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ANTEPRIMA Narrativa In uscita verso i primi di dicembre 2009 Contatta l'autore su www.isalotti.serviziculturali.org Leggi a schermo intero Condividi

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ANTEPRIMA NARRATIVA

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ANTEPRIMA

Narrativa In uscita verso i primi di dicembre 2009

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DESCRIZIONE:

E qualcosa rimane dell’odore della pioggia fresca nel giardino, delle corse in bicicletta finché tiene la catena, dei lunghi pomeriggi, delle dita appiccicose dopo un lemonissimo, del fiatone per rincorrere quel maledetto aquilone, qualcosa rimane di noi e di ciò che siamo stati, dei baci che non le diedi mai, delle poesie che le dedicai, dei quadernoni pieni di storie e disegni. Rimane questa storia, e rimarrà anche quando non ci sarò più io, finché qualcuno avrà voglia di raccontarla.

L'AUTORE:

Carmine Caputo è di Statte. Per fuggire alla puzza del siderurgico è scappato a Bologna dove si occupa di comunicazione e soffre per il Taranto. La critica ha affermato unanime che l’unica sua opera veramente riuscita è la sua adorata figlia Martina.

Titolo: Ballata in Sud Minore Autore: Carmine Caputo Editore: 0111edizioni Collana: Opera Prima Pagine: 200 Prezzo: 14,00 euro 11,90 euro su www.ilclubdeilettori.com

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- Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che si legge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto per liberarlo [leggi qui]

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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO)

ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI

Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'!

Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione.

TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA

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Decine di libri in versione integrale da leggere online, liberamente.

EasyReader è una vastissima raccolta di libri da leggere online, in versione integrale oppure in versione "trailer", comunque sempre molto "corposa" (da un minimo di 30 pagine a un massimo di 50). Tutti i libri proposti in versione e-book su questo sito sono coperti da copyright e sono disponibili anche in formato libro, regolarmente pubblicati (e quindi muniti di codice ISBN) e disponibili anche in libreria. Il catalogo viene aggiornato MENSILMENTE.

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Carmine Caputo

Ballata in Sud Minore

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BALLATA IN SUD MINORE 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Carmine Caputo

ISBN 978-88-6307-228-0 In copertina: Mercato di Statte, olio su tela di Antonio Caputo

Finito di stampare nel mese di Novembre 2009 da

Digital Print Segrate - Milano

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Indice Prologo ............................................................................................................................. 5 Il cassetto privato ........................................................................................................... 7 Il pezzo di gomma ........................................................................................................ 14 La cassetta con su scritto “Voce di Stefano” .......................................................... 21 L’orribile orologio arancione ..................................................................................... 38 Il floppy “Sensible Soccer” ........................................................................................ 49 Il biglietto del museo ................................................................................................... 70 La spilla da sarta ........................................................................................................... 83 L’adesivo vota sì .......................................................................................................... 91 La fiaccola ................................................................................................................... 110 La pistola ad acqua..................................................................................................... 120 La candela .................................................................................................................... 133 Il foglietto di carta ...................................................................................................... 149 La torcia ....................................................................................................................... 155 La bandana................................................................................................................... 166 La fotografia della scritta “A ME BASTA”.......................................................... 175 La corona d’Assisi ..................................................................................................... 190 Grazie............................................................................................................................ 195

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Prologo Statte, autunno 2004. Il piccolo Francesco si guarda intorno frastornato, aggrappato alle gi-nocchia di un uomo, in mano ben salda la macchinina che ha ricevuto in regalo. L’uomo dapprima lo prende in braccio, poi se lo mette sulle spalle. In fondo alla piazza, arrampicato su di un palco di fortuna, un giovane politico parla con foga, agita le braccia, istiga l’uditorio, lo ipnotizza con la sua parlantina, la gente applaude numerosa, quel giovane venuto dal nord sembra in gamba, sembra ci sappia fare. Dobbiamo riprenderci il nostro territorio, è ora che le nostre intelligen-ze, che le nostre forze, che le nostre giovani leve restino qui per rendere più fruttuosa la nostra terra anziché andare ad arricchire le già ricche comunità settentrionali, dobbiamo batterci per i diritti degli ultimi, è una missione che siamo chiamati a compiere. - Guarda, guarda lassù. Lo vedi? C’è papà lì sopra. - Papà? Non lo vedo! - Ma sì, guarda il mio dito, segui la direzione del mio dito. Ecco, riesci a vedere tutte quelle bandiere rosse? - Sì, sì, papà, papà! - Vuoi bene a tuo papà, Francesco? - Si, sì che gli voglio bene! Papà è forte, poi sa un sacco di favole, un sacco di storie. Lo sai che una volta uno di Taranto ha vinto le olimpia-di? È stato tantissimissimo tempo fa, milioni e milioni di anni fa. - Un po’ meno, forse, però sì. Lo so. L’uomo ha a lungo sognato di costruirsi un futuro lontano dalla noiosa mediocrità del suo paese. Vivere in un posto dove l’odore dello smog del siderurgico non ti entra nelle viscere ogni volta che soffia il vento di scirocco, dove puoi uscire la sera tardi senza paura dei branchi di cani randagi. Un posto dove i ragazzi hanno qualcosa di meglio da fare che

