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L’ARCHEOLOGIA CLASSICA TEDESCA DAL 1945 AD OGGI: LINEE GENERALI, PERSONAGGI, CONTESTI ISTITUZIONALI * 1. Introduzione Riflettendo sulla situazione degli studi d’archeologia classica in Ger- mania a cavallo tra i due millenni (e non sono mancate negli ultimi anni simili riflessioni; ad es. HÖLSCHER 1995; ISLER 1997 1 ) si potrebbero avere delle perplessità, specialmente nel contesto di un convegno dedicato all’Ar- cheologia teorica. Infatti, quando ci si accinge a fare un paragone fra gli studi tedeschi e le discussioni e riflessioni condotte negli ultimi decenni in altri paesi, può sembrare, almeno in un primo momento, che la Germania sia rimasta quasi del tutto al di fuori delle correnti che vanno sotto il nome di New Archaeology, processualismo e post-processualismo; solo con molto ri- tardo, e specialmente nell’archeologia preistorica, si è avuta una ricezione esplicita di questo tipo di discorsi e dibattiti (WOLFRAM 1986; HÄRKE 1991; EGGERT, VEIT 1998). Sebbene anche negli altri paesi queste discussioni venga- no condotte più nel campo della preistoria che in quello dell’archeologia classica tradizionale (cfr. BERNBECK 1997; DYSON 1993; TERRENATO 1998), è pur significativo che si riscontra un più intenso scambio tra le discipline ri- spetto al nostro paese. Già la netta distinzione – istituzionale, personale, me- todologica – tra le discipline è un fatto molto indicativo per gli studi archeo- logici tedeschi; uno dei segni più evidenti di questa situazione è l’assurdità che gli studi sull’archeologia delle province romane, la Provinzialrömische Archäologie (tra l’altro non molto diffusa in ambiente universitario: limitata per motivi ovvi alle regioni meridionali ed occidentali del paese, è rappresen- tata soltanto in tre atenei sotto forme istituzionali indipendenti), siano quasi completamente staccati dall’archeologia classica e più legati alla preistoria. Tutto questo è frutto di un lungo processo che non è qui il caso di ripetere: è fin troppo noto che l’archeologia classica tedesca può essere definita (in parte fino ad oggi) una storia dell’arte antica 2 , un orientamento che le è proprio sin dai giorni del suo ‘eroe fondatore’ Johann Joachim Winckelmann e che, a sua volta, ha esercitato un enorme influsso su altri campi di pensiero, archeologici e non, entro e fuori della Germania. La stessa Italia conosce il fenomeno dell’«andare a scuola dai tedeschi» (vedi il contributo di M. Barbanera, in questo volume), una tendenza il cui apice può essere datato alla fine dell’Ottocento. Nell’ultimo do- ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 1

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L’ARCHEOLOGIA CLASSICA TEDESCA DAL 1945 AD OGGI: LINEE GENERALI, PERSONAGGI, CONTESTI ISTITUZIONALI*

1. Introduzione

Riflettendo sulla situazione degli studi d’archeologia classica in Ger­mania a cavallo tra i due millenni (e non sono mancate negli ultimi anni simili riflessioni; ad es. HÖLSCHER 1995; ISLER 1997 1) si potrebbero avere delle perplessità, specialmente nel contesto di un convegno dedicato all’Ar-cheologia teorica. Infatti, quando ci si accinge a fare un paragone fra gli studi tedeschi e le discussioni e riflessioni condotte negli ultimi decenni in altri paesi, può sembrare, almeno in un primo momento, che la Germania sia rimasta quasi del tutto al di fuori delle correnti che vanno sotto il nome di New Archaeology, processualismo e post-processualismo; solo con molto ri­tardo, e specialmente nell’archeologia preistorica, si è avuta una ricezione esplicita di questo tipo di discorsi e dibattiti (WOLFRAM 1986; HÄRKE 1991; EGGERT, VEIT 1998). Sebbene anche negli altri paesi queste discussioni venga­no condotte più nel campo della preistoria che in quello dell’archeologia classica tradizionale (cfr. BERNBECK 1997; DYSON 1993; TERRENATO 1998), è pur significativo che si riscontra un più intenso scambio tra le discipline ri­spetto al nostro paese. Già la netta distinzione – istituzionale, personale, me­todologica – tra le discipline è un fatto molto indicativo per gli studi archeo­logici tedeschi; uno dei segni più evidenti di questa situazione è l’assurdità che gli studi sull’archeologia delle province romane, la Provinzialrömische Archäologie (tra l’altro non molto diffusa in ambiente universitario: limitata per motivi ovvi alle regioni meridionali ed occidentali del paese, è rappresen­tata soltanto in tre atenei sotto forme istituzionali indipendenti), siano quasi completamente staccati dall’archeologia classica e più legati alla preistoria. Tutto questo è frutto di un lungo processo che non è qui il caso di ripetere: è fin troppo noto che l’archeologia classica tedesca può essere definita (in parte fino ad oggi) una storia dell’arte antica 2, un orientamento che le è proprio sin dai giorni del suo ‘eroe fondatore’ Johann Joachim Winckelmann e che, a sua volta, ha esercitato un enorme influsso su altri campi di pensiero, archeologici e non, entro e fuori della Germania. La stessa Italia conosce il fenomeno dell’«andare a scuola dai tedeschi» (vedi il contributo di M. Barbanera, in questo volume), una tendenza il cui apice può essere datato alla fine dell’Ottocento. Nell’ultimo do-

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poguerra esso sembra essere addirittura rovesciato: non mancano, infatti, nu­merosi esempi d’illustri archeologi tedeschi dei giorni nostri che a loro volta sono andati a scuola dagli italiani. Torneremo su questi aspetti più tardi.

Si può dunque parlare di un’arretratezza dell’archeologia classica tede­sca? Anticipando, vorrei obiettare già adesso a una tale visione, sottolinean­do che non solo molti risultati della ricerca archeologica tedesca sono consi­derati tuttora importanti punti di riferimento (la cui ricezione è, naturalmen­te, talvolta limitata dal fattore della lingua; ma questo vale per l’intero mon­do archeologico, escluso quello anglofono); inoltre, e questo mi pare ancora più significativo, la Germania ha sì approfittato notevolmente di correnti nate in altri paesi – soprattutto in Italia, ma anche in Francia e nei paesi anglosassoni – e ricerche arricchite di stimoli stranieri hanno, a loro volta, esercitato un influsso sui paesi d’origine.

Tuttavia, è pur vero che le vie e gli esiti di questi influssi reciproci non siano sempre facilmente individuabili, e questo è in parte dovuto alla riluttanza, esistente in Germania, ad un dibattito aperto su teorie e metodi. I nostri maestri, cioè la generazione che ha vissuto l’esperienza degli anni ’60, non condividereb­bero una tale visione, e dal loro punto di vista con buone ragioni: come vedremo più avanti, gli anni ’60 e ’70 sono stati contrassegnati da vivaci dibattiti, anche teorici. Per i giovani queste esperienze sono percepibili semmai in via mediata, e non sorprende dunque che gli allievi si lamentino spesso di una reale o presunta mancanza di riflessione o addirittura d’innovazione 3. Dal punto di vista dei gio­vani pare quindi giustificato parlare di una riluttanza al dibattito teorico – tanto più se facciamo il confronto con l’intensità del dibattito nell’ambito degli studi preistorici. Alcuni recenti tentativi promossi in ambito classico sembra­no rispondere precisamente a tale insoddisfazione (ALTEKAMP et al. 2000).

Al di là di ogni dibattito teorico e d’incontestabili elementi d’innova-zione riscontrabili nell’archeologia classica tedesca, è pur innegabile il forte grado di tradizione e di continuità – personale, ma anche istituzionale – che ha caratterizzato la nostra disciplina da ormai due secoli e mezzo, una conti­nuità che è stata solo parzialmente intaccata dalla svolta storica del 1945 (lo stesso può esser detto, tra l’altro, anche per quella del 1989/90, ma questo è un altro discorso sul quale dovranno ritornare generazioni future). La stra­grande maggioranza degli archeologi attivi nelle università, nei musei e nelle altre istituzioni di ricerca archeologica subito dopo il 1945 era già stata in carica prima di tale data, ad eccezione di pochi funzionari d’alta posizione che dovettero dimettersi ed altri che furono costretti ad una breve interru­zione della loro attività professionale per subire il processo della cosiddetta ‘denazificazione’ (Entnazifizierung). Soltanto negli anni ’60 si assiste ad un ricambio dovuto sia a fattori biografici (morte e/o pensionamento di profes­sori e funzionari), sia agli eventi del ’68 e degli anni seguenti, che comporta­rono una riforma universitaria di ampio respiro. Mentre questi cambiamenti furono notevoli in un senso esterno – sostituzione di vecchi ordinari con

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giovani professori, elementi di democrazia introdotti all’università, ecc. –, lo furono assai meno per quel che riguarda i campi della ricerca. Essenzialmen­te, le novità di contenuto consistettero nel rafforzamento della concezione che vede l’archeologia come una scienza storica, ed in una più forte accen­tuazione degli studi iconologici, applicati sia all’arte greca che a quella roma­na (vedi par. 5). In generale prevalsero, sia prima che dopo il ’68, studi su determinate classi di monumenti, in particolare sulla scultura greca, i ritratti ed i sarcofagi romani, l’architettura greca e romana, la pittura vascolare gre­ca e la pittura parietale romana.

La riproposizione di impostazioni tradizionali nell’immediato dopo­guerra si svolse in due direzioni, solo apparentemente opposte l’una all’altra: da un lato rimasero immutati i contenuti ed i campi della ricerca, limitati però per lo più a studi specializzati, che evitavano qualsiasi interpretazione complessiva o di sintesi: si sospettava che visioni generali dell’antichità, come quelle offerte negli anni ’20 e ’30 dalla cosiddetta Strukturforschung, fossero state abusate o fossero addirittura, talvolta anche intenzionalmente, contigue all’ideologia razziale del nazismo. Dall’altro lato il riproporre argomenti cari alla ricerca antichistica tedesca da ormai due secoli garantiva un senso di sicurezza basato su una supposta idealità dell’antichità classica, e soprattutto di quella greca: un valore insomma considerato quasi essenziale per poter sopravvivere in una situazione in cui di tutte le sicurezze precedenti venivano a crollare, con una nazione distrutta, un futuro incerto e una situazione inter­nazionale di isolamento.

Più difficile è valutare gli aspetti di continuità, così come quelli d’inno-vazione, che possono essere riscontrati dopo il ’68. Va detto innanzi tutto che ogni interpretazione in merito ha necessariamente un carattere del tutto provvisorio, influenzato da esperienze personali difficilmente generalizzabili e viziate da una mancanza di distanza storica. Una possibile risposta sembra data dal fatto che il sistema degli studi archeologici tedeschi, basato essen­zialmente sul ‘trittico’ composto dai musei, dalle università e dall’Istituto Archeologico Germanico (DAI), non abbia visto di buon occhio un radicale capovolgimento di tradizioni centenarie e ben rodate. Non solo le istituzioni dedicate allo studio dell’antichità classica in Germania sono, come vedremo nei paragrafi seguenti, di un numero assai ristretto, ma esse sono inoltre legate fra di loro in modo assai stretto, che rende difficili sviluppi completa­mente autonomi. Basta ricordare la tradizione delle annuali borse che con­sentono di visitare i paesi del Mediterraneo (Reisestipendium) per capire in qual modo il DAI eserciti un influsso non trascurabile sulla selezione dei giovani archeologi che costituiranno le nuove leve della scienza, sia nell’isti-tuto stesso che nei musei e nelle università. Anche il sistema universitario, basato sull’abilitazione, qualifica indispensabile per la accedere alle cattedre, tende a favorire il mantenimento di tradizioni di lunga durata. Su questi e su altri aspetti sarà opportuno soffermarsi nel paragrafo seguente.

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2. Le istituzioni

2.1 I MUSEI

I musei pubblici con collezioni d’antichità – ed i loro predecessori, le collezioni private di principi e nobili collezionisti – costituiscono i più antichi centri di ricerca archeologica in Germania, risalenti talvolta fino al Rinasci­mento. Oltre i due più grandi, la Glyptothek e le Antikensammlungen a Mona­co e l’Antikensammlung di Berlino (quest’ultima ripartita nelle due sedi dell’Altes Museum e del Pergamonmuseum), esistono altri sei musei di di­mensioni medie, che non comprendono solo collezioni archeologiche (da segnalare innanzi tutto l’Albertinum a Dresda, il Liebieghaus a Francoforte e lo Schloß Wilhelmshöhe a Kassel). Vi sono inoltre 25 collezioni universitarie di varie dimensioni, integrate per lo più nell’organizzazione dei rispettivi istituti e nelle loro sedi, ma talvolta con spazi espositivi autonomi che danno loro quasi un carattere di museo indipendente (ad esempio l’Antikenmuseum a Lipsia ed il Martin-von-Wagner-Museum a Würzburg). Sia questi ultimi che i grandi musei prima citati presentano il loro materiale seguendo criteri tra­dizionali di cronologia e di classi di materiali, solo parzialmente interrotti da sezioni tematiche.

Un caso a parte è costituito dai musei preistorici con sezioni romane, concepiti per lo più in senso regionale, come i Rheinische Landesmuseen a Bonn ed a Treviri, i Römisch-Germanischen (Zentral-) Museen a Colonia e a Magonza, i vari Vor- und Frühgeschichts- e Römische Museen (Augsburg, Fran­coforte, Kempten), la Prähistorische Staatssammlung a Monaco e molti altri. Quasi tutti presentano uno sviluppo storico regionale nel quale l’epoca ro­mana è integrata più o meno organicamente fra il periodo La Tène e l’Alto Medioevo. Anche se i punti d’incontro con il mondo classico sono talvolta accentuati con mostre particolari e il personale stesso di questi musei molto spesso è di formazione classica, prevale tuttavia l’impostazione preistorica: oltre ai capolavori della produzione artistica vengono infatti presentati an­che manufatti della vita quotidiana, quasi del tutto assenti nei musei d’im-pronta classica tradizionale.

