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“Dio è morto” aveva detto Nietzsche più di un secolo fa. Mai come in questo momento storico salta agli occhi la Sua mancanza. Il cristianesimo ridotto a pura dottrina ininfluente nella vita di ciascuno. Eppure mai come in questo momento la gente sente il bisogno di un ‘salvatore’ capace di garantirla rispetto ad un futuro oltremodo incerto, di proteggerla da un orizzonte su cui si addensano nubi che annunciano tempeste non solo economiche e che mettono in risalto la precarietà della sua esistenza. Appiattirsi sul quoti- diano lasciandosi trascinare dal vortice degli eventi senza chiedersi il perché o rinchiudersi nella cerchia degli amici senza alzare lo sguardo sul mondo che ci cir- conda, sono tentazioni legittime, ma non gratificanti per tutti coloro che si dichiarano esseri umani. Nelle storie dell’Antico Testamento, quando il popolo incontrava momenti di pericolo, Dio mandava i suoi pro- feti per ammonire, esortare, ricondurre gli uomini sulla retta via, ma se Dio non esiste più a chi rivolgersi? L’illu- minismo e il conseguente sviluppo scientifico molto si sono prodigati per lo smascheramento dei pregiudizi e per liberare gli uomini dalle superstizioni e dalla paura. 1 Questi movimenti hanno però condotto gli uomini verso un sempre maggiore materialismo e al delirio di onni- potenza misurato esclusivamente sulla capacità indivi- duale di accumulazione economica. Sparito ogni senso di trascendenza, altri idoli hanno preso il posto di Dio e l’altro, non più prossimo, è diventato il potenziale ne- mico. Negata la religione ‘oppio dei popoli’, polveriz- zata l’etica laica, abbattuta ogni ‘credenza’ basata su abitudini e tradizioni, il mondo è diventato il deserto in cui si aggirano fantasmi assetati di dominio, il dominio inteso come strumento per confermare la propria esi- stenza. Giustamente gli uomini hanno voluto affrancarsi da ogni principio di autorità sentita come soffocante già dal cinquecento, ma sono diventati perciò più adulti e maturi? Già nel settecento Kant aveva sostenuto che “l’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di mino- rità che egli deve imputare a se stesso”. Quanta strada dobbiamo invece ancora percorrere per raggiungere la consapevolezza di essere spiriti incarnati bisognosi gli uni degli altri, quanto lavoro ci attende per sviluppare la coscienza che da ben altro dipende il senso di sicurezza e di serenità che non dall’appropriazione infinita di ca- pitali, quanta sofferenza per capire che l’oltre è una re- altà che possiamo costruire insieme attraverso il perdono, la faticosa accettazione del diverso, la fiducia in se stessi e negli altri e l’impegno personale e comuni- tario? Ma quando Cristo tornerà, troverà la fede? Antonia Dagostino ORGANO DI STAMPA DELLA RICERCA CRISTCATTOLICA Dio è morto il dialogo Anno XLIV | Dicembre 2011

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“Dio è morto” aveva detto Nietzsche più di un secolofa. Mai come in questo momento storico salta agli occhila Sua mancanza. Il cristianesimo ridotto a pura dottrinaininfluente nella vita di ciascuno.Eppure mai come in questo momento la gente sente ilbisogno di un ‘salvatore’ capace di garantirla rispettoad un futuro oltremodo incerto, di proteggerla da unorizzonte su cui si addensano nubi che annuncianotempeste non solo economiche e che mettono in risaltola precarietà della sua esistenza. Appiattirsi sul quoti-diano lasciandosi trascinare dal vortice degli eventisenza chiedersi il perché o rinchiudersi nella cerchiadegli amici senza alzare lo sguardo sul mondo che ci cir-conda, sono tentazioni legittime, ma non gratificantiper tutti coloro che si dichiarano esseri umani. Nelle storie dell’Antico Testamento, quando il popoloincontrava momenti di pericolo, Dio mandava i suoi pro-feti per ammonire, esortare, ricondurre gli uomini sullaretta via, ma se Dio non esiste più a chi rivolgersi? L’illu-minismo e il conseguente sviluppo scientifico molto sisono prodigati per lo smascheramento dei pregiudizi eper liberare gli uomini dalle superstizioni e dalla paura.

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Questi movimenti hanno però condotto gli uomini versoun sempre maggiore materialismo e al delirio di onni-potenza misurato esclusivamente sulla capacità indivi-duale di accumulazione economica. Sparito ogni sensodi trascendenza, altri idoli hanno preso il posto di Dio el’altro, non più prossimo, è diventato il potenziale ne-mico. Negata la religione ‘oppio dei popoli’, polveriz-zata l’etica laica, abbattuta ogni ‘credenza’ basata suabitudini e tradizioni, il mondo è diventato il deserto incui si aggirano fantasmi assetati di dominio, il dominiointeso come strumento per confermare la propria esi-stenza. Giustamente gli uomini hanno voluto affrancarsida ogni principio di autorità sentita come soffocante giàdal cinquecento, ma sono diventati perciò più adulti ematuri? Già nel settecento Kant aveva sostenuto che“l’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di mino-rità che egli deve imputare a se stesso”. Quanta stradadobbiamo invece ancora percorrere per raggiungere laconsapevolezza di essere spiriti incarnati bisognosi gliuni degli altri, quanto lavoro ci attende per sviluppare lacoscienza che da ben altro dipende il senso di sicurezzae di serenità che non dall’appropriazione infinita di ca-pitali, quanta sofferenza per capire che l’oltre è una re-altà che possiamo costruire insieme attraverso ilperdono, la faticosa accettazione del diverso, la fiduciain se stessi e negli altri e l’impegno personale e comuni-tario? Ma quando Cristo tornerà, troverà la fede?

Antonia Dagostino

ORGANO DI STAMPA DELLA RICERCA CRISTCATTOLICA

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Marcel Légaut, professore di matematica alle universitàdi Renne e Lyon, ha abbandonato questo campo di ri-cerca per dedicarsi alla ricerca religiosa. Egli, da laico, distingue tra religioni d’autorità e reli-gioni di ap pello (o di invito, di chiamata). Le religioni d’autorità considerano la verità come un pa-trimo nio soltanto da custodire, difendere. Vedono gli uo-mini come gregge da dominare, sottomettere. Per arrivarepiù sicuramente - e senza rischi - allo scopo, si ap poggianoal potere e tendono a condizionare la società (mantenen -do legami di complicità con qualsiasi autorità costituita).Ogni cambiamento viene considerato come una minacciaalla loro vocazione immobilista e conservatrice. Ogni dis-senso eliminato, ogni critica giudicata una mancanza di fe-deltà. Hanno le risposte già confezionate per qualsiasiproblema. Non devono più cercare. Si sentono incaricatesoltanto di dare, fornire, non ricevere. Detengono le chiavi,e non hanno bisogno di farsi aprire da nes suno. Preferi-scono semmai, quando è il caso, «sfondare». Il fedele vienecostruito dall’esterno (comportamenti, pratiche, regola-menti rigorosi). Viene minuziosamente indottrinato sututto ciò che deve fare ed evitare (moralismo, divieti, im-posizione di fardelli insostenibili).La religione di chiamata, invece, mette l’uomo in piedi,ne fa una creatura di movimento. Si rivolge alla co-scienza e sollecita la libera e gioiosa adesione degli in-dividui. Costruisce l’uomo dal di dentro. Lo risveglia, losollecita, gli apre gli occhi... e la bocca, gli dà fiducia,stimola la sua creatività, lo responsabilizza, gli fa in-travvedere le sue possibilità. Gli dice ciò che è, ciò chepuò essere, ciò che è chiamato a di ventare, più che ciòche deve fare. Insomma, è una religione liberatrice.Mentre la religione d’autorità è statica, ripetitiva, l’al-tra è di namica, sempre sorprendente.Abramo, «nostro padre nella fede», è un mo dello ine-guagliabile di una religione d’appello. La sua vicenda di venta lo specchio in cui sia Israele che laChiesa devono con frontarsi. Abramo scopre che Dio hal’abitudine di fuggire in avanti. Il «paese» che Dio gli in-dicherà è avanti, è un “dentro di sé”, non indietro. Percui il desiderio deve avere la meglio sul ricordo nostal-gico, l’attesa anticipatrice sui mugugni o i piagnucola-menti, la fantasia sulla memoria, la speranza sullanostalgia, le aperture profetiche sulle recriminazioni.Osserva Snoopy, il celebre cane dei fumetti di CharlesSchulz: «Un’intera montagna di ricordi non uguaglieràmai una piccola speranza».Dio è il Dio della promessa, non del rimpianto. Dobbiamo imparare a sospirare «verso», piuttosto chesospirare voltandoci indietro. Il «mal di strada» deve lasciare il posto al «gusto dellastrada». Occorre smetterla di sfogliare le cipolle (come si sfoglia

l’album dei ricordi) per spremere qualche lacrima no-stalgica. (Sarà per questo che sono allergico alle ci-polle?) Le cipolle, più che farci piangere, dovrebberofarci ridere. Il credente è uno che, come Abramo, ognigiorno decide di in camminarsi.Guardiamoci dentro, intorno, avanti. E’ giunto il momentodi voltare qualche pagina?Adesso basta guardare con nostalgia al passato senza lafede di poter vivere il presente con l’aiuto di Cristo.Ci accontentiamo di far parte di una religione di auto-rità o ci sentiamo parte di una religione di chiamata?

