qualcuna di esse le rileggette e stra-leggette (pure per cercare di capirci qualcosa di più della vol-ta prima o comunque qualcosa). Che soddisfazione quando arrivò all’ultima frase della pagina centoquarantatré: “Erano passati appena settant’anni dal 1848, quando il piccolo Piemonte osò scendere in campo contro il grande e potente Impero austro-ungarico, per fare l’Italia! Nel 1918 l’Italia fatalmente si compiva, mentre l’Impero austro-ungarico ces-sava di essere”. Punto e Fine.

Nessuno saprà mai cosa potesse dire e quanto potesse ri-manere di tutto questo dentro la capa di Iangiuasand’. Certo è che quel Fine la inorgogliette, pure se lei s’intratteneva con quei due libri, per la precisione con quelle parole, non per scelta o per piacere o per capacità di comprensione ma sem-

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plicemente e puramente per disperazione, perché l’unica al-ternativa a quelle parole per quanto sdrèuse, strane e incom-prensibili – una volta fatti i servizi e una volta scocciatasi di stare a mirare le mosche sopra il balcone – era sbattere la capa contro il muro. Ma quando faticosamente arrivò a quella benedetta pagina manzoniana numerata duecentono-vantadue, proprio mentre Renzo se ne fusceva preoccupato da un’osteria, dopo aver educatamente chiesto e saldato il conto, arrivò una specie di salvezza storica per Iangiuasand’ (e non solo per lei): il Grand Hotel.

Che bel giornale che avevano inventato, proprio dentro quel periodo: le figure erano disegnate così bene che, in pra-tica, una ’uagnedda di casa che non teneva nessuno che la portasse al cinema si poteva vedere un bel film di sentimenti e di avventure, fra una lavata di piatti e una lavata in terra. Le ’uagneddozze del quartiere, ma pure certe fèmmene grandi, si erano praticamente abbonate al giornalaio. A turno, alla nascosta dei màscui e delle vecchie, se le accattavano e se le scangiàvano le puntate di quelle favole moderne, sparagnan-do ma non perdendosene nemmeno una. Perciò quel gior-nale, considerato dai màscui “pieno di fessarie e perdita di tempo” e dalle vecchie “scandaloso, anzi peccaminoso”, cir-colava clandestinamente. Pure Iangiuasand’ lo aveva da na-scondere e leggere – tuffandosi dentro quelle storie d’amore e di passione – quando stava sola. Non tanto per Cilluzz’, quanto per via di Tarattè.

Tarattè aveva saputo dai prèviti che dentro i grandotèl ci stava in pratica il diavolo, con le corna, la coda e una certa cosa rossa rossa innanzi che non si poteva nemmeno nominare. Perciò facevano fuochi grandi e grossi affianco al Redentore con i grandotèl e poi, a maggior ragione, con tutti i fotoromanzi che arrivarono dopo, che si accumularo-no dentro l’edicola e dentro i nascondigli delle case, e che le bizzoche scoprivano sotto i letti delle ’uagnedde o sopra le credenze o dreto agli specchi e sequestravano, fuscendo a

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portarli dentro la sagrestia senza manco darci un’occhiata, fosse pure per curiosità, a quelle scene di vasi in bocca e di passione carnale, di abbrazzi stretti stretti e di tradimenti, di fèmmene perdute e di commendatori senza Dio che quelle disgraziate se le accattàvano come si accàttano le bestie da sfruttare e da mandare poi al macello...

Una volta al mese, di sera, dalla chiesa facevano assire la statua della Madonna e li incendiavano tutti quei giorna-li del diavolo. E tutte quelle vecchie, schiantate innanzi a quell’incendio come se fossero effettivamente innanzi all’in-ferno vero e proprio, facevano il coro, insieme al parroco con l’altoparlante. La musica era la stessa dei cantastorie, che giravano per le strate con un pappagallo che beccava la busta della fortuna e una chitarra per cantare i fatti più brutti che capitavano dentro il paese e che solo due o tre del quartiere leggevano sopra la Gazzetta. Il coro delle bizzoche e la musica, attorno attorno al fuoco, erano sempre gli stessi. Come un’ossessione, quei quattro versi venivano ripetuti per ore, fino a quando non si riduceva in cenere l’ultima pagi-na dell’ultimo fotoromanzo: «Chi legge i grandotelli/ andrà subito all’inferno/ e alla morte che sarà/ saran fiamme in quantità»...

Per accattare il grandotèl, Iangiuasand’ si faceva passa-re i tornesi, alla nascosta, da Uelin’ il Provolone. Si sa che il giovanotto non era come gli altri aiutanti che frecavano Cioladoro da innanzi e da dreto, facendo finta di mettere dentro il tiretto – ma schiaffàndoseli in effetti dentro la pal-da – i tornesi di un cliente ogni dieci o quindici, a seconda delle possibilità. Però, per fare un piacere alla “patrona ’ua-gnedda”, cioè a quell’unica cristiana dentro quel viavai di bestie umane alla quale voleva bene ma che non si permet-teva nemmeno di adocchiare in faccia per quanto era timido e rispettoso dei patroni, Uelin’ una volta alla semana pure lui metteva qualcheccosa meno del dovuto dentro la cas-setta: esatti esatti, i tornesi per il grandotèl di Iangiuasand’. Diventava rosso come un paperusso, apriva e chiudeva il ti-

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retto facendo rumori che non avrebbe fatto nemmeno se vi avesse scaricato dentro monete a milioni (e invece vi faceva cadere solo la differenza fra l’incasso della pesata e il prezzo del grandotèl), faceva due colpi di tosse da tisico pure tenen-do una salute di ferro e non avendo mai pigliato in bocca una fumosa dentro la vita sua, e quasi indirupicava sopra a se stesso drizzando il piede verso l’interno della casa con la scusa di scire a pisciare. Ma nessuno gli faceva caso, tanto era poco considerato e tanta era la fiducia dei patroni. E così lui poteva lasciare sopra il tavolino della cucina i tornesi che servivano giusti giusti per accattare il grandotèl.

Lo facevano sempre di matina. Iangiuasand’ veniva alla pescheria solo quel dì, un dì alla semana, col bollitoio in mano e con la scusa di scire da Don Mingh’ a pigghiare un quarto di latte bollito con lo zucchero. Agguantava avvolo i tornesi dal tavolino della cucina senza farsene avvertire da nessuno e taccheggiava verso il cafè. Si faceva servire da Don Mingh’, appoggiava in terra vicino alla vetrina il bollitoio con il latte e attraversava la strata a spezzacollo per non farsi vedere da Cioladoro, sempre accepponato alla seggia affian-co alla mostra delle cozze. Italo il Giornalaio, che sapeva la cosa, stava pronto con una mano a pigliare i tornesi e con l’altra a darle il grandotèl. Iangiuasand’ riattraversava via Modugno come una furia, con il giornale sotto il maglione e, d’estate, sotto la gonna. Ripigliava da terra il bollitoio e piano piano ripassava innanzi a Cioladoro, alla mostra e a Provolone, oltrepassava pescheria, formaggiaro e farmacia Ciaciulli, e s’infilava finalmente dentro il portone di casa sua. La prima occhiata al grandotèl la dava mangiando adà-scio adàscio quattro o cinque pezzi di pane dentro il latte.

Ma la sera, la sera era un’altra cosa. Da sola, dentro il cal-do del letto, praticamente viveva quelle avventure e nessuno la disturbava. Quei disegni e quelle fotografie se li mangia-va, mirandoseli e rimirandoseli cinquanta volte; pure quelle scritte semplici semplici, piazzate sopra la capa o affianco o sotto la figura dei personaggi di quelle storie, se le beveva e

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se le ribeveva, nonostante che alla lettura fosse stata sem-pre una capa di ciùccio. Finalmente le pareva di pigliare un poco di requie (oltre che patronanza della lettura), dentro un mondo dove una non aveva sempre da combattere, ma se ne poteva stare beata fra iùmmini rispettosi e fèmmene contegnose, che “non si sfiorano nemmeno con un fiore”. Sì, ogni tanto un malandrino tentava di fare lo sgambetto a un bravo e bel ’uagnone oppure una malafèmmena dava una pugnalata dreto la schiena a una ingenua figlia di mamma oppure, ancora, un lurido imbroglione cercava di fare sfallire ingiustamente la ditta di un giovane che si voleva fare strata onestamente dentro la vita... Ma poi, alla fine, dentro i gran-dotèl, vinceva sempre lui, il Bene. E, con il Bene, trionfava l’Amore. E l’Amore significava passione, vasi e carezze. Ma, soprattutto, dentro quel mondo di civiltà non ci stavano fie-ti insopportabili, né zòccane (quelle a quattro zampe, s’in-tende), vive o morte che fossero, né cavallerie di pidocchi, né mazzate senza ragione.

Che bello sarebbe stato vivere dentro un mondo così. Ma esisteva? Sì, forse esisteva veramente. Anzi, ogni tanto Iangiuasand’ pensava che un mondo non proprio così ma quasi così ce lo avevano praticamente tutte meno che lei. Poi pensava alla vita che scorreva nei sottani alla strata di via Modugno e di via Mirenghi – ma pure nei portoni e ai primi piani – e concludeva che quelle fèmmene, però, se la sudavano la vita, faticando e sopportando le prepotenze dei màscui. Certo, il caso suo era speciale. Tutte ogni tanto si pigliavano un boffettone. Ma quelle fèmmene normali non reagivano, se lo tenevano e così poi arrivava per loro pure il dolce, dopo l’amaro. Invece lei, Iangiuasand’, di boffettoni non se ne tenette mai né uno né metà, e così il dolce non ar-rivò mai, anzi i boffettoni diventarono dieci, cento, mille. E ai boffettoni si associarono cazzotti e stampate, a ogni punto e momento e con ogni scusa...

La sera, perciò, s’inventava con l’aiuto del grando-tèl una seconda vita, quella giusta, quella vera. Sia chiaro,

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Iangiuasand’ non s’impressionava tanto per la felicità e per i vasi, che pure non sarebbero stati certamente una cosa brutta. Non era di quella e di questi che sentiva di più la mancanza. Era una ’uagnedda che le capiva certe cose, per cui non le passava manco per la capa di desiderare che uno si mettesse a corteggiarla e poi la rapisse e la portasse via da quella vita disgraziata, per regalarle una vita da principessa dentro un castello, una vita di felicità e di vasi. Iangiuasand’, più che sentire bello e desiderabile quello che le mancava, dentro quelle storie scopriva – come dire? – che si poteva campare senza l’oppressione che invece dominava la vita sua, che la inchiodava dentro quella situazione dove lei non era patrona della vita sua e aveva da abbasciare la capa innanzi a uno smidollato e stare zitta. Punto e basta.

Come se la godeva Iangiuasand’ la sera, a sola a sola, sotto le coperte, a surchiarsi la “vita civile” fissata e stam-pata sopra quelle pagine. Pareva proprio vera e a portata di mano. Ma era un’illusione. Difatti, tutto finiva quando arrivava Cilluzz’. Appena sentiva il rumore della chiave, lei nascondeva il grandotèl sotto il letto e cominciava a staccarsi la dentiera. Lui manco diceva bonasera e si levava i vestiti. Il “ploff ” che faceva la dentiera gettata dentro il bicchiere di acqua e il “chitemmurto e stramurto” a denti stretti di Cilluzz’ erano i soli rumori della serata dentro quella casa, quando nessuno dei due aveva il quarto all’ammerso e tutti e due se ne morivano dal sonno. Ma c’erano sere che Cilluzz’ si ritirava con la nervatura pronta a scattare e con una ràggia che voleva soddisfazione oppure sere che a Iangiuasand’ le girava di fare proprio la provocante, e allora erano dolori. Si partiva dal “chi sei tu e chi so’ io”, passando agli oltraggi e finendo subito alle mazzate. Il più delle volte, Iangiusand’ correva a chiudersi dentro il cesso, sapendo che là – dopo l’esperienza tragica della prima notte di matrimonio – stava al sicuro. Difatti, tempo tre quarti d’ora e dopo aver male-detto e stramaledetto cento volte quella “fìgghia di zòccana”, Cilluzz’ si gettava sopra il letto e cominciava a grufuare. Solo

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allora Iangiuasand’ riappariva e s’infilava pure lei sotto le co-perte…

Ma un’oretta in santa pace, quasi ogni dì, Iangiuasand’ la potette passare dentro quei dodici mesi e due dì grazie a Fifin’ la Fricamidolce. Le due figlie piccinonne di ’Mba Iangiuasand’ se ne stavano a fare chiacchiaredde, assedute a due seggioline, sopra il balcone.

E fu proprio Fifin’, alla scadenza di quei dodici mesi e due dì, a portarle la polvere.

«E checcos’è questa?» domandò Iangiuasand’, sorpren-dendosi proforma ma in realtà avendo capito avvolo di chec-cosa si trattava.

«Lo sai ’bbuono checcos’è questa» la rimproverò dolce dolce Fifin’, che conosceva da sempre la faccia che faceva la sora quando fingeva di non capire: «È una polvere. E asserve a quello che asserve».

«Ecché, volimo tentare d’aggiustare la capa dei matti con una polvere? Ma fammi il piacere».

«Iangiuasandin’, lo sai, nemmeno io ci accredo» si ostinò a bassa voce Fifin’, sbirciando verso il portone della mamma, come se la potessero sentire sino là, a settanta metri, «ma tu che ci apperdi? Me l’ha data Tatucc’, dice che alla mamma ha affunzionato. E tu lo sai, in effetti l’attano suo ha allassato la mogghiera e la famìgghia legittime, per venire a starsene con la commara, che è poi la mamma di Tatucc’. Che ci ap-perdi tu a tentare? Tu mìttila dentro al piatto di pasta che gli apprepari e poi, al peggio, ci viene il mal di stomaco».

Iangiuasand’ non rispondette all’istante. Non perdette il tempo a spiegare a Fifin’ che a lei non le passava manco per la capa di preparare un piatto di pasta a Cilluzz’. L’idea di fare quello scherzo a quel delinquente disossato, però, non le dispiaceva. Se non avesse fatto centro, che se ne frecava? così stavano e così rimanevano. Se invece lo scherzo, diciamo così, avesse centrato l’obiettivo, lui sarebbe diventato buono come un agnello, e lei allora se lo sarebbe potuto fare come voleva.

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«Sai che ti dico io?» rispondette finalmente Iangiuasand’, allungando la mano per pigliarsi la busta, «quasi quasi ce la faccio ’sta fattura. Accome si fa?»

«Un pizzico alla dì, per trenta dì. Non l’hai da mettere dentro al suco, ma direttamente sopr’ai maccaruni, tanto non si vede e non si sente...»

Il suco? E chi glielo fa il suco? pensò Iangiuasand’, che volette sapere: «E dentro al miero affunziona lo stesso?»

«No, no: col miero, birra e aranciata, no. Con le cose da bere non affunziona. Me l’ha detto Tatucc’: non fasce nulla e poi si sente pure... Solo sopr’ai maccaruni».

“Possibile che mo gli ho da fare ogni dì i maccaruni a quel malacarne?” pensò Iangiuasand’, che s’informò: «E dentro alle insalate, dentro alla verdura?»

«Sì, sì, affunziona dentro alle cose d’ammangiare».

E quella sera Cilluzz’ non credette agli occhi suoi, quando tornò a casa. Sopra il tavolino, vedette per la prima volta due piatti di pasta col suco rosso, due bicchieri e una bottiglia di miero. Addirittura la tovaglia e le salviette per puliziarsi il muso vedette.

«Per chi è ’sta festa?» domandò spiritoso e sospettoso.«Nisciuna festa» lei rispondette senza risa ma pure senza

la faccia abbafacchiata di ogni sera. «È per noi. Màmmeta ci ha dato il suco e quattro maccaruni non ci vole nulla ad apprepararli. Nientediché».

Nientediché? pensò lui, ma questa pareva una rivoluzio-ne. Comunque, come è, è. Si assedette e si mettette a man-giare. Pure lei si assedette, fissandolo forte forte quasi che si aspettasse di vedere subito gli effetti di quella polverina.

