giacomo matteotti filippo turati lineamenti di storia … · riformista e la passa alle generazioni...
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SALVATORE RICCIARDINI
. GIACOMO MATTEOTTI
. FILIPPO TURATI
.LINEAMENTI DI STORIA DELLA
QUESTIONE MERIDIONALE
CONTRIBUTI AD UNA STORIA
DEL RIFORMISMO POLITICO E SINDACALE
ALLE RADICI IDEALI DELLA STORIA DELLA UIL
Introduzione di Stefano Munafò, segretario UIL
Territoriale di Siracusa, Ragusa e Gela
All'inizio il sindacato in Italia si chiamava CGL, Confederazione Generale del
Lavoro, ed era saldamente guidata da dirigenti socialisti che avevano idee riformiste.
Pensavano cioè che i lavoratori dovevano conquistare potere nella società
gradualmente, senza illudersi di potere governare i municipi e il paese dopo avere
fatto la rivoluzione. Quel sindacato unitario fu sempre dalla parte di Filippo Turati e
di Giacomo Matteotti, anche quando nel 1922 essi furono espulsi dal PSI insieme a
tutti i riformisti, ad opera di una magggioranza di massimalisti che volevano tutto e
subito per la classe lavoratrice, ma non ottennero mai nulla.
Matteotti sarà eliminato dal disegno fascista di conquista del potere in Italia e
morirà da uomo coraggioso fino al sacrificio di sè. Turati lotterà fino alla morte per
tenere viva anche in esilio l'opposizione socialista al regime che aveva soppresso la
libertà in Italia. Sono due riformisti che dimostrano con la loro azione la coerenza di
una Idea che, senza mai sbandare, mantiene in alto la bandiera del socialismo
riformista e la passa alle generazioni successive, ai Nenni, ai Saragat, ai Craxi. Cosa
c'entra la UIL con tutto questo? C'entra interamente, perché la UIL nasce per
iniziativa di socialisti riformisti, tra i quali c'era anche uno dei figli di Giacomo
Matteotti, Matteo. C'entra, perché la UIL ha mantenuto attraverso 64 anni di vita la
sua caratteristica fondamentale di sindacato riformista.
Nella galleria dei suoi padri c'è anche Bruno Buozzi, che lottò dalla Francia accanto
a Turati contro il fascismo e che i nazisti trucidarono in Italia e c'è Matteotti che la
nostra Organizzazione ha voluto onorare dedicandogli la tessera del 2014, nel
Novantesimo Anniversario del suo sacrificio. In questo quaderno della UIL si parla
di Matteotti, di Turati e della Questione Meridionale, alla soluzione della quale i
riformisti apportarono forti contributi di interpretazione e di soluzione che ancora
oggi conservano piena validità. E' il nostro modo di restare fedeli alle nostre origini,
senza mai rinnegare le idee che sicuramente torneranno ad operare pienamente se
riusciremo, come italiani, a superare questi momenti di offuscamento di ideali che,
come il riformismo socialista, hanno nobilitato la storia del nostro paese.
SALVATORE RICCIARDINI
MATTEOTTI: L'IDEA CHE NON MUORE
Testo della relazione alla conferenza organizzzata dal PSI e dal PSDI
di Augusta il 10 giugno 1964, 40° Anniversario del suo sacrificio
FILIPPO TURATI E IL RIFORMISMO OGGI
Testo della relazione alla conferenza organizzata dalla Federazione del
PSI e dal Centro Culturale Mondoperaio di Siracusa, il 16 Aprile 1982
LINEAMENTI DI STORIA DELLA QUESTIONE MERIDIONALE
Testo del saggio che la UIL di Siracusa aveva pubblicato, in appendice
nel suo Quaderno n. 1, dedicato al Mezzogiorno e stampato nel 1985
MATTEOTTI: L'IDEA CHE NON MUORE
Il 10 giugno 1964 le sezioni dei due partiti socialisti di Augusta, PSDI e PSI, vollero
commemorare unitariamente la figura di Giacomo Matteotti, in occasione del 40°
Anniversario del suo sacrificio. La manifestazione ebbe luogo in un salone al
pianterreno del nuovo edificio della Galleria, in via Principe Umberto, ad appena
due passi dalla sezione socialdemocratica allocata al numero 48 della stesssa via e
dalla sezione socialista che si trovava in Via Garibaldi 20. Davanti ad una folla di
iscritti e simpatizzanti socialisti, con moltissimi giovani e tante donne, accorsi per la
grandezza della figura del martire e per la bella novità di un avvio dell'unità dei
socialisti, i segretari della sezione del PSDI e del PSI, Giovanni Saraceno e Giovanni
Patania introdussero la conferenza.
Parlarono l'on. Luigi Bertoldi, della direzione nazionale del PSI, e lo studente
universitario di Lettere Salvatore Ricciardini, segretario organizzativo del PSDI e
corrispondente del quotidiano “La Giustizia” e del settimanale della UIL “Il lavoro
Italiano”.
Il testo della conferenza di Ricciardini venne stampato a cura della federazione del
PSDI ed inviato dal segretario provinciale Raffaele Dierna a tutte le sezioni del PSDI
della provincia di Siracusa. Qui di seguito ecco il testo di quella conferenza.
Concittadini, compagni,
sento l'emozione di dover parlare non tanto davanti al pubblico quanto di Giacomo
Matteotti, perché fin da bambino ho sentito mio padre, vecchio socialista, raccontare
della sua uccisione e delle manifestazioni che allora i lavoratori di Augusta e di tutta
la provincia misero in atto contro quel barbaro delitto fascista. In quel momento mio
padre aveva solo 22 anni ed il suo racconto mi appariva come avvolto in una
atmosfera che, più tardi, ho potuto assimilare alla tragicità del mito.
Quando Matteotti viene ucciso ha l'ètà di 39 anni e noi siamo qui riuniti per
commemorare il 40° Anniversario della sua uccisione, ma intanto è necessario, per
ricordarlo degnamente, conoscere meglio la sua vita.
La vita
Era nato a Fratta Polesine, quando Filippo Turati aveva già 28 anni, nell'anno in cui
nasce anche il Partito Operaio Italiano, che è come il precursore del Partito Socialista.
Il socialista Giuseppe Garibaldi era morto tre anni prima, nel 1882. La famiglia di
Matteotti era agiata. Egli entra nelle file socialiste già a 14 anni, si laureerà a 22 anni
nel 1907, alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bologna, laddove si era
laureato anche Turati.
Matteotti fu subito accanto e alla testa del movimento contadino, dei braccianti, dei
lavoratori in generale,. Li organizzò e presto si trovò alla guida dei 50.000 lavoratori
della provincia di Rovigo.
Quando scoppia la guerra del 1915-18 egli si dichiara subito contro di essa e ne scrive
in un bellissimo articolo che viene pubblicato su “Critica Sociale”, la rivista del
socialismo italiano fondata da Turati, che in un primo tempo era nata come “Cuore e
Critica”. Di fronte a quel terribiule avvenimento di portata mondiale che stava per
abbattersi su tutti i popoli, Matteotti passa con estrema facilità e continuità, quasi con
naturalezza, dal riformismo economico applicato ai problemi sociali ad una
intransigente ed implacabile lotta contro la guerra
Egli sa cosa sia la guerra ed in essa vede apparire in forma gigantesca quello stesso
male che aveva combattuto quando gli appariva sotto la forma dello sfruttamento e
della miseria delle classi proletarie.
Viene denunciato per disfattismo, viene arrestato, processato e assolto, quindi
chiamato sotto le armi. Va a combattere da ufficiale come vanno a combattere tutti i
lavoratori, che quella guerra non volevano, e che una volta scoppiata li vede
comportarsi spesso con eroismo, come fece il mitragliere socialista Sandro Pertini.
Per Giacomo furono tre anni di angherie e di sopraffazioni, finchè torna alla vita
civile, si impegna ancor di più nella lotta politica, viene eletto deputato.
Le idee
Fermiamoci per alcuni momenti sull'attività di Matteotti contro la guerra, per capire
meglio le sue idee e la sua capacità anticipatrice: egli è contrario alla guerra,
diversamente da molti dirigenti del partito socialista che erano interventisti, non
perché, si badi bene, fossero dei guerrafondai o perché volessero sposare la causa dei
nazionalisti, ma perché sinceramente convinti, come Leonida Bissolati e Gaetano
Salvemini, che quella guerra poteva offrire la possibilità di un ritorno
all'indipendenza e alla libertà per le nazionalità oppresse sotto il tallone dell'impero
austro-ungarico.
Matteotti ha capito che la guerra è la prosecuzione su un piano violento della
sottomissione del proletariato, in tutti i paesi dove il capitalismo schiaccia la
maggioranza del popolo sotto le sue ferree leggi del profitto. Si apre una viva
discussione sulle colonne di Critica Sociale ed egli si pronuncia apertamente per una
azione del partito socialista che chiami i lavoratori anche alla insurrezione armata, per
impedire l'entrata in guerra dell'Italia.
Matteotti risponde alle esitazioni di Turati (che da parte sua temeva lo spettro della
guerra civile tra le classi) opponendo le centinaia di migliaia di morti che la guerra
europea avrebbe potuto regalare al nostro paese. Non si sbagliava perché quella
guerra costò all'Europa oltre 600.000 morti.
Matteotti rsponde a Turati: “Da buon riformista non posso escludere il ricorso alla
rivoluzione”. E' chiaro che egli pensa all'effetto che una neutralità italiana avrebbe
potuto avere nei confronti della politica europea e della stessa linea della
Internazionale Socialista. Tuttavia, anche se in linea di principio Turati era d'accordo
che la via del riformismo può intercettare la via della rivoluzione, il partito socialista
si era avviato verso una posizione di disimpegno rispetto alle scelte del 1914 che
erano state risolutamente avverse alla guerra, e considerava ormai possibile la
eventualità che la guerra potesse venire subìta dal proletariato senza reagire.
Nel gennaio del 1915 Matteotti prosegue ancora nel suo impegno: al consiglio
provinciale di Rovigo torna a parlare di insurrezione armata per impedire l'ingresso
italiano nel conflitto, esprimendo amarezza per la posizione del partito. Questa sua
azione di coerente avversione alla guerra testimonia quella che lo storico Stefano
Caretti ha definito “la sua posizione sempre più isolata di contestatore ad oltranza”.
Infatti, anche nelle giornate di euforia guerresca che travolgono le città, egli continua
a sostenere la sua posizione, senza timore delle minacce degli studenti nazionalisti né
delle accuse della stampa locale. Il 21 maggio scrive un articolo per il giornale “La
Lotta”, nel quale non risparmia nessuno e attacca sia il neutralismo pauroso di
Giovanni Giolitti che l'interventismo mercantile di Antonio Salandra, sia la
studentaglia e i professori patriottardi inneggianti alla guerra, che la massa degli
impiegati statali che vogliono la guerra ma non vanno ad arruolarsi per combatterla.
Con amarezza sottolinea anche la debolezza del proletariato, ingannato da una falsa
propaganda, dimentico che nelle città i poliziotti “ammanettavano i gruppi socialisti”.
Matteotti aggiunge: “Prepariamoci ormai al dilagare della menzogna, prepariamoci
a leggere vittorie sopra vittorie; i socialisti sotto il bavaglio della censura e alla
mercé di ogni revolver di birro non esisteranno più...”.
Poi era stata la guerra, dalla quale anch'egli era tornato e con le idee di sempre.
Anzitutto è convinto che la classe lavoratrice debba servirsi degli strumenti
rappresentativi per allargare il fronte della lotta contro la borghesia capitalistica e
perciò, afferma, dobbiamo bandire il pressapochismo, la faciloneria, lo schematismo,
l'estremismo e il dogmatismo. Matteotti ribadisce allora (e opportunamente lo ha
sottolineato lo storico Carlo Vallauri) come si debba compiere ogni giorno “quella
più aspra e difficile opera di preparazione, la quale non si riassume nel facile grido
incomposto o nella momentanea ubriacatura, ma è la vera opera rivoluzionaria, fatta
di contese e di sacrifici”.
Poiché il socialismo non si costruisce per decreto, come egli amava ripetere,
l'impegno dei militanti deve essere appunto quello di preparare le condizioni materiali
con le lotte economiche e sindacali, con la capacità di governo, con l'oculata gestione
del pubblico bene, per poter dare soddisfazione ai grandi interessi collettivi. A tanti
decenni di distanza queste parole, che fanno tutt'uno con le affermazioni di Turati,
sono più attuali che mai per chi si richiama nella sua azione pubblica ai principi del
riformismo socialista.
Matteotti era contrario al riformismo fine a se stesso, come lo era alla rivoluzione
intesa come fine. Preferiva che tutti gli strumenti del proletariato, compresa la
rivoluzione, fossero finalizzati alla instaurazione del socialismo come fatto etico , di
alta e profonda umanità, cioè quel socialismo dal volto umano che si persegue ai
nostri giorni. Nasce da queste idee la sua dura condanna per la violenza , che egli
coraggiosamente denuncerà, fino a restarne vitima. E ne resterà vittima proprio
all'indomani del suo famoso discorso di Montecitorio che difendeva la libertà
collettiva e le prerogative parlamentari.
Nel vivo della lotta politica
Con questo bagaglio di idee, sulle quali contiamo di tornare più avanti per
approfondirle, Matteotti entra nel vivo della lotta politica, a partire dalla sua Rovigo.
Il 22 marzo 1921 gli agrari fascisti lo fanno rapire; viene abbandonato in aperta
campagna dopo esssere stato coperto dagli sputi degli squadristi; percorre a piedi
oltre 10 chilometri ed in piena notte fa appena in tempo a partecipare ad una trattativa
sindacale, avendo come controparte, seduti di fronte a lui, proprio coloro che ne
avevano ordinato il rapimento.
Nel 1923 pubblica il libro dal titolo “Un anno di dominazione fascista”, un tremendo
atto d'accusa contro il nuovo regime , che tanto più gli attira l'odio fascista quanto più
pacato, sereno e documentato è quello che scrive. Intanto è diventato segretario del
Partito Socialista Unitario, formato dai riformisti che sono stati espulsi dal PSI
nell'ottobre del 1922 per volontà della maggioranza massimalista, e autolesionista. In
quel ruolo dimostra di essere in grado di fare di tutto: grande oratore per incisività e
lucidità di pensiero, organizzatore, amministratore, teorico acuto, giornalista, scrittore.
Alla Camera dei Deputati porta lo stesso spirito di lotta e si muove con lo stesso
coraggio che in tante occasioni ha già mostrato. Alla Camera tiene il suo discorso più
bello, l'ultimo discorso della sua vita, che per tutti i democratici rappresenta ed ha il
valore di un testamento impegnativo.
L'atto di accusa contro il fascismo e l'uccisione
Era il 30 maggio 1924 e si erano avute le elezioni politiche meno di due mesi prima,
il 6 aprile; la campagna elettorale si era svolta in mezzo alle minacce, alle
devastazioni, ai ricatti, anche agli omicidi, ad opera delle squadracce fasciste e della
cosiddetta milizia del fascio.
In virtù di una legge-truffa presentata dal ministro della giustizia fascista Giacomo
Acerbo, ed approvata alla Camera da fascisti e popolari (che tale era il nome dei
democristiani del tempo), la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa avrebbe
usufruito di un premio di maggioranza con un gran numero di deputati in più, fino a
superare la maggioranza assoluta. Fu così che i fascisti poterono arrivare a 356 seggi
su un plenum di 535.
Nel suo discorso, continuamente interrotto dalle urla dei fascisti, Matteotti accusò
anzitutto il governo di avere dichiarato che anche se le elezioni potevano essere
perdute, tuttavia avrebbe mantenuto il potere, anche a costo di fare ricorso alla forza.
Matteotti denuncia come in 8.000 comuni, con 1.000 candidati d'opposizione , solo il
60% di essi aveva potuto parlare in pubblico, restando esclusi dai seggi elettorali i
rappresentanti delle liste dei partiti d'opposizione. Dove una certa libertà si era avuta,
l'opposizione era prevalsa, ma subito dopo si erano scatenate le violenze: sedi di
giornali devastate, locali distrutti, sedi dei partiti e dei sindacati saccheggiate, danni
per decine di milioni di lire.
Ai lavoratori, minacciati di rappresaglie o di morte, veniva data una scheda con tre
nomi da votare e non era possibile sottrarsi al ricatto perché le schede venivano
subito controllate. Venivano raccolti o sequestrati certificati elettorali, che poi
venivano usati da fascisti per votare più volte ed in differenti sezioni, cosicché si
videro giovani balilla sedicenni votare con certificati di anziani sessantenni.