Al momento attuale vi sono circa una ventina di archeologi classici permanentemente impiegata in questi musei, mentre altri 5 hanno posti di assistenti (Volontäre) limitati a due anni 4. Di queste istituzioni, tutte quelle situate nelle città medie o grandi hanno subito notevoli sconvolgimenti, dan­ni e distruzioni durante la Seconda Guerra Mondiale. Molti di essi sono ri­masti chiusi per anni o addirittura per decenni prima di riaprire in veste nuova. Ben noto è il caso della Glyptothek a Monaco, ristrutturata eliminan­do la ricca decorazione architettonica classicistica. Sin dalla riapertura del 1972, sobrie pareti di mattoni non intonacati fanno da sottofondo alle scul­ture antiche, similmente ridotte allo stato di conservazione originario, senza

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i restauri e le aggiunte moderne (come quelle eseguite del Thorvaldsen sulle sculture frontonali del tempio di Egina) 5. A Berlino, il processo di ristrut­turazione è stato molto più lento, tanto da non potersi ancora considerare concluso. Questo è dovuto ovviamente alla divisione della città, al sequestro di molte opere d’arte da parte dell’armata rossa, al raddoppiamento delle istituzioni politiche e culturali dopo il 1949 ed al lento processo di riunifica­zione seguito agli eventi del 1989/90. La Museumsinsel, inserita nella lista del patrimonio culturale mondiale dall’UNESCO nel mese di dicembre 1999, è tuttora un cantiere, sia in senso materiale che figurato: la ristrutturazione delle varie parti che la compongono (con le collezioni d’arte classica, orien­tale, egizia, bizantina, islamica, rinascimentale e moderna) ed il concetto espo­sitivo verranno organizzati, dopo una fase di dispute talvolta molto accese,da un Masterplan la cui realizzazione è prevista entro il 2010. È forse indica­tivo dello scarso prestigio dell’archeologia classica presso l’opinione pubbli­ca di questi tempi il fatto che l’Altes Museum di Schinkel, il primo degli edifici museali costruiti sull’isola ed il primo museo pubblico della Prussia, inaugurato nel 1830, sia stato riassegnato all’Antikensammlung solo dopo molte difficoltà, dovute al altre proposte di utilizzazione per l’arte moderna e contemporanea. Basta trasferire ipoteticamente questa proposta nel conte­sto italiano – immaginando ad esempio lo spostamento dei ritratti romani dai Musei Capitolini per sistemarvi oggetti della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea – per avere la misura dei diversi ordini di priori­tà. Un grande peso in queste discussioni viene dato alla quantità dei visitato­ri, di gran lunga superiore nei musei moderni che in quelli di arte classica.

In questa prospettiva appare ben comprensibile che una delle preoccu­pazioni principali che i funzionari dei musei classici hanno è proprio quella di presentare i materiali in maniera conforme alle mutate esigenze del pub­blico, un pubblico sempre meno munito di quelle conoscenze sul mondo antico che una volta facevano parte del patrimonio del cosiddetto Bildungsbürgertum (borghesia colta). Così si spiega l’uso sempre più frequente di nuove forme didattiche, come quelle multimediali ed interattive, che si rivolgono agli spettatori odierni – particolarmente quelli giovani – che leggo­no meno ed affrontano un’opera d’arte classica senza la reverenza che aveva la generazione precedente. Non mancano gli scettici che predicono una ba­nalizzazione dei musei, addirittura una Disneyland museale, e quindi un cam­biamento radicale delle abitudini percettive con una preferenza per gli scher­mi rispetto all’oggetto concreto. Mentre la prima opinione appare piuttosto esagerata (e quasi indice di un certo pessimismo culturale molto comune in Ger­mania – dopo tutto, ha sempre fatto parte dei compiti dell’archeologo trovare forme nuove ed adeguate di presentazione in sintonia con lo sviluppo degli studi), il cambiamento delle abitudini percettive appare evidente e logico: esso è la conseguenza immediata dell’espansione sproporzionata delle nostre conoscenze e della loro trasmissione rapidissima. Gli stessi archeologi non

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possono negare che l’enorme crescita della quantità di dati e pubblicazioni abbiano comportato nuove abitudini di lettura anche per lo specialista.

Un altro elemento molto importante per lo sviluppo dei musei negli ultimi anni (e ancor più per il futuro) è la situazione finanziaria. In Germa­nia, i bilanci delle istituzioni pubbliche hanno dovuto subire notevoli tagli, che rendono inevitabile riflettere su forme alternative o complementari di finanziamento. Rispetto all’Italia, per non parlare dell’America, il sistema del finanziamento tramite sponsorizzazioni è ancora molto poco sviluppato. Ep­pure, a cavallo tra Otto- e Novecento, il mecenatismo privato fu fondamen­tale per lo sviluppo museale nel nostro paese, soprattutto nella capitale. La Prima Guerra Mondiale, e soprattutto la politica del nazismo, posero fine a questo fenomeno, che era legato in gran parte ad una ricca borghesia indu­striale, che contava molti esponenti di famiglia ebrea.

Negli ultimi decenni, numerosi musei hanno trovato nuove forme di finanziamento supplementare con la creazione di associazioni di amici del museo (Freundeskreise). Oltre all’ovvio vantaggio rappresentato dagli introi­ti addizionali (usati talvolta anche per l’acquisto di nuovi pezzi), queste asso­ciazioni hanno anche l’utilità di promuovere gli interessi delle istituzioni a loro legate: in primo luogo contribuiscono alle attività didattiche e divulgati­ve dei musei, ed inoltre intensificano il legame con vari settori della società al di fuori del mondo scientifico: la borghesia colta, il mondo commerciale e quello politico. In questo senso esse sono comparabili, ma allo stesso tempo si distinguono da esse per molti versi, alle associazioni erudite tradizionali come l’Archäologische Gesellschaft zu Berlin (tuttora esistente), molte delle quali furono fondate già nell’Ottocento: nate nel contesto di una straordina­ria espansione e sviluppo delle scienze verificatasi nel corso di quel secolo, il loro scopo principale era offrire ai ceti colti l’opportunità di partecipare alle scoperte ed ai risultati della ricerca. Le loro adunanze e conferenze non han­no carattere differente dalle lezioni e dai dibattiti scientifici di ambiente uni­versitario e accademico.

Nel contesto della situazione museale attuale bisogna accennare ad un ultimo fenomeno di ampia portata: il commercio di opere d’arte (di prove­nienza, come è noto, molto spesso sconosciuta, risultato di scavi clandestini) e la posizione dei musei rispetto a questo fenomeno. Fu nel 1988 che, nel-l’ambito del XIII Congresso Internazionale di Archeologia Classica tenutosi a Berlino, fu promulgata la “Dichiarazione di Berlino” (Berliner Erklärung), nella quale molti musei con collezioni di antichità si imposero di astenersi dall’acqui-sto di opere d’arte la cui provenienza non fosse assolutamente chiara e legittima. Gran parte dei musei tedeschi aderì a tale dichiarazione, ma la discussione sui metodi adeguati ad affrontare tale problema è tuttora in corso.

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2.2 LE UNIVERSITÀ

Anche gli studi archeologici universitari possono vantare una storia ormai bicentenaria, sebbene per gran parte dell’Ottocento l’archeologia sia rimasta legata in maniera strettissima alla filologia classica. Nonostante vari episodi di sviluppo autonomo durante il primo secolo di studi archeologici in Germania, tra i quali l’opera dello stesso Winckelmann, la filologia è rimasta ampiamente dominante, a partire dalla formazione, per arrivare alla termi­nologia e ai metodi. Ciò si è manifestato in approcci come la Sachphilologie di August Boeckh o la «filologia dei monumenti» di Eduard Gerhard; solo verso la fine dell’Ottocento l’archeologia ha raggiunto uno stato di autono­mia assoluta, dovuto sia alla sua definizione consolidata di Kunstwissenschaft (scienza delle arti, rappresentata soprattutto da Heinrich Brunn e dalla sua scuola a Monaco), sia dall’espansione delle attività di scavo nel Mediterra­neo orientale (vedi par. 6) 6. Una conseguenza immediata fu la separazione fra le varie discipline antichistiche, perpetuata fino ai nostri giorni: nono­stante numerosissimi tentativi di lavoro interdisciplinare (promossi per esem­pio nell’ambito dei cosiddetti Sonderforschungsbereiche e Graduiertenkollegs, progetti pluridisciplinari accomunati da una tematica generale, come ad esem­pio i «Processi d’acculturazione nel Mediterraneo orientale») è indubbio che le varie discipline antichistiche abbiano subito un estremo isolamento sia tra di loro, sia rispetto ad altre scienze. Anche in ambiente universitario, l’enor-me accrescimento della produzione scientifica cambia radicalmente le abitu­dini percettive e ricettive, favorendo la specializzazione e rendendo più diffi­cile qualunque approccio universale o visione complessiva.

Come già accennato nell’introduzione, i cambiamenti più profondi nelle università tedesche – non solo nelle discipline archeologiche – avvennero con le riforme promosse in seguito agli eventi del 1968. Le vecchie strutture furono per lo più sostituite da un nuovo sistema di rappresentanza dei vari gruppi universitari, e le riforme nel settore dell’istruzione pubblica accrebbe­ro in modo esponenziale il numero degli studenti. Questo sviluppo fu ac­compagnato da pochissimi e insufficienti sforzi di adattare le università alla situazione mutata. Gli atenei già esistenti non furono forniti di mezzi propor­zionati all’accresciuta quantità di studenti, e solo poche università furono fondate ex novo (un esempio ben noto a livello nazionale è l’università di Bochum nella regione industriale del Ruhrgebiet). In ogni modo, va detto che le discipline archeologiche non conobbero mai lo sviluppo di massa che ca­ratterizzò altre facoltà e rimasero sempre – in termini di quantità e non di qualità – ciò che popolarmente si indica come Orchideenfächer, vale a dire materie esotiche organizzate in piccoli dipartimenti universitari con un nu­mero relativamente limitato di studenti. Da questo punto di vista, il sistema universitario tedesco è molto diverso da quello italiano, con le sue grandi facoltà e corsi di laurea con ampia gamma di materie diverse.

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Attualmente, 30 università tedesche offrono corsi regolari d’archeolo-gia classica, compresi sei istituti dell’ex-DDR riaperti o ripristinati in seguito alla riunificazione del paese (tra cui il Winckelmann-Institut della Humboldt-Universität a Berlino-Est, la sede originaria dell’università humboldtiana). Altre 10 offrono saltuariamente seminari archeologici all’interno di istituti di storia o di architettura. Molti degli istituti archeologici risalenti all’Otto-cento hanno a loro disposizione un vasto apparato di strumenti utili all’inse-gnamento visivo: oltre alle già citate collezioni d’antichità, molti dispongono di gipsoteche (le più grandi a Berlino, Bonn, Göttingen e Monaco), fototeche e collezioni di diapositive, molte delle quali iniziate già nell’Ottocento.

Nel 1997 vi erano ca. 1000 studenti in archeologia classica 7. Nello stesso anno, 55 conseguirono la laurea (Magister Artium) e altre 30 il dotto­rato. Queste cifre vanno confrontate con una media annuale di ca. 15 con­corsi, sia per posti di assistenti che di professori, cosicché vi sono state fino a 80 domande per un posto di assistente universitario. Gli archeologi che oc­cupano un posto universitario ammontano circa a 170, di cui circa 80 con posti fissi (circa 50 professori, 25 curatori di collezioni archeologiche univer­sitarie e cinque ricercatori). Gli altri posti sono ripartiti tra assistenti quin­quennali (35), liberi docenti (20) e Lehrbeauftragten, incaricati di singoli cor­si semestrali (35). Non vi sono concorsi per esami, ma la scelta avviene diret­tamente per decisione personale dei professori. Per accedere ad un posto di professore, è necessaria un’ulteriore qualifica dopo il dottorato, l’abilitazio-ne, costituita da un’opera (normalmente monografica) ed una conferenza pubblica; la nomina a tale carica avviene tramite scelta da parte del diparti­mento in questione, previa “chiamata” alla cattedra (einen Ruf erhalten). È stato osservato varie volte come il sistema dell’abilitazione tenda piuttosto a favorire studi a carattere tradizionale – come ricerche iconografiche su temi della pittura vascolare greca o dei sarcofagi romani – che appaiono più “sicu­ri” e meglio circoscrivibili sia in senso quantitativo che intellettuale, e offro­no quindi una migliore garanzia di concludere la ricerca entro i limiti richie­sti e di farla approvare dal comitato del dipartimento responsabile.

