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1. Da: Alfred Adler, Conoscenza dell’uomo, Roma, Newton Compton “Non si può negare che l’educazione da noi ricevuta in seno alla famiglia stimoli in primo luogo la volontà di potenza e l’incremento della vanità. È questa una constatazione che nasce dall’esperienza di ognuno di noi. Il ruolo positivo della famiglia è comunque innegabile, tanto che non si può neppure pensare a un’altra istituzione capace di sostituirla, orientando i bambini in una giusta direzione. Essa, infatti, appare come l’organismo più adatto per assicurare la sopravvivenza della razza umana, specie quando insorgono delle malattie. Se tutti i genitori avessero realmente valide doti educative, fossero capaci di analizzare a fondo gli errori ancora potenziali e di combatterli con soluzioni idonee, saremmo disposti ad ammettere che nessuna istituzione può superare la famiglia nel compito dell’educazione umana” (p. 212). “Non possiamo invece affermare che i genitori siano sempre buoni psicologi o pedagogisti. L’egoismo campeggia nella nostra epoca come il più rilevante fattore dell’educazione familiare. Ne deriva, con l’apparenza di un diritto, l’esigenza di custodire i figli come un bene del tutto particolare e anche a scapito degli altri. In tal modo la famiglia cade nel suo errore più grave, inculcando al fanciullo l’idea di contrapporsi ai suoi simili e di essere il migliore” (p. 212). “Si aggiunga che il nucleo familiare non sa liberarsi dal principio della autorità e del potere paterni, da cui nascono altri errori. Si tratta infatti di una forma di dominio solo relativamente impostata sul sentimento sociale e destinata inevitabilmente a indurre un’aperta o mascherata opposizione. Sebbene le leggi sanciscano l’autorità del pater familias, il bambino non è affatto disposto a riconoscerlo. La situazione ha poi il difetto di creare modelli per il bambino incline al potere, mostrando quanta soddisfazione possa derivare dall’esercizio di un’autorità e incrementando perciò la volontà di potenza e l’ambizione. Ai nostri giorni, tutti i ragazzi esigono considerazione, pretendono rispetto e obbedienza dagli altri, come se fossero delle persone molto importanti: da ciò prendono origine le prime ostilità verso la famiglia e l’ambiente circostante” (pp. 212- 213). “La nostra educazione familiare comporta dunque, come conseguenza inevitabile, che il bambino si proponga come fine ultimo la propria valorizzazione e il raggiungimento di una superiorità su quanti abbiano rapporti abituali con lui. È possibile rendersi conto di questo fenomeno, osservando i giuochi dei bambini che fingono di essere adulti. Una simile constatazione si può effettuare negli adulti, che mostrano la convinzione inconscia che tutta l’umanità faccia parte della loro famiglia o rivelano la tendenza a ritirarsi dal mondo e a condurre una vita isolata” ( p. 213). “È proprio per questo impulso alla potenza che la famiglia riesce a sviluppare con notevole limitazione il sentimento sociale. Le prime manifestazioni di affetto si attuano nei rapporti con la madre. Per il fanciullo, ciò rappresenta la più precoce e importante esperienza di relazione umana, da cui apprende la fiducia per un proprio simile e impara a dare del ‘tu’. Nietzsche diceva che ogni individuo si forma un’immagine del partner ideale, strutturandola in modo diverso secondo la qualità del suo rapporto con la madre. Pestalozzi ha dimostrato come sia la madre a fornire al bambino la luce destinata a orientarlo nella vita e nei suoi contatti con gli altri, poiché sono appunto i rapporti con la figura materna a fornirgli un modello per le sue manifestazioni esteriori. La funzione materna permette al fanciullo di sviluppare il proprio sentimento sociale” (p. 213). 1

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1. Da: Alfred Adler, Conoscenza dell’uomo, Roma, Newton Compton

“Non si può negare che l’educazione da noi ricevuta in seno alla famiglia stimoli in primo luogo la volontà di potenza e l’incremento della vanità. È questa una constatazione che nasce dall’esperienza di ognuno di noi. Il ruolo positivo della famiglia è comunque innegabile, tanto che non si può neppure pensare a un’altra istituzione capace di sostituirla, orientando i bambini in una giusta direzione. Essa, infatti, appare come l’organismo più adatto per assicurare la sopravvivenza della razza umana, specie quando insorgono delle malattie. Se tutti i genitori avessero realmente valide doti educative, fossero capaci di analizzare a fondo gli errori ancora potenziali e di combatterli con soluzioni idonee, saremmo disposti ad ammettere che nessuna istituzione può superare la famiglia nel compito dell’educazione umana” (p. 212).

“Non possiamo invece affermare che i genitori siano sempre buoni psicologi o pedagogisti. L’egoismo campeggia nella nostra epoca come il più rilevante fattore dell’educazione familiare. Ne deriva, con l’apparenza di un diritto, l’esigenza di custodire i figli come un bene del tutto particolare e anche a scapito degli altri. In tal modo la famiglia cade nel suo errore più grave, inculcando al fanciullo l’idea di contrapporsi ai suoi simili e di essere il migliore” (p. 212).

“Si aggiunga che il nucleo familiare non sa liberarsi dal principio della autorità e del potere paterni, da cui nascono altri errori. Si tratta infatti di una forma di dominio solo relativamente impostata sul sentimento sociale e destinata inevitabilmente a indurre un’aperta o mascherata opposizione. Sebbene le leggi sanciscano l’autorità del pater familias, il bambino non è affatto disposto a riconoscerlo. La situazione ha poi il difetto di creare modelli per il bambino incline al potere, mostrando quanta soddisfazione possa derivare dall’esercizio di un’autorità e incrementando perciò la volontà di potenza e l’ambizione. Ai nostri giorni, tutti i ragazzi esigono considerazione, pretendono rispetto e obbedienza dagli altri, come se fossero delle persone molto importanti: da ciò prendono origine le prime ostilità verso la famiglia e l’ambiente circostante” (pp. 212-213).

“La nostra educazione familiare comporta dunque, come conseguenza inevitabile, che il bambino si proponga come fine ultimo la propria valorizzazione e il raggiungimento di una superiorità su quanti abbiano rapporti abituali con lui. È possibile rendersi conto di questo fenomeno, osservando i giuochi dei bambini che fingono di essere adulti. Una simile constatazione si può effettuare negli adulti, che mostrano la convinzione inconscia che tutta l’umanità faccia parte della loro famiglia o rivelano la tendenza a ritirarsi dal mondo e a condurre una vita isolata” ( p. 213).

“È proprio per questo impulso alla potenza che la famiglia riesce a sviluppare con notevole limitazione il sentimento sociale. Le prime manifestazioni di affetto si attuano nei rapporti con la madre. Per il fanciullo, ciò rappresenta la più precoce e importante esperienza di relazione umana, da cui apprende la fiducia per un proprio simile e impara a dare del ‘tu’. Nietzsche diceva che ogni individuo si forma un’immagine del partner ideale, strutturandola in modo diverso secondo la qualità del suo rapporto con la madre. Pestalozzi ha dimostrato come sia la madre a fornire al bambino la luce destinata a orientarlo nella vita e nei suoi contatti con gli altri, poiché sono appunto i rapporti con la figura materna a fornirgli un modello per le sue manifestazioni esteriori. La funzione materna permette al fanciullo di sviluppare il proprio sentimento sociale” (p. 213).

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“Nel comportamento della madre possono prendere corpo due errori essenziali. Il primo si verifica quando essa non riesce a esplicare bene il suo ruolo sociale, ostacolando quindi nel figlio una evoluzione positiva in questo settore. Il secondo consiste invece in un eccesso di energia incanalato nella funzione materna, tale da soffocare l’estensione del sentimento sociale. La prima deviazione, assai grave, può determinare numerose conseguenze negative, facendo ad esempio crescere il bambino come se si trovasse in un paese nemico. L’unico rimedio efficace è rappresentato da un successivo riempimento della carenza iniziale. Abbiamo visto che il secondo errore è provocato da un eccesso di energia, per cui la madre finisce per monopolizzare il sentimento sociale del figlio, portandolo a interessarsi soltanto di lei e a escludere il resto del mondo. È evidente, anche in questo caso, la mancanza di basi per una serena vita sociale” (p. 213).

“Vanno considerati, oltre a questo, altri elementi dell’educazione. Assume così importanza un arredamento armonioso della camera del bambino, da cui egli potrà ricevere impressioni gradevoli, capaci di orientarlo favorevolmente nel suo futuro contatto con il mondo. Se si valutano infatti tutti gli ostacoli che il bambino trova sulla sua strada, si può comprendere come sia difficile per lui avvertire il mondo come un luogo piacevole; ovvia dunque l’importanza delle prime impressioni, da cui deriva l’orientamento per il successivo cammino. Si deve inoltre tener presente che molti bambini nascono già ammalati e sperimentano per prima cosa la sofferenza. La maggior parte dei fanciulli non possiede una camera propria o vive in un locale senza nulla di gratificante. Di qui uno sviluppo privo di armonia con la vita e con la società e, di conseguenza, un sentimento sociale assai debole” (pp. 213-214).

“Anche gli errori educativi pesano a volte in misura più che notevole. Un’educazione severa e troppo rigida può soffocare la gioia di vivere e la disponibilità per una fluida partecipazione ai giochi. Un opposto metodo pedagogico, che intenda evitare al bambino ogni piccola difficoltà e gli elargisce un eccesso di calore, può determinare in seguito remore alla capacità di vivere al di fuori della famiglia” (p. 214).

“L’educazione familiare come oggi si pratica è in linea di massima poco adatta a facilitare l’inserimento dell’individuo nella società e a renderlo capace di assolvere i compiti che gli saranno affidati. Il suo maggiore difetto è rappresentato […] da un esagerato incoraggiamento della vanità” (p. 214).

“Ciò premesso, la scuola ci appare come l’unica istituzione in grado di trovare un rimedio agli errori perpetrati in famiglia e di migliorare quindi lo sviluppo infantile. Anch’essa, tuttavia, è attualmente incapace di soddisfare appieno queste esigenze. Non c’è oggi nessun insegnante che possa illudersi di saper avvertire con precisione gli errori del fanciullo e naturalmente di correggerli nel modo esatto. Chi insegna non è ben preparato a tali compiti, né in grado praticamente di assolverli, perché è costretto a seguire rigidamente un programma didattico da trasmettere ai bambini, senza tener conto del materiale umano su cui deve operare. Le classi, poi, sono in genere troppo numerose per consentire un sereno svolgimento dell’attività pedagogica” (p. 214).

“È pertanto indispensabile cercare un’altra istituzione che sappia colmare le lacune dell’educazione familiare da cui derivano impedimenti alla formazione di una collettività armoniosa. Alcuni pensano che l’esperienza esistenziale sia sufficiente per colmare, prima o poi, queste manchevolezze; quanto si è detto dimostra però che esso non basta per trasformare un individuo, anche se può darne l’apparenza” (p. 214).

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“Una limitazione è rappresentata dalla vanità; quando poi le deviazioni tendono a consolidarsi, ognuno di noi è portato a riversarne la colpa sugli altri o a giudicare la situazione con fatalismo. È certo assai difficile che un uomo si fermi a riflettere sugli errori commessi […]” (pp. 214-215).

“È quindi assodato che la vita non può indurre cambiamenti essenziali. Possiamo facilmente trovarne una chiara giustificazione psicologica, pensando che essa accoglie individui già formati e indirizzati verso il fine della superiorità. L’esistenza è una cattiva maestra, perché non concede indulgenze, non dà esortazioni e non insegna nulla: si limita a guidarci freddamente e ci lascia cadere e sbagliare” (p. 215).

“A questo punto è solo possibile tornare a una precedente affermazione: l’unico aiuto ci potrebbe venire dalla scuola, se questa riuscisse a evitare i suoi errori. Essa è stata, sino a oggi, uno strumento al servizio dell’ambizione degli insegnanti. Non riusciamo perciò a comprendere quel ritorno all’antica autorità da molti auspicato, poiché tale principio non ha mai dato alcun frutto. Abbiamo visto che l’autorità è dannosa e provoca ribellioni già in seno alla famiglia. Una sua applicazione nell’ambito della scuola non sarebbe accettata spontaneamente, ma dovrebbe essere imposta, con l’aggravante che l’insegnante è visto dal fanciullo come un semplice funzionario dello Stato. Ogni imposizione induce gravi conseguenze nello sviluppo psichico infantile, che deve basarsi sul sentimento sociale e sulla solidarietà umana, non su costrizioni esterne” (p. 215).

“Il bambino accede alla scuola per completare la sua evoluzione psichica, che si propone pertanto come esigenza primaria. Non si potrà dunque parlare di una buona scuola, se questa non risulta armonizzata appunto con lo sviluppo dell’organo psichico, il che appare realizzabile solo con una scuola sociale” (p. 215).

Questionario per la comprensione e il trattamento dei fanciulli difficili redatto dalla Società Internazionale di Psicologia Individuale

“1. Da quando il fanciullo desta preoccupazioni? In che circostanze (ambientali o di altro genere) si trovava il fanciullo quando furono notate le prime manifestazioni?

Sono importanti le seguenti circostanze: cambiamento di ambiente, inizio della vita scolastica, nascite in famiglia, fratelli e sorelle maggiori e minori, insuccessi a scuola, cambiamenti di insegnanti o di scuola, nuove amicizie, malattie del fanciullo, divorzio, secondo matrimonio o morte dei genitori” (p. 140).

“2. È stata notata qualche particolarità nei primi anni di vita riguardo a ritardi nello sviluppo mentale o debolezza fisica, timidezza, negligenza, riservatezza, goffaggine, invidia, gelosia, dipendenza dagli altri per mangiare, vestirsi, lavarsi o andare a letto? Il bambino aveva paura di rimanere solo o temeva l’oscurità? Comprende bene il suo ruolo sessuale? Ogni caratteristica primaria, secondaria o terziaria del sesso? Come considera l’altro sesso? Quanto tempo è stato istruito sul ruolo del suo sesso? È un figliastro? È illegittimo? È un figlio adottivo? Un orfano? Come lo trattavano i genitori adottivi? È ancora in contatto con loro? Ha imparato a parlare e a camminare all’età giusta? Senza difficoltà? Ha messo i denti in modo normale? Notevoli difficoltà

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nell’apprendere a leggere, a disegnare, a cantare, a nuotare? È attaccato in modo particolare al padre, alla madre, ai nonni o alla governante?

Bisognerà determinare se ha un atteggiamento ostile verso il suo ambiente e ricercare le origini del suo sentimento di inferiorità se tende ad evitare le difficoltà e se si dimostra egoista e ipersensibile” (p. 140).

“3. È un bambino che dà molto disturbo? Cosa o chi teme maggiormente? Di notte piange? Soffre di enuresi? È prepotente con i bambini più piccoli o anche con i più forti di lui? Manifestava un forte desiderio di dormire nel letto dei genitori? Era goffo? Soffriva di rachitismo? Appariva intelligente? Veniva spesso dileggiato e deriso? Si mostrava vanitoso nel riguardo dei suoi capelli, vestiti, scarpe, ecc.? Si mangia le unghie o si mette le dita nel naso? Mangia con ingordigia?

Sarebbe interessante stabilire se si sforza, con più o meno coraggio a primeggiare; e anche se l’ostinazione gli impedisce di far seguire l’azione all’impulso” (p. 140).

“4. Si fa amici facilmente? Si mostra tollerante con le persone e con gli animali, o li molesta, li tormenta? Gli piace collezionare oggetti o ammassare roba? Cosa c’è da dire intorno all’avarizia e all’ingordigia? Ha tendenza a guidare gli altri? Ha tendenza ad isolarsi?

Queste domande hanno lo scopo di sondare la capacità del bambino a ‘stabilire contatti’ e il suo grado di scoraggiamento” (pp. 140-141).

“5. Rispetto alla domanda di cui sopra, qual è l’atteggiamento attuale del bambino? Come si comporta a scuola? Gli piace la scuola? È puntuale? È nervoso prima di andare a scuola? Ha fretta? Smarrisce i libri, la cartella, i quaderni? Si preoccupa all’idea dei compiti in classe e prima degli esami? Si dimentica di fare i compiti scolastici oppure si rifiuta di farli? Perde tempo? E’ pigro? Manca di concentrazione? Disturba la sua classe? Come considera l’insegnante? È critico, arrogante, indifferente verso il maestro? Chiede agli altri di aiutarlo per fare le lezioni oppure aspetta che glielo propongono loro? È ambizioso nei riguardi della ginnastica e dello sport? Si considera comparativamente dotato di poco talento o completamente? Legge molto? Che genere di libri legge?

Queste domande ci aiutano a stabilire se il fanciullo è preparato in modo corretto ad affrontare la scuola, qual è il risultato dell’ ‘esperimento di frequentare la scuola’ e in che modo affronta le difficoltà” (p. 141).

“6. Informazioni corrette sulla situazione familiare; le malattie in famiglia, alcoolismo, tendenze criminali, nevrosi, gracilità, lue, epilessia, livello di vita. Vi sono stati decessi in famiglia e quanti anni aveva il bambino quando avvennero? È orfano? Chi è la persona che domina in casa? L’educazione familiare è severa? Si brontola molto e si trova da ridire su tutto o si è indulgenti? Le influenze familiari sono tali da incutergli la paura di affrontare la vita? A che controllo è sottoposto?

Dalla sua posizione, dal suo atteggiamento in famiglia possiamo valutare le impressioni che il fanciullo riporta” (p. 141).

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“7. Qual è l’atteggiamento del fanciullo verso il posto che occupa nella costellazione familiare? È il maggiore, il minore, è figlio unico, il solo maschio, la sola femmina? A casa regna la rivalità, si piange molto, si deride, si tende a disprezzare gli altri?

Quanto sopra è importante per lo studio del carattere e mette in luce il comportamento del bambino verso gli altri” (p. 141).

“8. Ha il fanciullo qualche idea intorno alla scelta della professione? Cosa pensa del matrimonio? Che professione esercitano gli altri membri della famiglia? Com’è l’unione coniugale dei genitori?

Da queste risposte si stabilirà se il bambino ha coraggio e se guarda fiducioso al futuro” (p. 141).

“9. Quali sono i suoi giochi favoriti, le storie, i personaggi storici e romanzeschi? Si diverte a rovinare i giochi degli altri fanciulli? Ha immaginazione? È un pensatore calmo? Si abbandona a sogni ad occhi aperti?

Queste domande si riferiscono ad una possibile tendenza nel fanciullo a impersonare un eroe nella vita. Un contrasto nel comportamento del fanciullo può indicare uno stato di scoraggiamento” (p. 141).

“10. Primi ricordi? Sogni impressionanti o periodici che abbiano per oggetto il volare, il cadere, la mancanza di forza, l’arrivare in ritardo alla stazione, sogni ansiosi?

Queste domande permettono spesso di mettere in evidenza una tendenza all’isolamento, avvertimenti alla cautela, tratti di carattere ambiziosi, la preferenza per certe persone, per la vita in campagna e così via” (p. 142).

“11. Rispetto a che cosa è scoraggiato il fanciullo? Si considera trascurato? Reagisce prontamente quando lo si circonda di attenzioni e di lodi? È superstizioso? Evita le difficoltà? Intraprende tante cose per abbandonarle poco dopo? Affronta il futuro con incertezza? Crede negli effetti nocivi dell’ereditarietà? Viene sistematicamente scoraggiato da coloro che lo circondano? Ha una visione pessimistica della vita?

Le risposte a questi quesiti ci aiuteranno a stabilire se il bambino ha perso la fiducia in se stesso e se ha imboccato una via sbagliata” (p. 142).

“12. Si notano altri vizi o cattive abitudini, come ad esempio il fare smorfie, fingere di essere deficiente, infantile, comico?

In questi casi viene manifestato poco coraggio allo scopo di attirare l’attenzione” (p. 142).

“13. Ha difficoltà di parola? È brutto? È zoppo? Ha le gambe a X, le gambe storte? È rachitico? È troppo grasso o troppo alto? Mal proporzionato? Ha occhi o orecchie costituzionalmente anormali? È mentalmente ritardato? Mancino? Di notte russa? È molto bello?

Queste sono caratteristiche alle quali in genere il bambino annette un’importanza esagerata e per colpa delle quali può scoraggiarsi in modo permanente. Spesso uno

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sviluppo difettoso si manifesta anche nel caso di bambini graziosi che sono ossessionati dall’idea di dover riuscire ad ottenere tutto quello che vogliono senza far fatica: tali fanciulli perdono molte occasioni di prepararsi alla vita” (p. 142).

“14. Parla spesso della sua incapacità, del suo ‘scarso talento’ per la scuola, il lavoro, la vita? Cova idee suicide? Esiste un rapporto cronologico fra i suoi insuccessi e i suoi disturbi? Attribuisce troppa importanza al successo apparente? È servile, bigotto, ribelle?

Queste sono manifestazioni di scoraggiamento estremo, che si manifestano per lo più quando il fanciullo ha tentato invano di vincere i suoi difetti. I suoi insuccessi sono in parte dovuti all’inefficacia dei suoi sforzi e in parte alla mancanza di comprensione delle persone che lo circondano. Ma in qualche modo deve riuscire a soddisfare le sue tendenze: perciò ricerca qualche altra scena più accessibile per le sue azioni” (p. 142).

“15. Elencare le cose in cui il fanciullo ottiene successo.

Gli ‘adempimenti positivi’ ci forniscono indicazioni utili, perché può essere che gli interessi, le inclinazioni e la preparazione del fanciullo puntino verso una direzione diversa da quella verso la quale si è diretto fino a quel momento” (p. 142).

“Dalle risposte fornite alle domande che precedono, che non si dovrebbero mai porre in un ordine regolare o in modo sempre uguale, ma costruttivamente inserendole nella conversazione, ci si può formare una idea corretta della individualità. Ci si renderà conto che anche se gli insuccessi non trovano giustificazioni, essi sono spiegabili o comprensibili. Gli errori accertati si devono spiegare sempre in modo paziente e amichevole, senza ricorrere a rimproveri” (p. 142).

“I principali contenuti della psicologia individuale possono essere classificati in:a. dati fondamentali, come il sentimento di inferiorità-superiorità e il sentimento

sociale, che sono i due assi attorno a cui si organizza la personalità. Questi due dati, definibili in modo preciso in tutte le loro connotazioni, possiedono il carattere della verificabilità sul piano clinico,

b. Una concezione fenomenologica, globalista e finalista della personalità che dal punto di vista teoretico non interessa solo la psicologia adleriana, ma investe tutte le teorie antielementaristiche della psicologia;

c. Una teoria specifica, rigorosamente originale, basata sull’assunto che il modo di percepire, ricordare, immaginare, sognare, operare degli esseri umani e, quindi il loro stile di vita, sono modellati dalla meta verso cui l’essere tende: meta che va quindi intesa nel senso aristotelico di una causa finale” (G. Canziani, Introduzione a A. Adler, op. cit., p. 149-150).

“Il sentimento di inferiorità, come è noto nasce dallo stato di insicurezza, debolezza, dipendenza in cui si trova sino dall’infanzia l’essere umano, il quale aspira, senza che ciò appaia chiaro alla sua coscienza, ad evadere da questo stato verso una condizione di superiorità, valorizzazione della propria personalità, o, in genere, di maggiore prestigio” (p. 150).

“Questa tendenza a liberarsi dal sentimento di inferiorità, e il conseguente desiderio di elevarsi, è tanto più intensa quanto maggiore è la distanza che separa il fanciullo dall’adulto e si accentua in modo particolare nel caso in cui l’individuo presenti qualche

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inferiorità organica o sia sottoposto a pressioni sociali frustranti. In se stesso, il sentimento di inferiorità e la sua compensazione psicologica, costituita dalla tendenza alla superiorità, fa parte del vissuto abituale di ogni essere umano. Solo quando la compensazione del sentimento di inferiorità viene a mancare – o la sua dinamica dà origine a una situazione anomala – si forma il cosiddetto complesso di inferiorità che blocca l’attività dell’individuo e lo porta, attraverso molteplici finzioni, a rinunciare ad affrontare i fondamentali problemi della vita. Il complesso di inferiorità è il nucleo della nevrosi” (p. 150).

“Il sentimento sociale è un sentimento molto complesso ed ‘è forse il concetto più difficile da intendere correttamente (L. Way). Esso presenta infatti un triplice aspetto” (p. 152).

“Sul piano psicobiologico il sentimento sociale può essere considerato un fenomeno – se non innato – indissolubilmente legato alla natura umana e si può ritenere che il suo sviluppo filogenetico possa essere seguito attraverso la storia dell’umanità. Esso troverebbe la sua origine nel fatto che per l’essere umano, il più debole fra gli esseri viventi, l’associarsi ai propri simili è stata una necessità: senza questa associazione l’uomo sarebbe scomparso dalla crosta terrestre” (p. 152).

“Sul piano subiettivo – secondo le più antiche connotazioni con cui Adler lo ha caratterizzato, ancora ai tempi in cui si muoveva nella cerchia di Freud – esso si esprime come ‘amore per i genitori, amore dei fratelli, amore sessuale, amore per la propria terra, amore per la natura, per l’arte, per la scienza, per l’umanità’ e, anche, […] come ‘una tendenza ad associarsi agli altri per svolgere le proprie attività per fini sociali utili alla comunità’” (p. 152).

“Su un piano, infine, che oscilla tra il teoretico e il pragmatico, esso viene considerato come il ‘barometro della normalità’, in cui il criterio differenziale tra ‘normale’ e ‘anormale’, ‘adattato e ‘disadattato’, è costituito dal carattere utile o disutile per la comunità che caratterizza l’attività svolta dall’individuo” (p. 152).

“[Lo stile di vita] può considerarsi un’ ‘organizzazione cognitiva’ costituita da una serie di convinzioni, che si formano a livello inconscio, non coincidono con la realtà obiettiva, e riflettono il modo particolare, personale, con cui l’individuo ‘vede’ se stesso e il mondo e il rapporto tra se stesso e il mondo” (p. 156).

“La formula significa che l’individuo si è formato una convinzione di ciò che egli è (secondo una subiettiva impressione di se stesso), su che cosa è il mondo (secondo il modo in cui egli se lo immagina) e su che cosa è la vita, ‘per cui’ seguendo la sua logica privata sarà indotto a formarsi un piano di vita di un determinato tipo : scegliendo cioè una meta da raggiungere che sia coerente con le convinzioni più o meno distorte che egli si è formato intorno a se stesso e al mondo” (p. 156).

“Una prima categoria di convinzioni riguarda: i vari aspetti del sé, cioè l’insieme delle convinzioni che l’essere umano si è formato intorno a se stesso e che possono essere distinte in convinzioni che riguardano a. il sé corporeo e fra queste le convinzioni intorno all’integrità del proprio corpo […]; b. l’identità del proprio sé che si esprime con la collocazione ‘quasi anagrafica’ di se stesso nell’ambiente sociale (‘io sono ebreo e non cattolico’, ‘sono negro e non bianco’, ‘sono donna e non uomo’).Si tratta di collocazioni che hanno abitualmente il valore di ‘constatazioni obiettive’ ma che

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possono collegarsi con immagini particolari dell’ambiente; c. l’immagine di sé, cioè la valutazione di se stesso in rapporto agli altri. Essa è formata da convinzioni, che essendo costituite da giudizi di valore che il soggetto dà di se stesso, si mettono in particolare rilievo nelle situazioni cliniche. Esempi di queste convinzioni possono essere le seguenti: ‘Io sono incapace’, ‘Io sono brutta’, ‘Non riesco a niente’” (p. 156).

“Un’altra categoria di convinzioni riguarda l’immagine che il soggetto si fa del mondo visto nel suo aspetto cosmico e sociale. Nel primo aspetto (aspetto cosmico) si possono includere le opinioni intorno alla natura della vita (‘la vita è meravigliosa’, ‘retta da forze oscure’, ‘regolata dal destino’, ‘malvagia’); nel secondo (aspetto sociale) sono incluse le immagini che il soggetto si è formato degli altri – (e quindi anche degli appartenenti all’altro sesso) che possono essere visti come amici o ostili, competitori o uguali, superiori o inferiori, fedeli o infedeli” (pp. 156-157).

“La terza categoria di convinzioni riguardano gli ideali, cioè le cose cui si dà più importanza nella vita (denaro, prestigio, sesso…) e le valutazioni morali, cioè le convinzioni intorno a come ‘la vita dovrebbe essere’ e come ‘si dovrebbe essere’” (p. 157).

“Dall’insieme delle ‘convinzioni’ elencate e dalla regola per il proprio comportamento che da esse trae il soggetto, lo stile di vita si configura, dunque, almeno nella sua struttura portante, come la maniera propria a ciascun individuo di reagire alle stimolazioni sociali, non come esse si configurano nella realtà, ma come uno – per la sommazione di impressioni e convinzioni formatesi sino dall’infanzia – le vede” (p. 157).

“Per Adler la forza dinamica che motiva il comportamento umano non è la libido, ma la tendenza a raggiungere una meta di superiorità che può esprimersi in una miriade di modi. Per comprendere un essere umano bisogna, dunque, scoprire lo scopo nascosto cui l’individuo tende e che giustifica le sue azioni. Il sesso non è il motivo dominante dell’uomo, ma solo uno dei tre problemi che l’essere umano deve affrontare nella vita. Gli altri due sono la relazione con gli altri e il lavoro” (Canziani, p. 21).

“Per Adler la personalità ha una struttura unitaria e possiede una coerenza interna per cui le manifestazioni del comportamento umano non possono essere considerate come sintomi isolati, espressioni di una sola ‘parte’ della personalità, ma devono essere interpretate con riferimento al ‘contesto’ globale di cui sono espressione” (p. 21).

“La concezione adleriana della personalità è, dunque, ‘globalistica’ e ‘olistica’ e come tale si oppone alla concezione ‘riduzionistica’ propria della psicoanalisi. Nell’ambito di questa stessa visione globale della personalità, l’antitesi tra conscio e inconscio è respinta da Adler che, a parte il maggior valore che dà al conscio rispetto all’inconscio, concepisce l’inconscio ‘come ciò che non conosciamo di noi stessi’ e come un’attività che non opera, per sua natura, in opposizione al conscio”.

“Per Adler l’uomo non può essere compreso al di fuori del contesto sociale nel quale agisce e al quale reagisce. Le cause ambientali esterne vanno, perciò, prese in particolare considerazione nell’interpretazione del comportamento umano. La sua psicologia è centrata sulla dinamica delle relazioni interpersonali e va considerata come una psicologia sociale che si muove nell’ambito della ‘teoria del campo’ nel senso di

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Lewin. Il comportamento è interpretato, quindi, come una funzione della persona e dell’ambiente […]” (p. 21).

“La psicologia di Adler è informata a principi etico-sociali. Adler pone al centro dell’educazione la democrazia egualitaria, mette in evidenza l’influenza che le classi sociali e la povertà esercitano sul rendimento dell’uomo, pone principi etici alla base della psicoterapia” (p. 21).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo di Adler:

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2. Agostino d’Ippona

IL MAESTRO

Linguaggio e segni (1, 1 - 7, 20)

Parola, insegnamento e rievocazione.

1. 1. Agostino - Che cosa s'intende ottenere, secondo te, quando si parla?Adeodato - Per quanto ora ho in mente, o insegnare o apprendere.Ag. - M'è evidente il primo dei due casi, e son d'accordo. È chiaro che parlando s'intende insegnare. Ma apprendere come?Ad. - E come, secondo te, se non dialogando?Ag. - Ma anche allora, per quanto ne so io, s'intende soltanto insegnare. Ti chiedo appunto se dialoghi per un motivo diverso da quello d'insegnare il tuo pensiero all'altro dialogante.Ad. - È vero.Ag. - È evidente dunque per te che con la parola s'intende soltanto insegnare.Ad. - No, non m'è del tutto evidente. Se infatti parlare non è altro che proferir parole, a mio avviso, anche quando si canta, si compie quell'atto. Ma poiché spesso si canta da soli, senza che sia presente qualcuno che apprenda, non penso che s'intende insegnare qualche cosa.Ag. - Io invece penso che v'è un genere d'insegnamento per rievocazione, e importante certamente. Il fatto stesso lo dimostrerà durante questo nostro discorso. Ma se tu non ammetti che si apprende col rievocare e che non insegna anche chi stimola alla rievocazione, non ti faccio obiezioni. Stabilisco comunque fin d'ora due ragioni del linguaggio, o per insegnare o per stimolare alla rievocazione gli altri o noi stessi. Lo facciamo anche quando cantiamo; non ti pare?Ad. - Non del tutto. È piuttosto raro che io canti per rievocare, ma soltanto per diletto estetico.Ag. - Capisco il tuo pensiero. Ma non rifletti che ciò che nel canto dà diletto estetico è una misura ritmica del suono. Essa può essere aggiunta o sottratta alle parole; quindi altro è parlare ed altro è cantare. Si canta col flauto e la cetra, cantano gli uccelli ed anche noi talora moduliamo senza parole una sequenza musicale. E questo suono si può considerare canto, ma non discorso. Hai da obiettare?Ad. - No, proprio nulla.

Linguaggio e preghiera.

1. 2. Ag. - Non ti sembra dunque che il linguaggio è stato istituito soltanto o per insegnare o per far rievocare?Ad. - Lo riterrei se non mi rendesse perplesso il fatto che per pregare si usa il linguaggio. Ora è assurdo pensare che noi insegniamo o facciamo rievocare un qualche cosa a Dio.Ag. - Tu non sai, come devo supporre, che il motivo per cui ci è stato comandato di pregare nelle nostre camere chiuse 1, quasi ad indicare l'intimità dell'anima, è perché Dio non vuole che mediante la nostra parola gli si insegni o gli si faccia rievocare qualche cosa per accordarci ciò che desideriamo. Chi parla esprime esteriormente, mediante un suono articolato un segno della propria intenzione. Ma Dio deve essere cercato e pregato nel recesso dello spirito che si chiama appunto l'uomo interiore. Egli ha voluto che questo sia il suo tempio. Non hai letto nell'Apostolo: " Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo spirito di Dio abita in voi "2; e ancora: " che Cristo abita nell'uomo interiore"3? E non hai notato nel Profeta: " Parlate nel vostro cuore ed esaminatevi nel vostro giaciglio, sacrificate il sacrificio della giustizia e sperate nel Signore "4? E dove, secondo te, si può sacrificare il sacrificio della giustizia se non nel tempio della mente e nel giaciglio del cuore? Ma dove si deve sacrificare, si deve anche pregare. Quindi non v'è bisogno nella preghiera del linguaggio, cioè di parole che suonano. Si eccettua il caso di dover esprimere il proprio pensiero, come fanno appunto i sacerdoti, non perché Dio ascolti, ma ascoltino gli uomini e, seguendo col pensiero suscitato dalle parole, si rivolgano a Dio. La pensi diversamente?Ad. - Son pienamente d'accordo.Ag. - Ma non ti turba il fatto che il sommo Maestro, quando insegnò a pregare ai discepoli 5, insegnò determinate parole? Sembra proprio che non volesse indicare altro se non il modo con cui si deve parlare nella preghiera.Ad. - Non mi turba affatto. Non insegnò loro le parole ma, mediante le parole, i significati con cui si ricordassero a chi e che cosa si deve chiedere nella preghiera, quando pregavano nel recesso della

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mente, come è stato detto.Ag. - Hai compreso bene. Avverti anche, come penso, che, sebbene qualcuno possa negarlo, pur non proferendo suoni, si parla interiormente nel pensiero per il fatto che si pensano le parole. Anche in questo caso con il linguaggio non si fa altro che richiamare, nell'atto che la memoria, in cui le parole sono impresse, rievocandole fa venire in mente gli oggetti stessi di cui le parole sono segni.Ad. - Comprendo e son d'accordo.

Parole e segni.

2. 3. Ag. - Risulta dunque dal nostro dialogo che le parole sono segni.Ad. - Sì.Ag. - E se il segno non significasse qualche cosa può esser segno?Ad. - No.Ag. - Quante parole sono in questo verso:

Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui 6?

Ad. - Otto.Ag. - Son dunque otto segni?Ad. - Sì.Ag. - Capisci il verso, credo.Ad. - Abbastanza, mi pare.Ag. - Dimmi cosa significano le singole parole.Ad. - Capisco cosa significa Si (se), ma non scopro un altro termine con cui dirne il significato.Ag. - Per lo meno puoi scoprire dove si trova il significato, qualunque sia, di questa parola?Ad. - Si significa dubbio, mi pare, e il dubbio è esclusivamente nel pensiero.Ag. - Per il momento approvo; va' avanti.Ad. - Nihil (niente) significa soltanto ciò che non è.Ag. - Forse dici bene; ma mi trattiene dal consentire senza esitazione la tua precedente affermazione che non si dà segno se non significa qualche cosa. Ora è assolutamente impossibile che ciò che non è sia qualche cosa. Dunque la seconda parola del verso non è un segno perché non significa un qualche cosa. Quindi per errore è emerso dal nostro dialogo che tutte le parole sono segni o che ogni segno significa qualche cosa.Ad. - Mi incalzi troppo. Tuttavia quando non si ha cosa significare, è proprio da ignoranti proferire delle parole. Tu ora stai parlando con me. Non credo che proferisci un suono senza utilità, ma con ogni parola che esce dalla tua bocca mi fornisci un segno per farmi capire qualche cosa. Pertanto nel parlare non devi pronunziare quelle due sillabe se non intendi con esse significare un qualche cosa. Ma se capisci che la formulazione del pensiero necessariamente le implica e che esse, nel giungere all'udito, ci insegnano o richiamano qualche cosa, capiresti certamente anche ciò che intendo dire e non so spiegare.Ag. - Che fare dunque? Forse con queste parole s'intende significare, anziché l'oggetto che non esiste, una disposizione della mente quando non può rappresentarsi l'oggetto e scopre, o per lo meno pensa di scoprire, che esso non esiste.Ad. - È forse proprio questo che tentavo di dire.Ag. - Andiamo avanti, comunque sia, affinché non ci capiti un fatto del tutto assurdo.Ad. - E quale?Ag. - Che il niente ci trattiene, eppure stiamo indugiando.Ad - Sarebbe davvero degno di scherno e non capisco il modo con cui tuttavia scorgo che è possibile, anzi scorgo che è già avvenuto.

Segni e concetti.

2. 4. Ag. - A suo tempo, se Dio lo permetterà, comprenderemo meglio questa opposizione di concetti. Ora riportati al verso e cerca di spiegare, come puoi, il significato delle altre parole.Ad. - La terza è la preposizione ex. In cambio, penso, possiamo dire de.Ag. - Non ti chiedo di dire in cambio di una voce molto nota un'altra egualmente nota col medesimo significato, seppure è del medesimo significato. Ma per il momento ammettiamolo pure. Certamente se il poeta non avesse detto ex tanta urbe, ma de tanta, ti chiederei cosa significa de. Tu risponderesti ex poiché sono due parole, ossia segni che, secondo te, significano una medesima cosa. Io invece chiedo quel non saprei che di unico e medesimo concetto che viene espresso con questi due segni.Ad. - Significano, secondo me, una determinata separazione di un oggetto di cui si dice che proviene da un altro in cui era. Può quest'ultimo non più sussistere, come nel verso, poiché, non sussistendo più la città, di essa potevano rimanere ancora alcuni troiani. Può al contrario ancora rimanere, come diciamo che in Africa vengono commercianti da Roma.

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Ag. - Posso anche concederti che le cose stanno così e non enumerare quanti casi si danno fuori di questa tua regola. Ma ti dovrebbe esser facile capire che hai spiegato parole con parole, ossia segni con segni, gli uni e gli altri assai noti. Io vorrei invece che tu mi indicassi, se ti è possibile, gli oggetti stessi di cui son segni.

Segni e cose.

3. 5. Ad. - Mi meraviglio che non sai o meglio che stai ironizzando sull'assoluta impossibilità che si ottenga da una mia risposta ciò che vuoi. Stiamo appunto svolgendo un discorso, durante il quale si può rispondere soltanto a parole. Mi stai chiedendo dei concetti che, quali siano, parole non sono certamente. Eppure anche tu me li chiedi con parole. Dunque tu per primo smettila di chiedere a parole e allora anche io alla medesima condizione risponderò.Ag. - Ti difendi a norma di diritto, lo ammetto. Ma se io ti chiedessi cosa significano le tre sillabe con cui si dice " parete ", me la potresti indicare col dito. Io vedrei l'oggetto stesso, di cui la parola trisillaba è segno, dietro la tua indicazione senza che tu pronunci alcuna parola.Ad. - Concedo che è possibile per i soli nomi che significano corpi, e poi a condizione che siano presenti.Ag. - E il colore lo consideriamo corpo o piuttosto una determinata qualità del corpo?Ad. - Una qualità.Ag. - Perché dunque può essere mostrato con un dito? Oppure intendi associare ai corpi anche le qualità sensibili in maniera che anche esse, quando son presenti, possono essere insegnate senza parole?Ad. - Quando dicevo corpi, intendevo tutte le cose sensibili, cioè tutte le qualità che si percepiscono nei corpi.Ag. - Considera tuttavia se ne devi escludere alcune.Ad. - Fai bene ad avvisarmi. Non avrei dovuto dire tutte le cose sensibili, ma tutte le cose visibili. Confesso che il suono, l'odore, il sapore, il peso, il calore e le altre qualità che appartengono agli altri sensi, sebbene non si possano percepire senza i corpi, e pertanto sono sensibili, non si possono tuttavia indicare con un dito.Ag. - Non hai mai veduto come alcune persone mediante il gesto parlano, per così dire, con i sordi e che questi sempre col gesto domandano, rispondono, insegnano e indicano tutte le cose che vogliono o per lo meno parecchie? Dato questo fatto, non si mostrano senza parole soltanto le cose visibili, ma i suoni, i sapori e simili. Anche i mimi spesso rendono comprensibili e sviluppano interi drammi con la danza.Ad. - Non ho obiezioni da fare, salvo che non io soltanto ma neanche il tuo mimo danzatore avrebbe potuto mostrarti senza parole cosa significa quell'ex.

Segni e azioni.

3. 6. Ag. - Forse dici il vero. Ma supponiamo che gli sia possibile. Non dubiti, suppongo, che qualunque sia la mimica con cui tenterà d'indicarmi la cosa che è significata da questa parola, non sarà la cosa stessa, ma un segno? Dunque anche egli, sebbene non mi indichi parola con parola, m'indicherà egualmente un segno con un segno. Così il monosillabo ex e la mimica sono entrambi segni di una determinata cosa che io vorrei mi fosse indicata senza segni.Ad. - Scusa, com'è possibile ciò che chiedi?Ag. - Allo stesso modo della parete.Ad. - Ma neanche essa, come ha dimostrato il ragionamento, può essere indicata senza segno. Infatti l'indicazione del dito non è certamente la parete, ma è posta come segno per indicare alla vista la parete. Secondo me dunque non v'è cosa alcuna che sia possibile indicare senza segni.Ag. - Ma supponi che io ti chieda che cos'è camminare e che tu ti levi ed esegua l'atto. Useresti forse per insegnarmelo parole o altri segni o piuttosto l'azione stessa?Ad. - Sì, lo ammetto e mi vergogno di non avere afferrato un concetto tanto elementare. Della fattispecie mi si presentano mille cose che si possono indicare immediatamente e non per segni, come mangiare, bere, sedere, stare in piedi, gridare e innumerevoli altri.Ag. - Ora dimmi. Se io non conoscessi il significato della parola e chiedessi a te mentre cammini che cos'è camminare, come me lo insegneresti?Ad. - Compirei la medesima azione più celermente in maniera che, data la tua domanda, tu sia stimolato a riflettere dalla variazione. Tuttavia si dovrebbe compiere soltanto l'azione che deve essere indicata.Ag. - Ma non capisci che altro è camminare ed altro è affrettarsi? Chi cammina non necessariamente va di fretta, e chi si affretta non necessariamente cammina. Si parla di fretta nello scrivere, nel leggere e in molte altre azioni. Pertanto se, data la mia domanda. tu eseguissi più celermente l'azione che stavi compiendo, io dovrei pensare che camminare è lo stesso che affrettarsi. Questa appunto è la variazione che avevi aggiunto ed io sarei tratto in errore.Ad. - Ammetto che non è possibile mostrare senza segno un'azione se si viene interrogati su di essa mentre si compie. Se non si aggiunge nulla, chi domanda penserà che non s'intende indicargliela e che, senza riguardo per lui, si continua a fare quel che si stava facendo. Ma se chiedesse su cose che si

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possono tradurre in azione e non chiedesse nel momento in cui si stanno compiendo, è possibile, data la sua domanda, indicargli ciò che chiede con l'azione stessa e non con un segno. Escludo il caso che, mentre parlo, mi chieda che cos'è parlare. Tutto ciò che dirò per insegnarglielo, lo dovrò fare necessariamente con parole. Ma per questo appunto reso sicuro, gli insegnerò, fino a chiarirgli quel che chiede, senza interrompere l'azione che ha voluto gli fosse indicata e senza ricorrere a segni, al di fuori di essa, per indicarla.

Tre categorie di segni.

4. 7. Ag. - Spiegazione davvero intelligente. Esamina dunque se è accertato dal nostro dialogo che è possibile indicare senza segni le azioni che non si compiono nel momento in cui si è interrogati e che si possono compiere immediatamente dopo, ovvero se eventualmente si adoperano i segni stessi. Infatti quando si parla si adoperano dei segni. Per questo appunto si dice significare.Ad. - Sì, è accertato.Ag. - Allora quando si rivolge la domanda su determinati segni, è possibile indicare segni con segni, ovvero quando si tratta di cose che non sono segni, si possono indicare o eseguendole dopo la domanda, se è possibile eseguirle, oppure adoperando segni con cui indicarle.Ad. - Sì.Ag. - Posta questa tripartizione, consideriamo prima di tutto, se vuoi, la categoria di segni che s'indicano con segni. Le parole soltanto sono segni?Ad. - No.Ag. - Ritengo dunque che nel parlare con parole si designano le parole stesse o altri segni, ad esempio nei termini " gesto " o " lettera dell'alfabeto ". Infatti il significato di queste due parole è appunto il loro esser segno. Oppure si designa qualche cosa che non è segno, come nel termine " pietra ". Infatti questa parola è segno perché significa qualche cosa, ma l'oggetto significato non necessariamente è segno. Però questa categoria di segni, cioè quando con parole si significa ciò che non è segno, non appartiene al settore che ci siamo proposti di discutere. Abbiamo appunto intrapreso a considerare il tema di segni che sono indicati da segni e ne abbiamo scoperto due settori secondo che con segni si insegnano o si fanno rammentare i medesimi o diversi segni. Non è così, secondo te?Ad. - Certamente.

Segni di segni.

4. 8. Ag. - Dimmi dunque a quale senso appartengono i segni che son parole.Ad- All'udito.Ag. - E il gesto?Ad. - Alla vista.Ag. - E quando le parole vengono scritte? Non rimangono parole o piuttosto si devono considerare segni di parole? È parola appunto ciò che con determinato significato si pronuncia da voce articolata. E la voce può esser percepita soltanto dall'udito. Ne consegue che quando la parola si scrive, si ha un segno per la vista e che con esso si richiama alla mente ciò che è di competenza dell'udito.Ad. - Pienamente d'accordo.Ag. - Sei d'accordo anche, suppongo, che col termine " nome " s'intende significare qualche cosa?Ad. - Sì.Ag. - E che cosa?Ad. - Ciò che ogni cosa si denomina, come Romolo, Roma, virtù, fiume e altri innumerevoli.Ag. - E questi quattro nomi non significano nessuna cosa?Ad. - Anzi alcune cose.Ag. - E c'è differenza fra questi nomi e le cose da essi significate?Ad. - Moltissima.Ag. - Vorrei udire da te quale sia.Ad. - Questa, prima di tutto, che essi sono segni, le cose no.Ag. - Approvi che chiamiamo significabili gli oggetti che è possibile significare con segni e non son segni, allo stesso modo che si denominano visibili gli oggetti che si possono vedere? Così in seguito ne parleremo più agevolmente.Ad. - Perfettamente.Ag. - E non è possibile significare con altro segno i quattro segni che poco fa hai pronunciato?.Ad. - Dunque mi sarebbe già sfuggito, e mi meraviglio che lo pensi, di avere chiarito col nostro dialogo che le parole scritte, nei confronti di quelle proferite con la voce, sono segni di segni.Ag. - Dimmi la differenza che esiste fra di loro.Ad. - I primi sono visibili, gli altri udibili. Perché non dovresti ammettere questo termine se abbiamo già ammesso significabile?Ag. - Lo ammetto certamente e mi piace. Ma torno a chiedere se è possibile significare questi quattro

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segni con altro segno udibile come hai ricordato per i visibili.Ad. - Ricordo che anche questo è stato detto poco fa. Avevo risposto che il nome significa qualche cosa ed avevo addotto ad esempio di tale significanza i quattro oggetti suddetti. So anche che tanto il nome come i quattro nomi, certamente se vengono pronunciati con la voce, sono udibili.Ag. - Quale differenza esiste allora fra il segno udibile e i significati udibili che a loro volta sono segni?Ad. - Fra il termine " nome " e i quattro nomi che abbiamo addotto come esempio della sua significanza, la differenza, secondo me, è la seguente. Il primo è segno udibile di segni udibili, gli altri sono segni udibili, ma non di segni, ma di oggetti, alcuni visibili come Romolo, Roma, fiume, uno intelligibile come virtù.

Parola è segno universalissimo.

4. 9. Ag. - Accetto e approvo. Ma sai che si chiamano parole tutti i segni che, con un determinato significato, si proferiscono mediante la voce articolata?Ad. - Sì.Ag. - Dunque anche il nome è una parola poiché ci è evidente che si pronuncia mediante voce articolata con un determinato significato. Allorché si dice che un individuo eloquente usa parole appropriate, s'ìntende certamente che usa anche dei nomi. Nel momento in cui in Terenzio uno schiavo dice al vecchio padrone: Per piacere, buone parole 7, questi aveva già pronunciato anche molti nomi.Ad. - D'accordo.Ag. - Dunque tu ammetti che con le sillabe che si pronunciano nel dire " parola ", viene significato anche il nome e che quindi la prima è segno del secondo.Ad. - Sì.Ag. - Vorrei che tu mi rispondessi anche su questo punto. Dunque parola è segno di nome, nome è segno di fiume, fiume è segno di una cosa che ormai interessa la vista. Hai già detto la differenza che esiste fra questa cosa e fiume, ossia il suo segno, fra questo segno e il nome che è segno di questo segno. Ora quale differenza esiste, secondo te, fra il segno di un nome che è una parola, come abbiamo accertato, e lo stesso nome di cui è segno?Ad. - Questa è la differenza, a mio avviso. Gli oggetti che hanno per segno il nome hanno per segno anche la parola poiché come nome è parola, così anche fiume è parola, ma non tutti quelli che hanno per segno la parola hanno per segno anche il nome. Quel si, che inizia il verso da te citato, e questo ex, da cui. dopo una così lunga trattazione, siamo giunti dialetticamente a questi concetti, sono parole ma non nomi. E se ne trovano molti altri. Pertanto poiché tutti i nomi sono parole, ma non tutte le parole sono nomi, è evidente, secondo me, la differenza fra parola e nome, ossia fra il segno di quel segno che ha significato specifico e il segno di quel segno che ha significato generico.Ag. - Ammetti che ogni cavallo è un animale e che non ogni animale è un cavallo?Ad. - Che dubbio?Ag. - Dunque fra nome e parola esiste la medesima differenza che fra cavallo e animale. Potresti fare una riserva sul fatto che noi adoperiamo con diverso significato verbum per designare appunto le parole che si flettono secondo i tempi, come scrivo scrissi, leggo lessi. E non sono nomi, è evidente.Ad. - Hai proprio messo a punto ciò che mi faceva dubitare.Ag. - La difficoltà non ti turbi. Si definiscono genericamente segni tutto ciò che significa un qualche cosa. Fra di essi si trovano anche le parole. Così si dicono segni le insegne militari e son considerati segni in senso specifico. Ma non appartengono a questa categoria le parole. E, per quanto ne capisco, non avresti più alcun dubbio se io ti dicessi che come ogni cavallo è un animale ma non ogni animale è un cavallo, così ogni parola è segno ma non ogni segno è parola.Ad. - Ora capisco e son convinto che fra la parola in generale e il nome v'è la medesima differenza che fra animale e cavallo.

Segni che significano se stessi.

4. 10. Ag. - Sai anche che nel termine " animale ", altro è il nome tetrasillabo pronunciato dalla voce ed altro è il significato?Ad. - L'ho già ammesso per tutti i segni e i significabili.Ag. - E, secondo te, tutti i segni significano altro da sé, allo stesso modo che il termine tetrasillabo " animale " non significa affatto se stesso?Ad. - No, certamente; infatti il termine " segno " non solo significa qualsiasi altro segno, ma anche se stesso. È una parola e tutte le parole sono segni.Ag. - E nel termine trisillabo " parola " non avviene lo stesso? Se infatti tutto ciò che, con un determinato significato, si pronuncia mediante la voce articolata è significato dal suddetto trisillabo, anche esso è incluso nella categoria.Ad. - Sì.Ag. - E per il nome non è il medesimo caso? Significa nomi di tutti i generi ed esso è in latino nome del

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genere neutro. E se io ti chiedo a quale parte del discorso appartiene, tu giustamente rispondi al nome.Ad. - Certamente.Ag. - Vi son dunque segni che fra gli altri significati significano anche se stessi.Ad. - Sì.Ag. - E, a tuo avviso, è di questo tipo il segno tetrasillabo che è il vocabolo " congiunzione "?Ad. - No assolutamente. I termini che esso significa non sono nomi ed esso è nome.

Segni reciproci.

5. 11. Ag. - Hai seguito veramente con attenzione. Ora esamina se si danno segni che si significano reciprocamente, cioè il primo col secondo e il secondo col primo. Ad esempio non si hanno reciprocamente il vocabolo tetrasillabo " congiunzione " e i vocaboli che da esso sono significati come " se, o, poiché, infatti, se non, quindi, perché " e simili. Esso da solo li significa, nessuno di essi significa quel solo quadrisillabo.Ad. - Capisco e desidero conoscere quali siano i segni che si significano reciprocamente.Ag. - Tu davvero non sai che nel dire nome e parola si dicono due parole?Ad. - Lo so.Ag. - E sai che nel dire nome e parola si dicono due nomi?Ad. - So anche questo.Ag. - Sai dunque che si significano reciprocamente tanto il nome con la parola come la parola col nome.Ad. - D'accordo.Ag. - Potresti dire, salvo la scrittura e il suono, in che cosa differiscono?Ad. - Forse; penso che sia appunto la differenza che ho detto dianzi. Col termine " parola " si significa tutto ciò che, con un determinato significato, si pronuncia mediante la voce articolata. Quindi ogni nome e lo stesso termine " nome " sono una parola, ma non ogni parola è un nome, quantunque sia nome il termine " parola ".

Significato reciproco di nome e parola.

5. 12. Ag. - E se qualcuno ti affermasse e dimostrasse che ogni parola è nome allo stesso modo che ogni nome è parola, potresti trovare altra differenza oltre il diverso suono delle lettere?Ad. - Non potrei e penso addirittura che non esista differenza.Ag. - E se tutto ciò che si pronuncia con un determinato significato mediante la voce articolata siano insieme parole e nomi, ma per un aspetto parole, per un altro nomi, allora non vi sarà alcuna differenza fra nome e parola?Ad. - Non capisco come sia possibile.Ag. - Ma capisci almeno che ogni oggetto colorato è visibile e che ogni oggetto visibile è anche colorato, quantunque sia diverso il significato delle due parole.Ad. - Lo capisco.Ag. - Quale difficoltà dunque, se ogni parola è nome e ogni nome è parola, sebbene questi due nomi o parole, cioè " nome " e " parola ", hanno differente significato ?Ad. - Veggo adesso che è possibile, ma attendo che mi esponga in che maniera si verifica.Ag. - Tu puoi renderti ragione, penso, che tutto ciò che con un determinato significato esce dalla bocca mediante voce articolata stimola l'udito perché sia percepito, trasmesso alla memoria e conosciuto.Ad. - Sì, me ne rendo ragione.Ag. - Si hanno dunque due determinati fenomeni quando si proferisce qualche cosa con voce articolata.Ad. - Sì.Ag: - È possibile allora che da uno dei due siano denominate le parole, dall'altro i nomi: le parole (verba) da stimolare (verberare) e i nomi danoscere. Così il primo si denomina in relazione all'udito, l'altro alla coscienza.

Ogni parola è nome in quanto significa.

5. 13. Ad. - Lo ammetterò quando dimostrerai com'è possibile considerare ragionevolmente nomi tutte le parole.Ag. - È facile. Tu hai appreso e rammenti, come penso, che il pronome è cosi detto perché sostituisce il nome ma esprime la cosa con significato meno pieno del nome. Infatti, suppongo l'autore, che hai recitato al maestro di grammatica, l'ha così definito: il pronome è una parte del discorso che, posta in luogo del nome, significa la medesima cosa sebbene meno pienamente.Ad. - Ricordo e son d'accordo.Ag. - Puoi osservare dunque che, secondo tale definizione, i pronomi sono esclusivamente in funzione dei nomi e si usano soltanto in luogo di essi. Ad esempio nei termini: " quest'uomo, lo stesso re, la medesima donna, quest'oro, quell'argento ", sono pronomi " questo, lo stesso, la medesima, questo e

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quello ", sono nomi " uomo, re, donna, oro, argento ". Con essi gli oggetti sono stati significati più pienamente che con i pronomi.Ad. - Veggo e sono d'accordo.Ag. - E adesso tu enunziami alcune congiunzioni a tuo piacere.Ad. - " E, anche, ma, altresì ".Ag. - E, secondo te, tutte queste che hai detto non sono nomi?Ad. - Ma niente affatto.Ag. - Per lo meno, secondo te, mi sono espresso logicamente nel dire: " Tutte queste che hai detto "?Ad. - Logicamente certo. E ora comincio a capire con quanta abilità mi hai mostrato che ho enunziato dei nomi. Altrimenti non si sarebbe potuto dire: " tutte queste ". Ma temo tuttora di dover ritenere che non hai parlato logicamente perché devo ammettere che le quattro congiunzioni sono anche parole. Anche delle congiunzioni si può logicamente dire: " tutte queste ", poiché logicamente si dice " tutte queste parole ". E se mi chiedi quale parte del discorso è " parole ", dovrò rispondere che è nome. Pertanto il pronome è stato forse aggiunto a questo nome in maniera che la tua espressione risultasse logica.

L'autorità di Paolo.

5. 14. Ag. - Ti sbagli, ma con discernimento. Ma per sfuggire all'errore segui con maggiore discernimento il mio discorso, seppure saprò formularlo come voglio. Trattare parole con parole è tanto complicato quanto intrecciare e contemporaneamente stropicciare le dita. Soltanto chi compie l'atto può forse discernere quali dita sentano il prurito e quali lo leniscano.Ad. - Son presente con tutta la mia capacità anche perché la similitudine mi stimola all'attenzione.Ag. - Certamente le parole risultano di suoni e lettere.Ad. - Sì.Ag. - Serviamoci dunque soprattutto di un'autorità che ci è molto cara. L'apostolo Paolo dice: Non v'era nel Cristo il sì e il no, ma il sì era in lui 8. Ora non si deve pensare, mi pare, che in Cristo vi siano le lettere che si pronunciano nel dire il sì, ma piuttosto quel che da queste lettere è significato.Ad. - Giusto.Ag. - Tu comprendi dunque che chi ha detto In lui era il sì, ha detto appunto che si chiama sì ciò che era in lui. Allo stesso modo se avesse detto " In lui era la virtù ", si doveva appunto intendere che si chiama virtù ciò che era in lui. Non dobbiamo cioè pensare che in lui fossero le due sillabe che si proferiscono nel dire virtù, anziché ciò che è significato dalle due sillabe.Ad. - Capisco pienamente.Ag. - E capisci anche che è indifferente dire " si chiama virtù " o " si denomina virtù ".Ad. - È chiaro.Ag. - Dunque è chiaro anche che è indifferente dire " si chiama il sì ", ovvero " si denomina il si ciò che era in lui ".Ad. - Anche qui non veggo differenza.Ag. - Afferri anche il concetto che intendo evidenziare?Ad. - Questo non ancora in verità.Ag. - Ma davvero non vedi che il nome è ciò che una determinata cosa si denomina?Ad. - Ma non conosco concetto più evidente di questo.Ag. - Allora vedi anche che il sì è nome perché ciò che era in lui si denomina il sì.Ad. - Non lo posso negare.Ag. - Ma se io ti chiedessi a quale parte del discorso appartiene il sì, mi risponderesti, suppongo, che non è nome ma avverbio, sebbene la dimostrazione ha concluso che è anche nome.Ad. - È proprio come tu dici.Ag. - E adesso dubiti ancora che, nel senso della dimostrazione, anche le altre parti del discorso sono nomi?Ad. - Non ne dubito perché devo ammettere che significano qualche cosa. Ma se mi chiedi come si chiamano, ossia si nominano, i concetti che esse significano, sono costretto a rispondere che sono le varie parti del discorso che non si chiamano nomi, ma che, come vedo, si è costretti per logica a considerar tali.

Parallelo con la lingua greca.

5. 15. Ag. - E non ti turba che si possa levare qualcuno a demolire la nostra dimostrazione obiettando che agli Apostoli si deve riconoscere l'autorità nella dottrina ma non nella grammatica? Certo che il fondamento della nostra dimostrazione non sarebbe cosi stabile come abbiamo supposto. Sarebbe appunto possibile che, quantunque l'Apostolo sia vissuto e abbia insegnato molto bene, meno bene abbia parlato nel dire: " In lui era il sì ", tanto più che egli stesso afferma di essere inabile nel parlare 9. Come pensi di ribattere un tale obiettore?Ad. - Non saprei come ribatterlo. Ti prego quindi di trovare qualcuno degli studiosi, cui si riconosce

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grande erudizione grammaticale. Con la sua autorità conseguirai più facilmente il tuo intento.Ag. - Dunque, secondo te, la ragione, è meno idonea senza il ricorso a testi autorevoli, a dimostrare che in tutte le parti del discorso si ha un significato e che da esso si designano e se si designano, anche si denominano e che, se si denominano, si denominano dal nome. Se ne ha un criterio nelle diverse lingue. Tutti possono osservare che se si chiede come i greci denominano ciò che noi denominiamo " chi ", vien

risposto ; come i greci denominano ciò che noi denominiamo " voglio ", vien risposto ; come i

greci denominano ciò che noi denominiamo " bene ", vien risposto ; come i greci denominano ciò

che noi denominiamo " scritto ", vien risposto ; come i greci denominano ciò che noi denominiamo " e ", vien risposto ; come i greci denominano ciò che noi denominiamo " da ", vien

risposto come i greci denominano ciò che noi denominiamo " oh! ", vien risposto . E in tutte le parti del discorso che ho elencate si esprime logicamente chi pone la domanda in quei termini. Ma non sarebbe possibile se non fossero nomi. E poiché possiamo, indipendentemente dai testi autorevoli di tutti gli eruditi, dimostrare con tale ragionamento che l'apostolo Paolo si è espresso rettamente, non c'è bisogno di un nome illustre su cui fondare la nostra opinione.

L'autorità di Cicerone e maestri di logica.

5. 16. Ci può essere qualcuno però più caparbio e ostinato che ancora non si piega e afferma che si piegherà soltanto agli scrittori, ai quali per universale riconoscimento si attribuisce autorità nelle regole grammaticali. Ma che cosa di più autorevole di Cicerone si ha nella lingua latina? Ora egli nelle altissime orazioni, dette verrine, designò come nome la preposizione " davanti ", che tuttavia in quel passo è usata come avverbio 10. Ma è possibile che io interpreti meno bene il testo e che esso sia spiegato diversamente da me e da altri. Se ne può dunque citare uno, al quale, penso, non è possibile obiettare nulla. Insegnano i più autorevoli maestri di logica che la proposizione perfetta, che può essere affermativa e negativa, risulta dal nome e dal verbo. Tullio in un passo la chiama enunziato 11. E quando si ha la terza persona del verbo, affermano che il caso del nome è il nominativo. E giustamente lo affermano. Ma se ne analizzi uno assieme a me, puoi osservare che, ad esempio, nelle espressioni " L'uomo siede, il cavallo corre ", si hanno due enunziati.Ad. - Sì.Ag. - E ti accorgi anche che in ciascuna c'è un nome, uomo nella prima, cavallo nella seconda, e un verbo, siede nella prima, corre nella seconda.Ad. - Sì.Ag. - Dunque se dicessi " siede " soltanto o " corre " soltanto, mi chiederesti chi o che cosa. Ed io dovrei rispondere " l'uomo, il cavallo ", l'animale o altro, in maniera che il nome congiunto al verbo renda esplicito l'enunziato, cioè la proposizione che può affermare o negare.Ad. - Capisco.Ag. - Seguimi ancora. Supponi che noi vediamo un qualche cosa di lontano e che rimaniamo incerti se sia un sasso o un animale o altro oggetto e che io ti dica: " Poiché è un uomo, è un animale ". Parlerei avventatamente?Ad. - Certo; ma non avventatamente se tu dicessi: "Se è un uomo, è un animale".Ag. - Giusto. Dunque nella tua frase piace ad entrambi il " se ", nella mia dispiace ad entrambi il " poiché ".Ad. - D'accordo.Ag. - Considera ora se le due proposizioni " se piace " e " poiché dispiace " siano enunziati perfetti.Ad. - Perfetti, certamente.Ag. - Ed ora dimmi quali in essi sono i verbi, quali i nomi.Ad. - Mi è evidente che i verbi sono " piace " e " dispiace " e i nomi " se " e " poiché ".Ag. - Quindi è sufficientemente provato che le due congiunzioni sono anche nomi.Ad. - Sì, sufficientemente.Ag. - E potresti applicare da solo alla medesima regola il principio nelle altre parti del discorso?Ad. - Sì.

Reciprocità di nome e vocabolo.

6. 17. Ag. - Andiamo avanti dunque. Abbiamo verificato fin qui che tutte le parole sono nomi e tutti i nomi sono parole. Dimmi ora se, a tuo avviso, allo stesso modo tutti i nomi sono vocaboli e tutti i vocaboli sono nomi.Ad. - Non riesco a trovarvi altra differenza che il diverso suono delle sillabe.Ag. - Per ora non faccio obiezioni, sebbene vi siano alcuni che notano anche una differenza di significato. Ma per il momento non è il caso di esaminare la loro teoria. Ti accorgi comunque che siamo giunti a quei segni che si significano reciprocamente, salvo la differenza di suono, e che significano se stessi assieme a tutte le altre parti del discorso.

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Ad. - Non capisco.Ag. - Dunque non capisci che il nome è significato dal vocabolo e il vocabolo dal nome in maniera tale che, salvo il suono delle lettere, non si ha alcuna differenza in riferimento al nome inteso in senso generico. Al contrario s'intende per nome in senso specifico quello che fra le otto parti del discorso è tale che non contiene le altre sette.Ad. - Adesso capisco.Ag. - Ma è quanto ho detto, che cioè vocabolo e nome hanno significato reciproco.

Segni identici, salvo il suono.

6. 18. Ad. - Comprendo, ma chiedo che cosa hai inteso dicendo che significano se stessi e le altre parti del discorso.Ag. - Ma la precedente dimostrazione non ci ha fatto comprendere che tutte le parti del discorso possono esser dette nomi e vocaboli, cioè possono essere significate dal nome e dal vocabolo?Ad. - Sì.Ag. - E se io ti chiedessi come chiami il nome, cioè questo suono bisillabo, non dovresti rispondere giustamente che lo chiami nome?Ad. - Giusto.Ag. - Ma il segno che si pronuncia in quattro sillabe col dire " congiunzione " forse egualmente significa se stesso? Questo nome infatti non può esser posto fra i significati di cui è segno.Ad. - D'accordo.Ag. - Proprio quanto è stato detto, che il nome è segno di se stesso e degli oggetti di cui è segno. Ti è possibile estendere da solo il concetto anche al vocabolo.Ad. - Ormai è facile. Ma ora mi viene in mente che il nome è inteso in senso specifico e generico. Al contrario il vocabolo non è inserito fra le otto parti del discorso. Ritengo perciò che, oltre al suono, differiscono alquanto anche in questo.

Ag. - Ma, a tuo avviso, nome e differiscono anche in altro, oltre il suono, per cui del resto si differenziano la lingua latina e greca?Ad. - Nel caso non vedo altra differenza.Ag. - Siamo arrivati dunque a quei segni che sono segni di se stessi e reciprocamente l'uno dell'altro e che significano la medesima cosa e differiscono soltanto nel suono diverso. Questo quarto principio l'abbiamo accertato ora. I tre precedenti si applicano al nome e alla parola.Ad. - Ci siamo proprio arrivati.