«E tu, non ammangi?» sentette che lui le domandava. «Ah, sì. Bonappetito». E pure lei mangiò, dentro il piatto

senza polverina.Dodici mesi e due dì dopo lo sponsalizio, era cominciato

così una specie di fidanzamento dentro quella stanza col ces-so sopra la farmacia Ciaciulli. Tarattè si faceva la croce con la sinistra, per la sorpresa, innanzi a quello spettacolo.

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“Gesù, t’arringràzio d’esserti addegnato di far cadere l’oc-chio tuo dentro a ’sta casa” pregava al cielo, “e sia fatta sem-pre la volontà tua”.

Quei due, mo, parevano filare d’amore e d’accordo. Nientediché, naturalmente. Cilluzz’ spariva di prima matina e tornava la sera. Ma la sera il piatto ci stava e pure un poco di robba puliziata. Iangiuasand’ vedeva che Cilluzz’ diven-tava sempre più calmo e rispettoso e cominciava a credere che quella polvere faceva veramente la parte sua. E Cilluzz’, che pure all’inizio era un poco sospettoso per quel cangia-mento improvviso di carattere della mogliera, piano piano si convincette che Iangiuasand’ stava abbasciando la capa. L’aveva vista, sì, combinare forse qualche pistrìgghio con il piatto, tanto che una sera pensò proprio che ci stava a met-tere qualcheccosa dentro, una specie di polvere bianca. Una dubbianza lo tenette in sospeso per un paio di giornate: una fattura? Ma dentro i piatti che gli serviva Iangiuasand’ non si vedeva e non si sentiva nulla di sdrèuso, di strano. Le sere dopo, la spiò meglio, sottecchi, mentre si moveva attorno al fornello e ai piatti, e per la verità Iangiuasand’ faceva tutti i movimenti che fanno le fèmmene normali per preparare ai mariti cose normali da mangiare.

In tutti i casi – non si sa mai – si metteva a parte civi-le scangiando, appena poteva, i piatti portati a tavola dalla mogliera. Iangiuasand’ se ne avvertette una volta e, dalla sera dopo, mettette quasi sempre dalla banda sua il piatto con la fattura e dalla banda del marito il piatto normale, e con la scusa di scire a lavarsi le mani si allontanava, così lui – e lei lo smicciava con la coda degli occhi – aveva il tempo e la possibilità di scangiarli. Questo, quasi sempre. E in effetti, Iangiuasand’ scoprette che qualche volta Cilluzz’ non ap-profittava dell’allontanamento suo per effettuare lo scàngio. Forse perché aveva visto che lei metteva la polverina e che poi piazzava il piatto affatturato, per ingannarlo, al posto di lei stessa? O forse perché non aveva visto né capito nulla, e quindi quando scangiava i piatti era solo per caso, magari per accaparrarsi il piatto più sucoso?

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La storia continuò così per un mese. Iangiuasand’ non seppe mai con sicurezza che fine facesse il piatto con la fattu-ra, se cioè se lo mangiasse effettivamente Cilluzz’ o se invece – dopo uno o due scangi, suo e del marito – la polvere finisse dentro il sangue e dentro la capa sua. E Cilluzz’ non capette mai veramente se dentro il piatto di maccaroni Iangiuasand’ la polvere ce la mettesse effettivamente o se il fatto della pol-vere fosse solo una fantasia sua. Probabilmente i maccaroni con la polvere finirono, più o meno, tante volte dentro la cucchiara di Cilluzz’ e altrettante fra i denti della forcina di Iangiuasand’.

Polvere o non polvere, affatturati o no, fatto sta che, alla trentesima giornata di questo tiatro, succedette il fatto.

Erano tornati da votare, tutti e due per il Re (e non per-ché fossero contro la Repubblica, ma solo perché non sa-pevano manco checcosa fosse la Repubblica e perché là, in via Modugno, votavano tutti per la monarchia). Lui si era gettato con le mutande sopra il letto e pareva che stesse a pi-gliare sonno, lei aveva lavato i piatti e, un poco stanca, si era appoggiata pure lei sopra il letto, con la faccia voltata dall’al-tra banda, piano piano, per non discetarlo quel disonesto che quando dormiva pareva un pupo-di-zucchero, bianco bianco, delicato, quasi un piccininno.

Iangiuasand’ dormiva e non dormiva quando, ad un cer-to punto, sentette che Cilluzz’, convinto che lei dormisse, piano piano le pigliò una mano e se la mettette piano piano sopra la brachetta. Iangiuasand’ lo lasciò fare, facendo finta di dormire. Cilluzz’ la vedeva ferma, di spalle, e stava pro-prio tranquillo e beato, con quella mano leggera leggera ep-pure abbandonata abbandonata. Non teneva pavura di sfi-gurare. Pure se il tordo non avesse fischiato, che importava? Tanto lei dormiva, non se ne sarebbe avvertita. Il ’uagnone stava proprio in paradiso, forse si addormentò un poco, in pace con la vita come mai gli era capitato, forse si sognò una scena d’amore con Iangiuasand’, che non era dispettosa

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ma tenera tenera e si faceva abbrazzare e vasare come una pupa. La ’uagnedda, che continuava a fare finta di dormire e rimaneva di spalle, capette checcosa provava il ’uagnone e si emozionò, un poco. E pure lei stava proprio bene, dentro quel momento e forse pure lei dormette un poco e sognò.

Sotto la mano dolce dolce di Iangiuasand’, quella specie di testuggine che Cilluzz’ teneva in mezzo alle gambe im-provvisamente alzò la capa, drizzò il collo e diventò un ser-pente. La ’uagnedda tentò ancora di far finta di dormire, ma quell’esplosione le aveva spostato la mano e lei non resistette all’istinto di riportarla sopra quel bendidio. Lui si avvertette allora che non era un sogno quello che sentiva e che la zita era discetata. Pure lei si voltò finalmente, si studiarono con gli occhi e, per una volta, si piacèttero e si pigliàrono come due ’uagnuni che si vogliono bene e vogliono fare. E facètte-ro. Per lei era la prima volta in assoluto, per lui era la prima volta con tutta quella tenerezza e con quella completezza.

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la separazione

Iangiuasand’ e Cilluzz’ aprette appena gli occhi, la prima matina loro di mogliera e marito regolarmente accoppiati – pure se a distanza di dodici mesi e due dì dalla celebrazione del matrimonio – e capèttero subito che mo stavano punto e da capo.

La zita, ancora mezza addormentata, si voltò difatti al zito col desiderio di una pasta e stava per avvicinarglisi a una rècchia per domandargli dolce dolce: “Perché non me la vai ad accattare, una bocca-di-dama, da Don Mingh’?”. Si era coricata con la luna buona e si discetava con il quarto giusto. Si aspettava, mo, di essere trattata con i guanti gialli, come sono trattate tutte le ’uagnedde dai mariti loro, specie quan-do si alzano la matina dopo che hanno fatto per la prima volta ciò che loro due in effetti avevano fatto.

Pure Cilluzz’ si sentiva finalmente in braccio a Cristo. Aveva pigliato sonno dopo quella sorta di vittoria: non solo aveva fatto e rifatto il dovere suo di màscuo, non solo quella dispettosa l’aveva inchiodata e rinchiodata sopra il letto, ma si era sentito come un leone che, se ce ne fossero state altre tre o quattro di leonesse da quelle bande, le avrebbe sbrana-te, senza toccarle né con le zampe né con la bocca. Da leone aveva pigliato sonno e da leone si discetava.

Convinto che mo la teneva sotto, come tutti i mariti che sapevano far stare al posto loro le mogliere, la vedette che si voltava dalla banda sua e che stava per aprire bocca (a propo-sito della bocca-di-dama). E l’anticipò. «Vammi a pigghiare un cafè col sussurro» le ordinò con il tono del patrone di casa.

«Ah, questo è il bongiorno che si dà a una zita?» reagette di botto Iangiuasand’. «Alza tu il culo e vàttelo a pigghiare tu il cafè» dicette scattando dal letto come una saetta, dato che lui, senza leggere e scrivere, le stava già a sganciare un cazzotto.

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Pure Cilluzz’ zompò dal letto, inseguendola. Ma lei ag-guantò avvolo un coltello dal tavolino. «Prova ad avvicinarti, smidollato» lo minacciò, «ché oggi faccio proprio uno spro-posito».

«Allàscia il coltello, capamatta, ché tu sei proprio acca-pace di fare una fessaria». Cilluzz’ si sforzava di parere un òmmeno senza pavura, ma si vedeva chiaramente che si era pigliata una cacazza tanto cacazza che quasi si cacava addos-so.

«Eh sì che la faccio una fessaria» confermò da strafotten-te lei, avvertendosi che lui teneva pavura e quindi facendo ancora di più gli occhi feroci. «E da mo in poi ha da essere sempre accosì. Statt’all’erta pure la notte, ché mentre addor-mi ti spacco il core con una coltellata».

«Allora, facivi finta ieri sera di essere una ’uagnedda nor-male, che ci appiace fare con il marito?»

«Non facevo finta. E poi chi ti ha detto che mi è appia-ciuto? Avevo d’attenere un màscuo vero dentro al letto per addivertirmi, non uno accome a te».

Cilluzz’, a queste parole, avette l’istinto di gettarsi sopra a lei per tempestarla di cazzotti e stampate, ma Iangiuasand’ lo bloccò facendo la mossa d’infilargli una coltellata: «Statti fermo oppure t’accido. E quello che hai assaporato stanotte, scòrdatelo: non l’avvedi più manco con il cannocchiale...»

È facile immaginare il veleno e la ràggia di Cilluzz’, preci-pitato – fra seranotte e matina – dalle stelle alle stalle, con la dubbianza che fosse solo tutta una fantasia sua quella prima e unica volta che si era sentito proprio un leone. Rieccola la mogliera che non voleva abbasciare la capa e che, mo ne era convinto una volta per tutte, non l’avrebbe mai abbasciata. E si difendeva pure con il coltello quella spostata, minac-ciando addirittura di farlo fuori mentre dormiva.

Ma se quella matina Cilluzz’ lasciò casa con la bava alla bocca e la coda in mezzo alle gambe, si rifacette i dì e le se-mane dopo. Iangiuasand’ ogni tanto aveva da difendersi col coltello. Qualche volta, il ’uagnone della farmacia Ciaciulli

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sentiva le grida e accorreva a chiamare Tarattè e Tarattè si precipitava, si metteva in mezzo, gridava aiuto alla Madonna e così il figlio malacarne la piantava di fare il matto e sbatteva la porta di casa senza spaccarle nulla, quel dì, a Iangiuasand’. Ma la zita teneva sempre in faccia o sopra le braccia o dentro l’andatura qualche segno – una fasciatura, gli occhi a melan-zana, qualche sparatrappo, raschi e lividi, una gamba dolo-rante – che faceva capire che ne pigliava di mazzate dal ma-rito. Non qualche boffettone di tanto in tanto, ma stampate e cazzotti alla cecata, ogni dì che Gesù mandava in terra. Cilluzz’ quando menava era come se non avesse la minima coscienza dei danni che le poteva arrecare a Iangiuasand’. La poteva pure accìdere dentro quei momenti e non se ne sarebbe avvertito. Quando gli pigliavano i cinque minuti – e gli pigliavano almeno una volta al dì – la colpiva con tutta la forza, così come gli veniva, con le mani e con i piedi. Meno male che teneva pavura dei coltelli e non li voleva nemmeno toccare, altrimenti l’avrebbe accisa sin dal primo dì, con un taglio alla cecata.

Non ricorrette solo alla suocera e alla farmacia Ciaciulli, dentro quel periodo, Iangiuasand’. Ma pure alla Croce Verde, al Policlinico e alla Clinica Logròscino. Non gli ba-stò, a quella merda d’òmmeno, costringerla a rifarsi due vol-te la dentiera con un paio di pugni ben assestati. Una volta le spezzò i dìsciti di tutt’e due le mani – ad esclusione solo dei pollici – rivoltandocele all’andreto. Il naso le spaccò, una volta che l’aveva gettata in terra e, dandole decine di stampa-te alla cecata a quella poveredda, con una ne centrò la faccia. Che tiatro che succedette: il lago di sangue, la pavura che avesse pure perduto gli occhi, la sirena, l’ambulanza, tutta via Modugno e via Mirenghi piene di cristiani bramosi di sapere e di compiatire (tutti meno che naturalmente Donna Sabbedd’ e la famiglia sua)...

Insomma quei due non erano una coppia litaiuola, come ce ne stavano tante pure a quell’epoca (quando incompa-tibilità e infelicità, grazie al fatto che le fèmmene avevano

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da sopportare e sopportavano, il più delle volte rimanevano segrete e comunque sopportate, perlopiù per tutta la vita). Quei due erano una cosa speciale assai e drammatica, era-no una specie di malatia senza possibilità di guarigione: lei che non voleva abbasciare la capa e lui che le dava mazzate perché non voleva abbasciare la capa, lei che a quel punto non solo non abbasciava la capa ma gli faceva pure i dispetti perché lui le dava mazzate e lui che le dava più mazzate an-cora perché lei non solo non voleva abbasciare la capa ma gli faceva pure la dispettosa...

Si sarebbe continuato così all’infinito, sino a quando uno dei due non fosse stato portato al camposanto – e quasi cer-tamente sarebbe toccato a lei, alla fèmmena – senonché arri-vò una novità. Una bella giornata Iangiuasand’ capette che, pur avendo fatto la mogliera solo una notte con quel marito e comunque pur avendo provato bene di màscuo per una sola volta dentro tutta la vita sua, era rimasta gravida.

Lo dicette solo a Fifin’, facendole giurare di non dire nul-la a nessuno.

«Ma poi» notò la sora, «Cilluzz’ non lo ha da venire ad assapere lo stesso?»

«Però, frattanto, a me fasce piacere che lui vene cimenta-to dagli amici perché non è accapace di fare un fìgghio».

«Ma per fare un dispetto a lui» la sora si sforzava di farla ragionare, «tu fasci un danno a te stessa. Ci hai appensato che, se sape che stai ’ncinta, almeno non ti dà mazzate?»

«Ma sai che dici sempre cose sensate, sora mia» scherzò Iangiuasand’, che in effetti a quel vantaggio non ci aveva pensato e che solo a quella buona ’uagnedda di Fifin’ si ri-volgeva senza acidità.

Perciò glielo dicette, al marito, che aspettava un figlio. E per otto mesi, Cilluzz’ non la toccò nemmeno con un dìsci-to. Non stava dentro la pelle per la felicità il ’uagnone. Tutta la giornata fuori di casa a vantarsi e a bearsi con i compagni e con la gente di passaggio al cafè, offrendo da bere a una

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ventina di cristiani al dì, e quando tornava a casa portava sempre qualcheccosa buona da spizzuare. Una mozzarella o una treccia un dì, il vov il dì dopo, ogni sera gli gnomeriddi che facevano scire in pappa-di-lino Iangiuasand’ come pe-raltro i paperussi fritti, e ogni pomeriggio quella specie di lampadine terragnole che, per chi non le conosce e quindi non le capisce, sarebbero niente di più e niente di meno che cipolline selvatiche mentre, al contrario, si tratta proprio di loro, dei lampasciuni… Quanti piccininni con le voglie che si vedevano in giro. Sia mai che il figlio di Cilluzz’ venisse con la ghelì di miero rosso, che poi quando era il tempo di vendemmiare devastava tutta la faccia. Così una scopa di uva a Iangiuasand’ non mancava mai. E la macchia di cafellatte? e quella di fegato? e le cerase? Per non parlare del-la ghelì più schifosa, quella di còtica, con tutti quei peli di porco. Per quegli otto mesi, dentro la casa di Iangiuasand’ ci fu cristo-a-cantare. Merosca, fichi d’India, allievi, polipetti, rizzi di mare, banane, gelsi rossi, bocche-di-dama, cioccolata svizzera... Iangiuasand’, che già era cannaruta da sé, si levò tutti gli sfizi. E quando non mangiava, si fasciava le mani coi pannolini, così non si grattava. «Ma se proprio ti vene il pìccio per qualcheccosa, non tieni nisciuno a portata di mano che te la va ad accattare e non puoi fare a meno di aggrattarti» le ricordava ogni volta Tarattè, «mi arraccoman-do, aggràttati il culo, accosì se al piccininno ci vene la ghelì almeno non s’avvede quando è avvestito».

