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Aristotele: La logica
Testi principali: De interpretatione; Analitici Primi; Topici
La scienza per Aristotele si presenta, come abbiamo visto, come un
sistema assiomatico-deduttivo. Negli Analitici secondi egli, tra le altre cose,
presenta le caratteristiche che devono avere i principi primi o assiomi delle
scienze. Negli Analitici primi, invece, Aristotele presenta le regole di
deduzione, cioè la forma che devono possedere tutte le deduzioni. Questo
insieme di regole costituisce il primo trattato di logica formale, che avrà
enorme influenza sulla logica successiva fino alla fine dell’800.
La logica di Aristotele si basa su un preciso concetto di proposizione.
Nel De interpretatione, testo dell’Organon dedicato appunto alla teoria
dell’enunciato o proposizione, Aristotele per prima cosa osserva che molti
sono gli enunciati significanti, ma non tutti costituiscono degli enunciati
dichiarativi (che dichiarano, manifestano un’opinione). Sono enunciati
dichiarativi solo quelli in cui si trovano verità o falsità (De interpretatione,
16b33-17a3), e sono le uniche proposizioni a cui il logico si interessa: ordini,
domande, esortazioni e simili sono anch’essi significativi, ma sono oggetto
di studi di altre discipline, come la retorica o la linguistica.
Un’altra distinzione che si trova nel De interpretatione (17a20-22) è
quella tra enunciato dichiarativo semplice, che afferma o nega qualcosa di
qualcos’altro ed enunciato dichiarativo composto, costituito da enunciati
dichiarativi semplici.
Gli enunciati dichiarativi semplici, osserva Aristotele, affermano o negano
qualcosa di qualcosa, e in questo Aristotele è erede di Platone, che nel Sofista
aveva affermato che il discorso minimo, e come tale soggetto a verità o
falsità, è costituito da nome e verbo (262c-263b). Tuttavia, in molti aspetti
Aristotele supera ampiamente le osservazioni platoniche. Per prima cosa egli
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chiama gli enunciati dichiarativi semplici di cui si serve la logica ‘enunciati
predicativi semplici’ (protasis, termine greco che significa anche
‘premessa’). Inoltre, gli enunciati predicativi semplici vengono analizzati nei
termini di soggetto (S) e predicato (P), nel senso che, se un enunciato
predicativo semplice dice o nega P di S, allora S e P sono i suoi termini. Gli
enunciati predicativi semplici, poi, vengono divisi in universali o particolari,
cioè in enunciati che affermano o negano P o di ogni S o di qualche S. Per
esempio, “tutti gli uomini sono mortali” afferma l’essere mortale di tutti gli
uomini; “alcuni animali non hanno sangue” nega l’avere sangue di alcuni
animali.
Ci saranno così quattro tipi di enunciati predicativi semplici:
i) universali affermativi (AaB), che affermano B di tutti gli A (es:
tutte le mucche hanno quattro stomaci);
ii) particolari affermativi (AiB), che affermano B di qualche A (es.
qualche fiore è blu);
iii) universali negativi (AeB), che negano B di qualunque A (es.
nessun uomo ha quattro stomaci);
iv) particolari negativi (AoB) che negano B di qualche A (es: alcuni
animali non hanno sangue).
La notazione AaB; AiB; AeB; AoB; è medievale e utilizza le vocali a, i
del verbo latino adfirmo per gli enunciati affermativi (rispettivamente
universali e particolari), e, o di nego per gli enunciati negativi (universali e
particolari). Va notato che le lettere B (predicato) e A (soggetto) vengono da
Aristotele utilizzate al posto di S e P. Inoltre, Aristotele usa spesso, al posto
di ‘è’ copulativo, il verbo ‘appartenere’, che assume così una funzione quasi-
tecnica, pur essendo un verbo mutuato dal linguaggio ordinario.
Il sistema logico di Aristotele (conosciuto come ‘teoria del sillogismo’) si
basa sulla teoria delle proposizioni vista. Negli Analitici primi Aristotele
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definisce il sillogismo come «un argomento in cui, assunte certe cose,
qualcosa di differente dalle cose assunte segue di necessità per il loro stesso
porsi» (Analitici primi, 24b18-20). Il greco un po’ contorto è dovuto alla
difficoltà di esprimere concetti logici in un linguaggio ordinario, ma mette
in luce il fatto che il sillogismo è un’inferenza in cui, poste delle premesse,
segue di necessità la conclusione per il solo fatto di aver posto le premesse.
Aristotele considera solo argomenti a due premesse e a una conclusione, e
queste tre proposizioni sono tutte e tre semplici, cioè affermano o negano un
predicato di un soggetto.
La prima osservazione da fare è che Aristotele voleva dare alla logica un
carattere assolutamente generale, voleva cioè che le regole logiche si
applicassero a qualunque argomento, per non farne dipendere la validità dal
contenuto proposizionale. È per questo che ha utilizzato delle lettere A, B,
C, etc., proprio a garanzia della generalità.
Se in un argomento del tipo:
ogni uomo è un animale; ogni animale è mortale; quindi ogni uomo è
mortale
Sostituisco ‘uomo’ con ‘lupo’, l’argomento resta comunque valido. Di
conseguenza, esso può essere reso così:
ogni A è B; ogni B è C; ogni A è C.