Adeodato riassume su linguaggio e segni....

7. 19. Ag. - Compendia, per piacere, i risultati dell'indagine.Ad. - Lo farò nei miei limiti. Ricordo che prima di tutto abbiamo esaminato per un po' le ragioni per cui si parla. È stato accertato che si parla per insegnare o per far rievocare poiché anche nel dialogo s'intende soltanto che chi è richiesto apprenda la risposta che intendiamo udire. Quando si canta, ciò che sembra si faccia per diletto non è di competenza del linguaggio. Nel pregare Dio, di cui è impossibile pensare che apprenda o rievochi, le parole hanno la funzione di esortare noi stessi ovvero di esortare o anche insegnare agli altri. In seguito fu sufficientemente accertato che le parole sono segni e che è impossibile sia segno ciò che non significa qualche cosa. Hai allora proposto un verso perché io mi adoperassi a manifestare il significato delle singole parole. Era il seguente:Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui 12.Non riuscivamo a definire il significato della seconda parola, sebbene assai comune e comprensibile. A me sembrava che non invano si usasse nel linguaggio, ma perché s'intende insegnare a chi ascolta. Tu hai precisato che con la parola si indica una disposizione della coscienza quando scopre o pensa di avere scoperto che la cosa che cerca non esiste. Ma poi, eludendo con una battuta di spirito non saprei quale profondità del problema, ne hai differito l'esame ad altro tempo. E non pensare che abbia dimenticato la tua promessa. Passai quindi ad esaminare la terza parola del verso. Mi hai stimolato ad indagare non un'altra parola di medesimo significato, ma piuttosto l'oggetto significato dalla parola. Ho risposto che ci era impossibile mentre discutevamo. Si venne allora a quegli oggetti che si indicano col dito a chi ne chiede. Io pensavo che fossero tutti gli oggetti sensibili, ma abbiamo scoperto che sono soltanto gli oggetti visibili. A questo punto, non so come, facemmo una digressione sui sordi e sui mimi, i quali significano con la mimica, senza voce, non soltanto le cose visibili ma molte altre e pressoché tutte quelle esprimibili a parole. Abbiamo scoperto tuttavia che anche i gesti sono segni. Allora abbiamo iniziato ad esaminare in che modo possiamo mostrare senza segni le cose stesse che sono significate da segni perché è ineluttabile che quella parete, il colore e ogni oggetto visibile, per il fatto spesso che sono indicati con l'indice teso, non possono esser mostrati che con un segno. A questo punto caddi in errore perché affermavo che è impossibile si dia un tale oggetto. Finalmente dal nostro dialogo emerse che è possibile indicare senza segni quegli atti che non stiamo compiendo nel momento che ne siamo richiesti

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ma che possiamo compiere subito dopo e che il linguaggio comunque non appartiene a questa categoria. Si è reso evidente appunto che se si richiede, mentre si parla, che cos'è il linguaggio, è facile mostrarlo in se stesso.

...e sui segni reciproci.

7. 20. Ne abbiamo derivato che o con segni s'indicano segni, o con segni oggetti che non sono segni, o anche che senza alcun segno s'indicano atti che si possono compiere dopo esserne richiesti. Decidemmo allora di esaminare a fondo più attentamente la prima categoria. Dall'analisi è emersa la seguente partizione: segni che non possono esser significati reciprocamente da quei segni di cui sono segno, come il termine quadrisillabo " congiunzione "; segni che lo possono, come col termine " segno " si significa " parola " e col termine " parola " " segno " poiché segno e parola sono due segni e due parole. Abbiamo anche accertato che in questa categoria della reciproca significanza alcuni non hanno la medesima estensione, altri si, altri infine sono identici. Infatti il termine espresso nel disillabo " segno " significa assolutamente tutti i termini con cui si significa qualche cosa. Al contrario non è segno di tutti i segni il termine " parola ", ma soltanto di quelli che sono espressi dalla voce articolata. È chiaro quindi che, quantunque siano significati la parola con segno e il segno con parola, cioè questo trisillabo con quel bisillabo e viceversa, tuttavia ha maggiore estensione il segno che la parola poiché vengono significate più cose con quel bisillabo che con questo trisillabo. Al contrario hanno medesima estensione la parola in senso generico e il nome in senso generico. Il ragionamento ci ha appunto dimostrato che tutte le parti del discorso sono nomi poiché ad essi si possono associare i pronomi, inoltre di tutte le parti del discorso si può dire che denominino un determinato concetto ed infine ognuna, nel congiungimento col verbo, può costituire un enunciato completo. Ma sebbene nome e parola abbiano la medesima estensione, poiché tutti i segni che son parole sono anche nomi, non hanno tuttavia la medesima comprensione. Con risultato assai probabile è stato messo in luce che diversa è la ragione per cui si denominano parole (verba) e nomi. Si è appunto chiarito che il primo termine si deve riferire all'impressione (verberatio) uditiva e il secondo alla rappresentazione della coscienza. Si può dunque intendere che nel nostro linguaggio giustamente si chiede, nell'intento di affidare alla memoria, qual è il nome di una cosa, ma non

si dice nel linguaggio usuale qual è la parola di una cosa. Infine abbiamo accertato che nome e sono segni che non solo hanno la medesima estensione, ma anche il medesimo significato e che differiscono soltanto per il suono delle lettere. Mi era sfuggito che nella categoria dei segni che significano reciprocamente non ne abbiamo trovato alcuni che, fra le altre cose di cui è segno, non sia segno anche di se stesso. Questo è quanto ho potuto ricordare. Tu che, secondo me, in questo discorso non hai detto nulla se non con fondamento scientifico, potrai dire se ho esposto i concetti con metodica esattezza.

Segni conoscenza e insegnamento (8, 21 - 10, 35)

Il metodo usato nel dialogo.

8. 21. Ag. - Abbastanza bene hai richiamato con la memoria tutti i concetti che volevo e, per dirla francamente, ora essi mi sembrano analizzati con maggiore evidenza di quando, mediante la ricerca e la discussione, li tiravamo fuori da non saprei quale luogo riposto. Ma è difficile a dirsi a questo punto dove io intenda giungere assieme a te attraverso tante vie tortuose. Tu forse supponi che stiamo eseguendo esercizi scolastici e che intendiamo con l'analisi di alcune nozioni elementari allontanare lo spirito da occupazioni serie o che stiamo trattando un problema di scarso o mediocre interesse; ovvero se prevedi che la discussione debba ottenere un risultato considerevole, desideri di conoscerlo ormai o almeno di udirlo da me. Al contrario devi ritenere, vorrei, che con questo discorso non ho inteso eseguire un esercizio scolastico, sebbene forse lo stiamo facendo, ma non nel senso che esso vada dimensionato dal modo d'intendere dei fanciulli. Credi che non sto pensando a concetti di scarso o mediocre interesse. Direi invece che si tratta della vita felice e immortale, alla quale, con la guida di Dio, cioè della stessa verità, desidero che siamo condotti in un'ascensione proporzionata al nostro debole passo. Ma temo di sembrar ridicolo perché ho imboccato una lunga via nell'esame dei segni e non delle cose che ne sono significate. Mi scuserai se eseguo esercizi preliminari non per dilettarmi nell'esercizio, ma per temprare le forze e la penetrazione della mente con cui possiamo non solo tollerare, ma anche amare il calore e la luce della patria ideale in cui è felicità.Ad. - Continua come hai cominciato. Non penserei mai di disprezzare le cose che hai pensato di dire o fare.

Rilevanza dei significati ... .

8. 22. Ag. - Ed ora esaminiamo il settore dei segni che non son segni di altri segni, ma di oggetti che si denominano significabili. E dimmi prima di tutto se uomo è uomo?

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Ad. - Ora davvero non so se stai facendo un giuoco.Ag. - Perché?Ad. - Perché ritieni di dovermi chiedere se uomo sia altro da uomo.Ag. - Allora tu supporrai, penso, che io voglia prendermi giuoco di te, qualora ti chiedessi inoltre se la prima sillaba di questo nome non sia che " uo " e la seconda " mo ".Ad. - Ma certo.Ag. - Ma le due sillabe unite sono " uomo " o no?Ad. - E chi lo negherebbe?Ag. - Ti chiedo dunque se tu sei queste due sillabe congiunte.Ad. - No certamente, ma scorgo il tuo intento.Ag. - E dillo dunque. Non pensare che ti voglio oltraggiare.Ad. - Per te è valida la conclusione che non sono uomo.Ag. - E per te non è valida? Hai già emesso come vere le premesse da cui la conclusione si deduce.Ad. - Non ti dirò ciò che per me è valido prima di aver udito se, nel propormi la domanda se l'uomo è uomo, mi interrogavi su codeste due sillabe o sul concetto di cui sono segno.Ag. - Rispondi tu piuttosto in qual senso hai inteso la mia domanda. Se è a doppio senso, avresti dovuto avvedertene e non rispondermi prima di averne compreso il senso.Ad - Perché dovrebbe costituirmi difficoltà questo doppio senso se ho risposto per l'uno e per l'altro? L'uomo è innegabilmente l'uomo. Il bisillabo non è altro che le due sillabe. Il concetto che significano non è altro che quel concetto.Ag. - Buona risposta. Ma perché hai preso nell'uno e nell'altro senso soltanto il termine " uomo " e non anche gli altri di cui abbiamo parlato?Ad. - Per quale criterio dovrei persuadermi di non avere inteso così anche gli altri termini?Ag. - Per tralasciare il resto, se tu avessi inteso la mia prima domanda soltanto dall'angolazione del suono delle sillabe, non mi avresti dovuto rispondere. Avresti anche potuto pensare che non ti avessi chiesto nulla. Ho pronunciato tre parole, e ho ripetuto quella di mezzo, chiedendo se uomo è uomo. Di esse tu hai inteso la prima e l'ultima non come segni ma come significati. Ne è la prova il fatto che hai creduto di poter rispondere subito con tranquilla sicurezza alla mia domanda.Ad. - È vero.Ag. - Perché dunque hai ritenuto di dover intendere secondo suono e significato soltanto quella di mezzo?Ad. - Ma ora intendo l'intera frase dall'angolazione del significato. Son d'accordo con te che è impossibile il discorso se, nell'udire le parole, l'intelligenza non si porta ai concetti, di cui esse sono segni. Ora dunque mostrami come sono stato tratto in errore dal ragionamento con cui si conclude che non sono uomo.Ag. - Piuttosto ti ripropongo la domanda perché da solo avverta l'errore in cui sei caduto.Ad. - Va bene.

... per i quali si danno i segni ... .

8. 23. Ag. - Non ti chiederò quello che ti avevo chiesto prima. Lo hai già concesso. Osserva dunque attentamente se la sillaba " uo " sia altro che " uo " e " mo " altro che " mo ".Ad. - Non ci osservo altro veramente.Ag. - Puoi osservare anche che dal congiungimento di queste due sillabe si ha " uomo ".Ad. - Non lo accorderei. Abbiamo già accertato, e giustamente, che, dato un segno, si pone mente al suo significato e dalla sua analisi si formula un enunciato affermativo o negativo. In quanto alle due sillabe pronunziate separatamente, per il fatto stesso che nell'atto che si pronunciano sono senza significato, è già stato ammesso che sono soltanto suono.Ag. - Opini dunque e ritieni per certo che si deve rispondere alle domande soltanto in riferimento ai concetti significati dalle parole?Ad. - Non vedo perché sarebbe improbabile; basta che siano parole.Ag. - Vorrei vedere come risponderesti ad un tale, di cui si racconta per facezia. Costui volle dimostrare che un leone era uscito dalla bocca del suo interlocutore. Chiese dunque se le cose di cui si parla ci escono dalla bocca. L'altro non poté negarlo. Ed egli fece in maniera che nel discorrere nominasse leone. E gli fu facile. Appena ciò avvenne, cominciò scherzosamente a motteggiarlo e a pressarlo come se l'altro, in fondo un buon uomo, per avere ammesso che le cose di cui si parla escono dalla bocca e non potendo negare di aver pronunciato leone, avesse fatto uscire dalla propria bocca una bestia tanto feroce.Ad. - Non era affatto difficile ribattere questo buffone. Io non gli accorderei che dalla bocca escono le cose di cui si parla. Per parlare delle cose, noi le esprimiamo con segni e dalla bocca di chi parla non esce la cosa che è significata, ma il segno con cui è significata, salvo quando si significano i segni stessi. Ne abbiamo già parlato dianzi.

...e ai quali essi ci rimandano.

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8. 24. Ag. - Così avresti risposto bene a quel tale. Ma che risponderai alla mia domanda se uomo è nome?Ad. - Che è nome appunto.Ag. - E quando ti vedo, vedo un nome?Ad. - No.Ag. - Vuoi dunque che dica io la conseguenza?Ad. - No, per favore. Tu hai chiesto se uomo è nome. Ed io rispondendoti che uomo è nome, dichiaro da me stesso di non essere uomo. Avevamo già stabilito che si ha enunciato affermativo o negativo in riferimento alla cosa significata.Ag. - Ma a me sembra che non invano ti sei imbattuto in tale risposta poiché la norma logica, propria della nostra intelligenza, ha eluso la tua vigilanza. Se io ti chiedessi che cos'è l'uomo, tu forse risponderesti che è un essere animato; e se ti chiedessi che parte del discorso è uomo, non potresti logicamente rispondere altro che nome. Si riscontra dunque che uomo è nome ed essere animato. Il primo si considera dall'aspetto per cui è segno, il secondo da parte dell'oggetto significato. A chi dunque chiede se uomo è nome dovrei rispondere che lo è certamente perché dimostra sufficientemente di volere una risposta dall'aspetto per cui è segno. Se poi chiede se è essere animato, risponderò affermativamente con maggiore sicurezza. Infatti se, non parlando di nome o essere animato, chiedesse soltanto che cos'è uomo, il pensiero, per quella già verificata legge del discorso, si porterebbe sull'oggetto significato dalle due sillabe. Si risponderebbe soltanto che è un essere animato, oppure si esprimerebbe tutta la definizione, cioè essere animato, ragionevole, mortale. Non ti pare?Ad. - Sì, certamente. Ma se è stato ammesso che è nome, come si potrà evitare la conclusione troppo offensiva con cui ci si vuol convincere che non si è uomini?Ag. - Come? Ma ribattendo che la conclusione non è tratta nel senso della nostra risposta all'interlocutore. Ed essa non è da temersi anche se quegli insiste che la trae in quel senso. In definitiva perché temere d'ammettere che io non sono uomo, cioè queste due sillabe?Ad. - Verissimo. Ma perché allora, se date quelle premesse la conclusione è valida, offende il sentimento questa frase: " Dunque non sei uomo "?Ag. - Perché non posso non pensare che la conclusione si riferisca all'oggetto significato da queste due sillabe, nell'atto che quelle parole si pronunciano, in base a quella legge, naturalmente valida, che, uditi i segni, l'atto del pensiero si porta sui significati.Ad. - Accetto la tua tesi.

Vale di piú il significato che il segno....

9. 25. Ag. - Pertanto dovresti intendere, ti prego, che gli oggetti significati devono essere valutati più dei segni. Tutto ciò che è mezzo, è necessariamente inferiore al fine cui è destinato. Non la pensi diversamente?Ad. - Ritengo che in proposito non si deve concludere senza sufficiente esame. Penso che il termine coenum (sozzura), in quanto nome, è assai più nobile della cosa che significa. Il fatto che nell'udirlo ci nausea non deriva dalla parola anche perché coenum, in quanto nome, mutata una sola lettera, diventa coelum (cielo). Ma noi sappiamo la distanza che esiste fra gli oggetti significati da questi nomi. Pertanto non attribuirei in alcun modo al segno ciò che si detesta nell'oggetto significato e quindi giustamente lo valuto di più dell'oggetto stesso. Difatti volentieri lo percepiamo con l'udito, ma non con qualsiasi altro senso.Ag. - Detto con molta perspicacia. Dunque è falso che tutte le cose si devono valutare più dei loro segni.Ad. - Sembra.Ag. - Dimmi dunque che intenzione ebbero, secondo. te, coloro che hanno imposto un nome a una cosa tanto disgustosa e spregevole. Li approvi o disapprovi?Ad. - Non oserei né approvarli né disapprovarli e non so che intenzione ebbero.Ag. - Puoi dire almeno che intenzione hai tu quando pronunci questo nome?Ad. - Questo sì certamente. Intendo usare quei segni per insegnare o far ricordare al mio interlocutore il concetto che, secondo me, è necessario impari o ricordi.Ag. - Dunque l'insegnare o far ricordare, l'imparare o ricordare ciò che con questo nome tu strumentalmente offri o ti viene offerto, non deve ritenersi più pregevole del nome stesso?Ad. - Ammetto che la conoscenza in sé, ottenuta con tale segno, si deve preferire al segno, ma non per questo lo ammetto anche della cosa.

... l'uso del segno che il segno ... .

9. 26. Ag. - Pertanto nella nostra tesi, sebbene sia falso che tutte le cose sono da valutarsi superiori ai propri segni, non è falso che il mezzo è meno pregevole dell'oggetto cui è destinato. La conoscenza della sozzura appunto, alla quale questo nome è destinato, è da considerarsi più pregevole del nome stesso che, a sua volta, come abbiamo stabilito, è più pregevole della stessa sozzura. E la conoscenza è stata

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considerata superiore al segno in parola soltanto perché è evidente che l'uno è per l'altra e non viceversa. A titolo d'esempio, un ghiottone e adoratore del ventre, come è detto dall'Apostolo 13, affermava che egli viveva per mangiare. Ma un individuo parco, che lo udì, replicò: " Quanto sarebbe meglio che tu mangiassi per vivere ". Tuttavia entrambi si espressero secondo la regola suddetta. Difatti il ghiottone fu rimproverato soltanto perché considerava tanto poco la vita da subordinarla al piacere della gola col dire che viveva per il cibo. E l'uomo sobrio giustamente fu lodato soltanto perché, comprendendo quale delle due cose si fa per l'altra, cioè qual è subordinata all'altra, avverti che bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare. Egualmente un chiacchierone amante delle parole potrebbe dire: " Insegno per parlare ". Ma tu forse e qualsiasi individuo capace di valutare le cose gli rispondereste: " Buon uomo, perché piuttosto non parli per insegnare? ". Queste idee sono vere, come ben comprendi. Puoi capire dunque quanto siano da considerare meno pregevoli le parole del fine per cui le usiamo poiché anche l'uso è da considerarsi più pregevole delle parole. Ci son le parole per usarle e le usiamo per insegnare. Quanto dunque è più pregevole l'insegnare che il parlare, tanto è più pregevole il parlare che le parole. Dunque il contenuto dell'insegnamento è più pregevole delle parole. Ma vorrei sapere se hai da ribattere.

... la conoscenza della cosa che quella del segno.

9. 27. Ad. - Ammetto che il contenuto dell'insegnamento è più pregevole delle parole, ma non so se non esista una obiezione contro la legge cosi enunziata: " Ogni cosa ordinata ad un'altra è di minor pregio della cosa cui è ordinata ".Ag. - Ne tratteremo altrove più opportunamente e diligentemente. Per il momento la tua ammissione è sufficiente a quanto intendo dimostrare. Concedi che la conoscenza d'un oggetto è più pregevole dei segni dell'oggetto. Pertanto la conoscenza degli oggetti significati è più pregevole della conoscenza dei segni. Non ti pare?Ad. - Ma davvero ho concesso che la conoscenza degli oggetti è più pregevole della conoscenza dei segni o non piuttosto degli stessi segni? Sono esitante ad accordarmi con te su questo punto. Se il termine " sozzura " è più pregevole dell'oggetto significato, la conoscenza di questo termine è da preferirsi alla conoscenza di quell'oggetto, sebbene il nome stesso sia meno pregevole della relativa conoscenza. Quattro sono i termini in effetti: il nome e la cosa, la conoscenza del nome e la conoscenza della cosa. Come dunque il primo al secondo, perché il terzo non sarebbe preferibile al quarto? Ma dato che non lo sia, si dovrebbe anche subordinarlo?

Importanza della conoscenza della cosa.

9. 28. Ag. - Noto che veramente bene hai tenuto presente la tua ammissione e hai chiarito il tuo pensiero. Ma, come suppongo, tu comprendi che il termine " vizio ", risultante di sillabe nella sua espressione orale, è più pregevole del concetto che significa, mentre la conoscenza della parola è meno pregevole della conoscenza dei vizi. E anche ammesso che tu possa proporre alla considerazione i quattro termini " nome e oggetto, conoscenza del nome e conoscenza dell'oggetto ", giustamente noi anteponiamo nella considerazione il primo al secondo. Questa stessa parola, posta in una poesia di Persio che scrive: Ma costui è istupidito dal vizio 14, non solo non ha reso vizioso il verso, ma gli ha anche conferito una certa eleganza. Eppure l'oggetto significato dalla parola condiziona ad esser vizioso il soggetto in cui si ha. Ma ci è evidente che non cosi eccelle il terzo sul quarto, ma piuttosto il quarto sul terzo. La conoscenza di questa parola è appunto meno pregevole della conoscenza dei vizi.Ad. - Ed anche se tale conoscenza rende più infelici, la ritieni superiore? Il medesimo Persio, fra tutte le pene che la crudeltà dei tiranni ha inventato e la loro cupidigia applica, considera superiore quella, per cui vengono tormentati gli individui, i quali sono costretti a riconoscere vizi che non possono evitare.Ag. - Con questo discorso vieni ad affermare che anche la conoscenza delle virtù è meno pregevole della conoscenza della parola relativa poiché è tormento conoscere e non praticare la virtù. Il medesimo poeta satirico ha augurato che ne fossero puniti i tiranni 15.Ad. - Dio ci scampi da tale assurdità. Comprendo ormai che non si deve dare colpa alle conoscenze in sé, con cui la più nobile disciplina ci arricchisce la coscienza, ma che si devono considerare come i più infelici coloro, i quali sono cosi soggetti alla malattia, che non li guarisce neanche una medicina così efficace. Ritengo che Persio la pensasse così.Ag. - Comprendi bene. Ma qualunque fosse il pensiero di Persio, che ce ne importa? In materia non siamo soggetti all'autorità dei poeti. D'altronde non è facile distinguere se una conoscenza è da preferirsi a un'altra. Mi basta il risultato conseguito, che la conoscenza dei concetti significati, anche se non è più pregevole della conoscenza dei segni, lo è certamente dei segni stessi. Esaminiamo dunque a fondo la categoria degli oggetti che senza segni possono essere indicati in sé, come parlare, camminare, sedere, giacere e simili.Ad. - Sto già richiamando quanto dirai.

Non s'insegna senza segni ....

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10. 29. Ag. - Secondo te, si possono indicare senza segno tutte le azioni che è possibile eseguire immediatamente dopo la richiesta o fai qualche eccezione?Ad. - Io in verità, dopo aver considerato più volte la categoria nel suo complesso, non trovo ancora altro che si possa indicare senza segno se non il parlare e l'atto dell'insegnare, se per caso qualcuno possa richiedere anche questo. Mi accorgo che, data la sua richiesta, qualunque azione compirò per farlo apprendere, non posso interrompere quella che mi chiede gli sia indicata. Se qualcuno infatti, come è stato già detto, mi chiede che cos'è camminare mentre sto fermo o faccio altro ed io tento, cominciando a camminare immediatamente, di insegnargli senza segno quanto mi ha chiesto, non potrò evitare la sua impressione che camminare è solo quel tanto che camminerò. Se lo penserà, s'ingannerà. Egli riterrà appunto che non è camminare quello di un individuo che avrà camminato più o meno a lungo di me. E quel che dico di questa sola parola si estende a tutte quelle che avevo ammesso potersi indicare senza segno, salvo le due che abbiamo incluso nell'eccezione.

... e parole.

10. 30. Ag. - D'accordo su questo tema. Ma non ritieni che altro è parlare ed altro insegnare?Ad. - Certamente. Se fossero il medesimo concetto, non s'insegnerebbe se non parlando. Al contrario s'insegnano molte cose con altri segni oltre che con le parole, quindi non si può dubitare della differenza.Ag. - E insegnare e significare non differiscono affatto o differiscono per qualche aspetto?Ad. - Secondo me non differiscono.Ag. - Non si dice logicamente che si usano segni per insegnare?Ad. - Certamente.Ag. - E si potrà confutare sulla base del principio suddetto chi dicesse che si insegna per usar segni?Ad. - Sì.Ag. - Se dunque si usano segni per insegnare e non si insegna per usar segni, altro è insegnare ed altro significare.Ad. - Giusto; ed io non ho risposto rettamente dicendo che si identificano.Ag. - Ed ora rispondi se chi insegna che cos'è insegnare può farlo usando segni o in altro modo.Ad. - Non vedo com'è possibile in altro modo.Ag. - Dunque poco fa hai commesso un errore. Hai detto che quando si chiede cos'è l'insegnare stesso, se ne può insegnare il concetto senza segni. Al contrario stiamo notando che neanche questo si può ottenere senza l'uso di segni poiché hai concesso che altro è significare e altro insegnare. Se sono diversi, come è evidente, e se l'insegnare s'indica soltanto con l'uso di segni, è evidente che non s'indica di per sé, come a te è sembrato. Dunque si è trovato che si può indicare di per sé soltanto il linguaggio che è segno di se stesso oltre che di altri concetti. Ma siccome anche esso è segno, non v'è concetto che, come sembra, si può insegnare senza segni.Ad. - Nulla in contrario.

Sospensione e aporeticità.

10. 31. Ag. - Si è raggiunta dunque la conclusione che non s'insegna senza segni e che è più pregevole la conoscenza che i segni con cui conosciamo, sebbene non tutte le cose conosciute con segni siano più pregevoli dei rispettivi segni.Ad. - D'accordo.Ag. - Rammenti, scusa, con quanto girovagare si è ottenuto finalmente un risultato cosi trascurabile? Dacché stiamo bersagliando con parole, ed è un bel po' che lo facciamo, ci siamo affaticati ad esaminare questi tre quesiti: se non è possibile insegnare senza segni, se vi sono segni più pregevoli degli oggetti di cui sono segni, se più pregevole dei segni è la conoscenza degli oggetti. Ma v'è un quarto quesito che vorrei sia da te chiarito, e cioè se, secondo te, i principi esposti sono stati cosi dimostrati che ormai non ti è più possibile dubitarne.Ad - Vorrei certamente che attraverso tanti giri tortuosi si fosse giunti a risultati apodittici. Ma proprio codesta tua domanda mi inquieta e mi distoglie dall'apodissi. Non mi avresti posto questa domanda, mi pare, se tu stesso non avessi qualche dubbio in contrario. La difficoltà stessa dell'argomento non mi consente di vedere nell'insieme e di rispondere sicuro per timore che fra tante pieghe si celi qualche cosa che la penetrazione della mia mente non può raggiungere.Ag. - Accolgo con piacere la tua esitazione perché è indice di una coscienza non sconsiderata. È la più grande difesa della tranquillità. È infatti assai difficile non turbarsi quando, a causa di dimostrazioni in contrario, crollano e quasi ci vengono sottratte di mano le opinioni che accettavamo con spontanea e irriflessa convinzione. Pertanto come è giusto cedere a ragionamenti attentamente vagliati, cosi è rischioso ritenere per apodittica una conoscenza che non è tale. C'è da temere appunto che se spesso son demolite conoscenze che pregiudizialmente si ritenevano stabili e durature, si potrebbe incorrere in tanto odio e timore della dialettica da sembrarci che non si deve ritenere per apodissi neanche la verità più evidente.

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Infiniti significati senza segni.

10. 32. Ma ora torniamo ad esaminare più speditamente se con ragione hai ritenuto di dover dubitare di tali concetti. Ti pongo una domanda. Supponi che un tale, profano delle insidie per uccelli, preparate con canne e vischio, s'incontra con un uccellatore che, pur avendo i propri attrezzi, non li usa per l'uccellagione, ma è ancora in cammino. A tal vista, quegli accelera il passo e fra sé come avviene, pensa con meraviglia e si chiede a che serve l'attrezzatura dell'individuo. L'uccellatore, accorgendosi che l'altro lo osserva, tanto per esibirsi, allestisce le canne, poi col fusto della canna e col falcone immobilizza un uccellino che passa di là, lo accalappia e lo prende. Non ha egli insegnato a colui che l'osservava senza far segni ma con l'azione stessa?Ad. - Temo che sia il medesimo caso di colui che, come ho detto, chiede che cosa sia camminare. Anche qui non vedo che sia stata mostrata tutta l'operazione della cattura.Ag. - È facile liberarti da tale preoccupazione. Aggiungo appunto la clausola che l'osservatore sia tanto intelligente da capire da quanto ha visto tutto il significato dell'operazione. È sufficiente infatti all'assunto che sia possibile senza segno insegnare alcune cose, non tutte, e ad alcuni individui.Ad. - Anche io posso aggiungere la clausola: se fosse tanto intelligente, indicato il camminare con pochi passi, comprenderà che cos'è il camminare in sé.Ag. - Fallo pure. Non solo non mi oppongo, anzi ti favorisco. Il fatto sta che come puoi notare, da ciascuno di noi due si sta dimostrando che certi oggetti ad alcuni possono essere insegnati senza segni e che è falso quanto ritenevamo poco fa, cioè che non v'è oggetto il quale si possa indicare senza segni. E ormai di simili oggetti ne vengono in mente non l'uno o l'altro, ma migliaia che sono indicati per sé senza alcun segno. Ma, scusa, perché ne dubitiamo? Per omettere i molti spettacoli di attori che in tutti i teatri mostrano senza segni con le azioni stesse, Dio e la natura a chi osserva non mostrano direttamente di per sé questo sole e la luce che avvolge, fasciandole, tutte le cose, la luna e gli altri astri, le terre e i mari e gli esseri che in essi si producono?

Inutilità del segno ... .

10. 33. Ma a considerare più attentamente, forse non troverai oggetto che sia appreso mediante propri segni. Quando mi si mostra un segno, se io non so di quale oggetto è segno, è assurdo che m'insegni qualche cosa. Se poi lo so, cosa apprendo dal segno? La parola non mi mostra la cosa che significa, quando leggo: E le loro sarabare non sono state bruciate 16. Se con tale nome sono chiamati determinati copricapo, nell'udirlo, ho forse appreso che cos'è capo e che cosa lo copre? Li conoscevo già e non ne ho avuto conoscenza perché li ho intesi nominare da altri, ma perché li ho visti. Infatti quando per la prima volta le due sillabe del termine " capo " hanno colpito il mio udito, non ne ho conosciuto il significato ed egualmente quando per la prima volta ho udito o letto le sarabare. Ma " capo " è una parola molto usata. Ed io, avvertendola con intenzione, ho saputo che è il vocabolo di una cosa che mi era assai nota per averla vista. Prima di accorgermene, la parola per me era soltanto un suono; ho imparato che è anche un segno quando ho trovato di quale oggetto è segno. Ma, come ho detto, avevo appreso la cosa non mediante l'uso dei segni, bensì con la vista. Dunque si apprende il segno con la cosa conosciuta piuttosto che la cosa col segno.

... se non si conosce la cosa.

10. 34. Per comprendere meglio l'argomento, supponi che ora, per la prima volta, noi udiamo il termine " capo ". Non sapendo se la voce sia soltanto un suono o abbia anche un significato, domandiamo che cos'è capo. Ricorda che non desideriamo conoscere la cosa significata, ma il segno e che non lo conosciamo perché non sappiamo di che cosa è segno. Se dunque alla nostra domanda ci si mostra col dito la cosa stessa, appena la vediamo, apprendiamo il segno che avevamo soltanto udito e non ancora conosciuto. E poiché in questo segno ci si offrono due aspetti, il suono e il significato, noi non abbiamo colto il suono mediante il segno ma mediante lo stimolo uditivo, il significato mediante la percezione della cosa significata. L'indicare col dito appunto non può significare altro oggetto che quello, cui il dito si tende; ed esso è teso non al segno, ma verso quella parte del corpo che si chiama capo. Da quel gesto dunque non posso conoscere la cosa perché la conoscevo, né il segno a cui non era teso il dito. Ma non voglio preoccuparmi troppo della indicazione col dito perché mi sembra un segno della stessa indicazione anziché di cose che ne possono essere indicate. È lo stesso caso del termine avverbiale " ecco ". Anche nel pronunciare questo avverbio, di solito si tende il dito nel timore che non sia abbastanza un solo segno d'indicazione. Ed ora mi accingo a convincerti, se riuscirò, soprattutto che non si apprende mediante i segni, che sono detti parole. Piuttosto, come ho detto, si apprende la funzione della parola, cioè l'atto del significato nascosto dal suono, con la conoscenza dell'oggetto significato anziché l'oggetto con l'atto del significare.

Parola e insegnamento.

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10. 35. E ciò che ho detto del capo, lo direi dei copricapo e di altre innumerevoli cose. Queste le conosco ma non so ancora cosa sono le sarabare. Ma se qualcuno me le indicasse col gesto o le dipingesse o mostrasse un oggetto, a cui si rassomigliano, non direi proprio che non me le ha insegnate, sebbene potrei provarlo facilmente se volessi dilungarmi, ma dico qualche cosa di molto simile, e cioè che non me le ha insegnate con le parole. E se scorgendole alla mia presenza, mi avvertirà: " Ecco le sarabare ", conoscerò l'oggetto che non conoscevo non per la mediazione delle parole dette, ma per percezione immediata dell'oggetto. Da essa è derivato inoltre che ho conosciuto e appreso anche il significato del nome. Infatti nell'apprendere l'oggetto, non mi son fidato delle parole altrui ma dei miei occhi. Delle parole però mi son fidato per osservare, cioè per cercare con lo sguardo l'oggetto da vedere.

Insegnamento umano e Maestro divino (11, 36 - 14, 46)

Funzione della parola nell'insegnamento.

11. 36. Entro questi limiti hanno avuto valore le parole. Tanto per valutarle al massimo, ci stimolano alla ricerca dell'oggetto, non ce lo rappresentano alla conoscenza. Mi insegna soltanto chi mi rappresenta o alla vista o all'udito o anche alla mente gli oggetti che voglio conoscere. Dunque mediante le parole si apprendono soltanto le parole, anzi il suono frastornante delle parole. Se infatti non è possibile che ciò che non è segno sia parola, non so se è parola, sebbene sia stata già pronunciata, finché non ne conosco il significato. Con la conoscenza degli oggetti, si effettua anche la conoscenza delle parole. Al contrario con l'udire le parole non si apprendono neanche le parole. Difatti non si apprendono le parole che si conoscono e si può affermare di avere appreso quelle che non si conoscono soltanto dopo averne avuto il significato. Ed esso risulta non dalla percezione delle parole pronunziate, ma dalla conoscenza degli oggetti significati. È ragionamento e discorso innegabile che, quando si pronunciano le parole, o se ne conosce o non se ne conosce il significato; se si conosce, non si apprende, piuttosto si rievoca; se poi non si conosce, neppure si rievoca, ma forse si è invitati alla ricerca.

Limiti della parola nell'insegnamento.

11. 37. Potrai obiettare che non si possono conoscere quei copricapo, di cui si percepisce soltanto il nome come suono, se non dopo averli visti e che non si conosce perfettamente il nome stesso se non dopo averli conosciuti, ma che soltanto mediante le parole si è appreso l'episodio dei tre fanciulli, e cioè come hanno superato con fede sincera il rogo fatto preparare dal re, quali lodi hanno cantato a Dio, quale elogio hanno meritato perfino dal nemico. Rispondo che noi conosciamo già ogni oggetto significato da quelle parole. Già conoscevo che cosa sono tre fanciulli, fornace, fuoco, re, infine illesi dal fuoco e tutto il resto che quelle parole significano. Al contrario Anania, Azaria e Misael mi sono ignoti come le sarabare e a conoscerli non mi hanno giovato affatto tutti questi nomi e non potranno ormai più aiutarmi. E confesso di avere fede e non scienza che tutte le notizie contenute in quella storia sono avvenute in quel tempo così come sono state narrate. La differenza la conobbero anche coloro ai quali crediamo. Dice il Profeta: Se non crederete, non conseguirete con l'intelletto 17. Non l'avrebbe detto certamente se non avesse ritenuto che non differiscono. Dunque ciò che conseguo con l'intelletto, lo credo anche, ma non tutto ciò che credo lo conseguo con l'intelletto. E di tutto ciò che conseguo con l'intelletto ho scienza, ma non ho scienza di tutto ciò che credo. Ma non per questo non ho scienza dell'utilità di credere molte cose di cui non ho scienza. A tale utilità assegno anche la vicenda dei tre fanciulli. Dunque giacché di molte cose non posso avere scienza, ho scienza della grande utilità di crederle.

Nell'interiorità parla il Maestro divino.

11. 38. Sul mondo intelligibile poi non ci poniamo in colloquio con l'individuo che parla all'esterno, ma con la verità che nell'interiorità regge la mente stessa, stimolati al colloquio forse dalle parole. E insegna colui con cui si dialoga, Cristo, di cui è stato detto che abita nell'uomo interiore, cioè l'eternamente immutabile potere e sapienza di Dio 18. Si pone in colloquio con lei ogni anima ragionevole, ma essa si rivela a ciascuno nei limiti con cui può averne conoscenza secondo la buona o cattiva volontà. E il fatto che può sfuggire non avviene per difetto della verità con cui ci si rapporta, come non è difetto della luce sensibile che la vista spesso s'inganna. Ma noi dobbiamo,ammettere che ci si rapporta alla luce per le cose visibili perché ce le mostri secondo il limite della nostra facoltà.

Senso, parola, insegnamento.

12. 39. Dunque per i colori ci volgiamo alla luce e per gli altri sensibili che si percepiscono col corpo ci volgiamo alle proprietà delle cose, anche esse corpo, e ai sensi stessi, di cui l'intelligenza si serve come

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strumenti per conoscere i sensibili. Per gli intelligibili al contrario ci volgiamo mediante il pensiero alla verità interiore. Quale prova dunque si può addurre ancora per evidenziare che con le parole si conosce qualche cosa al di là del suono stesso che colpisce l'udito? Infatti tutti gli oggetti che ci rappresentiamo o ce li rappresentiamo con il senso o con l'intelligenza. Quelli sono sensibili, questi intelligibili o, per parlare nel gergo dei nostri scrittori, quelli carnali, questi spirituali. Quando ci si interroga sui primi, si può rispondere se l'oggetto è presente fisicamente, ad esempio se, mentre si sta guardando la luna nuova, ci si chiede quale o dove sia. In questo caso, chi richiede, se non vede, crede alla parola, ma spesso non ci crede, comunque non apprende se egli stesso non vede l'oggetto di cui si parla. Ma allora non apprende dalle parole ma dagli oggetti stessi e dai sensi. Le parole, mentre vede, hanno il medesimo suono che ebbero quando non vedeva. Quando poi si pone il problema non dei sensibili percepiti immediatamente, ma di quelli già percepiti, il nostro discorso non riguarda le cose in sé, ma i loro fantasmi conservati nella memoria. Allora non saprei proprio come quelle cose si possano considerar vere, poiché ce ne rappresentiamo le copie, salvo che si preferisca dire di non vederle e percepirle attualmente, ma di averle viste e percepite. Cosi noi portiamo nei repertori della memoria come mezzi d'insegnamento i fantasmi dei sensibili già percepiti. Quando li facciamo oggetto di pensiero, siamo consapevoli di non errare nel parlarne, ma essi sono mezzi di ammaestramento soltanto per noi. Chi ascolta, se li ha percepiti immediatamente, non apprende dalle mie parole, ma riconosce poiché anche egli si è rappresentato i fantasmi. Se poi non li ha percepiti da sé, chiunque capisce che, anziché apprendere, crede alle parole.

Pensiero, parole, insegnamento.

12. 40. Quando poi si tratta degli oggetti che conosciamo con l'intelligenza, cioè con atto di puro pensiero, si esprimono concetti di cui si ha intuizione nella luce interiore della verità. Da essa viene illuminato con godimento l'uomo che è considerato interiore. Ma anche in tal caso un nostro uditore, se li contempla con il puro occhio interiore, sa quel che dico dal proprio pensiero, non dalle mie parole. Dunque pur esprimendo dei veri, non insegno neanche a lui, che ha intuizione dei veri, perché è ammaestrato non dalle mie parole ma dall'oggetto stesso che Dio gli manifesta all'interiorità. Ne potrebbe dunque parlare anche in un dialogo. Pertanto sarebbe assurdo pensare che è ammaestrato dal mio discorso se, prima che io parli, potrebbe esporli dialogando. Spesso avviene che un tale neghi in un dialogo qualche cosa e poi sia spinto ad affermarla in un altro dialogo. Il fatto si verifica a causa della debolezza di chi guarda poiché è incapace a riflettere la luce intelligibile sulla totalità dell'oggetto. Allora è esortato a farlo per parti, quando dialoga sulle parti, da cui risulta l'intero che egli non era capace di scorgere nel tutto. Se vi è condotto dalle parole dell'altro dialogante, esse non insegnano ma discernono se egli è idoneo ad apprendere allo stesso modo dell'interlocutore. Ad esempio, io ti potrei chiedere sull'argomento in esame, se cioè si può insegnare con le parole. A te dapprima sembrerebbe assurdo perché non sei capace di scorgere l'intero. Sarebbe quindi opportuno, secondo che le tue forze sono disposte ad ascoltare il maestro interiore, chiederti: " Da chi hai appreso le cose che, sulla base delle mie parole, ritieni vere, di cui sei certo e che affermi di conoscere? ". Tu risponderesti forse che te le ho insegnate io. Ed io replicherei: " E se ti dicessi che ho visto volare un uomo, le mie parole ti renderebbero cosi certo come se tu udissi che i saggi sono più perfetti degli insipienti? ". Diresti di no certamente e risponderesti che la prima affermazione non la credi o che, se proprio dovessi credere, non ne hai scienza, ma che della seconda hai scienza innegabile. Capiresti allora che dalle mie parole non hai appreso nulla, tanto riguardo alla prima, di cui non avresti scienza nonostante la mia affermazione, come riguardo alla seconda, di cui avresti la scienza più perfetta. Anche se tu fossi interrogato separatamente sull'uno e sull'altro, affermeresti decisamente che il primo enunziato ti è ignoto, il secondo noto. Dovresti ammettere allora l'assunto che precedentemente avevi negato, poiché conosceresti che son chiari e certi i principi su cui si fonda, e cioè che l'uditore o ignora che sono veri gli argomenti dei nostri discorsi, o non ignora che son falsi, o sa che son veri. Nel primo dei tre casi si danno o il credere o l'opinare o il dubitare, nel secondo il negare decisamente, nel terzo l'affermare, in nessuno dei tre casi l'apprendere. È ovvio infatti che dalle mie parole non ha appreso nulla tanto chi dopo il nostro discorso non ha acquisito scienza dell'oggetto, come chi sa di avere ascoltato il falso e chi, interrogato, sarebbe capace di fare il medesimo discorso fatto da noi.

Non si apprende dalle parole.

13. 41. Pertanto anche per quanto riguarda gli oggetti che si intuiscono con la mente, inutilmente ascolta il discorso di chi intuisce chi non è capace d'intuirli, fatta riserva che è utile ammetterli per fede finché non se ne ha scienza. Ma chi può intuirli è interiormente discepolo della verità, esternamente è giudice di chi parla o meglio delle parole perché egli stesso ha scienza degli oggetti di cui si parla, sebbene li ignori chi ne parla. Ad esempio un tale della setta degli Epicurei, che ritiene l'anima mortale, espone gli argomenti che sull'immortalità sono stati proposti dai più eccellenti pensatori alla presenza di chi è capace di comprendere l'essenza degli esseri spirituali. Questi giudica che l'altro dice il vero, ma quegli

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che parla non solo ignora di esporre pensieri veri, anzi li giudica assolutamente falsi. Si deve dunque pensare che insegna ciò che ignora? Eppure usa le medesime parole che se ne avesse scienza.

Difficoltà del linguaggio.

13. 42. Dunque alle parole non rimane neanche la funzione di farci per lo meno conoscere il modo di pensare di chi parla perché rimane problematico se ritiene innegabili le nozioni che esprime. Aggiungi coloro che mentono o fingono. Dal loro esempio si può facilmente comprendere che con le parole non solo non si svela il pensiero, ma si può anche occultarlo. Non metto in discussione che le parole degli individui veritieri tendono e in certo senso s'impegnano a svelare il pensiero di chi parla e, se non si permettesse di parlare a chi mente, per universale consenso, otterrebbero l'intento sebbene si esperimenta in noi e negli altri che si possono pronunciare parole senza riferimento a ciò che si pensa. Avviene in due modi, secondo me. Prima di tutto un discorso imparato a memoria e ripetuto più volte, si pronuncia pensando ad altro. Avviene spesso quando si canta un inno. In secondo luogo, senza nostra volontà esce una parola per un'altra per un errore della lingua. Anche in questo caso con l'udito non si percepiscono i segni dei concetti che si hanno nel pensiero. Anche coloro che mentiscono pensano certamente alle cose che dicono al punto che, sebbene non si sappia se dicono il vero, si sa tuttavia che hanno nel pensiero ciò che dicono, salvo che non si verifichi anche per loro uno dei due casi accennati. Se poi qualcuno sostiene che tali fenomeni si verificano raramente e, quando se ne verifica qualcuno, si manifesta, non faccio obiezioni. Comunque spesso non è manifesto e a me spesso, udendo gli altri, è sfuggito.

Subiettività del linguaggio.

13. 43. Ma ad essi si aggiunge un altro caso, molto comune e sorgente di innumerevoli aspri dissensi. È il caso di chi parla ed esprime il proprio pensiero, ma soltanto per sé e per qualche altro; per l'interlocutore e alcuni altri intende un'altra cosa. Supponiamo che un tale alla nostra presenza dica che l'uomo è inferiore per valore ad alcune bestie. Noi immediatamente diamo segni di insofferenza e con grande energia attacchiamo un'opinione cosi falsa e pericolosa. Quegli invece forse considera valore le forze fisiche ed esprime con questa parola il proprio pensiero, non mentisce, non erra nei concetti, non formula un discorso affidato alla memoria pensando ad altro e non proferisce, per errore di lingua, parole in disaccordo col proprio pensiero; soltanto definisce l'oggetto del suo pensiero con una parola che noi non useremmo. Glielo accorderemmo subito se potessimo scorgere il suo pensiero, sebbene, manifestandoci la propria teoria con quella parola, non è riuscito ancora a chiarircela. Affermano che a questo errore possono rimediare le definizioni. Nell'argomento in parola, se si definisse che cos'è la virtù, apparirebbe, dicono, che la controversia non riguarda il concetto ma la parola. E sia pure, voglio ammetterlo. Ma quanti uomini capaci di definire si trovano? Per di più sono state fatte molte obiezioni contro l'arte del definire. Ma non è opportuno trattarle qui ed io non le approvo del tutto.

Disattenzione di chi ascolta.

13. 44. Ometto che molte cose non le udiamo bene e ne discutiamo a lungo e molto come se le avessimo udite. Ad esempio, poco fa, riguardo ad una parola punica, mentre io dicevo che significa misericordia, tu sostenevi di avere udito dai migliori intenditori di questa lingua che significa pietà. Ed io, contrastandoti, affermavo che ti era sfuggito quanto avevi udito. Mi sembrava che non avevi detto pietà ma fede. Eppure eri seduto molto vicino a me e le due parole non possono assolutamente ingannare l'udito per somiglianza di suono. Eppure a lungo ho sospettato che non eri cosciente di ciò che ti era stato detto. Ero io invece ad essere incosciente di ciò che avevi detto. Se ti avessi bene udito, certamente non mi sarebbe sembrato assurdo che misericordia e pietà in punico sono designate da un solo nome. Cose che spesso succedono. Ma, come ho detto, lasciamo perdere. Non deve sembrare che svalorizzo le parole per la disattenzione di chi ascolta o anche per la sordità degli individui. Preoccupano di più i casi che ho esposto precedentemente perché in essi non si riesce ad affermare i pensieri di chi parla, sebbene le parole siano state percepite chiaramente e dette in latino. Eppur siamo della stessa lingua.

Il discepolo non apprende ascoltando il maestro ....

13. 45. Ma alla fin fine voglio concedere senza riserve che quando le parole sono state afferrate dall'udito di chi le capisce, possa esser noto a lui che chi parla aveva nel pensiero i concetti da esse significate. Ma forse viene a sapere anche, e questo è ora il problema, se ha detto il vero?

14. 45. E i maestri dichiarano forse che siano ritenuti per l'apprendimento i loro pensieri anziché le stesse discipline che pensano di trasmettere con la parola? E chi è cosi scioccamente amante del sapere da mandare a scuola il proprio figlio perché apprenda ciò che pensa il maestro? Piuttosto, quando hanno

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esposto con parole tutte le discipline che dichiarano d'insegnare, comprese quelle della morale e della filosofia, allora i così detti discepoli considerano nella loro interiorità se le nozioni sono vere, sforzandosi, cioè, d'intuire la verità ideale. Soltanto allora apprendono e quando scopriranno nell'interiorità che le nozioni sono vere, lodano, senza pensare che non lodano i docenti ma i dotti se, tuttavia, anche costoro sanno quel che dicono. S'ingannano dunque gli uomini nel chiamare maestri quelli che non lo sono perché il più delle volte fra il momento del discorso e quello della conoscenza non v'è discontinuità; e poiché dopo l'esposizione dell'insegnante immediatamente apprendono nell'interiorità, suppongono di avere appreso da colui che ha esposto dall'esterno.

... ma riportandosi nell'interiorità.

14. 46. Ma un'altra volta, se Dio lo concede, esamineremo l'utilità della parola in generale. A ben considerarla, non è trascurabile. Ho già premesso di non concederle al momento più del necessario. Non dobbiamo infatti soltanto aver fede, ma cominciare anche ad avere intelligenza della verità di ciò che per divino magistero è stato scritto, che cioè non dobbiamo considerare nessuno come nostro maestro sulla terra poiché l'unico maestro di tutti è in cielo 19. Che cosa significhi poi in cielo ce lo insegnerà quegli, dal quale, per mezzo degli uomini con segni dall'esterno, siamo avvertiti a farci ammaestrare rientrando verso di lui nell'interiorità. Amarlo e conoscerlo è felicità. Tutti gridano di cercarla, pochi si allietano di averla veramente trovata. Ed ora vorrei che tu mi dica che ne pensi di tutto questo mio discorso. Se conosci che è vera la tesi esposta, interrogato sull'una o l'altra, avresti dovuto averne scienza. Puoi comprendere dunque da chi le hai apprese. Non da me certamente perché avresti risposto ad ogni mia domanda. Se poi non sai che la tesi è vera, non ti ho insegnato né io né lui: io perché non sono mai capace d'insegnare, lui perché tu non sei ancora capace d'apprendere.Ad. - Io invece ho appreso dall'avvertimento contenuto nelle tue parole che l'uomo mediante le parole è soltanto avvertito ad apprendere e che è molto poco un certo manifestarsi, mediante il discorso, del pensiero di chi parla. Ho appreso inoltre che insegna se si può esprimere il vero quegli soltanto che, mentre parlava dal di fuori, ci ha avvertito che abita nell'interiorità. Con la sua grazia tanto più lo amerò quanto più progredirò nell'apprendere. Tuttavia ti ringrazio della tua esposizione non dialogata, soprattutto perché ha dissolto completamente tutte le obiezioni che ero pronto ad opporti. Non hai proprio lasciato nessuna delle difficoltà che mi rendevano dubbioso e su cui non mi rispondesse la parola interiore, come era affermato dalle tue parole.

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo agostiniano:

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3. Da: H. Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Bompiani

“Ebbene, per quanto riguarda la pedagogia vera e propria, l’illusione nata dall’entusiasmo per il nuovo ha avuto le conseguenze più gravi solo in questo secolo. Innanzi tutto ha permesso, a quell’insieme di moderne teorie pedagogiche nato nella Mitteleuropa e consistente in un incredibile guazzabuglio di idee sensate e di assurdità, di portare a termine, sotto il pretesto dell’educazione progressista, una rivoluzione più che radicale di tutto il sistema scolastico” (p. 233).

“Comunque, la risposta alla domanda ‘come mai Johnny non sa leggere?’ o a quella più generica, ‘come mai i requisiti scolastici validi nella media della scuola americana sono tanto inferiori a quelli corrispondenti di tutti i paesi europei?’ non è, purtroppo, che questo paese è ancora troppo giovane per aver raggiunto i livelli del Vecchio Mondo; al contrario, in questo particolare settore, il nostro è il più ‘avanzato’ e moderno paese del mondo. Il che è vero due volte: primo, perché in nessun altro paese i problemi dell’istruzione di una società di massa si sono fatti altrettanto acuti, e, secondo, perché in nessun altro luogo le più moderne teorie pedagogiche sono state accolte in maniera altrettanto acritica e servile. Quindi, se da un lato la crisi della scuola americana proclama il fallimento delle teorie progressiste, dall’altro costituisce un problema particolarmente arduo perché sorto nella situazione specifica della società di massa e per reazione alle esigenze di questa” (pp. 234-235).

“A questo proposito occorre rammentare un altro fattore più generale, che se non è stato certo la causa della crisi, ha contribuito ad aggravarla in misura notevole: si tratta dell’importanza unica che il concetto di uguaglianza riveste da sempre nella vita americana. Sotto tale concetto si intende ben più della semplice uguaglianza di fronte alla legge, più anche dell’annullamento delle distinzioni di classe, e perfino molto più di quanto sia sottinteso dalla frase ‘uguaglianza di opportunità’, sebbene l’ultima condizione sia nel contesto presente di maggior importanza in quanto la mentalità americana annovera il diritto all’istruzione tra quelli inalienabili del cittadino. Inoltre è stato un ideale decisivo per la struttura del sistema scolastico, che infatti comprende solo in casi eccezionali la scuola secondaria di tipo europeo: con un obbligo scolastico fino ai sedici anni, tutti i ragazzi devono accedere alla scuola superiore che, pertanto, diventa quasi un’appendice di quella elementare. L’assenza di una vera e propria scuola secondaria obbliga l’università a preparare gli studenti per i propri stessi corsi; di conseguenza i programmi dei colleges soffrono di un cronico sovraffollamento, con l’ovvio risultato di un influsso negativo sulla qualità dell’insegnamento universitario” (p. 235).

“Quindi, se negli Stati Uniti la crisi dell’educazione assume gravità e caratteri così peculiari, il motivo deve ricercarsi nell’indole politica del paese, che tende di per sé a ridurre o a cancellare per quanto possibile tutte le differenze tra giovani e vecchi, più dotati e meno dotati, fino a quelle tra bambini e adulti, in specie tra scolari e maestri. Ed è ovvio che tale parificazione non possa in effetti realizzarsi se non a spese dell’autorità del maestro, o ai danni degli studenti più dotati: ma non è meno evidente, almeno a chiunque abbia avuto qualche contatto con il sistema scolastico americano, che questa difficoltà (che nasce dal carattere politico del paese), presenti anche grandi vantaggi, per considerazioni non solo di umanità, ma anche pedagogiche. In ogni caso, però, i fattori generali non possono spiegare la presente crisi, né giustificare quei provvedimenti che hanno contribuito ad aggravarla” (p. 236).

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“Da questi rovinosi provvedimenti possiamo risalire, semplificando, a tre assunti basilari, tutti fin troppo conosciuti. Il primo è che esistano un mondo di bambini e una società di bambini, autonomi e da lasciare per quanto possibile all’autogoverno dei bambini stessi: gli adulti non avrebbero che da cooperare a tale governo. L’autorità, che dice cosa fare e che cosa non fare a ciascun singolo ragazzo, è inerente al gruppo stesso: ne, consegue, fra l’altro, che l’adulto si trova disarmato di fronte al bambino e impotente a raggiungerlo. Può solo dirgli di fare come vuole e poi cercare di evitare il peggio. Sono così spezzati tutti gli autentici rapporti normali tra giovani e adulti, quei rapporti derivanti dalla presenza simultanea, nel mondo, di persone di ogni età. Altra caratteristica intrinseca di questo primo assunto è il tenere conto solo del gruppo e non del singolo ragazzo” (p. 237).

“Quanto al bambino stesso che fa parte del gruppo, la sua situazione è naturalmente anche peggiore di quanto non fosse l’altra, che si è voluto abolire. Infatti, l’autorità di un gruppo, sia pure d’un gruppo infantile, è sempre molto più forte e tirannica di quanto non possa essere anche la più rigida autorità di una sola persona. Se ci mettiamo nei panni del bambino singolo, vedremo che per lui le occasioni di ribellarsi, o far qualcosa di testa propria, sono in pratica zero. Egli non si trova più a contendere, in conflitto impari, con una persona di certo superiore a lui in assoluto, ma contro la quale può contare sulla solidarietà degli altri bambini, ossia dei suoi pari; si trova invece nella posizione, quanto mai disperata, di una minoranza formata da un solo membro, contrapposta alla maggioranza assoluta di cui fanno parte tutti gli altri. Pochissimi adulti possono reggere una situazione simile, anche se non appesantita da mezzi coercitivi esterni: un bambino ne sarebbe semplicemente incapace” (p. 237).

“Quindi, emancipandosi dall’autorità degli adulti il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza. In ogni caso i bambini sono stati banditi dal mondo degli adulti. Potranno ripiegare su se stessi oppure trovarsi consegnati alla tirannia del loro gruppo, contro il quale non possono ribellarsi perché la sua forza numerica è preponderante, con il quale non possono ragionare perché sono bambini, e che non possono abbandonare in favore di un altro mondo perché il mondo degli adulti è loro precluso. A questa pressione i ragazzi tendono a reagire o con il conformismo o con la delinquenza giovanile, e spesso con un miscuglio dell’uno e dell’altra” (p. 238).

“Il secondo assunto di base messo in crisi dalla presente situazione concerne l’insegnamento. Influenzata dalla psicologia moderna e dai dogmi del pragmatismo, la pedagogia si è trasformata in una scienza dell’insegnamento in genere, fino a rendersi del tutto indipendente dalla materia che di fatto s’insegna. Secondo questo concetto un insegnante è una persona capace di insegnare non importa che cosa; una persona abilitata, dal proprio tirocinio, all’insegnamento: non alla padronanza di qualche specifica materia. Come vedremo, si tratta di un modo di pensare strettamente correlato con un assunto di fondo che concerne l’apprendimento, e che, negli ultimi anni, ha provocato gravissime trascuratezze nel tirocinio specifico di ciascun insegnante nella propria materia, specie per gli insegnanti delle scuole pubbliche di secondo grado” (p. 238).

“Ora, la pedagogia e il corpo insegnante possono avere la funzione perniciosa che abbiamo descritta solo in virtù di una certa teoria dell’apprendimento, derivata per logica applicazione dal terzo assunto di fondo. Si tratta di un concetto che il mondo moderno sostiene da secoli, e che nel pragmatismo ha elevato a sistema: secondo tale

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assunto, dunque, si può conoscere e capire soltanto ciò che si è fatto da sé. Applicato all’istruzione, ciò significa, in termini primitivi quanto ovvi, che l’imparare viene per quanto possibile sostituito dal fare” (p. 239).

“L’intenzione consapevole non è d’insegnare una conoscenza bensì d’inculcare una tecnica: come risultato, gli istituti per l’istruzione diventano una sorta di istituzioni professionali, altrettanto capaci di insegnare a guidare un’automobile e a servirsi di una macchina da scrivere (oppure – cosa ancor più importante per l’ ‘arte’ di vivere – ad andar d’accordo con gli altri e riuscire simpatici), quanto si rivelano incapaci di dare agli allievi i normali requisiti preliminari di un programma medio” (p. 239).

“Questa descrizione non è del tutto corretta, e non solo perché, com’è ovvio, esagera per stabilire un punto polemico, ma perché omette di considerare quanto si ritenesse importante, in questo processo, annullare per quanto possibile la distinzione tra gioco e lavoro a favore del primo. Nel gioco si vedeva la maniera più vivace e più opportuna in cui il bambino potesse comportarsi, l’unica attività che nasca spontaneamente dall’esistenza infantile; mentre solo quanto si può imparare giocando renderebbe giustizia alla vivacità del bambino. Attività tipica dell’infanzia è il gioco, si diceva: l’imparare alla vecchia maniera, che costringeva il bambino alla passività, gli imponeva di rinunciare alla propria attività ludica” (pp. 239-240).

“Tutto ciò che vive (non solo la vita vegetativa) sgorga da un’oscurità; e per quanto forte sia il suo naturale impulso a gettarsi nella luce, esige, per crescere, la sicurezza dell’oscurità. Forse proprio per questo i figli di genitori illustri sono così spesso degeneri. La fama oltrepassa le mura domestiche, invade lo spazio privato della famiglia e, soprattutto oggi, porta con sé quel bagliore spietato della vita pubblica che invade in ogni parte la vita privata degli interessati, togliendo ai figli lo spazio nel quale crescere al sicuro. Ebbene, quando si cerchi di fare una specie di ‘mondo’ formato dai bambini stessi si verifica una eguale rovina dell’effettivo spazio vitale. Tra questi gruppi paritetici nasce infatti una sorta di vita pubblica; e sebbene non si tratti di una realtà, bensì di un tentativo fraudolento, rimane un fatto pernicioso: si costringono dei bambini (cioè degli uomini in divenire, non ancora compiuti) a esporsi alla luce di una esistenza pubblica” (pp. 243-244).

“Sembra dunque palese che la moderna pedagogia, in quanto vuol stabilire un mondo infantile, distrugga le condizioni necessarie all’evoluzione e alla crescita della vita. Ma risulta ben strano che tanto danno sia recato al fanciullo proprio dalla pedagogia moderna, la quale si prefiggeva come unico scopo il bene dei bambini, mentre si opponeva ai metodi usati in passato proprio perché questi non tenevano in sufficiente considerazione l’intima natura e i bisogni del fanciullo stesso. Il ‘secolo dell’infanzia’, dovremmo ricordare, avrebbe emancipato il bambino, liberandolo dall’imposizione di criteri derivati dal mondo adulto. Come dunque poterono essere trascurate o addirittura misconosciute le condizioni di vita più elementari indispensabili alla crescita e all’evoluzione del fanciullo?” (p. 244).

“L’origine di tale curiosa situazione non ha alcun nesso immediato con l’educazione, ma è piuttosto da ricercare nei giudizi e pregiudizi – circa la natura della vita privata e del mondo pubblico, e circa le correlazioni tra i due – vigenti nella nostra società fin dall’inizio dell’età moderna; giudizi e pregiudizi che gli educatori, quando 8relativamente tardi) cominciarono ad applicare i principi moderni alla pedagogia, accettarono come postulati di tutta evidenza ignorandone gli immancabili effetti sulla

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vita del fanciullo. E’ tipica della società moderna, infatti (e non, assolutamente, cosa d’ordinaria amministrazione), l’idea che la vita, quella fisica del singolo non meno della vita familiare, sia il bene supremo. Proprio per ciò, e in contrasto con tutti i secoli passati, questa vita, e tutte le attività necessarie a conservarla e arricchirla, furono sottratte al nascondimento e all’intimità, ed esposte alla luce del mondo ‘pubblico’. Sta qui il senso autentico dell’emancipazione dei lavoratori e delle donne, certo non emancipati in quanto ‘persone’ ma nella misura in cui svolgono una funzione necessaria alla vita della società” (pp. 244-245).

“Il processo di emancipazione toccò per ultimi i bambini. Quello stesso fatto che per i lavoratori e le donne era stato un’autentica liberazione (in quanto costoro, oltre ad essere lavoratori e donne, erano ‘persone’, titolari dunque del diritto a uno spazio pubblico, implicante il diritto a vedere ed essere visti, a parlare e ad essere ascolati in quello specifico ambito), costituì un abbandono e un tradimento dei bambini, i quali si trovano ancora nella fase in cui la semplice realtà della vita e della crescita supera per importanza il fattore della personalità. La società più completamente moderna ha abolito ogni distinzione tra il privato e il pubblico, ciò che può crescere rigoglioso solo se nascosto e ciò che richiede di mostrarsi a tutti nella luce piena dello spazio pubblico; cioè, quanto più insinua tra il privato e il pubblico un ambito sociale in cui il privato diventa pubblico e viceversa, tanto più complica la situazione dei bambini, i quali hanno bisogno della sicurezza del nascondimento per poter maturare indisturbati” (p. 245).

“Nella luce intatta di questa tradizione, in cui l’educazione aveva una funzione politica (ed era un caso unico) non poteva non essere molto più facile avere un comportamento educativo giusto senza neppure sostare a domandarsi che cosa si facesse: tanto completa era la concordanza fra l’ethos specifico del principio educativo e il senso etico e morale vigente nell’insieme della società. (…) Ma oggi non siamo più in quella situazione ed è poco ragionevole comportarsi come se ci fossimo ancora; come se, avendo appena deviato per caso dal retto cammino, fossimo liberi di riprenderlo in ogni momento” (p. 252).

“(…) qualunque sia il punto messo in crisi dal mondo moderno, noi non possiamo limitarci a proseguire così né a fare marcia indietro. Un rovesciamento di direzione potrebbe soltanto riportarci nella situazione che ha generato appunto la crisi. Il ritorno non sarebbe che una replica: anche se forse in forma diversa, ppoichénon vi sono limiti alla quantità di teorie insensate e capricciose che possono essere gabellate per l’ultima parola della scienza. D’altronde, un semplice perseverare, senza riflettere, sia addentrandosi nella crisi sia attenendosi alla routine e limitandosi a credere che la crisi non arriverà a inghiottire quel certo ambito dell’esistenza, può solo portare alla rovina, in quanto costituisce una resa al corso dei tempi: per essere più esatti, può solo approfondire quell’estraniamento dal mondo che già ci minaccia da ogni lato. Un esame dei principi educativi deve tener conto di questo processo di alienazione; può anche ammettere che ci troviamo davanti a un processo naturale, ma non deve dimenticare che il pensiero e l’azione dell’uomo possono interrompere e fermare tali processi” (pp. 252-253).

“Nel mondo moderno educare è un problema perché, proprio per la sua stessa natura, l’educazione non può scavalcare né autorità né tradizione, mentre oggi deve esplicarsi in un mondo le cui strutture non sono formate dall’autorità e in cui la tradizione non costituisce più il fattore coesivo. Questo dunque significa che non solo gli insegnanti e gli educatori, ma tutti noi, in quanto viviamo nello stesso mondo

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insieme ai nostri figli e ai più giovani, dobbiamo avere nei loro riguardi un atteggiamento del tutto diverso da quello che assumiamo tra noi adulti. L’ambito dell’educazione dev’essere nettamente distinto dagli altri (soprattutto dal settore della vita pubblica e politica), perché soltanto a quello si possa applicare un concetto di autorità e tenere una posizione verso il passato che, mentre si addicono a quell’ambito, non hanno validità generale nel mondo degli adulti e non devono rivendicarla” (p. 253).

“Come prima conseguenza pratica, si renderebbe chiaro che la scuola ha la funzione d’insegnare ai giovani com’è fatto il mondo, non di iniziarli all’arte di vivere. Ricordiamoci che il mondo è sempre più vecchio di loro: è inevitabile che l’apprendimento si volga al passato, per quanto l’esistenza scorra nel presente. In secondo luogo, tracciare una linea di demarcazione tra bambini e adulti dovrebbe significare che come non si possono educare gli adulti, così non si possono trattare da adulti i bambini; ma non si dovrebbe mai lasciare che la linea diventi un muro, che si arrivi a estromettere i bambini dalla comunità degli adulti, quasi non vivessero, gli uni e gli altri, nello stesso mondo, e quasi l’infanzia fosse una condizione autonoma dell’uomo, retta da leggi proprie. Nessuna regola generale basta a stabilire, nei singoli casi, dove si debba porre la linea di demarcazione tra infanzia ed età adulta: il punto esatto cambia nei diversi paesi, nelle diverse civiltà, e anche nei diversi individui. Ma in quanto l’educazione si distingue dall’imparare, se ne deve prevedere la fine. Nella nostra civiltà la fine tende a coincidere con una laurea piuttosto che con la licenza di scuola media superiore: infatti il tirocinio professionale nelle università o nelle scuole tecniche, pur avendo qualcosa in comune con l’educazione, di per sé è in fondo uno studio specialistico, che non si propone di introdurre il giovane nel mondo preso come un insieme, bensì in un settore particolare e limitato. Non si può educare senza insegnare: l’educazione senza istruzione è vuota, e tende a degenerare molto facilmente in una retorica di tipo etico-sentimentale. E’ invece molto facile insegnare senza educare, e si può continuare a imparare fino alla fine dei propri giorni senza per questo diventar colti” (pp. 253-254).