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iniettarsi veleno. Dove è possibile incontrare gli amici al bar, senza paura di essere coinvolti in qualche sparatoria. Un posto dove i bambini possono giocare in un parco, non sui grigi marciapiedi occupati dalle auto. Un posto in cui ti senti veramente degno di vivere, non un quartie-re che ti mette fretta di morire. E se ne è andato a Milano. Si può essere più imbecilli? Non si può, ripensa sconsolato. Dopo aver visto Ponte Lambro, anche il suo paese sembra un gioiello. Ce l’hanno mandato, a Milano: a lui ser-viva un lavoro. Ha finito per affezionarsi e c’è rimasto cinque anni, prima di avere il trasferimento a Bologna. Non proprio Bologna. Provincia. Certo non è tornare a sud, ma è comunque più sud... - Sai una cosa, Francesco? Appena finisce il comizio, corri da tuo papà, lo abbracci e gli dici che gli vuoi bene. Sei d’accordo? - Sì. E gli faccio vedere la macchinina nuova che mi hai comprato. Il comizio finisce, l’oratore alza platealmente il pugno sinistro al cielo, d’altronde fa politica per un partito di estrema sinistra e difficilmente prenderà più del venti per cento. Alza il pugno sinistro al cielo con posa plateale e scatena gli applausi dei fedelissimi. In fondo alla piazza l’uomo con il bambino in braccio sorride. Solo lui sa cosa nasconde quel gesto, e quanto gli sia costato.

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Il cassetto privato Statte, la sera precedente Me ne sto seduto con le braccia incrociate, quasi ipnotizzato a osservare il contenuto di quel cassetto “privato” nella mia camera dove da ragaz-zino conservavo gli oggetti che mi sembravano degni di essere preser-vati. Saranno dieci anni che non lo apro più, più o meno: non sono bra-vo con le date. Eppure devo cercarla, ha insistito tanto per averla con sé, deve essere qui da qualche parte, benedetto regalo. Benedetto no, non ancora. Trovo un foglietto spiegazzato. Le parole si sollevano stanche e sbiadite dalla carta come se mancasse loro la voglia di prendere il volo. La parte superiore è stata scarabocchiata con una matita, la straccio via e la butto nel cestino. Il foglietto è opaco, molle, ha subito un paio di lavaggi, si legge appena una scritta in blu e anche il nastro adesivo che lo attraver-sa e ne tiene uniti i brandelli ne testimonia le disavventure. Sa di deter-sivo, di cioccolata, sa di panzerotti fritti e aranciata sgasata nei bicchieri di plastica, sa di preghiere non esaudite e di risate strozzate, sa di ro-smarino, di campagna, di mozzarella e pomodori, di labbra secche e corse in bici. Lo fisso a lungo rigirandolo tra le dita. “Quando impari a distinguere i sogni dalla vita, o smetti di sognare o smetti di vivere”. Cerco meglio. Oltre a quel biglietto di carta, c’è un pezzo di gomma sporca, stralciata e incurvata, e solo a un’osservazione più attenta si capisce che è un pezzo di pallone. C’è una grossa fiaccola, un floppy-disk di plastica azzurra con su scritto a mano “Sensible Soccer”, c’è un biglietto dell’autobus decrepito che sarà stato obliterato almeno dieci volte. C’è un blocco con gli appunti, ci scrivevo durante i primi viaggi in treno a Milano, quando non riuscivo a dormire. C’è una pistola ad acqua. C’è persino la vecchia torcia elettrica di papà, quella che teneva nella Uno che abbiamo rottamato qualche anno fa. Più in là c’è anche