Il curriculum tradizionale orientato sul dottorato fu modificato per la prima volta negli anni ’70 con l’introduzione del Magister Artium, inteso come termine ufficiale degli studi, mentre il dottorato, in quanto titolo ulte­riore, doveva rimanere riservato a coloro che aspiravano ad una carriera scien­tifica. Fu questa una riforma che già teneva conto dell’aumento del numero degli studenti e intendeva offrire un diploma universitario a quanti non aves­sero intenzioni specifiche per la ricerca. Purtroppo, questa qualifica si dimo­strò insufficiente per quasi tutti i settori professionali, archeologici e non, mentre l’unico effetto fu di allungare i tempi dello studio. Per porre rimedio a questa situazione, sono attualmente in discussione – ed in alcune università perfino in corso di sperimentazione – ulteriori riforme del curriculum, basa­te sul concetto del Bachelor of Art (BA), una qualifica ispirata ovviamente dal

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modello anglosassone. Oltre a mirare ad una maggiore compatibilità dei cor­si tedeschi con i curricula stranieri, questo modello ha lo scopo di introdurre corsi brevi a carattere più generale; nel caso degli studi classici essi coprono vari settori dell’antichità finora organizzati in discipline distinte quali la sto­ria, la filosofia e l’archeologia intesa in senso più ampio. Gli studenti godreb­bero una formazione abbastanza ampia, ma necessariamente superficiale, in un arco di tempo molto più breve rispetto ai corsi di laurea tradizionale. Il punto debole di questa idea consiste nell’incertezza sugli sbocchi professio­nali che il BA potrebbe aprire rispetto al Magister. Certamente, non sarà il campo della museologia o delle materie tecniche – rilievo, restauro, docu­mentazione ecc. – per i quali esistono già corsi specializzati, paragonabili ai corsi di laurea e di diploma in beni culturali esistenti in Italia. Rispetto a questi corsi tecnici, i corsi archeologici tradizionali dimostrano una notevole carenza d’elementi di formazione pratica, sia per quel che riguarda le tecni­che di scavo, sia l’informatica, sia l’applicazione di metodi archeometrici. A parte poche eccezioni d’insegnamento specifico nelle materie suddette, gran parte delle qualifiche pratiche e tecniche devono essere imparate all’esterno degli istituti archeologici. Significativamente, molto spesso gli studenti di ar­cheologia classica, che hanno intenzione di imparare le tecniche di scavo, fanno le loro prime esperienze su scavi preistorici, mancando completamen­te scavi didattici di ambiente classico. Per partecipare ad uno dei grandi scavi all’estero, gestiti in maggior parte dal DAI, è richiesta infatti un’esperienza di scavo che la disciplina stessa non provvede ad offrire.

Tuttavia, un problema principale i cui sintomi si fanno sentire molto più direttamente rispetto a tutti gli altri fenomeni suddetti è il fatto che le scuole superiori preparano gli studenti sempre meno con conoscenze specifi­che: storia antica, latino e greco. Ne consegue che gran parte dell’insegna-mento universitario durante i primi semestri deve concentrarsi sul recupero di questi elementi base, lasciando poco spazio a questioni di metodo.

2.3 L’ISTITUTO ARCHEOLOGICO GERMANICO (DEUTSCHES ARCHÄOLOGISCHES INSTITUT)

La storia del DAI è stata scritta molte volte – in occasione dei principali anniversari –, cosicché appare superfluo ripeterla in questa sede 8. È forse opportuno ricordare solo che l’istituzione fu fondata nel 1829 come “Instituto di Corrispondenza Archeologica” a Roma, con forme giuridiche completa­mente diverse da quelle attuali (cioè come un’associazione a carattere privato posta sotto il patrocinio del principe ereditario di Prussia Federico Gugliel­mo – il futuro quarto re con questo nome – e promossa da studiosi, artisti e diplomatici provenienti da vari paesi europei). Il suo scopo era offrire un centro che raccogliesse – tramite l’attività di corrispondenti sparsi in vari paesi – la massa di informazioni su monumenti, scavi, epigrafia e topografia che si andavano accrescendo rapidamente in quell’epoca; inoltre, nel pensie-

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ro di uno dei fondatori, Eduard Gerhard, esso avrebbe dovuto provvedere alla pubblicazione di vecchie e nuove scoperte, promuovendo studi accurati in un’atmosfera di dialogo internazionale (le lingue principali adoperate nel­le riviste e nelle monografie dell’istituto, così come nelle adunanze, visite guidate ecc. erano l’italiano ed il francese). La sede dell’istituto era la piccola Casa Tarpea sul lato sudorientale del colle Capitolino, tuttora esistente. La direzione era composta di un segretario generale ed un collegio di membri ordinari residenti sia a Roma, sia in altre città, anche all’estero; gli studiosi italiani erano rappresentati da Carlo Fea e da Antonio Nibby. È ben noto, specialmente in Italia, il profondo processo di nazionalizzazione, cioè di “ger­manizzazione”, che l’istituto subì nel corso dell’Ottocento, fino a diventare nel 1874 un Reichsinstitut, un’istituzione dello stato tedesco unitario. Già prima la sede centrale era stata spostata da Roma a Berlino, in seguito al ritorno del Gerhard in questa città. Nel 1874, il nome fu cambiato in Kaiserlich Deutsches Archäologisches Institut e di nuovo nel 1945 in Deutsches Archäologisches Institut. La struttura federale della direzione – la Zentraldirektion – composta (oltre al presidente) dai direttori delle varie se­zioni estere e da professori ordinari rappresentanti dei singoli Länder, fu fissata nel 1914 ed è rimasta sostanzialmente immutata fino ai giorni nostri. Gli studi classici sul mondo greco-romano hanno mantenuto un’importanza centrale per tutto l’Ottocento (oltre a quella romana, era stata fondata una sezione ateniese nel 1874), mentre nella prima metà del Novecento si assi­stette ad un ampliamento a regioni ed epoche diverse: la preistoria, la archeolo­gia provinciale della Germania stessa (studiata dalla Römisch-Germanische Kommission dell’istituto, con sede a Francoforte), l’Egitto, le culture preistori­che, classiche ed islamiche dell’Asia Minore, della penisola Iberica, del Medio Oriente, studiate da rispettive sezioni al Cairo, ad Istanbul e Madrid.

Dopo il 1945, il DAI poté riprendere abbastanza presto le sue attività tradizionali – ricerche e scavi condotti in Germania ed in vari paesi esteri (sui quali vedi par. 6), pubblicazione di monografie e riviste, organizzazione di convegni, concessione di borse di studio per giovani studiosi e colleghi stra­nieri. Certo, alcuni alti funzionari, tra cui lo stesso presidente Martin Sche­de, dovettero dimettersi; la guerra aveva inoltre provocato notevoli danni materiali e gli istituti esteri, soprattutto le loro ampie biblioteche, furono sottoposte a controllo internazionale (Roma) o nazionale dei paesi ospiti (Ate­ne, Istanbul). Fu necessario un grande e prolungato sforzo diplomatico per ottenerne la restituzione; in più, la divisione della Germania in quattro setto­ri prima ed in due paesi poi non facilitò certo la gestione degli affari, visto che la sede centrale rimase a Berlino per motivi di continuità, quindi difficil­mente raggiungibile dalle regioni occidentali del paese. Per quel che riguarda l’Est, i rappresentanti delle università nel settore sovietico, la futura RDT, dovettero rinunciare alla partecipazione alle riunioni della Zentraldirektion agli inizi degli anni ’50. Di fatto il DAI continuò ad essere un’istituzione della

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sola Germania occidentale, e la presenza della sede centrale a Berlino Ovest non mancò di provocare ripetuti proteste da parte della RDT. Per quel che riguarda quest’ultima, l’istituzione di ricerca archeologica paragonabile al DAI, a parte i musei e le università, fu l’Accademia delle Scienze della RDT a Berlino Est, in particolare il Zentralinstitut für Alte Geschichte und Archäologie, le cui attività di ricerca si svolgevano però soprattutto nel campo della prei­storia e della storia antica, più che dell’archeologia classica.

Nonostante le suddette difficoltà, i contatti internazionali del DAI fu­rono ricostruiti senza grandi ostacoli, sia tradizionalmente con la nomina di soci corrispondenti ed ordinari all’estero, sia tramite le attività delle varie sezioni. Il raggio delle attività di ricerca e di scavo fu ulteriormente ampliato con la fondazione di nuove sezioni e sottosezioni a Baghdad (1955), Teheran (1961), Sanaa (1978), Damasco (1980) e con la fondazione di nuove Kommissionen (centri di studio) o la fusione con istituzioni già esistenti. La Kommission für Alte Geschichte und Epigraphik, fondata a Monaco nel 1951 con lo scopo di promuovere studi di storia antica ed epigrafia, fu affiliata al DAI nel 1967; la Kommission für Allgemeine und Vergleichende Archäologie a Bonn, un centro di studi d’archeologia comparata e mondiale, fu fondata nel 1979 in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’istituto, enfatiz­zando il recente e vivace interesse per un’archeologia “globale” riscontrabile anche in altre creazioni dell’epoca (si pensi alla salle d’archéologie comparée del Musée des Antiquités Nationales a St.-Germain-en-Laye presso Parigi) e, naturalmente, in molte pubblicazioni archeologiche di carattere divulgativo uscite nello stesso periodo. Anche se alcune delle sezioni fondate dopo il 1945 dovettero chiudere sia per gli sviluppi politici nei paesi ospiti (Baghdad, Teheran), sia per difficoltà finanziarie (la sottosezione del DAI a Lisbona), altre furono riorganizzate in veste nuova negli anni ’90 in seguito agli eventi legati alla riunificazione della Germania ed al crollo dell’Unione Sovietica: nel 1995 fu fondata la sezione Eurasien-Abteilung con sede a Berlino, dedica­ta allo studio dell’Europa orientale e del Medio Oriente dalla preistorica al Medio Evo, comprese le colonie greche sul Mar Nero e le culture della Persia antica ed islamica (in questa sezione furono inclusi gran parte degli archeolo­gi prima attivi nella sezione di Teheran così come gli ex membri del Zentralinstitut für Alte Geschichte und Archäologie dell’Accademia delle Scien­ze della RDT, assorbito dal DAI nel 1992; molto utili per le ricerche della nuova sezione si dimostrarono sia le loro esperienze e contatti con l’Europa Orientale, sia i loro laboratori di dendrocronologia, paleobotanica, archeo­zoologia, ecc.); nel 1996, la sezione originariamente di Baghdad, da anni operante a Berlino, fu riunita con le sottosezioni di Sanaa e Damasco alla nuova Orient-Abteilung. Essa si occupa dell’archeologia del Vicino Oriente in tutte le sue fasi, comprese quelle classiche (esemplificata da studi sull’ar-chitettura templare in Siria e nel Libano).

Visto il largo raggio delle attività e dei contatti internazionali del DAI,

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emerge chiaramente il suo eminente carattere di rappresentanza della Ger­mania all’estero, almeno sul piano culturale. Questa funzione quasi diploma­tica è ancora più significativa nei paesi in cui la presenza tedesca nei settori commerciale, turistico e politico è meno sviluppata, cioè nel Vicino Oriente e in Europa Orientale. A sottolineare questa funzione, ulteriormente attua­lizzata dopo gli eventi del 1989, la responsabilità per l’istituto fu trasferita già nel 1970 dal ministero degli interni a quello degli affari esteri, al quale il DAI era già stato sottoposto fra il 1874 e il 1934.

Dei circa 100 archeologi attivi nelle varie sezioni del DAI, una quaran­tina sono di formazione classica. La metà di questi sono di ruolo, mentre gli altri hanno contratti da due a cinque anni. Sarà forse utile ricordare che il DAI non si propone di offrire una formazione o un perfezionamento ai gio­vani studiosi. Questo compito non gli è mai stato proprio e – per quanto io sappia – non se ne è mai sentita l’esigenza. Contrariamente all’Italia, dove il concetto di una Scuola superiore di archeologia fu almeno preso in conside­razione (BARBANERA 1998, pp. 64-70), in Germania il ruolo delle università come unico luogo di formazione dei giovani archeologi non fu mai messo in discussione (un caso a parte sono i Volontariate per la formazione dei futuri funzionari dei musei, vedi par. 2.1). In via generale, si può affermare che il DAI richiede che i suoi giovani collaboratori siano ben preparati per i compi­ti a loro affidati – sia l’esperienza pratica di scavo, sia quella redazionale, sia quella organizzativa – o che alternativamente, tali esperienze vengano perfe­zionate tramite il lavoro stesso. L’unico aspetto legato esplicitamente al sup­porto ed al perfezionamento dei giovani studiosi è il famoso Reisestipendium, concesso dall’istituto ogni anno sin dal 1859/60: si tratta di borse di studio per giovani archeologi (di cittadinanza tedesca, che devono aver concluso il loro dottorato entro l’età di trent’anni) intese come premio per le migliori tesi di dottorato. Le borse servono esclusivamente al finanziamento di un viaggio archeologico nei paesi del Mediterraneo per la durata di un anno, senza alcun obbligo di pubblicazione o di lavoro e con libera scelta dell’itine-rario di viaggio. Originariamente, queste borse avevano lo scopo di offrire ai giovani studiosi opportunità di ampliare le loro conoscenze dei monumenti antichi, considerando le scarse possibilità per viaggiare esistenti all’epoca. L’Italia e la Grecia, soprattutto le due capitali con i loro monumenti e musei, erano i punti centrali del viaggio; al giorno d’oggi il viaggio viene normal­mente esteso a tutto il bacino del Mediterraneo e al Vicino Oriente. Il nume­ro delle borse concesse ogni anno è aumentato da due – i primi ad usufruirne furono Alexander Conze ed Adolf Michaelis – fino a circa una decina ai giorni nostri. Fino al 2000 sono state complessivamente concesse 744 borse, e l’importanza di questo premio per una carriera accademica è dimostrata dal fatto che la stragrande maggioranza degli archeologi classici tedeschi de­gli ultimi 140 anni è stata borsista del DAI dopo aver concluso gli studi uni­versitari (per i preistorici non vale la stessa relazione, nonostante il fatto che

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una piccola percentuale delle borse disponibili ogni anno sia riservata per loro sin dal 1927; tra l’altro, questo è il caso anche per architetti specializzati in architettura antica, per studiosi di archeologia cristiana, teologi, storici ed epigrafisti). Anche se lo scopo originario di offrire l’opportunità di appro­fondire la conoscenza dei monumenti e di trovare una visione d’insieme del mondo antico, viaggiando paese per paese, è tuttora valido, è pur innegabile che il Reisestipendium ha allo stesso tempo la funzione – non esplicita ma ampiamente accettata – di selezionare, oltre che sostenere, le giovani leve della disciplina.