“Ciò che (…) interessa tutti noi e non va quindi delegato alla scienza specialistica, è il rapporto fra adulti e bambini in genere. Si tratta 8in termini più generali e più correnti) della nostra posizione nei confronti della nascita degli uomini: del fatto fondamentale che tutti siamo stati ‘messi al mondo’ e che le nuove nascite rinnovano di continuo il mondo stesso. L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti” (pp. 254-255).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo di H. Arendt:

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4. Da: H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Milano, Mondadori

“[…] Ci sono due specie di molteplicità: quella degli oggetti materiali, che forma un numero immediatamente, e quella dei fatti di coscienza, che non potrebbe prendere l’aspetto di un numero senza l’intermediario di qualche rappresentazione simbolica, in cui interviene necessariamente lo spazio”.“Ma non si contano i sentimenti, le sensazioni, le idee, tutte cose cioè che si compenetrano a vicenda e che, ognuna per parte sua, occupano l’anima tutta intera? Sì, senza dubbio, ma appunto perché si compenetrano, non si contano se non a condizione di rappresentarle con unità omogenee, che occupino posti distinti nello spazio, con unità, quindi, che non si compenetrano. L’impenetrabilità fa dunque la sua apparizione nell’istante stesso in cui compare il numero; e quando si attribuisce questa qualità alla materia per distinguerla da tutto ciò che materia non è, ci si limita a enunciare sotto un’altra forma la distinzione […] tra le cose estese, che si possono tradurre immediatamente in numeri, e i fatti di coscienza, che implicano innanzitutto una rappresentazione simbolica nello spazio”.“La durata assolutamente pura è la forma che assume la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e gli stati anteriori. Non gli occorre, per questo, di lasciarsi interamente assorbire nella sensazione o nell’idea che passa, perché in tal caso, al contrario, cesserebbe di durare. Non gli occorre neppure di dimenticare gli stati anteriori: basta che ricordandosi di questi stati non li giustapponga allo stato presente come un punto a un altro punto, ma li organizzi con quello, come succede quando ci ricordiamo fuse, per così dire, insieme, le note di una melodia”.“Si può dunque concepire la successione senza la distinzione, e come una reciproca compenetrazione, una solidarietà, un’organizzazione intime di elementi ognuno dei quali, rappresentativo del tutto, non se ne distingue e non se ne isola che per un pensiero capace di astrarre. Tale è senza dubbio la rappresentazione che si farebbe della durata un essere identico e cangiante al tempo stesso, che non avesse nessuna idea dello spazio. Ma abituati a quest’ultima idea, ossessionati anzi da essa, la introduciamo a nostra insaputa nella nostra rappresentazione della successione pura; giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da percepirli simultaneamente, non più l’uno nell’altro, ma l’uno accanto all’altro; in breve proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata in estensione, e la successione prende per noi la forma di una linea continua o di una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi”. “[…] Non appena si attribuisce alla durata la minima omogeneità, si introduce surrettiziamente lo spazio”.“Parlo dei miei stati di coscienza come d’altrettanti blocchi. Dico, è vero, che mi modifico; ma poi mi rappresento tale cangiamento come il passaggio da uno stato a un altro stato; e mi piace immaginare che ogni stato, considerato in sé, rimanga inalterato per tutto il tempo della sua durata. Eppure, basterà uno sforzo modesto d’attenzione a farmi intendere che non ci sono sentimenti, rappresentazioni o volizioni che non cambino continuamente: se non si modificassero, cesserebbe di fluire la loro durata”.“Procedendo sulla via del tempo, il mio stato di coscienza s’arricchisce continuamente della durata che raccoglie; fa valanga, per così dire, con se stesso. E ciò si verifica a maggior ragione negli stati di coscienza più intimi – sentimenti, sensazioni, desideri – ai quali non fa riscontro alcun oggetto esterno invariabile, come avviene invece nel caso di una semplice percezione visiva”.“Se la nostra esistenza fosse costituita di stati distinti, dei quali un ‘io’ impassibile dovesse operare poi la sintesi, per noi non ci sarebbe durata, perché un io che non si modifichi, non dura; come, del resto, non dura uno stato di coscienza che resti identico a

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se stesso, fino a quando non venga sostituito da uno stato successivo. S’avrà allora un bell’allineare quegli stati gli uni dietro gli altri sull’ ‘io’ che li sostiene: tutti quei solidi infilati in un solido non potranno mai costituire una durata che scorre. S’otterrà in tal modo un’artificiosa imitazione della vita intima, un suo surrogato statico che potrà, magari, servire alle esigenze della logica e del linguaggio, perché ne avremo eliminato il tempo reale. Ma per ciò che si riferisce alla vita della coscienza, così com’essa si realizza dietro i simboli che la celano, è chiaro che il tempo ne costituisce la stoffa stessa”.“La nostra durata […] non è costituita da un istante che sostituisce un altro istante; in tal caso, si avrebbe soltanto un presente, e non un prolungamento del passato nel presente, un’evoluzione, una concreta durata. La durata è l’incessante progresso del passato che morde l’avvenire e, via via avanzando, cresce. E poiché il passato cresce continuamente, si conserva indefinitamente. La memoria […] non è la facoltà di riporre i nostri ricordi in tanti cassettini, o di elencarli in un registro. Non c’è registro, non esistono cassettini; a rigore, non c’è nemmeno una facoltà poiché una facoltà si esercita a intermittenze, quando vuole e quando può, mentre il passato si accumula sul passato senza tregua. Si conserva da sé, automaticamente. In ogni istante esso ci segue tutt’intero; quel che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla nostra infanzia è qui, chino sul presente che sta per inghiottire ed urge alle porte della coscienza che vorrebbe lasciarlo fuori”. “Il meccanismo cerebrale par fatto apposta per cacciare nell’inconscio la maggior parte del passato, e introdurre nella coscienza quel tanto che in qualche modo può rischiarare la situazione presente, agevolare l’azione che stiamo preparando, compiere infine un lavoro utile. Tutt’al più, qualche ricordo superfluo riesce di tanto in tanto a introdursi, sgusciando di contrabbando attraverso la porta socchiusa: messaggeri dell’inconscio, questi ricordi ci danno notizia di ciò che portiamo in noi stessi senza saperlo. Ma quand’anche non ne avessimo un’idea distinta, sentiremo che tutto il nostro passato è presente in noi”. “Che cos’è infatti il nostro carattere, se non la concentrazione di tutta la vita vissuta dalla nascita ad oggi, ed ancor prima della nascita, dal momento che portiamo in noi il bagaglio di disposizioni ereditarie? Senza dubbio, pensiamo soltanto con un’esigua parte del nostro passato; ma è col nostro passato tutto intero, ivi compresa la particolare curvatura del nostro spirito, che desideriamo, vogliamo, operiamo. Dunque, il nostro passato ci si manifesta integralmente mediante la pressione che esercita su di noi e sotto forma di tendenza, benchè soltanto una piccola parte di esso si trasformi in rappresentazione”.“Da questo sopravvivere del passato nel presente, risulta intanto che nessuna coscienza potrà mai rivivere l’identico stato. Potranno essere identiche le circostanze, ma non è identica la persona sulla quale esse agiscono, per il semplice motivo che la colgono in un momento nuovo della storia. La nostra personalità, che si rinnova ad ogni istante in virtù dell’esperienza che accumula, cambia senza posa; e, cambiando, non permette mai che uno stato, sia pur esso identico a se stesso in superficie, si ripeta in profondità”.“Così germoglia, cresce e si matura senza posa la nostra personalità. Ogni istante aggiunge qualche cosa di nuovo a quel che era già. Anzi, se ben si guarda, non è soltanto un qualche cosa di nuovo che s’aggiunge, ma addirittura, un qualche cosa d’imprevedibile. È vero che il mio attuale stato di coscienza si spiega mediante ciò che era in me un momento fa e ciò che un momento fa agiva su di me. Ma nessuna intelligenza, nemmeno sovrumana, avrebbe potuto prevedere la forma semplice, indivisibile, che a questi elementi affatto astratti imprime la loro organizzazione concreta, perché prevedere vuol dire proiettare sul futuro ciò che si è percepito nel passato, o comunque raccogliere in un ordine nuovo elementi già percepiti. Di

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conseguenza, quello che non si è mai percepito e al tempo stesso è semplice, è anche necessariamente imprevedibile”.“Pensare consiste, di solito, nell’andare dai concetti alle cose, e non dalle cose ai concetti. Conoscere una realtà consiste, nel senso usuale della parola ‘conoscere’, nel prendere concetti già fatti, dosarli, combinarli insieme, fino a quando non si ottenga un equivalente pratico del reale. Ma non bisogna dimenticare che il lavoro normale dell’intelligenza è lontano dall’essere un lavoro disinteressato: in genere, non miriamo a conoscere per conoscere, ma a conoscere in vista di una decisione da prendere, di un vantaggio da ricavare, insomma, di un interesse da soddisfare. Noi cerchiamo fino a che punto l’oggetto da conoscere sia questo o quello, in qual genere conosciuto rientri, quale specie d’azione, di procedimento o d’atteggiamento dovrebbe suggerirci. Queste azioni diverse e atteggiamenti possibili, sono altrettante direzioni concettuali del pensiero, determinate una volta per tutte; non resta che seguirle, e in questo precisamente consiste l’applicazione dei concetti alle cose”. “Ogni conoscenza propriamente detta è, dunque, orientata in una certa direzione, o presa da un certo punto di vista. È vero che molte volte il nostro interesse è complesso: e per questo ci capita d’orientare successivamente in più direzioni la nostra conoscenza d’uno stesso oggetto, e di variare su di esso i punti di vista. In ciò consiste, nel senso solito di queste parole, una conoscenza ‘larga’ e ‘comprensiva’ dell’oggetto. L’oggetto è allora ricondotto non a un concetto unico, ma a più concetti di cui lo si considera ‘partecipe’”.“Ma per comprendere la natura di tale intuizione, e determinare con esattezza dove finisce l’intuizione e dove comincia l’analisi, occorre tornare a ciò che si è detto più su intorno allo scorrere della durata. Si osserverà che i concetti, o schemi, a cui l’analisi mette capo, sono essenzialmente caratterizzati da una immobilità per tutto il tempo in cui li si considera”.“E, tuttavia, non v’è stato d’animo, per quanto semplice, che non muti ad ogni istante. Perché non v’è coscienza senza memoria, non continuazione di uno stato senza che si aggiunga al sentimento presente il ricordo dei momenti passati. in questo consiste la durata. La durata interiore è la vita continua d’una memoria che prolunga il passato nel presente: o che il presente racchiuda esplicitamente l’immagine, senza posa crescente, del passato, o che attesti, piuttosto, con il suo continuo mutare di qualità il carico sempre più pesante che trascina con sé, via via che invecchia. Senza questo sopravvivere del passato nel presente non vi sarebbe durata, ma solo istantaneità”.“L’analisi opera sull’immobile, mentre l’intuizione si colloca nella mobilità o, ciò che è lo stesso, nella durata. Qui sta la linea di demarcazione ben netta tra l’intuizione e l’analisi: il reale, il vissuto, il concreto, è riconoscibile per il fatto di essere la variabilità stessa; l’elemento, per il fatto di essere invariabile. Esso è invariabile per definizione, perché è uno schema, una ricostruzione semplificata, spesso un semplice simbolo e, in ogni caso, una veduta presa sulla realtà che scorre”.“Ma l’errore sta nel credere che con questi schemi si possa ricomporre il reale. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: dall’intuizione si può passare all’analisi, ma non dall’analisi all’intuizione”.“Con la variabilità otterrò quante variazioni, qualità o modificazioni desidero, perché queste sono altrettante vedute immobili prese con l’analisi sulla mobilità data all’intuizione: ma tali modificazioni, aggiunte l’una all’altra, non produrranno nulla di simile alla variabilità, perché esse non erano parti ma elementi, che sono tutt’altra cosa”.“Per una illusione profondamente radicata nel nostro spirito, non potendo evitare di considerare l’analisi come equivalente all’intuizione, cominciamo a distinguere, lungo il movimento, un certo numero di fermate possibili o di punti, e di essi facciamo, lo vogliamo o no, parti del movimento. Di fronte alla nostra impotenza a ricomporre il

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movimento con quei punti, ne intercaliamo altri, credendo così di stringere più da vicino quella mobilità che si trova nel movimento. Poi, dato che la mobilità ci sfugge ancora, a un numero finito e definito di punti ne sostituiamo un numero ‘indefinitamente crescente’, cercando così, ma invano, di contraffare col movimento del nostro pensiero, che continua indefinitamente ad aggiungere punti a punti, il movimento reale e indiviso del mobile”. “Alla fine, diciamo che il movimento si compone, bensì, di punti, ma, inoltre, comprende il ‘passaggio’, oscuro e misterioso, da una posizione alla posizione successiva: come se l’oscurità non derivasse tutta dall’aver supposto l’immobilità più chiara che la mobilità, e l’arresto anteriore al movimento! Come se il mistero non fosse dovuto alla pretesa di giungere dalle fermate al movimento per via di composizione – ciò che è impossibile – mentre facilmente si passa dal movimento al rallentamento e alla immobilità!”“Noi siamo soliti collocarci nell’immobilità dove troviamo un punto d’appoggio per l’azione, e con quella pretendiamo di ricomporre la mobilità. Non otteniamo altro, così, che una imitazione maldestra, una contraffazione del movimento reale: ma questa imitazione ci serve assai più, nella vita, di quanto ci servirebbe l’intuizione della cosa medesima. Ora, il nostro spirito ha una tendenza irresistibile a considerare come più chiara l’idea che gli serve più spesso: ecco perché l’immobilità gli pare più chiara della mobilità, e la fermata anteriore al movimento”.“Nulla di più legittimo, d’altra parte, di questo modo di procedere, fino a che non si tratti che d’una conoscenza pratica della realtà: in quanto orientata verso la pratica, la conoscenza non ha che da enumerare i principali atteggiamenti possibili della cosa verso di noi, così come i migliori atteggiamenti possibili di noi verso la cosa; questa è la funzione ordinaria dei concetti già fatti, di quelle stazioni con cui punteggiamo il tragitto del divenire. Ma pretendere, con ciò, di penetrare fino alla natura intima delle cose, significa applicare alla mobilità del reale un metodo fatto apposta per fornire punti di vista immobili su di essa; significa dimenticare che, se la metafisica è possibile, non può essere altro che uno sforzo per risalire la china naturale del lavoro del pensiero per collocarsi immediatamente, con una dilatazione dello spirito, nella cosa studiata: insomma, per andare dalla realtà ai concetti, e non più dai concetti alla realtà”.

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo:

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5. Da: L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologia, Milano, Feltrinelli

“[…] L’idea dell’homo natura di Freud è una costruzione scientifica, possibile solo grazie a una distruzione della globalità dell’esperienza umana dell’uomo, cioè dell’esperienza antropologica. Come ho mostrato soprattutto nei miei studi sulla fuga d’idee, questo vale anche per l’homo natura della psichiatria clinica, della psicopatologia, e inoltre di qualsiasi psicologia cosiddetta ‘oggettiva’. Il chiarimento e la critica antropologica sono diretti contro tutte queste idee dell’homo natura; in realtà si tratta di contrapporre una difesa dell’insieme dell’esistenza umana alla difesa puramente medica della sua salute e alla difesa puramente naturalistica della sua appartenenza alla natura in generale. Il compito dell’antropologia è di smontare questa e tutte le altre idee particolari dell’uomo, di reinserirle nella totalità dell’esistenza umana, e di stabilire il loro ‘posto’ e il loro significato all’interno di essa”.

“In seguito ai molteplici tentativi, avvenuti anche nella nostra epoca, di determinare e di interpretare l’essenza dell’uomo non come uomo, ma come natura, come vita, come volontà, come spirito (pneuma), ecc., spesso l’antropologia ha dovuto fare piazza pulita, non attribuendo più alcun valore per i propri fini a quelle idee particolari. Se ci vogliamo tenere lontani da questo estremo, che è ugualmente pericoloso sia per le scienze particolari dell’uomo che per l’antropologia, dobbiamo chiarire per lo meno quattro tipi di significato che l’idea dell’homo natura ha per l’antropologia, pur limitandoci solo all’idea di Freud ed alla sua elaborazione naturalistica”.

“La teoria freudiana dell’homo natura, come insieme dei meccanismi psicobiologici che costituiscono e conservano la condizione umana è, in primo luogo, un principio ordinativo metodologico di prim’ordine anche per la comprensione antropologica. Essa mostra come si possa introdurre ordine e sistematicità nell’esperienza umana assoggettando tutti i settori del suo essere ad un principio ordinativo unitario. Con questo strumento ordinativo la conoscenza naturalistica può procedere a grandi passi (per quel che riguarda i limiti e l’estensione di ciò che deve essere esaminato ed ordinato) la vera e propria comprensione antropologica che deve necessariamente basarsi soprattutto sulla molteplicità, sull’identità, e sull’interconnessione essenziale dei fenomeni ‘osservati’, e che quindi deve essere soprattutto una fenomenologia. La conoscenza naturalistica compie qui la vera opera di pioniere, cioè la definizione del territorio complessivo e la delimitazione dei singoli settori, la misurazione e la valutazione, la selezione e il raggruppamento provvisorio. Questo lavoro è guidato dal principio dell’utilizzabilità e dello sfruttamento, cioè della ferrea ed inflessibile necessità naturalistica. Quello che ne risulta sul piano scientifico è l’individuazione e la conoscenza di forze e di potenze astratte, che dominano l’uomo e che lo hanno completamente in loro balìa, e che inoltre assicurano e regolano la meccanica della sua vita. Dobbiamo però sempre ricordare ‘che la meccanica che produce l’immagine di un fenomeno non è identica al significato di questa immagine’, cioè che l’uomo è più di un homme-machine nel senso di Lamettrie”.

“Il secondo significato antropologico del meccanismo consiste proprio nel fatto che esso mostra che l’uomo è di più di una macchina, cioè che egli si può comportare in qualche modo nei confronti della propria meccanica. Il rovescio del meccanismo assoluto e della ferrea necessità deve essere di certo l’assoluta libertà. Infatti quanto più noi rappresentiamo l’uomo in maniera meccanica, tanto più lo vediamo sollevare libero la testa al di sopra del meccanismo. ‘La plus intime liberté’, dice un importante contemporaneo francese al quale noi dobbiamo molto, ‘consiste dans la conduite d’un

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homme à l’égard de son caractère’ (la più profonda libertà consiste nel comportamento di un uomo nei confronti del proprio carattere). Ci troviamo così davanti alla più importante delle funzioni antropologiche del meccanismo. Senza di essa non si potrebbe comprendere la tensione antropologica che vi è tra ‘natura e spirito’, tra la necessità e la libertà, tra il venire vissuto, sopraffatto, spinto e la spontaneità dell’esistenza”.

“La comprensione del meccanismo dell’homo natura ci permette in terzo luogo di scoprire le ‘fratture nel quotidiano contesto vitale’ (Lowith) grazie alle quali diventa possibile smascherare gli stati di benessere mentale come stati camuffati di sofferenza. L’idea dell’homo natura e la conoscenza dei meccanismi psicologici è la sonda più infallibile che si possa immergere nell’essere umano per esaminare e studiare la sua posizione esistenziale. Il meccanismo dice sempre di no; il compito di provare il sì sta dalla parte della libertà e dell’esistenza. È quando viene portato in campo il meccanismo, che si deve misurare il suo avversario, cioè l’esistenza. Solo essa può opporsi alla forza coercitiva del meccanismo, ed è contro di essa, e solo contro di essa, che questo può fallire. Dato però che qui si tratta sempre di meccanismi basati sul principio del piacere (possiamo trascurare il principio della ripetizione che si è aggiunto solo in un secondo tempo alla teoria di Freud), il meccanismo è in grado di fornirci chiarimenti ‘sul rapporto tra il piacere e la presenza’ (Lotze)”.

“In quarto luogo l’idea dell’homo natura come insieme dell’istintualità, cioè della pulsionalità (secondo il principio della necessità meccanica) della presenza o della semplice spinta di vita, costituisce un principio ‘morfotico’ o formale unitario per l’antropologia, così come la foglia costituisce un principio morfotico unitario per la botanica. L’istinto di Freud è la forma o gestalt primaria che sta alla base di tutte le metamorfosi e di tutte le trasformazioni antropologiche”.

“Nella metamorfosi della pianta di Goethe la forma originaria della foglia scompare in quanto tale nelle sue successive trasformazioni in infiorescenza, stame e pistillo, corolla, seme, e frutto, e continua ad esistere solo come idea formale; invece in tutte le meta-morfosi e in tutti i mutamenti dell’uomo Freud scorge sempre la medesima forma fondamentale dell’istinto, come onnipresente fattore indistruttibile dell’accadere. In questo senso la teoria freudiana, al contrario di quella di Goethe e anche di quella di Nietzsche, non giunge al concetto di un vero e proprio mutamento. Una frase come quella di Goethe, che ‘tutta la nostra arte’ consiste ‘nell’abbandonare la nostra esistenza, allo scopo di esistere’, Freud non l’avrebbe mai scritta, per quanto egli la abbia potuta incarnare nella sua stessa esistenza; nella sua dottrina l’accento non viene posto sul mutamento dell’esistenza, ma su ciò che nel mutamento resta indentico, cioè sull’istinto”.

“Ma da un punto di vista antropologico bisogna tener conto sia della forma originaria che resta unitaria nel cambiamento, sia della multiformità del cambiamento come transformazione. è solo la trans-formazione, cioè il metà della meta-morfosi, il passaggio da una sponda dell’essere alla sponda di un nuovo essere, ciò che costituisce la totalità del cambiamento”.

“D’altra parte è stato proprio Goethe a formulare la frase (che fa pensare immediatamente al Timeo di Platone, e che forse è stata scritta proprio tenendo conto di esso): ‘Se la natura non fosse così fondamentalmente stereometrica nelle sue origini inanimate, come potrebbe essa giungere infine alla incalcolabile e incommensurabile vita?’. Qui l’accento viene di nuovo posto sull’immutabilità del principio formale e vi

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troviamo, come nel Timeo, quello che si potrebbe dire la scoperta del principio stabile della tecnica della natura. Riferita a Freud, la frase precedente potrebbe diventare: ‘Se l’uomo non fosse così fondamentalmente meccanico ed istintuale nelle sue origini animate, come potrebbe egli giungere infine all’incalcolabile ed incommensurabile vita spirituale?’. Anche qui compare il naturalista, si potrebbe anche dire il filosofo naturale, che è Freud, il quale cerca di spiegare la multiformità della vita in base a uno o (se si conta anche il principio distruttivo dell’istinto di morte) a due principi unitari”.

“L’uomo però, come abbiamo già detto, non è solo necessità meccanica ed organizzazione, cioè non è solo mondo o ‘nel mondo’; la sua presenza deve essere intesa come essere-nel-mondo, cioè come progetto e apertura di mondi, come ci ha mostrato Heidegger in maniera inconfutabile. In questo senso la sua presenza è anche il principio che rende possibile la separazione tra la necessità e la libertà, tra la forma ‘chiusa’ e il mutamento ‘aperto’, tra l’unità della forma, l’abbandono della forma, e il cambiamento in una nuova forma”.

“A questo punto bisogna però spiegare il significato e la genesi della contrapposizione tra il meccanismo e la libertà, tra l’homo natura e l’esistenza, ossia tra la scienza naturale e l’antropologia”.

“In tutte le psicologie che riducono l’uomo a un oggetto, soprattutto in quelle dei nostri naturalisti, come Freud, Bleuler, Monakow, Pavlov, ecc., troviamo una spaccatura, ossia una fessura dalla quale appare chiaro che non è tutto l’uomo, cioè l’uomo come totalità, che giunge alla elaborazione scientifica”.

“Dappertutto troviamo ‘qualcosa’ che sommerge e fa saltare i confini di una simile psicologia; e questo ‘qualcosa’, che non viene degnato di uno sguardo dallo psicologo naturalista, per l’antropologo è invece proprio il fattore decisivo. Limitandoci a Freud, basta aprire una pagina qualsiasi dei suoi scritti, per trovarvi questo ‘qualcosa’. Per esempio egli parla della struttura e del funzionamento del nostro apparato mentale, oppure della nostra mente in quanto prezioso strumento a mezzo del quale ci manteniamo in vita; inoltre parla della nostra vita mentale, oppure dei nostri pensieri. In tutti questi possessivi si parla di un essere che viene considerato ovvio, e che ovviamente viene omesso: si parla cioè della presenza come nostra presenza. Lo stesso vale naturalmente anche per i pronomi personali come: io penso, io preferisco, lui crede, lui racconta, lui si ricorda, lui ha dimenticato, lui si rifiuta, io gli chiedo, lei mi risponde, noi abbiamo stabilito, noi confidavamo nel futuro, noi eravamo d’accordo, ecc. Anche qui si parla di una presenza in quanto mia, sua, ecc., e di una comunicazione tra presenze o di un rapporto interumano ovvero ‘tra-noi’, cioè di un rapporto tra una persona e un suo simile, ossia un’altra persona. Se si omette questo mio o nostro, questo io e lui o noi, si ottiene il risultato che la psicologia diviene sì ‘impersonale’ e ‘oggettiva’, ma allo stesso tempo perde il carattere scientifico di una autentica psicologia e diventa una scienza naturale”.

“Alla comunicazione reciproca e ‘personale’ del rapporto ‘tra noi’ si sostituisce la relazione unilaterale e cioè irreversibile del medico col paziente, e quella ancora più impersonale del ricercatore con l’oggetto della sua ricerca teoretica. Dall’esperienza, dalla partecipazione e dal dialogo interumano e ‘presente’ è sorto l’esame teoretico di un ‘preterito’. In questo modo Freud giunge ad un immenso sapere sull’uomo in quanto creatura scissa, sofferente, in lotta, che vela e disvela se stessa; egli ha servito e soddisfatto la scienza (naturale) dell’uomo come nessuno prima di lui e forse anche

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come nessun altro dopo di lui. Ma ormai sappiamo che la scienza naturale non esaurisce la totalità dell’esperienza umana dell’uomo. Dato che essa omette la persona e la comunicazione e […] il Sé e il significato o senso; dato che essa omette l’esistenza, essa non può spiegare perché in realtà l’uomo si assume la divina missione di essere produttivo nella ricerca della verità scientifica, facendone il fondamento e il senso della propria esistenza, soffrendo e combattendo per essa, ritrovandovi la propria forza e la propria missione da compiere fino in fondo con eroica perseveranza contro la resistenza di un mondo ottuso”.

“In questo modo abbiamo allargato la fessura di cui parlavamo. La psicologia naturalistica (una contraddizione in termini) non degna di attenzione scientifica il fatto antropologico originario che la presenza è sempre mia, tua, nostra, e che noi ci comportiamo sempre in qualche modo sia nei confronti del concetto astratto di corpo che nei confronti di quello di anima, inoltre essa ignora anche l’intero campo dei problemi ontologici legati alla questione di chi sia effettivamente quello che si comporta in questo modo, cioè alla questione del Sé. Se questo Sé viene oggettivato, isolato, e teoretizzato in un Io, o in un Es, un Io, e un Super-io, esso viene esiliato dal suo vero campo di presenza, cioè dall’esistenza, e viene soffocato in senso ontologico e antropologico”.

“Invece di seguire questo problema antropologico fondamentale, invece di ricercare se stesso come Eraclito, o di tornare in se stesso come Agostino, Freud […] scavalca il problema del Sé come se fosse qualcosa di ovvio”.

“È proprio qui che si vede come esistano due vie per fare della psicologia; l’una porta lontano da noi verso la fissazione teoretica, cioè verso la percezione, l’osservazione, l’esame e la distruzione dell’uomo reale allo scopo di costruire una sua immagine scientifica (un apparato, un ‘meccanismo di riflessi’, una totalità funzionale, ecc.); l’altra porta ‘in noi stessi’, non in un senso analitico-psicologico (chè non faremmo altro che ridurre proprio noi stessi ad oggetti) o caratterologico (chè ci oggettiveremmo di nuovo nella direzione della nostra ‘tipologia’ psicologica individuale), ma nel senso antropologico, cioè nella direzione delle condizioni e delle possibilità della presenza in quanto nostra propria presenza oppure, ma è lo stesso, nella direzione delle maniere e delle modalità possibili del nostro esistere”.

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo di Bergson:

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6. Maurice Blondel, Messaggio agli educatori, in "Scuola Italiana Moderna (Supplemento Pedagogico)", s. X (1948-49), pp. 225-228.

Il problema pedagogico è completamente subordinato al problema della natura e del destino umano. La persona umana ha valore di mezzo, o valore di fine? Bisogna crescere il fanciullo per sé? Per la società? Per la vita terrena? Per un ordine ideale? Per una immortale sopravvivenza in unione a Dio e alla universale società degli spiriti? L'educazione si ispira a metodi molto contrastanti e comporta un contenuto differentissimo, a seconda della risposta, implicita od esplicita, che si dà a tali domande. Sottolineiamo tuttavia che se si limita il proprio punto di vista a qualche grado inferiore, si eliminano di fatto i gradi superiori, e tutta quella ricchezza di motivi che ne può scaturire; mentre il termine supremo suppone, vivifica e organizza tutte le forme dell'educazione ben compresa.

Ma che cosa vuol dire comprendere bene lo spirito che deve presiedere all'educazione integrale? (e l'educazione non è buona se, in effetti, non sviluppa armonicamente la pienezza dell'essere a cui si applica). Vuol dire che, in ogni caso, l'educazione non deve essere né mercenaria né puramente utilitaria; cioè, i beni ch'ella ci propone devono essere cercati ed amati per se stessi, e non per egoismo o interesse. Non bisogna certo disprezzare ed escludere un giusto sentimento della dignità personale e dei meriti nobilmente acquistati dal fanciullo e dall'adolescente, e diciamo pure ad ogni età della vita - poiché è un grave errore quello di credere che l'opera educativa non va continuata da ciascuno e per ciascuno, fino all'ora della morte; ma, in definitiva, è a un sentimento di generosità, di dedizione e di abnegazione cui bisogna principalmente fare appello per suscitare, nella loro più alta misura, lo slancio, il lavoro e il sacrificio.

Per questo si possono, si devono incoraggiare tutti quei movimenti d'amorosa espansione che - dagli ingenui moti del fanciullo il quale si fa innocentemente centro del mondo, o dalle inquiete tenerezze dell'adolescente teso a donarsi, fino ai virili sacrifici del padre di famiglia o del soldato, e fino al martirio dell'apostolo - si dispongono in una gerarchia di beni, tutti degni d'esser apprezzati e collocati al loro posto esatto; poiché tutti sono dei solidi gradini per salire verso quelle altezze dove trovano il loro giusto equilibrio, tutte quelle disposizioni interiori e quelle azioni salutari, che l'educazione deve proporre, preparare e realizzare.

Come e per quale via l'educatore ha influenza su colui ch'egli deve istruire, elevare e fortificare? Anziché sostituirsi alle diverse personalità ch'egli ha il dovere di formare, il maestro educatore deve assolvere questo duplice compito:

Dapprima, egli deve ispirarsi assai meno alla sua autorità e alle sue personali preferenze che alle aspirazioni di coloro che gli sono affidati in ciò ch'esse hanno di giusto, di vigoroso, di legittimo; poiché l'essenziale è precisamente di impegnare e dirigere e accrescere la forza di queste intime risorse, facendo appello a quanto vi è di più nobile, di più energico, di più ardente e di più ricco di promesse nell'anima del giovane. Noi non educhiamo per noi, e secondo i nostri gusti, i nostri fanciulli o i nostri allievi, ma per essi stessi e secondo le loro attitudini, la loro vocazione e l'ideale da essi intravisto.

In secondo luogo, facendoci tutto a tutti e a ciascuno, noi - anziché esigere ch'essi si accordino ai nostri desideri e seguano passivamente il nostro programma, secondo le ambizioni da noi concepite nei loro riguardi - dobbiamo aiutarli a conoscersi, a discernere la loro vera vocazione, a criticarsi da soli, quand'è necessario, e a far prevalere la ragione, e i sentimenti più illuminati e generosi.

Da ciò si vede qual è la risposta più conveniente ai problemi quotidianamente discussi: A chi appartiene il fanciullo? A se stesso - perché liberamente si scelga la vita più facile, la più ricca di profitto, di gioie, di successo? Oppure alla società o alla classe

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di cui sarà un membro, meno ancora, un qualsiasi ingranaggio, senza personalità propria? Un essere a parte, al di sopra della comune? No, nulla di tutto questo. L'essere umano non appartiene a nessuno, neppure a se stesso. Egli "si deve" sempre e comunque; e s'egli "si deve" a Dio stesso, lo è proprio affinchè finalmente egli sia consacrato a lui, in ragione della sua fedeltà disinteressata a tutti i doveri che lo congiungono alla vita universale.

Un altro problema continuamente urge in molte coscienze d'educatori: Poiché bisogna rispettare la coscienza ancora tenera e malleabile di colui la cui ragione ancora non è matura per discernere le soluzioni vere e buone, è dunque necessario astenersi dall'orientare il suo giudizio e dal proporre con discrezione le verità che si stimano vitali e salvifiche?

La questione non può essere risolta senza quel tatto costituito essenzialmente da delicatezza, da prudenza e da pazienza esemplare. E proprio in tal modo, l'educatore stesso deve continuare a perfezionare la propria educazione, comprendendo la impressionante potenza di cui è rivestito e l'obbligo in cui si trova di predicare più con l'esempio che con la parola, d'essere fedele alla luce, e di misurare le conseguenze dei suoi insegnamenti, invitando i suoi scolari a usare quelle precauzioni e quelle riserve che un tempo Socrate già proponeva all'adolescente Senofonte.

Un altro problema, più che mai attuale, s'impone all'educatore. In quale misura deve essere richiesto e inculcato lo spirito di sacrificio, di temperanza e, diciamolo pure, di penitenza? Ogni qual volta, rispondiamo noi, è bene incoraggiare gli slanci naturali e le generose ambizioni. Sì; ma non vi sono dei contrappesi necessari? Non è forse salutare, per la vita sociale, per la crescita spirituale, per l'alta vita morale e religiosa far comprendere la necessità di frenare l'egoismo, il desiderio dei piaceri, l'avidità e la brama che spengono il senso di abnegazione e disseccano alle radici la vera felicità? È necessario che il fanciullo sappia che tutto ciò s'accorda con le passioni è sottratto ai grandi doveri, i quali sono la condizione necessaria per una coscienza retta e felice. Non bisogna dunque temere d'esercitare il fanciullo, e soprattutto l'adolescente, a privarsi, a sottomettersi, a escludere tutto ciò che ritarderebbe la sua ascensione verso beni superiori ai suoi propri interessi o anche a quelli, più numerosi, che lo arresterebbero sul cammino del fine ultimo e divino della vita. Quanta parte dell'educazione, oggi, ha tradito il suo compito proprio perché nasconde ai giovani spiriti queste verità necessarie o perché non ha la fermezza d'ottenere questa abitudine d'una disciplina, senza la quale non v'è concordia sociale, né pace, né gioia interiore per le anime.

Da queste brevi indicazioni, scaturiscono quelle qualità che maggiormente importano per il successo dell'educazione. Sia un'arida lucidità didattica che una rigidezza autoritaria, fissata in un comando per tutti, non saprebbero certamente ottenere i risultati che noi desideriamo. Non solo per la scienza, ma anche, e soprattutto, per la vita, il metodo socratico va utilizzato, reso più perfetto; sia da una sollecitudine più grande e più sensibile per le segrete interrogazioni delle intelligenze (così in disordine fin dalla giovane età, nel nostro mondo contemporaneo) sia dai progressi delle ricerche sperimentali e dei testi che meglio permettono di discernere le attitudini. In quest'opera - opera per eccellenza - la causalità è reciproca. Infatti non si agisce su nessuno, se non a patto di lasciarsi, per così dire, influenzare, e proprio da colui sul quale si vuole esercitare una penetrante influenza. È necessario possedere un'intelligenza assai duttile; ma occorre soprattutto bontà; e già Platone affermava che l'educazione è, allo stesso tempo, opera di amore e di scienza.

Che cosa vi è di più importante in ciò che concerne contemporaneamente il contenuto e il modo dell'insegnamento veramente educativo?

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Poiché l'importante è soprattutto di suscitare lo sforzo e l'interesse personale dello scolaro e di condurlo alle verità essenziali, alle abitudini liberatrici che assicureranno la sua rettitudine di giudizio e la sua integrità di carattere, è necessario evitare il semplice ammaestramento e quel guazzabuglio d'idee così dette utilitarie; evitare i procedimenti puramente mnemonici, l'abuso immaturo della tecnica, e la priorità delle conoscenze sull'esercizio del senso critico e della formazione morale e religiosa.

Il fanciullo è più accessibile ai sentimenti generosi ed estetici che alle ricerche delle quali si compiace lo specialista, sovente preoccupato soltanto di redigere programmi e di comporre libri dove le giovani intelligenze si smarriscono, anziché fortificarsi. Quando io parlo di sviluppare il giudizio dell'adolescente, io penso a ciò che può suscitare i suoi apprezzamenti, là dov'egli è capace di mettere alla prova i moti spontanei del suo spirito e del suo cuore, d'esercitare e sviluppare le risorse della sua volontà. Senza dubbio vi è, nella formazione del fanciullo e del giovane, una grande parte che deve essere riservata all'acquisizione incosciente e all'automatismo, che forniscono i mezzi futuri di lavoro riflesso e di efficaci iniziative; ma troppo spesso si vuole insegnare attraverso regole ciò che può e deve essere appreso più facilmente e con meno sforzo dal fanciullo, senza neppure ch'egli s'accorga di ciò che un maestro avvertito gli fa conoscere, chiacchierando o giocando. Vi sono sempre troppe cose che esigeranno una difficile e impegnata applicazione dello spirito; a queste, che compensano la pena e ripagano lo sforzo, è opportuno riservare quella fatica superiore dell'attenzione esplicita e volontaria. Invece dunque d'ingombrare metodicamente l'insegnamento con un didatticismo minuzioso e invadente, è essenziale liberare, purificare, innalzare il più possibile le facoltà intellettuali e morali richiamandosi sempre a quella massima saggia e feconda che Pascal doveva all'educazione paterna: "Tenere lo spirito sempre al di sopra della sua occupazione particolare".

Non certo per disinteressarsene; ma, al contrario, per compierla meglio, dominandola e rapportandola al fine supremo dell'uomo.

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo di Blondel:

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7. Da: M. Buber, Il principio dialogico, Milano, Edizioni San Paolo

“Realtà è il bambino, realtà deve diventare l’educazione – ma che ne è dello ‘spiegamento delle forze creative’? E’ questa la realtà dell’educazione? L’educazione deve diventare proprio quello, per essere reale? Chiaramente è quanto credono gli organizzatori di questo convegno, che ne hanno proposto l’argomento. Essi evidentemente pensano che l’educazione finora non abbia adempiuto il suo compito perché ha perseguito lo sviluppo di cose diverse da quelle proprie del bambino, o perché tra le sue forze ne ha considerato e favorito altre, invece di quelle creative. E adesso certo si meravigliano che io trovi discutibile la definizione di questa meta, dal momento che io stesso parlo del tesoro della possibilità eterna e del compito della sua promozione finita. Devo allora mettere in chiaro che questo tesoro non può essere adeguatamente compreso tramite il concetto di ‘dispiegamento’” (Sull’educativo, p. 162).

“L’importanza di quanto ho accennato, su cui questa concezione si fonda, non può essere negata. Tocca un fenomeno significativo ma non ancora preso nella giusta considerazione, e che non trova qui la corretta definizione. Intendo l’esistenza di un istinto autonomo, non derivabile da altri, il cui nome appropriato mi sembra essere ‘istinto della creatività’. L’uomo, il figlio dell’uomo, vuole fare cose. Non è semplicemente il piacere di vedere sorgere una forma da una materia che fino a poco prima si presumeva informe: ciò a cui tende il bambino è la partecipazione a questo divenire della cosa; egli vuole essere il soggetto di questo processo di produzione. L’istinto di cui parlo non deve neanche essere confuso con l’istinto dell’occupazione o dell’attività, che peraltro mi sembra non esista affatto (il bambino vuole costruire o distruggere, toccare o colpire ecc., ma non vuole mai ‘occuparsi’); ciò che è importante, è che attraverso la propria azione, intensamente percepita, nasca qualcosa che prima, proprio un momento prima, ancora non esisteva. Un’alta manifestazione di questo istinto è la passione spirituale con cui i bambini producono il linguaggio, invero non come qualcosa di appreso, ma con l’impeto precipitoso di ciò che avviene per la prima volta; un suono dopo l’altro urge, erompe dalla gola vibrante, dalle labbra tremanti nell’aria del mondo, e quel minuscolo corpo dotato di anima vibra e trema insieme a lui, scosso da un brivido dell’egoità erompente. Oppure si osservi un ragazzino che si costruisce un attrezzo rozzo, sconosciuto; non si meraviglia, non si spaventa del suo movimento, allo stesso modo degli incredibili inventori del passato? Ma bisogna anche osservare come, persino nel piacere di distruzione del bambino, un piacere apparentemente ‘cieco’, sia in gioco il suo istinto della creatività e questo prenda il sopravvento: talvolta il bambino inizia a fare a pezzi una cosa qualsiasi, per esempio un foglio di carta, ma presto è preso da interesse per la forma che hanno assunto i brandelli e non ci impiega molto, sempre stracciando, a cercare di produrre forme determinate” (pp. 163-164).

“E’ importante riconoscere quest’istinto della creatività nella sua autonomia e indipendenza. La psicologia odierna inclina a ricondurre la molteplicità dell’anima umana a un unico elemento originario: ‘libido’, ‘coazione all’affermazione’ e cose del genere. In realtà, in questo modo si generalizzano solo determinate situazioni degenerative, in cui un singolo istinto non solo predomina sugli altri, ma esercita un’azione invadente; si parte dai casi – copiosi nel tempo in cui viviamo, tempo di violazione intima e di spossessamento interiore di ciò che è comune – in cui una tale ipertrofia genera l’apparenza dell’esclusività, se ne astrae la regola e d’ora in avanti la si applica, con tutta la problematicità teoretica e pratica di tali applicazioni. Di fronte a queste dottrine e a questi metodi d’impoverimento dell’anima bisogna sempre di nuovo

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additare la polifonia originaria dell’interiorità umana, all’interno della quale nessuna voce è ‘riconducibile’ a un’altra, e la cui unità non può venire analiticamente separata, ma deve essere solo ascoltata nella consonanza che si fa presente” (p. 164).

“Una di queste voci, una di quelle dominanti, è l’istinto della creatività. Esso deve allora comparire in modo significativo anche nell’opera educativa. Eccoci in presenza di un istinto che, qualsiasi intensità possa raggiungere, non diventerà mai desiderio, perché non si fonda affatto sull’ ‘avere’, ma sul fare; che, unico fra tutti, può crescere soltanto nella passione, non nella cupidigia; che, unico fra tutti, non può incitare a interferire nell’ambito di altri esseri; qui si ha il gesto puro, che non si accaparra il mondo, ma a esso si manifesta. A partire di qui, nella misura in cui si lascia liberamente sviluppare e agire questa possibilità preziosa, non dovrebbe finalmente riuscire la formazione della persona umana, tante volte sognata e tanto spesso sprecata?” (pp. 164-165).

“E neppure mancano prove di questo esperimento recente. La più bella che io conosca, che ho da poco conosciuto, è il coro di bambini del maestro praghese Bakule, un vero mago (…). Come, sotto la sua direzione, da creature storpiate, apparentemente condannate a rimanere infruttuose per tutta la loro vita, si siano liberati esseri umani che liberamente si muovono, che provano gioia nell’operare, plasmabili e plasmanti, capaci di dar forma in molteplici materie a ciò che hanno visto e ideato, ma anche capaci di comprendere la propria anima risorta, esprimendola in un canto selvaggio e meraviglioso; come, ancor più, da sorde solitudini, murate in se stesse, sia nata e si sia costituita una comunità che si manifesta negli sguardi rivolti e corrisposti: tutto questo sembra dimostrare senza ombra di dubbio quale fecondità possegga la vita aperta all’istinto della creatività; non solo, quale potenza essa irraggi in tutto l’essere dell’uomo” (p. 165).

“Ma proprio quest’esempio, esaminato più a fondo, ci mostra che l’influenza decisiva non va misurata sulla liberazione di un istinto, ma sulle forze che incontrano quest’istinto reso libero: le forze educative. Da loro, dalla loro purezza e interiorità, dal loro potere d’amore e dalla loro discrezione, dipende il tipo di unione cui adirà l’elemento liberato, e conseguentemente ciò che di lui diverrà.

“L’istinto della creatività, abbandonato a se stesso, non conduce, non può condurre a due formazioni indispensabili per la costruzione di una vera vita umana: a partecipare a una causa e ad accedere alla reciprocità” (p. 165).

“Opera singola e opera collettiva sono due cose affatto differenti. Costruire una cosa è un orgoglio dell’essere mortale, ma l’essere condizionato a un lavoro comune, l’inconsapevole umiltà dell’essere parte, del prendere parte e dell’avere una parte è il nutrimento autentico dell’immortalità terrena. Appena l’uomo che opera entra a far parte di una causa in cui scopre la comunità dell’agire e la esercita con altri uomini, egli non segue più soltanto l’istinto della creatività” (pp. 165-166).

“Sì, l’uomo come ‘creatore’ è solo. Nello spazio che risuona delle sue azioni egli è del tutto privo di legami. Né può aiutarlo granchè il fatto che la sua opera venga accolta con entusiasmo dagli uomini, da molti uomini. Non saprà mai se il suo sacrificio è stato accettato, accettato da un destinatario sconosciuto. Solo quando qualcuno lo prenderà per mano, non come un ‘creatore’, ma come una delle creature sperdute nel mondo, per essergli compagno, amico, amante, al di là dell’arte, diverrà consapevole e

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partecipe della reciprocità. Un’educazione fondata solo sulla formazione dell’istinto della creatività preparerebbe una nuova, dolorosissima solitudine dell’uomo” (p. 166).

“Nel produrre delle cose il bambino impara molte cose che altrimenti non potrebbe imparare. Facendo una cosa ne impara la possibilità, la struttura e la coesione in un modo che non potrebbe mai capire se si limitasse a osservarla. Ma così non s’impara qualcos’altro, e questo qualcos’altro è il viatico della vita. S’impara dall’interno l’essere oggetto del mondo, ma non il suo essere soggetto, non il suo dire io, e quindi neppure il suo dire tu. Ciò che ci conduce all’esperienza del dir tu non è più l’istinto della creatività, ma quello della solidarietà.

“Questo è qualcosa di più grande di quanto credano di sapere i sostenitori della libido: è desiderio che il mondo diventi persona che si fa presenza a noi, che si avvicini a noi come noi a lei, che ci scelga e ci riconosca come facciamo noi nei suoi confronti, che trovi in noi conferma come noi in lei. Il bimbo che, giacendo con gli occhi socchiusi, attende con animo disteso che la madre gli rivolga la parola: il segreto del suo desiderio è rivolto a qualcosa di ben diverso dal godere (o dominare) un essere umano, neppure è rivolto all’intraprendere qualcosa; esso è rivolto a sperimentare la solidarietà di fronte alla notte solitaria che si allarga là dietro la finestra e minaccia di irrompere” (pp. 166-167).

“La liberazione delle forze dev’essere solo un presupposto dell’educazione, non più di questo. Più in generale possiamo dire: spetta alla libertà fornire il terreno su cui si ergerà la vita vera, ma non anche il fondamento. E questo vale tanto per la libertà interiore, quella ‘morale’, quanto per la libertà esteriore, intesa come assenza di impedimenti e di limiti. E come quella superiore, la libertà di decisione dell’anima umana, significa forse il nostro momento più alto, ma non è neppure una particella della nostra sostanza, così quella inferiore, la libertà del dispiegamento, significa una possibilità di realizzazione, ma per nulla affatto la nostra realizzazione. Questa libertà ha senso in quanto fatto da cui deve partire l'’pera educativa, ma diventa assurda se è concepita come suo compito fondamentale” (pp. 169-170).

“Si tende a considerare questa libertà, che viene chiamata evolutiva, come polo opposto della costrizione, dell’essere sottoposti a costrizione. Però l’opposto della costrizione non è la libertà, ma la solidarietà. La costrizione è una realtà negativa, e la solidarietà è quella positiva; libertà è una possibilità, la possibilità riconquistata. Trovarsi sotto la costrizione del destino, della natura, degli uomini: il polo opposto non è essere liberi dal destino, dalla natura, dagli uomini, ma l’essere uniti e alleati con l’uno, con l’altra, con loro; per giungere a ciò, certo occorre che prima si sia diventati indipendenti, ma l’indipendenza è un ponte, non una dimora. Libertà è la lancetta vibrante, il fecondo punto zero. Costrizione, nell’educazione, è mancanza di solidarietà, è umiliazione e rivolta; solidarietà, nell’educazione, è proprio l’essere uniti, aperti e coinvolti; libertà nell’educazione significa possibilità di diventare solidali. Non se ne può fare a meno e in sé è inutilizzabile; senza di essa nulla riesce, ma neppure tramite suo; la libertà è la rincorsa per il salto, l’accordatura del violino. Essa è la confermazione di quella possente potentia originaria alla cui attualizzazione non può nemmeno dare inizio” (p. 170).

“C’è un’esperienza elementare che scuote l’uomo dell’eros e quello del kratos almeno nelle loro sicurezze, ma che a volte fa più di questo: l’esperienza che, con impeto che tutto rifonde, lo getta nel cuore dell’istinto. C’è una conversione del singolo istinto, che non lo elimina affatto, ma ne converte il sistema direzionale. Una tale

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conversione può essere provocata dall’esperienza elementare, con cui ha inizio ciò che è propriamente educativo e su cui esso si fonda. Io la chiamo esperienza della parte opposta.

“Un uomo colpisce un altro uomo, che rimane tranquillo. Ecco che colui che ha colpito avverte anch’egli, improvvisamente, il colpo che ha inferto. Lo stesso colpo. Come l’altro, che è rimasto tranquillo. Per un istante egli esperisce la situazione comune, dalla parte dell’altro. La realtà lo avvicina. Che cosa farà? Strepitando, farà tacere l’anima, oppure il suo istinto si convertirà.

“Un uomo carezza una donna, che si lascia carezzare. Accade che egli avverta il contatto dalle due parti: con la superficie della sua mano ma anche con la pelle della donna. L’intercambiabilità del gesto, come un gesto che si dà tra una persona e l’altra, trema nel riparo del suo cuore che gode, e lo rimescola. Se non farà tacere il suo cuore, dovrà – senza rinunciare al godimento – amare” (pp. 175-176).

“Con questo non si vuole affatto dire che l’uomo a cui ciò succede debba poi sempre in ogni incontro successivo avvertire in tal misura la reciprocità – ciò indebolirebbe forse il suo istinto; ma un’esperienza estrema gli rende l’altro presenza per sempre; ha avuto luogo una trasfusione dopo la quale, per colui che agisce, il semplice imporsi della soggettività non è più possibile né sopportabile.

“Soltanto la potenza che ricomprende è guida; soltanto l’eros che ricomprende è amore. Ricomprensione che è il pieno render presenza del sottomesso, del desiderato, del ‘partner’, non con la fantasia, ma con la presenza attuale dell’essere” (p. 176).

“La conversione della volontà di potenza e quella dell’eros significarono dialogicizzazione dei rapporti da loro determinati; e proprio per questo significano accesso dell’istinto alla solidarietà con il prossimo e alla responsabilità nei suoi confronti come responsabilità nei confronti di un ambito di vita che è stato loro consegnato e affidato.

“L’elemento della ricomprensione, con il cui riconoscimento inizia questa purificazione, è il medesimo elemento che costituisce il rapporto educativo” (p. 176).

“Il rapporto educativo è un rapporto puramente dialogico.“Ho accennato al bimbo che, giacendo con gli occhi socchiusi, attende che la

madre gli rivolga la parola. Ma alcuni bambini non hanno bisogno di attendere: perché sanno di essere incessantemente appellati, in un dialogo che mai s’interrompe. Di fronte alla notte solitaria che minaccia d’irrompere essi giacciono custoditi e protetti, invulnerabili, nell’argentea corazza della fiducia.

“Fiducia, fiducia nel mondo, poiché quest’essere umano esiste – questa è l’opera più intima del rapporto educativo. Poiché quest’essere umano esiste, l’assurdo non può essere la verità vera, per quanto duramente esso ci angusti. Poiché esiste quest’essere umano, sicuramente nelle tenebre si cela la luce, nello spavento la salvezza, e nell’ottusità di colui che vive assieme a noi l’amore grande” (pp. 177-178).

“Poiché quest’essere umano esiste. E allora quest’essere umano deve anche realmente esistere. Non può farsi rappresentare da un fantasma: la morte del fantasma sarebbe una catastrofe per l’anima originaria del bambino. Non occorre che possegga alcuna delle perfezioni che possono essergli eventualmente attribuite; ma egli deve veramente esistere. Affinchè egli possa veramente diventare e rimanere presenza al bambino, deve averne accolto la presenza nel suo stesso essere, come uno dei portatori della sua solidarietà col mondo, uno dei centri della sua responsabilità verso il mondo. Certo non può occuparsi continuamente del bambino, né di fatto né col pensiero, e non

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deve neanche farlo. Ma se l’ha accolto davvero, allora si è fondata e permane quella dialogica sotterranea, quel duraturo potenziale farsi presenza dell’uno all’altro. Allora tra i due c’è realtà, reciprocità” (p. 178).

“Se educare significa fare in modo che una selezione del mondo agisca attraverso una persona su un’altra persona, allora la persona tramite cui ciò accade, o piuttosto che permette che tramite suo ciò accada, è consegnata a uno strano paradosso. Ciò che altrimenti è solo grazia, riposta nelle pieghe della vita – agire con il proprio essere sull’essere di un altro – è diventato qui ufficio e legge. Ma per questo, per il fatto che l’educatore ha preso in tal misura il posto del maestro, si è presentato il pericolo che il nuovo fenomeno, la volontà educativa, degeneri in arbitrio, che l’educatore adempia al suo compito di selezione e di influenza a partire da sé e dal concetto che ha dell’educando, non invece a partire dalla realtà di questi” (p. 179).

“L’uomo che per professione deve influire sull’essere di nature determinabili, deve sempre di nuovo esperire questo suo fare (per quanto esso possa aver assunto la forma del non fare) dalla parte opposta. Senza che l’azione della sua anima venga in qualche modo indebolita, egli deve essere contemporaneamente dall’altra parte, alla superficie dell’altra anima che la riceve; ma non di un’anima determinata concettualmente, costruita, ma dell’anima volta a volta concreta di quest’essere singolo e unico, che vive di fronte a lui, che sta insieme a lui nella situazione comune dell’ ‘educare’ e dell’ ‘essere educato’, situazione che è una sola, solo che sta sempre dall’altra parte. E non basta che egli si rappresenti l’individualità di questo bambino; non basta neppure che lo esperisca immediatamente come persona spirituale e quindi lo riconosca; solo quando egli osserva se stesso a partire dall’altra parte, e percepisce ‘come fa’, come agisce sull’altro essere umano, egli riconosce il limite reale; immergendo il suo arbitrio nella realtà gli somministra il battesimo del volere, rinnova la propria paradossale legittimità. Fra tutti, è l’unico per cui la ricomprensione, a partire da un evento sconcertante ed edificante, può e deve diventare atmosfera” (pp. 179-180).

“Tuttavia per quanto egli sia legato al suo educando in una fiduciosa reciprocità del dare e del ricevere, la ricomprensione non può essere reciproca. Egli esperisce l’essere educato dell’educando, ma questi non può esperire l’educare dell’educatore. L’educatore si pone da entrambe le parti della situazione comune, l’educando solo da una. Nel momento in cui anche questi volesse sporgersi oltre sé ed esperire dall’altra parte, il rapporto educativo salterebbe o si trasformerebbe in amicizia” (p. 180).

“L’educatore che fa esperienza della parte opposta e le tiene testa, fa esperienza di due cose insieme: il proprio limite nell’alterità e la grazia nella solidarietà con l’altro. Egli percepisce ‘dall’altra parte’ l’accettazione o il rifiuto di ciò che si sta avvicinando (che si sta cioè avvicinando da parte sua, dell’educatore); certo spesso in modo vario solo fuggevoli stati d’animo o incerti sentimenti, ma di lì deve palesarsi ciò di cui realmente l’anima ha o non ha bisogno; allo stesso modo il fatto che un bambino ami alcuni cibi e ne rifiuti altri, certo non procura all’esperto la conoscenza di quali sostanze necessiti il corpo, ma gliela rende possibile. Nella misura in cui si accorge via via di ciò di cui ha bisogno o non ha bisogno in quel momento quest’essere umano, l’educatore giunge a conoscere sempre più profondamente ciò di cui l’uomo ha bisogno per divenire tale; ma anche a conoscere quanto egli, l’ ‘educatore’, può offrire di ciò che serve, ciò che può o non può ancora dare. Così la responsabilità nei confronti di quest’ambito di vita che gli è stato dato e affidato, nei confronti di quest’anima vivente, lo guida a ciò che può sembrare impossibile, e che tuttavia ci è in qualche modo concesso,

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all’autoeducazione. Ma qui, come ovunque, non può darsi autoeducazione se ci si occupa di se stessi, ma soltanto se ci si occupa del mondo, sapendo quel che si fa. L’educatore deve leggere nel mondo e trarre a sé le forze del mondo di cui l’educando ha bisogno per la costruzione del suo essere” (pp. 180-181).

“Educazione di esseri umani tramite esseri umani significa selezione del mondo agente tramite una persona e in essa. L’educatore raccoglie le forze costruttive del mondo. In se stesso, nel suo io riempito di mondo, egli separa, rifiuta e conferma. Le forze costruttive: sono eternamente le stesse, il mondo nella solidarietà rivolto a Dio. L’educatore si educa per divenirne strumento” (p. 181).

“Una norma e una massima costante dell’educazione non esistono e non sono mai esistite. Ciò che si chiama così, è sempre stata solo la norma di una cultura, di una società, di una chiesa, di un’epoca; norma cui, come tutti i moti e le azioni dello spirito che sono legati a qualcosa, prestava ascolto anche l’educazione, che la tradusse nel proprio linguaggio. In un eone formato non c’è in verità una normativa propria dell’educazione (anche se talvolta c’è una sua costituzione specifica); c’è soltanto nell’eone in via di formazione. Solo in questo, nella disgregazione dei legami tradizionali, nel vortice rotante della libertà, sorge la responsabilità personale, che infine con il suo carico di decisione non può più trovare appoggio in alcuna chiesa, società, cultura, che solitaria è al cospetto dell’esistente” (p. 181).

“La domanda sempre ripetuta: ‘Verso dove, a che cosa si deve essere educati?’, misconosce la situazione. Lo sanno soltanto epoche che conoscono una forma valida per tutti – il cristiano, il gentleman, il borghese, una risposta che non si esprime necessariamente in parole, ma con l’indice puntato sulla forma, che si erge chiara sopra la testa di tutti. La formazione di questa forma in ogni individuo, da ogni materiale, questa è la ‘cultura’. Ma quando ogni forma si è spezzata, quando più nessuna è in grado di conquistare la materia presente dell’umanità, di darle forma, che cosa rimane ancora da formare?

“Nient’altro che l’immagine di Dio.“Questo è l’indefinibile ‘verso dove’, solo fattuale, dell’odierno educatore che è

nella responsabilità. Non può essere una risposta teoretica alla domanda ‘a che cosa’; ammesso che si dia una risposta, essa può essere soltanto attuata. Attuata con il non fare.

“L’educatore si trova ora coinvolto nell’indigenza che esperisce nella ricomprensione, ma solo un po’ più avanti, più profondamente. Egli è coinvolto, solo un tratto più avanti, al servizio di Colui che silenziosamente invoca, nell’imitatio Dei absconditi sed non ignoti” (p. 182).

“Quando tutte le ‘direzioni’ falliscono, si erge nelle tenebre, sull’abisso, l’unica vera direzione dell’uomo, verso lo spirito della creazione, verso il soffio di Dio che stende le ali sulla superficie delle acque: verso Colui di cui non sappiamo da dove viene e dove va.

“Questa è la vera autonomia dell’uomo, il frutto della libertà, di una libertà che non è più tradimento, ma responsabilità.

“L’uomo, la creatura che forma e trasforma il creato, non può creare. Ma egli può, ciascuno può, aprirsi e aprire gli altri all’elemento della creazione. E può invocare il creatore, affinchè salvi e compia la propria immagine” (p. 182).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo:

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8. Da: E. Claparéde, L’educazione funzionale, Firenze, La Nuova Italia

“La psicologia classica che si è applicata all’indagine introspettiva del pensiero, ed ha posto l’accento sul modo in cui si svolgono i fenomeni di coscienza, non si è troppo preoccupata delle energie che davvero originavano e mettevano in movimento questo pensiero e grazie alle quali si ‘svolgevano’ questi fenomeni di coscienza. Generalmente essa ignorava le sorgenti della condotta. La vita mentale per essa rimaneva dunque qualcosa che ondeggiava tra le nuvole e di cui non si vedevano bene i legami che la collegavano alla vita terrestre e alla vita del corpo che pure la sosteneva. La psicologia funzionale facendo della vita mentale uno strumento della vita dell’organismo, evita questo difetto. Per comprendere il significato della vita mentale e dei suoi vari processi, bisogna dunque cominciare con il domandarci che cosa è la vita, o, piuttosto, che cosa è l’organismo vivente” (32-33).

“Ogni organismo vivente è un sistema che tende a conservarsi intatto. Tosto che il suo equilibrio interiore (fisico-chimico) sia rotto, e incominci a disgregarsi, effettua gli atti necessari al suo ristabilirsi. È ciò che i biologi chiamano ‘autoregolazione’. Se questo non può avvenire l’organismo muore. Si può dunque definire la vita: il continuo ristabilimento di un equilibrio continuamente rotto. Ogni reazione, ogni comportamento, ha sempre per funzione il mantenimento, la preservazione, o la restaurazione dell’integrità dell’organismo” (33).

“La rottura d’equilibrio in un organismo è ciò che chiamiamo un ‘bisogno’. Se l’organismo difetta d’acqua, diciamo che ha bisogno d’acqua. Ma questo bisogno ha la proprietà di far sorgere le reazioni adatte a soddisfarlo. Così l’organismo che manca d’acqua, comincerà ad agitarsi, a cercare, fino a quando non abbia trovata l’acqua necessaria al ristabilimento del suo equilibrio vitale” (33).

“Possiamo enunciare sotto forma di una legge, questa coordinazione fondamentale tra il bisogno e le reazioni adatte alla sua soddisfazione: ogni bisogno tende a provocare le reazioni adatte a soddisfarlo. Il suo corollario è: l’attività è sempre suscitata da un bisogno” (33).

“Si può dunque concludere che, in fin dei conti, l’eccitazione è sempre sotto il controllo del bisogno” (38).

“Quest’ultimo fatto appare con evidenza quando si consideri l’individuo nel corso del suo sviluppo. In ciascuna età egli è ‘sensibilizzato’ verso oggetti diversi: i suoi bisogni, e quelli psicologici particolarmente, mutano a mano a mano che egli progredisce. È qui il fondamento dell’evoluzione degli interessi durante l’infanzia e l’adolescenza” (38).

“A questo proposito non dobbiamo considerare lo sviluppo come una causa costante della rottura d’equilibrio organico e psicologico, come una causa di speciali bisogni? Il fanciullo che cresce ha bisogno, oltre agli alimenti destinati a ripagare le perdite che cagiona l’attività della macchina umana, di una ‘razione di crescenza’, cioè di un supplemento di alimenti indispensabili alla crescita del suo corpo. Egli ha pure bisogno di una razione psicologica di sviluppo: vediamo infatti che il fanciullo, ben lontano dall’accontentarsi di conoscere solamente ciò che sarebbe sufficiente alla soddisfazione dei suoi bisogni del momento, desidera al contrario saperne sempre di più, domanda, esperimenta, tocca, pone mano a tutto, sorpassando costantemente il limite delle necessità immediate, sollevandosi ogni momento al disopra di se stesso” (38-39).

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“Lo sviluppo, l’estensione del suo io, viene provato come un bisogno imperioso. (Questo ‘bisogno di sviluppo’, che si manifesta psicologicamente come il desiderio di sapere e di esperimentare, è un aiuto ben prezioso per l’educatore che non l’ignori!)” (39).

“La legge del bisogno è una legge biologica; essa non è propriamente una legge psicologica. Infatti il bisogno può essere soddisfatto senza che l’attività mentale intervenga: così il bisogno di respirare e tutti i bisogni intra-organici che sorgono automaticamente e senza che noi se ne abbia indizio, una gran quantità di meccanismi regolatori della temperatura del corpo, della digestione, delle secrezioni esterne ed interne, che concorrono tutti al mantenimento dell’equilibrio necessario alla vita” (41).

“Questa constatazione ci permette di comprendere un nuovo aspetto del significato della vita mentale. La vita mentale, la condotta, hanno la funzione di rimediare all’insufficienza di adattamento naturale dell’organismo. Quando l’organismo è fatto in modo da poter trovare sul posto senza muoversi – come un polipo del corallo o una spugna – tutto ciò che è necessario alla sua sussistenza, non vi è affatto bisogno di comportamento o di vita mentale. Così noi non abbiamo bisogno di attività mentale per respirare, perché l’aria ci avvolge e l’abbiamo sempre a disposizione” (41).

“Queste ultime constatazioni ci portano ad una nuova legge, che noi chiameremo la ‘Legge dell’estensione della vita mentale’: lo sviluppo della vita mentale è proporzionale alla differenza esistente tra i bisogni ed i mezzi per soddisfarli. Se la differenza è nulla (respirazione, riflessi pupillari, tosse, starnuto, secrezioni, ecc.), non vi è alcuna attività mentale. Se è molto grande (fame, che suscita l’invenzione di tutti gli strumenti da caccia e da pesca, di quelli necessari all’agricoltura, ecc.), l’attività mentale è molto estesa” (42).

“La legge precedente ha un corollario in ciò che viene chiamato ‘Legge della presa di coscienza’: L’individuo prende coscienza di un processo, di una relazione o di un oggetto, tanto più tardi quanto la sua condotta abbia implicato più presto e per più lungo tempo l’uso automatico, incosciente, di questo processo, di questa relazione, o di questo oggetto” (42).

“La legge della presa di coscienza ha per contropartita la legge della perdita di coscienza: a mano a mano che un atto si automatizza, esso diviene incosciente. L’incoscienza progressiva degli atti abituali è una banale illustrazione di questa legge” (44).

“Dobbiamo ora domandarci in quale momento si manifesta il bisogno. Per rispondere a questa domanda è necessario riportarci alla distinzione fatta più innanzi, tra i bisogni che trovano nell’ambiente immediato un alimento alla loro soddisfazione (come la respirazione) e quelli che invece non sono nella stessa condizione e necessitano, per essere soddisfatti, di una ricerca che esige spesso un tempo abbastanza lungo. Ora è evidente che, in quest’ultimo caso, il bisogno si manifesta con una certa anticipazione, cioè prima che la vita sia realmente in pericolo. Il bisogno non traduce un manifesto squilibrio, ma solamente un principio di mancanza di equilibrio” (44-45).

“D’altra parte abbiamo anche visto che tutti i meccanismi protettori dell’equilibrio organico avevano la funzione di preservarlo, dunque dovevano entrare in campo

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anticipatamente. Questa anticipazione della reazione protettrice o di adattamento ha una grande importanza per la condotta, ed è così generale, che possiamo farne una legge: ogni bisogno che, per la sua stessa natura, rischia di non poter essere immediatamente soddisfatto, si manifesta anticipatamente (cioè prima che la vita sia in pericolo)” (45).

“Conviene però far notare che i bisogni che non possono essere immediatamente soddisfatti, sono nello stesso tempo quelli che fanno ordinariamente intervenire la vita mentale. Si potrà dunque aggiungere alla legge di anticipazione il seguente corollario: ogni bisogno in cui la soddisfazione esige l’intervento dell’attività mentale (o che mobilita la condotta nel suo insieme) si manifesta anticipatamente” (45).

“D’altra parte, senza questo margine tra il manifestarsi del bisogno e la necessità reale dell’organismo, l’attività mentale sarebbe impossibile (perché essa non saprebbe più dove trovar posto), ed essa non avrebbe alcuna ragione di essere” (45-46).