Paolo Iotti

Una sera a cena con amici, parlando degli argomenti piùsvariati, mi sono accorta del fatto che più volte sia statausata la parola “volontà”: volontà di fare qualcosa , vo-lontà di cambiare, volontà di risolvere una data situa-zione. La volontà, dice il dizionario, è la disposizione adagire in un certo modo, la propensione; la capacità di de-cidere e agire in modo da raggiungere il proprio scopo.Ogni giorno le scelte fatte possono essere messe in di-scussione e in ogni momento dobbiamo intraprenderequel viaggio all’interno di noi stessi che ci permette diprendere una decisione.Diventa importante capire dove nasca la nostra “volontà”:la scelta fatta è stata presa in modo autonomo, valutandoattentamente quello che è il proprio pensiero, i propri va-lori, la propria inclinazione e sensibilità, oppure la deci-sione è stata influenzata da altri, dal pensare comune odall’etica. Siamo capaci di fare scelte che siano veramentenostre, indipendentemente dal fatto che possano sem-brare impopolari o andare contro a quello che è il pen-siero, le aspettative di che ci vive accanto?Mi viene in mente a questo proposito quel brano chedice: “Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tuaterra, dalla tua parentela, e dalla casa di tuo padre,verso la terra che io ti indicherò. 2Farò di te una grandenazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome epossa tu essere una benedizione.” (Gen 12, 1-2)La prima cosa che Dio dice ad Abramo è “lech lechà”,che vuole dire “vai a te, a te stesso”, “vai dentro di te”,vai verso la tua interiorità profonda(1). Dio invitaAbramo ad iniziare un viaggio che porta alla scopertadi se stesso, di chi sia veramente coi propri pregi, e i pro-pri difetti, doni e capacità, mettendosi in un atteggia-mento di ascolto verso se stesso, prendendo le distanzeda genitori, da parenti, da figli e da tutte quelle per-sone che possono influenzare il suo modo di pensare, lesue decisioni. È una presa di coscienza che diventa ne-cessaria per poter crescere, maturare e per non esserevittime di frustrazioni e invidia. La parola chiave in que-sto caso è: silenzio.

il dialogo

Cerchiamo una religione di autorità

per una religione di chiamata?“ ”o siamo pronti

Tu cosa vuoi“ ”

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In ebraico “Ra” significa “male” ed è la radice della pa-rola “Ra’ash” che significa “rumore”: il male, quindi ge-nera rumore, mancanza di armonia e di equilibrio. È laconfusione che si crea nella mente a causa di quel-l’enorme vociare di pensieri che si ripetono costante-mente e incessantemente senza lasciare un momentodi pausa, un momento di silenzio, impedendo così diriuscire ad entrare realmente in contatto con se stessi,perché quella che si percepisce altro non è che l’imma-gine che si vuole dare del proprio io.Il silenzio è quel vuoto che può far paura, perché lì in-contriamo noi stessi per come siamo realmente, ma èanche quel momento di vuoto che permette di ascol-tare e accogliere la Parola di Dio, quel momento divuoto che permette di ascoltare e accogliere gli altri.È Dio stesso che ci indica la via da seguire e la primacosa da fare è abbandonare l’egoismo e quello stato dichiusura in sé stessi in cui ci si ritrova quando, da un latosi pensa di non aver bisogno di nessuno, dall’altro si hatalmente paura di affrontare il mondo che si preferiscerimanere chiusi nel proprio “orticello” per paura di es-sere feriti. Dio aiuta a vincere quella povertà d’animoche si genera quando i pensieri e le preoccupazionisono rivolti solo a se stessi e al proprio benessere ma-teriale e a quella sorta di quieto vivere che deriva dal-l’uniformarsi al pensiero comune, al modo di viveredella società, senza indagare su noi stessi.Solo indirizzando i pensieri e la mente verso Dio si puòcambiare direzione abbandonare l’egoismo e la ricercadel proprio benessere volgendo lo sguardo verso glialtri. Passiamo quindi dall’egoismo all’altruismo; dalpensare di non aver bisogno di nessuno allo sperimen-tare la propria povertà, o per meglio dire, la propriaumiltà, al sentire di dover chiedere aiuto perché le pro-prie forze non ce la fanno.È un invito a prendere coscienza del proprio IO, delleproprie reali capacità, dei propri limiti e difetti. È unostimolo a intraprendere il cammino che permette di ele-vare noi stessi dalla mediocrità. Tale crescita è possibilese lasciamo aperta la porta del nostro cuore a Dio per-ché possa entrare e ri-creare noi stessi ogni giorno, enoi dobbiamo fidarci di Lui. Dobbiamo voler compiereil cammino che ha disposto per noi e non lasciarci fer-mare dalle nostre paure, dalla pigrizia o dall’apatia. Dioci invita a camminare, a crescere, ad accogliere i donidello Spirito Santo e lasciare che questi ci trasformino.A fare silenzio per poter ascoltare la Sua Parola, per ac-coglierla e irradiare la sua Luce.Grazie a questo percorso di crescita, o di “ri-creazione”da parte di Dio, la nostra vita si riempie di novità, dinuovo coraggio, di volontà e sicurezza, si riempie del-l’essenza di Dio.A noi la scelta: aprire la porta che conduce dentro noistessi e dare voce e speranza ai nostri sogni e desiderioppure lasciarla chiusa rinunciando ad essi?

Laura Bondioli

(1) da Il Dialogo, dicembre 2005: “Ascolto: da dove cominciare” diPaolo Iotti

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“Abiti del male”, così Aristotele più di 2300 anni fa,usava definire quelle alterate inclinazioni di taluni in-dividui a ripetere eccessivamente determinati tipi diazioni, tanto da crearsene un modus vivendi. Nell’an-tica Grecia questa costante pratica di ciò che è male oviene ritenuto tale, altrimenti definita vizio, andava ainterferire con l’armonico andamento sociale, costi-tuendosi come un chiaro oltraggio alle leggi civili. Con il diffondersi del Cristianesimo, viene, però, a operarsiuna sostanziale trasformazione nell’interpretazione delvizio: il comportamento vizioso non si contrapponeva piùsemplicemente alle leggi civili, ma andava a ostacolare ilcammino individuale verso il divino. Nel IV secolo, l’ere-mita nel deserto, Evagrio Pontico, fu il primo a stilare unalista di eccessi cui un monaco non doveva abbandonarsiper non intralciare il proprio percorso di purificazione epurezza verso Dio. Enunciando “gli otto spiriti di malva-gità” (gola, lussuria, avarizia, tristezza, ira, accidia, vana-gloria, superbia), Evagrio abbozzò quella che, in seguito,sarà propagandata come la dottrina dei vizi capitali, doveil termine “capitali” andava a sottolineare quelle disdice-voli azioni (vizi, appunto), da cui si riteneva nascesserotutti gli altri peccati.(1)

Questo sistema di riferimento venne, in seguito, ricon-fermato da un discepolo di Evagrio, Giovanni Cassiano,che riconobbe nell’evitamento dei vizi capitali un pro-cesso di purificazione personale, coinvolgente anima ecorpo, che trova la sua spontanea conclusione allorché ilmonaco raggiunge il completo controllo di sé, dei suoiimpulsi e desideri. In tale contesto è chiaro che i compor-tamenti viziosi non interessano le situazioni relazionalidell’uomo nella società, ma solo i rapporti con se stesso econ Dio, segno di un’etica puramente individuale.La dottrina dei “peccati capitali” ebbe, però, inizio conPapa Gregorio Magno (VI secolo), il quale, operandouna modifica della vecchia enumerazione, unì la tri-stezza all’accidia e aggiunse l’invidia: il numero dei vizielencati nella lista rimase otto, ma con uno schema di7+1, considerato che il pontefice riconosceva la super-bia come la radice di tutti gli altri. L’ottica morale, qui,si allarga assumendo nel contempo anche una valenzapiù collettiva: i vizi non denotano più solo i possibilismarrimenti di chi ha voluto intraprendere un camminospirituale verso Dio (il monaco), ma squilibri interioriche possono accadere in ogni singolo uomo.Nel 1215, dopo che il Concilio Lateranense IV sancì, per ifedeli, l’obbligo della confessione annuale, si rese neces-saria una classificazione e una conoscenza più dettagliatadei peccati: fu in questo clima che il sistema “septenario”(2)

di Gregorio Magno conobbe il suo successo: andando benal di là delle sue iniziali intenzioni, il modello gregorianovenne, così, a costituirsi come un vero e proprio proto-