Questo è il primissimo argomento considerato da Aristotele negli Analitici
primi. Esso risulta formalmente valido, come lo sono tutti gli argomenti di
questa forma.
Proprio perché Aristotele apre la strada alla generalizzazione, si pone la
questione di come distinguere tra buoni e cattivi argomenti. La sua
definizione di sillogismo risponde a questa questione, stabilendo che un buon
argomento è quello in cui la conclusione segue di necessità dall’aver posto
delle premesse. Aggiungiamo che, secondo la definizione, la conclusione che
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segue dalle premesse è diversa dalle premesse.
La teoria sillogistica del buon argomento si trova nei primi sette capitoli
degli Analitici primi, e si occupa di proposizioni della forma i) AaB; ii) AiB;
iii) AeB, iv) AoB1. Essa funziona sulla base di un certo numero di
stipulazioni:
a) i due enunciati dichiarativi che fungono da premesse
(=enunciati predicativi semplici) devono appunto avere la forma a-e-
i-o;
b) le due premesse devono avere un termine comune, chiamato
medio. Questa stipulazione è necessaria per trarre la conclusione dalle
premesse;
c) gli altri termini (chiamati estremi) delle proposizioni che
fungono da premesse devono essere diversi;
d) la conclusione deve contenere i termini estremi e non il medio.
Nel corso della trattazione Aristotele prende in esame tutte le possibili
coppie di proposizioni semplici e individua da quali coppie può venire
inferita correttamente la conclusione e da quali no. Divide gli
accoppiamenti in tre gruppi o figure sulla base della posizione del termine
medio:
1) AxB, BxC, dunque AxC
2) AxB, CxB, dunque CxA
3) AxB, AxC, dunque CxB2
e procede al loro esame rigoroso e ordinato. Dei 192 sillogismi
possibili ne risultano validi solo quattordici.
È importante sottolineare il fatto che Aristotele afferma che
1 Negli Analitici primi si trova anche una parte che verte sui sillogismi modali, cioè sui sillogismi che
riguardano le proposizioni che esprimono ciò che vale necessariamente o ciò che vale possibilmente
(Analitici primi, 25a1-2), ma è decisamente la parte più debole e meno famosa della teoria del sillogismo. 2 Dove ‘x’ può essere sostituita solo da a, i, e, o.
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«qualunque dimostrazione e qualunque sillogismo devono procedere
secondo le tre figure che abbiamo descritto» (Analitici primi, 41b1-3).
Questa affermazione è sicuramente falsa: basti pensare a moltissimi
teoremi dell’aritmetica e della geometria, che non si presentano in forma
sillogistica pur essendo delle deduzioni valide. Il fatto è che la teoria del
sillogismo si basa sul concetto di proposizione intesa come soggetto-
predicato. Dove non c’è questa proposizione, non può esserci neanche il
sillogismo, ed è chiaro che molte proposizioni geometriche e aritmetiche
sfuggono a questa forma (si pensi per esempio alla transitività di Euclide:
a = b; b = c; dunque a = c). Resta però il fatto che la logica aristotelica
costituisce un primo geniale tentativo di formalizzare gli argomenti
scientifici.
Una seconda osservazione si impone. Aristotele presenta la sua
definizione di sillogismo non solo negli Analitici primi, ma anche nei
Topici (100a25-27), il trattato in cui Aristotele cerca di regolamentare le
discussioni dialettiche (di origine socratico-platonica) tra due
interlocutori. Nei Topici Aristotele distingue anche tra il sillogismo
dimostrativo (che parte da premesse vere, indimostrabili, insomma, dagli
assiomi) e il sillogismo dialettico, che invece parte da opinioni autorevoli,
quelle condivise universalmente o propugnate dai sapienti. Ciò significa
che la formalizzazione degli argomenti non è riservata solo alle scienze
come aritmetica e geometria, ma che in linea di principio tutte le
discipline possono sillogizzare, e in special modo la filosofia: cambierà
solo lo statuto dei principi delle dimostrazioni.
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L’Organon
Chiamiamo tradizionalmente ‘Organon’ l’insieme delle opere
aristoteliche che trattano (o si crede che trattino) la logica. Questo insieme
comprende sei trattati, ordinati nella maniera seguente:
Categorie
De interpretatione
Analitici primi
Analitici secondi
Topici
Confutazioni sofistiche.
Aristotele non è responsabile né del raggruppamento, né del titolo
(Organon) né della scelta dei trattati che l’Organon comprende, né
dell’ordine dei trattati, né dei titoli dei trattati. Tuttavia, l’origine di tutto
ciò è antica.
‘Organon’ significa ‘strumento’. Tale titolo si riferisce all’idea,
aristotelica, secondo cui la logica non è parte della filosofia (come ad
esempio pensavano gli stoici), ma uno strumento preliminare per
l’acquisizione e/o l’organizzazione delle conoscenze.