3. Attività di autogestione e politica “sindacale”: il Deutscher Archäologenverband (DArV)

Fondato nel 1970 quasi in funzione alternativa al DAI, il Deutscher Archäologenverband può essere considerato un’associazione paragonabile per certi versi alla scomparsa Società degli archeologi italiani (v. BARBANERA 1998, pp. 162-164). L’insoddisfazione, rispetto alla situazione professionale, e le riflessioni sul ruolo della disciplina nella società contemporanea aggregaro­no un gran numero di giovani studiosi e portarono alla fondazione di un organo di rappresentanza e di dibattito dichiaratamente democratico. L’ac-cesso era (ed è tuttora) aperto a chiunque abbia un diploma specifico, indi­pendentemente dallo stato di occupazione o eventuale disoccupazione; ogni socio ha gli stessi diritti, mentre la quota associativa cambia secondo lo sti­pendio. I membri si riuniscono annualmente in sedi differenti e il direttore viene eletto direttamente da tutti i membri (i primi direttori furono Bernard Andreae, allora docente a Bochum, e Hans Georg Niemeyer di Colonia).

Le circostanze nelle quali nacque il DArV s’inseriscono nella situazione politica e sociale della Germania (parallela a quella riscontrabile in molti altri paesi europei) alla fine degli anni ’60, caratterizzata dalle proteste studente­sche e dall’intensa attività politica extra-istituzionale. Anche nell’ambito del-l’archeologia, specialmente per quanto riguarda il settore universitario e il DAI, venivano contestate le vecchie strutture gerarchiche ed autoritarie; le stesse impostazioni tradizionali della ricerca – ad esempio l’analisi stilistica – furono tacciate di scarso rilievo storico ed attuale. Le riforme avanzate sin dai primi anni ’70 portarono sì a notevoli cambiamenti entro le università e persino alla creazione di nuovi posti, ma allo stesso tempo non portarono ad una riflessione interna, a discussioni su strategie e metodi di ricerca e di co­municazione al pubblico e di reazione al fenomeno, sempre più diffuso anche in ambiente archeologico, della disoccupazione.

Per rispondere a tali esigenze, la nuova associazione si propose di rap­presentare gli interessi professionali e sociali dei propri membri nel confron­ti del pubblico (inteso non solo come mondo politico, ma anche dei mass

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media), di intervenire nei dibattiti sulla politica culturale e sulla pubblica istruzione (ad esempio, nelle questioni riguardanti la formazione universita­ria ed altre forme di perfezionamento all’interno dei musei o di altri centri di studio), di offrire uno spazio aperto alla discussione e di fornire ai suoi mem­bri informazioni aggiornate su scavi, convegni, concorsi, associazioni, non­ché su progetti di studio in fase di completamento o appena conclusi (liste dei titoli delle tesi di laurea, di dottorato e di abilitazione). Oltre alle riunioni annuali, incentrate normalmente su uno o due argomenti specifici (nel 2000 il tema è l’introduzione del curriculum universitario con diploma BA, non­ché l’autorappresentazione dell’archeologia nei confronti del pubblico), di­scussioni ed informazioni sono condotte e diffuse tramite newsletters spedite ad intervalli irregolari (a seconda delle esigenze) e tramite bollettini (Mitteilungshefte) ordinati per categorie: liste dei corsi archeologici universi­tari, dei progetti di studio, dei membri, resoconti delle riunioni annuali ecc.

Nell’arco dei trent’anni passati dalla fondazione, non sono mancate fasi di crisi e ripetuti dibattiti sullo scopo attuale e futuro del DArV. Molti lo hanno sempre considerato un’associazione dei giovani e dei sottoprivilegiati, della quale i colleghi che hanno posti di ruolo si disinteressano ormai da anni – anche se spesso furono membri fondatori; altri considerano il DArV come una lobby politica troppo debole e con strutture poco efficienti; altri ancora lo ritengono invece utile ed indispensabile, se non altro per il flusso d’infor-mazioni che fornisce. Fatto sta che il DArV continua ad attrarre un numero continuamente crescente di giovani studiosi, e che le proteste avanzate in alcune situazioni di emergenza, come la proposta chiusura di istituti archeo­logici universitari o il progetto di costruzione della metropolitana presso il Ceramico di Atene, non sono rimaste senza eco. Ovviamente, gran parte dell’insoddisfazione nei confronti del DArV deriva da attese forse troppo grandi riguardo ai suoi compiti ed alle sue possibilità di azione. Questo fa sì che venga largamente sottovalutato uno degli suoi risultati principali, (e che sicuramente lo rende attraente per i giovani), quello di offrire agli archeologi una corporate identity.

4. Discussioni su metodi e teoria: la rivista Hephaistos

Nella sua lunga storia, l’archeologia classica tedesca non ha mancato di produrre complessi concetti teorici, che guidassero la ricerca. Uno dei casi più noti e recenti è quello della Strukturforschung, nata negli anni ’20 e so­pravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale fino agli anni ’60 (per una discus­sione critica, vedi BORBEIN 1972; WIMMER 1997). I suoi rappresentanti – fra i più celebri Guido Kaschnitz von Weinberg, Friedrich Matz e Bernhard Schweitzer – cercarono di individuare e definire costanti formali dell’arte, intese come espressione di caratteri e principi universali di determinate so­

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cietà. Reagendo a impostazioni che limitavano l’archeologia ad una semplice filologia dei monumenti (come lo fece il positivismo nei decenni a cavallo tra Otto- e Novecento), quest’approccio ebbe il pregio di rivalutare in chiave diversa epoche storiche in precedenza considerate primitive o decadenti, an­che se mantenne una concezione solo astratta della storia.

Allo stesso tempo, non è mai cessato in Germania l’interesse per la storia dell’archeologia, seppure spesso limitato all’aspetto biografico (ad es., LULLIES, SCHIERING 1988) o a quello istituzionale (Deutsches Archäologisches Institut 1979-1986; JUNKER 1997). Quasi ogni generazione ha pure prodotto introduzioni, manuali e quadri generali sulla materia di vario genere (nel dopoguerra: NIEMEYER 1968; HAUSMANN 1969; SICHTERMANN 1996; BORBEIN

et al. 2000; LANG 2000). Tutto ciò dimostra che sarebbe completamente er­rato attribuire all’archeologia classica tedesca un’assoluta fissazione sull’og-getto e la mancanza di qualsiasi interesse per aspetti di teoria e di storiografia della propria disciplina.

Bisogna tuttavia ammettere che la Strukturforschung – com’è stato sot­tolineato giustamente – soffrì notevolmente di una carenza di riflessione cri­tica sui presupposti delle proprie teorie. Questo è vero anche per buona par­te degli studi tedeschi del dopoguerra (sui quali vedi il paragrafo successivo). Per reagire a questa situazione, un gruppo di archeologi dell’università di Amburgo – Burkhard Fehr, Lambert Schneider ed altri – fondarono nel 1979 la rivista Hephaistos. Essa – col sottotitolo «Rivista critica per la teoria e la prassi dell’archeologia e scienze affini» (Kritische Zeitschrift zur Theorie und Praxis der Archäologie und angrenzender Wissenschaften) 9 – si proponeva di dare spazio alla discussione su teorie e metodi della ricerca (provenienti an­che da discipline più distanti dall’archeologia), di pubblicare analisi critiche delle impostazioni attuali dell’archeologia, saggi archeologici utili alla di­scussione teorica e metodologica, indagini sulla relazione tra archeologia e società contemporanea, recensioni e dibattiti. Ovviamente, i redattori face­vano appello non solo ai colleghi tedeschi, ma anche a quelli stranieri, solle­citando anche contributi di studenti e dottorandi come pure descrizioni di progetti in corso. A distanza di vent’anni – la rivista esiste tuttora –, questo profilo editoriale è rimasto sostanzialmente immutato: l’editoriale premesso alla rivista a partire dal 1992/93 – da allora in poi scritto esclusivamente in inglese, a sottolineare il carattere internazionale del dibattito sollecitato da­gli editori – propone di reagire alle correnti attuali, rimproverate di uno “pseudo-positivismo” (visto nel fenomeno dell’accumulo di grandi quantità di materiali e conoscenze particolari, poco adatte all’elaborazione di sintesi storiche) e di “approcci neoclassicistici” (la cui attrazione deriverebbe dalle incertezze e crisi della società contemporanea). Per porre rimedio a questa situazione, occorrerebbero non tanto studi ben definiti e incontestabili, quanto nuove idee, presentazioni di progetti preliminari e aperti ad una visione com­plessiva della società antica, della quale viene ribadito il carattere eterogeneo

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e variegato. I saggi pubblicati nella rivista corrispondono alla linea generale ed alle

intenzioni promosse dagli editori: sebbene contributi pertinenti in senso stretto alla teoria e metodologia archeologica costituiscano una percentuale molto inferiore a quella di articoli di carattere più particolare, incentrati su monu­menti concreti (sono da rilevare i testi di L. Schneider, B. Fehr e K. H. Meyer sulla semiotica nonché di M. Hofter su stile e struttura), è pur evidente che gli scritti scelti per la pubblicazione siano accomunati da uno spiccato senso critico e di riflessione interna. Si possono citare gli studi sull’iconologia della pittura vascolare greca (H. Hoffmann, F. Lissarrague ed altri), sui significati politici e sociali dell’architettura greca (B. Fehr, Ch. Höcker), sulla relazione tra i sessi nelle società antiche (M. Meyer, S. Pfisterer-Haas), sulla ricezione dell’antichità in epoche posteriori, come quella nazista (Y. Doosry, H. Dickel ed altri), su aspetti della storiografia archeologica (S. Wenk su Theodor Wiegand, R. Faber su Ludwig Curtius), su nuovi settori della ricerca archeo­logica (R. Günter sull’archeologia industriale), su nuovi metodi di scienze naturali applicate in archeologia (M. Seifert) e recensioni di libri importanti ed innovativi (L. Schneider su MARCHAND 1996, L. Giuliani sul Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae dopo la pubblicazione dell’ultimo vo­lume).

Confrontando Hephaistos coi Dialoghi di Archeologia, si può afferma­re che la rivista tedesca non raggiunse mai un’eco tanto vasta ed un ruolo tanto influente a livello nazionale come quelli del corrispondente italiano. Questo dipende sicuramente anche dal fatto che il suo taglio è sempre stato, ed è tuttora, molto più diversificato (in senso critico si potrebbe definirlo vago), dato che gli editori non intendevano seguire una linea specifica, bensì raccoglievano autori di provenienza e formazione assai diversa accomunati da un solo fatto: quello di condividere il disagio provato in confronto ad una reale o presupposta fissazione dell’archeologia tradizionale per l’oggetto. Di conseguenza, Hephaistos divenne piuttosto un foro aperto che un’arma pos­sente di un’avanguardia più o meno omogenea – come furono i Dialoghi almeno ai loro inizi (v. BARBANERA 1998, pp. 164-165).

5. Principali interessi ed orientamenti della ricerca

Come ha giustamente sottolineato T. Hölscher (1995, pp. 207-208) in un recente contributo sulla situazione attuale e le prospettive dell’archeolo-gia classica tedesca, la disciplina dopo la Seconda Guerra Mondiale si è ridot­ta a pochi settori specializzati: in netta contrapposizione alle visioni globali dell’antichità proposte dalla ricerca fra i due conflitti mondiali, gli studi del dopoguerra appaiono estremamente limitati a pochi campi della ricerca, con­siderati centrali. Una delle conseguenze è stata un’ulteriore marginalizzazio­

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ne di interi settori della ricerca, come l’etruscologia, la numismatica o l’ar-cheologia minoico-micenea 10. Mentre altri campi della ricerca come la storia dell’architettura antica, l’archeometria, il rilievo o il restauro sono rappre­sentati quasi esclusivamente in istituti esterni a quelli di antichistica (per lo più in politecnici 11), cattedre per la storiografia archeologica, per la teoria e metodologia della disciplina e le tecniche di scavo mancano completamente. Nei paragrafi seguenti, cercheremo di delineare le linee principali riscontra­bili nell’archeologia classica tedesca del dopoguerra; va da sé che queste os­servazioni sono ancora più selettive, riduttive e sicuramente anche più sog­gettive di quelle presentate nei paragrafi precedenti. Il primo problema per chiunque si ponga un tale compito è come strutturare i fatti: per classi di materiali, metodi o scuole? Dati gli intrecci e le sovrapposizioni riscontrabili nell’archeologia classica tedesca, come in qualsiasi ambito di ricerca, ogni scelta presenta i suoi problemi. In questa sede, abbiamo cercato seguire le linee generali secondo un sistema misto, che combina metodi e classi di mo­numenti. Ancor più problematica è la menzione di nomi e di opere scientifi­che, che necessariamente provocherà obiezioni. Sarebbe forse stato più sag­gio seguire il modello di Hölscher (1995, con giustificazione a p. 197, nota 1) e farne a meno. Al lettore italiano mancano tuttavia quei riferimenti che consentono al lettore tedesco, leggendo attentamente il testo di Hölscher, di individuare facilmente i nomi nascosti sotto la descrizione tematica. È co­munque indispensabile ricordare che questa scelta non può che essere parzia­le e soggettiva.