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Disfunzionipulsorie“ ”

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collo, necessario ai confessori per interrogare i “peccatori”e ai penitenti per rendere conto delle proprie “colpe”. Ilseptenario gregoriano impose il suo trionfo tardo-medie-vale sicuramente grazie alla sua semplicità, versatilità, fa-cile rappresentazione iconografica ed efficace capacitàtassonomica; nel contempo si distinse come un valido stru-mento che, rintracciando nella moralità individuale l’ori-gine di tutte le mancanze, permetteva di identificare i“peccati” consumati nel segreto della propria vita inte-riore con una chiara ripercussione sulla scena comunita-ria. La teoria dei vizi capitali, tende, qui, a tradire il saporedi una morale spiccatamente sociale, con cui regolamen-tare soprattutto i comportamenti e le relazioni degli uo-mini con gli uomini, lasciando, però, in penombra ladimensione spirituale del singolo. Lentamente, però, ilseptenario iniziò a conoscere il proprio declino. Nel rico-noscergli una generale incompletezza nel descrivere esau-stivamente l’universo del male, già nel corso del XIII secolosi accentuarono i tentativi di classificare i peccati in diversimodi e soprattutto il perno dell’etica cristiana iniziò a ri-conoscere nel peccato una violazione della legge e dellagiustizia divina.Quello che, qui, ci preme considerare non è tanto la na-tura dei peccati e i modi per poterli efficacemente iden-tificare(3) quanto rivalutare lo schema dei sette vizi capitalicome strumento per diagnosticare gravi alterazioni nel-l’equilibrio dell’unità mente-corpo-spirito di ogni singolouomo. Se ripercorriamo la storia del “protocollo” sui settevizi capitali, non può sfuggire come questo sia passato daessere uno strumento per favorire la propria ascesi al di-vino (Evagrio e Cassiano), a un’immediata sintesi per in-terpretare e migliorare il proprio mondo interiore(Gregorio Magno), a un maneggevole prontuario persanzionare i comportamenti sociali peccaminosi degli uo-mini. Pur con approcci e finalità differenti, lo schema deivizi capitali, sia in Evagrio-Cassiano che in GregorioMagno riguarda una dinamica psicologica-individuale ti-picamente introspettiva, mentre acquista una dimen-sione di alto spessore relazionale, teso a regolare icomportamenti sociali. Ogni comportamento relazionaleinadeguato, prima di essere palesato, trova la sua originein un mal-andamento sistemico, interno all’individuo.Quante volte ci comportiamo in modo sgarbato o inap-propriato nei confronti del prossimo, solamente perchésiamo nervosi? Molto spesso non siamo nemmeno cosìconsapevoli che molte nostre “cattive azioni” siano lamanifestazione di qualcosa che in noi stessi non sta ope-rando come di dovere: il funzionamento di molti dei no-stri apparati (endocrino, nervoso, digerente…) influenzaspiccatamente la nostra vita di relazione. Il più delle voltegli squilibri nei nostri rapporti interpersonali hanno unadimensione di transitorietà, ma può, altrimenti, accadereche diventino dei veri e propri schemi comportamentaliconsolidati nella personalità dell’individuo. Nel mo-mento, in cui possiamo escludere disfunzioni organichecroniche a carico dei sopraccitati sistemi, possiamo andarea verificare la funzionalità di un altro “apparato”: quellopsicologico. Immaginiamo di trovarci di fronte a un indi-viduo che abitualmente si rapporta in modo litigioso conle persone, ci dovremmo sicuramente chiedere se qual-cosa, nel suo sviluppo psicologico, non si sia incespicato.

Magari ha condotto una vita infantile in cui ha cono-sciuto solo soprusi o ha odorato un clima famigliare vio-lento o è stato vittima di vessazioni in ambienti amicali osono frutto di un trauma più o meno consapevole o sonoespressione di un insano rapporto con una figura geni-toriale o … Ciò che stiamo, in quel momento, tentandodi rintracciare sono alterazioni tipiche dell’assetto psico-logico. Come abbiamo, però, più volte sottolineato anchein altre sedi l’essere umano è “un’indisgregabile unitàmente-corpo-spirito e ogni alterazione in ciascuna di que-ste sue componenti avrà necessariamente ripercussionisulle rimanenti, destabilizzando l’armonia del tutto”(4):alterazioni organiche possono determinare un risvoltopsicologico e, viceversa, sofferenze psicologiche possonocreare disfunzioni fisiche. L’unità umana non sarebbecompleta se non considerassimo anche un terzo e impor-tantissimo fattore, strettamente interrelato con i due pre-cedenti: il sistema energetico. Ci siamo già, altrove,occupati di quest’ultimo sottolineando che i suoi compo-nenti sono dei “pulsori”(5), responsabili del movimentodell’energia propria di ogni individuo, instradata in par-ticolari canali (i meridiani). Abbiamo, inoltre, specificatoche esiste uno svariato numero di questi “pulsori”, tra cuise ne distinguono molti secondari e solo sette principali.Fin dalla nascita l’individuo si affaccia sul mondo già cor-redato di tutti questi pulsori funzionanti, compresi quelliprincipali, che, però, non vibrano tutti, fin dall’inizio, alcompleto della propria potenzialità. “Ogni periodo dellavita evolutiva è determinato da una maggior attività diun centro pulsore rispetto agli altri, secondo un ordineche procede dal primo all’ultimo. Molto spesso può acca-dere che si rimanga ancorati all’attività predominante diun centro pulsore per un lungo periodo della vita, a voltepersino tutta un’esistenza, senza lasciare che gli altri cen-tri trovino la loro più completa espressione o, ancora piùfrequentemente, si può assistere a un alterato funziona-mento di uno o più centri, creando disarmonie o vere eproprie patologie”(6) sia sul piano organico, psicologico espirituale.I comportamenti viziosi di cui ci stiamo, qui, occupandosono proprio espressione di alterazioni o, meglio ancora,di “fissazioni” energetiche nel consueto sviluppo di unodi questi pulsori: la supremazia esercitata da un pulsoresugli altri condiziona e determina la manifestazione delleazioni e del comportamento dell’individuo. Quando ab-biamo a che fare con una persona che, nelle sue relazioni,“indossa abiti di avarizia, lussuria…”, possiamo dire chesta soffrendo di una malattia dello spirito. Ma andiamo ascorrere più in particolare questi squilibri, individuando,per ciascuno di questi, il malfunzionamento del pulsorecorrispondente.- Grazie al nostro primo pulsore, noi iniziamo, fin dallanascita, a relazionarci con il mondo esterno e a trarreda questo la soddisfazione dei nostri primordiali istintidi sopravvivenza. Rafforzando man mano la capacità diesprimere i nostri bisogni, acquistiamo sicurezza in noistessi, affermiamo la nostra posizione nel mondo e pro-duciamo, un senso di armonia fisico-mentale nei con-fronti di ciò che ci circonda. Se lo sviluppo di questopulsore incontra, però, qualche difficoltà nella realiz-zazione del proprio percorso, creando fissità energe-

