appunti sul cinema italiano

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1 Il cinema in lingua italiana. Evoluzione e tendenze di questo mezzo d’espressione. BIBLIOGRAFIA Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. Editrice Il Castoro, Milano. Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi. Editrice Il Castoro, Milano. Boschi, A. (1998) Teorie del Cinema. Il periodo classico 19151945. Carocci editore, Roma. Buono Hodgart, L. (2002) Capire l’italia e l’italiano. Guerra Edizioni, Perugia. Casetti, F. (1998) Teorie del cinema 19451990. VI edizione Studi Bompiani. Milano. Brunetta G.P., Cent'anni di cinema italiano, Laterza, RomaBari, 1995. Carabba C., Il cinema del ventennio nero, Vallecchi, Firenze, 1974. Chiti R.Lancia E., Dizionario del cinema italiano. I film. Vol.1. Dal 1930 al 1944, e Vol 2 dal 1945 al 1992 Gremese, Roma, 1993. Chiti R., Lancia E., Orbicciani A., Poppi R., Dizionario del cinema italiano. Le attrici, Gremese, Roma, 1999. Di Giammatteo F., Dizionario del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1995. Faldini F.Fofi G., ( a cura di), L'avventurosa storia del cinema italiano 19331959, Feltrinelli, Milano, 1979. Faldini F., Fofi G., Il cinema italiano d’oggi 19701984, Mondadori, Milano, 1984 Giusti M., Dizionario dei film italiani stracult, Frassinelli, Milano, 2004. Lancia E., Dizionario del cinema italiano. I film. Vol.6. Dal 1990 al 2000. Gremese, Roma, 20012002 Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile. (Ennio Flaiano) 1. Il cinema in lingua italiana: le prime produzioni e proiezioni cinematografiche (1896-1902) 2. Analisi dell’evoluzione dell’Industria cinematografica italiana 2.1. Periodo di formazione (1903-1909) 2.2. Periodo aureo (1910-1914) 2.3. Avanguardie, dive e film di propaganda (1911-1919) 2.4. La grande crisi (1919-1929) 2.5. Cinecittà, telefoni bianchi e calligrafismo (1937-1943) 2.6. La stagione neorealista (1943-1955) 2.7. Il cinema d’autore degli anni cinquanta, sessanta e settanta 3. Il nuovo mappa del cinema italiano: principali registi 3.1. Federico Fellini, il regista (1920-1993) 3.2. Pier Paolo Pasolini, un caso unico (1922-1975) 3.2. Nanni Moretti, l’autarchico (1953) 3.3. Grabiele Salvatores, il ragazzo timido che sognava Hollywood (1950) 3.4. Roberto Benigni, il mostro (1952)

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Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile. (Ennio Flaiano)

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Page 1: Appunti Sul Cinema Italiano

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Il cinema in lingua italiana.

Evoluzione e tendenze di questo mezzo d’espressione.

        BIBLIOGRAFIA  

Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. Editrice Il Castoro, Milano.  Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dal dopoguerra a oggi. Editrice Il Castoro, Milano.  Boschi, A. (1998) Teorie del Cinema. Il periodo classico 1915‐1945. Carocci editore, Roma.  Buono Hodgart, L. (2002) Capire l’italia e l’italiano. Guerra Edizioni, Perugia.  Casetti, F. (1998) Teorie del cinema 1945‐1990. VI edizione Studi Bompiani. Milano.  Brunetta G.P., Cent'anni di cinema italiano, Laterza, Roma‐Bari, 1995.   Carabba C., Il cinema del ventennio nero, Vallecchi, Firenze, 1974.   Chiti R.‐Lancia E., Dizionario del cinema italiano. I film. Vol.1. Dal 1930 al 1944, e Vol 2 dal 1945 al 1992 Gremese, Roma, 1993.   Chiti R., Lancia E., Orbicciani A., Poppi R., Dizionario del cinema italiano. Le attrici, Gremese, Roma, 1999.   Di Giammatteo F., Dizionario del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1995.   Faldini F.‐ Fofi G., ( a cura di), L'avventurosa storia del cinema italiano 1933‐1959, Feltrinelli, Milano, 1979.   Faldini F., Fofi G., Il cinema italiano d’oggi 1970‐1984, Mondadori, Milano, 1984   Giusti M., Dizionario dei film italiani stracult, Frassinelli, Milano, 2004.   Lancia E., Dizionario del cinema italiano. I film. Vol.6. Dal 1990 al 2000. Gremese, Roma, 2001‐2002  

 Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile. (Ennio Flaiano)  

1. Il cinema in lingua italiana: le prime produzioni e proiezioni cinematografiche (1896-1902)

2. Analisi dell’evoluzione dell’Industria cinematografica italiana 2.1. Periodo di formazione (1903-1909) 2.2. Periodo aureo (1910-1914) 2.3. Avanguardie, dive e film di propaganda (1911-1919) 2.4. La grande crisi (1919-1929) 2.5. Cinecittà, telefoni bianchi e calligrafismo (1937-1943) 2.6. La stagione neorealista (1943-1955) 2.7. Il cinema d’autore degli anni cinquanta, sessanta e settanta

3. Il nuovo mappa del cinema italiano: principali registi 3.1. Federico Fellini, il regista (1920-1993) 3.2. Pier Paolo Pasolini, un caso unico (1922-1975) 3.2. Nanni Moretti, l’autarchico (1953) 3.3. Grabiele Salvatores, il ragazzo timido che sognava Hollywood (1950) 3.4. Roberto Benigni, il mostro (1952)

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3.5. Gianni Amelio (1945) e Marco Risi (1951): i registi dello sdegno 3.6. Giuseppe Tornatore (1956)

 

 

1. Il cinema in lingua italiana: le prime produzioni e proiezioni cinematografiche (1896-1902)

Questa nuova invenzione è, il coronamento di un antico sogno dell´uomo: quello di riprodurre la realtà, la vita stessa. La prima pellicola girata in Italia dall´operatore Vittorio Calcina per conto della Sociéte Lumiere è dal 20 novembre 1896 e il suo titolo è “Umberto e Margherita di Savoia a passeggio per il parco”. Ben presto nasce il racconto cinematografico. Il 1905 è l’anno in cui si realizza “La presa di Roma” regia di Filoteo Alberini, considerata il primo film a soggetto della storia del cinema italiano. L´industria cinematografica è legata soprattutto a una persona o a un gruppo familiare. I film che vengono realizzati vengono definiti dentro “scuola storico-spettacolare”, film concepiti per meravigliare al massimo gli spettatori con grandi eventi del passato.

Approfondimenti

Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. Pp 52-54 Editrice Il Castoro, Milano.

Il cinema rappresentò una sorprendente novità negli anni Novanta del XIX secolo, ma la sua realizzazione fu il risultato di un insieme più vasto e vario di forme di intrattenimento nate in epoca vittoriana.

Verso la fine del diciannovesimo secolo, molte famiglie possedevano strumento ottici simili allo zootropio, stereoscopi e visori portatili che creavano un effetto tridimensionale grazie a carte rettangolari con due fotografie stampate su ogni lato. I mazzi di carte raffiguravano luoghi esotici o rappresentazioni teatrali. Molte famiglie della classe media spesso possedevano anche pianoforti attorno ai quali si riunivano per cantare insieme. La crescente alfabetizzazione portò alla diffusione della letteratura popolare economica. La possibilità recentemente acquisita di stampare le fotografie, diede il via alla pubblicazione di libri di viaggio attraverso i quali il lettore poteva vedere terre lontane che altrimenti non avrebbe mai visitato.

A quel tempo il pubblico aveva a disposizione svariate altre forme di divertimento: tutte le città a parte le più piccole, avevano dei teatri, mentre in tutto il Paese giravano spettacoli itineranti. Potevano essere compagnie drammatiche che mettevano in scena rappresentazioni, oppure oratori che illustravano I loro discorsi con proiezioni di lanterne magiche, o anche concerti che usavano il fonografo di recente invenzione per portare le musiche delle orchestre delle grandi città a un vasto pubblico. Il teatro di varità offriva al pubblico medio diversi numeri in un singolo programma che potevano variare da spettacoli di animali a giocolieri con piatti rotanti, a comici.

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Il nuovo mezzo cinematografico si inserì facilmente in questa varietà di divertimenti popolari. In Italia sarà il 29 di marzo di 1896, il momento della prima proiezione a Roma e a Milano. I primissimi film risultano così anomali da chiedersi che tipo di fascino potessero avere sul pubblico: con un po’ di immaginazione, tuttavia, si può supporre che il pubblico delle origini fosse interessato al cinema per le stesse ragioni che attraggono il pubblico di oggi. Tutti i generi usati agli inizi del cinema hanno infatti un equivalente nei mezzi di comunicazione contemporanei. Le veloci immagini dei cinegiornali, per esempio, possono sembrare povere, ma sono simili ai brevi servizi dei telegiornali odierni.

I panorami originariamente offrivano agli spettatori brevi visioni di terre lontane, cosi come oggi I documentari sulla natura mostrano analoghe vedute esotiche. Tuttavia, come vedremo più avanti, i film di finzione diventarono gradualmente la principale attrazione del cinema popolare delle origini, e da allora sono rimasti tali.

La maggior parte dei film delle origini era composta da una sola inquadratura. La macchina da presa rimaneva sempre nella stessa posizione e l’azione si svolgeva nel tempo di un’unica ripresa. In alcuni casi i registi facevano diverse riprese di un singolo soggetto, ma queste venivano poi trattate come una serie di film separati.

Nella prima decade della storia del cinema si proiettavano film in molte parti del mondo, ma la loro realizzazione avveniva principalmente nei Paesi in cui la macchina da presa era stata inventata: Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.