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una cassetta audio con su scritto “Voce Stefano”, un’altra audiocassetta con una data, 1995, un adesivo elettorale su cui campeggia un bel “vota sì”, una spilla da sarta, un orribile orologio di plastica arancione con un motivo floreale disegnato sul bracciale di gomma Ero riuscito faticosa-mente a dimenticarlo, quell’orologio. Eccolo lì. Non l’ho mai indossato, è entrato nella mia vita al momento sbagliato, nel momento degli Swatch, nel momento in cui indossare un orologio che non fosse stato Swatch o una cintura appariscente che non fosse stata El Charro avreb-be significato il volontario esilio dalla società civile. Mi ritrovo a rigirare fra le dita un biglietto del museo, e una bandana bianca molto appariscente. Una piccola candela, quasi completamente consumata. E un altro foglietto, stavolta conservato meglio, lo apro, do un’occhiata furtiva al testo, riconosco la mia grafia, Arrivederci, risate incoscienti e serate a pizza e birra. Arrivederci… Mamma mia no, è vero l’ho scritto tanto tempo fa. Lo rinnego. C’è una foto, scattata evidentemente da lontano, si intravede una brutta abitazione piuttosto malandata con una scritta a spray vicino alla porta di ingresso che recita “A ME BASTA”. Non posso più trattenere una risata, giro la foto e leggo una data, otto-bre 1994, una frase dice “I due non hanno capito la protesta di Ciccio-bello: meglio così”. Altro che “basta” avremmo dovuto gridare, se quel-la notte ci avessero beccato. Quando ormai comincio a disperare di poter mantenere la promessa fatta, finalmente la trovo, la coroncina, avvolta in un fazzoletto, forse perché temevo potesse sciuparsi. La stringo fra le mani, la metto in tasca. Il pomeriggio è caldo e Statte se ne sta sdraiata silenziosa sulla collina che la oppone alla grande città, Taranto, e ai suoi due mari. Più giù lo stabilimento siderurgico avvelena imperturbabile l’aria che scende fino allo Jonio e si disperde in rivoli azzurri. Statte: nel nostro dialetto significava pressappoco “rimani”. Un nome buffo che può anche andare bene per la Statte del terzo millennio, la Statte rifiorita di oggi che esploro da straniero in queste ore, ma negli anni della mia adolescenza mi sembrava una presa in giro. “Scappatinne” avrebbe dovuto chiamarsi. Scappa, fuggi via. Statte era da sempre stata una borgata (o una porcata, come dicevano alcuni) di Taranto: negli ultimi trent’anni l’impianto siderurgico dell’Italsider aveva portato tanti lavoratori forestieri che erano venuti a

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insediarsi nel paese. E così, il paesino in collina era diventato una vera e propria città, amministrata comunque da Taranto, un comune lontano e disinteressato ai problemi di un maxi-quartiere dormitorio buono solo per riscuotere tasse e spedirci famiglie scomode. La Statte della fine anni ottanta, crocevia nello spaccio di stupefacenti contesa da clan criminali, era una collina ridente devastata praticamente da un attentato al giorno. Negozi, case, circoli ricreativi, saltava all’aria di tutto. La sera si cam-minava sempre al centro della strada, incuranti delle automobili, per paura di saltare in aria insieme a qualche saracinesca. Per fortuna quella Statte non c’è più. Esco dalla palazzina di via Pergo-lesi dove sono nato e cresciuto e mi avvio lungo la strada di fronte che si apre tra villette curate che profumano di deodorante per la casa, inuti-li camini e soprammobili di lusso, hanno costruito ovunque, non ci pos-so credere, il pomeriggio è assolato e i miei piedi danzano sull’asfalto come patatine in padella. Mi avvio oltre, dove il paese si fa più silen-zioso, le case più rade, la ferrovia curva decisamente scendendo da Cri-spiano e si avvia a incunearsi verso Taranto, qui accanto c’è la piscina scoperta che funzionava come discoteca, c’è ancora, chissà se Marco continua a passarci davanti e a sospirare per l’occasione perduta. Il pae-se si fa più timido, anche le strade asfaltate stanno per raggiungere il loro limite, ma io proseguo ancora. Eccolo, laggiù, il nostro campo di calcio accanto alla ferrovia, non ci sono più le porte, non ci sono più le strisce, ci sono solo un mucchio di sterpaglie e qualche rifiuto che a-spetta paziente di biodegradarsi in un paio di millenni. Mi ritrovo a esplorare un tratto accanto ai binari, la carrozza merci ab-bandonata lì accanto è rimasta immobile, i bagni sono chiusi con il luc-chetto come al solito, c’è un silenzio irreale che sa di attesa e quasi mi sento in colpa ad attraversare questo spazio immobile di sassi, pigne, pietre solitarie. Un cartello minaccia una multa di sessantamila lire per i trasgressori, ma anche lui è in evidente imbarazzo, fa il suo mestiere controvoglia, è scolorito e opaco. Il vento solleva qualche foglia e mol-ta polvere, una lucertola mi scatta davanti ai piedi zigzagando veloce. Dietro mi sorride sorniona la stazione delle Ferrovie Sud-Est, arrostita al sole, con le sue pareti chiare e luminose, con i primi segni di cedi-mento dopo il restauro di una decina d’anni fa, deserta a quest’ora, non che sia mai particolarmente affollata. Mi siedo su una panchina, i giar-dinetti dietro alla stazione sono decisamente migliorati, ci sono addirit-