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tica, potremmo veder estrinsecato il primo “abito vi-zioso”: l’avarizia. L’avaro è colui che, non riuscendo maia soddisfare i propri bisogni ed essendo divorato da unirrefrenabile desiderio di beni temporali, maschera lapropria insicurezza nell’accumulare cose materiali soloper il gusto di farlo e senza averne reale necessità.L’inettitudine ad avere controllo su stesso lo induce asostituirla con la capacità di aver potere sulle cose, an-dando inevitabilmente incontro a una depersonalizza-zione; ama a tal punto le cose possedute che dimenticadi amare non solo gli altri, ma soprattutto se stesso.Tutto questo lo conduce a vivere una realtà relazionalefatta di finzione e rapporti interpersonali superficiali,tentando di mimetizzare il proprio “vizio” con operegenerose e nobiltà d’animo.- Se il nostro secondo pulsore non ha incontrato graviimpedimenti al raggiungimento del suo equilibrio, cifarà sentire bene con noi stessi, facendoci sperimentareaccettazione e consapevolezza del nostro corpo e dellanostra identità di genere e ponendoci nella condizionedi instaurare relazioni emotive sane e positive. Al con-trario, se il suo sviluppo è traumatizzato tanto da es-sere “bloccato”, l’individuo sperimenta un sentimentodi paura nella conoscenza di se stesso e inizia a ogget-tivare il suo disagio focalizzando la sua attenzione sulproprio corpo e su quello altrui, giungendo a interpre-tarlo come unico mezzo di confronto col prossimo. Citroviamo, qui, di fronte a un individuo lussurioso, sem-pre torturato da un’insaziabile brama di piacere fisico,che reputa come unico stimolo capace di porlo a con-tatto con se stesso e con gli altri. Nel condurre la suaesistenza, sempre alla ricerca di esperienze e relazioniche gli donino l’immediatezza del piacere sessuale, nonconseguendo mai, suo malgrado, l’appagamento dellasua smania ed essendo, per questo, condannato a sof-frire per ripetute delusioni, incontra il vuoto dietro allecose, non riuscendo ad assaporare l’essenza della vita.- Il raggiungimento di un positivo carattere volitivo, diun adeguato livello di autostima e di capacità decisio-nale avviene quando il terzo pulsore ha portato a ter-mine la sua crescita. Come per gli altri pulsori, in genere,il suo sviluppo avviene in modo abbastanza armonico,anche se talvolta la realizzazione finale può non esseresempre così completa ed esaustiva come si vorrebbe.Quando, però, il suo percorso viene notevolmente arre-stato da fattori endogeni o esogeni, il suo funziona-mento reitera sempre la stessa dinamica: quella diprocedere verso l’appropriazione del controllo su stessisenza mai pervenire al suo ottenimento. Non riuscendoad avvertire la soglia di una simile conquista, l’individuoinizia a incamerare quanto più gli è possibile dal mondoesterno e gli alimenti diventano un mezzo per tentare direalizzare la “pienezza” di sé. Ci troviamo di fronte allapersonalità del goloso(7), il quale è condannato a speri-mentare, sempre, una sensazione di appagamento al-quanto effimera e transitoria. Non conoscendo mai lasazietà, il goloso è in continua ricerca di qualcosa da in-gurgitare che gli conceda soddisfazione, ma questa spa-smodica necessità gli rivela la sua incapacità di averepotere su se stesso: si perpetua, così, un inarrestabile cir-colo vizioso.

- Quando il nostro quarto pulsore non ha incontratogrossi intralci alla sua piena realizzazione, noi siamo ingrado di sentirci in pace con noi stessi, godere di un po-sitivo livello di autostima e siamo, di conseguenza ca-paci di provare empatia, accoglienza, amore, pietà ecomprensione per il prossimo. Ma se il traguardo “dellabuona immagine di sé” non è raggiunto appieno e il li-vello di autostima risulta scarso o comunque inade-guato, l’individuo può sviluppare un persistente eradicato sentimento di profonda sofferenza per nonpossedere cose, che altri posseggono e lui no, o un con-citato desiderio che altri perdano cose che anche luistesso possiede(8): siamo di fronte al vizio dell’invidiache condanna la persona a una vita, imperniata sul “ro-vinoso” confronto con gli altri.- Un quinto pulsore che abbia ottenuto il suo equilibrioci apre alla “comunicazione”, ovvero ci pone nella favo-revole condizione non solo di ascoltare sé stessi e il pros-simo, ma anche di concretizzare un’interazione di tuttele nostre potenzialità discernitive, qualitative e direttive,facendoci, nel contempo, sperimentare la partecipazioneall’energia divina. Ma se lo sviluppo di questo pulsore ri-mane incastrato nella sua dinamica, entrando in un cir-colo imperfetto, ecco affacciarsi il pericolo dell’insinuarsidella superbia. Questo è il vizio per il quale il soggetto,catapultato in un mondo interiore, in cui conosce soloamore esagerato per se stesso e una convinzione di su-periorità assoluta sul prossimo, viene indotto a speri-mentare disprezzo per qualsiasi genere di regola olegge: l’individuo non si percepisce più solo come parte-cipe della stessa energia divina, ma sentendosi a suavolta un Dio, non ammette di dover ulteriormente com-pletare il suo cammino. La sostanziale differenza tra glialtri vizi e questo è proprio insita nel fatto che in tuttigli altri “stati energetici alterati”, la persona è consape-vole di essere vittima di un malfunzionamento interno asé e per questo prova sofferenza e conflitto interiori,mentre nella dimensione di superbia, l’individuo non av-verte minimamente la propria inabilità, ritenendo chesiano gli altri a essere disagiati e difettosi.- Dobbiamo al fatto di aver conquistato uno stato di equi-librio del sesto pulsore, la possibilità di entrare in pienocontatto con noi stessi, corroborando, nel contempo, lanostra capacità concentrativa di trasformazione e purifi-cazione dei nostri pensieri, nonché l’opportunità di ad-dentrarci in stati meditativi e mistici,. Al contrario, se lapersona non è riuscita in questo suo intento creando inquesta dinamica fissità energetica può sviluppare quelloche è comunemente conosciuto come il vizio dell’ira. Que-st’ultima condizione, da non confondersi con il sentimentopiù o meno transitorio della rabbia, è caratterizzata daun’alterata condizione psichica: l’iracondo è un individuoche non è più in grado di calibrare con ponderatezza lesue scelte né di tollerare le possibili conseguenze negativedi queste. Stazionando in una situazione di non raggiuntaconsapevolezza di sé e, per tale motivo, non essendo ingrado di maturare un positivo grado di autocontrollo, l’ira-condo vive costantemente in una contingenza di profondaavversione verso qualcosa, qualcuno e/o verso addiritturasé stesso, divorato da un incessante desiderio di vendicareil suo disagiato stato d’animo.

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- Il nostro viaggio di esseri umani non sarebbe completose non riuscissimo anche almeno a lambire una più pro-fonda conoscenza di noi stessi per assaporare quellatranquillità spirituale, in piena armonia con l’espres-sione dell’amore divino. Se l’essere umano si arrendesseall’evidenza del reale, disdegnasse l’impegno verso unamaggior conoscenza di sé, accettando di aver conqui-stato già tutto nel suo percorso di vita, in poche parolese si negasse la possibilità di una continua “ricerca” in-teriore conoscerebbe senza alcun dubbio l’ultimo deivizi capitali: l’accidia. Questo stato di torpore e di in-differenza verso sé e verso tutto è una condizioneestrema, in cui si incontrano depressione, noia, scorag-giamento, abbattimento…: è lo smarrimento più to-tale, che un uomo possa mai conoscere!

Cristina Caroppo

(1) si noti come la lista dei comportamenti viziosi da evitare sia qui rivolta ai monaci, ovvero a coloro che, rinunciando al mondo, intendevano instradarsi sul viatico di purificazione ed espiazione per avvicinarsi a Dio

(2) un sistema basato sulla potenza e consacrazione del numerosette, teologicamente utilizzato per designare la perfezione dell’eternità: sette le virtù, sette i doni dello spirito santo, sette le beatitudini…)

(3) in altra sede ci siamo occupati del peccato e del modo in cui poterlo interpretare: Il Dialogo, giugno 2008: “Qual è la tua colpa ?” di Cristina Caroppo

(4) da Il Dialogo, giugno 2011: “Forza terapica dei Sacramenti” di Cristina Caroppo

(5) il termine “pulsore” è altrimenti conosciuto, secondo la dicitura orientale, come “chakra”

(6) da Il Dialogo, giugno 2011: “Forza terapica dei Sacramenti” di Cristina Caroppo

(7) si può esprimere la propria golosità indiscriminatamente verso ogni alimento o verso un particolare e determinato cibo o ancora verso una bevanda (vino, liquori….)

(8) l’invidia può non essere necessariamente indirizzata verso cose materiali ma anche doti fisiche, caratteriali, spirituali..