Furono gli otto mesi più belli della vita di Iangiuasand’. Nessuno che la comandasse, nessuno che le desse mazzate, senza fare nulla in casa, le sore del marito e la sora sua che la servivano da innanzi e da dreto, Cilluzz’ che il dì stava sem-pre a mirarle il ventre con la stessa faccia che teneva Tarattè innanzi al mistero dell’ostia consacrata e la seranotte si fa-ceva piccinunno piccinunno, dall’altra banda del letto, per non darle fastidio o addirittura una stampata, senza volerlo, durante il sonno. Eh sì, quel senzacervello aveva l’abitudine di dare calci pure involontariamente, quando dormiva.

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Iangiuasand’ cominciò ad assire dal quel paradiso in terra verso il settimo mese di gravidanza. Un pensiero la tormen-tava: checcosa sarebbe successo dopo, quando il “fìgghio di Cilluzz’” fosse venuto al mondo? Non le passava manco per la capa che il marito potesse essere cangiato definitivamente rispetto a lei. Dava cioè per scontato che, appena lei si fosse sgravata, lui l’avrebbe spicciata immediatamente di servirla d’innanzi e da dreto, tornando alle gentilezze di mano e alle carezze pesanti di prima. Non ne parliamo, poi, se al posto del “fìgghio di Cilluzz’“ fosse venuta fuori, invece, la “fìgghia di Iangiuasand’”. Un’eventualità che il figlio di Martemè non pigliava manco in considerazione, se non per scartarla così: «Ma se è fèmmena, non la vògghio manco avvedere!»

Certo, dal momento che nasceva il piccininno, Iangiuasand’ sapeva che un vantaggio ci sarebbe stato, ri-spetto a prima. Non aveva da aspettare più che arrivasse Tarattè a spartirla dal marito per non pigliare calci e cazzotti, né afforza da agguantare il coltello: già si vedeva, difatti, cor-rere a sollevare e a farsi scudo col piccininno, e immaginava i cazzotti di Cilluzz’ che si fermavano a metà strata prima di colpire per sbaglio la creatura al posto suo. Ma che vita, co-munque, sarebbe stata? In definitiva, pure peggio di prima, lei ancora più schiava della casa e lui che mo poteva pure vantarsi e sbambararsi con il piccininno.

Man’a mano che si avvicinava il dì della nascita, un pro-posito nascette e si rinforzò, prima vagamente e poi sempre più chiaramente, dentro quella capatosta che cominciava a fare i conti con la vita. Il proposito era di non dipendere più da Cilluzz’ – così come da ’uagnedda dipendeva dalla mam-ma – per mangiare, per pagare la casa e per i vestiti. Anzi, di non dipendere più da nessuno, perché oramai aveva fatto esperienza e aveva capito che, per una come lei, essere sot-tomessa a qualche uno significava infelicità e mortificazioni, con conseguenze devastanti per tutta la vita sua (e pure per quella degli altri, disonesti o semplici selvatici che fossero). Nessuno più, allora, aveva da dirle checcosa fare e checcosa

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no, né alzare la voce o, peggio, le mani sopra a lei. Sopra a lei avrebbe comandato solo lei stessa e nessun altro. Ma come? Era così delicata di fisico. Non aveva mai lavorato, manco in casa. Checcosa poteva fare?

Quasi non credette alla voce sua quando un dì, stando a sola a sola con la suocera, la informò all’improvviso: «Pure io vògghio fare la pesciaiola. Mamma, mi date una mano ad aprire un negozietto di cozze e baccalà?»

Tarattè per poco non svenette. Ma squadrando la ’ua-gnedda, capette che, con l’aiuto suo o senza, quella cosa l’avrebbe fatta, dato che se l’era messa in capa. Allora, tanto valeva aiutarla. «Sei proprio assicura di avvolerlo?» le do-mandò senza convinzione, tanto per pigliare fiato. «Sei una ’uagnedda accosì fina e delicata, tieni ancora la capa al giuo-co, non sai manco ’bbuono il valore dei tornesi, l’ambiente nostro è lurdo, so’ tutti màscui e cafuni. Accome hai da fare ad accombàttere con i grossisti, con gli scaricatori, col bian-chetto, con i clienti, con le scadenze, sempre con le mani dentro all’acqua, sempre in mezzo alla strata?»

«Mamma, so’ arrisoluta. Lo sapite accome so’ fatta io» rispondette Iangiuasand’, «aqquando addecido, addecido. E chi vene da dreto, achiudesse la porta».

Il negozio ci stava già, in via Trevisani: Iangiuasand’ aveva visto un Si loca dentro quella strata, alle spalle della chiesa di San Frangisch’. Pareva proprio adatto: vi si potevano piazza-re giusto giusto due vasche per la mostra e una vasca grande per tenere a bagno il baccalà. Avanzava pure lo spazio, da staccare dal resto del locale con un foglio di compensato, per sistemarvi un fornello e per spizzuarvi qualcheccosa. Così non era manco costretta a fare due volte innanzi e ’ndreto da casa ogni dì. E Cilluzz’, se voleva, poteva venire là a farsi un boccone a mezzodì, “sennò pace all’anima sua”. E si sa-rebbero visti la sera.

«E il piccininno, aqquando annasce, addo’ lo appiazzi tutta la scirnata? chi te lo tene?» provò a obiettare Tarattè.

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«Non vi appreoccupate, mamma. Dirimpetto al negozio stanno due vecchi, che vendono caramelle e cìciri-e-sementi, che m’hanno assicurato che so’ contenti di tenere cuita alla creatura, aqquando io ho d’asservire i clienti».

«E al mercato? E ad accattare il baccalà? Chi ci ha da scire? Hai da alzarti tu alle cinque della matina? Ti hai d’ac-caricare tu l’acqua di mare per adacquare le cozze?»

«Non vi appreoccupate, mamma. Se non mi danno una mano né Cilluzz’, né Martemè, né Col’, sàccio io a chi addo-mandare un aiuto. E sàccio che non mi dice di no».

Tarattè capette subito a chi Iangiuasand’ si riferiva. C’era un solo cristiano tanto buono, in via Modugno, da fare a quel-la ’uagnedda tutto quello che lei gli domandava, senza dire manco “a” e senza pretendere una lira: Uelin’ il Provolone, che peraltro mo teneva pure una bella Vespa, al posto della bicicletta. Stipando i tornesi che gli dava Martemè, si era accattato gli avanzi della Vespa – l’unica e sola dentro tut-to il rione – che quel macaco del figlio grande di Melin’ la Fruttaiola aveva sfracassato la prima e ultima volta che l’usò per farsi grande con i compagni di via Modugno, sbattendo contro il carretto del marmeraro. Mo quella sorta di campio-ne, per la verità più valente con la bilancia che col manubrio, montava nulladimeno che una Emmevù e la domenica face-va le corse (o almeno così lui si vantava). Provolone, invece, piano piano, pezzo a pezzo, se l’era rimessa a posto la Vespa. E al sellino di dreto ci aveva montato il tubo appoggia-schiena e il tubo appoggia-gambe che gli altri vespisti apri-vano quando caricavano una bella fèmmena. Ma si era ca-pito subito chi si sarebbe servito da patrone assoluto di quei tubi: Martemè Cioladoro. E così succedette, almeno sino a quando Iangiuasand’ non decidette di lanciarsi pure lei, da sola, dentro il mondo del commercio. Da allora quei tubi e comunque la capacità di Uelin’ di scire innanzi e ’ndreto, da qua e da là, a fare servizi – capacità maggiorata dalla dispo-nibilità di due rote a motore – non furono più monopolio esclusivo del pesciaiuolo zoppo di via Modugno.

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Quando Iangiuasand’ cominciò a fare dingle-e-dangle, tra la casa matrimoniale di via Modugno e il negozio in al-lestimento di via Trevisani, con quella panza che diventava ogni dì più grossa, un sentimento che prima era una specie di angoscia e poi diventò pavura vera e propria s’impatro-nette di Cilluzz’. La pavura di perdere, prima ancora che nascesse, il piccininno suo, carne della carne sua. E pure la pavura di perdere quella specie di mogliera che, bene o male, certo più con i dispetti e le preoccupazioni che con l’amore, era in definitiva al centro della vita sua. Una pavura, un do-lore preventivo che portava stampato in faccia pure quando capitò, una sera, a casa di Zi’ Tares’. E quelle due, Zi’ Tares’ e Tetedd’ la Settebellezze, gli tirarono le cime di rapa, facen-dogli cioè ammettere che stava depresso e disperato perché quella capamatta di Iangiuasand’ mo si era fatta la fissa di aprirsi un negozio, che si stava facendo aiutare da quello scemo di Uelin’ il Provolone, che chissà cosa succedeva mo che si sgravava e si rendeva autonoma, che magari lo lasciava per scìrsene a vivere da sola col piccininno, sangue del san-gue suo...

E una matina Iangiuasand’ se le vedette spuntare innanzi, quelle due streghe, in via Trevisani. Uelin’ aveva avuto l’in-carico di scire a chiamare il mastrodàscia perché venisse ad acconcertare il separé di compensato e lei stava nettando le vasche che il dì prima erano state montate dai fabbricatori. Iangiuasand’ le fissò dentro gli occhi e si avvertette che erano pieni di odio e di cattiveria. Sudò freddo. Tentò inutilmente di fuscire fuori, ma fu bloccata e portata da quelle due furie selvagge dentro uno spigolo del negozio. Tentò inutilmente di non farsi imprigionare le braccia dreto la schiena dalla vecchia e di non farsi tappare la bocca. Tentò inutilmente di scansare i calci che Tetedd’ le dava con tutta la forza contro il ventre, oramai all’ottavo mese di gravidanza.

«Brutta zòccana» gridava Zi’ Tares’, eccitando la figlia a colpire sempre più forte, «ti faccio avvedere io che ’sto fìg-

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ghio di zòccana che apporti dentro alla ventre te lo scordi. Con chi l’hai fatto? T’appiace il Provolone, ah? t’appiace? E ’ste stampate t’appiacciono? Tu non fasci cornuto uno della famìgghia nostra. Tu puoi frecare a Cilluzz’, ma non a me. ’Sto fìgghio di zòccana non ha da nascere, tu non hai d’ad-disonorare la famìgghia nostra».

La lasciarono e se ne scapparono solo quando Iangiuasand’, dopo aver gridato e smaniato, svenette. Avevano fatto la par-te loro. In terra, ancora senza sensi, la scoprette Uelin’ il Provolone tornando dal mastrodàscia. Il ’uagnone non per-dette tempo a domandare. Le gettò un poco di acqua in faccia per farla rinvenire. E con la Vespa la portò alla Croce Verde. Uelin’ guidava piano piano per non farla cadere, lei si agguantò forte forte a Uelin’ per non cadere. Dalla Croce Verde la portarono con l’ambulanza al Policlinico, qua le facèttero analisi e sopranàlisi. Il piccininno si era salvato. Anzi nascette la notte stessa. Proprio un màscuo, come de-siderava Cilluzz’, e non una fèmmena, come avrebbe voluto Iangiuasand’ per poterle dare – questo però non lo confessò a nessuno – quello che a lei, figlia fèmmena, la mamma non aveva dato...

La faccia piccinonna piccinonna e triangolare, la capa grossa grossa, le gambe e le braccia lunghe lunghe: Martemè Piccinunno era il ritratto di Cilluzz’. E Cilluzz’ era tutto emozionato, non solo perché mo teneva un figlio ma pure perché gli avevano assicurato che i piccininni assomigliano alla mamma o all’attano loro a seconda di chi era voluto più bene dall’altro (o dall’altra). ’Mbe, il fatto che Martemè Piccinunno tenesse la fronte larga sua, il naso suo, la bocca carnosa sua – pure Iangiuasand’ però la teneva – allora vole-va dire che quella matta di Iangiuasand’ sottosotto gli voleva bene, che anzi lui piaceva a lei persino di più di quanto lei era desiderata da lui.

Ma questa illusione gli durò poco a Cilluzz’. Il dì dopo la nascita del piccininno, fu convocato alla stazione dei ca-

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rabinieri del Policlinico, insieme a Zi’ Tares’ la Zoppa e a Tetedd’. Iangiuasand’ aveva detto tutto ai carabinieri, delle mazzate e delle stampate delle due fèmmene, e ci aveva ag-giunto pure il carico da novanta contro il marito, facendosi volontariamente sfuscire dalla bocca che «quelle due delin-quenti forse erano apparanzate con lui, con marìtemo...»

«Quella è una capamatta» protestava Cilluzz’ con l’ap-puntato. «Ma se io ci vògghio bene a quella sconsiderata! È lei ad ammenare calci contro a me e io l’assopporto perché ci vògghio proprio bene. Che c’entro io con la mattezza di ziànema e di cuggìnema? Non sàccio perché, ma quella mi vole arruinare».

Intanto la Zoppa e la Settebellezze giuravano sopra la Madonna che non avevano fatto nulla alla ’uagnedda, sta-vano solo a ragionare con lei perché loro erano preoccupate dell’infelicità di Cilluzz’ quando, di colpo, Iangiuasand’ si era messa a scappare e aveva sbattuto contro una vasca, ca-dendo in terra e svenendo...

«Sentite, amici del sole, queste so’ chiacchiere. Se la ’ua-gnedda ’nsiste con la denuncia» spiegò l’appuntato, «è un brutto quarto d’ora per tutt’e tre. Ci sta una sola maniera, per voi, d’assìrvene puliti: che la ’uagnedda arritira la de-nuncia».

Cilluzz’ teneva vergogna a scire da Iangiuasand’, per do-mandarle il piacere di ritirare la denuncia contro quelle due carnette che volevano accìdere Martemè Piccinunno prima ancora che nascesse. Ma quelle lo tenèttero appizzicato con-tro un muro del corridoio di ginecologia finché non lo fic-carono, con la minaccia di cancellarlo per sempre dalla vita loro, dentro la camerata dove stava la sgravata.

«Vuoi che arritiro la denuncia, no?» gli dicette Iangiuasand’, appena se lo vedette spuntare innanzi, rosso rosso come un paperusso per la vergogna, «allora facimo un patto: che tu ti pigghi la robba tua da casa e non ti fasci avvedere più».

Cilluzz’ stava per rispondere qualcheccosa, ma lei lo ri-anticipò: «Senti, mi so’ acconvinta che non è più unghia la

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nostra di stare insieme. Non appreoccuparti, il piccininno aqquando vuoi lo puoi avvedere. Ma io non posso più addi-pèndere da uno che mi sape dare solo mazzate. E poi, perché avimo da stare ’nsieme? Io non ti vògghio più. Perciò, se drizzi il piede e te ne vai, stamo tutti mègghio. Se ’nvece vuoi fare il forte con me, allora so’ guai per te: ti pigghi una bella denuncia, ’nsieme a quelle che so’ la vera mamma tua e la vera mogghiera tua, e io me ne fùscio col piccininno pure in America e non te lo faccio avvedere mai più, per tutta la vita. E se pure mo dici sì tanto per dire e poi, dopo il ritiro della denuncia, vieni a casa, stessa cosa: un minuto dopo me ne vado, e addio per sempre a Iangiuasand’ e a Martemè Piccinunno».

Cilluzz’ sapeva che Iangiuasand’ non minacciava a vuoto. E da quella stessa giornata si sistemò da capo dentro la casa da scapolo, pure se poi rimaneva quasi sempre a dormire da Zi’ Tares’.