2. Analisi dell’evoluzione dell’Industria cinematografica italiana

2.1. Periodo di formazione (1903-1909) 2.2. Periodo aureo (1910-1914) 2.3. Avanguardie, dive e film di propaganda (1911-1919) 2.4. La grande crisi (1919-1929) 2.5. Cinecittà, telefoni bianchi e calligrafismo (1937-1943) 2.6. La stagione neorealista (1943-1955) 2.7. Il cinema d’autore degli anni cinquanta, sessanta e settanta

2.1. Periodo di formazione (1903-1909)

Fino alla I Guerra Modiale è lo splendore del cinema italiano (70 case di produzione e 1500 sale cinematografiche).Generi:

- Cinema letterario: tutte le opere letterarie più note vengono tradotte sullo schermo. - Cinema realista: ha un ruolo minoritario ma importante rappresentando una certa realtà

popolare italiana di quel periodo. - Cinema dannunziano: la stragrande maggioranza della produzione ha come punto di

riferimento fondamentale la presenza di Gabrielle D´Annunzio. Le storie che i film di quell epoca raccontano sono, in gran parte, storie dannunzione: passioni, estasi amorose,...

- Cinema comico: uno dei caratteri fondamentali del cinema comico italiano del periodo muto è quello della serialità, una serie di film con il medesimo personaggio in diverse situazioni.

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L'industria cinematografica italiana nasce fra il 1903 e il 1908 sulla scorta di tre importanti case di produzione: la Cines, nata a Roma per iniziativa di Filoteo Albertini, che aveva i suoi studi in Via Vejo, l'Ambrosio di Torino che spaziava dal film a soggetto comico a quello a soggetto drammatico, puntando anche sui primi cinegiornali, e l'Itala film. Altri stabilimenti di produzione sorgono a Milano e a Napoli: copie di film italiani cominciano a partire per l'estero e il cinema italiano diventa in breve una delle industrie più importanti del settore. Se negli USA nasce e si sviluppa il western, in Italia, come nel resto dell'Europa, grande impulso ha la produzione del film storico, soprattutto di ambientazione classico-romana, che alla vigilia della prima guerra mondiale conquista un vero e proprio primato di consensi nell'Europa, muoveva i primi passi sulla strada della cinematografia.

Approfondimenti

Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. Pg-72. Editrice Il Castoro, Milano.

Prima del 1904 l’andamento dell’industria cinematografica era stato fluttuante. L’Italia e la Danimarca divennero importanti produttori e il cinema, sia pure in forma meno massiccia, apparve in molte altre zone.

Dopo il 1905 i film divennero più lunghi, cominciarono a essere composti da diverse inquadrature e a raccontare storie più complesse. I registi sperimentarono nuove tecniche per comunicare le informazioni narrative. Forse in nessun altro periodo della storia del cinema si è assistito ad altrettanti cambiamenti nelle caratteristiche formali e stilistiche di questo mezzo.

L’Italia arrivò un po’ più tardi sulla scena della produzione cinematografica, che però a partire del 1905 si sviluppò rapidamente. Nel giro di pochi anni l’industria cinematografica italiana cominciò a assomigliare a quella francese.

Sebbene i film venissero prodotti in parecchie città:

La Cines di Roma, fondata nel 1906. La Cines, per esempio, chiese in prestito uno dei principali registi della Pathé, Gaston Velle, come direttore artistico. *L’industria cinematografica francese dominava in questo periodo il mercato internazionale e i suoi film erano i più visti nel mondo. Le due principali società, La Pathé Frères e la Gaumont. La Ambrosio 1905 La Itala di Torino 1906

In breve tempo emersero come le principali case di produzione. Queste nuove società a cui mancava il personale specializzato, chiamarono alcuni artisti dalla Francia. Di conseguenza alcuni film italiani erano imitazioni se non addirittura remake di film francesi. Anche le proiezioni aumentarono rapidamente. In Italia la proiezioni di film negli spettacoli itineranti e in altre manifestazioni temporanee era meno importante rispetto ad altri Paesi europei. Vennero aperte molte sale prima che in altri Paesi.

I produttori italiani si cimentarono nella realizzazione dei “film d’arte” nello stesso momento in cui la Film d’Art stava realizzando “l’assassinat du duc de Guise”. Nel 1908 la Ambrosio realizzò “Gli ultimi giorni di Pompei”, il primo di tanti adattamenti dal romanzo storico di Bulwer – Lytton.

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Il risultato della popolarità di questo film fu che il cinema italiano venne identificato con lo spettacolo storico.

2.2. Periodo aureo (1910-1914) Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. pg. 72. Editrice il Castoro, Milano.

Nel 1910, l’Italia era probabilmente seconda solo alla Francia per numero di film esportati all’estero. I produttori italiani furono fra i primi a realizzare costantemente film di più di un rullo (quindi più lunghi di quindici minuti), anche grazie al fatto che avevano a loro disposizione molte sale permanenti. Nel 1910 Giovanni Pastrone, uno dei maggiori registi dell’epoca, girò “La caduta di Troia”, in tre rulli. Il trionfo di questo film e di altre pellicole simili incoraggiò I produttori italiani a realizzare film storici più lunghi e più fastosi, inaugurando una moda che culminò alla metà degli anni Dieci.

Non tutti I film italiani erano in costume, però a partire dal 1909, per esempio, i produttori ricominiciarono a imitare i francesi realizzando parecchie serie comiche. La Itala Film, chiese alla Pathé, André Deed, che dopo poco tempo abbandonò il personaggio di Boireau per diventare Cretinetti. Altre società scoprirono le comiche francesi o italiane e vi costruirono attorno una serie, come Robinet, della Ambrosio o Polidor, dellla Cines. Questi film era molto più economici, più vivaci e spontanei dei film storici e divvenero famosi in tutto il mondo. Furono realizzate centinaia di queste pellicole, ma la moda declinò gradualmente nel corso degli anni Dieci.

Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. pg 104-105. Editrice il Castoro, Milano.

Il cinema italiano prosperò nella prima metà degli anni Dieci. Il successo dell’esportazione e l’incremento della realizzazione di lungometraggi, attrasse molte forze di talento verso l’industria cinematografica, creando così uno stimolante clima di concorrenza tra le compagnie di produzione. I trionfi maggiori all’estero continuavano ad essere decretati a film storici, come “Quo Vadis? (1913) di Enrico Guazzoni, il cui successo confermò l’epica come il genere per eccellenza del cinema italiano.

Il 1914 fu l’anno dei film più acclamati di quel periodo “Cabiria” di Giovanni Pastrone. Ambientato nella Cartagine del III secolo a.C., Cabiria si sviluppa tra rapimenti e sacrifici umani, mentre l’eroe Fulvio e il suo schiavo forzuto Maciste cercano di salvare la protagonista. Tra le scene di un palazzo distrutto da una eruzione vulcanica e templi dove i bambini vengono sacrificati nella statua infuocata di Moloch pagano, Cabiria si segnala anche per un uso innovativo delle riprese realizzate con il carrello, alternate alle scene statiche.

Infatti, anche se I movimenti di macchina erano già stati adottati nei primi anni del cinema, soprattutto in adattamenti teatrali e il movimento era già stato usato per suggerire moduli espressivi, l’abilità mostrata in Cabiria fu decisamente più influente, tanto che il movimento “carrello alla Cabiria” divenne un elemento ricorrente nei film della metà degli anni Dieci.

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Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. pg 105. Editrice il Castoro, Milano.

Lo star system: il firmamento divistico

Un secondo e ben distinto genere del cinema italiano si sviluppò come diretta conseguenza della nascita dello star system. Numerose attrici, le “dive”, divennero immensamente popolari. I film appartenenti a questo filone ritraevano storie di passioni e intrighi dell’alta borghesia o dell’aristocrazia, condite con una miscela tragica di erotismo e morte, con grande profusione di esotici e lussureggianti costumi che contribuivano non poco al successo del genere.

Fu “Ma l’amor mio non muore” (1913), di Mario Caserini a fissare le coordinate del genere, e soprattutto a lanciare nel firmamento divistico la protagonista del film Lyda Borelli.

2.3. Avanguardie, dive e film di propaganda (1911-1919)

Accanto al film storico in questo periodo comincia a riscuotere successi il filone realistico, nel quale si innestano la letteratura verista e la narrativa meridionale. Di questo filone fanno parte film come “Sperduti nel buio” (1914), considerato un antenato del neorealismo; Assunta Spina (1915), ambientato nei "bassi" napoletani e interpretato con molta aderenza alla drammaticità del testo da Francesca Bertini; “Cenere” (1916), tratto dalle pagine di Grazia Deledda e interpretato da Eleonora Duse

Il genere divistico

La maggiore rivale della Borelli fu Francesca Bertini che nel 1915 con Assunta Spina di Gustavo Serena, inaugurava una lunga serie di interpretazioni memorabili. Il genere divistico rimase popolarissimo per tutta la seconda metà degli anni Dieci, per poi declinare rapidamente nel decennio successivo.

Il genere degli “uomini forti”

L’equivalente maschile della diva era il personaggio del forzuto, I cui caratteri principali furono definiti per la prima volta dall’Ursus di Quo Vadis? e dallo schiavo di Cabiria, Maciste. Quest’ultimo, interpretato dall’ex camallo del porto di Genova, Bartolomeo Pagano, impressionò talmente il pubblico da creare appositamente per lui la serie dei film di Maciste che continuarono fino agli anni Venti. Diversamente da Cabiria, l’azione di questi film era collocata nel presente. Anche questo genere, così com’era rapidamente giunto al successo, altrettanto rapidamente declinò dopo il 1923, anno in cui il sistema del cinema italiano entrò in crisi; salvo poi riapparire decenni più tardi con film quali “Le fatiche di Ercole” (di Pietro Francisci, 1957) sempre imperniati su eroi muscolosi e ambientazioni epiche, che presero il nome di peplum.