Questa requisitoria di Matteotti, così puntigliosa e documentata, venne pronunciata
con la calma tranquillità che gli era abituale, senza che egli si lasciasse minimamente
intimidire dalle violente reazioni e dalle aperte minacce dei deputati fascisti. Alla fine
del suo discorso chiese che le elezioni fossero invalidate, ma la proposta venne
respinta con il voto convergente dei fascisti e dei popolari.
Fu con queste parole che Giacomo concluse il suo intervento:
“...Voi dichiarate ogni giorno di voler ristabilire l'autorità dello Stato e della Legge.
Fatelo se siete ancora in tempo, altrimenti voi si, veramente, rovnate quella che è
l'intima essenza, la ragione morale della Nazione. Non continuate a tenere più oltre
la Nazione divisa tra padroni e sudditi, perché questo sistema provoca certamente la
licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi
momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di sapersi
correggere da se medesimo. Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo
il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e debba essere governato con la
forza. Molto danno avevano fatto le dominazioni straniere; ma il nostro popolo stava
risollevandosi ed educandosi, anche con l'opera nostra. Voi volete ricacciarci
indietro! Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano, al quale mandiamo
il più alto saluto e crediamo di rivendicarne la dignità domandando il rinvio delle
elezioni, inficiate dalla violenza, alla Giunta delle Elezioni”.
La tragedia era giunta all'ultimo atto. Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti, mentre
percorreva a piedi il Lungotevere Arnaldo da Brescia, veniva afferrato da alcuni
individui e colpito con pugni; si svincolava e tentava la fuga, ma veniva raggiunto e
colpito con con un corpo contundente; sveniva ed era caricato su una automobile
Lancia, quella che di solito veniva presa in affitto dal giornalista Filippo Filippelli
(un'ambigua figura che verrà coinvolta nel successivo processo). L'auto partiva a tutta
velocità verso una zona fuori Roma.
La scomparsa dapprima non viene notata, i giornali tacciono, ma dopo tre giorni il
silenzio è rotto, l'Italia è scossa da un brivido di presentimento, si ha l'impressione
che stia per scoppiare un uragano. Filippo Turati prende la parola a Montecitorio e
quando termina il suo commovente discorso tutta l'assemblea scatta in piedi,
istintivamente. Dice tra l'altro Turati:
“...In nome di tutti i compagni sinceri ed affranti, di tutti gli oppressi, di tutte le
vittime che sono e che saranno, in nome del Socialismo che tu avevi intero e che ti
ebbe intero, in nome degli stessi assassini che il tuo sangue avrà forse un giorno
redenti come il sangue di Cristo, in nome di quanti ti disconobbero e che non ti
conoscono che ora, troppo tardi, o mio amico, o mio figliolo prediletto, io mi
inginocchio davanti alla tua salma martirizzata, che non ritorna forse alla luce
perché i brividi dell'orrendo mistero facciano tremare ogni giorno, ogni notte, tutti i
perfidi, tutti i fiacchi,, tutti i complici, che sono numero infinito; e ti accarezzo la
fronte che elaborava tanto pensiero e, singhiozzando, invoco il tuo perdono se non
fummo degni e grido che il tuo olocausto ci ha tutti riabilitati. E ti ringrazio, nostro
maestro ed eroe!”.
La salma non è stata ancora ritrovata, le speranze che Matteotti sia in vita sono
perdute, la moglie, la madre, il Partito Socialista Unitario si costituiscono parte civile
contro gli assassini ancora ignoti.
Il processo
L'istruttoria viene affidata al magistrato Mauro Del Giudice che ha 68 anni. Si tenta
di corromperlo perché falsi le indagini, perché salvi i mandanti. Gli promettono onori
e denaro, perfino un seggio al Senato, ma la retta coscienza e l'onestà morale di
questro anziano giudice resistono ed egli porta avanti le indagini. Poi, quando il
processo sarà stato celebrato, Mauro Del Giudice sarà rimosso dalla sua sede romana
e sbalzato a Catania Le memorie che egli più tardi scriverà sono un tremendo atto
d'accusa contro Mussolini e il regime fascista.
Del Giudice aveva iniziato le sue indagini laboriose ed aveva subito trovato prove
inoppugnabili circa l'identità e la responsabilità degli esecutori del rapimento e
dell'assassinio. Essi sono Amerigo Dumini, Aldo Putato, Giuseppe Viola, Albino
Volpi, Amleto Poveromo, e Augusto Malacria, tutti e sei noti campioni dello squallido
squadrismo fascista. Dagli atti interminabili del processo risulta lampante la correità
di Mussolini insieme a quella dei gerarchi del regime Rossi, Marinelli e De Bono,
quali mandanti dei sicari assassini.
Subito l'incarico di concludere il processo viene tolto a Del Giudice, mentre la stampa
fascista difende a spada tratta il duce criminale. Si leggono infatti sul giornale
“L'Impero” del 27 luglio 1924 le testuali parole: “E' inutile alludere più o meno
velatamente a Mussolini per l'assassinio di Matteotti. Il Duce, salvatore della patria,
non si tocca; il fescismo non lo permetterà mai a nessun costo...Chi tocca il Duce
sarà polverizzato; chi tocca la milizia avrà del piombo”.
Verso la metà dell'agosto del 1924, due mesi dopo il delitto, il cadavere di Matteotti è
ritrovato, in aperta campagna, 23 chilometri a nord di Roma, dentro una fossa
scoperta. E' un ammasso informe di carne umana, il volto è sfigurato, il puzzo che si
leva sotto il sole cocente è orribile. Accorrono tutti i deputati socialisti, i familiari,
tutti piangono, la salma viene caricata su un treno per essere portata a Fratta Polesine,
il paese natale di Giacomo.
Ad ogni stazione in cui si ferma il treno, folle enormi di lavoratori, di donne, di
vecchi e bambini, vengono a vedere e salutare la salma del martire socialista. Ai
funerali che si svolgono subito dopo assistono migliaia di lavoratori, i socialisti di
tutta la regione e tutti quelli che in un modo o nell'altro sono riusciti ad arrivare a
Fratta, i contadini che egli aveva sempre coraggiosamente difeso, tutti i compagni
deputati. Il feretro viene alzato tre volte in aria, per un saluto al sole e alla vita, e poi
calata nella fossa, per sempre.
L'Italia è sconvolta: Al primo momento di sbigottimento per la enormità del delitto,
per la crudeltà della sua esecuzione , subentra un desiderio irrefrenabile di rivolta.
Mussolini trema, il fascismo sussulta di paura, ovunque le squadracce tacciono,
temendo il peggio. L'opposizione, però, pur unita dal sangue di Matteotti, non trova
la capacità di reazione e non riesce a cogliere il momento propizio per abbattere il
fascismo che ancora non si è consolidato.
Turati pronuncia alla Camera un memorabile discorso, dal quale rifulgono la vita,
l'esempio, il carattere di Matteotti, mentre sono presenti le opposizioni riunite. Dice:
“...Matteotti vive, egli è qui presente e combattente, egli è un accusatore, un giudice,
un vendicatore. Non il nostro vendicatore, o colleghi. Sarebbe troppo misera e inutile
cosa! Egli è il vendicatore della terra nativa, il vendicatore della nazione che fu
depressa ed oppressa, il vendicatore di tutte le cose grandi che egli amò, che noi
amammo, per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se stanchi e sopraffatti dal
disgusto, il dovere di vivere. E dovere di vivere significa dovere di morire quando
l'ora lo comanda. Di morire per rivivere, di morire perché tutto un popolo morto
riviva, di morire perché il nostro sangue purifichi le zolle, le zolle sacre della patria,
che alla patria, se sono fecondate dal sudore dei servi, procacciano messi avvelenate.
E questo vivo che è qui accanto a me, alla mia destra, ritto nella sua svelta figura di
giovane arciere, questo vivo di cui voi sentite la voce, di cui voi vedete il sorriso, di
cui voi scorgete la fiera espressione, questo vivo, questo superstite, questo Uomo
ormai invulnerabile, reso tale dai nemici nostri e dell'Italia, questo vivo è oggi
trasfigurato. E' uno ed è l'universale. E' un individuo ed è una gente. Invano gli
avranno tagliuzzato le membra, invano lo avranno assoggettato allo scempio più
atroce, invano il suo viso, dolce e severo, sarà stato sfigurato. Egli è vivo e parla e
dice le parole sante che sarebbero sue anche se non le avesse dette, che sarebbero
vere anche se non fossero realtà: UCCIDETE ME, MA L'IDEA CHE E' IN ME NON
LA UCCIDERETE MAI...LA MIA IDEA NON MUORE...I MIEI BAMBINI SI
GLORIERANNO DEL LORO PADRE...I LAVORATORI BENEDIRANNO IL MIO
CADAVERE...VIVA IL SOCIALISMO1”
Mussolini è ormai alle strette. Il 3 gennaio 1925 alcuni dei pochissimi deputati
d'opposizione che ancora frequentano Montecitorio presentano una interpellanza sulla
morte di Giacomo. Il duce risponde altezzosamente e con la solita boria: “Dichiaro in
faccia a tutti che assumo apertamente la piena responsabilitù, morale e politica, di
quanto è accaduto”.
Ancora più sfacciata fu, alcuni giorni dopo, l'entrata in vigore di un decreto legge che
concedeva l'amnistia a chiunque avesse compiuto o compisse un delitto “per fini
nazionali”. Ovviamente, stabilire se ci fossero i fini nazionali di un delitto era
prerogativa del duce, dei gerarchi e della magistratura fascista. Gli assassini di
Matteotti, mandanti ed esecutori, erano dunque salvi. Una coltre vergognosa di falsa
legalità veniva stesa a coprire un vile omicidio che testimoniava la barbarica
concezione fascista della lotta politica.
La lezione di Matteotti
L'epopea di Matteotti anticipa di due decenni l'epopea della nazione italiana nella
Resistenza Antifascista. La lezione più semplice, eppure profonda, che ci viene dalla
vita e dalla morte di Matteotti è che non può esserci socialismo senza libertà, né la
vera libertà è possibile se non abbia come sostanza i principi socialisti, che si
riassumono nella parificazione di tutti gli uomini di fronte ai diritti umani, nel
riconoscimento dei loro meriti e nel soddisfacimento dei loro bisogni.
Di che natura è il riformismo di Matteotti? Questa domanda centra il problema al
quale va data una risposta, nel momento in cui, come socialisti democratici,
rivendichiamo la piena modernità dei principi ai quali Giacomo informò la sua vita e
la sua azione politica.
Per dare una prima risposta bisogna sottolineare, come ha fatto lo storico Maurizio
Degl'Innocenti, che Matteotti non appartiene alla generazione dei Turati e dei Treves,
i quali credevano fortemente nella ineluttabilità di una evoluzione naturale della
società verso forme più sostanziali di giustizia sociale. I primi riformisti erano
positivisti, ed erano dunque convinti che fatalmente l'affermarsi della Scienza
avrebbe influito positivamente sulla evoluzione dei rapporti sociali. D'altra parte
quell'atteggiamento mentale ottimistico era la base sulla quale si fondava l'azione di
riforma della società perché senza la fiducia nella possibilitù del cambiamento non si
può essere buoni politici o buoni sindacalisti.
Matteotti, che si era formato nel clima degli studi giuridici ed economici, viveva più a
contatto con la concretezza dei problemi politici e sindacali. C'era dunque qualche
differenza tra lui e Turati pur nella continuità dell'impegno riformista, e nel PSU si
trovavano a convivere le vecchie guardie del riformismo ottocentesco e del primo
Novecento, con le giovani leve, le avanguardie socialiste, uscite dalla terribile
esperienza della guerra.
Matteotti è molto più concreto di Turati ed anzi questo suo “gusto del concreto”,
secondo l'espressione dello storico Luigi Mascilli Migliorini, lo porta ad occuparsi
anche di problemi specifici, quali la tutela dei minori, il manicomio criminale, il
lavoro nelle carceri. E' questa la riprova del suo concretismo riformista, come ha
affermato lo storico del socialismo italiano Gaetano Arfè, il quale per questo aspetto
riallaccia Matteotti a Gaetano Salvemini.
Un altro versante del duro impegno riformista di Mattteotti riguarda la volontà di
battersi per garantire lo stato di diritto, quando invece Turati, più influenzato dalla
lezione marxista, vedeva lo stato ancora con gli occhiali classisti, come se si trattasse
solo di un apparato normativo con fini repressivi. C'è, dunque, alla base delle
concezioni di Matteotti, un rigore democratico che spiega bene il suo duro impegno a
difesa delle istituzioni democratiche, sempre nell'ottica della indissolubilità fra
democrazia e socialismo.
In molti dei suoi discorsi parlamentari si manifestò questo elevato senso dello stato,
rintracciabile anche nei suoi discorsi politici, ed egli si occupò a fondo dei problemi
dell'ordine pubblico, dei rapporti tra stato e movimento operaio, della politica
economica e finanziaria, dei bilanci, delle prerogative parlamentari.
“Quando si è uomini di governo si ha il dovere di rispettare la libertà dei cittadini e
la loro vita. Voi non provvedete (e si riferiva al debole governo Facta che aprì la via
all'avvento del fascismo) e voi dunque siete complici degli assassini della vita civile
nelle nostre provincie”.
La situazione nel PSU
C'è da aggiungere qualche considerazione sulla situazione interna del PSU, di solito
poco approfondita, nel periodo in cui Matteotti ne è il segretario. Intanto, come ha
osservato Migliorini, la gran parte dei temi politici ed istituzionali indagati da
Matteotti rimane a livello di studio e non passa (non ci furono né il tempo né le
condizioni generali) sul piano della proposta politica. Studi già fatti sul socialismo del
primo dopoguerra lo hanno in qualche modo già confermato. Si viveva in tempi
difficili, fuori da ogni normalità, e risultava abbastanza irrealistico cercare una
sperimentazione pratica delle teorie, mentre risultava più efficace e produttivo
l'esempio dell'azione.
Lo stesso Matteotti afferma che “in momenti di pericolo c'è l'esigenza che i capi
diano la vita per dare coraggio ai seguaci”.
Dentro il partito ci sono anche sparutissimi dirigenti che vengono tentati dalla strada
del collaborazionismo non avendo compreso, come invece Matteotti, la natura
liberticida del fascismo; ci sono dirigenti come Modigliani che non hanno fiducia nel
partito e pensano che l'azione sindacale possa essere la sola capace di affermare la
volontà del proletariato; altri ancora come Turati che raccomandano l'autonomia del
partito dal sindacato, ed altri infine, come Claudio Treves, che danno al partito il
primato nell'azione per la riconquista della libertà.
Nei confronti di questo arcipelago di posizioni (per giunta in un partito non grosso)
Matteotti dimostra di essere il più moderno, perché chiede la lotta alla borghesia e al
fascismo, vuole mobilitare il proletariato e coinvolgere gli intellettuali liberi ed i ceti
medi. Propone anche una lotta contro “lo sfruttamento nelle sue forme più subdole”,
chiamando tutti i cittadini alla lotta contro il fascismo.
Non si trattava dunque di un riformismo di tipo giolittiano che i liberali
propugnavano per evitare malcontenti e proteste delle masse popolari, né di quel tipo
di riformismo minimalista che non arrecava nessun disturbo agli affari della
borghesia, ma di un riformismo che mirava al rinnovamento del paese, per liberare la
strada del socialismo da ogni intralcio, un socialismo che Matteotti vede legato alle
idee internazionaliste, nella comune mobilitazione contro la guerra europea.
Matteotti è il primo e per lungo tempo sarà il solo degli uomini politici italiani ad
aver capito in tutta la sua complessità e nelle varie sfaccettature il fenomeno fascista,
sia nella sua genesi che nella dinamica e nelle linee di tendenza. Ne ha saputo
valutare con estrema lucidità tutta la carica eversiva che lo rende diverso da tutti i
precedenti movimenti a carattere autoritario o reazionario. Proprio perché aveva
compreso pienamente cos'era il fascismo, aveva potuto affermare, appena terminato il
suo ultimo discorso alla Camera, rivolto ai compagni che intorno gli si affollavano:
“ADESSO POTETE PREPARARE IL MIO ELOGIO FUNEBRE”.