Una parola ha detto Diodue ne ho udite

Salmo 62, 12

Il Cantico dei Cantici ha 8 capitoli e 117 versetti: la suastesura si colloca tra il sec. VI e IV a. C., lo si attribuisce aSalomone, ma l’estensore è probabilmente un oscuropoeta che ha attinto a fonti già esistenti e molto antiche.Quasi certamente il testo proviene dalla Mesopotamiao dall’Egitto paesi dove vigeva la ierogamia, ovvero ilmatrimonio sacro o sigizia, congiunzione tra due divi-nità, insomma i famosi riti della fertilità che si celebra-

vano in primavera per rinnovare la vita umana e rige-nerare la Natura.Il testo molto diffuso e sentito a livello popolare venneinserito nella tradizione biblica profetico-sapienzialedopo un lungo processo di rielaborazione.Il libro ha sempre suscitato imbarazzo presso la classesacerdotale e i teologi. Nel campo ebraico fu Rabbi Sha-lomon, Ben Isaac, meglio conosciuto con l’acronimo Ra-shiv, a dare un’interpretazione letterale al Cantico e aleggere la Scrittura tenendo presente il versetto delsalmo 62:“la Scrittura in quanto parola di Dio ospita molti sensied è irriducibile a un unico senso, e questo giustifica imolti midrash ( midrash significa “cercare”, cercare il si-gnificato attuale di un testo).“Rashiv rende profetico il Cantico e lo contestualizza nellastoria del popolo Ebraico. Israele è in esilio, ma il suo le-game con Dio è indissolubile ed per questo che piange lasua separazione da Dio - suo Sposo - come una vedovache piange il marito vivente ma separato, lontano. Non èstata ripudiata e suo marito ritornerà da lei.Anche i commenti cristiani seguiranno questa traccia.Mentre la tradizione ebraica si è preoccupata di risalire alsenso teologico del Cantico, affinità con la tradizione pro-fetica, i cristiani vedono il Cantico attraverso 1 Cor. (ge-losia) e Ef. 5 (rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa).(1)

Il Cristianesimo riprese dall’ebraismo l’interpretazioneallegorica del Cantico per giustificarne la canonicità; ildialogo Dio-Israele venne riveduto e corretto come rap-porto Cristo-Chiesa, ovvero, interpretato come amorespirituale, e tutto ciò per mascherare quelle che sonoin realtà espressioni prettamente materiali: ovvero ungioco d’amore tra due innamorati. Anche se il poemainsiste sulla passione sconvolgente dei due amanti, iltutto è inserito in un contesto “sacrale”.Il Cantico celebra l’amore e lo pone al centro dell’esi-stenza cosmica, poiché Dio è il Tutto e l’Uomo, adam,èfatto ad immagine di Dio, quindi è parte del cosmo epartecipa al divenire del cosmo:

E Dio disse: «Facciamo l’uomo (adam) a nostra imma-gine,a nostra somiglianza, e domini sui pesci del maree sugli uccelli del cielo…».Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio locreò, maschio e femmina li creò.

Gn 1,26s

Il Libro dello splendore o Zohar riconosce nel Cantico l’in-tera rivelazione di Dio: «Questo cantico comprende tuttala Torah; comprende tutta l’opera della creazione; com-prende il mistero dei Padri; comprende l’esilio d’Israele inEgitto e il canto del mare; comprende l’essenza del De-calogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israelenel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e allacostruzione del Tempio; comprende l’incoronazione delsanto nome celeste nell’amore e nella gioia; comprendel’esilio d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; com-prende la risurrezione dei morti fino al giorno che è il sa-bato del Signore» (Libro dello splendore. Teruma 144°).(2)

Nella tradizione cristiana il Cantico gode di una stima nonminore: «Beato chi comprende e canta i cantici della

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L’amore tra l’uomoe la donna“ ”

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Sacra Scrittura -afferma Origene-, ma ben più beato chicanta e comprende il Cantico dei Cantici» (Omelia sulCantico l,l: Pg 13,37).Attraverso l’uso dell’interpretazione allegorica, tutto ilCantico appare come un paradigma del Cristo: così,l’Amato che viene saltando sopra i monti di Ct 2,8 è rico-nosciuto sin dal primo commento cristiano come «ilVerbo, saltato dal cielo fin nel corpo della Vergine, dalsacro ventre sul legno della Croce, dal legno negli inferi,di là nella carne (della risurrezione)... infine, dalla terra alcielo» (Ippolito di Roma, Commento al Cantico, XXI, 2). Ledescrizioni del Cantico vengono interpretate come meta-fore della vita della Chiesa: «Se tu senti nominare le mem-bra dello sposo, cerca di capire che in realtà sono evocatii membri della Chiesa» (Origene, Commento al Cantico,libro II, su Ct). (4) Muovendo dal Cantico sviluppa la sua ri-flessione sui gradi della «violenta carità» Riccardo di SanVittore, combinando genialmente teologia ed esperienzaspirituale per sottolineare come il rapporto d’amore conDio non lasci nessuno come lo ha trovato, ma al contrariosegni in modo indelebile la sua anima: «Grande è la forzadell’amore, meravigliosa la potenza della carità» (I quat-tro gradi della violenta carità, 2).Al Cantico si ispira la mistica cristiana, celebrando il rap-porto d’amore con Dio: basti pensare ai versi di San Gio-vanni della Croce: «In una notte oscura / con ansie diamor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fuinotata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notteche mi guidasti! /oh, notte amabile più che l’aurora / oh,notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata» (San Giovanni dellaCroce, Noche oscura, Strofe l e 5).(3)

Eloquente e ispirativo nelle più diverse stagioni della tra-dizione ebraico-cristiana, il Cantico continua a parlareanche oggi: «Questo – afferma Guido Ceronetti – è unCantico di oggi, per il presente, per servirgli restando quelche è, un punto lontano» (Il Cantico dei Cantici, Adelphi,Milano 1975. 2005, 114). E aggiunge: «Colpisce la somi-glianza delle sue parole coi gradi più alti del silenzio; è unamusica cessata in ogni suo suono, che affiora come puramemoria» (115). La forza evocativa per ogni uomo, perogni tempo, di queste poche parole (1250: 117 versetti),continua a essere riconosciuta: «Per esprimere l’Assolutoin una visione umana è bastato questo arco breve» (115).(4)

A riportare il Cantico nella sua dimensione umana comecanto puramente amoroso, ci pensano, tra gli altri, dueteologi: Brevard S. Childs, teologo anglicano e Vito Man-cuso, teologo “scomodo” per il cattolicesimo.Il primo sostiene senza mezzi termini che il Cantico“non appartiene al genere midrasico. Non interpretaun altro testo, ma si ricollega piuttosto in maniera di-retta all’esperienza umana dell’amore.” Quindi non sipuò intendere il Cantico allegoricamente come descri-zione dell’amore di Dio per Israele o per la Chiesa, mapiuttosto “espressione sapienziale, sia testimonianza diuna presenza reale dell’amore carnale nell’universo del-l’umana esperienza.”(5)

Mancuso, in una conferenza tenuta il 3 giugno 2007 nellaSinagoga di Casale, senza mezzi termini stronca il “goffotentativo” operato dalla Chiesa e dall’Ebraismo di alle-gorizzare il testo riconducendolo al concetto di agape,

ovvero a una sorta di amore di benevolenza, di amoreuniversale, in modo da giustificare l’interpretazione delCantico come amore tra Dio-Israele e Cristo-Chiesa.L’amore vissuto tra i protagonisti del Cantico, prosegueMancuso, è eros, pura tensione erotica, Questo, soloquesto, è il messaggio del Cantico. Basta considerarequanto sia presente il corpo, soprattutto nelle parti chesono oggetto delle attenzioni amorose: bocca, seni,curve dei fianchi, ventre, gambe. E poi un diluvio di ca-rezze, baci, persino facendo uso di vino aromatico (8,2) e afrodisiaci (riferimento alla mandragola in 7, 14).(6)

Il Cantico, quindi celebra un momento di estasi terrena,di gioia carnale vissuta in modo innocente e per nienteconsapevole del peccato che in questo poema non ènemmeno adombrato. Uno scambio senza inibizionid’amore e di energie vitali che, a mio avviso, pone ilrapporto amoroso tra uomo e donna nell’immenso di-venire della forza cosmica.

Mario Matera Frassese

(1) A. ZANI, Il Cantico dei Cantici, esegesi, teologia e mistica neiprimi commenti cristiani: Origene e Ippolito. Corso di storia dellateologia(2) BRUNO FORTE, Il Cantico dei cantici: La più bella canzoned’Amore, in “FIDAE”(3) Idem.(4) Idem(5) BREVARD S. CHILDS, Teologia dell’Antico Testamento in uncontesto canonico, Edizioni Paoline, Torino 1989.(6) VITO MANCUSO, Erotismo e amore: il Cantico dei Cantici, In-tervento nella Sinagoga di Casale, 3 giugno 2007.

