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bottello da IGOR

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bottello da IGOR

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frontespizioda IGOR

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00 Storia e leggenda00 Nerone o dell’impossibile

Andrea Giardina00 Fine di una dinastia: la morte di Nerone

Marisa Ranieri Panetta

00 La fortuna00 Saggi di iconografia neroniana nelle Accademie italiane tra Otto e Novecento

Giacomo Agosti00 “Lux in tenebris”. Nerone e i primi cristiani nelle opere di Enrico Siemiradzki e Jan Styka

Jerzy Miziolek 00 Nerone superstar

Giuseppe Pucci

00 L’incendio00 Nerone e il grande incendio del 64 d.C.

Clementina Panella

00 Nerone, il grande costruttore 00 “Qualis artifex pereo”. L’architettura neroniana

Alessandro Viscogliosi00 L’attività edilizia a Roma all’epoca di Nerone

Henner von Hesberg00 Nerone sul Palatino

Maria Antonietta Tomei00 Gli atri odiosi di un re crudele

Andrea Carandini con Daniela Bruno e Fabiola Fraioli00 La Domus Transitoria: un’ipotesi di collocazione

Heinz-Jürgen Beste00 La Domus Aurea

Alessandro Viscogliosi000 La Domus Aurea nella valle del Colosseo e sulle pendici della Velia e del Palatino

Clementina Panella000 Domus Aurea, il padiglione dell’Oppio

Heinz-Jürgen Beste

000 L’artista e comunicatore000 Nerone e “il potere delle immagini”

Matteo Cadario000 La pittura di età neroniana

Irene Bragantini000 Nerone, le arti e i ludi

Rossella Rea000 La letteratura al tempo di Nerone

Emanuele Berti

000 Apparati000 Regesto delle opere in mostra000 Cronologia

a cura di Marisa Ranieri Panetta000 Bibliografia

alle pagine seguentiJan Styka, Nerone a Baia,particolare. Polonia, collezione privata

Henryk H. Siemiradzki, Le future vittime del Colosseo,particolare. Varsavia, Seminario Vescovile

Henryk H. Siemiradzki, Dirce cristiana, particolare. Varsavia, Museo Nazionale

© 2011 Ministero per i Beni e le Attività CulturaliSoprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma

Una realizzazione editoriale di Mondadori Electa S.p.a., Milano

www. electaweb.it

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10 112. Ritratto di Nerone.Roma, Musei Capitolini

A N D R E A G I A R D I N AN E R O N E O D E L L ’ I M P O S S I B I L E

Se Nerone fosse morto nei primissimi anni del suo regno, come accadde in sorte a Tito, forse nongli sarebbe stato tributato l’appellativo “amore e delizia del genere umano”, ma certamente loricorderemmo con epiteti favorevoli, molto lontani da quello, spietato, attribuitogli dalcontemporaneo Plinio il Vecchio: “veleno del mondo” (Storia Naturale, 22, 92). A proposito diTito, un autore antico ebbe la brillante spregiudicatezza di affermare che quella morte imprevistagli era giunta propizia, giacché non era affatto certo che, proseguendo nella vita e nel potere,quell’imperatore avrebbe evitato eccessi e crudeltà (Cassio Dione, 66, pp. 296 s. Cary). D’altronde,alcune inclinazioni del suo carattere accreditavano l’opinione, diffusa anche a livello popolare, cheegli fosse, già prima di essere nominato imperatore, un secondo Nerone (Svetonio, Tito, 7). Gli esordi di un principe erano in effetti cronicamente ambigui: potevano accedere al trono deiragazzi, dei semi-sconosciuti o degli uomini illustri con antenati prestigiosi e un bel curriculum,ma quel singolare miscuglio di solitudine, onnipotenza, competizione e fragilità, checaratterizzava a Roma il sommo potere rendeva comunque imprevedibile il futuro.Se Nerone avesse avuto l’opportunità di morire presto, oggi ne parleremmo come di un giovaneabbastanza normale, coinvolto da adulti spregiudicati nella necessaria uccisione del fratellastroBritannico, sentimentale al punto da perdere la testa per una liberta di nome Atte, sempreinquieto a causa della tensione tra i doveri pubblici e la ricerca di uno spazio personale da dedicareall’arte e alla poesia. Un giovane probabilmente destinato a diventare un buon imperatore. Maquale perdita per la storia! Quante emozioni non provate dai posteri, quali percorsi diversi perl’arte e per l’architettura, quante musiche, tragedie e romanzi non scritti, quanti quadri nondipinti, quanti film non girati...La storia al condizionale può essere un esercizio utile e persino nobile, ma ha il difetto di cresceresu se stessa e di moltiplicare le ipotesi. È sempre opportuno fermarsi al momento giusto, perevitare un estenuante avvitamento del discorso. Ma prima di passare alla storia “autentica” –aggettivo in verità molto discutibile, soprattutto quando si parla di Nerone – è necessaria unaprecisazione. Qualcuno potrebbe infatti chiedersi se i profitti culturali ed emotivi che la posteritàha ottenuto dal fatto che Nerone non abbia regnato cinque anni ma quattordici, si pongano omeno in un accettabile equilibrio con i danni morali e materiali eventualmente inferti al mondoromano dalla fase ‘dispotica’ del suo governo. Porre questa domanda coincide con una valutazionepolitica distinta delle due fasi – il quinquennio, i nove anni successivi – che caratterizzano ilprincipato neroniano. Sembra comunque da escludersi l’ipotesi che quei nove anni abbianointrodotto nel sistema istituzionale e nella vita politica e civile romana dei virus stabili e tenaci,destinati a spingere il futuro dell’impero verso orizzonti peggiori.

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5. Domenico Corvi,Morte di Seneca.Roma, Galleria CarloVirgilio

Psicologico, perché questo cambiamento, secondo una tradizione che si protrae ininterrottadall’antichità ai giorni nostri, viene molto spesso interpretato in chiave di degenerazione psicotica,al punto da dissolvere la dimensione politica in quella cerebrale. Questa è infatti la prima efondamentale conseguenza del tema – terribile e affascinante – della “mostruosità” di Nerone.L’indagine sull’effettivo ruolo politico di Seneca durante il quinquennio ha segnato il trionfo delmetodo indiziario: la materia è stata sottoposta a indagini minuziose e ha suscitato castelli diipotesi, forzature e un accanimento interpretativo sui silenzi (molti) e sulle informazioni (poche)delle fonti. Un’analisi equilibrata e priva di pregiudizi positivi a favore del filosofo porta tuttavia aun’inevitabile conclusione: il ruolo di Seneca si palesa nei discorsi e nei comportamenti pubblicidel giovane principe, ma non è possibile ricondurre a lui alcun concreto progetto di governo,alcuna idea di riforma, alcuna proposta indirizzata al senato (Griffin 1976, p. 128).Il ‘manifesto ideologico’ del nuovo regime è comunemente individuato nel De clementia, scritto daSeneca tra la fine del 55 e i primi mesi del 56. Ridotto all’essenziale, il messaggio contenuto inquest’opera colloca il principe in solitudine davanti a ciascun suddito, senza alcuna mediazione(Gabba 1991, p. 261). Il dramma della colpa, della pena e del perdono esclude gli intermediari epresuppone che i due protagonisti – il principe, il suddito che ha errato – si trovino virtualmenteuno di fronte all’altro. Il regime monarchico è dato ormai per acquisito e qualsiasi nostalgiarepubblicana è assente. L’immagine della monarchia che il filosofo offre al suo allievo, tuttavia, èquella di un sistema cronicamente in bilico, a causa di un’immanente deviazione morale. Poiché ladistinzione formale tra monarchia e tirannide è impossibile, ciò che le rende diverse è unicamentel’etica, affidata all’alternativa tra clementia e crudelitas. Per il sovrano, l’inclinazione alla crudeltà

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4. Eduardo BarrónGonzález, Nerone e Seneca, 1904, scagliola.Madrid, MuseoNacional del Prado (in deposito alMunicipio di Cordoba)

Nei corsi tenuti a Berlino tra il 1882 e il 1883, Theodor Mommsen ripeteva ai suoi allievi che maiRoma, nell’intero arco della sua storia, ebbe fortuna migliore che essere affidata alle cure diSeneca, il maestro di Nerone: “Seneca non ebbe un forte carattere, ma Roma non fu mai così bengovernata come quando fu sotto di lui. Traiano lo riconobbe. I primi cinque anni del regno diNerone furono per Roma l’età dell’oro” (Mommsen 1992, pp. 193 s.; il giudizio di Traiano si trovain Aurelio Vittore, 5, 2, ma in un contesto alquanto confuso). Quando uno studioso tanto grandeproferisce una simile esagerazione – anche se non priva di riscontri nelle fonti antiche – possiamoessere certi di trovarci in presenza di una forte deriva ideologica. Quale fosse la natura diquest’ultima è facile intuire: le aspirazioni dell’intellettuale borghese, soprattutto se, comeMommsen, non privo di vocazione politica, si riflettono anche sul lontano passato e ne ricavanoun modello, o meglio un canone, valido per ogni tempo e per ogni paese. La stessa evidentecontraddizione del giudizio mommseniano (come potesse mai un “carattere non forte” assicurareun’epoca di splendore a un impero immenso e complicato come quello romano) si risolve appuntonell’esaltazione del ruolo dell’intellettuale al potere: la cultura, se le viene offerta la possibilità digovernare, può riuscirci magnificamente, anche se chi è al vertice non ha una tempra energica.Il problema del cosiddetto “quinquennio di Nerone”, il periodo di cinque anni in cui Neronegovernò appunto sotto la guida di Seneca (e, possiamo aggiungere, del prefetto al pretorio Burro,cui Tacito attribuisce un’influenza riguardante soprattutto l’istruzione militare e la severità deicostumi: Annali, 13, 2), – periodizza comunque la vicenda del nostro personaggio sotto un dupliceprofilo, politico e psicologico. Politico, perché lo stile di governo di questo periodo ha poco incomune con quello dei nove anni seguenti, che si conclusero con il suicidio del principe.

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6. Manuel DomínguezSánchez, Suicidio diSeneca, 1871. Madrid,Museo Nacional del Prado

geometrico: “quanto all’assassinio dei fratelli, vi si pensava allo stesso modo degli studiosi digeometria, che partono dai postulati: appunto un tipo di postulato (àitema) ritenuto comune ai ree a loro pertinente, al fine di tutelarsi” (Plutarco, Demetrio, 3).Nel caso della Roma imperiale, il problema era accentuato dal fatto che non esistevano norme,oggi diremmo “costituzionali”, volte a disciplinare la successione al sommo potere. I modiattraverso i quali si diventava imperatore rivelano alcune costanti ma il nodo profondo del poterenon era fatto di lacci e regole legali, ma di rapporti di forza (Flaig 1992; Veyne 2007, cap. 1).Il connubio tra fratricidio e monarchia si presta bene al confronto storico. Gli esempi da sceglieresarebbero infiniti, ma nessuno – per chi voglia rendere concreto il postulato geometrico formulatoda Plutarco – è più convincente di quanto accadde ai tempi del grande Mehmed II, ilconquistatore di Costantinopoli. Il potere degli imperatori romani – com’è stato osservato – hamolti punti in comune con quello dei sultani ottomani. Anche qui le regole della successione eranoincerte, anche qui a ogni cambiamento di regno c’era un rischio di guerra civile, anche qui ilfratricidio era una necessità. Inoltre la moltiplicazione dei fratelli, causata dall’istituto dell’harem,rendeva il problema ancora più grave. Fu così che Mehmed II, in mancanza di una norma sullaprimogenitura, decise d’introdurre la cosiddetta legge del fratricidio, secondo la quale quando unsultano saliva al trono tutti i suoi fratelli dovevano essere giustiziati (ma l’eliminazione fisica eraspesso estesa ad altri consanguinei). Quando, nel 1595, Mehmed III prese il sommo potere, ilpopolo di Istanbul si commosse nel vedere sfilare l’interminabile corteo funebre che accompagnavai cadaveri di diciannove principi.Anche se legalizzata, quest’usanza doveva apparire terribile e scuotere le coscienze. E così ilsuccessore di Mehmed III, Ahmed I, l’abolì. Dopo la sua ascesa al trono, nel 1603, i principiottomani non furono più uccisi, però furono rinchiusi a vita in uno spazio recondito del palazzo, lacosiddetta “gabbia” (kafes). Una sorte comunque miserabile, perché questi individui trascinavanola propria esistenza sospesi, intrattenuti da concubine sterili, in attesa di essere un giorno, forse,tirati fuori dalla gabbia e portati al trono. Ai fini del buongoverno, questa soluzione, in apparenza

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coincide con uno slittamento verso la tirannide e, di conseguenza, verso una probabile catastrofe,poiché la crudeltà suscita le rivolte. La pratica della clemenza rafforza invece il potere, perché isudditi che ne beneficiano, e coloro che, senza essere direttamente coinvolti, assistono allarappresentazione del principe che esercita questa virtù, sono inevitabilmente catturati da unsentimento di amore nei suoi confronti. Inoltre, coloro che ricevono la clemenza sono spessospinti a non ripetere il crimine. La clemenza del principe è dunque un potente diffusore disicurezza sociale.Seneca pensa a relazioni nettamente asimmetriche e non considera il fatto che la clemenza, seelargita ai ceti alti, poteva risultare non già ammirevole, ma detestabile, poiché in un rapportoconcepito come tra pari (il principe romano era ancora considerato appunto come una sorta diprimus inter pares) essa metteva a nudo un detestabile nucleo di sudditanza. Questo insegnaval’esemplare e rovinosa vicenda della clementia di Cesare, della quale già Montesquieu colse ilrisvolto offensivo (Meier 2004, pp. 380 s.).Il filosofo propose invece un modello di governo da lui inteso come valido in assoluto e per tutti,nei tempi presenti come in quelli futuri, e vide, nell’auspicata ascesa della clemenza ai vertici delpotere, incarnata da Nerone, l’apertura di una prospettiva epocale.Le carenze progettuali di Seneca sono attribuite ora ai suoi limiti di pensatore politico, ora allecaratteristiche fondamentali della cultura antica. Ma Seneca presentava il suo modello di principeclemente come una novità assoluta, collimante con la scoperta di un principio naturale: l’uomo,infatti, è clemente per natura, e di tutte le virtù nessuna è più umana della clemenza. Comune atutti gli uomini, la clemenza si adattava in sommo grado agli imperatores, offrendo lorol’opportunità di avvicinarsi agli dei.Che Seneca ne fosse consapevole o meno, questa visione aveva il grave difetto di un profondopessimismo. Anche se apriva il miraggio di un secolo felice, essa prendeva forma esclusivamenteentro lo schema della colpa e della punizione e considerava il merito come attenuante della pena.La felicità del saeculum a venire era quindi incupita dalla condizione umana: gli uomini nonavrebbero mai smesso di peccare e i sovrani di punire. Le effettive possibilità di durata dellamonarchia clemente erano inoltre affidate a un fattore imponderabile come la deliberataassunzione di quella virtù da parte di ciascun sovrano futuro. Splendido tema per uno stoicopessimista, la clemenza era del tutto inadeguata se proposta come criterio ispiratore per il governodi un grandissimo impero.L’insegnamento di Seneca si manifestava nei discorsi pubblici di Nerone, tutti ispirati a criteri dimoderazione e tutti scritti dal filosofo stesso. Il giovane principe dichiarò di voler evitarel’ingiustizia e gli eccessi dei processi politici esaminati a porte chiuse, di non essere disposto atollerare la corruzione dei governatori di provincia e gli intrighi di palazzo, di voler esaltare leprerogative e l’autorità del senato. In taluni casi, alle dichiarazioni di principio seguirono azionicoerenti (cfr. per esempio Tacito, Annali, 13, 5, 1: “Mantenne la parola, e molti furono iprovvedimenti presi per volontà del senato…”). Ma almeno in una circostanza il principe mostròun eccesso di entusiasmo che andò ben oltre i consigli del suo precettore: questo accadde nel 58,quando egli manifestò il proposito di abolire le tasse indirette in tutto l’impero, un provvedimentoche avrebbe causato un’autentica catastrofe finanziaria e provocato un dissidio insanabile conl’ordine equestre, e che fu garbatamente respinto dagli adulti che gli erano prossimi e dal senato.Cose del genere capitano talvolta ai giovani che interpretano con eccessivo entusiasmo la lezionedei loro amati maestri: “Nerone, come tutti i ventenni che sanno di avere un grande maestro, eraun consequenziario – era più senecano di Seneca” (Mazzarino 1973, p. 219).Ma che la vita di palazzo mal si conciliasse con la clemenza e fosse sempre condizionata, se nonsopraffatta, da costrizioni ambientali, fu manifesto quando morì Britannico, fratellastro di Nerone,figlio naturale del defunto imperatore Claudio e antagonista oggettivo del nuovo principe. Che sitrattasse di avvelenamento fu chiaro a tutti, e che Nerone fosse responsabile del delitto, insiemecon Seneca e con Burro (difficile valutare il ruolo effettivo di ciascuno), fu opinione di molticontemporanei, ritenuta attendibile da numerosi studiosi moderni. Per evitare che nellavalutazione di un episodio come questo – e degli altri ancora più gravi che sarebbero seguitiqualche anno dopo – prevalgano giudizi attualizzanti, è opportuno non dimenticare che le banaliregole della morale non valgono per le famiglie dei sovrani. Lo ricorda in modo perfetto Plutarco,quando, riguardo al comportamento dei regnanti, qualifica il fratricidio come un postulato

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16 173. Messalina eBritannico, Parigi,Louvre

più umana, fu peggiore della precedente. Dobbiamo infatti distinguere – e non importa separliamo d’impero romano o di sultanato ottomano – i due livelli: quello umanitario e quellopolitico. Non sempre essi coincidono. Quando erano tirati fuori dalla loro prigionia per salire altrono, molti di questi individui erano già istupiditi o impazziti, e governavano come tali (Goodwin2009, pp. 65, 172 s.).

La svolta radicale nella vita di Nerone avvenne in coincidenza con l’esplosione di due fortissimisentimenti. L’amore, osteggiato dalla madre, per Poppea Sabina, una donna bella e disinibita, daicapelli color dell’ambra, e l’odio misto a paura nei confronti della madre Giulia Agrippina.Agrippina era una donna di altissimo lignaggio, perché discendeva da Augusto, la cui unica figlia,Giulia, era sua nonna materna. Fin da piccola, Agrippina aveva imparato a nuotare nel mareinsidioso della vita di palazzo. Quando nel 54 l’imperatore Claudio morì, quasi certamenteavvelenato, e Nerone salì al trono, Agrippina visse uno straordinario trionfo personale: avevasubìto umiliazioni e scansato pericoli mortali, ma ora poteva dirsi pronipote di un imperatore(Augusto), sorella di un imperatore (Caligola), moglie di un imperatore (Claudio), madre di unimperatore (Nerone). Soffocato tra la personalità della madre, la quale agiva apertamente da‘imperatrice’ e quella del maestro Seneca, che agognava far regnare la filosofia stoica, Nerone siribellò e cominciò a comandare a modo suo.Nel 59 ha inizio la carriera criminale del giovane sovrano. È impossibile ripercorrere per intero lalunga catena dei delitti che, a torto o a ragione, gli sono stati attribuiti. È opportuno rilevare,tuttavia, che nel caso di Nerone gli studiosi sono stati alquanto inclini a largheggiare: aincoraggiarli è quella che in un moderno tribunale si chiamerebbe la personalità dell’imputato.Secondo una fonte antica, il buon imperatore Adriano avrebbe fatto uccidere per invidia il sommoarchitetto Apollodoro di Damasco (Cassio Dione, 69, 4; Galimberti 2006, pp. 177-180). Spesso lanotizia non è presa sul serio, ma se un delitto del genere fosse attribuito a Nerone possiamo esserecerti che troverebbe folle di storici disposti a ritenerla veritiera. Lo stesso può dirsi di Costantino:uccise il figlio e la moglie, ma questo non impedisce che una parte della cristianità lo veneri comeun santo. Gli esempi potrebbero accumularsi.Tra i misfatti sicuramente compiuti da Nerone possiamo annoverare l’uccisione della madre,avvenuta nel 59, secondo alcuni motivata da un comprensibile istinto di sopravvivenza, fisica ementale. Tre anni dopo fu la volta della prima moglie Ottavia, una fanciulla devota e dai costumiirreprensibili, che Nerone detestava perché non l’amava e gli era stata imposta come sposa quandoera ancora un ragazzo. Nerone la fece sopprimere per amore di Poppea, ma nel 65, in un momentodi rabbia, ucciderà anche quest’ultima mentre era incinta. Fu un omicidio preterintenzionale,avvenuto a causa di un calcio al ventre, ma poiché Nerone amava Poppea, la fece divinizzare.Alcuni cavalieri e senatori furono incriminati ed eliminati con false accuse, spesso perimpadronirsi dei loro patrimoni. Particolarmente sanguinaria fu la repressione scatenata nel 65quando fu scoperta la cosiddetta congiura pisoniana, dal nome del nobile Gaio Calpurnio Pisone,che i congiurati avevano prescelto come successore di Nerone. Tra le molte vittime illustri compareil nome di Seneca, che aveva da qualche tempo abbandonato il suo ruolo di consigliere delprincipe illudendosi che fosse possibile, per chi aveva avuto tanto potere, ritirarsi a vita privata.Successivamente l’ordine di suicidarsi raggiunse Gneo Domizio Corbulone, uno dei più grandigenerali della storia antica, artefice ed esecutore della geniale strategia partica che aveva segnatoun indiscutibile successo della politica esterna di Nerone. L’incendio che nel luglio del 64 distrussegran parte di Roma (cfr. saggio di C. Panella in questo volume) fu l’occasione che avviò la primapersecuzione contro i cristiani, sacrificati con l’intento di allontanare dalla persona del principe lafalsa accusa di aver incendiato la capitale per dare sfogo alle sue manie di urbanista. Traianoeliminò certamente un numero ben più elevato di cristiani. Ma Nerone fu il primo tra i persecutoried ebbe la sfortuna che tra le vittime si trovassero i santi Pietro e Paolo. A differenza di Nerone,Traiano, pur pagano e persecutore, fu giudicato da Dante, per la sua misericordia, degno delparadiso (Paradiso, 20, vv. 43-48; 100-117; la tradizione risale all’alto Medioevo ed è connessa conla figura di san Gregorio Magno). In conseguenza di questa persecuzione, l’ostilità politicarappresentata dalla storiografia pagana, dominata dall’opinione del senato, andò ad aggiungersialla tradizione cristiana, costruendo nei secoli il mito del mostro Nerone.

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Seneca aveva pensato che Nerone potesse assumere uno statuto quasi divino per mezzo dellaclemenza. Nerone tentò di riuscirci attraverso la poesia e l’arte. Non si trattava soltanto di ideare,commissionare o acquisire capolavori, ma di plasmare se stesso come un oggetto artistico: unprincipe/opera d’arte, potremmo dire.Sempre dopo il quinquennio, ebbe infatti inizio la carriera radiosa di Nerone musicista, attore eauriga (i combattimenti dei gladiatori non furono mai la sua vera passione). In precedenza non pochisenatori e cavalieri si erano esibiti in pubblico, nei ruoli e nei generi più diversi, ma Nerone eral’imperatore e si dedicava a queste attività con un impegno fuori del comune, da vero professionista.Nerone si presentava al popolo come un nuovo Apollo, il dio che suonava la cetra, sceso in terra perdiffondere tra gli uomini belle parole, ritmi perfetti, suoni melodiosi. Il principe, che si ispirava almondo greco, dove l’espressione artistica era strettamente legata alla competizione, si appassionò allegare: “Si stenta a credere – afferma Svetonio – con quale trepidazione e ansia gareggiasse, con qualeemulazione nei confronti dei rivali e con quale timore dei giudici” (Nerone, 23). Anche senza averletto Homo ludens di Huizinga, il principe sapeva che non può esserci vero ‘gioco’ se i giocatori sonostraniati e ostentano scarso rispetto per le regole. Egli si preparava dunque per le esibizioni con curamaniacale, addestrando le mani e la voce, sottoponendosi a diete, rafforzando il plesso toracico.Durante il celebre viaggio in Grecia del 67, che lasciò un ricordo positivo e indelebile tra lepopolazioni locali, il principe partecipò a un numero enorme di gare, riportando sempre la vittoria.Questa vocazione di Nerone suscitò reazioni diverse in ambienti sociali e spazi diversi. Gli assicurò ilfavore delle masse della Grecia e dell’Oriente greco che ebbero modo di vederlo o alle quali giunsevoce delle esibizioni di quel principe inebriato dalla cultura locale e interprete del suo spiritoagonistico. La buona fama, anche postuma, di cui egli godette in queste regioni fu accresciuta dalladecisione di concedere la libertà all’Ellade, proclamata a Corinto nel medesimo luogo dove nel 196 a.C.Tito Quinzio Flaminino, il vincitore di Filippo V di Macedonia, aveva proclamato la libertà dellaGrecia: “Uomini dell’Ellade, – recita il testo dell’iscrizione che ci ha trasmesso il suo discorso – vifaccio un dono impensabile, sempre che ci sia qualcosa che da un uomo magnanimo come me non cisi possa aspettare, un dono tanto grande che voi stessi siete incapaci di chiederlo. A tutti i Greciabitanti dell’Acaia e della terra oggi chiamata Peloponneso, concedo la libertà e l’immunità dalletasse…” (Smallwood 1967, p. 64). Anche se i benefici si sarebbero rivelati effimeri a causa della rapidarovina di Nerone, l’eco di questo discorso si perpetuò a lungo.La passione per gli spettacoli lo fece amare anche dalla plebe di Roma perché egli era non solo unsovrano che elargiva dall’alto denaro e giochi, ma soprattutto un appassionato cultore e interpretedelle rappresentazioni messe in scena per il pubblico. Il favore della plebe romana verso Nerone,relativamente ai ludi si manteneva vivo ancora alcuni secoli dopo, come testimoniano le evocazionidella sua figura sui cosiddetti “contorniati”, gettoni la cui esatta funzione è discussa, ma la cuiconnessione con il mondo dei giochi è sicura (cfr. il saggio di R. Rea in questo volume). Più difficile è stabilire quanto la popolarità di Nerone dovesse alla riforma monetaria da lui attuata nel64. Da questo provvedimento, attraverso interventi sul peso della moneta d’oro e di quella d’argento,nonché attraverso la diminuzione del contenuto di metallo fino del denarius, trassero giovamento lefinanze statali e sarebbe risultato accresciuto il potere d’acquisto dei medi e piccoli risparmiatori(Mazzarino 1973, pp. 222-224). Mentre il guadagno per le finanze imperiali è sicuro, l’interpretazioneche esalta una motivazione sociale, collegata a un uso diversificato della monetazione aurea e argenteasecondo i differenti gruppi, è tuttavia oggetto di discussione (Lo Cascio 2008, pp. 169 s.).I rapporti tra Nerone e la plebe romana – elemento ormai privo di una forza politica formalizzatama importante per il potere di un principe – attraversarono un momento critico in occasionedell’incendio della città, quando per qualche tempo circolò l’accusa che Nerone fosse il mandante,ma la diceria non attecchì mai, sia per la sua scarsa verosimiglianza sia a causa dei provvedimentiche il principe prese immediatamente per alleviare le sofferenze della collettività. Un altromomento critico si ebbe in occasione dell’avvio dei lavori per la costruzione della Domus Aurea. Le condanne antiche degli interventi neroniani in quella vasta area della città insistevano sul fattoche egli, approfittando della devastazione provocata dall’incendio, avesse acquisito, per il propriogodimento personale, spazi che tradizionalmente appartenevano ai cittadini, sia per l’ediliziaabitativa, sia per le funzioni pubbliche.Non era soltanto una questione di dimensioni e di lusso: la gigantesca villa costruita da Adrianoaveva poco da invidiare, per sfarzo ed estensione, a quella di Nerone. Adriano, tuttavia, ebbe

197. Giovanni Muzzioli, I funerali di Britannico.Ferrara, Gallerie d’ArteModerna eContemporanea, Museo dell’800

l’accortezza di occupare una zona rurale nei pressi di Tivoli, mentre Nerone pretese per la suadimora dorata il centro di Roma. Ma questa crisi nei rapporti tra Nerone e la plebe non avrebbeavuto effetti duraturi nella memoria vissuta della capitale: sembra che Otone, uno dei pretendential trono dopo la morte di Nerone, si affrettasse – per manifestare la sua ispirazione neroniana (cfr. più avanti in questo saggio) – a stanziare una somma ingente per il completamento dellaDomus Aurea (Svetonio, Otone, 7). Anche se dopo il suicidio di Nerone una parte della plebe –quella maggiormente legata alle casate senatorie – si diede a manifestazioni di gioia, i sentimentipreponderanti, con il passare del tempo, sarebbero stati di segno opposto.Diverso era ovviamente l’atteggiamento del senato. Colpiti nella loro autorità e nel loro potere, eturbati dalla sorte toccata ad alcuni di loro, era inevitabile che i senatori reagissero. Le manie diNerone auriga e cantante possono apparire oggi, in astratto, assolutamente innocue: vezzi di unsovrano eccentrico, debolezze di un temperamento stravagante. Ma tra i ceti alti di allora queicomportamenti potevano suscitare il panico. A Roma non esisteva una “corte” come quella dellemonarchie moderne, e il palazzo dei Cesari non era Versailles. Non esistevano quei rituali che oggipossono apparire bizzarri ma che, in Francia come altrove, avevano una precisa funzione politica:quando il sovrano si circonda di cortigiani e tutti mostrano di condividere il medesimo stile di vita,allora il mondo appare ordinato e sicuro. L’imperatore romano era invece un sovrano quasisolitario, e quando i suoi comportamenti si allontanavano troppo dalla norma, molti si sentivanominacciati (Veyne 2007, cap. 1). Come si è accennato, da alcuni decenni senatori e cavalieri sidivertivano a esibirsi come attori, cantanti, aurighi o addirittura gladiatori. Ma a distinguere laposizione di Nerone era il fatto che egli era l’imperatore, dedicava agli spettacoli tutto se stesso e sicomportava come un vero professionista. E allora sorgeva spontanea una domanda intrisad’inquietudine: se il linguaggio del principe si cronicizzava in modo così anomalo, come trovare leparole giuste senza smarrire la propria identità? E una simile novità non trasmetteva forse unsegnale di allarme a chi traeva lustro e potere dalla tradizione?Le spese eccessive necessarie alla politica di splendore perseguita da Nerone – edifici di lusso,elargizioni alla plebe, spettacoli – e quelle, necessarie, relative alla ricostruzione della capitaledevastata dall’incendio, si tradussero in maggiori imposte e quindi in un malcontento diffuso inambito provinciale (sull’Italia non gravava il tributo). Ma non furono le masse dell’impero adecretare la caduta di Nerone, bensì l’odio del senato e il crescente malcontento dei pretoriani,sconcertati anch’essi dal principe cantante e sensibili alle promesse di donativi da parte dei suoinemici. La situazione esplose quando – dopo il fallimento della congiura pisoniana e di altritentativi su cui siamo meno informati – l’ostilità che nella capitale si riversava su Nerone trovò una

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2110. Antonio Zanchi,Nerone presso ilcadavere della madre.Agrippina, Kassel,Gemäldegalerie AlteMeister

filosofo Dione Crisostomo poteva testimoniare, con la massima serenità, che il ritorno di Neroneera un sogno collettivo: “Ancora adesso tutti si augurano che egli sia sempre in vita. E la maggioranzacrede che effettivamente lo sia” (21, 9-10; per queste tradizioni, Champlin 2005, cap. 2).Il contrasto fra queste notizie e la tradizione sul “mostro” Nerone dovrebbe essere il punto centrale diqualsiasi dibattito sulla figura di questo principe, ma non sempre è stato così. È evidente che lenotizie favorevoli a Nerone hanno un valore speciale proprio perché esse aprono varchi in mezzo auna massiccia tradizione ostile. Tuttavia, le periodiche “riabilitazioni” di Nerone avanzate daglistudiosi moderni, e troppo spesso da dilettanti, regolarmente accomunate dallo strano vanto di essereuna novità assoluta, non hanno, in astratto, una maggiore dignità scientifica della tendenza opposta.Nell’un caso e nell’altro, l’accanimento esegetico trova prima o poi il suo muro, ma non è affattoscontato che la mancanza di una formula equivalga a una delusione e che un ragionamentoincompiuto coincida necessariamente con una frustrazione. Anche l’aporia può avere un suo fascinoe può dissolvere il malessere dell’interprete nell’autenticità di una vicenda essa stessa aporetica.

