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G G y y ö ö r r g g y y L L i i g g e e t t i i Analisi a cura di Andrea Pireddu

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Analisi

a cura di

Andrea Pireddu

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Ligeti nel suo studio a Colonia.

Tecnici nello Studio für Elektronische Musik, WDR a Colonia.

Andrea Pireddu Cagliari, 01-10-2006

T

György Ligeti

Ligeti, una volta conseguito il diploma nella accademia di F. Liszt a Budapest, insegnò in quella stessa scuola per un certo periodo sino al 1956, quando, all’età di trentatré anni, dovette fuggire dall’Ungheria invasa dall’armata sovietica. Si rifugiò in Germania ove ebbe la possibilità di lavorare assieme a Stockhausen e ad altri noti compositori nello Studio di Musica Elettronica di Colonia, città ove si stabilì definitivamente dopo la fuga.

Grazie ai suoi primi lavori, il primo quartetto d’archi Methamorphoses nocturne (1953 — 1954), Apparitions (1958 — 1959) ed Atmosphères (1961) per orchestra, Volumina per organo (1961 — 1966), Aventures e Nouvelles Aventures (1962 — 1965), Requiem (1963 — 1965), Lux Aeterna (1966), Concerto per violoncello (1966), egli si guadagnò una grossa reputazione come una delle figure principali dell’avanguardia musicale. Inizialmente però Ligeti si distinse più come critico musicale che come compositore, benché egli componesse di continuo sin dagli anni giovanili. Complice di questo fatto fu il suo ritardo seppur breve nel frequentare da protagonista i corsi di Darmstadt e dunque ad entrare a far parte del gruppo degli sperimentatori più radicali del momento, al quale, oltre Stockhausen, appartenevano Boulez, Pousser, Berio, Nono e Maderna.

L’accrescersi della fama di Ligeti di contro però coincide storicamente con un inesorabile affievolirsi di quelle solide convinzioni, si potrebbe dire ideologiche, ma in certi casi anche politiche, che rappresentarono i pilastri dell’avanguardia. Fatte salve alcune sue

Introduzione

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Stanley Kubrick sul set del suo ultimo film Ears Wide Shut: Allucinazioni sonore.

2001: odissea nello spazio, prima scena del monolito con commento musicale tratto dal Requiem di Ligeti.

produzioni ove sembra emergere una lieve inclinazione alla trasgressione avanguardista come Aventures e Novelles Aventures, Ligeti, pur essendo entrato da anni a pieno titolo fra gli sperimentatori della Nuova Musica, riuscì comunque a non lasciarsi trascinare dai difetti che i principi cardine dell’avanguardia musicale rivelarono col tempo e che furono il cancro stesso del loro sfacelo. Mentre le poetiche avanguardiste vedevano l’oggetto musicale come risultante di procedure che ambiscono ad essere incarnazione fisica del pensiero musicale, gesti culturali più che trame musicali autonome, in Ligeti l’atto del comporre avviene già a partire dallo sviluppo del materiale sonoro senza che presupposti teorico estetici possano immergersi nell’ideologico. Errore questo che portò storicamente all’assurdo di mimare l’atto del comporre o del suonare come mero atto provocatorio.

L’evento che maggiormente contribuì alla consacrazione di Ligeti a livello mondiale fu quando il regista statunitense Stanley Kubrick utilizzò alcune delle sue musiche per due dei suoi film di maggior successo. In 2001: odissea nello spazio troviamo ben tre brani dell’autore ungherese: Requiem, durante le scene in cui compare il misterioso monolito, Lux Aeterna, che sottolinea le scene di navigazione sulla Luna, ed infine Atmosphères, l’ouverture di apertura al film stesso. In Shining, oltre al Lontano di Ligeti, vengono usati ben quattro brani di altri due autori del novecento: Musica per archi, percussioni e celesta di Bartok,

Ultrenja, Il risveglio di Giacobbe e De Natura Sonoris di Penderecki (*). “Ciò che di meglio vi è in un film è quando le immagini e la musica creano l'effetto. Parola dello stesso regista, il quale facendo suo l'ideale wagneriano del Gesamtkunstwerk, ovvero l'opera d'arte totale, in cui parola, musica e dramma sono fuse in una sintesi armoniosa, è riuscito ad esprimere ciò che è inesprimibile a parole. In tutti i suoi film Kubrick ha sempre concesso un ruolo di assoluta preminenza alla musica, tanto da girare intere sequenze senza dialoghi. E l'ha accuratamente scelta e manipolata così da creare un'inscindibile correlazione fra i due codici comunicativi. Vagliando tra la musica preesistente, da quella colta a quella classica che citava stravolgendola e svuotandola del referente storico, egli l'ha applicata a contesti visivo—uditivi sempre più arditi e diversi. Fortemente connotata sotto il profilo emotivo, la musica realizza uno stato ipnotico riconducibile esclusivamente alle immagini ad essa associate, in modo da diventare non

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un mero commento extra testuale alla narrazione filmica, bensì un particolare stato psico—uditivo che si instilla nello spettatore, col grande merito di avvicinare anche i profani ad un tipo di musica ostica ai più” (Maria Rosaria Nigro).