14 giugno 1964 POST SCRIPTUM
Negli anni successivi alla commemorazione di Augusta, Matteotti è stato studiato più
a fondo nel suo pensiero e nella sua azione e non più solamente dagli storici di area
socialista. Per lunghi anni ha pesato negativamente sulla storia del pensiero e
dell'opera dei socialisti l'ipoteca comunista sulla interpretazione della storia del
movimento operaio e contadino e della storia della questione meridionale. Attraverso
il peso preponderante di case editrici come Laterza, Einaudi e Feltrinelli, è stato
possibile considerare la storia del riformismo come una storia minore, come un
capitolo di secondaria importanza nella vicenda più che secolare della classe
lavoratrice italiana.
Salvo poi, ad un determinato momento, cercare di accaparrarsi anche la storia del
riformismo considerandola parte della tradizione comunista (sic!), quando tutti
sapevano che i riformisti erano stati espulsi dal PSI massimalista e in parte
fusionista, mentre dai comunisti erano considerati come i traditori del movimento
operaio. Nella galleria dei padri nobili di quello che era stato il PCI vennero
collocate figure come quella di Filippo Turati, nella illusione che dopo la distruzione
del PSI, fosse lecito per i post-comunisti appropriarsi anche delle sue tradizioni.
Oggi la parola Riformismo si è inflazionata, perché viene usata anche da movimenti
politici e persone lontanissime dalla tradizione del socialismo democratico, per
coprire un vuoto di idee terribile e per cercare di illudere la gente (che vuole davvero
una riforma democratica del nostro paese) con la somministrazione quotidiana di
illusioni riformistiche. Non tutti i cambiamenti sono riforme, perché si può cambiare
in meglio in senso democratico e popolare (e questo ha il nome di riforma), o si può
cambiare in peggio in senso elitario e antipopolare (e questo ha il nome di beffa).
Ma torniamo a Matteotti per ricordare come ad un certo punto di lui hanno
cominciato a parlare anche studiosi di area marxista e di area cattolica. Di questa
riscoperta resta ancora come pietra miliare il convegno organizzato nel 1977
dall'Istituto di Storia dell'Università di Urbino.
In quella occasione ci furono le relazioni degli storici Gaetano Arfè, Stefano Caretti,
Alessandro Roveri, Pietro Scoppola e di Giorgio Amendola, un comunista senza
paraocchi, figlio dell'on. Giovanni Amendola capo dei liberali nel parlamento dove
sedeva anche Matteotti. Ad Urbino si registrò anche l'intervento qualificatissimo
dello storico inglese Denis Mack Smith. Il dibattito proseguì per diverso tempo sui
giornali Avanti! del PSI, L'Unità del PCI ed Il Popolo della DC. Insieme a quel
convegno venne organizzata una Mostra storico-documentaria curata da Elvira
Gencarelli ed una Tavola Rotonda con gli interventi di Arfè per i socialisti, di
Amendola per i comunisti, di Spataro per la DC, dello storico Antonio Casanova
(curatore del volume “Scritti e Discorsi di Giacomo Matteotti”, editrice Guanda), e
del capo della Resistenza Toscana Enzo Enriquez-Agnoletti.
Queste ed altre iniziative sono servite a mettere luce su un periodo ancora per molti
versi oscuro della storia del nostro paese. Amendola ricordò opportunamente,
concordando con Matteotti, che ci fu una sostanziale incomprensione da parte dei
partiti operai del tempo circa quello che rappresentava la violenza fascista, che il
PCI di allora vedeva come violenza borghese, che i socilisti massimalisti di Giacinto
Menotti Serrati interpretavano come il sussulto finale del capitalismo in crisi, che
molti socialisti riformisti assimilavano ad un rigurgito reazionario come quello del
1898 con le cannonate di Bava Beccaris e che poi venne spazzato via dalla svolta
liberale degli inizi del Novecento.
Il democristiano Giuseppe Spataro volle ricordare di Matteotti non solo le doti di
grande coraggio e coerenza, ma anche la mancanza di anticlericalismo e la
disponibilità ad un dialogo con i popolari, sottolineando il valore di quella che Arfè
ha definito la religiosità laica di Matteotti, cioè quel bagaglio di convinzioni naturali
del mondo contadino che avrebbero influenzato la formazione spiritiuale di Giacomo.
Con la sua morte, disse ancora Spataro, i popolari perdevano un probabile
interlocutore. Ora Amendola e Spataro non ci sono più, ma a quest'ultimo qualcuno
avrebbe dovuto ricordare che proprio i popolari nei primi anni del regime
dialogarono fin troppo col fascismo, mentre Matteotti immolava la sua esistenza
sull'altare della democrazia.
Di Matteotti hanno più volte parlato e scritto uomini come Luciano Lama e Gianni
Baget-Bozzo, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, gli storici Gabriele
De Rosa (cattolico) e Giuseppe Tamburrano (socialista, biografo di Pietro Nenni),
Bettino Craxi (leader del PSI).
Giacomo Matteotti è certamente nostro, di noi socialisti, ma è anche di tutti i
democratici, perché la luce che si proietta sulla storia italiana per mezzo del suo
coraggio è immensa, perché è dal suo sacrificio che prende l'avvio la ventennale
stagione di lotte e di sofferenze attraverso le quali il paese ritrovò la libertà e
l'indipendenza . Da lui nasce la Resistenza che, come ebbe a dire Pietro Nenni, è
“l'evento che campeggia sulla lotta antifascista e dà un senso alla Liberazione”.
FILIPPO TURATI E IL RIFORMISMO OGGI
Ad iniziativa della Federazione Provinciale del PSI di Siracusa e del Centro
Culturale Mondoperaio, si tenne venerdi 18 aprile 1982, a palazzo Vermexio, un
convegno sul tema “Filippo Turati e il Riformismo oggi”, aperto da una relazione di
Salvatore Ricciardini, direttore del Telegiornale di Video Siracusa e corrispondente
dell'Avanti!, mentre le conclusioni vennero tratte dall'on. prof. Salvo Andò, della
Direzione Nazionale del partito socialista e responsabile dei Problemi dello Stato. La
relazione venne successivamente illustrata dall'autore in diversi comuni siciliani, tra
i quali Misterbianco, su specifica richiesta di Andò. La riproponiamo per la carica di
attualità che ancora conserva.
Compagni, cittadini e amici,
per chi come me è diventato socialista, non solo per tradizione familiare, ma anche
per la scoperta e l'appassionata lettura di Critica Sociale alla metà degli anni
Cinquanta, dover parlare stasera di Filippo Turati che quella rivista fondò un anno
prima della nascita, nel 1892, del partito socialista, significa tornare alle radici delle
proprie scelte di vita.
Poiché ne debbo parlare sono profondamente grato al partito, ai compagni che
generosamente mi hanno sopravvalutato, perché parlare di Turati, del socialismo
riformista, significa tracciare la storia del socialismo italiano, intrecciata
indissolubilmente con la storia d'Italia. Ed è un compito non facile.
Diverse coincidenze propiziano oggi tale discorso: dal punto di vista politico
registriamo la rinnovata attualità del pensiero riformista ed una contestuale gara
all'accaparramento del suo retaggio, anche da parte di chi ha ascendenze nettamente
antiriformistiche. Dal punto di vista temporale, proprio alcune settimane fa è caduto il
50° Anniversario della scomparsa di Filippo Turati, avvenuta il 29 marzo 1932, in
esilio in Francia.
C'è un'altra coincidenza che aiuta un discorso su Turati, per i socialisti di Siracusa,
quella che egli fu da giovane nella nostra città, frequentò per oltre un anno il ginnasio
al “Gargallo”, girò per i comuni della provincia, soggiornò ad Augusta durante le
vacanze estive della famiglia, scrisse anche alcune poesie sulla bellezza della nostra
terra. Ci vorrebbe una indagine più approfondita sulla sua pur breve presenza tra noi.
Comunque, anche per questa ragione lo sentiamo a noi più vicino. Era nato a Canzo,
in Lombardia, il 26 novembre 1857, aveva fatto i primi studi a Forlì, poi era passato a
Siracusa per tutto l'anno scolastico 1871-72, quindi dal 1873 al 1875 lo vediamo a
Cremona. Gli studi universitari erano cominciati a Pavia ed erano terminati a Bologna,
dove si era laureato in Giurisprudenza.
Fu sempre al seguito del padre che, prima da funzionario in una Lombardia ancora
sotto il dominio austriaco e poi da prefetto del Regno, andava peregrinando di
provincia in provincia. Pietro Turati era un uomo di cultura e la madre era una
autentica intellettuale. Pietro aveva anche pubblicato una traduzione in italiano delle
poesie di Elizabeth Browning, di Thomas Hood, e poi di poeti greci, portoghesi,
spagnoli, slavi e siciliani.
Questa atmosfera “poetica” di casa sua influì su di lui e da ragazzo, proprio a
Siracusa, aveva iniziato una effimera attività di poeta, ispirato oltre che dal suo animo
romantico anche dal nostro mare e dal nostro cielo. Questi aspetti della nostra natura,
se pure suscitavano la sua ammirazione, gli provocavano emozioni e sentimenti di
nostalgia verso i luoghi d'origine.
Proprio a Siracusa, il 9 febbraio 1872, scriveva un componimento in quartine
intitolato “A Canzo”, nel quale esprime il desiderio di tornare in patria, quasi una
fatale anticipazione di un altro e ben più doloroso esilio (in Francia), che avverrà
oltre 50 anni dopo: “Questo cielo è in van sì bello – sì ceruleo è invano il mar”,ma
egli spera di fare ritorno a casa e conclude: “E' deciso, io fò ritorno – e tu, mamma,
vieni insiem – là ove noi vedemmo il giorno – ivi i giorni finirem!”.
Scrivere poesie è stata sempre una prerogativa di animi romantici ed un suo
compagno di classe, come Gaetano Arangio Ruiz di Augusta ( che diventerà un
grande giurista, e che sarà padre di due giuristi altrettanto grandi), si misurerà anche
in anni successivi nella poesia. Turati, che intanto collaborava con la “Rivista
Repubblicana” commenterà per primo un libro di poesie dell'antico compagno di
scuola, sul numero 14 del 25 ottobre 1878, mostrandosi crudamente sincero e
consigliandogli di conquistarsi la propria personalità, non scrivendo versi “strascicati
su questa o quella falsariga”. Gaetano seguì il consiglio di Filippo e diventò studioso
di diritto e docente universitario.
Tornando a Turati e chiudendo questo discorso, dobbiamo solo aggiungere che nei
suoi ingenui versi giovanili si vede già il suo sentimento e si nota il suo carattere, con
il suo senso di fratellanza verso i suoi simili, con la preminenza data all'amore,n
all'amicizia, all'affrancamento del popolo dalle catene, all'avanzamento delle plebi.
Tutto questo fiume sentimentale si convoglierà nei versi dell'Inno dei Lavoratori, al
quale diede la musica il riminese Amintore Galli.
Una traccia ancora visibile del passaggio della famiglia Turati nella nostra provincia
si trova ad Augusta, dove la piazza del mercato, per decisione della giunta comunale,
nel 1872 venne intitolata al prefetto Pietro Turati. La lapide ricollocata lo testimonia.
La formazione di Filippo Turati
Proprio nell'anno in cui nasceva Filippo Turati, nel 1857, avviene la spedizione di
Sapri con la conseguente uccisione di Carlo Pisacane, grande personalità protesa
verso il risveglio delle forze motrici della rivoluzione italiana attraverso, come ha
ricordato lo storico Gastone Manacorda, l'ineluttabile necessità della conquista della
indipendenza nazionale.
Nel 1872, anno della fine della permanenza di Turati a Siracusa, si svolge a L'Aia il
congresso della Prima Internazionale Socialista, che decide l'espulsione della corrente
anarchica di Bakunin. Turati dunque vive gli anni della giovinezza in mezzo ad eventi
che hanno grande peso nel nostro paese e nello svolgersi delle vicende del socialismo
italiano ed europeo. Ne diverrà tra poco uno dei maggiori protagonisti.
Per capire meglio il carattere fondamentale delle sue idee bisogna andare ai contenuti
delle sue prime convinzioni. Dentro la sua famiglia, come ha ricordato lo storico Leo
Valiani, si respirava aria di libertà e di apertura, ma l'atmosfera non era data, dal
punto di vista politico, dalle parole d'ordine mazziniane, ma da quelle di Cavour.
Filippo è già naturalmente un passo più avanti; sa che l'unità l'Italia è stata
realisticamente possibile solo grazie all'opera di raccordo del liberalismo, ma il suo
cuore è con i repubblicani e piange quando, nel 1882, muore Giuseppe Garibaldi,
anche se il proprio padre è un prefetto del Regno. Lo ricorda Filippo in una lettera
inviata nel 1883 a Camillo Prampolini, nella quale rileva anche le analogie tra la sua
e la propria vita.
Per istinto è portato a mettere l'uomo al centro del proprio interesse, così come
nevroticamente si concentra su se stesso, e parla di suicidio in lettere inviate a
Giacomo Levi e allo stesso Prampolini. Siamo dunque di fronte ad un pessimismo di
tipo leopardiano, dal quale era anche nata la spinta verso la poesia, anche se poi, tutto
al contrario del poeta di Recanati, Turati si orienta verso il mondo esterno e non verso
il proprio intimo.
Egli stesso affermerà nel 1883, a 26 anni, che dal pessimismo viene il socialismo,
dalla constatazione che nel mondo vi sono dolori che vanno sanati e sui quali “noi
apriamo le nostre sventure come finestre”.
“Gettiamo la vita perché ci vale poco”, dice ancora Turati, sottolineando il sacrificio
quotidiano al servizio delle idee. Egli avrebbe potuto raggiungere nella vita brillanti
risultati, qualunque carriera avesse intrapreso, tanto vaste erano le sue conoscenze e
tanto profonda la sua cultura, ma volle scegliere la politica, l'impegno totale per il
progresso della classe lavoratrice.
Turati fu positivista; egli stesso scrive:
“Quando , giovani, liberatici appena dalla mitologia cristiano-cattolica, portati
dall'impeto della reazione giovanile a tutte le negazioni più nichiliste, cercavamo
tuttavia quell'ubi consistam psicologico, fu Roberto Ardigò che ci porse alcune delle
pietre più solide del nostro edificio mentale e morale”.
Ardigò fu infatti il maggiore dei positivisti italiani, ed il positivismo era quel
movimento filosofico che subordinava alla esperienza l'immaginazione, ai fatti le idee,
che giudicava relativa, e quindi migliorabile, ogni conquista scientifica, che rifiutava
ogni misticismo ed ogni ricorso ad Enti o a Princìpi non verificabili nella Realtà.
Nel positivismo c'è anche la fiducia che l'evoluzione della società ci porti verso un
regime in cui ogni uomo abbia una piena autonomia morale, un regime nel quale
abbiano fine lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo e la guerra tra gli uomini.
Nel positivismo dunque Turati cerca l'uomo, come l'aveva cercato nelle sue poesie e
nelle sue lettere della prima gioventù.
Perciò è l'uomo l'anello che unisce le idee positiviste con le idee socialiste e
certamente il positivismo evoluzionistico riesce a temperare le sue (di Turati)
convinzioni di socialismo marxistico con una significativa intonazione di
gradualismo. Questo appare essere il Riformismo di Turati, che egli stesso saprà
descrivere nel 1900 con semplicità ed efficacia:
“Ogni scuola che si apre, ogni mente che si snebbia, ogni spina dorsale che si drizza,
ogni abuso incancrenito che si sradica, ogni elevamento del tenore di vita dei miseri,
ogni legge protettiva del lavoro, se tutto ciò è coordinato a un fine ben chiaro e
cosciente di trasformazione sociale, è un atomo di rivoluzione che si aggiunge alla
massa. Verrà un giorno che i fiocchi di neve formeranno valanga. Aumentare queste
forze latenti, lavorarvi ogni giorno, è fare opera quotidiana di rivoluzione, assai più
che sbraitare sui tetti la immancabile rivoluzione che non si decide a scoppiare”.
Con queste parole di Turati viene rappresentata non solo una situazione reale e
storicamente accertata, ma viene profeticamente espresso un giudizio che la storia
successiva del nostro paese si troverà a confermare: cioè l'inconcludenza del
rivoluzionarismo verbalistico dei massimalisti, contrapposta alla graduale costruzione
dell'edificio socialista, mattone su mattone, per realizzzare il progetto di società
nuova nel quale si crede.
E' opportuno, a questo punto, tracciare alcune linee di confine intorno al concetto di
riformismo e intorno al concetto di rivoluzione.
Il dualismo riformismo-rivoluzione
Portando le due teorie fino alle estreme conseguenze, ed è questa la tesi dello storico
Domenico Settembrini, le due posizioni sono lontanissime, ma al centro sfumano una
nell'altra. Questo estendersi di gradualità ha consentito più volte e per lunghi anni la
convivenza dialettica nel partito socialista di anime diverse, anche se nei momenti
cruciali di scelte nette e doverose, la nebbia della confusione si è diradata e le
convivenze forzate hanno trovato fine.
