2.2 l'organizzazione come macchina: il paradigma classico · l'organizzazione scientifica...

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19014 Economia del lavoro A.A. 2007/2008 Prof. A. Gaj Pagina 1 di 28 Lezione 2: Mercati interni del lavoro e organizzazione 2.2 L'organizzazione come macchina: il paradigma classico L'organizzazione ha assunto un ruolo come disciplina scientifica e come fonte di indicazioni per la prassi delle aziende, offrendo prima di tutto un contributo all'efficienza dei processi produttivi e amministrativi e promuovendo un pieno conseguimento dei vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro. Nell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento i criteri di efficiente organizzazione del lavoro si sono affermati in parallelo agli sviluppi dell'industria e ai grandi incrementi di produttività ottenuti attraverso la meccanizzazione dei processi. È quindi naturale che la macchina è diventata il riferimento concettuale di fondo assunto anche dalle teorie organizzative: ricondurre l'impiego del lavoro umano a sequenze di attività preordinate e programmate in modo da massimizzarne il rendimento, è divenuta la leva fondamentale per ottenere nei sistemi industriali spettacolari guadagni di efficienza, produttività, affidabilità dei risultati. Il paradigma meccanico dell'organizzazione si è quindi costruito e consolidato sui seguenti presupposti: 1. metafora di riferimento che riconduce alla razionalità ed efficienza della macchina di derivazione industriale, o anche delle strutture militari; 2. definizione di confini netti e ben presidiati dell'organizzazione rispetto alla realtà esterna ed anche, al suo interno, tra le componenti o unità che si sviluppano in linea verticale (gerarchia) e orizzontale (articolazione di funzioni e compiti ben delineati); 3. ricerca di condizioni di stabilità, sicurezza, ripetitività come fattori fondamentali per l'efficienza dei processi produttivi. A questo comune orizzonte di riferimento, che configura il paradigma classico o tradizionale dell'organizzazione, si possono ricondurre i contributi di Taylor e Weber, basilari per i successivi sviluppi delle teorie organizzative.

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19014 Economia del lavoro A.A. 2007/2008

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Lezione 2: Mercati interni del lavoro e organizzazione

2.2 L'organizzazione come macchina: il paradigma classico L'organizzazione ha assunto un ruolo come disciplina scientifica e come fonte di

indicazioni per la prassi delle aziende, offrendo prima di tutto un contributo

all'efficienza dei processi produttivi e amministrativi e promuovendo un pieno

conseguimento dei vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro.

Nell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento i criteri di efficiente

organizzazione del lavoro si sono affermati in parallelo agli sviluppi

dell'industria e ai grandi incrementi di produttività ottenuti attraverso la

meccanizzazione dei processi.

È quindi naturale che la macchina è diventata il riferimento concettuale di

fondo assunto anche dalle teorie organizzative: ricondurre l'impiego del lavoro

umano a sequenze di attività preordinate e programmate in modo da

massimizzarne il rendimento, è divenuta la leva fondamentale per ottenere nei

sistemi industriali spettacolari guadagni di efficienza, produttività, affidabilità

dei risultati.

Il paradigma meccanico dell'organizzazione si è quindi costruito e consolidato

sui seguenti presupposti:

1. metafora di riferimento che riconduce alla razionalità ed efficienza della

macchina di derivazione industriale, o anche delle strutture militari;

2. definizione di confini netti e ben presidiati dell'organizzazione rispetto

alla realtà esterna ed anche, al suo interno, tra le componenti o unità che

si sviluppano in linea verticale (gerarchia) e orizzontale (articolazione di

funzioni e compiti ben delineati);

3. ricerca di condizioni di stabilità, sicurezza, ripetitività come fattori

fondamentali per l'efficienza dei processi produttivi.

A questo comune orizzonte di riferimento, che configura il paradigma classico o

tradizionale dell'organizzazione, si possono ricondurre i contributi di Taylor e

Weber, basilari per i successivi sviluppi delle teorie organizzative.

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2.2.1 Taylor e l'organizzazione scientifica del lavoro

L'ingegnere americano Frederick Winslow Taylor (1856-1915) fu il principale

promotore della organizzazione scientifica del lavoro o scientific management,

attraverso una intensa attività nell'industria come tecnico, consulente,

formatore e diffusore dell'applicazione dei metodi e delle tecniche da lui

direttamente elaborati e sperimentati. Il "taylorismo" continuò e si diffuse,

dopo la morte di Taylor, come movimento orientato a influenzare la prassi

organizzativa delle aziende ed aumentò il suo impatto anche attraverso l'azione

di Henry Ford che fece dell'innovazione organizzativa secondo criteri tayloristi

una delle leve fondamentali di espansione e successo della sua impresa

automobilistica. Il "fordismo" diventò lo sviluppo naturale del taylorismo anche

attraverso la propria capacità di integrare il nucleo originario di concetti e

metodologie e soprattutto di indurre processi imitativi su larga scala,

nell'industria americana ed europea.

Il principio fondamentale dell'organizzazione scientifica del lavoro consiste nella

ricerca di massimizzazione dell'efficienza produttiva attraverso la leva della

divisione del lavoro, spinta a livelli molto accentuati in base a uno studio

attento e analitico delle operazioni elementari attuate dai lavoratori, dei metodi

e degli strumenti impiegati e dei tempi di svolgimento. L'essenza del metodo

taylorista consiste nell'attenzione rivolta alle modalità operative impiegate

dagli operai di maggiore rendimento e capacità (di prim'ordine") e nella

successiva azione di codifca e standardizzazione rivolta a diffondere e

generalizzare metodi e procedure rivelatisi più efficienti (Grandori, 1995).

L'organizzazione scientifica comporta quindi una scissione tra l'attività di coloro

che progettano e definiscono l'organizzazione del lavoro, come gli ingegneri

specialisti di "tempi e metodi" e quella degli operatori chiamati a conformarsi il

più attentamente possibile alle istruzioni ricevute. Come avviene per una

macchina, l'organizzazione deve rispondere a un progetto, dalla cui bontà di

impostazione e fedeltà di esecuzione discende la validità del risultato.