Provando ad immaginare quale sia l’abilità che ha consentito al genio di Kubrick di far coesistere in maniera sinergica musica ed immagini, partendo prima dalla musica e poi scegliendo le scene appropriate da associare alla prima, si potrebbe esporre la seguente tesi. L’immagine statica possiede in se una sorta di ritmo. Questo è determinato dal rapporto fra il numero di dettagli in essa contenuti e la velocità con la quale la mente riesce a mettere a fuoco tali dettagli per coglierne il loro significato intrinseco e dunque decodificare l’immagine stessa. Per dettaglio dell’immagine è da intendersi non soltanto un soggetto visivo nella sua integrità, ad esempio una sedia, un tavolo o una finestra, ma anche la forma e soprattutto il colore di questi soggetti, che può essere più o meno sgargiante rispetto al resto dell’immagine. Anche il contrasto in se è ritmo, o per lo meno, un’inequivocabile singola pulsazione all’interno d’una struttura ritmica più o meno complessa.

Si può prendere in considerazione poi un secondo livello di ritmo che è originato dalla percezione di un significato superiore dedotto dall’immagine e che trascende l’immagine stessa. Ad esempio, nella fotografia di una landa desertica, solo cielo e dune di sabbia, non vi sono che pochissimi dettagli, dunque poco ritmo, tale che può suggerire alla mente diverse sensazioni e sentimenti, i quali, se vogliamo, sono relazionati in qualche maniera da un denominatore comune: silenzio, solitudine, libertà degli spazi aperti, pace, calma. A questi posso associare una musica sicuramente non dall’andamento eccessivamente sostenuto ed incalzante, salvo giustificazioni forti che prescindano dall’immagine corrente, dunque giustificazioni legate ad un contesto di immagini all’interno del quale quella corrente è stata inserita.

Si tratta pertanto di un secondo livello determinato dall’associazione degli elementi di un’immagine ad uno stato psicologico umano.

Nell’immagine in movimento intervengono sinergicamente altri vari stadi di ritmo. Oltre a quelli succitati per l’immagine statica, validi anche qui, c’è il ritmo artificiale creato dal regista. Ad esempio, il ritmo scandito dalla sequenza delle inquadrature nella totalità di un film, il percorso della telecamera in movimento e soprattutto la periodicità con la quale si cambia il soggetto di inquadratura in una singola scena.

Vi è poi un ritmo naturale che è dato dalla periodicità con la quale si ripetono determinati eventi o movimenti nella cosiddetta scena d’azione. Sempre per fare un esempio, la corsa di un fuorilegge in fuga in un film poliziesco contiene in se un ritmo più sostenuto rispetto al roteare lento e parsimonioso di una stazione spaziale in un film di fantascienza. Entrambe sono comunque esempi di ritmo che non dipendono dal tipo di inquadratura o di coreografia, ma sono oggettivamente appartenenti al soggetto visivo.

In definitiva la musica riesce a sposarsi tanto più sinergicamente con l’immagine, statica o dinamica che sia, quanto più si riesce ad

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assecondarne il ritmo, o meglio ancora, i ritmi in essa contenuti. Bisogna anche sottolineare che il livello superiore di percezione dei ritmi dell’immagine, ossia il significato psicologico, è legato ed influenzato da questioni storiche e culturali soggettive, dunque rappresenta una variabile che cambia da persona a persona, da società a società, come da epoca ed epoca.

Un livello di ritmo oggettivo, e per questo attendibile, rimane solo quello del ritmo naturale: ovvero, come già accennato, il rapporto fra dettagli reali dell’immagine e velocità con la quale mediamente il nostro cervello li focalizza per interpretare il contenuto dell’immagine stessa. Anche se bisogna precisare che anche la capacità interpretativa a livello elementare di una qualsivoglia immagine è legata a fattori culturali: un aborigeno della foresta Amazzonica stenterebbe a decodificare l’immagine di un wordprocessor sul monitor d’un computer. Dunque anche questo livello di ritmo primario, se pensassimo ad una ipotetica scala gerarchica, ha oltremodo una componente soggettiva, magari più marginale se ci limitassimo a prendere in considerazione solo la società industrializzata.

Forse queste considerazioni non sono sufficienti a spiegare la scelta musicale di Kubrick. Tuttavia è certamente ipotizzabile che egli sia rimasto intriso di quei fermenti culturali che ruotano attorno ai movimenti sessantottini e che si diffusero in America proprio negli anni in cui girò i film succitati. Tali movimenti erano caratterizzati generalmente da una esigenza di ribellarsi al sistema, di andare oltre le rigide regole imposte dalla società, talvolta con manifestazioni di violenta ribellione (Arancia meccanica), e talora sviluppando un spiccata inclinazione al nuovo e al moderno. Ecco dunque che un film come 2001: odissea nello spazio diventa un terreno di incontro fra classico, Wagner e Strauss, ed avanguardia musicale, Ligeti, ove le immagini del film fungono da tessuto connettivo di questo connubio.

(*) NOTA di pag.3:

— Ligeti dunque diventerà il compositore più usato da Kubrick, infatti, oltre ai film succitati possiamo trovare suoi brani anche in Eyes Wide Shut, ovvero il secondo movimento di Musica ricercata, in Arancia meccanica poi, nella scena in cui Alex mette una cassetta dell’amato Beethoven nello stereo, ne toglie un’altra: ed è proprio di Ligeti. Infine, il più inusuale brano, Aventures del 1965 è quello che ascoltiamo nella sequenza dell' "Albergo" in 2001: odissea dello spazio, in cui la presenza di entità aliene che osservano il terrorizzato Bowman, protagonista del film, è suggerita dai suoni surreali, simili a voci, ottenute modificando un brano di Ligeti, il quale, pare, vinse successivamente una causa contro la MGM per utilizzo illegale del suo lavoro. —