L’uomo ha da sempre avvertito il fascino misterioso delsublime e vissuto le più svariate forme di estasi. Unodegli spazi del pianeta dove si possono provare similiebbrezze ed incanti è senza dubbio la montagna. Radi-cate nell’uomo, ci sono generali motivazioni antropo-logiche che hanno portato all’identificazione dei luoghisacri: la montagna, la grotta, la foresta, la sorgente chesono così diventate sedi privilegiate del sacro. La mon-tagna e la spiritualità ad essa legata ha da sempre as-sunto moltissimi significati nella storia delle idee, dellecredenze e della produzione letteraria.La montagna con la sua natura spesso incontaminata di-venta luogo preferito per il colloquio con l’eterno, per unrapporto con la dimensione del divino, per cui l’uomo,salendo, è, tra l’altro, portato alla meditazione ed alla ri-flessione spirituale. Il monte così può significare ascesi,distacco dal materiale, e simboleggiare la tensione del-l’uomo verso la divinità che abita i cieli. E’ per questo che

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La montagna luogo“ ”di incontro con il sacro

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tradizioni religiose di tutte le culture e di tutti tempi, ali-mentate da una inesauribile fantasia, hanno conferito atante montagne un senso ed un valore sacro, spazio diun possibile legame tra cielo e terra. Tutte le culturehanno ritrovato nel profilo verticale della montagnaun’immagine della tensione verso l’oltre e l’altro rispettoal limite terrestre e tutte le religioni vi hanno letto unsegno dell’Oltre e dell’Altro divino.Alcune religioni ed alcuni popoli, poi, con le loro cre-denze, hanno immaginato ed immaginano le cime dellevette proprio come la residenza della divinità. La mon-tagna con il suo potente carico simbolico ha, in ognitempo, ispirato una sterminata produzione letteraria epittorica. La cima di un monte quasi ci obbliga anche fi-sicamente ad alzare gli occhi verso l’alto là dove ha sedel’invisibile, l’irraggiungibile, il trascendente.Con queste premesse si può tentare di comprendereanche perché l’uomo esplora le montagne, le sale a voltein condizioni ambientali e climatiche estreme sino al ri-schio della vita. Forse è proprio la dimensione della ascesache consente, seppure allo stato inconscio, la ricerca del-l’Assoluto. L’uomo nell’ascendere lascia il peso della ma-terialità, della monotonia, della quotidianità, e forse hal’intuizione del mistero che abita nell’Alto, nell’Oltre; neprova struggente desiderio, ne assapora l’insopprimibilebisogno. E’ lassù sul monte che si sperimenta la contem-plazione, anche tra fatica e sofferenza, che permette diuscire da sé per conoscere l’Altro.Nella Bibbia la montagna è luogo della presenza di Dio,quindi della bellezza, del silenzio meditativo, della per-fezione e della prova. Si fa così simbolo dell’elevazionedell’uomo.Oggi, così pieni e sicuri del nostro sapere scientifico, sor-ridiamo di tutto ciò, ma chi è più attento alla nostraumana avventura sente con nostalgia che il perdersi allosguardo di un fulmine a ciel sereno poteva essere, e per-ché no, la coda di un drago incastonata da innumerevolidiamanti; la forma di una nuvola il volo di un animalefantastico; l’urlo del vento il lamento senza posa delleanime dei defunti; le frane, le valanghe, i crolli delle torri,la punizione della divinità offesa. E l’asciugarsi di unafonte lo scherzo di uno gnomo; il tremore delle fogliedegli alberi, i giochi degli elfi; il prosciugarsi dei laghettio la scomparsa di un pastore la cattiveria delle streghe.Le montagne con le loro vette che si innalzano verso ilcielo appaiono la dimora visibile del Dio invisibile, la cuimaestà è nascosta dalle nubi. La fede biblica, a diffe-renza di altre che finiscono per “divinizzare” il monte,afferma però con fermezza il primato di Dio su tutto ilcreato e quindi anche sui monti.Per la religione ebraica e la cristiana il monte è sacro per-ché in quel luogo, dove si immagina più vicino il creato alCreatore, è meno difficile l’adesione a Dio: la montagnacon la sua natura spesso incontaminata è luogo privile-giato per il colloquio con l’eterno, con ciò che non si puòvedere e non si può dire, con il più profondo della nostraanima per un rapporto con la dimensione del divino, pen-siamo ai monasteri, agli eremi ai luoghi di silenzio in Dio.Nella Bibbia il Monte, è un luogo dove si svolgono avve-nimenti speciali, rivelatori, è luogo di particolare vici-nanza di Dio, Mosé, la trasfigurazione, le beatitudini, la

crocifissione e Dio stesso è identificato come montagnarocciosa e come rocca, (salmo 17: “Signore, mia roccia,mia fortezza, mio liberatore; mio Dio, mia rupe, in cuitrovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza.luogo inaccessibile di rifugio; terreno solido su cui co-struire fortezze, sicurezza protettrice in cui appoggiarela propria esistenza”). Lo sguardo rivolto verso l’alto è losguardo rivolto a Dio.Quando Mosé col suo gregge giunge al monte Horeb evuole vedere da vicino il prodigio del roveto ardente,Dio gli dice: Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi,perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa.Ma anche noi salendo sulle nostre montagne con il sal-mista possiamo dire:“Salmo 121 (120):  “Alzo gli occhi verso i monti:  dadove verrà il mio aiuto? Il mio aiuto è dal Signore cheha fatto cielo e terra” (vv. 1-2). Ecco che ancora con labibbia si può dire “ Il Signore Dio è la mia forza, eglirende i miei piedi come quelli della cerva e sulle alturemi fa camminare. (Abacuc 3,19)

Fa’, o Signore,che non perda maiil senso del sorprendente.Concedimi il dono dello stupore!Donami occhi rispettosi del tuo creato,occhi attenti, occhi riconoscenti.Signore, insegnami a fermarmi:l’anima vive di pause; di stupore; di attese,insegnami a tacere come le tue montagne tacciono eascoltano;solo nel silenzio si può capireciò che è stato concepito in silenzio.

Vittorio Cappozzo

Riflessioni, emozioni,storie di vita e… quant’altro

“MI RICORDO DI VITANGELO”San Mauro Torinese, 25 febbraio 2010 Cara Maria Pia, mi rivolgo a te, perché ho bisogno di uninterlocutore per tirare fuori dal baule della memoria lagran massa di pensieri che mi tormenta, in questo pe-riodo. Tu sei stata vicina a Vitangelo per molti anni, forsepiù anni di quanto lo abbia frequentato io, sua sorella.Non ho assistito agli ultimi penosi giorni della sua vita.Lilli e Corrado ne sono stati sconvolti. Sempre la mortedi qualcuno ci turba profondamente; forse perché nonpossiamo fare a meno di pensare alla “nostra” morte.E non ci prepariamo ad essa mai abbastanza, perché“non sappiamo il giorno e l’ora”. Certo, quando il 22 maggio scorso sono andata a trovarloa Milano, ero così sottosopra, che invece di leggere“Ospedale S.Paolo” la prima cosa che vidi fu:“Cameramortuaria”. Mi ricordavo di quando andammo, Giovanni

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RACCONTIAMOCI

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ed io, al Policlinico di Bari e, invece di trovare Giulia an-cora viva, fummo inviati all’obitorio. Per fortuna, invece, a Milano, trovai Vitangelo ancoravivo, ma irriconoscibile. E dire che Fiorenza, che l’aveva in-contrato a Molfetta, mi aveva già descritto, con profondodolore, le gravi trasformazioni del suo aspetto. Per for-tuna potei, in quell’occasione, parlare abbastanza con lui.Mio fratello mi raccontò, con le lacrime agli occhi, diquel bambino del Togo, nato prematuro, che era riu-scito a salvare, creando una rudimentale incubatrice. Ri-scaldò la coperta dell’aereo col ferro da stiro e insistetteper ore e ore in quell’operazione. Poi mi fece vedere isuoi scritti, un po’ autobiografici, un po’ di fantasia, coni quali cercava di spiegare agli altri e forse a se stesso,come gli era venuto il grande amore per l’Africa.Lo lasciai, pregandolo di non farmi lo sgarbo di andar-sene prima di me, perché toccava a me, dopo Chiara eMaria, di lasciare questo mondo ed io avrei voluto vi-vere ancora per un bel po’. Si mise a ridere e così ci la-sciammo.Nel periodo successivo, gli ho mandato ogni giorno untrattamento REI-KI a distanza. Si tratta di una canaliz-zazione di energia, sulla quale lui era piuttosto scettico.Già qualche tempo prima, quando andava da Graziellala sera, in un periodo in cui aveva avuto dei seri pro-blemi, glielo avevo fatto sperimentare. Mi diceva, tantoper accontentarmi quando io insistevo per conoscere lesue reazioni, che sentiva una gran cappa di sonno chegli calava addosso (la stessa reazione che ho io) e cheperò dopo si sentiva “rigenerato”. Comunque conside-rava troppo “mistico” questo genere di cose.Ho avuto, in seguito, il piacere di sentire la sua voce altelefono con un volume quasi normale. Anzi mi tele-fonò lui – cosa che non faceva quasi mai – per racco-mandarmi di non fare la vaccinazione antinfluenziale,perché, sia io che lui eravamo già immunizzati. Lo ras-sicurai, ero già convinta della cosa. Poi mi parlò con en-tusiasmo di una nuova cura per l’osteoporosi, graziealla quale sentiva che le sue vertebre si erano raffor-zate. Qualche giorno dopo fui io a richiamarlo, per co-noscere il nome preciso di quei medicinali e ancorasentii un bel timbro di voce. Pensai, con sollievo, che forse la migliorata atmosferafamiliare stava dando i suoi frutti e che probabilmenteavrebbe potuto reggere ancora per un bel po’. Dopotutto mio padre era vissuto fino ad 88 anni. Ma si trattadi cose che “sono scritte in cielo” e la morte è un mi-stero, cara la mia Pia.Quando penso a Vitangelo, senza volerlo, non possonon pensare a me. E’ una sensazione che forse ho sem-pre provato, ma le ultime vicende mi hanno fatto ri-flettere molto sulle situazioni della nostra famiglia.Ogni tanto ne parlo con le figlie: io mi sento la “ver-sione femminile” di questo mio fratello.Un poco sento la stessa cosa anche con Corrado, mamolto meno. Era con le mie sorelle che avvertivo “lagrande distanza”. Una volta Chiara, infastidita da al-cune mie considerazioni, mi chiese: ”Ma a te, chi ti haeducato?” Non sapevo cosa rispondere. Mi ero educatada me, pensavo, prendendo modelli di comportamentoqua e là, dove li trovavo.