5.1 ANALISI FORMALE: STUDI SULLA SCULTURA GRECA E ROMANA

Un forte grado di continuità con la ricerca anteriore al 1945 è presente negli studi sulla scultura greca e romana, almeno fino alla fine degli anni ’60. Personaggi come Ernst Buschor (1886-1961), Ernst Langlotz (1895-1978) e Hans Diepolder (1896-1969), autorevoli professori universitari e/o funzio­nari nei musei, attivi sia prima che dopo la guerra, si distinsero per lavori di ampia portata (E. BUSCHOR, Die Plastik der Griechen, 1a ed. 1936, 2a ed. 1958; IDEM, Von griechischer Kunst, 1956; H. DIEPOLDER, Die attischen Grabreliefs des 5. und 4. Jhs., 1a ed. 1931, 2a e 3a ed. 1965 e 1969; E. LANGLOTZ, Die Kunst der Westgriechen in Sizilien und Unteritalien, 1963), ispirati da varie fonti intellettuali e caratterizzati da diversi approcci metodo­logici: un’estetica formale riscontrabile nell’opera del Buschor, l’ultimo allie­vo di A. Furtwängler – come il suo maestro, anche il Buschor fu uno dei personaggi più influenti nell’archeologia classica tedesca della sua epoca; tut­tavia, la sua opera non è ancora stata valutata adeguatamente e nel suo com­plesso (cioè al di fuori dei necrologi): giustamente, è stato notato che le sue premesse teoriche rimangono tuttora vaghe (BORBEIN 1972, pp. 299-300; HÖLSCHER 1995, p. 210) –; elementi di positivismo combinati con quelli della

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Strukturforschung negli studi del Langlotz, il quale pose molta attenzione alla forma artistica come espressione dello spirito di un’epoca storica o di una determinata regione geografica, non limitandosi però ad una sola cate­goria di monumenti per evidenziare tale fenomeno; una sobria analisi stilisti­ca è presente nei lavori del Diepolder, ispirato dai metodi dello storico del-l’arte H. Wölfflin.

La generazione dei loro allievi e dei successori alle loro cattedre è ca­ratterizzata da un’ancor maggiore pluralità metodologica: persistono approcci di netto carattere positivistico, incentrati sulla compilazione di serie di copie romane adoperate per la ricostruzione di originali greci (W. FUCHS, Die Skulptur der Griechen, 1a ed. 1969, 3a ed. 1983; IDEM e J. FLOREN, Die griechische Plastik I: Die geometrische und archaische Plastik, 1987), che si rifanno a modelli della prima metà del secolo, quali G. Lippold. Diverso è il profilo di Nikolaus Himmelmann (-Wildschütz), che integra elementi della Strukturforschung con interpretazioni ermeneutiche, al fine di indagare la struttura artistica di determinate epoche storiche sulla base di varie classi di monumenti e sull’evidenza delle fonti letterarie (N. HIMMELMANN, Studien zum Ilissos-Relief, 1956; IDEM, Bemerkungen zur geometrischen Plastik, 1964; IDEM, Erzählung und Figur in der archaischen Kunst, 1967). Anche gli studi di Adolf H. Borbein si contraddistinguono dall’integrazione dell’analisi forma­le delle arti figurate nel contesto generale – storico, letterario, filosofico – di una data epoca (A.H. BORBEIN, Die griechische Statue des 4. Jhs. v.Chr., in «Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts» 88, 1973). Alle attività dell’istituto archeologico dell’università d’Amburgo è già stato fatto riferi­mento nel paragrafo sulla rivista Hephaistos. Due dei suoi editori, Burkhard Fehr e Lambert Schneider, hanno dato importanti contributi su aspetti della scultura greca (B. FEHR, Bewegungsweisen und Verhaltensideale, 1979) o gruppi di monumenti (L. SCHNEIDER, Zur sozialen Bedeutung der archaischen Korenstatuen, 1975), giovandosi di teorie e metodi dell’antropologia storica e della semiotica.

Lo studio della ritrattistica romana ha ricevuto nuovi fondamenti con i lavori, nati in contesti completamente diversi e presentati in forme alquanto differenti, di Klaus Fittschen e Paul Zanker da un lato e di Luca Giuliani dall’altro. I cataloghi dei ritratti nei Musei Capitolini a Roma, elaborati dai primi due studiosi con l’intenzione di fornire uno strumento affidabile di datazione stilistica per altri gruppi di monumenti, basandosi su una classe di monumenti molto fitta, soggetta a rapidi processi d’innovazione e databili con criteri esterni, costituiscono uno dei repertori più usati da chiunque si occupi di scultura romana, non solo di ritratti (finora sono apparsi due volu­mi, 1983-85). Il libro di Giuliani, Bildnis und Botschaft (GIULIANI 1986), of­fre un’interpretazione ermeneutica del linguaggio artistico, così come delle intenzioni dei committenti di questa classe di materiali sullo sfondo della situazione storica della tarda repubblica romana – un approccio che rientra

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anche nel contesto delle ricerche descritte nel prossimo paragrafo. Un filone di ricerca nato a partire dagli anni ’60 e ’70 riguarda lo stu­

dio della scultura di età romana – non solo ritrattistica, ma anche quella ideale – vista come espressione artistica autonoma: questa produzione costi­tuirebbe un fenomeno storico che non sia riducibile ai termini della copia fedele di capolavori greci perduti. Già nel 1963, fu fondato un centro di ricerca e di documentazione sulla scultura romana a Colonia, il Forshungsarchiv für Plastik sotto la direzione di Hansgeorg Oehler. Nel corso di quasi 30 anni di vita, questo archivio ha accumulato oltre 100.000 fotografie di sculture antiche, non solo di età romana, rendendolo un singolare strumento della ricerca. Nello stesso spirito sorse anche un’ini-ziativa di giovani studiosi intitolata Forschungsgruppe Römische Ikonologie nella metà degli anni ’70. Essa raggruppò archeologi interessati a vari aspetti della produzione artistica di età romana, nell’ambito della quale nacquero, tra l’altro, i cataloghi capitolini di Fittschen e Zanker. Impor­tanti stimoli per lo studio della scultura romana furono dati dalla monogra­fia Klassizistische Statuen di Paul Zanker (1974), che mise in evidenza il grande grado di autonomia e d’invenzione di scultori romani ispirati dalla produzio­ne scultorea greca. Anche l’opera di Christa (von Hees-) Landwehr mette in evidenza il carattere specifico della scultura romana rispetto a quella greca (Die römischen Skulpturen von Caesarea Mauretaniae, 1993; IDEM, Konzeptfiguren. Ein neuer Zugang zur römischen Idealplastik, «Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts», 113, 1998).

5.2 STUDI D’ICONOGRAFIA ED ICONOLOGIA

Accanto alla ricerca formale sulla scultura greca e romana – basata su analisi stilistiche e tipologiche, gli studi d’iconografia fanno parte del cuore dell’archeologia classica tedesca – sia nella forma tradizionale risalente al-l’Ottocento, sia in quella innovativa degli ultimi trent’anni, che si è avvalsa più ampiamente di idee sviluppate in altri paesi. Senza dubbio, quest’ultimo settore è uno dei più fecondi e famosi a livello internazionale (anche tramite traduzioni di pubblicazioni in lingue straniere, un caso molto raro) all’inter-no della ricerca tedesca contemporanea. I suoi esponenti principali sono an­dati «a scuola dagli italiani», soprattutto a quella di Ranuccio Bianchi Bandi­nelli, per parte dei loro studi universitari. Essi stessi hanno svolto un’attività didattica nelle loro università – Tonio Hölscher a Heidelberg, Paul Zanker a Monaco – che ha portato alla formazione di vere e proprie scuole, tra le più ampie, più nettamente definite e più influenti in Germania. Concessi tutti questi aspetti positivi, bisogna pur ribadire che questo stato di fatto abbia anche contribuito ad una certa monopolizzazione, se non degli studi, almeno della percezione generale che si ha dell’archeologia classica tedesca. Questo stesso contributo non farà eccezione. Ma cerchiamo di andare avanti in ordi-

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ne cronologico. A partire dalla metà, e soprattutto verso la fine dell’Ottocento, nel

periodo definito convenzionalmente come positivismo storico, nacquero nu­merosi progetti di pubblicazione d’intere classi di materiali, i grandi corpora, alcuni dei quali sono tuttora in corso di completamento: accanto ai corpora epigrafici del CIL e delle IG, nonché al progetto della Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft di A.F. Pauly e G. Wissowa, in ambito ar­cheologico sorsero il corpus Etruskische Spiegel (specchi etruschi) iniziato da Eduard Gerhard nel 1840, le Etruskische Urnen (urne etrusche) cominciate da Heinrich Brunn nel 1870, il Corpus der attischen Grabreliefs (rilievi fune­rari attici) di Alexander Conze (4 volumi, 1893-1911/22) ed il corpus Die antiken Sarkophagreliefs (rilievi dei sarcofagi antichi), edito da Carl Robert a partire dal 1890. Come negli analoghi progetti internazionali sorti nel XX secolo – il Corpus Vasorum Antiquorum, il Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae –, all’interno di questi repertori strutturati tipologica­mente e cronologicamente, prevalsero spesso considerazioni di interpreta­zione e di ordine iconografico del materiale. Interessi centrali di queste im­prese scientifiche furono e rimangono l’identificazione e l’interpretazione di determinati soggetti – persone, episodi mitologici, scene della “vita quotidia­na” ecc. –, la loro seriazione (con particolare riguardo all’origine ed allo sviluppo della rappresentazione dei soggetti), e la loro datazione. Inoltre, nei progetti tuttora attivi, come il corpus dei sarcofagi antichi, la cui redazione viene curata ormai da anni nell’università di Marburg (vedi G. KOCH, 125 Jahre Sarkophag-Corpus. Ein großes deutsches Forschungsvorhaben feiert Jubiläum, in «Antike Welt» 26, 1995, pp. 365-377; IDEM, a cura di, Akten des Symposiums “125 Jahre Sarkophag-Corpus”, 1998), viene dato grande rilie­vo a questioni riguardanti le maestranze, le officine ed il commercio.

Accanto all’indagine iconografica basata su determinate classi di mate­riali raggruppati nei corpora, studi specifici furono condotti da alcuni studio­si su monumenti particolari (Frank Brommer sulla decorazione scultorea del Partenone) o sulle rappresentazioni di cicli mitologici (Karl Schefold). Erika Simon ha dato contributi notevoli su moltissimi aspetti di iconografia relativi a varie classi di monumenti greci, etruschi e romani, molto spesso legati alla religione ed alla prassi cultuale (Opfernde Götter, 1953; Die Portlandvase, 1957; Die Götter der Griechen, 1969; Die griechischen Vasen, 1976; Festivals of Attica, 1983; Die Götter der Römer, 1990).

Nuovi orientamenti nella ricerca iconografica emersero negli anni ’60. Come già ricordato, l’esperienza italiana fu determinante per lo sviluppo di un’ottica nuova, come lo fu la situazione politica e sociale dell’epoca in Ger­mania: in un clima caratterizzato da un vivace interesse politico e da altret­tanto vivaci attività, alcuni giovani archeologi cominciarono a porsi la que­stione della rilevanza politica, storica e sociale della disciplina. Un campo

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privilegiato per la ricerca critica furono le immagini – intese nel senso più ampio della parola: pitture vascolari e parietali, sculture collocate in luoghi pubblici e privati, terrecotte architettoniche, gemme, monete ecc. –, la cui interpretazione non fu più limitata alla sola descrizione del contenuto, allo sviluppo iconografico, alla qualità artistica, alla datazione, ma fu allargata a tutta una serie di problemi contestuali ed ermeneutici: il ruolo del commit­tente, la relazione tra arte e pubblico, tra arte e situazione politica, tra arte e contesto topografico, la memoria collettiva. Ugualmente, ci si rese conto del fatto che non bastava un’interpretazione unica del significato delle immagi­ni, bensì occorrevano distinzioni e specificazioni su vari livelli: vari gradi di conoscenza e di coscienza presenti in vari tipi di spettatori necessitavano modelli diversificati d’interpretazione; lo stesso può dirsi delle diverse circo­stanze storiche e topografiche, che creano tipi svariati di associazioni mentali nello spettatore di opere artistiche. In quest’ottica, anche l’aspetto formale delle opere d’arte e d’artigianato può assumere connotazioni diverse in de­terminati contesti storici e sociali. Il nesso stretto tra archeologia e storia si manifesta con particolare evidenza nell’arte di rappresentanza della tarda repubblica romana e dell’età imperiale (cfr. vari saggi di T. Hölscher, recen­temente tradotti in italiano e riuniti in una pubblicazione monografica: Mo­numenti statali e pubblico, 1994); nei numerosi studi dedicati a questi argo­menti, un ruolo primario è stato riservato al principato di Augusto (T. HÖLSCHER, Staatsdenkmal und Publikum, 1984; P. ZANKER, Forum Augustum, 1968; IDEM, Forum Romanum. Die Neugestaltung unter Augustus, 1972; IDEM, Studien zu den Augustus-Porträts. Der Actium-Typus, 1973; IDEM, Augustus und die Macht der Bilder, 1987, tradotto successivamente in inglese, italiano e spagnolo).

Nondimeno, anche l’arte greca offrì vari spunti e stimoli per la ricerca, particolarmente le epoche caratterizzate da guerre, tensioni politiche e socia­li, crisi, cambiamenti: il periodo delle guerre persiane, i cambiamenti verifi­catisi con l’ascesa di Alessandro Magno, le guerre tra gli epigoni e i diadochi (W. GAUER, Weihgeschenke aus den Perserkriegen, Istanbuler Mitteilungen Suppl. 2, 1968; T. HÖLSCHER, Ideal und Wirklichkeit in den Bildnissen Alexanders des Großen, 1971; IDEM, Griechische Historienbilder des 5. und 4. Jahrhunderts v.Chr., 1973; vedi ultimamente, in una posizione di riflessione retrospettiva, HÖLSCHER 1995; per una sintesi del metodo: T. HÖLSCHER, in BORBEIN et al. 2000, pp. 147-165).

Ma l’approccio iconologico – un termine ed una definizione risalenti ad E. PANOFSKY, Studies in Iconology, 1939 – offrì nuove prospettive d’inter-pretazione non solo per l’ambito politico, pubblico, ma anche per fenomeni apparentemente “privati” della vita antica, come nelle aree di rappresentan­za all’interno delle abitazioni, nelle necropoli, nei luoghi dello spettacolo e della ricreazione: da qui nacquero numerosi studi sugli arredamenti scultorei

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di vari tipi di edifici (case, ville, teatri, terme), sulle necropoli di Pompei e di Ostia, su diverse forme e concetti dell’abitare (concentrandosi in buona par­te sull’evidenza pompeiana). Attualmente, il DAI di Roma intrattiene un pro­gramma di studio incentrato su Stadtkultur in der römischen Kaiserzeit (cul­tura urbana in età imperiale), che mira allo studio del «linguaggio delle im­magini» in tutti i settori della vita urbana (per tutti gli aspetti legati alla tema­tica vedi ultimamente ZANKER 1994; ZANKER, in BORBEIN et al. 2000, pp. 205­226).