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Alla fine della prima metà del

secolo scorso Ligeti, presentò il suo celebre saggio Metamorfosi della forma musicale. Oggi questo lavoro può considerarsi una pietra miliare del pensiero musicale contemporaneo, ma nel momento in cui uscì rappresentò una preziosa svolta nei confronti di quel vicolo cieco nel quale s’era arenata la Nuova

Musica. Era tendenza ormai diffusa pensare che per il compositore moderno fosse possibile scegliere esclusivamente fra due filosofie di pensiero, l’una che privilegiava un’architettura compositiva iperorganizzata che doveva estendersi a tutti i parametri musicali e del suono, l’altra, quella di Cage e Kagel, che si ispirava a strutture compositive governate parzialmente o interamente dal caso. L’analisi condotta nel corposo saggio affronta con dovizia di dettagli le problematiche relative al suono ed agli eventi musicali estendendole alla dimensione temporale. Ed è soprattutto in quest’ultimo terreno che Ligeti si metterà alla prova in qualità di compositore.

L’effetto di una progressiva saturazione della tessitura sonora provoca parallelamente in chi ascolta una condizione di crescente ‘permeabilità’: quanto più la musica tende ad un aggregato sonoro indistinto tanto più l’orecchio perde la sua capacità analitica di discernere i dettagli del fenomeno sonoro stesso. Tale condizione da Ligeti viene definita come entropia, e porta a molte conseguenze. Prima di tutto, se aumenta la densità del flusso sonoro, si allenta in maniera inversamente proporzionale la percezione del tempo musicale. L’entropia del suono dunque, una volta saturato lo spazio acustico, conduce al collasso della dimensione tempo ovvero ad una massa talmente contratta da inibire qualsiasi movimento. L’insieme di questi parametri legati da rigide relazioni interne, densità del suono, volume, rifrazione timbrica, flusso temporale e reattività dell’ascoltatore, da vita quindi ad un nuovo sistema di controllo del fenomeno musicale. Ligeti sostanzialmente teorizza e sfrutta il principio delle reazioni reversibili in musica, e benché non sia il primo ad averle scoperte ne usufruisce sistematicamente con rara perspicacia ed efficacia.

L’esigenza di scrutare oltre le possibilità offerte dal panorama musicale contemporaneo muove comunque da ragioni storiche ben precise. L’idea che fosse possibile sviluppare una struttura iperorganizzata, fonte d’ispirazione per molti giovani compositori degli anni cinquanta ed oltre, ha finito per essere tradita da una esperienza pratica che tendeva a produrre sistematicamente l’esatto opposto dei presupposti teorici. Le opere generate per mezzo della più alta organizzazione musicale acusticamente erano comparabili a quelle orchestrate dalla scuola americana di Cage. La musica totalmente preformata dunque si rivelò un’illusione, se non un

Atmosphères (1961)

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Esempio di una fase di cluster in Atmosphères,

battute 52 — 53, parti dei violini I° e II°.

utopia, costringendo i migliori fra i compositori a piegarsi ad inversioni di tendenza che non solo non realizzavano le aspirazioni teoriche fino allora acquisite ma le capovolgevano. La teoria perseguita sino in fondo finisce per capovolgersi nel suo contrario. Ligeti tende dunque a semplificare la teoria per ottenere risultati compositivi complessi e fugge da ogni idea preconcetta per aver la possibilità di attuare un riscontro continuo fra fenomeno acustico e progettazione dello stesso. Ciò è più comprensibile nel momento in cui egli concepisce il materiale compositivo non come un insieme neutro di mattoni inerti soggiogati alle logiche della struttura compositiva, così come avviene nel bitematismo della forma sonata, ma una componente genetica viva ed attiva, se non addirittura la fase embrionale della composizione stessa.

Atmosphères rientra in quel ciclo di composizioni che, assieme ad Apparitions precedentemente ed a Volumina successivamente, decretarono il successo del compositore, e sono frutto delle teorizzazioni su citate, ma anche di una più concreta esperienza pratica presso lo Studio di Musica Elettronica di Colonia attorno al 1956. È qui che Ligeti poté sperimentare la manipolazione del suono con le nuove tecnologie e confrontarsi con nuove

concezioni della struttura compositiva, come quella a fasce sonore che diventerà un marchio di riconoscimento evidente almeno per tutta la sua produzione orchestrale del secolo scorso.

Il pezzo fu composto agli inizi del 1961 ed a dispetto della sua parvenza acustica di natura palesemente modernistica è per un organico orchestrale classico. L’idea base del pezzo si può dire sintetizzi in maniera efficacemente concisa i presupposti teorici mossi da Ligeti nel suo saggio: sviluppare un tessuto sonoro che illustri la staticità acustica. Come si è detto precedentemente, tale condizione si può verificare nel momento in cui si raggiunge uno stadio di

saturazione del flusso sonoro. La tecnica che consente tale saturazione è l’aggregato sonoro del cluster, che innesca l’annullamento percettivo della armonia, di scansioni temporali di qualunque genere, e ,soprattutto, delle figure tonali. Le conseguenze di questa prassi sono palesi e volutamente ricercate: se la musica tradizionale è basata sullo sviluppo tematico, come la musica strutturale sull’alternanza di fenomeni acustici e pause, nel momento in cui fenomeno acustico e pausa coincidono crolla ogni sistema analitico fino ad allora convenzionalmente accettato per comprendere il fenomeno musica.

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Inizio con suoni lunghi, particolare di battute 1 — 3, parte del controfagotto e del primo e secondo dei violini I°.

Dettaglio a battuta 27, parti dei flauti e della prima

schiera dei violini I°.