Il Futurismo

L'Italia fu il primo paese a portare un movimento d'avanguardia nel cinema, grazie al Futurismo. Il Manifesto della Cinematografia Futurista risale al 1916 (ma alcuni esperimenti erano già avvenuti anteriormente) e fu firmato, tra gli altri, da Filippo Marinetti, Armando Ginna, Bruno Corra, Giacomo Balla, ecc.

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Per i futuristi il cinema era l'arte ideale per i loro "meravigliosi capricci", essendo giovane, privo di passato e capace di estrema duttilità e velocità grazie al montaggio e gli effetti speciali, che divennero parte integrante di un nuovo linguaggio creativo e sovversivo (non come semplici attrazioni mostrative). Molte delle già di per sé scarse opere del cinema futurista sono andate perdute. Tra le più significative resta Thaïs di Anton Giulio Bragaglia (1917) dove le scenografie ipnotiche e simboliste di Enrico Prampolini fecero da fonte d'ispirazione per il successivo cinema espressionista tedesco.

Film di propaganda

Sempre durante questo periodo si sviluppò un filone particolare del cosiddetto film propagandistico: quello in cui un eroe, mitologico o anche delle vecchie comiche s'immerge in avventure belliche distinguendosi per coraggiosi atti di eroismo, ma senza mai calcare la mano sulla violenza effettiva della guerra.

2.4. La grande crisi (1919-1929)

Dopo la guerra l’Italia cercò di riguadagnare un posto nel mercato mondiale, anche tramite iniziative quali la nascita, nel 1919, dell’Unione Cinematografica Italiana (UCI); ma la concorrenza degli Stati Uniti e la sclerotizzazione di formule produttive ormai superate portò al declino degli anni Venti.

Bordwell, D. e Thompson, K. (1998) Storia del cinema e dei film. Dalle origini al 1945. pg 379. Editrice il Castoro, Milano.

Nel 1930 uno scrittore italiano lamentava: Perché non è nato un cinema ispirato alla grande rivoluzione fascista da opporre a quello ispirato dalla rivoluzione comunista?”. La domanda sembrava ragionevole poiché Mussolini salì al potere nel 1922, appena cinque anni dopo la Rivoluzione Bolscevica e con un decennio di ianticipo sul nazismo tedesco; e tuttavia per tutti gli anni Venti il fascismo no si diede troppo da fare per metttere i media sotto controllo: l’unico sforzo importante del governo per centralizzare la propaganda fu la costituzione dell’Unione Cinematografica Educativa (LUCE) allo scopo di controllare documentari e cinegiornali.

Diverse furono le ragioni di questa politica di disinteresse: l’ideologia fascista, fondata quasi esclusivamente sul nazionalismo, era più vaga di quelle comunista e nazista; anche il regime di Mussolini, fondato su una coalizione tutt’altro che compatta di proprietari terrieri di provincia, intellettuali scontenti, fanatici patrioti e una passiva classe media, era meno stabile.

Pur cercando di disciplinare la vita pubblica, il governo fascista tendeva a non toccare gli interessi privati e preferì dare assistenza all’industria senza nazionalizzarla. L’Italia offre così un terzo esempio di come il cinema si comportò sotto una dittatura negli anni Trenta e Quaranta.

Dopo la fine della Prima Guerra, il cinema italiano attraversò un fortissimo periodo di crisi, dovuta soprattutto al proliferare di piccole case di produzione che fallivano generalmente dopo pochi film e da alcune scelte organizzative sbagliate. Resistono ancora i drammi passionali, perlopiù ripresi da testi letterari e teatrali classici.

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2.5. Cinecittà, telefoni bianchi e calligrafismo (1937-1943)

Tendenze dell’Industria

Alla fine degli anni Venti, l’imprenditore Stefano Pittaluga cercò di rianimare l’industria cinematografica italiana creando una società a concentrazione verticale: dopo aver rilevato alcune case di produzione e di distribuzione minori e catene di sale, acquistò il vecchio studio della Cines e lo riaprì con grande clamore nel 1930. Per qualche anno, la nuova Cines dominò la produzione italiana, soprattutto perché era l’unica a possedere apparecchiature per la registrazione del suono, ma non poteva risanare da sola un’industria in crisi; le sale prosperavano ma a dettare legge erano i film stranieri, soprattutto americani, e l’avvento del sonoro accelerò il declino della produzione: nel 1930 si fecero soltanto dodici film italiani; nel 1931 appena tredici.

1930; 12 films italiani

1931; 13 films italiani

Quando l’economia italiana fu colpita dalla Depressione, il governo iniziò a sostenere diverse industrie e il cinema fu oggetto di una serie di leggi protezionistiche tra il 1931 e il 1933; il governo garantì sussidi sulla base degli incassi, obbligò le sale a proiettare un dato numero di film italiani, tassò i film stranieri e stabilì un fondo per conferire premi a film di alta qualità. Nel 1932 il regime di Mussolini inaugurò anche la Mostra del Cinema di Venezia, ideata come vetrina internazionale per i film italiani.

Simili sforzi incoraggiarono alcuni produttori a entrare nel mercato dopo il 1932 al declino della Cines corrispose la nascita di Lux, Manenti, Titanus, ERA e altre case di produzione, alla fine degli anni Trenta, la produzione nazionale poteva contare su circa quarantacinque film all’anno.

1939; 45 films italiani

Nello stesso momento il fascismo istituì il Ministero della Cultura Popolare (popolarmente abbreviato in Min.Cul.Pop) il quale, dopo un disastroso incendio, avvenuto nel 1935, negli studi cinematografici della vecchia Cines (episodio avvolto nel mistero, che continua ancora oggi a far discutere storici e studiosi) suggerì la creazione di una struttura importante per rilanciare un cinema italiano altrimenti destinato all'agonia.

Mussolini approvò in pieno: venne trovata un'area a sud-est della capitale e dopo due anni di lavoro, il 21 aprile 1937 il Duce stesso presenziò alla solenne inaugurazione di Cinecittà, coniando lo slogan celebre "La cinematografìa è l'arma più forte".

Venne concepita alla maniera di Hollywood, con tutto quello che qualsiasi cineasta poteva desiderare per la realizzazione di un film: teatri di posa, servizi tecnici ed il famoso Centro Sperimentale di Cinematografia, che si rivelò una vera e propria fucina per futuri celebri maestri, con annessa la Cineteca Nazionale.

Due anni più tardi, il 1 gennaio 1939, entrò in vigore il cosiddetto monopolio, una legge che di fatto bloccava in gran parte l'importazione della cinematografìa estera (soprattutto americana, vista allora come il fumo negli occhi) favorendo una più ampia produzione di film italiani. Si svilupparono così due filoni principali, le commedie dei telefoni bianchi e il più impegnato calligrafismo.

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Cinema dei telefoni bianchi ed il calligrafismo

La produzione più commerciale di questo periodo è conosciuta con il nome di "cinema dei telefoni bianchi", in cui l'idea dello sfarzo e del lusso era comunicata da immancabili telefoni bianchi negli interni di palazzi fintamente sfarzosi, abitati da commendatori galanti e da nobili improbabili.

La stagione cinematografica dei telefoni bianchi interessò un periodo di tempo relativamente breve. Il nome proveniva dalla presenza di telefoni bianchi nelle sequenze di alcuni film prodotti in questo periodo, sintomatica di benessere sociale: uno status symbol atto a marcare la differenza dai telefoni neri, maggiormente diffusi.

"Gli uomini che mascalzoni" di Mario Camerini (1932)

La serie di film “dei telefoni bianchi” il cui contenuto non era direttamente legato al fascismo e alla sua ideologia, sonon delle commedie, il loro compito è quello di divertire, di distrarre le masse di spettatori da quelli che sono I reali e gravi problemi del presente. Uno dei registi che rappresenta questo aspetto della commedia era Mario Camerini. I suoi film hanno una costante comune: il tentativo da parte dei protagonisti di fare un “salto di classe”, che viene sempre frustato, una delle idee fasciste di restare ognuno al suo posto. Si può parlare di una propaganda indiretta del fascismo.

Il calligrafismo, tendenza caratterizzata per i suoi impulsi decorativi e la sua ripulsa della realtà sociale, tornava alle tradizioni teatrali del diciannovesimo secolo.

2.6. La stagione neorealista (1943-1955)

Nel corso della seconda guerra mondiale, ma soprattutto negli ultimi anni del conflitto (1943-1945) l'Italia conosce lutti e distruzioni immani. Poiché Cinecittà, il complesso di studi cinematografici che dall'aprile del 1937 era stato il centro della produzione cinematografica italiana, fu occupata dagli sfollati sul finire del secondo conflitto mondiale e nell'immediato dopoguerra, i film vennero spesso girati in esterno, sullo sfondo delle devastazioni belliche, nei primi anni di sviluppo e di diffusione del neorealismo.In questo contesto si sviluppa il neorealismo, un movimento artistico e culturale che riguarda tutte le forme di arte, ma in particolare il cinema.

Il cinema neorealista ha lo scopo principale di rappresentare la situazione reale del paese: le trame dei film ruotano spesso attorno alle vicende, e vicissitudini, di famiglie povere; gli attori sono frequentemente non professionisti, immersi pertanto nella vita di tutti i giorni; c'è una particolare attenzione all'uso della lingua, con grande ricorso ai dialetti regionali; per quanto riguarda l'immagine i registi (tra cui Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Giuseppe De Santis, Pietro Germi) si propongono di non truccare la realtà, rinunciando all'illuminazione artificiale e alle riprese in studio per privilegiare quelle all'aria aperta, con gli interni girati non negli studios ma in case di parenti o amici. In una posizione molto più defilata, "autonoma", appare in quegli anni Federico Fellini, autore formatosi presso la grande scuola neorealista ma nel contempo alla ricerca di una dimensione estetica che gli permetta di superarla.