Va notato che Aristotele non utilizza mai il termine ‘logica’, né ha un
concetto unificato della logica. Egli invece parla di ‘analitica’
(intendendo con questo termine la teoria del ragionamento in generale, e
di quello scientifico in particolare), e di ‘dialettica’ (intendendo con
questo termine la teoria del ragionamento dialogato, di derivazione
socratico-platonica (si pensi al dialogo e alla confutazione).
La concezione strumentale della logica non è esplicita in Aristotele, ma
ci sono in lui degli indici:
1) l’assenza della logica dalla classificazione ufficiale delle scienze
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che si trova in Metafisica Epsilon (vedi inizio corso Introduzione ad
Aristotele);
2) due passi di Metafisica Gamma (1005b2-5; 1006a5-7) in cui si
dice che, prima di affrontare la filosofia, bisogna acquisire una
formazione propedeutica, metodologica e formale, identificata appunto
con l’analitica, cioè con la teoria della dimostrazione.
Insomma, la logica è una tecnica che bisogna dominare per
maneggiare gli argomenti scientifici, in particolare filosofici.
Poiché la logica ha funzione preliminare, si è presa l’abitudine, già
dalla tarda antichità, di situare le opere che costituiscono l’Organon
all’inizio del corpus dei trattati aristotelici. Per esempio, Andronico di
Rodi (I secolo a.C.), considerato l’editore dei testi aristotelici,
consigliava, per studiare Aristotele, di partire dallo studio dei trattati
dell’Organon.
Questa posizione ha assicurato all’Organon una notorietà e una
diffusione enormi, superiori alla notorietà e alla diffusione degli altri
scritti aristotelici. In questo modo, i manoscritti dell’Organon
conservati sono più numerosi di quelli delle altre opere di Aristotele.
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De interpretatione
Titolo
Il titolo (de interpretatione) est la traduzione latina di peri ermeneias,
che vuol dire ‘sull’interpretazione’. Per capire il senso del titolo bisogna
pensare al senso del verbo ermeneuein (da cui deriva ermeneia), che vuol
dire ‘esprimere’. Quindi, il senso del titolo è semplicemente
‘sull’espressione’, e riguarda le espressioni emesse dalla voce, cioè nomi,
verbi, enunciati, che significano qualche cosa. Ancora una volta occorre
precisare che il titolo non è dovuto ad Aristotele.
Argomento
I capitoli 1-5 dell’opera presentano quella che viene chiamata la teoria
semantica di Aristotele, cercando poi di definire il nome, il verbo,
l’enunciato (logos), l’enunciato dichiarativo (apophansis), la negazione,
l’affermazione.
La parte centrale del testo (capitoli 6-11) considera i differenti tipi di
enunciati dichiarativi, le loro proprietà logiche e le loro relazioni.
I capitoli 12-13 riguardano gli enunciati dichiarativi modali (cioè,
quelli accompagnati dagli operatori modali quali possibile, impossibile,
necessario, ecc.), mentre il capitolo 14 si occupa di un problema
particolare sulla contrarietà, e cioè se l’affermazione (per esempio, tutti
gli uomini sono giusti) trova il suo contrario nella negazione (esempio:
nessun uomo è giusto) oppure in un’altra affermazione (tutti gli uomini
sono ingiusti). Si considera che quest’ultimo capitolo all’origine fosse un
trattato indipendente, in seguito incorporato nel De interpretatione.
In questo trattato Aristotele non si interessa alla genesi e alla
formazione delle parole (coi correlati psicologici e fonologici del caso),
ma alle relazioni logiche e ai valori di verità che organizzano e regolano
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le parole. Vedremo infatti che Aristotele si occupa a un solo tipo di
enunciato, quello dichiarativo (apophantikos), il solo che può essere vero
o falso, cercando poi di individuare le proprietà e le relazioni logiche tra
tipi di enunciati dichiarativi. Nonostante sia vero che, all’inizio del primo
capitolo, Aristotele sembri presentare una teoria genetica e vagamente
psicologica del linguaggio, lo fa solo per stabilire una base su cui
sviluppare la sua teoria del linguaggio.
Capitolo 1
Le prime righe (16a1-2) annunciano il programma dei capitoli 2-6:
bisogna stabilire innanzitutto ‘che cos’è’ 1) il nome, 2) il verbo, 3) la
negazione, 4) l’affermazione, 5) l’enunciato (logos), 6) l’enunciato
dichiarativo (apophansis).
Subito dopo (16a3-8: «I suoni…sono già le stesse», p. 209 trad. Palpacelli)
Aristotele presenta quella verrà considerata la sua teoria semantica del
linguaggio. Questa teoria governa tutto il seguito del trattato, in quanto
giustifica una sorta di teoria logica del linguaggio e mostra che il linguaggio
è convenzionale.
Secondo questa teoria, i suoni (da intendere come suoni articolati, le
parole emesse con la voce, i nomi e i verbi, cioè, che costituiscono gli
elementi del discorso) sono dei simboli (o dei segni) delle affezioni
dell’anima (da intendersi nel senso di pensieri, della cui origine e sviluppo si
occupa la psicologia, come Aristotele stesso nota qualche linea dopo, in
16a8-9). Ciò che interessa ad Aristotele è mostrare che, mentre i suoni
articolati (e le parole scritte) sono simboli convenzionali dei pensieri, i
pensieri (che sono identici per tutti) sono invece immagini o somiglianze
delle cose della realtà (anch’esse identiche per tutti). Il pensiero viene così
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concepito come una sorta di immagine pittorica della cosa. In altre parole, le
cose e le loro immagini (mentali e psicologiche) sono le stesse per tutti,
mentre le parole emesse variano di gruppo in gruppo. Il valore logico (cioè,
universale e formale) delle parole consiste quindi nella loro capacità
simbolica di esprimere pensieri, a loro volta immagini delle cose.