Quasi come un’“opera aperta”, Nerone trasmise messaggi e sentimenti diversi ai suoi destinatari.Ma c’era in lui anche un aspetto universale, che sedusse trasversalmente molti. Costruire edificiimmensi e splendidi, realizzare opere audaci, vincere e addomesticare la natura: anche tutto ciòrientrava nel modello eroico che Nerone cercò d’incarnare. Come sempre nel suo caso, questomodello eroico poteva essere interpretato in chiave negativa, come exemplum tirannico.Cimentarsi in imprese titaniche era infatti considerato da alcuni come la tipica manifestazione diun’indole dispotica e sacrilega: una medesima inclinazione – si diceva – portò Nerone atiranneggiare gli uomini e la natura. E come gli uomini anche la natura gli si era ribellata.Tacito formula questo giudizio con riferimento alla costruzione della Domus Aurea, affermandoche il carattere essenziale del progetto consisteva nella sfida con cui l’artificio pretendeva direalizzare “quanto la natura aveva negato” (Annali, 15, 42). Lo storico ricorda inoltre il progetto,intrapreso solo in minima parte, di scavare un canale artificiale lungo circa 250 chilometri,navigabile dal lago d’Averno, nei pressi di Cuma, fino alla foce del Tevere, “attraverso spiagge

20 8. Cammeo con Claudioe Messalina assimilati a Trittolemo e Cerere.Parigi, BibliothèqueNationale, Départementdes Monnaies,médailles et antiques,Cabinet des Médailles

9. Cammeo conMessalina/Agrippinagiovane e un giovaneprincipe (Nerone o Britannico). Parigi,Bibliothèque Nationale,Département desMonnaies, médailles et antiques, Cabinet des Médailles

sponda nell’ambizione di alcuni governatori di provincia (Griffin 1994, cap. 10). Il primo aprendere l’iniziativa fu il governatore della Gallia Lugdunense Giulio Vindice, la cui rivolta fusubito stroncata. Decisiva fu invece la ribellione del governatore della Spagna Tarraconense ServioSulpicio Galba, che dichiarò di agire avendo a cuore la salvezza del “genere umano” (salus generishumani). Abbandonato dai pretoriani e dichiarato dal senato “nemico pubblico”, Nerone si suicidò(cfr. il saggio di M. Ranieri Panetta in questo volume).

Per lo storico di oggi, il dato forse più sconcertante sulla figura di Nerone sono le contraddizioni degliautori antichi, spesso riscontrabili in ogni singola fonte. Gli scrittori pagani, e ancor più quellicristiani, concordano nel ritrarre Nerone come un despota folle e sanguinario: matricida, uxoricida,fratricida, assassino di rispettabili senatori e del maestro Seneca, fornicatore, persecutore di cristiani,incendiario. Il tutto aggravato da una sfrenata e ridicola passione per il canto e le corse dei carri.Tra le pieghe della documentazione emerge tuttavia anche un’altra verità. Ci viene detto che permolto tempo dopo la morte di Nerone la gente comune depose fiori estivi e primaverili sulla suatomba, un sarcofago di porfido sormontato da un altare di marmo bianco. Sappiamo anche che lagente comune esibiva nel Foro sue statue, e che le vestiva con abiti solenni, “come fosse ancoravivo”: quest’azione era un’espressione religiosa, poiché la vestizione delle immagini era partesignificativa del cerimoniale del culto imperiale (Champlin 2005, p. 38). Sappiamo anche che aRoma venivano esposti editti in cui Nerone annunciava il suo imminente ritorno e la sua vendetta(Svetonio, Nerone, 57; cfr. anche Tacito, Storie, 1, 4, sul dispiacere della “plebe sordida”).Tutto questo potrebbe essere relegato nell’ambito dell’ingenuità popolare, i cui percorsi, alloracome oggi, sarebbero imprevedibili ed estrosi. Ma a smentire una simile ipotesi interviene unanotizia ancora più straordinaria: gli immediati ed effimeri successori di Nerone, Otone e Vitellio,proclamarono infatti ufficialmente di voler seguire il suo esempio. Era un’epoca di guerre civili, eun’affermazione del genere aveva senso solo se mirava a ottenere il consenso delle masse. Svetonioprecisa che il popolino di Roma (infima plebs) invocò Otone come “Nerone”, per adularlo:un’ennesima conferma della popolarità del principe appena scomparso presso le masse dell’Urbe(Svetonio, Otone, 7). Quanto a Vitellio, i suoi primi atti dopo l’ingresso nella capitale furono unpubblico sacrificio ai Mani di Nerone e l’organizzazione di una recita di versi del defunto principe(Svetonio, Vitellio, 11). Furono tentativi penosi, perché il modello era inimitabile, e infattiqualcuno appioppò ai due incauti imitatori lo spietato epiteto di “Neronetti”. Ma il fenomeno èquanto mai indicativo.Che Nerone fosse davvero morto, era una realtà cui molti non vollero rassegnarsi. In Oriente, treNeroni redivivi si presentarono alla ribalta nell’arco di un ventennio, suscitando l’entusiasmo dellefolle e raccogliendo schiere di seguaci. Finirono tutti sul patibolo (fonti e discussione in Tuplin1989; Champlin 2005, cap. 2). Ma ancora mezzo secolo dopo la morte del sovrano l’oratore e

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2312a-b. Contorniatocon Nerone. Parigi,Bibliothèque Nationale,Département desMonnaies, médailles et antiques, Cabinetdes Médailles

13. Ritratto di Nerone,bronzo, Parigi, Louvre

22 11. Statuetta di Neroneloricato, bronzo.Londra, The BritishMuseum

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Può capitare di leggere pregevoli biografie di Nerone in cui questi aspetti non siano menzionati olo siano in modo cursorio, quasi si trattasse di bizzarrie marginali in un’esistenza dominata da benpiù rilevanti anomalie. Ancor più sorprendente è la totale rimozione di quello che può essereconsiderato, senza timore di esagerare, uno dei documenti più importanti per intendere il rapportotra il modello eroico incarnato da Nerone e la sua fama positiva, coeva o di poco successiva alla suamorte. Nella sua descrizione dell’Argolide, lo scrittore Pausania, che pubblicò la sua Periegesi dellaGrecia tra il 160 e il 177 d.C., si sofferma a descrivere il piccolo lago Alcionio, ancora oggi visibilepresso il villaggio di Mili (2, 37, 5-6). Questo specchio d’acqua ha la caratteristica di essere largoappena sessanta metri, ma di avere una grande profondità: una circostanza ideale per farne ilricettacolo di notizie terrifiche: “Ho sentito raccontare – scrive Pausania – anche questa storia:l’acqua del lago, per quanto può sembrare a vederla, è calma e tranquilla; tuttavia, purpresentando questo aspetto, riesce a trascinare giù chiunque osi attraversarla a nuoto, e lo portavia, risucchiandolo nelle sue profondità”. Si diceva che il suo fondo mettesse in comunicazione ilmondo umano con gli inferi, e infatti di qui Dioniso sarebbe disceso nell’Ade per riportare sullaterra Semele. Riguardo all’abisso che rendeva orrido l’Alcionio, Pausania afferma: “Non c’è limitealla profondità del lago Alcionio, né, a mia conoscenza, alcun uomo è potuto arrivare, conqualunque mezzo, al suo fondo: infatti nemmeno Nerone, pur avendo fatto fabbricare e legare fraloro funi di diversi stadi di lunghezza, e avendo loro attaccato anche del piombo, e quant’altro erautile alla prova, riuscì a trovare un limite alla sua profondità” (trad. di D. Musti).All’interno dell’ecumene Nerone sfidava le costrizioni dei paesaggi per i suoi sogni estetici, peresaltare l’ingegneria civile o per semplice volontà di sapere (conquistare la montagna più grande,sondare le acque che conducono all’Ade…). Ma l’ecumene era per lui uno spazio asfittico, chebisognava aprire al respiro dell’avventura e della conoscenza. Per i contemporanei e per i posteriNerone era al tempo stesso la misura del limite umano e l’eroe dell’impossibile.

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desolate e monti impervi” (Annali, 15, 42, 2; Plinio, Storia Naturale, 14, 61; Svetonio, Nerone, 31).L’opera sarebbe servita a evitare i frequenti naufragi che lungo quel tratto di mare colpivano iconvogli che approvvigionavano la capitale, ma rimase incompiuta.Un’altra impresa sovrumana tentata da Nerone fu il taglio dell’istmo di Corinto, già concepito daltiranno Periandro, dal re di Macedonia Demetrio Poliorcete, da Giulio Cesare e da Caligola. Era facilecostatare che Demetrio aveva finito i suoi giorni in prigionia e che due degli altri aspiranti scavatoridell’istmo erano morti assassinati. Non meno facile era dedurne una limpida morale, attribuita daFilostrato (Vite dei sofisti, p. 150 Wright) a un politico ben più cauto, Erode Attico: “Tagliare l’istmodi Corinto è un’impresa degna degli immortali, considerata impossibile per le capacità umane. E iocredo che scavare l’Istmo spetti a Poseidone più che agli uomini” (Traina 1987).Questi luoghi comuni negativi non erano tali da poter dissuadere Nerone. Si raccontava che nonappena il principe diede il segnale di iniziare i lavori, dalla terra uscì sangue, si udirono lamenti eululati, apparvero fantasmi. Il principe afferrò allora una pala e obbligò i presenti a scavareinsieme con lui. L’opera avrebbe poi assorbito enormi risorse economiche e umane, ma come tantealtre si sarebbe interrotta con la morte del suo ideatore.Il titanico rapporto di Nerone nei confronti della natura non si manifestava soltanto nel suodesiderio di creare boschi e laghi nel cuore della città, di aprire le viscere della terra scavandocanali e spaccando montagne. Esso aveva anche una proiezione ecumenica, uno sguardo proiettatoverso i limiti del mondo, un’ansia di raggiungere spazi ignoti.Nerone pensò di inviare una spedizione in Etiopia, una terra mitica con la quale gli antichiintendevano l’immensa area a sud dell’Egitto, grosso modo corrispondente ai moderni stati del Sudane dell’Etiopia. In questi progetti neroniani è necessario distinguere la finalità strettamente militare daaltri due aspetti, certo prevalenti e a loro volta correlati: il modello del viaggio eroico e il desiderio diconoscenza. Una squadra di pretoriani mandata dal principe in ricognizione gli recò una preziosamappa dell’Etiopia insieme con informazioni naturalistiche che un autore ostile come Plinio ritennegiustamente attendibili (Storia Naturale, 6, 181; 12, 19). Non c’è alcun motivo di non credere a Senecaquando afferma che Nerone concepì la spedizione etiopica per scoprire le sorgenti del Nilo, mosso dalsuo grandissimo amore per la verità (veritas in primis amantissimus: Questioni naturali, 6, 8, 3).Ma ancora più audace fu la sua idea di organizzare una spedizione nel Caucaso. La cultura greco-romana individuò nel Caucaso una sorta di gigantesco cippo di confine, una frontiera che segnavail passaggio dal mondo selvaggio alla civiltà. La liminarità del Caucaso si associava alla suacentralità ideologica: infatti, gli spazi terrifici e suggestivi di quella montagna ospitarono sempre,non solo in antico, un ricchissimo repertorio di miti (Giardina 1996). Qui si consumava l’eternatortura di Prometeo, incatenato da Zeus a una roccia altissima ed esposta ai venti gelidi, dilaniatoda un’aquila che gli lacerava il petto e divorava il fegato. Qui era situata una delle regioni dove sidiceva vivessero le Amazzoni, le guerriere dal seno amputato per meglio destreggiarsi con l’arco,che vivevano in un universo privo di uomini o con uomini asserviti. Nei suoi pressi si trovava laColchide, terra d’incantesimi, di Medea, di Giasone e del vello d’oro. Verso la fine del suo regno,Nerone cominciò a organizzare una campagna che aveva come obiettivo le Porte Caspie – ovvero ilpasso di Darial, controllato dagli Iberi caucasici – e gli Albani (Svetonio, Nerone, 19; Tacito, Storie,1, 6, 2; Plinio, Storia Naturale, 6, 40; Cassio Dione, 63, 8, 1). L’iniziativa può essere intesa comeun prolungamento della politica orientale di Nerone, ma in essa erano fortissime le ragioni dicarattere ideale: il progetto era infatti animato dal richiamo alla figura di Alessandro – il principedenominò “falange di Alessandro Magno” una nuova legione del corpo di spedizione – e da tutte leemozioni e le fantasie che poteva suscitare un’avventura ai limiti del mondo. Nerone, tra l’altro,fece reclutare per l’occasione legionari di grande statura, adatti evidentemente a fronteggiarenemici che, per le montagne stesse in cui abitavano, erano ritenuti di taglia eccezionale.È molto probabile che questo miraggio caucasico di Nerone debba essere messo in rapporto alladisperata idea con la quale egli pensò, negli ultimi mesi di vita, di fronteggiare la rivolta esplosa inGallia. Il principe immaginò una messa in scena durante la quale egli avrebbe unito la recitazionepatetica del sovrano inerme e piangente alle più sontuose scenografie. Per rappresentare la suavocazione di principe che spingeva il suo sguardo e i suoi soldati verso terre remote, egli pensò difarsi accompagnare da una squadra di guerriere dai capelli corti, armate di scuri e di pelte come leAmazzoni (Svetonio, Nerone, 44; si diceva inoltre che Nerone non si separasse mai da un bronzodi Corinto rappresentante un’Amazzone: Plinio, Storia Naturale, 34, 48 e 82).

Dedicato al mio amico Carlo Zaccagnini, senza dimenticareLa crudertà de Nerone del nostro Belli: “Nerone era unNerone, anzi un Cajostro; / e pe l’appunto se chiamò

Nerone / pell’anima più nera der carbone, / der zangue dele seppie, e de l’inchiostro [...]” (G. Vigolo, I sonetti diGiuseppe Gioacchino Belli, Milano 1952, n. 1595).

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271. Ritratto di Nerone.Firenze, Galleria degli Uffizi

26 Il 9 giugno del 68 d.C., ottocentoventuno anni dopo la fondazione di Roma, l’imperatore Nerone sitolse la vita con l’aiuto di un liberto. Un epilogo forse inevitabile ma che, immediatamente,provocò dubbi e disorientamenti; nel corso dell’anno e nei mesi seguenti, tali lotte sanguinose perla successione da far sprofondare di nuovo Roma nell’incubo delle guerre civili.La sua morte non segna solo il termine della dinastia giulio-claudia, ma anche l’inizio di unaprassi che renderà le legioni protagoniste di tante elezioni. Dopo quasi un secolo di passaggio delpotere attraverso parenti adottati, eccetto Claudio, saranno gli eserciti ad acclamare i loro generaliprima della ratifica da parte del senato, addirittura fuori Roma: l’arcanum dell’impero indicato daTacito nelle Storie (1, 4).La ricostruzione delle ultime ore di Nerone, e degli avvenimenti che le hanno precedute, sono notesoprattutto da due fonti letterarie: nella Vita dei Dodici Cesari di Svetonio Tranquillo (70-140 ca.;Nerone è il libro sesto), e la Storia Romana di Cassio Dione (164 ca. - dopo il 229), scritta in grecoe conservata, per il periodo neroniano, in epitomi di età bizantina. Diversi passi nelle opere diquesti autori risultano simili, se non uguali; ma non per questo Svetonio che ha scritto prima è lafonte principale di Cassio Dione, così come non ci sono molte tracce nelle sue biografie deiprecedenti Annali di Cornelio Tacito. Piuttosto è da ritenere che entrambi abbiano operato sceltecomuni, basandosi sulle documentazioni ritenute più autorevoli o condivisibili, fra quelle adisposizione, come la perduta Historia a fine Aufidii Bassi di Plinio il Vecchio. Molte notizieriferite dai due autori rispecchiano infatti i giudizi di Plinio nell’altra sua opera conservata perintero, la Storia Naturale, dove lo scrittore mostra verso questo imperatore un’ostilità priva diriflessione critica, cogliendo ogni pretesto per parlarne in modo sprezzante e definendolo, già inoccasione della sua nascita, “nemico del genere umano” (Storia Naturale, 2, 92).Se nel racconto della vita privata e pubblica di Nerone si colgono episodi frutti di dicerie, tesipreconcette, giudizi morali consolidati, quasi sempre a lui contrari, la descrizione della morte –nelle sequenze principali – non sembra allontanarsi molto dalla realtà: contiene troppi particolariche possono derivare soltanto dal resoconto tramandato di più testimoni oculari. E tuttavia,l’enfasi data ad alcune azioni, il rilievo attribuito a descrizioni poco credibili, ai prodigi, allecoincidenze straordinarie, alla fine circoscrivono l’evento tragico quasi nei confini del grottesco,lasciando peraltro sospesi alcuni interrogativi.Manca la parte degli Annali di Tacito relativa agli ultimi anni di Nerone; ma probabilmente, nelmerito, non sarebbe stata molto differente. “La morte uguale per tutti”, sosteneva lo storico, ”sidifferenzia soltanto per il ricordo della gloria o per l’oblio dei posteri; se la fine è identica perl’innocente e il colpevole, il morire con dignità distingue gli uomini più fieri” (Storie, 1, 21), e

M A R I S A R A N I E R I PA N E T TAF I N E D I U N A D I N A S T I A :L A M O RT E D I N E R O N E

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292. La via di fuga presain considerazione daNerone nelle ultime ore della sua vita. Fu poi persuaso a rifugiarsi nella villettadi Faone

3. La falsa tomba diNerone sulla via Cassiaa Roma

Vindice, che aveva fatto coniare monete con legende come: “Restaurazione di Roma” e propugnavail ritorno alla tradizione augustea, contava sulle tribù di Sequani, Arverni, Edui e sulla colonia diVienne; ma le sue armate non erano in grado di contrastare per numero e professionalità le legionidella Germania superiore, responsabili per la sicurezza in Gallia. Appena queste si mossero controdi lui insieme con le truppe di stanza nella Germania inferiore, sotto il comando di Verginio Rufo,non ci fu niente da fare. La vittoria riportata a Vesontio (Besançon) fu così schiacciante da indurrei soldati a sostenere Verginio come imperator (Plutarco, Galba, 6). Questi rifiutò e, mentre Galbasi nascondeva nella città iberica di Clunia, Vindice scelse il suicidio.A questo punto, si doveva assestare il colpo definitivo alle legioni spagnole; ma Nerone, che nonaveva mai fatto guerre di conquista, preferendo celebrare trionfi atletici e musicali, mancò la suaultima, grande opportunità. Inviò un altro comandante nel nord Italia, Rubrio Gallo, e continuòad aspettare il corso degli eventi. Mentre però Galba era già stato acclamato imperatoredall’esercito, Clodio Macro, legato in Africa, raccoglieva truppe e si proclamava “campione dilibertà”, mirando a provocare una rivolta a Roma col boicottaggio delle spedizioni di frumento. La notizia delle proteste dei romani all’arrivo della nave arrivata dall’Egitto che trasportava sabbiaper i giochi anziché grano (Svetonio, 6, 45) forse è in relazione alle manovre di Macro.È un accavallarsi caotico di notizie e di eventi che gli antichi scrittori raccontano in modocontroverso. C’era stato comunque tutto il tempo, tra aprile e maggio, di prendere iniziative, discambiare proposte e di prepararsi, nella capitale, al cambio del potere.Nei primi giorni di giugno, la situazione apparve ingovernabile: non solo Galba era determinato asalire sul trono, ma aveva disertato quel Verginio Rufo, fino allora un punto di forza della dinastia,e si dava per certa la defezione di Turpiliano. Queste informazioni arrivarono a Nerone mentrestava pranzando; per la rabbia, scrive Svetonio, rovesciò a terra la tavola imbandita e ruppe duecoppe (skyphoi) dette “omeriche” perché vi erano rappresentate delle scene tratte dai poemi diOmero (Svetonio, 6, 47). Plinio, probabile fonte della notizia, aggiunge che era una vendetta per icontemporanei: nessuno, dopo di lui, ci avrebbe più potuto bere (Storia Naturale, 37, 29).Aldilà delle circostanze reali, le notizie di sollevamenti e passaggi di campo venivano propagate adarte (cfr. Cizek 1972) come leva psicologica e convinsero l’imperatore, erroneamente, che l’esercitoin massa l’aveva abbandonato. A sostenerlo nel profondo sconforto, a parte la nutrice, non vi ètraccia dell’ultima moglie Statilia Messalina. Sposata più volte e vedova del console Vestino Attico,vittima di Nerone (Svetonio, 6, 35; Tacito, Annali, 14, 48), non è nominata né in occasione delviaggio in Grecia, dove sicuramente accompagnò l’imperatore (ILS 8475), né accanto a lui inquesti frangenti; evidentemente, la separazione fra i due coniugi era già avvenuta o lei si era

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l’ultimo discendente di Enea, successore di Augusto, nipote del grande generale Germanico,secondo le versioni tramandate aveva chiuso i conti della sua dinastia senza vigore né dignità.Le sollevazioni militari nelle province che provocarono la fine prematura di Nerone ebbero iniziotre mesi prima, quando l’imperatore si trovava a Napoli e si intratteneva con gare atletiche erappresentazioni teatrali. Lì, tra il 19 e il 23 marzo, gli arrivò il primo segnale: era insorto GiulioVindice, propretore della Gallia Lugdunense (e forse della Narbonense).Nerone, uscito indenne da due congiure, rinfrancato dal trionfo per gli allori conseguiti in Grecianei Giochi olimpici, istmici, pitici e delfici, preferì non curarsene, limitandosi a inviare una letteraal senato per indurlo a punire i rivoltosi. Vindice non smetteva però di indirizzargli epitetiingiuriosi, chiamandolo anche “Enobarbo”, dal nome della sua gens originaria: un particolare chele fonti riferiscono come una provocazione, accolta da Nerone con fastidio assieme alla grave offesadi essere un cattivo citaredo, ma che in realtà indicava uno scopo che non poteva sfuggirgli. Gliveniva infatti ribadita la sua estraneità alla dinastia, come se detenesse un titolo illegittimo, dalmomento che aveva scisso i legami con le famiglie di Augusto e di Claudio dopo le uccisioni dellamadre e della prima moglie Ottavia. Tornava lo spettro delle candidature in pectore dei regniprecedenti che tante morti aveva procurato anche solo per un semplice sospetto.Il vuoto legislativo di norme per la successione, a cominciare da Augusto, aveva favorito leaspirazioni di uomini di alto rango imparentati con i principi giulio-claudii e un lungo bagno disangue aveva interessato gli aristocratici accusati di mire personali o perché coinvolti in congiure(cfr. Griffin 1984). Ne sono una riprova le nomine per ruoli di responsabilità, negli ultimi anni diNerone, di persone provenienti da famiglie modeste: Licinio Muciano a governatore della Siria;Tito Flavio Vespasiano al comando delle truppe inviate a debellare la rivolta giudaica; VerginioRufo come legato della Germania superiore.L’imperatore pose sulla testa di Vindice l’esorbitante taglia di dieci milioni di sesterzi e,ufficialmente, continuò a mostrare indifferenza anche una volta rientrato a Roma. Sicuro di averela Fortuna dalla sua parte, tra intenzioni e minacce si dedicava ai passatempi preferiti, convocandopersino alte personalità per illustrare i meccanismi di un nuovo organo idraulico (Svetonio, 6, 41).D’altronde, poteva contare sulla lealtà dei soldati stanziati a Lugdunum, sede di importante zeccaimperiale e a lui devota per essere stata aiutata dopo un incendio; le legioni germaniche gli eranofedeli; quella britannica, la XIV Gemina, altrettanto; in Oriente era tutto tranquillo.Ma durò poco, la situazione precipitava. Arrivò la notizia che la ribellione si era estesa in terraspagnola, dove il governatore della Tarraconense, Servio Sulpicio Galba, accogliendo l’invito diVindice a capeggiare l’insurrezione, pur evitando il titolo di Caesar, si era proclamato “legato delsenato e del popolo romano”. Appoggiato da Salvio Otone, governatore della Lusitania e delquestore della Betica, Alieno Cecina, aveva cominciato ad arruolare uomini e a consultarsi con unsenato locale formato da eminenti cittadini.Quella che era cominciata come una rivolta contro l’oppressione fiscale subita dalle provincegalliche, stava diventando una rivolta contro il potere imperiale. Nel venirne a conoscenza, Neroneebbe un collasso e perse la voce; appena si riprese, una vecchia nutrice cercò di consolarlo, forse lapiissima Claudia Egloghe (CIL VI 34916), ma lui ribadì sconsolato che la sua sventura era senzaprecedenti (Svetonio, 6, 42).Non poteva più temporeggiare: l’anziano governatore della Tarraconense, amato dai soldati,proveniva da una famiglia di alto lignaggio. E finalmente reagì. Fece dichiarare Galba nemicopubblico, confiscandone i beni; decise una spedizione in Gallia; destituì i due consoli in caricaassumendo da solo la più alta magistratura repubblicana; richiamò i legionari inviati in unaspedizione alle Porte del Caspio, quelli stanziati in Illiria, e arruolò marinai della flotta di Miseno (i classiarii, in seguito trucidati da Galba) per la formazione di una nuova legione. Il comandodelle truppe, riunite in Italia settentrionale, fu affidato a Petronio Turpiliano, che aveva ricevuto gliornamenta triumphalia per aver contribuito alla scoperta della congiura pisoniana.Svetonio, a differenza di Cassio Dione, si sofferma anche sugli atteggiamenti teatrali dell’imperatore,sottolineando che si proponeva di indurre con le lacrime i rivoltosi a pentirsi e che per festeggiare lavittoria avrebbe composto un poema, mentre sceglieva i carri per il trasporto delle attrezzature scenichee faceva abbigliare le sue concubine come Amazzoni (Svetonio, 6, 44). Sicuramente, nella grandechiamata alle armi che coinvolgeva proletari e schiavi, furono imposte tasse straordinarie, creando cosìmalcontenti diffusi, come nel caso della riscossione forzata degli affitti annuali dovuti al fisco imperiale.

ROMA

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v i a A p p i a

v i a N o m en t an a

CASADI FAONE

CASTROPRETORIO

PALATINODOMUS AUREA

HORTISERVILIANI

Page 16: bottello da IGOR...del giovane principe, ma non è possibile ricondurre a lui alcun concreto progetto di governo, alcuna idea di riforma, alcuna proposta indirizzata al senato (Griffin

314. Ritratto di Galba,XVI secolo, marmo, cm 39 x 31. SanPietroburgo, Reggia di Pavlovsk

trova: hanno portato via tutto, finanche le coperte. Angosciato e avvilito chiede allora di essereucciso, ma il mirmillone Spiculo e altri non meglio identificati rifiutano di farlo.Il programma a questo punto cambia. Consigliato opportunamente, Nerone si convince adaccettare l’offerta del liberto Faone di nascondersi in una sua casupola appena fuori Roma, alquarto miglio tra la Salaria e la Nomentana. Sembra tutto concertato a puntino, con NinfidioSabino che muove i fili: la risoluzione di trasferire l’imperatore all’altro capo della città, incontrasto con il progetto egiziano da lui ribadito ufficialmente, appare come uno stratagemma perscongiurare reazioni incontrollate della plebe e fughe di notizie fra i militari.L’imperatore monta dunque a cavallo e si avvia con l’eunuco Sporo, l’a libellis (segretario addettoalle petizioni imperiali) Epafrodito, Neofito (Epitome de Caesaribus V, in Champlin 2003) e lostesso a rationibus (segretario alle finanze) Faone, così come si trova: scalzo, vestito di unasemplice tunica, sulle spalle un mantello sbiadito, con il capo e il viso coperti da un fazzoletto.Vicino al Castro si verifica una forte scossa di terremoto mentre un fulmine finisce davanti alpiccolo drappello: circostanze tali, se fossero vere, da far imbizzarrire i cavalli, far scendere icavalieri, indurre la gente a uscire per strada; ma non accade niente del genere, anzi, dagliaccampamenti urbani rimbalzano imprecazioni per l’imperatore e auguri per Galba. Si tratta di untopos ricorrente nella storiografia antica, la corrispondenza cioè di vicende eccezionali a fenomeninaturali altrettanto prodigiosi, come segnali divini. Nella storia di Nerone sono ricorrenti: fulmini,statue che si rompono all’improvviso, acque di fiumi che scorrono all’incontrario (Plinio, StoriaNaturale, 2, 32), addirittura – nell’anno dell’incendio – nascita di feti bicipiti (Tacito, Annali, 47, 2)e, alla fine del regno, l’apertura improvvisa delle porte del Mausoleo di Augusto (Svetonio, 6, 47) euna pioggia di sangue ad Alba (Cassio Dione, 43, 26).Ninfidio Sabino ha già riferito ai pretoriani che l’imperatore ha lasciato Roma e solo dopo averlosaputo essi promettono fedeltà a Galba. Un bluff che Tacito, per quanto antineroniano, deveammettere (Storie, 1, 5, 89) e che fa intravedere una realtà diversa da quella che le principali fontiletterarie ci hanno tramandato: eccetto i complici del prefetto, i pretoriani non avrebbero tradito.I senatori sono intervenuti con la condanna dell’imperatore solo dopo essere stati assicurati delgiuramento militare.Il drappello continua ad avanzare e s’imbatte in alcuni passanti che chiedono se ci sono novitàsull’imperatore e in altri che commentano: “Stanno inseguendo Nerone”. In mezzo alla strada è stataabbandonata una carogna che emana un lezzo irrespirabile; il cavallo dell’imperatore si impenna elui, nei movimenti per tenerlo a freno, fa cadere la copertura del volto: un pretoriano in congedo,riconoscendolo, lo saluta. Le domande, i commenti e i saluti suggeriscono che, evidentemente, in