Il cinema neorealista è caratterizzato da trame ambientate in massima parte fra le classi disagiate e lavoratrici, con lunghe riprese all'aperto, e utilizza spesso attori non professionisti per le parti secondarie e a volte anche per quelle primarie. I film trattano soprattutto la situazione economica

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e morale del dopoguerra italiano, e riflettono i cambiamenti nei sentimenti e le condizioni di vita: frustrazione, povertà, disperazione.

Film come quelli viscontiani (Ossessione girato ancora in piena guerra mondiale, La terra trema e Bellissima), ma soprattutto la trilogia della guerra di Rossellini (Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero) e la quadrilogia desichiana (Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano e Umberto D.) ottengono moltissimi riconoscimenti a livello internazionale.

Successivamente Roberto Rossellini sperimenta nuovi stili, sempre ascrivibili al filone neorealista, nella celebre trilogia Stromboli terra di Dio (1949), Europa '51 (1952) e Viaggio in Italia (1953), fondendo perfettamente cinema documentaristico a scavo psicologico. Al centro di queste opere spiccano figure femminili sofferte ed alienate interpretate da Ingrid Bergman, in fuga da Hollywood e nuova moglie di Rossellini. La critica dell'epoca, con l'eccezione dei Cahiers du cinema, stroncò il trittico rosselliniano, ma il tempo ha reso giustizia a quelli che oggi appaiono films di sorprendente modernità.

Fra il 1950 e il 1954 anche Fellini si fa conoscere al grande pubblico e alla critica più attenta con due pregevoli film (Luci del varietà, codiretto insieme a ad Alberto Lattuada, Lo sceicco bianco), e due capolavori assoluti, I Vitelloni (1953) e La strada (1954).

I neorealisti furono molto influenzati dal realismo poetico francese. Di fatto, sia Michelangelo Antonioni che Luchino Visconti lavorarono in stretta collaborazione con Jean Renoir. Inoltre molti registi neorealisti erano maturati lavorando su film calligrafisti, sebbene questo breve movimento fosse notevolmente diverso dal neorealismo. Elementi di neorealismo sono rintracciabili anche in alcune opere di Alessandro Blasetti e nei film - documentari di Francesco De Robertis. Secondo alcuni critici, i due più significativi lungometraggi che negli anni trenta anticiparono alcuni aspetti del neorealismo, furono Toni (Renoir, 1935) e 1860 (Blasetti, 1934).

Nonostante il primo film chiaramente ascrivibile al genere venga considerato quasi unanimamente dalla critica Ossessione (1943), di Luchino Visconti, il neorealismo ebbe risonanza mondiale per la prima volta solo nel 1945, con Roma, città aperta, primo importante film uscito in Italia nell'immediato dopoguerra. Il lungometraggio narra, con accenti fortemente drammatici, la lotta morale degli Italiani contro l'occupazione tedesca di Roma, facendo coscientemente il possibile per resistervi. I bambini sono osservatori della realtà e in essi ci sono le chiavi del futuro.

Al culmine del neorealismo, nel 1948, Luchino Visconti adattò I Malavoglia, il celeberrimo romanzo di Giovanni Verga scritta nel pieno del verismo, il movimento del XIX secolo che fu per tanti aspetti la base del neorealismo. Ne ammodernò il soggetto, apportando modifiche straordinariamente piccole alla trama o allo stile originale. Il film che ne risultò, La terra trema, fu interpretato solo da attori non professionisti e fu girato nel medesimo paese, Aci Trezza, frazione di Aci Castello (Catania), dove il romanzo era ambientato. Poiché il film venne girato in Lingua siciliana, esso fu sottotitolato anche nella versione originale italiana.

Ci sono vari aspetti che caratterizzano il neorealismo: i film neorealisti sono generalmente girati con attori non professionisti (sebbene, in certi casi, furono scelti come protagonisti attori famosi, che recitavano per le parti protagoniste spesso contro le proprie abitudini, in un contesto popolato da gente normale piuttosto che da altri attori ingaggiati per la lavorazione).

Le scene sono girate quasi esclusivamente in esterno, per lo più in periferia e in campagna; il soggetto rappresenta la vita di lavoratori e di indigenti, impoveriti dalla guerra. È sempre enfatizzata l'immobilità, le trame sono costruite soprattutto su scene di gente normale impegnata in normali attività quotidiane, completamente prive di consapevolezza come normalmente accade con attori dilettanti. I bambini occupano ruoli di grande importanza ma non solo di partecipazione,

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perché essi riflettono ciò che "dovrebbero fare i grandi". Il neorealismo italiano fu uno dei più significativi movimenti cinematografici, ed ebbe profondi e vasti impatti nella storia del cinema. Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, e Luchino Visconti, tre dei più importanti e noti registi di tutti i tempi, iniziarono le loro carriere col neorealismo e ne portarono alcuni elementi nelle loro successive opere. I critici della Nouvelle Vague celebrarono il neorealismo e ne incorporarono l'esperienza nel proprio movimento. Altri movimenti negli Stati Uniti, Polonia, Giappone, Regno Unito e altrove svilupparono molte delle idee articolate per la prima volta dai neorealisti.

Nonostante il successo ottenuto (talvolta più di critica che di pubblico) la stagione neorealista dura solo una dozzina d'anni. Con il ritrovato benessere, i toni si attenuano e, dalla metà degli anni cinquanta, si inizia a sviluppare un fortunato sottofilone, denominato del neorealismo rosa, che di fatto è il progenitore della commedia all'italiana.

Il neorealismo italiano fu ispirato dal cinéma vérité francese, dal Kammerspiel tedesco, e profondamente ispirò la Nouvelle Vague francese; influenzò il movimento documentario americano e la scuola cinematografica polacca. I suoi effetti si possono riconoscere anche nel recente movimento danese Dogma 95.

Il neorealismo non fu un movimento così originale o compatto come si è a lungo pensato, ma senza dubbio creò un diverso approccio al cinema di finzione ed ebbe enorme influenza sul cinema di altri Paesi. Principali registi del neorealismo:

LUCHINO VISCONTI  

� Ossessione (1943) � La terra trema (1948) � Bellissima (1951) 

ROBERTO ROSSELLINI    

� Roma, città aperta (1945) � Paisà (1946) � Germania anno zero (1948) � Stromboli terra di Dio (1949) � Viaggio in Italia (1953) 

VITTORIO  DE SICA   

� Sciuscià (1946) ‐ Oscar onorario � Ladri di biciclette (1948) ‐ Oscar al miglior film straniero � Miracolo a Milano (1951) ‐ Palma d'oro al festival di Cannes � Umberto D. (1952) � Stazione Termini (1953) 

FEDERICO FELLINI    

� I Vitelloni (1953) ‐ Leone d'argento alla Mostra di Venezia; 2 nastri d'argento (miglior regia e miglior attore non protagonista ) 

� La strada (1954) ‐ Oscar al miglior film straniero; Leone d'argento alla Mostra Cin. di Venezia; 2 nastri d'argento (miglior regia e produzione) 

CARLO LIZZANI    

� Achtung! Banditi! (1951) 

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2.7. Il cinema d’autore: anni cinquanta, sessanta, settanta Il neorealismo rosa e la commedia retrò

Nel bene e nel male la commedia italiana è sempre stata la colonna vertebrale del cinema italiano. Il neorealismo è stato un momento magico ma è durato una sola stagione. La commedia ha vestito parecchi abiti e di diverso colore: il "comico-sentimentale", dei "telefoni bianchi", durante gli ultimi anni del ventennio fascista; il "neorealismo rosa" negli anni Cinquanta; la "commedia retrò" negli anni Settanta; la commedia gestita da attori-autori "solisti" negli anni Ottanta. Tutte versioni di puro divertimento, cinema d'evasione. C'è stato però un periodo in cui la commedia è diventata commedia di costume e ha aperto le porte alla realtà. In genere, la sua data di nascita viene fatta risalire al 1958, con “I soliti ignoti” di Mario Monicelli. Il decennio di massimo splendore coincide con gli anni Sessanta. Il termine spregiativo "commedia all'italiana", è ispirato al titolo di uno dei migliori film del filone, Divorzio all'italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1964) di Pietro Germi.

"Divorzio all'italiana" di Pietro Germi del 1961

Alcuni degli attori più rappresentativi di questo periodo sono: Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Monica Vitti e Claudia Cardinale. Lungo sarebbe l'elenco dei film che hanno reso popolare questo genere. Di Germi dobbiamo ricordare ancora Sedotta e abbandonata, nonché Signore e signori, il suo film più feroce e graffiante. Del fondatore del genere, Monicelli: La grande guerra, I compagni, L'armata Brancaleone, Vogliamo i colonnelli, Romanzo popolare e Amici miei. Un borghese piccolo piccolo, il film che chiude la lunga stagione, è la storia di un impiegato ministeriale, incaricato di mandare avanti pratiche pensionistiche, che perde il figlio proprio il giorno in cui questi si reca a sostenere l'esame di ammissione allo stesso ministero del padre, vittima accidentale di una rapina a mano armata. Il padre individua l'assassino e invece di denunciarlo alla polizia, lo sequestra e attende la sua morte. Sordi, nel ruolo del protagonista, scoppia in singhiozzi come se la vittima avesse preso il posto del figlio.

Il sorpasso (1961) di Dino Risi è un altro film del genere. Questo film respira, come nessun altro, l'aria del tempo in cui è stato realizzato: la stagione del boom economico, esaltante e inquietante ad un tempo. Storia di una gita di ferragosto in macchina, improvvisata da un avventuriero, che vive alla giornata e che si trascina dietro un riluttante ed introverso studente universitario, Il sorpasso arricchisce la commedia di costume con un finale drammatico quasi a previsione della prossima fine di quella stagione di spensieratezza e benessere che l'Italia stava vivendo. Di Dino Risi, oltre a Il sorpasso, Una vita difficile, I mostri, Il gaucho, In nome del popolo italiano, Mordi e fuggi, Profumo di donna.