Esempio:
parola: “albero” → pensiero dell’albero → albero reale
simbolo immagine
segno
Le parole esprimono gli stati dell’anima, significando, cioè facendo
riferimento, alle cose reali. La parola ‘blitiri’, invece, non ha nessuna
capacità simbolica, perché non esprime un pensiero e non significa nulla,
non si riferisce a nulla di reale.
Per quel che riguarda il carattere convenzionale del linguaggio, Aristotele,
come abbiamo visto, afferma che i suoni articolati emessi dalla voce sono
simboli che esprimono (rappresentano o ‘stanno al posto di’) stati
dell’anima, i pensieri. In base al simbolo si definiscono le nozioni di nome e
di verbo: dire che nome e verbo sono simboli equivale a dire che la loro
capacità di significare è per convenzione e non per natura. Il significato per
convenzione è reso possibile dall’articolazione della voce.
Nel resto del primo capitolo (16a10-18: “Così come è possibile…o in un
tempo determinato”, pp. 9-11 tr. Palpacelli) Aristotele prosegue nel mostrare
il parallelismo tra il pensiero e il linguaggio. Così come nell’anima ci sono
pensieri senza l’essere vero o l’essere falso, mentre a volte è necessario che
vero o falso ci siano, allo stesso modo è per la voce, in quanto vero e falso
hanno a che fare con connessione e divisione. Nomi e verbi, come per
esempio uomo o bianco (e, possiamo aggiungere, corre, è seduto, ecc.) si
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comportano in modo simile a pensieri senza connessione e divisione, cioè
non sono né veri né falsi. Qui Aristotele, richiamando (senza dirlo) il Sofista
di Platone, in cui si afferma che solo l’unione e verbo può essere falsa o vera
(es. ‘Teeteto vola’ o ‘Teeteto è seduto’), sostiene che perché ci siano vero o
falso occorre aggiungere qualcosa. Nel tentativo di chiarire la sua teoria,
Aristotele fa l’esempio dell’ircocervo (in greco traghelaphos), esempio
preso probabilmente perché si tratta di una connessione di due termini hircus
(capro) e cervus (cervo), che potrebbe apparire falsa (perché l’ircocervo è un
animale mitico che non esiste). Aristotele, contrariamente a ciò che
potremmo credere, dice che il nome significa (semainei) qualcosa, ma non è
ancora vero o falso. Perché ci sia verità o falsità, occorre aggiungere ‘è’, in
modo da formare la formula ‘l’ircocervo esiste’, che è chiaramente falsa.
Perché Aristotele afferma che l’ircocervo ‘significa qualcosa’? Vista la
relazione che ha stabilito tra parole, pensieri e cose, dovremmo forse dire che
il termine ‘ircocervo’ non significa nulla, dal momento che, non esistendo
l’ircocervo nella realtà, non dovremmo neppure possedere il pensiero
dell’ircocervo dal momento che, come dice Aristotele, il pensiero è
immagine o somiglianza della cosa. Probabilmente possiamo rispondere
dicendo che, sebbene l’ircocervo non esista in natura, la sua immagine è
formata a partire da una composizione di cose che esistono in natura, il capro
e il cervo.
Capitolo 2
16a19-21: «Il nome…non è dotata di significato» (p. 211 tr. Palpacelli).
Il nome viene definito da Aristotele come voce articolata che significa
(cioè esprime simbolicamente una immagine mentale) per convenzione
(phonè semantikè katà syntheken), cioè attraverso un’articolazione di suoni
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non naturale ma stipulata.
Aristotele però aggiunge altre due condizioni, una per differenziare il
nome dal verbo (anch’esso phonè semantikè katà syntheken), l’altra per
sottolineare il carattere convenzionale del nome.
1) Il nome è indipendente dal tempo (mentre il verbo, come vedremo,
‘temporalizza’ ciò che significa);
2) le parti del nome, prese separatamente, non significano nulla.
Questa caratteristica, che vedremo essere in alcuni casi problematica, si
basa sul significato simbolico e convenzionale del nome. In effetti, se si è
deciso che il nome ‘topo’—articolato nell’unione delle due sillabe ‘to’ e
‘po’—rinvia all’immagine mentale del topo che si trova nella mia anima, le
sillabe ‘to’ e ‘po’ in se stesse non rinviano all’immagine del topo nella mia
anima, e quindi non sono simboli di quest’immagine. In questo senso non
significano3 (“non sono dotate di significato”, come dice la traduzione che
stiamo utilizzando). Le sillabe, insomma, sono voci (phonai) articolate
convenzionalmente ma non significanti.