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eclissata alle prime avvisaglie delle rivolte militari. Nerone, dal canto suo, mostrava solo unattaccamento morboso alla memoria di Poppea, se aveva ‘sposato’ l’eunuco Sporo (Svetonio, 6, 28;Cassio Dione, 42, 13) che tanto le somigliava e se, appena tornato a Roma, il primo pensiero erastato quello di recarsi al tempio eretto in onore di Sabina Venus, la moglie divinizzata.Privo di un appoggio familiare, assillato dalle notizie incalzanti, pensò – d’istinto – a una soluzioneestrema. Chiamò Locusta, esperta di sostanze letali e già sperimentata per la morte di Claudio(Tacito, Annali, 13, 15), si fece preparare un veleno e lo ripose in una pisside d’oro.Questa parte della giornata sembra svolgersi nella sede abituale sul Palatino, perché Svetoniospecifica che solo in un secondo momento Nerone si trasferì negli Horti Serviliani (Nibby 1833;Grimal 1984), uno dei tanti praedia urbani di proprietà imperiale. L’amena dimora, ricca di opered’arte greca, come l’Apollo dello scultore Calamide e i Pugili di Dercilide (Plinio, Storia Naturale,36, 36-37), era frequentata dall’imperatore: proprio lì, racconta Tacito, era venuto a conoscenzadella congiura dei Pisoni attraverso la delazione del liberto Milico (Annali, 15, 55).Stavolta però la scelta del luogo non era casuale: fuori dal caotico centro cittadino e vicino alla viache conduceva al mare, era strategica per il programma che Nerone elaborò subito dopo aver lettol’ultimo dispaccio. Seguendo il racconto di Svetonio, l’unico a tramandare questi dettagli, la primaidea di Nerone fu infatti quella di recarsi in Egitto e inviò liberti fidissimi – presumibilmenteanche guardie del corpo germaniche, sguarnendo così la difesa personale – per preparare a Ostiauna flotta, chiedendo a titubanti tribuni e centurioni di seguirlo nella fuga.Sotto pressione com’era, l’imperatore prese in considerazione altre possibilità: rifugiarsi dai Parti oda Galba, oppure recarsi ai Rostri per implorare il perdono dei sudditi in abito da lutto (undiscorso in tal senso lo aveva già scritto e verrà trovato) e, nel caso di un rifiuto, farsi concedere laprefettura dell’Egitto. Aggiunge Cassio Dione che avrebbe commentato a proposito: “Se anchefossimo deposti, ci manterrebbe la nostra piccola arte” (61, 2), dopo aver minacciato di uccidere iGalli residenti a Roma, bruciare la stessa Urbe e avvelenare i senatori in massa.Le sfide a parole contro la Curia riflettevano un rapporto compromesso da tempo, almeno a partiredalla bocciatura della proposta neroniana di introdurre le tasse dirette, volte a colpire proprio i grandipatrimoni dei patres conscripti. Durante il viaggio Grecia, quando Nerone prese gli auspici per il tagliodell’istmo di Corinto, non citò il senato nel formulare gli auguri per l’impresa (Svetonio, 6, 37). Delresto, l’esenzione dai tributi appena concessa all’Acaia, di pertinenza senatoria, costituiva un danno perla Curia, che non fu menzionata nemmeno nel discorso che annunciava la libertà della provincia.Ora, a Roma, Nerone si ritrovava sempre più isolato. Tra le persone autorevoli, il primo a mancareall’appello fu Ofonio Tigellino, prefetto del pretorio. Il braccio armato delle situazioni più scabrose,il segugio abilissimo nel fiutare i sentori di tutte le congiure, sicuramente informato sui fatti, nonaveva avvertito l’imperatore di quanto si stava ordendo contro di lui e sparì dalla scena.Da come si sono svolti gli eventi, si deve infatti presumere che emissari di Galba avessero sondatoda tempo gli umori del senato e trattato con pretoriani tramite i due prefetti o uno solo di essi,stabilendo ingenti donativi, che poi Galba rifiuterà di pagare. Tigellino sapeva ma non agì diconseguenza, aspettando nell’ombra che la situazione si definisse; fu il suo collega Ninfidio Sabinoa muoversi e a intervenire prima di tutto con l’imperatore, aumentandone insicurezze e paurecaratteriali e convincendolo che era meglio lasciare il Palatino.Otto giugno, ultimo giorno di Nerone. Negli Horti egli era in preda a mille timori; ma, traesitazioni e progetti, preferì rimandare ogni decisione all’indomani. In piena notte si svegliò, forseaveva sentito dei rumori o – paradossalmente – ne aveva avvertito l’assenza; ai suoi richiami, arrivòqualcuno e gli venne riferito che le guardie armate avevano abbandonato la villa. Andò acontrollare personalmente e si trovò in un palazzo sguarnito di vigilanza.Cassio Dione, a differenza di Svetonio, più che soffermarsi sulle singole azioni, racconta in modostringato gli avvenimenti essenziali: i senatori, mentre l’imperatore si perdeva in programmicontradditori, revocarono le guardie, andarono al Castro pretorio, dichiararono Nerone hostispublicus e proclamarono imperatore Galba.Svetonio riferisce le stesse cose ma ci fa seguire le vicende con maggiore pathos, seguendo le azionidi Nerone durante quella notte interminabile e nel mattino seguente.Sono ore tremende. L’uomo più potente dell’impero, circondato quotidianamente da centinaia diservitori, cortigiani, militari, bussa a parecchi amici e trova “chiuse tutte le porte”; ritorna sui suoipassi, rientra nella camera dove ha dormito, cerca con gli occhi la cassetta del veleno e non la

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335. Gli affreschi con pittura di giardino daltriclinio (parete cortameridionale) della Villa di Livia ad gallinas albasa Prima Porta.Roma,Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimoalle Terme

con gli occhi spalancati, fuori dalle orbite, così fissi da provocare orrore in chi è lì intorno.Considerando come sono state riferite queste vicende, con un imperatore terrorizzato che evitavain tutti i modi di uccidersi, che tremava nel sentire l’arrivo dei soldati a cavallo, rimane ancora ildubbio se la sua scomparsa sia stato l’esito di un suicidio ‘guidato’ o piuttosto di un complottoculminato nell’omicidio (cfr. Roux 1962; Ranieri Panetta 1999).Il funerale comunque si svolse con modalità inaspettate per un hostis publicus.Nerone si era fatto promettere di bruciare intero il suo corpo e così fu concesso da Icelo, potenteliberto di Galba che era stato incarcerato alla notizia dell’insurrezione del padrone; nonimmaginava certo di poter ricevere un rituale e una sistemazione degni della porpora imperiale.Avevano organizzato tutto, al costo di duecentomila sesterzi, le nutrici Egloghe e Alessandrainsieme con la liberta Atte, amante dei tempi giovanili e sempre legata a Nerone.Prima della cremazione il corpo fu avvolto in una coperta bianca intessuta di fili d’oro, poi i restivennero deposti in un sarcofago di porfido, sormontato da un altare in pietra lunense e circondatoda una balaustra in pietra di Taso.Svetonio, dopo aver descritto la cerimonia funebre, nell’incipit della Vita di Galba riporta un prodigioche noi accogliamo come fortuita coincidenza, se non come leggenda, ma che rimase a lungo nellamemoria popolare: quando la progenie dei Cesari si estinse, nella residenza sulla via Flaminia di LiviaDrusilla, ultima moglie di Augusto, il laureto si disseccò fino alle radici e morirono tutte le galline.A Roma erano noti sia l’origine dell’appellativo dell’amena dimora, ad gallinas albas, sia laconsuetudine legata ai trionfi di ogni imperatore. Tutto era iniziato quando, in questa villa, un’aquilain volo aveva lasciato cadere nel grembo di Livia una gallina bianca, appena catturata, che stringevanel becco un ramo di lauro. La novella sposa di Augusto, ritenendolo un presagio fausto, iniziò adallevare quei volatili e piantò il ramoscello che presto divenne un bosco fitto: qui ogni imperatoreraccoglieva l’alloro per le corone delle sue vittorie piantando un nuovo albero, che poi perdeva vigorealla sua scomparsa. La fine progressiva di animali e piante della villa si era consumata durantel’ultimo anno del regno di Nerone, ma questo, come altri presagi, non fu preso in considerazione.Mancò, all’ultimo dei giulio-claudii, la sepoltura nella tomba monumentale dove riposavano Augusto,Tiberio, Claudio, zii e cugini; ma non il compianto di tanta gente. Alla notizia della morte, molti, insegno di gioia, indossarono il pileo, il berretto degli schiavi liberati; ma, ammette Svetonio, la suatomba nel mausoleo dei Domizi, sul colle dei Giardini in Campo Marzio, per lungo tempo venneornata di fiori, mentre alcuni suoi editti e statue vestite di toga furono esposti nel Foro. Persino il redei Parti Vologese chiederà al senato con insistenza, attraverso i suoi ambasciatori, che ne fossevenerata la memoria. Ritornerà il suo nome nei suoi successori, altri citaredi con gli occhi azzurri e le

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città circola qualche voce, ma ancora la notizia del colpo di stato non è di dominio pubblico.Nerone, a questo punto, deve morire al più presto.I fuggitivi arrivano finalmente nei pressi della casa rurale e imboccano una scorciatoia. Lasciano icavalli e, facendosi strada con difficoltà tra canneti e cespugli di rovi, raggiungono il muroposteriore dell’abitazione. In attesa di preparare un passaggio segreto, Faone invita l’imperatore anascondersi in una cava di sabbia, ma lui rifiuta – “Non voglio finire sottoterra da vivo!” – epreferisce acquattarsi nella vegetazione. Per placare la sete, raccoglie nel cavo della mano l’acqua diuna pozzanghera, ed esclama: “Questo è il decotto di Nerone!”, alludendo al sistema da luiinventato per raffreddare l’acqua nella neve in un recipiente di vetro.L’inquieta agitazione durante l’attesa, con l’orecchio attento a captare rumori e movimenti sospetti,sono bene espressi da Cassio Dione: “Chiunque passasse temeva fosse arrivato per lui, tremava dipaura ad ogni suono nella preoccupazione che lo stessero cercando, e se un cane si metteva adabbaiare o un uccello a cinguettare, oppure se dei rami secchi o degli sterpi venivano mossi dalvento, era terribilmente in ansia” (Cassio Dione, 43, 28).Finalmente il passaggio è pronto. Nerone, carponi, avanza nella sterpaglia lacerandosi il mantello,riempiendosi presumibilmente di graffi, entra in una squallida stanzetta attraverso un cunicoloricavato nel muro e si sdraia su un modesto materasso coperto da un mantello.Per rinfrancarsi, beve solo un po’ di acqua tiepida; ma i suoi compagni di fuga lo incalzano a reagire ea darsi una morte onorevole. Altra stranezza: i liberti affezionati si impegnano per molte ore anasconderlo, come a volerlo proteggere in attesa di un mutamento di situazione, e, appenal’imperatore si è sistemato alla meglio, lo incitano a uccidersi; avrebbero dovuto farlo sul Palatino onegli Horti, scenari più onorevoli. Al corrente di cosa sta avvenendo nei palazzi del potere, sembra cheabbiano favorito una messinscena perché tutto si svolga in modo certo e sotto controllo, lontano daglisguardi: la proprietà al quarto miglio non ha guardie che possano intervenire in alcun modo.Nerone, pur convinto che per lui non c’è scampo, cerca di prendere tempo. Ordina di scavare unafossa della sua misura, di cercare dei pezzi di marmo (frusta) da mettere intorno, di portare fuocoe legna: il suo cadavere non sarà esposto ai sudditi prima della cremazione come vuole il costumeimperiale, tantomeno imbalsamato con resine costose come quello di Poppea, bensì bruciato esepolto lo stesso giorno come un poveraccio. È a questo punto che Svetonio gli mette in bocca leparole: “Qualis artifex pereo”.A precipitare gli eventi arriva un corriere che consegna a Faone alcune missive. Cassio Dione (43,29) racconta che “cercarono Nerone in tutte le direzioni finché non lo trovarono”, ma non spiegaperché le lettere erano indirizzate al liberto proprietario del podere, come precisa Svetonio. Sisapeva dove era nascosto l’imperatore, il proprietario o chi per lui lo aveva reso noto; quel cercareda parte dei cavalieri indica solo la difficoltà nell’individuare il casolare, immerso in unavegetazione palustre e poco frequentato.Nerone strappa di mano le lettere e scopre quanto gli altri sanno: il senato lo ha dichiarato nemicodella patria, i soldati non sono più legati a lui dal sacro giuramento e chiunque può ucciderlorestando impunito. La condanna, se catturato, è terribile, come gli riferiscono i compagni: spogliatodelle vesti, con una forca al collo, il reo è percosso fino alla morte. Nerone afferra due pugnali che haportato con sé, ne prova il filo, ma poi ci ripensa: “Non è ancora arrivata l’ora decisa dal destino”.Vorrebbe farlo ma non trova il coraggio; pur avendo ordinato molte morti, di sua mano non haucciso nessuno, non ha un carattere temprato da guerre o servizi militari.Spinge i liberti a iniziare i pianti per il lutto imminente, invita qualcuno di loro a uccidersi perdargli l’esempio, sa di mostrarsi vigliacco e cerca di farsi forza in greco: “Sto vivendo in mododisonorevole, turpe. Questo modo di fare è indegno di Nerone, proprio indegno. Ci vuole sanguefreddo in tali momenti. Su, svegliati!”.Non c’è più tempo. Si sente chiaramente il rumore di zoccoli di cavalli, sicuramente sono soldati chelo devono prendere vivo. A questo punto, recitando in greco il verso dell’Iliade: “Un galoppo di velocidestrieri colpisce le mie orecchie” (2, 535), si conficca un pugnale in gola con l’aiuto di Epafrodito.Non è ancora spirato quando arriva un centurione fedele a Galba, che potrà fornire una relazionesugli eventi da depositare negli archivi imperiali. “Fingendo di volerlo aiutare” tampona la feritacol suo mantello, ma l’imperatore ha ancora il fiato per commentare: “È troppo tardi!”, “Questa èfedeltà!”. Subito dopo, muore.L’ultima immagine del trentenne Nerone Claudio Druso Germanico Cesare è quella di un uomo

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ha riferito altre parole precedenti o seguenti che avrebbero chiarito il senso della frase, cercando l’effettotout court; gli editori italiani e stranieri, considerando che alla fine Nerone si dedicava a tutelare la vocee a descrivere organi idraulici anziché mettersi a capo delle sue legioni, hanno voluto dare risalto allafigura di un monarca che, con le sue esibizioni, aveva svilito casato e istituzioni.Gli studiosi moderni hanno in gran parte ribadito il significato trádito: Cantarella (1931), sullascorta del corrispondente greco tecnivth~, usato da Cassio Dione, non ha avuto dubbinell’interpretare artifex come attore: anche se Nerone aveva grande stima di sé come citaredo epoeta, considerava degna di ricordo solo quella sua gloria; e anche per Momigliano (1934), Sande(1968) e Syme (1971) l’imperatore era un artist, un performer, uno showman: la frase è troppoaderente al personaggio per poter dubitare sulla sua autenticità (Warmington 1969).Il termine artifex può però riferirsi, in senso lato, all’autore di una o più opere, al creatore, e contale significato lo usa Valerio Massimo nel definire la Natura feconda “creatrice di tutte le cose”(Factorum et Dictorum Memorabilium Libri Novem, 1, 8 ext. 18). Il filosofo Seneca, che trascorsemolti anni accanto a Nerone influenzandone cultura, politica, e verosimilmente anche l’eloquio,usa spesso artifex: sia per indicare il pittore e lo scultore che il divino “artefice di operemeravigliose” (Consolazione alla madre Elvia, 8, 1).Al dire di Svetonio, Nerone pronunciò la locuzione più volte, come un piagnucolio, mentre davadisposizioni per la cremazione e invitava i presenti a raccogliere legna e a cercare qualche pezzettodi marmo, giusto per nobilitare la fossa terragna che avrebbe accolto i suoi resti.Per tale motivo le parole dolenti, secondo più recenti interpretazioni, non dovevano alludere alcreatore (di scenografie) tantomeno all’attore teatrale, bensì ad un artigiano, in riferimento albasso gradino sociale raggiunto: “Che artigiano sono nella mia morte!” (Champlin 2003), o alleesequie della gente comune: “Muoio come un (miserabile) artigiano” che si deve dare da fare perprocurarsi un funerale decente (Sommariva 2006).È accettabile il senso comparativo (Garboli, 2003, ha proposto: “Muoio come un buffone, unpovero guitto”: un sussulto riflessivo sulla tragicommedia della sua vita), ma per definire l’artigianosi usavano diversi termini e un imperatore appassionato conoscitore di poemi omerici, che avevacomposto poesie e poemi a sua volta, avrebbe specificato meglio un paragone del genere, se questofosse stato il suo intento.Il vocabolo si può prestare a due interpretazioni, lasciando perdere il significato di attore: non eraquello il momento per sottolinearlo. Oltretutto Nerone esordì da attore tragico in Grecia, dove sicimentò pure in gare per araldi (Champlin 2003); a Roma era noto solo come citaredo, e forte diquesto talento diceva di potersi mantenere in Egitto (citharoedicam artem, precisa Svetonio, 6, 40).Quando ha pronunciato il “detto notissimo” dando ordini per la sepoltura, Nerone si vedevaridotto al ruolo di regista di serie B. Il qualis può alludere a una similitudine in questo senso:“Muoio (sto morendo) come organizzatore artistico (del proprio funerale)”. Una constatazioneamara di chi faceva uso di battute ironiche anche nelle ultime ore e poco prima di morire:ricordando l’invenzione della bibita, in contrasto con quello che era costretto a ingoiare, eprendendo in giro il centurione che faceva finta di soccorrerlo. Ora, prevaleva il sarcasmo.Considerando però l’alta concezione che Nerone aveva di sé quale artefice di riforme culturali,promotore di una nova urbs, è più credibile che il termine rimandasse a colui che aveva operatonelle arti somme, teatro compreso: di fronte al triste epilogo, ribadiva la sua “umana superiorità”(Levi 1995; Coccia 2003). Le lacrime sgorgavano per il contrasto, ancora una volta, tra passato epresente: dall’oro con cui aveva coperto Roma all’anonima e squallida realtà.Le fonti letterarie evidenziano il suo percorso politico teso verso una monarchia assolutistica ditipo orientale, basata sul consenso popolare conquistato con la munificenza; nello stesso tempo, cirestituiscono un imperatore che, oltre ad essere poeta, auriga e citaredo, promuoveva pianiurbanistici innovativi, ispirava e inventava lussuose scenografie, unite all’impiego di macchinari emateriali rari. A parte il piano regolatore non ancora portato a termine, sarebbe rimasto aricordarlo la rivoluzionaria Casa d’Oro inondata di luce e pietre preziose, con la sala rotundagirevole. È strano che, nelle ultime frasi, non ci siano riferimenti a quanto aveva realizzato digrandioso, mai tentato prima da alcuno. Quelle parole, che suonano come auto-commiserazione,paiono richiamare l’artista-creatore nel senso più vasto del termine. Il Nerone che invocava lamorte e non sapeva darsela, rimpiangeva i tanti progetti incompiuti e, soprattutto, l’affermazionecome sovrano solare: un neo-Apollo capace di irradiare benessere e felicità.

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lentiggini ne vorranno prendere il posto (cfr. supra il saggio di A. Giardina): davvero strano per untiranno alla cui morte i romani sarebbero scesi in piazza a far festa.Tutti coloro che erano stati accanto all’imperatore cercarono di tutelarsi da vendette o accuse.Ninfidio Sabino fece di più: ‘sposò’ l’eunuco Sporo (evidentemente le scelte anche anomale di Neroneservivano alla popolarità) e cercò di sostituirsi a Galba, per il quale proditoriamente si era battuto,affermando che era figlio di Gaio Caligola; ma venne ucciso dagli stessi pretoriani (Plutarco, Galba, 9;Tacito, Storie, 1, 5). Ofonio Tigellino, l’altro prefetto “immondo da ragazzo, impudico da vecchio”(Tacito, Storie, 1, 72), che si era nascosto al momento delle decisioni estreme, riuscì a farla franca conGalba, ma di lì a pochi mesi, durante il regno di Otone, raggiunto da una condanna richiesta a granvoce dalla plebe, si recise la gola con una rasoio mentre si trovava ai Bagni di Sinuessa.Se degli altri liberti non si conosce la fine, paradossale appare quella di Epafrodito, tra i principalisegretari di Nerone. Aveva ricevuto onori militari e Horti in regalo sull’Esquilino dopo aver fattoarrestare i congiurati del 65: di certo non intendeva rinunciare ai suoi agi dopo la scomparsa di chi loaveva reso ricco e potente. Il suo intervento decisivo nella morte dell’imperatore, opportunamentefatto circolare, sarebbe stato un titolo di merito con i sovrani futuri. E in effetti ritroveremoEpafrodito, sempre responsabile a libellis presso i Flavi, finché Domiziano non lo condannerà amorte proprio a causa di Nerone: un monito a tutto il personale del Palazzo, sostiene Svetonio,perché “In nessun caso si deve provocare la fine del proprio padrone” (Domiziano, 14).

Le ultime paroleLe fonti ci hanno lasciato diversi dicta pronunciati da Nerone durante le sue ultime ore.Sono stati i liberti presenti e il centurione a riferirli, operando scelte che potevano tornare comodeper la carriera o solo per la salvezza. Tra sfoghi, rimpianti, commenti, che presumiamo piùnumerosi, la frase più celebre dell’imperatore resta: “Qualis artifex pereo”, interpretata con unpunto esclamativo: “Quale (grande) artista perisce con me!” e riferita all’attore-citaredo.Secondo Cassio Dione si tratta di un “detto notissimo” che appare, nella sua versione, comeun’estrema imprecazione, dal momento che Nerone avrebbe esclamato anche: “Per Giove!”. Ilbiografo latino, invece, non lo colloca negli ultimi istanti: prima di spirare, i pensieri e le paroledell’imperatore erano stati rivolti altrove. Queste discrepanze, riguardo i dicta, ricorrono più volte:evidentemente le fonti consultate li avevano raccolti in un elenco e i due autori li hanno inseriti nelcontesto che ritenevano più opportuno.La ricerca di pubblici riconoscimenti come cantante e interprete di eroi ed eroine tragiche (Niobe,Canace, Oreste, Edipo, Ercole) accompagnò Nerone per anni, culminando nella partecipazione aconcorsi prestigiosi quando si fermò in Grecia. Un impegno perseguito con tenacia, per il qualeaveva affrontato prove estenuanti e sacrifici, come riferiscono Svetonio: “Arrivò persino asopportare sul suo petto lastre di piombo, standosene supino, a liberarsi lo stomaco con purganti estimolatori di vomito, a non mangiare frutta e cibi che potessero danneggiarlo” (6, 20); e Plinio ilVecchio: “Il porro da taglio è diventato importante per l’uso fatto da Nerone che, a giorni fissi, tuttii mesi, per curare la propria voce mangiava porri all’olio e nient’altro, senza neppurel’accompagnamento del pane” (Storia Naturale, 19, 108).Se però Nerone avesse voluto dare icasticità alla frase avrebbe usato la terza persona – perit e nonpereo – come quando cercava di darsi coraggio esprimendosi in greco; e avrebbe precisato:citharoedus o altro, se avesse voluto alludere alla bravura teatrale.Inoltre, il sostantivo artifex (ars - facio), letteralmente il maestro di un’arte, nella letteratura latinaè di solito accompagnato da sostantivi, o verbi, che ne specificano l’ambito d’azione: artifex morbiè il maestro della medicina, dicendi artifex è quello di eloquenza ecc.Così del resto lo usa lo stesso Svetonio per definire il soldato abilissimo nel tagliare la testa(Caligola, 32) e i danzatori (Tito, 7); quando non aggiunge una qualifica, specifica il riferimento:“di quel genere” intendendo i citaredi di cui sta parlando (Nerone, 20), oppure, nel senso diartigiano specializzato: “come quello che restaurò la Venere di Coo e il Colosso” (Vespasiano, 18).Se parla poi di attori teatrali usa il termine artifices, aggiungendo: scaenici (Cesare, 84).E l’avrebbe specificato anche Nerone se, con quel termine avesse voluto sottolineare le sue dotidrammatiche, al pari di Plinio che bolla come scaenicus l’imperatore sul palcoscenico.Ci si può chiedere allora perché in questa occasione Svetonio usi il sostantivo senza precisarlo e perchéla maggior parte degli studiosi l’abbia inteso alla stregua di “artista teatrale”. Il biografo latino forse non

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36 371. Emilio Gallori(Firenze, 1846 - Siena,1924), Nerone vestitoda donna, 1873. Firenze,Galleria Nazionaled’Arte Moderna

Gli studi che sto conducendo mi hanno permesso di raccogliere sei raffigurazioni di Nerone,dipinte o scolpite da artisti italiani in un arco di tempo corrispondente alla gestazione del Neronedi Arrigo Boito. Gli estremi cronologici della serie di queste opere sono infatti il 1873 e il 1910.Prese nel loro insieme, le sei testimonianze figurative vengono a costituire una sorta di spettacolosu Nerone, scandito in diversi momenti rappresentati dalle varie aberrazioni del tiranno, di cuiogni artista fornisce una interpretazione più o meno eversiva.Pur non sapendo se per la seconda metà dell’Ottocento esista un repertorio tematico (nel campoartistico, letterario e musicale) come quello redatto vent’anni fa per il Romanticismo Storico, nonmi sembra azzardato affermare che i soggetti neroniani sono particolarmente indicati per avereun’idea del repertorio figurativo frequentato dagli artisti delle Accademie nel momento successivoall’Unità d’Italia. Quel momento di rinnovamento istituzionale, e di trasformazione del quadrostorico in quadro “di genere”, di cui proprio Camillo Boito fu uno dei protagonisti.Le sei testimonianze figurative ci riportano infatti a una serie di abitudini istituzionali tipichedell’Accademia (molti Neroni, come vedremo, erano saggi inviati all’Accademia madre dagli allievi“di belle speranze”, che erano stati mandati a studiare a Roma o a Firenze). I sei Neroni siprestano, dunque, a vedere come potevano coincidere o divergere le aspettative di maestri e allievitra Otto e Novecento.A conferma di quanto Nerone sia stato un elemento iconograficamente provocatorio, sulla via dellarappresentazione del “vero”, basterebbe il fatto che la prima volta che lo incontriamo, in un’Accademiaitaliana dopo l’Unità, sia nel 1873 con il Nerone vestito da donna di Emilio Gallori (fig. 1).Si tratta di una scultura in gesso che fu mandata da Gallori ventisettenne all’Accademia di Firenze,come saggio del suo pensiero artistico romano, e sollevò un tale scandalo che i professoridell’Accademia ne impedirono la realizzazione in marmo. Il pubblico e settantuno artisti romani (tracui due tedeschi) si schierarono invece dalla parte dell’artista. La statua era destinata comunque asubire una sorte avversa. Adolfo Venturini, storico dell’arte antica, legato in giovinezza agli artistifiorentini, ricordava il Nerone di Gallori in uno stanzino dell’Accademia “tutto scarabocchiato dai votidi plauso di un popolo di ragazzi e d’artisti, ribelli all’Accademia entro le pareti dell’Accademiastessa”. In seguito se ne persero le tracce. Si disse che la statua fosse affondata in un naufragio,mentre altri la vogliono finita in Inghilterra, attribuita ad un artista del Cinquecento.Sopravvissuta grazie alla sua popolarità che le assicurò una riproduzione fotografica e repliche interracotta, la statua ci sorprende ancora oggi come una rivisitazione grottesca del tema di Ercolevestito da donna (secondo i capricci della regina Onfale), che risente contemporaneamente delleaspirazioni naturalistiche presenti nella scultura di Cecioni. All’epoca, nonostante le difficoltà, fu

mandata all’Esposizione Universale di Vienna, ove fu recensita dalla stampa più prestigiosa. Laricordò Faldella, parlando di un Nerone “camuffato da donna con la barba mascolina, svenevole, ilseno finto, così ributtante, che lo fustigheresti” e soprattutto la descrisse e la analizzò in una lungapagina Camillo Boito:“Questo Nerone è una donnaccia. Le sue mani sono polpute, le sue braccia e le sue spalle cicciose;non ride, sghignazza; al collo ha una collana, alle orecchie i pendenti, sul capo un diadema, le ditapiene di anelli, nella mano destra uno specchio. [...]. È una di quelle grasse femmine da bordello,che abitano nelle umide stanze delle stradette luride, vicino ai porti delle città di mare”.Dopo aver precisato che si trattava di un Nerone intento a recitare sulla scena in panni femminili,Boito continuava:“Comunque sia, l’opera del Gallori è energica: l’atto è bene rappresentato; l’espressione è tremenda,perché sotto a quell’istrione, che buffoneggia, s’indovina il tiranno che uccide; le pieghe sonolargamente gettate; l’esecuzione è degna del concetto – degna del concetto, cioè buona o pessimasecondo che il tema sembra artistico o no”.Anzi non esitava a dire che “[...] fra tutte le opere della mostra italiana è forse quella che ci ha fatto piùlungamente e seriamente pensare. Questo ci basta, e n’abbiamo d’avanzo, per dire che coloro, i qualinon l’hanno lasciata tradurre in marmo, erano in quel momento accademici gretti e pedanti”.Già in quest’occasione Camillo Boito ricordava, oltre al Nerone di Gallori, quello “dell’idealista [Luigi]Mussini”, e concludeva che entrambi i Neroni erano “diversamente ideali, ma tutti e due ideali”.Nel 1876 un nuovo quadro di soggetto neroniano viene esposto come saggio di pensionato. Sitratta di La vendetta di Poppea di Giovanni Muzzioli (fig. 2), dipinto a Firenze e inviatoall’Accademia di Modena di cui il Muzzioli era allievo.La scelta dell’artista modenese era caduta su un episodio della vita dell’imperatore menotrasgressivo del caso di “travestitismo” rappresentato da Gallori. Muzzioli aveva raffigurato infatti il

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N E L L E A C C A D E M I E I TA L I A N ET R A OT TO E N O V E C E N TO

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2. Giovanni Muzzioli(Modena, 1854-1894),La vendetta di Poppea,1876, olio su tela, cm161,5 x 259. Modena,Museo Civico d’Arte

queste rappresentazioni del “vero” identificato a passioni “egoistiche” e “piaceri dei sensi”.L’anno seguente all’articolo di Gnoli, l’Esposizione Nazionale di Napoli del 1877 avrebbeconfermato le osservazioni dello studioso sulle predilezioni degli artisti contemporanei,totalizzando almeno tre Neroni: oltre a quello di Muzzioli, furono esposti infatti due quadri dipittori napoletani pressoché coetanei (nati verso il 1840), e cioè Agrippina che spia il Senato (conNerone bambino che fa le boccacce) di Giuseppe Boschetto e Nerone citaredo di Camillo Miola.Nel 1880 invece, sulla scia del successo toccato al dramma del Cossa, era un vecchio professore dipittura all’Accademia Carrara di Bergamo, che visualizzava una delle sue ultime fantasieappoggiandosi alla storia di Nerone. Il professore è Enrico Scuri, il soggetto dell’opera è l’Ultimanotte di Nerone (Atte invita Nerone ad avvelenarsi con onore, secondo il finale del dramma diCossa poi musicato da Mascagni). Scuri realizzò con questo titolo un chiaroscuro a pastello,inviato all’Esposizione Nazionale di Torino nel 1880 (fig. 3), e un disegno preparatorio conservatoall’Accademia Carrara (fig. 4).Eppure, proprio il fatto che si tratti di un vecchio pittore d’accademia, cresciuto nel clima delRomanticismo lombardo (ma emarginatosi dalla via maestra di Francesco Hayez), ci confermal’impressione che in questo caso al soggetto neroniano non corrisponda alcun rinnovamentolinguistico. Scuri era stato attore filodrammatico in giovinezza e aveva recitato in allestimenti deidrammi di Alfieri; in pittura era passato dai soggetti mitologici a quelli ossianici a quellimedioevali italiani – oltre a continuare a dipingere le pale sacre. Era stato collezionato da AndreaMaffei per le sue illustrazioni della danza dei morti di Goethe, aveva illustrato il Paradiso perdutodi Milton. Era settuagenario, quando dipinse il Nerone, non un giovane sotto i trent’anni comeGallori o Muzzioli (che aveva illustrato le Veglie di Neri di Fucini).La sua ambientazione della reggia è molto più scenografica di quella di Muzzioli, tanto che Scurivoleva fare del suo Nerone un sipario teatrale. Non si intravede nell’opera nessuna ricercaarcheologica nell’arredo né alcuna sperimentazione naturalistica nelle pose e nei gesti, così come èdel tutto artificiale l’illuminazione.A una nuova generazione di artisti e a un clima completamente diverso ci riporta il dipintosuccessivo, che risale al 1894 e si intitola L’imperatore Nerone osserva il cadavere della madreAgrippina per suo comando uccisa (fig. 6). L’autore è un pittore nativo di Cremona, Antonio Rizzi,