Passaggio da cinema artistico a cinema d’autore Di pari passo con la commedia, si delinea, ad opera di due giovani registi, Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, una nuova scuola, che cercava di superare il neorealismo, inaugurando un nuovo modo di comunicare impressioni ed emozioni sul dramma della solitudine umana, con schemi narrativi nuovi ed originali. Appartengono alla produzione di questi due registi opere significative come La strada (Fellini, 1954), Il bidone (Fellini, 1955), Le amiche (Antonioni, 1955), Le notti di Cabiria (Fellini, 1956), Il grido (Antonioni, 1957), La dolce vita (Fellini, 1959), fino ad arrivare alla trilogia di Antonioni sui problemi dell'alienazione L'avventura (1960), La notte (1960), L'eclissi (1961) e ai complessi chiaroscuri psicologici di Otto e mezzo (Fellini, 1961) Giulietta degli spiriti (Fellini, 1965).

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Sulla scia di questi maestri dell'introspezione, il cinema italiano ebbe un risveglio, da un lato ci sono le opere di nuovi registi di ingegno come F. Rosi (La sfida, 1958; Salvatore Giuliano, 1961), A. Pietrangeli (Io la conoscevo bene, 1965), che si ispirarono alla nuda cronaca, e come Valerio Zurlini che trasse temi dalla letteratura (Cronaca familiare, 1962), o come G. Pontecorvo, preoccupato di descrivere le nuove realtà politico - sociali (La battaglia di Algeri, 1966), dall'altro i registi più anziani seppero rinverdire i passati successi (Visconti, Rocco e i suoi fratelli, 1960; Il Gattopardo, 1962; De Sica, Ieri oggi e domani, 1963).

Fra gli anni Cinquanta e Sessanta la tendenza dei critici fedeli all’idea di autore fu di concentrarsi su cineasti che avessero sviluppato il modernismo cinematografico. Anche gli spettatori erano sensibilizzati a sperimentazioni narrative che esprimessereo una visione personale, e pronti a leggere nello stile del cineasta i suoi commenti sull’azione: l’attenzione si fermava in particolare su ambiguità che potessero essere interpretate come una riflessione del regista su un argomento o un tema specifico.

Il concetto di autore tendeva infine a promuovere lo studio dello stile: se un cineasta era un artista come uno scrittore o un pittore, la sua arte si rivelava non solo in che cosa diceva, ma nel come lo diceva; come ogni creatore, il cineasta doveva avere il controllo del mezzo e sfruttarlo in modi sorprendenti e innovativi. I critici aderenti all’idea di autore distinguevano i registi in base all’uso della macchina da presa, dell’illuminazione e di altre tecniche; alcuni tracciavano una distinzione fra registi che predilegevano la messa in scena e la posizione della macchina.

Questa idea di autore si sposò felicemente negli anni Cinquanta e Sessanta con la maturazione del cinema come arte: la maggior parte dei registi più prestigiosi scrivevano le loro sceneggiature e tutti seguivano da un film all’altro temi e scelte stilistiche personali. I festival tendevano a rendere omaggio al regista, responsabile centrale della creazione, e anche in un contesto commerciale Tati, Antonioni e altri divennero “marchi di fabbrica” che differenziavano i loro film dalla massa del cinema “comune” secondo un meccanismo che spesso favoriva l’accessso di un film a mercati esterni. Fellini giunse a parafrasare involontariamente Astruc, sostenendo che “si potrebbe fare un film con la stessa intimità diretta e personale con cui uno scrittore scrive”.

L’idea di autore è ormai un luogo comune della critica cinematografica e anche le recensioni dei quotidiani accreditano di solito il film al regista; molti spettatori comuni basano le loro scelte su un sommario criterio di autore applicandolo non solo a registi di film con ambizioni artistiche ma anche a cineati di Hollywood come Steven Spielberg e Brian De Palma (anch’essi comunque educati al concetto di autore.

Tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta non tutti riuscirono a restare all’altezza delle loro reputazioni d’autore: molti subirono sconfitte critiche e commerciali (spesso a causa di una incompatibilità personale col cinema politico del dopo ’68). Però a metà degli anni Settanta il favore della critica ritornò in misura sorprendente e nei decenni successivi le loro opere continuarono a imporsi all’attenzione.

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Il cinema fantasma (anni ’80-’90) Bruno Hodgart, L. (2002) Capire l’Italia e l’italiano. Lingua e cultura italiana oggi. Guerra Edizioni, Perugia.

Gian Piero Brunetta ha definito il cinema italiano degli anni ’80-’90 “un cinema fantasma”; un cinema che non regge il confronto con quello americano perché le sue strutture carenti e deficitarie ne limitano lo sviluppo e gli sbocchi. Brunetta dice infatti che il cinema italiano è “un cinema che dispone di minori investimenti privati, ha meno capitali a disposizione, meno possibilità di distribuzione e circolazione, minor interesse da parte del pubblico, minor appeal del sistema divistico –con l’eccezione dei comici – rispetto al cinema americano, minor ricerca e invenzione lingusitica, minor carisma del ruolo registico, minor creatività nell’inventare storie, minor capacità di vedere e auscultare la realtà nazionale. All’interno di questo sconfortante panorama, ancora statico negli anni ’90, ci sono tuttavia elementi positivi e, soprattutto, personaggi positivi – autori, registi, attori – che permettono al cinema italiano, per dirla ancora con Brunetta, di “andare avanti” e di sopravvivere come per miracolo, nella speranza che ci saranno presto, in un vicino futuro “nuovi affabulatori”. La concorrenza della televisione, e in particolar modo delle reti commerciali private, è l’altro motivo di crisi del cinema italiano, non solo perché la televisione ha modificato le abitudini degli italiani rinchiudendone il tempo libero entro le pareti domestiche, ma soprattutto perché paradossalmente, ha saturato di cinema il consumo televisivo, consentendo a chiunque, a ogni ora del giorno, di vedere film. La situazione non è confortante: la contrazione dei finanziamenti e degli investimenti privati è stata più marcata negli anni ’90 che nel decennio precedente: la punta di massima contrazione si è avuta nel 1997, per un totale di 16 miliardi (4.5 % rispetto al biennio precedente). Sono ormai usciti di scena i grandi produttori della generazione postbellica – Carlo Ponti, Dino De Laurentis, Franco Cristaldi- ed oggi, a fare il bello e il cattivo tempo, sono due grandi produttori, Silvio Berlusconi e Vittori Cecchi Gori. Alle loro spalle è nata qualche società di produzione indipendente ad opera di registi preoccupati di proteggere la propria libertà espressiva, come per esempio Gabriele Salvatores, che ha costituito la società di produzione Colorado, e Nanni Moretti che ha dato vita alla Sacher Film. Questa scelta coraggiosa ha favorito l’affermazione di nuove e inedite capacità di lavoro e ha creato nuove figure professionali, specializzate nella produzione a basso costo. Che in Italia l’interesse per il cinema italiano sia ancora vivo ne è prova il consistente numero di festival, di rassegne, di premi, di diverso spessore e valore, che vengono promossi annualmente su tutto il territorio nazionale. Bellaria, Cattolica, Giffoni, Pesaro, Taormina e, naturalmente, Venezia ospitano festival che ancora suscitano larga eco sia sulla stampa che presso il pubblico, accendendo, soprattutto tra i giovani, i fuochi di una voglia di cinema che a volte trova anche sbocchi adeguati. Il cinema d’autore italiano si distingue dal cinema commerciale, con una produzione nata e realizzata, a fini più specificatamente economici e diretta a soddisfare il gusto del grosso pubblico, per essere erede della grande tradizione cinematografica italiana e tale da imporsi all’attenzione internazionale.

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3. Il nuovo mappa del cinema italiano: principali registi 3.1. Federico Fellini, il regista (1920-1993) 3.2. Pier Paolo Pasolini, un caso unico (1922-1975) 3.3. Nanni Moretti, l’autarchico (1953) 3.4. Grabiele Salvatores, il ragazzo timido che sognava Hollywood (1950) 3.5. Roberto Benigni, il mostro (1952) 3.6. Gianni Amelio (1945) e Marco Risi (1951): i registi dello sdegno 3.7. Giuseppe Tornatore (1956)

3. Il nuovo mappa del cinema italiano: principali registi

La diminuzione dei film prodotti ha comportato vistose perdite di competenza e di professionalità nel passaggio da una generazione all’altra. E tuttavia il ricambio generazionale degli ultimi anni –che ha visto uscire di scena, tra gli altri, due grandi nomi, i registi Michelangelo Antonioni e Federico Fellini (emersi dopo la stagione del “Neorealismo”) ha già consacrato alla fama registi come Gianni Amelio, Nanni Moretti, Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore e Roberto Benigni.

3.1. Federico Fellini, il regista (1920-1993) Fellini, uno dei grandi maestri del cinema non solo italiano, ma di ogni tempo. Fellini è morto a Roma nel 1993 e la sua attività, iniziata negli anni ’50, copre l’arco di quaranta anni. Era nato a Rimini nel 1920. La sua inclusione nel nuovo mappa del cinema italiano è dovuta, anche e soprattutto, alla considerazione per l’influsso, indiscusso e profondo, da lui esercitato sulla cinematografia italiana in senso lato e sui registi contemporanei in senso stretto (basti pensare a G. Tornatore). Al cinema s’accosta da autodidatta nel 1945, collaborando alla sceneggiatura di Roma città aperta, il capolavoro di Roberto Rossellini che inaugura, nell’Italia appena liberata dalla dittatura fascista, la stagione del cosiddetto “Neorealismo”. Con Lattuada firma come sceneggiatore nell’ambito del “Neorealismo” la sua prima regia “Luci del varità” (1950), un’opera che già consente di riconoscere alcuni temi del Fellini maturo: -la ricerca autobiografica -il senso del grottesco -lo scalcinato mondo dello spettacolo -Marcello Mastroianni, il volto “felliniano” per eccellenza Le prime due opere firmate dal solo Fellini, “Lo sceicco bianco” (1952) e “I vitelloni” (1953), raccontano vicende di piccoli provinciali, grotteschi più che gretti, velleitari più che volgari, fumettistici, forse, più che neorealistici. Se il primo ha come tema le trasognate illusioni di un’umanità marginale e ingenua, il secondo narra (con un esplicito richiamo autobiografico alla natia Rimini) la vita quotidiana, stagnante e frustrante, di cinque perdigiorno. Film decisamente favolistico e sentimentale, di vago sapore chapliniano, il successivo “La strada” (1953), premiato con l’Oscar per il miglior film straniero, sollecita invece a tal punto le corde del patetico che “bisogna essere delle pietre per non commuoversi” (P. Mereghetti).