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Il taylorismo si impernia, oltre che su criteri tecnici, anche su un ragionamento

economico e in qualche misura sociale; si assume che le imprese che adottino

correttamente i nuovi metodi dispongano di un vantaggio competitivo, come si

direbbe oggi; possano conseguire quindi migliori risultati economici in seguito a

risparmi di costi e realizzazione

di produzioni tecnicamente più valide. Se queste imprese avranno la

lungimiranza di destinare una quota di queste risorse all'incremento dei salari

dei lavoratori, si realizzerà un circolo virtuoso che vedrà gli operai sempre più

convinti del loro interesse a conformarsi alle prescrizioni dell'organizzazione

scientifica e quest'ultima sempre più legittimata agli occhi di tutti i

protagonisti, imprenditori, azionisti, manager, tecnici, lavoratori, come fonte di

sviluppo e di benessere diffuso.

A ben vedere, quindi, la visione taylorista dell'organizzazione possiede la

qualità di un progetto complessivo, tecnico, economico e sociale (Volpato,

1978). Mentre molti imprenditori, manager e tecnologi ne applicheranno

pragmaticamente metodi e tecniche in modo anche riduttivo e parziale, senza

coglierne lo spirito di globalità, Taylor stesso ebbe modo più volte di

sottolineare come la sua impostazione non si possa identificare con i diversi

elementi utilizzati nella razionalizzazione industriale, come il cottimo o la

misurazione dei tempi, ma configuri una «completa rivoluzione mentale»,

come affermò durante la sua deposizione davanti alla commissione speciale

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d'inchiesta della Camera dei deputati (De Masi, 1992; Taylor, 1962; Volpato,

1978).

Tra le spinte che determinarono il successo pratico dello scientific management

c'è anche certamente quella collegata all'emergere di un nuovo ceto di tecnici e

di specialisti, che cominciavano in quegli anni a formare e ad animare quella

componente del sistema organizzativo che denominato tecnostruttura e che

costituisce appunto l'elemento critico delle forme organizzative ispirate al

modello meccanico. Qiueste figure di tecnocrati, si presentavano come

portatori nelle aziende di criteri scientifici autonomi rispetto al potere aziendale

ed ambivano anche ad agire come risolutori dei conflitti industriali, mediando

tra gli interessi del capitale e quelli del lavoro, in nome di un livello superiore di

razionalità che consentiva di combinare e soddisfare a un livello più alto

interessi altrimenti destinati a confliggere.

2.2.2 Weber e il modello della burocrazia

La figura di Max Weber (1864-1920), sociologo e politologo tedesco, ha

assunto un ruolo di riferimento primario per il secondo importante filone che

confluisce nel paradigma classico o tradizionale di organizzazione e che si può

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identificare con la configurazione del modello, o idealtipo nel linguaggio

weberiano, della burocrazia.

L'analisi di Weber è contestuale nel tempo a quella di Taylor, ma è maturata in

un ambiente culturale e di relazioni del tutto diverso, quello della nascente

scienza sociale europea, anziché dell'industria americana. E il metodo di Weber

è diverso, non l'analisi minuta secondo canoni positivistici delle situazioni

organizzative, ma l'elaborazione di tipi ideali, o puri, derivati dall'osservazione

dei fenomeni storici attraverso un processo di astrazione, e la loro proposizione

come modelli di riferimento per la conoscenza della realtà e per l'azione. Anche

l'ambito di applicazione è diverso; non la sola industria, come per Taylor, ma in

primo luogo l'organizzazione degli apparati amministrativi, degli stati, delle

istituzioni e delle stesse imprese.

Per Weber la burocrazia è un tipo ideale di organizzazione, una forma razionale

per l'esercizio di un'autorità legalmente legittimata, che consegue gli obiettivi

per cui è posta in atto attraverso la corretta individuazione di sottosistemi

denominati "uffici" (cfr. Grandori, 1995; Morgan, 1986; Isotta, 1996).

Le qualità fondamentali che caratterizzano il modello burocratico di

organizzazione-song quindi:

- la spersonalizzazione, che comporta che la competenza di decidere e agire sia

affidata a uffici e posizioni, non alle persone come tali; in questo senso la

rilevanza storica della burocrazia come grande innovazione sociale consiste nel

liberare le oranizzazioni dall'uso personalistico e arbitrario del potere e dalla

confusione inerente il patrimonio personale e le risorse organizzative che

caratterizzava storicamente il unzionamento delle istituzioni politiche e anche

produttive;

- l'orientamento strumentale ai fini, in base a cui ci si attende che ogni assetto

burocratico risponda lealmente e prontamente agli scopi ufficiali definiti

nell'ambito istituzionale pertinente;

- la specializzazione, che comporta la suddivisione e attribuzione cli compiti e

responsabilità in base a requisiti di competenza e capacità professionale,

concetto che richiama la spinta alla divisione del lavoro propria del taylorismo;

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- la gerarchia, ossia l'esistenza di un ordine gerarchico tra uffici che equilibra il

criterio di specializzazione in modo da combinare la ricerca di razionalità con

l'esigenza di mantenere il controllo d'insieme e non frammentare troppo la

responsabilità;

- la formalizzazione, principio secondo cui la condotta degli uffici si deve

fondare su documenti formali, da conservare a testimonianza dell'azione svolta

dalle amministrazioni;

- l'oggettività, neutralità, trasparenza; ulteriori criteri che escludono

concessioni all'arbitrarietà dei singoli, ma prevedono che le azioni si ispirino a

regole generali (oggettività e conformità); stabiliscono che il funzionario non si

può schierare con le parti in gioco, ma deve trattare tutti secondo le stesse

regole (neutralità) e che tutti devono poter conoscere le regole generali che

ispirano la burocrazia (trasparenza).

Precisione, rapidità, non ambiguità, unità, rigorosa subordinazione, riduzione

degli attriti e dei costi materiali e umani: tutto questo viene elevato al punto

ottimale nell'amministrazione strettamente burocratica, in special modo nella

sua forma monocratica.

2.3 La critica del paradigma classico

Il paradigma meccanico ha costituito per lungo tempo la visione dominante dei

fenomeni organizzativi, sia nell'ambito teorico che nel "comune pensare" degli

operatori aziendali; e mantiene del resto ancor oggi una notevole presa,

riscontrabile anche nel linguaggio corrente nella diffusione del termine

"macchina" per indicare un'organizzazione complessa.

Tuttavia i limiti di questa concezione furono ben presto avvertiti da alcuni

studiosi, che svilupparono già prima della seconda guerra mondiale una serie

di critiche abbastanza incisive. Meritano attenzione in particolare due distinti

approcci, riferibili:

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- al movimento delle human relations, sviluppatosi negli Stati Uniti fin dagli

anni venti;

- agli studi sociologici sui limiti della burocrazia.