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momento immediatamente successivo alla decapitazione di Ottavia, rea di aver disapprovatol’unione di Nerone con Poppea. Agiva probabilmente sullo sfondo, nel clima antiaccademicofiorentino, il successo della statua di Nerone in panni femminili, tanto che anche il quadro diMuzzioli fu difeso da Telemaco Signorini e da Basini, traduttore del poema di Hamerlingambientato nella Roma imperiale (Ahasverus in Rom).Lo “scandalo” vero e proprio cominciò con l’arrivo del dipinto a Modena alla fine del 1876. Si accusòMuzzioli infatti di non aver rappresentato Nerone, bensì “un romano del 1877 che si sia mascheratoall’antica per fare la sua brava parte in una rappresentazione di quadri viventi”. Fu Adolfo Venturi,modenese, amico di Muzzioli e all’epoca poco più che ventenne, a capire invece che il quadronecessitava di una chiave interpretativa particolare: il punto di vista da cui il pittore aveva guardato lascena era quello di un autore di commedie e non di tragedie, dal momento che “in casa di Nerone latragedia piglia l’aria di usual commedia”. In termini visivi, quindi, Muzzioli aveva intenzionalmentedeluso le aspettative più prevedibili degli spettatori (utilizzando un impianto di studiatissimeilluminazioni che lasciavano in ombra sotto al baldacchino la coppia imperiale) perché il suo scopoera stato quello di cogliere una giornata nella Domus Aurea “con la grande semplicità del vero”. Ilrisultato (che spingeva, ancora una volta, a guardare Nerone come specchio “naturalista” delle diverseperversioni della natura umana) deluderà “l’archeologo, e chi cerca un carattere; ma non del tutto lostorico e il pubblico: i quali non cercano un Nerone, ma si interessano alla vista di quella scena cheesprime le sublimi discordanze della natura”. Sempre nel 1876, anzi proprio negli stessi mesi delledispute attorno al Nerone di Muzzioli (un pittore, tra l’altro, caro anche a Corrado Ricci, che fu storicodell’arte e della scenografia vicino ad Arrigo Boito), Domenico Gnoli provò a fare il punto sulla“Nuova Antologia” del dilagare delle rappresentazioni Neroniane. Nel suo articolo Gnoli elencava isoggetti neroniani trattati in letteratura (romanzi, poesia, teatro) e nelle arti figurative:“Piglio in mano un romanzo, l’Acté di Dumas e trovo Nerone: in una recente Esposizione artistica diFirenze non sentivo parlare che d’una statua bizzarra del Gallori, il Nerone: e il Nerone del Cossa calcatra gli applausi le nostre scene; e un dramma di A. Soumet e Belmontel, Une fête de Néron; e un altrodi Legouvé padre s’intitola: Epicharis et Néron, e un più recente d’Emile Duneau, La mort de Néron:un poema appare, or fa dieci anni, in Germania, l’Ahasvero di Hamerling, e il protagonista è Nerone:ed ecco Nerone in due quadri tedeschi celebratissimi, l’uno del Piloty, l’altro del Kaulbach: e perchénon manchi nessun’arte, apro un Giornale e vi leggo che Arrigo Boito sta scrivendo in versi unlibretto che poi metterà in musica, il Nerone: e proprio adesso mentre sto scrivendo, mi portano incamera una Novella, L’artista Claudio Nerone, che Giuseppe Serafini dice di aver tradotto dalfrancese. E chi sa quante altre opere che non conosco o non ricordo!”.La galleria neroniana si è allargata all’Europa, e oltre ai Neroni dipinti da due artisti della cerchiadi Monaco di Baviera, Piloty e Kaulbach, Gnoli concedeva ampio spazio nel suo articolo al quadrodel giovane polacco Siemiradzki, Le luminarie di Nerone, che era appena stato esposto a Roma.“I Cristiani accusati dell’incendio di Roma, uomini e donne, stanno ad un lato del quadro legati sopraun filare di pali un dietro l’altro, ed escono solo con la testa e un poco di spalla dall’involucro dimaterie combustibili, onde sono avvolti e fasciati come mummie. Nerone sul ripiano d’una ricca scaladel suo palazzo giace in una splendida lettiga [...]. Già uno della Corte dà il segnale con un pannorosso, e gli esecutori sono lì presso ad appiccare il fuoco. Sotto alla scala, nel primo piano del quadro,una moltitudine di gente abbandonata al piacere: vecchi coronati di rose, fanciulle molli, seminude,coll’auree tazze nelle mani, che giocano a’ dadi, l’avanzo voluttuoso di un baccanale”.Di fronte a questa ridda di rappresentazioni di atrocità, Gnoli si chiedeva: “Che vuole da noi questoNerone? Perché ne traggono tanta ispirazione gli artisti, e il pubblico li segue [...]?” e cercava dirispondere affermando che Nerone al giorno d’oggi “ha spogliato quell’aspetto orribile e deforme, concui spaventava i sogni della nostra infanzia”. Ed è risorto così, “elegante nelle sue voluttà, amabile ne’suoi capricci, quasi attraente nella sua ferocia: e si direbbe che tra lui e il pubblico corrono delleintelligenze secrete, e ch’egli sia accolto con un senso mal celato di simpatia. [...] oggi le vittime sonoandate esse in fondo, per dar risalto alla figura di Nerone divenuto protagonista”.Gnoli coglieva, pur restando in un quadro d’insieme comprendente tutte le arti, il problema delmomento, il dualismo tra “vero” e “idea” (“L’imitazione del vero, che era mezzo a rappresentarel’idea, mancata questa, diviene essa il fine dell’arte stessa”) e vedeva nella scelta dei soggettineroniani (“La storia è per l’arte come un immenso magazzino dov’essa sceglie quel che meglioconvenga allo spirito e alle idee del suo tempo, e lo riveste de’ proprii panni”) una conseguenza di

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5. Achille Jemoli, La morte di Nerone,particolare, 1910, oliosu tela, cm 160 x 314.Milano, Galleria d’ArteModerna

Siamo arrivati così all’ultimo quadro della serie, che il caso ha voluto rappresentasse il decesso deltiranno. Questa raffigurazione de La morte di Nerone (fig. 5) è stata dipinta nel 1910 da AchilleJemoli, un pittore morto solo trent’anni fa. Anche Jemoli, come Rizzi si era formatoall’Accademia di Brera, studiando con Tallone (il successore di Bertini), dopo aver svolto l’attivitàdi operaio modellatore per la Richard Ginori. Aveva trentadue anni al momento di dipingere ilsuo quadro, che volle donare immediatamente alla Galleria d’Arte Moderna di Milano.Su quest’ultimo Cesare – che risale allo stesso anno del Primo manifesto dei pittori futuristi –spira un’aria di grande semplificazione illustrativa: scene e costumi ridotti all’essenziale,immissione di marmi, statue e colonne nella vibrazione atmosferica data dalla luce crepuscolare.Per la prima volta infatti vediamo Nerone su una terrazza all’aperto, dove l’imperatore giaceseduto in una posa simile a quella del contadino stremato dalla fatica che Achille D’Orsi avevainventato per il suo Proximus tuus. L’orizzonte è alto come nei paesaggi divisionisti del primodecennio del Novecento, e i riquadri e i tasselli sul pavimento della terrazza guidano l’occhio dellospettatore per uno spazio in gran parte vuoto, delimitato a sinistra dalle aste delle lance e a destrada un gruppo di soldati in movimento.Anche questo quadro deve avere fruttato una promozione all’artista, che due anni dopo divennesocio onorario di Brera. Ma indipendentemente dalla carriera di Jemoli, la fortuna iconografica diNerone (che per alcuni decenni era stato l’imperatore “uomo”) non poteva essere facilitatadall’interesse per la pittura delle “idee”. Lo spazio visivo per il tiranno restava sul palcoscenico esullo schermo: tre anni dopo questo quadro infatti, la riduzione cinematografica del Quo Vadisfirmata da Enrico Guazzoni sembrava già ad Auguste Rodin “un capolavoro”.

40 3. Enrico Scuri(Bergamo, 1806-1884),L’ultima notte diNerone, 1880, pastello,cm 95 x 112. Bergamo,collezione privata

4. Enrico Scuri, Nerone e Atte, disegnopreparatorio per“L’ultima notte diNerone”, 1879-1880,carboncino, sfumino,penna e acquarellobruni, biacca, su cartagrigioverde chiaro, mm 312 x 416.Bergamo, AccademiaCarrara

che aveva venticinque anni al momento di realizzare il quadro. All’interno della nostra serie, il suoè il primo Nerone che esce dall’Accademia di Brera (dove insegnavano, tra gli altri, GiuseppeBertini e Lodovico Pogliaghi) ed è il primo cui sia stata conferita una menzione d’onore, il premioFumagalli assegnatogli su giudizio di Bertini e Mosé Bianchi.L’opera di Rizzi presenta un’esibita e sontuosa ambientazione “archeologica”, secondo il gusto delpittore anglo-fiammingo all’epoca conosciutissimo in Italia, Lawrence Alma Tadema. La reggia,diversamente da quella dipinta da Muzzioli, è immaginata infatti come un ambiente interamentemarmoreo, all’interno del quale il pennello del giovane artista cerca di restituire il senso“fisico”della materia (soprattutto nella vasca riempita d’acqua). La disposizione dei personaggisegue invece un’evidente dinamica drammatica, aiutata anche dalle gradazioni cromatiche nellevesti (il rosa di Nerone, il rosso di Agrippina): lungi dall’essere ricondotta alla quotidianità dellavita nella Domus Aurea, la scena neroniana è presentata quindi come un vero saggio da concorso,che dimostri le capacità dell’autore nel campo della pittura storica.Tuttavia la premiazione accademica ci induce a pensare che ormai la tematica dell’imperatoredegenere abbia perso ogni valore eversivo. Che si tratti di Nerone o di un altro personaggio, hapoca importanza: è cambiato il rapporto degli artisti e del loro pubblico con la storia, le scene dellavita dell’imperatore sono sentite come un fatto da museo o ancor più da teatro, senza alcunaimplicazione naturalistica.Due anni dopo viene esposta una continuazione ideale alla scena dipinta da Rizzi. Si tratta diNerone dinanzi al cadavere della madre di un artista altrimenti ignoto, Angiolo Lemmi. Delquadro è rimasta soltanto una riproduzione fotografica eseguita in occasione della prima Festadell’Arte e dei Fiori tenutasi a Firenze tra il dicembre 1896 e la primavera 1897.Le occasioni di confronto internazionali erano diventate sempre più frequenti nell’Italia deglianni novanta (è del 1895 la prima Biennale di Venezia, di cui la Festa dell’Arte e dei Fioricostituisce una sorta di equivalente fiorentino). Per comporre un quadro che fosse maggiormentein sintonia con un gusto da “salon” europeo, il richiamo ad Alma Tadema diventava d’obbligo:Lemmi doveva smorzare quindi la drammaticità che era rimasta nella scena neroniana di Rizzi,sviluppare la composizione in orizzontale e addensare gli elementi dell’arredamento (alcuni deiquali derivano probabilmente dal manuale che era servito anche a Muzzioli, La vita dei Greci edei Romani ricavata dagli antichi monumenti, di E. Gulh e W. Koner) con un effetto diostentata ricostruzione.Nel dipinto non mancano accorgimenti ingegnosi nella disposizione delle figure (addensatequanto gli oggetti): si consideri la presentazione di Nerone di spalle, in modo da far perdereapparentemente il senso drammatico della scena (come già faceva Muzzioli mettendo il tirannoall’ombra della tenda), la trovata del fumo che salendo dal braciere copre il cadavere di Agrippina esoprattutto l’inserimento – sulla parte destra del quadro – delle prefiche, che vengono a costituire(anche visivamente) una sorta di “anima nera” del palazzo imperiale.

Si ripropone, senza note, il saggio apparso in ArrigoBoito. Atti del convegno internazionale di studi dedicatoal centocinquantesimo della nascita, a cura di G. Morelli

(Fondazione Giorgio Cini, Linea veneta, XI), Firenze1994. Si è in debito di gratitudine con la casa editrice LeoS. Olschki che ne ha gentilmente concesso la pubblicazione.

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42 436. Antonio Rizzi(Cremona, 1869 -Firenze, 1940),L’imperatore Neroneosserva il cadaveredella madre Agrippinaper suo comando uccisa,1894, olio su tela, cm 277 x 407.Cremona, Museo Civico

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451. Francesco Smuglewicze Marco Carlone, Vedutadell’esedra delle Termedi Tito e l’entrata dellestanze sotterranee, 1776,acquarello e gouache su carta, mm 533 x 574.Varsavia, MuseoNazionale

2. Józef Peszka, Ritrattodi Francesco Smuglewicz,dopo il 1785, olio su tela.Poznan:, Museo Nazionale

dove conobbe artisti di rilievo quali Pompeo Batoni, Anton von Maron e Anton Raphael Mengs.Nel 1766 vinse il primo premio con L’incontro di Abramo con Melchisedec: il disegno è conservatopresso l’Accademia di San Luca. Suoi anche il bellissimo disegno per il frontespizio del volume IlVignola illustrato del 1770, un ritratto del pontefice Clemente XIV e interessanti dipinti nelPalazzo Borghese a Roma e in una delle ville a Frascati. Fu probabilmente grazie all’appoggio deisuoi celebri insegnanti che Smuglewicz diventò collaboratore dell’antiquario scozzese James Byresa Taquinia e poi di Mirri a Roma, ottenendo commissioni di copie di celebri pitture del Seicentoper gli aristocratici inglesi. L’artista eseguì bei ritratti di Byres e dei suoi familiari, tipici nell’epocadel Grand Tour (c.d. conversation pieces), e un bel dipinto allegorico, una specie di omaggio allaCittà eterna, in cui l’imperatore Tito offre le leggi alla città di Roma dopo la scomparsa di Nerone.Una statua del tiranno con la cetra, raffigurato come Apollo, si vede infatti sullo sfondo (fig. 3).Mentre Tito si presenta come imperatore buono e giusto, la statua del tiranno fa cadere morti sullaterra gli uccelli che le volano intorno. Il dipinto poteva essere stato in parte ispirato, come hannogià osservato alcuni studiosi, da un brano di Svetonio (Tito, 8, 1): “Essendo molto benevolo pernatura, mentre gli altri principi, seguendo l’uso inaugurato da Tiberio, non ritenevano validi ibenefici accordati dai loro predecessori se non li confermavano loro stessi di persona agliinteressati nella medesima forma, egli fu il primo a ratificare con un solo editto tutti gli attiprecedenti, senza volere che gliene fosse rinnovata la richiesta [...] si fece una regola di nonrimandare indietro nessuno senza lasciargli qualche speranza; anzi, quando gli amici gli facevanopresente che aveva promesso più di quanto poteva mantenere, rispondeva che nessuno dovevaandarsene malcontento dopo un colloquio con il principe [...]”.Guardando il grande libro del 1776 sulle pitture della Domus Aurea (all’epoca ancora ritenute delleTerme di Tito) pensiamo prima di tutto a Mirri e a Marco Carlone, l’autore delle incisioniriprodotte ne Le vestigia delle Terme di Tito, ma il lavoro più impegnativo fu fatto proprio daSmuglewicz e Brenna, che in condizioni proibitive copiavano gli affreschi con le loro matite. Bentrentasette tavole realizzò Smuglewicz da solo firmandone alcune: F. Smuglewicz Polonus fec[it]oppure delin[eavit]. L’opera di Smuglewicz, Brenna e Carlone, sotto la direzione di Mirri, fu poiresa anche in una versione a colori, costosissima; copie di tutte e due le edizioni sono oggicustodite nel Museo Nazionale di Varsavia. Cinque incisioni colorate, finora inedite, si trovanoanche in un album proveniente dalla collezione del re Stanislao Augusto Poniatowski, che dal 1818appartiene al Gabinetto delle Stampe dell’Università di Varsavia (fig. 4). Dopo il notevole successodi Le vestigia delle Terme di Tito Mirri coinvolgerà Smuglewicz in un altro prestigioso progettodedicato al Museo Pio-Clementino in Vaticano, realizzato insieme con Vincenzo Pacetti, Marco

44 “Il signor Siemiradzki, giovane polacco, ha esposto in Roma un suo gran quadro, Le luminarie diNerone, che di recente ha tratto molto concorso d’Italiani e di forestieri a vederlo. [...] glispettatori, sieno artisti, sieno profani, osservano ammirando la ricca composizione, il colore vero esmagliante, la varietà dei volti, la perfezione de’ minimi particolari [...]. Quel che a me importa èil soggetto, Nerone. Egli è da un pezzo che mi perseguita. [...] spogliato quell’aspetto orribile edeforme con cui spaventava i sogni della nostra infanzia [...] n’è sorto un altro elegante nelle suevoluttà, amabile ne’ suoi capricci, quasi attraente nella sua ferocia”.Così scriveva Domenico Gnoli su “Nuova Antologia” dopo aver visto nel giugno 1876 il dipinto diEnrico Siemiradzki nella sede dell’Accademia di Belle Arti di via Ripetta. Ma oltre all’autore di Leluminarie di Nerone, di solito chiamate Le torce di Nerone, ci sono almeno tre altri polacchi i cuinomi si collegano con quello del più famoso e nello stesso tempo del più odiato imperatoreromano. Si tratta di Francesco Smuglewicz (1745-1808), tra l’altro uno degli autori di Le vestigiadelle Terme di Tito e le loro interne pitture (1776) (fig. 1), di Jan Styka, cui si devono belleillustrazioni per Quo vadis e il dipinto poco noto Nerone a Baia, e infine di Enrico Sienkiewicz, ilpiù famoso di tutti e quattro, l’autore di Quo vadis. Questo saggio è dedicato innanzitutto alleopere di Siemiradzki, che oltre al famosissimo Le torce di Nerone dipinse anche altri due quadri“neroniani” e cioè Dirce cristiana del 1897 e Le future vittime del Colosseo del 1899. Occorre peròdare prima qualche cenno su Smuglewicz; alla fine si parlerà della visione dei tempi di Neronenelle opere di Styka e in particolare del suo ritratto del crudele imperatore.

Smuglewicz, la Domus Aurea, Tito e NeroneNel 1774 l’antiquario romano Ludovico Mirri faceva sgombrare dalla terra sedici stanze dellaDomus Aurea tirando, dai disegni delle decorazioni, copiati dai pittori Francesco Smuglewicz eVicenzo Brenna, un album di sessanta incisioni che venne venduto sul mercato antiquario.Un’informazione del genere è facilmente reperibile in diverse pubblicazioni dedicate alle pitture delfamoso palazzo di Nerone: tuttavia il nome del pittore polacco viene solitamente appenamenzionato, malgrado Giuseppe Carletti, l’autore del volume che accompagnava l’album di Mirri,ne lodasse la grande impresa.Smuglewicz (fig. 2) nacque a Varsavia in una famiglia di pittori; nella città natale compì i primistudi e giunse a Roma dopo aver compiuto diciott’anni soggiornandovi tra il 1763 e il 1784. Nel 1865 divenne uno dei borsisti del re di Polonia Stanislao Augusto Poniatowski, per il qualeprogettò la decorazione della Camera dei Signori del Castello Reale di Varsavia. A Roma studiòprima presso l’Accademia del Nudo in Campidoglio e poi, dal 1765, all’Accademia di San Luca

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N E R O N E E I P R I M I C R I S T I A N I N E L L E O P E R E D I

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475. Henryk H.Siemiradzki,Autoritratto, ca. 1878,olio su tela, cm 80 x 55.Cracovia, MuseoNazionale

dimenticato perfino nella città dove visse per trent’anni ed eseguì numerosi capolavori. Eppuremolti di essi raffigurano la grandezza e lo splendore di Roma antica ed esprimono la sua passioneper l’arte delle città vesuviane. In modo particolare spicca la sua personale visione dell’età dei primicristiani e del terrore esercitato da Nerone.Nel 1879 Siemiradzki, in uno slancio patriottico, offrì Le torce di Nerone alla città di Cracovia,contribuendo alla creazione del Museo Nazionale. La Dirce cristiana venne offerta dopo la morte delpittore al Museo delle Arti di Varsavia, che poi diventerà il Museo Nazionale della capitale polacca.

Le torce di NeroneIl dipinto più famoso di Siemiradzki (fig. 6), che è anche la sua opera più grande (cm 305 x 704),è ispirato a un passo di Tacito (Annali, 15, 44). Raffigura il supplizio dei martiri cristiani ordinatoda Nerone nei suoi giardini, di fronte alla Domus Aurea. A quei tempi il tema delle persecuzioni diNerone era assai popolare nell’ambiente dei pittori tedeschi come Karl T. von Piloty e Wilhelm vonKaulbach, la cui produzione artistica Siemiradzki poteva ammirare a Monaco di Baviera; il primoha dipinto una grande tela intitolata Nerone dopo l’incendio di Roma (1860), custodita presso ilMuseo delle Belle Arti di Budapest, il secondo ha eseguito nel 1872 Nerone e le persecuzioni deicristiani (Monaco di Baviera, collezione privata). Però, né l’uno né l’altro quadro ha mai goduto diuna fama paragonabile a quella di Le torce di Nerone. Il pittore polacco aveva scelto un temaaffascinante e fu capace di creare una composizione che anche oggi attira grande attenzione. NegliAnnali Tacito narra di come Nerone, per allontanare da sé il sospetto di essere l’autore del terribileincendio che aveva devastato Roma il 18 luglio del 64 d.C., accusasse i cristiani. Questi, costretti aconfessare, sottoposti a supplizi crudeli, ormai non più per il reato d’incendio, ma per il lorosupposto “odio del genere umano”, secondo la testimonianza dello storico romano, nonostante laloro presunta colpevolezza suscitarono pietà, perché appariva a tutti evidente che erano puniti nonper il “bene pubblico”, ma per la “crudeltà di uno solo”. Tacito infatti scrive:“In un primo momento furono arrestati coloro che confessavano la loro fede, poi, su loro denuncia,moltissimi altri furono giudicati colpevoli non tanto del delitto di incendio quanto di odio per ilgenere umano. E alla loro morte si accompagnò anche il dileggio: furono coperti di pelli ferine efatti sbranare dai cani oppure vennero crocifissi o arsi vivi, perché come torce servissero dailluminazione notturna, dopo il tramonto del sole. Nerone aveva offerto i suoi giardini per unsimile spettacolo, mentre dava giochi nel circo e, vestito da auriga, si mescolava alla plebaglia opartecipava alle corse ritto su un cocchio. Perciò essi, benché si fossero macchiati di colpe emeritassero le pene mai viste loro inflitte, suscitavano compassione perché venivano sacrificati nonin vista del bene comune, ma per soddisfare la crudeltà di uno solo” (Annali, 15, 44).Nel suo dipinto Siemiradzki si concentrò soprattutto sulla rievocazione del tetro e magnificosplendore della corte neroniana, che tra libagioni e mollezze di ogni genere si appresta a goderedel terribile spettacolo, cui sta per dare avvio un ufficiale sventolando il fazzoletto (mappula)rosso. Il quadro è chiaramente diviso in due parti: nella parte destra, molto più piccola rispettoalla sinistra, vediamo i cristiani condannati a morte; sul lato opposto è inscenata una specie dipantomima del lusso cui partecipano tutte le categorie e le classi della società romana d’etàimperiale. A destra sono legati ai pali e avvolti negli stracci bituminosi i cristiani destinati ailluminare il giardino di Nerone, in una lunga fila che crea una prospettiva di sbieco. Sotto legambe dei martiri sono appesi grandi cartelli con un’immagine e una scritta che contiene leseguenti parole: CHRISTIANUS INCENDIATOR URBIS GENERISQUE HUMANI HOSTIS(fig. 8). L’immagine riproduce il famoso graffito trovato nel cosiddetto Pedagogium sul Palatinoche raffigura un uomo crocifisso, con la testa d’asino e una persona in sua adorazione (fig. 9).Questa rappresentazione, scoperta poco prima dell’arrivo di Siemiradzki a Roma, è interpretatacome una caricatura del culto cristiano, fatta probabilmente da uno schiavo per prendere in giroun suo simile convertito alla nuova fede. Come è noto, all’epoca circolava la leggenda che il diodegli ebrei e dei cristiani avesse una testa d’asino: la differenza tra le due religioni non era ancoraovvia. Oggi il graffito è generalmente datato verso il 200 d.C. ma nel secondo Ottocento lo siriteneva più antico.L’anonimo autore della recensione pubblicata su “La Libertà” il 22 maggio 1876 ci ha lasciatonon solo una bellissima descrizione dell’opera del pittore polacco ma anche un elogio: “Dinanzi aquel quadro, chi abbia il cervello un po’ dato all’arte prova un effetto strano: da principio una

46 3. Francesco Smuglewicz,Benevolenzadell’imperatore Titoverso i romani, 1785,olio su tela, cm 161 x 138.Varsavia, MuseoNazionale

4. Francesco Smuglewicze Marco Carlone,Battaglia tra Centauri e Lapiti, copia di undipinto della DomusAurea, acquarello e gouache su carta, mm 533 x 574.Varsavia, Gabinettodelle Stampe della Bibliotecadell’Università di Varsavia

Carloni e Stefano Tofanelli. L’opera di Smuglewicz, che collaborava anche con Orazio Orlandi, unantiquario finora poco noto, durante il suo soggiorno romano, meriterebbe dunque ricerche e studipiù approfonditi.L’incisione su disegno di Smuglewicz qui riprodotta (fig. 1) ha il sapore di un misteroarcheologico; l’artista ha riunito nella sua scena i ruderi della Domus Aurea e delle Terme diTraiano che in realtà sono sparsi in una zona molto più vasta e assai distanti tra di loro. È stato giànotato che le incisioni in Le vestigia delle Terme di Tito e le loro interne pitture denotano una certafantasia e libertà rispetto agli originali: sono gli autori stessi a segnalare modifiche e aggiuntedurante il loro lavoro. Ciò nonostante le loro copie rimangono uno strumento fondamentale per lacomprensione della concezione estetica d’insieme della pittura neroniana.

Qualche cenno su Siemiradzki e le sue ‘gesta’Henryk H. Siemiradzki (1843-1902) (fig. 5) nacque in una famiglia polacca a Bielgorod vicino aCharkow in Ucraina dove terminò il ginnasio e studiò presso la Facoltà di Matematica e Fisicadell’Università; in seguito entrò nell’Accademia di Belle Arti a San Pietroburgo dove si diplomò nel1870 meritandosi una medaglia d’oro per il quadro raffigurante “Alessandro il Macedone e il suomedico Filippo”, nonché una borsa di studio di sei anni all’estero. Nel corso del suo viaggio artisticoil pittore prima passò da Monaco di Baviera, dove dipinse L’orgia romana, per poi trasferirsi aFirenze e infine a Roma dove arrivò nell’aprile del 1872 e abitò quasi fino alla morte. Nel 1874dipinse Cristiani nelle catacombe e negli anni 1874-1876 Le torce di Nerone, ora al Museo Nazionaledi Cracovia. La grande tela, eseguita nello studio di via Margutta al numero 5, esposta nel maggio-giugno del 1876 all’Accademia di Belle Arti di Roma e successivamente a Monaco di Baviera e allaMostra Internazionale di Vienna, gli procurò subito una fama europea e alti riconoscimenti. Con“insolito entusiasmo fu ammirato”, scriveva nel 1883 G. Gozzoli, “in quasi tutte le capitali e in moltealtre città d’Europa; richiamò l’attenzione di tutti i critici d’arte e meritò all’autore tre decorazionid’Italia, Russia e Francia e la gran medaglia d’onore nell’Esposizione Internazionale di Parigi del1878”. Nello stesso anno Siemiradzki ottenne anche l’onorificenza della Légion d’Honneur. Il pittoredivenne membro di varie Accademie europee: romana, berlinese, stoccolmiana e infine, nel 1898,parigina. Dopo la mostra all’Accademia di San Luca, ottenne l’onorificenza della Corona d’Italia, enel 1898 il re d’Italia lo nominò commendatore con l’onorificenza di San Maurizio e San Lazzaro.Tra le più grandi opere, oltre a quelle già menzionate, ricordiamo Il vaso o la fanciulla (1878, già alKestner-Museum di Hannover), Tiberio a Capri (1881, Mosca, Galleria Tretyakov), Frine alla festadi Poseidone ad Eleusis (1889, San Pietroburgo, Museo Russo), Il trionfo di Venere (1892, Varsavia,Museo Nazionale), Dirce cristiana (1897, Varsavia, Museo Nazionale) e Le future vittime delColosseo (1899, Varsavia, Seminario Vescovile). Siemiradzki, che all’epoca era un pittore celebre – lasua casa in via Gaeta a Roma era indicata nell’elenco dei monumenti della guida Baedeker e venivavisitata dalla Regina Margherita, da molti aristocratici, scrittori e artisti – appare oggi quasi

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4948 6. Henryk H.Siemiradzki, Le torce di Nerone, 1876, olio su tela, cm 305 x 704.Cracovia, MuseoNazionale

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517. Henryk H.Siemiradzki, Le torce di Nerone, particolare

8. Henryk H.Siemiradzki, Le torce di Nerone, particolare

9. Graffito concrocifissione blasfema,Roma, Museo Palatino

meraviglia che è quasi confusione, poi un sentimento inavvertito di interessamento che prende apoco a poco la mano sulla curiosità indifferente di chi riguarda; poi un suscitarsi di immagini, unsuccedersi di idee, una forza segreta che ti costringe, senza quasi che tu te ne avveda, a pensare, eche ti fa dire per tutta conclusione: questo quadro è un poema!”. Detto ciò, il nostro ammiratorecosì descrive il capolavoro di Siemiradzki: “Il sole è tramontato appena; non hai più il giorno enon hai ancor la notte [...]. Codesta tranquillità solenne dell’atmosfera mentre si confà tantocoll’espressione dei martiri, fa uno strano contrasto coll’orgia oscena rappresentata nell’altra partedel quadro [...] Nerone è su in alto, dominando lo spettacolo da un belvedere, ove se ne stasdraiato insieme colla moglie Poppea, in una lettiga portata da otto schiavi mori che sono unabellezza a mirarsi. La lettiga, condotta a lavoro finissimo, con delle ornature di madreperla che tipaion vere, è di per sé stessa opera tale da fare onore per la fedele riproduzione dell’epoca aqualunque pittore. Nerone è là, annoiato, tenendo pel guinzaglio una tigre ammansita, il cuimantello è dipinto con tanta morbidezza che ti fa venire la voglia di palparlo. La vista di quellatigre così mansueta in mezzo a tanta depravazione umana, fra i rumori varii di quell’ebbrezzastupida e feroce, suscita nel cervello mille immagini diverse [...]. Attorno, in basso, su in altofino all’estrema cornice del quadro si affolla la gente della corte, una turba stranamente mescolatadi schiavi, di senatori, di citarede, di istrioni, di saltatrici, di mimi, tutti coronati di fiori ediguazzanti nell’orgia in atteggiamenti e abiti diversi, attendono la strana luminara chel’Imperatore ha loro preparata. Qui, al basso del belvedere una schiava seminuda, appoggiata albalaustro della scala, ti volge il dorso bellissimo, mentre se ne sta guardando intenta alla scena dimorte che le si spiega innanzi e porgendo l’orecchio alle parole di un uomo che la intrattiene. Piùin basso ancora, in mezzo al primo piano del quadro, attrae l’attenzione la figura di una citaredaseduta in terra, e che abbracciando una sua compagna, riguarda pietosa i cristiani; una dellepoche immagini che mostrino un po’ di commozione in tanta indifferenza. E, in mezzo, e asinistra gruppi diversi di vecchi, di fanciulli, di uomini, di adolescenti, di donne: ti par di udireun clamore assordante, un tumulto di voci che scherniscono, che imprecano o che esultano; tipar di intendere il canto osceno della schiava ubriacata, il suono acuto della tibia, l’accordovoluttuoso delle cetre, gli evviva a Venere e a Lieo. Solo in fondo, nell’ultimo canto a sinistra ti sioffre innanzi un gladiatore che guarda alla scena con occhio melanconico e irrequieto. Poi in alto,su per le scale che scendono dal palazzo di Cesare si riversano i servi, i mille, la plebaglia dellacorte, gli analfabeti dello spirito che sono di tutti i tempi i paesi, gli avidi di spettacolo, la genteche non brama altro che vedere o farsi vedere. Ecco i personaggi che Siemiradzki ha saputoraggruppare in questa parte del suo quadro: un centinaio forse, o poco meno, di figure, tutte