Inizialmente ciascuno strumento dell’organico attacca con una nota diversa realizzando così il totale cromatico del cluster, l’estensione del quale abbraccia oltre le cinque ottave: dal RE1 del controfagotto al DO#6 con cui attacca il primo dei violini I°.

Dal punto di vista microstrutturale Ligeti ottiene il suono statico agendo simultaneamente sui diversi parametri del suono in maniera quasi inconsueta.

Per ciò che riguarda la gestione delle altezze in generale si osserva che la zona centrale è tendenzialmente impegnata in maniera più consistente rispetto ai registi acuti e gravi dove, al contrario, il suono sistematicamente si assottiglia.

La sezione degli archi è caratterizzata prevalentemente da successioni di cromatismi che avvengono per gradi. Nei fiati le successioni per ogni singolo strumento avvengono invece per terze. La sovrapposizione di tali successioni da origine in un secondo momento ad un impianto cromatico. Avvolte quest’ultima procedura può riguardare sia fiati che archi, come a b.23 — 29. Tutto ciò in ogni modo non risulta percepibile all’orecchio umano.

Si rileva però che, pur nell’intento quasi maniacale di ottenere una scrittura controllata in ogni minimo dettaglio, si ottiene un risultato sonoro che sfuma nell’impreciso dal punto di vista acustico.

Questa filosofia si riscontra anche osservando le dinamiche. Le indicazioni esecutive interne per ciascun strumento devono essere precise ma il risultato sonoro confuso. Alcune voci all’interno del cluster eseguono un crescendo mentre altre simultaneamente eseguono un diminuendo. Se da un lato ciò da origine ad una imprecisione dinamica, comunque sia

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Frammento del canone a 56 voci, battute 45 — 46, parti dei violini II°.

voluta, d’altro canto si ravviva l’intensità evitando connotazioni che alludono ad intenzioni espressive.

Un altro stratagemma adottato per annullare la chiara percezione di altezze sonore definite è di incrociare le articolazioni melodiche. Si realizza ad esempio su due note a distanza di terza: una voce si sposta dalla nota fondamentale alla terza superiore, un’altra voce simultaneamente svolge il processo inverso. Dunque, come sostiene una delle più note leggi della fisica, due forze di pari intensità ma di segno opposto, incontrandosi si annullano vicendevolmente: ne deriva una totalità cromatica, le voci si muovono ma il suono complessivo rimane fermo.

Le pulsazioni ritmiche invece raggiungono uno stadio di neutralità sonora raggruppando gli ostinati in modo tale che questi procedano secondo una diversa successione temporale, ovvero ogni singolo movimento viene inghiottito da un insieme che lo annulla. Per meglio comprendere questo effetto Ligeti ricorre ad una metafora: nel bosco le foglie degli alberi si agitano assieme agli stessi alberi, ma nell’insieme il sistema sembra immobile. Si veda come esempio efficace sempre le battute da 23 a 29.

A metà del brano si trova un canone a 56 voci. Non si tratta tuttavia di una imitazione ritmica ma di altezze. È percepibile per un breve tratto poi se ne perde la cognizione per effetto del cluster. Bisogna precisare che l’intera architettura di Atmosphères secondo le palesi intenzioni dell’autore non deve essere associabile ad alcuno stile precedentemente

codificato, non deve avere o contenere forme riconducibili ad alcuna di quelle finora conosciute, e l’utilizzo, seppur raro, di strumenti compositivi ascrivibili alla tradizione classica non deve oltre modo far pensare al rinnego momentaneo di tali intenti. In effetti, nel momento in cui si elimina il parametro ritmo dal processo imitativo si

snatura il significato del canone in senso tradizionale. Tuttavia si rispettano alcune convenzioni: non ci sono ne unisoni ne ottave, ma questa osservanza è rispettata al di là delle logiche tradizionali. L’ottava ha una rilevanza armonica talmente forte che se non opportunamente fagocitata da una consistente densità sonora e chiaramente percepibile anche nel marasma indefinito di un cluster.

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Conclusione del canone, battuta 54, parti dei clarinetti in notazione reale.

Una volta creato il suono statico si agisce generando delle oscillazioni nella sua banda di frequenza: il cluster all’inizio del canone si estende per due ottave, dal mi al FA#5. Nel corso del brano si riduce

progressivamente a due seconde minori, SI2 — DO3 e DO3 — DO#3. Nel complesso il suono statico è organizzato in 21 varianti

corrispondenti ad altrettante sezioni del brano che vengono segnalate in partitura con precise indicazioni di tempo in secondi. Una ventiduesima sezione è puramente immaginaria: dura 19 secondi e rappresenta la risonanza reale ed interiore, nella memoria dell’ascoltatore, reduce questo del flusso sonoro delle precedenti 21 varianti. Queste battute di risonanza diventeranno un sistematico segno distintivo presente in altri successivi lavori di Ligeti.

Le durate delle sezioni non devono essere ne troppo brevi perché sarebbero interpretate come segnale d’una scansione temporale, contrario questo alla logica di Atmosphères, ne troppo lunghe perché troppo stucchevole all’ascolto. La gestione delle proporzioni è per quanto possibile di tipo empirico in fase realizzativa, pur muovendo da proporzioni matematiche in fase di progetto: dunque l’infrastruttura numerica è continuamente corretta e adattata all’esperienza.

Non esiste nella struttura globale un meccanismo preordinato. La ripartizione meccanica e spesso disattesa. Lo schema viene adattato alle possibilità degli strumenti e dunque, in fondo, sempre all’esperienza.

Ligeti riesce in definitiva a sfuggire senz’altro dalla famigerata indeterminatezza che rende le strutture composte con troppe direttive del tutto indeterminate e casuali.