Aristotele utilizza questo criterio sia per i nomi semplici che per i nomi
composti. E qui iniziano i problemi. Infatti, mentre è chiaro che, nel nome
semplice le parti non significano nulla, nel nome composto la situazione si
complica. In esso, infatti, come lo stesso Aristotele riconosce, la parte ha un
significato, ma solo nel tutto di cui è parte; se invece è presa separatamente,
cioè isolata dal tutto di cui è parte, secondo Aristotele non significa nulla.
16a21-26: «infatti nel nome Kallippos...la parte keles <nave>» (p. 211 tr.
Palpacelli).
Dal testo Aristotele sembra trattare Kallippos come un nome semplice (ma
la cosa è controversa). Il che è bizzarro, dato che il nome è chiaramente
3 Cioè, non esprimono l’immagine mentale del topo, né rinviano al topo reale, da cui si è formata
l’immagine mentale.
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costituito da ippos (che significa “cavallo”) e da kalos (che significa “bello”).
Comunque sia, Aristotele afferma che nell’espressione “kalos ippos”, che
significa “bel cavallo”, ippos significa, mentre nel nome proprio Kallippos,
ippos non significa. Nel primo caso, cioè, il valore semantico di “cavallo”
contribuisce al valore semantico di “bel cavallo”. Nel secondo caso invece
no, dato che il nome (proprio!) Kallippos esprime simbolicamente
l’immagine mentale dell’individuo Kallippos, mentre ippos (così come
kalos) non esprime simbolicamente in nessuna maniera l’individuo
Kallippos. In effetti, Kallippos non è un bel cavallo, ma un essere umano.
Quindi: in rapporto all’individuo Kallippos, le parti del nome “Kallippos”,
separatamente prese, non significano nulla perché non esprimono
simbolicamente nulla dell’individuo Kallippos. In particolare, i significati
originali delle parti non contribuiscono in nulla al significato del nome
proprio Kallippos.
Consideriamo ora i nomi composti. Nei nomi composti, come per esempio
epaktrokeles (“nave pirata”), nome composto da epaktron (“pirata”) e keles
(“nave”), le parti che costituiscono il nome composto significano qualcosa,
ma se sono considerate separatamente (sempre però in riferimento al nome
composto) in se stesse non significano nulla. Forse Aristotele intende dire
che esse non significano nulla poiché ciò che esse significano come nomi
semplici non ha a che vedere con la nave pirata (infatti, la nave pirata non è
una nave ed un pirata), il che però non sembra essere convincente. Oppure
Aristotele vuol dire che in generale, per cogliere il significato di “nave-
pirata” non devo passare dai significati di “nave” e “pirata”. Anche in questo
caso la tesi non è convincente.
Un caso più comprensibile è forse “gratta-cielo”: per capire il senso di
‘gratta-cielo’ (che esprime l’immagine mentale del gratta-cielo), non devo
passare dalla comprensione di ‘gratta’ e di ‘cielo’. Oppure: ‘gratta’ e ‘cielo’
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nel tutto contribuiscono al significato di ‘grattacielo’, ma i loro significati
originari (gratta e cielo) avulsi dal tutto, no.
Per concludere: mentre la parte del nome semplice non significa nulla (si
pensi alla parola to-po), e dunque non è parte del nome se non in senso
puramente grammaticale (come lettere e sillabe), le parti del nome composto
significano; quanto al loro esprimere simbolicamente aspetti dell’immagine
mentale della cosa che porta quel nome, possiamo dire che ci sono casi in
cui le parti di nomi lo fanno o in parte o in tutto (si pensi a nomi ‘porta-aerei’
o ‘nave-pirata’), mentre ci sono casi in cui non lo fanno (come per esempio
‘gratta-cielo’). Questa teoria non è però espressa in maniera così esplicita da
Aristotele, anzi sembra andare contro a ciò che Aristotele dice (le parti
significano qualcosa ma come parti separate dal tutto, no).
16a26-29: «Per quanto riguarda il fatto … (la traduzione “se non quando”
è sbagliata! Sostituire con “e non è <naturale che> quando”) … è un nome»
(p. 211 tr. Palpacelli).
In questo passo Aristotele esplicita il carattere convenzionale del
linguaggio, che può essere colto a partire dal confronto con i suoni emessi
dagli animali. Gli animali, ci dice Aristotele, manifestano qualche cosa con
i loro suoni, che però sono inarticolati. Essendo inarticolati, non sono
simboli; non essendo simboli, non possono essere convenzionali, ma
significano per natura. I suoni delle bestie non possono essere divisi in unità
foniche primarie, non divisibili. Questi suoni inarticolati sono costituiti da
un’unica voce, che può variare di tonalità, volume, intensità, ma non può
comporsi di elementi differenti (si pensi ad esempio all’abbaiare di un cane).
Ora, il suono inarticolato degli animali può manifestare la presenza di
qualche cosa (per esempio, l’abbaiare di un cane manifesta la presenza di
qualcosa di pericoloso). Invece il suono articolato, la voce simbolica, può
manifestare una cosa anche quando questa è assente (parlo del mio cane che
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in questo momento non c’è). Per far ciò dobbiamo avere suoni differenti che
stipuliamo significhino cose differenti. Ma per significare cose differenti i
suoni devono risultare dalla composizione di unità foniche elementari
qualitativamente differenti, come le vocali e le consonanti.