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5312. Henryk H.Siemiradzki, Bozzettoper Le torce di Nerone,1875, olio su tela,collezione privata

nell’intendimento di offrire una ricostruzione quanto più suggestiva possibile dei tempi di Nerone,cercò ispirazione tra i monumenti antichi esistenti a Roma, tra gli oggetti rinvenuti negli scavi opresenti nei noti repertori di Luigi Canina. L’opera del Canina, così come gli altri libri dellabiblioteca di Siemiradzki si trovano ora presso l’Accademia Polacca delle Scienze a Roma.Grazie alla sua profonda conoscenza dell’arte antica il Siemiradzki restituì in Le torce di Nerone unavisione affascinante, anche se un po’ eclettica, dell’epoca dei primi cristiani, composta da vari motivirisalenti non solo ai tempi di Nerone e dei suoi predecessori, ma anche al tardoantico. EugeniaQuerci aveva notato giustamente che nel dipinto “in una spettacolare ambientazione architettonica,sorprende il futuro Vittoriano a Roma”. Accanto alle ‘citazioni’ oltremodo interessanti dai famosirilievi degli archi di Tito e di Marco Aurelio appare inoltre il richiamo all’Arco di Costantino (fig. 15)con le statue dei Daci che ne caratterizzano l’attico e alla lettiga di Nerone, che affascinava Ciseri eMussini, ispirata ai resti di una lettiga effettivamente recuperata in quegli anni negli scavisull’Esquilino con qualche motivo sul baldacchino tratto dall’arte delle città vesuviane. La lettiga,dipinta da Siemiradzki anche nel quadro La Dirce cristiana, è l’unico oggetto antico di questo tipopervenuto fino ai giorni nostri. Siemiradzki sicuramente la vide nella ricostruzione di AugustoCastellani; prima venne esposta nel Museo dei Conservatori e ora, da qualche anno, si trova pressola Centrale Montemartini. Per ricreare l’atmosfera di lusso tipica dell’età neroniana il pittore si servìdi numerosi oggetti rinvenuti durante gli scavi di Pompei ed Ercolano. Qua e là si vedono splendidiaskòi ercolanesi (fig. 13) ed oinochoai, armi gladiatorie, cembali, due skyphoi, qualche bellissimacoppa d’argento. Se nel quadro non fossero raffigurati tutti questi oggetti, noti al pittore grazie allesue visite al Museo Archeologico di Napoli e a qualche pubblicazione edita all’ombra del Vesuvio,esso non potrebbe ritenersi – per così dire – completo. Anche le sculture raffiguranti Sfinge eCentauro sono state esemplate sulle opere antiche, che Siemiradzki aveva visto in diversi musei o neitanti libri che possedeva.In Le torce di Nerone spicca un particolare ideato sicuramente a ridosso del Colosseo, là dove, difronte ai ruderi della Domus Aurea, si ergono famosi archi trionfali. Il particolare del dipinto diSiemiradzki da mettere in luce è un rilievo con la scena di trionfo, posto sulla sinistra a ornamentodel piedistallo di un’enorme statua, verosimilmente il Colosso di Nerone (fig. 17). Anche se il rilievo èin parte modellato su quello dell’Arco di Tito il personaggio è di certo Nerone, in ragione della cetratenuta in mano; con questo strumento lo mostrano, tra l’altro, alcune monete coniate nel 60 d.C. ca.L’imperatore, in piedi sul carro, è incoronato dalla Vittoria e preceduto da un trombettiere e dalla deaRoma. A guardarlo con più attenzione il rilievo dipinto da Siemiradzki si rivela affine a quello deltrionfo di Marco Aurelio, conservato nel Palazzo dei Conservatori; simili i cavalli, il trionfatore e il

52 10. Henryk H.Siemiradzki, Le torce di Nerone, particolare

11. Thomas Couture, I Romani delladecadenza, particolare,1847, olio su tela, cm 472 x 772. Parigi,Musée d’Orsay

belle, tutte vere, e che mentre rispondono nell’insieme al sentimento generale che le anima, hanpure il merito di serbare ognuna l’individualità propria”.L’autore di questa fine descrizione ha saputo dunque individuare le ragioni del successo delgrande dipinto, che già nello studio del pittore in via Margutta 5 era diventato celebre: “In quelledue scene sì opposte e sì abilmente riunite in un solo concetto artistico, v’è più che la sempliceriproduzione di un fatto storico; v’è tutto lo spirito di un’epoca storica”. A questo punto vale lapena di citare un brano da un’altra recensione pubblicata su “L’Opinione” il 16 maggio 1876, cioèsubito dopo l’apertura della mostra: “La figura di Nerone, notevolmente, è sublime di inumanità:si sente il despota al quale niente e nessuno resiste [...] Un francese, ammirando questo quadro,diceva con un raro e giusto spirito di giustizia: ‘È superiore al rinomato quadro del nostroCouture: Les Romains de la décadence (fig. 11); perché il grande pittore francese benché abbiaintitolato la sua opera con un nome antico, ha dipinto dei francesi del tempo di Luigi Filippo,allo stesso modo che Racine metteva sulla scena i francesi della corte di Luigi XIV sotto il nomedegli eroi di Grecia e di Roma. Così la donna eroicata del Couture, la quale lascia vedere tantastanchezza e che a giusta ragione fu ed è da tutti ammirata, non è una romana dell’impero mauna francese del demi-monde, la signora dalle Camelie. Nel quadro di Siemiradzki non si sentesolo il disgusto d’una società che s’annoia ma la vanità morale d’un mondo che finisce’.Aggiungeremo che il signor Siemiradzki, nella sua pittura, come Shakespeare nella tragedia, haun vero e profondo sentimento dell’antichità romana [...] Il titolo scelto di Siemiradzki è: Le luminarie di Nerone, ossia i supplizi dei primi martiri cristiani. Sulla cornice si legge il mottosacro: Et lux in tenebris lucet et tenebra eam non comprehenderunt”.La creazione del grande dipinto e la sua fortuna presso italiani e stranieri sono note grazie anumerose lettere inviate dal pittore ai suoi genitori. “Molta gente – scriveva Siemiradzki verso lafine del 1875 – vuole visitare il mio studio, perciò ho dovuto attaccare sulla porta l’avviso che ricevosoltanto la domenica dall’una alle cinque del pomeriggio, e da tre domeniche nell’atelier, nelle oreindicate, c’è una folla di curiosi”. Nel marzo o aprile del 1876 il pittore informava i genitori: “Hoappena finito il [mio grande] quadro e sto già diventando famoso tra i pittori di Roma; mi hannofatto visita nello studio Morelli e Alma Tadema [...]”. Come venne studiata e ammirata la suaopera da parte degli artisti lo racconta un pittore senese, Antonio Ciseri: “[...] io e [Luigi]Mussini si saltò la barriera che era davanti al quadro per analizzare da vicino il modo di fare delpittore perché Mussini diceva che nella lettiga di Nerone vi era sotto l’argento e poi velato”.L’ ‘ideazione’ del quadro deve essere durata assai a lungo, come dimostrano i molti disegnipreparatori, finora in gran parte inediti, conservati presso i musei di Varsavia e di Cracovia. Traquesti si trova anche un disegno raffigurante Nerone e Poppea su un cocchio. Esistono poi bozzettisu tela, come quello esposto nel 2007 a Siena nella mostra dedicata a Mussini, che danno lapossibilità di capire lo sforzo del pittore per creare una visione del tutto originale. Successivo è undisegno in cui le due parti – cristiana e pagana – sono chiaramente divise; questa idea finale eragià apparsa anche su un bozzetto, ora in una collezione privata (fig. 12). Siemiradzki,

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55in alto15. Roma, Arco diCostantino con le statuedei Daci

16. Henryk H. Siemiradzki,Le torce di Nerone,particolare

in basso17. Henryk H. Siemiradzki,Le torce di Nerone,particolare

18. Rilievo da unmonumento in onore di Marco Aurelio conl’adventus dell’imperatoresull’attico dell’Arco di Costantino

Renan pubblicato nel 1873. Questi racconta come a Nerone fosse venuto l’uzzolo di comporre alcirco un quadro vivo del famoso gruppo ellenistico raffigurante Dirce, regina di Tebe, punita daifigliastri Anfione e Zeto che la legano alle corna di un toro. Vittima del capriccio imperiale è unagiovane cristiana. Siemiradzki si concentra sul momento in cui Nerone, annoiato dalla monotonacorsa del toro, ordina ai gladiatori di abbatterlo. Mentre la servitù scioglie i lacci che legavano allacoda della bestia la povera vergine in fin di vita, Nerone le passeggia accanto e con fare circospettovaluta il fascino della tragica fine dello spettacolo.“Sempre più spesso sento dire – scriveva Siemiradzki – di aver attinto il motivo della mia Dircecristiana dal romanzo Quo vadis di Sienkiewicz. Nulla di più errato. Ho cominciato a dipingerequesto quadro oltre dieci anni fa, quindi dieci-quindici prima della pubblicazione del celebreromanzo. […] Distratto da altri, improrogabili impegni, ho spesso abbandonato questa mia tela,tant’è che soltanto da ultimo ho potuto mettermici di buona lena. Peraltro, pur condividendol’unanime e meritato apprezzamento per il romanzo di Sienkiewicz, riterrei malproprio che

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13. Henryk H. Siemiradzki,Le torce di Nerone,particolare

14. Henryk H. Siemiradzki,Le torce di Nerone,particolare

trombettiere sullo sfondo di un arco. La dea Roma di Siemiradzki, con l’elmo in testa e un bastonenella mano destra, prende molto da quella di un altro rilievo di Marco Aurelio raffigurante un suoadventus, posto a ornamento dell’attico dell’Arco di Costantino (fig. 18), nonché del rilievo della basedella Colonna di Antonino Pio, ora nei Musei Vaticani. Anche gli elmi dei soldati attorno alla lettigadi Nerone sono citazioni di quelli rappresentati sui rilievi provenienti dell’Arco di Marco Aurelio, inparticolare quello con la sottomissione di barbari all’imperatore. Va inoltre osservato che il gladiatoreraffigurato accanto al basamento del Colosso di Nerone, “che guarda alla scena con occhiomelanconico e irrequieto” porta gli schinieri e l’elmo di bronzo della medesima foggia di quelli trovatinel quadriportico dei Teatri di Pompei, ora nel Museo Nazionale Archeologico di Napoli.

La Dirce cristianaLe torce di Nerone hanno portato a Siemiradzki una fama internazionale; ma in effetti tutte leopere eseguite fino alla morte del pittore nel 1902 rimasero, in qualche modo, nel cono d’ombraproiettato da questo capolavoro. Il cristianesimo ai tempi di Nerone era nondimeno tornato alcentro delle sue tele ancora nel 1899, quando venne eseguito un altro bel quadro, Le future vittimedel Colosseo. Due anni prima il nostro pittore aveva dipinto la celebre Dirce cristiana (cm 263 x 534),in cui compariva di nuovo il crudelissimo imperatore (fig. 19). Ecco l’opera nella descrizione delmaestro: “La ragazza, legata al toro con corde ricoperte di fiori, mezza morta per timore, vergognae dolore. L’animale, ucciso dai gladiatori, gronda di sangue. Lo spettacolo è finito. Nerone si adagiasu una lettiga dorata. Ordina agli schiavi numidici di portarlo sull’arena. In compagnia del prefettodel pretorio, il terribile e dissoluto Tigellino, e qualche altro cortigiano, l’imperatore si avvicina alcadavere della martire cristiana, ammirando quel gruppo mitologico, di rara e plastica bellezza, cheaveva fatto riportare in vita”.Per studiare la composizione di La Dirce cristiana, come era accaduto nel caso di Le torce diNerone, Siemiradzki eseguì molti disegni preparatori oggi conservati presso il Museo Nazionale diVarsavia e un bozzetto custodito in uno dei musei di Silesia: in essi la bella martire è legata allaschiena del gigantesco animale in corsa furiosa; v’è anche un possente uomo seminudo che seguela bestia. Forse in questa versione il pittore avrebbe voluto avvicinarsi alla famosa descrizione diEnrico Sienkiewicz nel suo più celebre romanzo; quindi l’uomo che insegue il toro potrebbe essereinterpretato come Ursus. L’architettura del circo è completamente diversa da quella raffiguratanella versione finale e Nerone si trova ancora tra gli spettatori del drammatico evento. Siemiradzkidecise poi sapientemente di rappresentare la scena finale: il toro e la martire sono già morti e ilcrudele imperatore si è avvicinato per osservarli meglio. Si sa che il pittore per dipingere le suegrandi tele usava vari accessori, fotografie ecc. e che per l’occasione si recò addirittura da unmacellaio a studiare attentamente i diversi atteggiamenti dei tori ancora vivi e di quelli già uccisi.Nell’ultimo bozzetto, che è conservato presso il Museo Nazionale di Cracovia, già appare lasoluzione finale con un gruppo di persone sulla destra.Il dramma raffigurato nel dipinto si svolge nel circo di Caligola e Nerone, dove ora sorge la basilicadi San Pietro. Ispirandosi ai quadri del Tintoretto l’artista dipinge il circo di sbieco. In basso,nell’angolo destro, i gladiatori che, ucciso il toro, guardano compassionevoli la bella martire; e conlei sembrano ricollegarsi idealmente al lato destro, “cristiano”, di Le torce di Nerone. Accanto aigladiatori una lettiga: l’abbiamo già vista, è quella delle Torce. Nerone, obeso come lo descriveSvetonio, a prima vista suscita ribrezzo, al pari di Tigellino che gli sta accanto. Il senatore in fondoa sinistra potrebbe essere – suggerisce Witold Dobrowolski – Seneca. Non potendosi rifare anessun modello, nel dipingere il circo l’artista si avvale di svariati motivi, tra cui il cortile ad arcatedi Palazzo Venezia con la torre della chiesa di San Marco (fig. 20). Non meno affascinanti i rilievi aornamento della balaustra e, su di essa, i candelabri con sfingi, forse esemplati su un candelabrorinascimentale conservato a Firenze nel Bargello, mentre i piccoli rilievi figurati richiamano ifamosi rilievi con le fatiche di Ercole della facciata della basilica di San Marco a Venezia. Una certa‘venezianità’ del quadro sembrerebbe voluta: infatti, dopo la presentazione a Roma (come diversealtre mostre di Siemiradzki, presso l’Acquario in piazza Fanti, accanto ai resti delle MuraServiane), il dipinto sarebbe stato esposto nella città lagunare.Tutti abbiamo trepidato per Ursus, che nel capitolo LXVI di Quo vadis sfida il gigantesco toro alcui corpo è legata la bella Licia. Sienkiewicz e Siemiradzki, che erano amici, fecero tesoro dellalettura di Tacito, Svetonio e Cassio Dione, ma anzitutto del celeberrimo L’Antéchrist di Ernest

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5720. Roma, PalazzoVenezia, cortile

la prima traduzione italiana di Quo vadis?. “Il romanzo – scrive Maria Bersano Begey – ottenneun successo che non ha paragone con quello di nessun altro libro, né italiano né straniero, fattaeccezione per I promessi sposi [...] Dal 1899 al 1939 si contano nei repertori bibliografici nonmeno di settanta edizioni del Quo vadis?, ma molte ristampe sono sfuggite al controllo, senzacontare quelle fatte alla macchia, sì che siamo ben lungi dall’esagerare ipotizzando fino a centoedizioni [...] Si studiarono anche le fonti storiche del romanzo, Orazio Marucchi fece una dottaintroduzione storico-archeologica all’edizione Desclée Lefebvre”. La casa editrice Detken eRocholl di Napoli dopo aver venduto trentamila copie di Quo vadis regalò allo scrittore una copiain bronzo del famoso gruppo ellenistico raffigurante Dirce.

Le future vittime del Colosseo“Nessuno dipinge così come Siemiradzki il movimento dei raggi del sole, scriveva Sienkiewicz”. Ilgrande scrittore aveva in mente un dipinto intitolato La danza tra le spade del 1879, ma lo stessovale per Le future vittime del Colosseo (fig. 22). In questo bellissimo dipinto è rappresentato inprimo piano un gruppo di persone che ascoltano attentamente la lezione di un vegliardo barbuto(probabilmente uno dei seguaci di San Pietro o San Paolo). Sullo sfondo vengono raffiguratealcune costruzioni romane, tra cui il Colosseo accanto al quale spunta un enorme monumento daicaratteristici raggi attorno al capo. È senza dubbio il famoso Colosso di Nerone in veste di Sole,eretto da Zenodoros, con una statua di Vittoria nella mano destra, da cui deriva il nome del piùconosciuto anfiteatro del mondo antico. Per dipingere il Colosso, ormai scomparso da secoli,Siemiradzki – possiamo essere certi – non si era limitato a leggere Svetonio (Nerone, 31, 1) e Plinioil Vecchio (Storia naturale, 33, 45) ma aveva anche studiato le fonti iconografiche, le moneteantiche, come quella di Gordiano III, e le ricostruzioni ottocentesche. Nel dipinto in esame ilColosso si erge molto vicino all’Anfiteatro Flavio: quindi vediamo la situazione in essere dopo lospostamento della statua dal centro dell’atrio della Domus Aurea, avvenuto in età adrianea, tra il126 e il 128 d.C., a causa della costruzione del Tempio di Venere e Roma. Ma esistono disegnipreparatori di Siemiradzki che non lasciano alcun dubbio in merito alla sua conoscenza dellacollocazione originaria della statua ai tempi di Nerone. In uno schizzo vediamo il Colosso assaidistante dall’anfiteatro con il volto rivolto ad esso, né il pittore ha omesso la nota fontana con lasua forma conica – la Meta Sudans – ricostruita solo in età domizianea (fig. 21).La gigantesca statua dorata, il Colosseo e la Domus Aurea fanno grande impressione ma dallabocca del pedagogo cristiano, che tiene nella mano sinistra un rotolo con gli scritti in greco, esconole parole che hanno la forza di cambiare il mondo. Le donne che gli siedono di fronte e il

56 19. Henryk H. Siemiradzki,Dirce cristiana, 1897, olio su tela, cm 263 x 534.Varsavia, Museo Nazionale

un’opera pittorica di vaglia prendesse lo spunto da un romanzo. Quanto all’affinità di contenuto, lasi spiega facilmente: il pittore e lo scrittore ricompongono il passato studiando i medesimipersonaggi e quadri. Quanto a me, l’idea di dipingere la mia Dirce mi è venuta leggendoL’Antéchrist di Renan. Nel capitolo Massacre des chrétiens. L’esthétique de Néron ho trovato ladescrizione della mia scena, tratta dalle testimonianze di Clemente romano e Igino. Lo stesso fattostorico, le medesime fonti hanno suggerito a Sienkiewicz la sua Licia, a me Dirce”.A questo punto vale la pena di ricordare che nella nota e preziosissima, anche se non del tuttochiara, epistola ai Corinzi di Clemente, vescovo di Roma, datata solitamente verso il 96 d.C.,vengono menzionati quadri vivi, messi in scena durante una persecuzione dei cristiani, ispiratidalle opere d’arte o sui miti. Il quinto e il sesto paragrafo della lettera permette di comprendereperché Dirce fu scelta per il crudele spettacolo. Qui il vescovo, che lancia un monito contro lagelosia, parla dei martiri della sua generazione, che soffrirono per essa. Vengono menzionati Pietroe Paolo, condannati a morte al tempo di Nerone, e le donne che subirono la persecuzione a causadella gelosia, testimoniando la loro fede al modo delle Danaidi e di Dirce. “Qui si apre – scriveEdward Champlin (2008), seguendo le osservazioni di K.M. Coleman (1990) – un preziososquarcio sulle ‘farse fatali’ dello spettacolo; il contesto è sicuramente neroniano perché l’unicapersecuzione dei cristiani organizzata in modo tale da provocare sofferenze infinite su vasta scala,per non dire in maniera teatrale, fu quella di Nerone dopo il grande incendio. E ciò vuol dire chequi l’anonimo drammaturgo deve essere Nerone”. Infatti Dirce avrebbe trovato facilmente postonello spettacolo di Nerone e la sua tragica storia rispondeva bene alle aspettative degli spettatori.Nel caso della morte di Dirce si trattava di una pena particolarmente significativa per gli incendiarinel 64. “Di tutta la devastazione – continua Champlin – causata dal grande incendio, Cassio Dionenomina soltanto quella del Palatino e la distruzione del primo e – fino ad allora – unico anfiteatropermanente di Roma, quello costruito nel Campo Marzio nel 26 a.C. dal fortunato generale diAugusto, Statilio Tauro. Questo importante monumento era noto, come dice Dione, col nome diamphitheatrum Tauri, l’anfiteatro di Tauro, o, letteralmente, anfiteatro del Toro. Per i romaniappassionati di esecuzioni, la morte per opera di un toro infuriato inflitta a coloro che avevanodistrutto l’anfiteatro del Toro doveva essere il colmo dei giochi di parole.”Il 13 marzo del 1897, durante una visita nello studio dell’artista la regina Margherita, che sirecava a tutte le mostre delle opere di Siemiradzki, scrisse queste parole nell’Album degli ospiti(ora conservato presso il Museo Nazionale di Cracovia): “Margherita in ammirazione davanti allaDirce cristiana.” In seguito, nel 1898, il re Umberto II nominò l’artista commendatore conl’onorificenza di San Maurizio e San Lazzaro. Poco dopo, nella primavera del 1899, fu pubblicata

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5958 21. Henryk H. Siemiradzki,Veduta con il Colosso di Nerone e il Colosseo,disegno, ca. 1898.Cracovia, Museo Nazionale

22. Henryk H. Siemiradzki,Le future vittime delColosseo, 1899, olio su tela, cm 142 x 198,5.Varsavia, SeminarioVescovile

compagno che gli sta accanto ascoltano con grande attenzione; dal volto di una di loro traspareuna profonda conversione spirituale. Con questo quadro, di formato molto ridotto rispetto a Le torce di Nerone e alla Dirce cristiana, il pittore polacco, per il quale l’Italia fu la seconda patria,pose fine alle sue straordinarie visualizzazioni dei tempi di Nerone, temi e soggetti che fin dal 1872gli erano stati cari e grazie ai quali divenne uno dei più famosi pittori del secondo Ottocento.

Nerone a Baia di Jan StykaJan Styka (1858-1825) è un pittore ormai quasi completamente dimenticato, salvo forse a ForestLawn nei pressi di Los Angeles, dove si trova la sua gigantesca opera Golgota (m 12 x 50) del1896. Il 28 aprile 1935 su “L’Osservatore Romano” era stato tuttavia pubblicato un bel testo su dilui: “Alla Galleria Angelelli, in via del Babuino 41, si è aperta una mostra postuma di opere delpittore polacco Jan Styka. La produzione di questo artista, il quale, nato in Polonia nella secondametà dell’Ottocento, morì nel 1925 a Capri, dove da vari anni viveva e dove esiste un museo cheraccoglie quadri e disegni suoi, è qui solo ed in piccola parte rappresentata, ché le opere sue piùimportanti e significative andarono ad ornare gallerie e musei di Europa e di America, e molte sitrovano in Francia, ove il pittore fece lunga dimora. […] Allievo di Jan Mateiko, prix de Rome,accademico di San Luca, decorato della Legion d’onore, Jan Styka godette larghissima rinomanzae stima; lavorò in Polonia, in Italia, in Francia ed in Palestina; della propria patria illustrando neisuoi quadri le epiche gesta e le battaglie, glorificandone gli eroi; a Roma eseguendo varie tele disoggetto cristiano – quella, fra le altre, di imponenti dimensioni, intitolata Martiri cristiani alcirco di Nerone, che, acquistata dal Museo di New York, doveva sventuratamente perire fra lefiamme; portando a termine, in Francia, la poderosa opera di illustrazione dell’Odissea di Omero,oltre ad altri quadri, e numerosi ritratti; studiando, in Palestina, i sacri luoghi della Passione diNostro Signore, dai quali trasse la famosa tela intitolata Il Golgota che tanta unanimeammirazione doveva suscitare”.È stato Styka a dipingere molti quadri ispirati dal Quo vadis?. Il pittore allestì nella sua VillaCertosella sull’isola di Capri un museo dedicato al capolavoro letterario di Sienkiewicz in cui eranoesposte ventidue grandi tele che furono riprodotte in alcune edizioni italiane di Quo vadis? Tuttiquesti quadri furono inoltre illustrati nella pubblicazione intitolata Museo Quo vadis? Opere di JanStyka. Capri Villa Certosella (Napoli 1925, ed. D. Trompetti). Tra i più interessanti sono quelliraffiguranti Nerone e la scena dell’incontro di San Pietro con Cristo sulla Via Appia quandol’apostolo pone la famosa domanda: Quo vadis Domine? In essi lo sguardo truce dell’imperatorecontrasta con la straordinaria luminosità di Nostro Signore. In questa sede possiamo trattare di unsolo dipinto, Nerone a Baia, che fa parte della mostra.Nel quadro il giovane Nerone è seduto su un trono di marmo e intento a contemplare il golfo diNapoli con il Vesuvio, fumante, sullo sfondo. I primi raggi dell’alba colorano di rosa le acque delmare, distese e calme, le poche nuvole, la tunica bianca del Cesare appesantito (fig. 23). Il viso èlugubre; alle sue ginocchia si stringe, ad occhi socchiusi, una bella tigre striata. Li accomuna lamedesima violenza, appena celata. Il pittore indugia sul parallelo tra il vulcano pronto a esploderein ogni momento, Nerone, il cui carattere è un tetro mistero, e la belva che pur desiderosa di carezzeè sinonimo di forza e crudeltà. I braccioli del trono, in forma di teste di capro a simboleggiare latragedia, stanno forse a evocare la passione del despota per il teatro. È noto che Napoli e i dintornidi questa città gli erano tanto cari da indurre gli architetti Severo e Celere, che progettavano per luila Domus Aurea, a richiamarsi ai paesaggi di Baiae nel dar forma al terreno in cui andavanoedificando la sua residenza. Fonti antiche informano che egli si era esibito in pubblico per la primavolta proprio nel teatro di Napoli, riscuotendo un singolare successo. “Si esibì per la prima volta aNapoli – scrive Svetonio – e non terminò di cantare prima di aver finito il suo pezzo, nonostanteun’improvvisa scossa di terremoto avesse fatto tremare il teatro. In quel medesimo teatro cantònumerose volte e per diversi giorni [...] (Nerone, 20, 2). A Baia si compì inoltre un evento crudele etragico. Proprio lì Nerone decise di uccidere la madre e forse il dipinto di Styka illustra il passo diSvetonio in cui si legge: “[...] in modo che ella morisse o per naufragio o per il crollo di ponte;fingendo quindi una riconciliazione, la fece venire a Baia [...] e quando la madre volle ritornare aBauli, le mise a disposizione la nave truccata [...] Passò il rimanente della notte vegliando, pieno diagitazione, e attendendo l’esito dell’impresa [...] (Nerone, 34, 1-3).

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l’artista può essere considerato al contempo il pittore della gente italiana e del paesaggio italiano.Il nostro pittore fu anche il cicerone di Sienkiewicz durante i suoi soggiorni romani.Sienkiewicz venne per la prima volta a Roma nel 1879 e vi trascorse quasi tutto l’ottobre. La suabellissima Lettera da Roma, pubblicata nello stesso anno, è il principale documento rivelatoredelle sue prime “osservazioni” romane. Questa lettera è – come ha scritto Bronisl⁄aw Bilin vski – unelemento importante anche per la comprensione della genesi di Quo vadis?, poiché in essa sonopresenti quasi tutti le componenti fondamentali del romanzo e soprattutto la sua idea centrale: larelazione dello spirito umano contro l’idea dello Stato rappresentato da Nerone che inghiottetutto. “Sulle rovine del Foro – scrive Sienkiewicz – si leva la maestosità indescrivibile di ungrande passato [...] con questo canto tutto intorno a me, io mi inoltravo nel Foro Romano, nelgrande sepolcro dell’antichità; e mi commuovevo al vedere spalancato davanti ai miei occhi ilsublime libro dell’epos romano, scritto a marmi e rovine [...] Là per la via Sacra passavano i carridei trionfatori; e, dietro ad essi, venivano incatenati, i re dei barbari, ripensando mestamente alleselve native [...]”. Dal Foro lo scrittore passa al Colosseo e così scrive: “[...] l’imperatoreVespasiano eresse un così splendido Colosseo, e Tito fece che vi si sbranassero reciprocamentemigliaia di schiavi e di bestie feroci. Il popolo era soddisfatto [...] Il popolo amava perfinoNerone che gli serviva insieme da imperatore e da primo commediante [...] Dai cunicoli delColosseo usciva fuori ogni notte il ruggito dei leoni. Oggi, questa immensa rovina è deserta eabbandonata; ma a quei tempi, tra i ruggiti delle belve e il rantolo dei moribondi, novantamilagole urlavano, centocinquantamila mani applaudivano, le dita s’innalzavano in alto o in basso, igladiatori ripetevano il loro Ave Caesar, morituri te salutant”.Il secondo soggiorno romano dello scrittore avvenne nel 1886, durante il viaggio di ritorno dallaGrecia, quando, attraverso Brindisi e Napoli, Sienkiewicz raggiunse Roma da sud. Le seguentivisite ebbero luogo negli anni 1893-1894. Un giorno sulla Via Appia, non molto lontano da PortaCapena, Siemiradzki aveva mostrato a Sienkiewicz una piccola chiesetta, dove c’era un po’ corrosadal tempo, un’iscrizione nella quale lo scrittore aveva finalmente trovato il titolo della sua opera.In una lettera del 1912 inviata al critico francese Boyer d’Agen, Sienkiewicz scriveva: “L’idea del‘Quo vadis?’ è sorta in me durante la lettura degli Annali di Tacito che è uno dei miei autoripreferiti, e durante un più lungo soggiorno a Roma. Il famoso pittore polacco Siemiradzki che, aquei tempi, abitava a Roma, è stato la mia guida per la Città eterna e durante una delle nostrepasseggiate mi ha fatto vedere la cappella ‘Quo vadis?’. Fu allora che mi venne in mente discrivere un romanzo su quest’epoca e ho potuto realizzarlo grazie alla conoscenza delle originidella chiesa”.In questo “dialogo” tra il pittore e lo scrittore dopo il trionfo di Le torce di Nerone nascevano Quovadis? (1893-1895) e La Dirce cristiana (1892-1897). Entrambi contestualizzarono i materialiattinti da Tacito, Svetonio e Cassio Dione ma prima di tutto dal famoso libro di Renan earrivarono a ipotizzare forse anche una discendenza dei Lechiti (che vuol dire polacchi) dai Lici.Come scrive Luca Bernardini nelle sue osservazioni sull’opera di Sienkiewicz: “La vittoria finale deicristiani sul loro persecutore ha una valenza provvidenziale che rende irrilevante il fatto cheNerone in realtà sia caduto vittima di una congiura di palazzo. Il successo pressoché ininterrotto euniversale del romanzo fin dal suo apparire ha molto a che vedere col funzionamento dellaletteratura apocrifa e la sua capacità di illustrazione e integrazione della vicenda evangelica”.L’auspicio è che la mostra al Colosseo, presso il Foro Romano e sul Palatino rinnovi l’interesse peril capolavoro di Sienkiewicz e apra finalmente la strada a una migliore conoscenza di Siemiradzki,proprio a Roma, dove l’artista dipinse tutte le sue tele, che un tempo godevano di una famainternazionale. Siemiradzki, con Smuglewicz e Styka, potrebbe ripetere infatti le parole di EnricoSienkiewicz scritte nella sua novella Sulla costa luminosa: “Ogni uomo ha due patrie: la prima è lapropria, l’altra l’Italia”.Per concludere non rimane che citare la chiusa del Quo vadis?: “E così passò Nerone, come unabufera, come un uragano, come una fiamma, come passa la guerra o la morte; mentre la basilica diPietro governa ancora, dal colle Vaticano, la città e il mondo. Vicino all’antica Porta Capena c’èanche oggi una cappellina con l’iscrizione, un po’ logorata dal tempo: ‘Quo vadis, Domine?’”.