Per ciò che riguarda la posizione formale di Atmosphères poi, come ho già accennato, è fissata con precisione dalla mancanza di una vera e propria struttura musicale. Tendenze che si riscontrano in certi pezzi di Edgard Varèse, ma soprattutto nel Klang—farbenstück op. 16 di Schöenberg e in tutte le fasi creative di Debussy.

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Prima pagina di Lux Aeterna, ingresso delle sole voci

femminili.

Il brano è stato composto nell’estate del 1966 per un coro a cappella di sedici voci soliste, ovvero quattro per tipologia vocale, ed ha una durata di circa otto minuti (7’ 56’’). La scrittura prevede sin dalle prime battute l’uso di sedici pentagrammi

complessivi, uno per voce, dunque si presume siano previste situazioni in cui la polifonia arrivi a sedici parti simultanee. In realtà, come si vedrà, tale situazione non si verificherà che in pochi e fugaci punti della partitura.

L’idea architettonica di base del pezzo muove essenzialmente da poche direttive di base. Dal punto di vista macrostrutturale, si tende ad associare un impasto timbrico differente a seconda della parola o della frase da vocalizzare, es.: “lux perpetua” registro medio alto di tutte le voci da battuta 94, salvo il contrastante intervento dei contralti in un registro grave. Il pezzo privilegia prevalentemente l’uso di al massimo due sezioni per volta e quasi sempre l’accoppiata avviene tra sezioni che nell’ambito vocale hanno un range d’estensione in comune, es.: Soprani — Contralti, Contralti — Tenori, Tenori — Bassi.

La microstruttura prevede come materiale di base l’uso di una scala che partendo dalla nota cardine FA, si sviluppa alternando nella sua evoluzione senso ascendente con quello discendente e tendendo a raggiungere intervalli di dimensioni via via sempre più crescenti.

È più plausibile parlare di scala, e dunque di un materiale sonoro non

particolarmente connotato, specie dal punto di vista tonale, piuttosto che di gruppo tematico e tanto meno di melodia. Questo perché il senso melodico qui è palesemente snaturato sia dalla struttura ritmica, a causa dei valori molto lunghi delle note, e sia dal rapporto fra questa e la scelta degli intervalli. In altre parole si tende ad un appiattimento ritmico tout court, che coinvolge anche l’articolazione melodica. Il ritmo c’è, si ‘vede’, ma è pressoché impercettibile.

L’entrata delle voci avviene in maniera contrappuntistica con tactus differenti, ossia sfasati sia all’interno di una sezione che rispetto alle voci

Lux Aeterna (1966)

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delle altre sezioni, con rare eccezioni, ad esempio nella prima battuta fra I° soprano e I° contralto.

Ogni attacco esegue una nota quasi sempre di lunga durata (ad esempio minima puntata o semibreve legata ad una croma) che, soprattutto nelle battute iniziali, sarà preceduta e legata ad una nota di breve durata (ad esempio semicroma o croma puntata) appartenente in genere ad un gruppo irregolare. Ogni voce all’interno di una sezione ha tendenzialmente il proprio gruppo di incipit caratterizzante, es.: la terzina per il I° soprano, la quintina per il II° soprano, la quartina per il III° soprano e di nuovo la terzina per il IV° soprano. All’interno di ciascun gruppo la durata della nota legata è di volta in volta di durata differente.

Lo scopo di questa tecnica è duplice: dal punto di vista acustico deve dare la sensazione di una texture sonora che propende costantemente verso una situazione di uniformità ed omogeneità, ovvero senza discontinuità acustiche prodotte da evidenti articolazioni ritmico melodiche o da alcun che di similare riferimento temporale. In tal modo si azzera lo scorrere del tempo per dare l’impressione di una musica statica quanto possibile, avendo escluso, appunto, gesti sonori connotanti. All’interno di questa texture sonora statica si percepiscono tuttavia delle micro attività cinetiche generate dalla alternanza degli attacchi delle voci che in generale ripetono dalle due alle tre volte la stessa parola, se non la stessa sillaba, vedi ad esempio il ‘Lux -‘ nelle prime cinque battute. In sostanza, seppur immobile, la musica è comunque viva. Le attività cinetiche sono tali però da assuefare abilmente l’ascolto verso un “non movimento”.

La seconda ragione può essere a mio parere di natura tecnico vocale, ma comunque indotta da scelte compositive precedentemente descritte. Per ottenere un amalgama sonoro di tale uniformità con le voci si è escogitato l’artifizio su descritto per dar la possibilità alle voci di prendere fiato ma senza spezzare in maniera stucchevole l’equilibrio generato.

Un’altra tendenza è quella di limitare l’ambito vocale complessivo delle voci in un intervallo molto ristretto, almeno nelle prime battute. E ciò avviene gioco forza alla luce della procedura compositiva intervallare precedentemente descritta. Si verificherà dunque un continuo orbitare attorno a situazioni di unisono. Situazioni che in ambito strumentale orchestrale offrono impasti timbrici di certo interesse, sicuramente del tutto tonalmente non allusivi, come al contrario avverrebbe con l’uso delle ottave, qui totalmente fuori luogo in una situazione come questa di atonalità prevalentemente cromatica o comunque dissonante. Anche per quest’ultima ragione l’ambito vocale complessivo, almeno quando l’esecuzione è limitata a sole due sezioni non procede oltre l’ottava. Quando l’organico si espande oltre le due sezioni l’uso dell’ottava è acusticamente più tollerabile, anche perché indistinguibile in una sonorità densa polifonicamente e timbricamente omogenea (su tali argomentazioni si può fare riferimento al saggio di Ligeti ‘Metamorfosi della forma musicale’ da “Ligeti”, a cura di Enzo Restagno, Torino, E.D.T., 1985, pp.226 — 227, dove l’autore parla esplicitamente di tali problematiche in maniera più diffusa).