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Fellini narratore di favole “La strada” non piacque, invece, ai critici di fede, che ne videro un tradimento del “Neorealismo”. Anche l’idea ispiratrice de “Il bidone” (1955) – che la Grazia divina può riscattare gli esseri umani dai loro fallimenti esistenziali e dalle loro colpe sociali – creò qualche incomprensione tra Fellini e la critica militante. Ma, comunque si valuti il cattolicesimo di certe sue opere, va riconosciuto a Fellini il merito di aver saputo non farne un manifesto ideologico da sciorinare al pubblico sino a pregiudicare il risultato estetico dei suoi film. Nessuno dei grandi registi italiani della seconda metà del ‘900 è stato, come Fellini, altrettanto estraneo a una estetica e a una poetica di impianto ideologico. Il tema della Grazia ispira in ogni caso anche “Le notti di Cabiria” (1957), che vale un secondo Oscar a Fellini e una immensa popolarità a Giulietta Masina, sua moglie. Del 1960 è il grandioso affresco de “La dolce vita”. Oggi all’umanità riconosciuto come uno dei massimi capolavori della storia del cinema, fu, allora, accolto da grossolane accuse di immoralità e di sconcezza, ironia della sorte furono proprio i cattolici a suscitare le polemiche più pesanti. II film segna il definitivo passaggio da un Fellini narratore di favole, che pone al centro i sentimenti, a un Fellini barocco, figurativo, pittorico, anche quando mette in scena, in chiave prevalentemente autobiografica, sentimenti e sogni. Fellini barocco, figurativo, pittorico Incontriamo questo Fellini barocco in pressoché tutti i film degli anni ’60, a giudizio della critica, i meno riusciti e ispirati di tutta la sua produzione: Episodio di Boccaccio ’70 “Le tentazioni del dottor Antonio” (1962) “Giulietta degli spiriti” (1965) “Fellini – Satyricon” (1969) Episodio di “Tre passi nel delirio”, Toby Dammit (1968) liberamente ispirato a un racconto di Edgar Allan Poe. La Cappella Sistina del cinema “Otto e mezzo” (1963), il secondo capolavoro assoluto di Fellini, film di culto, premiato con due Oscar, secondo lo storico del cinema italiano Gian Piero Brunetta “Otto e mezzo”, si colloca, rispetto al cinema italiano del dopoguerra, in posizione simile alla Cappella Sistina rispetto alla pittura del Rinascimento”. Film visionario, capace di trasformare in immagini le figure pre-logiche dell’inconscio, Otto e mezzo costituisce una “autobiografia immaginaria, visivamente straordianria, che, con apparente svagatezza, va a fondo in temi ultimi come l’Arte, la Memoria e la Morte” (P. Mereghetti). Cambiamento di registro Un nuovo cambiamento di registro si ha nei primi anni ’70 con tre film incentrati sul tema del ricordo. Girato per la televisione, con il pretesto di un’inchiesta sul circo, “I Clowns” (1970) rende un omaggio affettuoso e ammirato a un mondo che sta per scomparire. “Roma” (1972) evoca con grande lievità narrativa il rapporto autobiografico di Fellini con la capitale, trasfigurata nel presente della memoria in una città che unisce favola e degrado, bellezza e trivialità, spiritualità e carnalità, retorica politica e spontaneità popolare. “Amacord” (1973) infine, quarto Oscar per il miglior film straniero, ritorna all’infanzia romagnola del regista (A m’arcòrd in dialetto romagnolo significa “mi ricordo”). In questo film il ricordo personale diventa un brano di autobiografia collettiva della nazione negli anni del fascismo.

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La produzione felliniana degli ultimi 15 anni Carica di metafore e non sempre riuscita ma sempre ironica e godibile, è la produzione felliniana degli ultimi quindici anni. Casanova (1976) è la metafora di una sessualità ormai ridotta ad automatismo, a consumo meccanico. Questo film può essere visto come il ritratto di un proto-fascista. “La città delle donne” (1980) non nasconde il fastidio di Fellini per le idealità e i costumi del femminismo. E’ una reazione al movimento femminista. “Prova d’orchestra” (1979), forse il suo solo film a tesi, è metafora dei possibili destini dell’Italia ipersindacalizzata degli anni’70, oggi decisamente scomparsa. Descrive il crollo della vita contemporanea sotto l’oppressione dell’autorità e la minaccia casuale del terrorismo. “E la nave va” (1983), è il percorso dall’incubo di una possibile, incombente catastrofe nucleare. “Ginger e Fred” (1985), come altri registi (Bergman, Kurosawa e Ray), Fellini propone la sua critica sociale sotto forma di sensibilità artistica e valori umani, un atteggiamento che emerge chiaramente in Ginger e Fred, dove il regista attacca la superficialità della televisione e celebra con affetto l’anima calda dei piccoli spettacoli di due ballerini degli anni Trenta (la coppia per eccellenza del cinema di Fellini, Giulietta Masina e Marcello Mastroianni). “Intervista” (1987) “La voce della luna” (1990), Portano l’attenzione su un genocidio ben più sottile dell’olocausto nucleare, quello provocato dalla televisione e dalla società di massa: una mutazione antropologica che ha nel sogno, nella fiaba, nell’immaginazione (e dunque nel cinema) le sue principali vittime. Nel 1993, Fellini ha ricevuto un Oscar alla carriera. 3.2. Pier Paolo Pasolini, un caso unico nel panorama italiano (1922-1975)

Un caso a parte nel panorama cinematografico e culturale dell'epoca è Pier Paolo Pasolini, regista, attore e scrittore, che nelle sue opere si oppose alla morale del tempo. Personaggio di rottura, fino alla morte (avvenuta in circostanze poco chiare nel 1975) non si stancò di combattere a tutti i livelli (letterario, cinematografico e politico) per proporre nuovi valori contrari al conformismo e al consumismo della società italiana a cavallo fra gli anni sessanta e settanta.

I suoi film, da ”Mamma Roma”, (1962) con Anna Magnani nel ruolo di una prostituta, “Il vangelo secondo Matteo” (1964), una tra le più apprezzate ricostruzioni cinematografiche della vita di Gesù, “Uccellacci e uccellini”, una favola moderna con il comico Totò nell'unica interpretazione drammatica della sua carriera, “Edipo re” (1967), “Teorema” (1968), le trasposizioni cinematografiche della "trilogia" Il Decamerone (1971), dei “I racconti di Canterbury” (1972) e “Il fiore delle mille e una notte” (1974) o le agghiaccianti scene di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975) hanno tutti scatenato lunghe polemiche, spesso con strascichi giudiziari ed episodi di censura in Italia e altri paesi.

Le prime pellicole di Pasolini (compresi folgoranti cortometraggi come “Che cosa sono le nuvole?” e “La ricotta”) colpiscono profondamente per lo straordinario lirismo e poesia che ogni inquadratura, ogni fotogramma restituiscono allo spettatore. Pasolini, che non ha mai fatto mistero della sua omosessualità e della sua simpatia per l'ideologia comunista, è uno dei personaggi

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culturalmente più influenti di quegli anni, malgrado le sua posizioni siano state considerate estreme e la sua opera sia spesso stata discriminata. L’impulso neorealista trovò anche uno sviluppo in forma di modernismo radicale nell’opera di Pier Paolo Pasolini. Marxista non ortodosso, non credente ma imbevuto di cattolicesimo, Pasolini sollevò un polverone nella cultura italiana passando al cinema dopo aver già raggiunto la popolarità nella cultura italiana passando al cinema dopo aver già raggiunto la popolarità come poeta e romanziere e aver collaborato a diverse sceneggiuature, e in particolare a quella di “Le notti di Cabiria” di Fellini. Gli attori dei suoi film erano scelti secondo un criterio che De Sica avrebbe approvato: “Scelgo gli attori per quello che sono e non per quello che fanto finta di essere”. Nonostante ciò Pasolini sosteneva di ispirarsi a Chaplin nella convinzione che il regista potesse rivelare la dimensione epica e mitica del mondo. Accattone (1961) e Mamma Roma (1962), gelide analisi della povertà urbana, furono salutati come un ritorno al neorealismo, ma il modo in cui Pasolini descrive l’ambiente sembra avere dover più a “I figli della violenza” di Buñuel, e non solo per le scene di selvaggia violenza ma per l’inquietante onirismo. Pasolini accusava il neorealismo di essere troppo legato alle politiche della Resistenza e di offrire un realismo solo superficiale: “Nel neorealismo le cose sono descritte con un certo distacco, con calore umano mismo a ironia: caratteristiche che mi mancano”. I primi film di Pasolini propongono un’accozzaglia di atmosfere e immagini disparate: in composizioni che ricordano i dipinti rinascimentali, i personaggi pronunciano parole volgari; scene girate per strada alla maniera del cinéma-vérité sono commentate da Bach o Mozart. Pasolini spiegava questi accostamenti di stile con la tesi che i contadini e i livelli più bassi della classe operaia urbana mantenessero dei legami con la mitologia preindustriale, che egli intendeva evocare con le sue citazioni di grandi opere d’arte del passato. La tattica della “contaminazione” stilistica era forse meno dura da digerire in “Il vangelo secondo Matteo” (1964) che, a differenza dei suoi scritti e film precedenti, si guadagnò il plauso ecclesiastico. Il soggetto biblico era presentato con maggior realismo dei film epici di Hollywood o di Cinecittà: Pasolini fa di Gesù un predicatore di ferina e spesso impaziente energia e indugia sui tratti contorti, la pelle rugosa i denti spezzati dei suoi personaggi. Il vangelo secondo Matteo, comunque non è solo una versione neorealista della Bibbia: gli stili si mischiano, con Bach e Prokof’ev che nella colonna sonora gareggiano con l’africana Missa Luba; volti da dipinti rinascimentali sono ripresi con bruschi zoom; il processo di Gesù davanti a Pilato è girato con la macchina a mano tra una folla di criosi, come se un operatore di cinegiornale non fosse riuscito ad avvicinarsi di più. La prosperità dell’industria permise gli esordi di Ernanno Olmi, Pasolini, Bertolucci e moti altri registi ma l’occasione, come in Francia, durò appena qualche anno: la crisi iniziò nella stagione 1963-64, quando i grandi film in costume passarono di moda e le case di produzione subirono costosi fallimenti, in particolare “Il Gattopardo” (1963) di Visconti e Sodoma e Gomorra (1963). Nel 1965 lo Stato intervenne offrendo aiuti analoghi a quelli francesi: premi per progetti di qualità, mutui garantiti e crediti tratti da fondi speciali.