Le relazioni umane costituiscono un movimento, sorto in America negli anni

venti, sulla scia di esperimenti e interventi in imprese, condotto in prevalenza

da psicologi. Elton Mayo fu la figura più rappresentativa, cui si deve il famoso

esperimento, da cui scaturì la comprensione dell'effetto Hawthorne (dal nome

della fabbrica in cui fu condotto): la produttività dei lavoratori che

partecipavano all'esperimento aumentò per il solo fatto di essere oggetto di

attenzione. E si capì così che variabili diverse dalla razionale progettazione del

lavoro potevano influire sui risultati di un'attività. Anna Grandori ha

sintetizzato così gli assunti fondamentali delle human relations:

1. livelli elevati di produttività sono correlati (e causati da) livelli elevati di

soddisfazione delle persone;

2. i comportamenti dei capi influenzano i comportamenti dei dipendenti e la

loro soddisfazione;

3. la maggior parte dei conflitti si può risolvere efficacemente attraverso la

comunicazione tra le parti;

4. un lavoro in sè più interessante, meno specializzato, più ricco di

responsabilità e autonomia produce maggior soddisfazione e maggior

produttività (Grandori, 1995).

Questa impostazione aveva un limite scoperto nel basarsi su postulati

universali riguardo alle preferenze dei lavoratori rispetto al loro lavoro: si

riteneva in pratica che autonomia, responsabilità, impegno fossero preferiti e

preferibili in ogni contesto sociale, configurando una sorta di ideologia

dell'umanesimo organizzativo. Ma le human relations ebbero l'indubbio merito

di iniziare a scalfire le rigide certezze del taylorismo.

Altrettanto rilievo hanno assunto, sul versante invece della critica della

versione weberiana della teoria classica, i lavori di alcuni sociologi, come

Merton, Selznick, Gouldner e più tardi Crozier, che partirono dall'analisi

empirica di situazioni organizzative per constatare che l'applicazione puntuale

dei canoni del modello burocratico non sempre sortiva gli effetti positivi che la

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teoria di Weber sembrava garantire. Emersero così le disfunzioni e gli effetti

non previsti e non voluti della burocrazia, deviazioni dalla pretesa razionalità

del modello evidenti in fenomeni come:

1. la trasposizione dei fini;

2. l'influenza di interessi particolari e l'inerzia;

3. l'incompletezza intrinseca delle regole formali.

In pratica si veniva a mostrare che l'utilizzo del modello meccanico come

strumento basilare per il controllo delle dinamiche organizzative, produceva

facilmente, oltre agli effetti previsti dalla teoria della burocrazia, anche una

serie di conseguenze inaspettate e impreviste, in genere disfunzionali per il

raggiungimento degli scopi ufficiali o istituzionali.

Inoltre, fino a che il modo di concepire l'organizzazione resta interno alla logica

meccanica, sia le conseguenze previste che quelle impreviste e indesiderate

hanno l'effetto di rafforzare le caratteristiche inerenti al modello. Di qui il

circolo vizioso che blocca l'organizzazione impedendole un adattamento senza

traumi alle richieste emergenti.

Si tratta di una lezione importante, purtroppo non ancora divenuta

consapevolezza comune, soprattutto in contesti culturali dominati dal

riferimento alle regole formali, come accade nella pubblica amministrazione,

ma non solo in questa.

Il classico circolo vizioso della burocrazia, in termini aggiornati che consentono

di riferirlo anche ai tentativi recenti di riforma degli istituti pubblici per via

legislativa e regolamentare (cfr. in merito Rebora, 1983; Borgonovi, 1996).

La concezione di assetto organizzativo come "macchina", il cui funzionamento

è dominabile attraverso la regolamentazione formale, induce a ricercare

l'equità e l'affidabilità del funzionamento delle istituzioni nella formalizzazione

di procedure.

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Questo da un lato risponde all'esigenza dei funzionari di poter difendere e

giustificare il loro operato di fronte a possibili contestazioni e si rivela quindi

uno strumento capace di rinforzare le ragioni che portano alla propria

adozione.

Per altro verso, la codificazione di regolamenti e procedure formali, concepita

come unico o centrale strumento di modifica dell'organizzazione, finisce per

rendere rigido il comportamento dei funzionari stessi, stimolando un

atteggiamento difensivo e rituale di fronte agli imprevisti, o alle sollecitazioni di

utenti o clienti dei servizi.

Se poi il contesto nel quale si colloca l'azione amministrativa non è stabile e

comporta tensioni, urgenze, o comunque stimoli al cambiamento (per fattori di

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provenienza sia esterna che interna all'organizzazione), si accentuano molto gli

effetti negativi dei comportamenti rigidi, rituali e conformi alle procedure

formali. Ne derivano livelli bassi, o calanti, di funzionalità, risposta ai bisogni,

soddisfazione delle istanze sociali e degli utenti, insieme al cumularsi di

problemi irrisolti e all'aprirsi di spazi per l'azione clientelare di politici e

funzionari che, in un contesto confuso, possono gestire l'incertezza che si crea

in chiave di accrescimento del proprio potere e di collusione con interessi

esterni. Ma proprio la conseguente insoddisfazione dei destinatari dei servizi,

con l'emergere di scandali e sperequazioni finisce per rilanciare l'originaria

istanza di controllo della situazione mediante strumenti formali come

regolamenti e procedure.

Alla fine, le difficoltà comuni e i limiti degli approcci meccanicistici

all'organizzazione o, se si preferisce, della visione dell'organizzazione come

macchina, possono essere così sintetizzati (cfr. Morgan, 1986):

1. danno luogo a forme organizzative che incontrano resistenza quando si

tratta di adattarsi a un ambiente mutevole,

2. favoriscono lo sviluppo di comportamenti rituali e chiusi all'interazione;

3. sono esposti ad effetti non previsti e non desiderati;

4. comportano effetti disumanizzanti sui dipendenti.

2.4 L'organizzazione come organismo vivente e come sistema

I critici delle concezioni classiche e meccaniche dell'organizzazione hanno reso

evidente un aspetto che oggi può sembrarci ovvio e scontato, ma che non era

tale allora e ancora continua a essere trascurato in molte realtà aziendali: le

persone portano all'interno delle situazioni organizzative i propri sentimenti,

bisogni e interessi. E quindi analisi e progettazioni basate soltanto su fattori

tecnici ed economici, sono esposte a sottovalutare l'impatto delle variabili

individuali e sociali che può a essere molto potente sui risultati di progetti e

interventi.