Iangiuasand’, appena fuori dall’ospedale, si avvertette di non essere più la piccinonna capricciosa di prima. Era una fèmmena, teneva un figlio e faceva la pesciaiola. Certo, spe-cialmente all’inizio, Uelin’ il Provolone la serviva da innanzi e da dreto, le cozze la matina ce le portava lo stesso carretto che portava la robba alla pescheria di Cioladoro, una sema-na sì e una no passava da via Trevisani Felucc’ il Norvegese per pigliare direttamente da lei le ordinazioni di baccalà e stoccafisso, e per i conti e il pagamento se la vedeva Col’. Ma, poco alla volta, imparò a fare tutto lei. Un poco perché le cose sue voleva vedersele lei senza dipendere dagli altri, un poco perché voleva assire da quel mondo che comunque era il mondo di Cilluzz’. L’unico aiuto di cui non poteva e forse non voleva fare a meno era quello di Uelin’, che si affezionava sempre di più a lei. E lei si appoggiava sempre di più a quel ’uagnone, che stava sempre al posto suo e non diceva mai no.

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la morte

Quanto tempo era passato da quando aveva deciso di fare la pesciaiola e di tagliare con Cilluzz’? Dieci anni? Venti? E che differenza fa? Tanto, una vita fra le cozze e le umi-liazioni, sempre con le mani dentro l’acqua e con l’anima addolorata, che vita è? Una giornata o mille o un milione di giornate sono la stessa cosa. Solo se c’è un accavallamento di gioie e di dolori, di calci in culo e di carezze, la vita è una vita vera e propria, è una cosa che si tocca con le mani, che la senti in capa e dentro il core. Ma se ogni giornata se ne va via così come era arrivata, e la giornata dopo è la stessa canzone, senza una risa, senza un sentimento, che giornate sono? che vita è? Una vita senza vita.

Le giornate, i mesi, gli anni le erano sfilati innanzi, a Iangiuasand’, senza lasciare tracce, senza darle emozioni, senza manco regalarle ogni tanto un poco di calore, senza aprirle una qualche speranza, persino senza costringerla a farsi carico dei problemi concreti che affliggono tutte le fèm-mene senza marito.

L’unico fiato suo, Uelin’, aveva provveduto lui a questo e a quest’altro, a scire qua e là al posto suo, a levarle questo peso e quest’altro, a impedire che qualche uno arrivasse a farle male. Le aveva risparmiato pure certe difficoltà che una fèmmena sola ha da affrontare: difficoltà sotto le quali una fèmmena sola è destinata a rimanere scazzata, essendo co-stretta ad abbasciare la capa e, da questa posizione, a tentare di avere rapporti di amicizia e di vita – e ad averli – con tutti gli altri cristiani, brutti e belli. Oppure, difficoltà che una fèmmena sola riesce invece a vincere e a superare, ag-guantando una posizione di forza rispetto agli altri, màscui compresi. Comunque, si tratta di difficoltà che in definitiva la tengono viva la fèmmena sola, perdente o vincente che sia, costringendola a fare i conti con la realtà, a essere attenta,

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a seguire le cose che le succedono attorno, a interpretare i comportamenti degli altri, insomma a tenere appicciata la luce del cervello e degli occhi, a rimanere una pianta viva che sùrchia continuamente aria, sole e acqua, col tempo buono e col malotempo, d’estate e d’inverno, con la luce e di not-te...

Non è che, mo, Iangiuasand’ arrivasse a incolpare quel santo fesso di Uelin’, che la serviva da innanzi e da dreto, del fatto che lei si sentiva come una lampadina che lentamen-te ma progressivamente si astutava, come una pianta che si ammosciava sempre di più. Ci mancherebbe altro. Con un ’uagnone apposto come Uelin’ sempre a disposizione – con un ’uagnone? oramai Provolone era un òmmeno e lei, Capatosta, una fèmmena fatta – ci stava da ringraziare il cielo e da vasare in terra ogni dì, appena discetata. E lei lo sapeva.

Persino a Brindisi lo fece scire. Parecchie volte sospirò: «Chissà che fine ha fatto Zi’ Marisabbell’!» Oppure: «Quanta nostalgì che tengo di quella fèmmena!» L’amarezza di quella illusione e di quella mancanza sofferta da piccinenna la pati-va ancora, senza contare la curiosità mai soddisfatta di sapere checcos’era successo quei dì a Zi’ Marisabbell’ e a Zi’ Varv’, che se ne era tornata a casa col piccininno che tutti – meno che Iangiuasand’ – erano convinti che fosse di Pittotunno. E Uelin’ ce la volette dare pure questa soddisfazione. Si met-tette sopra il treno, destinazione Brindisi. Vi rimanette una decina di giornate e mai come in questa occasione mostrò quanto sbagliassero quelli che lo chiamavano Provolone cre-dendo che fosse un provolone d’òmmeno. Parlò con questo e con quello, disturbò i figli di Checchin’, rispolverò vec-chie compagnie di gioventù e di patimenti, indagò dentro il mondo della malavita, si giuocò un poco di tornesi pigliati in prestito chissà da chi ma alla fine potette rientrare con la ricostruzione esatta esatta di quella storia.

La prima cosa che le dicette a Iangiuasand’ fu la prima

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che in effetti lei voleva sapere, e cioè che fine avesse fatto Zi’ Marisabbell’: «Sta al Purgatorio». Pettotunno era morta accisa o si era accisa, non si sapeva con certezza. E da tem-po, da un sacco di tempo. Insomma, non aveva campato assai, dopo che era stata lasciata dalla sora lontano da casa. Il cadavere, livido e abbottato, fu individuato che galleggiava dentro il mare, vicino al porto.

Questa malanova, per quanto ritardata, fu un altro colpo per Iangiuasand’, un altro pezzo della vita sua – pure questo concretamente corto corto, ma ingigantito dentro la capa sua dal bisogno inappagato di fiati e di sentimenti – che alla verifica risultava inesistente da anni e anni, essendo stato stroncato peraltro in quella maniera così barbara.

Uelin’ aveva accertato che già dopo tre o quattro dì che stavano a Brindisi, mentre facevano una passeggiata, Marisabbell’ e Varv’ avevano incrociato, “per caso”, Vitin’ d’Arginto, un bel ’uagnone che una notte aveva lasciato via Bovio fra due carabinieri, che si diceva avesse fatto la bel-la vita con le fèmmene-a-pagamento e che, dopo due anni di carcere, era tornato a farla a Brindisi, dove ci stava un bel va-e-vieni di marinari, soldati e viaggiatori. Da quel dì si vedèttero ogni dì, in tre. E tra Marisabbell’ e Vitin’ cre-sceva la simpatia. Diceva tante barzellette, quel birbante di Vitin’, e rideva, rideva, col dente suo di argento. Varv’ ride-va come nessuno l’aveva mai vista ridere. La situazione era proprio spassosa e allegra. Marisabbell’ sapeva che, da un momento all’altro, la pacchia sarebbe finita: erano venute per farla abortire, ma lei non era incinta. Perciò quello che oramai lei viveva come l’imbroglio suo ai danni della sora (e di papà) sarebbe stato scoperto. Ma passavano le giornate e Varv’ non si decideva ad affrontare la discussione, a fare la “cosa” che aveva organizzato. “Mègghio accosì” pensava Marisabbell’. E quel dì non arrivò mai. Arrivò prima un al-tro fatto. Stavano con Vitin’ al solito bar del corso. Varv’ im-provvisamente si voltò a Marisabbell’ e le dicette: «Io vado a sbrigare quella cosa che sai». E voltata a Vitin’: «Perché non

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apporti Marisabbell’ a farci avvedere i trulli che tieni ’ncam-pagna? Ci rivedimo qua stasera». Marisabbell’ non credeva alle rècchie sue. Non credeva agli occhi suoi stessi mentre Varv’ si allontanava e Vitin’ le lanciava un’occhiata di fuoco e di allegria che le facette venire le formiche sotto i piedi per l’emozione. La corsa sopra la motocicletta la inebriò. Lei, attaccata per un braccio a quel tronco di màscuo. Quella fac-cia malandrina sempre rivoltata all’andreto verso di lei, piut-tosto che concentrarsi a controllare la strata. Quegli occhi che se la volevano mangiare. E lei che si poteva finalmente far mangiare lontana da tutti, dalla gente, da via Bovio, da casa, da papà, da Varv’.

Marisabbell’ non vedette più Varv’, né papà, né via Bovio. «Ma Varv’ ci aspetta» avette appena voglia e possi-bilità di obiettare quel pomeriggio, mentre scendeva dalla motocicletta e metteva piede sopra quella terra sconosciuta eppure così promettente, «ce la facimo a tornare ’ntempo?» Lui rispondette, per un momento senza risa: «Non starti ad appreoccupare. Varv’ sape se ci ha da aspettare o no». Fu l’unica volta che, quel pomeriggio e dentro i dì e i mesi che venèttero, Marisabbell’ accennò a Varv’ e a quell’appunta-mento nato mancato. Vitin’ d’Arginto non le dette mai il tempo di pensare, la possibilità di riflettere, lo spazio per fare qualcheccosa di diverso da quello che lui si aspettava o voleva che facesse. Vitin’ d’Arginto la stonò, la imbriacò, la gettò all’anuta un milione di volte sopra le chianche del trullo fresco d’estate e caldo d’inverno, la trapanò, la voltò e la rivoltò, la spaccò, la soffocò, la elettrizzò, la ipnotizzò, la smontò, la rimontò, la patroneggiò, la schiavizzò, la offrette ai compari, la sfruttò...

Intanto, quel pomeriggio, Varv’ era tornata immediata-mente a casa della cugina e le aveva detto di non preoccu-parsi se, per due o tre dì, lei e Marisabbell’ non venivano a mangiare né a dormire. Si giustificò, col tono di non poter dire di più: «Sai, Marisabbell’ non sta in salute, è nervosa, mègghio che s’arriposa due o tre dì ’ncampagna. Ci sta una

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signora che ci fasce stare dentro a un trullo, noi ci damo una mano ad arricettare ’ncasa e lei ci fasce arrespirare un poco d’aria bona. Appena Marisabbell’ sta mègghio, tornamo qua e poi partimo a Bari». Checchin’ collegò subito la novità a quella rivelazione a proposito di Marisabbell’ che aveva let-to, fra le altre cose, dentro la lettera della mamma portata a mano dalle due ’uagnedde di Zi’ Felucc’. E dicette, con par-tecipazione: «Sì, vabbuono, ho accapito, ma m’arraccoman-do di stare molto attenta, lo sai accom’è sòreta». Dentro quei tre dì Varv’ facette quello che aveva organizzato, tornò a casa di Checchin’ col piccininno che «non ne aveva voluto assa-pere di morire» contandole di una Marisabbell’ che pur di non tornare a Bari se ne era fusciuta chissà con chi, lasciò la cugina brindisina con qualche interrogativo senza soluzione in capa e finalmente fu rivista in via Bovio, dove cominciò quella vita a tre: lei, l’attano e il figlio suo. Suo – per par-lare in faccia in faccia – nel senso di suo proprio (di Varv’) e dell’attano. Sì, proprio così: quel piccininno era nato da un momento di debolezza di Felucc’ per la figlia strepiata e senza bene di màscuo, e di Varv’ per l’attano vìduo e senza amore di mogliera. E la conseguenza di quel momento di debolezza (di core e di carne) Varv’ non la comunicò all’at-tano e mai l’avrebbe comunicata. Così Felucc’ non sapeva, anzi faceva finta, non aveva il coraggio e non gli conveniva sapere. E comunque non sarebbe stato capace probabilmen-te di sopravvivere sapendo chiaro chiaro o sentendosi dire papale papale da qualche uno che aveva fatto “la puercaria” con la fìgghia sua stessa, strepiata e tutta, e che quel bastardo gli era nipote e figlio…

Una pietra mettette subito Iangiuasand’ sopra tutta que-sta storia – Uelin’ non ce la raccontò proprio così e forse nemmeno lui l’aveva ricostruita esattamente così, ma così se la immaginarono, giustamente, tutti e due – continuan-do a campare come se niente fosse successo, come se quella Zi’ Marisabbell’ non fosse mai esistita. Del resto, era esistito

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forse papà Iangiuasand’, se non in fotografia? E la mamma, i frati e le sore addo’ stavano, se non dentro i ricordi suoi? Era esistito Colettudd’? La vita, la vita sua, era solo questa che si trascinava in via Trevisani. E già era tanto, grazie all’aiuto e alle gentilezze di Uelin’.

«Volessi due gnomeriddi!» si permetteva ogni tanto di farsi sfuscire dalla bocca lei e lui, tach, correva ad accattarle una dozzina di gnomeriddi allo spunto della strata. «Che dici, è già tempo di lampasciuni?» lei aveva la debolezza di domandargli e lui, tach, si precipitava a pigliare i lampa-sciuni dalla fruttaiola. «Sai che mo mi facessi proprio due paperussi fritti!» e lui, tach, scompariva e dopo dieci minuti si presentava con i paperussi più rossi, verdi e gialli arrivati in paese dalla campagna quella matina. «Volessi una cosa bona!» accennava lei e lui improvvisamente diceva: «Mo vengo» e poi ricompariva con una cosa dolce da spizzuare. Certe volte arrivava sino a via Manzoni per darle il piacere della pasta-percoco più amorosa di tutta l’Italia.

Sì, ma non si campa solo di strafoco. Era il core, era l’istinto, era la passione di Iangiuasand’ a rimanere ogni dì digiuna, senza soddisfazione. Ogni dì, ogni semana, ogni mese, ogni anno, per una vita. Quante rote di Vespa che struggette Uelin’, a furia di scire innanzi e ’ndreto, come una formica faticatrice, al servizio suo! Si faceva in quattro, si faceva in quaranta per lei e sempre con la capa abbasciata, sempre zitto, senza mai una risa o un motivo di contentezza. Dentro quell’ambiente dove le ’uagnedde venivano pigliate a stampate come se fosse niente e con la stessa facilità vasate e arricreate, Uelin’ non la toccò manco una volta, nemmeno di sfusciuta o per caso o per sbaglio (figuriàmoci per mali-zia!). Addirittura, per rispetto e per timidezza, non si per-mettette mai di fissarla dentro gli occhi. E allora, che brivido ti può dare un òmmeno che manco ti fissa quando ti parla?

Certo, meglio il pane che niente. Meglio il pane di Uelin’ che le mazzate di Cilluzz’... Cilluzz’? E chi lo aveva visto più. Ogni tanto qualche uno la veniva a informare che quel-

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la sorta di campione non dormiva quasi più dalla mamma, qualche uno lo aveva visto a fare il maccarone vicino alla casa della cugina a Torre Tresca, qualcun altro la compiativa – poveredda! – perché il marito non le dava manco una lira per far mangiare il piccininno e lui invece si faceva sfruttare da tutti i pagnottisti che incontrava fino a ridursi sempre con le pezze al culo. Al bar continuava ogni sera a offrire da bere a tutti finché non si struggeva l’incasso della matina a via Nicolai, dove peraltro gli aiutanti lo frecavano da innanzi e da dreto. E mo si era messo fisso con lui un mangiapane a tradimento che erano più i tornesi che si metteva dentro la palda che quelli che metteva dentro la cassetta. Ma Cilluzz’ faceva finta di non vedere. E fai finta oggi, fai finta domani, quel malandrino aveva capito che Cilluzz’ era uno smidol-lato che non sapeva reagire. E piano piano aveva pigliato il sopravvento e mo era praticamente lui, il lavorante fisso, che comandava sopra il patrone del banco, invece di essere comandato...

Comunque, Cilluzz’ rimaneva dove stava, grazie al cielo. E Uelin’ era buono come uno stezzo di pane. Certo, meglio il pane che le mazzate, meglio il pane che niente. «Ma il fatto è che dentro alla vita una tene abbisogno di metterci qualcheccosa sopr’al pane».