Mi modellavo su mio padre, piuttosto che su miamadre. La condizione femminile mi sembrava troppotriste e limitata. Ho fatto una fatica enorme a ricono-scere, negli ultimi tempi, che era un bene per me esserenata femmina ed è un lavoro che sto ancora facendo.Tu sai che da noi c’è un proverbio: mala nottata e figliafemmina, cioè al danno della mala nottata, si sommaquello di avere una figlia femmina. Per tutto questo iosentivo il mio stato come una menomazione.Ti ho già raccontato che la mia nascita non fu accolta congioia. Le condizioni economiche erano tristi; mia madre,con tre figli sulle spalle, fu costretta a lasciare un lavoroche le piaceva moltissimo e di cui parlava con molta no-stalgia. Lei insegnava dattilografia nella Scuola tecnica diMolfetta e ricordava i suoi “discepoli” che ancora la sa-lutavano con piacere quando la incontravano.La mamma, poi, sentiva dolorosamente la perdita delprimo figlio, il primo Vitangelo.Aveva i capelli ricci – ci diceva - e intanto nel cimitero in-dicava il luogo dove l’avevano seppellito. Era successoquesto: era fresca sposa e, timida e pudibonda com’era,quando ebbe la perdita delle acque, non ne parlò connessuno e rimase ad aspettare per qualche giorno. Miopadre si disinteressò della cosa, anzi – lei diceva –quando ebbe sentore delle prime doglie, scappò via dicasa. Probabilmente, più che egoismo, fu la paura dellasofferenza altrui a farlo comportare così. Quando ilbambino nacque, ”era tutto viola” e morì subito.A tuttora mi chiedo come mai non intervennero in quelcaso altre donne, le sorelle di mia madre per esempio,ma non so molto di quella vicenda. In seguito il babbosi rammaricava di avere dichiarato il bambino come“nato morto”, perché in realtà per un attimo era vis-suto. Il fatto è che le famiglie numerose, durante il fa-scismo, erano premiate con uno sgravio delle tasse. Consei figli, quanti eravamo noi, si pagavano mezze tasse,con sette, le tasse non si pagavano più..Quando nacque Vitangelo, io avevo due anni e mezzo.Si vede che la cosa mi colpì molto, nonostante la gio-vanissima età. Ricordo ancora un grande canestro di ca-volfiori e cime di rape che i colleghi di mio padre, cheallora lavorava alla Singer, gli mandarono, al posto deifiori, per congratularsi della nascita dell’attesissimo fi-glio maschio, futuro ingegnere. Un altro ricordo, abbastanza netto, è quello dei mieinonni paterni, venuti a vedere il neonato. Il nonno Vitan-gelo era seduto sulla poltrona, che adesso si trova nellacamera di Nicola, figlio di Fiorenza. Il tutto era abbastanzaeccezionale, e credo che cominciò per me allora il periodo,tipico in questi casi, della gelosia per “l’intruso”. Per questo, quando Vitangelo mi raccontava, nella miavisita a Milano, che la mamma lo chiamava “mon ca-deau”, cioè “il mio regalo”, non ho potuto fare a menodi avvertire, a livello profondo, un certo disappunto. Lamamma non ne faceva parola con gli altri figli; forse ca-piva che questa denominazione non ci avrebbe fattopiacere. D’altronde lei era troppo delicata ed attenta aciascuno dei suoi sei figli.Quando penso a mia madre e all’ambiente rozzo e igno-rante da cui proveniva, sento per lei una grande ammi-razione e amore. Evidentemente il periodo passato tra le

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Figlie della Carità di S.Vincenzo de’ Paoli, all’incirca daisei ai diciassette anni, l’aveva profondamente segnata.Lei amava la cultura, non per farne vanto, assolutamentee ci dava degli insegnamenti di carattere religioso, moltovissuti. Un amico di Corrado l’ha definita, molto corret-tamente, come madre “premurosa e vigile” e tale era. Ma torniamo a Vitangelo, da lei tanto amato. Io mi ac-corgevo di queste preferenze, ecco perché i rapporti colfratello più vicino sono stati per me sempre ambiva-lenti. Lui mi attraeva e nello stesso tempo, mi infasti-diva. Io ammiravo le sue imprese, che erano sempre unpo’ arrischiate, ma intanto sentivo che tutte le sue“uscite” venivano tollerate con benevolenza, mentre lemie no. Non era ammesso che una bambina facesse lestesse cose che possono fare i maschi, ecc. ecc.Quando si è trattato di intraprendere gli studi, io hodovuto conquistarmi con fatica il diritto di andare oltrela media inferiore, lui no. Il babbo era convinto che perle donne bastasse il diploma di terza Avviamento e cosìChiara, Maria ed io abbiamo frequentato quella scuola,che era un vicolo cieco. Il suo amico, Celestino Panun-zio, che viveva a Milano, gli diceva che una ragazza cheavesse studiato contabilità, dattilografia e francese, po-teva stare ottimamente in un negozio e il progetto pa-terno era quello: avere tutti i figli nel negozio. Il qualeprogetto non era molto accettato da noi ragazze. Chiara, per esempio, aveva avuto a scuola ottimi voti evoleva continuare a studiare; si vide invece impedita nellesue aspirazioni, perché era la figlia grande e in casa ser-viva il suo aiuto. Maria fece la sua piccola guerra di indi-pendenza e dopo essere stata avviata, senza tropposuccesso, da una sarta, nostra vicina di casa, riuscì, conesami da privatista, ad entrare nell’istituto magistrale e fumeglio per lei. Io riuscii, sotto il suo esempio, ad entrareda privatista nella quarta ginnasiale e poi a continuaregli studi nel liceo classico, per fortuna.I miei fratelli non conobbero tutte queste difficoltà ericordo che io consideravo il tutto con un certo risenti-mento. Mi dispiace di dover dire queste cose mentre Vi-tangelo non è più presente. Dei morti – si sa – bisognadire solo bene. Ma purtroppo sto facendo ancora puli-zia dentro di me di tante piccole sconfitte, di tanti ri-cordi non sempre positivi.Ci sono, certo, per fortuna, bellissimi episodi: per esem-pio, quando andavamo al Pulo, luogo che forse avraiconosciuto. Si tratta di una grande voragine, dovuta alcarattere carsico della Puglia, sulle cui pareti si apronogrotte in cui abitavano, nel periodo neolitico, uominipreistorici. Vitangelo non aveva paura ad avventurarsinei meandri di queste grotte; io lo seguivo con unacerta perplessità: non mi sono mai piaciuti i luoghioscuri, le cantine, i sotterranei e cose simili.Però ammiravo molto il suo coraggio e la sua intra-prendenza. In seguito mi è piaciuto di più avventurarminei “meandri dell’animo umano”, ma per quanto abbiatentato di renderlo mio compagno di ricerca, non cisono riuscita. Non aveva l’abitudine di parlare della pro-pria interiorità, come quasi tutti gli uomini, del resto.Tutti e due avevamo in comune una grande curiosità,anzi una curiosità che direi “insaziabile” ed invincibile.