La critica del modello meccanico non ha prodotto immediatamente un modello

concettuale alternativo, che le aziende potessero assumere come riferimento

per le loro scelte organizzative; ha però aperto una prospettiva di ricerca in

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questo senso, che è stata poi seguita da molti studiosi, ricercatori e uomini

d'azienda, anche attraverso impostazioni culturali e metodologiche molto

diverse tra loro.

È così finita per emergere una visione dell'organizzazione che si è contrapposta

a quella meccanica, ed è riconducibile anch'essa a un'immagine, o a una

metafora fondamentale: quella dell'organismo vivente.

Sono molto articolati e numerosi i filoni che assimilano, in modo più o meno

esplicito, il funzionamento dell'organizzazione aziendale a quello di un

organismo, o di un sistema vivente. Tra l'altro, ci si può riferire a:

1. le teorie sulla motivazione e lo stile di direzione;

2. l'approccio del sistema socio-tecnico;

3. la concezione dell'organizzazione come sistema aperto.

Un primo passo nella prospettiva organica è avvenuto sviluppando i concetti

ereditati dalle human relations; si è così affermata l'idea che si dovesse cercare

di integrare i bisogni degli individui con le esigenze organizzative derivanti

dagli obiettivi aziendali e dai fattori tecnologici.

Le ricerche sulla motivazione al lavoro hanno dato importanti contributi in

questo senso e orientato alla progettazione di assetti organizzativi che

permettessero di aumentare contestualmente la produttività e la soddisfazione

sul lavoro, attraverso il miglioramento della qualità del lavoro, l'arricchimento

delle mansioni, la diffusione di uno stile di direzione orientato a favorire la

partecipazione e il coinvolgimento degli operatori.

Si è prodotta così la "svolta sistemica" nell'evoluzione del pensiero

organizzativo, con l'analisi dell'organizzazione come sistema socio-tecnico:

l'aspetto tecnico e quello umano sono strettamente interdipendenti, si

influenzano sempre reciprocamente. Ogni intervento sull'organizzazione deve

quindi basarsi su un'analisi contestuale e sistemica dei due ordini di fenomeni.

Da questa consapevolezza all'affermazione della teoria del sistema aperto il

passo è breve: infatti tutti i sistemi organici si trovano in uno stato di continuo

interscambio con l'ambiente. Le organizzazioni, al pari degli organismi, sono

aperte al loro ambiente di riferimento e devono stabilire un rapporto adeguato

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con esso se vogliono sopravvivere. L'ambiente e il sistema si trovano in un

rapporto di interazione e interdipendenza reciproca.

Dalla visione organica emergono quindi altri concetti rilevanti, come

l'identificazione di un ciclo vitale dell'organizzazione che prevede diverse fasi di

vita e di sviluppo, come l'attenzione per le condizioni di sopravvivenza, di

benessere e di fisiologica crescita, come la configurazione di una sorta di

equilibrio ecologico estendibile dalle popolazioni di esseri viventi alle

popolazioni di organizzazioni.

2.5 L'approccio contingente

L'affermazione della visione organica sistemica ha avuto anche il merito di

diffondere la consapevolezza che non esiste un modo unico e migliore in

assoluto per risolvere i problemi organizzativi delle aziende e che sono possibili

approcci differenti, dei quali conviene valutare e confrontare i risultati senza

apriorismi.

Si è quindi fatto strada il tentativo di operare una sintesi, che tenesse conto

degli apporti conoscitivi sviluppati, sia nel solco tracciato dall'approccio

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classico, sia seguendo la prospettiva organica. È questa l'ambizione degli

studiosi che, negli anni sessanta, producono il filone delle cosiddette “teorie

contingenti”: la contrapposizione tra i due paradigmi è stata troppo accentuata

e ideologlzzata; in realtà ciascuno di essi può trovare una corretta

applicazione, in quei casi e quelle situazioni che presentano caratteristiche

coerenti con i suoi assunti di fondo (Lawrence, Lorsch, 1967).

Così sistema organico e sistema meccanico divengono gli estremi di un

continuum di soluzioni organizzative, che si adattano rispettivamente a un

contesto di cambiamento e a un contesto di stabilità.

Il passaggio dalle concezioni universali alle concezioni contingenti è anche

frutto dell'affinamento delle analisi organizzative e dell'adattamento alla

crescente differenziazione delle realtà indagate.

In questa prospettiva, l'efficienza dell'impresa dipende dalla coerenza e

consonanza tra configurazione dell'ambiente e configurazione organizzativa.

Infatti, le ricerche condotte da studiosi appartenenti a questo filone teorico,

attraverso l'esame e il confronto delle caratteristiche organizzative e degli

andamenti economici e finanziari di vasti campioni di aziende, hanno portato a

concludere che il grado di cambiamento e di complessità ambientale influenza

il disegno della struttura organizzativa e dei meccanismi di controllo e

coordinamento in modo da realizzare sostanziali uniformità, verificabili in

particolare tra quelle imprese che hanno goduto di risultati soddisfacenti.

La varie versioni di tale approccio hanno quindi in comune l'assunzione che le

imprese efficienti si adattano all'ambiente rispondendo con l'organizzazione ai

requisiti posti sia dal clima competitivo (problema competitivo dominante) che,

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più in generale, da quello dei rapporti con le forze rilevanti per la propria

riuscita e sopravvivenza (Lawrence, Lorsch, 1967; Thompson, 1967; cfr. anche

per un'analisi più ampia di questa impostazione Rebora, 1976; 1981).

Notevole rilievo si attribuisce in particolare alla correlazione diretta tra grado di

incertezza dell'ambiente e grado di flessibilità della struttura organizzativa.

Un apporto importante di questa corrente di studi è anche una più precisa

caratterizzazione del concetto di ambiente (troppo spesso definito in termini

residuali) attraverso la distinzione tra general environment e task environment

(Thompson, 1967).

Quest'ultimo è costituito dalle forze ambientali specifiche che hanno incidenza

sul processo decisionale d'impresa, e sono al di fuori della sua capacità di

controllo diretto.

Tra le variabili del task environment vengono inclusi anche fattori che sono

almeno parzialmente sotto il controllo dell'azienda, o costituiscono aspetti della

sua gestione, come le tecnologie adottate e le caratteristiche tecniche dello

svolgimento dei compiti.