In effetti, da questo punto di vista, lei era stata sempre diversa assai da Uelin’. Se lo ricordava ancora checcosa le dicèttero subito, la seconda giornata che stava dentro la casa-pescheria di Martemè: che quel ’uagnone si chiamava Provolone ma che, pure se gli regalavi una pagnotta senza nulla dentro, era contento lo stesso. E quando cominciarono a mettergli il provolone in mezzo alla pagnotta, non è che lui lo gettasse ma non faceva certamente gli zompi all’aria per la contentezza. Era come se tenesse pavura di aver da ri-pagare con altrettanto provolone, diciamo così, il provolone ricevuto. Perciò, forse, a Iangiuasand’ non le aveva mai dato il provolone – parlando senza malizia – dentro tutti quegli anni passati insieme in via Trevisani, praticamente da soli,

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prima che Martemè Piccinunno diventasse ominìcchio. Era abituato al pane asciutto Uelin’. E pane asciutto dava e pane asciutto si aspettava dagli altri, pure da lei. Anzi, forse da lei non si aspettava manco quello. E in definitiva manco quel-lo lei gli dava. Manco le briciole. Un poco perché, sin dal primo dì che si vedèttero, si erano abituati tutti e due a trat-tarsi da patrona, pure se giovane, a ’uagnone di negozio: lei sempre a domandare, qualche volta a pretendere, comunque ad aspettarsi servizi e riverenza, e lui sempre a fare, a darsi da fare, a cercare d’indovinare in anticipo di checcosa lei tenesse bisogno. Ma un poco pure per i caratteri originari: lei tosta, capatosta e prepotente (almeno con chi la stava a sopportare), lui mollo, remissivo e gentile di natura.

Tosta, capatosta? E quando mai più? Una volta! La cosa strana è che, finché l’avevano trattata a mazzate e a male parole, lei aveva resistito. Anzi, più la mamma la pigliava di punta e più lei s’intestardiva, più tosta diventava, più Capatosta giustamente la chiamavano; più Cilluzz’ le alli-sciava il pelo e più i peli suoi si arrizzàvano. Ma dopo, men-tre quelle giornate, quei mesi, quegli anni si sgranavano tutti uguali e cioè proprio quando la vita pareva avviarsi sopra un binario di tranquillità e di calma – com’è curioso il destino! – un poco alla volta a Iangiuasand’ le era venuta una mala-tia inguaribile che non la lasciò più. Piano piano, senza che nemmeno se ne avvertisse, era passata dalla ribellione al di-sinteresse per una vita che, mo, non si presentava più manco con gli occhi feroci e con le mani crudeli di qualche disgra-ziato che la volesse mettere sotto. A vedere all’andreto la vita sua, a considerare il calo che aveva avuto il carattere suo e a misurare le energie che le erano rimaste rispetto a quelle che da menenna, da piccinenna e da fèmmena giovane avevano fatto ammattire tutti quelli che si erano provati a domarla o pure solo a sfotterla, praticamente non si riconosceva più. Mo era come una morta che caminava senza domandarsi nulla e senza sapere se la realtà, se il mondo vero fosse quello nero e fisso che teneva dentro la capa che le pesava come se

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contenesse permanentemente un quintale di ferro, dentro il core che non batteva da anni e dentro le vene, dove non sentiva manco più scorrere il sangue, o quello a colori e in movimento che le capitava di attraversare le rare volte che metteva il piede fuori da quel buco di via Trevisani.

No, quel figlio che cresceva dì per dì non bastava a farle pigliare interesse per la vita. Martemè Piccinunno la tene-va legata all’ordinarietà delle giornate, la spingeva a tirare innanzi, ma nulla di più. Le mancava una passione d’òm-meno, un fiato di sora, una consolazione di mamma, una compagnia di compagna. Ma che ci stava invece attorno a lei? Nulla. Solo un meninno giudizioso e un aiutante rispet-toso.

Un fiato sarebbe stata Fifin’. Ma quella fricamidolce non era stata capace di frecare la morte, che se l’era rubata gio-vane giovane. E prima ancora non aveva avuto la forza né l’energia di opporsi alla mamma e al zito, il maestro di scola, che le avevano proibito di scire qualche volta a confortare la sora scalognata che si era ridotta a vendere cozze e baccalà, a fare quattro chiacchiere con lei per svacarla un poco di pensieri, a sollevarla un poco ogni tanto. No, quella frica-midolce, messa alle strette, aveva abbasciato la capa pure lei. Persino alla mamma e a Bellònia l’aveva abbasciata, poi al zito e in conclusione dei fatti, figuriàmoci, al marito, che aveva da comparire e non poteva far ricordare sempre a tutti che la mogliera era la sora della pesciaiola di via Trevisani. E, come se non bastasse, Cristo se l’era pigliata. Iangiuasand’ non poteva manco più sperare di avere la sorpresa di veder-sela a buono a buono spuntare innanzi, un dì o l’altro, con quella risa da pupa che ti arricreava, che ti calmava, che ti addolciva un poco.

Sì, poi si erano fatte vedere pure la mamma e Bellònia. Ma sarebbe stato meglio che non si fossero degnate di fare questo passo. Oh, che speranza quando le aveva viste la pri-ma volta avvicinarsi al negozio, dopo tanti anni che non le vedeva e non ci parlava! Le aveva riconosciute da lontano,

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dallo spunto di via Trevisani con corso Mazzini. Individuò prima quella tracagnotta della mamma, che mo era un poco più barilotto di prima. E, senza vederla, indovinò subito che quella appresso a lei non poteva essere che quella malombra della sora grande. Appena identificò le due sagome, il primo impulso fu di speranza, diciamo pure d’illusione. Le parette improvvisamente come se tutto potesse ricominciare, come se lei potesse tornare ’ndreto a quella seranotte quando fu-scette di casa con Cilluzz’. Come se, mo, non fusceva più e tornava a dormire dentro la branda con Fifin’...

Ma, quando arrivarono a una decina di metri dalla pe-scheria, Iangiuasand’ capette chiaramente già dalle facce loro che quelle due odio e umiliazioni le avevano dato da piccinenna e da ’uagnedda, e odio e umiliazioni le avrebbero dato da fèmmena. La risa, sopra quelle due bocche, durò poco poco, un lampo. Peraltro tenevano il muso storciuto, si vedeva che si sforzavano di far finta che mo forse le volevano da capo un poco di bene. E dopo due o tre parole – manco le avevano domandato come stesse e come avesse fatto a so-pravvivere da sola tutto quel tempo – quelle due gettarono il veleno: volevano tornesi.

E sempre, poi, da quel dì – ogni semana, ogni mese, ogni anno – ci stava una urgenza, una scadenza, una cosa nova che Bellònia non poteva ma aveva da pagare, pure la dote per le figlie, pure gli interessi dello strozzino. E ogni semana, ogni mese, ogni anno le due si presentavano con il borsellino vacante e quando la salutavano, se si fastidiavano a salutarla, tenevano il borsellino pieno. Ma mica si accontentavano di frecarle i soldi! La mortificavano pure. Dicevano che i suoi erano soldi che fetevano di baccalà e che si vergognavano, dato che erano di famiglia onesta e pulita, a far sapere che erano la sora e la mamma di Iangiuasand’ delle Cozze. Senza contare che mo Diador’ era considerato uno dei parrucchieri fini più fini di tutto il centro e Diopold’, che aveva mes-so la capa apposto, aveva imboccato la strata sua dentro le Ferrovie. Insomma, in casa tenevano tutti necessità di com-

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parire. Quindi, che non si facessero vedere in via Mirenghi né lei né Martemè Piccinunno, quel figlio disgraziato di poveri disgraziati. Non si preoccupasse, però: ogni tanto sarebbero venute loro. E difatti venivano sempre, sempre insieme, con la malacera e la fame di tornesi. Due parole, pigliavano i tornesi e se la svignavano, gettando un’occhia-ta con l’aria schifata a Iangiuasand’, a Martemè Piccinunno (in effetti sempre con le mani e la faccia lorde) e a tutto il negozio. Non parliamo, poi, quando ci stava Uelin’. Manco ti facevano l’onore di trasire, un altro poco. Giusto il tempo di frecarle un po’ di tornesi con la faccia disgustata e, via, se ne fuscévano a fare i fatti loro, a scire ad accattare la robba per i figli di Bellònia in via Manzoni, a ruinarsi con due o tre strozzini alla volta, a organizzare le migliori feste da ballo e a prenotare i ristoranti alla moda per i matrimoni delle figlie della figlia numero uno di Donna Sabbedd’...

I tornesi? Ecché, danno decoro i tornesi? danno la cal-ma? il rispetto? Ma non scherziamo nemmanco. Arrivavano e scomparivano i tornesi, soprattutto con quelle sanguette della mamma e della sora. Aveva tentato pure lei di darli a interesse a qualche una, pensando di poter cominciare la carriera della strozzina e lasciare un dì quel mestiere senza onore di pesciaiola, magari per aprirsi una merceria, ma ci aveva rimesso soldi e fiato: certe clienti non volevano pagare le semane o perché erano miserabili senza nemmeno due sol-di per salvare la dignità o perché figlie di bonamamma che avevano capito di essere capitate con una strozzina per modo di dire che non sapeva fare il mestiere suo e se ne approfit-tavano. Così Iangiuasand’ la piantò subito di farsi frecare i tornesi come strozzina. E fu una bella mazzata pure quella, non solo per la moneta perduta. Eccome, si disperò – era il tempo che almeno si disperava, ogni tanto – una fa tanti sacrifici, tenta di fare un passo innanzi, più per il figlio che per se stessa, e Cristo ti dà pure queste mazzate! Allora, non ci sta proprio giustizia? Non ci sta proprio speranza per una povera fèmmena sola, nata orfana, cresciuta praticamente

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senza mamma e mo senza marito, oltre che senza nemmeno una sora degna di questo nome?

Ma poi, avendo accumulato da capo quattrosoldi, che non bastavano per accattarsi una casa vera e propria, tentò ancora di fare un passo innanzi, di levarsi quel disonore di fare la pesciaiola. Ma ricevette un’altra mazzata pesante. Fu aggabbata da un feruscolone di fabbricatore, che la portò da un notaro impegnandola, con pagamento a rate, per tre buchi rispettivamente dentro il cortile, dentro il sottoscala e sopra la terrazza di un palazzo in costruzione. «Investimenti» le assicurò quel fabbricatore, che da operaio era diventato in pratica costruttore. Fu uno scatafascio, invece. Iangiuasand’ soffrette di un periodo d’incassi scarsi, per pagare le rate pigliò lei un poco di soldi a semana e quindi, dopo aver-ci rimesso un sacco d’interessi, decidette di rivendere quei buchi. A metà prezzo rispetto a quanto li aveva pagati: non tenevano mercato, le dicette quel costruttore mangiamàn-gia. In quanto a tornesi, insomma, Iangiuasand’ non avette mai fortuna. Perciò non ci aveva mai fatto affidamento e, com’era dimostrato e stradimostrato, non poteva farne.

Da un certo momento in poi, capette che pure sopra Uelin’ non è che potesse continuare a fare affidamento alla cecata per tutta la vita. E non era manco giusto. Checcosa pretendeva? quello che nemmeno domandava a quel santo ’uagnone? quello che non si aspettava? E che faceva lei per avere, per meritare quell’attaccamento? E gli aveva mai det-to grazie, forse, a Uelin’ per quell’affezione continua, quella bonacreanza, quelle gentilezze? Mai.

Iangiuasand’ sapeva per caso, mese per mese, anno per anno, mo da una mezza parola sua e mo da una mezza pa-rola di qualche altro, la vita che faceva Uelin’ quando non stava con lei, a servirla. Lo veniva a sapere senza volerlo, sentiva quelle rivelazioni senza interesse, non ci metteva nes-suna curiosità a cercare di approfondire la vita, il carattere, i problemi e i pensieri di quel servo contento di servire.

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Ma una volta seppe che Uelin’ si era apparolato con una ’uagnedda, anzi una ’uagneddozza di fuori, di campagna. La mamma di questa ’uagneddozza era una specie di zingara e una zingaredda era pure la figlia, un poco selvatica, ignoran-te, bassa bassa come un turacciolo, ma bella bella come una statua di madonna. Almeno così dicevano. E Iangiuasand’ sentette che quella notizia, quella sorpresa dell’apparola-mento di Uelin’ non le passò sopra il core come se fosse acqua fresca. Non se lo dicette, non fu sincera con se stes-sa, ma quella novità fu un’altra mazzata dentro la vita sua. Qualcheccosa le si era appicciata improvvisamente dentro il cervello, una specie di sensazione di pericolo e di pavura, e contemporaneamente qualche altra cosa si era astutata, di-ciamo una specie di speranza e di desiderio che però lei non sapeva di tenere, accecata com’era dalla depressione e pure dalla superbia rispetto a quel ’uagnone. Scopriva solo mo di avere avuto quella speranza e quel desiderio, di averne godu-to sottosotto, solo mo che l’una e l’altro venivano spezzati alla radice dalla malanova dell’esistenza di quella ’uagned-dozza segreta.

Non si fermò qua la cosa, naturalmente. Un’altra volta le contarono che Uelin’ aveva aperto un negozio di cozze e baccalà alle due zingare. E da quel momento lo vedette scire e venire sopra un’Ape, che era più adatta della Vespa per i tre negozi che oramai Uelin’ serviva: quello del patrone originario Martemè, quello di Iangiuasand’ e quello della ’uagneddozza.

E un altro dì ancora, stavolta proprio con la voce sua, sempre con la capa abbasciata però, Uelin’ la informò che non faticava più per Martemè perché aveva deciso di met-tersi a faticare in proprio. Dove? Alla pescheria delle due zingare di campagna. Allora Iangiuasand’ capette che l’appa-rolamento fra Uelin’ e la ’uagneddozza aveva avuto qualche sviluppo impegnativo.

Tempo un mese, Iangiuasand’ sentette casualmente che il ’uagnone del barbiere cimentava Uelin’ perché portava la

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fede al dìscito. Così venette a sapere che Uelin’ era fusciuto con la ’uagneddozza, d’accordo con la zingara grande. Poi avevano fatto le carte al municipio e mo Uelin’ mangiava e dormiva con le due zingare, dentro uno stanzino senza fine-stre, dreto quel negozio di cozze e baccalà. Dunque Uelin’ si era sposato, non aveva avuto il coraggio di preannunciarlo a lei, né d’informarla a cosa fatta, e perdipiù quando stava con lei si levava la fede e se la nascondeva dentro la palda...

Iangiuasand’ lo aveva sentito come un colpo definitivo quel tradimento. Sì, proprio questa parola le sfuscette dalla bocca, stando da sola in via Trevisani: “Tradimento”. Una parola e un risentimento senza capo né coda, visto e consi-derato quanto poco lei pensava a Uelin’ e quanto poco face-va capire di apprezzarne la dedizione e la fedeltà. Un risen-timento, anzi un dolore giustificato però dalla disperazione che, tempo qualche dì, si era impossessata di Iangiuasand’, senza che lei se ne avvertisse all’inizio, senza che se lo aspet-tasse. Non si era mai sentita così disperata, così sola, così in balia delle onde, senza un appoggio, senza un fiato, senza un aiuto, senza nulla di nulla, senza nessuno.

Mo finalmente si avvertiva dei tanti anni passati con Uelin’, appoggiandosi a lui senza toccarlo, facendosi adorare senza aiutarlo nemmeno ad alzare gli occhi, comandando-lo senza abbasciarsi a lanciargli un’occhiata, facendo affida-mento totale sopra a lui senza nemmeno pigliarsi il fastidio di saperlo, ottenendo tutto senza dare nulla.

Si schiantò alla sola idea di tener bisogno di qualche uno, di rischiare di dipendere da lui, di volere una cosa che forse non poteva avere più e che non aveva voluto – che combi-nazione! – sino a quando avrebbe potuto pigliàrsela con la facilità di una bevuta di acqua. E reagette alla maniera sua.

«Uelin’, ti ho da dire una cosa» gli anticipò a tu per tu, dopo averlo invitato dreto il separé di via Trevisani.

«Ditemi, patrona, vi sento» rispondette pronto lui, aspet-tandosi che lei gli domandasse di farle qualche servizio.

«Ma per sentirmi, stavolta, mi hai d’affissare dentro agli

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occhi» lo invitò lei, con un tono che era un poco di cortesia e un poco di comando. «Per la prima volta dentro alla vita tua, almeno stavolta, mi hai da sentire alzando la capa».

«Ditemi, vi sento» tartagliò lui, che per la prima volta la vedeva veduto, quasi svenendo per l’emozione e intuendo l’importanza della cosa che mo quella sorta di fèmmena ’ua-gnedda gli stava per dire.