Nel seguito del secondo capitolo Aristotele presenta delle espressioni che
non sono nomi (16a29-31, pp. 211-212 tr. Palpacelli).
Il primo esempio è quello di ‘non-uomo’, che viene definito da Aristotele
‘nome indeterminato’4 perché ciò di cui questa espressione è simbolo è
qualcosa di indefinito, dal momento che “non-uomo” può far riferimento sia
a cose che rientrano in altre specie del genere cui appartiene l’uomo (cani,
gatti, ecc.), sia a cose che fanno parte di tutt’altro genere (colori, pesi, ecc.):
in pratica, a tutto ciò che è non-uomo.
Altre espressioni (16a32-16b5, p. 212 tr. Palpacelli) che non sono nomi
sono i casi dei nomi, come il genitivo, il dativo, ecc., per esempio ‘di Filone’
o ‘a Filone’. Aristotele pensa che essi non siano nomi perché, se
accompagnati dal verbo (‘è’, ‘non è’), non danno luogo (come invece fa il
nome-soggetto) a proposizioni vere o false.
Capitolo terzo
16b6-10: «Il verbo…in relazione ad un soggetto» (p. 213 tr. Palpacelli).
LA TRADUZIONE È IN GRAN PARTE SBAGLIATA! La traduzione
corretta è:
«il verbo è ciò che aggiunge il tempo, la cui parte separata non significa
nulla: è segno delle cose dette secondo altro. Dico che aggiunge il
tempo, per esempio ‘salute’ è nome, mentre ‘è in salute’ è verbo:
4 O indefinito. I nomi indefiniti hanno acquisito una certa importanza negli sviluppi della logica. Un nome
indefinito interessante è “non-fumatore”, che in teoria ha un riferimento ampiamente indeterminato.
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aggiunge, infatti l’appartenere <della salute> ora, e sempre il verbo è
segno delle cose che appartengono, cioè di quelle <che appartengono>
secondo il soggetto».
Anche il verbo, come il nome, è una voce che significa per convenzione
(Aristotele non lo dice esplicitamente, ma è chiaro dal contesto), le cui parti,
prese separatamente, non significano nulla. È anch’esso una voce che
significa per convenzione perché rinvia a un concetto: mangiare, bere, ecc.
esprimono infatti concetti (pittorici?) e si riferiscono ad azioni reali.
Il verbo, però, si differenzia dal nome per due differenze specifiche.
La prima è che il verbo aggiunge il tempo: ‘ha mangiato’, ‘mangerà’, ‘ha
bevuto’, ecc., aggiungono delle determinazioni temporali5.
La seconda è che il verbo
«è segno delle cose dette secondo altro»
e
«è segno delle cose che appartengono, per esempio di quelle <che
appartengono> secondo il soggetto».
Il verbo, cioè, esprime simbolicamente qualcosa che si predica di qualcosa
di diverso da sé.
In effetti, mentre possiamo dire
“Socrate è uomo”,
“Socrate corre”
non possiamo dire
“mangiare è dormire”
oppure
“mangiare ha mangiato”.
In altre parole, il verbo dev’essere attribuito a qualcosa di differente da se
5 Questo sembra implicare che il valore semantico di un verbo, privato della sua connotazione temporale,
sarebbe dello stesso genere del valore semantico di un nome.
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stesso, cioè è segno di qualcosa ‘che appartiene’, che rinvia ad una
caratteristica del qualcosa di diverso cui appartiene (il mangiare di Socrate,
o il camminare di Socrate). Come tale, esprime un concetto (il mangiare di
Socrate) e rinvia alla realtà corrispondente (Socrate che mangia). Inoltre,
indica che l’oggetto designato dal nome che il verbo accompagna, possiede
la proprietà significata dal verbo ad un certo tempo t.
Per esprimere in modo chiaro l’idea di un verbo come caratterizzante o
appartenente a un soggetto, dobbiamo trasformare qualunque
determinazione verbale in una formula “è” + predicato (espresso dal
participio presente):
Socrate cammina = Socrate è camminante
Socrate beveva = Socrate era bevente
ecc. ecc6.
16b19-22: «Pertanto questi verbi … se tale cosa è o non è».
Questa affermazione turba poiché, viste le proprietà che Aristotele
attribuisce al nome e al verbo, nessun verbo è un nome.
Un modo forse per capire ciò che dice Aristotele è di intendere la frase
“verbi detti per se stessi” nel senso di “al di fuori del contesto di una frase”
e, correlativamente, comprendere la caratterizzazione del verbo dato
all’inizio del capitolo, come riguardante il verbo nel contesto della frase.
Quindi, nel contesto della frase, il verbo è una voce articolata che significa
per convenzione, che aggiunge il tempo ed è segno di qualcosa che si predica
di altro. Al di fuori della frase e in se stesso, invece, il verbo sarebbe una
sorta di nome perché 1) non temporalizzato e 2) non riferito ad altro: lo
possiamo pensare attraverso un infinito non temporalizzato, come
‘mangiare’, ‘bere’, ecc. Esso condividerebbe con il nome vero e proprio la
6 Segue una parte sui verbi indeterminato o indefiniti (16b12-18) che però non tratteremo.
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caratteristica secondo la quale, preso isolatamente, non è né vero né falso.