La tecnologia, in particolare, svolge un ruolo importante nelle analisi che

seguono l'approccio contingente. Si segnala al proposito per la sua utilità

anche operativa la classica analisi di Perrow sulle differenti implicazioni

organizzative del tipo di tecnologia impiegata nell'ambito di unità di lavoro

omogenee (Perrow, 1967, 1970). I concreti compiti lavorativi derivanti da una

tecnologia vengono analizzati secondo due dimensioni: la variabilità dei

compiti, come numero di eccezioni rispetto alle procedure standard che

derivano normalmente dalla tecnologia impiegata; e l'analizzabilità dei compiti,

intesa come possibilità di dominare concettualmente e predefinire le modalità

operative. In questo modo le diverse tecnologie possono essere classificate

distinguendo quattro diverse situazioni.

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1. Le tecnologie di routine, per le quali i compiti hanno bassa variabilità ed

elevata analizzabilità. E il caso tipico della produzione industriale di

massa, esemplificata dalla catena di montaggio.

2. Le tecnologie artigianali, per le quali esiste bassa variabilità e bassa

analizzabilità. Tipicamente l'artigiano svolge un lavoro senza frequenti

scostamenti dalle procedure standard; ma quando emerge un problema

le modalità operative per farvi fronte non sono in genere predefinibili.

L'abilità dell'artigiano consiste appunto nell'intervenire con la propria

esperienza, intuizione e creatività.

3. Le tecnologie ingegneristiche caratterizzano contesti di alta variabilità ed

alta analizzabilità. Sono situazioni complesse dove occorre uscire

continuamente dalle pratiche standard e affrontare eccezioni, che però

sono riconducibili a soluzioni note, già analizzate e per le quali si tratta

solo di applicare l’intervento appropriato. E quanto avviene nel caso dei

contabili, o dei tecnici che fanno analisi di laboratorio.

4. Le tecnologie non di routine, per le quali si verifica alta variabilità e

bassa analizzabilità. In questo caso gli addetti devono risolvere problemi

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e affrontare incertezza di continuo, come può avvenire per un pronto

soccorso, o ancor più in un laboratorio di ricerca.

Le due situazioni estreme delle tecnologie di routine, o non di routine, sono

quindi rispettivamente coerenti con un assetto organizzativo meccanico nel

primo caso e organico nel secondo. Mentre le tecnologie artigianali ed

ingegneristiche si collocano in uno spazio intermedio sul continuum meccanico-

organico già esaminato. Le scelte organizzative devono così riflettere il tipo di

tecnologia specificamente adottata.

2.6 Gli sviluppi di nuove visioni dell'organizzazione

Come tutti gli approfondimenti conoscitivi che si basano su analogie o

metafore, che rimandano a realtà distanti dall'oggetto di attenzione, anche la

visione organica manifesta limiti e insufficienze. Tra i punti critici più

diffusamente rilevati possiamo richiamare:

1. il fatto di assumere una eccessiva dipendenza dell'organizzazione dalle

condizioni esterne o ambientali;

2. l'insufficiente attenzione per la dialettica interna all'organizzazione e le

problematiche del potere;

3. la considerazione dell'individuo ancora troppo subordinata al sistema

organizzativo.

A sua volta, l'accostamento contingente di paradigmi diversi non ha potuto

risolvere e superare le carenze dei modelli di riferimento che combinava ed ha

attirato critiche per l'eccessiva presunzione nel combinare assunti

contraddittori.

Ormai occorre avere consapevolezza che le lenti attraverso le quali possiamo

cercare di comprendere i fenomeni organizzativi sono molteplici; oltre le due

principali che abbiamo considerato, diverse altre immagini dell'organizzazione

possono fondare altrettante prospettive (Morgan, 1986) Almeno quattro di

queste visioni presentano significativi risvolti per l'attuale realtà:

1. l'organizzazione come sistema che apprende, assimilata al cervello

umano: il cervello ''«presenta la meravigliosa capacità di organizzarsi e

riorganizzarsi in modo da affrontare i cambiamenti ambientali» (Morgan,

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1986). Elaborando le informazioni e governando i processi di

apprendimento, il sistema genera un'elevata flessibilità interna che gli

consente di auto-organizzarsi continuamente;

2. l'organizzazione in quanto sistema politico, ambito di esercizio di una

capacità di governo fondata sull'attivazione del consenso e sulla gestione

dei rapporti di forza tra i diversi soggetti. L'attenzione si focalizza così

sulle dinamiche degli interessi, delle alleanze, del conflitto e del potere;

3. l'organizzazione in quanto cultura, identificata da un insieme di valori,

credenze, assunti, schemi di significato, che vengono condivisi dai suoi

membri e generano coesione sociale e senso di appartenenza. In questa

prospettiva, ci si focalizza sui diversi aspetti della vita organizzativa che

esprimono e comunicano significati socialmente condivisi, come i simboli,

i racconti, i miti, il ruolo svolto dai leader nel proporre e diffondere valori

(Scheín, 1990);

4. l'organizzazione come sistema che si autoriproduce, inserito in una

corrente di cambiamento, di flusso e divenire incessante. In questo caso

si pone l'accento sul fatto che la stabilità e lo sviluppo di un sistema si

realizzano attraverso la capacità di gestire un flusso continuo di eventi

che cambiano continuamente. Il sistema maniene la sua identità facendo

evolvere continuamente anche il proprio stato attraverso processi definiti

come auto-poietici (Maturana, Varela, 1988).

In effetti, l'ultimo ventennio di studi organizzativi mette in luce una grande

ricchezza di sviluppi e di contributi, riconducibili in parte alle visioni indicate.

Molti di questi hanno assunto particolare rilievo nel condurre al superamento

degli eccessi indotti dall'approccio contingente, dalle sue applicazioni troppo

ingenue o marcatamente relativiste, e soprattutto nell'integrare la visione

sistemica e nel correggerne alcune limitazioni.

Non si può dire, quindi, che i nuovi approcci abbiano prodotto un paradigma

capace di divenire un generale punto di riferimento, come è stato in passato

per i modelli classici e per la concezione sistemica. Questo tende anzi ad

essere escluso, proprio come obiettivo programmatico, da molte delle correnti

di ricerca emergenti. I nuovi apporti più significativi hanno oltretutto

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interessato per lo più questioni e problemi particolari e si sono valsi di

contributi disciplinari molto diversificati.

E vero anche che buona parte di questi approfondimenti si prestano molto

bene all'inserimento come complementi della teoria del sistema aperto, o come

sue integrazioni di fronte a problemi specifici; quest'ultima, quando si sappia

utilizzarne gli assunti con attitudine critica e consapevolezza dei limiti, resta la

base concettuale fondamentale per orientare íl lavoro sulle organizzazioni.