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Negli anni Sessanta, l’interesse

per la musica dodecafonica sembrava ormai essersi esaurito. Tanta fu l’esigenza e la persuasione ad un cambiamento radicale che alcuni fra i più grandi compositori dell’epoca furono alquanto determinati ad esplorare altri modi alternativi di organizzazione delle

altezze, giungendo, talora con successo, a risultati soddisfacenti. Tuttavia, più di cinquant’anni di sperimentazione col sistema dodecafonico non poterono essere dimenticati ed archiviati, e diedero i loro frutti, non solo nel campo della gestione delle altezze, ma anche in quello della gestione ritmica.

Già in opere come Atmosphères e Requiem, concepiti entrambe in un unico movimento, Ligeti tesse delle trame d’una ricchezza e mastodonticità armonica quasi mahaleriana che raggiungono dunque un tale spessore sonoro da far dimenticare il puntillismo degli anni Cinquanta. L’incipit accuratamente sfumato ed impercettibile accompagna lentamente l’ascoltatore in una dimensione acustica siderea che di questi lavori ne è un marchio inconfondibile. Non meno delle pause di silenzio volute e calcolate nelle ultime battute della partitura, che alludono a gesti della tradizione tardo romantica, come ad esempio la desolata dissolvenza finale della Sesta di Čajikovskij. Ma le allusioni alla tradizione classica non si fermano qui, come si può scorgere analizzando la fitta impalcatura di Atmosphères.

Anche la partitura di Lontano prevede un’organizzazione che fa coesistere un numero considerevole di stratificazioni sonore, ma con una concentrazione minore e con momenti di più evidente diradamento dello spettro armonico rispetto al precedente lavoro. In generale, le linee sovrapposte ed intrecciate della complessa struttura sonora derivano prevalentemente dalla idea canonica iniziale, generata dal pedale su un'unica nota e che si evolve in situazioni acustiche sempre più intricate fino al cluster. Tale complessità si raggiunge attraverso micro movimenti scalari ai quali concorrono progressivamente tutti gli strumenti dell’organico, e che a tratti si trasformano in distinti profili melodici, ovvero un’eco della tonalità, ma non funzionale. È come se dal denso fluire di quella enorme e sempre più compatta massa cromatica affiorassero lentamente a galla dei tronchi al quale l’ascoltatore si possa aggrappare per qualche istante. Ciò è più evidente che nei precedenti lavori, com’è maggiormente vero che le concatenazioni armoniche proprie della tonalità qui sono vicariate da transizioni fra addensamenti timbrici diversi, più chiaramente avvertibili che in Atmosphères.

A livello macroscopico il pezzo è organizzato in tre ampie sezioni di sviluppo, la prima di queste è da b.1 — 46, quella centrale da b.56 — 113 e la conclusiva va da b.122 — 164. I confini che delimitano tali sezioni sono

Lontano (1967)

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Battute 15 — 16, parti dei violini II° soli e delle viole.

Battute 17 — 18, parti dei flauti e dei violini I° soli.

caratterizzati proprio da quelle già accennate brevi fasi di maggiore rarefazione dello spessore sonoro, in maniera simile a quanto si riscontra nelle battute iniziali e finali, le quali godono però di più respiro temporale per definirsi.

Nella prima parte l’unica nota che funge da pedale introduttivo è un espressivo LAb sostenuto a lungo dall’armonico artificiale dei violoncelli. Questa nota viene ripresa dai flauti e di seguito dai clarinetti, e poi ancora viene trasmessa ai fagotti ed ai corni come un fluido, ovvero un’entità apparentemente fissa ed inanimata che lentamente ed impercettibilmente prende vita, emanando fuggenti luccichii ed ornandosi di lievi coloriture armoniche.

Inoltre, sotto la pallida presenza dei fiati (vedi ad esempio, a b. 15 — 16), l’ingresso lento ed inesorabile degli archi, in tremolo sul

ponticello e senza vibrato, non mira a conferire consistenza all’amalgama generale, ma a dare l’impressione d’un “sussurro quasi raggelante” (Ernesto Napolitano). Sensazione che può facilmente richiamare alla mente una delle scene in cui Danny, il piccolo protagonista del film Shining, si avvia verso la famigerata stanza 237. Al fine di determinare tale consistenza sonora non vengono dunque ammessi fra i fiati quegli strumenti dalla sonorità più invadente, salvo alcuni lievi

interventi dei corni e dei legni. Da b.18 si scorge quindi il prevalere di un RE# suonato dagli archi e

dai legni, e soprattutto la comparsa di un DO ai violini, il quale velocemente si trasforma in armonico artificiale e pian piano si affievolisce nelle sedici battute successive in corrispondenza della conclusione della prima parte. Sembrerebbe dunque ci sia una tendenza a focalizzare lo sviluppo musicale su altezze determinate che, come si è già potuto rilevare in Lux Aeterna, servono a stabilire inequivocabili punti di riferimento.

A b.21 — 23 poi le stratificazioni sonore, che nel frattempo il lento processo compositivo ha prodotto, lasciano emergere garbatamente quasi dal nulla un frammento melodico, eseguito da viole e violoncelli nel registro acuto, il quale si distingue per una natura insolitamente espressiva.

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Frammento melodico delle viole a battute 21 — 23.