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tura i giochi per bambini con la moquette, mi vien quasi da ridere a vedere quella moquette verde, non posso resistere all’impulso di pas-seggiarci regalmente un paio di volte avanti e indietro, mentre l’odore acre di pini bagnati mi riporta a spazi ampi e vite lontane perdute nel tempo e che ora dimorano in un indefinito altrove. Di fronte alla stazione c’è quel monumento alla stupidità che è il mercato coperto, inaugurato parecchi anni dopo la costruzione e chiuso subito dopo perché fatiscente. Se non altro gli alberi di fronte sono cre-sciuti e adesso fanno persino un po’ d’ombra. Mi avvio con calma verso via Bainsizza, lancio un’occhiata al negozio degli abiti da sposa davanti al quale Loredana sospirava progettando il suo matrimonio, poi prose-guo e mi sembra strano poter passeggiare tranquillamente in quest’area che una volta era zona franca degli spacciatori e adesso vede giocare i bambini. Avrei dovuto essere bambino adesso, non trent’anni fa. Mentre guardo le serrande chiuse dei negozi ripenso al bar con i primi videogame da 100 lire a partita, e quel Pacman se n’è ingoiate di pa-ghette, il panificio con il suo meraviglioso odore di farina e pane caldo, la macelleria con le immagini alle pareti di mucche floride e in salute che mi intristivano così tanto quando poi guardavo le bistecche esposte. La mucca è da sempre stato il mio animale preferito: trasforma l’erba in latte, c’ha le tette grosse e non si lamenta di essere cornuta. Proprio qui dietro c’è una caserma dei carabinieri, fu istituita anni fa perché in un paese dove si spacciava sul viale principale e c’era una attentato esplosivo ogni due giorni, forse c’era bisogno di qualche cara-biniere. Chissà se potrò mai venirci a lavorare, proprio dietro casa mia, sarebbe bello. I poveri resti della casa del popolo sventrata dalla crimi-nalità resistono tra le sterpaglie, monito silenzioso di un passato da tra-mandare nella memoria. Ripercorro la strada accanto alla scuola ele-mentare, il suo inutile e brutto recinto che la isola dal paese, il semaforo che - quasi non ci posso credere - funziona, vorrei fotografarlo, è la prima volta che lo vedo acceso. Arrivo al ponte, ho quasi paura, esito ad attraversarlo. Rivolgo lo sguardo a sinistra, i riflessi dorati dell’orizzonte sul mare si perdono in un affollato giardino di ciminiere grigie. Sono in anticipo, arrivo alla farmacia, qui accanto una volta c’era il negozio di giocattoli dove comprai il pallone con Leo, non c’è più, c’è un parcheggio adesso. Potrei avviarmi verso la chiesa ma è ancora troppo presto, giro allora a destra per via Armando Diaz e mi dirigo verso il mostro, quell’orrenda scultura che brutta era e brutta

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rimane, almeno per un grezzo come me che non capisce l’arte moderna. E mi fermo a guardare la chiesa del Sacro Cuore, quell’avamposto della speranza che ha seminato tanto intorno a sé e adesso vede raccogliere i suoi frutti, così piccola e così confortevole come la fede di noi poverac-ci. Quasi mi sembra di sentire i latrati dei cani di via San Francesco che mi inseguivano furibondi e un brivido ancora mi ripercorre la schiena solo al pensiero. Scendo per via delle Sorgenti, ed eccomi arrivato da-vanti alla scuola media: era un edificio vecchio e cadente, oggi è una struttura di cui il paese è orgoglioso, la casa comunale. Bella. Proseguo e raggiungo la Via Nuova, che solo la stoltezza burocratica chiama Corso Vittorio Emanuele III. Terzo, per giunta, quello piccolo e com-plessato, come se abbandonare lo stato nelle mani dei fascisti e fuggire poi nel momento della sconfitta fosse un comportamento degno di un sovrano al punto da intitolargli una strada. Quella è la Via Nuova, a via nov, come la chiamano in dialetto gli stattesi, altro che corso. La per-corro, ecco le panchine davanti alla Usl, penso a quella tristissima chiacchierata con Leo, le panchine allora non c’erano ancora, ripensan-do alle sue parole mi torna in mente il motivo per cui sono tornato a Statte in questo fine settimana autunnale. Ho allungato un bel po’ il giro ma alla fine sono arrivato nel cuore del paese, da qui si comincia a vedere quel brutto incrocio che alcuni si ostinano a definire piazza Vittorio Veneto. Non ho voglia di scendere fin lì. Non ci sono più, i due vecchi amici di papà, i vecchi pini che svettavano maestosi. Li hanno abbattuti perché davano fastidio a qual-cuno. Senza di loro quell’incrocio è ancora più triste. Giro per via Pia-ve, mi avvicino alle due anime che da sempre tengono in vita Statte, la casa del popolo che fa il presepe più bello della provincia e la chiesa della Madonna del Rosario che alleva le avanguardie del centrosinistra. Mi fermo a respirare la piazza davanti alla chiesa. Questa è un piazza. Me la ricordo colorata di giallo e verde durante i comizi per l’autonomia. Entro. Sono in ritardo. Lui è già lì, mi aspettava. Non serve, sussurra. Mentre me lo dice guarda Giovanni Paolo II che gli sorride e probabilmente ne cerca la tacita e bonaria approvazione. Ma lui ci tiene molto. Guardate, giovane, che è perfettamente inutile, avrà sicuramente già ricevuto la benedizione.