Lo dimostrano sia la scissione socialdemocratica del 1947 che quella del PSIUP del
1964, a conferma che le convivenze forzate finiscono per portare alla separazione.
Quello che distingue il riformismo dalla rivoluzione non può essere l'accettazione o il
rifiuto dell'atto violento, perché anche il riformista, quando sia necessario, fa ricorso
alle armi e all'insurrezione, come dimostra l'azione del socialismo riformista contro il
nazismo e la dittatura fascista, accanto a coloro che si collocavano nel campo dei
“rivoluzionari”.
Viceversa il rivoluzionario spesso non esce dal campo della teoria perché è sempre in
attesa del momento propizio, oppure perché fa parte di un partito non autenticamente
rivoluzionario e, come diceva Mao, per fare la rivoluzione ci vuole un partito
rivoluzionario.
La differenza tra le due posizioni può essere meglio compresa guardando al modo
diverso nel quale riformisti e rivoluzionari vorrebbero organizzare la società nuova
per la quale, ciascuno separatamente, si batte: il rivoluzionario mira ad un tipo di
ordinamento sociale che in tutti i campi (economico, politico, culturale) sia antitetico
all'ordinamento capitalistico democratico; il riformista vuole migliorare e
perfezionare anche radicalmente, ma non distruggere, l'ordinamento esistente, perché
ritiene valori assoluti di civiltà i princìpi sui quali esso ordinamento si basa, anche se
spesso stravolti da una gestione conservatrice che vanifica nella pratica tali princìpi.
Il riformismo può dunque essere definito un socialismo nella libertà, cioè un
insieme di teoria e prassi rivolte a conseguire la massima conciliazione,
all'interno di una moderna società industriale, fra libertà e uguaglianza, per
garantire a tutti il massimo della giustizia sociale, compatibilmente con le regole
dell'economia, dell'efficienza produttiva e della vita associata.
Precursori e compagni di strada
Cosa c'era prima del Riformismo? C'era una sorta di proto-riformismo ancora
disorganizzato, che comincia ad apparire subito dopo lo scoppio della crisi del
rivoluzionarismo, successiva al 1871, anno della Comune di Parigi. Prima ancora,
però, c'era stato il Cartismo, che nel 1838 con la People's Charter aveva chiesto al
parlamento inglese il suffragio universale maschile, lo scrutinio segreto, un
parlamento annuale, l'indennità ai deputati, collegi numericamente uguali,
soppressione del censo. Il parlamento respinse più volte quella “carta” che era stata
redatta da Francis Place su ispirazione di William Lowett. Poi vennero aggiunte a
queste richieste politiche anche misure di tipo sociale come il diritto al lavoro ed il
suo prodotto integrale, la socializzazione della terra, il controllo economico dei mezzi
di produzione da parte dei lavoratori.
Il Cartismo finì quando tentò, sull'esempio rivoluzionario della Francia nel 1848, una
sollevazione che andò incontro al fallimento. Anche alcune correnti della Prima
Internazionale, tra il 1864 ed il 1872, avevano assunto posizioni di tipo cartista.
Un vero e proprio precursore del Riformismo fu Pierre Leroux, illuminista e
assertore del progresso infinito dell'umanità, proveniente dal Sansimonismo,
movimento del quale limita con acume la preponderante funzione delllo stato,
affermando che il limite dell'intervento dello stato, nella economia e dentro la società,
sta nella esigenza che tutti possano effettivamente essere partecipi della libertà, per
evitare una nuova teocrazia, un nuovo papato, la riduzione degli individui a
funzionari irreggimentati, con una dottrina ufficiale in cui dover credere e con
l'inquisizione alla porta.
Claude-Henri Saint Simon fu in qualche modo l'iniziatore del socialismo moderno,
ma con venature di utopia ed in questa accezione vanno inquadrate anche le figure di
Francois Marie Charles Fourier e di Pierre-Joseph Proudhon, che furono attenti più
agli aspetti socio-politici che a quelli economici della società. Sulla chiave economica
per interpretare la realtà insistette particolarmente Karl Marx.
Lo stesso Leroux fu coetaneo del fondatore del positivismo Auguste Comte, che fu a
sua volta, ma per breve tempo, sansimoniano. In Turati abbiamo già riscontrato la
fusione tra riformismo e positivismo. In Europa le origini ideologiche del riformismo
sono varie, ma in Italia esso è socialista, ed il socialismo in quel tempo recava al
proprio interno due pericoli di segno opposto: l'anarchismo e il corporativismo.
L'anarchismo ha in comune col liberalismo l'amore per la libertà, col socialismo
l'amore per la giustizia sociale, perciò si colloca tra questa che sono le due più grandi
correnti ideali del nostro tempo; la la sua avversione allo stato e la teorizzazione della
violenza lo allontanano dal riformismo socialista.
Alle origini del Partito Socialista
Negli anni precedenti la nascita del partito socialista, cioè prima del 1892, le lotte
operaie oscillavano tra due alternative obbligate: o l'anarchismo o il corporativismo
economicistico. Nella miriade di sodalizi rappresentativi di interessi professionali era
il corporativismo a dominare.
L'anarchismo aveva dimostrato la impossibilità del modello insurrezionale per
l'Italia, anche in concomitanza con le prime fasi di sviluppo dell'industria che, a loro
volta, si portavano appresso la nascita delle prime organizzazioni di classe. Il
corporativismo era stato importante perché aveva cominciato ad associare i
lavoratori in una comune rivendicazione ed era poi sfociato nella nascita del Partito
Operaio Italiano, nel 1885.
Le origini del Partito Socialista sono da individuare nel superamento della concezione
diffusa dentro il partito operaio e cioè che la politica fosse da lasciare ai politicanti
borghesi, mentre ai lavoratori dovesse solo toccare La lotta economica.
Era una illusione, perché i governi avevano atteggiamenti sempre più illiberali nei
confronti degli orgasnismi proletari. Il fatto che la socialdemocrazia tedesca aveva
riportato nel 1890 un grande successo elettorale, la formazione nel nord Italia di
sempre più cospicui nuclei proletari, l'introduzione nel nostro paese del marxismo
teorico ad opera di Antonio Labriola, erano tutti elementi che ponevano con forza la
necessità della nascita di un partito socialista.
Intanto Andrea Costa, che aveva dato vita in Romagna al Partito Socialista
Rivoluzionario, proponeva la formazione di un partito che fosse una federazione delle
diverse correnti socialiste (evoluzionisti, socialrivoluzionari, anarchici); ma
l'iniziativa non ha successo perché l'operaismo, secondo la tesi di Manacorda, non
veniva considerato come la base sociale del nuovo partito proposto.
E' da questo punto che inizia l'opera di Filipppo Turati.
Il marxismo di Turati
Filippo Turati, come chiarì a suo tempo Gaetano Arfè nella sua “Storia del socialismo
italiano” (che purtroppo si fermò al 1924), credette nel marxismo in maniera
profonda, trovando in esso la chiave essenziale per aprire la porta alla conoscenza
della realtà. Accanto a questa convinzione egli però ne aveva delle altre, e tutte
insieme formavano una personalità grande, complessa, fortemente permeata di
cultura, umanità e preveggenza politica.
Il suo marxismo non ebbe mai i caratteri di un rigido meccanismo da applicare alla
comprensione dei fatti sociali, politici e storici. Non fu come per tanti altri
un'armatura che toglie agilità al pensiero, né un diaframma frapposto tra pensiero e
realtà, anzi egli esaltava il valore della volontà, dell'azione dell'uomo, del proletario,
nei confronti delle circostanze storiche ed economiche.
Se è vero che è la struttura economica a determinatre i fatti e i comportamenti, è
anche vero che spesso avviene il contrario e sarà Rodolfo Mondolfo, uno studioso
socialista fedelissimo di Filippo, a dimosttrarlo in maniera inoppugnabile. Già nel suo
libro “Materialismo storico in Federico Engels” e negli scritti su “Socialismo e
Filosofia” pubblicati su “L'Unità” di Salvemini aveva chiarito che il marxismo è
filosofia della prassi, nel senso che le necessità storiche si oppongono a tutte le utopie,
anche al fatalismo deterministico che renderebbe gli uomini schiavi di un destino già
scritto.
Gli uomini, vuol dire Mondolfo, non soggiacciono passivi ai fatti, ma reagiscono,
perché esiste anche il momento soggettivo della volontà del cambiamento e della
coscienza di classe.
Questa interpretazione della realtà da parte di Mondolfo, da lui illustrata con
chiarezza di termini, viene definita da lui “la prassi che si rovescia”. Anche Turati la
pensava così perché questo era il succo più nutriente del riformismo, in quanto
esaltava la funzione dell'uomo che riesce a cambiare la realtà, invece di limitarsi
solamente alla registrazione dei cambiamenti avvenuti.
E' proprio questo voler porre l'uomo al centro della realtà che ci fa giustamente
parlare di “socialismo dal volto umano”, una interpretazione più autentica del
pensiero di Marx, il quale nella “Sacra Famiglia” scrive contro Bruno Bauer: “La
Storia non fa nulla; essa non possiede alcun enorme potere, essa non combatte
nessuna lotta. E' piuttosto l'uomo, l'uomo effettivo e vivente, che fa tutto, che possiede
e che combatte”. La Storia, conclude Marx, non è qualcosa che si serva all'uomo per
fargli conseguire certi scopi, la storia è null'altro che l'attività dell'uomo che persegue
i suoi scopi.
Con questa felice sintesi di marxismo, umanismo, positivismo e spirito antidogmatico
(per quest'ultimo ci basta ricordare che Turati accusava il cattolicesimo di essere stato
nemico di ogni progresso); con le doti naturali di generosità, tolleranza e disinteresse,
egli era l'unico che potesse radunare le fronde sparse (”raunai le fronde sparte” aveva
scritto Dante nel suo “Inferno”) di quello che era il nascente movimento di
emancipazione proletaria. Scrive infatti il prof. Carlo Vallauri:“L'atto più
significativo che precede la nascita del PSI sarà la nascita della Lega Socialista
Milanese, ad opera di Anna Kuliscioff e Filippo Turati”.
E' proprio il messaggio di quest'ultimo al congresso del socialismo romagnolo nel
1890 a chiarire come sia necessario fondare la coscienza politica degli operai,
separandosi dalla politica radical-borghese da un lato e dall'economismo degli
operaisti dall'altro. All'opera di proselitismo Anna e Filippo si accingono con la
rivista CritIca Sociale, che dirigono a partire dal 1891, dopo averla trasformata
rispetto alla veste precedente quando usciva sotto il titolo Cuore e Critica ed era
diretta da Arcangelo Ghisleri con la collaborazione di Turati.
La nuova rivista eserciterà una potente attrazione verso i giovani intellettuali del
tempo, spingendoli alla fede socialista.
E' difficile distinguere, negli articoli firmati T-K (Turati-Kuliscioff) oppure NOI,
quello che è di Anna e quello che è di Filippo, perché la loro collaborazione, come ha
sostenuto lo storico socialista Ugoberto Alfassio Grimaldi, che sarà direttore della
rivista dal 1974 al 1981, era dialogo e non giustapposizione di idee. L'immagine può
anche valere per la vita dei due, che la Kuliscioff definì “meravigliosa fusione di due
vite in una”.
In realtà lui era fragile, emotivo, pessimista; lei sa stringere i denti, dargli energia e
serenità, infondergli l'ottimismo della volontà. Quella rivista cesserà le pubblicazioni
nel 1926, e alla fine di quest'anno (il 29 dicembre del 1925 intanto Anna era già
scomparsa) Turati fugge in Francia accompagnato dal trentenne Pertini. Appena due
anni prima c'era stato l'assassinio fascista di Matteotti.
E' questo un periodo difficile per il socialismo, ma in generale per la democrazia
italiana, in seguito alla nascita e all'avvento del fascismo sulla scena politica italiana
nel 1922. Dalla nascita del Partito dei Lavoratori Italiani nel 1892 a Genova
(diventato Partito Socialista dei Lavoratori Italiani al congresso di Reggio Emilia nel
1893, ed infine Partito Socialista Italiano al congresso di Parma del 1895) sono
passati 30 anni ed il socialismo ha ormai conquistato un ruolo di protagonista nella
vita del paese.
Il partito socialista aveva impiegato 20 anni prima di riuscire a costituirsi, ma nato da
poco era riuscito nel giro di 8 anni, come ricordava Leo Valiani, a diventare una delle
forze decisive della politica italiana, pur combattuto da persecuzioni esterne e
divisioni interne. Non è questa l'occasione, compagni, per raccontare una storia del
socialismo, dei suoi uomini e dei suoi martiri e quindi dobbiamo riportarci al
riformismo di Turati rispetto all'attuale situazione politica.
Il riformismo di Turati
Fin dal primo maniestarsi della sue idee riformistiche egli si ritrova bersaglio di
obiezioni e deve imbarcarsi in continue discussioni, anzitutto con Antonio Labriola
che teme “l'eclettismo, l'empirismo di Turati”, che gli appare troppo elastico dal
punto di vista ideologico. Perciò Labriola non andrà al congresso di Genova del 1892,
sottraendo al partito che stava nascendo un apporto preziosissimo di scienza e
capacità culturale.
Labriola non aveva compreso che la situazione milanese era diversa da quella
napoletana, che al nord si era davanti al progresso industriale che modificava il modo
di proporsi dei problemi legati alla lotta sociale. Aveva una concezione
eccessivamente meccanicistica dei processi storici, secondo la quale
immancabilmente il movimento operaio si sarebbe da solo data una organizzzazione.
Tutto l'opposto, cioè, di quanto pensava Turati circa il ruolo delle volontà nella
modificazione dei fatti concreti.
Nei primi 8 anni di vita il partito è mantenuto sotto una salda guida riformistica ed
intransigente, perché ha davanti a se governi reazionari ed accanto a se forze politiche
avanzate di matrice borghese. Diceva Turati:“I partiti che transigono sono quelli che
muoiono”, ma poi ci sono i momenti nei quali l'unità tra le forze progressiste è
necessaria per la libertà e la democrazia.
Uno di quei momenti arriva coi moti dei Fasci Siciliani, quando Francesco Crispi ne
ordina la repressione nel 1894, con ondate di arresti, divieti di riunione, scioglimento
nell'ottobre delle organizzazioni socialiste. Dopo un primo momento unitario peserà
solo sul partito socialista il compito di difendere il movimento dei Fasci. Si sviluppa
allora una ampia discussione sul quesito se i Fasci rientrassero nell'alveo del fiume
socialista, o rappresentassero un passo indietro, verso posizioni di tipo anarchista.
I riformisti Turati e Kuliscioff si schierano per la prima ipotesi (che storicamente
risulterà quella vera), che cioè i Fasci erano un movimento socialista, diretto da
socialisti. Su questa interpretazione dei Fasci ci fu poi la convergenza di Labriola e di
Engels, e quest'ultimo, sollecitato da Anna, concorda come sia vero che l'Italia sia un
paese per due terzi medievale e che quindi vi si debba portare a compimento la
rivoluzione borghese, aiutando la nascita di un capitalismo moderno.
Da questo deriva per Kuliscioff ed Engels il compito per i socialisti di partecipare al
movimento coi partiti borghesi democratici, ma da essi badando a distinguersi per
lasciarsi aperta la strada dell'opposizione al nuovo regime. In realtà questa diagnosi e
questa linea trovano conferma concreta nei fatti storici successivi, quando nel 1898
scoppia a Milano la sanguinosa repressione dei moti per la fame, con 80 morti e 450
feriti, con l'arresto di Turati, Kuliscioff, Costa, Morgari, Bissolati, e dei dirigenti dei
partiti repubblicano e radicale.
Nasce così una convergenza tra i gruppi parlamentari democratici, che comprende
anche i liberali democratici di Giolitti e Zanardelli. Siamo in sostanza in evidenti
forme di collaborazione fra il riformismo socialista ed i partiti borghesi, con il
contestuale avanzamento del quadro politico generale. Infatti, alle elezioni politiche
del 1900 si raddoppiano i deputati socialisti, che passano da 15 a 32, mentre
aumentano i radicali e i repubblicani e cresce la forza di Zanardelli tra i liberali.