“La considerazione che noi abbiamo fatto si applica anche alla curiosità e all’attività del fanciullo, perché vi è una grande analogia tra il fanciullo e lo scienziato. La curiosità infantile sembra anch’essa avere uno scopo disinteressato, senza rapporto con le necessità immediate dell’azione. Ciò dipende dal fatto che essa risponde a un bisogno di sviluppo e che gli interessi da essa suggeriti anticipano il momento in cui essi saranno direttamente utili alla condotta. La legge di anticipazione è, come si vede, implicita in quella dell’estensione della vita mentale, ed essa si trova egualmente nella legge dell’interesse momentaneo” (46-47).

“Abbiamo parlato fino ad ora del bisogno. Ma in realtà, l’individuo, benchè il bisogno sia infatti la causa che lo muove, persegue sempre un oggetto, tende ad un fine obbiettivo e non solamente alla eliminazione di un bisogno. Se può darsi che non sia sempre così quando si tratta di bisogni organici, è il caso generale quando si tratti di bisogni psicologici che mettono in moto, in ogni momento, la nostra attività mentale. Questi bisogni in certo senso si proiettano nel mondo esteriore e vi si trasfigurano. Essi appaiono a noi come degli oggetti da raggiungere. L’uomo affamato desidera del pane, e non la scomparsa della sua fame; l’uomo ingordo un pasto succulento, e non la scomparsa della sua ingordigia (sparizione che egli rimpiangerà quando il pasto sarà finito). Un dolore (quantunque indice di un disquilibrio organico) è per noi un oggetto da evitare, non un bisogno di equilibrio da soddisfare. In altri termini, la nostra condotta ha una portata positiva e non negativa. Essa è mutata, psicologicamente parlando, non da un bisogno, ma da un interesse” (47-48).

“Interesse è ciò che ci preme ad un dato momento, ciò che ha valore di azione, perché risponde ad un bisogno. L’oggetto che è capace di soddisfare il bisogno, ci sembra interessante da raggiungere, e noi vi uniformiamo la nostra condotta. Possiamo dunque formulare una legge dell’interesse, che non è, in un certo senso, che un aspetto più generale, ed anche più psicologico della legge del bisogno: ogni condotta è dettata da un interesse. Cioè: ogni azione consiste nel raggiungere il fine che ci preme in un dato momento” (48).

“La parola ‘interesse’ esprime una relazione di convenienza tra il soggetto e l’oggetto che a lui preme in un dato momento. L’interesse non è dunque, evidentemente, una qualità oggettiva delle cose. Esse non divengono interessanti che nella misura in cui esse si riferiscono a un bisogno, nella misura che esse possono determinare la condotta, nel senso che necessita al soggetto. Il pane non ha per noi dell’interesse, se non

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desideriamo mangiare. E allora la vista del pane determina la condotta in una maniera adeguata” (48).

“Le cose si svolgono come se le reazioni che, presenti nel soggetto ad un dato momento, fossero dinamogenizzate. L’interesse non è un agente misterioso. Constatiamo continuamente, osservando un uomo o un animale in attività, che alcune reazioni si effettuano, altre non si effettuano. Noi chiamiamo ‘interesse’ ciò che causa la messa in attività di alcune reazioni. Questa causa non è solamente il bisogno; non è l’oggetto preso da solo; è l’oggetto nella sua relazione con il bisogno. La reazione effettiva è la risultante dell’azione combinata del bisogno e del fattore ambientale (eccitamenti esterni). È questa sintesi causale che noi chiamiamo ‘interesse’” (48).

“[…] Parecchi bisogni, e per conseguenza parecchi interessi, possono manifestarsi simultaneamente. Che cosa accade? Quale di questi bisogni susciterà l’azione? Perché, evidentemente, l’individuo non può realizzare parecchi modi di comportarsi in una sola volta, non può nello stesso tempo mangiare e dormire, combattere e amoreggiare. Ebbene, come in ogni conflitto, il più forte prevarrà: è il bisogno più urgente al momento considerato, è l’interesse più intenso che domina gli altri e produce la reazione. Abbiamo giudicato utile di notare questo fatto fondamentale della condotta, sotto forma di legge: la legge dell’interesse momentaneo: in ogni istante un organismo agisce seguendo la via del suo maggiore interesse” (50).

“La legge dell’interesse momentaneo ci dimostra dunque che un interesse che si manifesti improvvisamente può far allontanare un interesse precedente e non ancora soddisfatto esso stesso; e così pure, un interesse bruscamente soddisfatto può liberare un altro interesse soggiacente, momentaneamente soffocato da esso” (52).

“Quando un organismo, provando un bisogno, non è fornito di riflessi e di istinti adatti a soddisfarlo, che cosa succede? Ebbene, questo organismo mette in azione quelle reazioni che gli sono state precedentemente giovevoli in situazioni analoghe. È ciò che viene espresso nella nostra legge della riproduzione del simile: ogni bisogno tende a riprodurre le reazioni (o situazioni) che gli sono state anteriormente giovevoli, a ripetere la condotta che è riuscita precedentemente in una simile circostanza” (54).

“È quasi inutile, a nostro avviso, dare degli esempi di questa legge. La prima cosa che facciamo quando siamo presi alla sprovvista, è di ripetere ciò che abbiamo fatto precedentemente in circostanze analoghe. Noi giudichiamo i casi nuovi e vi ci adattiamo alla luce di un caso passato, nel quale possiamo trovare delle analogie” (55).

“Questa tendenza alla riproduzione del simile è così forte che, sorpassando il suo scopo, essa è una frequente occasione di errori: un bambino è stato morso da un cane; egli crederà che ogni cane lo voglia mordere. Sapendo che da ‘salire’ si ha ‘salito’, da ‘morire’ ricaverà ‘morito’” (56).

“La riproduzione del simile può essere impossibile, quando la situazione è completamente nuova. Oppure essa è inoperante. Che cosa accade allora? Vediamo manifestarsi in questo caso un nuovo tipo di condotta che ha un chiaro significato funzionale: il tentativo. Si può enunciare con questa legge: quando la situazione è così nuova che non richiama alcuna associazione di similitudine, o quando la ripetizione del simile è inefficace, il bisogno fa sviluppare una serie di reazioni di ricerca, reazioni di prove, di tentativi” (57).

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“Quando, per una ragione o per l’altra, un bisogno non può essere soddisfatto, entra in campo un nuovo meccanismo: la compensazione. È poiché questo meccanismo è molto generale, nell’economia dell’organismo possiamo farne una legge: quando l’equilibrio rotto non può essere ristabilito da una reazione adeguata, esso è compensato da una reazione contraria alla reazione che suscita” (58).

“Compensare non è sopprimere la mancanza che provoca il bisogno: è controbilanciarla con un apporto in senso contrario” (58).

“Soprattutto dopo i lavori di Adler, a partire dal 1907, la nozione della compensazione ha interessato le indagini degli psicologi dell’infanzia e degli educatori. Secondo Adler, la maggior parte dei difetti dei fanciulli sarebbe dovuta alla compensazione di qualche inferiorità congenita. Questa nozione è d’altronde tra le più feconde” (58).

“Qualche volta è difficile distinguere la compensazione, che non è che uno stratagemma per mascherare un disquilibrio, dalla soddisfazione reale di un bisogno, che stabilisce di nuovo questo equilibrio. Così, nei giochi dei fanciulli, troviamo questi due processi. Sono stati descritti i giochi dei fanciulli come se fossero dei veri e propri fenomeni di compensazione. L’attività del gioco compenserebbe l’insufficienza delle loro attività utili. Ma in tal modo si va troppo lontano. Se è vero che il fanciullo, sotto l’impulso dello sviluppo, presenta un bisogno a superare la realtà che gli resiste e può facilmente trovare una fittizia soddisfazione nel gioco, il gioco soddisfa innanzitutto il bisogno di sviluppo del fanciullo e non è solamente uno stratagemma che gli nasconde la sua debolezza” (59).

“In certi casi, è vero, il gioco è puramente compensatore. Il gioco dell’adulto, particolarmente. Ed anche nel fanciullo, soprattutto se egli soffre di inferiorità, il gioco può permettergli di avere un posto di dominatore che la vita reale gli interdice. In questo caso noi abbiamo una forma di compensazione affettiva. Ma è piuttosto il contenuto del gioco, che il gioco stesso, che ha questo valore compensatore. Il gioco in se stesso, in quanto gioco, soddisfa una tendenza profonda del fanciullo” (59).

“Per terminare formuliamo ancora un’ultima legge funzionale, che merita anch’essa di attirare l’attenzione dell’educatore: in ogni momento del suo sviluppo un essere animale costituisce un’unità funzionale, cioè le sue capacità di reazione sono appropriate ai suoi bisogni. In altri termini, un fanciullo considerato in se stesso non è un essere imperfetto, un adulto incompleto, ma un individuo che possiede la propria autonomia” (59-60).

“Questa legge ha grande importanza per la pratica educativa? Certamente. Essa infatti contribuisce quanto le altre a trasfigurare l’immagine che fino a qui ci si era fatti del processo educativo. Se il fanciullo è un essere ‘autonomo’, completo, avente una sua propria vita e propri bisogni, si può trarne la conseguenza che l’educazione non è, dal punto di vista del fanciullo, una preparazione alla vita, ma che essa è una vita” (60).

“Essendo nostro scopo quello di dimostrare come la concezione dell’infanzia di Rousseau concordi fedelmente con quella che oggi è diffusa tra i biologi e gli psicologi, è necessario richiamare sommariamente le tre fonti dalle quali questa concezione prende origine” (64).

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“Innanzitutto la dottrina evoluzionistica. […] Bisognerebbe ricordare le numerose opere sorte sotto l’influenza della famosa legge biogenetica che hanno condotto Spencer e soprattutto Stanley Hall e i suoi discepoli a considerare l’infanzia come un periodo di ricapitolazione che è indispensabile e necessario alla formazione dell’adulto” (64-65).

“Partendo da una concezione molto diversa, la scuola pragmatistica, con W. James, J. Dewey, I. King, secondo la quale l’uomo è innanzitutto un essere in azione, considera l’attività umana sotto il punto di vista della psicologia funzionale o dinamica, che si oppone alla psicologia statica, strutturale. Il punto di vista funzionale consiste nel ricercare, non solamente in virtù di quale meccanismo un uomo (o un fanciullo) si comporti in tale o in tal altra maniera, ma perché egli agisca in un dato modo, in un dato momento. L’attività psichica infatti non deve essere mai disgiunta dalle condizioni ambientali che l’hanno fatta sviluppare” (65).

“Applicato al fanciullo, questo metodo funzionale ci fa interpretare i suoi atti riferendoli ad una misura non estranea alla sua mentalità, ma agli stessi bisogni che essi hanno per scopo di soddisfare. Per rendersi conto di questi bisogni, delle esperienze che fa il fanciullo, e nelle quali il suo io è impegnato, è necessario mettersi al suo livello, considerare la sua vita in se stessa come un tutto autonomo. I pragmatisti sono dunque giunti ad accordare all’infanzia come tale un’attenzione particolare e a respingere l’opinione di coloro che, ostinandosi a confrontare i processi mentali del fanciullo con quelli dell’adulto che prendono come regola, riducono l’infanzia ad uno stato d’imperfezione che non meriterebbe di essere l’oggetto di una scienza” (65).

“È interessante notare che l’evoluzionismo ed il pragmatismo, i cui metodi sono in un certo senso opposti, poiché l’uno considera il fanciullo dal punto di vista della razza, e l’altro rispetto al fanciullo in se stesso, giungono, ciononostante, a conclusioni identiche sull’importanza funzionale e l’autonomia della vita infantile” (65).

“Gli educatori, da parte loro – almeno coloro che osservano e riflettono – sono giunti per vie del tutto differenti allo stesso punto dei biogenisti e dei pragmatisti. L’inefficacia desolante dei comuni metodi scolastici, dai quali non si può ricavare nulla se non contrariando gli scolari, e che portano infatti ad un sovraccarico per la loro memoria senza nessun vantaggio per il loro sviluppo intellettuale e morale, il fatto che l’estendersi dell’istruzione non abbia fatto conseguire una diminuzione della criminalità, una specie di intuizione delle necessità psicologiche, tutti questi fattori li hanno indotti a pensare che si seguisse una falsa strada, impiegando metodi che non considerano il fanciullo che esteriormente, e che sarebbe preferibile mettere in campo la sua stessa attività, affinchè il suo sviluppo divenga più libero e spontaneo” (65-66).

“Questi educatori, di cui molti sono al corrente del movimento psicologico e biologico, ma di cui la maggior parte, nonostante ciò, non sono che semplicemente degli uomini di esperienza di insegnamento, ciò che aumenta ancor più l’interesse del loro incontro con gli psicologi – questi educatori preconizzano dunque, in opposizione allo sterile sistema del ‘rimpinzamento’ scolastico, una pedagogia che si rivolga alle interiori energie dello scolaro. Poiché per mettere in movimento questi fattori interiori, è necessario conoscerli, i pedagogisti si interessano particolarmente allo sviluppo spontaneo del fanciullo e rivolgono alla sua vita ed alle sue attività naturali un’attenzione completamente nuova; i loro sforzi in questo senso si vengono ad unire felicemente a quelli degli scienziati e dei filosofi” (66).

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“[…] Le fondamentali affermazioni alle quali ha condotto la scienza del fanciullo nella forma più recente, si trovano tutte chiaramente espresse nell’Emilio. Per abbreviare noi cercheremo di esprimere queste affermazioni sotto forma di alcune formule, alle quali si potrà anche dare il nome di leggi, poiché esse sembrano esprimere dei rapporti costanti. Queste leggi sono in numero di cinque: legge di successione genetica, legge di esercizio genetico-funzionale, legge di adattamento (o di utilità) funzionale, legge di autonomia funzionale, legge di individualità” (69).

“Ritroviamo ammesse tutte queste leggi, implicitamente o esplicitamente, da Rousseau, il quale pone il loro contenuto come verità evidenti sulle quali egli basa le sue argomentazioni e requisitorie. Potremo riunire quasi tutto l’Emilio sotto queste cinque leggi” (69).

“Legge della successione genetica: Il fanciullo si sviluppa naturalmente passando da un certo numero di stadi che si succedono in un ordine costante. È questa la legge generale. Essa ha un corollario: questi stadi sono gli stessi di quelli che ha percorso lo spirito dell’umanità. Di qui è stata tratta una pratica applicazione: l’educazione deve conformarsi al cammino dell’evoluzione mentale” (69).

“Legge di esercizio genetico-funzionale: Questa legge ne implica realmente due, che si potranno enunciare così: 1) L’esercizio di una funzione è la condizione del suo sviluppo (è questa le legge di esercizio funzionale); 2) L’esercizio di una funzione è la condizione del manifestarsi di certe altre funzioni ulteriori (è questa la legge di esercizio genetico)” (71).

“Legge di adattamento funzionale: Abbiamo visto che le diverse funzioni si sviluppano con l’esercizio. Ma questo esercizio, salvo rari casi in cui è l’unica conseguenza di uno stimolo interiore, richiede, per compiersi, delle condizioni esterne. Quali sono queste condizioni di attività? L’azione si attua quando essa è di natura tale da soddisfare il bisogno o l’interesse del momento. In tal modo si può formulare questa legge che non è che un corollario della legge dell’interesse momentaneo. Ed ecco la regola di applicazione pratica che ne deriva naturalmente: per fare agire un individuo, è necessario porlo nelle condizioni adatte a far nascere il bisogno che l’azione che si desidera suscitare ha per funzione di soddisfare” (74).

“Legge di autonomia funzionale: Il fanciullo non è considerato, in se stesso, un essere imperfetto; egli è un essere adattato a circostanze che gli sono proprie; la sua attività mentale è appropriata ai suoi bisogni e la sua vita mentale costituisce un’unità” (77).

“[…] La scuola pragmatico-biologica pone l’accento sull’aspetto pratico dell’attività del fanciullo. Da questo punto di vista poco importa se i suoi processi intellettuali rassomiglino o no a quelli dell’adulto; questi processi non sono considerati che come strumenti di adattamento all’ambiente circostante. Bisogna riferirli non a quelli dell’adulto, ma alla vita stessa del fanciullo, alla sua esperienza considerata come un tutto, come un’unità. In una parola bisogna giudicare il fanciullo dal suo stesso punto di vista, bisogna parlargli in termini appropriati alla sua esperienza. Del resto, il sentimento interiore del fanciullo corrobora la giustezza di questo modo di procedere: il fanciullo non ha affatto l’impressione di essere imperfetto; non sente delle manchevolezze, delle lacune, come un muto o, supponiamo, un cieco psichico, o qualcuno che abbia dimenticato la geografia o una regola grammaticale” (78).

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“Legge d’individualità: Ogni individuo differisce più o meno dagli altri individui, riguardo ai caratteri fisici e psicologici” (81).

“L’intelligenza è un moto dello spirito che deve portarlo dall’inadattamento all’adattamento, dallo stato di impotenza allo stato di potenza. […] Si possono distinguere in questo movimento di riadattamento tre fasi o operazioni differenti, che non mancano mai, anche se qualche volta la loro successione è così rapida che rimane difficile distinguerle nettamente. L’una, punto di partenza di operazioni intellettuali, è il problema; la seconda è la ricerca o scoperta dell’ipotesi; la terza, infine, è il controllo, la verifica dell’ipotesi immaginata. Questo stesso movimento è suscitato, come abbiamo già detto, da un urto, da uno scontro, consistente esso stesso in una sospensione di azione. Ora l’interesse che questa azione ha lo scopo di soddisfare, esige che l’azione sia continua. È opera dell’intelligenza trovare il mezzo di continuarla” (97).

“Il problema – Questa prima fase, quasi completamente trascurata dagli psicologi, è di importanza fondamentale. È la presa di coscienza del problema o della difficoltà da risolvere, cioè la direzione verso la quale sarà necessario cercare. Per cercare in una maniera efficace, bisogna sapere ciò che si cerca, bisogna essersi posto il problema. La natura stessa di questo problema determinerà tutto l’orientamento del processo di ricerca. La funzione del problema è dunque chiara: essa è un richiamo dell’attività mentale in una certa direzione ed in rapporto ad un riadattamento; essa non è dunque che un caso particolare della legge dell’interesse momentaneo. Essa dirige l’attività mentale nel senso richiesto dal bisogno del momento” (97-98).

“Formazione dell’ipotesi – L’individuo si è posto una domanda. Cerca una risposta. Quale è il modo di procedere della sua mente nel corso della ricerca? Due casi molto differenti si offrono all’osservazione. O la risposta alla domanda è immediata, oppure vi è realmente una ricerca” (99).

“Abbiamo dunque qui da considerare solamente il caso in cui la domanda suscita una ricerca. Questa ricerca ha per oggetto la scoperta dei mezzi per risolvere il problema, e questi mezzi si presentano innanzitutto alla mente come delle ipotesi. Come sorgono queste ipotesi? La creazione dell’ipotesi, si sa, non è né opera della volontà, né del ragionamento; essa è opera dell’immaginazione. Una questione è stata posta, un numero più o meno grande di ipotesi si presentano spontaneamente alla mente, ed essa le respinge, le sceglie, sino a quando non ne abbia trovata una che soddisfa alle esigenze della situazione” (100).

“La scoperta dell’ipotesi è funzione non solamente della natura della questione, ma anche del numero di associazioni esistenti, del sapere dell’individuo. Quale che sia la forma generale dei problemi d’intelligenza (problemi di comprensione o problemi d’invenzione, problemi di ricostruzione o di critica), la soluzione di essi richiede sempre la formazione di ipotesi” (101).

“Il controllo dell’ipotesi – Così, come nel procedimento del tentativo degli animali, le reazioni inutili sono a poco a poco eliminate, così negli atti di pensiero intelligente le ipotesi cattive sono respinte a mano a mano che esse si presentano. aL contrario,le ipotesi plausibili sono trattenute. Come si opera questo processo di scarto e di accettazione? Consultate le opere di psicologia; non vi apprenderete molte cose su questo argomento. […] Non troverete alcuna esposizione basata sull’osservazione e sull’esperienza. È un problema nuovo che richiede degli studiosi” (101).

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“Il principio della Scuola attiva ha la sua naturale origine dalla legge fondamentale dell’attività degli organismi, che è la legge del bisogno, o dell’interesse: l’attività è sempre suscitata da un bisogno. Un atto che non è direttamente o indirettamente collegato ad un bisogno, è una cosa contro natura. E questa cosa contro natura è ciò che la scuola tradizionale si ostina ad ottenere dai suoi disgraziati scolari: far fare loro, dalla mattina alla sera e dal gennaio al dicembre, delle cose che non rispondono ad alcun bisogno di questi ragazzi. Questi atti, questi sforzi che si richiede da loro, non essendo regolati dalla legge del bisogno, si è obbligati, per suscitarli, a ricorrere ad una serie di mezzi, punizioni, cattivi punti, ricompense, esami, minacce, ecc., che hanno l’efficacia che ognuno conosce” (131).

“La scuola tradizionale richiede questa mostruosità psicologica: atti con non rispondono ad alcun bisogno; dunque atti senza causa. La Scuola attiva, al contrario, è fondata sul principio del bisogno. Per fare agire il vostro scolaro mettetelo nelle circostanze nelle quali venga a provare il bisogno di compiere quell’azione che voi attendete da lui. La Scuola attiva non ha altro fondamento psicologico oltre a questo. Questo principio funzionale non è, notiamolo bene, una concezione del pensiero, un’ipotesi metafisica. È l’espressione di un fatto di osservazione di tutti i giorni e di tutti i momenti. È il bisogno che mette in moto gli individui, gli animali, gli uomini, che fa vibrare gli stimolanti interiori della loro attività. È ciò che si può notare dappertutto e sempre; salvo, è vero, nelle scuole, perché esse solo al di fuori della vita” (131).

“[…] Come dare agli scolari dei motivi d’azione? Come giungere a far sì che essi desiderino con tutte le loro forze di imparare l’aritmetica, la storia, l’ortografia?… La soluzione di questo problema appare quasi disperata. Essa, ciononostante, non lo è per colui che tiene conto degli insegnamenti della psicologia del fanciullo. Costui saprà che il fanciullo è un essere di cui uno dei principali bisogni è il gioco. Ed è proprio perché ha questo bisogno che è un fanciullo; si può dunque considerare la tendenza al gioco come qualcosa di essenziale alla sua stessa natura. Il bisogno di giocare: è proprio questo l’elemento che potrà riconciliare la scuola con la vita, fornire allo scolaro questi stimolanti all’azione che si pretendeva essere impossibile trovare nell’aula di scuola. Qualunque sia l’attività che voi volete far compiere al fanciullo, se avrete trovato il mezzo di presentargliela in modo che egli la veda come un gioco, essa sarà suscettibile di liberare a suo profitto dei tesori di energia. La stessa pagina di storia, secondo che debba essere imparata a memoria per una ‘recitazione scritta’, oppure serva di tema all’organizzazione di un quadro vivente, susciterà delle reazioni diametralmente opposte!” (132).

“Il gioco è dunque, per la realizzazione pratica della scuola attiva, di una importanza fondamentale. È esso che ci permetterà di realizzare nella scuola il principio funzionale. È questo il punto di unione della scuola con la vita; il ponte levatoio grazie al quale la vita potrà penetrare nella fortezza scolastica, da cui torri e muraglie sembravano separarla per sempre” (132-133).

“Il principio funzionale, che ci ricorda che l’azione ha sempre la funzione di rispondere ad un bisogno (organico o intellettuale), ci rivela nello stesso tempo quale sia il significato biologico del sapere, delle conoscenze che veniamo ad acquistare. Questo sapere non ha valore che in quanto serve ad adattare la nostra azione e a permetterle di giungere il meglio possibile al suo scopo, la soddisfazione del desiderio che l’ha fatta nascere” (134).

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“Che il sapere non ha alcun valore funzionale e non è fine a se stesso, è questo un altro punto che la Scuola attiva non deve mai perdere di vista. È alla luce di questa verità che essa stabilirà i suoi programmi. Il sapere al servizio dell’azione. Schematizziamo ora le tappe del processo educativo della Scuola attiva, per meglio fissare le idee, nella maniera seguente: 1. Risvegliarsi di un bisogno (di un interesse, di un desiderio) mettendo lo scolaro nella situazione adatta a suscitare questo bisogno o questo desiderio. 2. Sviluppo da questo bisogno della reazione propria a soddisfarlo. 3. Apprendimento di conoscenze adatte a controllare questa reazione, a dirigerla, a condurla al fine che essa si era proposta. Come siamo lontani dal sistema tradizionale che, falsando la relazione di questi due ultimi termini, mette l’azione al servizio del sapere, e che non dà alcun posto al desiderio!” (134-135).

“Come abbiamo già detto, il termine ‘attività’ è ambiguo. Vi sono almeno due principali accezioni, entrambe del tutto legittime. Ma una sola di queste accezioni è implicita nella nozione della Scuola attiva. Nonostante ciò queste due accezioni sono molto vicine. Si comprenderà quindi come i sostenitori della scuola attiva abbiano potuto scivolare senza accorgersene dall’una all’altra, tanto più che la psicologia comune non le ha mai nettamente distinte. È necessario dunque farlo qui, sia pur brevemente” (136).

“In una prima accezione, attività ha un senso funzionale; è quello che abbiamo considerato precedentemente. È attiva una reazione che risponde ad un bisogno, che sorge per un desiderio, avente il suo punto di partenza nell’individuo che agisce attraverso uno stimolo interno all’essere operante. In questo senso l’attività si oppone alla costrizione, all’obbedienza, alla ripugnanza o indifferenza” (136).

“In una seconda accezione, ‘attività’ significa effettuazione, espressione, produzione, processo centrifugo; mobilitazione di energia, lavoro. Qui, attività si oppone a recezione, a ideazione, a sensazione, impressione, immobilità”. (136).

“Riassumiamo sotto forma di tabella queste due specie di attività, con le caratteristiche proprie a ciascuna di esse ed ai loro opposti:

I – Senso funzionale

Attività Passività

Bisogno, interesse DisgustoDesiderio IndifferenzaDisciplina interiore Disciplina esterioreStimolanti interiori Stimolanti esterioriConsenso del soggetto ResistenzaSpontaneità, libertà Costrizione, obbedienzaAttenzione spontanea Disattenzione, attenzione

volontaria (con sforzo)

II – Senso di effettuazione

Attività Passività

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Espressione ImpressioneProduzione (o riproduzione) RecezioneEsteriorizzazione IdeazioneReazione SensazioneProcesso centrifugo Processo centripetoInvenzione ComprensioneMovimento ImmobilitàLavoro (scuola-officina) Lettura (scuola libresca)” (pp. 136-137).

“[…] L’attività, nel più alto significato del termine, è l’attività nel senso funzionale, nel primo senso. Ma se si combinano il bisogno e l’esteriorizzazione, si otterrà un’addizione di elementi favorevoli e si potrà dire allora di aver realizzato l’attività nel significato più completo del termine” (138).

“1. Nei paeci ‘civilizzati’ la scuola, tanto pubblica che privata (a parte qualche fortunata eccezione), consacra una serie di eresie fisiologiche, psicologiche e biologiche, contro cui le Leghe di igiene mentale dovrebbero lottare senza tregua né riposo. Eresie anche morali, perché quanto spesso la scuola ha ucciso nel fanciullo il piacere del lavoro ed ha proiettato un’ombra che il ricordo non cancellerà sugli anni dell’infanzia?” (156).

“2. La scuola, per adempiere alla sua funzione nella maniera più adeguata, deve ispirarsi ad una concezione funzionale dell’educazione e dell’insegnamento. Questa concezione consiste nel prendere il fanciullo come centro dei programmi e dei metodi scolastici e nel considerare la stessa educazione come un progressivo adattamento dei processi mentali a certe determinate azioni con determinati desideri” (156).

“3. Il fondamento dell’educazione deve essere non il timore del castigo, né il desiderio di una ricompensa, ma l’interesse, l’interesse profondo per la cosa che si tratta di assimilare o di eseguire. Il fanciullo non deve lavorare, comportarsi bene per obbedire ad altri, ma perché questo modo di comportarsi è sentito da lui come desiderabile. Insomma, la disciplina interiore deve sostituire la disciplina esteriore” (156).

“4. La scuola deve preservare il periodo dell’infanzia. Spesso essa lo abbrevia bruciando le tappe che dovrebbero essere rispettate” (156).

“5. L’educazione deve tendere a sviluppare le funzioni intellettuali e morali, più che ad empire il cranio di una massa di cognizioni che (quando non sono subito dimenticate), rimangono molto spesso delle cognizioni morte, trattenute nella memoria come dei corpi estranei, senza riferimento alla vita” (156-157).

“6. La scuola deve essere attiva, cioè mettere in moto l’attività del fanciullo. Essa deve essere un laboratorio più che un uditorio. A questo scopo essa potrà trarre un utile vantaggio dal gioco, che stimola al massimo l’attività del fanciullo” (157).

“7. La scuola deve fare amare il lavoro. Troppo spesso essa insegna a detestarlo, creando intorno ai doveri che impone delle associazioni affettive sgradevoli. È dunque indispensabile che la scuola sia per il fanciullo un ambiente piacevole, nel quale egli lavori con entusiasmo” (157).

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“8. Poiché la vita che attende il fanciullo all’uscita dalla scuola è una vita in seno all’ambiente sociale, presentare il lavoro e le materie di studio sotto un aspetto vitale è anche presentarli sotto il loro aspetto sociale, come degli strumenti di azione sociale (ciò che essi sono in realtà). La scuola ha troppo trascurato questo aspetto sociale, e, portando il lavoro fuori del suo contesto naturale, essa ne ha fatto qualcosa di vuoto e di artificiale” (157).

“9. In questa nuova concezione dell’educazione, la funzione del maestro è completamente trasformata. Egli non deve essere più un onnisciente incaricato di impastare l’intelligenza e di riempire la mente di cognizioni. Deve essere uno stimolatore di interessi, un risvegliatore di bisogni intellettuali e morali. Deve essere per i suoi scolari ben più un collaboratore che un insegnante ex cathedra. In luogo di limitarsi a trasmettere loro delle cognizioni che egli stesso possiede, li aiuterà ad acquistarle da loro stessi con un lavoro e con ricerche personali. La sua principale virtù sarà l’entusiasmo, non l’erudizione” (157).

“10. Questa nuova concezione della scuola e dell’educazione implica una trasformazione completa nella formazione dei maestri, degli insegnanti di tutti i gradi. Questa preparazione deve essere innanzi tutto psicologica” (157).

“11. L’osservazione dimostra che un individuo non rende che nella misura in cui si fa appello alle sue qualità naturali, e che è perdere il tempo l’intestarsi a sviluppare in lui delle capacità che non ha. È dunque necessario che la scuola tenga maggiormente conto delle attitudini individuali e si avvicini all’ideale della ‘scuola su misura’. Vi si potrà pervenire, lasciando nei programmi, accanto ad una parte minima di programma comune e obbligatorio per tutti che riguardi le materie indispensabili, un certo numero di materie a scelta che gli interessati potranno approfondire di loro iniziativa, mossi dal loro interesse e non dall’obbligo di sostenere in esse un esame” (157-158).

“12. Una democrazia, più di ogni altro regime, ha bisogno di una élite; élite intellettuale e morale. È così dunque nell’interesse della società, così come degli individui, di selezionare i fanciulli ben dotati e di porli nelle condizioni più atte allo svilupparsi delle loro speciali attitudini” (158).

“13. Le riforme qui preconizzate saranno possibili solo se il sistema degli esami verrà profondamente trasformato. La necessità dell’esame spinge gli insegnanti, loro malgrado, a sovraccaricare la memoria più che a sviluppare l’intelligenza. Salvo, forse, per un minimo di cognizioni indispensabili, gli esami dovrebbero essere soppressi, e sostituiti da una valutazione data in base ai lavori individuali fatti durante l’anno, oppure per mezzo di studi adeguati” (158).

“14. La psicologia sperimentale è in grado di fornire alla pedagogia pratica dei metodi adatti al controllo del valore dei metodi didattici e del rendimento scolastico. Essa ci fornisce anche dei metodi per la valutazione mentale (tests mentali)” (158).

“15. L’inerzia ed il comune andazzo delle amministrazioni, essendo tacitamente sostenuti dall’indifferenza del gran pubblico, o dalla sua incomprensione per le riforme da compiere, le Leghe di igiene mentale dovranno intraprendere, in tutti i paesi, un’intensa propaganda in favore delle idee nuove” (158).

“Quadro dei rapporti fra la Scienza del fanciullo e la Pedagogia

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Scienza del fanciulloPura: Pedologia(Psicologia infantile o psicopedologia; Patologia infantile; Fisiologia infantile, ecc.)

Applicata: PedotecnicaAlla medicina (Pediatria): Psichiatria infantile; Clinica infantile; Igiene infantile,

ecc.Al diritto (Pedotecnica giudiziaria): Criminologia infantile, ecc.All’educazione (Pedagogia sperimentale): Psicopedagogia; Pedagogia medica o

Ortofrenia; Igiene scolastica

PedagogiaPedagogia sperimentale (v. sopra)Pedagogia dogmatica – Scopi ultimi: Morale, Metafisica, Religione, Estetica, Teoria dell’ideale; Scopi prossimi: Sociologia, ContingenzePedagogia storica – Storia della pedagogiaPropedeutica – Tirocinio dell’arte educativaAmministrativa – Sistemi scolastici, ecc.” (40).

“Quale è l’ufficio dell’infanzia? Giocare e imitare. S’è fanciulli non perché non abbiamo esperienza, ma perché sentiamo naturalmente il bisogno di farcela; non perché non siamo adulti, ma perché ci sentiamo trascinati a fare tutto ciò che è necessario per diventare adulti. Ora – come abbiamo visto – questa tendenza istintiva allo sviluppo si esplica mediante il gioco e l’imitazione. L’attività giovanile, la mentalità del fanciullo, fissiamolo bene, non deriva necessariamente dalla semplice mancanza di esperienza o di sviluppo, come è l’opinione comune. Non basta l’imperfezione funzionale a darci il fanciullo […]. Si è fanciulli, non perché si ignora, ma perché si desidera di sapere, di raggiungere un grado superiore di sviluppo” (126).

“Il fanciullo è dunque fanciullo non per la sua imperfezione, ma perché diverrà. Si capisce ora perché, nel corso dell’evoluzione, le specie animali di infanzia più lunga siano state protette: perché appunto dovevano raggiungere un grado superiore di sviluppo. Infatti, prolungandosi l’infanzia, si prolunga quel periodo di plasticità, in cui l’animale gioca, imita, sperimenta, cioè accresce la sua capacità di agire, e aggiunge, all’insufficiente capitale di esperienze trasmessegli dall’eredità, il frutto dell’esperienza propria. Con l’età adulta lo sviluppo cessa, e le forme assumono una certa stabilità: e l’infanzia vuole appunto tener lontano, più che è possibile, questo momento in cui l’individuo, perdendo la sua attitudine a divenire, si fissa definitivamente nella sua forma, come il ferro che il fabbro lascia raffreddare” (126).

“[…] L’infanzia è la forma stessa che lo sviluppo dell’individuo assume; e perciò l’educatore deve tener conto di tutte le manifestazioni di questo stato, e, invece di ostacolare la natura, stimerà miglior partito di secondarla, anche a costo di riuscire ad un fiasco. La natura, quello che fa, fa bene; ed è, nella biologia, maestra più sicura di tutti i pedagoghi del mondo, dei quali dovrebbe essere la guida migliore nel curare lo sviluppo del fanciullo” (128),

“Ora, che cosa ci mostra la natura? Essa ha dato al fanciullo bisogni, desideri, corrispondenti alle esigenze dello sviluppo; e tutto ciò che può soddisfare questi bisogni

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e attuare questi desideri, esercita un’attrattiva particolare su di lui. Le attività necessarie al fanciullo per il suo sviluppo e aventi un ufficio educativo, si esplicano nel gioco; e l’imitazione, se vi interviene, si presenta sempre come gioco o è richiesta da un gioco” (128).

“Possiamo trovare qui gli elementi fondamentali di una pedagogia, che è, credo, la vera; quella cioè che vuole esercitare un’attività nel fanciullo solo in quanto se ne trova nel fanciullo il bisogno naturale, o dopo averlo abilmente suscitato in esso quando non vi sia istintivo; così da destare nel fanciullo l’interesse per l’oggetto di quell’attività e il desiderio di raggiungerlo, e da conferire all’attività stessa la forma di gioco” (128).

“Un’educazione che si attenga alle leggi dello sviluppo naturale del fanciullo, che è poi la sola feconda di buoni frutti, deve dunque essere attraente; la materia da insegnare deve essere interessante per lo scolaro; e allora l’attività e lo sforzo che questi dispiega e compie per assimilarla e farla propria, prendono naturalmente forma di gioco” (128-129).

“Il fanciullo deve essere messo in grado di compiere sforzi; ma, sotto pretesto di abituarvelo, non bisogna però disgustarlo o rendernelo incapace per sempre” (129).

“Distinguiamo fra l’insegnamento dello sforzo, e l’insegnamento con lo sforzo. Questo non renderà certo possibile quello: non si creda di sviluppare, nel fanciullo, la capacità di sostenere sforzi nella vita, imponendogli senz’altro degli sforzi inopportuni” (129).

“Noi sosteniamo uno sforzo, compiendo un lavoro difficile e gravoso, che richiede attenzione fissa e perseverante; e lo sforzo consiste appunto nel fermare l’attenzione, che ci sfugge o vien meno. Perché l’attenzione ci sfugge? Perché non può mantenersi fissa sullo stesso oggetto? […] Perché subentrano i bisogni generali dell’organismo, che, per natura sua, si oppone alla fatica; e, come un buon bestione che non riesca a capacitarsi come lo spirito possa esaurirsi nella soluzione di problemi speculativi o in altri, non richiesti da bisogni immediati, esso non si preoccupa che di conservare una salute perfetta” (131-132).

“Lo spirito si abbandona agli slanci della sua natura, slanci apparentemente inutili; la bestia si leva ad impedire questa attività, che, prolungata, sfrutta le sue cellule cerebrali. Per questo l’organismo si serve dei suoi riflessi di difesa, producendo prima un’inibizione momentanea o lo sviamento dell’attenzione, noia, disgusto, e poi la fatica, da ultimo il sonno. Lo spirito che lavora deve lottare contro questi riflessi; e il sentimento di questo conflitto è appunto il sentimento dello sforzo. Come può vincere lo spirito, in modo che riesca efficace lo sforzo? Ad una condizione, necessaria per ogni vittoria; che cioè lo spirito sia più forte dell’avversario, l’interesse superiore dello spirito sia più forte di quello, limitato, dell’organismo. Se l’interesse che io ho per un obbietto, riesce a tenervi incatenata la mia attenzione, così da non farmi sentire più né la fatica né il sonno, avrò raggiunto il mio scopo e sarò compensato dello sforzo” (132).

“Torniamo al fanciullo. Perché possa sostenere uno sforzo, si richiedono tre condizioni: un lavoro difficile, riflessi antagonisti che sviano l’attenzione, un interesse più elevato capace di vincerli. L’importante sta nell’attuare queste condizioni, o almeno la terza; perché, quanto al lavoro difficile, potete procurarglielo voi, e, quanto ai riflessi antagonisti, ne è fornito in gran copia il fanciullo stesso” (132).

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“Bisogna destare nell’anima del fanciullo un interesse così forte, da far fronte ai riflessi antagonisti. Ed eccoci di nuovo all’interesse: gira e rigira, il problema dell’educazione non può farne a meno. Ma non c’è che un interesse che si possa suscitare nell’anima del fanciullo: quello del gioco” (133).

“Il fanciullo non si lascia attrarre se non da ciò che seconda il suo sviluppo naturale; e si può dire che non si interessa che al gioco, poiché solo quando nel lavoro si diffonde la gioia e l’attrattiva del gioco, il fanciullo è trascinato a fissarvi l’attenzione, e attinge l’energia psicologica necessaria” (133).

“[…] Il valore e la fecondità del lavoro dipendono strettamente dal suo interesse intrinseco; e, se a questo si sostituisce un interesse estrinseco (come quello di evitare un castigo) si impedisce l’attività spontanea dello spirito, perché non si desta alcun bisogno conoscitivo che richieda, per essere soddisfatto, il compimento di quel lavoro, e valga così a far agire i processi mentali necessari per attuarlo” (133).

“Senza il concorso spontaneo dello spirito, il lavoro non è più che una corvée; e come una corvée, che non risponde ad un nostro bisogno naturale, esso ci ripugna, come ci ripugna il cibo quando siamo satolli; e provoca molti riflessi antagonisti (disgusto, disattenzione, ecc.), che bisogna combattere consumando energia, senza produrre un lavoro effettivo. Dunque, esaurimento e scoraggiamento: anche un piccolo lavoro, quando sia forzato, richiede un assai maggior consumo d’energia” (133).

“Invece, quanto più un lavoro difficile è interessante per se stesso, tanto meno provocherà riflessi antagonisti. Anzi la pienezza dell’interesse li abolirà del tutto; e sola resistenza da vincere sarà quella puramente passiva, inerente ad ogni lavoro, quella cioè che la sostanza nervosa oppone alla modificazione necessaria per raggiungere quello scopo” (133-134).

“Se l’interesse è completo, vuol dire che il raggiungimento dell’oggetto interessante corrisponde ad un bisogno immediato; e allora la bestia, di cui dianzi parlavamo (l’organismo), mossa ad agire da questo bisogno, frena ogni opposizione, si fa alleata dello spirito, fornendogli l’energia necessaria. Ora, che cosa fa il gioco? Serve appunto ad attuare quella forma superiore di lavoro, in cui il fanciullo s’interessa tanto ai mezzi di attuazione come al fine da raggiungere. S’intende sempre che la parola gioco è presa nel senso più largo, non come sinonimo di trastullo. I dizionari non fanno, è vero, gran differenza tra gioco e trastullo, definendoli anzi l’uno con l’altro, o entrambi come sinonimi di divertimento. Ma si può tuttavia farne due concetti distinti: trastullo implica idea di facilità, passività, mentre il gioco è essenzialmente attivo” (134).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo:

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9. Da: G. Corallo, Pedagogia, Torino, SEI

“La radicale dualità dell’essere (finito), che si presenta sempre insieme come fatto e come significato, come evento e come valore, è il fondamento della sua razionalità che importa, in ogni suo momento, una unificazione armonizzante degli elementi duali dell’essere. Questa è la condizione fondamentale dell’ontologia e della logica, in quanto pone, con la razionalità del reale, la possibilità della sua esistenza e la sua intelligibilità (principio di non contrarietà o di identità dell’essere). La condizione si applica all’essere stesso del pensiero che, mentre attua esso stesso le leggi del reale, ne esprime il significato (principio di non contraddizione)” (p. 469).

“I due elementi della realtà non possono concepirsi, senza negarsi, come mutuamente immanenti; in particolare, l’immanenza del pensiero nelle cose significherebbe la negazione del pensiero che è sempre mediazione (scetticismo), e la negazione della realtà stessa a causa del conseguente radicale irrazionalismo” (p. 469).

“Intorno all’educazione, che l’esperienza ci presenta come una delle molteplici attività umane, esistono dei saperi, i quali si possono convenientemente indicare col nome di pedagogia. Tali saperi sono suscettibili di trattamento scientifico, e quindi la pedagogia, trascurati i saperi volgari e empirici, si può definire come ‘la scienza dell’educazione in tutti i suoi aspetti’.

“Due (e due sole) sono le scienze che hanno come oggetto proprio l’educazione, e si distinguono per il diverso punto di vista dal quale ciascuna la considera: esse sono la pedagogia generale e la pedagogia speciale.

“La pedagogia generale (o filosofia dell’educazione), pur essendo una disciplina filosofica, non si identifica con la filosofia nel suo insieme. Essa studia la natura del fatto educativo di cui cerca la definizione; dimostra le leggi generali del rapporto educativo; enuncia le norme che regolano il rapporto didattico e stabilisce il supremo principio metodologico dell’educazione.

“La pedagogia speciale (o metodologia dell’educazione), la cui possibilità è fondata sull’esistenza di una vera causalità educativa dell’educatore verso l’educando, studia il divenire concreto dell’educazione come operabile umano. Questo suo specifico oggetto le assicura l’unità interiore che le dà il carattere di scienza, per cui inesattamente essa si qualificherebbe come arte o come scienza ‘pratica’. La pedagogia speciale dipende dalla pedagogia generale e, insieme con questa, si collega direttamente e prossimamente, come a sue fonti, all’etica e alla psicologia. Della pedagogia speciale fanno parte la pedagogia differenziale e la pedagogia sperimentale.

“La teologia dell’educazione è una scienza parallela alla filosofia dell’educazione, di cui considera gli stessi problemi, integrandone la conoscenza col metodo proprio delle scienze teologiche.

“Connessi con la pedagogia, ma da essa distinti perché non hanno come oggetto proprio l’educazione, si possono indicare i seguenti saperi: didattica, diritto educativo, storia dell’educazione e della pedagogia, bibliografia pedagogica ragionata” (pp. 469-470).

“L’atto libero umano è reso possibile non da un presente giudizio di ‘indifferenza oggettiva’, ma da un giudizio morale attuale (sia pure implicito) che presenta l’oggetto su cui si delibera nel suo aspetto ‘morale’, oltre che in quello ‘economico’. L’atto di libertà, che non è mai ‘indifferente’, cioè non si sottrae alla motivazione che lo razionalizza, non dipende tuttavia dai medesimi motivi da cui dipende l’atto puramente volontario” (p. 470).

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“L’educazione, che empiricamente si presenta come una acquisita capacità autonoma e costante di seguire la norma, non può venir definita se non in relazione con l’essenziale ‘capacità’ o significazione dell’uomo come uomo, e deve quindi rappresentare la forma (possibile e doverosa) degli atti umani in quanto tali. La qualità dell’essere educato consiste quindi nel possesso della capacità abituale di agire (rettamente) con libertà.

“Questa definizione dell’educazione è tuttavia corretta solo nel caso che l’atto libero sia concepito come un atto radicalmente morale, giacchè è compito dell’educazione render l’uomo capace dell’azione morale con la quale egli si dispone al conseguimento del suo fine umano. L’essenziale moralità dell’atto libero permette all’educazione di svilupparsi lungo la linea metodologica della psicologia, senza venir meno al suo fondamentale impegno morale” (p. 470).

“L’educazione, così concepita come la stabilità della capacità dell’azione libera-morale, si distingue dall’uso di tale capacità, che definisce l’atto morale. La pedagogia non si può quindi confondere con l’etica, né il fine dell’educazione col fine dell’uomo.

“Il concetto di educazione è così reso possibile dalla sua incomunicabile specificità: insufficienti sono pertanto tutte quelle definizioni generiche dell’educazione che non la distinguono chiaramente da altre categorie dell’agire umano: tali sono le definizioni che fanno coincidere l’educazione con lo sviluppo e la crescita umani in generale, o con una ‘formazione’ dell’uomo, sia pure ‘armonica’ e ‘integrale’, i cui contenuti però non siano chiaramente soggetti, per diventare educativi, alla forma dell’educazione” (pp. 470-471).

“Si possono distinguere due momenti dell’esecuzione di una ‘pedagogia cristiana’: a) la teologia dell’educazione, scienza in cui e metodo e contenuto sono formalmente cristiani (soprannaturali); b) la metodologia dell’educazione cristiana, che fa parte della pedagogia speciale, in cui con metodo razionale si cercano i modi della trasmissione del contenuto soprannaturale, in quanto tale trasmissione è condizionata dal fattore umano.

“Per quanto riguarda la pedagogia generale, il suo metodo e il suo contenuto sono puramente razionali, e possono essere regolati soltanto esternamente e negativamente dalla luce della rivelazione cristiana” (p. 471).

“L’atto educativo, consistendo nel suscitare e nel dirigere una libertà, importa l’inevitabile presenza dei più diversi contenuti di tutte le categorie dell’agire umano. L’autorità ‘disciplinare’ è la fonte concreta di tali contenuti per il singolo educando, e si può distinguere come fonte etico-religiosa, psicologica e sociale. Da essa dipendono la guida e l’orientamento dell’educando, e il contemperamento delle esigenze delle ‘novità’ e della ‘tradizione’ nel contenuto educativo” (p. 471).

“Le funzioni corporee e intellettuali, sebbene non facciano come tali parte formale dell’atto di libertà, ne sono tuttavia il fondamento necessario: il loro retto sviluppo, vigilato dal punto di vista educativo affinchè l’educazione conservi la sua efficacia e la sua unità, costituisce quindi una premessa indispensabile all’atto educativo, pur senza esserne parte formale.

“In particolare connessione con l’atto educativo è poi da porre la trasmissione dei contenuti, che costituisce il problema didattico” (p. 471).

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“Il problema educativo consiste essenzialmente nello scioglimento dell’antinomia tra l’autorità e la libertà: in altri termini, nel giusto contemperamento tra contenuto e forma dell’educazione, al fine della formazione degli abiti come possesso e ricchezza spirituale della persona” (p. 471).

“Il rapporto educativo è essenzialmente un rapporto personale, intenzionale e autorevole, in cui l’educatore, per essere tale, deve essere rivestito, oltre che d’una autorità giuridica, di una specifica autorità sui generis, che è propriamente l’autorità educativa.

“Questa autorità, interamente caratterizzata dal fine educativo, che è quello di promuovere nell’educando il retto dominio di sé, è la sola che giustifichi l’aspetto eteronomo e contenutistico che l’educazione deve anche necessariamente assumere” (pp. 471-472).

“L’educazione ha pure necessariamente un aspetto autonomo e formale, fondato sulla partecipazione attiva dell’educando alla sua educazione: un’educazione puramente passiva e contenutistica contraddice all’essenza dell’educazione.

“Non esiste alcun primato tra i due elementi – quello autonomo e quello eteronomo – dell’educazione” (p. 472).

“Il supremo principio metodologico dell’educazione consiste nel promuovere nell’educando la ‘valorizzazione’ dei beni e degli ideali che l’educatore deve e vuole fargli accettare.

“A questo scopo è indispensabile la personalità stessa dell’educatore, la cui ‘autorità educativa’ è l’unica fonte del ‘valore’ educativo (causalità esemplare).

“Da questo supremo principio dipendono poi anche gli altri principi generali che governano il metodo dell’educazione” (p. 472).

“L’impegno dell’educazione per la formazione della personalità in senso etico deve svolgersi nelle tre direzioni essenziali e irriducibili dell’istruzione morale, della sensibilità della coscienza morale e della formazione alla buona volontà” (p. 472).

“Il concetto di disciplina educativa si reduplica essenzialmente con il concetto di educazione in senso ‘possessivo’.

“Il premio e il castigo hanno una essenziale funzione educativa, e presentano, quindi, pericoli gravissimi nel loro abuso” (p. 472).

“Dal concetto stesso di educazione deriva la necessità che essa sia condotta per mezzo di un’azione individuale: l’azione educativa concreta esige quindi delle qualificazioni speciali, riguardo ai modi e ai mezzi di compierla, dipendenti dalla considerazione dell’educando come individualità e personalità singolare e irripetibile” (p. 472).

“L’educazione rappresenta una possibilità universale aperta a tutti gli individui umani.

“Il principio educativo non si coestende necessariamente con tutta la vita, ma è invece possibile assegnargli teoricamente un termine cronologico” (p. 472).

“Una persona non può compiere da sola un’azione propriamente educativa sopra di se stessa; l’ ‘autoeducazione’ in senso esclusivo è impossibile, come l’autodidassi, e si risolve in una negazione dell’essenza stessa dell’educazione” (p. 472).

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“Dato il carattere interiore e libero che l’educazione presenta nei riguardi dell’educando, il suo risultato non è, per sua stessa natura, prevedibile con assoluta certezza.

“Circa l’educatore, poi, la sua qualifica appunto di educatore è in essenziale dipendenza dalla riuscita della sua opera educativa, tenuto conto della natura dell’educazione. Qui si fondano sia l’urgenza della responsabilità dell’educatore, sia i limiti di questa” (pp. 472-473).

“Perché una persona (fisica o morale) possa essere Ente educativo sono necessari: a) il titolo giuridico (originario o derivato) relativo a determinate persone; b) i mezzi e la capacità di raggiungere, adeguandosi ai principi generali della metodologia educativa, il fine etico dell’educazione” (p. 473).

“Soltanto le persone morali posseggono un titolo originario di diritto educativo. In particolare il titolo di diritto educativo inerente ai coniugi non va ricercato nel fatto della generazione, ma nella struttura dell’istituto familiare” (p. 473).

“Le istituzioni educative fornite di titolo originario sono storicamente tre: due sul piano del diritto naturale (famiglia e Stato), una sul piano del diritto positivo (divino) (la Chiesa)” (p. 473).

“L’ente sociale come tale, pur essendo un ente educativo di pieno diritto, non può essere un ente educatore in atto. L’educatore in atto è sempre una persona fisica, come l’unica capace di esprimere l’intenzionalità e la personalità essenziali all’atto educativo.

“L’ente sociale ha quindi il dovere di provvedere all’educazione del membro per mezzo di persone fisiche, che siano i suoi delegati (naturali o legali)” (p. 473).

“Gli enti sociali, in quanto enti educativi, sono fonti della valorizzazione etica educativa, relativamente ai contenuti a ciascuno propri. Di qui la necessità di reciproche integrazioni”.

“Rispetto ai singoli enti educativi, siano essi fisici o morali, primari o derivati, l’educando non solo conserva il rapporto educativo essenziale tra l’eteronomia e l’autonomia, ma pone, per ciascuno di essi in particolare, l’esigenza che siano rispettati e anzi favoriti tutti gli altri rapporti educativi che esorbitano dai limiti di ciascuno di quegli enti” (p. 473).

“L’educatore ideale è pertanto la persona fisica che esprima, raccogliendole in sé, le esigenze etiche e giuridiche di vari enti educativi sociali” (p. 473).

“Oltre agli enti educativi primari, possono esistere degli istituti e delle organizzazioni educative particolari come partecipanti concreti e delegati delle funzioni di quelli: tra questi ha di gran lunga la maggiore importanza la Scuola per la sua necessità e la sua potenziale efficacia educativa” (p. 473).

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10. Da: O. Decroly, Educazione attiva, Firenze, La Nuova Italia

“Per edificare le scuole del popolo bisognerà rifarsi all’esempio delle istituzioni scolastiche destinate ai fanciulli della classe agiata, soprattutto all’estero, istituzioni che realizzando la scuola nella vita, rappresentano la scuola per la vita. Si tratta, più che di una questione di ordine puramente filosofico, di una questione di umanità e di economia sociale”.

“Ne è detto che con ciò la scuola debba per forza risultare economicamente più gravosa. Sarà sufficiente non concepirla più esclusivamente secondo i piani di un architetto, non considerarla più come un complesso di pietre più o meno piacevolmente ordinate, ma piuttosto e soprattutto dal punto di vista di tutto ciò che circonda l’edificio stesso, e particolarmente la strada, i campi, i fiumi, i boschi ed i loro abitatori. È la natura, multiforme e mutevole, che deve costituire la cornice della lezione, e non gli squallidi muri delle nostre metropoli, in cui il fanciullo può osservare soltanto aspetti parziali dei fenomeni e processi troppo complessi per la sua giovane mente, dove non gli è dato che in scarsa misura di poter assistere a quella eccellente lezione di morale che è il lavoro dell’uomo, dove infine egli è continuo e involontario testimone di scene degradanti ed antisociali”.

Non intendiamo certo misconoscere i progressi che si sono effettivamente compiuti, ma osserviamo che sinora si sono prese soprattutto in considerazione alcune esigenze fisiche dell’educando, e che anche da questo punto di vista molte cose restano da fare; le esigenze di ordine intellettuale e morale, che in fin dei conti hanno la loro importanza per l’avvenire del fanciullo, sono state dimenticate”.

“Non basta cambiare l’ambiente della scuola, trasferirla in una località ideale, realizzarvi la più perfetta igiene. Non mancano scuole di questa specie che, nonpertanto, non danno risultati migliori di quelli che si conseguono nelle scuole comuni. È anche infatti necessario sapersi valere degli elementi costitutivi dell’ambiente, grazie soprattutto ad un personale devoto, coscienzioso ed istruito, grazie a metodi ed orari opportuni e ad un programma razionale”.

“Restiamo nei limiti della tradizione affermando che, per quanto concerne i fanciulli, il programma deve proporsi d’impartire una cultura di carattere generale e promuovere lo sviluppo integrale dello scolaro, senza preoccupazione alcuna di specializzazione o preparazione professionale. Diciamo però subito che è errato interpretare alla lettera tali espressioni, e rinunciare deliberatamente a tutti i vantaggi che si possono trarre dalle conoscenze di natura pratica e, soprattutto, da quelle occupazioni che in un modo o nell’altro rientrano nelle attività di questa specie. Bisogna piuttosto servirsene ampiamente, e non aver paura di ricorrere anche ad attività proprie di un lavoro essenzialmente manuale, purchè tali attività non siano puramente meccaniche e costituiscano la pratica applicazione di questo o quel punto del programma”.

“Questo principio è generalmente accettato, ma non è il solo principio importante: il programma deve rispettare molte altre norme ancora, fondate sulla psicologia del fanciullo e sulle esigenze della società. Tali norme possono essere riassunte in quattro punti. Il programma deve: a) tendere all’unità; b) essere adeguato al maggior numero possibile di intelligenze; c) consentire l’acquisizione di un minimo di conoscenze indispensabili; d) promuovere lo sviluppo integrale di tutte le facoltà e l’adattamento all’ambiente naturale e sociale nel quale il fanciullo dovrà trascorrere la sua esistenza”.

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“a) il programma deve tendere all’unità nel senso che le singole parti devono congiungersi tra di loro, formando un tutto indivisibile. Ad un certo punto, il calcolo non deve vertere su altri elementi se non quelli offerti dalla lettura, dalle scienze fisiche e naturali, dalla storia, dal lavoro manuale, come d’altra parte l’insegnamento non deve essere impartito sotto forma di razioni irrimediabilmente fissate e regolate dal punto di vista della quantità e della durata. Tutti gli argomenti trattati devono essere tra di loro collegati, e devono convergere verso un’idea centrale presente in tutte le lezioni”.

“b) ogni allievo deve esser messo in grado di trarre il massimo profitto dall’insegnamento ricevuto. Non deve accadere, come purtroppo accade al presente, che soltanto i fanciulli intelligenti traggano beneficio dal denaro speso per l’educazione di tutti. Il programma deve rendere possibile la individualizzazione, indispensabile perché il maggior numero possibile di fanciulli raggiunga lo scopo che si prefigge. Deve inoltre consentire ampi e facili adattamenti all’ambiente in cui vive il fanciullo e non limitare eccessivamente l’iniziativa dell’insegnante”.

“c) ogni essere umano deve possedere un minimo di conoscenze che gli permetta di capire le esigenze della vita sociale, gli obblighi che essa comporta ed i vantaggi che offre, perché possa gradualmente adattarvisi. È assolutamente errato pretendere che il fanciullo assimili a tutti i costi una certa somma di conoscenze. Non è questo l’importante, tanto più che il fanciullo non ne verrà mai a capo e dimenticherà presto: l’importante è infondergli il desiderio di conoscere e dargli gli strumenti per apprendere, far sì che egli desideri ardentemente istruirsi su tutto quanto lo riguarda e su tutto quanto riguarda i suoi simili. I risultati saranno in questo caso ben più degni di considerazione”.

“È possibile definire questo minimum? Noi pensiamo di sì. […]. [Esso consiste nella chiara conoscenza dei più importanti meccanismi della vita individuale e sociale e, soprattutto, nell’aver fatta propria la grande legge che domina l’universo e gli esseri: l’evoluzione, sinonimo di progresso, fondata, s’intende, più sulla solidarietà per la vita che non sulla lotta per la vita”.

d) la scuola deve coltivare e rafforzare tutti gli aspetti dell’individualità infantile, curando soprattutto i più necessari, quelli che hanno una funzione di primo piano nella vita attiva e che più degli altri devono essere coltivati perché l’adattamento sia più rapido, facile e sicuro. Quali siano queste facoltà è tuttora in discussione. Tuttavia è indubbio che per giudicare del valore di un uomo vi è qualcosa di meglio dell’ortografia, della lettura o della regola del tre, ed è altrettanto indubbio – come generalmente si riconosce, che i primi a scuola sono spesso gli ultimi nella vita. E d’altra parte, si sa forse con esattezza quali siano le facoltà che attualmente vengono coltivate? Lo si sa tanto poco che, forse per timore di errare, si preferisce sostenere che tutte le materie, ortografia compresa, contribuiscono al potenziamento dell’intero patrimonio attitudinale”.

“Per altro, il semplice fatto di definire così ciò che deve costituire il cardine del processo educativo, consente di formulare alcune importanti norme direttive: 1. Dal momento che dobbiamo preparare il fanciullo alla vita, è logico ed ovvio istruirlo su ciò che la vita è. 2. Poiché la vita implica due elementi essenziali, l’essere che ne è dotato e l’ambiente che lo circonda, l’insegnamento può suddividersi in due parti: a) lo studio dell’essere vivente in generale e dell’uomo in particolare; b) lo studio della natura, ivi

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compreso il genere umano in quanto collettività e considerato come elemento dell’ambiente”.

“La scuola avrebbe assolto pienamente il proprio compito quando fosse riuscita a far assimilare, anche in misura appena sufficiente, questo duplice ordine di conoscenze. […] In altri termini, che cosa dobbiamo far penetrare nella mente del fanciullo perché divenga consapevole delle grandi leggi che regolano l’universo e l’umanità e perché si adoperi per il suo bene e per il bene dei suoi simili, di conformarvi le sue azioni? Potremo facilmente stabilirlo se ci riferiremo a quelle stesse grandi leggi, e non alle più generali, ancora discusse ed imperfettamente conosciute, ma alle leggi relative a quella forma di energia di cui l’essere medesimo è il portatore e che più ha interesse a conoscere, vale a dire la vita”.

“Dei termini compresi nella definizione della vita due hanno più importanza degli altri: accrescimento e propagazione. Due sono le principali forme di attività, le attività proprie dell’individuo e le attività proprie della specie. Potremo dunque assumere come punto di partenza le due grandi ripartizioni: funzioni individuali e funzioni sociali”.

“L’uomo, come ogni altro essere vivente, ha alcuni bisogni fondamentali: nutrirsi, proteggersi dalle intemperie, difendersi dai nemici. Egli, una volta raggiunta la maturità, dovrà essere capace di bastare a se stesso (funzioni individuali) e di soddisfare le esigenze della sua famiglia, assolvendo al tempo stesso a tutti i suoi obblighi sociali (funzioni sociali). Ciò riassume perfettamente – estendendoli anche all’uomo – i due suddetti attributi fondamentali della vita umana: la conservazione dell’individuo e la conservazione della specie”.

“Come dobbiamo dunque regolarci con il fanciullo. Semplicemente facendo ricorso in un primo tempo alla osservazione diretta, ed aiutandolo a riconoscere i processi vitali che in lui si svolgono; guidandolo poi alla comprensione dei fenomeni del suo ambiente immediato e, infine, alla comprensione dei fenomeni da lui più lontani nel tempo e nello spazio. Il compito non sarà troppo difficile, perché tutti indistintamente gli avvenimenti che costituiscono la sua vita potranno essere oggetto di intuizione”.

“Al centro sarà il fanciullo stesso: si comincerà col fornirgli le prime cognizioni su se stesso,non attraverso una povera ed arida nomenclatura, ma piuttosto guidandolo alla comprensione dei meccanismi più semplici del suo organismo fisico-psichico”.

“Come ogni uomo, per vivere egli deve soddisfare alcune necessità assolute, come nutrirsi, riposare, proteggersi dalle intemperie, dagli infortuni e dalle malattie; deva anche istruirsi ed essere pronto a guadagnarsi la vita; egli ha inoltre esigenze di ordine estetico e morale. Questi gli argomenti che possono costituire il punto di partenza. Facciamo sì che il fanciullo sia consapevole della loro esistenza e della loro ineluttabilità e, indicandogli tutto ciò che la natura ed i suoi simili gli offrono, facciamo sì che egli divenga consapevole del suo debito verso la natura e verso la società. Guidiamolo infine a ricercare il modo di liberarsi del suo debito, a ricercare il modo non solo di non essere più un peso per gli altri, ma, nella misura delle cure ricevute e delle sue possibilità, di soddisfare ai suoi obblighi di uomo, di padre, di cittadino”.

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11. Da: J. Dewey, Esperienza e natura, Milano, Mursia – Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia – Il mio credo pedagogico, Firenze, La Nuova Italia

Da Esperienza e natura“L’esperienza è qualcosa di completamente diverso dalla ‘conoscenza’, che è ciò che appare qualitativamente e focalmente a un particolare momento. L’uomo comune non ha bisogno che gli si ricordi che l’ignoranza è uno dei principali aspetti dell’esperienza; e che tali sono le abitudini alle quali ci abbandoniamo senza coscienza, tanto esse agiscono in modo abile e sicuro. Tuttavia l’ignoranza, l’abitudine, il radicarsi fatale nel passato, sono proprio le cose che il sedicente empirismo, con la sua riduzione dell’esperienza a stati di coscienza, nega all’esperienza. È importante per una storia dell’esperienza sapere che in certe circostanze l’uomo ha in pregio ciò che è distinto e chiaramente evidente. Ma non è meno importante sapere che in altre circostanze fiorisce ciò che è crepuscolare, vago, oscuro, misterioso” (Esperienza e natura)

“Che crimini intellettuali siano stati commessi nel nome del subcosciente, non è una ragione per rifiutarsi di ammettere che ciò che non è semplicemente presente costituisce una parte assai più vasta dell’esperienza di quel campo della coscienza al quale i pensatori sono stati così devoti”.

“Quando diciamo che l’esperienza è un punto di accesso alla spiegazione del mondo nel quale viviamo, intendiamo per esperienza qualcosa che sia vasta, profonda e piena almeno quanto tutta la storia su questa terra; una storia la quale (poiché la storia non accade nel vuoto) include la terra e i correlati fisici dell’uomo. Quando assimiliamo l’esperienza alla storia piuttosto che alla filosofia delle sensazioni, indichiamo che la storia denota insieme le condizioni oggettive, le forze, gli eventi, e la registrazione e la valutazione di questi eventi fatte dall’uomo. L’esperienza denota tutto ciò che è sperimentato, tutto ciò che si subisce e si prova, ed anche i processi dello sperimentare”.

“Per la filosofia, l’esperienza è un metodo, non un contenuto oggettivo particolare. Ed essa rivela anche quella specie di metodo di cui la filosofia ha bisogno. L’esperienza include i sogni, la pazzia, la malattia, la morte, il lavoro, la guerra, la confusione, l’ambiguità, la menzogna e l’errore, include i sistemi trascendentali come gli empirici; la magia e la superstizione come la scienza. Include quell’inclinazione che impedisce d’imparare dall’esperienza, come l’abilità che trae partito dai suoi più deboli cenni. Questo fatto condanna senz’altro ogni filosofia che professa di essere empirica e tuttavia ci assicura che alcuni speciali contenuti oggettivi sono esperienza e altri non lo sono”.

“Quando gli svariati costituenti del vasto universo, ciò che è sfavorevole, precario, incerto, irrazionale, odioso, riceverà la stessa attenzione che è accordata a ciò che è nobile, onorevole e vero, allora la filosofia potrà forse fare a meno del concetto di esperienza. Ma in attesa di questo giorno, abbiamo bisogno di una parola prudenziale e direttiva, come esperienza, per ricordare a noi stessi che il mondo che è vissuto, sofferto e goduto tanto quanto è logicamente pensato, ha l’ultima parola in tutte le ricerche e congetture umane”.

“Questa è una dottrina di umiltà; ma è anche una dottrina di direzione. Perché c’insegna ad aprire gli occhi e le orecchie dello spirito, ad essere sensibili a tutte le svariate fasi della vita e della storia. Niente è più ironico del fatto che proprio i filosofi che hanno professato l’universalità, siano stati così spesso specialisti unilaterali e si siano confinati in ciò che è autenticamente e sicuramente conosciuto, ignorando l’ignoranza, l’errore, la

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follia, i comuni godimenti e allettamenti della vita; e si siano sbarazzati di queste cose col considerarle dovute alla nostra natura ‘finita’ – una benedetta parola che fa per i moderni ciò che il ‘non essere’ faceva per i Greci”.

“La storia del pensiero manifesta sufficientemente la necessità di un metodo che proceda ad indicare, trovare e mostrare, piuttosto che di un metodo che sostituisca il raziocinio e le sue conclusioni alle cose che sono fatte, sofferte e immaginate”.