Gioca a suo favore la grande capacità di adattamento e flessibilità, che

consente di recepire utilmente molti dei nuovi apporti, sul versante in

particolare dell'analisi dei processi di apprendimento e innovazione, dei

fenomeni culturali e di quanto attiene al conflitto e alla gestione del potere.

2.7 La lettura sistemica Chiunque è chiamato a esercitare responsabilità nell'ambito di organizzazioni

complesse, come un dirigente d'impresa, un amministratore pubblico, un

professionista, un sindacalista, ha l'esigenza di leggere le situazioni

organizzative nel cui ambito deve operare.

Tutte queste persone, senza essere specialisti di organizzazione, devono

sviluppare un minimo di abilità nell'analisi e comprensione dei fenomeni

organizzativi, come indispensabile requisito per un valido espletamento dei loro

compiti.

In chiave introduttiva al tema dell'analisi organizzativa, può essere utile fare

riferimento a un modello di tipo sistemico, caratterizzato da forte flessibilità e

adattabilità di impiego, con riferimento sia ad assetti complessivi d'azienda, sia

a realtà e livelli di analisi più limitati, come un reparto, o un ufficio. E che

deriva da un approccio contingente, e quindi non aprioristicamente orientato

verso una logica di ordine meccanico piuttosto che organico.

Una visione sistemica dei fenomeni organizzativi implica che si individui un

complesso unitario, formato da una pluralità di elementi interrelati, che

assumono un significato d'insieme autonomo, quindi diverso e superiore

rispetto alla somma delle parti, dal punto di vista di un osservatore esterno

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(Mella, 1997). Il sistema non è quindi un oggetto che esiste come tale nella

realtà fisica o sociale, ma è definito da un osservatore che attribuisce

significato alle interazioni individuate tra alcuni elementi presenti nella realtà.

Il sistema costituisce quindi uno strumento di indagine della realtà che

consente di comprenderla meglio, orientando l'attenzione soprattutto verso

l'effetto sinergico, cioè il fenomeno per il quale gli elementi che compongono

un sistema producono, attraverso le loro interazioni e interdipendenze, un

risultato globale diverso, e che di solito assume per l'osservatore un significato

superiore, rispetto a quello che si sarebbe prodotto dagli stessi elementi

considerati disgiuntamente.

L'analisi sistemica mette quindi in evidenza una correlazione permanente

(feedback micro-macro) tra unità (livello macro) ed elementi (livello micro): il

sistema diventa una unità che assume un significato nuovo e autonomo

rispetto agli elementi che lo costituiscono (unità nella molteplicità); le parti

perdono nel sistema la loro individualità, contribuendo all'esistenza del sistema

e divenendo essenziali alla formazione dell'unità.

Individuare un sistema significa specificarne i confini, cioè definire gli elementi

che ne fanno parte (la sua struttura) e ciò che non ne fa parte; tutto ciò che

non appartiene al sistema definisce l'ambiente esterno.

Si possono quindi applicare svariati modelli sistemici ai fenomeni organizzativi,

che differiscono sia per gli elementi considerati, sia per il modo di definire i

confini rispetto all'ambiente. Sono possibili modelli sistemici dell'intera

organizzazione, oppure riferiti a fenomeni organizzativi più circoscritti.

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L'organizzazione, nel suo insieme, può essere considerata elemento del

sistema aziendale complessivo; oppure sistema, composto a sua volta da

molteplici elementi; ognuno dei quali può essere analizzato anch'esso come

specifico sistema. Ciò che cambia, ogni volta, è il punto di vista

dell'osservatore, con lo sviluppo di analisi orientate a differenti livelli di

aggregazione. Ci soffermeremo ora sul livello di analisi intermedio, riferito al

sistema organizzativo di un'azienda.

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2.7.1 Un modello di riferimento per l'analisi del sistema organizzativo

Gli studi organizzativi hanno proposto, nel tempo, molteplici modalità di

applicazione della visione sistemica a questo livello di analisi. Il modello forse

più noto è quello di Seder (1967); riproposto in Italia da Rugiadini (1979), in

una versione riveduta e aggiornata.

Il sistema organizzativo è considerato come componente di un'azienda in

rapporto con un contesto ambientale, nel quale rientrano tutte le forze rilevanti

di ordine esterno, che producono le dinamiche economiche, competitive,

tecnologiche, socio-politiche e che, peraltro, il modello non indaga in modo

specifico, limitandosi a considerarle fonti di vincoli e di input per il

funzionamento del sistema.

Gli output che derivano dal funzionamento stesso, assumono un significato dal

punto di vista delle finalità del sovrasistema aziendale e costituiscono anzi

contributi utili al positivo andamento e al successo complessivo dell'azienda.

Secondo questo taglio di analisi, le scelte organizzative trovano collocazione

come variabile centrale del sistema organizzativo, che risente peraltro

dell'influsso e del condizionamento di una serie di elementi del contesto

interno, a loro volta influenzati dagli input esterni e dalle caratteristiche

dell'azienda.

L'assetto istituzionale e le variabili strategiche, tecnologiche, individuali e

sociali costituiscono le forze e le fonti principali che alimentano íl

funzionamento del sistema e che adeguate scelte organizzative possono

orientare e ricondurre al conseguimento di risultati validi dal punto di vista del

conseguimento degli scopi aziendali. Consideriamo queste variabili, una per

una.

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L'assetto istituzionale interviene sull'organizzazione e sulle altre variabili del

contesto, in quanto struttura poteri e prerogative di organi e ruoli

fondamentali; inoltre stabilisce una serie di regole che improntano la vita

dell'azienda, favoriscono alcune soluzioni organizzative e ne limitano altre; così

l'assetto istituzionale tipico dell'impresa padronale influirà sulle variabili

individuali e sociali e attraverso di queste sulle scelte di struttura organizzativa

e di sistemi di gestione. Un assetto di proprietà diffusa, o di public company,

avrà invece conseguenze sul ruolo del management, ampliando lo spazio

disponibile per la differenziazione dei ruoli e le carriere interne, e ponendo

anche una serie di problemi da risolvere attraverso scelte congruenti di

struttura organizzativa, sistemi di gestione e stile di leadership.

Come ricorda Airoldi (1993), esistono assetti istituzionali efficaci, cioè che

favoriscono la permanenza e il progresso delle aziende, e inefficaci, che invece

portano le aziende al declino e alla rovina. I primi si distinguono perché

rendono consapevoli i soggetti che partecipano all'azienda della importanza dei

rispettivi contributi per i risultati ottenuti dalla stessa e perché correlano con

equità le ricompense ottenute dai soggetti a questi risultati. È pacifico che

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qualora l'assetto istituzionale contraddica palesemente questi requisiti, le

dinamiche dei fattori individuali e sociali divengono poco costruttive e diventa

quasi impossibile impostare valide soluzioni organizzative.