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Ma una di più non gli farà male. Non se ne parla nemmeno. Ho troppo da fare, ritornate in un altro mo-mento, pensavo voleste confessarvi, quanta insistenza, giovane, oltre tutto se non ricordo male voi mi pare siate un poliziotto. Carabiniere. Ecco, giusto – sembra volere prendere un appunto, tira fuori un calen-darietto dalla scrivania nell’angusta sagrestia, mamma mia com’è in-vecchiato, lui fatica a riconoscere me ma neanche io me lo ricordavo così magro, con i folti capelli grigi che incorniciano uno viso scavato, il pizzetto appuntito e gli occhialini appesi al naso, stanco ma tenace co-me sempre. E solo. Quando sarò vecchio voglio avere qualcuno accanto che mi aiuti a sol-levarmi dal cuscino, e non soltanto, con tutto il rispetto, un vecchio crocifisso di legno. Don Pierino, la prego, per me è davvero importante, gliel’ho giurato. Non si giura, figliolo, sì sì, no no, sia solo questo il vostro parlare, dice la Scrittura. E ora, se permettete, ho da fare. É stato difficile trovarlo, difficile ottenere questo appuntamento, i sa-cerdoti sanno fuggire splendidamente quando abbiamo bisogno di qual-cosa che non ci vogliono concedere, ma capisco che devo insistere. Non mi piace raccontare la storia di quel piccolo oggetto, mi appartiene come le più profonde delle mie viscere, ma forse così si convincerà. C’è un’altra cosa che non le ho detto, don Pierino. Sospira, chiede aiuto a Papa Giovanni, questa volta, visto che Woytila continua a sorridere, si accarezza il crocifisso che ha al collo sotto il lungo abito talare nero, me ne accorgo chiaramente. Mi piego verso di lui. Ho bisogno di guardarlo negli occhi. Glielo dico. Gli racconto una storia che lui in parte conosce già. Quest’oggetto che attraversa tre generazioni. Sospira di nuovo. E va bene, allora, va bene, se ci tenete tanto. Andiamo di là, davanti all’altare, e facciamo in fretta. In nomine patris… Ne farò buon uso. È per una persona speciale: un papà. Grazie, don Pierino. Grazie.

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Posso tornarmene a casa, al mio cassetto privato, da rovistare magari ascoltando una cassetta dell’epoca. Woytila mi sorride, e sono sul punto di sorridere anch’io.

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Il pezzo di gomma

Ciao città, come va? Sembri bella ora che vado via, visto che perdonare non so. Lei è tua, dille che non si può buttare via gente senza cuore per un finto amore in un auto blu… dille che vale molto di più. TIMORIA, “VERSO ORIENTE”

Era un pomeriggio di settembre. Un uomo sulla quarantina fischiettava un motivetto allegro mentre guidava una Fiat Uno, con il braccio sini-stro penzolante fuori dal finestrino. L’auto procedeva a passo d’uomo, e non poteva essere altrimenti, sia perché l’uomo si stava godendo un pomeriggio libero prima di rientrare in fabbrica per il turno di notte, e sembrava voler assaporare ogni istante, sia perché la strada era dissesta-ta e proprio non si poteva chiedere di più a quel macinino. Accanto all’uomo c’era un ragazzino in pantaloncini e scarpe da ginnastica. Sul sedile posteriore, una bambina conversava amabilmente con una bam-bola di pezza senza una gamba. L’uomo si arrestò, domandò al ragazzo se gli avrebbe fatto piacere se fosse rimasto ad assistere alla partita, il ragazzo rispose di no, fai fare un giro a Lella, me la cavo da solo, scese dall’auto di corsa raggiungendo un gruppetto di coetanei vocianti, e la sentì ripartire mentre l’uomo allontanandosi continuava a fischiettare un motivo allegro. Seduto ai bordi del campo c’erano un vecchio dalla pelle aggrinzita dal sole, un ragazzino appoggiato alla bici, con un cerotto sul ginocchio e gli occhi arrossati, una ragazzona con il broncio e le braccia incrociate che scalpitava come un cavallo prima del palio e sbraitava contro quegli ottusi che le impedivano di giocare perché era femmina.