Vorrei ringraziare Nunzio Giustozzi e Leszek Kazana per la revisione del testo italiano.

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23. Jan Styka, Nerone a Baia, ca. 1900, olio su tela, cm 59 x 80,5.Polonia, collezione privata

Sienkiewicz e Siemiradzki sulla Via Appia, al Foro Romano e al ColosseoÈ stato giustamente notato da numerosi studiosi, tra cui Maria D’Amico, che l’epoca di Nerone,così attraente per l’arte e la letteratura, aveva richiamato su di sé l’attenzione nel Romanticismoed era diventata argomento d’interesse generale verso il 1870. Nel 1866 Józef Ignacy Kraszewski,amico di Siemiradzki e Sienkiewicz, pubblicava un libro poco noto fuori dalla Polonia intitolatoRoma ai tempi di Nerone; nel 1873 in Francia usciva L’Anticristo di Renan econtemporaneamente in Italia, a Casal Monferrato, appariva il Mondo antico di Agostino dellaSala Spada, mentre fiorivano gli studi di archeologia cristiana di Orazio Marucchi, GiovanniBattista de Rossi e di padre Semeria. In Germania Karl T. von Piloty e Wilhelm von Kaulbachdipingevano le grandi tele, già menzionate: Nerone dopo l’incendio di Roma (1860) e Nerone e lepersecuzioni dei cristiani (1872). Quindi Siemiradzki portò a termine le sue Torce di Nerone in unclima culturale fra i più propizi, riuscendo a creare magistralmente un dramma che suscitòl’interesse di migliaia di persone in tutta l’Europa.La fama del suo grandioso dipinto non era destinata a tramontare nei decenni seguenti. “Ilpittore ha un vero e profondo sentimento dell’antichità romana [...] Supplizio dei martiricristiani ordinato da Nerone è senza dubbio uno dei più grandiosi capolavori dell’arte moderna.Giammai il terrore, la pietà, l’entusiasmo della fede erano stati ritratti con maggior efficacia epotenza”. Così scriveva il 28 dicembre del 1888 Francesco D’Arcais su “L’Opinione” dopo la visitadella regina Margherita nello studio del nostro pittore. La pittura di Siemiradzki risplendeva diclassico accademismo ma i suoi modelli erano tratti direttamente dal popolo italiano e infatti

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1. Quo vadis?, 1925,film muto diretto da GabriellinoD’Annunzio e GeorgJacoby, trattodall’omonimo romanzodi Henryk Sienkiewicz.Il ruolo di Nerone erainterpretato da EmilJannings

personaggi che si limitano a gesticolare enfaticamente. La sceneggiatura, poi, è alquanto disinvolta neiconfronti della verità storica. Nerone che suona la cetra contemplando le fiamme è ancoraperdonabile, dato che questa leggenda era già ben radicata nell’immaginario collettivo (Gwyn 1991, p. 155, n. 28), ma c’è di più: vediamo il popolo che, sdegnato per l’assassinio di Ottavia, si sollevacontro Nerone, il quale, non sapendo che pesci pigliare, decide come diversivo di incendiare Roma. E poco importa se nella realtà l’incendio avvenne due anni dopo la morte di Ottavia.L’impulso decisivo alla fortune cinematografiche di Nerone venne dalla pubblicazione del Quovadis? di H. Sienkiewicz. Il romanzo uscì originariamente come feuilleton nel 1895 su una rivistapolacca, e poi come volume l’anno successivo, diventando immediatamente un best sellerinternazionale (tradotto in oltre 50 lingue) e assicurando nel 1905 all’autore il premio Nobel.L’opera fornì finalmente ai cineasti un plot ben strutturato entro il quale far muovere Nerone. La prima trasposizione cinematografica del Quo vadis?, realizzata in Francia, si data al 1901. Madurava solo un minuto. Ben altra cosa fu la pellicola girata nel 1912 da Enrico Guazzoni. Si trattadi un vero e proprio kolossal, il primo del genere peplum, che comportò due anni di riprese per2.250 metri di film, con l’impiego di 5.000 comparse e set tridimensionali (non più, cioè, solo telidipinti) che ricreavano l’antica Roma: due ore di proiezione che davano ampio spazio alle scenespettacolari senza sacrificare la complessa trama della vicenda. Le scenografie sono veramentefastose, e le scene circensi hanno un referente colto: i quadri di Gerôme Pollice verso (1872) e I martiri cristiani (1883). È una riprova – se ce ne fosse bisogno – che la visualizzazionecinematografica del mondo antico dipese agli inizi largamente dalla pittura storica del secondoOttocento (Gerôme, appunto, ma anche Leighton, Alma Tadema, Moore, Long, Moreau e altri).Il successo del film fu enorme dovunque. A Londra la prima si tenne alla Royal Albert Hall allapresenza di re Giorgio V. A Broadway restò in cartellone per parecchi mesi. Oltre agli indubbi

62 Il cinema aveva appena emesso i primi vagiti (la creatura dei fratelli Lumière è ufficialmentevenuta al mondo il 28 dicembre 1895), quando, già nel corso del 1896, Georges Hatot,collaboratore dei Lumière, girò il primo peplum della storia: durava 52 secondi, e si intitolavaNeron essayant des poisons sur des esclaves. Da allora Nerone non ha più abbandonato gli schermi.Nel corso di un secolo e passa, al primato cronologico su qualunque altro personaggio storico si èaggiunto il primato quantitativo. Con più di 50 film in cui è protagonista o comprimario (vedi laFilmografia in appendice), Nerone sbaraglia ogni altro concorrente (lo supera solo Gesù Cristo,ma quello gareggia, diciamo così, in un’altra categoria).Le ragioni di tanto successo sono facilmente comprensibili: rappresentare Nerone dà la possibilitàdi mettere in scena un tiranno depravato e istrione, col suo seguito di cortigiani dissoluti eimperatrici libidinose, il tutto sullo sfondo del conflitto epocale tra paganesimo e cristianesimo,con annesso incendio di Roma e martiri dati in pasto ai leoni. Di elementi per far presa sulpubblico ce ne sono perfino troppi, e il cinema li ha saputi sfruttare tutti.Prima ancora del cinema, però, altri generi di spettacolo avevano saputo vendere Nerone allemasse. In Italia dal 1872 veniva rappresentato con successo l’omonimo drammone popolare diPietro Cossa, dal quale ancora nel 1935 Pietro Mascagni trasse il suo Nerone. Per restare al teatromusicale – dove Nerone aveva fatto peraltro un altro ingresso precoce, nel 1642, conL’incoronazione di Poppea di Monteverdi – sono almeno 28 le opere che tra Otto e Novecentohanno portato Nerone sulla scena (anche se nessuna – a dire la verità – è diventata mai popolare:neanche il Nerone di Arrigo Boito, che pure costò a quest’ultimo oltre mezzo secolo di fatiche).Oltre che con il teatro, il cinema ebbe a fare i conti, ai suoi esordi, con un altro potente concorrente: ilcirco (Verdone 1963). Oggi non ne è rimasta molta memoria, ma all’epoca fu un fenomeno di granderilevanza. Verso il 1889, per esempio, il famoso circo Barnum fece una tournée in America e in Europacon uno show intitolato Nero, or the Destruction of Rome (Verdone 1970). Lo spettacolo consisteva inuna serie di quadri, che si susseguivano secondo una vera e propria sceneggiatura: orge imperiali,combattimenti di gladiatori, l’incendio di Roma, e i cristiani trasformati in torce umane. Il realismodelle fiamme costituiva l’attrattiva maggiore di questo genere di spettacoli (un altro blockbuster fu,ovviamente, gli Ultimi giorni di Pompei), tanto che per essi fu coniato un neologismo: pyrodrama.Difficilmente un film come Nero and The Burning of Rome, del 1908, benché realizzato dallatecnologicamente agguerrita Edison Film, avrà potuto reggere il confronto. Né lo poteva il Nerone cheLuigi Maggi girò nel 1909, anche se la sequenza virata in rosso dell’incendio di Roma impressionò lacritica per il suo effetto drammatico. Per il resto il film, che in 14 minuti riesce a comprimere gli eventiche vanno dal 62 al 68, è una giustapposizione di scene maldestramente collegate fra loro, con i

G I U S E P P E P U C C IN E R O N E S U P E R S TA R

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6564 2. Nerone, 1930,diretto da AlessandroBlasetti, scrittoe interpretato daEttore Petrolini

pregi spettacolari, c’è un elemento da evidenziare: è questo il primo di molti film a venire in cui lafigura e l’epoca di Nerone sono lette guardando non solo alla storia antica ma anche alle vicendecontemporanee. Del resto anche il romanzo di Sienkiewicz – acceso patriota – allude, e neanchetroppo velatamente, alla Polonia del suo tempo. L’eroina della storia, che nelle versionicinematografiche italiane ha il nome di Licia, si chiama in realtà Lygia, ed è detta appartenere alpopolo dei Lygii, che in età romana viveva tra l’Oder e la Vistola, cioè nel territorio dell’odiernaPolonia. La celeberrima impresa di Ursus, l’erculeo servo/protettore che salva Lygia dal toro,adombra l’epica vittoria del popolo polacco sul suo storico oppressore, la Germania, assimilata aduna bestia di cieca brutalità, così come nelle persecuzioni dei primi cristiani si rispecchiano lesofferenze della chiesa cattolica polacca.Guazzoni mette in scena il trionfo della Chiesa martire in un momento in cui in Italia rapporti traStato e Chiesa erano materia scottante. C’è una scena particolarmente significativa da questopunto di vista. Quando Vinicio, ormai convertito, si inginocchia davanti a Pietro, sulla tenda che fada sfondo si vede un simbolo: una falce e un’ascia disposti come nel moderno simbolo della falce emartello, quasi a suggerire un’equiparazione tra i cristiani perseguitati da Nerone e i cattolici e isocialisti perseguitati dalla Destra.Proprio questa possibilità di leggere in filigrana riferimenti alla storia contemporanea fu fatale alsecondo significativo Quo vadis? cinematografico: la coproduzione italo-tedesca del 1924 firmatada Georg Jacoby e Gabriellino D’Annunzio, il figlio del Vate. Jacoby era un valido esponentedell’espressionismo tedesco, e l’attore che interpreta Nerone, Emil Jannings, caratterizza congrande professionalità un despota allucinato e protervo, lascivo e codardo (che addirittura tenta distuprare Licia, episodio di cui non c’è traccia nel romanzo) ma, disgraziatamente per loro, la primaebbe luogo a Roma nel marzo del 1925, quando ormai il governo di Mussolini si era trasformato indittatura e il regime, ben consapevole dell’impatto del mezzo cinematografico, non poteva certopermettere che si stabilisse un parallelo tra il Duce e il depravato imperatore romano.Nerone scompare da questo momento dal cinema italiano, per ricomparirvi solo nel dopoguerra.Dagli anni trenta in poi – con un’unica eccezione di cui diremo più avanti – il Neronecinematografico è sostanzialmente americano. In The Sign of the Cross, il film che Cecil BlountDeMille girò nel 1932 ispirandosi all’omonimo lavoro teatrale (1896) di Wilson Barrett, un autorespecializzato nei cosiddetti Toga Plays (su cui vedi Mayer 1994), Nerone è il prototipo del dittatorecrudele e amorale; e perciò, sempre a scanso di equivoci, la pellicola non fu mai distribuita in Italia(ancora oggi non ne esiste una versione nella nostra lingua). Nerone è il grande Charles Laughton,qui curiosamente dotato di un grifagno naso aquilino (“Roman nose”, si dice in inglese) posticcio.La scelta dell’interprete è confome alla tradizione dei film storici americani (non solo di quelliambientati nell’antichità romana) che vuole l’aristocratico ‘cattivo’ interpretato da un attore ingleseo al massimo da un americano che imita l’accento dell’upper class britannica – et pour cause, datoil passato coloniale degli Stati Uniti – mentre il ‘buono’ ha sempre tendenzialmente l’accentoamericano. In The Sign of the Cross al Nerone sussiegoso e arrogante, ma anche sessualmenteambiguo, tratteggiato da Charles Laughton si contrappone il Marco di Frederich March, schietto emacho, e dalla accentuata cadenza yankee. Allo stesso modo, nel successivo Quo vadis? di LeRoy,del 1951 Nerone sarà l’inglese Peter Ustinov, Vinicio l’americano Robert Taylor.The Sign of the Cross ebbe una riedizione nel 1944, in piena seconda guerra mondiale. Perl’occasione fu girato un prologo (purtroppo non mantenuto nella versione oggi in commercio), nelquale due cappellani militari, uno cattolico e uno protestante, sono su aereo americano in volo suRoma per lanciare manifestini di propaganda e conversando col pilota trovano il modo di fargliuna rapida sintesi di storia romana. Arrivati a Nerone dicono: “Nerone si credeva il padrone delmondo. Non si curava delle vite degli altri più di quanto se ne curi Hitler”. E pian piano il fumodell’antiaerea si trasforma nel fumo dell’incendio del 64, davanti al quale vediamo esaltarsil’accidioso Nerone.Dopo che Roma fu liberata dagli Alleati, la propaganda si fece ancora più esplicita. La Paramountideò un manifesto in cui si vedevano degli aerei americani che volando in formazione formavanoin cielo una croce, sotto cui era scritto: “Voi ragazzi avete aggiunto un capitolo glorioso alla piùgrande storia mai raccontata! Roma eterna… premio di conquista attraverso i secoli… ora liberatadalla forza degli eserciti alleati… nelle notti infuocate in cui il tiranno omicida Nerone l’avevadistrutta con le fiamme fra le orge più sfrenate che il mondo abbia mai conosciuto!”.

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3. The Sign of theCross, 1932, diretto da Cecil DeMille,interpretato daCharles Laughton(Nerone) e ClaudetteColbert (Poppea)

4. Quo vadis?, 1951,diretto da MervynLeRoy, interpretato da Peter Ustinov(Nerone), Robert Taylor(Marco Vinicio),Deborah Kerr (Licia)

Per l’uomo della strada l’età di Nerone è un’epoca di lussuria, e DeMille, famoso a Hollywood perla sua sensualità, è ben contento di soddisfarne le aspettative. Famosa è la scena del bagno nel latted’asina di Poppea, interpretata da una conturbante Claudette Colbert, che a un certo punto ordinaad un’amica di spogliarsi e di raggiungerla nella vasca. La scena è audace, ma è ancora poca cosa aconfronto di quella in cui Marco, visti vani i suoi tentativi di sedurre la giovane cristiana Mercia,cerca di farla cedere alle avances saffiche della cortigiana Ancharia. Alla fine la purezza e la fedetrionferanno, ma nel frattempo DeMille ha titillato a dovere il suo spettatore (un’altra scena, doveuna vergine cristiana era buttata tra le braccia di un enorme gorilla, fu però giudicata veramenteeccessiva, e DeMille dovette tagliarla). A ogni buon conto, le direttive impartite dalla produzioneagli agenti commerciali cinicamente suggerivano di vendere l’elemento religioso del film a quelliche andavano in chiesa, l’elemento storico alle scuole, la depravazione alle masse.In Italia, come già si è già detto, la crudeltà e l’immoralità di Nerone non potevano piacere alfascismo. Nel 1937 la Mostra augustea della Romanità avrebbe indicato appunto nel principato diAugusto – vale a dire in un regime autoritario sì, ma benevolmente paternalistico, e soprattuttodifensore della morale – il modello da perseguire. Eppure un’eccezione c’è: il famoso Nerone diEttore Petrolini. Nel film, realizzato nel 1930, apparentemente si sbeffeggia il Duce, parodiandone lamimica e la fraseologia. Tuttavia Petrolini recitava la macchietta di Nerone a teatro già dal 1917, ed’altra parte personalmente era un fascista convinto, al punto che nel 1934 fece perfino domandaper essere nominato centurione della milizia (Petrocchi 1984). Nonostante ciò, il suo Neronequalche imbarazzo lo creava. Come fece notare un gerarca, “che proprio da Roma oggi si debbamandare per il mondo un Nerone di questo genere, un Nerone in stracci, tra l’abbietto e lo scemo,non è cosa francamente tollerabile”. Mussolini però era un grande ammiratore di Petrolini, e gliconferì perfino delle onorificenze (forse anche perché gli conveniva far vedere che stava allo scherzo).Tornando all’America, già negli anni trenta la MGM aveva progettato un remake di Quo vadis?

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695. Mio figlio Nerone,1956, diretto da Steno,interpretato da AlbertoSordi (Nerone) BrigitteBardot (Poppea), VittorioDe Sica (Seneca), GloriaSwanson (Agrippina)

firma un Mio figlio Nerone, che nel suo genere è un capolavoro. I punti di forza sono lasceneggiatura accurata e brillante (vi mise mano, tra gli altri, anche un autore teatrale dellalevatura di Diego Fabbri) e il cast, davvero straordinario. Nerone è Alberto Sordi, che sguazza nelruolo con magistrale gigioneria. Gli fa da spalla (ma mai come qui la definizione è riduttiva) unaltro grandissimo attore, Vittorio De Sica, che tratteggia un Seneca godibilissimo. Assolutamenteirresistibile è la scena in cui il filosofo, messo da Nerone di fronte a una propria lettera (indirizzata,ça va sans dire, a Lucilio), nella quale afferma a chiare lettere che Nerone “canta come un cane”,riesce con pirotecnica dialettica a cambiare le carte in tavola, riguadagnando il favore del sovrano.Poppea è una freschissima Brigitte Bardot, non ancora scoperta, in tutti i sensi, da Vadim.Agrippina invece è una vecchia gloria di Hollywood, niente meno che Gloria Swanson, che benchéormai inoltrata sul Viale del Tramonto, disegna una ‘dama di ferro’ di grande carattere. La tramaruota attorno a un Nerone che, appassionato solo alla musica e al teatro, se ne sta ozioso nella villadi Bacoli, lontano dagli affari di stato e dalla madre invadente. Quest’ultima piomba però nel suobuen retiro, con la ferma intenzione di spingerlo alla guerra contro i Britanni. A Nerone,terrorizzato all’idea di affrontare il rigido clima della Britannia, non resta che provare a eliminarel’ingombrante genitrice. Agrippina dal canto suo vorrebbe sopprimere Seneca e Poppea, colpevolidi fomentare per convenienza le velleità artistiche del figlio. Con il ritmo frenetico di una pochadesi susseguono i tragicomici attentati dall’una parte e dall’altra (compresi il crollo del soffitto e ilnaufragio di tacitiana memoria), tutti naturalmente senza esito. Sconsolata, Agrippina dichiara cherinuncerà a fare di Nerone un condottiero se almeno Seneca e Poppea lo convinceranno a smetteredi cantare! Ma Nerone, non visto, ha ascoltato tutto, e l’epilogo ce lo mostra ghignante davanti aitre busti funerari di Agrippina, Seneca e Poppea, finalmente ridotti al silenzio.Assai più scipito è al confronto l’episodio ‘neroniano’ del film Bianco, Rosso, Giallo, Rosa cheMassimo Mida gira nel 1964, con povertà di mezzi e di idee. Esso apre però la strada al filonecomico-erotico in costume che furoreggerà in Italia negli anni settanta.Si tratta di commediole per palati poco esigenti, dove gags da avanspettacolo offrono il pretestoper esibire le grazie della protagonista di turno. È questo il caso del Satiricosissimo che MauroLaurenti confeziona nel 1970, sulla scia del Satyricon felliniano dell’anno precedente, mettendoEdwige Fenech e Karin Schubert a fianco di Franco e Ciccio, che un viaggio nel tempo catapultanell’epoca di Nerone, con abbondanza di abusati stereotipi.In Poppea, una prostituta al servizio dell’impero, girato nel 1972 da Alfonso Brescia, si fa levasulle nudità di Femi Benussi, allora reginetta del porno soft. Nerone è il compianto VittorioCaprioli, attore di grande talento, che qui dispiega tutta la sua ironia per riscattare il proprio

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Il film si fece però solo nel 1951, fu diretto da Mervyn LeRoy, e fu un successo mondiale. Ancora unavolta la vicenda era letta con precisi riferimenti alla situazione contemporanea, nel trasparente intentodi esaltare il ruolo avuto dagli Americani nel rovesciare le dittature europee (Winkler 1997). Nellafamosa scena in cui Nerone canta davanti a Roma in fiamme il colore nero della sua tunica e le aquileche la contrappuntano non sembrano un riferimento puramente casuale: pare chiara invecel’intenzione di ridicolizzare il dittatore fascista da poco eliminato dalla scena. La pubblicità esaltò losforzo organizzativo richiesto per la realizzazione del film in termini para-militari, parlando diproblemi logistici quali mai un generale aveva affrontato sul campo e sottolineando che le scenespettacolari avevano richiesto la stessa cura per i dettagli che un esercito moderno avrebbe potutoimpiegare per attuare un’invasione di terra o di mare. Fu enfatizzato il fatto che il film era stato giratoin quella Cinecittà che Mussolini aveva costruito come contraltare allo strapotere plutocratico diHollywood, e la MGM si vantò di avere in pratica dato vita ad un proprio piano Marshall per ilrisanamento dell’Italia post-bellica. La manifattura di tanti costumi, l’impiego di tante comparse, tuttodivenne testimonianza della generosità di Hollywood verso la vinta Italia. Perfino il cibo avanzato daibanchetti neroniani fu poi distribuito a enti italiani di assistenza ai bambini poveri.Ma c’è di più. Nel clima di guerra fredda di quegli anni, Nerone diventa addirittura il simbolo delregime totalitario d’oltre cortina. All’inizio del film una voce fuori campo definisce l’anno 64 “un periodo in cui l’individuo è alla mercè dello stato, il crimine si è sostituito alla giustizia e igovernanti rendono schiavi i loro sudditi”; e la pubblicità del lancio avvertì che il messaggio delfilm sarebbe stato utile “nei giorni oscuri che sembrano minacciarci”. Nel 1950, l’anno i cui il filmfu messo in cantiere, la crociata anticomunista in America era al suo culmine e il tema della libertàreligiosa aveva acquistato un significato ideologico preciso. Conseguentemente, la campagnapubblicitaria insisté sul fatto che il film esaltava la pacifica resistenza alla persecuzione di undittatore senza dio. Oggi la cosa può sembrare incredibile, ma oltrecortina il film fu davverosentito come propaganda nemica e pertanto proibito per molti anni.Tuttavia per l’America Nerone non è in quegli anni una figura sempre e soltanto negativa.L’immagine di Nerone che davanti al plastico del Museo della Civiltà Romana (e poco importa sesi tratta della Roma dell’età di Costantino), illustra i suoi progetti per ricostruire la città fu usataper pubblicizzare un’agenzia immobiliare e un’altra pubblicità garantiva che con le mutande Quovadis? chiunque poteva sentirsi Nerone.In ogni caso, a prescindere dai risvolti propagandistico-ideologici, quello di LeRoy è un gran belfilm. Merito soprattutto di un cast di attori formidabili, tra cui spicca Peter Ustinov, forse il piùgrande Nerone cinematografico di tutti i tempi (ma anche il Petronio di Leo Genn è assolutamenteperfetto). Il carattere dell’imperatore è delineato in tutta la sua complessità psicologica, anche piùefficacemente che in Sienkiewicz. Gli stereotipi sono rispettati, ma senza le banalizzazioni a cui ciavevano abituato le versioni precedenti.Lo stesso anno in cui usciva il Quo vadis? di LeRoy, nel 1951, Cinecittà sfornava un altro filmispirato a Nerone: O.K. Nerone, di Mario Soldati. È triste che un intellettuale della statura diSoldati si sia reso responsabile di un tale obbrobrio. L’unica spiegazione possibile è che avesse undisperato bisogno di soldi. La storia, improbabile, è quella di due giovanotti dei giorni nostri chefanno una specie di viaggio nel tempo e si ritrovano nella Roma di Nerone. Nell’insipida farsa èpurtroppo coinvolto un attore del calibro di Gino Cervi, che qui fa appello a tutte le risorse delmestiere per dare dignità al suo Nerone. Due anni dopo Cervi tornò a vestire i panni di Nerone inun film ‘serio’: Nerone e Messalina di Primo Zeglio. La co-protagonista, interpretata da unaYvonne Sanson in quel momento all’apice della sua popolarità, non è la più famosa ValeriaMessalina, la lussuriosa moglie di Claudio, bensì Statilia Messalina, terza moglie di Nerone. Laspericolata sceneggiatura ne fa qui inizialmente l’amante di Britannico. Nerone se ne invaghisce, lastrappa al fratellastro e la sposa, facendo poi uccidere Britannico che aveva tentato di ribellarsi. Inrealtà Nerone fece uccidere Britannico nel 55 – ben undici anni prima di sposare Messalina –quando questi aveva solo quattordici anni. Sommando assurdità ad assurdità, il film fa arrivarenelle mani dell’imperatore una lettera di san Paolo (ma nel IV secolo fu effettivamente messo incircolazione un carteggio apocrifo tra san Paolo e Seneca), ed è proprio nel bruciare quest’ultimache egli dà accidentalmente origine al disastroso incendio del 64.Tuttavia nel dopoguerra il cinema italiano preferisce decisamente proporre il personaggio diNerone in chiave comica. Nel 1956 un artigiano di indubbio mestiere, Steno (Stefano Vanzina),

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7170 8. A.D. Anno Domini,1984-85, sceneggiatotelevisivo direttoda Stuart Cooper,sceneggiatura diAnthony Burgess e Vincenzo Labella,interpretato daAnthony Andrews(Nerone) e AvaGardner (Agrippina)

6-7. Imperium:Nerone, 2004,sceneggiato televisivodiretto da PaulMarcus, interpretatoda Hans Matheson(Nerone), LauraMorante (Agrippina)Elisa Tovati (Poppea)

coinvolgimento in una pellicola tanto al di sotto di lui. Altri film degli anni settanta sono ancorameno presentabili. Inutile spendere parole, per esempio, per un Nerone del 1976, con PippoFranco che riduce Nerone a un personaggio da cabaret ed Enrico Montesano che fa di Petronioun gagà da macchietta napoletana, con paglietta, monocolo ed erre moscia.Né va meglio fuori d’Italia. Gli episodi The Romans della serie televisiva inglese Doctor Who(1965), imperniata sui viaggi dei protagonisti in differenti epoche della storia, inscenano anch’essiun Nerone di maniera, in un contesto che vorrebbe mescolare la comicità plautina con l’humourbritannico, senza riuscirci. Da un’altra serie televisiva inglese nasce Up Pompeii (1971), cheinfischiandosene allegramente della cronologia fa assistere Nerone all’eruzione del 79 e dove lamigliore battuta che gli viene messa in bocca è: “Aspetta di vedere cosa ho in mente per Roma!”.Non si può a rigore includere nella filmografia neroniana, come invece qualcuno ha fatto,l’episodio romano di La pazza storia del mondo – Parte I di Mel Brooks (1981), dal momento cheil grottesco imperatore interpretato da Dom DeLuise non è mai chiamato col nome di Nerone,anche se quello è chiaramente il modello di riferimento. In ogni caso il risultato è molto modesto.Notevole invece, pur nella sua brevità, il ruolo che Nerone ha nella serie I, Claudius che la BBCtrasse verso la metà degli anni settanta dall’omonimo romanzo di Robert Graves e dal suoseguito, Claudius the God. Nerone è ancora un ragazzo quando Agrippina riesce a farlo adottareda Claudio, con una facilità di cui essa stessa pare stupirsi. Ma l’anziano imperatore ha una suaragione segreta per favorire il disegno dell’intrigante consorte. Nel neghittoso, grassoccioadolescente che Agrippina si illude di manipolare per regnare di fatto dopo la sua morte egli hagià visto il despota depravato e sanguinario che diventerà da adulto; e paradossalmente proprioper questo gli spiana la via, confidando nel fatto che una volta asceso al trono si abbandonerà atali eccessi da provocare la fine dell’impero e la restaurazione della repubblica, cosa che egli incuor suo auspica.Inoltrandosi negli anni ottanta, è ancora la televisione a offrirci qualche Nerone degno diconsiderazione. Il primo è quello che compare nella serie americana A.D. Anno Domini, del1984/85, creato da due sceneggiatori di grande esperienza e cultura come Anthony Burgess eVincenzo Labella. Particolarmente ben reso dal punto di vista psicologico è il rapporto tra Neronee Agrippina. Questa gli ha insegnato tutto, ma l’allievo ha superato il maestro. E quando la madre(una splendida, matura Ava Gardner qui alla sua ultima interpretazione) lo va a trovare perbiasimarne gli eccessi, il figlio ribatte colpo su colpo, rinfacciandole crudelmente tutte le sue colpe,dagli amori infamanti fino agli assassinii compiuti per lui. Agrippina è ferita da tanta bassezza eingratitudine, si intuisce che per un momento essa pensa di riattirarlo a sé usando l’arma del sesso,ma prima che le labbra si sfiorino, capisce che neanche questo ormai serve più, e si dà per vinta,allontanandosi.Il secondo interessante Nerone è quello della riedizione di Quo vadis? diretta, nel 1985, da FrancoRossi. È una coproduzione europea di grande impegno, affidata ad un regista con una già notevoleesperienza nel genere peplum (aveva realizzato, sempre per la televisione, una pregevole Odisseanel 1968 e un’innovativa Eneide nel 1971). È evidente in questo lavoro la volontà di dare di Nerone– che è interpretato da Klaus Maria Brandauer, fin troppo bravo nel rendere tutte le nevrosi delpersonaggio – una lettura non banale. Egli è visto come un uomo profondamente insicuro,psicologicamente segnato dalla mancanza del padre e da una madre castrante, che agisce concrudeltà perché non ha amici e non può contare sull’amore di nessuno. In questa interpretazionedi stampo psicanalitico, Nerone è un carnefice che in realtà vorrebbe essere amato dalle suevittime, un tiranno che fa compassione perché non riesce ad essere grande neanche nel crimine enella follia: nel momento topico dell’incendio, quando finalmente potrebbe cantare il suo poema,non osa farlo in pubblico, e quello che avrebbe dovuto essere il suo trionfo di artista si riduce a unasorta di impacciato saggio scolastico. Anche sul piano storico-politico lo sceneggiato propone unachiave di lettura non conformista. Lo fa con le parole di Tigellino, che in una delle ultime scene,davanti al supplizio dei cristiani nel circo mormora: “nessuno riuscirà mai a capire che abbiamosoltanto cercato di difenderci...”.Assai più conformista torna a essere al contrario il Nerone dell’ultima (per ora) versionecinematografica di Quo vadis?, quella realizzata dal regista polacco Jerzy Kawalerowicz nel 2001.In questa costosissima e patinatissima trasposizione del romanzo di culto dei polacchi, tutto ècome il lettore di Sienkiewicz si aspetta: la trama è rispettata, i buoni sono buoni, i cattivi cattivi

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La presente filmografia si basa suquelle precedenti di Eloy 1983,Attolini 1991, Dumont 1998. Per gli aggiornamenti si è tenutoconto della filmografia disponibilesul sito Peplum, Images del’antiquité. Cinéma et Bd alla paginahttp://www.peplums.info/pep13a.htme di quella fornita dall’Internet Movie Database (IMDb) alla paginahttp://www.imdb.com/character/ch0028368/. Si sono tralasciati i film in cui la presenza di Nerone èdecisamente marginale e quelli in cuiil personaggio con questo nome non ha in realtà alcun rapporto colNerone storico. Per le opere piùantiche – che spesso non si sonomaterialmente conservate – siriportano solo i dati conosciuti con certezza.