«Uelin’ ti ho da dire ’sta cosa» e qua Iangiuasand’ diventò molla molla dentro e tosta tosta fuori: «per il bene mio e per il bene tuo, dicimo per il bene di tutti, ti ho da dire che quella è la porta e vattinne, smamma, scòrdati dell’esistenza mia!»

«Accome? Accome avite detto?» sbiancò Uelin’.«Uelin’, sentisti ’bbuono. Scòrdati il nome mio, scòrdati

la faccia mia, scòrdati l’esistenza mia» ribatté Iangiuasand’, diventando sempre più molla dentro, sino al mancamento, e sempre più tosta fuori, parendo crudele e comunque con-vincente. «Sentisti ’bbuono: quella è la porta e vattinne, una volta per tutte».

«Ma...» tentò ancora Uelin’.«Niente ma, niente parole, mo abbasta, il giuoco è affi-

nito» sentenziò Iangiuasand’, che si lasciò sfuscire: «Tu statti con mogghièreta e io me ne sto con fìgghiemo. Baibai!»

A quel punto Uelin’ capette che non ci stava Cristo di farla ragionare. Capette che quella lunga storia fra loro due – più esattamente, fra lui e lei – era finita: e finiva proprio mo che lui, mediante quell’accenno risentito a “mogghière-ta”, scopriva finalmente che “la patrona” a lui ci teneva e che forse lei stessa lo scopriva dentro quel momento.

Con la morte dentro il core, Uelin’ il Provolone voltò la schiena, lasciò il negozio, mettette in moto l’Ape e scompa-rette per sempre dalla vita di Iangiuasand’.

Fu allora che Iangiuasand’ si era sentita proprio sola. E chi lo aveva mai sospettato che Uelin’ potesse significare per lei qualcheccosa di più di quella comodità di ’uagnone

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sempre a disposizione? che addirittura era diventato il perno della vita sua, il cardine che le permetteva di aprirne e di chiuderne la porta?

Lo patette il crollo, eccome se lo patette. Non fu dolore o sofferenza. No. Fu un crollo. Dal dì e dal momento che Uelin’ tirò la messa in moto dell’Ape, per non fare più ri-torno in via Trevisani, Iangiuasand’ cominciò a crollare. Ma non tutt’insieme: un poco alla volta, lentamente lentamente. Si sentiva tutta svacata, senza interesse o curiosità per nulla. Pure la forza di faticare le passò, lei che per tanti anni non aveva fatto altro dalla matina alla sera che faticare, mettere il baccalà a bagno, pesare, combattere con i grossisti e con i clienti... Per tanti anni la vita sua era stata questa. Se l’era messa sopra la schiena, tenuta in braccio, l’aveva caricata e scaricata, adacquata, accattata e venduta, incartata...

“Ma il fatto è che dentro alla vita una tene abbisogno di metterci qualcheccosa sopr’al pane”: mo se lo ricordava quello che ogni tanto si diceva a questo proposito e le veniva da ridere per la disperazione. Mo se ne avvertiva checcosa significa non avere manco il pane, manco uno come Uelin’ dentro la vita, dentro la casa, dentro quelle giornate tutte uguali ma almeno con un fiato di cristiano che ti vole bene, che ti vole fare piaceri, che fa di tutto perché tu stia bene. Che desiderio di pane dolce di sale e di giornate tutte uguali che le venette improvvisamente a Iangiuasand’, sola dentro il deserto che era diventata la vita sua, anzi che in sostanza era sempre stata e mo si rivelava completamente, sfacciata-mente, senza che nessuno si pigliasse il fastidio di farcela parere diversa, più bella, pure solo più sopportabile.

Del resto, con chi se la poteva pigliare? con Uelin’, forse? Con lei stessa aveva da pigliarsela e con lei appropriatamente se la pigliava. Ma non per darsi gli schiaffi in faccia. Magari! Per fare questo ci vole un’energia e, sottosotto, una forza di reazione che lei non teneva, non si sentiva più dentro. No, non si dava gli schiaffi in faccia. Ammetteva solo che quel-la infelicità se l’era costruita con le mani sue. Pure con la

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mamma, da ’uagnedda, non è che tutte le colpe fossero della mamma. Certo, Donna Sabbedd’ l’aveva vestita a lutto per anni e per anni non le aveva nemmeno parlato alla figlia. Ma checcosa aveva fatto lei, Iangiuasandin’ prima e Iangiuasand’ dopo, per farla squagliare la mamma, anzi per non farla in-tostare sempre di più? Aveva risposto con dispetti, malacre-anza e sfregi. E pure con Cilluzz’. Con quel povero-a-lui di Cilluzz’ veramente sarebbe bastato poco, per giuocarselo come avesse voluto: sarebbe stato sufficiente abbasciare pro-forma la capa un poco, ma proprio appena appena, e se lo sarebbe potuto girare e rigirare come un pupazzo. E invece? Invece pure a lui Iangiuasandin’ prima e Iangiuasand’ dopo avevano riservato cocciutaggine, ostinazione e provocazio-ni.

Con Uelin’, poi... Non lo aveva mai considerato. Manco il “tu” si faceva dare: era più piccinonna di lui, non era più patrona, né nora né mogliera di patrone, e si faceva dare an-cora il “voi”. Proprio una sconsiderata, un’ingrata. Lui pra-ticamente aveva vissuto per lei – sino a quella novità della ’uagneddozza di campagna – e lei che gli aveva dato dentro tanti anni? Tornesi lui non ne voleva, di risa lei non ne tene-va, occhiate di ringraziamento lei non poteva manco farglie-le perché peraltro lui teneva la capa abbasciata...

E mo aveva levato il disturbo. Anzi, era stata addirittura lei che si era pigliata il lusso finale di metterlo alla porta, che aveva avuto la superbia e l’irriconoscenza di cacciarlo, invece di aspettare che almeno fosse lui a scìrsene, a dire “addio, amica del sole”, stanco e strutto da tanti anni di servizi e da quel continuo va-e-vieni tra la casa che si era fatta con la ’uagneddozza e la casa che naturalmente non aveva mai avuto manco l’ardire di pensare che un dì potesse essere pure la sua.

Eh sì, il buco di via Trevisani col tempo era diventato una casa, si fa per dire. Tutte quelle sanguette, la mamma, la sora, il fabbricatore e gli strozzini, l’avevano messa col culo in terra a Iangiuasand’. In via Trevisani, poi, non è che esi-

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stesse la possibilità di fare tanti guadagni: a due passi ci stava il mercato di corso Mazzini la matina e una certa quantità di pesate le faceva solo alla sera. Ma la sera si sa che le pesche-rie guadagnano assai col pesce fresco, con la merosca, con la paranza: tutta robba da pesciaiuoli màscui che, per non complicarsi ancora di più la vita, Iangiuasand’ non aveva mai voluto trattare.

A tutti questi impedimenti si erano associate, poi, le con-seguenze della depressione, diventata prima patrona della capa di Iangiuasand’, il punto suo più esposto, e poi calàtale dentro il core, occupandole quindi il ventre e, in conclusio-ne, appesantendole le cosce e bloccandole l’attività dei piedi. Detta così, appare una cosa veloce e comprensibile, una cosa che tu puoi seguire dì per dì, tappa per tappa. Invece no. Fu una cosa di anni, una progressione allentata, sotterranea e invisibile, della quale lei comunque non si avvertette mai. Quando era cominciato quel dolore, che si era annidato al centro della capa e non ne aveva voluto più sapere di scìr-sene? E chi lo sa. E quando aveva cominciato a perdere il sonno, a passare notti intere con gli occhi scatesciati e ad avere la sorpresa di non tenere poi bisogno di recuperare, di coricarsi almeno per una mezzoretta durante la giornata? E quando era scomparso l’appetito? Da ’uagnedda, sia a casa della mamma sua sia a casa dell’attano e della mamma di Cilluzz’, e pure da fèmmena, sia sopra la farmacia Ciaciulli sia agli inizi in via Trevisani, era uno sgranatorio continuo: merosca, ceciariddi, polipi, meloni, paste-percoco, sfoglia-telle, lampasciuni, paperussi, rizzi di mare, noci reali, gno-meriddi, olive fritte, pane e provolone, per non parlare dei mezziziti col suco e la brasciola, del riso e cìggiri, della tiella di patate, riso e cozze... E mo? Lo stomaco mo si era come chiuso.

Come quell’altro appetito, quello di un màscuo. Non è che lo avesse mai soddisfatto. Ma quante, quante volte aveva desiderato che qualche uno ci mettesse il provolone in mez-zo alla pagnotta sua! Il prurito, per il prurito, quello se l’era

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grattato da sola, qualche volta che non ce l’aveva fatta più. Mo che si voltava all’andreto, Iangiuasand’ faceva il conto e tirava la somma: una sola volta, una sola, aveva avuto a che fare con una spada di màscuo, una sola volta era stata infilzata. Pure questa considerazione, quindi, non è che le permettesse di dirsi, all’età sua di fèmmena fatta: va bene, tengo tanti di quei problemi, però la vita mia la feci, mi sono divertita. Pure come fèmmena fèmmena, insomma pure come animale, la vita sua era stata un disastro. Pure da questa angolatura si avvertiva che la sua non era proprio stata una vita, non era stata nulla...

Comunque, quella necessità mai soddisfatta almeno se la sentiva addosso, le gonfiava il core, le brusciava tra le gambe. Segno che qualcheccosa la intralciava, la bloccava – come succedeva a tutta la vita sua, per colpa del carattere che te-neva – e le impediva di tirare fuori la vita, i desideri, i sen-timenti che però dentro teneva, eccome. Ma ad un certo punto, come venette meno l’appetito per le cose da frecare, da mangiare, e che sino ad allora si frecava, si mangiava, così diminuette, s’indebolette e poi sparette completamen-te pure quell’appetito di màscuo, quel desiderio di frecare, di stringere e di farsi stringere da un màscuo, di farsi stra-pazzare, infilzare, infilare, trapanare, trapassare, inondare... Iangiuasand’ si voltava all’andreto a esaminare la vita sua, poi tornava a considerare la situazione presente e conclude-va che una cosa è non farcela a soddisfare – per asprezza di carattere o per altro – un desiderio che comunque ti senti dentro la carne, e tutt’altra cosa è non sentire desideri. La prima cosa significa che sei infelice, la seconda che sei una morta...

Senza soldi, senza interesse per nulla, senza forza di scire ancora innanzi e ’ndreto fra via Modugno e via Trevisani, Iangiuasand’ aveva detto baibai alla casa con il balcone so-pra la farmacia Ciaciulli e se ne era venuta a stringere con Martemè Piccinunno, pure per dormire, dreto il separé di quel buco della pescheria sua. Una casa-pescheria, la casa-

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pescheria più piccinonna del mondo. Innanzi al separé non ci stava spazio per il pesce e nemmeno per due cozze pelose o due vongole, ma solo per una decina di chili di baccalà e una cinquantina di chili di cozze nere, e dreto al separé – da un certo punto in poi – non ci stava più nemmeno spazio per le gambe di Martemè Piccinunno, che si allungava sempre di più, né per i libri e i giornali che quello schicchiatiddo aveva cominciato a leggere e ad accumulare.

Martemè Piccinunno, l’unica ragione della vita sua. Un gioiello di piccininno, un ’uagnone che arava a scola, poi un giovane che dette soddisfazioni ma che a una certa età cominciò a fare il matto. Non ci stava un capo della casa che gli desse mazzate, se ne approfittava dalla debolezza della mamma (Iangiuasand’ era debole per la prima volta, solo con lui aveva abbasciato la capa) e così faceva quello che voleva. A un dato momento non volette più saperne della scola e la scola non lo vedette più. Non voleva scire a faticare e non faticava. Non voleva stare nemmeno dentro il negozio di cozze e baccalà e non ci stette. Dalla matina alla sera stava a leggere, libri e giornali, giornali e libri. Sopra il cesso, sopra il letto, caminando, al giardino Garibaldi... Ovunque. Libri e giornali. Magari da grande avrebbe fatto il commesso den-tro una libreria o addirittura il giornalaio, patrone di un’edi-cola e della vita sua. Così avrebbe potuto non dare conto a nessuno, se non a se stesso.

E difatti, regalando a questo e a quest’altro, Iangiuasand’ ce l’aveva fatta a piazzarlo dentro un’edicola di giornali Martemè Piccinunno, che oramai era un giovanotto. Un mestiere pulito e un avvenire sicuro. L’aveva messo a posto.

E lei? Che senso aveva continuare a sbattere la capa? a stringere un limone secco secco, che non aveva mai dato suco e mai ne avrebbe dato? ad agitarsi per questa nullità che è la vita? Certo, se avesse potuto ricominciare tutto da capo, da quella sera che, ’uagnedda, se ne fuscette da casa con Cilluzz’! Ma, ammesso e non concesso che avesse po-tuto ricominciare da là, non facendo più la mattezza di far-

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si caricare da quello sposseduto sopra la carrozza di Rocch’ il Calessiere, checcosa avrebbe potuto fare di buono, con quella mamma che non ne aveva mai voluto sapere di lei? Che vita, poi, era stata la sua non solo da maritata, ma pure da ’uagnedda, da piccinenna, da menenna, da pupa appena nata?

Era stata proprio una condanna a morte quella vita. E Martemè Piccinunno? Che avrebbe potuto dare a

Martemè Piccinunno, più di quello che non gli avesse già dato? E checcosa gli aveva dato, salvo che metterlo al mondo e regalargli un’edicola di giornali? Martemè Piccinunno non aveva fatto pure lui sino a mo – per colpa sua, della mamma – una vita disastrata?

Iangiuasand’ si avvertiva poi che, mo, cominciava pure il figlio a provare un poco di fastidio, diciamo pure vergogna, a trasire e ad assire dalla pescheria della mamma. Chissà, cominciava pure ad avere vergogna della mamma stessa, che faticava come un mascuone e feteva sempre di baccalà. Del resto, che poteva fare Iangiuasand’? chiudere la pescheria e mettersi sopra la schiena di Martemè Piccinunno? E come? L’edicola ingranava appena e sì e no poteva bastare per dare da mangiare a un giovanotto. E poi, non aveva da cominciare pure a pensare alla vita sua il figlio? Oramai teneva l’età e, un dì o l’altro, certamente se lo sarebbe visto arrivare a casa con una ’uagnedda sotto il braccio? Anzi, chissà se non la teneva già e se, per la vergogna, non l’aveva manco presentata alla mamma pesciaiola. In tutti i casi, mo Martemè Piccinunno cominciava a costruire la vita sua, e lei gli era solo di peso e sempre di più lo sarebbe stata.

Insomma, Iangiuasand’ era arrivata alla conclusione che mo se ne poteva pure scire dalla vita, ammesso e non con-cesso che avesse mai avuto la possibilità di trasirvi. E poi si convincette che non solo se ne poteva scire, ma se ne aveva da scire. E se ne scì.

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Postfazionepiccolo viaggio critico attorno a capatosta

A dieci anni esatti dal suo esordio nelle librerie italiane – dal suo immediato successo commerciale e dalla straordi-naria accoglienza ricevuta da critici e storici della letteratura – il folgorante romanzo di esordio di Beppe Lopez è ormai stabilmente considerato un classico della letteratura meri-dionale e, per il suo contenuto e la sua “forma”, uno dei più interessanti testi della narrativa italiana contemporanea.

Per descrivere la forza della lingua e l’originalità della storia raccontata in Capatosta si è fatto ricorso a una impe-gnativa serie di riferimenti storici: da I Malavoglia di Gio-vanni Verga a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, dalle periferie romane di Pier Paolo Pasolini allo Stefano d’Arrigo di Orcynus Orca, da Ninfa ple-bea di Domenico Rea a Luigi Meneghello e alla sua epopea di Libera nos a malo, dalle storie e dalla lingua siciliane di Andrea Camilleri all’umanità dolente dei vicoli del Cairo descritta da Nagib Mafhuz, dall’uso colto del dialetto nel cinquecentesco Cunto de li cunti di Giambattista Basile alla “metropoli” di Eduardo, Prisco, Rea e Marotta; dai Fuochi del Basento di Raffaele Nigro ai versi lucani di Albino Pietro, sino a Dickens, a Dostoevskij, al ventre di Parigi di Victor Hugo, ad Antigone e a Psiche...