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Il vecchietto aveva la ‘Settimana enigmistica’ arrotolata in una mano, le scarpe di cuoio sporcate dalla polvere, i pantaloni mostravano ancora la piega della stiratura recente, il colletto della camicia bianchissimo in-corniciava un collo muscoloso e abbronzato. Guardava di tanto in tanto l’orologio, quasi avesse qualcos’altro d’importante da fare, poi con una mano sulla coppola e l’altra sul fianco cercava di scorgere suo nipote in quella massa vociante, e vedere se era ancora tutto intero. Non era faci-le: una selva di gambe si muoveva seguendo i movimenti irregolari di un vecchio pallone. La prima impressione che si aveva osservando quel campo di battaglia era di assistere a una partita di rugby, giocata male per giunta. Qualcuno si manteneva lontano dalla mischia con la mano sulla milza, altri, rossi in viso come peperoni, si accarezzavano gli stin-chi massacrati. I portieri sbuffavano annoiati, aspettando solo l’occasione buona per qualche uscita “a kamikaze”, così chiamata per-ché sprezzante del pericolo e del benché minimo buon senso. Il ragazzino che guardava la partita da fondo campo era stato una delle vittime di quel gioco selvaggio, ed era costretto a fare lo spettatore; sperava che la sua squadra perdesse, perché se avessero vinto i suoi amici lo avrebbero cacciato dalla formazione. Squadra che vince non si tocca.

ole.

Invocai la nostra usuale strategia di gioco: “Marcatura a donna!”, che voleva dire che occorreva stare attaccati agli avversari come se fossero delle ragazze; senza allungare le mani, però, che sarebbe stato spiacevEro abbagliato dal sole. Mi sforzavo di individuare il pallone davanti a me, ma non era facile, in quel polverone. Faceva molto caldo e sentivo al posto dei polmoni due borse d’acqua calda piene di brodo, mentre tormentavo con i denti le labbra secche e mi stropicciavo gli occhi irri-tati dal sudore. Non potevo distrarmi. Giocavo sempre in difesa perché i miei compagni non tornavano mai e subivamo sempre dei gol in con-tropiede. Mai la soddisfazione di un gol, mai l’esultanza per un bel tiro. Dovevo sempre stare all’erta, consapevole che un mio errore sarebbe costato una rete sicura alla mia squadra, visto che in porta avevamo Cicciobello. Cicciobello era un ragazzino basso e “robusto”, come diceva sua ma-dre; un ciccione, come dicevamo noi. Chiaramente era così goffo nei movimenti che sarebbe stato un disastro in qualsiasi zona del campo. Così lo facevamo stare in porta, dove era comunque un disastro. Qual-

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che volta “veniva colpito” dal pallone e lo respingeva, ma si trattava di casi rarissimi. Era come avere una porta con tre pali, di cui quello cen-trale basso e largo. Lui diceva che era questione di metabolismo, che aveva la struttura ossea pesante: noi avevamo capito la verità quando avevamo visto la pasta con le melanzane al forno e le cotolette impana-te che la madre gli scaldava per merenda. Nessuno mi aveva mai chie-sto di giocare dietro: fra noi vigeva l’anarchia, a parte la legge costitu-zionale di far giocare Cicciobello in porta. Se ognuno giocava dove voleva, voleva dire che praticamente tutti giocavano da centravanti. Tutti tranne me, per quel maledetto senso di responsabilità che mi per-seguitava già a dodici anni. Mi sarebbe piaciuto essere un idolo delle ragazze come Beppe, che segnava sempre moltissimo; ma sapevo che senza di me Beppe non avrebbe segnato mai. Purtroppo questo lo sape-vo io, non le ragazze. Il pallone si avviava rimbalzando nella mia direzione. Il terreno di pie-tre e terra arsa era tale che persino Platini avrebbe avuto difficoltà a controllare la sfera su quello scenario lunare. Scattai in avanti e cercai di bloccarlo. Come al solito tutti i miei compagni già gridavano perché rilanciassi nella loro direzione. Colto dal panico di fronte agli avversari che mi si lanciavano contro, calciai la palla con tutte le mie forze. Ne venne fuori un tiro disgraziato che finì sui binari della ferrovia lì vicino. Già perché il nostro campo di calcio era ricavato in un campo tra gli ulivi e il percorso Taranto-Statte delle ferrovie Sud-Est. - Accidenti a te, Anto’, mo’ vallo a prendere! - Se non lo prendi me lo paghi eh? Me lo paghi! Quel pallone è di mio cugino, è un “tangoss”, viene dal Brasile, costa assai… Quel pallone non valeva più di cinquemila lire, ma sapevo che Alfio, il proprietario mi avrebbe fatto pagare anche i danni morali per quel pal-lonaccio sgonfio. - Stai calmo, calmo, eh? Te lo vado a prendere, il tuo pallone, non sono un cacasotto, io! Quell’ultima frase mi aveva riabilitato agli occhi di tutti. Così mi avvi-cinai spavaldamente al binario. Quel binario rappresentava la linea late-rale del nostro “campo”. Non era una bella scelta giocare lì, ma non è che avessimo molte altre alternative. O giocavamo lì o niente. E noi giocavamo lì. Ero a un passo dal binario, quando cominciò improvvisamente a bat-termi forte il cuore mentre le mani sudavano copiosamente.