NERON ESSAYANT DES POISONSSUR UN ESCLAVE (Francia 1896)Regia: Georges HatotProduzione: LumièreDurata: 57’’

QUO VADIS? (Francia 1901)Regia: Lucien Noguet, FerdinandZeccaCast: Albert Lambert fils (Nerone)Produzione: PathéDurata: 1’

THE SIGN OF THE CROSS (Gran Bretagna 1904)Regia: William HaggarCast: William Haggar jr (MarcusSuperbus) - Jenny Linden Haggar(Mercia) - James Haggar (Nerone).Produzione: William Haggar and Sons

KEJSER NERO PAA KRIGSSTIEN /EMPEROR NERO ON THEWARPATH (Danimarca 1907)Regia: Viggo LarsenProduzione: Nordisk Film

LA CIVILISATION A TRAVERS LES AGES III: NERON ETLOCUSTE ESSAYANT LEURSPOISONS SUR LES ESCLAVES -AN 65 DE NOTRE ERE (Francia 1907)

Regia: Georges MélièsProduzione: Star Film

NERO AND THE BURNING OF ROME (USA 1908)Regia: Edwin PorterProduzione: Edison

NERONE (Italia 1909).Regia: Luigi Maggi Scenaggiatura: Arrigo FrustaCast: Alberto A. Capozzi (Nerone),Mirra Principi (Ottavia), Lydia De Roberti (Poppea), Luigi Maggi(Epafrodito)Produzione: Ambrosio FilmDurata: 14’

LE FILS DE LOCUSTE (Francia 1911)Regia: Louis FeuilladeCast: Renée Carl (Locusta), Luitz-Morat(Il figlio), Paul Manson (Nerone)Produzione: GaumontDurata: 18’

POPPEA ED OTTAVIA (Italia 1911)Produzione: Latium FilmDurata: 20’

ANDROCLES ET LE LION (Francia 1912) Regia: Louis FeuilladeCast: René Sablon (Androcle),Raymond Lyon (Nerone).Produzione: GaumontDurata: 10’

BRITANNICUS (Francia 1912)Regia: Camille de MorlhonCast: Jean Hervé (Nerone), RomualdJoubé (Britannico), JeanneGrumbach (Agrippina)Produzione: Pathé

QUO VADIS? (Italia 1912)Regia: Enrico GuazzoniCast: Amleto Novelli (MarcoVinicio), Lea Giunchi (Licia), Carlo Cattaneo (Nerone), BrunoCastellani (Ursus), Gustavo Serena(Petronio), Olga Brandini (Poppea),Cesare Montoni (Tigellino), Giovanni Gizzi (San Pietro)Produzione: CinesDurata: 120’

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(cattivissimi, poi, i leoni: mai si era visto prima sullo schermo uno sbranamento di cristiani cosìgranguignolesco). Mical Bajor si sforza di non copiare Peter Ustinov, ma non riesce a dare alpersonaggio altra cifra che quella della pura pazzia.Maggiore profondità psicologica ha il Nerone di Boudica (Warrior Queen), un film inglese del2003 ambientato all’epoca della conquista romana della Britannia. Qui il rapporto edipico conAgrippina, sicuramente importante per capire la personalità dell’imperatore, diventa la chiave dilettura privilegiata, ed è esplicitato nella maniera più cruda, con selvaggi amplessi incestuosi chenulla lasciano all’immaginazione. La libido si trasforma però presto in odio distruttivo, e dopo averucciso la madre (ma col veleno e a Palazzo: una infedeltà storica che nel contesto narrativo hatuttavia una sua efficacia drammatica) passa sul suo cadavere ed esclama: “Pace, finalmente!”.Lo sceneggiato televisivo Imperium: Nerone, del 2004, punta anch’esso su una problematizzazionedel personaggio Nerone, con lo scopo dichiarato di darne una interpretazione più moderna. Sipotrebbe intitolare, sulla scorta di Sartre, L’infanzia di un capo. Si parte infatti da Lucio bambinoche, strappato alla madre e affidato alle cure della zia Domizia, cresce in campagna condividendocon gli schiavi la fatica del lavoro rurale e i semplici svaghi. Animo delicato e sensibile, si affezionasoprattutto ad Apollonio, che gli insegna ad amare la poesia e il teatro, e a sua figlia, la dolce Atte,che promette di fare sua sposa superando l’incolmabile differenza di status. Diventato l’imperatoreNerone, intraprende – con i buoni consigli di Seneca – una serie di riforme a favore del popolo, mapresto si scontra con i pregiudizi della sua stessa classe e con i poteri forti che condizionano ancheil princeps. Si rende conto che i suoi generosi ideali sono inattuabili, e si converte pian piano allaRealpolitik. Quando capisce che i senatori pensano di sostituirlo con Britannico, si lascia convinceredalla madre ad eliminarlo. È l’inizio del suo progressivo corrompersi. Da quel momento non sapràpiù impedirsi di cedere al male. Dopo che Atte, la sola donna da lui realmente amata, si allontanadisgustata, la solitudine indurisce il suo cuore e prosciuga la sua residua umanità. S’innesca cosìquell’inarrestabile spirale di violenza e sensi di colpa che porterà al tragico epilogo. Atte saràl’unica a preoccuparsi di dare sepoltura al suo cadavere. L’antico amore e la nuova fede (cristiana)le consentiranno di riconoscere, dietro la maschera del mostro, l’uomo buono diventato malvagiosuo malgrado.È, come si vede, un bel passo avanti sulla via della riabilitazione. Del resto, il revisionismo nondata da oggi. Nel 1562 Gerolamo Cardano pubblicò un Encomium Neronis in cui si argomentavache i grandi accusatori di Nerone, Tacito e Svetonio, erano persone moralmente discutibili, eperciò inattendibili. Di questo testo è disponibile una moderna traduzione italiana (Cardano1998), preceduta da un saggio del senatore Marcello Dell’Utri, significativamente intitolatoCardano e le mani pulite della storia, che sottoscrive pienamente la tesi innocentista ribadendo:“da questi giudici, da questi testimoni, è stato condannato Nerone!”.In attesa della assoluzione definitiva (magari per prescrizione) Nerone è intanto guardato consimpatia dai creativi della pubblicità che, giocando sulla sua dimestichezza col fuoco, non hannoesitato a scritturarlo come testimonial in uno spot che reclamizza… Quattro salti in padella!

Il presente saggio riprende, aggiornandolo eampliandolo, un mio precedente lavoro sullo stesso tema(Pucci 2002). Cfr. anche Pucci 2007. Mi sono molto

giovato delle originali ricerche dell’amica Maria Wyke,confluite in Wike 1997. Per un’agile sintesi su Romaantica nel cinema vedi Cotta Ramosino-Dognini 2004.

F I L M O G R A F I A

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A DAUGHTER OF THE HILLS(USA 1913)Regia: J. Searle DawleyCast: Wellington A. Playter (Sergio),Laura Sawyer (Floria), P.W. Nares(Nerone), Frank Van Buren (San Paolo)

NERONE E AGRIPPINA (Italia 1914)Regia: Mario Caserini Sceneggiatura: Luigi Marchese(parzialmente basata su Neronedi Arrigo Boito)Cast: Vittorio Rossi Pianelli (Nerone),Maria Caserini Gasparini(Agrippina), Lydia De Roberti(Poppea), Letizia Quaranta (Ottavia),Gian Paolo Rosmino (Britannico),Emilio Petacci (Claudio), MarioBonnard (Petronio), FernandaSinimberghi (Atte)Produzione: GloriaDurata: 84’

RESTITUTION (USA 1918)Regia: Howard GayeCast: John Steppling (Néron), Mary Wise (Poppea)Produzione: Mena Film

QUO VADIS? (Italia 1925)Regia: Gabriellino D’Annunzio,Georg JacobySceneggiatura: GabriellinoD’Annunzio, Georg JacobyCast: Alfons Fryland (Vinicio),Lillian Hall-Davis (Licia), EmilJannings (Nerone), Elena Sangro(Poppea), Bruto Castellani (Ursus),Andrea Habay (Petronio)Produzione: Unione CinematograficaItalianaDurata: 90’

IL SEGNO DELLA CROCE / (THE SIGN OF THE CROSS(USA 1932)Regia: Cecil B. De MilleSceneggiatura: Waldemar Young e Sidney Buchman (da un lavoroteatrale di Wilson Barrett, del 1895)Cast: Fredric March (MarcusSuperbus), Elissa Landi (Mercia),Charles Laughton (Nerone),Claudette Colbert (Poppea), Ian Keith (Tigellino)

Produzione: Paramount PicturesDurata: 118’NERONE (Italia 1930) Regia: Alessandro BlasettiSceneggiatura: Ettore PetroliniCast: Ettore Petrolini (Nerone), ElmaKrimer (Poppea), Mercedes Brignone(Atte), Alfredo Martinelli (Petronio)Produzione: CinesDurata: 86’ (Non ne esiste più unacopia completa)

QUO VADIS? (USA 1951)Regia: Mervyn LeRoyCast: Robert Taylor, Peter Ustinov,Deborah Kerr, Leo Genn, PatriciaLaffan, Buddy Baer, Finlay Currie,Marina BertiDurata: 171’

O.K. NERONE (Italia 1951)Regia: Mario Soldati. Sceneggiatura:Steno, Sandro Continenza, FurioScarpelli, Franco MonicelliCast: Walter Chiari (Fiorello), CarloCampanini (Jimmy), Gino Cervi(Nerone), Silvana Pampanini(Poppea), Giulio Donnini (Tigellino)Produzione: IndustrieCinematografiche Sociali (ICS)Durata: 105’

NERONE E MESSALINA (Italia 1953)Regia: Primo Zeglio. Sceneggiatura:Primo Zeglio, Riccardo Testa, PaoloLevi, David Bluhmen (Dialoghidell’edizione americana: Lewis E. Ciannelli, Hal Fimberg, AldenSchwimmer)Cast: Gino Cervi (Nerone), YvonneSanson (Statilia Messalina),Ludmilla Dudarova (ValeriaMessalina), Jole Fierro (Poppea),Milly Vitale (Atte), Paola Barbara(Agrippina), Lamberto Picasso(Seneca), Renzo Ricci (Petronio)Carlo Tamberlani (Tigellino)Produzione: Spettacolo Film - TiberDurata: 106’

MIO FIGLIO NERONE(Italia - Francia 1956)Regia: Steno (Stefano Vanzina)Sceneggiatura: Sandro Continenza,

Diego Fabbri, Ugo Guerra, RodolfoSonego, StenoCast: Alberto Sordi (Nerone), GloriaSwanson (Agrippina), BrigitteBardot (Poppea), Vittorio De Sica(Seneca), Ciccio Barbi (Aniceto),Enzo Furlai (Segimero)Produzione: Titanus, MarceauDurata: 90’

L’INFERNO CI ACCUSA / THESTORY OF MANKIND (USA 1957)Regia: Irwin AllenSceneggiatura: Irwin Allen e CharlesBennettCast: Ronald Colman (Lo Spiritodell’Uomo), Vincent Price (Belzebù),Peter Lorre (Nerone)Produzione: Cambridge Productions Inc.Durata: 100’

BIANCO, ROSSO, GIALLO, ROSA(Italia 1964)Regia: Massimo MidaSceneggiatura: Bruno BarattiCast dell’episodio Rosa: Veni vidivici: Carlo Giuffrè (ElioBrighenti/Apollodoro), Maria GraziaBuccella (Poppea) - Giancarlo Cobelli(Nerone), Marcella Ruffini (Sulpicia)Produzione: Alma FilmDurata: 29’

L’INCENDIO DI ROMA (Italia - Jugoslavia 1965)Regia: Guido MalatestaSceneggiatura: Guido MalatestaCast: Lang Jeffries (Marco Velerio),Cristina Gaioni (Giulia), VladimirMedar (Nerone), Moira Orfei(Poppea), Mario Feliciani (Seneca)Produzione: GMC, Jadran FilmDurata: 90’

THE ROMANS [serie televisiva“Doctor Who”, n. 12] (Gran Bretagna1965)Regia: Christopher BarrySceneggiatura: Dennis SpoonerCast: William Hartnell (Dr Who),Derek Francis (Nerone), Kay Patrick(Poppea)Produzione: BBCDurata: quattro episodi di 25’ciascuno

SATIRICOSISSIMO (Italia 1970)Regia: Mariano LaurentiSceneggiatura: Roberto Gianviti,Dino VerdeCast: Franco Franchi(Franco/Cratino), Ciccio Ingrassia(Ciccio/Cratone), Edwige Fenech(Poppea), Karin Schubert (Atte),Giancarlo Badessi(Brambilla/Nerone), Pino Ferrara(Petronio)Produzione: Flord FilmDurata: 92’

UP POMPEII (Gran Bretagna 1971)Regia: Bob KellettSceneggiatura: Sid ColinCast: Frankie Howerd (Lurcio),Michael Hordern (Ludicrus Sextus),Patrick Cargill (Nerone)Produzione: Anglo-EMIDurata: 90’

POPPEA, UNA PROSTITUTA AL SERVIZIO DELL’IMPERO(Italia 1972)Regia: Alfonso BresciaSceneggiatura: Mario Amendola,Alfonso Brescia, Vittorio VighiCast: Femi Benussi (Poppea),Vittorio Caprioli (Nerone), Otone(Don Backy), Linda Sini (Agrippina)Produzione: Luis FilmDurata: 93’

NERONE (Italia 1976)Regia e sceneggiatura: MarioCastellacci, Pier Francesco PingitoreCast: Enrico Montesano (Petronio),Pippo Franco (Nerone), Maria GraziaBuccella (Poppea), Oreste Lionello(Seneca), Paola Borboni (Agrippina),Gianfranco D’Angelo (Tigellino),Aldo Fabrizi (Galba), Paolo Stoppa(Pietro)Produzione: Mario Cecchi GoriDurata: 105’

I, CLAUDIUS (Gran Bretagna 1976):episodio 13 (OLD KING LOG)Regia: Herbert WiseSceneggiatura: Jack Pulman (dai romanzi di Robert Graves)Cast: Derek Jacobi (Claudio),Bernard Hepton (Pallante),

John Cater (Narcisso), BarbaraYoung (Agrippinilla), ChristopherBiggings (Nerone), Graham Seed(Britannico), Cheryl Johnson(Ottavia)Produzione: BBCDurata dell’episodio: 50’

NERONE E POPPEA (Italia - Francia 1982)Regia: Bruno MatteiSceneggiatura Bruno Mattei,Antonio PassaliaCast: Piotr Stanislas (Nerone),Patricia Derek (Poppea)Produzione: Beatrice FilmDurata: 89’

A.D. ANNO DOMINI (USA-Italia 1984): episodio 5Regia: Stuart Cooper. Sceneggiatura:Anthony Burgess, Vincenzo LabellaCast: Richard Kiley (Claudio), Ava Gardner (Agrippina), JenniferO’Neill (Messalina), Anthony Andrews(Nerone), Fernando Rey (Seneca), JaneHow (Poppea), Cecil Humphreys(Caleb), Amanda Pays (Sarah), PhilipSayer (Saulo/Paolo), Diane Venora(Corinna), Mike Gwilym (Pallante)Produzione: Procter & GambleProductions, Inc.; International Filmproduction; Reteitalia Canale 5Durata: 101’

QUO VADIS? (Italia-Francia-Germania Occidentale-GranBretagna-Spagna-Svizzera 1984)Regia: Franco RossiSceneggiatura: Ennio De Concini,Francesco Scardamaglia, Franco RossiCast: Francesco Quinn (MarcoVinicio), Maria-Therese Relin(Licia), Klaus Maria Brandauer(Nerone), Cristina Raines (Poppea),Frederic Forrest (Petronio), BarbaraDe Rossi (Eunice)Philippe Leroy (Paolo di Tarso),Angela Molina (Atte), RadomirKovacevic (Ursus), Leopoldo Trieste(Chilone), Marko Nikolic (Tigellino),Max von Sydow (Pietro l’Apostolo)Produzione: RadiotelevisioneItaliana (RAIUNO), Leone Film,Antenne 2, Polyphon Film-und

Fernsehgesellschaft, Channel 4Television Corporation, TelevisiónEspañola (TVE), Televisione SvizzeraItaliana (TSI)Durata: 360’

QUO VADIS? (Polonia 2001)Regia: Jerzy KawalerowiczSceneggiatura: Jerzy KawalerowiczCast: Pawe¬ Dela≈g (Marco Vinicio),Magdalena Mielcarz (Licia), Micha¬

Bajor (Nerone), Bogus¬aw Linda(Petronio), Franciszek Pieczka(Pietro), Krzysztof Majchrzak(Tigellino), Rafa¬ Kubacki (Ursus),Ma¬gorzata Pieczyn;ska (Atte),Agnieszka Wagner (Poppea)Produzione: Zespó¬ Filmowy KadrDurata: 170’

BOUDICA (WARRIOR QUEEN)(UK-Romania 2003)Regia: Bill AndersonSceneggiatura: Andrew DaviesCast: Alex Kingston (Boudica),Steven Waddington (Prasutagus),Emily Blunt (Isolda), Leanne Rowe(Siora), Angus Wright (Severus),Steve John Shepherd (Catus), JackShepherd (Claudius), Frances Barber(Agrippina), Andrew Lee Potts(Nerone)Produzione: Box Film, WGBH,Carlton InternationalDurata: 83’

IMPERIUM: NERONE(Italia - UK - Germania - Tunisia 2004)Regia: Paul MarcusSceggiatura: Francesco Contaldo,Paul BillingCast: Hans Matheson (Nerone), Rike Schmid (Atte), Laura Morante(Agrippina), Angela Molina(Domizia), Massimo Dapporto(Claudio), Sonia Aquino(Messalina), Matthias Habich(Seneca), Vittoria Puccini (Ottavia),Elisa Tovati (Poppea), Mario Opinato(Tigellino), Klaus Händl (Pallante),Pierre Vaneck (Paolo di Tarso)Produzione: Rai Fiction, Lux Vide,Eos Entertainment, GmbH,Carthago FilmsDurata: 181’

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fogne già nel VI secolo a.C., parallelamente a quanto era avvenuto nel Foro, ove l’Argileto che loattraversava era stato convogliato in quella stessa età nella Cloaca Massima. In sostanza la palude,tradizionalmente immaginata al centro della valle fino ad età neroniana e, secondo la comuneopinione, “convertita” da Nerone nello stagnum della Domus Aurea, non esisteva più da secoli. Alsuo posto era sorto e si era sviluppato un vasto quartiere urbano.Le più antiche attestazioni riguardano due tracciati nati in età pre- e protostorica ai piedi dellecolline lungo i corsi d’acqua: un asse che dal Circo Massimo raggiungeva l’Esquilino (ripropostodall’attuale Via di San Gregorio), ed un asse che dalla valle che sarà del Colosseo si dirigeva alForo, scavalcando il Palatino. Il loro incrocio avveniva in prossimità del luogo occupato moltisecoli dopo dall’Arco di Costantino. Il 18 luglio del 64 d.C. su tale incrocio, si affacciava,occupando le pendici nord-orientali del Palatino verso la valle, un santuario le cui primeattestazioni risalgono alla fine del VII secolo a.C., ma la cui origine è forse più antica (fig. 3).Aveva conosciuto una monumentalizzazione con la costruzione nel VI secolo a.C. di murature intufo, era stato frequentato per tutta l’età repubblicana e aveva ricevuto una splendidaristrutturazione da parte di Augusto e di Claudio. Qui Claudio aveva ricostruito tra il 51 e il 54un tempio (di età augustea o più antico) distrutto da un incendio, come informa l’iscrizione delfregio-architrave trovata nel crollo dell’edificio a sua volta bruciato nel 64 d.C.; qui i suonatori distrumenti in bronzo avevano dedicato una statua in bronzo a Tiberio, e, in un’edicolaappositamente costruita, statue in marmo ad Augusto, allo stesso Claudio, a Nerone e a suamadre Agrippina (Meta Sudans I; Cante et alii 1994-95; Panella, Cante, Pardini 2006).La localizzazione di quest’area sacra sulle estreme pendici nord-orientali del Palatino el’attestazione di una specifica volontà di conservazione per secoli delle sue strutture ci hanno

76 Da alcuni anni l’Università di Roma “La “Sapienza” è presente nella Piazza del Colosseo e sullependici del Palatino con ricerche e scavi condotti dall’équipe guidata da chi scrive, incollaborazione con la Soprintendenza Speciale per Beni Archeologici di Roma.Il più tardo paesaggio con cui ci siamo confrontati è quello che vediamo oggi entrando nellaPiazza, rimasto quasi inalterato dalla fine del mondo antico (fig. 1). Sullo stesso scenario si sarebbemosso un visitatore che fosse qui giunto agli inizi del IV secolo, quando si conclude la vicendaedilizia di questo settore urbano. Avrebbe camminato sulla pavimentazione attuale ripristinatadagli scavi dell’Ottocento, avrebbe ammirato il Colosseo, inaugurato nell’80 d.C., il fronte delTempio di Venere e Roma, inaugurato nel 135 d.C., il Colosso di Nerone, trasportato a valle dalPalatino in occasione della costruzione di questo tempio, l’Arco di Costantino inaugurato nel 315d.C. e, davanti all’Arco, una monumentale fontana a forma di cono di età flavia nota con il nomedi Meta Sudans. Sullo sfondo, avrebbe notato, guardando verso Palatino, l’Arco di Tito posterioreall’81 d.C. e le sostruzioni del II secolo d.C. della terrazza conosciuta con il nome moderno diVigna Barberini, e, guardando verso Celio, le sostruzioni del Tempio di Claudio, iniziato daAgrippina dopo il 54 d.C. e completato dai Flavi dopo il 70 d.C.Questo parterre, su cui l’età imperiale ha lasciato tracce così imponenti, presuppone un pianourbanistico in grado di vincere i millenni, che è quello attuato dagli architetti flavi. Con la costruzionedell’Anfiteatro, quest’area, che era all’origine una valle incassata tra le colline, diventa una piazzacapace di ospitare la più grande macchina per spettacoli fino ad allora conosciuta e i suoi numerosiservizi. Gli interventi successivi hanno arricchito gli spazi con costruzioni importanti sul pianomonumentale e ideologico, ma non li hanno più modificati. Tuttavia, un intervento di tale portatanon sarebbe stato possibile se pochi anni prima non si fosse verificata una catastrofe (l’incendio del64 d.C.), seguita dalla realizzazione tra il 64 e il 68 d.C. della reggia di Nerone conosciuta con il nomedi Domus Aurea, destinata a cambiare l’assetto di questa parte del centro cittadino.

La situazione insediativa precedente l’incendioFino a quel disastroso evento l’organizzazione degli spazi nell’area delle nostre indagini si eraadattata, man mano che si infittiva l’urbanizzazione, alla conformazione orografica originaria: unavalle racchiusa tra i ripidi pendii del Celio, dell’Esquilino, del Palatino e della Velia. Nel fondovallescorreva verso il Circo Massimo per immettersi nel Tevere una marrana (il fiume Nodinomenzionato dalle fonti letterarie) che proveniva dalla sella tra il Celio e l’Esquilino e raccoglievalungo il suo percorso le acque dei torrenti che scendevano stagionalmente dalle colline circostanti(fig. 2). I nostri scavi hanno dimostrato che tutta l’area era stata bonificata e le acque incanalate in

C L E M E N T I N A PA N E L L AN E R O N E E I L G R A N D E I N C E N D I O

D E L 6 4 D . C .

1. Veduta aerea dellaPiazza del Colosseo

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botteghe sulla via per il Foro, disponendosi su più piani lungo il fianco settentrionale della pendicepalatina (fig. 6), alle spalle dell’area sacra attribuita alle antiche Curie (Panella 2006; Saguì 2009).A portar via il settore padronale qui sono intervenute le sostruzioni adrianee della terrazza dellaVigna Barberini.Le testimonianze più antiche spettano a quest’ultimo edificio, ove sembra che un’abitazione sia giàpresente alla fine del VI - inizi del V secolo. Residenze di età arcaica sono attestate nello stessotratto di pendice, sull’altro versante del colle, quello che dà verso il Foro (Carandini, Carafa 1995).Analogamente a ciò che avviene in quest’ultima area certamente più centrale (Carandini, Papi,Gualandi 1999), sia la domus veliense che quella palatina ricevono in età tardo-repubblicana (apartire dal II secolo a.C.) interventi sostanziali, ed ulteriori importanti trasformazioni in etàcesariano-augustea. Restauri sono attestati nei decenni iniziali del I secolo d.C. In entrambe èaccertata la presenza di ambienti riscaldati, mentre i rivestimenti (pavimenti in mosaico, intonacidipinti) attestano lo status elevato dei proprietari (Panella 2006).Investite insieme alla Meta e alle Curiae dall’incendio già ricordato dell’età di Claudio, le caseerano in restauro al momento dell’incendio del 64 d.C. Di quest’ultimo e definitivo evento sonostate rinvenute nello scavo tracce impressionanti. La stessa sorte toccherà a tutti gli edifici esistentiin prossimità dell’area della nostra ricerca, rintracciati negli scavi più o meno recenti, nellabibliografia, nei documenti di archivio. Sepolta sotto cumuli di macerie, questa parte della cittàaccoglierà da questo momento in poi altre destinazioni d’uso. Ma sono stati proprio gli interventiedilizi successivi all’incendio, che, avendo attuato un consistente innalzamento dei piani dicalpestio (dai due ai cinque metri a seconda dei livelli raggiunti nelle diverse zone dall’abitato),hanno preservato un paesaggio urbano ancora riconoscibile nella sua ultima fase di vita, con le suevie (a quelle già menzionate si era aggiunta in età tiberiana una strada che, partendo dalla viadiretta all’Esquilino, tagliava quasi al centro la valle correndo parallela alla Via Labicana e alla viaproveniente dal Laterano), con i suoi isolati destinati alla residenza, con i suoi monumenti (la Meta),i suoi antichissimi luoghi di culto.

L’incendio del 64 d.C.Nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C., nel decimo anno di regno di Nerone, scoppiò il più gravedegli incendi che avessero colpito la città antica. Cinquant’anni dopo quell’evento, gli Annali (15, 38-44) dello storico Tacito, scritti agli inizi del II secolo, rievocavano la catastrofe, fornendo dettaglitopografici utili per comprenderne dinamica ed estensione. Poco utili da questo punto di vista sonoinvece le descrizioni sia di Svetonio che racconta pochi anni dopo lo stesso evento nelle Vite deiDodici Cesari (Nerone, 38), sia di Cassio Dione, autore agli inizi del III secolo di una monumentaleStoria Romana, di cui resta, in riferimento a Nerone, solo un riassunto dell’XI secolo (62, 16-18).Per inquadrare l’entità del disastro, va tenuto presente che la città alla data in questione aveva unapopolazione stimata tra 800.000 e 1.200.000 abitanti; si trattava cioè della più grandeconcentrazione urbana prima della rivoluzione industriale della fine del Settecento. L’insediamentoda tempo aveva oltrepassato le Mura Serviane (realizzate nel VI secolo a.C. dal re Servio Tullio e ingran parte ricostruite dopo un altro disastroso incendio, quello gallico, avvenuto anch’esso il 18luglio, ma del 390 a.C.), raggiungendo nell’età di Vespasiano i 1350 ettari di superficie e oltre 19km di perimetro. A questa estensione fa riferimento tra il 271 e il 273 il circuito delle MuraAureliane che sancisce i limiti raggiunti dall’abitato in età imperiale. Ma Roma non era nata inuna situazione insediativa favorevole ad un’urbanistica regolare. Inefficaci erano stati gli interventi(di Cesare e poi di Augusto) finalizzati a dare un assetto ordinato ad una città che si era espansaper secoli in modo anarchico, di per sé inadatta ad accogliere uno schema ortogonale, unperimetro geometrico, una rete stradale che contrastasse una topografia accidentata, determinatadalla morfologia su cui l’insediamento insisteva (colli relativamente alti e scoscesi, depressionivallive) e per i condizionamenti di luoghi inamovibili, pubblici e sacrali, collegati alle tradizioni piùantiche. I grandi patrimoni formatisi soprattutto a partire dal II secolo a.C. avevano scatenatoun’attività edilizia senza precedenti con l’occupazione da parte dell’aristocrazia delle aree prossimeal Foro, la cui vicinanza era ritenuta essenziale allo svolgimento delle funzioni politiche, ed unaprogressiva appropriazione anche di zone relativamente più periferiche, ma sempre assai centrali,destinate all’otium (villae e horti). Il costante, progressivo inurbamento di masse di lavoratori e didiseredati in cerca di fortuna aveva a sua volta provocato il sovraffollamento delle zone destinate ai

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portato a proporre la sua identificazione con le Curiae Veteres, le “antiche Curie”, edificate, secondola tradizione, da Romolo, dove i cittadini, divisi in curiae dal primo re, consumavano pasti comuniin determinati giorni dell’anno. Nel II secolo d.C. sono ancora menzionate da Tacito come terzovertice del quadrilatero sacro della città fondata da Romolo (il pomerio, che corrispondeva altracciato del “solco primigenio) (Panella, Zeggio 2004; Zeggio 2006).Di fronte a questo santuario sorgeva un secondo luogo di culto che occupava le estreme pendicidella Velia, testimoniato da due pozzi con deposito votivo (v. fig. 3). Benché queste strutture sianodatabili alla fine del VI - inizi del V secolo, tra gli ex voto sono stati rinvenuti oggetti rituali dellaseconda metà e della fine dell’VIII secolo a.C. e frammenti di decorazione architettonica cherimandano ad un vicino edificio templare di età tardoarcaica/alto-repubblicana da immaginaresotto l’attuale Via Sacra. Il culto, che è tra i più antichi tra quelli finora rintracciati in questosettore urbano, è riferibile ad una divinità femminile, ctonia, forse oracolare, di cui per oraignoriamo il nome. I due pozzi continueranno ad essere ancora a lungo preservati e “segnalati”,anche se defunzionalizzati e coperti in età augustea dal marciapiede settentrionale della via direttaal Foro, che si era progressivamente ampliata verso la Velia.Alle due vie già citate si erano aggiunte con il tempo una strada proveniente dal Laterano, oggi Viadei SS. Quattro Coronati, e una via che raggiungeva la valle da Porta Capena, fiancheggiando lependici del Celio. Tutte convergevano verso un punto che costituiva il vertice di quattro o cinquedei quattordici distretti amministrativi (regiones) in cui Augusto aveva diviso la città nel 7 a.C., lepiù interne e le più importanti. Su tale vertice, di fronte agli ingressi del santuario delle CuriaeVeteres, s’innalzava una fontana dall’impianto circolare con un elevato a forma di cono, adimitazione delle metae del circo, e con vasca rettangolare movimentata sui lati lunghi da duepiccole esedre (fig. 4). Essa costituirà il modello di una fontana del tutto simile, ma piùmonumentale e con vasca circolare, l’unica finora nota, a cui le fonti antiche assegnano il nome diMeta Sudans, costruita dagli imperatori Flavi all’incirca nello stesso punto, ma in rapporto ad unassetto urbano e ad una viabilità completamente mutata dopo gli interventi neroniani posterioriall’incendio del 64 d.C. (Panella 2009).La posizione del monumento augusteo, lo stretto collegamento con due luoghi “romulei”(Curiae/pomerio), la forma stessa della struttura, che richiama le metae circensi, ma anchel’immagine aniconica di Apollo, divinità tutelare di Augusto, permettono di attribuire ad essa ilvalore di “segno” e una pluralità di significati (topografici, urbanistici, sacrali, ideologici, simbolici).Il suo primo impianto appartiene all’età augustea; subisce un totale restauro in età claudia inseguito all’incendio della metà del I secolo d.C. già menzionato a proposito del tempio delleCuriae, e sarà completamente distrutta dal successivo incendio neroniano. Gli elementiarchitettonici rinvenuti tra le macerie hanno consentito di ricostruirne la forma, l’altezza (circa 16metri) e la decorazione. Appoggiata alla vasca era una piccola struttura, che ricorda nella suaarticolazione quella dei compita, le edicole che sorgevano sugli incroci stradali, dedicati dall’etàaugustea al Genius e ai Lari (gli antenati) di Augusto (Panella, Zeggio 2004) (fig. 5).Lungo le vie e accanto ai santuari era cresciuta e si era intensificata un’edilizia residenziale dilivello sempre più alto, giustificata dalla vicinanza di questo settore con il Foro. Le case seguivano ipendii, sfruttando i versanti scoscesi dei colli per appoggiare ad essi opere sostruttive, criptoportici(v. la domus augustea e giulio-claudia situata quasi al centro della terrazza della Vigna Barberini) overi propri basamenti destinati ai servizi (v. la casa attribuita a M. Emilio Scauro all’incrocio tra laSacra Via e il c.d. Clivo Palatino), ma anche riservati, se opportunamente allestiti, alla residenzadei proprietari nei mesi più caldi (v. la domus attribuita ai Domitii Aehenobarbi nella sella tra laVelia e il Palatino, su cui si impianterà l’atrio-vestibolo della Domus Aurea: Schingo 1996; Medri1996). In tal modo i piani interrati moltiplicavano gli spazi del sopraterra in un’area fortementeambita e di assai limitata estensione.Di questo genere erano le abitazioni che rientrano nella nostra area di indagine, in essereimmediatamente prima dell’incendio. Una di esse è situata tra l’asse diretto all’Esquilino e lependici orientali della Velia, su cui doveva estendersi la parte nobile della casa, tagliata in seguitodall’atrio-vestibolo della Domus Aurea. Di fronte, sullo stesso asse stradale, compare una secondacasa, le cui strutture si dirigono verso l’area occupata dal Colosseo, materialmente distrutte daglisterri della Metropolitana, realizzata a cielo aperto negli anni cinquanta del secolo scorso (Zeggio2006). La terza, in opera reticolata con blocchi di travertino in testata, si affacciava invece con