Fase di transizione a battute 43 — 45, in evidenza il REb della tuba e l’armonico di DO ai violini I°.

Una stesura musicale così congeniata si potrebbe interpretare come realizzazione del rapporto fra sfondo e figura che, se in Atmosphères viene lasciato nell’assoluta indeterminatezza, qui giunge a fugaci episodi di separazione. Indice questo di una più matura consapevolezza del compositore nel trattare con raffinatezza lo strumento orchestrale. Tuttavia, suddetto rapporto sarà decisamente più determinante ed evidente quando quattro anni più tardi l’autore si accingerà alla stesura di Melodien, ma con un organico più esiguo rispetto a Lontano.

L’inclinazione a focalizzare l’attenzione su un unico suono, inoltre, non viene disattesa neanche alla successiva fase di transizione (b.43 — 48) che approda ad una sonorità svuotata quasi completamente d’ogni

consistenza orchestrale. L’effetto acusticamente spoglio di un singolo suono viene diffuso su vari registri di ottava, procedura questa che si può notare avviatasi già da b.33. L’impressione che se ne ha è di una landa desertica delimitata ai sui estremi dal REb della tuba sette ottave più grave del precedente armonico di DO che prosegue alle prime due parti dei violini I°.

La seconda delle principali sezioni comincia con un altro semplice suono, il tritono di SIb — MI eseguito in ottave dagli archi, a b.56 — 60, e si giunge gradualmente ad una prima fase di addensamento timbrico, nella quale intanto si inseriscono i legni sui suoni SOL — SI. Questi ultimi risultano essere pressoché impercettibili alla fine di b.65. Successivamente emergono e si spengono con un diminuendo nel breve volgere di sole due battute.

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Particolare di battute 92 — 93, si nota il prevalere del SOLb alle trombe, ai tromboni ed alla tuba.

Nuovo caratteristico frammento melodico dei corni da battuta 93, ripreso successivamente dagli archi e dagli altri strumenti, sino a battuta 106 ai soli contrabbassi.

L’immagine sonora si fa ancora una volta sempre più spessa e si raggiunge una nuova fase addensamento tra b.74 — 75, fra le note FA — SIb, con un prevalere del FA sull’impasto di corni, tromba e contrabbassi all’acuto. A b.92 — 94, infine, emerge fra gli ottoni un SOLb sul tremolo fortissimo degli archi a conclusione di un crescendo.

L’apparire di questi centri di condensazione armonica non altera nel

fitto amalgama sottostante il consueto procedimento di scrittura polifonica. Così che il collegamento fra il MI iniziale di b.60 e il SI di b.65 avviene attraverso un disegno di dieci note in ottava alle prime quattro parti dei violini I°, ancora esteso due ottave più in basso dalle viole I° e II°, e quindi ripreso in canone dalle altre.

Verso la conclusione della sezione centrale da b.93 i corni annunciano un disegno fatto sulle note di una scala per toni interi, ovvero SOL — SIb — LAb — SOLb — FAb. Non è il solo indizio che induca a riconoscervi una matrice debussiana. Complice di tale plausibile allusione è anche la scelta delle dinamiche e soprattutto del suono, più precisamente il tremolo delle viole e dei violoncelli, che suggeriscono alla mente il ricordo delle fascinose sonorità de La Mer.

Da b.111, l’insieme di tre note ravvicinate MI — FA — SOLb ai violoncelli e al clarinetto basso sfocia in un improvviso sbalzo di dinamica con una forcella sul fortissimo ai contrabbassi a chiusura di tale sezione. Ad essa si lega, su quelle tre note mantenute sullo sfondo, la rarefatta zona di transizione. Qui si afferma un unico suono, un FA prima stagnante nel registro grave, sotto una coltre di timbri variegati. Successivamente, dopo

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il consueto convergere delle voci su più ottave, il FA è mutato in armonico artificiale e posto al centro di un accordo RE — FA — SOL, ai violoncelli soli da b.120, con RE e SOL armonici naturali, che ripropone quella sovrapposizione di terza minore che si incontra più volte anche in Lux Aeterna.

Nella sezione conclusiva a b.122 si privilegia ancora l’emersione di nuove note, ovvero un RE sopra una tetra atmosfera generata da archi e legni, poi un SOL a b.127, ove spiccano prepotentemente gli ottoni da un suono orchestrale già denso.

Ed infine, dopo un progressivo assottigliamento dell’ambito vocale verso l’alto, spicca un RE# acutissimo che dopo venti battute si spegne ai soli violini. Da b.145, al culmine del intero lavoro, un pianissimo lascia apparire inaspettatamente una lontana sonorità dei corni, che sembrerebbe alludere al titolo stesso del pezzo.

Il procedere degli accordi dei corni per toni interi rievocherebbe atmosfere impressioniste, come già si è altrove sottolineato. Dunque sorprende alquanto l’affermazione dello stesso autore secondo cui la conclusione di Lontano ricorda il finale del movimento lento dell’Ottava di Bruckner .

Dal punto di vista ritmico possiamo notare che il risultato musicale è acusticamente privo di alcuna pulsazione regolare. Non emergono accentazioni chiare di alcun genere. Tutti i confini fra le diverse scansioni di ciascun suono vengono dissolte — ogni suono muore in quello successivo. Questo perché la nascita del suono avviene regolarmente in maniera quasi indistinguibile partendo dal nulla acustico con la fievole dinamica di un pianissimo (pppp) ed un attacco impercettibile, per poi evolversi verso un piano (p) ed estinguersi in una non esistenza. È come un breve respiro. Ma forse lo stesso pezzo nella sua interezza può immaginarsi come un grande respiro fatto di tanti piccoli respiri.