Ci sono studiosi del movimento socialista che hanno espresso giudizi negativi sulla
scelta del Partito di favorire la svolta liberale di fine secolo, come Alceo Riosa che ha
sostenuto come a presidio dei valori liberali avrebbero dovuto porsi i partiti borghesi
e che un partito socialista, invece, poteva correre il rischio di aprire le proprie file
all'ingresso dei borghesi, smarrendo il suo carattere di classe.
Un esame più attento della Storia avrebbe potuto ricordare a Riosa che i grandi
rivoluzionari sono sempre stati di estrazione borghese: dai Gracchi ai capi della
Rivoluzione Francese e di quella Americana, mentre di rivoluzionari proletari ci
sovviene solo il nome di Spartaco. L'attuale dibattito sulle classi sociali, animato
dagli apporti di Paolo Sylos Labini, dovrebbe suggerire altre considerazioni, come
quella che le classi hanno subito una sostanziale modifica rispetto ai canoni di tipo
marxista, mentre una visione realistica ci dovrebbe portare a non dimenticare
l'estrazione borghese di Marx, e di tutti o quasi i pensatori della sinistra italiana ed
europea.
La stessa composizione della classe operaia oggi è fortemente diversificata rispetto al
momento in cui ha inizio il processo di industrializzazione: nel rapporto tra operai da
un lato e quadri dirigenti e quadri tecnici dall'altro si è passati dall' 8 a 2 al 6 a 4, e su
questo rapporto c'è da prevedere con facilità che esso si rovescerà nettamente.
Il giudizio sulla svolta liberale del partito socialista è, invece, positivo, da parte degli
storici Arfè, Valiani, Manacorda (che parla di atteggiamento realistico nel 1901 in
merito al voto favorevole del PSI al governo Zanardelli-Giolitti), Luigi Cortesi e
Salvatore Francesco Romano, oltre che da tanti altri studiosi..
Fu allora, comunque, che cominciarono a delinearsi le due posizioni fondamentali
dentro il partito: la riformista e la “rivoluzionaria”. Mentre Turati impersonava la
prima, Arturo Labriola la secondaria. Turati aveva ragione nel temere un ritorno del
partito all'anarchismo e all'operaismo cioè alle posizioni che erano impersonate da
Arturo Labriola, il quale a sua volta con estremismo e demagogia manifestava il
timore che si mettesse in soffitta la rivoluzione democratica.
Come sempre, dentro il socialismo italiano la polemica divampò tra chi come Turati
vedeva il governo liberale come espressione della borghesia e chi come Labriola lo
vedeva come espressione di interessi ancora reazionari e monarchici. Contro Turati si
schiera anche il Salvemini in nome della questione meridionale che egli reputa
come trascurata dalla dirigenza “settentrionale” del partito.
In realtà, pur con i giusti rilievi, Salvemini non riuscirà a legare la sua dottrina con le
azioni dei sindacalisti che facevano capo a Labriola e che permangono nell'astrattezza.
Non ce la fa, dunque, a nascere una vera sinistra costruttiva dentro il PSI. D'altra
parte Turati mirava alla alleanza con la borghesia progressista, mentre Salvemini (in
netto anticipo su Gramsci) si batteva per una alleanza fra operai del nord e contadini
del sud. E' un peccato che una sintesi delle due posizioni non sia stata possibile,
malgrado i forti e continui tentativi di Anna Kuliscioff di avvicinare Turati e
Salvemini.
La divisione dentro il PSI
Nella divisione fra riformisti e rivoluzionari nel 1901 già si delineano le
caratteristiche dei due gruppi: quello turatiamo è compatto, con una elaborazione
teorica avanzata (come sottolinea Cortesi), con legami solidi con la propria base,
conoscenza dei problemi grandi e piccoli, controlllo dei circoli politici e delle camere
del lavoro, delle università popolari e delle cooperative, disponibilità di una
sessantina di settimanali speciali o locali, controllo dell'Avanti! e di Critica Sociale, e
a partire dal 1902 anche del Tempo di Milano diretto da Claudio Treves.
Il gruppo “rivoluzionario” è fatto di tronconi mal connessi fra di loro, di
meridionalismo e di massimalismo, di contadini poveri e capi ambiziosi.
Turati mostra ancora una volta come il processo di affermazione del proletariato
debba passare attraverso l'attività sindacale e parlamentare , teorizza le peculiarità e le
caratteristiche nazionali della strategia socialista, mantiene attraverso successivi e
realistici adattamenti tattici una sostanziale fedeltà alle indicazioni politiche di Engels.
La congerie di gruppi e di indirizzi che si richiamava alla “rivoluzione” si diede da
fare e mise in minoranza i riformisti nella federazione milanese, fondò alcuni giornali,
vinse qualche congresso, ma fu sconfitta dal punto di vista politico. Mentre Turati, a
sostegno dei principi riformistici, poteva dimostrare che col liberale Giolitti gli
scioperi erano stati nel 1901 1.663, contro i 410 del 1900, che le camere del lavoro
crescevano in quantità e qualità, che prendevano vita nuove federazioni di categoria
in aggiunta a quelle dei tipografi e dei ferrovieri, che nelle campagne gli scioperi
erano passati nel 1901 a 626, contro i 27 del 1900, che nel 1906 nasceva la
Confederazione Generale del Lavoro (CGL) e che nel 1901 era già nata la potente
Federazione Nazionale Lavoratori della Terra (Federterra)...Cosa potevano
dimostrare i rivoluzionari e i sindacalisti rivoluzionari ? Questi ultimi riuscirono a vincere il congresso di Bologna del 1904; nel settembre di
quell'anno proclamarono il primo sciopero generale nazionale, ma non sanno cosa
vogliono, non sanno coordinare lo sciopero, non sanno in sostanza cosa sia la
rivoluzione della quale sempre parlano. Il contraccolpo arriva subito dopo alle
elezioni politiche, quando moderati e conservatori aumentano i propri seggi alla
Camera dei Deputati.
La contraddizione più stridente dei sindacalisti rivoluzionari, che si muovevano anche
in collegamento con le idee del francese Jacques Sorèl, era quella di non basarsi e
puntare sulla CGL che era saldamente in mano ai riformisti, per cercare di rovesciare
i rapporti di forza con la borghesia e la reazione.
Proprio in questo momento, quel riformismo che era riuscito a coordinare tutti i pezzi
del vasto e complesso movimento di classe, facendone un grande partito, viene
attaccato da due lati e da due lati si mira a liquidarlo. Da una parte dunque gli attacchi
dei sindacalisti rivoluzionari e dall'altra gli attacchi della parte più moderata del
riformismo, anch'essa riferita a modelli d'oltralpe, in particolare a Eduard Bernstein.
Quest'ultimo portava avaanti all'interno della socialdemocrazia tedesca un
revisionismo esasperato, del quale si fanno portavoce in seno al PSI Leonida Bissolati
e Ivanhoe Bonomi, che col loro gruppo saranno espulsi nel 1912.
Sindacalisti rivoluzionari e riformisti addomesticati vorrebbero che la lotta di classe
si svolgesse solo sul terreno economico, togliendo così al partito e al gruppo
parlamentare ogni funzione di guida. Spettò ancora una volta al gruppo turatiano
mantenere ferma l'idea di partito, di un socialismo gradualista che non depone la testa
sul seno del società liberale né si illude di cambiare quella società con le prediche
rivoluzionarie della domenica.
Turati difende l'autonomia politica della classe operaia , così come Karl Kautsky
aveva fatto contro Bernstein, considerandola un cardine della concezione marxista
della lotta di classe. Come ha sottolineasto Arfè, accettare le teorie revisioniste
sarebbe equivalso ad ammainare la bandiera del socialismo.
L'altra importante occasione di confronto dentro il PSI e nel paese giungerà con la
guerra di Libia, perché mentre Bissolati e Bonomi difenderanno una linea italiana
espansionista, Turati e il suo gruppo non esiteranno a condannare insieme a quella
tutte le guerre e le politiche di conquista.
Subito dopo l'avvenuta conquista libica, al congresso di Reggio Emilia del 1912,
balza all'attualità la necessità di un giudizio non solo sull'atteggiamento della destra
riformista del PSI, ma anche di 3 deputati socialisti anndati a congratularsi coi
monarchici per lo scampato pericolo in un attentato anarchico (uno dei tre era
Bonomi).
E' questo, in ogni caso, un momento difficile per Turati, perché a Reggio Emilia vince
la corrente rivoluzionaria, nella quale emerge Benito Mussolini, acceso predicatore di
rivolte proletarie. La giustizia della Storia rimetterà le cose a posto due anni dopo, nel
1914, quando si conferma che la vera anima del socialismo è il riformismo. Infatti,
passata la “settimana rossa” del mese di giugno che aveva visto il proletariato
insorgere contro un eccidio compiuto dalle forze dell'ordine ad Ancona, la cosiddetta
battaglia rivoluzionaria verrà ancora una volta perduta per mancanza di obiettive
condizioni rivoluzionarie e per l'assenza di una vera e propria guida politica.
I socialisti tra guerra e dopoguerra
Quando scoppia la prima guerra mondiale la maggior parte dei partiti socialisti
dell'Europa si schiera col proprio paese, con la propria patria, mentre il PSI dichiara
la sua neutralità: Nel contempo i socialisti francesi e tedeschi votano a favore dei
crediti di guerra nei rispettivi parlamenti. E' la fine della Seconda Internazionale.
In Italia Mussolini passa dal neutralismo asssoluto alla neutralità attiva, al cosiddetto
“interventismo”. Viene espulso dal partito, ma la lotta per la pace è difficile, perché
una volta crollata l'Internazionale non esiste più alcun legame tra i proletari dei vari
paesi.
Nei vari contatti che in quegli anni avvengono tra i partiti socialisti europei (a Lugano
nel 1914; a Zimmerwald nel 1915; a Kiental nel 1916) emerge una differente
valutazione fra i rivoluzionari ai quali appartengono anche i Bolscevichi russi ed i
riformisti di Turati.
I primi pensano che la guerra debba essere trasformata in guerra civile, i riformisti
pensano che si debba favorire l'incontro di tutti i proletari con tutti coloro che sono
contro la guerra, anche se appartenenti alla borghesia. Ancora una volta il riformismo
impartisce agli altri una lezione di modernità con largo anticipo sui tempi e sulla
maturazione delle intelligenze.
Turati, durante la guerra, difenderà sempre il parlamento per mantenere aperta ogni
prospettiva politica, mentre si pronuncerà per la difesa dell'Italia dopo la sconfitta di
Caporetto, non solo in obbedienza ad un legittimo e naturale sentimento, ma anche
per recuperare un rapporto costruttivo con le correnti democartiche che avevano visto
la guerra come occasione di libertà delle tante nazionalità oppresse dai regimi
autoritari in Europa.
Quando scoppia in Russia la Rivoluzione d'Ottobre, in Italia si dichiarano subito
favorevoli Antonio Gramsci (che stava ancora nel PSI) e quell'Arturo Labriola che
era intanto passato dal sindacalismo rivoluzionario all'interventismo. Restano invece
critici i giudizi di Kautsky e di Mondolfo, in quanto la Russia non era ancora un
paese avanzato, non aveva la borghesia al potere, non era matura per il socialismo e
quindi non sarà possibile che in essa si instauri un assetto proprio della rivoluzione
socialista.
I decenni successivi hanno dato ragione a questa tesi, perché in Russia nacque un
regime autoritario dominato. anche con il sangue, dalla burocrazia del partito
comunista.
Intanto in Italia esplodono gli scioperi di massa per il salario, per la giornata di 8 ore,
per il blocco del costo della vita. Si ottengono dei sucessi e ci s'illude che la
rivoluzione sia vicina. Il PSI è nelle mani dei massimalisti, la CGL è rimasta in mano
ai riformisti, quindi non c'è una strategia unica e regna la confusione. Il contrasto tra i
metallurgici della FIOM e gli industtriali del settore si fa sempre più duro perché la
crisi ha colpito il comparto ed il padronato pratica la politica dei licenziamenti.
Avviene allora l'occupazione delle fabbriche e lo scontro si fa sempre più pesante
perché, come afferma Pietro Nenni, gli industriali si erano rafforzati creando anche le
loro prime organizzazioni. Altre categorie di lavoratori scendono in lotta e la
direzione del movimento passa nelle mani confederali della CGL. Scoppia un
disssenso tra sindacato e partito in merito alla direzione verso la quale il movimento
doveva esssere incanalato.
L'11 settembre, come ha scritto lo storico marxista Paolo Spriano, la rivoluzione
viene messa ai voti e prevale la linea sindacale che mira al controllo della produzione.
Un accordo nazionale venne raggiunto con la mediazione di Giolitti, ma la
commissione mista operai-industriali che doveva preparare il disegno di legge non
raggiunse mai un accordo e tutti finì. Da quelle vicenda uscì rafforzata la borghesia
industriale, ma anche quella agraria, e tutte e due si pongono a sostegno del
sovversivismo di destra, tanta è la paura che hanno provato nel 1920. Falliva,
purtroppo, il disegno di Giolitti di portare al governo i socialisti riformisti. Turati e
Giolittti ne avevano spesso parlato, ma nessuno dei due si sentì in grado di percorrere
il tratto di strada (non molto lungo in verità) che li separava da un incontro che
avrebbe salvato l'Italia dal fascismo.
La Storia ritrova le proprie strade maestre e negli anni Sessanta del Novecento
l'incontro fra socialisti e forze alla loro destra ci fu con il centro sinistra, nel quale il
nipote di Giolitti, Antonio, ricopri l'incarico di ministro del bilancio e della
programmazione economica.
Arriva il ventennio nero
Il fascismo è ormai alle porte, la libertà è in pericolo, il PSI si dilania ancora. Il capo
dei comunisti sovietici, Lenin, voleva che i massimalisti espellessero Turati e i
riformisti dal partito. Questo non avvenne ed allora sono i comunisti ad uscire dal
partito nel 1921. Subito dopo, nel 1922, al congresso socialista di Roma l'ala
massimalista espelle i riformisti di Turati che vanno a dar vita al PSU, del quale
Giacomo Matteotti diventa segretario.
Il partito si spacca proprio nel momento in cui la sua unità poteva servire meglio ad
evitare l'avvento del fascismo, salvando la democrazia in Italia. La lotta più dura
contro il fascismo, finché è in piedi il parlamento, viene combattuta proprio dai
riformisti, guidati da Matteotti che il regime farà assassinare il 10 giugno 1924. Turati,
come abbiamo già detto, va in esilio e per quasi un ventennio il socialismo italiano
sarà esule in Europa.
Abbiamo visto come Filippo Turati abbia sempre avuto ragione, come sia stato un
anticipatore quando ha indicato la via delle riforme come la strada maestra che poerta
al socialismo.
Il compito dei socialisti riformisti
Non ci sono altre strade per arrivare alla vittoria del socialismo in un paese
democratico. La scelta del comunismo sovietico ha dimostrato da tempo di essere
stata la tragedia dei lavoratori di quella parte d'Europa.
Nè d'altra parte esiste una terza via, alla cui ricerca molti si sono posti senza mai
trovarla. Un grande dibattito aperto in questi anni su l'Avanti! Ha potuto ospitare una
miriade di interventi, ma quello che più sinteticamente ed efficacemente ha centrato
la questione appartiene a Luciano Cafagna, il quale scrisse più o meno che “la terza
via è solo una piazza dove tutti stanno a chiacchierare di rivoluzione, di socialismo,
senza mai muovere un passo avanti”.
Riformisti oggi si dichiarano anche i comunisti che danno ragione al Turati del 1921
(lo hanno fatto Umberto Terracini e Camilla Ravera); riformisti sono a buon diritto i
socialisti, i socialdemocratici; riformisti si dicono partiti laici come i repubblicani ed
in qualche caso anche i liberali; riformista è la parte più consapevole e matura del
sindacalismo italiano con in testa la UIL. Di riforme si parla anche da parte di alcuni
setttori della democrazia cristiana.
Cosa ne possiamo dedurre? Che certamente tutti, o quasi, si rendono conto che molto
si deve cambiare in Italia, ma ovviamente ognuno pensa ai cambiamenti congeniali
alle proprie idee di fondo; e così è facile capire che riforma significa una cosa diversa
a seconda se si è di sinistra, di centro o di destra, se queste collocazioni hanno ancora
un senso compiuto. Riformare il mondo del lavoro per il PSI e i sindacati significa
riconoscere maggiori diritti alla classe lavoratrice, ma per un partito conservatore
significa garantire al datore di lavoro una più ampia libertà di manovra.