Un modo più semplice di comprendere ciò che Aristotele vuol dire è di
considerare il nome nel senso di ‘parola’7. Aristotele, quindi, starebbe
dicendo che il verbo è una parola che significa qualcosa.
Interessante la spiegazione (16b20-21):
«Infatti colui che li pronuncia fissa il pensiero (non: vi pone il pensiero!)
e l’uditore lo tiene in riposo (non: vi si ferma!)».
“Fissare il pensiero” significa qualcosa come “arrestare il movimento del
pensiero”. Questa tesi si trova in Platone (Cratilo e Sofista).
Ora, aggiunge Aristotele (righe 21-22), se pronuncio “cammina”, significo
qualcosa, ma non significo ancora se ‘è o non è’.
A seconda del significato che diamo a ‘è’ o ‘non è’ (copulativo (‘è il caso’,
‘non è il caso’) o esistenziale), Aristotele sta dicendo:
- o che il verbo ‘essere’, preso isolatamente non può ancora svolgere il suo
ruolo predicativo;
- oppure che il verbo ‘essere’ preso isolatamente non consente di stabilire
se il soggetto del verbo in questione esiste o non esiste.
Capitolo quarto
In questo capitolo Aristotele compie due operazioni:
1) dà una definizione di logos, tradotto nella nostra traduzione con
“discorso”, ma preferibile tradurlo con “enunciato”, in quanto anch’esso
7 Ci si può chiedere se la distinzione nome/verbo corrisponde alla distinzione soggetto/predicato. La prima
cosa da notare è che Aristotele non lo afferma da nessuna parte nel de interpretatione. La risposta è
comunque negativa. Secondo Aristotele, soggetto e predicato possono sempre scambiarsi il posto senza che
la frase risulti sintatticamente scorretta. Per esempio, scambiando il soggetto e il predicato di “tutti gli
uomini sono animali”, si otterrà la frase “tutti gli animali sono uomini”. Non si può fare la stessa cosa con
nome e verbo: ad esempio la frase “cammina Socrate”, dove cammina diviene il nome e Socrate il verbo,
non ha senso.
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suono articolato emesso con la voce;
2) indica il genere di enunciato che gli interessa considerare.
1) 16b26-33 (p. 217 tr. Palpacelli):
«Il discorso (meglio: l’enunciato) … non come un’affermazione».
Anche l’enunciato è definito come un suono dotato di significato, di cui
alcune parti sono dotate di significato, come un’espressione (phasis,
‘locuzione’? ‘frase’?) e non come un’affermazione. Aristotele vuole dire che
un logos è una voce che significa, che possiede parti di cui almeno una
significa. Per esempio, la frase ‘non camminare’ contiene come parte
significante ‘camminare’; ‘non-fumatore’ contiene come parte che significa
‘fumatore’. Ora, ‘non camminare’ e ‘non-fumatore’ sono dei logoi, delle
espressioni.
Nel resto del testo Aristotele ricapitola ciò che ha già detto. Afferma che
‘uomo’ significa qualcosa, ma non ancora che esiste o non esiste (in questo
caso avremo affermazione e negazione); afferma che invece una singola
sillaba di ‘uomo’ non significa nulla; e poi ripete ciò che ha detto dei nomi
composti.
16b33-17a7: «Ogni discorso (meglio: enunciato)…discorso enunciativo
(meglio: enunciato dichiarativo».
Precisando che il logos non significa come uno strumento (organon) ma
per convenzione (16b33-17a1), Aristotele sembra riferirsi alla distinzione tra
qualcosa che è il caso per natura e qualcosa che è il caso per convenzione.
Questa distinzione evoca due contrasti.
a) contrasto tra le cose che sono prodotte per natura e cose che non sono
prodotte per natura. Tra gli esempi di cose del primo tipo ci sono i suoni
naturali, come le grida umane (e degli altri animali) di dolore. Infatti, non
produco un determinato grido di dolore perché si è deciso prima di utilizzare
questo grido per segnalare il dolore. Tra gli esempi del secondo tipo si
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trovano i suoni non naturali come le parole: si produce una certa parola
perché si è stabilito prima di emettere questa parola per significare una certa
cosa.
b) ma la distinzione rinvia ad un altro contrasto, quello tra le cose che sono
naturalmente fatte per fare qualcosa (come per esempio una tisana, che ha la
funzione di fare digerire) e le cose che non sono fatte per natura per fare
qualcosa (cioè, gli oggetti che possiedono una relazione convenzionale con
la loro funzione, per esempio le parole e la loro funzione di significare: una
parola non è utilizzata per significare qualcosa in virtù della sua natura).
È verosimile che Aristotele in questo passo faccia allusione a entrambe le
distinzioni. Egli vuole dunque dire:
i) che le parole non arrivano in bocca in modo naturale, ma che sono state
inventate;
ii) che il legame tra le parole (per esempio ‘coniglio’) e l’oggetto che
significa (il coniglio) è convenzionale (laddove il legame tra la tisana e la
sua funzione è naturale).