“Ora la nozione dell’esperienza, per quanto priva di contenuti oggettivi differenziati – dal momento che include tutti i contenuti oggettivi – c’insegna almeno che non dobbiamo starcene a elementi semplici arbitrariamente scelti e dedurre da essi quelli complessi e svariati, assegnando ciò che non può essere così dedotto a un regno inferiore dell’essere. Essa ci ammonisce che ciò che è ingarbugliato e complesso è ciò che noi troviamo dapprima; che noi ci lavoriamo dentro per discriminarlo, ridurlo, analizzarlo; e che dobbiamo sorvegliare queste attività, mirando ad esse tanto quanto alle cose sulle quali si esercitano e alle loro rifinite conclusioni. Quando contempliamo i loro frutti, non dobbiamo ignorare l’arte dalla quale sono prodotti”.

“Vi è un posto sia per i pulitori di pietra, sia per quelli che mettono insieme le pietre a farne templi e palazzi. Ma l’ ‘esperienza’ ci ricorda che una pietra fu una volta parte di uno strato della terra, e che un minatore la estrasse ed un altro operaio infranse la roccia massiccia in pezzi più piccoli, prima che essa fosse tagliata, levigata e collocata in una struttura ordinata e regolare. Il metodo empirico ci ammonisce che i sistemi che cominciano dalle cose cosiddette ultime e semplici hanno sempre lavorato con dati truccati; le loro premesse sono state escogitate proprio per giungere alle conclusioni desiderate”.

“La nozione che l’esperienza è solamente lo sperimentare, cioè una successione di sensazioni, immagini e sentimenti personali, è una nozione del tutto recente. È implicita in essa una genuina e importante scoperta. Ma di questa nessuno ne parla mai letteralmente: essa è stata solo il punto di partenza per sviluppi dialettici, abbastanza interessanti da oscurare l’assurdità della concezione fondamentale. La scoperta è importante; perché è la scoperta dell’azione degli atteggiamenti e delle disposizioni organiche nelle credenze che abbiamo, e della necessità di controllare gli atteggiamenti e le disposizioni organiche per controllare effettivamente le credenze”.

“L’isolamento letterale dei processi dello sperimentare, come se fossero realmente alcunchè di solido e di concreto, è assurdo; giacchè disposizioni e atteggiamenti sono tali soltanto rispetto le cose o a partire da cose che sono al di là di essi. Amare e odiare, desiderare e temere, credere e negare, non sono stati spirituali di un corpo organico, né stati di un corpo organico; sono operazioni attive che concernono altre cose, accettazioni e rifiuti, assimilazioni o reiezioni di altre cose, tentativi di ottenere o di sfuggire qualcosa”.

“Un uomo si trova a passeggiare in una calda giornata. L’ultima volta che ha avuto modo di osservare il cielo, questo era luminoso; ma ora egli, pur essendo occupato soprattutto in altre cose, avverte che l’aria è divenuta più fresca. Gli viene allora in mente che probabilmente sta per piovere; guarda in su, si accorge che una nuvola ha oscurato il sole e affretta il passo. Cosa c’è, in tale situazione che può essere chiamato pensiero? Né l’atto di passeggiare, né l’avvertire la sensazione di fresco sono in sé pensiero. Passeggiare è una direzione dell’attività. La possibilità che piova, invece, è

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qualcosa di suggerito. Quella persona avverte una sensazione di fresco: dapprima egli pensa alle nuvole, poi guarda in su e le scorge, ed allora pensa a qualche cosa che presentemente non vede: un temporale. Questa possibilità suggerita è l’idea, il pensiero. Se accettata come possibilità genuina dell’accadere di un evento, allora essa viene a costituire la specie di pensiero che cade nell’ambito della conoscenza e che richiede una considerazione riflessiva” (Come pensiamo, p.).

“Fino ad un certo punto la situazione è la stessa di chi, guardando una nuvola, si rammenta di una figura o un volto umano. Il pensiero, nell’uno e nell’altro caso (il caso della credenza e della fantasticheria) implica il notare o il percepire un fatto, seguito da qualche altra cosa che non è osservata, ma che si presenta alla mente dietro suggerimento della cosa vista. Una cosa, si dice, ne richiama un’altra”.

“Tuttavia, confrontando punto per punto i due casi di suggestione, accanto a questo elemento di concordanza ne troviamo un altro di netta differenza. Noi non crediamo al viso suggerito dalla nuvola: non consideriamo per niente la probabilità che esso sia un oggetto reale. Il pensiero riflessivo quindi è assente. Il pericolo della pioggia, al contrario, ci si presenta come una possibilità genuina – un fatto della stessa natura dell’abbassamento di temperatura osservato. Detto in maniera differente, noi non guardiamo alla nuvola come a qualcosa che significa o indica un volto, ma a qualcosa che semplicemente lo suggerisce, mentre, invece, consideriamo che il fresco può significare pioggia. Nel primo caso, nel vedere un oggetto, ci capita, come appunto si suol dire, di pensare a qualcosa d’altro; nel secondo, noi consideriamo la possibilità e la natura della connessione tra l’oggetto visto e l’oggetto suggerito. La cosa vista è considerata in qualche modo come il fondamento o la base della credenza nella cosa suggerita; essa possiede la qualità dell’evidenza”.

“Il fattore centrale, allora, di ogni pensiero riflessivo e specificamente intellettuale è questa funzione per cui una cosa ne significa o indica un’altra, inducendo così ad esaminare fin dove l’una può essere considerata come garanzia della credenza nell’altra. Col richiamare varie situazioni alle quali si applicano termini come ‘significa’ e ‘indica’, il lettore capirà da sé le effettive circostanze denotate. Sinonimi di questi termini sono: si riferisce a, esprime, prognostica, rappresenta, sta per, implica. Diciamo anche che una cosa ne fa prevedere un’altra, è il preannuncio di un’altra, ne è un sintomo o un indizio, oppure (se la connessione è del tutto oscura) che ne dà un cenno, una traccia o una premonizione. La riflessione non coincide col semplice fatto che una cosa indichi, significhi, un’altra cosa. Essa ha inizio quando noi cominciamo ad indagare sul valore, sull’affidamento che può darci una particolare indicazione; quando ci sforziamo di provarne il valore e di vedere quali garanzie essa offre che i dati esistenti conducano realmente all’idea suggerita, in modo da giustificare l’accettazione di quest’ultima”.

“La riflessione implica dunque che qualcosa sia accettata (o non accettata) non per se stessa, ma tramite qualcos’altro che sta come testimonianza, evidenza, prova, attestazione, garanzia; ossia, che sta come fondamento della credenza. Una volta, noi percepiamo effettivamente o sperimentiamo direttamente la pioggia; un’altra volta, inferiamo che è piovuto, direttamente dall’aspetto dell’erba e degli alberi, o che sta per piovere, dalle condizioni dell’aria o dallo stato del barometro. Una volta noi vediamo, o supponiamo di vedere, un uomo senza bisogno di ricorrere ad alcun fatto intermedio; un’altra volta non siamo perfettamente sicuri di vederlo e andiamo in cerca di fatti

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concomitanti che ci possano servire come, segni, indicazioni, indizi, di ciò che dobbiamo credere”.

“Ai fini di questa indagine, il pensiero si può di conseguenza definire come quella operazione in cui fatti presenti suggeriscono altri fatti (o verità) così da indurre la credenza in ciò che viene suggerito sulla base di una relazione realmente esistente tra le cose stesse, una relazione tra la cosa suggerita e quella che è fonte della suggestione. Una nuvola suggerisce una donnola, o una balena; ma non significa nessuna di queste due cose, giacchè non vi è nessun legame o connessione nelle cose stesse, tra ciò che è visto e ciò che è suggerito. La cenere non soltanto suggerisce un fuoco precedente, ma significa che il fuoco c’è stato, giacchè le ceneri sono prodotto della combustione e, se sono ceneri genuine, soltanto della combustione. È la connessione oggettiva, il collegamento nelle cose esistenti, che fa di una cosa il fondamento, la garanzia, l’evidenza per credere in qualche altra cosa”.

“[…] Il pensiero riflessivo, a differenza delle altre operazioni cui diamo il nome di pensiero, comporta: 1) uno stato di dubbio, esitazione, perplessità, difficoltà mentale, da cui si origina il pensiero; 2) un’operazione di ricerca, di indagine, per trovare i materiali che risolveranno il dubbio e apporteranno la soluzione e la decisione della perplessità”.

“Nell’esempio di cui sopra l’impressione del fresco generava confusione e sospendeva, almeno momentaneamente, la credenza. Poiché inaspettata, essa si presentava come uno choc, o una brusca interruzione di cui occorreva render ragione, identificandola e localizzandola. Dire che il brusco evento del cambiamento di temperatura costituisce un problema, può apparire cosa forzata e artificiosa, ma se vogliamo estendere il significato della parola problema a qualsiasi cosa, non importa quanto trascurabile e banale, costituisca argomento di perplessità e sfida per la mente così da rendere le sue credenze assolutamente incerte, dobbiamo ammettere che vi è un genuino problema o questione in ogni esperienza che comporti un mutamento improvviso”.

“Volgere il capo, alzare gli occhi, scrutare il cielo, sono attività che mettono in grado di riconoscere fatti che permettono di dare una risposta alla questione sollevata dalla improvvisa sensazione di fresco. Così come si erano presentati per la prima volta, i fatti erano fonte di perplessità; tuttavia suggerivano la presenza di nuvole. L’atto di guardare era un atto volto a scoprire se questa spiegazione suggerita era, o no, valida. Daccapo, può sembrare sforzato parlare di quest’atto di guardare, che è piuttosto automatico, come di un atto di ricerca o di indagine. Ma, ancora una volta, se vogliamo generalizzare il concetto delle operazioni mentali in modo da includervi il banale e l’ordinario, e non solo il tecnico e il recondito, non vi è nessuna buona ragione per rifiutare questo titolo all’atto di guardare. Infatti il risultato dell’atto è quello di portare innanzi alla mente di una persona fatti che la mettano in grado di raggiungere una conclusione sulla base dell’evidenza. Allora, nella misura in cui l’atto di guardare era deliberatamente compiuto con l’intenzione di acquisire un fondamento oggettivo su cui basare una credenza, esso esemplifica in maniera elementare l’operazione di investigazione, di ricerca, di indagine, implicita in una qualsiasi operazione di riflessione”.

“Un altro esempio, anch’esso comune, seppure non così banale, può dar forza all’argomento. Un uomo che viaggia in una regione sconosciuta arriva ad un bivio. In mancanza di cognizioni sicure, egli è portato ad un attimo di sosta, di esitazione o di sospensione. Quale strada è la giusta? Come risolverà la sua perplessità? Non vi sono

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che due alternative: egli deve, o proseguire il suo cammino ciecamente od arbitrariamente, confidando nell’esito fortunato del suo tentativo, oppure scoprire delle prove che gli facciano concludere che una determinata strada è la giusta. Qualsiasi tentativo di risolvere la questione tramite il pensiero implicherà l’indagine su altri fatti (forniti alla mente o dalla memoria, o dall’osservazione, o da ambedue le cose). Il viaggiatore perplesso deve diligentemente esaminare ciò che gli sta innanzi e stimolare la sua memoria. Deve andare in cerca di prove a sostegno della sua credenza in favore dell’una o dell’altra strada, una prova che trabocchi in una suggestione. Egli può arrampicarsi su un albero; può andare avanti in questa o quella direzione, cercando, in ambedue i casi, segni, indizi, indicazioni. Quel che gli occorre è qualcosa della natura di un segnale stradale o di una carta e la sua riflessione è rivolta alla scoperta di fatti che serviranno a questo scopo”.

“L’esempio precedente può essere generalizzato. Il pensare ha origine in una situazione che può abbastanza bene essere chiamata cruciale, una situazione così ambigua da presentare un dilemma o proporre delle alternative. Finchè la nostra attività scivola via senza ostacoli da una cosa all’altra o finchè noi permettiamo alla nostra immaginazione di intrattenersi a suo piacimento in fantasticherie, non vi è posto per la riflessione. Una difficoltà od un ostacolo nella via del raggiungimento di una credenza ci costringe, tuttavia, ad una pausa. Nello stato di sospensione determinato dall’incertezza, noi metaforicamente saliamo sempre su un albero; ci sforziamo di trovare un punto di vista dal quale esaminare nuovi fatti e dal quale, una volta raggiunta una veduta che ci faccia meglio dominare la situazione, decidere come stiano i fatti nella loro relazione reciproca”.

“L’esigenza di risolvere una difficoltà è il fattore permanente che guida l’intero processo della riflessione. Dove non vi sono problemi da risolvere o difficoltà da sormontare, il corso delle suggestioni scorre via senza alcun ordine; abbiamo allora il primo tipo di pensiero descritto. Se la corrente delle suggestioni è controllata semplicemente dalla loro coerenza emotiva, dal loro gradevole disporsi in un singolo quadro o in una singola storia, abbiamo il secondo tipo. Ma un dubbio cui rispondere, una ambiguità da risolvere, stabiliscono un fine ed incanalano la corrente delle idee in una via ben definita. Ogni conclusione suggerita è controllata dal suo riferimento a questo fine regolatore, dalla sua pertinenza al problema considerato. Questo bisogno di por fine ad una perplessità controlla anche la specie di indagine intrapresa. Un viaggiatore il cui scopo è quello di percorrere la strada migliore e non, poniamo, di scoprire la via che lo conduca ad una data città, cercherà segni diversi e controllerà le sue suggestioni su basi diverse nell’uno e nell’altro caso. La natura del problema fissa il fine del pensiero, ed il fine controlla il processo del pensiero”.

[…] L’origine del pensiero sta sempre in una qualche perplessità, confusione o dubbio. Il pensiero non è un caso di combustione spontanea; non accade affatto secondo ‘principi generali’. Vi è qualcosa che lo occasiona e lo evoca. I comuni appelli a pensare, rivolti ad un bambino (come ad un adulto), senza tener conto della esistenza o meno, nella sua esperienza, di una qualche difficoltà che lo turbi o che alteri il suo equilibrio, sono altrettanto futili quanto, per così dire, l’invitarlo a sollevarsi da terra reggendosi con i lacci delle scarpe”.

“Data una difficoltà, ciò che ne segue immediatamente è il suggerimento di una qualche via d’uscita: la formazione in via di prova di qualche piano o progetto, l’accoglimento di qualche teoria che dia ragione della peculiarità in questione, la considerazione di

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qualche soluzione del problema. I dati a disposizione non possono fornire la soluzione, possono suggerirla. Da dove nascono, allora, le suggestioni? Evidentemente dall’esperienza passata e dall’avere a disposizione un deposito di conoscenza rilevante”.

“Se in passato si è avuta una qualche familiarità con situazioni del genere, se si è avuto a che fare con materiali della stessa specie, suggestioni più o meno appropriate e capaci di venire in aiuto non mancheranno di presentarsi. Ma se non vi è stata una qualche esperienza analoga, la confusione rimane confusione. Anche quando un fanciullo (o un adulto) si trova personalmente di fronte a un problema, è cosa assolutamente futile sollecitarlo insistentemente a pensare se egli non ha mai avuto in precedenza esperienze implicanti condizioni in qualche modo analoghe”.

“Vi può essere, tuttavia, uno stato di perplessità e così pure una precedente esperienza dalla quale emerge un suggerimento e ciò nonostante non esserci un atto di pensiero riflessivo. Infatti si può non essere sufficientemente critici nei riguardi delle idee che vengono in mente. Una persona può arrivare di colpo ad una conclusione senza vagliare i fondamenti su cui poggia, può andare avanti o indebitamente abbreviare l’atto di indagine e di ricerca; prendere la prima ‘risposta’ o soluzione che le viene in mente, o per pigrizia mentale, o per torpore, o per l’impazienza di raggiungere qualcosa di stabile. Si è in grado di pensare riflessivamente solo allorquando si è disposti a prolungare lo stato di sospensione e ad assumersi il fastidio della ricerca”.

“Per molte persone, così la sospensione del giudizio, come la ricerca intellettuale, rappresentano una cosa spiacevole: il loro desiderio è di porvi termine il più presto possibile. Esse coltivano un iperpositivo e dogmatico abito mentale; o forse pensano che una condizione di dubbio debba essere considerata come una prova di inferiorità mentale. Questo momento, in cui l’esame e la prova affiorano nell’indagine, segna la differenza tra il pensiero riflessivo ed un cattivo modo di pensare. Per essere genuinamente pensanti, noi dobbiamo sostenere e protrarre questo stato di dubbio che stimola ad una completa ricerca, in modo da non accettare un’idea o asserire positivamente una credenza finchè non si siano trovate fondate ragioni per giustificarla”.

Da Democrazia e educazione“Vera natura della vita è quella di lottare per continuare a esistere. Poiché questa continuazione può essere assicurata solo con costanti rinnovamenti, la vita è un processo di auto-rinnovamento. Ciò che la nutrizione e la riproduzione sono per la vita fisiologica, l’educazione lo è per la vita sociale. Questa educazione consiste principalmente nella trasmissione per mezzo della comunicazione. La comunicazione è un processo con cui si partecipa l’esperienza finchè essa diventa un patrimonio comune. Essa modifica la disposizione di entrambe le parti che vi partecipano. Un fatto facilmente riconoscibile nei rapporti con gli immaturi è che il significato ulteriore di ogni genere di associazione umana consiste nel contributo che dà al miglioramento della qualità dell’esperienza. Cioè, mentre ogni aspetto sociale è effettivamente educativo, l’effetto educativo diventa una parte importante dello scopo dell’associazione soltanto in rapporto all’associazione dei più anziani con i più giovani. Via via che le società diventano più complesse nella struttura e nelle risorse, aumenta la necessità di un insegnamento formale o intenzionale. Quanto più cresce e si estende l’insegnamento formale, tanto maggiore si profila il pericolo di creare una scissione indesiderabile fra l’esperienza ottenuta in associazioni più dirette, e ciò che si impara a scuola. Questo pericolo non è mai stato così grave come adesso, per via del rapido aumento negli ultimi

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secoli delle conoscenze e dei metodi di abilità tecnica” (Democrazia e educazione, 12-13).

“Lo sviluppo nei giovani delle attitudini e disposizioni necessarie alla vita continua e progressiva di una società, non può aver luogo con la comunicazione diretta delle credenze, emozioni, conoscenze. Ha luogo invece attraverso l’intermediario dell’ambiente. L’ambiente consiste nella somma totale delle condizioni che interessano la realizzazione dell’attività caratteristica di un essere umano. L’ambiente sociale consiste di tutte le attività degli esseri umani che si trovano in condizioni simili, collegate nell’attuazione delle attività di qualsiasi suo membro. È veramente educativo nei suoi effetti, solo fin dove l’individuo partecipa e condivide un’attività comune. Dando il suo contributo nell’attività associata, l’individuo si appropria lo scopo che la promuove, si rende familiare con i metodi ed il contenuto di essa, acquista l’abilità necessaria ed è saturato del suo spirito emotivo” (30-31).

“La formazione educativa più profonda e più intima del carattere avviene inconsciamente, man mano che i giovani partecipano gradualmente alle attività dei vari gruppi ai quali appartengono. Quando la società diventa più complessa, però, si sente la necessità di creare un ambiente sociale speciale, che provveda specialmente ad alimentare le capacità degli immaturi. Tre delle funzioni più importanti di questo ambiente speciale sono: semplificare ed ordinare i fattori delle disposizioni individuali che si desidera di sviluppare; purificare e idealizzare i costumi sociali esistenti; creare un ambiente più largo e meglio equilibrato di quello dal quale i giovani si farebbero influenzare, se fossero abbandonati a se stessi” (31).

“Gli impulsi naturali o innati dei giovani non si accordano con gli usi della vita del gruppo nel quale sono nati. Per conseguenza devono essere diretti o guidati. Questo controllo non è la violenza fisica; consiste nel puntare gli impulsi che agiscono in qualsiasi momento su qualche mira specifica, e nell’introdurre un ordine di continuità nella sequenza degli atti. L’azione degli altri è sempre influenzata dalla decisione circa gli stimoli che sono in grado di provocare queste loro azioni. Ma in alcuni casi, come nei comandi, nelle proibizioni, nell’approvazione e nel biasimo, gli stimoli procedono da persone che mirano direttamente a influenzare l’azione. Poiché in questi casi siamo più che mai consapevoli di controllare l’azione altrui, è facile che si esageri l’importanza di questo genere di controllo a scapito di un metodo più duraturo ed efficace” (54).

“Il controllo fondamentale risiede nella natura delle situazioni cui prendono parte i giovani. Nelle situazioni sociali i giovani devono riferire il loro modo di agire a ciò che fanno gli altri e farlo combinare con quello. Il che dirige la loro azione a un risultato comune e dà una comprensione comune ai partecipanti. Tutti infatti intendono la stessa cosa, anche se stanno eseguendo azioni differenti. Questa comprensione comune dei mezzi e dei fini dell’azione è l’essenza del controllo sociale. È indiretto, o emotivo e intellettuale, non diretto o personale. Per di più è intrinseco alla disposizione della persona, non esterno e coercitivo” (54).

“Raggiungere questo controllo interno attraverso l’identità di interesse e di comprensione è il compito dell’educazione. I libri e la conversazione possono far molto, ma si conta in genere troppo esclusivamente su questi fattori. Le scuole per essere pienamente redditizie esigono più larghe possibilità per le attività in comune, nelle quali

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prendono parte quelli che si devono istruire, in modo da poter acquistare un senso sociale dei loro poteri e dei materiali e degli strumenti usati” (54-55).

“Il potere di crescere dipende dal bisogno di altri e dalla plasticità. Entrambe queste condizioni sono al loro massimo nell’infanzia e nella giovinezza. La plasticità o potere di imparare dall’esperienza significa formazione delle abitudini. Le abitudini danno il controllo sull’ambiente, il potere di utilizzarlo per scopi umani. Le abitudini prendono tanto la forma di assuefazione o di equilibrio generale e costante fra le attività organiche e l’ambiente, quanto quella di capacità attive di riadattare l’attività ad affrontare nuove condizioni. La prima fornisce lo sfondo della crescenza; la seconda costituisce il crescere. Le abitudini attive implicano pensiero, invenzione, e iniziativa nell’applicare capacità a nuovi scopi. Esse sono opposte alla ‘routine’ che segna un arresto nella crescenza. Poiché la crescenza è la caratteristica della vita, l’educazione è tutt’uno con la crescenza; non ha fine oltre se stessa. Il criterio per valutare l’educazione scolastica è dato dal grado cui ha saputo portare il desiderio per la crescenza continuata e dalla copia di mezzi che ha fornito per la realizzazione di tale desiderio” (71-72).

“La concezione che il risultato del processo educativo deve essere la capacità di un’ulteriore educazione è in contrasto con altre idee che hanno profondamente influenzato la pratica. La prima di questa consiste nel considerare l’educazione come una preparazione a qualche dovere o privilegio futuro. Sono stati notati i cattivi effetti specifici che risultano dal fatto che questo scopo devia l’attenzione sia del maestro che dell’allievo dal solo punto sul quale può essere utilmente diretta, l’approfittare delle necessità e delle possibilità del presente immediato. Tale teoria distrugge quindi il suo intento” (91).

“L’idea che l’educazione è uno svolgersi dall’interno sembra avere più somiglianza con la concezione della crescenza che è stata qui esposta. Ma come è svolta nelle teorie di Froebel e Hegel, essa implica l’ignoranza dell’interazione delle presenti tendenze organiche con l’ambiente presente, proprio quanto l’idea della preparazione. Un certo tutto implicito è considerato come già bell’e pronto, e l’importanza della crescenza è transitoria, non fine a se stessa, ma semplicemente un mezzo di rendere esplicito ciò che è già implicito. Poiché non si può adoperare in modo determinato ciò che non è esplicito, bisogna trovare qualcosa per rappresentarlo. Secondo Froebel, il valore mistico simbolico di alcuni oggetti e atti (specialmente matematici) rappresenta il Tutto Assoluto che è in processo di svolgersi. Secondo Hegel, le istituzioni esistenti sono i suoi effettivi rappresentanti reali. L’accento sui simboli e sulle istituzioni tende a sviare la percezione dalla crescenza diretta dell’esperienza in ricchezza di significato” (91-92).

“Un’altra teoria influente ma errata è quella che considera che la mente ha, fin dalla nascita, certe facoltà come osservare, ricordare, volere, giudicare, generalizzare, prestare attenzione ecc., e che l’educazione è l’allenamento di queste facoltà attraverso il ripetuto esercizio. Questa teoria tratta l’oggetto come relativamente esterno e indifferente, il suo valore essendo solo nel fatto che può provocare l’esercizio delle facoltà generali. Abbiamo criticato questa separazione delle supposte facoltà l’una dall’altra e dal materiale sul quale agiscono. Il risultato della teoria in pratica si è mostrato essere un’esagerata accentuazione dell’allenamento di modi di abilità ristretti e specializzati a spese dell’iniziativa, dell’inventività e della riadattabilità: qualità che dipendono dall’interazione vasta e continua delle attività specifiche fra di loro” (92).

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“L’educazione può essere considerata sia retrospettivamente sia prospetticamente. Cioè può esser considerata come processo di adattamento del futuro al passato, o come un’utilizzazione del passato ai fini del futuro che si va sviluppando. Il primo trova le sue norme e i suoi modelli in ciò che è già accaduto” (106).

“La mente può esser considerata come un gruppo di contenuti risultanti dall’aver avuto presentate certe cose. In questo caso le prime rappresentazioni costituiscono il materiale al quale le ultime dovranno essere assimilate. È importantissimo porre in rilievo il valore delle prime esperienze degli esseri immaturi, specialmente per via della tendenza a tenerle in poco conto. Ma queste esperienze non consistono in materiale offerto dall’esterno, ma nell’interazione fra le attività innate e l’ambiente che modifica progressivamente sia le attività che l’ambiente. Il difetto della teoria herbartiana della formazione per mezzo della rappresentazione, consiste nel dare poca importanza a questa costante interazione e cambiamento” (106-107).

“Lo stesso principio di critica si applica alle teorie che trovano l’argomento precipuo di studio nei prodotti culturali, e specialmente nei prodotti letterari, della storia dell’uomo. Isolati dal loro rapporto con l’ambiente presente, nel quale devono agire gli individui, essi diventano una specie di ambiente rivale e distraente. Il loro valore sta nel servire ad aumentare il significato delle cose con le quali siamo occupati attualmente. L’idea dell’educazione […] è formalmente compendiata nell’idea della ricostruzione continua dell’esperienza, idea distinta dall’educazione come preparazione per un futuro remoto, come svolgimento, come formazione esterna, e come ricapitolazione del passato” (107).

“Poiché l’educazione è un processo sociale, e vi sono molte specie di società, un criterio per la critica e la costruzione implica un ideale sociale particolare. I due punti scelti con i quali misurare il valore di una forma di vita sociale, sono il grado in cui gli interessi di un gruppo sono condivisi da tutti i suoi membri, e la pienezza e la libertà con la quale esso agisce con altri gruppi. Una società indesiderabile, in altre parole, è una società che pone, internamente e esternamente, delle barriere alle libere relazioni e alla comunicazione dell’ “esperienza” (132).

“Una società che ponga in grado tutti i suoi membri di partecipare, a condizioni eguali, a quel che ha di buono e che assicuri un riadattamento flessibile delle sue istituzioni attraverso lo scambio delle diverse forme di vita associata, è democratica. Una simile società deve avere un tipo di educazione che interessi personalmente gli individui alle relazioni e al controllo sociale e dia le abitudini mentali che assicurino cambiamenti sociali senza introdurre disordine” (132).

“Tre tipiche filosofie storiche dell’educazione sono state considerate da questo punto di vista. Si trovò che quella di Platone aveva un ideale formalmente assai simile a quello esposto, ma che questo era compromesso nel suo funzionamento, in quanto faceva dell’unità sociale una classe piuttosto che un individuo. Il cosiddetto individualismo dell’illuminismo del XVIIII secolo si trovò che implicava l’idea di una società vasta come l’umanità, del cui progresso l’individuo doveva essere l’organo. Ma esso mancava di qualsiasi mezzo per assicurare lo sviluppo del suo ideale, come si vede dal suo ricadere nella natura. Le filosofie idealistiche istituzionali del XIX secolo hanno riempito questa mancanza facendo dello stato nazionale il mezzo cercato, ma, così facendo, limitarono la concezione dello scopo sociale ai soli membri della medesima unità politica, e reintrodussero l’idea della subordinazione dell’individuo all’istituzione” (132-133).

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“Uno scopo denota il risultato di qualsiasi processo naturale reso cosciente e trasformato in fattore nella determinazione delle osservazioni e della scelta dei modi di agire presenti. Significa che un’attività è diventata intelligente. Specificamente significa previsione delle conseguenze alternative che seguono i diversi modi di agire in una data situazione, e l’uso di ciò che si prevede dirigerà l’osservazione e l’esperimento” (147-148).

“Un vero scopo è perciò opposto in tutti i suoi punti a uno scopo che sia imposto dall’esterno a un processo d’azione. Quando quest’ultimo è fisso e rigido, non è stimolo all’intelligenza in una data situazione, ma ordine di fare quelle date cose dettato dall’esterno. Invece di collegarsi direttamente con le attività presenti, è remoto, distaccato dai mezzi con i quali bisogna raggiungerlo. Invece di suggerire un’attività più libera e meglio equilibrata, è una limitazione posta all’attività. Nell’educazione, l’accettazione in grande stile di questi scopi che si sogliono imporre dall’esterno è responsabile tanto dell’accento posto sull’idea della preparazione ad un avvenire remoto, quanto della meccanicità e della schiavitù a cui è ridotto il lavoro sia del maestro che dell’allievo” (148).

“Gli scopi generali o comprensivi sono punti di vista per esaminare i problemi specifici dell’educazione. Per conseguenza è una prova del valore del modo in cui ogni vasto fine è esposto, il vedere se si tradurrà facilmente e in modo consistente nei procedimenti suggeriti da un altro scopo. Abbiamo applicato questa prova a tre scopi generali: lo sviluppo secondo la natura, l’efficienza sociale, e la cultura o l’arricchimento mentale della persona. In ogni caso abbiamo visto che gli scopi quando sono esposti parzialmente, vengono in conflitto fra di loro” (165).

“L’esposizione parziale dello sviluppo naturale considera le facoltà primitive di un supposto sviluppo spontaneo come definitive. Da questo punto di vista l’allenamento che le rende utili ad altre è una costrizione anormale; un allenamento che le modifichi profondamente per mezzo di una educazione deliberata li corrompe. Ma quando riconosciamo che le attività naturali significano attività native che si sviluppano solo con gli usi per i quali sono allevate, il conflitto scompare. In modo simile, un’efficienza sociale concepita come servizi esterni agli altri è necessariamente opposta allo scopo di arricchire il significato dell’esperienza, mentre la cultura intesa come un raffinamento interno della mente è opposta a una attitudine alla socialità. Ma l’efficienza sociale come scopo educativo dovrebbe significare la coltivazione della facoltà di partecipare liberamente e pienamente ad attività comuni. Questo è impossibile senza la cultura, mentre accresce a sua volta la cultura, perché non possiamo partecipare agli scambi con altri senza imparare, senza raggiungere un punto di vista più largo e osservare cose delle quali altrimenti saremmo rimasti ignoranti. E non vi è forse una miglior definizione della cultura che di dire che essa è la capacità di estendere l’ambito e l’accuratezza della nostra percezione dei significati” (165-166).

“L’interesse e la disciplina sono aspetti correlativi dell’attività che abbia uno scopo. L’interesse significa che la persona si identifica con gli oggetti che definiscono l’attività e che forniscono i mezzi e gli ostacoli alla sua realizzazione. Qualsiasi attività che tende ad uno scopo implica una distinzione fra una precedente fase incompleta ed una fase ulteriore che la completa; implica anche dei passaggi intermedi. Avere un interesse significa considerare le cose come rientranti in una tale situazione in continuo sviluppo, invece di considerarle isolate. La differenza di tempo fra un dato stato di cose

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incompleto e il desiderato completamento, richiede uno sforzo di trasformazione; richiede una continuità di attenzione e di costanza. Questo atteggiamento è ciò che praticamente s’intende per volontà. Il frutto ne è la disciplina o lo sviluppo della capacità di attenzione continuata” (185).

“Il significato di questa dottrina per la teoria dell’educazione è di due specie. Da una parte ci protegge dall’idea che la mente e gli stati mentali sono qualcosa di completo in se stessi, che vengono applicati per caso a qualche oggetto e argomento bell’e fatto, in modo che ne risulti la conoscenza. Dimostra che la mente e l’impegno intelligente e deliberato in un corso d’azione nel quale rientrano le cose sono identici. Perciò sviluppare e allenare la mente significa provvedere un ambiente che provochi una simile attività. D’altra parte, ci protegge dall’idea che l’oggetto del sapere da parte sua sia qualcosa d’isolato e indipendente. Dimostra che la materia dello studio è identica con tutti gli oggetti, idee e principi che rientrano come risorse o ostacoli nel perseguimento intenzionale e continuo del corso di un’azione. Il corso di un’azione in sviluppo, il cui scopo e le cui condizioni sono percepiti, è l’unità che collega ciò che spesso viene diviso in una mente indipendente da una parte e in un mondo indipendente di oggetti e fatti dall’altra” (185).

“Nel determinare il posto del pensiero nell’esperienza abbiamo prima notato che l’esperienza implica un nesso del fare o del provare con qualcosa alla quale ci si sottopone in conseguenza. La separazione della fase attiva del fare da quella passiva del sottostare distrugge il significato vitale di un’esperienza. Pensare è istituire in modo accurato e deliberato dei nessi fra quel che è stato fatto e le sue conseguenze. Non solo indica che sono connessi ma indica anche i dettagli della connessione. Rende espliciti gli anelli della catena nella forma di relazioni” (202).

“Lo stimolo a pensare si trova nel desiderio di determinare il significato di qualche atto, eseguito o da eseguire. Allora prevediamo le conseguenze. Questo implica che la situazione come è, è di fatto o per noi incompleta e perciò indeterminata. La previsione delle conseguenze significa una soluzione proposta o tentata. Per perfezionare questa ipotesi, le condizioni esistenti devono essere attentamente esaminate e ciò che è implicito nelle ipotesi deve essere sviluppato; che è l’operazione che chiamiamo ragionamento. Allora la soluzione suggerita, l’idea o la teoria, deve essere provata, agendo in base ad essa. Se produce certe conseguenze, certi cambiamenti determinati, nel mondo, viene accettata come valida. Altrimenti è modificata, e si fa un altro tentativo. Il pensiero include tutti questi passi: senso di un problema, osservazione delle condizioni, formazione ed elaborazione razionale di una conclusione suggerita, e prova sperimentale attiva” (202-203).

“Mentre tutto il pensare risulta in conoscenza, in ultimo il valore della conoscenza è subordinato al suo uso nel pensare. Noi difatti non viviamo in un mondo assestato e finito, ma in un mondo che continua, e nel quale il nostro compito principale è prospettico, e dove il retrospettivo (e tutta la conoscenza distinta dal pensiero è retrospettiva) ha valore nella solidità, sicurezza e fecondità che offre al nostro trattamento del futuro” (203).

“I processi dell’istruzione sono unificati nel grado in cui si concentrano nella produzione di buone abitudini di pensare. Mentre possiamo parlare, senza errore, di un metodo di pensare, quel che importa è che il pensiero sia il metodo di un’esperienza educativa. L’essenziale del metodo è perciò identico all’essenziale della riflessione.

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Questo essenziale consiste prima di tutto nel fatto che l’allievo sia posto in una situazione genuina di esperienza: che ci sia un’attività continua la quale lo interessi per se stessa; in secondo luogo che un problema reale si sviluppi in questa situazione come uno stimolo al pensiero; in terzo luogo che egli possegga il materiale informativo e faccia le osservazioni necessarie per farne uso; in quarto luogo ch’egli sia posto in grado di sviluppare in modo ordinato le soluzioni che gli vengono in mente; infine, che abbia opportunità e occasione di saggiare le sue idee per mezzo dell’applicazione, per rendere chiaro il loro significato e scoprire da sé la loro validità” (219).

“Il metodo è la determinazione del modo in cui si sviluppa più efficacemente e fecondamente l’oggetto di un’esperienza. Deriva perciò dall’osservazione del corso delle esperienze, dove non vi è una distinzione cosciente dell’atteggiamento e della maniera personale dal materiale col quale si tratta. La supposizione che il metodo sia qualcosa di separato, è legata con l’idea dell’isolamento della mente e della persona dal mondo delle cose. Essa rende l’istruzione e lo studio formali, meccanici, forzati. Mentre, se i metodi sono individualizzati, alcuni aspetti del corso normale di un’esperienza verso il suo compimento possono esser distinti, per via del capitale di saggezza derivato da esperienze precedenti e delle somiglianze generali nei materiali trattati di volta in volta. Espresso nei termini dell’atteggiamento dell’individuo, gli aspetti di un buon metodo sono la franchezza, l’interesse intellettuale flessibile, o volontà illuminata di imparare, l’integrità del proposito e l’accettazione della responsabilità verso le conseguenze delle nostre attività, incluso il pensiero” (241).

“Il materiale dell’educazione consiste primariamente nei significati che forniscono il contenuto alla vita sociale presente. La continuità della vita sociale significa che molti di questi significati sono stati presi come contributo all’attività presente dall’esperienza collettiva passata. Via via che la vita sociale diventa più complessa, questi fattori aumentano di numero e di importanza. C’è bisogno di selezione speciale, di formulazione, e di organizzazione perché essi possano essere adeguatamente trasmessi alla nuova generazione. Ma questo stesso processo tende a fare del materiale qualcosa che abbia un valore in se stesso, astraendo dalla sua funzione nel promuovere la realizzazione dei significati impliciti nell’esperienza presente degli immaturi. In modo speciale l’educatore è esposto alla tentazione di concepire il suo compito nei termini della capacità dell’allievo di appropriarsi e riprodurre il materiale in asserzioni fisse, indipendentemente dalla organizzazione di esso nelle sue attività come membro sociale in sviluppo. Il principio positivo è mantenuto quando i giovani cominciano con occupazioni attive che hanno un’origine e un uso sociale, e procedono verso una comprensione scientifica dei materiali e delle leggi implicite, assimilando nella loro esperienza più diretta le idee e i fatti comunicati da altri, che hanno avuto esperienze più vaste” (259).

“[…] L’oggetto primario della conoscenza è quello contenuto nello studio del modo in cui fare le cose di un genere abbastanza diretto. L’equivalente di questo principio è l’uso coerente di occupazioni semplici che fanno appello alle facoltà dei giovani e che tipizzano i modi generali dell’attività sociale. L’abilità e l’informazione sui materiali, gli strumenti e le leggi dell’energia sono acquistate mentre le attività sono continuate per loro stesse. Il fatto che sono socialmente rappresentative dà una qualità all’abilità e alla conoscenza ottenuta che le rende trasferibili in situazioni extra-scolastiche” (275-276).

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“È importante non confondere la distinzione psicologica fra gioco e lavoro con la distinzione economica. Psicologicamente la caratteristica che definisce il gioco non è il divertimento o l’esser privo di scopo. È il fatto che lo scopo è considerato come un’ulteriore attività nella stessa linea, senza definire la continuità dell’azione con riferimento ai risultati prodotti. Via via che le attività diventano più complicate, aumentano di significato per mezzo di una maggiore attenzione ai risultati specifici raggiunti. Così passano gradualmente nel lavoro. Entrambi sono ugualmente liberi e intrinsecamente motivati, all’infuori delle false condizioni economiche che tendono a fare del gioco un vano eccitamento per gli agiati e del lavoro una fatica ingrata per i poveri” (276).

“Psicologicamente il lavoro non è che un’attività che include coscientemente il rispetto per le conseguenze come parte di se stesso; diventa lavoro forzato, se le conseguenze sono al di fuori dell’attività come un fine per il quale l’attività non è che un mezzo. Il lavoro che rimane permeato dell’atteggiamento proprio del gioco è arte, come qualità, se non come designazione convenzionale” (276).

“Costituisce la natura di un’esperienza l’avere delle implicazioni che oltrepassano di molto ciò che da prima vi si era coscientemente notato. Se si portano questi legami ed implicazioni alla coscienza, si accentua il significato dell’esperienza. Qualsiasi esperienza, per quanto banale possa essere in apparenza, può assumere una ricchezza indefinita di significato con l’estendere il suo ambito di legami percepiti. La comunicazione normale con gli altri è il modo più facile di effettuare questo sviluppo, poiché collega i risultati netti della esperienza del gruppo e perfino della razza con l’esperienza immediata di un individuo. Per comunicazione normale si intende quella nella quale c’è un interesse comune congiunto, di modo che uno sia impaziente di dare e l’altro di prendere. Il che contrasta col semplice dire o affermare le cose per poterle imprimere su un altro al solo fine di controllare quanto ha ritenuto e quanto è in grado di riprodurre letteralmente” (291).

“La geografia e la storia sono due grandi risorse della scuola per promuovere l’allargamento del significato di un’esperienza personale diretta. Le occupazioni attive si stendono nello spazio e nel tempo in rapporto tanto alla natura quanto all’uomo. A meno che non siano insegnate per ragioni esterne o come semplici modi di abilità, il loro valore educativo principale consiste nel procurare la via più diretta e più interessante verso il più vasto mondo di significati esposti nella storia e nella geografia. Mentre la storia rende esplicite le implicazioni umane e la geografia i legami naturali, queste materie sono due fasi dello stesso complesso vivente, poiché la vita degli uomini associati continua nella natura, non come uno scenario accidentale, ma come il materiale e l’ambiente dello sviluppo” (291-292).

“La scienza rappresenta il frutto dei fattori conoscitivi nell’esperienza. Invece di contentarsi di una semplice formulazione di ciò che si raccomanda all’esperienza personale o abituale, tende ad una formulazione che riveli le fonti, i fondamenti e le conseguenze di una convinzione. Il raggiungimento di questo scopo dà un carattere logico alle formulazioni. Dal punto di vista educativo bisogna notare che le caratteristiche logiche del metodo, poiché appartengono ad una materia di studio che ha raggiunto un altro grado di elaborazione intellettuale, sono diverse dal metodo dell’educando, che è l’ordine cronologico per cui si passa da una qualità di esperienza rudimentale a una più raffinata. Se si ignora questo fatto, la scienza è trattata come un cumulo di mere informazioni, che sono però meno interessanti e più remote

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dell’informazione ordinaria, essendo esse esposte in un vocabolario tecnico e inusuale” (308).

“La funzione che la scienza deve assolvere nel curricolo è quella che ha assolto per la razza: l’emancipazione dagli accidenti locali e temporanei dell’esperienza e l’apertura di orizzonti intellettuali che non siano oscurati da accidenti di abitudini e predilezioni personali. Gli aspetti logici dell’astrazione, della generalizzazione e della formulazione determinata, sono tutti associati con questa funzione. Con l’emancipare un’idea dal contesto particolare nel quale è nata, e col darle un riferimento più vasto, i risultati dell’esperienza di ogni individuo sono messi a disposizione di tutti gli uomini. Così la scienza è in ultima istanza e filosoficamente l’organo del progresso sociale generale” (308-309).

“Fondamentalmente, gli elementi impliciti in una discussione circa il valore sono stati trattati nell’esame sugli scopi e gli interessi. Ma poiché i valori dell’educazione sono generalmente discussi in connessione con le esigenze dei vari studi del curricolo la considerazione degli scopi e degli interessi è ripresa qui dal punto di vista degli studi speciali. Il termine ‘valore’ ha due significati ben diversi. Da un lato denota l’atteggiamento per cui si apprezza una cosa, le si attribuisce un valore per se stessa o intrinsecamente. Questo è il nome adatto per un’esperienza piena o completa. Valutare in questo senso significa apprezzare. Ma valutare significa anche un atto distintamente intellettuale, un’operazione di confronto e giudizio, una stima. Questo avviene quando manca l’esperienza diretta e piena, e sorge il problema, quale delle varie possibilità di una situazione sia da preferire in modo da raggiungere una piena realizzazione, o una esperienza vitale” (333-334).

“Non dobbiamo, però, dividere gli studi del curricolo in apprezzativi, che riguardano cioè il valore intrinseco, e in strumentali, che riguardano valori o fini che li trascendono. La formazione di norme convenienti in qualsiasi materia dipende dalla comprensione del contributo che essa dà al significato immediato dell’esperienza, dall’apprezzamento diretto. La letteratura e le belle arti hanno un valore particolare perché rappresentano il più alto apprezzamento, una piena comprensione del significato attraverso selezione e concentramento. Ma ogni argomento, in qualche fase del suo sviluppo dovrebbe possedere una qualità estetica per l’individuo che se ne occupa” (334).

“Il contributo ai valori intrinseci immediati in tutta la loro varietà nell’esperienza, è il solo criterio per determinare il pregio dei valori strumentali e derivati negli studi. La tendenza ad attribuire valori separati a ogni studio ed a considerare il curricolo nel suo insieme, come una specie di composto risultante dall’aggregazione di valori separati, è un risultato dell’isolamento di gruppi e classi sociali. Perciò il compito dell’educazione in un gruppo democratico sociale è di lottare contro questo isolamento per fare in modo che i vari interessi possano rinforzarsi e armonizzarsi” (334).

“La più fondamentale delle scissioni fra i valori educativi è probabilmente quella fra cultura e utilità. Mentre la distinzione è spesso considerata intrinseca e assoluta, è in realtà storica e sociale. Ha avuto la sua origine, per quel che riguarda la formulazione cosciente, in Grecia, e la sua base sul fatto che la vita veramente umana era vissuta solo da pochi che vivevano dei frutti del lavoro altrui. E ciò ha influenzato la dottrina psicologica della relazione fra intelligenza e desiderio, teoria e pratica. Su di esso è fondata la teoria politica della divisione permanente degli uomini fra esseri capaci di una vita di ragione, e che perciò hanno i loro propri fini, ed esseri capaci solo di

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desiderio e di lavoro, e che hanno bisogno che i loro fini vengano procurati loro da altri” (349).

“Le due distinzioni, psicologica e politica, tradotte in termini educativi, hanno provocato la divisione fra un’educazione liberale connessa con la vita agiata bastante a se stessa, dedicata alla conoscenza pura, e un addestramento utile e pratico alle occupazioni meccaniche, priva di contenuto intellettuale ed estetico. Mentre la situazione attuale è radicalmente diversa in teoria e molto cambiata di fatto, i fattori della situazione antica persistono abbastanza per conservare la distinzione educativa, insieme ai compromessi che spesso riducono l’efficacia delle misure educative. Il problema dell’educazione di una società democratica è di eliminare il dualismo e di costruire un corso di studi che faccia del pensiero una guida di libera pratica per tutti e dell’agio una ricompensa per aver accettato la responsabilità del servizio, piuttosto che uno stato di esenzione da esso” (349-350).

“I greci furono indotti a filosofare dal fallimento crescente dei loro costumi tradizionali e delle loro credenze a regolare la vita. Così furono condotti a criticare i costumi e a cercare qualche altra fonte di autorità per la loro vita e la loro credenza. Poiché desideravano una norma razionale per quest’ultimo e avevano identificato l’esperienza con i costumi che si erano dimostrati un ausilio insoddisfacente, furono portati a contrapporre nettamente la ragione all’esperienza. Più si esaltava la prima e più si disprezzava la seconda. Dacchè l’esperienza è stata identificata con ciò che fanno e subiscono gli uomini in particolare, e con le situazioni variabili della vita, il fare fu coinvolto nel disprezzo filosofico. Questa influenza concorse con molte altre a magnificare, nell’educazione più elevata, tutti i metodi e le materie che meno esigevano l’osservazione sensibile e l’attività fisica” (369).

“L’era moderna cominciò col ribellarsi contro questo punto di vista, facendo appello all’esperienza, e attaccando i cosiddetti concetti puramente razionali per la ragione che o avevano bisogno di esser bilanciati con i risultati delle esperienze concrete, oppure erano mere espressioni del pregiudizio e dell’interesse di classe istituzionalizzato, che si facevano chiamare razionali per ragioni di difesa. Ma varie circostanze portarono a considerare l’esperienza come pura cognizione, senza tener conto delle sue fasi intrinseche, attive ed emotive, e ad identificarla con una ricezione passiva di ‘sensazioni’ isolate. Perciò la riforma dell’educazione compiuta dalla nuova teoria si limitò in gran parte a eliminare una parte della pedanteria dei metodi precedenti, non compì una riorganizzazione costruttiva” (370).

“Nel frattempo, il progresso della psicologia, dei metodi industriali e del metodo sperimentale nella scienza, rende esplicitamente desiderabile e possibile un’altra concezione dell’esperienza. Questa teoria ristabilisce l’idea degli antichi che l’esperienza è in primo luogo un fatto pratico, non conoscitivo, si tratta di agire e di subire le conseguenze dell’azione. Ma l’antica teoria è trasformata in questo senso che l’azione può esser diretta in modo da completare nel suo contenuto tutto quello che suggerisce il pensiero, e in modo da risultare in una conoscenza sicuramente verificata. L’ ‘esperienza’ cessa allora di essere empirica e diventa sperimentale. La ragione cessa di essere una facoltà remota e ideale, e significa tutte le risorse con le quali l’attività è resa feconda di significato” (370).

“Il dualismo filosofico fra l’uomo e la natura si riflette nella divisione fra studi naturalistici e umanistici, con una tendenza a ridurre questi ultimi a documentazione

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letteraria del passato. Questo dualismo non è caratteristico del pensiero greco […]. È sorto in parte per il fatto che la cultura di Roma e dell’Europa barbarica non è stata un prodotto indigeno, essendo stata attinta direttamente e indirettamente dalla Grecia, e in parte perché le condizioni politiche ed ecclesiastiche hanno accentuato la dipendenza dall’autorità della conoscenza passata essendo questa trasmessa in documenti letterari” (388).

“Da principio, il sorgere della scienza moderna preannunziò il ristabilimento del nesso intimo fra natura e umanità, poiché considerò la conoscenza della natura come il mezzo per raggiungere il progresso e il benessere umano. Ma le applicazioni più immediate della scienza furono fatte nell’interesse di una classe piuttosto che degli uomini in generale; e le formulazioni filosofiche ricevute circa la dottrina scientifica tendevano o a separarla, come puramente materiale, dall’uomo considerato spirituale e immateriale, oppure a ridurre la mente a un’illusione soggettiva. Donde la tendenza nell’educazione a trattare le scienze come un corpo separato di studi, consistente nell’informazione tecnica circa il mondo fisico, e a conservare i vecchi studi letterari come distintivamente umanistici. Quanto abbiamo già detto sull’evoluzione della conoscenza, e sul paino educativo degli studi basati su di essa, è volto a superare tale separazione e a ottenere il riconoscimento del posto che occupa l’oggetto delle scienze della natura negli affari umani” (388).

“Il vero individualismo è un prodotto del rilassamento della presa che ha l’autorità sul costume e sulle tradizioni come norme di fede. Eccettuato qualche esempio sporadico, come nel culmine della speculazione greca, esso è una manifestazione relativamente moderna. Non che non ci siano sempre state delle differenze individuali, ma una società dominata dal costume conservatore, le reprime o almeno non le utilizza e non le promuove. Per varie ragioni, però, il nuovo individualismo fu interpretato filosoficamente non come se significasse lo sviluppo delle operazioni per rivedere e trasformare le credenze precedentemente accettate, ma nel senso che la mente di ogni individuo era completa indipendentemente da qualsiasi altra cosa” (408).

“Nella fase teoretica della filosofia questo ha prodotto il problema epistemologico: il problema circa la possibilità di una relazione conoscitiva dell’individuo col mondo. Nella sua fase pratica, suscita il problema della possibilità di una coscienza puramente individuale, che agisce a favore di interessi generali o sociali: il problema della direzione sociale. Mentre le filosofie che sono state elaborate per trattare queste questioni non hanno influenzato direttamente l’educazione, le supposizioni che esse includevano hanno trovato espressione nella separazione che si fa spesso fra studio e governo, e fra libertà dell’individualità e controllo altrui” (408).

“Per quanto concerne la libertà, la cosa importante da tener presente è che essa designa un atteggiamento mentale piuttosto che una libertà esterna non coatta di movimenti, ma che questa qualità mentale non può svilupparsi senza una certa libertà di movimento nell’esplorazione, nell’applicazione ecc. Una società basata sul costume utilizzerà le variazioni individuali soltanto fino al limite della conformità all’usanza; l’uniformità è l’ideale principale in ogni classe. Una società progressiva considera preziose le variazioni individuali, poiché in loro trova i mezzi per il suo proprio sviluppo. Perciò una società democratica deve tener conto, coerentemente col suo ideale, della libertà intellettuale e del gioco delle diverse doti ed interessi nei suoi provvedimenti educativi” (409).

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“Professione significa qualsiasi forma di attività continuata che renda servizio agli altri e impieghi i poteri personali per il raggiungimento di risultati. La questione della relazione della professione con l’educazione mette a fuoco i vari problemi […] che concernono il legame del pensiero con l’attività del corpo; dello sviluppo individuale consapevole con la vita associata; della cultura teorica con la condotta pratica che persegue risultati determinati; del guadagnarsi la vita con il degno godimento del tempo libero” (428).

In generale l’opposizione al riconoscimento delle fasi professionali della vita nell’educazione (eccetto il leggere, lo scrivere e il far di conto che hanno scopo utilitario nella scuola elementare) si accompagna alla conservazione degli ideali aristocratici del passato. Ma al momento attuale c’è un movimento a favore di un cosiddetto addestramento professionale che, se raggiungesse i suoi scopi, irrigidirebbe quelle idee in una forma adatta all’attuale regime industriale. Questo movimento continuerebbe l’educazione tradizionale, liberale o culturale, a favore dei pochi che sono economicamente capaci di goderla, e impartirebbe alle masse una ristretta educazione tecnico-commerciale a mestieri specializzati, cui attendere sotto il controllo altrui” (428).

“Questo piano denota, naturalmente, la pura e semplice perpetuazione della vecchia divisione sociale con il conseguente dualismo intellettuale e morale. Ma significa la continuazione di essa in condizioni in cui è molto meno giustificata la sua esistenza. Poiché la vita industriale è adesso talmente dipendente dalla scienza, e influenza così intimamente tutte le forme di relazioni sociali, che ci si porge l’occasione di utilizzarla per lo sviluppo della mente e del carattere. Inoltre un uso educativo giusto di questa vita reagirebbe sull’intelligenza e sull’interesse in modo da modificare, in connessione con la legislazione e con l’amministrazione, gli aspetti sociali antipatici dell’ordine industriale e commerciale esistente” (428-429).

“Volgerebbe a scopi costruttivi il fondo crescente di simpatia sociale, invece di lasciarlo come un sentimento filantropico un po’ cieco. Darebbe a quelli che attendono a mestieri industriali il desiderio e l’abilità di condividere il controllo sociale e la capacità di diventare padroni della loro sorte industriale. Permetterebbe loro di saturare di significato gli aspetti tecnici e meccanici che sono un aspetto così accentuato del nostro sistema di macchine per la produzione e la distribuzione. Questo per coloro che stanno economicamente più in basso. Per quel che concerne i rappresentanti della parte più privilegiata della comunità, essa aumenterebbe simpatia per il lavoro, creerebbe una disposizione mentale in grado di scoprire gli elementi culturali nell’attività utile, e aumenterebbe il senso di responsabilità sociale” (429).

“La posizione cruciale del problema dell’educazione professionale al presente è dovuta, in altre parole, al fatto che essa concentra in un punto specifico due domande fondamentali, se l’intelligenza si eserciti meglio fuori o dentro l’attività che pone la natura all’uso umano, e se la cultura individuale si consegua più facilmente nello stato di egoismo o nello stato sociale” (429).

“[…] La filosofia [è] la teoria generale dell’educazione. […] La filosofia è una forma di pensare che, come tutto il pensare, ha le sue origini in ciò che è incerto nell’oggetto dell’esperienza, che mira a localizzare la natura di questo imbarazzo e a formulare ipotesi perché il suo chiarimento sia saggiato con l’azione. Il pensare filosofico ha per sua ‘differentia’ il fatto che le incertezze con le quali ha da fare si trovano in condizioni

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e scopi sociali molto diffusi, che consistono in un conflitto di interessi organizzati e di pretese istituzionali” (444).

“Poiché l’unico modo di produrre un riadattamento armonico delle tendenze opposte è quello di modificare la disposizione emotiva e intellettuale, la filosofia è al tempo stesso una formulazione esplicita dei vari interessi della vita e una proposta di punti di vista e di metodi per mezzo dei quali si può conseguire un miglior equilibrio di interessi. Poiché l’educazione è il processo per mezzo del quale si può compiere la necessaria trasformazione invece di lasciarla nella fase di semplice ipotesi circa quello che è desiderabile, arriviamo a una giustificazione dell’affermazione che la filosofia è la teoria dell’educazione in quanto pratica deliberatamente condotta” (444).

“Le divisioni sociali che ostacolano il pieno e libero scambio reagiscono rendendo unilaterali l’intelligenza e la conoscenza dei membri delle classi separate. Coloro la cui esperienza riguarda cose utili tagliate fuori dal più ampio fine al quale servono sono empiristi pratici; coloro che godono la contemplazione di un regno di significati nella cui produzione attiva non hanno affatto partecipato sono razionalisti pratici. Coloro che entrano in contatto diretto con le cose e devono adattare le loro attività immediatamente ad esse, sono, in effetti, dei realisti; coloro che isolano i significati di queste cose e li pongono in un mondo religioso o cosiddetto spirituale, al di fuori degli oggetti, sono, in effetti, degli idealisti. Quelli che si propongono di promuovere il progresso, che si sforzano di cambiare credenze tramandate, accentuano il fattore individuale nel conoscere; quelli, il cui compito principale è di opporsi al cambiamento e di conservare la verità tramandata, mettono in risalto l’universale, quel che è stabilito, e così via” (460).

“I sistemi filosofici nelle loro teorie opposte della conoscenza offrono una formulazione esplicita dei tratti caratteristici di questi segmenti separati e unilaterali dell’esperienza; unilaterali perché le barriere poste contro lo scambio reciproco impediscono all’esperienza di una persona di arricchirsi e di completarsi con quella delle altre diversamente situate” (460).

“In modo analogo poiché la democrazia rappresenta come principio il libero scambio, la continuità sociale, deve sviluppare una teoria della conoscenza che veda nella conoscenza il metodo col quale un’esperienza è resa utile nel dare direzione e significato a un’altra. I recenti progressi nella fisiologia, nella biologia e nella logica delle scienze sperimentali, forniscono gli specifici strumenti intellettuali che sono richiesti per elaborare e formulare questa teoria. Il loro equivalente educativo è la connessione dell’acquisto della conoscenza nelle scuole con le attività o occupazioni, cui si attende in un ambiente di vita associata” (460-461).

“Il problema più importante dell’educazione morale nella scuola riguarda i rapporti della conoscenza con la condotta. Difatti se ciò che si acquista nel corso regolare degli studi non influenza il carattere, è inutile considerare il fine morale come il fine unificatore e culminante dell’educazione. Quando non vi è un’intima connessione organica fra i metodi e i materiali della conoscenza e dello sviluppo morale, bisogna ricorrere alle azioni e ai metodi particolari della disciplina; la conoscenza non è integrata nelle fonti abituali di azione e del modo di vedere la vita, mentre la morale diventa moralistica: un sistema di virtù separate” (481).

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“Le due teorie principalmente congiunte con la separazione dello studio dall’attività, e perciò dalla morale, sono quelle che dividono la disposizione interna e il movente (il fattore personale cosciente) dalle azioni come puramente fisiche ed esteriori; e che pongono l’azione fatta per interesse in opposizione con quella fatta in base a principi. Entrambe queste separazioni sono superate in un piano educativo nel quale lo studio accompagna le attività o le occupazioni continue che hanno uno scopo sociale e utilizzano i materiali di situazioni tipicamente sociali. In queste condizioni difatti la scuola stessa diventa una forma di vita sociale, una comunità in miniatura, una comunità che ha un’interazione continua con altri metodi di esperienza associata al di fuori delle mura della scuola” (481).

“Tutta l’educazione che sviluppa la facoltà di partecipare effettivamente alla vita sociale è morale. Essa forma un carattere che non solo compie quell’azione particolare che è socialmente necessaria, ma che si interessa a quel continuo riadattamento che è essenziale alla crescenza. L’interesse all’imparare da tutti i contatti con la vita è l’essenziale interesse morale” (481).

Da Il mio credo pedagogico“Ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza

sociale della specie. Questo processo s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà dell’individuo, saturando la sua coscienza, formando i suoi abiti, esercitando le sue idee e destando i suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita ad accumulare. Egli diventa un erede del capitale consolidato della civiltà. La educazione più formale e tecnica che esista al mondo non può sottrarsi senza rischio a questo processo generale. Può soltanto organizzarlo o trasformarlo in qualche direzione particolare” (p. 3).

“La sola vera educazione avviene mediante lo stimolo esercitato sulle facoltà del ragazzo da parte delle esigenze della situazione sociale nella quale esso si trova. Tali esigenze lo stimolano ad agire come membro di un’unità, a uscire dalla sua originaria angustia di azione e di sentire, e a pensare a se stesso dal punto di vista del benessere del gruppo del quale fa parte. Attraverso le reazioni degli altri alle sue attività esso arriva a capire che cosa queste significano in termini sociali. Ad esse ritorna riflesso il valore che esse hanno. Ad esempio, attraverso la risposta che si fa all’istintivo balbettare del fanciullo questi giunge a comprendere il significato di questo balbettio. Esso si trasforma in linguaggio articolato e in tal modo il fanciullo ha accesso alle ricchezze di idee e di emozioni che sono accumulate e consolidate nel linguaggio” (pp. 3-4).

“Il processo educativo ha due aspetti, l’uno psicologico e l’altro sociologico, e nessuno dei due può venire subordinato all’altro o trascurato senza che ne conseguano cattivi risultati. Di questi due aspetti quello psicologico è basilare. Gli istinti e i poteri medesimi del fanciullo forniscono il materiale e danno l’avvio a tutta l’educazione. Se gli sforzi dell’educatore non si riallacciano a qualche attività che il fanciullo compie di sua propria iniziativa indipendentemente dall’educatore stesso, l’educazione si riduce a una pressione dall’esterno. Essa può dare dei risultati esterni, ma non può essere veramente chiamata educativa. Senza una penetrazione della struttura e delle attività psichiche dell’individuo il processo educativo sarà, perciò, accidentale e arbitrario. Se coincide fortuitamente coll’attività del fanciullo, ne verrà stimolato; altrimenti risulterà

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in un ostacolo o in un agente di disintegrazione o di arresto della natura del fanciullo” (p. 4).

“La conoscenza delle condizioni sociali, o dello stato attuale della civiltà, è necessaria per potere interpretare esattamente i poteri del fanciullo. Questi possiede i suoi istinti e le sue tendenze, ma noi ne ignoriamo il significato finchè non possiamo tradurli nei loro equivalenti sociali. Dobbiamo essere capaci di riportarli ad un passato sociale e di vederli come l’eredità di precedenti attività della specie. Dobbiamo essere capaci altresì di proiettarli nel futuro per vedere quel che sarà il loro risultato e il loro fine. Riferendoci all’esempio fatto sopra, è la capacità di scorgere nel balbettio del fanciullo la promessa e la potenza di una futura attività di contatti e scambi sociali che permette di tenere in giusto conto quell’istinto” (pp. 4-5).

“L’aspetto psicologico e quello sociale stanno fra loro in un rapporto organico e l’educazione non può venir considerata come un compromesso fra i due aspetti o come una sovrapposizione dell’uno sull’altro. Si afferma che la definizione psicologica dell’educazione è nuda e formale, che ci dà soltanto l’idea dello sviluppo di tutti i poteri della mente senza darci nessuna idea del loro impiego. D’altra parte si insiste che la definizione sociale dell’educazione come ‘adattamento’ alla civiltà ne fa un processo forzato ed esterno e conduce a subordinare la libertà dell’individuo a una situazione sociale e politica presupposta” (p. 5).

“Ciascuna di queste obiezioni è vera quando viene affacciata contro uno dei due aspetti isolato dall’altro. Per conoscere quel che è veramente una facoltà dobbiamo conoscerne il fine, l’impiego o la funzione, e ciò non è possibile se non si concepisce l’individuo come attivo nei rapporti sociali. Ma d’altra parte il solo possibile ‘adattamento’ che possiamo dare al fanciullo nelle condizioni esistenti è quello che deriva dal porlo in possesso completo di tutte le sue facoltà. Coll’avvento della democrazia e delle moderne condizioni industriali è impossibile predire con precisione cosa sarà la civiltà di qui a vent’anni. E’ perciò impossibile preparare il fanciullo a un ordine preciso di condizioni. Prepararlo alla vita futura significa dargli la padronanza di se stesso; significa educarlo in modo che egli arrivi a conseguire l’impiego intero e pronto di tutte le sue capacità; che il suo occhio, il suo orecchio e la sua mano possano essere pronti strumenti di comando, che il suo giudizio possa essere capace di afferrare le condizioni nelle quali deve lavorare e le forze che egli deve sviluppare per poter agire economicamente ed efficientemente. E’ impossibile raggiungere questo adattamento se non si tien conto di continuo dei poteri, dei gusti, e degli interessi propri dell’individuo, cioè se l’educazione non è costantemente convertita in termini psicologici” (pp. 5-6).

“Riassumendo, io credo che l’individuo che deve essere educato è un individuo sociale e che la società è un’unione organica di individui. Se eliminiamo il fattore sociale dal fanciullo si resta solo con un’astrazione; se eliminiamo il fattore individuale dalla società, si resta solo con una massa inerte e senza vita. Perciò l’educazione deve iniziarsi con una penetrazione psicologica delle capacità del fanciullo, dei suoi interessi e delle sue abitudini. Essa deve essere controllata ad ogni punto con riferimento a queste stesse considerazioni. Tali facoltà, interessi e abitudini devono essere continuamente interpretate; noi dobbiamo sapere qual è il loro significato. Esse devono esser tradotte nei loro equivalenti sociali e mostrare la loro capacità come organi di servizio sociale” (p. 6).

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“La scuola è prima di tutto un’istituzione sociale. Essendo l’educazione un processo sociale, la scuola è semplicemente quella forma di vita di comunità in cui sono concentrati tutti i mezzi che serviranno più efficacemente a rendere il fanciullo partecipe dei beni ereditati dalla specie e a far uso dei suoi poteri per finalità sociali” (p. 7).

“L’educazione è, perciò, un processo di vita e non una preparazione a un vivere futuro” (p. 7).

“La scuola deve rappresentare la vita attuale – una vita altrettanto reale e vitale per il fanciullo di quella che egli conduce a casa, nel vicinato o nel campo da gioco” (p. 7).

“Quell’educazione che non si compie per mezzo di forme di vita, forme che vale la pena di vivere per loro stesse, è sempre un inadeguato sostituto della realtà genuina e tende a impastoiare e a intorpidire” (p. 7).

“La scuola, come istituzione, deve semplificare la vita sociale esistente; deve ridurla in certo modo a una forma embrionale. La vita esistente è così complessa che il fanciullo non può venirvi portato a contatto senza confusione o distrazione. Esso o è sopraffatto dalla molteplicità di attività che hanno luogo, sì che smarrisce la sua capacità di reagire ordinatamente, oppure è stimolato da queste varie attività in modo tale che le sue facoltà vengono attivate prematuramente ed esso o diventa indebitamente specializzato oppure si disintegra” (p. 7).

“Intesa come vita sociale semplificata, la vita di scuola deve svolgersi gradualmente dalla vita domestica; che deve riprendere e continuare le attività che già in casa sono familiari al fanciullo” (pp. 7-8).

“[La scuola] deve proporre queste attività al fanciullo e riprodurle in modo che esso possa gradualmente apprenderne il significato e rendersi atto a fare la sua parte in rapporto ad esse” (p. 8).

“Questa è una necessità psicologica, perché è il solo modo di assicurare la continuità dello sviluppo del fanciullo, e il solo modo di dare uno sfondo di esperienze passate alle idee nuove promosse a scuola” (p. 8).

“E’ altresì una necessità sociale, perché la casa è la forma di vita sociale nella quale il fanciullo è allevato e in rapporto alla quale esso ha ricevuto la sua educazione morale. Spetta alla scuola di approfondire e di estendere il suo senso dei valori collegato alla sua vita domestica” (p. 8).