Senza dubbio queste correnti di ricerca possono essere considerate tra le più progressiste nell’archeologia classica tedesca, e quelle che si avvicinano di più a problematiche discusse – sebbene sulla base di materiale in parte differente, ed in termini diversi – da altre scuole al di fuori della Germania. Nella misura in cui indagano fenomeni legati a contrasti sociali, potere, ideo­logie, simboli di rappresentanza ecc., appaiono in sintonia con certe correnti del post-processualismo, anche se finora nessuno le ha definite in questo modo. Tralascio se questo sia un segno di prudenza o un’altra prova della riluttanza alla riflessione teorica e metodologica che da tempo contrassegna l’archeologia classica in Germania.

5.3 STUDI SULLE CONDIZIONI ED I CONTESTI DELLA PRODUZIONE ARTISTICA

Un altro filone della ricerca archeologica tedesca, che si avvicina per certi versi ad alcune correnti dell’archeologia italiana ed internazionale degli ultimi decenni, interessa lo studio dei contesti, dei processi e delle condizioni della produzione, sebbene gran parte di questi studi sia limitata alla produ­zione artistica: non a caso, fino ai giorni nostri il termine “cultura materiale” è quasi del tutto assente nel linguaggio archeologico (classico) tedesco, non trovando riscontro né in forma diretta, né in forma traslitterata o tradotta 12.

L’interesse per gli aspetti tecnici e la terminologia della produzione artistica antica risale già alla fine dell’Ottocento ed è da inserire nel quadro più ampio della storiografia tecnica. Comunque, fu soltanto negli ultimi de­cenni che si affermò un rinnovato interesse per tali argomenti, e questo inte­resse si verificò in un contesto museale: fu infatti Wolf-Dieter Heilmeyer, il direttore dell’Antikenmuseum a Berlino Ovest ed attuale direttore dell’Antikensammlung riunificata, a proporre nuove indagini sulla produzio­ne dei bronzi custoditi nel museo. Ovviamente, a tal fine fu anche attivata una stretta collaborazione con diversi laboratori scientifici. Queste indagini diedero l’impulso per altre ricerche sulla produzione, riguardanti il marmo, la ceramica, il vetro, gli ori, ed inclusero anche sperimentazioni sul campo (eseguite da una squadra diretta da Gerhard Zimmer e Edilberto Formigli a Murlo). Aspetti centrali di questo tipo di ricerca riguardano la valutazione dell’impegno di lavoro necessario per la produzione – inteso sia in senso

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quantitativo: materiali, forza umana ecc., che qualitativo –, nonché aspetti di produzione in serie.

Come già accennato in uno dei paragrafi precedenti, l’archeometria è rappresentata in pochi istituti universitari esterni ai dipartimenti d’antichisti-ca. A Berlino, l’istituto di chimica inorganica intrattiene stretti contatti con l’istituto di archeologia classica – nella persona di Gloria Olcese – per studia­re provenienze, composizione e distribuzione delle ceramiche antiche. – Altri allievi dell’Heilmeyer si sono occupati di terrecotte architettoniche, di offici­ne del bronzo, di officine scultoree, e del commercio dei marmi (per vari aspetti dell’archeologia della produzione, vedi da ultimo W.-D. HEILMEYER, in BORBEIN et al. 2000, pp. 129-146).

5.4 STORIOGRAFIA ARCHEOLOGICA: PROGETTI LEGATI ALLA RICEZIONE DI

J.J. WINCKELMANN

Generazioni di archeologi e storici si sono dedicati, e si dedicano tutto­ra, allo studio della biografia e dell’opera winckelmanniana, innanzi tutto nel contesto dell’associazione (la Winckelmann-Gesellschaft) e del museo sorti – la prima nel 1940, il secondo nel 1955 – nella sua città nativa, a Stendhal. La collocazione di Stendhal nell’odierna Sachsen-Anhalt, parte dell’ex-RDT, li­mitò fino al 1990 alla sola Germania Est le attività di queste due istituzioni, strettamente legate l’una all’altra anche fisicamente. Il fervore è stato note­vole, e ha incluso numerose mostre (non solo su Winckelmann stesso, ma anche su vari temi di archeologia, storia dell’arte ed arte contemporanea), convegni e pubblicazioni. La bibliografia specifica, ormai vastissima, è stata raccolta e pubblicata separatamente varie volte a partire dal 1942 per conto dell’associazione. Due rassegne curate dalla società sono incentrate sull’ope-ra e la ricezione dello studioso (i Beiträge der Winckelmann-Gesellschaft pub­blicate a partire dal 1974, e le Schriften der Winckelmann-Gesellschaft a par­tire dal 1973), dando prova della vastissima eco di cui godette e gode tuttora il pensiero winckelmanniano nell’archeologia, la storia dell’arte, e la lettera­tura, sia in Germania, sia in molti altri paesi europei 13. Ma lo studio e la commemorazione di Winckelmann non si limitano all’ambiente stendhalia­no: da oltre centocinquant’anni, vari istituti universitari, società archeologi­che ed il DAI commemorano il suo giorno di nascita, il nove dicembre, con adunanze solenni, feste e pubblicazioni monografiche, i cosiddetti Winckelmanns-programme. Si potrebbe parlare – e simili critiche non sono infatti mancate – di un vero e proprio culto dell’eroe fondatore.

Tuttavia, in relazione all’importanza del pensiero dell’heros ktistes del­la disciplina, la conoscenza diretta dei suoi testi archeologici sembra essere assai scarsa, e questo dipende sia dal linguaggio ‘arcaico’ dei suoi scritti, che dalla dispersione di moltissime delle opere d’arte da lui menzionate e descrit­te (si pensi al caso delle grandi collezioni private a Roma), che sono state in

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seguito diversamente denominate. Per rimediare a questi problemi si sono sviluppate edizioni critiche delle sue opere; il più importante progetto in corso di pubblicazione è una nuova edizione aggiornata e commentata della Storia delle Arti e del Disegno, curata dall’attuale direttore della Winckelmann-Gesellschaft, Max Kunze, e da Adolf Borbein, direttore dell’istituto universi­tario di Berlino (Freie Universität). Inoltre, a Stendhal è appena stata conclu­sa la redazione di un Winckelmann-database che raccoglie tutti i dati (e le rispettive fotografie digitalizzate) relativi alle opere d’arte antica note allo studioso.

5.5 ARCHITETTURA E STUDI URBANISTICI

Sin dal Settecento, l’architettura greca e romana costituisce un campo pri­vilegiato di ricerca per gli archeologi tedeschi. Nell’Ottocento, ad essi si unirono gli architetti: com’è noto, intere città tedesche furono rinnovate con grandiosi programmi edilizi ispirati a concetti architettonici antichi. Fra i nomi più famosi vanno ricordati Leo von Klenze a Monaco e Karl Friedrich Schinkel a Berlino, ai quali si devono, tra l’altro, anche i primi edifici costruiti esclusivamente ad uso museale: la Glyptothek a Monaco e l’Altes Museum a Berlino. Con l’inizio dei grandi scavi in Grecia e nel Mediterraneo orientale alla fine dello stesso secolo (vedi par. 6), la partecipazione degli architetti assunse un’importanza partico­lare, e si può affermare che furono spesso loro a diffondere le immagini e la fama degli scavi con le loro ricostruzioni di singoli edifici, di complessi edilizi o addirittura d’intere città e santuari. Basta ricordare i nomi di Friedrich Adler (1827-1908), Wilhelm Dörpfeld (1853-1940) e Robert Koldewey (1855­1925) per evocare ingegnosi lavori di scavo (lo sviluppo delle tecniche di scavo deve molto a Dörpfeld), ricostruzioni e interpretazioni storiche, queste ultime in misura più limitata e talvolta anche non troppo fondate.

Questa tradizione continua praticamente ininterrotta fino ai giorni no­stri, ed è presente sia nelle varie sezioni del DAI a Berlino ed all’estero che nelle università (come accennato all’inizio di questo paragrafo, per lo più nei politecnici; la Freie Universität di Berlino costituisce un caso eccezionale con una cattedra di architettura antica nell’istituto di archeologia classica). Fra i professori universitari di formazione archeologica specializzati, fra l’altro, nello studio dell’architettura antica bisogna fare i nomi di Heinrich Drerup (noto tra l’altro per i suoi contributi sull’architettura greca in età geometri­ca), Burkhard Wesenberg (ricerche sull’architettura greca in età classica, tra l’altro sull’Acropoli di Atene, e sulla teoria e storia dell’architettura antica) e Henner von Hesberg (studi sull’architettura ellenistica e romana, con parti­colare riguardo alla decorazione architettonica, l’urbanistica, i monumenti funerari e le necropoli). Architetti operanti nei politecnici godenti di una fama notevole sono stati o sono Wulf Schirmer, Gottfried Gruben e Adolf Hoffmann. Wolfram Hoepfner, il cui campo privilegiato di ricerca è l’archi-

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tettura ellenistica, è l’unico architetto che riveste una cattedra di architettura antica nell’ambito di un istituto di archeologia classica. All’interno del DAI sono stati o sono attivi Friedrich Rakob, Dieter Mertens, Ernst-Ludwig Schwandner, Hermann Kienast e Wolfgang Müller-Wiener. Molti di essi sono considerati tra i migliori esperti nel loro settore di ricerca: Rakob per l’archi-tettura romana di età repubblicana ed imperiale (studi su Villa Adriana, Baiae, Roma), Mertens per l’architettura templare e l’urbanistica in Magna Grecia (Paestum, Metaponto, Segesta, Selinunte e molti altri siti).

Un fatto generale che ha accomunato gran parte degli studi d’architet-tura, almeno fino agli anni ’60, ma in parte ancora oggi, è la concentrazione su classi di monumenti come templi, edifici pubblici, monumenti funerari, molto spesso legati alle sfere pubbliche e/o ai ceti superiori delle società anti­che. Le pubblicazioni, talvolta esse stesse di dimensioni monumentali, si con­traddistinguono per accuratissimi rilievi e misurazioni nonché per scrupolo­se osservazioni di dettaglio. A controprova dell’alta qualità di questa tradi­zione di studi è il fatto che, almeno in ambiente italiano, venga spesso affida­ta a studiosi tedeschi la parte relativa al rilievo (vedi par. 6). Nondimeno, questa focalizzazione su certe classi di monumenti e certi approcci può anche essere considerata un limite: gli eventi del ’68 misero in luce la mancanza di studi incentrati sulle altre sfere dell’urbanistica e dell’architettura, pertinenti alla vita privata delle classi medie.

Fu in questa situazione che proprio nell’ambiente del DAI, che pure non gode fama di istituzione progressista, fu creato nel 1973, un dipartimen­to d’architettura antica (Architekturreferat) presso la Zentrale dell’istituto a Berlino. Lo scopo di questa istituzione era – ed è tuttora – il coordinamento delle ricerche architettoniche ed urbanistiche sul mondo greco-romano. Uno dei suoi primi progetti fu dedicato a Wohnen in der klassischen Polis (Abitare nella polis greca d’età classica). Oltre a una serie di colloqui e di pubblicazio­ni su vari aspetti legati alla tematica (architettura e democrazia; giardini), il risultato principale fu il noto libro di WOLFRAM HOEPFNER ed ERNST-LUDWIG

SCHWANDNER, Haus und Stadt im klassischen Griechenland (1986), che pro­vocò insolite reazioni sia di entusiasmo, sia di critica, focalizzate soprattutto sul suo concetto della “casa tipo”; tali reazioni indussero gli autori non solo a riunire molti specialisti in un convegno specifico, ma anche a curare una nuova edizione aggiornata (1994) che tenesse conto dei risultati del collo­quio e delle altre discussioni. Chiaramente, questo libro e l’intero approccio risentono delle intense discussioni in Germania negli anni ’70 ed ’80 su di­versi concetti attuali dell’abitare. Allo stesso tempo, si collega con gli interes­si, altrettanto vivi a quell’epoca negli studi di storia antica, per la democrazia ateniese del V secolo a.C., nonché di quello, riproposto da parte dell’archeo-logia classica tedesca sotto auspici più critici rispetto a quelli degli anni ’20 e ’30, per il fenomeno del “classico”.

Da quel periodo in poi, questioni incentrate sull’urbanistica antica non

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cessarono più d’interessare intere squadre di archeologi ed architetti tede­schi: lo stesso Architekturreferat del DAI promosse ricerche in merito, so­prattutto nell’ambito dei convegni pubblicati nella serie Diskussionen zur archäologischen Bauforschung (finora sette volumi, apparsi tra il 1974 ed il 1999). Mentre gran parte di questi studi furono incentrati su monumenti, spazi pubblici, impianti urbanistici all’interno delle città, solo più tardi emer­se un interesse per la relazione tra la città ed il suo territorio, e per il territo­rio al di fuori dell’insediamento, seguendo una corrente di ricerca già da tempo sviluppata in Italia e nell’ambito anglosassone. Ne è testimone l’ulti-mo volume della serie suddetta, intitolato Stadt und Umland (Città e territo­rio), 1999. Attuali attività di ricognizione sul terreno e di ricerca su scala regionale interessano l’Acarnania nella Grecia nordoccidentale, ed in parti­colare la chora di Stratos (E.-L. Schwandner, F. Lang).