17a2-7: Aristotele precisa che non ci sono solo enunciati o frasi (logoi) di
tipo dichiarativo, ma ci sono anche altre espressioni o frasi che non sono né
vere né false. E aggiunge che è solo l’enunciato dichiarativo pertinente alla
sua ricerca nel de interpretatione, mentre invece gli altri tipi di enunciati o
frasi (come per esempio le preghiere) sono oggetto della retorica o della
poetica. Quando Aristotele dice che solo l’enunciato dichiarativo è di
competenza del de interpretatione, si ritiene che voglia dire che gli altri
enunciati (come preghiera, domanda, invocazione) non fanno parte della
logica, cioè di una ricerca circa la verità delle inferenze.
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Capitolo quinto
In questo capitolo Aristotele affronta due questioni: 1) quella dell’unità
dell’enunciato; 2) quella di una classificazione dei differenti tipi di
enunciato.
Noi ci interessiamo a 2), con particolare riferimento agli enunciati
dichiarativi.
All’inizio del capitolo, in 16a8-9 (p. 219 tr. Palpacelli), Aristotele afferma
che «il primo enunciato dichiarativo (logos apophantikos) uno è
l’affermazione (kataphasis), poi viene la negazione (apophasis)».
Lasciando da parte la questione dell’unità dell’enunciato dichiarativo,
notiamo che Aristotele sembra porre una relazione di successione tra
l’affermazione (che sarebbe anteriore) e la negazione. Generalmente si
ritiene che una negazione sia equivalente ad una affermazione accompagnata
dalla negazione. Va notato che i commentatori antichi hanno molto discusso
su questa relazione, basandosi sulla priorità dell’essere sul non essere, cioè
sull’idea che il positivo preceda il negativo. Per esempio, viene osservato
che prima conosci o concepisci l’esistenza di qualcosa, poi la sua non
esistenza.
Alle righe 20-23 (p. 219 tr.), Aristotele presenta una distinzione tra
enunciati dichiarativi semplici e enunciati dichiarativi composti:
«Tra i discorsi enunciativi…distinzione dei tempi».
In questa traduzione ci sono imprecisioni, quindi propongo la traduzione
seguente:
«tra gli enunciati dichiarativi si distinguono l’enunciato dichiarativo
semplice, cioè quello <che esprime> qualcosa secondo qualcosa, o qualcosa
separato da qualcosa, e quello composto da enunciati dichiarativi semplici
(…) L’enunciato dichiarativo semplice è una voce che significa riguardo al
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fatto se qualcosa appartiene o non appartiene, secondo la distinzione
temporale».
Qui viene definito l’enunciato dichiarativo, sulla base del genere comune
in cui rientrano anche il nome e il verbo, e delle caratteristiche, che abbiamo
vistò, attribuite da Aristotele al nome e al verbo.
1) l’enunciato dichiarativo è una voce che significa (per convenzione).
Questo vuol dire che esso esprime un mio pensiero, una mia opinione, che si
trova nella mia mente in forma proposizionale (es. “i gamberetti camminano
all’indietro”), e si riferisce alla realtà su cui il mio pensiero si è formato, cioè
il fatto che i gamberetti camminano all’indietro.
2) l’enunciato dichiarativo esprime qualcosa secondo qualcosa (ti kata
tinos) o qualcosa separato da qualcosa (ti apo tinos).
Qui Aristotele sta parlando di affermazioni (ti kata tinos) e negazioni (ti
apo tinos) (vedi sotto, capitolo sesto). Es:
“gli esseri umani sono bipedi”
“gli ovini non sono bipedi”.
Nel primo caso, si dice o si attribuisce qualcosa (essere bipede) a qualcosa
(essere umano), nel secondo caso si nega qualcosa (essere bipede) di
qualcosa (ovino).
Aristotele esprime lo stesso concetto parlando di “appartenere o non
appartenere” (yparchein).
Capitolo sesto
In questo capitolo Aristotele, dopo aver identificato l’affermazione con
ciò che esprime qualcosa di qualcosa e la negazione come ciò che separa
qualcosa da qualcosa, presenta due teoremi, legati l’uno all’altro.
Il primo si trova in 17a25-31 (p. 221 tr. it.):
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«L’affermazione…qualcuno abbia negato (sostituire tutte le occorrenze di
‘ciò che è in relazione’, ‘ciò che non è in relazione’, con ‘ciò che appartiene’,
‘ciò che non appartiene’)».
Il primo teorema afferma che
“se si può affermare qualcosa si può negare questo qualcosa, e se si può
negare questo qualcosa, si può affermare questo qualcosa”.
Nelle parole di Aristotele:
i) si può enunciare qualcosa che appartiene come se non appartenesse;
ii) si può enunciare qualcosa che non appartiene come se appartenesse;
iii) si può enunciare qualcosa che appartiene come se appartenesse;
iv) si può enunciare qualcosa che non appartiene come se non
appartenesse.
Il secondo teorema si trova in 17a31-34:
«Di conseguenza…contrapposte».
Il secondo teorema afferma che “per ogni affermazione c’è una negazione
che le si oppone, per ogni negazione c’è un’affermazione che le si oppone”.
Questo secondo teorema è una conseguenza del primo.