“Molta parte dell’istruzione attuale fallisce poiché trascura questo principio fondamentale della scuola come forma di vita di comunità. Essa concepisce la scuola come il luogo dove si impartisce una certa somma di informazioni, dove devono essere apprese certe lezioni e dove devono venire formati certi abiti. Il valore di questi si concepisce come collocato in gran parte in un futuro remoto; il fanciullo deve fare queste cose in vista di qualche altra cosa che dovrà fare, e di cui esse sono la semplice preparazione. Per conseguenza esse non diventano una parte dell’esperienza vitale del fanciullo e pertanto non sono veramente educative” (p. 8).

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“L’educazione morale s’incentra in questa concezione della scuola come un modo di vita sociale, che l’addestramento morale migliore e più profondo è precisamente quello che uno ottiene dovendo entrare in giusti rapporti cogli altri in un’unità di lavoro e di pensiero. Gli attuali sistemi educativi, in quanto distruggono ovvero trascurano questa unità, rendono difficile o impossibile di ottenere una genuina e regolare educazione morale” (pp. 8-9).

“Il fanciullo deve essere stimolato e controllato nel suo lavoro attraverso la vita della comunità” (p. 9).

“Nella situazione attuale tale stimolo e controllo proviene in misura troppo grande dall’insegnante, poiché si trascura l’idea della scuola come forma di vita sociale” (p. 9).

“Il posto e l’opera dell’insegnante nella scuola devono essere intesi partendo dalla medesima base. L’insegnante non è nella scuola per imporre certe idee al fanciullo o per formare in lui certi abiti, ma è lì come membro della comunità per selezionare le influenze che agiranno sul fanciullo e per assisterlo convenientemente a reagire a queste influenze” (p. 9).

“La disciplina scolastica deve derivare dalla vita della scuola intesa come un tutto e non direttamente dall’insegnante” (p. 9).

“Compito dell’insegnante è semplicemente quello di determinare, sulla scorta di un’esperienza più grande e di una più matura saggezza, come la disciplina della vita dovrà giungere al ragazzo” (p. 9).

“Tutti i problemi della classificazione e della promozione del ragazzo devono essere esaminati in rapporto alla medesima misura. Gli esami servono solo se vagliano l’attitudine del fanciullo alla vita sociale e rivelano il posto nel quale esso può riuscire massimamente utile e nel quale può ricevere il maggiore aiuto” (p. 9).

“La vita sociale del fanciullo è il fondamento della concentrazione, o della correlazione, di tutta la sua educazione o sviluppo. La vita sociale conferisce la unità inconsapevole e lo sfondo di tutti i suoi sforzi e di tutte le sue realizzazioni” (p. 10).

“La materia del programma scolastico deve differenziarsi gradualmente dall’inconsapevole unità originaria della vita sociale” (p. 10).

“Noi violiamo la natura del fanciullo e rendiamo difficili migliori risultati morali introducendo il fanciullo troppo bruscamente a una quantità di studi speciali, come il leggere, lo scrivere, la geografia, ed altri, senza rapporto con questa vita sociale” (p. 10).

“Il vero centro di correlazione tra le materie scolastiche non è la scienza, né la letteratura, né la storia o la geografia, ma sono le attività sociali del fanciullo stesso” (p. 10).

“L’educazione non può essere unificata nello studio delle scienze, o nel cosiddetto studio della natura, poiché separata dall’attività umana la natura stessa non è unità; la natura in sé è una quantità di oggetti diversi nello spazio e nel tempo, e il

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cercare di costituirla come centro di lavoro di per sé, equivale a introdurre un principio di dispersione piuttosto che un principio di concentrazione” (p. 10).

“La letteratura è l’espressione riflessa e l’interpretazione dell’esperienza sociale; pertanto essa deve seguire e non precedere tale esperienza. Essa quindi non può essere costituita a fondamento dell’unificazione, quantunque ne possa costituire il riassunto” (pp. 10-11).

“La storia è anch’essa educativamente valida in quanto presenta aspetti della vita e dello sviluppo sociale. Essa deve essere controllata in riferimento alla vita sociale. Quando è presa semplicemente come storia, essa viene respinta nel lontano passato e diviene morta e inerte. Diventa piena di significato se è presa come la memoria della vita sociale e del progresso dell’uomo. Io ritengo, tuttavia, che essa non possa venir concepita come tale a meno che il fanciullo non venga anch’esso introdotto direttamente nella vita sociale” (p. 11).

“Il fondamento primo dell’educazione risiede nei poteri del fanciullo attivati nella medesima direzione costruttiva di coloro che hanno dato vita alla civiltà” (p. 11).

“Il solo modo atto a rendere consapevole il fanciullo della sua eredità sociale consiste nel farlo capace di svolgere quelle forme fondamentali di attività da cui risulta l’aspetto attuale della civiltà” (p. 11).

“Le attività cosiddette espressive o costruttive costituiscono il centro di correlazione” (p. 11).

“Questo fornisce la norma per fissare il posto da dare nella scuola al cucinare, al cucire, all’addestramento manuale e così via” (p. 11).

“Esse non sono speciali discipline che devono venire introdotte oltre e sopra una molteplicità di altre discipline o come una ricreazione e uno svago o come effettuazioni ulteriori. Io credo che esse rappresentino piuttosto e tipizzino delle forme fondamentali di attività sociale; e che sia possibile e desiderabile che l’introduzione del fanciullo alle materie più formali del programma avvenga attraverso tali attività” (p. 11).

“Lo studio delle scienze è educativo in quanto porta alla luce i materiali e i processi da cui risulta la vita sociale quale essa è” (pp. 11-12).

“Una delle maggiori difficoltà dell’insegnamento attuale delle scienze sta nel fatto che la materia è presentata in una forma puramente oggettiva, oppure è trattata come una specie particolare di esperienza che il fanciullo può aggiungere a quella da lui già posseduta. In realtà le scienze hanno valore in quanto rendono capaci di interpretare e controllare l’esperienza precedentemente acquisita. Esse devono essere introdotte non tanto come una nuova disciplina, quanto come un’illustrazione dei fattori già impliciti nell’esperienza precedente e come un’offerta di strumenti atti a rendere quell’esperienza più facilmente e efficacemente regolata” (p. 11).

“Noi perdiamo attualmente gran parte del valore degli studi di letteratura e di lingua a causa della nostra esclusione dell’elemento sociale. Nei libri di pedagogia la lingua è trattata semplicemente come espressione del pensiero. E’ vero che il linguaggio è uno strumento logico, ma esso è essenzialmente e prima di tutto uno strumento

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sociale. Il linguaggio è un mezzo di comunicazione; è lo strumento mediante il quale l’individuo viene a partecipare alle idee e ai sentimenti degli altri. Quando è trattato semplicemente come un modo di conseguire delle informazioni individuali o di mettere in mostra ciò che già si è appreso, esso perde la sua motivazione e la sua finalità sociale” (p. 12).

“Non esiste perciò nel curricolo scolastico ideale una successione di studi. Se l’educazione è vita, tutta la vita possiede, fin dagli inizi, un aspetto scientifico, un aspetto di arte e cultura, e un aspetto di comunicazione. Non può quindi esser vero che le discipline appropriate a una classe sono il solo leggere e scrivere, e che in una classe successiva possano venire introdotte la lettura, la letteratura o le scienze. Il progresso non consiste nella successione degli studi, ma nello sviluppo di nuove attitudini verso l’esperienza e di nuovi interessi nell’esperienza” (pp. 12-13).

“L’educazione dev’essere concepita come una ricostruzione continua dell’esperienza; il processo e il fine dell’educazione sono una sola e identica cosa” (p. 13).

“Il costituire qualsiasi fine esterno all’educazione come tale che dia ad essa il suo fine e la sua norma equivale a privare il processo educativo di gran parte del suo significato; e tende a indurci a fare assegnamento su stimoli falsi ed esterni nei nostri rapporti col fanciullo” (p. 13).

“La questione del metodo [è] riducibile infine alla questione dell’ordine dello sviluppo delle facoltà e degli interessi del fanciullo. La legge per la presentazione e per la trattazione della materia è la legge implicita nella natura del fanciullo medesimo. E’ per questo che io credo che le proposizioni seguenti siano d’importanza suprema per determinare con quale spirito si deve effettuare l’educazione” (p. 13).

“Il lato attivo precede quello passivo nello sviluppo della natura del fanciullo; l’espressione viene prima dell’impressione consapevole; lo sviluppo muscolare precede quello sensoriale; i movimenti precedono le sensazioni consapevoli. Io credo che la coscienza sia essenzialmente motrice o impulsiva; che gli stati coscienti tendano a proiettarsi in azione” (pp. 13-14).

“L’aver trascurato questo principio [è] la causa di gran parte dello spreco di tempo e di energia nel lavoro scolastico. Il fanciullo è spinto a un atteggiamento passivo, ricettivo o assorbente. Le condizioni sono tali che non gli è consentito di seguire la legge della sua natura; di qui i contrasti e lo sperpero” (p. 14).

“Anche le idee (i processi intellettivi e mentali) derivano dall’azione e vengono trasmesse in vista di un migliore controllo dell’azione. Ciò che noi chiamiamo ragione è essenzialmente la legge dell’azione ordinata e efficace. Il difetto fondamentale dei metodi da noi attualmente adoperati in questo campo consiste nel tentativo di sviluppare le facoltà del ragionamento e del giudizio senza riferimento alla scelta e all’ordinamento dei mezzi di azione. Ne consegue che noi mettiamo di fronte al fanciullo dei simboli arbitrari. I simboli sono necessari allo sviluppo mentale, ma il loro posto è quello di strumenti per economizzare lo sforzo; presentati in sé, essi sono un insieme di idee arbitrarie e senza significato imposte dall’esterno” (p. 14).

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“L’immagine è lo strumento essenziale dell’istruzione. Ciò che il fanciullo deriva da ogni materia che gli viene presentata sono soltanto le immagini che egli si forma da sé in riferimento ad essa” (p. 14).

“Se i nove decimi dell’energia che viene attualmente impiegata a fare apprendere certe cose al fanciullo venissero spesi nel far sì che esso si formasse delle immagini appropriate, il lavoro dell’istruzione sarebbe infinitamente facilitato” (p. 14).

“Gran parte del tempo e dell’attenzione che ora si dedica alla preparazione e alla presentazione delle lezioni potrebbe venir impiegato con più saggezza e profitto a educare la facoltà immaginativa del fanciullo e a badare che esso si formasse di continuo immagini definite, vivide e in sviluppo dei vari argomenti coi quali viene a contatto nella sua esperienza” (pp. 14-15).

“Le tendenze sono i segni e i sintomi dello sviluppo di capacità. Io ritengo che esse rappresentino delle capacità sorgenti. Perciò l’osservazione costante e accurata delle tendenze è della massima importanza per l’educatore” (p. 15).

“Queste tendenze devono essere osservate come indici dello stato di sviluppo raggiunto dal fanciullo” (p. 15).

“Esse annunciano lo stadio nel quale il fanciullo sta per entrare” (p. 15).

“Solo mediante l’osservazione continua e sollecita delle tendenze della fanciullezza è dato all’adulto di penetrare nella vita del fanciullo, di scorgere la disposizione e la materia su cui egli potrebbe operare più prontamente e con miglior esito” (p. 15).

“A queste inclinazioni non si deve indulgere né le si devono reprimere. Reprimere un’inclinazione significa sostituire l’adulto al fanciullo, e indebolire in tal modo la curiosità e la prontezza intellettuale, sopprimere l’iniziativa e mortificare l’interesse. Indulgere alle inclinazioni significa sostituire ciò che è transeunte a ciò che è permanente. L’inclinazione è sempre il segno di qualche potere celato; la cosa importante è scoprirlo. Indulgere alle inclinazioni vuol dire mancar di penetrare sotto la superficie, e il risultato sicuro è la sostituzione del capriccio e del ghiribizzo all’interesse genuino” (p. 15).

“Le emozioni sono un riflesso delle azioni” (p. 15).

“Il cercar di stimolare o destare le emozioni indipendentemente dalle attività corrispondenti vuol dire introdurre uno stato mentale malsano e torbido” (p. 15).

“Se riusciamo a creare corretti abiti di azione e di pensiero in rapporto al buono, al vero e al bello, le emozioni di massima provvederanno a se stesse” (p. 16).

“Oltre che dalla mortificazione e dall’ottusità, dal formalismo e dalla routine, la nostra educazione è minacciata dal male del sentimentalismo” (p. 16).

“Questo sentimentalismo è la conseguenza necessaria del tentativo di separare il sentimento dall’azione” (p. 16).

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“L’educazione è il metodo fondamentale del progresso e dell’azione sociale” (p. 16).

“Tutte le riforme che poggiano semplicemente sull’emanazione di leggi o sulla minaccia di certe penalità, o su mutamenti di dispositivi meccanici e esterni sono transitorie e futili” (p. 16).

“L’educazione è una regola del processo mediante cui si giunge a partecipare della consapevolezza sociale; e l’adattamento dell’attività individuale sulla base di questa consapevolezza sociale è il solo metodo sicuro di ricostruzione sociale” (p. 16).

“Questa concezione tiene in debito riguardo sia gli ideali individuali che quelli sociali. Essa è individuale perché riconosce la formazione di un certo carattere come la sola vera base del giusto vivere. E’ sociale perché riconosce che questo giusto carattere non deve essere formato soltanto mediante precetti, esempi o esortazioni individuali, ma piuttosto mediante l’influenza di una certa forma di vita istituzionale o di comunità sull’individuo, e che l’organismo sociale mediante la scuola come suo organo può dar luogo a dei risultati morali” (p. 16).

“Nella scuola ideale si effettua la riconciliazione degli ideali individuali e istituzionali” (p. 17).

“Il dovere dell’educazione è perciò il dovere morale fondamentale di una comunità. Colle leggi e le pene, coll’agitazione e la discussione sociale la società può darsi regola e forma in un modo più o meno caotico e casuale. Ma mediante l’educazione la società può formulare i suoi scopi, organizzare i suoi mezzi e le sue risorse, e plasmarsi così con definitezza e con economia nella direzione in cui desidera muoversi” (p. 17).

“Quando la società riconoscerà le possibilità esistenti in questa direzione e gli obblighi che tali possibilità impongono, non si ha idea delle disponibilità di tempo, di attenzione, e di denaro che saranno offerte all’educatore” (p. 17).

“Spetta a tutti quelli che hanno interesse all’educazione di insistere sulla scuola come sullo strumento essenziale e più efficace di progresso e di riforma sociale affinchè la società acquisti consapevolezza di quel che significa la scuola, e si desti alla necessità di dotare l’educatore dell’attrezzatura necessaria per attuare il suo compito nel modo adatto” (p. 17).

“L’educazione così intesa indica l’unione più perfetta e più intima di arte e scienza che sia concepibile nell’esperienza umana” (p. 17).

“L’arte di plasmare in tale modo le capacità umane e di adattarle a beneficio della società è l’arte suprema che richiede l’impiego di ciò che vi è di meglio negli artisti; nessuna penetrazione, simpatia, tatto o capacità di realizzazione è troppo grande per un tale servizio” (p. 17).

“Col crescere dei mezzi psicologici che aumentano la capacità di comprensione della struttura individuale e delle leggi dello sviluppo, e col crescere delle scienze sociali che aumentano la nostra conoscenza della giusta organizzazione degli individui,

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tutte le risorse scientifiche possono essere utilizzate nel modo migliore ai fini dell’educazione” (pp. 17-18).

“Quando la scienza e l’arte si alleeranno in questo modo, si attingeranno i motivi più determinanti dell’azione umana, si desteranno le fonti vere della condotta umana e saranno garantite le migliori realizzazioni di cui la natura umana è capace” (p. 18).

“L’insegnante è impegnato non solo nell’educazione degli individui, ma nella formazione della giusta vita sociale” (p. 18).

“Ogni insegnante deve rendersi conto della dignità della sua vocazione; che esso è un uomo addetto al servizio sociale col compito di mantenere il giusto ordine sociale e di assicurare il giusto sviluppo sociale” (p. 18).

“In tal modo l’insegnante è sempre il profeta del Dio vero e l’annunciatore del vero regno di Dio” (p. 18).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto i testi deweyani:

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12. Lo sviluppo dell’uomo nella teoria di Erik EriksonErikson si è fatto continuatore dell’orientamento manifesto del tardo pensiero freudiano, prendendolo come base per la comprensione della crescita umana. Nella sua teoria il significato dell’Es dell’Io e del Super-Io rimane immutato, tuttavia ciascuna fase si trova di fronte a una crisi, avendo particolari polarità da risolvere prima che possa aver luogo una crescita sana. Il carattere esigente della società nella quale vive l’individuo – inizialmente rappresentata dalla famiglia e in seguito dal più ampio gruppo sociale – è riguardato come una potente energia che contribuisce a plasmare la sua crescita emotiva. Erikson attribuisce molta importanza all’energia adattativa e creativa dell’individuo e considera con ottimismo le probabilità di una crescita positiva. Perché il suo potenziale si possa esplicare pienamente, l’individuo ha bisogno della fiducia e del rispetto delle persone che lo circondano. La forza motivante principale è per Erikson la stessa che era per Freud, cioè la libido. Nell’opera di Erikson è esplicito l’impulso ad avanzare, controbilanciato dall’impulso a regredire verso livelli più elementari. Una delle maniere in cui l’Io può affrontare situazioni reali che altrimenti sarebbero forse troppo difficili è rappresentata dal gioco, che per Erikson è un importante strumento di sviluppo nel repertorio dell’apprendimento individuale. I giochi svolgono una funzione analoga a quella dei sogni per l’Es, vale a dire rendono espliciti significati che diversamente rimarrebbero nascosti.

Il bambino sente per prima cosa la necessità di sviluppare un senso di fiducia e di evitare il senso opposto di sfiducia: questa è la polarità propria della fase iniziale. Nella cultura occidentale una delle cause che provocano una crisi è il processo dello svezzamento. La fiducia fondamentale si è già parzialmente stabilita attraverso la comunicazione madre-figlio mentre la donna nutre e si prende cura del suo piccolo. La maggior parte dei contatti del bambino con il mondo esterno avvengono per il tramite dei meccanismi di assunzione, non soltanto per quanto si riferisce al nutrimento, ma anche per quanto riguarda la luce, i suoni e l’aria. In questa fase i sentimenti fondamentali della madre o di chi la sostituisce si comunicano al neonato. In quasi tutte le relazioni materno-filiali la madre è attenta ai bisogni di sicurezza del bambino e gli comunica la profondità del proprio affetto attraverso le cure di cui lo circonda regolarmente, sviluppando così in lui la fiducia nella regolarità dell’universo. Non tutti i desideri o le esigenze del bambino possono essere soddisfatti immediatamente e la necessità di attendere concorre a volte allo sviluppo di una sfiducia fondamentale. Se la madre non si dimostra attendibile e presta un’attenzione sporadica ai bisogni del figlio è probabile che nel piccolo finisca col prevalere una sfiducia di fondo, la quale ostacola la transizione alla fase successiva.Quando supera questa prima fase orale, il bambino diventa un po’ più attivo nella sua ricettività. Afferma e ferma l’attenzione sulle parti dell’ambiente che sono alla sua portata. La fase giunge al culmine nel momento in cui cominciano a spuntargli i denti. A questo punto, cioè durante la seconda fase orale, è facile che le insicurezze del bambino si intensifichino manifestandosi con i morsi, i quli costituiscono un’esperienza sgradevole per la madre e portano a un’esclusione temporanea o a un rifiuto da parte sua. Se i periodi di esclusione non si prolungano troppo e si concludono con un comportamento protettivo, l’esperienza può assumere un carattere positivo; il bambino scopre che l’isolamento è transitorio e per nulla disastroso e abbiamo allora l’inizio di una separazione che alla fine significherà indipendenza. La fiducia insita nel rapporto del bambino con la madre getta le basi della sua successiva identificazione con lei, non solo, ma è il presupposto della sua futura fiducia nel mondo in generale.La madre che lo nutre, che lo vezzeggia, che gli fa il bagnoe che gli canta la ninnananna appaga il bisogno di cibo, di sicurezza, di amore e di certezza d’appartenere a qualcuno. Mediante l’esplorazione elettronica del sistema neurologico si è potuto appurare la presenza di centri di gratificazione collegati a questi e ad altri appagamenti dei bisogni (capitolo 7). Possiamo dedurre con buon fondamento che le condizioni in cui i bisogni del bambino vengono soddisfatti si collegano, come associazioni imparate, con i centri della gratificazione e determinano così la probabilità che si ripetano. In altre parole, se i bisogni vengono soddisfatti in un’atmosfera di

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felicità e di benessere, è probabile che il bambino impari a essere allegro e felice. Proietta la propria aspettativa di sentirsi accettato. Se invece viene allattato e curato soltanto dopo che si è sgolato a piangere e a strillare, saranno queste attività violente ad associarsi alla soddisfazione dell’appetito. Al gran piangere si accompagna, sul piano fisiologico, un aumento del contenuto di adrenalina nel sangue, oltre ad altre alterazioni, e il processo condizionante finisce col comprendere le esasperazioni emotive collegate con la sofferenza e la rabbia, il che significa che il bambino impara a essere collerico ed esigente quando vuole che gli si dia da mangiare o ci si prenda cura in altro modo di lui.Il bisogno più ovvio del neonato è la nutrizione ed è d’importanza fondamentale che venga appagato per il suo benessere. Di solito il contatto tra la madre e il figlio è fonte di soddisfazione reciproca, sia che venga nutrito al seno oppure al poppatoio. È probabile che perfino la madre poco sollecita, quella che si rende conto delle necessità del piccolo solo quando questo la avverte con mezzi violenti, giudichi piacevole e remunerativa la tranquillità dei momenti in cui lo nutre. La stimolazione orale del lattante è condizionata ad altre soddisfazioni piacevoli dei suoi bisogni, sicché entrambi, la madre e il figlio, imparano generalmente associazioni gratificanti dall’esperienza.Quando la madre dà inizio al processo di svezzamento, gli schemi che si sono instaurati vengono distrutti. La transizione può avvenire in un contesto di attività piacevoli connesse alla nuova alimentazione e quindi la routine dei pasti finisce con l’associarsi a sensazioni gradevoli. Se però la routine si è accompagnata a risposte indotte dall’adrenalina è probabile che la transizione si incorpori in uno schema di sfiducia o di minaccia. La maggior parte di questo apprendimento ha luogo a livello inconscio. Molti degli schemi emotivi delle reazioni del bambino alla madre si associano alle reazioni con le quali risponderà al padre e, più tardi, agli adulti dell’ambiente extrafamiliare. Nella vita dell’individuo i modelli emotivi sono persistenti e si mantengono a lungo. Può darsi che sia possibile procedere alla sostituzione di quelli insoddisfacenti o indesiderabili che si sono stabiliti in giovanissima età ristrutturando le risposte ai bisogni che in un dato periodo sono fondamentali per la persona in questione.Fra i diciotto mesi e i quattro anni, cioè durante la fase anale della struttura freudiana, il bambino incomincia ad acquisire il senso dell’autonomia e a sostenere le sue prime lotte contro un senso di dubbio e di vergogna. Secondo Erikson, questo nascente senso d’autonomia è innanzi tutto una funzione dell’Io assai più che dell’Es o del Super-Io. È il periodo caratterizzato dallo sviluppo della capacità di trattenere e di abbandonare deliberatamente, attraverso un processo che il bambino esercita con le mani, con gli occhi, con la bocca e con gli sfinteri. Nella maggior parte delle culture occidentali la situazione critica si accentra in genere, durante questa fase, sull’addestramento del bambino ad evacuare al gabinetto. Una concomitante dell’acquisizione di questo apprendimento è la soddisfazione che la madre prova per la propria bravura di essere riuscita ad insegnare al figliolo l’abitudine alla pulizia. Il rovescio della medaglia è costituito dalla desolazione che si impadronisce della madre quando, nonostante tutti i suoi sforzi, non ottiene nulla e spesso il fallimento si associa a forme indefinite di scarsa considerazione per se stessa e di rifiuto del bambino. Il risultato di questi sentimenti oscuri è che il piccolo sente vacillare la fiducia in se stesso e dubita sempre più della propria capacità. Non è escluso che in questi casi avverta il bisogno di regredire a uno stato di dipendenza tipico della fase orale.Non di rado anche gli insegnanti attraversano un processo analogo, positivo quando si sentono gratificati dal buon esito della loro attività e trasmettono la soddisfazione che provano ai ragazzi, nell’associazione scolaro-maestro; negativo quando l’esperienza è quella dell’insuccesso e l’insegnante tende a rifiutare se stesso e i ragazzi e nel processo i dubbi che essi già nutrono sulla propria capacità corrono il rischio di aumentare.In questa fase ha grande importanza il gioco, contrassegnato da un alternarsi di bruschi passaggi dall’allegria e dalla sicurezza a momenti di sfiducia e di disperazione. Il gioco concorre a sviluppare il senso dell’autocontrollo senza coinvolgere la perdita dell’amor proprio, appunto perché si tratta semplicemente di un gioco. A mano a mano che il bambino diventa più mobile, assumono

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importanza altri adulti oltre al padre e alla madre e a loro volta allargano, per il bene e per il male, la base sulla quale il bambino determina la vittoria o la sconfitta nella sua marcia di conquista dell’autonomia.La seconda fase di Erikson, che corrisponde a quella anale di Freud, è il periodo durante il quale il bambino cammina per la prima volta da solo e s’impadronisce dell’arte di parlare. Di solito, durante la nuova esperienza di apprendimento relativa all’abitudine di controllare le evacuazioni, i genitori sentono di padroneggiare la situazione meno di quanto abbiano padroneggiato le situazioni precedenti. Il problema nasce da una sopravvalutazione della capacità del bambino di comprendere il cambiamento auspicato, dal fatto di ignorare se possiede il controllo degli sfinteri e dalla incapacità dei genitori di analizzare, durante il condizionamento, i piccoli progressi che condurranno al comportamento che intendono instaurare. Di solito l’apprendimento emotivo che viene introdotto in questa sequenza deriva dalla reazione emotiva, paterna e materna, di fronte all’insuccesso del piccolo. Talvolta debbono badare contemporaneamente anche ad altri figlioli ancora piccoli, sicché gli possono dedicare meno energie e meno attenzione. Può darsi che i sintomi manifesti del bisogno non vengano notati. Siccome il bambino non è in grado di eseguire da solo le operazioni necessarie per servirsi nel giusto modo del gabinetto i suoi errori sono coronati da una scena emotiva che spesso lo confonde, perché sebbene abbia fatto tutto quello che gli è stato insegnato, si vede remunerato con una punizione. È chiaro perché in questo contesto il bambino interpreta i propri segnali per essere aiutato a servirsi del gabinetto come un errore. Il risultato allora può essere l’estinzione a uno stato di mancato addestramento o la regressione a una fase precedente. Le risposte che vengono rafforzate sono essenzialmente quelle imparate. Se risulta che l’apprendimento ha avuto luogo per le cose sbagliate, la madre si dovrebbe chiedere scrupolosamente che cos’è che ha rafforzato nella sua interazione quotidiana con il figlio.

L’abitudine a servirsi del gabinetto è soltanto un aspetto dei mutamenti caratteristici di questa età. Molte delle piccole azioni che annunziano gli inizi dell’autonomia infantile contengono elementi di apprendimento emotivo, nello stesso modo in cui l’abitudine a mantenersi pulito è carica di iperoni emotivi. Gli schemi costruttivi e/o distruttivi che costruiscono i sentimenti che il bambino nutre nei propri riguardi provengono dal condizionamento cui i genitori ricorrono perché si conformi alla loro immagine di quello che un figlio o una figlia dovrebbero essere. È un condizionamento di cui si servono inconsciamente e senza interruzioni e spesso, per di più, con effetti che non si proponevano per niente.

Durante gli anni in cui frequenta la scuola dell’infanzia il bambino acquista gradatamente il senso dell’iniziativa e vince un certo senso di colpa. Progredisce come persona indipendente ed esplora tutto – le chiocciole che trova in giardino, il ripostiglio degli attrezzi e le aiole dei vicini – sia per conto proprio sia di comune accordo con altri coetanei. Diventa più responsabile per quanto riguarda la sua persona e per quanto riguarda le sue cose, compresi i giocattoli, gli abiti che indossa o l’animale domestico favorito, il che gli vale il riconoscimento di persona a pieno titolo. A volte le sue attività lo portano a trasmodare e a inceppare l’autonomia di altri che spesso lo trattano bruscamente e con le loro reprimende accrescono il suo senso di colpa, la sensazione di essersi spinto troppo oltre. E qui troviamo un aspetto della polarità tipica di questa fase. L’altro polo, o la spinta nella direzione opposta, è l’iniziativa che lo ha messo nei guai soddisfacendo però al tempo stesso il suo bisogno di esplorare. A quattro o cinque anni il bambino spazia con il linguaggio e l’immaginazione, nonché con la locomozione consentitagli dalla padronanza fisica in pieno sviluppo.

Per Erikson questo è il periodo dominato dall’Io, che sta divenendo abbastanza forte da controllare perfino l’Es più irrequieto ed è anche il momento in cui la coscienza, o il Super-Io che si sta formando, si assume alcune delle funzioni di protezione e di controllo proprie dei genitori o dei loro sostituti. La coscienza del bambino viene formata dall’interpretazione dell’eredità sociale della cultura allorché vede le sue credenze che si riflettono nelle azioni dei genitori o di altri adulti che esercitano il proprio influsso su di lui. Lo sviluppo del Super-Io dà come risultato quell’equilibrio fra l’Io, l’Es e il Super-Io che aiuta il bambino diventare un’unità psicologica.

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Trascorre gran parte del proprio tempo con i coetanei, dai quali acquisisce nuove comprensioni dell’ambiente che lo circonda. Mette a prova se stesso misurandosi in nuove maniere sul loro esempio e così facendo allarga il proprio universo. Si rende perfettamente conto del fatto di essere un ragazzino, o una ragazzina, e delle parti che gli altri si aspettano che sostenga. Tuttavia assai spesso si sente a proprio agio allorché ritorna alla fase precedente, quando i ruoli dei due sessi erano differenziati meno rigorosamente.

Erikson concorda con Freud nell’asserire che la crisi della terza fase è costituita dalla risoluzione del complesso edipico. Le zone più sensibili alla stimolazione sono non più l’anale e l’orale, bensì quelle genitali. Però Erikson vede la natura del complesso edipico in maniera alquanto diversa da come la vedeva Freud. La madre (o il padre) diventa l’oggetto d’amore del figlio (o della figlia) soprattutto perché non sono disponibili altri oggetti reali da amare. Secondo Erikson non si tratta di un problema di incesto, ma di un problema di vicinanza. Queste forme romantiche di attaccamento portano alla diffidenza verso chiunque potrebbe interferire nel rapporto, perfino quando il bambino adotta il genitore del suo stesso sesso come modello di identificazione sul quale plasmarsi. Gradatamente l’attaccamento si sposta su un altro oggetto d’amore più accessibile; incominciano a svilupparsi certe idee realistiche sull’impurità della competizione per l’amore sessuale della madre tra un ragazzino di cinque anni e il padre. L’abbandono dell’attaccamento romantico per uno dei due genitori è più facile se il bambino è riuscito dare salde basi alla propria autonomia. Il genitore dello stesso sesso diventa il modello per il Super-Io.

I bambini e le bambine sono ugualmente interessati agli organi sessuali e tutti hanno l’idea che le bambine abbiano perduto, nell’una o nell’altra maniera, i propri genitali e sono convinti che anche ai maschietti potrebbe capitare una sciagura analoga. È un problema immaginario che provoca timori o sentimenti di colpa a volte persistenti. Il gioco è un’attività di grande valore per il bambino in quanto gli consente di affermarsi come persona. Per esplorare in una situazione di gioco alcuni di questi pensieri che lo agitano ha bisogno che gli si offra il tempo e l’occasione di giocare sia da solo sia in compagnia. Perché il bambino possa diventare in futuro un individuo integrato ed equilibrato è indispensabile che questi dubbi e questi timori tipici dell’età si risolvano, consentendogli di crescere nella propria sicurezza e nella propria iniziativa.

La fase fallica freudiana, che nell’interpretazione di Erikson è il periodo durante il quale il bambino acquisisce il senso dell’iniziativa, è contenuta entro confini cronologici fluidi. Sono gli anni in cui il bambino impara a stabilire spontaneamente contatti con i coetanei e con gli adulti. La maggior parte arriva a questa forma d’iniziativa fra i quattro e i sei anni; tuttavia ve ne sono alcuni che vi giungono prestissimo, già a due anni e mezzo, mentre altri vi arrivano soltanto verso gli otto.

Erikson ha illustrato come ha luogo l’evoluzione del conflitto edipico, che si sviluppa dall’apprendimento del ruolo del proprio sesso durante il periodo in cui i genitori sono gli unici modelli disponibili. Il padre è il modello onnipresente, per il maschietto, del comportamento nei confronti della madre, mentre questa è l’unico esempio di comportamento femminile verso il padre. La comparsa del romantico attaccamento al genitore del sesso opposto è una componente dell’iniziativa che si sta sviluppando e della propensione ad assumersi la responsabilità dei propri atti. Durante questo periodo hanno luogo come minimo due tipi di apprendimento emotivo: il bambino impara al tempo stesso che l’assunzione delle responsabilità è rimunerativa e impara che la competizione porta a risultati sempre piacevoli.

Fra i sei e i dodici anni il ragazzo è intento ad acquisire con molto impegno il senso dell’operosità, rifiuta via via il senso d’inferiorità e costruisce un’immagine di se stesso visto come un individuo degno di essere considerato per il proprio valore. Erikson afferma che durante questo periodo è giunto alla soluzione temporanea del problema edipico e cessa di concentrarsi sul ruolo determinato dal sesso che ha il dovere di sostenere. Concorda con Freud nel definirlo latente per quanto riguarda lo sviluppo sessuale. Negli anni in cui frequenta la scuola elementare il ragazzo acquista l’abitudine alla laboriosità e si sta perfezionando nell’esecuzione di un gran numero di attività specifiche. I contatti che ha con i coetanei, in genere del suo stesso sesso, sono altrettante occasioni di misurarsi e di valutarsi. Riesce ad accettarsi se si giudica capace; ogni fallimento

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provoca in lui un senso d’inferiorità e un forte impulso a regredire verso una fase di sviluppo meno carica di minacce.

Durante la prima adolescenza il ragazzo si costruisce un senso di identità come riscontro contrastante con quel lato del concetto di polarità in cui l’individuo soccombe al senso della diluizione dell’identità. L’età alla quale Erikson dedicò più che a ogni altra le proprie ricerche è stata l’adolescenza, sicché il suo schema degli adolescenti è più completo di quello del gruppo dei bambini o del gruppo degli adulti. Il senso dell’identità, vale a dire della completezza, ha molta importanza perché il giovane possa prendere decisioni indipendenti, da adulto. Quest’identità è diversa dall’identificazione tipica dei bambini con gli adulti che contano per loro. L’autoidentità corrisponde alla fusione della stabilità interiore e dell’eterodirezione, che è polarizzata con un senso di instabilità, o di mancanza, d’una struttura per risolvere le esigenze interiori ed esteriori. Erikson definisce questa instabilità col termine di diluizione dell’identità. L’adolescente che ne soffre non sa chi è.

La sicurezza sul dominio dei meccanismi fisici che si è venuta costruendo nel periodo precedente adesso vacilla. La crescita è irregolare, l’equilibrio dello sviluppo fisiologico è scarso e i muscoli e le ossa crescono a ritmo diverso. Il risultato di questo squilibrio sono l’impaccio e la goffaggine. Per quanto riguarda i ragazzi, per di più vi è anche la voce che spesso li tradisce; in altre parole gli adolescenti non possono più contare sul dominio fisico di se stessi, a differenza di quanto avveniva sino a poco tempo prima.

Le energie dell’Es, che acquistano forza con la pubertà, debbono essere imbrigliate, più o meno come l’attività fisica che è necessario rimettere sotto controllo. Tutto questo sconvolgimento si deve stabilizzare sotto il controllo dell’Io, cui incombe l’obbligo di sintetizzare il passato e il futuro. Tra le funzioni essenziali che debbono essere incorporate nell’identità vi sono gli stimoli sessuali, i fini della futura attività di lavoro e il dominio cinestetico. Nella società attuale gli adolescenti vengono sottoposti a una tensione insolita, soprattutto per quanto riguarda la futura attività di lavoro, sicché corrono il rischio di soffrire per la diluizione dell’identità più a lungo di quanto sia opportuno o favorevole al loro equilibrio psichico.

Per Erikson la scelta procrastinata dell’attività lavorativa, caratteristica della società attuale, è un fattore positivo nonostante venga pagata cara sul piano emotivo; non riesce infatti altrettanto traumatica di quanto è in altre culture perché la società sancisce e prevede, accettandole, l’indecisione e la diluizione dell’identità. La lunga adolescenza della cultura attuale è considerata da Erikson una buona occasione per sviluppare una varietà e una flessibilità maggiori nella forma definitiva della personalità, analogamente a quanto avviene con la lunga dipendenza infantile, che dà una assai più grande duttilità di sviluppo ai bambini rispetto agli animali che sono capaci di badare a se stessi sin dalla nascita o comunque molto presto. La lunga adolescenza consente al giovane di esplorare empiricamente vari aspetti potenziali dell’età adulta senza obbligarlo a impegnarvisi una volta per tutte.

Erikson parla di sette subpolarità che si possono manifestare e che non di rado originano crisi durante l’adolescenza:

1. La prospettiva del tempo contro la sua mancanza. È la dicotomia fra l’insistenza dell’Io per una decisione immediata e l’immobilità dell’Io accompagnata dalla speranza che la necessità di prendere una decisione finisca col dissolversi. Il giovane capace di sviluppare una prospettiva del tempo e di considerare la realtà secondo lunghi periodi di tempo è giunto a quel punto di maturazione che gli permette di prendere decisioni entro un contesto razionale. L’adolescente che si prepara in anticipo per i temi in classe e per le interrogazioni prova che in lui si è sviluppata una prospettiva del tempo, mentre il suo compagno che rimanda la preparazione alla vigilia dell’esame dimostra di non essere abbastanza maturato da controllare realisticamente il tempo.

L’apprendimento emotivo riferito al tempo si impernia sul bisogno del giovane di arrivare al concetto o alla comprensione che i cambiamenti richiedono tempo e che il tempo porta cambiamenti deliberati e cambiamenti imprevisti. L’adolescente arriva alla sicurezza emotiva quando è capace di concettualizzare dalla propria esperienza, vale a dire dall’osservazione delle dimensioni temporali

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della vita, che il tempo fornisce una sequenza nella quale sono organizzati gli avvenimenti. Questa concettualizzazione dello scorrere degli avvenimenti vitali genera la sicurezza emotiva.

2. La certezza di sé opposta all’apatia. Qui abbiamo una dicotomia tra la consapevolezza dell’Io e l’impressione che gli altri dimostrano di avere. Quando entrambe coincidono aumentano la fiducia in se stesso e il senso dell’identità, mentre quando non concordano l’autocoscienza che ne risulta tende a proiettare un certo tono di vanità oppure un atteggiamento contraddistinto dall’incuranza per l’impressione esercitata sugli altri.

Il giovane impara ad accettarsi in quanto è condizionato dal fatto che coloro che gli sono vicini, di solito i suoi compagni, gli riconoscono il diritto di fare quello che decide. Impara di nuovo, entro certi limiti, le lezioni del periodo latente. Supera la propria autocoscienza; la sua sicurezza si rinvigorisce. D’altro canto, però, gli insuccessi tendono ad accentuare le insicurezze emotive che costituiscono la base su cui poggia l’autocoscienza.

A scuola, a mano a mano che si propone una meta e la consegue – perfino se si tratta di mete di poco conto, come a volte succede – diventa sempre più sicuro e sempre più deciso a compiere ulteriori tentativi. Gli insegnanti gli possono essere di grande aiuto in questi casi, strutturando situazioni di genuino apprendimento nelle quali il giovane possa cogliere buoni risultati e sentirsi confermato nella buona riuscita.

3. La sperimentazione del ruolo opposta all’identità negativa. È la dicotomia esistente tra il bisogno di cercare sperimentalmente l’identità e il pericolo d’un impegno prematuro in un ruolo inadatto. La sperimentazione con le idee limite contiene due grandi pericoli: la possibilità di trovarsi etichettato e la possibilità di azioni manifeste irreversibili. Ciò nonostante è necessario che l’adolescente provi ruoli diversi per scoprire se gli convengono, prima che sia veramente in grado di trovare la propria identità. Gran parte di questa sua ricerca è fatta d’immaginazione e di fantasie, però certune richiedono un’approssimazione abbastanza precisa dell’impegno effettivo nella parte, almeno per alcuni brevi momenti.

Le ragazze sperimentano talvolta, empiricamente, il ruolo d’un simbolo sessuale e nella maggioranza dei casi lo giudicano spiacevole e se ne allontanano quanto più possibile. Però a certune succede di trovarvisi classificate, per scoprire in seguito che l’impresa di ritirarsi e abbandonarlo è difficile e al tempo stesso imbarazzante. Molti ragazzi, dal canto loro, tentano il ruolo del delinquente minorile, arrivando addirittura alla bravata di rubare un’automobile per godersi una scarrozzata. Se vengono colti sul fatto, non di rado il tribunale non sa valutare giustamente la realtà del ruolo che si stanno assumendo in questo caso. In genere i ragazzi di famiglie ad alto livello socioeconomico hanno minori difficoltà nell’abbandonarlo dei coetanei appartenenti ad ambienti meno fortunati. Comunque rimane il fatto che gli adolescenti, ragazzi e ragazze, debbono esplorare una quantità di ruoli prima di accettare un’immagine di sé riconoscendone il carattere di realtà.

Mentre sta sperimentando la serie delle parti, l’adolescente sperimenta anche le concomitanti emotive. Se gli riescono gradevoli, il ruolo gli appare desiderabile e si sente attirato verso questo modo di vita. Se invece il ruolo gli riesce sgradevole sul piano emotivo lo evita, determinandone così l’estinzione. Durante questa fase sperimentale certi adolescenti imparano a giudicare desiderabile un ruolo che in sé è negativo. Sentirsi ignorati è un’esperienza emotivamente insopportabile e sentirsi un’entità in un gruppo rifiutato può risultare preferibile alla mancanza di entità. In genere i genitori e gli insegnanti difficilmente sanno astenersi dall’accrescere l’attrazione emotiva di certi ruoli e concentrano eccessivamente la propria attenzione sui ragazzi che stanno conducendo esperienze antisociali. L’interesse degli “adulti che contano” per lo più rafforza – perfino quand’è negativo – il ruolo nei momenti in cui i ragazzi sentono il bisogno di attirare la loro attenzione.

4. L’anticipazione della riuscita dell’impresa opposta alla paralisi dell’attività. È la dicotomia fra il bisogno di evolvere l’abitudine al lavoro e lo sviluppo dell’abitudine a rimandare l’esecuzione del compito per il timore di sbagliare. L’identità occupazionale esige l’impegno d’incominciare e di terminare un lavoro, anche nel caso che l’esecuzione sia divenuta sgradevole.

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Tra le forze negative che ostacolano l’impegno rientrano le difficoltà impreviste, che si presentano mentre è in corso e inducono ad abbandonarlo prima che sia finito, e la temporanea attrattiva esercitata da altre occasioni, che porta al disimpegno. In circostanze simili l’identità occupazionale non si consolida mai.

Non di rado gli insegnanti sanno come aiutare gli allievi riluttanti a terminare un lavoro iniziato e li sanno aiutare così bene che i ragazzi stessi alla fine si considerano capaci di persistere in un’attività che è necessario non lasciare a mezzo. Indulgere alla sciatteria e all’inefficienza significa in generale svuotare del contenuto la previsione gioiosa del conseguimento e aiutare i ragazzi a considerarsi incapaci di perseverare sino in fondo. L’anticipazione del fallimento deriva, accompagnata dal feedback emotivo di esperienze negative, dai precedenti di piccoli compiti incominciati e mai portati a compimento.

5. L’identità sessuale opposta alla dispersione bisessuale. Qui abbiamo la dicotomia tra l’identità maschile o femminile e l’incertezza derivante da un ruolo misto. Gli adolescenti hanno bisogno di confermarsi ai propri occhi nel ruolo sessuale corrispondente. Una parte di questa identità sessuale viene formata dai contatti che contraddicono i ruoli. L’adolescente deve imparare a trovarsi a proprio agio nei ruoli che la cultura cui appartiene definisce indicati per il suo sesso. La dispersione che nasce dall’incertezza relativa al ruolo che sarà accettato socialmente provoca instabilità e disagio. Se l’adolescente persiste troppo a lungo in attività tipiche del sesso opposto, il risultato minaccia di essere l’alienazione sia dal sesso cui appartiene sia dall’altro.

La vita sociale della scuola secondaria può essere utile in questo senso, perché è facile che rafforzi l’identità sessuale. L’educazione alle buone maniere sociali – ad esempio quella di aprire la porta dell’automobile per far scendere una compagna, o di attendere, nel caso della signorina, che il ragazzo le apra la porta prima di scendere – ha il potere di rafforzare queste identità del ruolo. Il trattamento indifferenziato dei sessi nell’ambiente scolastico tende a mettere in ombra i ruoli sessuali e a contribuire alla dispersione bisessuale.

Durante lo sviluppo dell’adolescenza, forse perché la nostra cultura teme la sperimentazione del ruolo sessuale, questo aspetto della maturazione è più carico di tensione di qualsiasi altro. Il ruolo sessuale è messo in ulteriore risalto dai cambiamenti fisiologici. La sicurezza nel ruolo appropriato al sesso viene acquisita gradatamente, mediante il condizionamento operante. Tutti gli adolescenti procedono a ripetute, piccole prove del proprio stato sessuale e il feedback proviene dalla reazione degli altri, compresi i membri del sesso opposto. Le prove che includono il sesso opposto sono più cruciali nell’adolescenza che durante il periodo latente. L’apprendimento dell’identità sessuale ha luogo a livello inconscio.

6. La polarizzazione del prestigio di capo opposta alla dispersione dell’autorità. È la dicotomia tra l’accettazione dei ruoli di capo e di gregario e l’irresolutezza, la quale non produce né un buon capo né buoni gregari. La dispersione dell’autorità porta con sé il malessere dell’insicurezza. L’identità esige che i ruoli vengano definiti nettamente in questo settore dei rapporti umani.

Ai ruoli di capo, di seguace, di individualista o di “lupo solitario” si accompagna un apprendimento emotivo. Di solito i primi due sono rafforzati positivamente dalla cultura predominante, mentre l’individualista ottiene i propri rafforzamenti in maniere atipiche. A quanto pare il processo è appreso mediante il condizionamento.

7. La polarizzazione ideologica opposta alla dispersione degli ideali. L’ultimo dei conflitti che travagliano gli adolescenti è la dicotomia fra l’impegno con una religione, una filosofia o un’ideologia e l’insicurezza del disimpegno. Parte integrante dell’impegno ideologico è l’attacco piuttosto bellicoso rivolto contro quelli che non sono impegnati nello stesso senso. L’azione che accompagna il forte pregiudizio dell’adolescente e la sua fedeltà all’idea gli forniscono lo strumento atto a verificare le ramificazioni delle posizioni assunte.

A prescindere dall’identità sessuale, l’impegno ideologico è quello che possiede probabilmente la più forte carica emotiva di tutti gli altri aspetti dello sviluppo dell’adolescente. L’esplorazione è relativamente disimpegnata, ma qualunque scelta ideologica faccia, le influenze

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affettive sul concetto che l’adolescente ha di sé sono molto forti. Gli impegni hanno un sottofondo emotivo perché vi è implicata l’identità. Durante l’adolescenza gran parte dell’apprendimento emotivo proviene dal feedback del gruppo dei coetanei, dacchè il giovane fa l’esperienza dei concetti ideologici attraverso le discussioni, le letture, la riflessione e i temi d’esame. L’amor proprio inteso come impegno ideologico comincia con le risposte condizionate all’ambiente, senza che il discente sia consapevole che sta accettando definitivamente un modello.

Sul finire dell’adolescenza l’individuo acquista il senso dell’intimità e della solidarietà ed evita il senso dell’isolamento. La prima delle tre fasi adulte dello sviluppo descritte da Erikson è quella del corteggiamento del giovane adulto, alla quale seguono la fase del giovane sposo e quella dell’adulto più anziano. Gli obiettivi principali della sesta fase sono due: la scelta del compagno e quella del lavoro definitivo. Il mancato conseguimento dell’uno o dell’altro provoca nell’individuo un senso d’isolamento e di esclusione dalla maggioranza della società. La ricerca del compagno, o della compagna, sottintende come premessa una maturità psicologica e un impegno emotivo per l’esperienza a due del matrimonio; nella maturità è incluso lo sviluppo di una fiducia reciproca e nell’impegno è inclusa l’intenzione deliberata di adattare tutto – il lavoro, lo svago e la vita in genere – a beneficio di entrambi. L’esplorazione in molti di questi adattamenti è verbale e la prova dell’impegno è dimostrata dall’adattamento all’altro durante il periodo del corteggiamento. Il senso dell’identità si allarga fino a includere l’altra persona.

Il giovane coniuge acquista il senso della generatività ed evita il senso dell’autoassorbimento. La dicotomia è, in questa fase, fra la formazione del potenziale di crescita per la nuova generazione e il rifiuto di questa responsabilità per regredire alla vita accentrata sull’Io. Le identità che il marito e la moglie hanno sviluppato fino a questo momento determinano se il loro impegno a fornire un ambiente adatto ai figli sarà facile o difficile. Se l’individuo si è affermato come persona in tutta la sua integrità, la progressione attraverso la quale diventa colui che provvede sarà facile. Se invece si disperde in numerosi settori della propria identità è probabile che gli riesca difficile accettare la responsabilità di assicurare un ambiente sano a una nuova vita.

Durante l’ultima fase di sviluppo descritta da Erikson, l’individuo ormai adulto fa proprio il senso dell’integrità ed evita il senso della disperazione. L’integrità proviene dal fatto di aver fornito la struttura necessaria per la continuità della generazione successiva e supera il senso della disperazione e la paura della morte che sembrano, nelle fasi precedenti, il corollario della sensazione di essere dei falliti.

L’apprendimento fondamentale del giovane adulto è essenzialmente quello di trascendere l’Io per riconoscersi responsabile di altri. Dapprima si forma l’associazione con il futuro compagno della vita, ancora indefinito, quindi l’associazione con il compagno prescelto e, infine, l’associazione con la responsabilità per i figli. Sul piano emotivo vi si aggiunge una crescita al di fuori di sé, che sottintende la consapevolezza dei bisogni di altri individui. Questo spostamento dall’Io di solito è possibile perché l’individuo che sta maturando riesce a identificarsi con il compagno e con i figli e impara a proiettare i sentimenti del bisogno e del benessere sugli altri.

Secondo Erikson l’individuo costruisce la propria identità esplorando le possibilità di questi ruoli. Alcuni aspetti della loro ricerca sono fonte di preoccupazione per gli adolescenti, perché temono che l’esplorazione si concluda con un impegno che non era stato né previsto né voluto. Altri adulti sono propensi a qualificare una volta per tutte il giovane sulla base di un’unica fase della sua esplorazione, rendendogli in questo modo difficile l’esplorazione di ruoli diversi e forse addirittura opposti. La ricerca nella quale l’adolescente saggia se stesso avviene soprattutto attraverso le lunghe conversazioni, attraverso la competizione amichevole, o attraverso la rivalità, con i coetanei. Uno dei problemi che insegnanti e genitori debbono affrontare è quello di permettere un’esplorazione sufficientemente approfondita e di infondere al tempo stesso nel giovane la sensazione che gli adulti gli concedono la propria fiducia nella certezza che saprà condurre positivamente la propria ricerca. Il giovane ha bisogno di esplorare per proprio conto, però ha altrettanto bisogno dell’appoggio degli adulti, implicito nella loro fiducia.

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(da: Wilson-Robeck-Michael, Psicologia dell’insegnamento e dell’apprendimento, Brescia, La Scuola, 1967, pp. 359-371)

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Aspetti predominanti dello sviluppo generale (da R. Lowe, Lo sviluppo della personalità, Milano, Garzanti, 1977, pp. 271-272)Età Fase fisica Crisi psicologica Fase sociale Contenuto ansioso Stato depressivo Patologia dell’identità0-2 anni Orale Fiducia/ Persone Paura di morire Sensazione di ConfusionePrimissima Sfiducia singole di fame abbandonoInfanzia

2-4 anni Anale Autonomia/ Genitori Paura e dubbi di Vergogna Sensaz. di mancanzaPrima Vergogna pericoli imminenti di valore del sèInfanzia Dubbio

5-7 anni Fallica Spirito Famiglia Paura delle Sensazione di RidimensionamentoEtà dei giochi d’iniziativa/ punizioni non essere Senso di colpa amabile

6-12 anni Latenza Industriosità/ Vicinato/ Paura di non sapere Sensazione di Sentimento di inutilitàEtà scolare Senso Scuola come fare non saper fare D’inferiorità nulla

13-19 anni Genitale Identità/ Coetanei/ Paura di insuccessi Sensaz. che il Contraddizione sé/altriAdolescenza Dispersione “Modelli” mondo non sia Identificazioni stereotipate buono Aspettative

20-30 anni Genitale Intimità/ Compagni Paura della Autocontrollo Insoddisfazione legataPrima età Isolamento Coniuge spontaneità Esitamento di al “ruolo”Adulta cooperazione o Competizione

30-65 anni Genitale Generatività/ Famiglia Paura della Sensaz. di non Sensaz. di sprecare la vitaEtà adulta Concentrazione Lavoro responsabilità essere bravo Su se stesso genitore /costruttivo

65 anni e oltre Genitale Integrità/ Il “genere” Paura della Rassegnazione/ Sensaz. di essere un “peso”Vecchiaia Disperazione umano morte Cinismo / Disperaz. Un “rifiuto”

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo:

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13. Dagli scritti di A. Ferrière

Principi informatori della Ligue internationale pour l’éducation nouvelle (1921):

1. Lo scopo essenziale di ogni educazione è quello di preparare il fanciullo a volere e a realizzare nella vita la supremazia dello spirito; essa deve dunque, qualunque sia sotto altri aspetti il punto di vista dell’educatore, tendere a conservare e ad accrescere l’energia spirituale del fanciullo.

2. Deve rispettare l’individualità del fanciullo. Questa individualità non si può sviluppare se non con una disciplina che conduca alla liberazione delle forze spirituali che sono in lui.

3. Gli studi, e in genere la preparazione alla vita devono dare libero corso agli interessi innati del fanciullo, cioè a quelli che si risvegliano spontaneamente in lui e trovano la loro espressione nelle varie attività manuali, intellettuali, estetiche, sociali, ecc.

4. Ciascuna età ha il suo carattere speciale. Bisogna dunque che la disciplina personale e quella collettiva siano organizzate dai fanciulli stessi colla collaborazione dei maestri; esse devono tendere a rinvigorire il sentimento della responsabilità individuale e sociale.

5. La competizione egoistica deve scomparire dall’educazione ed essere sostituita dalla cooperazione che insegna al fanciullo a mettere la sua individualità al servizio della collettività.

6. La coeducazione, di cui la lega si fa banditrice – coeducazione che significa tanto istruzione che educazione in comune – esclude che un trattamento identico sia imposto ai due sessi, ma implica una collaborazione che permette ad ognuno dei sessi di esercitare liberamente sull’altro un’influenza salutare.

7. L’educazione nuova prepara nel fanciullo, non solo il futuro cittadino, capace di adempiere ai suoi doveri verso il prossimo, la sua nazione e l’umanità nel suo insieme, ma prepara altresì l’essere umano cosciente della sua dignità.

30 Punti di Calais1. La scuola nuova è un laboratorio di pedagogia pratica. Cerca di esercitare il

compito di un esploratore o di un pioniere rispetto alle scuole di stato, tenendosi al corrente della psicologia moderna nei mezzi che usa, e dei bisogni della vita spirituale e materiale negli scopi che pone alla sua attività. La maggior parte delle Scuole nuove pubblicano riviste, bollettini o annuali in cui sono elencati i risultati della loro attività e il frutto delle loro esperienze.

2. La Scuola nuova è un internato perché soltanto l'influenza totale dell'ambiente nel quale il bambino si muove e cresce permette di realizzare un'educazione pienamente efficace. Ciò non significa affatto che essa faccia del sistema del collegio un ideale che debba divenire generale: tutt'altro. L'influenza naturale della famiglia, se è sana, è in ogni caso preferibile a quella del migliore degli internati.

3. La Scuola nuova è situata in campagna, dato che questa costituisce l'ambiente naturale del bambino. L'influenza della natura, la possibilità che essa offre di dedicarsi alle esperienze dei primitivi, i lavori nei campi che permette di fare, la rendono la migliore collaboratrice della cultura fisica e dell'educazione morale.

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Ma per la cultura intellettuale e artistica - musei, conferenze ecc. - è auspicabile che si trovi nelle vicinanze di una città.

4. La Scuola nuova raggruppa i suoi allievi in case separate, in gruppi dai dieci ai quindici allievi, che vivono sotto la direzione materiale e morale di un educatore, coadiuvato da sua moglie o da una collaboratrice. Non bisogna che i ragazzi siano privati di una influenza femminile adulta, né dell'atmosfera famigliare che i collegi-caserme non potrebbero offrire loro. Gli allievi di solito scelgono da sé, dopo qualche mese di soggiorno, il loro capo famiglia secondo le loro affinità affettive. D'altra parte un adulto non può ottenere l'intimità di un bambino ed esercitare su di lui un'influenza morale continua altro che se non deve occuparsi di troppi bambini insieme.

5. La coeducazione dei due sessi, praticata nei collegi e fino alla fine degli studi, ha dato in tutti i casi in cui ha potuto essere applicata in condizioni materiali e spirituali favorevoli, risultati morali e intellettuali incomparabili, tanto per i maschi che per le femmine. Le anomalie d'ordine psico-sessuale, così disastrose per l'evoluzione morale degli adolescenti, sono quasi escluse dalle buone scuole coeducative.

6. La Scuola nuova organizza lavori manuali per tutti gli allievi per un'ora e mezzo almeno al giorno, di solito dalle 2 alle 4, lavori obbligatori che hanno un fine educativo e uno scopo d'utilità individuale o collettiva anziché professionale.

7. Fra i lavori manuali l'ebanisteria occupa il primo posto perché sviluppa l'abilità e la precisione manuale, il senso dell'osservazione esatta, la sincerità e il dominio di sé. L'agricoltura e l'allevamento di piccoli animali rientrano nella categoria delle attività ancestrali che ogni bambino ama e dovrebbe avere l'occasione di esercitare. La conoscenza diretta della natura vivente serve come preliminare alla conoscenza della natura umana, tanto organica che spirituale.

8. Accanto ai lavori imposti, vi sono i lavori liberi che sviluppano i gusti del bambino, risvegliando il suo spirito inventivo e la sua ingegnosità. Vi è obbligo di scegliere, ma libertà nella scelta sotto il controllo dell'educatore.

9. La cultura del corpo è assicurata dalla ginnastica naturale fatta all'aria libera nudi o almeno a torso nudo, oltre che dai giochi e dagli sport. Tutti i medici e tutti gli igienisti sono d'accordo nel celebrare l'utilità della nudità, non solo dal punto di vista fisico - bagni d'aria e bagni di sole - ma anche dal punto di vista morale, grazie all'eliminazione delle curiosità malsane.

10. I viaggi, a piedi o in bicicletta, con campeggi sotto la tenda e pasti preparati dai bambini stessi, hanno una parte importante nella Scuola nuova. 1 viaggi, occasioni per rinforzarsi fisicamente, per sviluppare la solidarietà e la cooperazione scambievole, sono preparati in anticipo e servono di sussidio allo studio.

11. In materia d'educazione intellettuale, la Scuola nuova cerca di aprire lo spirito con una cultura generale del raziocinio più che con il far immagazzinate conoscenze imparate a memoria. Lo spirito critico nasce dall'applicazione del metodo scientifico: osservazione, ipotesi, verifica, legge. Un nucleo di materie obbligatorie realizza l'educazione integrale non come istruzione enciclopedica, ma come possibilità di sviluppo, grazie all'influenza dell'ambiente e dei libri, di tutte le facoltà intellettuali innate dei bambino.

12. La cultura generale va unita a una specializzazione da principio spontanea: cultura dei gusti preponderanti di ogni bambino, poi viene resa sistematica e serve a sviluppare gli interessi e le facoltà dell'adolescente in un senso professionale.

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13. L'insegnamento è basato sui fatti e sulle esperienze. L'acquisto delle conoscenze risulta da osservazioni personali (visite a fabbriche, a musei, a istituzioni sociali, lavori manuali, ecc.) o, in mancanza di queste, da osservazioni altrui raccolte nei libri. La teoria segue in ogni caso la pratica; non la precede mai.

14. L'insegnamento è dunque basato anche sull'attività personale del bambino. Questo presuppone l'associazione più stretta possibile allo studio intellettuale del disegno e dei lavori manuali più diversi.

15. L'insegnamento è basato del resto sugli interessi spontanei del bambino; dai 4 ai 6 anni: età degli interessi dispersi o età dei giuochi; dai 7 ai 9: età degli interessi rivolti agli oggetti concreti immediati; dai 10 ai 12: età degli interessi specializzati concreti, ovvero età delle monografia; dai 13 ai 15: età degli interessi astratti empirici; dai 16 ai 18: età degli interessi astratti complessi: psicologici, sociali, filosofici. Le attualità della scuola o dei mondo esterno provocano fra i più grandi come fra i più piccoli lezioni occasionati, e discussioni che hanno una gran parte nella scuola nuova.

16. Il lavoro individuale dell’allievo consiste in una ricerca (nei fatti, nei libri, nei giornali, ecc.) e in una classificazione (in un quadro logico adatto alla sua età) di documenti di ogni specie, oltre che in lavori personali e nella preparazione di conferenze da tenere in classe.

17. Il lavoro collettivo consiste in uno scambio e in una classificazione o elaborazione logica in comune di documenti particolari. I risultati vengono affidati ad un grande quaderno o a uno schedario, riccamente illustrato, che è oggetto d'orgoglio per l'allievo e che sostituisce per lui tutti i manuali scolastici.

18. Nella Scuola nuova, l'insegnamento propriamente detto è limitato alla mattina - in generale dalle 8 a mezzogiorno. Nel pomeriggio, per una o due ore, secondo l'età, dalle 16,30 alle 18 circa, ha luogo lo " studio " personale. I bambini al di sotto dei 10 anni non hanno compiti da eseguire da soli. Il tirocinio sistematico del lavoro autonomo è uno degli scopi principali a cui si tende.

19. Si studiano poche materie per giorno, una o due soltanto. La varietà deriva non dai soggetti trattati, ma dal modo di trattarli, dato che via via si usano modi diversi d'attività.

20. Si studiano poche materie il mese o il trimestre. Un sistema di corsi, analogo a quello che regola il lavoro all'università, permette a ogni allievo di avere un orario individuale.

21. L'educazione morale come quella intellettuale deve essere esercitata non dal di fuori al di dentro, grazie a un'autorità imposta, ma dal di dentro al di fuori, grazie all'esperienza e alla pratica graduale dei senso critico e della libertà. Basandosi su questo principio alcune Scuole nuove hanno applicato il sistema della repubblica scolastica. L'assemblea generale, costituita dal direttore, dai professori, dagli allievi e talvolta anche dal personale, costituisce la direzione effettiva della scuola. Il codice delle leggi è formulato da essa. Le leggi sono i mezzi che tendono a regolare il lavoro della comunità in vista dei fini che essa persegue. Questo sistema, altamente educativo quando è realizzabile, presuppone una influenza morale preponderante dei direttore sui capi naturali della piccola repubblica.

22. In mancanza dei sistema democratico integrale, la maggior parte delle Scuole nuove sono costituite come monarchie costituzionali: gli allievi procedono alle elezioni dei capi, o prefetti, che hanno una responsabilità sociale ben definita. Nelle loro attività quotidiane i bambini preferiscono essere diretti da questi capi piuttosto che dagli adulti. E per i capi le responsabilità che assumono sono un'alta scuola di civismo.

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23. Le cariche sociali di ogni specie permettono di realizzare un'effettiva cooperazione. Queste cariche per l'utilità della comunità sono affidate a tutti i piccoli cittadini a turno.

24. Le ricompense o sanzioni positive consistono in occasioni offerte agli spiriti creatori di accrescere la loro facoltà di creazione. Esse si applicano ai lavori liberi e sviluppano così lo spirito di iniziativa. Esposizioni periodiche dei lavori liberi hanno luogo regolarmente oltre che concorsi manuali, scientifici o letterari.

25. Le punizioni o sanzioni negative sono in diretto rapporto con la colpa commessa. Cioè esse mirano a mettere il bambino in grado con mezzi adatti di raggiungere meglio nell'avvenire il fine ritenuto buono che egli ha mal raggiunto o che non ha raggiunto. Si distinguono le penalità codificate, che si applicano alle piccole mancanze e che vengono decise dagli allievi stessi, dai trattamenti d'ordine morale, che si applicano e colpe più gravi che l'adulto tratta come casi di psico-patologia con un'azione diretta a quattrocchi con il colpevole.

26. L'emulazione ha luogo soprattutto per mezzo del confronto fatto dal bambino fra il suo lavoro presente e il suo lavoro passato e non esclusivamente con il confronto dei suo lavoro con quello dei suoi camerati.

27. La Scuola nuova deve essere un ambiente di bellezza, come ha scritto Ellen Key. L'ordine ne è la prima condizione, il punto di partenza. L'arte industriale, che si pratica e da cui si è circondati, conduce a un'arte pura, che è capace di risvegliare nelle nature artistiche i sentimenti più nobili.

28. La musica collettiva, canto e orchestra, esercita l'influenza più profonda e più purificatrice in quelli che l'amano e la praticano. Le emozioni che genera e che contribuiscono a stringere i legami della solidarietà non dovrebbero venire a mancare a nessun bambino.

29. L'educazione della coscienza morale consiste principalmente per i bambini in racconti che provocano in loro reazioni spontanee, veri e propri giudizi di valore che, ripetendosi e accentuandosi, finiscono per legarli nei riguardi propri e altrui. E’ questo il fine della " lettura della sera " della maggior parte delle Scuole nuove.

30. L'educazione della ragione pratica consiste principalmente negli adolescenti in riflessioni e in studi che vertono sulle leggi naturali del progresso spirituale, individuale e sociale. La maggior parte delle scuole nuove mantengono un atteggiamento religioso non confessionale o interconfessionale, unito alla tolleranza verso i diversi ideali, purché incarnino uno sforzo in vista dello sviluppo spirituale dell'uomo.

Da La legge biogenetica e la scuola del lavoro“Vogliamo delineare in poche parole le prime origini del grande movimento che oggi scuote le basi del nostro sistema educativo troppo artificioso e reclama metodi più naturali e rispondenti al fine? Bisogna risalire fino a Bacone da Verulamio (1561-1626) le cui speculazioni ispirarono colui che noi salutiamo come il padre della pedagogia moderna: Comenio (1592-1671). Segue poi il filosofo Locke (1632-1704) da cui prese le mosse il Rousseau (1712-1778), uomo dotato di attitudini speciali per diffondere largamente le idee da lui riconosciute per buone e vere. L’influenza del Rousseau sulle discipline pedagogiche fu immensa e nessuno pensa a negargliela” (pp. 10-11).

“D’allora in avanti il movimento pedagogico si scisse in due correnti. Da una parte abbiamo i teorici che, seguendo le tracce del Rabelais (1435-1533), del Montaigne (1553-1592) e del Rousseau passarono dall’intuizione empirica alla vera scienza

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psicologica: per citarne solo i principali, nomineremo il Pestalozzi e i suoi seguaci, il Fichte, lo Herbart, il Froebel, lo Spencer, il Guyau. Dall’altra parte abbiamo i pratici che cercarono di tradurre in atto le loro intuizioni pedagogiche. Fra questi ci limiteremo a ricordare, oltre il loro grande antesignano, Vittorino da Feltre colla sua ‘casa giocosa’ (Mantova 1423), Martino Planta (Zizers 1761), Basedow (Dessau 1723-1790), Salzmann (Schnepfental 1784), Pestalozzi (Yverdun 1808), Fellenberg (Hofwyl 1803) e finalmente accenniamo ai numerosi tentativi pratici contemporanei il cui punto di partenza fu la fondazione della ‘New School’ (Abbotsholme nel Derbyshire, Inghilterra) dovuta al dott. Cecil Reddie (1889), seguita dai ‘Landerziehungsheime’ (scuole rinnovate in campagna) del dottor Lietz a Ilsenburg nel Harz (1898), Haubinda (Turingia) (1901), e Bieberstein (Rhoen) (1904), nonché dal ‘Heil und Erziehungsheim’ (casa di cura e di educazione) per fanciulli gracili del Trueper a Jena, che esiste dal 1890” (11-12).