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Un ragazzino bruno e occhialuto della squadra avversaria interruppe il silenzio con voce chiara: - Aspettate, ché mo’ passa il treno del pomeriggio. Mi voltai verso di lui. Ormai anche le gambe avevano iniziato a tre-marmi. Gli altri mi guardavano con aria di sfida. Sperai che il nonno che seguiva le nostre partite intervenisse, ma constatai amaramente che se n’era andato. E anche la ragazzona discriminata doveva essersi allon-tanata, stufa di aspettare. In fondo, ci voleva un attimo a raccogliere quel pallone. - Meeh, non ti muovi? Io al posto tuo già l’avevo preso! Alfio non fece in tempo a finire le sue parole, che il treno passò, spaz-zando via il suo pallone di cui ci rimasero solo pochi brandelli. Uno cadde ai miei piedi, e rimasi incredulo a osservarlo. Nessuno sembrava rendersi conto che quel treno avrebbe potuto spazza-re via me. - Bravo! Bravo! E mo’ come giochiamo? - Oh, non l’ho mica fatto apposta! - E già, mica è colpa sua se è uno scarparo… - Gridò qualcuno dal gruppo. - Siete degli incoscienti. Domani lo porterà lui, un pallone nuovo. E poi non è vero che viene dal Brasile, il negozio di giocattoli vicino casa di mia nonna ce l’ha uguale. Per oggi pazienza. L’ultimo a parlare era stato il ragazzino con gli occhiali. Incoscienti? Lo guardai incuriosito. Aveva lo sguardo testardo, di chi sa il fatto suo. Anche troppo, come avrei imparato in seguito. Avevo appena conosciuto Leo. Piccolo, non molto alto, magro, con i capelli castano chiari ondulati e un paio di occhialini rotondi sul naso, sembrava una specie di incrocio tra Martin Mistère e Paperoga. Entrava in scena con piglio e decisione, e mi pareva sentire gli accordi di Smalltown Boy dei Bronsky Beat mentre mi guardava deciso. La partita finì ovviamente lì tra polemiche e recriminazioni. E mentre, stanchi e indolenziti, tornavamo a casa tra le ombre lunghe di un rosso e polveroso pomeriggio autunnale, fra un discussione e l’altra, isti-tuimmo la regola che sui binari, alle quattro e mezza, non ci si andava. Rientrai in casa ancora spaventato, e corsi subito in camera per prende-re dei vestiti puliti e farmi una doccia. Infilai il brandello del pallone nel cassetto. Avevo bisogno di calarmi in un altro personaggio, e di

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farlo in fretta. Mi disinfettai di nascosto una ferita al ginocchio (per evitare il solito: “Lo sapevo! Ti sei fatto di nuovo male! Un giorno ci lascerai la testa dietro quel pallone!” di mia madre), misi sul giradischi il 45 giri di Africa dei Toto mentre continuavo cocciutamente a ripensa-re a quel mio sconosciuto salvatore e al pericolo che avevo corso. Mi lavai in fretta e ancora più in fretta mi rivestii. Avevo bisogno di fare due passi. - Hai vinto oggi Anto’? Lella, mia sorella, seduta con le gambe incrociate sul letto, con un fo-glio davanti e un pennarello in mano, mi osservava infatti con aria in-terrogativa. Non riuscivo a sopportare il suo sguardo attento. Aveva appena sei anni, un fiocco rosa che le legava i capelli biondi e un vesti-tino a fiori pieno di segnacci blu. - Stai attenta a non scarabocchiare di nuovo la coperta che poi la mam-ma si arrabbia. - Io disegno, non scarabocchio. Anto’… - Comunque abbiamo vinto, adesso scusa ma ho fretta, devo uscire per fare dei servizi. - Anto’ aspetta… - Lo guardo dopo, il tuo disegno, te lo prometto, adesso devo proprio uscire. Devo andare a comprare un pallone. - Anto’… aspetta! - Uffa, quanto sei seccante, ti ho detto che ora non posso… - C’hai un calzino blu e uno verde. Ecco perché non riuscivo proprio a sopportare lo sguardo attento di mia sorella. Uscii con i calzini bene abbinati, e la testa fra le nuvole, ma deciso a ritrovare quel tipo che mi aveva salvato la vita. Avevo bisogno di rin-graziarlo. Stavo per accingermi ad attraversare il ponte arrampicandomi sui microscopici marciapiedi più adatti a ospitare un trapezista che un passante, quando mi venne in mente che proprio il ragazzino sconosciu-to aveva detto che vicino casa di sua nonna vendevano palloni. Mi recai allora di corsa verso il negozietto di giocattoli, era oltre il ponte sulla sinistra, dopo la farmacia. Ci arrivai trafelato, entrai gettando un’occhiata distratta alla pista elettrica che non avevo mai avuto e a una Bmx che sembrava perfetta per me, poi vidi un cesto con dei palloni e ne comprai uno. Porca miseria quanto costava, non veniva dal Brasile, veniva dalla Svizzera! Stavo uscendo con il pallone sotto il braccio e