Certe volte mi viene in mente che sant’Agostino la chia-mava “vana cupiditas”, cioè una inutile cupidigia, manon riesco ancora a liberarmene. Eppure sarebbetempo che anch’io facessi i conti con l’età che avanza eche mi richiama piuttosto ai doveri di “mettere ordine”tra le cose che in tanti anni ho accumulato. Ma torniamo a Vitangelo..La mamma, dicevo, stravedeva per lui. Sognava di vederlomedico, gli ricordava l’esempio del dottor Giuseppe Mo-scati, che da poco è stato fatto santo. Quanto avrebbegioito per quello che lui ha fatto nel Togo! Per quest’ultima vicenda della sua vita, sento di aver con-tribuito anch’io a certe scelte. Studiavo a Milano, grazie– devo ricordarlo con riconoscenza – all’aiuto economicodi mia sorella Maria, che già lavorava come maestra. Micapitò tra le mani un opuscolo di un Istituto padovano, ilCUAMM, Centro universitario medici missionari. Sapevoche Vitangelo voleva fare medicina e che da piccolo so-gnava Capitan Matamoro e altri personaggi dei fumettiche andavano in Africa a uccidere i leoni. Il Cuamm ospi-tava con tariffe vantaggiose i giovani che volevano av-venturarsi su questa strada. Ne parlai in famiglia eVitangelo si iscrisse a Padova; in seguito, non ricordo perquali motivi, terminò i suoi studi a Ferrara. Nel frattempo io ero alle prese col matrimonio, figli,concorsi ecc..e ci siamo persi un po’ di vista. Le notiziemi venivano da Chiara, che stravedeva anche lei per ilfratello e continuava l’abitudine materna di scusarlo egiustificarlo sempre, qualunque cosa facesse. Io avevo troppe gatte da pelare, tra concorsi, malattiedi mia suocera, figlie da allevare e via di seguito. Tra lesorelle, ero probabilmente la più staccata da lui e pensoche così lui mi percepisse. Perciò mi prendeva un po’ ingiro, come gli altri, nelle riunioni familiari, nelle quali lemie uscite erano occasioni di grandi risate, ma sentivoche di me temeva un certo giudizio. Senza dire che ac-canto a me c’era Giovanni, che, come ricordi, era iper-critico nei confronti della mia famiglia e che notavatante cose su cui io cercavo di stendere un velo pietoso. Per tutto questo, quando tu mi riferisti la sua frase: “Sepotessi incontrarmi con Liliana!”, decisi lì per lì di an-dare a Milano, benché non fossi molto in forma e cifosse un caldo eccezionale per quella stagione. Cioèsentii che dovevo superare tutte le mie difficoltà inte-riori e mettermi in treno.Veramente era da tempo che il pensiero di mio fratellomi tormentava. Da quando Fiorenza mi aveva riferito delsuo aspetto tanto deformato e lei ne era rimasta scon-volta. Le ricordava la nonna Marta degli ultimi tempi. Mi andavo dicendo che forse, in assenza delle mie sorelleche sapevano provvedere a tante cose, io dovevo pren-dermi qualche responsabilità. Ero ormai la figlia mag-giore. Mi assillavano le frasi evangeliche: “Se non ami ilfratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?” el’altra: “Chi dice ‘raca’ (sciocco) a suo fratello, andrà nelfuoco della geenna”. Veramente questa seconda frase giàda quando ero piccola mi impressionava. Possibile che perun peccato così piccolo si doveva andare nel fuoco dellageenna? E a chi non è capitato di dire ad un fratello o aduna sorella “Quanto sei scemo!”?

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In seguito ero rimasta impressionata dal discorso deldottor Andrea Penna, (quello che cura con le costella-zioni familiari), a proposito dei contrasti tra fratelli esorelle. Egli ricordava che, mentre coi genitori noi ab-biamo un patrimonio genetico del 50 %, coi fratelli ab-biamo dal 70 all’80 % di contributi genetici, perciò leliti tra i fratelli sono le più micidiali. Quindi chi non amasuo fratello non ama se stesso. Quando parlai al medicodella faccenda della geenna, lui mi confermò che laScrittura aveva ragione. Insomma dovevo riconciliarmiinteriormente con mio fratello. Tornando a parlare di Vitangelo, una sua buona qualitàè che sapeva stare con i bambini. Infatti i nipoti, compresele mie figlie, si entusiasmavano molto quando potevanostargli vicino. Ricordo sempre la grande quantità di pie-tre che, assieme a Teresa e Gianluca, loro raccolsero, gi-rando per la campagna, alla ricerca di “cocci” cheavessero una parvenza di antichità. Insomma stare conlui era un continuo divertimento. Naturalmente “vivere la vita come gioco” non è statomolto comodo per chi gli stava accanto e doveva affron-tare i piccoli e grandi fastidi di una famiglia abbastanzanumerosa. E qui mi sento coinvolta anch’io, che – comedicevo – da questo punto di vista, mi sento molto vicinaa mio fratello. Ancora ho nelle orecchie i rimproveri di Giovanni, ilquale non ammetteva che una donna potesse far pro-pria una simile regola di vita e successivamente, anchele figlie hanno fatto le loro rimostranze per le mie man-chevolezze. (per la verità, quando anche loro hannosperimentato le difficoltà dell’essere madri, hanno ad-dolcito alcuni giudizi nei miei confronti). Che altro dirti, cara la mia Pia? Dovrei scriverti tante altrecose , ma mi fermo; questa è una lettera-fiume. Ho sempre sentito per te molta simpatia. Ho ammiratola tua capacità di lavoro quando affrontavi tutti i pro-blemi casalinghi, compresi quelli degli animali che Vitan-gelo ti scaricava tranquillamente, come faceva con nostramadre. Forse ora non hai animali in casa, spero. A pro-posito dei quali, in famiglia, solamente mio padre ed ioe forse, tra i nipoti, Silvio, figlio di Donatella, prendiamole dovute distanze. In famiglia, tutti stravedono per gli animali. Non so sepiacciono anche a te o se li hai semplicemente soppor-tati Mia madre se li sarebbe messi nel letto, se il maritoglielo avesse permesso. Da questo punto di vista io ap-prezzavo la dedizione e la pazienza con cui ti facevi ca-rico di tutti i problemi familiari e... zootecnici. Forse ora hai diritto ad un po’ di riposo e ad un po’ ditempo da dedicare a te e a Gian. Dopo tutto, ad una certaetà, bisogna cominciare a tirare i remi in barca e vivere se-condo le proprie antiche aspirazioni. Fare ciò che permille motivi, non si è potuto fare da giovani. Per fortunahai un buon compagno. Sono stata contenta di aver po-tuto parlare con lui (per la verità lo avrò subissato di pa-role, in quei pochi giorni in cui sono stata a Sirmione).Forse più in là riprenderò tutti questi ricordi che sono unpo’ disordinati. Ora vorrei farti giungere il mio scrittoquanto prima. Come ho già detto, parlare di Vitangelomi tormenta non poco. Sono stata felice di avere trovato

i tuoi figli tanto legati alla famiglia. Ho fatto proprio un“bagno” di affetto familiare. Sei veramente riuscita a“fare l’Unità d’Italia”. Che bellezza!Addio, cara, spero di vederti quanto prima. Abbraccia perme Gian ed i tuoi ragazzi. Un grosso bacio.

Liliana Gadaleta Minervini

BUON NATALE

“…Amerai il prossimo tuo come te stesso”(Mt22,39).

Che ogni cuore possa riassaporare il gusto genuinodi sentirsi in armonia con se stesso e con il prossimo.A voi tutti, fratelli: Buon Natale!

Per l’occasione, ci è gradito segnalarvi una piccola,ma preziosa pubblicazione, ultima fatica di Giu-seppe Giulino, autore di tante altre opere da noiapprezzate e divulgate: “Signore dacci semprequesto pane” (editrice: Ancilla).

CONDOGLIANZE

… e nel cammino della vita, un altro compagno diviaggio si è ricongiunto al Divino.Giannetta Umberto, nostro caro confratello, mem-bro da sempre della C.V.C.I., persona amata e sti-mata da tutti, si è spento Lunedì 5 Dicembre.A nome di tutta la Comunità Vetero-Cattolica Ita-liana, esprimiamo alla famiglia le nostre più vivecondoglianze e fervide preghiere.

ATTIVITÀ DI COMUNITÀ

Dal mese di novembre, la Comunità di Minervino diLecce, si riunisce ogni giovedì presso l’Oratorio ditutti i Santi per incontrarsi ed incontrare la Parola.

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il dialogoDirettore Resp. Dr.ssa Cristina Caroppo

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Stampato da: Lisanti srl

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