“Questi tentativi di riforma pratica furono preparati, accompagnati e sostenuti da una ricca produzione letteraria e teoretica, intesa a rivendicare alla psicologia il posto che le compete nel sistema educativo. Essa guida i genitori ad esercitare una sana critica degli odierni sistemi scolastici inadeguati al loro fine e d’altra parte li mette in grado di saper comprendere il valore e la portata dei principi e dei metodi della nuova scienza educativa” (12).

“Osserviamo dapprima contro quali fatti il nuovo sistema appunti più specialmente le sue critiche: ci accorgeremo tosto che le accuse principali mosser dal nuovo sistema a quello vecchio tuttora vigente a nostro danno, sono due: 1. Non considera abbastanza la personalità fisica e psichica del fanciullo; 2. Non lo prepara alla vita pratica dei nostri tempi” (18).

“Così, per esempio, uno dei primi bisogni del bambino è notoriamente quello di muoversi, di cambiar posto: ed il vecchio sistema costringe il bimbo per ore ed ore ad una immobilità quasi completa. Tenuto calcolo del tempo impiegato nei compiti di casa, troviamo che uno scolaretto è obbligato a 6 ed anche 8 ore di lavoro sedentario al giorno: tempo maggiore di quello che i letterati o gli scienziati sono soliti passare a tavolino!” (19).

“Similmente il bambino ha bisogno di aria e di luce: ma prima che si costruissero i moderni edifici scolastici, in cui talvolta le preoccupazioni igieniche sono spinte fino all’eccesso, i bambini erano rinchiusi in luoghi spesso umidi, oscuri, male aerati. Chi non ricorda ancora quella indefinibile atmosfera scolastica, quell’odore caratteristico che si sviluppa dove un certo numero di bambini più o meno puliti sono agglomerati in un locale troppo ristretto?” (19).

“Nel suo lavoro il bambino ha bisogno di spontaneità e di uno scambio intellettuale vivo ed immediato. La scuola, per contro, gli ammannisce la materia di studio frazionata in piccole porzioni, sotto forme da lungo prestabilite, in quantità esattamente dosate, da somministrarsi ad ore fisse, a norma di certe prescrizioni emanate da una qualche vaga e lontana autorità scolastica secondo i programmi prestabiliti per mesi ed anni!” (19).

“Sappiamo benissimo che la migliore maestra del bambino è l’esperienza personale, che essa sola ne forma il carattere e lo spirito; ma ciò nonostante persistiamo a

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volergli instillare le idee e le cognizioni, ad imporgli dal di fuori il carattere, il costume, e finanche la concezione della vita” (19-20).

“E qual è il frutto di tante misure artificiose? I bambini passati attraverso un tale insegnamento, son forse diventati più istruiti, più abili? Fatti adulti, sanno adempir meglio ai doveri del loro ufficio, essere migliori cittadini? Migliori massaie, migliori padri di famiglia? E – quel che più importa – sono più felici? Niente affatto. L’esercizio eccessivo del raziocinio, il predominio accordato alle facoltà intellettive a scapito di tutte le altre che costituiscono l’individuo, l’occupazione continua della mente in concetti astratti, generali e convenzionali, sciupa nel fanciullo la visione sana e immediata della vita. I suoi apprezzamenti si fanno a poco a poco artificiosi ed errati come quelli di molti suoi maestri. Il fanciullo si trasforma in un essere semi-colto, semi-ragionevole, in un individuo incompleto: in una parola, diventa uno spostato del mondo intellettuale, ossia si trova in contrasto col mondo sociale e spirituale normale, sano e semplice” (20).

“Ecco quanto si proclama più o meno chiaramente nelle opere su citate, che però non si limitano a criticare, ma mettono innanzi delle proposte di riforma. Riforme di qual genere? È facile pensarlo: in che altro potrebbero consistere, se non nell’attuazione del contrario di quello che fu criticato? Si è criticata l’eccessiva durata delle occupazioni sedentarie del bambino? Ebbene, gli si conceda maggior libertà di movimento! Si biasimò la troppo lunga segregazione in locali chiusi, senz’aria e senza sole? Ebbene, gli si dia modo di godere di quella e di questo!” (20-21).

“Fu biasimata la schematizzazione della materia di studio, il suo frazionamento in porzioni matematicamente uguali, somministrate al fanciullo con grave nocumento della libera attività del suo spirito? ebbene, si crei un metodo d’insegnamento vivo, che stimoli al lavoro, che svegli l’interesse e permetta ad ogni individuo di assimilare quel tanto di cognizioni che si confà alla sua natura. Si biasimarono i procedimenti didattici troppo scolastici, troppo cattedratici? Ebbene, si permetta al fanciullo di affrontare da solo i fatti, limitando l’azione dell’educatore a presentargli i problemi, a guidarlo alla loro soluzione ove sia necessario, senza però volergli imporre la propria personalità e opinione. Si biasimò l’uso di sottomettere la coscienza individuale e sociale del bambino ad una legge morale impostagli come fissa e immutabile, obbligandolo così a conformarsi ad un ideale stabilito a priori? Ebbene, gli si porgano delle occasioni di acquistare esperienze di morale sociale e individuale capaci di svegliare in lui l’intima convinzione della bontà e giustizia della nostra legge morale, la persuasione della sua necessità, e una spontanea e volontaria sottomissione alle sue esigenze” (21-22).

“In tal modo il bambino svilupperà da sé le sue facoltà innate, si sentirà spinto a perfezionare le sue doti speciali invece di arrovellarsi nell’acquisto di altre non conformi alla sua natura a detrimento di quelle disposizioni naturali che attendono solo l’occasione propizia per svilupparsi” (22).

“In altre parole, ad un metodo educativo che agisce dall’esterno verso l’interno, per forza di autorità, se ne vuole sostituire un altro che svegli e sviluppi le facoltà innate nel fanciullo e gli permetta di evolversi, col minimo sforzo possibile, dal suo interno verso l’esterno. Con ciò non intendiamo dire che gli si debba evitare qualunque

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fatica – chè la fatica è condizione di vita, senza della quale nessun progresso è possibile, - ma soltanto le fatiche inutili e dannose” (22).

“Tutte queste richieste mirano dunque a rendere l’educazione più consona alla natura fisica e spirituale del fanciullo. Tendono a formarlo più forte e più sano, a dargli maggiore vigoria di spirito, ad acuire la sua perspicacia, a prepararlo vie meglio al suo compito futuro, qualunque sia l’ufficio a cui sarà chiamato nella vita” (22).

“Molti fra gli autori sopra citati insistono perciò sulla necessità di eliminare dalla scuola tutte quelle nozioni che per loro natura non giovano a far progredire il fanciullo nella conquista del proprio posto nel mondo e sulla via di diventare un membro utile e colto della società. Essi invocano che si dia al fanciullo la possibilità di formarsi da sé un concetto della vita – sia pure primitivo – ma sano e giusto, e tale che i portati delle scienze naturali e della tecnica, delle indagini psicologiche, morali e sociali vi occupino il posto che loro compete; che ogni cosa, ogni atto, ogni fenomeno vi assuma né più né meno del suo vero valore” (22-23).

“Essi chiedono che fin dalla prima infanzia l’educazione non abbia di mira soltanto la preparazione dl futuro lavoratore, sia professionista o impiegato od operaio, ma quella dell’uomo in genere, del cittadino, del padre o della madre di famiglia. Questi sono gli uffici a cui la grande maggioranza degli uomini è chiamata, a questi dobbiamo preparala degnamente. Le nozioni di letteratura, di storia, di geografia, di zoologia, di botanica, di geologia, di chimica, di fisica e di matematica hanno un valore solo in quanto concorrono a formare l’uomo completo. Se non giovano a questo, lo studiarle è un tormento inutile e crudele che imponiamo ai fanciulli. Ricordiamo le parole del Pestalozzi: ‘Studiar tutto non vale un soldo se fa perdere il coraggio e la letizia” (23).

“[…] Bisogna conformarsi alla natura del bambino. Che significa ciò? Forse che si debba cedere a tutti i suoi capricci? Che il bambino possa fare ciò che gli pare e piace, occuparsi oggi di questo e domani di quello, senz’altra guida che il suo momentaneo interesse? Che possa variare a talento le sue occupazioni, giocherellare e oziare a piacer suo? No, certo: questo non sarebbe educare: sarebbe un falsare il senso della parola latina educatio, che, composta da ex e ducere, significa ‘condurre fuori’. Donde mai si vuol condurre fuori l’educando? Senza dubbio dallo stato di natura in cui si trova” (28-29).

“Non è lecito, a chi vuol raggiungere una meta elevata, abbandonarsi alle ispirazioni passeggere: chi vuole innalzarsi, deve raccogliere le forze e resistere a certi capricci; talora deve saper compiere doveri poco gradevoli; saper persistere in uno studio intrapreso e dirigere le proprie energie verso uno scopo prefisso. L’uomo che segue solo il proprio talento ne è, in realtà, lo schiavo; mentre l’uomo che tempra le proprie forze per uno scopo più elevato, è padrone di se stesso: è libero. Sotto questo aspetto si può dire della educazione nuova che è un’ ‘educazione alla libertà per mezzo della libertà’. Ed è chiaro come qui non si intenda già quella libertà che fa tutto ciò che vuole, e facilmente degenera in licenza. Disse il Montesquieu: ‘Libertà è la possibilità di fare ciò che si deve’. E il Rousseau la definisce similmente quando dice: ‘Io non credo che la libertà consista nella possibilità di fare ciò che si vuole: bensì nella possibilità di non fare ciò che non si vuol fare” (29).

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“Ma ne consegue forse che, per resistere ai capricci d’un bambino, si debba soffocare la sua natura e costringerlo a fare a qualunque costo ciò che gli ripugna? Che sia necessario tenerlo obbligato ad una stessa occupazione fino alla nausea? – No, davvero; se non altro, il semplice criterio dell’economia del tempo e delle forze dovrebbe impedire tali imposizioni infruttuose. La psicologia ci ha fatto conoscere abbastanza chiaramente un fenomeno che possiamo definire dei ‘riflessi difensivi dell’organismo psichico’ per cui un lavoro imposto all’individuo contro sua volontà ingenera tosto la disattenzione, la stanchezza, la nausea. È questo un fenomeno psichico che tutti hanno potuto osservare e che si manifesta con maggiore intensità nei bambini che non negli adulti. Combatterlo con la coercizione non serve che a peggiorare le cose: volerlo estirpare, significa provocarlo maggiormente. I soli rimedi efficaci sono quelli usati anche da psichiatri valenti coi loro ammalati: la pazienza, la dolcezza, la bontà, e anzitutto il risveglio dell’interesse” (29-30).

“Nell’antico metodo didattico si considerava come un ‘perditempo’ il risvegliare l’interesse dello scolaro. Il nuovo metodo invece permette di ottenere: 1.° gli stessi risultati con minor fatica; 2.° risultati superiori colla stessa fatica. Eccoci giunti così all’antico principio dell’economia delle forze, principio già applicato nel campo economico, sociale, fisico. Spiriti perspicaci avevano già invocato da tempo una riforma in questo senso; valendosi bensì di altri termini, avevano reclamato una ‘educazione dell’organismo psichico secondo i dettami di una saggia economia delle forze’ (dove naturalmente la parola economia non va intesa nel senso di eliminazione di ogni sforzo). Ma ciò che oggidì conferisce un valore speciale a questa esigenza è il fatto che essa non si trova più allo stato di richiesta puramente teorica, intorno a cui si possa discutere, ma si è affermata nel campo pratico. In scuole private, in alcune scuole rinnovate di campagna, anche in certe classi di scuole governative e in altri laboratori della pedagogia moderna, è stata sperimentata l’utilità di questi metodi che esigono un’apparente perdita di tempo, ma interessano il bambino e lo conducono a risultati molto migliori senza nessuno sciupìo di energia” (31-32).

“La norma fondamentale dell’economia delle forze intellettuali sarebbe dunque: svegliate interesse, tenetelo desto, propagatelo largamente e così preparate il fanciullo alla vita che lo attende” (32-33).

“Sappiamo che il fine della scuola consiste nel far progredire il fanciullo. Sappiamo inoltre che questo progresso si ottiene per mezzo dell’interesse e che questo si risveglia adattando la materia d’insegnamento alla natura del bambino. Ora ci si presenta la domanda: Come si deve effettuare questo adattamento alla natura infantile e come si riconosce d’averlo ottenuto? Come si sviluppa lo spirito del fanciullo? O meglio: secondo quali leggi si compie il suo sviluppo intellettuale? Con queste domande entriamo in un campo arduo, in cui la psicologia e la filosofia si toccano e si confondono” (33).

“[…] Ogni progresso biologico, e quindi anche quello spirituale, si basa sulla facoltà di adattamento. Ma guardiamoci bene dall’intendere questo come un comodo abbandono del proprio essere a tutte le influenze esteriori che possiamo incontrare sul nostro cammino. ‘Adattarsi’ non significa ‘assimilare’ quanto vi ha di meno buono nell’ambiente circostante, ma significa ‘riconoscere, afferrare’ nell’ordine fisiologico come in quello psichico; consiste cioè nel reagire colla maggiore sollecitudine e sensibilità possibile ai numerosi stimoli che ci vengono dal mondo

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esteriore, sia dalla natura che dagli uomini, e nel moltiplicare e riprodurre quelle fra le impressioni e rappresentazioni accolte che hanno il potere di accrescere la potenzialità fisica e intellettuale dell’individuo respingendo ed espellendo quelle che lo danneggiano e ne diminuiscono le energie. L’incremento della potenzialità dell’individuo, delle sue forze fisiche e spirituali, psichiche ed etiche: ecco il fine cosciente o incosciente, non solo dell’educazione della gioventù, ma di qualsiasi movimento ascensionale dell’umanità” (33-34).

“Non vorremmo però che l’aver caratterizzata siffattamente l’essenza del progresso, ci valesse la taccia di propugnatori di un’educazione all’egoismo. Al contrario, riteniamo che chiunque ristagna nell’egoismo è un essere incompleto, inintelligente e irragionevole. Aristotele ha già detto che l’uomo è un ‘animale politico’; ed è precisamente il pieno sviluppo della sua personalità che lo conduce a metter questa al servizio del bene universale. Anche questo è un aspetto della facoltà di adattamento, esplicata in una più vasta cerchia: si tratta di armonizzare la sfera della propria vita col rimanente dell’umanità, col rimanente del mondo (34-35).

“L’incremento della forza dell’individuo è messo così al servizio dell’incremento della forza sociale. Rivolgiamo dunque ad ogni singolo individuo l’esortazione: ‘Accresci la tua forza per poter essere maggiormente utile al tuo prossimo; eleva la tua famiglia e la tua schiatta, per metterle in grado di essere più utili all’umanità, e a questo fine: 1. Adattati al tuo ambiente materiale e sociale, e perciò impara a conoscerlo; 2. Informati di quanto vi ha di meglio nella natura e nella società e conforma, per quanto sta in tuo potere, uomini e cose a questo ideale; 3. Conserva ed aumenta la potenza dell’ambiente sociale cui appartieni e i mezzi che concorrono a costituire questa potenza, per contribuire così da parte tua al progresso umano e indurre anche gli altri a concorrervi” (35).

“Il fine ideale di ogni progresso coincide dunque colla legge del progresso quale ci è rivelata dalla biologia, dalla psicologia, dalla sociologia. Riconoscerlo vuol dire mettersi in condizione di cooperare colla natura e di affrettare così l’evoluzione verso uno stato sociale in cui vi saranno meno sofferenze immeritate” (36).

“Ora passiamo oltre a considerare il qual guisa lo spirito operi per raggiungere questo ideale, ossia per adattarsi al mondo e insieme avvicinare il mondo al proprio ideale. Può il fanciullo, e anche l’adulto, fare senz’altro tutto ciò che vorrebbe? Può trasformare in atto tutto ciò che ha riconosciuto per buono? Vedendone innanzi a sé la possibilità, è già garantito della riuscita? Se fra il sapere e il potere sta sovente un abisso, anche il volere e il potere non sono meno lontani. Socrate credeva che bastasse riconoscere per buona un’azione, per essere spinti irresistibilmente a compierla. Era un idealista e non conosceva ancora la parola dell’apostolo Paolo: ‘Perché io non fo quel bene che io voglio, ma quel male che io ho in odio, quello faccio’. O come dice il poeta latino: ‘video meliora proboque, deteriora sequor’. Poiché prima di poter fare una cosa, bisogna sapere se ne siamo capaci. Per poter compiere un’azione, questa dev’essere compresa entro i limiti delle nostre forze fisiche e spirituali: e di ciò noi dobbiamo essere consapevoli” (36-37).

“Ora, come può l’uomo acquistare e sviluppare queste forze? I filosofi e psicologi ce l’insegnano: l’uomo differenzia le sue facoltà e poi le concentra a propria disposizione. Lo spirito infantile vede dapprima il mondo non differenziato e senza nessi: gli mancano ancora le numerose esperienze e la personalità propria che le

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elabora secondo un criterio unico. Tutte cose che acquisterà col tempo. Quando un oggetto nuovo ne attira l’attenzione, il bambino lo concepisce come un tutto. Non è ancora in grado di scomporlo nelle sue parti: questo lo farà più tardi, differenziando le sue idee. Gli manca però la facoltà di astrarre; le somiglianze e le differenze fra quel dato oggetto e gli altri non si riflettono ancora nella sua coscienza. Solo crescendo in età imparerà a confrontare, a distinguere e a valutare uno contro l’altro i generi e le specie” (37-38).

“Facendosi più grandicello, il bambino impara ad analizzare e ad astrarre. Come il viandante che si avvicina ad una montagna vede delinearsi vie più distintamente prima i boschi, poi gli alberi, poi i rami e finalmente le foglie, così lo spirito va differenziandosi e differenzia anche le rappresentazioni degli oggetti […]. Così lo spirito dell’uomo adolescente si innalza ad astrazioni sempre più elevate, e comprende sempre meglio l’unità del mondo. Ecco la differenziazione e la concentrazione intellettuale – le due vie per cui lo spirito procede verso la conoscenza” (38).

“La stessa cosa accade anche nell’ambito morale per la formazione del carattere. Il sentimento altruista, la delicatezza morale, la simpatia, la compassione che intuisce i sentimenti del prossimo per poterlo aiutare, l’arte di piegarsi secondo il carattere degli altri e di adattare la propria volontà in certi casi della vita alle variazioni di quel che fu riconosciuto per buono o cattivo, possibile o impossibile – ecco la differenziazione dei sentimenti morali e degli atteggiamenti della volontà. Ma per essere utili agli altri, bisogna essere forti in se stessi, e non dipendere dal capriccio altrui: per questo occorre la concentrazione delle forze morali, ossia fermezza e rettitudine di volontà, convergenza di tutte le opposte tendenze intime umane in una unica virtù centrale” (38-39).

“Vediamo dunque che la semplice richiesta di ‘conformarsi alla natura del fanciullo’ racchiude in sé il problema più profondo, quello del fine ultimo di tutti gli esseri e dell’uomo in specie. Partendo dalle considerazioni suesposte possiamo quindi stabilire una definizione dell’educazione che, com’è ovvio, racchiude in sé anche il fine a cui deve tendere la scuola popolare. Eccola: Educazione è l’arte di iniziare nel fanciullo, eccitandone l’interesse, uno sviluppo delle forze intellettuali e morali, che corrisponda alla legge secondo la quale si compie ogni progresso biologico e psicologico: differenziazione e corrispondente concentrazione delle sue sane facoltà ed energie volitive” (39).

“Questo primo scopo principale di ogni educazione – il promuovere lo sviluppo delle forze spirituali conformandosi alle leggi evolutive della natura – si riferisce al fanciullo sotto il punto di vista della sua vita psichica individuale. Va però completato da una seconda definizione che consideri il fanciullo come elemento di vita sociale, come individuo destinato a far parte di una comunità reale, circoscritta nel tempo e nello spazio. Qui è d’uopo considerare in goni singolo caso qual genere di vita attende il fanciullo all’uscita dalla scuola. […] Si tratterà di educare opportunamente oltre che il futuro operaio, professionista, uomo di studio ecc., anche il cittadino, il padre o la madre di famiglia, tenendo conto delle diverse mansioni a cui questi saranno chiamati in avvenire. Inoltre il fanciullo dovrà acquistare certe nozioni di igiene, affinchè possa un giorno condurre e diffondere intorno a sé un regime di vita salutare e infine dovrà essere preparato al governo

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della casa per saper tenere i propri conti e mantenere il necessario equilibrio fra le entrate e le uscite” (39-40).

“Molto si è discusso sui vantaggi della cultura generale di fronte a quella speciale o professionale. Siamo dell’opinione che ambedue abbiano gli stessi diritti e debbano completarsi a vicenda. Cioè non esservi soda e utile cultura speciale che non sia fondata e sorretta da una buona cultura generale; e viceversa una cultura generale senza cognizioni specializzate in nessun campo, essere sempre in pericolo di riuscire vuota e disutile. Fu spesso osservato che, caeteris paribus, l’operaio più colto è anche più abile e intelligente nel suo genere speciale di lavoro. Ciò è dovuto al fatto che un’intelligenza sveglia, nutrita e vivificata, che non si lasciò ottundere da un lavoro meccanico e materiale, sa utilizzare le proprie risorse in modo razionale ed economizzarle a vantaggio del proprio lavoro professionale. L’economia delle proprie forze – importantissima – non conduce alla trascuratezza, ma al perfezionamento del lavoro professionale” (40-41).

“Lo scopo ultimo della scuola popolare, oltrechè nel suesposto perfezionamento individuale, consiste nel preparare il fanciullo alla sua vita avvenire, iniziando e favorendo lo sviluppo delle energie e facoltà in lui innate, in quanto possono essergli utili nella odierna vita sociale” (41).

“Bisogna conoscere le leggi generali dello sviluppo intellettuale del fanciullo, fra cui primissima la legge della differenziazione e relativa concentrazione delle facoltà intellettive e volitiva che abbiamo stabilito come fondamento di qualsiasi progresso” (45).

“Bisogna conoscere le forme speciali in cui si compie nel fanciullo lo sviluppo intellettuale, perché in realtà esso non si compie uniformemente, né secondo leggi logicamente afferrabili, come ce lo dimostrano la molteplicità e la rapida variabilità degli interessi, predominanti con alterna vicenda nell’animo del fanciullo, soggetto a passare dalla gioia sfrenata alla più profonda tristezza. Questo sviluppo si compie invece per trapassi tutti speciali, dovuti forse a momentanee ricorrenze, nell’anima del fanciullo, delle fasi spirituali più salienti attraversate dai suoi remoti progenitori, ossia a stati d’animo atavici” (46).

“Bisogna servirsi dei focolai d’interesse già vivi nell’anima del fanciullo come centri di una più larga irradiazione, costituendo così in lui delle forze tendenti ad avvicinarlo al duplice fine della coltura individuale e di quella sociale” (46).

“Bisogna applicare il metodo meglio adatto a risvegliare il suo interesse, a tenerlo vivo ed accrescerlo, indirizzandolo verso quei domini che offrono maggior nutrimento alle sue tendenze naturali verso il progresso intellettuale, etico e sociale” (46).

“Bisogna adattare questo metodo e tutta quanta l’opera educativa ai bisogni, alle tendenze di ciascuna età. In ciò dovrà consistere più specialmente il vero programma di organizzazione della scuola del lavoro” (46).

“Per quel che riguarda il lavoro manuale, è compito della scuola di far progredire l’attività, esercitata sul principio con poca destrezza, verso una maggiore abilità (differenziazione dei muscoli e relativi centri nervosi) e una maggiore sicurezza

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(concentrazione dei muscoli e relativi centri nervosi). I progressi realizzati in questi due sensi – maggiore abilità congiunta a più calma sicurezza – si completano a vicenda e permettono all’esecutore del lavoro di avvicinarsi vie meglio allo scopo del suo tirocinio: il saper ottenere il massimo rendimento in lavoro con un minimo sforzo, e viceversa l’impiegare un minimo di forza per ottenere un dato rendimento in lavoro” (47).

“Nel campo del perfezionamento intellettuale avviene lo stesso fenomeno, sia per la percezione degli oggetti esteriori, sia per la intuizione delle idee. Ogni rappresentazione di un oggetto esteriore è dapprima confusa, non differenziata e staccata dal suo ambiente organico. Poi s’inizia un duplice lavoro mentale: osservando più da vicino l’oggetto, il senso analitico tende ad una percezione distinta dei singoli elementi (fattori essenziali) dell’oggetto; mentre l’astrazione gli assegna il posto e il valore che gli compete nel suo ambiente organico, logicamente più elevato” (47-48).

“Similmente ogni idea nuova è oscura, vaga, incerta al suo primo affacciarsi all’intelligenza. Ma tosto che la considera più dappresso, la mente da un lato ne afferra le singole sfumature, mentre dall’altro ne comprende l’importanza, la portata logica e le assegna il suo posto nella scala dei valori. In pari tempo la mente procede verso un’astrazione più elevata (o porta un nuovo elemento di differenziazione in un’altra astrazione di ordine più elevato già concepita in precedenza). Sono dunque sempre gli stessi processi secondo i quali opera la legge del progresso: differenziazione e concentrazione (penetrazione e raccoglimento)” (48).

“La legge del progresso si verifica ineluttabilmente in tutti i campi: ma ciò nondimeno l’evoluzione dell’intelligenza nel fanciullo si compie talvolta in modo apparentemente saltuario ed arbitrario. Certi interessi scompaiono improvvisamente; altri se ne manifestano a cui nessuno pensava” (50).

“[…] Certi tratti essenziali sono comuni a quasi tutti i fanciulli dell’età di cui dobbiamo occuparci” (52).

“Il fanciullo vive, come abbiamo già ripetutamente notato, entro i limiti ristretti del tempo e dello spazio in cui si muove. L’avvenire e il passato non lo interessano: gli avvenimenti lontani nello spazio lo lasciano indifferente. Ma, siamo sinceri: non siamo forse tutti un po’ fanciulli in questo senso? Non nasce forse dallo stesso istinto la preferenza che diamo alla rubrica d’attualità dei giornali quotidiani?” (52).

Il fanciullo vede gli avvenimenti solo in rapporto al suo ‘io’. Si chiamò egoismo questo istinto, ma a torto. Ove fosse continuato troppo a lungo, potrebbe bensì degenerare in egoismo, ma nella prima età è un fenomeno normalissimo. Quel che maggiormente attrae il fanciullo è ciò che da lui emana e a lui si ricollega direttamente” (52).

“All’infuori del gioco il fanciullo preferisce sempre l’utile all’inutile. Anche il piacere di distruggere, di danneggiare (l’utile negativo) non è che una perversione di questo istinto” (52-53).

“Il fanciullo è pure un essere semovente. Suo elemento vitale è il moto. L’attività fisica è sempre stata in tutti i tempi condizione di esistenza dell’uomo, e solo da un

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certo numero di generazioni, relativamente piccolo, e per una parte esigua dell’umanità, il lavoro intellettuale ha superato in importanza, nella lotta per la vita, quello materiale” (53).

“Attenendoci a questi fatti possiamo stabilire alcuni principi psicologici di cui l’educatore potrà giovarsi assai. 1. Il fanciullo preferisce agire, piuttosto che essere spettatore inerte; preferisce vedere, che udire. Si potrebbero addurre innumerevoli esempi ma il fatto ci sembra tanto noto da non dovervi insistere. 2. Il fanciullo si interessa maggiormente alle cose e alle persone che lo circondano che non a quelle assenti o esistite in altri tempi. 3. Fra le persone del suo ambiente abituale si interessa più dei fanciulli che degli adulti, fatta eccezione per quelli che lo amano, lo nutrono e si occupano di lui. 4. Dopo i fanciulli darà la preferenza, nel suo ambiente, agli animali vivi. 5. Fra gli oggetti preferirà quelli di utilità pratica; e fra questi ancora darà la preferenza a quelli il cui ufficio è per lui più comprensibile e più importante. 6. Il fanciullo desidera rendersi ragione delle cause e degli effetti, per esempio del funzionamento delle macchine, dell’origine dei fenomeni naturali. Ciò lo induce ad osservare, supporre, esperimentare, dedurre. Qui ritroviamo le linee fondamentali dei metodi di indagine scientifica: osservazione, ipotesi, verifica, legge” (53-54).

“Il fanciullo si interessa alla propria attività in proporzione all’utile che glie ne deriva. Si interessa per ciò che vede, in quanto può e sa farne qualche cosa di utile. Ciò che gli è noto solo per udito dire e ciò che non gli sembra utile, non lo interessa. Egli lo dimentica subito, quand’anche si fosse data la pena di impararlo” (54).

“Se volete svegliare l’interesse del fanciullo per epoche passate (storia) o per luoghi lontani (geografia) presentategli specialmente la vita dei fanciulli e i prodotti utili di quell’epoca o di quei paesi” (54).

“L’osservazione di certe macchine industriali di utilità riconosciuta dal fanciullo, come la locomotiva, o un impianto di fabbricazione di cioccolato o simili, sarà un ottimo punto di partenza per risvegliare l’interesse per le scienze fisiche e chimiche” (54-55).

“Fra le attività fisiche [il lavoro manuale] deve occupare un posto privilegiato. […] Rammentiamone dunque brevemente (secondo il dr. Decroly), i molteplici vantaggi: 1. Il lavoro manuale obbliga il fanciullo a vedere giusto, a rivolgere la propria attenzione anche ai dettagli, a misurare e calcolare con esattezza. 2. Lo esercita a dare alle proprie rappresentazioni mentali una forma concreta visibile ed esatta. 3. Promuove il suo sviluppo intellettuale, coordinando l’attività cerebrale con quella muscolare. 4. Lo mette a contatto della materia affinchè questa gli riveli, attraverso i sensi, tutte le sue qualità. 5. Lo conduce a scoprire praticamente, colla propria esperienza, i rapporti esistenti fra le diverse materie e gli insegna a stimare il valore e l’importanza sociale dello strumento di lavoro e dell’operaio. 6. Lo esercita a trattare la materia senza sperpero e a trasformarla in oggetti utili. 7. Soddisfa al bisogno di attività muscolare proprio della gioventù; e in tal modo contribuisce al suo sviluppo fisico. 8. Sviluppa la sua abilità manuale, e con ciò lo rende più destro ed aumenta la sicurezza dei suoi rapporti col mondo esteriore” (55-56).

“Aggiungiamo inoltre: 9. [il lavoro manuale] stimola le sue facoltà inventive, sia obbligandolo a superare difficoltà tecniche, sia porgendogli modo di dar forma

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tangibile a degli oggetti di sua invenzione. Tutti conosciamo la gioia dei nostri figli quando riescono a mettere insieme qualche oggetto pratico, documento tangibile di ingegnosità e di perseveranza nel lavoro. 10. Il lavoro manuale gli fa sentire in piccolo ciò che ogni vita umana dovrebbe realizzare in grande: una giusta compenetrazione della teoria colla pratica, cioè la prova del come la teoria scaturisca dalla esperienza e dal lavoro e come poi a sua volta diventi la norma di questo, risparmiando il lungo brancolare, i tentativi infruttuosi e contribuendo a realizzare la norma fondamentale dell’economia, ‘ottenere il massimo rendimento col minimo sforzo’. 11. Occupando tutti i sensi, ossia i loro rispettivi organi, concentrandoli sopra il soggetto in via di esecuzione, il lavoro manuale è un ottimo mezzo per abituare il fanciullo ad una attività regolata e sistematica. 12. Finalmente rileviamo un altro vantaggio troppo poco apprezzato, ma pure molto importante e tenuto in gran conto dai psico-fisiologi moderni: l’acquisizione di quella maggior destrezza o pieghevolezza tecnica verso cui tende chiunque si studia di compier bene un lavoro manuale, non che della padronanza di se stessi, dei propri nervi e muscoli che è conseguenza di un lavoro manuale fruttuoso; due qualità che costituiscono, a lor volta, la base e la preparazione efficace di due virtù morali di gran valore nella vita, cioè: a) l’arte di adattarsi alle cose e agli uomini, di riconoscere i limiti a loro segnati e di non esigere né attendere l’impossibile dalle forze degli uomini né dalla utilizzabilità delle cose; b) l’arte di sentirsi sicuri di sé, di sapere ciò che si vuole, dove si vuole arrivare e di perseguire con fermezza la propria meta” (56-58).

“Si lasci dunque agire spontaneamente il bambino, e ove ciò non fosse opportuno, gli si metta almeno sott’occhio, in realtà o in riproduzione, la cosa di cui gli si parla. E si badi a tener sempre desta in lui la persuasione che la cosa di cui egli si occupa, o di cui gli si parla, è cosa utile. Non si abbia timore di fare del bambino un utilitario. Sappiamo bene che qualunque attività deve avere uno scopo, anche per le persone adulte e perfino nel regno del pensiero; e un’attività esercitata in modo da raggiungere interamente il proprio scopo, rappresenta un grado altissimo di perfezione. Ove l’utilitarismo consista in questo, non ci peritiamo di affermare che l’utilitarismo nella sua accezione più alta, val meglio dell’attività arbitraria e casuale. Ma se per utilitarismo si dovesse intendere la tendenza a far convergere ogni cosa a se stessi o, peggio ancora, al proprio interesse materiale, esso sarebbe senza dubbio condannabile. Ma al pari dell’egoismo, di cui è una variante, questo grave difetto a null’altro è dovuto se non alla scarsità di cultura, alla debolezza o deficienza intellettuale dell’individuo” (59-60).

“Dell’interesse che il fanciullo sente verso gli altri fanciulli, il maestro potrà valersi come di esca per condurlo dapprima ad interessarsi per le vicende della prima età degli uomini più eminenti, e di qui per l’epoca tutta intera in cui vissero” (60).

“Il vivo interesse che il fanciullo nutre per gli animali, abilmente guidato e diretto dal maestro, si trasformerà in sete di sapere e spirito di osservazione se applicato agli esseri viventi, all’igiene dell’uomo, alla biologia, allo studio degli animali utili e di quelli dannosi all’uomo, alla vita universale della natura” (60).

“Della sua preferenza per tutto ciò che è utile il maestro può trar profitto per stimolare il fanciullo ad interessarsi dei costumi, del modo di nutrirsi, di vestirsi, di abitare, dei diversi popoli. Da ciò sarà facile passare a qualche osservazione sul clima, sulla fauna, sulla flora, sulle condizioni di vita fatte all’uomo nelle varie regioni del globo ossia a nozioni geografiche” (60).

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“In tutti questi diversi campi del sapere si deve sempre guidare il fanciullo ad agire, a costruire, ad imitare, a disegnare quanto più è possibile. La riproduzione libera di ogni sorta di oggetti è il miglior modo per rendere presente, vivo, tangibile tutto ciò che il fanciullo deve imparare, senza bisogno di ricorrere ad altri lavori manuali” (61).

“In fine vogliamo accennare ad un forte incentivo dell’interesse in tutti i campi, cioè la curiosità che spinge il fanciullo a trovare da sé le cose, quasi a riscoprire le leggi che i suoi antenati avevano già trovato. Gli si insegni dunque ad osservare (anche per questo fine il disegno è un prezioso ausiliario), a porre delle ipotesi, a vagliarle da sé, a scoprire le leggi che presiedono ai fatti che furono oggetto di osservazione” (61).

“Se prendiamo a considerare il periodo in cui il fanciullo è soggetto all’obbligo dell’istruzione, periodo che nella maggior parte delle nazioni va dal 6° al 14° anno d’età, possiamo dividerlo in tre gradi distinti, a seconda dei bisogni e della capacità intellettuale degli scolari: 1. Età degli interessi immediati. 2. Età degli interessi concreti specializzati. 3. Età degli interessi astratti” (77).

“Per età degli interessi immediati intendiamo il periodo compreso fra i 6 e i 9 anni, in cui il fanciullo si interessa quasi esclusivamente per ciò che accade nell’ambito ristretto della sua presenza nel tempo e nello spazio, per ciò che da lui emana e a lui si riferisce. È vero bensì che questi interessi ristretti sono passibili di allargamento, e possono costituire un focolare a cui si accendono altri interessi più larghi. Ed è vero d’altra parte che anche oltre il limite sopra segnato, del 9° anno, questi interessi centrali rimangono tuttavia i più potenti e i più influenti, e anzi vi sono dei fanciulli la cui fanciullezza, in questo senso, si protrae a lungo e anche degli adulti che sotto tale aspetto rimangono sempre fanciulli; ciò nonostante teniamo fermo che nella grande maggioranza dei casi gli scolari tra i 6 e i 9 anni non possono interessarsi per tempi e luoghi lontani in grado bastevole perché questo interesse ne accenda altri, servendo per così dire di esca” (77-78).

“Per età degli interessi specializzati concreti, noi intendiamo il periodo tra il 10° e il 12° anno, durante il quale il fanciullo esce dalla stretta cerchia del proprio ambiente personale, si interessa attivamente per altre persone, anche assenti o vissute in tempi e luoghi lontani. Gli eroi della storia, le avventure capitate in regioni sconosciute, personaggi reali o immaginari cominciano ad attirarlo e a commuoverlo. Gli piace allontanarsi in spirito dal proprio paese, viaggiare, incontrare delle avventure. Il suo intelletto si aggira tuttora intorno a cose concrete, tangibili: il mondo astratto della ragione e dell’idea pura non si è ancora schiuso per lui. Eppure egli non è più il bambino che si interessa esclusivamente alla sua persona, al suo giardino, ai suoi animali, ai suoi genitori, al suo maestro, ai suoi amici. – neanche qui, intendiamoci, si può segnare un limite assolutamente fisso ed immutabile: abbiamo già detto che in questo periodo di sviluppo permane tuttora nel fanciullo la tendenza a rivolgere il suo interesse più vivo a tutto ciò che ha rapporto colla sua persona mentre egli non è privo, non lo era neppure nel periodo precedente, di una certa capacità di astrazione. Ma questo periodo è più specialmente caratterizzato dal predominare degli interessi che non sono più strettamente immediati, né sono ancora astratti, ma per così dire mediati e concreti” (78-79).

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“Nell’età degli interessi astratti che può incominciare nel 13° anno d’età, il fanciullo acquista la facoltà di interessarsi non solo per quello che è lontano, ma anche per ciò che non è né visibile né tangibile: per il mondo dell’idea pura; tale spontaneo risveglio dell’interesse alle nozioni astratte non è frequente neanche negli adulti e coloro che lo posseggono, raramente l’hanno acquisito prima del 15° o 18° anno d’età. Ma la facoltà di capire l’utilità dell’organicità delle nozioni, per esempio l’utilità della grammatica nello studio delle lingue, delle classificazioni in quello delle scienze naturali ecc., si riscontra solo raramente prima dei 13 o 14 anni” (79).

Da Trasformiamo la scuola“Ogni essere vivente tende a progredire. La biologia ci insegna che ogni progresso consiste in un’azione dell’individuo che tende a conservare e ad accrescere le sue facoltà. Se questo è vero per gli organismi, è vero ugualmente per lo spirito. i filosofi stessi hanno messo in rilievo come elemento motore centrale e profondo dell’essere vivente il ‘voler vivere’, o più giustamente il voler vivere meglio; e glielo hanno senz’altro assegnato come fine supremo. In questo non si sono mostrati troppo cattivi psicologi” (Trasformiamo la scuola, 24).

“Ma come fa l’individuo ad accrescere le sue energie? L’aumento di felicità è un criterio affettivo e soggettivo che sfugge alla scienza. esiste un criterio oggettivo del progresso? Lo troviamo nella legge del progresso che ho creduto di poter formulare nel modo seguente: Ogni essere vivente progredisce grazie a una differenziazione (o divisione di lavoro) e a una concentrazione (o unificazione) crescenti e complementari delle sue facoltà e delle sue energie (organi e funzioni). Il fenomeno biologico primitivo è il fenomeno di azione e di reazione caratteristico degli organismi: volta a volta azione del mondo esterno sull’individuo con reazione più o meno appropriata di quest’ultimo e azione dell’individuo sull’ambiente che porta a sua volta in esso a una reazione che è chiamata sanzione naturale” (24).

“La legge del progresso, necessaria e sufficiente quando si tratta di caratterizzare l’accrescimento delle facoltà dell’adulto, non basta a spiegare le trasformazioni evolutive del bambino. Fatto è che qui interviene un nuovo elemento: la ricapitolazione ancestrale” (26).

“Le tappe biogenetiche si rivelano attraverso l’interesse manifestato dal bambino; si realizzano attraverso lo sforzo che accompagna il perseguimento degli interessi. Si sono qualche volta messe in contrapposizione la pedagogia dello sforzo e quella dell’interesse. Dewey ha dimostrato, secondo me meglio di ogni altro psicologo, quanto questa contrapposizione sia artificiosa. Da una parte, si è confuso l’interesse reale con l’attrazione superficiale, il semplice movimento della curiosità. Si è confuso, dall’altra, lo sforzo con il dovere noioso. Non vi è nulla di meno fondato. Non è vero interesse se non quello che suscita lo sforzo spontaneo e gioioso. Non è vero sforzo se non quello che ci si impone spontaneamente per raggiungere un fine che si desidera” (28).

“Un’altra caratteristica dell’evoluzione del bambino consiste nella sostituzione graduale dell’autonomia intellettuale e morale alla tutela sotto la quale il bambino piccolo si trova naturalmente per il fatto della sua inferiorità nella lotta per esistenza. Si possono distinguere a questo proposito tre tappe principali: il regime dell’autorità accettata, in cui il bambino riceve per la maggior parte dal di fuori la materia dei suoi giudizi e delle sue abitudini; il regime dell’anarchia relativa, in cui

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l’adolescente, impaziente di liberarsi dalla tutela degli altri, non è tuttavia ancora capace di dare dei giudizi personali, né di guidarsi da sé; finalmente il regime della libertà cosciente, in cui l’individuo, emancipato dall’influenza predominante dell’ambiente, dirige la sua volontà e la sua ragione dal di dentro verso il difuori” (28-29).

“Considerando non più la forma della reazione, ma l’oggetto al quale si rivolge in modo speciale l’interesse intellettuale del fanciullo, e dell’adolescente, si possono poi notare quattro tappe che caratterizzano la loro evoluzione psicologica. Gli interessi dominanti di un essere umano che si apre alla vita dello spirito possono infatti rivolgersi verso l’ambiente concreto in mezzo al quale egli vive, oppure elevarsi a considerazioni astratte d’ordine sociale o filosofico” (30).

“Mi limito a ricordare qui la tappa degli interessi sparsi, ovvero periodo del gioco, che va dai 4 ai 6 anni e che è stato analizzato e spiegato così ammirevolmente dalla signora Montessori, la creatrice delle Case dei Bambini. Per limitarci al periodo della vita in cui la scuola ufficiale si impossessa del futuro cittadino, cioè dai 7 ai 18 anni, possiamo dividere grosso modo quei dodici anni in quattro periodi di tre anni ciscuno” (31).

“Dai 7 ai 9 anni il bambino si trova nell’età degli interessi immediati. Egli si interessa quasi esclusivamente di ciò che esiste nel tempo e nello spazio presente. Si interessa di ciò che esce da lui e finisce in lui. Costituisce il centro del mondo dei suoi interessi. I suoi eguali, gli altri bambini (istinto di socialità e di emulazione), i suoi inferiori, gli animali (istinto di proteggere chiunque sia più debole), e i suoi superiori (istinto di essere protetto da chi è più forte) non lo interessano altro che in quanto si tratti per lui di dare o di ricevere, di esercitare la sua attività o di ottenere qualche vantaggio. Il bambino ama agire più che vedere, vedere più che ascoltare. È prima di tutto attivo e utilitarista e questo è normale. L’anormalità risulterebbe dal persistere di questo unico istinto oltre l’infanzia. L’utilità lo interessa soltanto nella misura in cui può direttamente apprezzarla. È attirato dalle cause e dagli immediati effetti del movimento che percepisce, oltre che dai fenomeni della natura. Aggiungo che tali centri di interesse (l’io, l’immediato, i coetanei, l’attività personale, l’utilità, i semplici rapporti di causalità) continuano di solito a sussistere a tutte le età: soltanto cambia il grado di valore che è loro attribuito da uno spirito più evoluto” (31).

“Dai 10 ai 12 anni troviamo l’età degli interessi specializzati concreti, che in pedagogia si può chiamare l’età delle monografie. Lo spirito del bambino comincia a uscire dal proprio io, dal tempo e dal luogo presente e a contemplare il suo prossimo come un tutto interessante di per se stesso. Così comincerà a interessarsi delle gesta di un personaggio reale o immaginario che sia vissuto in altri luoghi (di qui interesse per i viaggi: geografia) e in altri tempi (di qui interesse per le biografie: storia).

“Il campo degli interessi si è dunque immensamente ingrandito ed esteso. Certamente anche il bambino più piccolo si interessa già a racconti di questo genere, ma questo interesse non è ancora abbastanza vivo per suscitare sforzi spontanei: si tratta dunque ancora soltanto di un’attrazione. Dai 10 ai 12 anni invece un bambino normale si occuperà spontaneamente di storia, di geografia, di scienze naturali, considerate ancora nel loro aspetto concreto e utilitario; l’interesse appoggerà lo

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sforzo e lo sforzo, se ha successo, a sua volta contribuirà ad alimentare e accrescere l’interesse” (31-32).

“Dai 13 ai 15 anni si nota la comparsa degli interessi astratti semplici. Lo spirito dell’adolescente si solleva al di sopra del semplice fatto concreto, delle azioni e delle reazioni che sia lui che gli eroi della sua immaginazione esercitano sulle cose visibili e palpabili. La coordinazione delle sue idee non è più soltanto particolare, diviene generale, pur restando ancora empirica. si può di nuovo osservare che questa tappa è stata preparata dalla tappa precedente, ma soltanto ora l’interesse per le astrazioni semplici è in grado di servire di base a studi spontanei: la conoscenza organizzata, la scienza propriamente detta divengono centri autonomi di interesse. È l’età in cui si può cominciare a parlare di grammatica, di classificazioni, in cui si può insegnare sistematicamente le scienze fisiche e chimiche secondo i metodi attuali, metodi il cui unico difetto in mano alla scuola ufficiale attuale è che sono applicati troppo presto a bambini troppo piccoli” (32).

“Finalmente dai sedici ai diciotto anni accade che il giovane e la ragazza si interessino spontaneamente a studi che vertono su soggetti astratti complessi: la biologia, la psicologia, la filosofia, la religione, le scienze sociali, economiche, politiche o giuridiche, ecc. la proporzione di coloro in cui tali interessi divengono interessi di primo piano è piuttosto piccola. Molti uomini giungono soltanto alla terza tappa, alcuni si fermano anche alla seconda. Anche fra coloro che sono attratti da questioni astratte e complesse, la maggior parte, per mancanza di potenza logica o di documentazione sufficiente, restano nel campo delle impressioni, delle supposizioni, delle intuizioni, delle convinzioni, insomma nelle conclusioni in cui il loro spirito si ferma entra una gran parte di subcosciente. Questo è in particolare il caso della maggior parte degli artisti, dei letterati, dei giuristi e dei teologi. Arrivano veramente alla tappa superiore soltanto le intelligenze robuste, educate alla scuola del metodo scientifico, capaci di pensare chiaramente nel campo del puro astratto, di concludere con un certo rigore e una certa oggettività, ma anche con quello spirito critico che sa distinguere l’ipotesi dalla legge, la convinzione dalla certezza” (32-33).

La Lega Internazionale per l’Educazione Nuova ai tempi del suo primo Congresso Internazionale tenuto a Calais nell’agosto 1921, ha adottato uno statuto che per più anni ha rappresentato il suo ideale e è servito di criterio nel corso del suo sviluppo, per l’associazione di nuovi membri. L’articolo I di questo statuto comincia così: ‘Il fine essenziale di ogni educazione è preparare il bambino a volere e a attuare nella vita la supremazia dello spirito’” (La supremazia dello spirito, appendice a Trasformiamo la scuola, 284).

“L’idea di assicurare con l’educazione la supremazia dello spirito non è particolare alla Lega soltanto. E noi non siamo i soli a vedere che il male attuale sta nell’egoismo e nel materialismo contemporanei. Non siamo i soli a protestare. Ma significherebbe adempiere soltanto la metà del nostro compito se protestassimo senza lottare. La parola d’ordine è dunque: lotta contro l’impoverimento delle energie, contro l’oscuramento degli spiriti, la viltà e l’egoismo, frutti del materialismo; lotta in favore della scienza politica e sociale, nel senso elevato delle parole, in favore dei sentimenti di solidarietà e del sacrificio di sé; in una parola: lotta per la supremazia dello spirito” (284).

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“Diciamolo ben chiaro: appunto questa lotta ci ha conquistato le simpatie degli uomini di cuore e di intelletto di tutto il mondo. […] Bisogna attribuire questi successi senza precedenti al fatto che essa si è fatta banditrice di una verità evidente, una doppia verità, si può dire: la verità pedagogica e la verità spirituale” (284-285).

“Della prima – che riguarda i metodi pedagogici invecchiati, i programmi, i regolamenti e gli esami contrari all’igiene psicologica – non parleremo qui. Ma vorremmo mettere in rilievo la seconda, questa aspirazione verso ciò che è essenziale nell’essere umano, la sua armonia la sua unità base, la sua ‘totalità’ come si compiace di dire la psicologia attuale’. Il centro di gravità dell’essere normale è nel suo spirito. salvaguardare questo centro, conservare e accrescere la potenza dello spirito, questo è, secondo l’opinione unanime dei grandi educatori del passato e degli uomini chiaroveggenti dell’epoca attuale il compito essenziale dell’educazione” (285).

“Si prende spesso la parola ‘spirito’ nel senso di pensiero cosciente e di riflessione. È questo un abuso del senso profondo di quest’espressione, la quale deriva da una parola latina di significato affine a ‘respiro’, ‘soffio’. Il tono insieme affettivo e attivo della parola deve permanere accanto alla sua caratteristica intellettuale. Diremo di più: nel campo intellettuale la ragione cosciente non deve prevalere sull’intuizione. L’una e l’altra sono elementi costruttivi della personalità. L’una e l’altra possono sbagliare: la ragione senza intuizione è fatta di calcolo arido e materialista; l’intuizione senza ragione si perde facilmente nelle nuvole dell’utopia e della metafisica senza base nella realtà. Solo gli spiriti molto equilibrati sono anche grandi intuitivi puri. E se essi hanno ignorato la ragione, questa sotto forma di scienza si è presentata in un secondo tempo a giustificare le loro chiaroveggenti anticipazioni” (285-286).

“Non si tratta dunque, si è capito, di incoraggiare per mezzo dell’educazione la conservazione e lo sviluppo di capacità dello spirito cosciente con l’esclusione di ogni ispirazione, di ogni intuizione. Al contrario. Ma ci viene domandato spesso – come agire sull’incosciente? Come raggiungere in famiglia e a scuola quelle profonde sorgenti dell’essere vivente da cui deve sprizzare fuori la vita vera, la vita degna di essere vissuta? Come ristabilire l’armonia dove l’equilibrio nervoso, mentale o morale è rotto? La psicologia genetica risponde a queste domande. Essa studia l’incosciente del bambino, nel suo divenire. Essa ci dice che l’uomo nella sua ascesa verso la ‘perfezione’ – una perfezione molto relativa, si capisce – passa attraverso sei fasi distinte. Sei è un numero scelto arbitrariamente, si potrebbe anche dividere questa evoluzione in dodici fasi, come gli antichi hanno diviso il cielo infinito in dodici segni dello zodiaco. Sei, dodici, cento o mille, non ha importanza. Fermiamoci a sei per semplificare” (286).

“Bisogna dare dei nomi a queste sei fasi. Ora le parole sono troppo semplici, sono sempliciste, sono sommarie. A seconda dei lettori, dicono troppo o troppo poco. Rassegnamoci a questa impotenza poiché è irrimediabile” (286).

“Ecco dunque queste sei tappe: 1) quella dell’uomo istintivo primitivo; 2) quella dell’uomo imitativo convenzionale; 3) quella dell’uomo egocentrico individualista. Durante queste tre tappe predomina prima l’ispirazione e poi la logica razionale. Sono state designate come quelle dell’involuzione, cioè quelle in cui lo spirito si

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incorpora nella materia. Si è potuto rappresentarle con un semicerchio, un meridiano che va dal polo nord al polo sud” (286).

“Le tre ultime tappe invece sono quelle dell’evoluzione, quelle in cui dalla materia l’essere si eleva di nuovo verso lo spirito, dalla razionalità materiale verso l’irrazionale, afferrato grazie all’intuizione. Qui non predomina più l’ispirazione originaria, ma l’aspirazione all’Assoluto. Notiamo prima di tutto che questo Assoluto, questo mondo irrazionale, trascende la ragione, ma non la nega quando questa rinuncia a essere dogmatica e si dedica alla ricerca della Verità eterna. Ecco dunque le tre ultime fasi: 4) l’Assoluto è presentito; 5) l’Assoluto è afferrato grazie all’intuizione; 6) l’individuo si fonde con l’Assoluto. In altre parole si ha. 4) l’essere sensitivo, l’artista; 5) l’essere intuitivo, il saggio che possiede lo spirito di sintesi e il senso della solidarietà costruttiva; 6) il santo, colui che si stacca dal mondo e che, come dice la voce popolare ‘contempla Dio faccia a faccia’” (287).

“Ecco ora due osservazioni importanti. Ogni essere si eleva fino a una di queste sei tappe e vi rimane fissato per il resto della sua esistenza. Di qui la diversità dei tipi psicologici adulti. D’altra parte, lo squilibrio nervoso, mentale o morale – o queste tre forme riunite – piega molti esseri a un livello di vita che il loro spirito sarebbe stato in grado di superare se fossero rimasti equilibrati. Questo squilibrio è spesso ereditario; ma quasi fatalmente l’individuo lo aumenta durante la sua vita e purtroppo la società con la sua illogicità, con i suoi metodi pedagogici contrari al buon senso, tende ad accrescerlo ancora” (287).

“Che accade allora? Fin dalla fase primitiva l’istinto è falsificato. È come una nuvola densa che veli la vista del sole, che fa smarrire il bambino e gli fa perdere il senso della bellezza, della bontà e della verità, fini naturali e spirituali dell’Uomo. Perché l’istinto sano ‘viene da Dio’, si può dire simbolicamente. Lo slancio verso la perfezione è all’origine come alla fine” (287-288).

“Per il bambino normale la fase imitativa e la fase individualista sono normali. Esse preparano la conversione, il passaggio dall’ispirazione incosciente all’ispirazione cosciente al divino, aspirazione da principio confusa dell’adolescenza, poi intuizione chiara. Invece il mondo si divide fra spiriti convenzionali conservatori, consuetudinari, e che ubbidiscono a parole d’ordine, e spiriti individualisti intransigenti a cui mancano essenzialmente il sentimento della solidarietà e il senso del sacrificio di sé per il bene comune” (288).

“Una alimentazione sempre più assurda, che si allontana dai cibi ancestrali sani e ricchi di sole e di vita; una esistenza agitata, troppo passata all’aria aperta o troppo poco; una medicina limitata ai sintomi, che avvelena l’organismo lasciando sussistere le cause profonde del male; un disordine sociale in cui si urtano gli egoismi; una religione che resta troppo spesso formalista e lontana dalla terapeutica delle anime – ecco altrettanti motivi di squilibrio. Si potrebbero enumerarne altre migliaia. Questo ci costringe a concludere: l’uomo medio è un malato anche quando non lo sa” (288).

“La scuola porta un rimedio a questo stato di cose? E la famiglia la aiuta in questo compito? Triste constatazione: famiglia e scuola ignorano ancora troppo spesso la natura del male, la sorgente del male e il rimedio al male!” (288).

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“Eppure i più grandi educatori hanno mostrato la via da seguire. Tutti, in modi diversi, ma con una unanimità notevole ci affermano: bisogna ‘centrare’ il bambino, equilibrarlo, armonizzarlo, perché parli in lui la voce divina; la voce degli istinti sani, prima di tutto; poi la voce della tradizione sana, poi quella della ragione. E questo alla luce piena di vita e di amore di adulti, genitori e maestri, che siano anche loro sani e equilibrati. Perché salute e amore vanno insieme” (288-289).

“Si parla troppo spesso di pretesi ‘peccati’ dei nostri bambini. Lo psicologo vi scorge reazioni evitabili di un sistema nervoso o mentale non equilibrato, segni di malattia. Questo significa che non si deve punire, ma guarire. Semplice questione di parole? Sì. Ma anche atteggiamento del tutto diverso da parte dell’educatore. In definitiva educare presuppone dunque questi tre elementi: 1) Scienza; 2) Intuizione; 3) Amore. Se uno manca, tutto è facilmente perduto” (289).

“Invece basta che vi siano e agiscano perché l’educazione sia una gioia, una creazione di bellezza. Infatti ecco il risultato di un’educazione armoniosa: il bambino centrato vive naturalmente una vita sana, i suoi istinti sono quelli di un ‘buon animale’, come diceva Herbert Spencer. Egli imita, ma per riuscire ad oltrepassare il punto a cui è giunto. È un individualista, un originale nel senso buono della parola, ma sa rinunciare a un piacere egoistico quando è necessario, perché ha il senso della solidarietà e quello del sacrificio di sé per una causa più alta. Obbedisce alla ragione, non alla mezza ragione, a quella di una scienza che spinge lontano l’analisi ignorando la sintesi, ma alla ragione umana in quanto riflesso della Ragione divina. La sua ispirazione e la sua aspirazione sono su una stessa linea: sono un prolungamento l’una dell’altra, sono orientate secondo uno stesso asse: quello che collega il Dio immanente e il Dio trascendente, due concezioni di un solo e stesso Dio” (289).

“Coltivare il Dio interno perché il bambino conosca un giorno le gioie di colui che giunge alla visione del Dio universale, questo è nella sua essenza lo scopo dell’educazione. Un tale sforzo, capace di condurre a tali risultati, non vale la pena di essere tentato e di divenire la preoccupazione centrale e primordiale di ogni educatore. Madre, padre o maestro?” (289).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto i testi di Ferrière:

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14. Da: F. Foerster, La scienza della vita, Torino, SEI

“Il presente lavoro è un’immediata emanazione delle iniziative del ‘movimento etico’. Nel 1895 la Società Tedesca per la cultura etica aveva bandito un concorso a premio per un manuale popolare per l’educazione etica della gioventù in casa e a scuola. Doveva tal libro offrire, in mezzo al cozzar delle varie concezioni del mondo, un compendio e una dilucidazione di quelle basi della morale che sono indipendenti dalle discordi vedute degli uomini circa le ragioni ultime delle cose, e che sono perciò d’importanza affatto particolare per l’educazione etica collettiva della gioventù nella pubblica scuola. Si avvertiva inoltre che, visto l’avvenuto allontanamento di estesi strati di popolo dalla religione e dalla Chiesa, e visto anche l’atteggiamento critico assunto dall’età nostra di fronte ad ogni tradizione, era stringente necessità che venisse impartito ai giovani, oltre all’istruzione dogmatico-religiosa, anche un insegnamento e incitamento etico che facesse appello esclusivamente all’immediata e manifesta osservazione della vita e conoscenza di sé” (11).

“Allora io non presi parte al concorso; ma dal 1897 organizzai a Zurigo dei corsi regolari d’etica per ragazzi e ragazze delle diverse età; e dalle esperienze fatte in quest’insegnamento si è venuto a poco a poco formando il presente libro coi suoi esempi e le sue argomentazioni. Io vorrei che altri ne ricevesse impulso ad estendere e ad approfondire la base dell’azione etica in tutti i campi della cura dell’anima giovanile – quindi non soltanto nella scuola, nella famiglia e nella chiesa, ma anche negl’istituti di correzione, nelle carceri, negl’istituti d’educazione, nei ricoveri infantili, ecc.” (11-12).

“Quanto più va intensificandosi il movimento contro i castighi corporali ai ragazzi, e quanto più perciò l’educatore n’è sollecitato a rinunciare ai mezzi disciplinari esterni per ricorrere invece ad un’azione più interiore, tanto più diviene urgente d’elevare quest’azione interiore a speciale oggetto della preparazione e dell’addestramento pedagogico” (12).

“Se negli esempi da me addotti ho utilizzato esclusivamente i motivi sociali e naturali della morale ed ho evidenziato di fare appello a idee ed a sentimenti religiosi, l’ho fatto perché ciò risponde allo scopo particolare del presente libro” (12)

“Espressamente protesto però contro chi avesse l’erroneo pensiero che con ciò io intenda far causa comune con quei radicali che nell’educazione e nella vita voglion sostituire alla religione la pura e semplice morale. Appunto la pratica pedagogica ha rafforzato in me al più alto grado la convinzione dell’imperituro significato etico e pedagogico della religione. È bensì vero che nella scuola pubblica un insegnamento religioso obbligatorio non può a lungo sussistere, perché inevitabilmente equivarrebbe ad un atto di prepotenza contro i genitori che la pensano in altro modo; qui certo non v’è altro scampo che un’etica la quale mantenga la neutralità confessionale. Ma tanto più istantemente è a desiderare che si provveda in tal caso fuori della scuola al luogo e al tempo necessario per un integramento ed approfondimento religioso dell’etica. Io spero anzi che appunto questo mio libro sia per indurre certi genitori indifferenti per la religione a meglio riflettere se proprio sia opportuno tener lontani i figli da ogni influsso religioso” (12).

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“V’è un’obbiezione ch’io debbo fin d’adesso prevenire: non v’è il pericolo che con lo spinger tropp’oltre l’azione etica s’abbia a spogliare la gioventù della sua originalità e freschezza? Ebbene – il lettore vedrà che nel presente libro io ho appunto voluto ovviare a tal pericolo, suggerendo in qual modo nell’azione etica incitatrice si possa dare il primo posto ad un appello al fresco e allegro vigor giovanile, invece di far tanti rimproveri ed esortazioni. Del resto è un fatto che i ragazzi che vengono semplicemente lasciati liberi di sfogarsi a lor talento, e a cui non s’impartisce una profonda educazione della volontà e del cuore, non sono per nulla allegri, né lo diventano, bensì son brontoloni e irascibili – appunto perché ad ogni momento attaccan brighe, e perché non sanno far fronte né alle piccole né alle grandi contrarietà della vita: ogni cultura della forza è fonte d’allegria, mentre ogni soverchia indulgenza verso se stessi rende miseri e insoddisfatti” (12-13).

“L’approvazione quasi unanime data al libro da persone d’affatto opposto indirizzo ha chiaramente dimostrato di quale importanza sia, appunto in quest’epoca d’appassionati dissensi di fede, il prender le mosse da un comune patrimonio d’interessi etici ancora esistente, per ricondurre di là gli uomini a quella conoscenza di sé medesimi e della vita, che sola può far sì che di nuovo si capisca a fondo la religione. D’una tal metodica tutti i partiti in lotta sono oggidì in egual grado bisognosi: i miscredenti, perché, non approfondendo abbastanza i problemi essenziali dell’educazione etica e dell’autoeducazione, non capiscono più affatto la religione; e i seguaci della fede, perché non sanno più dare una rappresentazione vivente della loro concezione della vita, e troppo poco si fondano sulla più elementare esperienza etica, e nei loro insegnamenti ed interpretazioni son troppo deduttivi e troppo poco induttivi” (14).

“Se nel campo religioso si fosse meglio considerato e compreso questo criterio direttivo del presente libro, certi critici non avrebbero lamentato in esso una troppo scarsa accentuazione e trattazione del lato religioso, e avrebbero invece capito che un libro veramente ‘pedagogico’ deve pur essere scritto soprattutto per quelli che s’hanno da convincere e da guidare innanzi, e non semplicemente per quelli che son già convinti e che trovano già altrove abbastanza opportunità di fortificarsi nelle credenze che a loro son sacre” (14-15).

“Nel campo dei liberi pensatori s’è vivamente deplorato che il libro s’appoggi sopra una così decisa fede nell’inarrivabile virtù pedagogica della religione cristiana. Faccio perciò ancora una volta espressamente rilevare che questa fede non è nata in me da un qualsiasi capriccio metafisico, ma è scaturita proprio dall’essenza dei miei studi morali-pedagogici. Per più d’un decennio mi sono occupato esclusivamente di studiare e meditare a fondo dal lato psicologico il problema dell’educazione del carattere, coll’acquistare una pratica più che fosse possibile estesa dell’insegnamento etico ai giovani; e tali studi ebbero per risultato di farmi riconoscere l’assoluta insufficienza pedagogica di ogni educazione areligiosa della gioventù. Tutta l’educazione apparentemente areligiosa dei tempi nostri in realtà è ancor sotto la profonda influenza postuma delle sanzioni religiose e del religioso fervore. Solo nella generazione ventura si toccherà con mano quel che propriamente significhi l’educazione areligiosa” (15).

“Ed io sono convinto che se in così gran numero di moderni pedagoghi può prevalere l’idea della superfluità dei mezzi educativi religiosi, si è soltanto perché costoro non hanno dietro di sé, nel campo della pedagogia del carattere, né una vasta

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pratica né uno studio esclusivo e concentrato. A questa circostanza si deve per la buona causa espressamente accennare, perché qui da scrittori di cose filosofiche e da pedagoghi del puro e semplice intelletto s’è messa innanzi una quantità d’affermazioni astratte, che sono in contraddizione stridente coi fatti e coi bisogni reali della natura umana” (15).

“Nessun precetto morale sa al par della religione cristiana parlare all’anima dell’uomo il linguaggio che più le è proprio, né disposare l’obbedienza alla liberazione, il ‘morire’ al ‘rinascere’, il sacrificio alla risurrezione. Sol che si torni a riconoscer questo, si comprenderà che la motivazione religiosa dell’etica non è cosa arretrata, ma anzi di gran lunga più progressista dell’etica puramente naturale – appunto perché sa tradurre il precetto esteriore in quel che v’ha nella vita di più personale, e vince perciò quella che Paolo chiama la ‘schiavitù della legge’ e che toglie sovente alla morale ogni efficacia appunto presso gli uomini in cui è più fortemente accentuato l’elemento personale” (15-16).

“Dall’altra parte poi bisogna anche dire a certi unilaterali rappresentanti della pedagogia chiesastica che il gesto maestoso con cui essi respingono gli sforzi fatti in pro dell’etica nel campo del libero pensiero, non rende giustizia all’indiscutibile importanza che questi sforzi hanno nella crisi immane che la civiltà attraversa nell’età presente. Invero, nel movimento etico sta il promettentissimo inizio d’un ritorno alla cultura interiore: e questo non dovrebb’essere trascurato né tenuto a vile” (16).

“In molti centri infatti della moderna civiltà il numero dei rinnegatori della Chiesa va crescendo a poco a poco, e finirà per diventar maggioranza. Ora, alla condizione spirituale di questi apostati non si apporta vero rimedio né con un insegnamento religioso forzato né con la dimostrazione puramente astratta della povertà della morale areligiosa, e della maggiore vitalità che in confronto possiede la religione cristiana. Perché se non dominasse appunto anche nell’insegnamento religioso, in luogo di questa vitalità, una così spaventosa povertà di vita reale, certo non s’avrebbe a lamentare un sì gran numero d’apostasie” (16).

“Rivedano perciò i rappresentanti della religione innanzi tutto il lor proprio metodo, affinch’esso renda veramente testimonianza della virtù educatrice e conquistatrice d’anime ch’è propria della religione; e considerino poi tutti quegli sforzi d’indole etica soprattutto come i primi passi del ritorno dal mondo esterno all’io interiore, li considerino inoltre anche come metodi neutrali indispensabili in quegl’istituti ed in quelle associazioni che per la lor natura non possono prender partito nella questione religiosa. Tali sforzi son da combattere solo allorchè essi, partendo dalla loro azione pratica limitata a puri e semplici incitamenti etici, erigono a dogma l’idea dell’inutilità della religione nell’educazione, mettendosi con ciò in contraddizione coll’esperienza di tutti i secoli” (16-17).

“La moderna civiltà in tutta la sua essenza è soprattutto una civiltà tecnica; nella più gran parte delle sue manifestazioni vitali domina lo sforzo diretto ad investigare e a domare la natura esterna” (21).

“La civiltà del medio evo invece si fondava essenzialmente sulla cura della natura interiore dell’uomo. Tutto intero il mondo delle idee, l’arte, l’ornamentazione – tutta quanta, anzi, la vita quotidiana dell’uomo stava allora sotto il dominio d’un sublime

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simbolismo, che di continuo ricordava all’anima quel che v’è di più essenziale e prezioso nella vita, e la concentrava sul dovere del raccoglimento e della purificazione, suggerendole ad ogni passo le grandi idee del Giudizio e della redenzione, e da ogni parte circondandola coi modelli e coi monumenti della santificazione. L’uomo cadeva e peccava allora come in ogni tempo – ma sapeva di cadere e di peccare: perché tutto quanto il mondo spirituale era penetrato della spaventosa realtà della differenza fra il bene ed il male; realtà di fronte alla quale ogni altra doveva necessariamente impallidire” (21).