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812. Visualizzazione 3Ddella geomorfologia del Palatino e dei settorilimitrofi rispetto allacartografia attuale con l’indicazione dellarete idrica antica(elaborazione MarcoFano)

3. Visualizzazione 3Ddella viabilità e dei duesantuari delle pendicinord-orientali delPalatino (CuriaeVeteres) e della Velia(elaborazione MarcoFano)

tempietto che l’arcade Evandro aveva consacrato, in sua presenza, a Ercole, il tempio votato aGiove Statore da Romolo e la reggia di Numa e il delubro di Vesta coi Penati del popolo romano; epoi le ricchezze accumulate con tante vittorie, e capolavori dell’arte greca e i testi antichi e originalidei grandi nomi della letteratura, sicché, anche nella straordinaria bellezza della città che risorgeva,i vecchi ricordavano molti capolavori ora non più sostituibili…”

Sulla stessa linea, ma più generico è il racconto di Svetonio nella biografia dedicata a Nerone.Nerone, 38: “Il fuoco divampò per sei giorni e sette notti, obbligando la plebe a cercare alloggio neimonumenti pubblici e nelle tombe. Allora, oltre ad un incalcolabile numero di agglomerati di case,

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quartieri popolari. Alla cronica emergenza abitativa si era cercato di porre rimedio con lacostruzione di edifici che moltiplicavano in altezza il poco spazio disponibile, con il ricorso a solai,sopraelevazioni, ballatoi e sporgenze, tutti ovviamente in legno. La “forma” di Roma la notte del 18luglio del 64 d.C. non doveva essere molto cambiata dai tempi dell’incendio gallico del 390 a.C.,quando essa appariva agli occhi degli stessi Romani “più simile ad una città occupata cherazionalmente pianificata” (Tito Livio, Ab urbe condita, 5, 55).Se le fonti letterarie (soprattutto Cicerone) e la ricerca archeologica (sviluppatasi principalmentenel cuore della città antica, relativamente più conservata) hanno consentito di raccogliere datiimportanti sulle residenze di alto rango impiantate soprattutto in età tardo-repubblicana e nellaprima età imperiale sulle alture intorno al Foro, tra il Palatino, la Velia e le Carinae (cioè neglispazi compresi tra il Circo Massimo e la chiesa di San Pietro in Vincoli) (Carandini 2010), lecontinue trasformazioni causate dall’ininterrotto uso degli stessi luoghi in tremila anni di storiarendono “invisibili” i quartieri artigianali e commerciali (ma si vedano quelli rintracciati sul Celio:Pavolini 1993), o quelli abitati dalla plebe urbana più povera, cresciuti nelle zone basse asettentrione del Foro, nella Subura, e a meridione, nel Velabro tra Campidoglio e Palatino. Alcunecifre (265 erano i vici, cioè i quartieri al tempo di Plinio il Vecchio, morto del 79 d.C.) e alcuni testirendono certi che la concentrazione di una tale massa di popolazione poteva essere alloggiata soloin costruzioni a più piani (insulae), per le quali già nel II secolo a.C. si era legiferato per limitarnel’altezza (Tito Livio, 2, 8, 17). Augusto con la lex de modo aedificiorum urbis aveva fissato a 70piedi la servitù di altezza delle case (oltre 20,65 metri, pari a cinque o a sei piani), rimessa invigore da Nerone dopo l’incendio, ma evidentemente disattesa se Traiano (Epitome de Caesaribus,13, 13), Marco Aurelio e Lucio Vero (Codex Iustiniani, 8, 10, 1) nel II secolo furono costretti areiterare la legge portando tale misura a 60 piedi (circa 17,70 metri).In tale situazione gli incendi, alimentati dall’impiego del fuoco per illuminare, cucinare e riscaldareavevano accompagnato la storia della città con conseguenti rifacimenti di interi quartieri, edifici,monumenti. Nel solo I secolo, si registrano quelli che avevano colpito l’angolo sud-occidentale delPalatino nel 3 d.C. (Tempio della Magna Mater e Casa di Augusto), il Celio nel 27 d.C., la valle chesarà del Colosseo intorno al 50/51 d.C., il Campidoglio nel 69 d.C., che bruciò ancora una voltainsieme al Campo Marzio nell’80 d.C. Almeno altri due incendi sono attestati durante il regno diClaudio: il primo che danneggiò gli Aemiliana, presso il Velabro, già distrutti dal fuoco nel 38d.C., il secondo che attaccò il Tempio di Salus sul Quirinale (Panciera 1996).

Ma tornando agli avvenimenti del 64 d.C., è alla famosa narrazione di Tacito che dobbiamo affidarciper tentare di ricostruire l’accaduto.Annali, 15, 38: “Si verificò poi un disastro, non si sa se accidentale o per dolo del principe – glistorici infatti tramandano le due versioni – comunque il più grave e spaventoso toccato alla città acausa di un incendio. Iniziò nella parte del Circo [Massimo] contigua ai colli Palatino e Celio,dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe piene di merci infiammabili, subito divampò, alimentatodal vento, e avvolse il circo in tutta la sua lunghezza. Non c’erano palazzi con recinti e protezioni otempli circondati da muri o altro che facesse da ostacolo. L’incendio invase, nella sua furia,dapprima il piano, poi risalì sulle alture per scendere ancora verso il basso, superando, nelladevastazione, qualsiasi soccorso, per la fulmineità del flagello e perché vi si prestavano la città e ivicoli stretti e tortuosi e l’esistenza di enormi isolati, di cui era fatta la vecchia Roma…”Annali, 15, 40: “Al sesto giorno finalmente l’incendio fu domato alle pendici dell’Esquilino, dopoaver abbattuto, su una grande estensione, tutti gli edifici, per opporre all’ininterrotta violenzadevastatrice uno spazio sgombro e, per così dire, il vuoto cielo. Non era ancora cessato lo spaventoné rinata una debole speranza: di nuovo il fuoco divampò in luoghi della città più aperti; ciòdeterminò un numero di vittime inferiore, ma più vasto fu il crollo di templi degli dèi e di porticatidestinati allo svago. Questo secondo incendio provocò commenti ancora più aspri, perché erascoppiato nei giardini Emiliani, proprietà di Tigellino, e si aveva la sensazione che Nerone cercassela gloria di fondare una nuova città e di darle il suo nome. Infatti dei quattordici quartieri in cui èancora divisa Roma, ne rimanevano intatti quattro, con tre rasi al suolo e degli altri sette restavanopochi relitti di case, mezzo diroccate e semiarse…”Annali 15, 41: “Calcolare il numero delle case, degli isolati e dei templi andati distrutti non è facile:fra i templi di più antico culto bruciarono quello di Servio Tullio alla Luna, la grande ara e il

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82 834. I resti della MetaSudans augusteae del piccolo compitumaddossato alla vascadella fontana (in bassoa destra)

5. Assonometriaricostruttiva delsantuario delle CuriaeVeteres e del complessoMeta-compitumnella loro fase claudia (51/54 d.C.) (disegnoMatilde Cante)

6. Planimetria delladomus delle pendicisettentrionali delPalatino al momentodell’incendio (rilievo e disegno Matilde Cante)

il fuoco divorò le abitazioni dei generali di un tempo, ancora adornate delle spoglie dei nemici, itempli degli dei che erano stati votati e consacrati sia al tempo dei re, sia durante le guerre punichee galliche, e infine tutti i monumenti curiosi e memorabili che restavano del passato.”

L’incendio si era propagato dunque in due fasi: aveva avuto inizio dal Circo Massimo, si era direttoverso nord investendo il fianco orientale del Palatino; aveva poi attraversato la valle del Colosseofino alle pendici più basse dell’Esquilino dove aveva infuriato per sei giorni nella zona più popolatadella città. Dopo una pausa le fiamme erano ripartite da una zona a nord del Campidoglio, in unaproprietà di Tigellino, il potente prefetto del pretorio di Nerone (praediis Tigellini Aemiliani,localizzati nell’area portuale sotto l’Anagrafe da Coarelli 1988), e avevano imperversato per altri tregiorni: minori le vittime, ma più ingenti i danni agli edifici. Il bilancio finale registrò la distruzionedi 3 della 14 regiones augustee, che potremmo identificare nella III (che comprendeva la valle chesarà del Colosseo e il colle Oppio), nella X (il Palatino), nella XI (che si estendeva dal CircoMassimo e dalla valle tra Palatino e Aventino fino al Tevere ed includeva il Velabro e i Fori Olitorioe Boario), danneggiandone seriamente sette e lasciandone intatte 4 (probabilmente la I, che siestendeva da Porta Capena alla Via Appia, lambendo forse le pendici occidentali del Celio, la V cheoccupava la parte alta dell’Esquilino, la VI che comprendeva il Quirinale e il Viminale, la XIV acui apparteneva il Trastevere).I monumenti distrutti, tutti risalenti ai primordi della città, che vengono evocati da Tacitocertamente per aumentare lo sgomento dei suoi lettori, consentono anch’essi di fissare qualchecaposaldo topografico: il tempio di Luna attribuito a Servio Tullio, da localizzare sull’Aventino(non più ricostruito), l’Ara Massima di Ercole nel Foro Boario presso l’estremità nord-occidentaledel Circo Massimo, il più antico centro di culto di Ercole a Roma (ricostruito probabilmente già inetà flavia), il tempio di Giove Statore da collocare alla radice del Palatino verso il Foro, ove,secondo la tradizione, Romolo aveva fermato i Sabini, e in successione, sulla direttrice segnatadalla Sacra Via, la Regia attribuita al secondo re, Numa, evidentemente nella ricostruzione del 36a.C. operata da Domizio Calvino, e il tempio di Vesta, ove era custodito il fuoco sacro alla dea, unodei più antichi e venerati santuari dell’Urbe.Tacito inoltre aggiunge:Annali, 15, 39: “Nerone, che allora si trovava ad Anzio, tornò a Roma solo quando il fuoco si stavaavvicinando alla sua residenza [domus], che aveva edificato per congiungere il palazzo imperiale[Palatium] con i Giardini di Mecenate. Non si poté per altro evitare che fossero divorati dal fuocoil palazzo [Palatium] e la casa [domus] e tutto quanto stava intorno”.

Al racconto delle fonti letterarie fa eco il ritrovamento di un’iscrizione apposta su una delle areerette da Domiziano in diversi luoghi della città per indicare probabilmente i limiti dell’incendio(note con il nome Arae incendii neroniani: Coarelli 2008). Su di esse il 23 agosto, giorno dellafesta del dio Vulcano (i Volcanalia), si sacrificava al dio per scongiurare il ripetersi di tali calamità.Tre sono gli altari rinvenuti: uno sul Quirinale, uno sull’Aventino e uno, ma fuori posto, presso SanPietro. Se ne desumerebbe che anche il Quirinale e l’Aventino siano stati coinvolti. L’iscrizioneconferma che l’incendio era durato nove giorni.

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Altre tracce sono state individuate sulla Velia, in relazione al Compitum Acilii, un’edicola dedicatadai Vicomagistri ai Lari del quartiere nel 5 a.C. (Colini 1983). Altri dati questa propaggine delPalatino verso l’Esquilino non ne restituisce, essendo stata tagliata negli anni trenta del secoloscorso dall’attuale Via dei Fori imperiali. Sul versante occidentale del monte evidenti segni diincendio interessano il sito poi occupato dal Templum Pacis vespasianeo lungo il c.d. Vicus adCarinas. Qui l’incendio può essere arrivato da est scavalcando la Velia, o, forse meglio, da sud, cioèdalla Sacra Via. Sull’Esquilino non sembra aver subito danni la Porticus Liviae, inaugurata daTiberio e da Livia nel 7 a.C. Livelli combusti, forse da ricollegare a questa catastrofe, sembranovenire anche dal Campo Marzio.Sulla base del racconto di Tacito e dei dati archeologici è stata tentata una simulazionedell’impatto dell’incendio sulla città (fig. 10). Sembra dimostrabile che il fuoco abbia seguitofondamentalmente le strade principali, le quali correvano nelle depressioni vallive, per poiraggiungere le alture sfruttando i pendii meno impervi. Così le fiamme avevano trovato varchilungo le pendici, ma avevano risparmiato forse le parti più alte dei montes.

Ai fini di questa nostra ricostruzione non entreremo nella discussione sulla responsabilità direttadell’imperatore in questa catastrofe, che ha alimentato fino ai giorni nostri la “leggenda nera” diNerone incendiario (dubbi sulla colpevolezza dell’imperatore sono in Tacito; sposano la tesi“colpevolista” tutti gli altri autori antichi, da Svetonio e Cassio Dione a tutti gli scrittori cristiani,che hanno “demonizzato” il personaggio a causa della persecuzione scatenata contro coloro cheprofessavano questa nuova religione all’indomani dell’incendio). Di questa tematica, a cui fa

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E poi vi sono i numerosi dati archeologici. Nell’osservatorio privilegiato della valle tra Palatino eCelio, luogo obbligato del passaggio delle fiamme provenienti dal Circo Massimo, già RodolfoLanciani (FUR) aveva identificato tracce vistose dell’incendio sotto l’attuale Via di San Gregorio,lungo il versante orientale del Palatino. In alcune botteghe distrutte da quell’evento è stato raccoltoalla fine dell’Ottocento il frontone in terracotta della metà del II secolo a.C., spettante ad untempio generalmente identificato con quello di Fortuna Respiciens, il cui terrazzamento si scorgesul Palatino all’altezza della Porta del Vignola (Anselmino 2006; Strazzulla 2006). Anche questotempio, oltre a quelli menzionati da Tacito, è da annoverare tra quelli distrutti.Passando nella valle del Colosseo e sulle pendici settentrionali del Palatino, le evidenze che abbiamoraccolto mostrano che l’intero comparto fu investito dal fuoco. Crolla il santuario delle CuriaeVeteres, brucia l’edicola che ospitava le statue degli imperatori giulio-claudii; a testimoniare laviolenza delle fiamme ci sono i blocchi carbonizzati della gradinata in travertino interna al santuario(fig. 7); per effetto del fortissimo calore le lastre in bronzo della base della statua di Tiberio sifrantumano come se si trattasse di vetro. Bruciano la Meta e le domus: le fiamme lasciano tracce suimuri (fig. 8); gli assi dei tetti, delle travi, delle porte e dei soppalchi, delle tavole degli arredicombusti cadono sui pavimenti (fig. 9); corrosi dal fuoco appaiono i vasi e le suppellettili inceramica e in bronzo e gli strumenti da lavoro in ferro; si infrange, parzialmente fusa, sul basolatodella strada diretta al Foro una grande grata di un edificio che sorgeva alle spalle della Meta, la cuifacciata in laterizio e le cui decorazioni architettoniche cadono nella vasca della fontana.Situazioni del tutto analoghe sono registrate sul versante settentrionale del Palatino lungo la SacraVia: i dati di scavo dimostrano che nulla resta in piedi delle case aristocratiche di questa zona delcolle (Carandini, Papi 1999), né degli importanti complessi che si aprono su questa stessa stradafino al Foro (ne è testimone d’altra parte Tacito: Regia, Tempio di Vesta). Che l’incendio si siaincanalato anche lungo il c.d. Clivo Palatino è dimostrato dai resti combusti ritrovati in una domusall’angolo tra questo clivo e la c.d. Via Nova (Santangeli Valenzani, Volpe 1986). Di qui potrebbeaver raggiunto la cima della collina come sembrerebbe dimostrare un appunto di Giacomo Boniche afferma che nello scavo del ninfeo noto con il nome di Bagni di Livia (in realtà uno degliedifici tradizionalmente attribuiti alla Domus Transitoria, cioè al primo tentativo di Nerone dicongiungere le proprietà imperiali del Palatino con gli Horti di Mecenate sull’Esquilino),sottostante il triclinio del palazzo imperiale di Domiziano (la Domus Augustiana), aveva rinvenutosegni evidenti di bruciato sui frammenti decorativi e sugli oggetti in metallo, e impronte di metallofuso sui gradini della fontana (Carettoni 1949). Ciò tenderebbe a confermare il racconto di Tacitoche abbiamo sopra riportato (“brucia il Palatium e la domus”).A mia conoscenza non provengono altri dati dal Palatino, ma gli scavi sono stati condotti perdecenni in modo arbitrario. Certamente tuttavia non sembrano aver subito danni riconoscibili,sull’estremo angolo sud-occidentale del monte, il Tempio di Vittoria e il Tempio della MagnaMater già restaurato in modo sostanziale dopo l’incendio del 3 d.C. (Pensabene 2002) che avevainvestito anche la vicina Casa di Augusto, in quell’occasione ricostruita con pubblico denaro. Siritiene infine che sia crollata solo qualche anno dopo il 64 (nel 65 o nel 68 d.C.) la già menzionatadomus della Vigna Barberini nella sua fase giulio-claudia (Villedieu 2007), ma la situazione didissesto della collina e i lavori intrapresi da Nerone su quella terrazza (v. l’edificio a torre, di cui siparla in questo volume, identificato in via di ipotesi da Maria Antonietta Tomei e FrançoiseVilledieu con la Coenatio rotunda delle fonti) potrebbero aver favorito il suo abbattimento pocotempo dopo quell’evento (Panella 2006).Lasciando il Palatino, possiamo essere certi che l’incendio ha divorato il quartiere che sorgevalungo la Via Labicana forse fino all’attuale chiesa di San Clemente (domus sottostante il Mitreo:Guidobaldi 1978), la valle tra Celio ed Esquilino, passando per l’area occupata dallo stagno prima ein seguito dagli ipogei del Colosseo (Rea et alii 2000, 2002: resti di pavimenti di età tardo-repubblicana con tracce di combustione), risalendo poi l’odierna Via Labicana. Lo attestano lestrutture in reticolato e in laterizio e i materiali arsi illustrati da Antonio M. Colini nelle tabernaelungo la Via Labicana, nella casa tardo-repubblicana con il suo straordinario pavimento a mosaicoe crustae marmoree sotto l’arena del Ludus Magnus domizianeo e sotto l’ex Esattoria Comunale(Colini 1962), così come non mancano elementi riportabili a questo disastro sul Celio, negli scavicondotti con grande cura davanti al Ninfeo del Tempio di Claudio e, forse, all’interno dell’OspedaleMilitare (Pavolini 1993).

857. Le impressionantitracce dell’incendiodel 64 d.C. sullagradinata di accesso al tempio del santuarioCuriae Veteres

8. Muro in operareticolata in una dellebotteghe poste sul frontedella domus con lefiammate dell’incendio;il pavimento è copertodai carboni non rimossidurante la fase dispoliazione

9. Tracce dell’incendioin un retrobottega della domus

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8710a. Simulazione delpropagarsi dell’incendiotra il 18 ed il 27 lugliodel 64 d.C. Giornate prima-terza(elaborazione S.Borghini, R. Carlani).

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riferimento una tradizione scritta fortemente antineroniana, altri saggi trattano in questo volume.Interessa invece verificare sul terreno ciò che anche fonti così ostili non riescono a nascondere, ecioè gli straordinari interventi urbanistici messi in campo per ricostruire la città devastata.Ritorniamo a Tacito.Annali, 15, 43: “Sulle aree della città che, dopo la costruzione della domus, restavano libere, non sicostruì, come dopo l’incendio dei Galli, senza un piano e nel disordine, bensì calcolandol’allineamento delle vie e la carreggiata ampia delle strade, ponendo limiti di altezza agli edifici[dell’altezza eccessiva della abitazioni si era occupato, come ho già detto, anche Augusto] convasti cortili e con l’aggiunta di portici, per proteggere le facciate degli isolati. Nerone promise dicostruire i portici a sue spese e di restituire ai loro proprietari le aree fabbricabili sgombre dallemacerie. Assegnò dei premi, secondo il ceto e le disponibilità economiche di ciascuno, e fissò unlimite di tempo entro cui potessero disporne, a costruzione ultimata di case o isolati. Destinò alloscarico delle macerie le paludi di Ostia e dispose che le navi, che risalivano il Tevere portandofrumento, lo discendessero cariche di macerie, e volle che per gli edifici, in certe parti della lorostruttura, non si ricorresse all’impiego di travi, ma alle pietre di Gabi o di Albano, perchérefrattarie al fuoco; poi, allo scopo che l’acqua, prima deviata abusivamente da privati, scorressepiù abbondante e in più luoghi, ad uso pubblico, vi pose dei custodi, stabilendo che ciascunproprietario tenesse in luogo accessibile il necessario per spegnere gli incendi e che ciascun edificioavesse, su tutti i lati, muri propri, senza pareti in comune. Provvedimenti questi che, accolti confavore per la loro utilità, conferiscono anche decoro alla nuova città”.Si tratta delle più antiche norme conosciute di “piano regolatore”. Ma all’inizio di questo passoTacito parla del tessuto urbano esterno alla domus, che nel frattempo Nerone stava realizzando nelcuore della città, riprendendo il progetto della Domus Transitoria (la casa “di passaggio”),interrotto dall’incendio, volto a congiungere il palazzo imperiale (Palatium) con l’Esquilino, vale adire con gli Horti di Mecenate, ereditati da Augusto alla morte del suo generale, all’interno deiquali occorre ricordare che aveva vissuto l’imperatore Tiberio dopo il suo ritorno a Roma nel 2 a.C.Caligola preferirà i vicini Horti Lamiani et Maiani, appartenuti al L. Aelius Lamia, console del 3d.C. e amico personale di Tiberio, anch’essi finiti per lascito ereditario nel demanio imperiale.

Opere preliminari alla realizzazione del progetto della Domus Aurea nella valle del Colosseo, sulla Velia, sul PalatinoSpento l’incendio, si materializzano sul terreno gli interventi cantieristici funzionali allacostruzione della nuova residenza, così come li abbiamo rintracciati nella nostra area di scavo. Difronte ad un paesaggio di rovine la prima operazione consiste nel recupero di tutti i materialiriutilizzabili. La spoliazione è sistematica, ma di tanto in tanto il lavoro deve essersi interrotto acausa del pericolo di crolli, lasciando (fortunatamente per noi) sul terreno materiali essenzialiall’interpretazione degli edifici della valle. Della Meta Sudans augustea e dell’annesso compitumrisultano, ad esempio, abbandonati alcuni frammenti della decorazione in marmo, che hannopermesso di definire nelle linee generali l’architettura del monumento. Nel santuario delle Curiaeil mancato recupero sulla platea del tempio di alcuni elementi dell’architrave iscritto, delle cornici edi un pezzo di colonna ha fornito gli elementi indispensabili per la ricostruzione dell’edificiorestaurato da Claudio, materialmente non raggiunto dallo scavo. Prelevate dalla base dell’edicola lestatue in marmo degli imperatori, sono rimaste impilate, pronte per essere portate via ma poi“dimenticate”, le lastre in marmo con le dediche agli imperatori giulio-claudii dei suonatori distrumenti in bronzo.Si procede poi allo smantellamento dei muri pericolanti e allo sgombero delle macerie, gettateinsieme alle terre di risulta negli avallamenti esistenti tra Celio, Palatino, Velia e Oppio. Rilevantitracce di tali scarichi sono stati trovati, oltre che nelle aree del nostro scavo, sulle pendicisettentrionali del Palatino, nell’attuale Via di San Gregorio, nella Via Labicana e nella zona dell’exEsattoria comunale presso il Ludus Magnus. Benché Tacito affermi, in uno dei passi già citati(Annali 15, 43), che le macerie furono trasportate ad Ostia, siamo certi che una parte di esse siastata impiegata per regolarizzare i livelli in modo da consentire sia la circolazione di uomini emezzi, sia l’impianto di blocchi edilizi regolari. In mezzo a questi accumuli abbastanza omogeneidi terre e strutture combuste, solo la vasca della Meta Sudans augustea, rivestita da uno spessococciopesto, risulta coperta da un vespaio di cocci, probabilmente per evitare in questo punto un

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88 8910b. Simulazione delpropagarsi dell’incendiotra il 18 ed il 27 lugliodel 64 d.C. Giornate quarta-nona(elaborazione S.Borghini, R. Carlani)

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9113. Hubert Robert(Parigi, 1733-1808),L’incendio di Roma.Le Havre, Musée AndréMalraux

tavolati lignei, contraffortati da pali verticali (ritti) e talvolta da puntoni orizzontali, sono rialzati,sono aggiunti ulteriori scarichi di terreno e sono effettuate altre gettate di cementizio (Zeggio1996). L’intervallo tra una gettata e l’altra è dell’ordine di un metro. In sostanza l’enormeriempimento che investe questo intero settore urbano dalla chiesa di San Clemente al CircoMassimo passando per la valle del Colosseo e che cresce in parallelo con le fondazioni èestremamente ordinato e precisamente pianificato, così come è sistematica la costruzione deimuri destinati a contenerlo.La tecnica utilizzata che abbiamo appena descritto tende a mostrare come i cavi di fondazione deidiversi corpi di fabbrica, benché partiti probabilmente da punti diversi, siano stati realizzaticontemporaneamente. Se in alcuni casi abbiamo notato delle discontinuità tra le fondazioni delletramezzature e quelle dei muri portanti, la gettata cementizia della loro parte finale è, nei punti dimaggior carico della struttura, unica. Viene a crearsi così, a seconda dei diversi blocchi edilizi, unamaglia che contiene gli interri sicuramente poco coerenti e garantisce la controspinta necessaria aisalti di quota previsti nel progetto.Su tale sistema fondale si edificano infine gli elevati. I blocchi di fabbrica della valle sono inlaterizio. Va segnalata la grande cura con cui è realizzata l’opera in tutto il comparto della valle,con mattoni di primo uso, di colore uniforme (rossi), disposti con estrema cura. A sottolineare lasolidità della struttura è anche il nucleo cementizio i cui inerti sono costituiti da frammenti dilaterizio. Differenti sono le partite utilizzate invece negli ambienti seminterrati del basamento delblocco edilizio del Palatino, ove i mattoni della cortina sono di colori diversi (rossi e gialli), mentrei nuclei cementizi presentano inerti di tufo, travertino e basalto. Tuttavia, sono proprio lecostruzioni di questo comparto che hanno conservato tracce che fanno supporre che gli elevati deimuri portanti fossero in opera quadrata di travertino, sia quelli dei portici della via diretta al Foro,sia quelli delle grandi aule che si aprivano sulla valle. Sull’articolazione del complesso della DomusAurea nella valle e sulle colline circostanti si rimanda ad altra parte del volume.

90 11-12. Gli scarichi di detriti edilizi ed i riempimenti posterioriall’incendio 64 d.C. in una delle bottegheposte sul fronte delladomus

ristagno d’acqua che avrebbe potuto compromettere il tiraggio del cementizio delle nuovefondazioni.Inoltre, mentre nell’area del futuro stagnum gli edifici preesistenti risultano rasati alla quota deipavimenti delle case distrutte e così restano, le zone destinate agli edifici di contorno sono elevateartificialmente per oltre quattro metri. In sostanza le maestranze neroniane, poste di fronteall’alternativa di rialzare l’intero comparto vallivo per poi riscavare l’invaso destinato allo specchiod’acqua, hanno scelto la soluzione di lasciare alla quota pre-incendio tale spazio, innalzandoprogressivamente i bordi. Possiamo così supporre che la profondità prevista per lo stagnum “similead un mare”, come dice Svetonio, non superava i quattro metri.Si sistemano poi a gradoni regolari gli scoscesi declivi collinari. Lungo i salti di quota dei taglicosì realizzati si costruiscono concamerazioni, che consentono di appoggiare strutture a piùpiani, praticabili ed intercomunicanti su solide sostruzioni. La rimodellazione, per mezzo di tagliprogressivi sostenuti da muri di contenimento, di un’orografia a cui si era adattata senzasostanziali modifiche l’edilizia repubblicana e alto-imperiale, fa sì che venga asportato tutto ciòche è al di sopra dei nuovi piani d’uso (è quel che accade alla parte di pendice del Palatino piùvicina alla valle, dove gli interventi neroniani hanno raggiunto i livelli arcaici ed eliminato interefasi di vita del santuario delle Curiae Veteres) e invece sepolto tutto ciò che esisteva a quote piùbasse. È quel che capita alla casa tardo-repubblicana-augustea, parzialmente conservatasi perchéspiccava ad una quota inferiore al primo di questi gradoni – alto circa quattro metri e mezzo –realizzato lungo il declivio palatino. Le botteghe disposte sul fronte strada di questa domus sonoperciò riempite di macerie grossolane (blocchi di tufo, travertino, massicciate pavimentali,scarichi di ceramiche, monete e terre; figg. 11-12; v. fig. 8). Sui vani più orientali, alle spalle delterrazzamento, viene realizzato ora (o in una fase immediatamente successiva) un diverticolo checorre in direzione del Circo Massimo ortogonale alla via verso il Foro. Ignoriamo come gliarchitetti neroniani avessero deciso di sistemare il restante tratto di pendice occupato in seguitodalle c.d. Terme di Elagabalo: gli edifici imperiali (magazzini adrianei e severiani) hanno a lorovolta apportato modifiche tali da sconvolgere l’assetto dell’area. Tuttavia è possibile supporre chequesto comparto, benché regolarizzato mediante tagli progressivi, sia stato solo sistemato averde.Lo scavo delle fondazioni dei nuovi corpi di fabbrica intercetta in profondità le stratigrafie di etàgiulio-claudia, repubblicana ed arcaica, e, in alcuni punti, il terreno vergine, costituito dairiempimenti vallivi del “Rivo Labicano” (Arnoldus 1996), riportando in superficie tutto ciò cheincontrano in profondità, in particolare i depositi votivi delle Curiae che abbiamo ritrovato, inquantità inimmaginabili, tra le terre di riporto in corrispondenza dell’angolo nord-orientale delPalatino, dove il santuario sorgeva (Zeggio 2005). Questi livelli, insieme ai terreni provenientidal taglio delle pendici, sono sparsi intorno alle fosse di fondazione e si aggiungono ai primiinterri rendendo più regolari i piani di lavoro. Man mano che le fondazioni salgono di quota, i