Le variabili strategiche sono destinate a generare una fisiologica tensione negli

assetti organizzativi, in quanto portano a sintesi le esigenze di adeguamento e

innovazione rispetto alle dinamiche, alle opportunità e ai rischi di derivazione

ambientale, richiedendo adattamento costante e flessibilità. Si sono già

considerati i nessi tra strategia e struttura e resta solo da richiamare il ruolo

che la costruzione di un contesto organizzativo fondato sull'iniziativa diffusa,

sulla cooperazione e sulla fiducia reciproca tra le persone, e capace di generare

apprendimento organizzativo, può assumere come condizione importante e

fonte di cambiamento strategico (Ghosal, Bartlett, 1994).

Le variabili tecnologiche, sono da sempre considerate determinante

fondamentale delle scelte organizzative, soprattutto per quanto riguarda il

nucleo operativo e quindi le modalità di utilizzo del lavoro esecutivo. Il loro

ruolo non è però quello di imporre determinate soluzioni, come si credeva un

tempo. Soprattutto le riflessioni sull'impatto dell'information and

communication technology sull'organizzazione del lavoro hanno mostrato come

questa apra nuove opportunità, non solo in relazione ad esigenze esplicite, già

manifeste e chiaramente visibili, ma anche nel senso di possibilità non sempre

conoscibili a priori o prevedibili, ma che devono essere esplorate attraverso

una ricerca e progettazione congiunta, tecnologica e organizzativa (Masino,

1997).

Le modalità organizzative quindi non discendono direttamente dalle tecnologie,

ma sono filtrate da un ambito decisionale specifico e dall'influenza degli altri

fattori del contesto; nel confronto tra le due situazioni richiamate, evidente è

l'influsso di una diversa strategia, che dà più spazio alla ricerca della qualità

nel secondo caso, forse influenzata a sua volta dal tipo di assetto istituzionale.

Le variabili individuali riguardano le caratteristiche delle persone che agiscono

nel sistema organizzativo. La maggior parte delle organizzazioni assumono, ai

loro inizi, la forma elementare, il cui svolgimento è plasmato dalla personalità

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degli attori chiave, come possono essere l'imprenditore che avvia una fabbrica,

l'artigiano che apre un laboratorio, lo stilista che inizia una produzione di

collezioni di moda, il fondatore di un'associazione non profit di assistenza. Ma

anche le caratteristiche individuali dei loro collaboratori, dei dirigenti e

dell'altro personale che via via assumeranno per allargare l'attività, e poi quelle

dei loro successori, introducono nell'organizzazione determinate conoscenze,

specializzazioni, esperienze; ma anche abitudini di comportamento,

motivazioni, bisogni ed esigenze, aspettative, valori, modi di concepire il lavoro

proprio e degli altri, l'azienda, le relazioni sociali, in ultima analisi modi di

vedere il mondo e di interpretare la realtà.

Quando l'assetto organizzativo evolverà verso forme più complesse, il

funzionamento dell'azienda sarà più impersonale, ma si constata comunemente

il peso rilevante dell'influenza dei fattori individuali, sia come eredità storica,

lasciata dal periodo dei fondatori, sia come continuo riprodursi dell'apporto

personale di molti. Ciò rappresenta una delle ragioni fondamentali per cui

ciascun assetto organizzativo è unico, ciascuna azienda possiede una propria

individualità che la differenzia da tutte le altre.

Fra le diverse e molteplici caratteristiche che attengono alla persona umana,

assumono certo particolare rilievo per l'organizzazione quelle legate alla

qualificazione professionale, alle conoscenze tecniche, alle abilità lavorative

possedute come pure gli atteggiamenti e le motivazioni riguardo al lavoro, le

attitudini relazionali, la capacità collaborativa. Il tipo di persone inserite in

un'azienda, sotto questi profili, trova in una certa misura condizionamento da

parte dell'assetto istituzionale strategico, delle tecnologie e delle scelte

organizzative adottate: contano in questo il tipo di lavoro e il livello retributivo

offerto, le conoscenze tecniche richieste, le modalità di selezione adottate.

La variabile umana interagisce quindi pienamente con gli altri elementi del

contesto; il suo rilievo come forza che influenza l'organizzazione viene

chiaramente percepito quando si realizzano mutamenti rile vanti, con l'ingresso

di nuovi operatori, o con l'evoluzione di competenze e comportamenti dei

soggetti già presenti (Rugiadini, 1979).

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Le variabili sociali riguardano invece le relazioni interpersonali nell'ambito del

sistema organizzativo e i fenomeni derivanti dal fatto che le aggregazioni di

gruppo si interpongono tra individui e organizzazione complessiva nel

determinare o almeno influenzare i comportamenti. Le persone non operano

infatti come individui isolati, sensibili soltanto alle loro interne motivazioni e

agli stimoli provenienti dall'assetto organizzativo aziendale. Si constata invece

che gli individui sono influenzati dalle idee, dalle concezioni e dalle norme che

si stabiliscono nell'ambito delle relazioni sociali, di gruppi e sottogruppi di

appartenenza, e che possono anche significativamente discostarsi dalle regole

e dagli obiettivi formalmente riconosciuti nel sistema organizzativo.

I gruppi non sono semplici insiemi di persone, ma comportano più o meno forti

interconnessioni tra individui, collegate a comunanze di interessi, valori od

obiettivi, che possono determinare significative convergenze negli

atteggiamenti e nei comportamenti. L'azione dell'individuo è spesso

condizionata dalle norme e dalle relazioni di gruppo, secondo modalità

difficilmente prevedibili per chi non considera questa dimensione di inserimento

sociale della persona.

Di fatto, nell'ambito di ogni sistema sociale sufficientemente ampio, si può

facilmente constatare la presenza di numerosi gruppi, identificabili in base a

collegamenti relazionali di diverso ordine: per esempio per affinità di tipo

professionale, ma anche attinenti al tempo libero, agli interessi culturali,

all'impegno socio-politico, all'origine territoriale. Ha fatto scuola un caso

didattico di organizzazione, che metteva in evidenza le difficoltà di

coordinamento, insuperate anche adottando sistemi gestionali via via più

sofisticati, in un'azienda in rapida crescita i cui dirigenti erano divisi

dall'appartenenza a due diversi gruppi socio-culturali: i "veneti" ed i

"piemontesi".