Mi avvio a concludere, amici e compagni, e torno pienamente al tema centrale di
stasera, a Turati e al riformismo oggi. E lo faccio riportando le parole che egli
scriveva su Critica Sociale il 15 luglio 1901: “La trasformazione sociale non può
farsi né per decreti dall'alto né per impeti subitanei dal basso, ma presuppone una
lenta e graduale trasformazione, anzitutto dell'ossatura industriale, poi, e
coerentemente, una trasformazione ed un elevamento, non meno lenti e graduali, del
pensiero, delle abitudini, delle capaqcità delle stesse masse proletarie. Questo
elevamento non avviene per rivelazione mistica o per trasfusione precettuale, bensì
con l'esercizio che crea le forze e con le riforme che, o rendono l'esercizio possibile,
o ne fissano i risultati e le conquiste in istituti legali”.
Nel 1919 Turati, sempre coerente, ribadiva che “il socialismo si elabora lentamente e
fatalmente nello sviluppo progressivo della stessa società borghese; la volontà
dell'uomo e dei partiti non può che agevolare e accelerare il processo, rendendolo
cosciente. Soccorre la classica immagine di Marx, del pulcino che, quando è ben
formato, rompe il guscio dell'uovo con un colpo violento di becco; ma, se il pulcino
non è formato, voi potete rompere l'uovo, ma farete solo una frittata”. Ora, in Italia, cari compagni e amici, in nome della rivoluzione si sono fatte solo
frittate e sta a noi che crediamo nel riformismo socialista favorire la nascita di quel
pulcino che abbia il colore del sole dell'avvvenire.
18 aprile 1982
POST SCRIPTUM
Mercoledi 8 gennaio 1997, 15 anni dopo la conferenza del PSI di Siracusa sul
riformismo di Turati, a Siracusa si tornò a parlare di lui. Quel giorno la pagina 21
del quotidiano La Sicilia era quasi tutta dedicata a lui. Quel lungo servizio,
corredato delle foto della sua pagella di allievo ginnasiale al “Gargallo”, era anche
illustrato da una orrenda caricatura del suo profilo. Quel lungo servizio nasceva
dalla notizia che il giovane Filippo aveva frequentato il Ginnasio-Liceo Gargallo di
Siracusa nel periodo in cui il padre, Pietro Turati, era prefetto della provincia, negli
anni 1871-73 e annunciava un convegno per venerdi 10 gennaio sul tema “Filippo
Turati e la nobiltà della politica”. Il convegno realmente ci fu e registrò l'intervento
del prof. Vincenzo Ficara che trattò della permanenza del giovanissimo Filippo a
Siracusa, mentre lo storico Maurizio Degl'Innocenti, dell'Università di Siena, svolse
l'intervento principale. Dopo di lui parlò il prof. Paolo Greco, preside del Gargallo.
In realtà la presenza di Filippo Turati quindicenne a Siracusa non era una novità,
perché 15 anni prima si era svolto il convegno socialista sul riformismo di Turati e
nella mia relazione si parlava ampiamente di quella breve permanenza.
Aggiungo che la notizia era nota anche precedentemente e che la scoperta non
appartiene nemmeno a me. C'è da aggiungere che lo stesso quotidiano aveva
ampiamente trattato della iniziativa della federazione del PSI, il 16 aprile 1982, per
annunciare il convegno e due giorni dopo per illustrarne ampiamente i contenuti. In
quella occasione presero la parola l'on. Raffaele Gentile, segretario della federazione
socialista, Paolo Ciurcina, presidente del Centro Culturale Mondoperaio, il prof.
Vincenzo Bondì, Dario Tomasello, Franco Scollo, Ermanno Adorno, Filippo Motta,
Santo Ragazzi e, per le conclusioni, l'on. Salvo Andò. Al convegno del 1982 c'era un
pubblico formato di socialisti, di cattolici (come lo studioso Corrado Piccione), di
esponenti della sinistra d'opposizione (come Ermanno Adorno). Al convegno del
1997 il pubblico era tutto del PDS perché ci trovavamo in un periodo nel quale l'ex
PCI cercava di legittimarsi come l'erede del riformismo socialista.
Ricordiamo adesso sinteticamente i contenuti del dibattito del 1982, avendone
conservato il resoconto. Gentile, in apertura di convegno ricordò come non si
trattasse di fare celebrazioni ma di rinsaldare i legami tra il partito quale vuole
essere e le sue migliori tradizioni. Abbiamo fatto errori nella nostra storia ma
vogliamo rivendicare quello che di positivo si trova nelle nostre ascendenze. Di
Turati cerchiamo di enucleare quello che oggi è attuabile non solo nell'ottica
socialista, ma nell'interesse della democrazia italiana. C'è una discriminante
democratica fra riformisti e leninisti e la nostra è una democrazia occidentale di tipo
liberale. Dopo la mia relazione intervenne Ciurcina per ricordare che al congresso
di Livorno tra le cinque correnti quella di Turati era la più piccola ma quella che
vedeva meglio il futuro. Oggi il centro sinistra si inserisce sulla linea del riformismo
e questo convegno vuole contribuire a migliorare l'assetto culturale e morale del PSI.
Bondì sostenne che il riformismo ha senso se riesce a ricavare una lezione dal
riformismo del passato, cioè che si può essere rivoluzionari senza fare ricorso alla
violenza, comprendendo che c'è un legame tra azione riformista e tipo di società che
si vuole realizzare. Dobbiamo operare per il cambiamento ma tenendo presente
l'obiettivo finale del socialismo. Il progetto socialista è il tentativo di definire le linee
della nuova società e questa è un'azione da completare. Dobbiamo fare del contenuto
della conferenza di Rimini la piattaforma della nostra battaglia politica, che deve
essere specialmente una battaglia per l'occupazione. Tomasello affermò che voler
cambiare la società totalmente è utopistico, illuministico, perché la realtà può essere
modificata solo in parte con il riformismo; la politica non può che essere riformista e
la scienza vera della politica indica una tecnologia gradualistica perché chi lascia
intendere il contrario fa un inganno. L'illusione di dare risposte a tutti i problemi,
come troviamo nella progettualità di una parte della sinistra, non fa avanzare la
società. Il riformismo non ha di queste illusioni, perché non è un socialismo mitico e
quindi demagogico, ma umano, reale e razionale, per il quale vale la pena di lottare.
Scollo sostenne che parlare di Turati non è un fatto celebrativo , ma è come assumere
il suo metodo per la nostra politica di oggi. Il riformismo turatiano consentì
l'espandersi del sindacato, esaltato dalla svolta liberale del 1900. Sullo sciopero
politico Turati ha le idee chiare: breve, con un fine determinato e lasciando in attività
i servizi sociali. Adorno notò come alle iniziative del PSI mancassero i socialisti e a
quelle del PCI i comunisti. Le scissioni nel PSI hanno gettato ombre sulla sua
politica. Bisogna parlare delle sconfitte e non solo delle ragioni di Turati. Per anni si
sono disprezzati il riformismo e Critica Sociale, ignorando un filone importante del
socialismo. Quanto al riformismo di oggi ci fu negli anni Sessanta il tentativo
importante del centro sinistra. Discutendo insieme si dovrebbe rifondare tutta la
sinistra. Motta ricordò come Turati fosse portatore nella propria epoca di una
cultura industriale, ma oggi nel sud si guarda anche all'agricoltura. Il riformismo è
diverso dal gradualismo, perché il primo guarda alle grandi riforme ed il secondo ai
piccoli passi avant. Deve interessarci non solo il godimento dei frutti dell'albero (la
redistriubuzione dei profitti), ma anche la proprietà dell'albero. Fuoruscire dal
capitalismo, dicono i comunisti, ma noi diciamo: non certamente con degli
aggiustamenti come vorrebbe la DC. Le riforme in Italia sono state vanificate dai
conservatori, bisogna evitare perciò riforme di tipo illuministico che si calano in
realtà non adatte ad accoglierle. Ragazzi intervenne sul rapporto fra PCI e PSI
dicendo che vi sono diffidenze reciproche dovute al ruolo politico diverso: Turati fu il
solo a capire che i moti dei Fasci Siciliani avevano un carattere socialista, anche se
egli non capì a fondo i fatti e le questioni della condizione agraria in Sicilia. Ricorda
infine le parole che Turati rivolse ai comunisti al congresso di Livorno: i socialisti
coi socialisti, i comunisti coi comunisti.
Andò si congratulò con l'ottimo livello degli interventi, rilevando che non si sta
facendo un discorso celebrativo e che il vangelo presente ha un presupposto antico. I
congressi di Torino, di Palermo e di Rimini dimostrano che le cose dette hanno
dignità perché vengono da lontano. Secondo lui la concezione di Turati del ceti medi
sarebbe antica e lontana dalla attuale politica del PSI, mentre antica è anche la
concezione dell'intervento pubblico in economia. Oggi il contesto istituzionale è
diverso, perché allora ci si batteva per il suffragio universale ed oggi per alleggerire
ogni appesantimento burocratico. Su tanti altri elementi la testimonianza di Turati
risulta attendibile. Perché siamo in continuità con lui? Perché il socialismo non può
esssere imposto ma si deve costruire giorno per giorno, assecondando e non
comprimendo i processi di crescita. Noi abbiamo sviluppato quel che in Turati non
c'era. Il socialismo reale e la socialdemocrazia sono due strade contrapposte, ma noi
abbiamo scelto il governo delle istituzioni, in quanto riformare le istituzioni e fare le
grandi riforme non evita le risposte ai problemi concreti, ma propone di partire dalla
eliminazione delle difficoltà e dei condizionamenti istituzionali, per dare risposte
migliori alla gente. La grande riforma istituzionale e le riforme singole sono due
facce della stessa medaglia. Quello del centro sinistra fu un riformismo mancato e si
deve fare un discorso critico ed autocritico, nel senso che la progettualità
riformistica fu giusta così come le leggi, ma fallì l'attuazione. Da questo ci viene la
lezione che i meccanismi istituzionali possono vanificare le riforme. Comunque il PSI
ha saputo ricavare dai governi di coalizione un suo pacchetto di riforme, che poi la
struttura amministrativa ha sterilizzato. Alcune riforme, come lo Statuto dei
Lavoratori, sono diventate però operanti.
Qual'era la scommesssa della sinistra libertaria? si chiedeva Andò ed ha risposto che
era “democratizzare lo stato mettendo sotto controllo sociale alcuni poteri dello
stesso”. Bisognava rompere lo stato accentratore, erede del fascismo e del potere
ventennale della DC per mezzo della partecipazione e della esaltazione del potere
sociale, come contraltare al potere accentrato. Finora questa scommessa è stata
perduta perché i partiti si sono sclerotizzati e il sistema politico si è burocratizzato. Il
PSI ha cercato di trasformare il paese per mezzo di alleanze con altre forze popolari
che rappresentano l'unica variabile indispensabile delle alleanze. La sinistra non
dispone di strategie valide se prima non riesce a modificare le regole del gioco.
Infatti il sistema, anche in presenza di una alleanza del 90 % delle forze politiche
(parliamo della solidarietà nazionale con il PCI) ha vanificato la politica delle
riforme. Oggi non ha più senso parlare di classi sociali per dare ad esse risposte, ma
conta di più fare un inventario dei bisogni ed a questi dare le risposte opportune.
Neppure il partito può dare più risposte sulla base dei concetti di classe. Il partito,
come tale, può essere risolutore dei problemi sociali se esso viene sdrammatizzato e
privato del monopolio della rappresentanza politica, che deve andare anche ad altri
soggetti.
Oggi, continuava Andò, siamo di fronte ad una restrizione degli spazi di libertà e
perciò c'è l'esigenza di tutelare le nuove libertà, tra le quali la difesa dell'immagine
del cittadino dalla esasperazionedel diritto di cronaca o dall'azione del capitalismo
che blocca i processi di sviluppo democratico. Dobbiamo operare per accrescere le
difese dei consumatori, degli utenti dei servizi pubblici, delle organizzazioni
spontanee: si accresce così lo spazio di libertà. Le decisioni a tutti i livelli
dovrebbero sempre rispecchiare la partecipazione e la volontà della base sociale.
L'alternativa non può arrivare da sola, concluse Andò, e per avvicinarla occorre
modificare certi meccanismi, certe regole del gioco, come è già avvenuto in diversi
paesi occidentali. La riforma istituzionale, dei costumi politici e del meccanismo dei
collegamenti con la volontà del paese, è l'unica strada che ci può portare alla
instaurazione di una società pienamente democratica e quindi più prossima al
socialismo.
LINEAMENTI DI STORIA DELLA QUESTIONE MERIDIONALE
UNA BREVE PREMESSA
L’unità d’Italia dopo le guerre d’indipendenza era puramente formale, perché il paese restava diviso
in due parti dal punto di vista economico, sociale e civile.
Di questa visione furono subito consapevoli gli uomini politici del secondo Ottocento, come lo
furono gli studiosi e gli intellettuali in genere.
Ognuno formulava una sua diagnosi, vuoi di natura economica, vuoi di natura morale, ma anche di
natura “razziale”. Ognuno proponeva, di conseguenza, una sua terapia. Che spesso restava confinata
nel campo degli studi o del dibattito culturale. Una analisi delle varie posizioni espresse da chi si
occupò del Mezzogiorno, da Cavour a Gramsci, può aiutare a capire le radici della Questione
meridionale, che non è solamente quella esistente all’atto della formazione del Regno d’Italia, ma
anche quella che si è venuta a costituire negli ultimi decenni del secolo scorso e, poi, nei primi
decenni di questo secolo.
Della parentesi fascista non vale la pena discutere per l’ovvia ragione che, avendo detto Mussolini
come la questione non esistesse, nessuno studioso se ne occupò, ammesso e non concesso che vi
fosse la necessaria libertà di espressione, tranne che per il filosofo Benedetto Croce, tollerato perché
serviva da prova alle affermazioni del regime circa la libertà che sarebbe esistita in Italia.
Il fascismo tutto quello che disse e fece, fu di avviare qualche bonifica in zone malsane, a scopi
propagandistici, e di additare le “colonie” come sfogo alla manodopera disoccupata del Meridione.
Solo nel secondo dopoguerra la Questione meridionale torna, con alti e bassi, ad attirare l’attenzione
dei governi, dei partiti, degli intellettuali e dei sindacati.
CAMILLO BENSO DI CAVOUR
Il primo a porsi concretamente il problema meridionale era stato Cavour che si rendeva conto di
come il Meridione non facesse sostanzialmente parte dell’Italia unita.
Egli pensava di risolvere la Questione “napoletana”, come la chiamava con provvedimenti
economici e morali. In campo economico pensava ad un rapido sviluppo delle comunicazioni (porti,
ferrovie) che consentisse al Sud di diventare un ponte commerciale fra Occidente e Oriente, credeva
ad un rapido sviluppo industriale agevolato dal governo, anche per mezzo della creazione di una
classe di capaci produttori al posto dei troppi avvocati, letterati e dottori meridionali.
Alcuni errori erano però al fondo della diagnosi cavouriana e cioè: che il Sud venne poi in realtà
tagliato fuori dalle vie dei traffici mondiali e quindi non fu in grado rappresentare quel ponte fra
Oriente ed Occidente, che era nelle mire del Cavour; che il Sud fosse una zona ricca di risorse
naturali e bastasse solo eliminare gli usi corrotti di governo derivatigli dai Borboni; che bastassero
alcune buone leggi, alcuni buoni impiegati dello Stato e vent’anni di tempo per rimettere le cose al
loro posto.
Egli dunque vedeva la Questione meridionale più come “questione morale” che economica ed è il
primo dei meridionalisti conservatori della schiera cosiddetta “moralista”.
Visse fino a realizzare la prima parte del suo programma: l’unità politica e amministrativa d’Italia;
la seconda parte, il risveglio economico del meridione, gli avrebbe certamente riservato delle
sorprese, se davvero l’avesse affrontata senza un’analisi profonda delle condizioni reali del
Mezzogiorno.
PASQUALE VILLARI
Sullo stesso indirizzo moralistico si muove Pasquale Villari, che ha il grande merito di essere stato
il maestro dei meridionalisti borghesi e un grande agitatore del problema meridionale.
Un uomo di grande levatura morale, perseguì fino in fondo la verità con grande coraggio. Egli
riteneva che l’unico modo di giovare alle masse povere, e alla stessa borghesia, dipendesse dalla
conoscenza profonda dei mali italiani. Questo stesso approccio lo ritroveremo in Sonnino,
Franchetti, Turiello, Fortunato, Nitti e, anche se con indirizzi generali diversi, in Colajanni, Ciccotti
e Salvemini.