In Italia, studi incentrati sull’interazione tra città e territorio vengono condotti soprattutto in ambiente magnogreco (Metaponto, Siracusa, Selinun­te). Le attuali attività della sezione romana del DAI ad Ostia e Pompei si avvalgono di metodi e tecniche più aggiornate e diversificate (ad es. la pro­spezione aerea ad Ostia, la paleobotanica a Pompei), ma si limitano allo stu­dio di edifici e quartieri all’interno delle città. Tuttavia, l’eminente grado di interdisciplinarietà e l’interesse per gli aspetti socioculturali (autorappresen­tazione, simboli, ideologie) ne fanno una delle correnti più moderne dell’ar-cheologia tedesca (vedi par. 5.2).

Un ultimo accenno meritano gli studi di topografia storico-archeologi-ca: com’è noto, la Germania può vantarsi di una tradizione assai ricca di questo tipo di studi, che raggiunsero il loro apice nel periodo a cavallo tra Otto- e Novecento. I nomi di Heinrich Jordan e Christian Hülsen sono al­trettanto importanti per la topografia di Roma quanto quelli di Ernst Curtius, Habbo G. Lolling e Heinrich Kiepert per la Grecia. A distanza d’un secolo, si può affermare senz’altro che questa tradizione non si sia mai totalmente spenta, ma che essa abbia subito un notevole declino d’interesse. Inutile dire che in Germania non esistono specifiche cattedre di topografia e, di conseguenza, non si è mai potuta costituire una tradizione di scuola. Pochissimi archeologi fanno della topografia il loro interesse precipuo; si può ricordare il nome di Hans Rupprecht Goette, i cui studi topografici sull’Attica ed altre regioni della Grecia si allacciano esplicitamente alla tradizione suddetta, ripresa an­che nell’ambito degli Attika-Kurse del DAI di Atene; gran parte del campo viene invece lasciato agli storici, che si avvalgono sia dei metodi tradizionali della Historische Landeskunde (ad es. Hans-Joachim Gehrke per la Grecia in generale), sia delle ricognizioni sul terreno (Peter Funke in Etolia, Frank Kolb in Asia Minore, specialmente in Licia). Questo sviluppo è senza dubbio un ulteriore segno della segregazione delle discipline: apparentemente, settori della ricerca non più considerati centrali e sospettati di far parte di altre competenze disciplinari non attraggano i giovani archeologi, specialmente in

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una situazione molto precaria del mercato del lavoro.

6. I grandi scavi “laboratorio”

Nel contesto di un convegno tenutosi a Berlino nel 1999 su «Archeolo­gia nell’epoca del postumanesimo» (v. ALTEKAMP et al. 2000, in corso di stam­pa), Wulf Raeck, professore dell’università di Francoforte ed attuale diretto­re degli scavi di Priene, tratteggiò il ruolo attuale e le prospettive dei grandi scavi tradizionali tedeschi, collocati soprattutto nell’area del Mediterraneo orientale. Nella discussione successiva, Adolf Borbein caratterizzò questi sca­vi come “laboratori” – in sintonia con le teorie presentate dal Raeck, che sottolineavano l’importanza di scavi sistematici e di lunga durata in siti con­siderati “di riferimento”: cioè un cantiere a disposizione degli archeologi nel quale sperimentare nuove tecniche e metodi, indagare reperti e contesti ar­cheologici a seconda di interessi scientifici sottoposti a continuo cambiamen­to e tramite il quale contribuire alla formazione dei giovani (simile anche l’argomentazione di H. KYRIELEIS, in Deutsches Archäologisches Institut 2000, p. 6).

Questa definizione potrebbe sembrare fin troppo scontata, ma bisogna tener in mente i destinatari di questo messaggio: da una parte gli enti respon­sabili per la concessione di fondi finanziari, dall’altra i critici nell’ambito della propria professione, i quali ritengono che l’era dei grandi scavi sarebbe ormai da tempo superata (ad esempio DYSON 1993, con riferimento però alla situazione statunitense). Queste critiche prendono le mosse dal fatto che i siti in questione sono caratterizzati da una più che centenaria tradizione di scavi tedeschi, una tradizione risalente, com’è noto, all’ultimo terzo dell’Ottocen-to. A quell’epoca l’archeologia assunse, nella dicitura del Mommsen, dimen­sioni di una Großwissenschaft (grande scienza), trovandosi intrecciata nella politica culturale di una nazione appena costituita con l’unità assunta nel 1871, la quale cercò di arrivare alla pari con le altre forze europee: è stato affermato varie volte, a piena ragione, che la nostra disciplina fu condiziona­ta in maniera definitiva, ed allo stesso tempo approfittò notevolmente, del fenomeno dell’imperialismo europeo a cavallo tra Otto- e Novecento (vedi ad esempio MARCHAND 1996, pp. 75-115). In questa sede, basta ricordare i siti principali e le rispettive date d’inaugurazione delle attività di scavo: la Reichsgrabung (scavo statale, cioè non gestito da un’istituzione specifica, ma da funzionari responsabili direttamente allo stato) di Olimpia iniziata nel 1875, così come gli scavi intrapresi da parte dei musei di Berlino nell’Asia Minore ed in Grecia: a Pergamo (1879), a Priene (1895), a Mileto (1899), a Didima (1906), a Samo (1910). Nel 1913, si aggiunse il Ceramico ad Atene, scavato dalla sezione ateniese del DAI; la stessa istituzione prese in cura gli scavi di Olimpia a partire dalla loro riapertura nel 1937, e quelli di Samo

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negli anni ’70. Nell’arco dell’oltre un secolo passato dagli inizi di questi scavi – inter­

rotti praticamente solo dai conflitti mondiali –, la loro gestione è passata spesso da un’istituzione all’altra: dai musei al DAI o alle università, e vicever­sa. Già da tempo, i musei di Berlino non conducono più scavi sotto la loro direzione. Da molti decenni, gli scavi ad Olimpia, nel Ceramico, a Pergamo e Didima sono di competenza del DAI, mentre Priene e Mileto sono tornate in gestione a istituti universitari (attualmente rispettivamente Francoforte e Bochum). Gli scopi e le mete degli scavi sono ugualmente cambiati: nuovi punti d’interesse sono ad esempio le fasi più recenti che non interessavano affatto gli scavatori dell’Ottocento e dell’inizio del XX secolo: Olimpia in età imperiale e tardoantica, Pergamo nell’epoca bizantina. Parimenti, nuovi stimoli tematici furono ispirati dalla situazione politica e socioculturale at­tuale: da menzionare particolarmente l’interesse per la vita quotidiana della popolazione media, indagata per esempio nella Stadtgrabung di Pergamo (lo scavo nei quartieri d’abitazione al di sotto dell’Acropoli, iniziato nel 1972), che, oltre alle fasi ellenistiche e romane che costituirono il principale punto d’interesse, portò allo studio dell’insediamento bizantino suddetto (per la storia degli scavi di Pergamo vedi ultimamente W. RADT, in Deutsches Archäologisches Institut 2000, pp. 173-179). Una delle scoperte più spetta­colari avvenute nell’ambito dei siti tradizionali di scavi tedeschi fu quella del grande Kouros databile agli inizi del VI sec. a.C., avvenuta nel 1980 nel san­tuario di Hera a Samo: una scoperta molto importante per la storia dell’arte greca nel periodo arcaico, ma frutto di un puro caso e quindi al di fuori del discorso sulle tendenze, intenzioni ed il ruolo di tali scavi nel periodo attuale.

Molto diverse le attività archeologiche sul terreno gestite dal DAI in Italia. Com’è noto, la specifica situazione storica del paese nonché il profilo scientifico dello stesso istituto romano condizionarono uno sviluppo netta­mente distinto da quello delle attività dei loro colleghi operanti nel Mediter­raneo orientale, accentuando più la storia dell’arte antica e la sistematica raccolta di dati e di strumenti di lavoro. Il segno più vistoso di questa politica sono la biblioteca e la fototeca dell’istituto, uniche per ampiezza e varietà, non solo all’interno del DAI (la biblioteca del DAI berlinese, naturalmente gravemente colpita dagli eventi dell’ultima guerra, conta solo 70.000 volu­mi, poco più d’un terzo dei quasi 200.000 volumi presenti nel Germanico di Roma!). Nel dopoguerra fu particolarmente intensificato lo studio dell’ar-chitettura greca e romana. I contributi di Dieter Mertens sull’architettura templare e l’urbanistica magnogreca così come quelli di Friedrich Rakob e recentemente Heinz Beste sull’architettura romana sono già stati accennati nel paragrafo precedente. Quasi tutte queste attività si accompagnarono a imprese di scavo, di tutela e di ricerca condotte dalle autorità italiane respon­sabili, e furono iniziate nella maggioranza dei casi su esplicito invito delle rispettive soprintendenze. Mentre i contributi dei colleghi tedeschi si limita­

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rono per lo più a monumenti in elevato già noti, vere e proprie attività di scavo furono intraprese soprattutto al di fuori dell’Italia stessa, in paesi an-ch’essi sottoposti alla competenza del Germanico di Roma: in particolare, in Tunisia, nei siti scavati in collaborazione con enti locali e nel contesto di imprese internazionali (Cartagine, Chemtou/Simitthus). Nei rari casi di sca­vo in Italia, ci si è limitati ad imprese di dimensioni ridotte: il caso più noto è quello degli scavi-sondaggio effettuati da Edmund Buchner a Roma, nell’area dell’orologio di Augusto e del suo mausoleo: un’impresa circoscritta nello spazio e nel tempo, che non oltrepassa quindi il profilo tradizionale di un’isti-tuzione come il Germanico di Roma, tradizionalmente alieno ai grandi scavi sul terreno. Solo recentemente, a partire dal 1996, con i nuovi lavori diretti da Dieter Mertens a Selinunte, nell’area delle mura urbane e soprattutto del-l’agorà, si è giunti ad una dimensione paragonabile agli scavi condotti nel-l’area del Mediterraneo orientale (vedi ultimamente E. BUCHNER, in Deutsches Archäologisches Institut 2000, pp. 179-183; D. MERTENS, ibidem, pp. 27-36; per una sintesi delle attività di scavo del DAI fino agli inizi degli anni ’80, ordinata topograficamente, è tuttora utile il volume Deutsches Archäologisches Institut 1983).

Considerando il ruolo determinante per l’archeologia italiana degli scavi intrapresi negli anni ’70 e ’80 a Cartagine, Ostia e Settefinestre (ed il ruolo della persona di Andrea Carandini), non solo a livello di tecniche e teorie dello scavo stesso, ma di concezioni sull’archeologia in generale (vedi TERRE-NATO 1998, pp. 178-181), viene da domandarsi se esistano esperienze para­gonabili per la Germania. Senza esitare, direi che non ci siano state per il nostro paese simili pietre miliari, cioè scavi che abbiano rivoluzionato nel-l’arco di pochi anni l’intera disciplina, e che abbiano costituito una vera e propria scuola per intere generazioni di giovani archeologi. Pur tenendo conto dei cambiamenti d’orientamento menzionati più avanti, occorsi negli ultimi anni, e dell’applicazione di nuove tecniche e metodi d’analisi, riscontrabili ormai nella maggioranza dei siti, non ritengo che vi sia un unico scavo del dopoguerra che abbia esercitato un ruolo paragonabile sia per influsso meto­dologico, sia come scuola. In ambiente preistorico si potrebbero citare gli scavi di Heuneburg (un sito fortificato celtico del VI-IV secolo a.C. nel Baden-Württemberg), dell’oppidum celtico di Manching (in Baviera, presso Ingolstadt sul Danubio), o di Demircihüyük (un abitato del bronzo antico e medio nella Turchia settentrionale). Per l’archeologia classica, un certo stato di scavo avan­guardia viene attribuito da alcuni anni alle attività svolte a Mileto sotto la direzione di Volkmar von Graeve dell’università di Bochum, insieme ad una squadra composta da numerosi specialisti anche di altre discipline e di altre università. Questi scavi ci hanno fornito informazioni importanti sulla geo­morfologia, la topografia e la storia di Mileto dalle epoche più antiche fino al medioevo, applicando al massimo i più aggiornati e svariati metodi a disposi­zione. Questi lavori tuttavia non hanno rivoluzionato l’archeologia classica

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tedesca come è avvenuto per i citati scavi italiani; l’unico elemento parago­nabile, nel caso di Mileto, è la grande attrazione esercitata su studenti e gio­vani studiosi, che lo rende uno tra i più ricercati scavi a direzione tedesca 14.

In conclusione, negli scavi tedeschi attuali non vi sarà forse riscontrabi­le tanta innovazione, bensì un continuo sviluppo ed un alto grado di ricezio­ne di metodi sviluppati altrove. In questo senso, i giorni in cui gli scavatori tedeschi creavano gli standards per gli altri paesi sono sicuramente passati; ma la tradizione stessa – della storia degli scavi, e delle istituzioni involte – sembra garantire che l’archeologia classica tedesca continuerà a scavare su grande scala anche nel nuovo secolo.

7. Conclusioni

Questa presentazione si è mossa dall’affermazione che l’archeologia classica tedesca del dopoguerra sembra essere sganciata dai dibattiti e dalle correnti internazionali, soprattutto di matrice anglosassone, che tanto influs­so hanno avuto non solo nei paesi d’origine, ma anche in altri paesi europei. Interrogandoci sulle possibili cause per questa situazione, due fattori deter­minanti per la ricerca in Germania sono stati messi in luce: da un lato, la riluttanza al dibattito teorico e metodologico, dall’altro un forte grado di continuità, soprattutto istituzionale, riscontrabile nel nostro paese. Quali sono le conclusioni alla luce del breve resoconto sulla disciplina dato nei paragrafi precedenti?