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3.3. Nanni Moretti, l’autarchico (1953) Buono Hodgart, L. (2002) “Capire l’Italia e l’italiano. Lingua e cultura italiana oggi”. Guerra Edizioni, Perugia.

Sin dal suo lungometraggio d’esordio, “Io sono un autarchico” (1976), Nanni Moretti fonde, in uno sguardo disincantato e caustico, autobiografia, storia generazionale, osservazione critica (anzitutto di sé e del proprio mondo) e impegno civile.

Questa sarà la caratteristica costante di tutti i suoi film, di cui è sempre stato anche attore protagonista, le prime due prove professionali, “Ecce Bombo” (1978) e “Sogni d’oro” (1981), rappresentano, è riuscito a rompere gli schemi, mantenendosi fedele alla satira politica e di costume, scrive Paolo Merenghetti, “un cinema godibile con la testa, ma non ancora con gli occhi e con il cuore”.

Il suo terzo film “Bianca” (1984) è secondo Mario Sesti, un capolavoro ed è anche “l’allegoria di una intera generazione”, quella degli anni Settanta: protagonista di quasi tutti i film morettiani e alterego dello stesso regista, Michele Apicella è qui un omicida che sopprime chiunque deluda le sue scelte assolute ma deve infine riconoscere l’inattuabilità della sua aspirazione alla perfezione.

In “La messa è finita” (1985), “la religione è una quesitone di fede in sospeso, l’amore (individuale e collettivo) è una dichiarazione di impotenza, la solitudine è l’unica, miserabile conquista e la fuga non è un’arte, bensì una soluzione dopo tante prove” (P. Merenghetti). In “Palombella Rossa” (1989) Michele Apicella è un dirigente comunista e giocatore di pallanuoto colpito da amnesia: il film, che manca di leggerezza narrativa, è una complessa metafora della crisi della politica sullo sfondo di un generale degrado dei rapporti sociali, di cui i mass-media hanno diretta, anche se non esclusiva, responsabilità.

Come attore in un film non proprio, “Il portaborse” (1991) di Daniele Luchetti, girato profeticamente qualche anno prima della bufera di Tangentopoli, Moretti ha impersonato in modo pressoché perfetto l’arroganza, il cinismo, il culto del potere e la certezza dell’impunità di un intero ceto politico. Il suo impegno nella promozione del “cinema d’autore” è testimoniato dalla fondazione, nel 1986, di una casa di produzione indipendente, la Sacher Film (Sacher è il nome di una famosa ditta produttrice di caffè e di un dolce al cioccolato, che da una vecchia ricetta austriaca, si chiama appunto “Torta Sacher”), e dall’acquisizione, nel 1991, a Roma, di una sala di proiezione ribattezzata “Nuovo Sacher”.

Per la lievità con cui riesce a trattare la materia autobiografica, Caro Diario (1993) ha consacrato Moretti a livello internazionale: è un film a episodi, anzi a pagine di diario lette da Moretti stesso. Il primo, in vespa, è un racconto tutto romano, che racconta il vagabondare per la capitale con il famoso "vespone". Il secondo episodio di Caro Diario, è un giro per le isole Eolie, dove Moretti incontra le persone più strane e curiose. L'ultimo episodio, è una satira pungente verso la medicina che lascia molta amarezza e allarga gli spazi di riflessione «I medici sanno parlare ma non sanno ascoltare») l'episodio si conclude con l'amaro e sarcastico brindisi con un bicchiere d'acqua.

Memorabile, in modo particolare, l’omaggio a Pier Paolo Pasolini, con scene girate con il solo accompagnamento delle note di Keith Jarrett nel paesaggio degradato della periferia di Ostia dove il grande scrittore venne ucciso nel 1974. Nel 1994 Moretti si è fatto promotore del film collettivo “L’unico paese al mondo”.

I suoi ultimi film, come attore e regista, sono “La seconda volta, Aprile” (1998) e la “Stanza del figlio” (2002), solo regista “Il Caimano” (2006).

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3.4. Grabiele Salvatores, il ragazzo timido che sognava Hollywood (1950) Buono Hodgart, L. (2002) “Capire l’Italia e l’italiano. Lingua e cultura italiana oggi”. Guerra Edizioni, Perugia.

Salvatores (1950) ha studiato a Milano all’Accademia d’Arte Drammatica del Piccolo Teatro. Nel 1972 ha fondato con altri, Il Teatro dell’Elfo, per il quale ha curato, come autore o come regista, otre 20 spettacoli. Il passaggio dal teatro al cinema avviene gradualmente negli anni ’80. Le prime prove cinematografiche sono infatti ancora legate al teatro, o per origine, “Sogno di una notte di mezza d’estate” (1981), trasposizione cinematografica di una sua versione musical-rock del Sogno di Shakespeare) o per ambientazione, “Ultima notte a Milano” (1987) e “Turné” (1990), che raccontano le vicende di un gruppo di attori o di aspiranti tali. Dal sodalizio con il soggettista e sceneggiatore Enzo Monteleone e l’attore Diego Abantantuono nascono i tre film di maggior successo, Marrakech Espress (1989), Mediterraneo (1991) e Puerto Escondido (1992), tutti incentrati sui temi del viaggio come gesto di ribellione nello spazio, alla ricerca dell’autenticità dei valori. Salvatores sa essere magistrale quando, pescando nell’esperienza diretta dei movimenti giovanili radicali degli anni ’70, descrive le identità di gruppo e le proiezioni utopiche di una generazione, mentre, secondo alcuni critici, sembra essere meno convincente allorché vuole consegnare allo spettatore un esplicito messaggio politico. Questa debolezza forse si riflette nel film, “Sud” (1993), che narra con piglio accattivante la vicenda di una ribellione morale disperata e minoritaria. Il suo ultimo film è “Nirvana” (1997).

3.5. Roberto Benigni, il mostro (1952) Buono Hodgart, L. (2002) “Capire l’Italia e l’italiano. Lingua e cultura italiana oggi”. Guerra Edizioni, Perugia.

Benigni è nato nel 1952 in provincia di Prato, nel nord della Toscana. La sua carriera inizia qui, con esibizioni e monologhi teatrali alla “Casa del popolo”, il centro ricreativo popolare del paese che compare come punto di riferimento in tutte le sue opere giovanili dai monologhi di Cioni Mario, al suo primo film “Berlinguer ti voglio bene” (1977), per la regia di Giuseppe Bertolucci. Benigni, oltre alla regia cinematografica, che segna il punto di arrivo della sua attività artistica, ha al suo attivo una travolgente carriera di attore comico per il teatro e per la televisione –carriera tutta giocata sulla sua intensa comunicativa e sulla scoppiettante, torrenziale comicità della sua parlata toscana. L’attività teatrale e televisiva è particolarmente intensa dal ’76 all’86. Le sue esibizioni alla televisione fanno epoca, poiché determinano una rottura con gli schemi perbenistici dei programmi di quei tempi: il suo linguaggio è poliedrico, inventivo e concitato e vi prevale un lessico esasperato che non teme lo scandalo, anzi lo cerca. Con lui si enfatizza il gesto ma, soprattutto si recupera l’importanza della parola. Grazie a lui, il comico viene ora accettato come mezzo di ricerca e di rappresentazione. Le sue geniali gag si ispirano prevalentemente alla politica, alla donna, alla religione, all’eternità della “goduria e del patimento”.

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“Berlinguer ti voglio bene e Tuttobenigni” (1986) segnano l’inizio di un cinema aspro e d’assalto, interpretato da Benigni con punte critiche e satiriche molto avanzate. Il suo terzo film “Non ci resta che piangere” (1986), che lo vede protagonista insieme a Massimo Troisi, ha un grande successo di pubblico e raggiunge alti vertici d’incasso. Eccellenti sono poi le sue interpretazioni in “La voce della luna” (1989), per la regia di Fellini e in “il figlio della Pantera Rosa” (1994) per la regia di Blake Edwards. Come attore e regista Benigni firma film di grande successo “il piccolo diavolo” (1988), “Johnny Stecchino” (1991) e “Il Mostro” (1994). Quest’ultimo incassa circa di 35 miliardi, classificando Benigni, in quel momento, al primo posto assoluto, per popolarità, presso il pubblico italiano. “La vita è bella” (1997), di grande spessore emotivo e sociale Gian Piero Brunetta dice di questo film che “Benigni ha regalato non soltanto all’Italia, ma al mondo, il suo film più intenso, ambizioso e riuscito, in cui si apprezza anche, per la prima volta, l’intelligenza registica”. Il film ha ricevuto uno straordinario numero di premi. Il giudizi della critica cinematografica, tuttavia, non sono stati unanimi. Gian Piero Brunetta assegna al film valori eterni e dimensioni universali –di amore, di rinascita, e di sacrificio- e colloca Benigni “nell’Olimpo dei massimi attori di tutti i tempi”. Altri critici, come per esempio gli inglesi Boyd Farrow e Romney tacciano il film di sentimentalismo, di mancanza di buon gusto e di leggerezza nella trattazione dell’Olocausto, che secondo loro, nel film viene minimizzato da Benigni.