Parlando della camorra napoletana prima e del brigantaggio poi, il Villari invoca provvedimenti di
prevenzione, avvertendo che la repressione del fenomeno non ne elimina le cause e chiedendo
rimedi radicali in quanto camorra, brigantaggio e altre piaghe sociali nascono da una determinata
condizione agraria e sociale e ribadendo che dove il contadino sta meglio “il brigantaggio sparisce”.
Anche sulla mafia esprime concetti simili, che cioè si tratti di un fenomeno eliminabile con
provvedimenti che migliorino le condizioni economiche e sociali.
Sul latifondo siciliano, sullo sfruttamento del contadino siciliano e del garzone di miniera, il Villari
dimostra il proprio spirito acuto e concreto.
Egli non esita ad accusare la classe politica di non aver saputo e voluto affrontare i problemi del
Meridione, preferendo aggravarli con il sistema di governo basato sulla corruzione, che era
caratteristico dei Borboni.
Villari fu un conservatore sui generis in quanto le sue parole, nei fatti, spinsero tanta gente a credere
nel socialismo, in proporzione sicuramente in misura maggiore dei proletari che invece i
conservatori riuscirono a portare sulla “buona via”. Egli voleva che le redini del paese fossero nelle
mani della borghesia illuminata; in sostanza voleva riformare per poter conservare meglio.
Fu avverso al socialismo che vedeva come una malattia delle società moderne e credeva che l’unico
mezzo per arginarne l’avanzata fosse un riformismo di tipo moderato.
La sua visione dello sviluppo economico del paese si riassume nel valore dato alla iniziativa privata,
nella funzione del governo di sopperire con il suo intervento alle lacune dei privati, nell’alleanza
governo-iniziativa privata per prevenire i moti delle masse con riforme tempestive. È questo il
Paternalismo, la cosiddetta arte del buon governo, consistente nel mutare quel poco che consenta di
rimanere al potere.
Purtroppo sfuggiva al Villari la prospettiva storica del momento e cioè che si stava sviluppando
l’industria nelle mani della borghesia con il sacrificio dell’agricoltura meridionale. Questo non
toglie alla sua figura il valore di una testimonianza sincera dei mali che il Sud soffriva da tempo.
SIDNEY SONNINO e LEOPOLDO FRANCHETTI
Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti si erano formati alla scuola e agli insegnamenti del Villari ed
anche per loro il problema è di dire la verità sul Sud, che le plebi sono misere e che necessita una
soluzione dei problemi agricoli nel senso di un accrescimento della produzione e di una
distribuzione del reddito fra le masse in modo da impedire una loro sollevazione.
Ambedue sono contrari alla tassa sul macinato e favorevoli al suffragio universale, mentre sono
contro il suffragio ai soli dotati di sapere perché in tal modo le masse contadine del Mezzogiorno
resterebbero escluse. Per essi il pericolo di un avvento del socialismo si elimina non con atti
terroristici, ma con atti di “buon governo”.
Questo nucleo di idee Sonnino e Franchetti espressero nella rivista “Rassegna Settimanale”, nata a
Firenze nel 1878. Con loro due la questione meridionale muove passi avanti nel senso di un
approfondimento economico del problema e non solo dal punto di vista socio-politico, com’era
stato in Pasquale Villari.
In diversi lavori e studi separati i due approfondiscono gli effetti della depressione meridionale e
reclamano un intervento dello Stato a difesa dei deboli, uno Stato che dovrebbe prima auto-
moralizzarsi e poi moralizzare gli egoismi dei padroni. Com’è chiaro, siamo un po’ nell’utopia
perché la classe politica dovrebbe migliorarsi da se, solo per “senso del dovere”.
Importante è comunque l’opera che i due compiono con la famosa Inchiesta sulla Sicilia del 1876,
nella quale illustrano nella loro crudezza le condizioni di sfruttamento dei contadini siciliani, il
Franchetti dal punto di vista politico e amministrativo, il Sonnino da quello economico e sociale.
Franchetti auspica un’alleanza del Governo con le classi colte dell’Italia media e superiore e con
pochi illuminati meridionali ed una rottura del Governo con la corruzione dei deputati, dei comuni,
dei ministri e dei proprietari del Sud.
Sonnino individua sempre nella proprietà privata la base della civiltà moderna ed è accanitamente
avverso al socialismo che egli eguaglia alla barbarie, mentre il liberalismo è sinonimo di civiltà. Più
tardi egli scadrà nelle posizioni reazionarie, ma ai tempi dell’inchiesta il suo antisocialismo non lo
spingeva fuori dal riformismo. Quando, più tardi, nel 1906, farà parte del Governo con funzione di
Ministro, la sua azione si caratterizzerà oltre che per riforme a carattere generale anche per specifici
e ampi provvedimenti in favore del mondo agricolo, con sgravio di imposte sul Mezzogiorno e leggi
per migliorare i terreni retti dalla piccola proprietà.
Un giudizio complessivo sui due li pone nello stesso ambito del Villari, pur avendo essi più
profondità scientifica. Con essi che furono consapevoli dei problemi posti dallo sviluppo del
capitalismo in Italia, il problema del Mezzogiorno, almeno sul piano della conoscenza, ebbe un
grande approfondimento.
PASQUALE TURIELLO
Studioso dei problemi meridionali fu anche Pasquale Turiello, ma fu un vero e proprio reazionario
che vide nella guerra, nel colonialismo, nell’autoritarismo, la ricetta per sanare i mali del
Mezzogiorno.
Partendo dall’analisi della profonda corruzione politica del sud, del clientelismo, del
parlamentarismo, giunge a vagheggiare un dominatore che metta tutti a posto. Egli ce l’ha con i
principi della rivoluzione francese e con le caratteristiche della razza italiana che sarebbero dovute
al clima che ci da una “natura disciolta”. Capì l’importanza della questione sociale e capì che il
liberalismo non poteva risolverla perché la libera concorrenza faceva trionfare le classi ricche a
scapito delle povere, condannate alla consunzione. Neppure il socialismo poteva risolvere la
questione sociale, in quanto sottometteva i più dotati ai più rozzi. Per lui ci voleva uno stato forte
che temprasse il carattere degli italiani con la guerra e, per mezzo delle colonie conquistate in
Africa, desse soluzione alla questione sociale e al problema del Mezzogiorno. Illusioni che più tardi
la storia si incaricherà di smentire.
GIUSTINO FORTUNATO
Anche Giustino Fortunato, come prima Franchetti e Sonnino, pensa che il compito di trasformare un
paese arretrato sia dello Stato, mancando nel Mezzogiorno classi progredite, essendovi una
borghesia miserabile e dei nobili di mentalità feudale.
Tuttavia venne deluso dalla ingannevolezza della politica e più tardi si convertirà al liberalismo,
abbandonando la convinzione che esso sia incapace di armonizzare le differenze sociali e non
avendo più fiducia nello Stato.
Egli aveva creduto nello stato non come strumento d costruzione di una società reazionaria, ma
come creatore di quelle riforme democratiche di cui avevano parlato i suoi amici Villari, Sonnino e
Franchetti.
L’errore, se così si può dire, del Fortunato fu che egli intendeva contribuire a fondare uno Stato che
non aveva, in realtà, alcuna possibilità di essere costruito. Era quindi un utopista perché, come gli
scrittori di cui prima si è parlato, credeva che la società potesse essere trasformata
paternalisticamente, senza il concorso delle masse popolari, che invece sono l’oggetto di ogni
riforma e debbono, perciò, anche esserne il soggetto consapevole. Però il suo utopismo ebbe il
grande merito di mobilitare le coscienze morali più avvertite e di darci una visione acuta e chiara
dei problemi del Mezzogiorno.
Gli studiosi come lui volevano uno stato guidato da una borghesia illuminata che purtroppo non
esisteva minimamente; non capirono che il mondo andava verso sistemi di governo non paternalisti,
ma basati sulla partecipazione sempre più decisa delle masse; non compresero il vero significato del
Socialismo, che tendeva alla instaurazione di una società nuova di liberi ed eguali.
Paradossalmente sarà proprio il movimento socialista a raccogliere l’eredità di questi grandi studiosi
meridionalisti e a tradurre più coerentemente sul piano economico e politico le tesi moralistiche e
riformistiche da loro elaborate.
Concretamente il Fortunato pensava che occorresse una riforma tributaria come condizione per
attuare le riforme sociali nel Mezzogiorno e cioè che occorresse diminuire il carico fiscale sulle
classi più povere e istituire un’imposta unica progressiva che servisse al reperimento dei capitali
necessari per gli investimenti.
Verso la fine del secolo il Fortunato perse la fiducia, quando s’avvide che le sperequazioni fra Nord
e Sud aumentavano e accolse in parte la tesi del Niceforo, basata su una presunta differenza razziale
fra le due aree del paese, per cui alle differenze psichiche fra l’uomo del Settentrione (alto, biondo,
attivo) e quelle del Meridione (basso, bruno e passivo) corrispondeva il diverso sviluppo delle “due
Italie”.
Non bisogna però accomunare, come fece erroneamente Benedetto Croce, Fortunato con il peggior
positivismo alla Niceforo, perché la base del pensiero di Fortunato è economica e storica, mentre
quella del Niceforo è indubbiamente razzistica, superficiale e antistorica.
Figura di grande rilievo fu quella del Fortunato: non servì ad educare la borghesia, ma uomini come
Gobetti, Gramsci e Dorso, cioè profondi pensatori politici.
NAPOLEONE COLAJANNI
Passando sopra alle teorie errate e pseudo-scientifiche dei positivisti, degli Orano, dei Niceforo, dei
Ferri, dei Lombroso, dei Sergi, secondo i quali la base della inferiorità economico-sociale del
Mezzogiorno è da ricercare nell’inferiorità della razza, troviamo ai primi del ‘900 la figura del
siciliano napoleone Colajanni, di solito dimenticata quando si citano i meridionalisti.
Egli condusse una dura lotta contro le idee della Scuola Antropologica ed individuò il cancro del
Mezzogiorno nella corruzione politica ivi dominante. Vedeva come l’origine dei mali del sud il
centralismo statale ed avrebbe voluto per il Meridione una forma di federalismo che esaltasse
l’autogoverno e la democrazia, un federalismo, quindi, da non confondere con il separatismo. In
realtà egli era federalista come poi il Salvemini, perché contrario alla unità dello stato monarchico e
classista.
Fu costantemente avverso al trasformismo, che costituiva la forza dell’industrialismo settentrionale
e la debolezza degli alleati e delle vittime di esso. Insorse più volte a chiarire il senso e l’origine dei
Fasci Siciliani, visti come conseguenza degli abusi delle amministrazioni municipali legate ai
gruppi di potere locale e alle mene dei prefetti e dei deputati. La stessa nascita della mafia egli
individua nelle azioni ingiuste e discriminatorie del governo sabaudo, che amministrava il
Meridione come un territorio conquistato, abitato da razze inferiori.
Colajanni non diventò mai socialista, ma le sue idee e le sue battaglie furono da socialista molto
spesso, anche se egli rifiutava la lotta di classe come strumento del progresso.
Fu avverso alla politica del colonialismo che rappresentava una fuga dai nostri problemi ed il loro
aggravamento.
Contrasta con le sue idee la sua successiva conversione al protezionismo, che giovava alle industrie
del Nord e nuoceva all’agricoltura meridionale. Il fatto è che egli credeva che l’industria avrebbe
risollevato il Mezzogiorno, mentre gli sfuggiva che il capitalismo del Nord Italia non cercava
mercati internazionali e aveva il suo mercato proprio nel Meridione, avendo quindi tutto l’interesse
a mantenerlo come area di consumo e non di produzione.
Il suo merito è grande nell’appassionata difesa del Sud contro le aberrazioni antropologiche, alle
quali oppone le vere cause della crisi meridionale: agricoltura depressa, grande proprietà, coltura
estensiva, analfabetismo, arcaicità dei mezzi di comunicazione. Soluzione proposta è perciò quella
di spezzare il latifondo, intensificare le colture, istruire tecnicamente le popolazioni.
La reale unità d’Italia può nascere per Colajanni solo con un deciso cambiamento della politica
sociale italiana.
FRANCESCO SAVERIO NITTI
Meridionale anch’egli, Francesco Saverio Nitti impostò sui temi strettamente economici la propria
azione e fornì ricche documentazioni sui mali del Meridione, nulla aggiungendo però alla tematica
meridionalistica e nulla proponendo in termini di valida soluzione politica.
Egli pensa che la stessa emigrazione non sia un grande male, ma un male minore perché in
mancanza di lavoro, essa consente agli uomini del sud di sfuggire al pericolo di divenire briganti,
poiché la alternativa disperata del meridionale è spesso emigrante-brigante.
Egli crede che una buona politica in Italia possa sorgere solo se si rafforza il movimento operaio
(ma senza pericoli di socialismo), se si attua una coraggiosa politica agraria che leghi la terra al
contadino che la lavora, se si rinnova la classe politica con la fede in un più alto concetto dello Stato
visto come centro di riformismo.
Per quest’ultimo fine giudicava fondamentale l’educazione alla verità e così scrisse “Nord e Sud”,
opera in cui dimostra come lo sviluppo del Nord è dovuto al sacrificio del Sud.
Proposte concrete per risolvere i mali del Sud egli fece spesso, ma sempre in campo finanziario, allo
scopo di servire la giustizia fiscale per un rilancio della produzione e per la incentivazione di quelle
industrie stabilitesi al sud, per il rimboschimento e il rilancio delle opere pubbliche. Il programma
di rinascita avrebbe dovuto prendere il via da Napoli per mezzo di leggi speciali che colmassero
l’abisso fra le due Italie.
Concludendo su Nitti, bisogna dire che il concetto di “educazione” visto come mezzo di
rinnovamento della classe politica è troppo ristretto ed astratto per essere efficace e non poteva mai
servire a fare dello stato borghese e accentratore uno stato illuministico, radicale e democratico.
ETTORE CICCOTTI
È con Ettore Ciccotti, studioso profondo dalla storia antica, che si entra nella fase socialista della
questione meridionale, fase che avrà il massimo rappresentante in Gaetano Salvemini e si
concluderà con Antonio Gramsci.
Il problema che sta a cuore a Ciccotti è quello anzitutto di capire il rapporto tra socialismo e
Mezzogiorno ed egli parte giustamente dall’inquadramento dei problemi del Mezzogiorno
nell’ambito dello sviluppo del capitalismo italiano e dello Stato che ne è scaturito, per cui non si
tratta di mutare uno Stato che non può che essere così, ma di creare un nuovo sistema sociale. Ciò
non significa rimandare il problema meridionale all’avvenire, ma di avere chiaro che, stante il
capitalismo in Italia, il Mezzogiorno resterà sempre subordinato.
Il problema è dunque come arrivare al socialismo per superare il capitalismo, cioè come il Partito
Socialista debba suscitare nelle masse la coscienza di classe.
Il mezzo di conquista del potere non poteva essere la rivoluzione perché non ve n’erano le
condizioni, ma un riformismo che miri a dare alle masse sempre nuovi strumenti di lotta. Sul
problema dell’istruzione, denunciò il danno profondo che portano al Meridione i tanti retori,
avvocati e cultori della classicità, mentre ci sarebbe bisogno di tecnici agricoli soprattutto.
Egli fu, come Colajanni e Salvemini, federalista e avversario del decentramento amministrativo che
non era vera autonomia.
Il valore del Ciccotti è nell’aver rappresentato il superamento del meridionalismo conservatore,
poiché egli aveva capito, forte della sua concezione materialistica della storia, che la questione
meridionale non si risolveva con misure moralistiche.
GAETANO SALVEMINI
Contemporanea fu la figura di Gaetano salvemini, geniale pensatore e politico, in dialettico contatto
con le vicende storiche a lui contemporanee.
Per restringere lo sguardo alla sua azione meridionalistica dobbiamo dire che rinnovò tutti i temi
della questione e pose come base della rinascita del Sud la politicizzazione delle masse meridionali.
Mentre Ciccotti vedeva nelle forze del socialismo settentrionale le sole in grado di salvare il sud,
Salvemini intuì che alla lotta, per essere vittoriosa, dovevano contribuire anche le masse meridionali.
Capì per primo che era necessario contrapporre l’alleanza tra contadini del sud e operai del Nord al
blocco reazionario costituito da capitalisti del Nord e latifondisti del Sud. Per Salvemini erano tre le
malattie di cui soffriva l’Italia meridionale e cioè: stato accentratore; oppressione economica da
parte del Nord; struttura semifeudale con una classe di latifondisti in cima alla società, una
borghesia rachitica e schiava al centro e, alla base, una classe di contadini oppressi dalle classi dei
latifondisti e dei piccoli borghesi.