Mi sembra indubbio che la situazione istituzionale sia contraddistinta da una serie di fattori strutturali poco favorevoli a rapidi cambiamenti ed a sviluppi indipendenti: in prima linea, il numero relativamente ristretto dei posti (il Deutscher Archäologenverband ne ha individuato 220, tra cui 120 di ruolo), ripartiti tra una decina di musei, una trentina d’istituti universitari e le vari sezioni del DAI 15. Ovviamente, non è il numero ristretto come tale ad imporre dei limiti di sviluppo, al contrario: la situazione nei paesi dell’Euro-pa orientale, dove le accademie delle scienze impiegarono squadre di arche­ologi prima del 1989, dimostra che la qualità della ricerca non dipende pro­porzionalmente dalla quantità dei posti. Ma il numero ristretto insieme alla stretta interdipendenza delle istituzioni – soprattutto dal punto di vista della formazione – non facilita sviluppi autonomi. Dall’altro lato, la tradizione – spesso quasi bicentenaria – delle istituzioni stesse garantisce un forte grado di continuità, con tutti i suoi aspetti positivi e negativi: il supporto finanzia­rio tuttora notevole di cui gode l’archeologia classica tedesca nonostante i tagli recenti (oltre ai mezzi regolari concessi da parte dello stato, bisognereb­be accennare almeno brevemente alle varie fondazioni sia statali che private, in prima linea la Deutsche Forschungsgemeinschaft [DFG]), che garantisce sia progetti a lungo termine come gli scavi in vari paesi del Mediterraneo, sia

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una tradizione come il Reisestipendium del DAI. Tuttavia, nessuno dubita che siano le tradizioni stesse a determinare una certa inflessibilità. Inutile sottoli­neare che questo sistema centrato sulle istituzioni non favorisce gli studiosi individuali, con interessi particolari e sostenuti solo da borse di studio o con­tratti brevi (e significativamente, anche in questo contributo tali figure non hanno trovato spazio).

Un ulteriore fattore al quale abbiamo accennato all’inizio è il forte gra­do di separazione tra le discipline, anche – ma non soltanto – tra quelle più vicine come l’archeologia classica e la preistoria. Questo è senz’altro un fat­tore decisivo nella mancata riflessione su certe correnti e dibattiti: il parago­ne e il confronto con altre discipline aiuterebbero a chiarire le proprie posi­zioni. A piena ragione è stato sottolineato che soltanto un’apertura radicale verso altri campi della ricerca – entro e fuori dell’archeologia – contribuirà allo sviluppo dei propri metodi ed orizzonti. Da un punto di vista personale, penso soprattutto a discipline delle scienze umane come la sociologia, la po­litologia, la psicologia, l’etnologia, i cui risultati hanno contribuito già in passato (ma significativamente in misura molto ridotta in Germania) allo sviluppo di nuovi orientamenti sempre nel campo dell’iconografia ed icono­logia: alludo ai gender studies molto proficui anche nel campo dell’antichisti-ca, soprattutto negli Stati Uniti (per la preistoria, vedi il contributo di M. Díaz-Andreu in questo volume; per l’archeologia classica, N.B. KAMPEN, in BORBEIN et al. 2000, pp. 189-204). È secondario quale etichetta teorica dare a queste nuove ricerche: l’esempio dei citati studi iconologici dimostra l’in-flusso di correnti nate in altri paesi, e l’impatto al di fuori della Germania. Tuttavia, l’assenza di una affiliazione esplicita (post-processualismo? neo­marxismo?) ha continuato a dare l’impressione errata che l’archeologia clas­sica tedesca fosse rimasta al di fuori del dibattito teorico più ampio.

È fuor di dubbio che tutte le innovazioni osservate negli ultimi decenni siano in un certo senso di portata relativa: sostanzialmente, l’archeologia classica tedesca, almeno per quel che riguarda le sue correnti più influenti, è rimasta legata alla produzione artistica, trascurando la cultura materiale. Sem­bra comunque che le attività di scavo, sondaggio e ricognizione più recenti – a Mileto, a Pompei, in Acarnania – stiano recuperando parte di queste espe­rienze. Lo stesso vale per l’applicazione dell’archeometria, della geofisica, dell’archeologia subacquea.

Tutti questi approcci, dai più tradizionali ai più innovatori, sono ulte­riormente soggetti ad un altro processo di cambiamento, che condizionerà la ricerca stessa come anche la sua ricezione in modo definitivo: l’utilizzo delle tecniche d’informatica per la gestione dei dati. Abbiamo accennato alla Winckelmann-database compilata a Stendhal, ma si potrebbero fare decine di altri esempi. Uno dei più importanti, in quanto un indispensabile strumento di lavoro per tutti, è la bibliografia archeologica curata dal DAI di Roma (e di recente anche a Berlino), la cui forma stampata ha cessato d’esistere nel 1993,

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sostituendola con il sistema DYABOLA.

Concludendo, vorrei esprimere la mia fiducia che l’archeologia classi­ca tedesca sia in via di ‘normalizzazione’: da tempo essa non ricopre più una posizione privilegiata nella società, e si sta inserendo nel contesto di molte altre discipline, simili e diverse. Da un lato essa se ne gioverà, in quanto sarà costretta ad ulteriori aperture per mantenere l’interesse dei contemporanei; dall’altro, i cambiamenti che occorrono già adesso in vari settori – nei musei, nelle università – contengono anche il rischio dell’impoverimento e della banalizzazione. Uno dei compiti fondamentali per gli archeologi in futuro sarà quello di giocare la carta della straordinaria ricchezza e varietà del mate­riale, magari anche in contesti che ci appaiono banali dal punto di vista attua­le. Questo significa anche che bisognerà liberarsi dall’idea di poter distingue­re tra concetti validi, perché duraturi, ed altri dettati da cosiddette ‘mode’ effimere: qualsiasi impostazione scientifica è condizionata dal contesto at­tuale in cui nasce.

MARTIN MAISCHBERGER

Bibliografia

N.B.: la bibliografia seguente è volutamente molto selettiva e breve. Per un repertorio biblio­grafico molto più ampio, vedi ISLER 1997.

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* Rispetto alla conferenza “250 anni d’archeologia classica in Germania” tenuta nel-l’ambito del corso “Archeologia teorica” a Pontignano nel mese d’agosto 1999, questo testo costituisce una versione notevolmente modificata: la sezione relativa alla storia della ricerca anteriore alla Seconda Guerra Mondiale è stata in gran parte sostituita con alcuni accenni. Ho ritenuto opportuno rinunciare alla pubblicazione del testo originario, poiché riassume fatti ben noti e trattati in numerose altre sedi. Per il lettore italiano, rimando alla recensione di Marcello Barbanera di Marchand 1996, pubblicata su Archeologia Classica 48, 1996, pp. 387-399. Desidero ringraziare gli amici Annetta Alexandridis, Helga Bumke, Ortwin Dally, Michael Krumme, Franziska Lang e Gloria Olcese per le utili discussioni e i preziosi suggeri­menti, senza tralasciare la consueta formula che qualsiasi errore rimasto ed eventuali punti di vista poco politically correct sono di mia responsabilità.

1 I contributi dei due studiosi, dai titoli identici Klassische Archäologie am Ende des 20. Jahrhunderts (“L’archeologia classica alla fine del XX secolo”), furono concepiti quasi contemporaneamente per due distinte occasioni e accomunate da scopi simili: quello di Hölscher risale ad una conferenza presentata nell’ambito di una riunione annuale della Mommsen-Gesellschaft, dedicata alla riflessione retrospettiva sulle scienze dell’antichità alla

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fine del millennio, a Marburg in giugno 1995; quello di Isler invece risale alla conferenza tenuta dallo studioso svizzero in occasione delle celebrazioni, inaugurate a Vienna nel mese di aprile dello stesso anno, del centenario degli scavi austriaci ad Efeso. Di taglio assai diver­so, entrambi i contributi hanno dato spunti molto importanti per il testo che segue. Il libro di Borbein et al. 2000 è uscito solo qualche giorno prima che la stesura di questo testo fosse stato concluso e non ha potuto quindi essere utilizzato che in misura ridotta. Esso costituirà sicuramente un importante punto di riferimento, sia per gli addetti al lavoro, sia per un pubblico generale interessato nella storia, i metodi e le prospettive della ricerca.

2 Potrebbe sembrare un paradosso che, contrariamente all’Italia, in Germania non esi­sta una definizione simile ad “archeologia e storia dell’arte greca e romana” per denominare la disciplina in ambiente universitario. Tuttavia, fino alla metà dell’Ottocento circa, si parlava di Archäologie der Kunst, “archeologia dell’arte”, una definizione ritenuta ad un certo punto anacronistica: da un lato perché evidenziava un nesso fin troppo ovvio tra archeologia e storia dell’arte, dall’altro perché le attività di scavo, verificatesi in grande scala dall’ultimo terzo dell’Ottocento, avevano allargato il raggio delle attività archeologiche da un’imposta-zione originariamente soprattutto teorica ad aspetti pratici. Quest’ultimo aspetto, che costi­tuisce tuttora gran parte delle attività svolte dal DAI, è quasi l’unico percepito dal pubblico generale, e molto spesso anche dai giovani che s’iscrivono in archeologia (di conseguenza gli studenti si lamentano spesso di trovare troppo poche opportunità di scavo).

3 Come ha dimostrato l’Isler, il rammarico espresso dai giovani sul tradizionalismo dei maestri non si limita alla generazione dei “sessantottini”, ma è riscontrabile già all’inizio del secolo; (ISLER 1997, p. 10, nota 54 = id. 1999, p. 30, nota 54).

4 Tutti questi dati, come quelli seguenti, sono dedotti da statistiche elaborate dal Deutscher Archäologenverband, sul quale vedi par. 3; per una recente pubblicazione, vedi Sinn (1999).

5 Per tutto quanto vedi Vierneisel-Leinz 1980 (specialmente i testi di J. Wiedemann, pp. 386-397, e K. Vierneisel, pp. 398-402) e Marchand 1996, pp. 363-368. Da ultimo sui musei d’antichità nei nostri giorni: L. Giuliani, in Borbein et al. 2000, pp. 77-90.

6 Vedi MARCHAND 1996 e la recensione di M. Barbanera, «Archeologia Classica», 48, 1996, pp. 387-399.

7 Questa cifra deve essere presa con cautela, poiché le statistiche sul numero degli studenti contengono elementi d’incertezza, soprattutto dovuti al fatto che molti degli iscritti non studiano effettivamente. Così si spiega l’apparente contrasto fra i 1000 studenti menzio­nati da U. Sinn per tutta la Germania e i 200 iscritti nella sola Heidelberg (HÖLSCHER 1995, p. 198). Lo stesso Hölscher rileva che in questo numero siano comprese le Karteileichen, vale a dire persone iscritte solo formalmente.

8 Vedi i 10 volumi apparsi in occasione del centocinquantesimo giubileo a partire dal 1979: Deutsches Archäologisches Institut 1979-1986, e da ultimo Deutsches Archäologisches Institut 2000, Introduzione.

9 Il termine Wissenschaften, “scienze” fu sostituito, già nel terzo volume del 1981, con Gebiete, “campi (di ricerca)”; dal numero 11/12, 1992/93, è stato aggiunto il sottotitolo in inglese New Approaches in Classical Archaeology and related Fields, e da allora l’editoriale è stato sempre scritto in questa lingua; contributi inglesi (così come francesi ed italiani) erano stati pubblicati fin dai primi numeri.

10 L’unica cattedra d’etruscologia esistente in Germania si trova a Tübingen, l’unica per l’archeologia minoico-micenea a Heidelberg (in alcune università, come la FU di Berlino, l’età del Bronzo nell’area Egea è studiata in istituti di preistoria). La cultura punica è rappre­sentata soprattutto dalle ricerche di H.G. Niemeyer (Amburgo) e dai suoi scavi a Toscanos in Spagna meridionale ed a Cartagine.

11 Una lunga tradizione di studi sull’architettura antica caratterizzava i politecnici di Berlino (e solo recentemente essa è stata ripresa, dopo un’interruzione di qualche decennio), di Karlsruhe e di Monaco. Da pochi anni esiste una cattedra nel politecnico di Cottbus, cittadina del Brandenburgo ai confini con la Polonia.

12 Contrariamente all’archeologia preistorica, dove il termine Materielle Kultur è usa­

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to da qualche tempo (anche se spesso senza riflettere sulle sue implicazioni); a riprova delle incertezze che ancora circondano una definizione esatta si può citare il convegno organizzato dall’istituto di preistoria dell’università di Tübingen sul significato del concetto (giugno 2000). Anche il termine Materialien der Alltagskultur, “oggetti della vita quotidiana”, usato talvolta in ambito classico, non comprende tutte le sfumature di “cultura materiale”. Ultimamente, materielle (Lebens-) Kultur sembra diffondersi in ambito classico (vedi l’introduzione a BORBEIN et al. 2000, pp. 7-21).

13 La persona e l’opera dello studioso furono coltivate con molto fervore anche da parte della storiografia e filologia marxista nella RDT, strettamente legata alle attività della società winckelmanniana tramite la persona di Johannes Irmscher, il suo presidente dal 1968 al 1990. Sulla relazione tra RDT e società winckelmanniana vedi Sichtermann 1996, p. 394 s.; sulle posizioni marxiste nella filologia classica della RDT in generale, vedi Isler 1997, pp. 15-18 = ID. 1999, pp. 34-38.

14 La pubblicazione dei risultati delle campagne degli ultimi anni si trova, in forma di rapporti preliminari, in vari fascicoli delle riviste Istanbuler Mitteilungen ed Archäologischer Anzeiger del DAI.

15 Non abbiamo accennato alle accademie delle scienze, che raramente sono impegna­te in progetti archeologici. Tuttavia va ricordato che alcuni progetti anche internazionalmen­te importanti sono promossi da istituzioni di questo genere, come il Corpus der minoischen und mykenischen Siegel, edito sotto gli auspici dell’Akademie der Wissenschaften und der Literatur di Mainz, o alla Kommission zur Erforschung des antiken Städtewesens, presso la Bayerische Akademie der Wissenschaften a Monaco.

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