3.6. Gianni Amelio (1945) e Marco Risi (1951): i registi dello sdegno Buono Hodgart, L. (2002) “Capire l’Italia e l’italiano. Lingua e cultura italiana oggi”. Guerra Edizioni, Perugia.

Gianni Amelio (1945) è stato scoperto dal grande pubblico soltanto negli anni ’90, quando già aveva alle spalle una lunga, poliedrica carriera come auitoregista in film di genere. Del 1982 è il suo primo successo, “Colpire al cuore” che, secondo Mario Sesti, è “uno dei più originali e importanti film italiani degli anni ’80. Di una lucidità quasi intollerabile: è un’analisi rivelatrice e originale del terrorismo e della sua epoca ma anche uno spazio di assoluta e indecifrabile tensione in cui prendere di petto quello che è il cuore del suo cinema: il rapporto tra padri e figli, adulti e giovanissimi, nei suoi film sono divisi sempre da sentimenti che sono con grande mistero ed esagerata delicatezza si possono investigare”. Del 1990 è l’ottimo e poco noto “Porte aperte”, tratto d aunr omanzo di Leonardo Sciascia. Il film esamina, con realismo e lucidità, il rapporto tra delitto e castigo, tra colpa ed espiazione senza mai cadere nel banale (cosa non facile per un film giudiziario ambientato in Sicilia durante il fascismo). Già da questo film Amelio viene rapportato a Roberto Rossellini, il grande maestro del Neorealismo italiano: è un’interessante ipotesi che può trovare conferma nelle somiglianze di stile e di tecniche cinematografiche e narrative così come nella scelta delle tematiche. E’ Merenghetti a fare questo accostamento sia in riferimento a “Colpire al cuore” che al film successivo “Il ladro di bambini” (1991). Del primo egli dice “Amelio riesce a fare un cinema di pensiero che sarebbe piaciuto a Rossellini” e del secondo: “E’ un road movie emozionante, un aggiornato viaggio in Italia in senso rosselliniano dove allo squallore morale e ambientale del “Belpaese” (Italia) si

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contrappone un umanesimo povero e irriducibile anche di fronte alla sconfitta. Dalla parte dei vinti, ma senza retorica, Amelio racconta la perfidia delle istituzioni, il silenzio degli innocenti, l’insensibilità dei colti, la volgarità degli ignoranti, la rivolta muta e la condanna all’impotenza di chi non ci sta”. “Il ladro di bambini” ha ancora come tema centrale il rapporto fra adulti e giovanissimi e racconta la storia di due fratelli, Rosetta e Luciano che vengono destinati ad un Istituto per minori. La bambina era costretta a prostituirsi dalla madre e il fratellino non parla e non mangia quasi mai. Un giovane carabiniere, Antonio, li conduce all’Istituto, ma i bambini non vengono accettati. Antonio, allora li porta con sè in un viaggio attraverso l’Italia fino alla Sicilia, da cui i bambini provengono. Il film è stato molto apprezzato dalla critica ed ha ricevuto riconoscimenti e premi in Italia ed all’estero. Del 1994 è infine “Lamerica” un altro grande successo di critica. Il titolo del film si spiega se si fa riferimento all’emigrazione italiana. La definizione più sintetica ed esauriente di Gianni Amelio viene da Mario Sesti “Amelio è diventato il regista della descrizione assoluta e luminosa di un’epoca in uno spazio, un cinema che è anzitutto uno sguardo, nudo e puro, di un corpo che si aggira ignaro in un territorio, in una Storia, (in questo senso, Amelio è forse l’unico per cui abbia significato il richiamo al cinema neorealista)”. Marco Risi (1951) figlio d’arte, Marco Risi impara il mestiere dal padre Dino e dallo zio Nelo. Autore impegnato, versatile, tuttora in evoluzione, ama rivolgersi al grande pubblico affontando soprattutto le tematiche del mondo giovaile, descrivendone ora il disagio ora il malcostume. Dopo le commedie leggere degli esordi –“Vado a vivere da solo” (1981); “Un ragazzo e una ragazza (1983); “Colpo di fulmini” (1985) – ha inaugurato un filone realista (daqualcuno ribattezzato con un neologismo francamente orribile, “neo-neorealista”) con “Soldati, 365 all’alba” (1987), “Mery per sempre (1989), “Muro di gomma” (1991), di cui soltanto il secondo può considerarsi opera pienamente riuscita. Le prove successive, “Nel continente nero” (1992) e “Il branco” (1994) hanno poi oscillato tra i due diversi filoni. Nel 1994 ha partecipato alla realizzazione del citato “L’unico paese al mondo”.

3.7. Giuseppe Tornatore (1956)

Figlio di Peppino Tornatore, fin dalla gioventù si dimostra attratto dalla recitazione e dalla regia. A soli sedici anni riesce a mettere in scena a teatro opere di maestri come Luigi Pirandello e Eduardo De Filippo. Prima di dedicarsi completamente al cinema frequenta qualche lezione alla facoltà di lettere a Palermo. Dopo gli inizi a teatro, si accosta in seguito al mondo della settima arte attraverso alcune esperienze documentaristiche e televisive. Il suo esordio avviene col documentario “Le minoranze etniche in Sicilia” Nel 1984 collabora con Giuseppe Ferrara per Cento giorni a Palermo, del quale è produttore, oltre che co-sceneggiatore e regista della seconda unità. Due anni dopo debutta "ufficialmente" sul grande schermo con “Il camorrista” (1986), dedicato al mondo della malavita napoletana. L'incontro con il noto produttore Franco Cristaldi porta alla genesi di quello che è considerato il capolavoro di Tornatore, “Nuovo cinema Paradiso”(1988), pellicola che riscuote un successo clamoroso in tutto il mondo, donando notorietà internazionale al regista, che comunque si è

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sempre dimostrato abbastanza riservato. Dopo alcuni imprevisti, tra i quali vari tagli e la proiezione bloccata dopo il primo fine settimana in tutte le sale italiane, tranne che a Messina (al cinema Aurora), il film si aggiudica il gran premio della giuria al Festival di Cannes e il premio Oscar come "miglior film straniero". Nel 1990 gira “Stanno tutti bene”, che racconta del viaggio di un padre siciliano alla ricerca dei figli sparsi in tutta Italia, interpretato da Marcello Mastroianni (una delle sue ultime interpretazioni). Nel 1991 collabora al film collettivo “La domenica specialmente”, con l'episodio Il cane blu. Nel 1994 gira “Una pura formalità”, presentato in concorso a Cannes, che rappresenta un punto di svolta nello stile del regista, che cambia radicalmente. Nel film compaiono due star internazionali come il regista Roman Polanski (nel ruolo di attore) e Gérard Depardieu. Nel 1995 torna a girare un documentario, “Lo schermo a tre punte”, nel quale racconta la "sua" Sicilia. Sempre nel 1995 dirige “L'uomo delle stelle”, con Sergio Castellitto nel singolare ruolo di "ladro di sogni". Il film vince il David di Donatello e il Nastro d'Argento per la "miglior regia" e il Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia. Rimane folgorato dal monologo teatrale di Alessandro Baricco Novecento, e lentamente comincia a pensare ad una trasposizione cinematografica. Dopo una lunga "gestazione" vede la luce “La leggenda del pianista sull'oceano” (1998), con protagonista l'attore inglese Tim Roth, accompagnato dalla colonna sonora di Ennio Morricone. Del 2000 è “Malèna”, con Monica Bellucci, coproduzione italo-americana, che si avvale, ancora una volta, delle musiche di Morricone. Nel 2006 gira “La sconosciuta”, che l'anno successivo si aggiudica ben tre David di Donatello. Il film è stato scelto per rappresentare l'Italia al Premio Oscar 2008, nella selezione per le nomination quale miglior film straniero. Nel 2009 ha firmato la regia di Baarìa (Nome siciliano di Bagheria), la cui trama racconta una parte di vita vissuta nella sua città d'origine.Il film è stato scelto per rappresentare l'Italia agli Oscar. Il regista dovrebbe, inoltre, dirigere un film sul premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi intitolato "the Lady". Rimane invece in stand-by, per problemi produttivi, il progetto sull'assedio di Leningrado dal titolo "Leningrad". Il primo di dicembre riceve la laurea honoris causa dall'università IULM di Milano in cinema, comunicazione e nuovi media.

Bordwell, D.  e  Thompson,  K.  (1998)  Storia  del  cinema  e  dei  film. Dalle  origini  al  1945.  pg  105.  Editrice  il  Castoro, Milano.   

Anche le colonne sonore di Ennio Morricone conferiscono all’azione un afflato eroico, utilizzando ad esempio un volo d’acrchi, ma sono pronte a burlarsene con un fischio o un improvviso effetto sonoro: Sergio Leone parlava di Morricone come di uno “sceneggiatore” perché era pronto a sostituire una battuta del dialogo con una espressiva frase musicale. La musica contribuiva anche ad amplificare i nodi tematici del film, come alla fine di “Per qualche dollaro in più”, quando il parallelo fra una sparatoria e una corrida emerge non solo dall’ambientazione in un’arena ma anche dai palpitanti ottoni messicani della colonna sonora.