Sulle tre classi domina il capitalismo settentrionale che in cambio dei suoi favori chiede al
latifondismo di fare eleggere deputati sempre governativi, gli “ascari”.
Questa chiara analisi del Salvemini era da lui completata dalla critica ai meridionalisti conservatori,
i quali avevano proposto sì dei rimedi, ma non avevano detto “chi rimedierà”, indicando
semplicemente come soggetto agente lo “Stato” nella sua accezione istituzionale generica.
Salvemini afferma che il problema è trovare su quale punto, su quale forza sociale bisognasse
contare per attuare le riforme; il problema è dunque trovare il partito che serva allo scopo e, se non
c’è, crearlo, ed inoltre in tal caso, come crearlo.
Tre sono i momenti fondamentali dell’atteggiamento salveminiano verso il Partito Socialista: quello
in cui pensava ad un’azione anche violenta del partito per mutare le condizioni politiche del paese,
quello dell’agitazione federalista e, infine, il momento della battaglia per il suffragio universale e la
riforma doganale, giudicati come base per trasformare il Mezzogiorno.
Quando alla fine egli uscirà dal partito, che non accettava le sue tesi meridionalistiche, sarà portato
a porre maggiormente l’accento sullo sviluppo autonomo delle masse del meridione. Ma avevano
queste masse realmente la forza di condurre avanti la battaglia per il riscatto del Mezzogiorno al di
fuori dei partiti socialisti? Il suo errore fu quello forse di uscire dal partito senza avere con se
nessuna forza organizzativa nel Sud e la sua illusione fu,dopo, di credere che il Partito Socialista
potesse essere indotto dalla sua azione a mutare le proprie posizioni in ordine alla Questione
Meridionale e imboccare la via della contrapposizione violenta. Dalla fiducia nell’alleanza fra
operai del Nord e contadini del Sud egli passerà alla fiducia esclusiva nelle masse meridionali
fornite finalmente del suffragio universale.
Dal punto di vista della Questione Meridionale questo momento del Salvemini non rappresenta
nulla di nuovo rispetto alle sue posizioni di socialista.
La grandezza del Salvemini è nel fatto che non tradì mai i contadini, anche al prezzo dell’uscita dal
partito che aveva imboccato la via del riformismo turatiano, più attento agli operai del Nord che ai
contadini del Sud.
Malgrado la sterilità politica della fase finale del pensiero di Salvemini, egli influenzò potentemente
Guido Dorso e Antonio Gramsci che sebbene su piani diversi, unirono meridionalismo e rivoluzione
e fecero di questa il volto concreto di quello.
GUIDO DORSO
Di famiglia borghese, di Avellino, Guido Dorso credeva nel mito della rivoluzione. Formatosi
insieme a Gobetti, morirà nel 1947.
Egli vede la radice dei mali italiani nel Risorgimento e nella “conquista piemontese” che uccideva
ogni tensione ideale delle minoranze democratiche. Sulla linea trasformistica egli pone Cavour e poi
Giolitti, accogliendo su quest’ultimo le battaglie e le dure critiche di Salvemini.
Dorso nega al giolittismo la qualifica di “liberale” perché esso trasformò il movimento socialista in
conservatore e alimentò la corruzione e il clientelismo meridionale.
Egli attribuisce l’impotenza rivoluzionaria alla carenza di una classe dirigente che sostituisse la
vecchia e individua, dei tre tronconi del movimento socialista, gli errori peculiari: il socialismo
riformista unitario (che faceva capo a Turati) tutela interessi monarchici, il socialismo massimalista
(la sinistra del partito) mantiene il mito verbale dell’insurrezione, il giovane Partito Comunista (nato
nel 1921) cerca di capire la realtà italiana, ma mantiene al suo interno la contraddizione fra operai e
contadini.
Quanto al Partito Popolare, egli lo giudica conservatore in campo economico, reazionario
ideologicamente, ma utile perché avverso al protezionismo economico e favorevole al
decentramento.
Il fascismo è giudicato dal Dorso un giolittismo più ardito, più violento ed è perciò che gli
industriali vi aderiscono sentendosene garantiti, perché esso comprime il mondo agricolo
meridionale a favore degli interessi industriali. Nel secondo dopoguerra egli avverte che il pericolo
è ancora quello di consentire al neoriformismo di organizzarsi e trionfare, facendo leva sulle
divisioni dei vari gruppi politici.
Ma chi sarà per lui il “principe” del Mezzogiorno, per dirla con Machiavelli? Egli risponde che
deve essere una elìte con le idee chiare e dalla critica spietata, che riannodi il legame con le correnti
libertarie del Risorgimento.
L’autonomismo è utile per far prendere coscienza ai meridionali del proprio stato di passività; esso
potrà anche giungere al regionalismo se questo si dimostrerà utile alla rivoluzione meridionale.
Dorso avverte anche il pericolo del separatismo, che è un tradimento delle possibilità rivoluzionarie.
Nel Partito d’Azione egli vide la forza che poteva esaltare la riscossa meridionale e vi aderì.
La critica che si può fare al dorso è la eccessiva fiducia in quella elìte intellettuale che sarebbe
dovuta nascere dalla borghesia, cioè da una classe oscillante tra suggestioni ideologiche e funzioni
reazionarie e che poi ha, concretamente scelto la via del compromesso.
In definitiva Dorso riprende e approfondisce le idee di Salvemini nel senso che la Questione
Meridionale può essere risolta solo da meridionali guidati dalla piccola borghesia. Solo che questa
piccola borghesia ambedue descrivevano come corrotta e compromessa: come, dunque, essa
avrebbe potuto guidare alla risurrezione del Mezzogiorno?
ANTONIO GRAMSCI
Si è visto che il pericolo sempre tornante era quello del cedimento degli operai del Nord verso un
riformismo capitalistico e antimeridionalistico. Occorreva un nuovo meridionalismo.
Antonio Gramsci ne fu il teorico. Secondo lui, che fu il segretario del Partito Comunista nel 1924, il
superamento della contraddizione Nord-Sud all’interno del movimento proletario può avvenire solo
con il superamento della concezione socialdemocratica del Partito socialista: opponendosi al
riformismo socialista si salderà il movimento operaio del Nord con il movimento contadino del Sud.
Gramsci ha la sua base tecnica nel leninismo, ma non ignora, anzi assimila elementi del pensiero di
Fortunato, Croce e Salvemini. La sua concezione del Risorgimento rifiuta la tesi che Cavour fosse
un’astuta volpe che giocò gli uomini del Partito d’Azione e le loro idee, e afferma invece che se
Cavour e i suoi epigoni si affermarono fu perché personificarono meglio il momento storico e le
condizioni del paese.
Non accetta le analisi di Gobetti e Dorso sulla borghesia perché dice che essi pretendono dalla
propria classe quella politica che essa non può dare, perché la borghesia agisce sulla base dei
rapporti economico-sociali in ci si forma e non sull’onda di una predicazione moralistica.
Gobetti e dorso sono rivoluzionari perché reagiscono alla decadenza della propria classe; Gramsci
pensa invece che la rivoluzione sociale la farà la nuova classe: quella dei ceti che sono oggetto della
dittatura borghese.
Il Risorgimento ha dunque avuto per Gramsci una matrice monarchica e successivamente la politica
italiana è stata caratterizzata dal predominio del ceto borghese. In questo quadro deve collocarsi la
Questione del Mezzogiorno, di questa parte del paese che era stata subordinata alle esigenze dello
sviluppo industriale.
Questa industria del Nord non ebbe capacità e volontà di ampliare la sua sfera di espansione e
rappresentare così una rivoluzione industriale, ma si contentò di mantenere un’egemonia
permanente.
Ne era probabile, per lui, che nascesse al Sud un ceto borghese imprenditore perché qui non era
possibile l’accumulazione del capitale, e neppure quella del risparmio a causa delle tasse, mentre
nessun proprietario meridionale reinvestiva sul luogo i propri profitti.
Per Gramsci il problema è che il proletariato deve creare un insieme di alleanze per mobilitare
contro il capitalismo e lo stato borghese la massa dei lavoratori: in tal modo egli pone l’altro
problema dell’alleanza delle masse contadine.
Salvemini voleva l’alleanza fra operai del Nord e contadini del Sud per creare nel Mezzogiorno una
classe di piccoli proprietari sulle ceneri del latifondismo; Gramsci è d’accordo, ma avverte che il
contadino senza l’uso della tecnica industriale non può sviluppare l’agricoltura.
Nasce allora la necessità che l’industria sia posta al suo servizio; il che vuol dire rafforzare l’operaio
del Nord perché egli vinca la lotta per rovesciare la logica della produzione capitalistica. A questo
punto protagonista della Questione Meridionale diventa l’operaio del Nord che deve superare i
pregiudizi razzistici e indirizzare la lotta verso l’abbattimento del capitalismo.
Il capitalismo aveva creato un blocco “urbano” (industriali e operai) che deteneva l’egemonia e
manteneva nel Mezzogiorno (per mezzo dei governi borghesi di stampo giolittiano) “un mercato di
vendita semicoloniale” e una fonte di risparmio e di imposte, tenendo a freno con gli eccidi i
contadini e con i favori gli intellettuali. L’intellettuale meridionale è per Gramsci l’intermediario fra
la forza contadina e la forza dei proprietari terrieri e ciò avevano capito i governi, ai quali stava a
cuore favorire tale intellettuale per tenere nell’ordine i contadini.
Importante è allora staccare gli intellettuali dal blocco agrario meridionalista e conquistarli alla
causa proletaria; importante è creare intellettuali organici al proletariato. Egli vide in Gobetti
l’intellettuale democratico che più di tutti agì per sbloccare gli intellettuali dal blocco agrario
conservatore e vide in Dorso un tipo di intellettuale meridionale, nuovo, progressista e indipendente.
IL DIBATTITO POLITICO
La persistenza della Questione Meridionale del secondo dopoguerra ha mantenuto vivo, anche se a
intermittenza, il dibattito politico.
Nel secondo dopoguerra la cultura italiana si è riunificata a quella occidentale, in particolare a
quella americana e così si sono diffuse da noi le prime teorie generali dello sviluppo sociale
formulate dalla sociologia anglosassone.
Questa corrente di pensiero ha come massimo esponente il Parsons e afferma che lo sviluppo
economico sociale è un processo tendenzialmente universale, basato sulla industrializzazione e sulla
modernizzazione, per cui le crisi vengono viste nell’ottica del “fenomeno di resistenza che si
oppone da parte delle vecchie strutture alle innovazioni”.
È per questa via che la Questione Meridionale diviene un fenomeno di “dualismo” della struttura
socio-economica italiana: un Nord avanzato ed un Sud arretrato.
Ne deriva che, superando gli ostacoli al processo di penetrazione dello sviluppo industriale nell’area
arretrata, la questione dovrebbe trovare la sua soluzione.
A questa tesi se ne è contrapposta un’altra che insiste invece sulla unicità del meccanismo di
sottosviluppo che è alla base sia dello sviluppo del Nord che del sottosviluppo del Sud. Questa tesi
deriva dalle elaborazioni dell’economista statunitense Gunder Frank ed in generale dai neo-marxisti
americani Baran e Sweezy. In parole povere si afferma (ma l’aveva fatto Ettore Ciccotti tanti
decenni prima) che la situazione di sottosviluppo del Sud è il prodotto dello sviluppo capitalistico
del paese e la Questione si risolverà con una rivoluzione socialista.
Questa tesi ha trovato molti critici che invece hanno sottolineato il ruolo essenziale che possono
avere i fattori endogeni nei processi di mutamento.
Altri, come il Bonazzi, ha ricordato che il Sud fa parte dello Stato da oltre un secolo e che la classe
politica meridionale ha avuto preminenza nel sistema politico nazionale, mentre c’è stata la
meridionalizzazione della pubblica amministrazione. Dunque non tutte le colpe sono da addebitare
al capitalismo.
Il dibattito, allora, più concretamente, deve incentrarsi sulla esigenza di chiarire se il considerare la
Questione un prodotto diretto del capitalismo debba portare a trascurare l’importanza dell’azione
politica a breve termine e dentro il quadro politico-istituzionale vigente.
La risposta ci sembra debba essere negativa.
I PROBLEMI DELLA SOCIETÀ MERIDIONALE
Nell’ambito della nostra ricostruzione del dibattito attuale sulla Questione Meridionale, abbiamo a
sufficienza illustrato il pensiero dei meridionalisti dei nostri giorni, con in testa Pasquale Saraceno,
per il quale la linea vincente non può che essere quella di un “meccanismo di sviluppo meridionale
auto-propulsivo ed autonomo”:
1. La Questione Meridionale diviene questione nazionale
2. C’è la necessità di un intervento globale e programmato.
Le difficoltà che questa linea ha incontrato nella realtà, le abbiamo già indicate e sono ben presenti
nel dibattito sul nuovo meridionalismo: la crisi dell’industria al Nord impone una attenta analisi dei
legami economici internazionali e della posizione dell’Italia nel processo di divisione internazionale
del lavoro; la politica di industrializzazione al Sud non ha colto quei successi che si speravano, ma
ha solo creato isole industriali scollegate dal resto del territorio meridionale.
Nell’ultimo cinquantennio la redistribuzione delle aree e la riforma agraria hanno modificato
l’assetto sociale delle campagne, facendo nascere sulle ceneri del latifondo una classe di piccoli
proprietari, distinta da quella dei braccianti. Smobilitava così il potenziale politico delle masse
contadine, sul quale tanto contava Gaetano Salvemini.
Si frammenta però anche la classe operaia meridionale che non potendo trovare sbocco
occupazionale nella sola industria, si dirige verso l’emigrazione, il settore terziario sempre più in
aumento, o la disoccupazione e la cassa integrazione. Ciò si traduce sul piano tradizionale
economico in un divario crescente tra i processi di industrializzazione e quelli di urbanizzazione:
crescono le attività nelle città, cala il ruolo della fabbrica. Nascono così i problemi delle grandi aree
urbane degradate.
Nata così una classe nuova di produttori, formata da operai e addetti al terziario, svanita la forza
contadina, ne deriva un adeguamento dei partiti e degli stessi sindacati alle esigenze delle nuove
figure produttive.
In tale situazione la Questione Meridionale può trovare una soluzione solo se lo Stato sappia essere,
per ragioni economiche e civili, il primo imprenditore e organizzatore della politica dell’intervento
straordinario, la istanza di efficiente mediazione tra gli interessi dei vari gruppi sociali,
l’aggregatore di un nuovo blocco di potere democratico.
L’attuale struttura di potere e costituita in generale da una coalizione tra il settore moderno
dell’economia, gli apparati politico-amministrativi ed i nuovi ceti urbani saldamente ancorati al
settore del commercio e della pubblica amministrazione. Da aggiungere a questo nuovo blocco lo
strato dei professionisti che sono richiesti dal nuovo sviluppo economico ed i gruppi di intellettuali
subalterni al potere politico.
Per queste ragioni il Meridione ha svolto un ruolo, negli ultimi decenni, che è stato funzionale alla
stabilità del sistema politico nazionale.
Finché, dunque, nel Meridione non si prenderà coscienza della necessità di un ruolo diverso delle
proprie potenzialità umane, le cose continueranno ad andare come sempre sono andate.
Ancora una volta, ed a conferma delle maturazioni più valide del pensiero meridionalista, la chiave
che apre al Sud la porta dei tempi moderni si trova proprio nel Sud ed ha ragione, ci pare, Salvemini
quando afferma che “… Non si caverà un ragno dal buco finché nel Mezzogiorno stesso non si
determina un movimento energico, costante, organico …”.
BIBLIOGRAFIA
-Massimo Luigi Salvadori, Il mito del buongoverno, La Questione Meridionale da
Cavour a Gramsci, Torino, 1960.
-Gaetano Salvemini, Scritti sulla Questione Meridionale.
-Antonio Gramsci, La Questione Meridionale, Roma, 1966.
-AA.VV. , Mezzogiorno, questione aperta, Bari, 1975.
-Bruno Caizzi, Nuova antologia della Questione Meridionale, Milano, 1962.
-Carlo Guarnieri, voce “Questione Meridionale”, in DIZIONARIO DI POLITICA di
Bobbio e Matteucci, Torino, 1976.
-Luciano Barca, voce “Questione Meridionale”, in DIZIONARIO DI POLITICA
ECONOMICA, Roma, 1979.
-Rosario Villari, Il Sud nella storia d’Italia, Antologia della Questione Meridionale,
Bari, 1975.
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