Dunque non c’è ragione alcuna di prevedere cambiamenti nell’indicazione di tempo — per l’intera durata del pezzo qui è un quattro quarti (4/4), che svolge solo il ruolo di una cornice temporale astratta al fine di agevolare l’esecuzione. Il compositore suggerisce infatti che il pezzo deve essere eseguito con grande libertà: “Il tempo in armatura di chiave di 64 alla semiminima è solamente un’indicazione generale. Il pezzo deve essere eseguito con grande espressione, e le molte fluttuazioni di tempo sono lecite oltre alle indicazioni di rallentando e di accelerando” (Ligeti). Un genere di musica così concepita può definirsi in maniera molto semplice e schematica, ovvero casuale, naturalmente solo dal punto di vista del risultato psicoacustico, come le partiture scritte a suo tempo da Kagel o Stockhausen, Lutoslawski o Penderecki. A differenza di questi però Ligeti scelse invece un modo molto più preciso, e quasi fiammingo, di annotare la sua musica. Questo al fine di ottenere in maniera più equilibrata e controllata il fitto arazzo di eventi micropolifonici che sfociano in corposi addensamenti cromatici. L’impressione acustica però non è di fastidiose quanto goffe ed inaspettate dissonanze, ma di veri e propri colori timbrici che si evolvono attraverso una complesso processo di metamorfosi sonora in

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altri nuovi timbri, come, guarda caso, avverrebbe in un brano di musica elettronica a fasce sonore.

“Analizzando le prime otto battute del pezzo si rileva come ogni entrata strumentale avviene su una parte diversa dell’unità di tempo all’interno di una battuta. Dunque ogni pulsazione (o semiminima) potrebbe essere considerata divisa in due ,tre, quattro, cinque e sei parti. E una qualsiasi di queste parti potrebbe servire come inizio ad una nuova entrata d’una determinata voce. Per ogni entrata Ligeti ha scelto 12 diverse posizioni all’interno di una semiminima, e l’intero pezzo è basato su questa idea ritmica. Nella figura qui di seguito sono stati raccolti questi 12 modelli ritmici disposti non nell’ordine in cui appaiono in partitura, ma in quello di alternanza conseguente dall’inizio alla fine di una semiminima.

Come si è già accennato, i modelli ritmici dividono la semiminima in più parti e per convenienza dell’analisi sarà opportuno ridurli ad un denominatore comune, ovvero ad un sessantesimo (1/60). Vale a dire, dividiamo la semiminima in 60 intervalli uguali, all’interno dei quali inglobiamo i 12 modelli ritmici disponendoli nella loro corretta posizione.

Dallo schema precedente si può notare più chiaramente che i modelli ritmici dividono la semiminima in parti diseguali, ovvero sia: 10 — 2 — 3 — 5 — 4 — 6 — 6 — 4 — 5 — 3 — 2 — 10. Ciò accade poiché Ligeti si è avvalso della notazione musicale tradizionale, dunque crome puntate, terzine, cinquine e sestine. Il compositore non si è voluto spingere oltre sfruttando ritmi più sofisticati, perché qui sarebbe risultato poco pratico da gestire. Egli stesso asserisce che lo strumentista non deve eseguire questi ritmi con assoluta precisione.

Un livello grossolano di accuratezza esecutiva può essere più che soddisfacente per un compositore che è quasi infastidito dalla correttezza matematica, infatti la notazione deve essere piuttosto un’indicazione psicologica per l’esecutore, il quale si presume suoni questa musica “con grande espressione” e dove ogni “fluttuazione (temporale) è ammessa” (Ligeti).

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1 — 9 — 10 — 8 — 5 — 4 — 11 — (9) — 6 — 2 — (4 — 10 — 11) — 12 — 3 —7 — (5 — 8) — [4] — (12 — 3) — [5] — {4} — (7) — [3 — 9] — (2 — 1 — 6) — [2] — {9} — [6]

Vediamo come in pratica Ligeti ha utilizzato i modelli ritmici, seguendo le entrate degli strumenti. Lo schema riguarda sempre le prime otto battute.

Si può dunque osservare come si tenda ad evitare la ripetizione dello stesso modello prima che tutti i modelli vengano presentati, regola che è uno dei principi fondamentali della tecnica dodecafonica, soprattutto quando vengono prese in considerazione le altezze. Qui però è riferito al ritmo. Tale tendenza, tuttavia, viene applicata con molta libertà. Ligeti consente che alcuni modelli riappaiano prima che tutti gli altri vengano presentati (mostrati con parentesi tonde nello schema seguente). Alcuni modelli vengono persino ripetuti tre [con parentesi quadre] ed anche quattro volte {con parentesi grafe}.

Quindi nelle prime 32 entrate del LAb la serie completa dei modelli appare due volte in libero ordine, i sei modelli [4 — 5 — 3 — 9 — 2 — 6] appaiono una terza volta e due di loro {4 — 9} anche una quarta volta. È piuttosto chiaro che Ligeti gli ha scelti ad occhio, senza alcun calcolo pre compositivo, concentrandosi piuttosto sulla naturalezza e fluidità del processo creativo. In tutta la partitura egli usa solamente questi 12 modelli ritmici in un modo molto simile a quanto descritto finora. Ligeti li ha liberamente manipolati come le 12 lettere alfabetiche di qualche strano linguaggio o come i tasselli di un gioco per bambini, facendo sempre nuove ed innumerevoli combinazioni” (Dmitri Smirnov) .