In realtà Capatosta, che non si limita a riproporre la pur strategica questione del rapporto fra subalternità sociale e letteratura, né si propone solo come un romanzo “di identità e di riscatto”, è entrato di prepotenza nella letteratura italia-na per una serie di motivi, riassumibili in quattro:

1) la storia è scritta in un linguaggio mai usato prima, un impasto di italiano e di dialetto centro-meridionale nella versione barese, storicamente privo di “tradizioni letterarie”. E contrariamente ai più recenti casi di ricorso alle lingue

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regionali – per non far nomi, Camilleri – non tratta una materia leggera né fa la caricatura di cose gravi, ma riporta la vita nella complessità dei suoi registri, compreso quello tragico;

2) la storia è ambientata in un mondo mai descritto, in un’Italia mai raccontata, in un Sud né contadino né borghe-se, né operaio né cittadino, né magico né metropolitano;

3) i personaggi – che non hanno avuto mai voce nella storia e quasi per niente nella letteratura italiana – e le vi-cende narrate sono pressoché privi di “valori”, di consapevo-lezza culturale, di “politicità”, di introspezione interiore o di espliciti collegamenti con la storia del Paese o comuque con quella che passa per essere stata ed essere la storia collettiva italiana e meridionale;

4) la figura della protagonista, Iangiuasand’, come pure è stato detto, risulta comunque, in assoluto, “uno dei ritratti femminili più belli della narrativa italiana”.

Il 19 settembre del 2000 Capatosta (Mondadori) è dun-que nelle librerie di tutta Italia. “Raccontata con una lin-gua di prorompente vigore, intarsiata con raffinatezza da un dialetto espressivo e scontroso, celebrata nella sua grandezza non meno che nei suoi difetti e nei suoi limiti”, si legge nel risvolto di copertina, la protagonista Iangiuasand’ “attinge una dimensione di assoluta memorabilità”. Anche Lopez, come Rea, è autodidatta (pur avendo alle spalle poco meno di un quarantennio di scrittura e di lavoro giornalistico). Anche qui, come in Rea, ci sono l’ostinato attaccamento e praticamente l’identificazione con un mondo, insieme, fe-roce e sublime, alto e basso, misero e nobile. “Fosse viva ancora Anna Magnani”, si legge nella scheda con la quale l’Ansa presenta il romanzo, “il personaggio di Iangiuasand’ non glielo toglierebbe nessuno”.

Per lo scrittore Raffaele Nigro, che presenta il romanzo a Bari, quella di Lopez è un’“operazione più sottile e raffinata” rispetto al recente e fortunato film barese Lacapagira, si tratta di “due opere della marginalità, del degrado, della centralità

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metropolitana”. Nigro confronta e intreccia la storia e la lin-gua di Capatosta con le opere di Gadda, D’Arrigo e Basile. Tira dentro la questione Eduardo, Prisco, Rea e Marotta. Ragiona attorno alla continuità/discontinuità segnata da Capatosta rispetto alle opere di altri autori pugliesi e lucani: Cassieri, Gallinari, Ventrella, Saponaro, Maurogiovanni, Di Lascia, lo stesso Nigro e Pierro. Senza tralasciare il riferimen-to più immediato, quasi obbligato a Giovanni Verga: quello descritto da Lopez è “un mondo ossessivo e senza redenzione, senza successo, pietrificato come quello dei Malavoglia”.

La storia, sostiene Piero Traccagnoli sul Mattino, “cattura dopo un minimo sforzo (l’unico che si richiede a chi masti-ca prose più rassicuranti), quello di riuscire a seguire l’on-da della lingua”. Si sottolinea che Lopez “è un’autorità nel campo dell’informazione locale, sale di una professione che insegna a raccontare con immediatezza e rapidità. Capatosta, invece, appare quasi come una disintossicazione dal mestiere con le sue regole indispensabili e inossidabili. La semplicità è costituita dalla ricerca di un linguaggio che calzi alla storia narrata come una guaina”. In settembre, fra le altre, le prime due recensioni nazionali. Per Liberazione, “la vera scoperta del romanzo è proprio in questo dialetto pugliese, così nobi-le, ricco anche se faticoso”. Quindi è l’inserto TuttoLibri del-la Stampa a dedicare un ampio spazio alla critica di Giovanni Tesio: è proprio l’impasto linguistico di Capatosta “a preser-varla da ogni eventuale sospetto di neo-neo-realismo”. E in occasione dei “consigli per le feste natalizie”, Tesio torna sul-la Stampa a parlare di Capatosta segnalandolo calorosamente come “un libro che non ha avuto l’attenzione che merita”. Con una precisa motivazione: “contro la saturazione di tanti romanzi di decorosa e inappellabile mediocrità”. Si tratta, per il critico piemontese, “di una lettura per lettori che non hanno fretta e che sanno amare le storie in cui la vita dice la sua”.

Lo storico della letteratura Franco Brevini su Panorama sostiene, partendo dal linguaggio usato dallo scrittore, che

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l’impasto linguistico dialettale “acquista un singolare profilo sperimentale. È qualcosa di più dell’italiano regionale e qual-cosa di meno del dialetto, ma in misura variabile ha formato l’ossessione di una parte della narrativa contemporanea”. A Brevini vengono in mente Stefano d’Arrigo di Orcynus Orca, Domenico Rea e Ninfa Plebea, il Luigi Meneghello con la sua epopea di Malo, lo stesso Camilleri, ma anche l’“uma-nità umiliata” che si aggira per i vicoli del Cairo di Nagib Mahfuz. “Ad agitare Lopez”, secondo Brevini, “è un’osses-sione. Quel Meridione senza riscatto, quella vita che non diventa mai storia, è un grumo autobiografico”.

Il latinista e scrittore Luca Canali sul Giornale definisce il romanzo di Lopez “un frutto inatteso nell’attuale deserto popolato d’infiniti sottoprodotti letterari, anche rifiniti nel loro formalismo, ma terribilmente inutili”. E lo colloca nel solco del rinascimentale Cunto de li cunti di Basile. Walter Pedullà apprezza sul Messaggero una lingua “prima mai usa-ta” che “dà aspri sapori agli eventi quotidiani, urla la ribellio-ne fisica e metafisica, musica i sentimenti, che sono delicati e selvaggi insieme”.

Dell’intensità del libro di Lopez scrive appassionatamen-te Massimo Onofri in un lungo articolo sul Diario della Settimana: “trascinante ed euforico, ma intenso e disperato” e “pieno di personaggi che non si dimenticheranno facil-mente”. Lopez ha voluto che “molta vita si coagulasse come sangue, nelle sue vene di rorido scrittore, per sacrificare agli anni un’indubbia, e fuori del comune, vocazione narrativa, che molti altri, assai meno dotati, avrebbero scialacquato alla prima occasione”. Riferendosi alla lingua usata, Onofri parla di “un idioletto – e lo si dice per approssimazione – prima ancora che della lingua, dell’immaginazione”. Più recente-mente Onofri, intervenendo nel dibattito sulla consistenza della scuola di romanzieri italiani – e attribuendo, tra i più giovani, un posto assoluto a Niccolò Ammaniti – indica in Pirandello, Svevo e Tozzi i “padri”, valuta Moravia e Soldati “due grandissimi narratori” e sostiene che narratori di rilievo

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non mancano nelle ultime generazioni, da Maurizio Mag-giani e Sandro Veronesi agli “outsiders” come il Cesare De Marchi de Il talento e il Beppe Lopez di Capatosta.

Anche la grande stampa regionale si interessa a Capatosta. Per il Giornale di Sicilia, Capatosta “è uno dei ritratti fem-minili più belli della narrativa italiana”. Entusiasti sono an-che i giudizi, fra gli altri, di Luigi Compagnino sul Secolo XIX (“Una straordinaria figura di popolana e l’affresco di un mondo che ha abitato raramente le pagine della letteratura”) e di Giuseppe Amoroso sulla Gazzetta del Sud, per il quale “Lopez impiega strumenti narrativi di tipo tradizionale. Il suo è un libro regolare, lento e pausato nei movimenti, asse-stato su itinerari di svolgimenti distesi mediante la chiamata in causa di tutti i passaggi obbligati, le descrizioni necessarie, il dosaggio dei molti particolari sempre collocati al punto giusto e armonizzati con un’equilibrata distribuzione dei fatti nel disegno generale. Quello che invece appare forte-mente provocatorio è l’universo linguistico: una miscela di impasti dialettali e di lessico medio, un italiano talora un po’ sbandato per quel suo contatto continuo con sollecitazioni anomale, con striature vernacolari. Ne scaturisce un pasti-che che alla lontana richiama certe operazioni espressionisti-che degli ultimi tempi. E pensiamo, per esempio, a Stefano D’Arrigo… Capatosta fa viaggiare i suoi poveri personaggi in un mondo fisico, senza mitologie e simboli, senza sirene e spettacolari mostri dell’inconscio: attrezzato piuttosto per non staccarsi mai da terra. Lo sorprende e ghermisce un rea-lismo che brucia se stesso nell’indomabile effervescenza, nel magnetico rovello delle sue strutture sintattiche, ampie, a più piani, trascinate dalla furia creativa di uno scrittore che intende aggiungere, ammassare, agglutinare tutto ciò che può allargare un motivo: furore di certi processi emozionali in cui l’elementarità psicologica dei personaggi è soverchiata da un’aria da melodramma”.

Giuseppe Marchetti sulla Gazzetta di Parma rileva un “miscuglio – che ricorda, peraltro, una illustre tradizione

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italiana, da Verga a Marotta, da Bernari a Fiore, da Rea a Pasolini” immerso “in una intensità narrativa che non cede mai e in un impegno lessicale e stilistico che fa lievitare i fatti con singolare forza di penetrazione. Di queste storie – dice-vamo – è piena la terra e, quindi, la letteratura. Ma Lopez non voleva tessere un racconto soltanto pregno di questo ambiente per tante ragioni miserabile: la sua preoccupazio-ne è un’altra, quella di far emergere dal racconto stesso la propria forza e la propria umanità specialmente attraverso la dittatura esigentissima della lingua, i nomi dei personaggi, il loro esprimersi, il loro parlare e colpirsi e offendersi o difen-dersi. In questa interminabile teoria di situazioni che germi-nano le une dalle altre senza soluzione di continuità il grido umano della pietà, dell’amore, del sarcasmo e della pena si ritorce su se stesso e diventa così penetrante da costituire, alla fine, il maggior esito del romanzo, la sua connotazione di fondo e un inoppugnabile dato di fatto”.

Anche Corrado Augias, sul Venerdì di Repubblica, mette l’accento sulla lingua usata da Lopez: “un impasto di italiano e dialetto piacevole e forte come in Camilleri, forse di più”. Parla invece di “stile immediato, rapido, incisivo, che si evi-denzia nella potenza di movimento di alcune scene di un taglio cinematografico, che mettono in luce le caratteristiche dei vari personaggi definiti nei loro rapporti interpersonali” la critica e francesista Wanda Rupolo sulla Nuova Antologia. Ed è il solitamente feroce stroncatore Roberto Cotroneo a non nascondere sull’Espresso la sua ammirazione per questa “magnifica storiaccia”, confessando di stupirsi che “sia poi Mondadori, editore generalista e poco incline agli esperi-menti, a pubblicare un libro così”. Cotroneo afferma senza equivoci che “se ci fossero più libri così in giro, le cose di questo mondo letterario andrebbero meglio”, rilevando “la capacità di Lopez di costruire una storia intensa senza ste-reotipi, senza format inventati da altri, senza i soliti luoghi comuni che pervadono senza scampo buona parte dei libri che escono di questi tempi”, con una lingua “assolutamente

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funzionale alla storia” che “non è ornamento, ma aggiunge visionarietà e significato a ciò che si legge”.

Il premio più inaspettato e qualificante Lopez lo riceve proprio nella sua città, Bari. Nonostante il sempre vigente “nemo propheta in patria”, in questo caso rafforzato dagli scontrosi rapporti che il giornalista ha da sempre con l’esta-blishment locale, a cominciare dal quotidiano monopolista barese (che difatti ignora totalmente l’uscita del libro, il suo successo nazionale e persino gli incontri che sul libro si svolgono numerosi nella regione). Il Premio Città di Bari-Pinuccio Tatarella è alla sua quarta edizione. Inventato dallo scomparso ex dirigente di Alleanza Nazionale (e assessore alla cultura della città) e da Nigro, ha già un suo riconosciuto pre-stigio nazionale. Naturalmente mai nessun barese o pugliese è entrato nella cinquina dei vincitori. La giuria è composta da letterati del livello di Raffaele Prisco, Pontiggia, Pedullà, Nigro e Gino Montesanto. Questa volta, la cinquina da essa selezionata comprende, oltre a Capatosta, gli ultimi lavori di Gina Lagorio, Lorenzo Mondo, Laura Pariani e Marcello Venturi. Il giudizio finale della giuria popolare – formata da cinquecento lettori – decreta il 18 luglio 2001 un vero e pro-prio trionfo per Lopez. “Capatosta superstar” titola a piena pagina la Repubblica di Bari. Il Corriere del Mezzogiorno: “La vittoria di una Capatosta”. Antonio Di Giacomo, che fir-ma l’articolo sulle pagine pugliesi del quotidiano romano, sottolinea ancora una volta “l’estremo e appassionato atto d’amore di Lopez per la sua città. Per una volta Bari, quella città che spesso si è detta ‘ingrata’ ha invece avuto la forza e l’umiltà di dire grazie a Beppe Lopez, al suo indimenticabile Capatosta”. Aggiunge Luigi Quaranta, sull’inserto pugliese del quotidiano milanese: “Era una vittoria annunciata, ma più che legittima e avvertita da tutti come giusta: perché Ca-patosta ha attirato l’attenzione dell’Italia letteraria sulla città e sul suo dialetto, di cui Lopez ha nutrito la lingua del suo romanzo alla maniera di un Gadda di Puglia”.

Il libro aveva già conquistato, a fine aprile, la prima edi-zione del Premio Letterario Piedicastello, istituito per ricor-

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dare il grande romanziere molisano Francesco Jovine, espo-nente di rilievo del neorealismo meridionale. Così come era entrato prepotentemente nella terna dei finalisti del Premio dei Lettori di Lucca. E l’antropologa Daniela Marcheschi, nell’annuario del Premio, definirà lo stile di Lopez “straor-dinariamente aggressivo, di grande impatto frontale nel suo originale tessuto di voci dialettali pugliesi, anche arcaiche, e di lingua italiana nelle varie e profonde stratificazioni stori-che”. Ciò che colpisce la critica letteraria “è comunque l’as-senza di compiacimento nel raccontare il peso del male e la leggerezza del bene, nell’accompagnare il lettore in quel vero e proprio vortice di orrore e grazia che è anche l’esistenza più derelitta”. E dopo il Molise, Lucca e Bari, Lopez si vede assegnare la targa d’oro del Premio Nazionale Stefanelli a Caserta.

Molto coinvolti da Capatosta si rivelano numerosi do-centi dell’Università di Bari, che ne fanno oggetto di studi e approfondimenti con gli studenti e con lo stesso Lopez. Sotto la lente d’ingrandimento, la lingua usata dallo scrit-tore barese e la rappresentazione del disagio sociale ed esi-stenziale nella narrativa del Novecento. Comincia il prof. Leonardo Sebastio, con un seminario nell’ambito del corso di perfezionamento in Metodologia e didattica della lingua e della letteratura italiana. Un altro seminario (“Dialoghi sulla città e sulle sue scritture: Capatosta e i diritti del ricordo”) è promosso dal prof. Raffaele Girardi, per il corso di per-fezionamento in Lingua, stile e generi della prosa italiana, con la partecipazione del prof. Franco Cassano e del prof. Francesco Tateo. Questi sostiene, fra l’altro, che “l’arricchi-mento dei registri del barese con un racconto che lo adotta per un registro prevalentemente melanconico e drammati-co è certamente il fatto più importante dell’operazione di Lopez. Un dialetto diventa lingua solo quando dimostra di essere duttile e capace di servire ai registri più vari… Ma per far funzionare l’esperienza storica, c’è da chiedersi se non sia ormai troppo tardi”. Lopez si limita ad osservare, a que-

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sto proposito, che “il mondo non è finito. E gli intellettuali hanno sempre il tempo per fare la propria parte”.