Da molto tempo si è quindi riconosciuto che la componente sociale presente

nelle aziende porta alla creazione di una organizzazione informale accanto a

quella formale.

L'organizzazione formale risulta dall'identificazione di aspetti come organi,

unità, regole, posizioni organizzative, compiti e mansioni.

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All'organizzazione informale sono invece riconducibili concetti come il ruolo

inteso in senso sociologico e quindi come modello di comportamento definito

dalle esigenze e dalle aspettative del gruppo di inserimento rispetto

all'individuo; come lo status, nel senso di grado relativo di stima e prestigio di

cui una persona gode nell'ambito di un gruppo; come l'influenza, cioè la

capacità di modificare un comportamento altrui, in base alle capacità personali

e all'abilità del soggetto che la esercita, per esempio attraverso l'autorità

personale, la persuasione, l'emulazione o anche la manipolazione, anzichè

utilizzando il potere formale.

Le variabili (o scelte) organizzative tengono quindi conto necessariamente del

contesto emergente dall'insieme delle variabili esaminate, che costituiscono la

materia o la risorsa prima per il proprio svolgimento. Tali scelte possono essere

frutto di una progettazione consapevole, anche realizzata in ambiti e momenti

diversi, derivante da analisi e valutazioni più o meno approfondite. Ma possono

anche essere un frutto inconsapevole, che nasce o emerge nel tempo da

comportamenti posti in atto per diverse e svariate motivazioni. Più spesso, tali

scelte risentono di un mix tra esplicita progettazione e assestamento di fatto.

Nondimeno, per l'osservatore esterno, uno stato delle fondamentali variabili

dell'organizzazione è sempre ravvisabile e riconoscibile, indipendentemente

dall'esistenza o meno di una deliberata e cosciente volontà dei soggetti

aziendali di dar vita ad esso.

In coerenza con l'impostazione analitica adottata in questo libro, consideriamo

le seguenti variabili:

1. la forma organizzativa assunta;

2. la struttura adottata;

3. i meccanismi operativi o sistemi di gestione (con le pratiche di gestione

delle risorse umane);

4. lo stile di leadership.

La struttura organizzativa consiste nelle modalità per attuare la divisione del

lavoro e il coordinamento delle diverse responsabilità all'interno dell'azienda,

identificando organi, ruoli e compiti e rispettive responsabilità.

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I meccanismi operativi sono gli stimoli dinamici posti sistematicamente in atto

per consentire l'adattamento dell'operato di organi e ruoli alle esigenze della

situazione. In quest'ambito particolare è il rilievo assunto dai sistemi o dalle

pratiche di gestione delle risorse umane.

Struttura e meccanismi, unitariamente considerati, compongono lo schema

organizzativo; nella parte terza e quarta del libro, dedicate alla progettazione

organizzativa, considereremo distintamente:

• lo schema organizzativo generale (macrostruttura), che rappresenta la

scelta di assetto degli organi fondamentali (di primo e secondo livello, di

norma) e dei principali meccanismi operativi che ne consentono il

funzionamento;

• l'assetto delle unità intermedie e di base (che compongono il cuore

operativo dell'azienda) e la collegata definizione dei ruoli professionali e

dei compiti (microstruttura).

Infine, lo stile di leadership rappresenta il modello di riferimento adottato dai

capi o responsabili di rango più elevato per rapportarsi con i subordinati e

quindi per gestire il potere organizzativo e orientare l'organizzazione.

Le variabili risultanti rappresentano, coerentemente alla concezione sistemica

adottata, l'effetto dell'interazione tra tutte le altre variabili considerate, quindi

quelle di ordine ambientale, istituzionale e del contesto interno del sistema

organizzativo. Le scelte organizzative non agiscono nel vuoto, ma devono

tenere conto della realtà esistente, sotto i profili esaminati, che possono solo

parzialmente modificare con il proprio diretto impatto. Nondimeno, è

ragionevole che le scelte organizzative siano orientate a determinare,

nell'ambito di questi limiti, un proprio contributo diretto al successo strategico

dell'azienda, a sua volta definibile nei termini classici dei risultati economici e

finanziari, competitivi, sociali e di sviluppo.

In questa logica di possono considerare alcune categorie specifiche di risultati,

riconducibili alle scelte organizzative realizzate e alla cui luce diviene valutabile

l'efficacia o la validità dell'assetto organizzativo posto in atto.

Ci possiamo riferire in tal senso a:

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• efficienza, come attitudine del sistema organizzativo a realizzare alti

rendimenti delle risorse impiegate, nell'ambito soprattutto delle attività

del nucleo operativo, nelle quali si identifica normalmente la ragion

d'essere stessa dell'azienda;

• qualità, come capacità di attivare un contesto interno all'azienda che

liberi le energie realizzative delle persone, inducendole a dare il meglio di

sé, e a contemperare l'iniziativa individuale diffusa con la disponibilità a

collaborare e comunicare (Coda, 1997);

• flessibilità, come requisito di reattività alle tensioni e alle sfide poste

dall'ambiente o dalla stessa evoluzione delle strategie aziendali, che si

esprime nell'adattamento dei volumi di attività, della qualità degli

interventi e delle stesse modalità operative, senza gravi conseguenze o

lunghi tempi di preparazione;

• soddisfazione, come risposta alle attese, agli interessi e ai bisogni dei

diversi soggetti che partecipano e contribuiscono, con le loro risorse o la

loro attività, al funzionamento del sistema stesso;

• apprendimento, come idoneità a generare nuove idee, conoscenze e

valori, utili per alimentare il rinnovamento dell'azienda e la sua capacità

di innovazione.

L'analisi dei fenomeni organizzativi è facilitata dal riconoscimento dell'esistenza

di alcune e diverse forme organizzative di base, ciascuna delle quali esprime

un insieme coerente di caratteristiche, logiche e modalità di funzionamento.

Accogliendo la nota classificazione operata da Mintzberg, queste forme sono

riconducibili a cinque. Esse riproducono la propria fisionomia distintiva, con

contorni in genere netti e ben riconoscibili, anche in contesti tra loro molto

lontani nel tempo e nello spazio.

Sarà importante comprenderne i rispettivi fattori di efficacia e di rispondenza

alle esigenze di determinate situazioni aziendali, come pure i ricorrenti punti di

crisi e i possibili percorsi di evoluzione da una forma all'altra.