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quattro paghette in meno nel portafoglio, quando rividi il mio salvatore. - Hai ricomprato il pallone? Cavolo non ho mai giocato con un pallone così nuovo! - E già. Domani solo tocchi di prima e di esterno, che non voglio si sciupi. - Io non credo di esserci domani. Abito un po’ in là e vengo in paese con la scusa di venire a trovare mia nonna. Ma domani lei è fuori e non ho altre scuse a portata di mano. - Dove abiti? - Giù alle palazzine dell’Italsider. Mi accompagni? Proseguimmo fino al piazzale davanti alla chiesa, poi scendemmo lun-go le scale silenziose e bianche di calce che portavano ai piedi del pae-se, lungo la strada che conduceva a Taranto, dove abitava Leo. Ce ne stavamo zitti a studiare il sole che scompariva a occidente e ci pareva quasi di sentire il rumore del mare che si agitava qualche chilometro oltre. Stavamo appunto scendendo quei gradini che scivolano nel cuore del paese vecchio quando decisi di togliermi quel nodo che mi si era attor-cigliato in gola. - Grazie per prima. La storia del pallone… I binari. - Oh, di niente, figurati. - C’è qualcosa che posso fare per sdebitarmi? Mi rispose che se intendevo stargli accanto fino al giorno in cui non fossi stato io a salvargli la vita, non era necessario. Per fortuna non era-vamo nel Far West. Dalla mia espressione dovette rendersi conto che non avevo capito la battuta, e aggiunse: - Sai cosa ti dico? Potresti farmi un regalo. - Un regalo? - mi fermai stupito a fissarlo mentre lui scendeva l’ultimo gradino. - Vuoi il pallone che ho appena comprato? Magari avesse preso il pallone. Sarebbe stato più semplice. Ma Leo l’alternativa più semplice non la sceglieva mai. Voleva un regalo che non avesse un gran valore, ma che per me significasse molto. Il mio portachiavi preferito, una cartolina. Qualcosa che suggellasse la nostra nuova amicizia. - Posso offrirti un magic cola? Lo prendiamo al bar qui dietro. - Preferisco un lemonissimo. Ma non voglio che me lo offri, grazie. - Ma io non ho nient’altro con cui sigillare l’amicizia. - Si dice suggellare… Comunque non fa niente, per me va bene co-

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munque così. Qua la mano, io mio chiamo Leo. Passeggiammo con i nostri ghiaccioli che si scioglievano appiccicosi rosicchiando la parte esterna e lasciandoci il contenuto succoso per do-po. - Un momento, ora che ci penso io ce l’ho qualcosa. Guarda! Tirai fuori dalla tasca un piccolo oggetto che portavo quasi sempre con me. - Bella. Sei molto religioso? - Proprio per niente. Vado a messa solo perché devo fare la Cresima. Me l’ha regalata mio padre, lui sì che è religioso, quando è stato ad Assisi me l’ha portata. Io speravo in un cappello sportivo, sai come quelli dei giocatori di baseball. E invece mi ha portato questa. A dire il vero io la uso per tenere il segno quando giochiamo a ciclotappo. - Ma povera coroncina! Quella serve per recitare il rosario. Vedi? Ogni grano rappresenta un’Ave Maria. Ce ne sono dieci. Sarà benedetta. - Non lo so, mia nonna mi ha detto di farla benedire dal prete ma io non ci vado mai. Secondo me è una scusa per farmi parlare con don Pierino che mi rimprovera sempre perché non mi faccio vedere al catechismo. Se vuoi te la do. Tu sai giocare a ciclotappo? - Sì che so giocare, ma non la userò per tenere il segno! E la farò bene-dire. La prese dalla mia mano e la strinse nella sua. - Allora io proseguo per di qua. Ci vediamo presto. Va’ a casa adesso altrimenti ti perdi le repliche di Happy Days. - Non c’è fretta, a quest’ora c’è ancora Arnold. - E conserva con cura il pallone. Imboccai la strada che costeggiava il quartiere delle grotte, la zona più antica di Statte, scavata con tenacia nella roccia, me ne tornai a casa con il mio pallone nuovo e la contentezza di aver trovato un custode più rispettoso per la mia coroncina d’Assisi. Di lì a poco saremmo diventati inseparabili, oggi ci rivediamo solo a Natale e Pasqua. Il che è ottimo per mantenere in vita un’amicizia: non sopporterei Leo più a lungo altrimenti.