Capatosta fa un salto anche nella lingua francese. Marie Thérèse Jacquet, della facoltà di Lingue, impegna un gruppo di studenti nella traduzione dell’ultimo capitolo del libro. “Un’esperienza piuttosto complessa perché Capatosta”, spie-ga la francesista, “presenta un alto livello di non traducibili-tà, soprattutto per il monotonismo della lingua francese che si contrappone al carattere ospitale di quella italiana”. La lingua di Rabelais viene ritenuta l’unica adatta a tradurre, almeno sperimentalmente, il testo dello scrittore barese, ri-titolato Tète de mule. Il prof. Ettore Catalano organizza poi un seminario sulle “Scritture a Sud” – imperniato su Lopez e Nigro – per la cattedra di Letteratura italiana del corso di laurea in Scienza dell’educazione. È ancora Sebastio l’ani-matore del Corso di formazione primaria per la Storia della lingua Italiana, imperniato su tre testi: Capatosta di Lopez, Ninfa plebea di Rea e Altri libertini di Pier Vittorio Tondel-li.

“A dispetto di ogni progresso della così detta civiltà”, ha scritto fra l’altro del romanzo di Lopez uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, Giampaolo Rugarli, “le fal-de freatiche del nostro esistere rimangono quelle che sono raccontate in questo libro con una evidenza, con una bruta-lità e una segreta tenerezza di assoluta originalità. Io sospetto che l’autore di Capatosta abbia regalato molto di se stesso al personaggio. La letteratura realistica – di norma – approda a denunce sociali: lo sfruttamento di chi lavora, i soprusi dei padroni, la complicità dei pubblici poteri, la miseria come premessa del vizio ecc. ecc. Tutto questo in Capatosta non c’è, o meglio c’è sullo sfondo: ma, per singolare che sembri questa mia affermazione, a Lopez premono i sentimenti e l’anima, una entità forse mai menzionata in tutta la narra-zione. Lopez è artista troppo fine e sensibile, non dico per sbrodolare, ma anche solo per esprimersi in modo frontale, diretto: si muove sotto traccia, allude, accenna appena ap-

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pena, ma a me sembra chiaro che il dolore e la bestialità e il brago da Lopez rivoltati nascondano una certa voglia di infinito. La stessa voglia che assilla Iangiuasand’, solo che lei non lo sa o forse non sa come chiamarla”.

La lingua di Lopez, ritiene il critico letterario del Messaggero Renato Minore, “viene costruita come una sorta di partitura musicale, con i suoi valori che sono il ritmo e la prosodia che accompagnano la vita di Iangiuasand’, la prota-gonista, sin dalle prime battute del libro. Questa lingua non è assolutamente la trasposizione nell’italiano di una forma dialettale astratta, di un’idea-dialetto, ottenuta magari con particolari ritmi e cadenze sintattiche o semplici citazioni di parole o frasi dialettali, come capitava ai testi neorealisti, e non impasta neppure i suoi innesti plurilinguistici, come capita a uno scrittore del calibro di Carlo Emilio Gadda. L’intenzione di Lopez è diversa. È l’irriducibilità di una lin-gua fortemente spinta verso il dialetto ma che non è dialetta-le tout-cour. Una lingua in cui l’italiano tende a camuffarsi, a slittare verso forme meticcie, a diventare un’intelaiatura sintattica, una gabbia semantica dentro cui far scorrere la storia. Una storia continuamente spinta e contaminata dall’urgenza espressiva di questo nero-seppia pugliese che è una non chiusa ferita, come all’inizio del Novecento diceva un autore, tanto diverso da Lopez, come Giovanni Boine… La lingua del romanzo circoscrive nella sua essenzialità an-tropologica il modo di essere, in una sorta di immaginazio-ne e di materialità che formano il palinsesto della visione del mondo di una comunità di ‘sposseduti’ del Sud, come Lopez chiama i suoi protagonisti, le figurine di questo prese-pe pugliese. Una comunità che ha vissuto senza essere finora né conosciuta né rappresentata, ai margini della storia, ai margini della possibilità di essere rappresentata. È una co-munità di senza voce, che non ha mai avuto una testimo-nianza… Questa comunità, che emerge come protagonista del racconto, rispecchia l’interdizione di questa visione del mondo, dove ogni cosa trasuda miseria e bassezza, dove non

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è possibile il riscatto sociale, dove è velleitaria ogni speranza di rinnovamento sia personale che collettivo, dove è vietata anche ogni via che può portarci verso un possibile scenario di futuro di speranza… Viene raccontata anche con l’orgo-glio di un narratore che non gioca al ribasso, ma rilancia la posta, che è una posta molto alta. Un narratore che è preso, coinvolto in questo ruolo demiurgico e invasivo, in una sor-ta di scommessa che è anche una sfida sul valore fortemente conoscitivo della letteratura…Intorno a questa intenzione di giustificata ambizione, credo che il romanzo di Lopez raf-figuri, nella storia di Capatosta, una sorta di reticolo narra-tivo intenso e drammatico, in un patto che si rinnova con il lettore e che restituisce per intero, insieme al piacere della lettura, anche la sua avvolgente necessità di conoscenza”.

Per la scrittrice Anna Maria Mori, Capatosta “non fa par-te di una corrente più o meno costruita a tavolino dagli edi-tori, non si allinea con te mode più o meno letterarie o solo salottiere: è uno che ha una storia da scrivere, e la scrive, così come l’ha sentita forse raccontare, o se la ritrova depo-sitata nella memoria. È quello che si chiama un ‘outsider’. E la forza di quello che ha da raccontare, insieme alla lingua in cui sceglie di raccontarlo, ne fanno immediatamente un ‘caso’, per sua e nostra fortuna, un vero e proprio caso ‘caso letterario’: piace subito anche ai critici più difficili, che gri-dano addirittura al miracolo. E i miracoli di cui è fatto il romanzo Capatosta, credo si possa dire senza paura di essere smentita, sono sostanzialmente due (o forse tre: mettendoci anche la straordinaria capacità dell’autore di costruire una trama avvincente): da una parte, come già dicevo, la scelta, il recupero, l’invenzione della lingua, attingendo al dialet-to pugliese; dall’altra, e comunque insieme, il coraggio (che non poteva che essere di un outsider) di riportare a galla le passioni, le violenze fatte e subite, la bellezza, la durezza e la grandezza, orami dimenticate da troppo tempo, di un mon-do di tante donne diverse, vecchie e giovani, belle e storpie, ‘capatoste’ come le capre cui assomiglia la protagonista che

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fino in fondo cerca di non arrendersi al suo destino di crea-tura rifiutata”.

“Un romanzo assai intrigante, ma non semplice e non fa-cile, questo di Lopez: ambizioso nel progetto narrativo – che simula, ma solo per travalicarli nel simbolo, impianti neo-realistici – denso di implicazioni antropologico-esistenziali e dotato di una forte carica di provocazione intellettuale”, ha scritto fra l’altro Vitilio Masiello, illustre ordinario di let-teratura italiana, introducendo il volume Il caso Capatosta (Oèdipus 2004). “Ma il suo livello più osé, la vera sorpresa del romanzo – per usare le parole di Corrado Augias – è la lingua: un audace, persino temerario pastiche linguistico realizzato attraverso un fitto intarsio di dialetto barese su un fondo di italiano parlato d’impronta meridionale; un dialet-to barese italianizzato, o un italiano medio, popolareggiante, fortemente dialettalizzato. È questo l’aspetto del romanzo su cui soprattutto si sono soffermati l’interesse e l’attenzione di critici e recensori, non sempre con comprensione effetti-va delle sue ragioni profonde. Ma in che consiste, propria-mente, la ‘sorpresa’ – cioè il fatto inatteso e imprevedibile, la novità stravagante o temeraria (ma anche, sotto sotto, lo scandalo) – del romanzo di Lopez? Non certo nell’uso del dialetto per finalità artistico-letterarie (di letteratura d’arte) o nella mescolanza di codici e registri linguistici diversi che – lasciando da parte il modello ineguagliabile di Gadda, ap-partenente per progetto e strategia compositiva, oltreché per risultati, ad altra costellazione – non costituisce di per sé una novità nella tradizione narrativa italiana moderna e contem-poranea, da Pasolini a D’Arrigo a Camilleri (per limitarci ad alcuni degli autori più noti e alla tipologie più consuete di impiego di codici alternativi o di mescolanza di codici). La ‘sorpresa’ sta nell’uso di un dialetto, quello barese, privo di una influente tradizione letteraria (di letteratura narrativa) e per di più delegittimato – ai fini del suo impiego letterario – dalla grossolana contraffazione comico-farsesca cui è stato sottoposto sulla scena mediatica. Su questo – sul tema, in-

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tendo, delle condizioni che consentono ad un dialetto (che non ha mai, in sé per sé, intrinseche, ‘naturali’ potenzialità letterarie positive o negative) di assurgere alla dignità di ‘lin-gua letteraria’ – ha scritto cose estremamente acute e per-suasive sotto il profilo storico e teorico Francesco Tateo, in un intervento che non mi pare sia stato ben compreso nelle sue intenzioni e motivazioni. Lungi dall’aver sottovalutato l’importanza dell’esperimento di Beppe Lopez e le possibi-lità d’impiego ‘letterario’ del dialetto barese per difetto di titoli ‘storici’ (per la mancanza di una tradizione), Tateo ri-conosce a quell’esperimento il merito di aver promosso ‘l’ar-ricchimento’ dei registri del barese (finora prevalentemente limitati a quelli del comico nell’impiego teatrale o della de-formazione farsesca nel circuito mediatico) ‘con un racconto che lo adotta per un registro prevalentemente melanconico e drammatico’. Segno, questo, di un sia pur tardivo assurge-re di quel dialetto a dignità di ‘lingua’, giacché – aggiunge Tateo – ‘un dialetto diventa lingua solo quando dimostra di essere duttile e di servire ai registri più vari’”.

Così continua Masiello: “Quello della lingua – che ha in un certo senso monopolizzato, all’uscita del romanzo, l’in-teresse di critici e recensori – non può però essere assunto come problema autonomo e separato dall’oggetto della nar-razione: dalla materia narrativa cui quel singolare amalgama linguistico inerisce, dandogli espressione, forma specifica ed identità. Si può anzi dire che la strategia linguistica seguita da Lopez – e cioè l’adozione o meglio la creazione di una lingua meticcia, ibridata, a forte dominante dialettale – è consustanziale, organica ed assolutamente necessaria ad un progetto narrativo che ha per suo oggetto la rappresentazione di un universo sociale e di una condizione umana i cui carat-teri fondamentali sono l’emarginazione, l’esclusione, l’esilio: l’estraneità di esistenze reiette alla storia, e della storia a loro. All’interno di un universo sociale ed umano cosiffatto, la so-litudine, l’orgoglio testardo e la disperata rassegnazione della protagonista del romanzo, Iangiuasand’ (la ‘capatosta’) rap-

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presentano l’unico modo possibile di rivendicare il diritto all’esistenza, al riconoscimento di sé come soggetto, all’iden-tità. Ma l’emarginazione, l’estraneità, l’esclusione non pos-sono esprimersi con il linguaggio dell’integrazione sociale (l’italiano, magari ‘colto’, letterario) se non negandosi. Il linguaggio dell’estraneità alla storia è il dialetto, soprattut-to se letterariamente inusitato, privo di tradizione. E la sua assunzione letteraria non in purezza, ma in un impasto ibri-do realizzato sotto il suo segno, è documento dell’ascendere dei soggetti sociali che ne sono gli utenti abituali all’autoco-scienza storica, e di quel dialetto stesso a dignità di lingua, attraverso la mediazione di un intellettuale (di uno scrittore) che in quella realtà antropologica e linguistica si riconosce (riconosce le proprie radici) nel momento stesso in cui se ne distanzia criticamente (ne riconosce e sancisce l’alterità irrisarcibile)”.

Un punto che Masiello vuole chiarire meglio “perché esso è strettamente connesso con la tecnica narrativa seguita da Lopez e col ruolo che in essa gioca l’impiego ad intarsio fitto del dialetto, con la diffusa patina dialettale che ne consegue e che caratterizza la tessitura linguistica del romanzo, sen-za tuttavia precluderne la leggibilità al di là della provincia barese. Ha detto Beppe Lopez, rispondendo ad alcune sol-lecitazioni critiche di Tateo, che il suo idioletto si è scritto da solo. L’enunciato è un illuminante – non so se consape-vole o inconsapevole – calco verghiano: della tesi verghiana che l’opera d’arte debba ‘sembrare essersi fatta da sé’ e che, a questo fine, debba, conseguentemente, ‘narrarsi da sé’. È strano che a critici e recensori, nella rassegna degli antece-denti di Capatosta in materia di alchimie linguistiche, sia sfuggito questo straordinario ed ineguagliato archetipo otto-centesco – mi riferisco in particolare al Verga dei Malavoglia – del quale il romanzo di Lopez riecheggia, in piena autono-mia, modelli di ibridazione linguistica e connesse tecniche narrative. Come, con quali procedure operative è possibile conseguire l’obiettivo di un’opera d’arte – di un romanzo

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– che ‘si narri da sé’ (‘si scriva da solo’ dice Lopez)? La via aperta da Verga è quella della costruzione di un racconto “a focalizzazione interna”: gestito, cioè, da una voce narrante o dagli attori stessi della vicenda (dai personaggi del racconto) secondo un punto di vista tutto interno al mondo rappre-sentato. Lo scrittore, insomma, per conseguire il massimo di verità rappresentativa, entra nella pelle dei suoi personaggi, racconta i fatti con la loro voce, vede il mondo con i loro occhi e rappresenta la realtà secondo i loro modi di pensare, col loro linguaggio, con le loro parole. Strumenti d’elezione per la realizzazione di questa sorta di narrazione delegata e autogestita dai personaggi sono, in Verga, l’uso sistematico dell’erlebte Rede (‘discorso rivissuto’), che consente al narra-tore – dice Leo Spitzer – ‘di raccontare gli avvenimenti come si riflettono nei cervelli e nei cuori dei suoi personaggi’, e il ricorso assiduo al ‘discorso indiretto libero’, che consente il riecheggiamento nella scrittura del ‘parlato’ popolare e l’in-tarsio nel continuum del tessuto narrativo della voce e del linguaggio specifico dei personaggi”.

Spiega Masiello “È in questo modo, grazie a queste rivo-luzionarie tecniche del racconto e a queste audaci alchimie linguistiche, che i pescatori e i contadini siciliani dell’Otto-cento – anch’essi e assai più che i popolani baresi del rione Africa estranei alla storia – escono dalla loro secolare esclu-sione e dal loro secolare silenzio ed irrompono nel mondo della letteratura non, si badi bene, come oggetti, ma come soggetti del racconto, portandovi, con la narrazione della loro storia travagliata, i loro modi di essere, di pensare, di parla-re. È azzardato dire (ma, occorrendo, potrebbe farsene una verifica analitica) che il progetto narrativo di Beppe Lopez e la strategia tecnica e linguistica che lo realizza trovano nel grande modello archetipico verghiano un termine di rife-rimento che ne consente una più piena comprensione? E che non c’era altra via, altro modo – lo dico con le parole di Beppe – ‘di raccontare un’Italia mai descritta’, nella qua-le ‘si muovono persone che non si sono mai affacciate alla

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storia e certo mai alla letteratura, e che parlano e pensano in dialetto. In quel dialetto’? E che per questa via e in questo modo esse, come di sopra accennavo, risalgono dal silenzio e dall’estraneazione alla storia e il loro dialetto dalla deforma-zione farsesca alla dignità di lingua?”

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