“Il rivolgere i pensieri tutti dell’uomo all’accessorio è la caratteristica d’ogni civiltà puramente mondana; e noi ci troviamo oggi appunto al colmo d’una civiltà siffatta. Noi guardiamo giù alle rovine dei vecchi simboli della vita interiore, ed esaltiamo i monumenti della nostra signoria sulle cose esterne. Celebriamo l’età nostra perché col telegrafo e col telefono, colle ferrovie e coi celeri transatlantici ha unito fra loro gli uomini con mille nuovi fili; ma in realtà tutte queste cose finora non ci hanno che maggiormente straniati gli uni dagli altri; perché nella furia affannosa della vita moderna non ci rimane più calma sufficiente per riflettere sopra noi stessi e sui nostri simili, e così nei nostri vicendevoli rapporti diveniamo sempre più ciechi ed eccitati – e sempre più ci andiamo allontanando da quell’interno raccoglimento, nel quale soltanto può venire a noi la pace con gli uomini” (21-22).

“Noi scopriamo il Polo Nord e dischiudiamo ignoti continenti, con nuovi raggi penetriamo il nostro corpo rendendone visibile tutta l’impalcatura ossea; il telescopio e il microscopio disvelano quotidianamente nuovi mondi – ma in mezzo a questa nostra grande età delle scoperte siamo interiormente in molte cose impoveriti, non abbiam trovato alcun metodo nuovo per vedere per entro all’anima umana, e gli organi di cui disponiamo per la scoperta dell’uomo interiore son piuttosto divenuti più grossolani che non più delicati. Ogni giorno s’inventano mille nuovi mezzi di soddisfacimento: ma i bisogni si vanno l’uno all’altro accavallando, e così il rapporto fra il pretendere e il conseguire rimane in eterno lo stesso – è andata perduta solo la facoltà della discrezione” (22).

“Diviene ogni dì più evidente che questa civiltà puramente tecnica a lungo andare finisce anche di essere una tecnica impossibilità. Essa esige un sempre più delicato ingranarsi di tutte le forze – ma per questo ci vuole appunto quella cultura dell’uomo interiore, che lo scatenamento delle forze intellettuali, tecniche ed economiche ha fatto troppo cadere in dimenticanza. E queste forze scatenate vengono sempre più asservite dai più bassi appetiti della natura umana – appunto perché è andata perduta la subordinazione d’ogni atto alle finalità superiori della vita, e si son cancellate le differenze fra l’accessorio e l’essenziale” (22).

“Come fare, ora, a metterci di nuovo d’accordo colle più profonde condizioni della nostra vita? Dobbiamo tornare al medioevo? Strappar le rotaie, tagliare i fili telegrafici, lasciar l’elettricità alle nuvole, rendere il carbone alla terra e chiudere le università? Questo non è possibile, e s’anco lo fosse, non sarebbe desiderabile. Perché fra tutte le forze vitali scatenate noi possiamo anche trovare i mezzi spirituali per meglio orientarci riguardo ai bisogni fondamentali della vita umana, e per rendere la nostra fusione coll’Altissimo più intima di quel che sia mai stato possibile per l’addietro. Dobbiam solo tornare a comprendere che dove la cura della vita dell’anima non occupa il posto centrale nei pensieri dell’uomo, non è in generale possibile alcuna vera civiltà – a lungo andare anzi nemmeno una civiltà tecnica. E lo

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comprenderemo: la miseria e il vuoto della nostra esistenza ci apriranno gli occhi” (24-25).

“Perciò il compito più immediato ed urgente che oggi incombe sia ai credenti come ai non credenti non può esser che quello di render di nuovo più cara all’uomo la salute dell’anima sua, e di ricondurlo dalle mille cose superflue ed accessorie a quel ch’è più di tutto importante: all’amore, all’umiltà, al soggiogamento di se stesso. Solo nel servire a queste cose l’uomo fa le interiori esperienze che gli fanno comprendere la religione e alla religione lo riconducono” (25-26).

“Tutti sappiamo che la scuola moderna non è che un’immagine della moderna esistenza. Una volta l’educazione al cristianesimo era lo scopo supremo di tutta quanta l’educazione della gioventù, il punto di vista centrale, unico, a cui tutto veniva subordinato e riferito come un mezzo allo scopo; ebbene, è appunto una tale unità che manca alla nostra scuola moderna. Si trasmette ai giovani una somma più o meno grande di cognizioni, parte per prepararli alla lotta per l’esistenza, parte per dar loro una certa cultura generale – poi un po’ d’insegnamento religioso con molta roba a memoria, e nella cerchia di quest’insegnamento anche un po’ di morale, affatto di passata e senz’alcun profondo riferimento alla vita concreta ed ai restanti oggetti della vita scolastica” (26-27).

“Se nella scuola moderna la cosciente collaborazione alla formazione del carattere non occupa ancora quel posto primario che sarebbe richiesto dallo stato della nostra civiltà, lo dobbiamo soprattutto ad una grande illusione del secolo decimottavo, che neppure adesso è ancor del tutto tramontata: l’illusione cioè che istruire il popolo significhi anche senz’altro incivilirlo, che perciò l’educazione morale sia un prodotto secondario dell’istruzione intellettuale” (27-28).

“Ora, chi conosce la vita saprà quanto scarsa virtù educatrice veramente profonda possieda il puro e semplice sapere – anzi, come questo sapere possa addirittura far del danno e non servire che a far montare l’uomo in superbia, quando non venga assai per tempo subordinato all’educazione del carattere. Non il sapere qualcosa, ma lo scopo per il quale si sa, la connessione che il sapere ha con quel ch’è più alto e più importante di tutto – ecco quel che costituisce la vera cultura. E non il saper leggere e scrivere, ma ciò che si legge e si scrive, è quel che importa. E la scuola, che insegna a leggere e scrivere, deve perciò anche pensare ad un’opportuna cura dell’uomo interiore, affinchè l’uso che si farà delle acquistate abilità intellettuali non abbia ad annientare precisamente quel che si chiama cultura veramente profonda” (28).

“La scuola, che assorbe la massima parte delle energie spirituali dell’uomo proprio negli anni dello sviluppo, dovrebbe essa appunto prima d’ogni altra cosa far servire queste energie spirituali al soggiogamento degli istinti inferiori in misura assai più elevata che oggi non faccia, invece di fargliele consumar tutte solo nell’acquisto d’una sterminata quantità di sapere. Che desolante spettacolo, quando un uomo entra così nella vita, possedendo tutte le formule e le abilità con cui il suo spirito può soggiogare e domare le forze naturali, e nel tempo stesso con una tal bancarotta di questo spirito di fronte alle potenze elementari del proprio interiore!” (31-32).

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“Carattere è unità – ogni cultura multilaterale senza il contemporaneo raccoglimento delle energie dell’anima in un grande ideale di vita che tutto compenetri, conduce irrimediabilmente alla mancanza di carattere!” (32).

“Anzitutto dunque è fuor di dubbio che una pedagogia morale che abbia più profonde basi psicologiche non potrà a meno di trovare assolutamente insufficiente, dal lato metodico, una gran parte dell’istruzione morale che oggi s’impartisce alla gioventù in casa, a scuola e nella chiesa. Troppe noiose prediche, troppa tendenziosità, troppi appelli a fugaci commozioni troviamo qui ancora – specialmente nei libri di lettura. Riconoscere che il compito d’esercitare un’azione diretta sul carattere per mezzo dell’insegnamento è di gran lunga più difficile e complicato di quel che la massima parte degli educatori suppongano; riconoscere ch’esso implica per lo meno altrettanta riflessione, osservazione e preparazione quanto il semplice impartimento di conoscenze – ecco la prima condizione per riportare un qualsiasi successo in questo campo” (33).

“Dappertutto si considera come primo canone d’ogni sapienza pedagogica che il docente cerchi di rannodare in qualche modo la sua materia d’insegnamento alla cerchia che interessa il fanciullo – ch’egli sappia guadagnarne l’attività spontanea all’opera dell’acquisto del sapere. Solo nella pedagogia morale ciò non è ritenuto necessario, oppure si ritiene il compito più semplice di quel che realmente sia. si crede che la virtù debba per se stessa colla sua bellezza riuscire attraente, specie quando viene illustrata con istorie piene di sentimento e a contenuto moralizzante. In realtà ogni ragazzo sano si ribella da principio con tutta l’anima contro la discrezione e l’ordine, l’abnegazione e il sacrificio – ed anche quando energie naturali agiscono intensamente in senso etico, anche allora è assolutamente insito in esse alcunchè di sfrenato e di capriccioso” (33-34).

“È dunque certo che in questo campo l’assicurarsi la volonterosa cooperazione dell’educando è di gran lunga più necessario che nel semplice insegnamento del sapere; il sapere può fino ad un certo punto venire per dir così cacciato a forza nel cervello. L’istruzione morale mai, perché la sua essenza è appunto l’attività libera e spontanea. E solo in quanto si sappia destare e provocare quest’attività, si può ‘insegnar’ la morale con un corso di lezioni, o meglio, si può con l’insegnamento promuover lo sviluppo delle morali energie” (34).

“Ora, purtroppo, è ancor molto diffusa – specialmente nei nostri libri di lettura scolastici – l’illusione che si possa destare appunto il vivo interesse del fanciullo per il mondo morale per mezzo di racconti nei quali gli si propongano tendenziosamente degli esempi da imitare; che per esempio anche la materia d’insegnamento storica e letteraria possa venire in tal senso utilizzata e condensata in ‘lezioni di sentimento’. Qui non si fa che confondere stranamente fra loro due fatti psicologici del tutto diversi: l’interesse cioè del fanciullo per i casi e le situazioni del racconto, e l’interesse per l’imitazione degli atti in esso narrati. Ora, è appunto quest’ultimo interesse che la pedagogia morale deve saper destare, ed è appunto questo compito che vien preso troppo alla leggera” (34).

“[…] La semplice conoscenza dei precetti morali non può dare alcuna profonda educazione morale, appunto perché dall’insegnamento astratto le energie fondamentali del carattere non sono di regola stimolate ad agire: non si deve partire da precetti, ma dal fanciullo, si debbono studiare quelle forze e quegl’interessi reali

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che hanno un indirizzo conforme alla desiderata attività morale, o che almeno si possono ad essa far servire; e poi si deve dare a queste forze un alimento grado a grado crescente, imponendo ad esse compiti che stiano nell’ambito della lor propria libera e spontanea attività. dA questo lato dunque l’insegnamento consiste nel richiamar l’attenzione del fanciullo, coll’estendere la sua conoscenza della vita, su certe possibilità che gli si offrono d’affermare di fronte agli stimoli del mondo esterno la propria forza interiore smaniosa di esplicarsi” (36-37).

“Si dirà che questi non sono ancora affatto motivi morali. Giustissimo – ma dove sta dunque scritto che si debba cominciar subito col motivo ultimo e supremo? Deve l’educazione dispensarsi dalla legge dell’accrescimento organico? In nessun caso il metodo ‘induttivo’ è più indicato che in questo: non si può guidare il fanciullo all’esperienza morale mediante morali deduzioni: al contrario, bisogna dapprima che l’elemento morale divenga vita vissuta, sulla via del naturale esplicarsi delle forze, e solo dopo di ciò si potrà operare con tale elemento come con un concetto già noto e rannodarvi altri pensieri intorno alla vita – anzi, pensieri alla vita superiori” (37).

“Si faccia dunque che dapprima il fanciullo, mosso dai più elementari impulsi d’attività, provi gioia ad esercitar le funzioni superiori della sua volontà nella lotta contro l’io animale – poi questa gioia provata in tale azione superiore diverrà essa stessa un movente a ‘fare il bene per amor del bene’, a che si andranno grado a grado collegando altri moventi: la memoria della sociale rinomanza delle proprie azioni, il maggior rispetto ed amore attestato dalle persone in mezzo alle quali si vive, ecc. compito dell’insegnamento è allora non soltanto d’incitare il fanciullo a far queste esperienze, ma anche d’approfondirle, col fargli acquistar conoscenza dell’intero lor contenuto, col fissargliele bene in mente, e col metterle in visibile contrasto colle esperienze delle morali sconfitte” (37-38).

“E come si potrà dunque ‘insegnare’ in tal senso concreto il dominio di sé? Non v’è per fermo che un sol modo, ed è che l’educatore anzitutto venga in chiaro se tra le inclinazioni e gl’interessi naturali del fanciullo non vi sia forse qualche forza che si possa utilizzare per l’esercizio del dominio di sé, cosicchè tale dominio che da lui si esige possa essergli realmente rappresentato non già come una repressione e una limitazione, ma come un incremento di vita, come una prova di forza, come un attestato di maturità” (39).

“Qui si vede che in fondo il compito dell’educazione non implica affatto che si muti il carattere congenito. Al contrario, l’educatore utilizza questo carattere congenito, col ‘mobilitare’ una parte di esso contro l’altra. Se vuol guadagnare per una determinata attività del volere un fanciullo che abbia certe date forze interiori, deve così rappresentare quest’attività e così tradurla nel modo d’agire di tali forze, che l’esercizio di essa appaia non già come una repressione, ma come un campo in cui le forze naturali possono maggiormente esplicarsi. ‘Tu devi comandarti, tu sei maleducato, tu ti lasci andare, tu non sei poi mai capace di tener la misura, prendi esempio da Max’ – tutto questo non getta alcun ponte fra l’esigenza dell’adulto e il mondo del fanciullo, ma appare soltanto come il guinzaglio che gli ‘altri’ vogliono mettere alla libertà dell’individuo; mentre invece bisogna rappresentare il dominio di sé precisamente come un atto di liberazione, come il primo segno che manifesta che si è uomini” (39-40).

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“Per convincersi quanto sia scarsa qui l’azione anche del più elevato insegnamento, quando esso non venga tradotto nella cerchia della vita e dell’esperienza del fanciullo, non v’è di meglio che provare a chiedere ai ragazzi, dopo una lezione di religione, quel che propriamente ne pensino del Discorso del Monte, e se in ispecie li persuada il passo della guancia destra e della guancia sinistra. S’odono allora o approvazioni saccenti ed ipocrite, o recisi dinieghi; e ben di rado si troverà che l’insegnamento abbia fecondato il pensiero del fanciullo riguardo ai rapporti col prossimo, o addirittura fatto nascere in lui il proposito di sperimentare una volta un metodo nuovo nei propri conflitti” (44).

“Come dunque si potrebbe trattare il problema del dominio di sé in questo campo? Certo assolutamente nel senso del metodo svolto più sopra: col chiedersi cioè se nel sentimento e nella volontà naturale del fanciullo non esista qualcosa a cui si possa rannodare l’esigenza in questione – dopo ciò si traduce l’esigenza stessa nella sfera d’intuizione del fanciullo. Ad un ragazzo forte nulla riesce a tutta prima più inconcepibile e inammissibile della rinuncia alla rappresaglia. Egli non può ‘mandar giù’ nulla; ciò gli pare un segno di debolezza, di viltà, d’insufficiente capacità di difesa” (44).

“Ora non si può dimostrargli che questo suo giudizio è superficiale? Che nel non rispondere ad un’offesa o addirittura nel rispondervi con una gentilezza o un’attenzione si manifesta non già un’imbelle abdicazione al proprio io, ma tutt’al contrario la più energica affermazione dell’io, spesso anzi una forza sovrumana? Affermazione dell’io, in quanto l’io si rifiuta d’imitar l’offensore, di lasciarsi da lui infettare, e rimane invece del tutto fedele a se stesso, non influenzato per nulla dagli sforzi che il mondo esterno fa per sviarlo?” (44).

“Se rappresentiamo in questa luce il soggiogamento dell’istinto di rappresaglia, gli facciam subito acquistare la più potente attrattiva appunto per la volontà dell’affermazione dell’io, la quale invero è particolarmente forte nella gioventù, ed anzi è anche il vero e proprio movente dell’impulsiva difesa contro gli attacchi altrui. Scalzar dunque le più profonde radici degl’istinti di rappresaglia, col dimostrare che l’affermazione dell’io, la quale ne forma il fondamento, si ottiene più efficace ed intensa in un altro modo; e circondare poi questo metodo più profondo di difesa con tutta l’aureola della forza e dell’eroismo, così da piegare addirittura al servizio dell’azione morale quegl’impulsi che da principio erano ad essa fortemente contrari – questa soltanto è pedagogia concreta, anche nel senso di Pestalozzi, il quale insegnava ogni educazione non dover essere se non ‘utilizzazione della vita reale dei fanciulli’” (pp. 44-45).

“La preparazione dell’educatore e dell’insegnante deve corrispondentemente seguir due distinti indirizzi: da una parte osservare e studiare a fondo il mondo reale del fanciullo, e dall’altra non limitarsi a investigare le basi filosofiche o religiose dell’azione morale che da lui si esige, ma innanzi tutto penetrarne a fondo il senso e il contenuto, i rapporti con tutti gli altri campi della vita, il lato sociologico e biologico” (45).

“Illustriamo questi punti di vista con un esempio: per sapere qual sia il reale atteggiamento dei fanciulli rispetto al dominio di sé, si osservino i loro giochi: si vedrà quanto naturale interesse per gli esercizi di forza del dominio di sé vi si manifesti affatto spontaneamente; come nel gioco i fanciulli si esercitino

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nell’indiana fermezza, oppure a guardarsi in faccia l’un l’altro senza ridere; e infine quanta predilezione godano nel mondo piccino i cosiddetti giochi di pazienza” (45).

“L’uomo ha il cervello appunto per sostituire alle reazioni puramente animali un più oculato trattamento dell’attacco perturbatore. Egli può tentare di ridurre al silenzio il sentimento che all’attacco diede impulso, e in tal modo elevare l’atto della difesa assolutamente al disopra del dominio della cieca azione istintiva, e adattarlo al reale suo scopo con maggior precisione che non si possa fare colla semplice rappresaglia – questa infatti è tutt’altro che un mezzo radicale per mettersi al sicuro da antisociali provocazioni, chè anzi indubbiamente accresce la somma della brutalità nella società umana, e porta quindi con sé anche una minor sicurezza per l’individuo. In tal senso perciò le esigenze messe innanzi nel Discorso del Monte sono davvero, precisamente dal punto di vista del bisogno fisiologico di difesa, le sole reazioni efficaci e conformi allo scopo, perché mirano a distrugger del tutto la causa eccitatrice. Nella vita individuale possono condurre al martirio – ma in linea generale e di principio racchiudono in sé l’unica difesa coerente, l’unica allo scopo adeguata” (46-47).

“In quest’occasione si può dare ai fanciulli, valendosi di semplicissimi disegni e figure, un’idea chiara della funzione che compiono le idee inibitrici nel cervello umano: mostrar loro come nel corso dello sviluppo si vadano interponendo fra lo stimolo e la reazione idee sempre più complicate, le quali servono precisamente all’affermazione dell’io di fronte agli stimoli del mondo esterno, in quanto impediscono che uno stimolo sprigioni un movimento se non si sia prima per così dire fatto riconoscere dinanzi alle più profonde condizioni dell’esistenza tutta dell’uomo (alle sue relazioni colla società, ai suoi bisogni spirituali, ecc.). quanto più efficaci dunque sono le idee inibitrici, tanto più grande è l’affermazione dell’io. E con ciò è dimostrato che la padronanza di sé di fronte a stimoli esteriori è, anche dal lato fisiologico, una manifestazione di capacità difensiva e di forte individualità. Ora, dal lato pedagogico questo è addirittura d’importanza suprema. Nel discorrere di queste funzioni cerebrali giova molto d’incitamento e di sprone il far trovare dai fanciulli stessi quelle considerazioni che nei rapporti coi nostri simili possono aiutarci a non ricambiare ogni percossa con una percossa, ogni provocazione con una reazione impulsiva” (47).

“Come si può coll’insegnamento promuovere nel fanciullo lo sviluppo della simpatia per il prossimo, e più in generale dell’intimo sentimento della connessione della propria vita con quella della società? Ascoltiamo come la pensa al riguardo uno dei princiapli pedagogisti americani, John Dewey, professore all’Università di Columbia. Egli ha pubblicato nell’Educational Review (marzo 1893) un articolo sull’insegnamento etico della scuola, dove incomincia col paradosso che nel mondo pedagogico s’è finalmente d’accordo non potersi la morale insegnare, e tuttavia s’è più che mai convinti che un insegnamento etico nella scuola sia fra le più stringenti necessità educative dell’età nostra” (53).

“Il professor Dewey spiega poi più estesamente il suo modo di vedere, dicendo che l’insegnare principi morali od anche il predicare le virtù non serve proprio a nulla, ma che è certo concepibile, anzi indispensabile un insegnamento etico in un altro senso: un insegnamento cioè che consista non già nel far lezioni di morale, bensì nell’esercitare e nel destare quelle facoltà ed energie su cui si fonda l’ordinamento morale della vita, ammaestrando per esempio i giovani a servirsi della loro fantasia per una rappresentazione viva e più che sia possibile completa dei rapporti umani, e

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aiutandoli a comprendere chiaramente la connessione della vita individuale colla vita collettiva, in una parola, a comprendere le realtà della vita, alle quali rimonta ogni morale” (53).

“Non serve a nulla predicare per esempio il precetto dell’amore, se l’educando non sa affatto quali siano i bisogni dei suoi simili, s’egli è incapace d’investirsi dello stato dell’anima altrui – e non solo di questo, ma anche e soprattutto dell’altrui situazione e sorte. Perciò, secondo il professor Dewey, è compito precipuo dell’insegnamento etico d’esercitare appunto la fantasia degli allievi in tal senso, per avvezzarli di buon’ora insensibilmente a tener presente nell’intera loro concezione della vita, in ogni loro atto e discorso, la sorte del prossimo, e ad avere sempre davanti agli occhi la grande connessione sociale della vita. Qui Dewey si trova d’accordo con Pestalozzi, che anch’egli si rifiutava energicamente di parlar molto ai fanciulli delle virtù prima ch’essi avessero provato i sentimenti relativi” (53-54).

“La più gran parte dei trattati di morale francesi ed anche molti libri di lettura scolastici d’altri paesi trascurano affatto questa elementare verità pedagogica, partendo dall’ingenuo presupposto che si possa per esempio insufflare ai ragazzi la compassione col predicarne l’eccellenza e la necessità e col narrare per giunta l’aneddoto del pietoso Enrico o della compassionevole Caterina; mentre in verità la sola cosa giusta è di non menzionare dapprima affatto questo sentimento, stimolando invece la fantasia del ragazzo, affinch’egli provi prima di tutto la compassione dentro di sé come fatto psicologico – insegnandogli per esempio ad investirsi delle condizioni e vicende della vita altrui; possibilmente però si prendano ad oggetto non già romanzi, nei quali il lavoro psichico dell’immedesimarsi colle sorti e coi caratteri altrui è già stato compiuto dall’autore, bensì circostanze reali e persone dell’ambiente più prossimo al fanciullo” (54).

“Com’è facile, per esempio, riuscire a destare nei ragazzi, di fronte ad abitudini bizzarre o ripugnanti di persone della cerchia dei loro parenti e conoscenti, la pietà in luogo dell’avversione e dello spirito canzonatorio, se essi vengano stimolati a riflettere sulla storia dell’origine di tali qualità, e in generale a rendersi una volta ben conto delle connessioni esistenti fra lo sviluppo del carattere e gli influssi della vita! E quanta sana curiosità hanno i ragazzi appunto per tali umane connessioni – curiosità che pur troppo il più delle volte si sfoga tutta in pettegole chiacchiere, perché non si sa metterla al servizio della umanità e guidarla sulla buona strada!” (54-55).

“Anche le relazioni sociali in senso più esteso dovrebbero essere trattate partendo da punti di vista analoghi a quelli qui esposti per i rapporti fra uomo e uomo: non aridi precetti etici, ma iniziazione alla realtà sociale, affinchè l’educando stesso impari a considerare la vita con altri occhi, ed abbia per tempo davanti a sé quadri così perspicui della dipendenza di essa dalla grande cooperazione degli spiriti e delle braccia, che ne venga determinata l’intera sua concezione della vita stessa, e tutte le sue abitudini vengano ad essere sotto la stella del ‘pensiero sociale’” (56).

“Estremamente svariata e ricca di relazioni è la materia d’insegnamento che si dispiega dinanzi al maestro, quando egli si propone d’esporre quanti uomini delle più svariate razze e paesi abbiano lavorato attorno anche ai più piccoli oggetti da noi usati, e ai nostri alimenti; quanta fatica miseramente pagata sia connessa a tutto quello che mangiamo con tanto gusto, quante lagrime ed imprecazioni provenienti

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da tutte le parti del mondo siano intessute in quel che portiamo sul nostro corpo. Quanti uomini, per esempio, debban su tutto il globo lavorare sol perché noi alla mattina ci troviamo sulla tavola la nostra colazione: dal lavoratore della piantagione di caffè al ragazzo del fornaio, come lavori e come viva il minatore, che dalle viscere della terra porta a noi luce e calore, e che spesso non ha un salario sufficiente per potersi accendere un po’ di fuoco e un lume nelle sere invernali – tutte queste sono rivelazioni che tolgono la spensieratezza, così propizia ad ogni sorta d’ingenuo egoismo, anche nei ragazzi di buon naturale” (56).

“In tal modo essi vengono condotti a chiedersi che cosa possan fare per dar espressione alla loro gratitudine e pietà verso le classi lavoratrici, come possano con la delicatezza di cuore e la cortesia nei rapporti con esse contribuire per la loro parte a riparare la sociale ingiustizia per cui esse hanno ancor sempre da compiere i più ingrati lavori nelle più ingrate condizioni di vita – mentre a coloro che debbono fare i lavori più gravosi e senz’interesse, si dovrebbe abbellire la vita con uno speciale equivalente di riposo, d’agi e d’anima. A ragazzi non c’è ancor bisogno di parlare di riforme sociali, quelli che vengono destati e illuminati nel senso predetto, quando saranno adulti sapranno da sé di dovere in tutti i sociali conflitti schierarsi contro l’egoismo di classe – venga poi questo dall’alto o dal basso” (56-57).

“Nei corsi superiori poi si passi a considerare anche il nostro patrimonio spirituale, mostrando quanto martirio sia racchiuso in quel che oggi noi ci appropriamo in pochi minuti; e come anche la nostra civiltà artistica, intellettuale e morale sia il risultato della cooperazione di tutte le razze e di tutti i popoli. Si è con siffatta rivelazione della vita reale, non già con astratte dottrine, che si può destar nel fanciullo la carità sociale e prevenire ogni ingenerosa interpretazione della comunione di vita nazionale” (57).

“Più sopra ho qualificato come essenza di un’efficace pedagogia morale il prender le mosse dagl’interessi più immediati e palpabili dell’educando, il dirigersi verso nuovi campi, elevandoli grado a grado fino alle più alte conoscenze e compiti dell’umanità – orbene, noi abbiamo appunto qui nella pedagogia sociale il miglior esempio per tal metodo: l’insegnante sviluppa nel fanciullo l’ ‘amore per i più lontani’ non già col predicargli una fraternità universale ch’è pallida ed astratta e non può essere da lui spiritualmente assimilata, ma partendo dalle cose più vicine, dagli utensili e dagli articoli di consumo della vita quotidiana, e mostrando qui in modo affatto concreto come la più remota vita dell’umanità pulsi nella nostra esistenza d’ogni giorno, come l’umanità per così dire sia presente nel pane che mangiamo, e in ogni utensile che prendiamo in mano – e come abbia ad essere sforzo costante dell’uomo ‘che sa’ il far anche valere questa grande unità nelle forme della vita sociale. Si dà troppo poco peso a questo fondamentale orientamento nella realtà della vita sociale: ecco l’errore non solo della nostra educazione morale, ma di tutta quanta la nostra cosiddetta cultura generale” (58-59).

“Per educare i fanciulli ad assumere il giusto atteggiamento nella questione della servitù è anche di grande importanza il chiarire ed il liberare da ogni inconsideratezza il loro giudizio riguardo al valore del lavoro umano. cHe il valor vero del lavoro non dipende dagli organi dai quali è eseguito, bensì dal modo com’è eseguito, e che anche il più spirituale dei lavori può rendere l’uomo interiore più cattivo e spregevole, se venga eseguito senza cura né coscienza – così come il più semplice lavoro manuale può avere un influsso nobilitante, in grazia dello spirito nel

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quale viene fatto – ecco quel che bisogna fare rilevare al fanciullo. E che in generale anche il lavoro del corpo può essere un lavoro spirituale, per la pienezza degli spirituali propositi e dei superiori sentimenti di dovere dai quali esso è guidato e invigilato – mentre il lavoro spirituale può diventare grossolano e meccanico per l’indifferenza di cuore e la fiacchezza di spirito con cui vien condotto – queste sono cose su cui non si potrà mai abbastanza seriamente né chiaramente richiamare l’attenzione degli educandi” (60-61).

“E qui si dovrebbe accennare anche a quegli opprimenti lavori che sono così meccanici da rendere quasi impossibile all’uomo il mettervi dentro un po’ del suo spirito e del suo cuore – e si dovrebbe porre in chiaro come siffatto lavoro pieno d’abnegazione dovrebbe venire contraccambiato dalla comunità colla più alta ricompensa di gratitudine e d'’gi,appunto pperchéin esso l’uomo non può essere uomo, e con tale rinuncia a se stesso fa alla comunità un sacrificio personale di gran lunga maggiore di quello del più grande eroe dello spirito, che invero nel suo lavoro può in pari tempo vivere la vita superiore che gli è propria” (61).

“Ho scelto gli esempi ora citati per dimostrare come si possa evitare un insegnamento morale puramente intellettuale, e rappresentare in quella vece la realtà della vita nei suoi rapporti con gl’interessi morali dell’uomo. Con ciò non è però detto che l’insegnamento debba tenersi lontano da ogni sorta di morale dottrina. Pur rendendosi ben conto che il sapere non genera per sé alcun’altra attività, non per questo è meno necessaria la precisa conoscenza del contenuto della legge morale. La buona volontà da sola non basta, se mancano idee chiare e logiche sul senso e la portata delle esigenze morali. Una sofistica elusione della legge morale non si può in generale prevenire se non col distogliere l’attenzione del fanciullo dai puri e rigidi comandamenti, per rivolgerla al contenuto ed al campo concreto di quel ch’è prescritto o vietato” (71-72).

“Il difetto del metodo pedagogico-morale astratto fin qui usato sta appunto nel non aver badato che precisamente le più forti tentazioni nella vita non si hanno quando si tratta d’una diretta ribellione contro il comandamento e la ‘legge’, bensì quando si vuol sottrarre una determinata azione alla sfera di validità del principio generale, perché forse mancano ad essa azione i contrassegni formali ed esteriori della cosa vietata. A ciò può mettere riparo soltanto una pedagogia che parta dalla vita reale e faccia vedere al fanciullo quali esperienze della vita siano condensate nel comandamento, e qual senso e qual cerchia d’azione informatrice esso debba corrispondentemente avere” (72).

“È affatto indubitato che l’istruzione etica nel corso di questo secolo conquisterà un posto eminente nell’insieme della pubblica istruzione” (457).

“Solo è sommamente a deplorare che questo, ch’è affare puramente pedagogico, sia stato tirato in campo nella lotta tra le concezioni chiesastica e non chiesastica della vita” (457).

“Malgrado ciò la necessità di approfondire e d’estendere la teoria e la pratica pedagogico-morale è così stringente, che i malintesi e le unilateralità di quella lotta non possono causare che un passeggero impedimento. Per quanto vi siano dei radicali che vogliono servirsi degli effetti dell’istruzione etica per combattere, dichiarandola antiquata e superflua, la cura religioso-morale che la Chiesa presta alle

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anime giovanili, e per quanto vi siano dei troppo zolanti religiosi, che da queste pretese dei radicali sono spinti ad avere una prevenzione ostile contro l’intera causa della pedagogia morale – rimane fermo il fatto che in tutti gli Stati e Comuni con diverse confessioni le scuole pubbliche debbono con sempre maggior coerenza avvicinarsi alla totale neutralità nelle questioni confessionali, se voglion riconoscere le più elementari ed irresistibili esigenze della parità di diritti civili di tutte le confessioni” (457-458).

“Da questa neutralità consegue la necessità d’istituire nelle scuole lezioni puramente etiche, le quali, lasciando all’insegnamento chiesastico le sanzioni religiose della morale, si limitino a far dell’etica applicata, della scienza della vita. […] La crescente depravazione della gioventù di ogni classe sociale, l’aumento del numero dei casi di suicidio e di delinquenza tra i minorenni, l’estesa dissoluzione della vita di famiglia in certi strati sociali, offrono in verità sufficiente motivo a pensare sul serio ad un’azione concreta di tal genere” (458).

“Soltanto, tutti quelli che si adoperano per la istituzione di tale insegnamento etico debbono sempre far rilevare che un insegnamento puramente etico ha assoluto bisogno di venire integrato con una più profonda educazione religiosa e non potrà mai del tutto far le veci di essa. Quanto più progredisce la pratica in questo difficile campo, tanto più unanimemente si arriva anche a questa modesta conclusione. Con ciò si dileguerebbe anche la diffidenza delle sfere chiesastiche contro questi inizi: esse diverrebbero più disposte a capire quanta importanza avrebbe anche per la cura chiesastica delle anime l’accompagnarle e l’assisterle fin nel cuor degli svariati conflitti concreti della vita moderna, l’utilizzare le molte persuasive esperienze della vita quotidiana come incitamenti all’autoeducazione, e il far ricorso, per formare e sostenere il carattere, anche alle forze e disposizioni più semplici esistenti nel fanciullo, oltrechè ai moventi religiosi” (458).

“Questo mio libro parte dalla convinzione che si può immaginare ed attuare un insegnamento etico il quale non si limiti solo ad insegnare la morale, cioè a spiegare il senso e la portata delle leggi morali, ma soprattutto aiuti anche i ragazzi a mettere la morale in pratica; in primo luogo coll’acuire la loro facoltà d’osservazione perché scorgano la connessione tra causa ed effetto nella stessa loro vita; in secondo luogo col cercare di sviluppare la loro simpatia e la loro immaginazione e di esercitarle a comprendere i bisogni concreti delle persone a loro più prossime; in terzo luogo infine col rivelare loro i fatti e le necessità della vita sociale dai quali viene di continuo rigenerata e confermata, in tutta la sua immane ed inevitabile realtà, la differenza tra il bene ed il male” (461).

“L’azione educatrice della vita deve dunque venire preparata con un’istruzione che insegni a comprendere ed a rettamente interpretare la vita, e che perciò potrebbe forse essere meglio chiamata ‘arte della vita’ e ‘scienza della vita’, anziché ‘istruzione morale’” (463).

“Tale scienza della vita, tale avviamento a ben vedere ed a ben osservare nel campo dei rapporti umani è più importante di qualunque altra istruzione: perché la più gran parte degli uomini cadono in angustie ed in errori appunto perché non sanno leggere, anzi neppure ‘compitare’ il libro della vita. Essi non vedono le leggi immutabili, in forza delle quali anche il più scaltro briccone e la più piccola infedeltà sono destinati a trovare la loro condanna nella gran concatenazione delle cose. Essi non sanno

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utilizzare le loro proprie energie ausiliarie interiori per creare un impedimento alle cattive abitudini ed ai cattivi istinti. Nella loro sorte, negl’intrichi della loro vita essi non sanno sceverare la parte che vi hanno le loro colpe e follie – vi scorgono solo la crudeltà del caso o gli sbagli altrui, e perciò ad ogni nuova esperienza diventano sempre più astiosi e caparbi, invece d’essere indotti dalla vita vissuta a rientrare in se stessi e ad emendarsi. Così ogni esperienza dolorosa della vita non serve che a convincerli una volta di più della bassezza degli altri uomini, e della propria sempre disconosciuta nobiltà di sentire. E forse sono anche realmente d’animo nobile – ma in pari tempo indelicati ed offensivi nel manifestare questi loro sentimenti, cosicchè incontrano aspre ed ingrate ripulse, che purtroppo essi non attribuiscono al non aver coltivato abbastanza la forma nel loro proprio contegno” (463).

“Non è dunque il compito supremo d’una istruzione etica, quello di destare e sviluppare a tempo in tal senso l’attitudine ad una sana osservazione delle cose umane? Perché insegnare ad osservare solo l’accrescimento delle piante, e non anche quello delle abitudini dell’uomo interiore? Perché imparare a constatare il sommarsi delle minime azioni soltanto nella geologia, e non anche nei rapporti umani? Perché dare la chiave solo per la soluzione dei più difficili problemi matematici, e così pochi ragguagli invece intorno ai conflitti umani ed ai mezzi più elementari per risolverli?” (464).

“[…] Il compito precipuo dell’educatore consiste appunto in quell’indirizzo ch’io ho cercato d’illustrare con gli esempi del presente libro: l’educatore deve cioè vestire la sua azione colla più grande varietà possibile d’immagini e fare appello a quanti più può diversi moventi, per accrescere più ch’è possibile la probabilità di destare una qualche interna sfera di forze e d’idee ancora rimasta intatta, di rafforzarla poco alla volta con l’incitamento e l’esercizio, d’imporre ad essa compiti man mano maggiori, e infine di rimettere in moto, partendo da essa, anche altre sfere della vita psichica – pratica del resto ch’è da lungo tempo seguita con gl’individui arretrati nello sviluppo intellettuale” (474).

“A giudicare dalle considerazioni che precedono, può sembrare ch’io sia d’idee molto ottimiste riguardo alle possibilità dell’educazione. Ma conviene ch’io vi aggiunga una restrizione, che al lettore attento si sarà già certo presentata spontanea: la vera educazione è infinitamente più difficile di quel che d’ordinario sembri a coloro che con prediche e castighi, con esempi e intimidazioni pensano già di formare dei caratteri. Quanta accurata osservazione è presupposta già soltanto dalla necessità da me dimostrata, che si rannodi nel modo più concreto possibile ogni insegnamento alla vita propria del fanciullo! Com’è difficile spesso anche ai genitori medesimi il conoscere questa vita propria dei loro figlioli! Come sono pochi i genitori che hanno il tempo, la pazienza e l’oggettività necessari per impiegare questo metodo, e a quanti manca pure la vitalità spirituale per mettere mano attivamente a tale assunto! E quanto scarsa possibilità d’educazione individuale v’è nelle nostre scuole eccessivamente popolate!” (481).

“Chi si approfondisce in queste questioni e tien dietro ai molti andirivieni delle teorie unilaterali, le quali di solito cadono da un estremo nell’altro e finiscono per lasciare il pedagogo nell’assoluta incertezza – appunto perché concepiscono la natura umana astrattamente e dall’esterno e non partendo dall’esperienza interiore – chi, ripeto, s’approfondisce in queste questioni, si persuade sempre più dell’infinità sanità, sapienza e conoscenza della vita che son racchiuse nello spirito biblico.

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S’impone alla nostra mente, la risposta che la Bibbia dà a tutte queste questioni, mediante l’intera profondissima concezione della vita che in essa ha preso forma. Voi dovete prender l’uomo dal di dentro, non dal di fuori, dall’alto dovete prenderlo, non dal basso, dovete attenervi alla sua origine dallo spirito, non alla sua origine dalla materia” (491).

“E come quest’altissima vita si manifesta e s’annunzia in mezzo al mondo della materia, non solo mediante il profondo senso del peccato, che si desta nell’uomo e gli dà un nostalgico ricordo di quel ch’egli è nel più intimo dell’essere suo, ma anche con la sublime figura e col sublime esempio di Cristo, di fronte al quale l’uomo prova il sentimento che di nuovo gli appaia Dio come già un tempo nel Paradiso terrestre, e lo attiri a sé con un incantevole quadro di quel che lo spirito può fare anche tra i lacci della carne!” (491-492).

“Si lasci dunque il pedagogo guidare da questa luce, nell’intrico di tutti i rapporti ed intrecci dello spirito e del corpo, del morboso e del sano; non dimentichi la cura del corpo, ma soprattutto svegli lo spirito, e prenda le mosse dalla forza e dalla destinazione che ha lo spirito nel mondo fisico!” (492).

“Negli esempi di questo libro ho già fatto una quantità di proposte in tal senso. Qui voglio soltanto dimostrare brevemente, con una ricapitolazione di tutti i punti di vista a ciò relativi, in che consista il significato medico ed igienico dell’influsso etico appunto di fronte a disposizioni e stati patologici” (492).

“In primo luogo l’educazione alla padronanza di sé è della massima importanza specialmente di fronte a disposizioni nervose, perché ogni condiscendenza verso sé stessi emancipa sempre più i centri nervosi relativi dal controllo della ragione, e perché una grande padronanza di sé, già coll’impedire affatto a molte emozioni di manifestarsi, prepara nel modo più benefico il risanamento od almeno la riduzione della morbosità. Siccome poi propriamente l’intero funzionamento del processo vitale dipende dalla vigoria e dalla sanità dell’ ‘innervazione’, che ha la sua sede suprema nel cervello, così in generale ogni fortificamento dei controlli cerebrali, ogni esercizio di padronanza dello spirito sull’uomo carnale, serve anche in modo immediato ad assicurare la sanità” (492).

“In secondo luogo tutte quelle idee che mettono il fanciullo in grado di capire più a fondo e sopportare i suoi simili, e di considerare le loro asprezze e debolezze come un’occasione di soccorrere e non come un’occasione d’andare in collera, esercitano anche un’inestimabile azione calmante sull’intero sistema nervoso. Una gran parte della moderna nervosità viene dalla totale mancanza di siffatte idee ausiliarie, destinate a raddolcire e stornare gli urti fra le individualità” (493).

“In terzo luogo l’educazione al disinteresse, l’avvezzare il fanciullo all’amor servizievole, il destare in lui l’interesse per i propri simili, hanno del pari un’importante azione diversiva. Già Goethe ha detto: ‘Quando l’uomo riflette sul suo fisico e sul suo morale, d’ordinario si trova infermo’. Molte disposizioni all’ipocondria si potrebbero combattere, se a suo tempo i fanciulli venissero fatti vivere e lavorare per gli altri. Invero, certi moderni psichiatri curano persino la paranoia e la mania querula, che notoriamente sono malattie mentali, per via etico-spirituale, distogliendo l’attenzione del paziente da tali campi, e facendo predominare nella sua vita psichica nuovi interessi e doveri!” (493).

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“In quarto luogo l’azione deleteria che le peripezie e i disinganni della sorte esercitano sul sistema nervoso è notevolmente diminuita, se l’uomo ha ricevuto di buon’ora opportuni suggerimenti circa il modo di utilizzare l’avverso destino per formare ed invigorire la propria personalità. ‘Al primo tuo dolor dà il benvenuto’, dice un poeta tedesco – chi ha imparato ad assumere un tale atteggiamento di fronte ai dolorosi attentati alla sua vita ed alle sue speranze, non sarà più dalla vita distrutto, chè anzi in tali momenti può persino ancor guadagnare in vigoria nervosa, per il rallegrante senso di forza ch’egli prova nel suo intimo” (493).

“Quinto: L’educare il fanciullo ad imporre volontariamente dei limiti e delle rinunce a se stesso, l’impedire ch’egli abbia nella vita a crearsi dei bisogni troppo numerosi e complicati, è parimenti un mezzo per metterlo al sicuro contro lo svolgersi di disposizioni nervose, ed anche contro disastrosi conflitti nella vita – perché i troppi bisogni conducono sempre l’uomo a gravi conflitti e lo rendono inquieto e scontento” (493-494).

“Sesto: Anche l’educazione alla sincerità ha un’importanza medica; come ha detto un noto specialista delle malattie nervose, essa fa sì che l’uomo ‘sia meno facilmente vittima di quegli stati morbosi in cui la tendenza all’esagerazione ed all’illusione forma un elemento essenziale della sintomatologia’” (494).

“Settimo: Accenniamo infine alle proposte da noi fatte per animare dal lato spirituale ed etico i lavori semplici e faticosi – per consenso unanime di tutti gli specialisti delle malattie nervose, l’educazione al lavoro esercita di rimando sul sistema nervoso l’azione più favorevole che si possa immaginare, già perché l’uomo impara con ciò a dimenticare se stesso. Però affinchè il lavoro eserciti queste azioni, bisogna che non sia fatto a contraggenio; ma a ciò è necessaria una ‘pedagogia del lavoro’, che si occupi di coltivare e d’avvivare spiritualmente i moventi al lavoro nella gioventù. Naturalmente qui ogni fatica eccessiva può avere l’effetto opposto – com’è anche manifesto che vi sono stati nervosi nei quali la sospensione d’ogni attività è l’unico mezzo di risanamento” (494).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo di Foerster:

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15. Da: S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Torino, Boringhieri

“Nostro desiderio è fare oggetto di questa indagine l’Io, il nostro Io più autentico; ma è possibile? L’Io è il soggetto per eccellenza, come può diventare oggetto? Ora, non vi è alcun dubbio che questo è possibile; l’Io può prendere come oggetto se stesso, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di se stesso Dio sa quante altre cose ancora. Così facendo, una parte dell’Io si contrappone alla restante. L’Io dunque è scindibile; si scompone nel corso di parecchie sue funzioni, almeno transitoriamente. Le parti possono successivamente riunirsi. Questa non è esattamente una novità, forse è un’accentuazione insolita di cose generalmente note. D’altro canto siamo avvezzi all’idea che la patologia possa rendere evidenti, ingrandendole e rendendole più vistose, condizioni normali che altrimenti ci sarebbero sfuggite. Dove essa ci mostra una frattura o uno strappo, normalmente può esistere una articolazione” (p. 466).

“Da quando, sotto il forte influsso di questo quadro clinico, ho concepito l’idea che la separazione di un’istanza osservatrice dal resto dell’Io potrebbe essere un tratto regolare nella struttura dell’Io, essa non mi ha più abbandonato e mi ha spinto a indagare gli ulteriori caratteri e relazioni di questa istanza che così veniva separata. Il passo successivo è immediato. […] L’osservare è solo una preparazione al giudicare e al punire, e noi indoviniamo così che un’altra funzione di questa istanza dev’essere ciò che chiamiamo la nostra coscienza morale. Non vi è forse null’altro in noi che separiamo tanto regolarmente dal nostro Io e gli contrapponiamo con tanta facilità come, appunto, la coscienza morale. Io avverto l’inclinazione a fare qualcosa da cui mi riprometto piacere, ma ometto di farlo perché la mia coscienza non me lo permette. Oppure mi sono lasciato indurre da un’eccessiva speranza di trarne piacere a fare qualcosa contro cui la voce della coscienza sollevava obiezioni e, dopo averlo fatto, la mia coscienza mi punisce con penosi rimproveri, mi fa provare rimorso per l’azione. Potremmo dire semplicemente che la particolare istanza che comincia a distinguersi nell’Io è la coscienza morale, ma è più prudente mantenere a questa istanza la sua autonomia e supporre che la coscienza morale sia una delle sue funzioni e che l’autoosservazione preliminare, indispensabile all’attività giudicatrice della coscienza, ne sia un’altra. E poiché il riconoscimento di un’esistenza separata implica che si dia alla cosa un nome, d’ora in poi designerò questa istanza dell’Io come il ‘Super-io’” (pp. 467-468).

“Il Super-io impone all’Io inerme, che è in sua balìa, i più severi criteri morali; è in generale il sostenitore delle esigenze della moralità; e improvvisamente ci rendiamo conto che il nostro senso morale di colpa è l’espressione della tensione fra l’Io e il Super-io. È un’esperienza assai curiosa vedere la moralità, che si presume ci sia stata conferita da Dio e sia radicata in noi tanto profondamente, manifestarsi come un fenomeno periodico” (pp. 468-469).

“Noi non disconosciamo affatto la parte di verità psicologica che è contenuta nell’affermazione che la coscienza morale è di origine divina, ma la tesi ha bisogno di un’interpretazione. Anche se tale coscienza è qualcosa ‘in noi’, non lo è fin dall’inizio. Essa si pone in diretto contrasto con la vita sessuale, la quale esiste realmente fin dall’inizio della vita e non sopravviene solo più tardi. Per contro il bambino piccolo è notoriamente amorale, non possiede inibizioni interiori contro i propri impulsi che desiderano il piacere. La funzione che più tardi assume il Super-io viene dapprima svolta da un potere esterno, dall’autorità dei genitori. I genitori

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esercitano il loro influsso e governano il bambino mediante la concessione di prove d’amore e la minaccia di castighi, i quali ultimi dimostrano al bambino la perdita d’amore e di per se stessi sono quindi temuti. Questa angoscia reale è la precorritrice della futura angoscia morale; finchè essa domina, non c’è bisogno di parlare di Super-io e di coscienza morale. Solo in seguito si sviluppa la situazione secondaria – che noi siamo troppo facilmente disposti a ritenere quasi normale – in cui l’impedimento esterno viene interiorizzato e al posto dell’istanza parentale subentra il Super-io, il quale ora osserva, guida e minaccia l’Io, esattamente come facevano prima i genitori col bambino” (p. 469).

“Il Super-io, che in tal modo assume il potere, la funzione e persino i metodi dell’istanza parentale, non ne è però soltanto il successore legale, ma realmente il legittimo erede naturale. Esso ne deriva direttamente, e apprenderemo presto attraverso quale processo. Dapprima, tuttavia, dobbiamo soffermarci su una differenza fra i due. Il Super-io sembra aver preso, con una scelta unilaterale, solo il rigore e la severità dei genitori, la loro funzione proibitrice e punitiva, mentre la loro sollecitudine e il loro amore non vengono ripresi e continuati. Se i genitori hanno applicato realmente un regime di severità, diventa facilmente comprensibile che anche nel bambino si sviluppi un Super-io severo; tuttavia l’esperienza mostra, contrariamente alle nostre aspettative, che il Super-io può acquistare lo stesso carattere di inesorabile rigore anche se l’educazione era stata indulgente e benevola e aveva evitato il più possibile minacce e castighi” (p. 470).

“Fondamento di tale processo è la cosiddetta ‘identificazione’, cioè l’assimilazione di un Io a un Io estraneo, in conseguenza della quale il primo Io si comporta sotto determinati riguardi come l’altro, lo imita, lo accoglie in certo qual modo in sé. Non inopportunamente l’identificazione è stata paragonata all’incorporazione orale, cannibalistica della persona estranea. L’identificazione è una forma molto importante di legame con un’altra persona, verosimilmente la più primitiva, e non è la stessa cosa di una scelta oggettuale. La differenza può essere espressa all’incirca così: se il fanciullo si identifica col padre, egli vuole essere come il padre; se lo fa oggetto della sua scelta, lo vuole avere, possedere; nel primo caso il suo Io viene modificato secondo il modello del padre, nel secondo caso ciò non è necessario” (p. 470).

Nel corso dello sviluppo, il Super-io accoglie anche gli influssi di quelle persone che sono subentrate al posto dei genitori, ossia educatori, insegnanti e modelli ideali. Normalmente esso si allontana sempre più dalle individualità originarie dei genitori, diventa per così dire più impersonale. Non bisogna neanche dimenticare che il bambino stima diversamente i suoi genitori in periodi diversi della vita. All’epoca in cui il complesso edipico cede il posto al Super-io, essi sono una cosa meravigliosa; più tardi scadono. Anche dopo i bambini si identificano con questi genitori che non sono più quelli di prima, e queste identificazioni forniscono persino, di norma, importanti contributi alla formazione del carattere, ma in tal caso riguardano solo l’Io, non influiscono più sul Super-io, il quale è stato determinato dalle primissime imago dei genitori. Spero che sin d’ora vi siate fatti l’idea che il concetto da noi introdotto di Super-io descrive realmente un rapporto strutturale e non incarna semplicemente un’astrazione come quella della coscienza morale. Ci resta da menzionare ancora un’importante funzione che attribuiamo a questo Super-io. Esso è anche l’esponente ideale dell’Io, al quale l’Io si commisura, che emula, e la cui esigenza di una sempre più ampia perfezione si sforza di adempiere. Non vi è dubbio

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che questo ideale dell’Io è il sedimento dell’antica immagine dei genitori, l’espressione dell’ammirazione del bambino, che li considerava allora esseri perfetti” (pp. 471-472).

“Torniamo al Super-io. Gli abbiamo attribuito l’autoosservazione, la coscienza morale e la funzione di ideale. Da quanto abbiamo esposto sulla sua origine consegue che esso ha, come premesse, un fatto biologico indicibilmente importante e un fatto psicologico denso di vicende, cioè la lunga dipendenza del figlio dell’uomo dai suoi genitori e il complesso edipico, i quali sono a loro volta intimamente collegati fra loro. Il Super-io è per noi il rappresentante di tutte le limitazioni morali, l’avvocato dell’aspirazione alla perfezione; è, in breve, quanto ci è divenuto comprensibile in termini psicologici di tutto quello che è ‘superiore’ nella vita umana. Poiché risale essenzialmente all’influsso dei genitori, degli educatori e così via, il suo significato risulterà ancora più chiaro se ci rivolgiamo a queste sue radici. Di solito i genitori e le autorità analoghe seguono, nell’educazione del bambino, i precetti del proprio Super-io. Qualunque sia l’accomodamento a cui il loro Io è giunto nei confronti del loro Super-io, essi sono severi ed esigenti nell’educazione del bambino. Hanno dimenticato le difficoltà della propria infanzia e sono contenti di potersi ora identificare pienamente con i propri genitori che a suo tempo hanno imposto loro tante gravi limitazioni. Così, in realtà, il Super-io del bambino non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma del loro Super-io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono propagati per generazioni. È facile indovinare di quanto aiuto sia la considerazione del Super-io per comprendere il comportamento sociale dell’uomo – per esempio, quello dell’infanzia trascurata – e forse anche per trarne suggerimenti pratici per l’educazione. Le cosiddette concezioni materialistiche della storia peccano probabilmente proprio nel sottovalutare questo fattore. Lo ignorano osservando che le ‘ideologie’ degli uomini non sono altro che il risultato e la sovrastruttura delle condizioni economiche attuali. In questo c’è del vero ma molto probabilmente non tutta la verità” (pp. 473-474).

“Nel dubbio se l’Io e il Super-io possano essere essi stessi inconsci o soltanto esplicare effetti inconsci, ci siamo decisi per buoni motivi a favore della prima possibilità. Sì, grandi zone dell’Io e del Super-io possono rimanere inconsce, e normalmente sono inconsce. Ciò significa che la persona non sa nulla dei loro contenuti e occorre un dispendio di fatica per renderglieli coscienti. È un fatto che Io e conscio, rimosso e inconscio non coincidono. Sentiamo il bisogno di rivedere radicalmente la nostra posizione riguardo al problema conscio-inconscio. A tutta prima saremmo inclini a ridurre di molto il valore del criterio di consapevolezza, essendosi dimostrato così infido. Ma avremmo torto. È come la nostra vita: non vale molto, ma è tutto quello che abbiamo. Senza il lume della qualità di consapevolezza noi saremmo perduti nell’oscurità della psicologia del profondo: ma dobbiamo cercare di trovare di nuovo l’orientamento” (p. 476).

“Su ciò che si deve chiamare conscio non abbiamo bisogno di discutere, poiché non v’è motivo di dubbio. Il più antico e il migliore significato del termine ‘inconscio’ è quello descrittivo: chiamiamo inconscio un processo psichico di cui dobbiamo supporre l’esistenza – per esempio, perché la deduciamo dai suoi effetti – ma del quale non sappiamo nulla. La nostra relazione con questo processo è la stessa che abbiamo con un processo psichico che ha luogo in un altro uomo, salvo che è, appunto, nostro. Volendo esprimerci ancora più correttamente, modificheremo la

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proposizione nel senso che chiamiamo inconscio un processo quando dobbiamo supporre che al presente sia in atto benchè, al presente, non ne sappiamo nulla. Questa precisazione ci fa pensare che la maggior parte dei processi consci siano consci solo per breve tempo; ben presto diventano latenti, ma possono facilmente ridiventare coscienti. Potremmo anche dire che sono diventati inconsci, se fosse del tutto certo che allo stato di latenza essi sono ancora qualcosa di psichico” (p. 476-477).

“La considerazione di questi rapporti dinamici ci permette adesso di distinguere due specie di inconscio: uno, che si trasforma facilmente in conscio, in condizioni spesso ricorrenti, e un altro, per il quale questa conversione avviene difficilmente, solo a patto di un notevole dispendio di forze, e forse non avviene mai. Per sfuggire all’ambiguità – se intendiamo, cioè, riferirci all’uno o all’altro inconscio, se usiamo il termine in senso descrittivo o in quello dinamico – noi adottiamo un espediente che è insieme semplice e lecito. Chiamiamo ‘preconscio’ quell’inconscio che è solo latente, e quindi diventa facilmente conscio, e riserviamo all’altro la designazione di ‘inconscio’. Abbiamo ora tre termini: ‘conscio’, ‘preconscio’ e ‘inconscio’, con i quali possiamo destreggiarci nella descrizione dei fenomeni psichici. Ripetiamolo ancora una volta: in senso puramente descrittivo anche il preconscio è inconscio, ma noi non lo designiamo così, tranne che in un’esposizione non rigorosa o quando dobbiamo difendere l’esistenza di processi inconsci in genere nella vita psichica” (pp. 477-478).

“Quando in noi era nuova e forte l’impressione che un ampio e importante campo della vita psichica è normalmente sottratto alla conoscenza dell’Io, così che i processi ivi svolgentisi devono essere considerati inconsci nel vero senso dinamico, intendemmo il termine ‘inconscio’ anche in un senso topico o sistematico; parlammo di un ‘sistema’ del preconscio e di un ‘sistema’ dell’inconscio, di un conflitto dell’Io con il sistema inconscio; facemmo sì che la parola denotasse sempre più una provincia psichica piuttosto che una qualità dello psichico. A questo punto la scoperta, in effetti scomoda, che anche zone dell’Io e del Super-io sono inconsce nel senso dinamico, costituisce per noi un’agevolazione […] Ci accorgiamo che non abbiamo il diritto di chiamare ‘sistema inconscio’ il territorio psichico estraneo all’Io, poiché il carattere di essere inconscio non è esclusivo ad esso. […] Adeguandoci all’uso linguistico di Nietzsche e seguendo un suggerimento di Georg Groddeck, lo chiameremo d’ora in poi ‘Es’” (p. 478).

“[L’Es] è la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità; il poco che ne sappiamo, l’abbiamo appreso dallo studio del lavoro onirico e della formazione dei sintomi nevrotici; di questo poco, la maggior parte ha carattere negativo, si lascia descrivere solo per contrapposizione all’Io. All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos, un calderone di eccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto all’estremità verso il somatico, e che ivi accolga in sé i bisogni pulsionali, i quali trovano così la loro espressione psichica, senza che sappiamo dire in quale substrato. Attingendo alle pulsioni, esso si riempie di energia, ma non ha un’organizzazione, non produce una volontà collettiva, ma solo lo sforzo per procurare soddisfacimento ai bisogni pulsionali rispettando il principio di piacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda; tutt’al più, sotto la dominante costrizione economica di scaricare l’energia, confluiscono in formazioni di compromesso. Non

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vi è nulla nell’Es che si possa paragonare alla negazione, e si osserva pure con sorpresa un’eccezione all’assioma dei filosofi, secondo cui spazio e tempo sarebbero forme necessarie dei nostri atti mentali. Nulla si trova nell’Es che corrisponda all’idea di tempo, nessun riconoscimento di uno scorrere temporale e – cosa notevolissima e che attende un’esatta valutazione filosofica – nessun’alterazione del processo psichico ad opera dello scorrere del tempo. impulsi di desiderio che non hanno mai varcato l’Es, ma anche impressioni che sono state sprofondate nell’Es dalla rimozione, sono virtualmente immortali, si comportano dopo decenni come se fossero appena accaduti. Solo quando sono divenuti coscienti mediante il lavoro analitico, essi possono venir riconosciuti come passato, venir svalutati e privati della loro carica energetica, e su ciò si fonda, e non in minima parte, l’effetto terapeutico del trattamento analitico” (pp. 479-480).

“È ovvio che l’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina tutti i processi. Cariche pulsionali che esigono la scarica: ecco tutto ci che, a parer nostro, vi è nell’Es” (p. 480).

“Giungiamo più rapidamente a una caratterizzazione dell’Io vero e proprio – per quanto esso si lascia distinguere dall’Es e dal Super-io – esaminando la sua relazione con la parte più esterna, superficiale, dell’apparato psichico, che noi designiamo come sistema percettivo-cosciente. Questo sistema è rivolto verso il mondo esterno, fa da intermediario alle percezioni che ne provengono, e in esso sorge, nel corso del suo funzionamento, il fenomeno della coscienza. È l’organo sensorio dell’intero apparato, ricettivo del resto non solo a eccitamenti provenienti dall’esterno, ma anche a quelli che provengono dall’interno della vita psichica. La concezione secondo cui l’Io è quella parte dell’Es che è stata modificata dalla vicinanza e dall’influsso del mondo esterno, non ha quasi bisogno di essere giustificata: è questa la parte predisposta per la ricezione degli stimoli e per la protezione dagli stessi, paragonabile allo strato corticale di cui si circonda il grumo di materia vivente. Il rapporto con il mondo esterno è diventato decisivo per l’Io, il quale si è assunto il compito di rappresentarlo presso l’Es; fortunatamente per l’Es, il quale, incurante di questa preponderante forza esterna, nel suo cieco soddisfacimento pulsionale non sfuggirebbe all’annientamento. Nell’adempiere tale funzione, l’Io deve osservare il mondo esterno, depositarne una fedele riproduzione nelle tracce mnestiche delle sue percezioni, tenere lontano, mediante l’esercizio dell’ ‘esame di realtà’, ciò che in questa immagine del mondo esterno è un’aggiunta proveniente da fonti interne di eccitamento. Per incarico dell’Es, l’Io domina gli accessi alla motilità, ma ha inserito tra bisogno e azione la dilazione dell’attività di pensiero, durante la quale utilizza i residui mnestici dell’esperienza. In tal modo ha detronizzato il principio di piacere, che domina illimitatamente il decorso dei processi dell’Es, e l’ha sostituito con il principio di realtà, che promette più sicurezza e maggior successo” (p.481).

“Anche il rapporto con il tempo, così difficile da descrivere, è reso possibile all’Io tramite il sistema percettivo; è quasi fuori dubbio che il modo di operare di questo sistema diede origine all’idea del tempo. ciò che però caratterizza l’Io in modo del tutto particolare, differenziandolo dall’Es, è una tendenza a sintetizzare i suoi contenuti, a riassumere e unificare i suoi processi psichici, la quale manca completamente all’Es. […] Questo carattere soltanto produce quell’alto grado di organizzazione di cui l’Io ha bisogno nelle sue migliori prestazioni. L’Io evolve dalla percezione delle pulsioni alla loro padronanza, ma quest’ultima viene raggiunta

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solo se la rappresentanza […] psichica delle pulsioni viene inquadrata in un’unità più ampia, inclusa in un contesto coerente. Per dirla alla buona, l’Io rappresenta nella vita psichica la ragione e l’avvedutezza, l’Es invece le passioni sfrenate” (pp. 481-482).

“Finora siamo stati colpiti dai molti meriti e dalle facoltà dell’Io, ma è tempo di guardare anche al rovescio della medaglia. L’Io, in fin dei conti, è soltanto una parte dell’Es, una parte opportunamente modificata dalla vicinanza del minaccioso mondo esterno. Sotto l’aspetto dinamico è debole, avendo preso a prestito le sue energie dall’Es, e non ci sfuggono i metodi – i ‘trucchi’, si potrebbe dire – con i quali sottrae all’Es ulteriori importi di energia”.

“Insomma, l’Io deve eseguire le intenzioni dell’Es, e assolve il suo compito andando alla ricerca delle circostanze che gli permettono di meglio eseguire tali intenzioni. Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia per la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là dove questo ha scelto di andare” (p. 482).

“Un proverbio ammonisce di non servire contemporaneamente due padroni. Il povero Io ha la vita ancora più dura: serve tre padroni, severi, e si dà da fare per mettere d’accordo le loro esigenze piene di pretese. Queste sono sempre divergenti e spesso sembrano essere inconciliabili; nessuna meraviglia se l’Io fallisce tanto spesso nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il Super-io e l’Es. se si seguono gli sforzi cui è costretto l’Io per soddisfarli contemporaneamente o, per meglio dire, per ubbidire loro contemporaneamente, non ci parrà fuori posto di avere personificato questo Io, di averlo presentato come un ente a sé stante. Il poveretto si sente stretto da tre parti, minacciato da tre specie di pericoli, ai quali reagisce, in caso estremo, sviluppando angoscia. L’Io, data la sua origine dalle esperienze del sistema percettivo, è destinato a rappresentare le richieste del mondo esterno, ma vuole anche essere il fedele servitore dell’Es, rimanere con lui in buona armonia, raccomandarglisi quale oggetto e attirarne su di sé la libido. Nel suo sforzo di fare da intermediario fra l’Es e la realtà, è spesso costretto a rivestire i comandi inconsci dell’Es con le proprie razionalizzazioni preconsce, a occultare i conflitti dell’Es con la realtà, a far credere, con diplomatica insincerità, di aver preso in considerazione la realtà anche quando l’Es è rimasto rigido e inflessibile. Dall’altro canto, viene osservato passo per passo dal severo Super-io, che esige determinate norme di comportamento, senza tener conto delle difficoltà provenienti dall’Es e dal mondo esterno, e lo punisce, in caso di inadempienza, con i sentimenti spasmodici dell’inferiorità e del senso di colpa. Spinto così dall’Es, stretto dal Super-io, respinto dalla realtà, l’Io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere l’esclamazione: “La vita non è facile!”. Se deve ammettere le sue debolezze, l’Io prorompe in angoscia: angoscia reale dinanzi al mondo esterno, angoscia morale dinanzi al Super-io, angoscia nevrotica dinanzi alla forza delle passioni dell’Es” (p. 483).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo:

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16. Da: R. Guardini, Persona e libertà, Brescia, La Scuola

“Il problema della formazione è intrecciato con il più profondo contesto religioso, filosofico, psicologico e della Weltaschauung. Ma su questi temi domina una confusione di vedute, a prima vista senza via d’uscita. Così quella volontà ‘critica’ si esprime nella tendenza a rinunciare, per ora, alle definizioni ultime e a rivolgere l’attenzione alle realtà ‘penultime’; a lasciare da parte le questioni filosofiche ed essenziali, e a limitarsi ad oggetti ed argomenti che hanno certamente attinenza con la pedagogia, ma possiedono tuttavia un peso specifico ed un’intensità problematica minori, attorno ai quali è più facilmente possibile un’intesa. È una tendenza, dunque, ad avvicinarsi generalmente, in qualche modo, a ciò che è autenticamente ‘pedagogia’; poiché ciò non è possibile fin nella dimensione ultima e definitiva, allora almeno in settori parziali e nella ‘penultima’ dimensione. Ma soprattutto, con la preoccupazione di realizzare un’autentica attività pedagogica, affinchè si metta in movimento il vivo creare e poi, di lì, diventino visibili i fenomeni più profondi” (52-53).

“Questa sollecitudine pedagogica è in radice autentica e necessaria. Sarebbe un errore, lasciarsi intimorire dalla sua posizione diffidente, spesso addirittura duramente rinnegatrice nei confronti delle autorità e delle convinzioni religiose. È caratteristico dell’attuale situazione storica il fatto che la tendenza a liberare da ogni incrostazione la pura identità del fatto pedagogico debba condurre soprattutto ad un confronto critico con l’ambito e la dimensione religiosa. Però, almeno nelle loro prime fasi, tali confronti non sembrano di per sé andare facilmente al di là della separazione o della contraddizione reciproca. È di gran lunga più importante discernere attentamente il loro proprio senso e significato. E quanto più facilmente riuscirà all’attività pedagogica di giungere al desiderato e puro contatto con la propria essenza, tanto più facilmente si potrà por mano alla seconda parte del compito che ci attende: ricomporre l’autonomia ‘assoluta’ in autonomia ‘relativa’, dal temporaneo isolamento arrivare finalmente all’ordinamento nella totalità, conforme all’essenza delle cose” (52-53).

“Ora, malgrado ogni comprensibile timore davanti alla posizione delle questioni ultime, queste non possono tuttavia venir in qualche modo eluse. L’attività pedagogica è un’attività orientata; porta in sé una meta ed un senso. Ma allora non si può dire: ‘Lasciamo correre per il momento la determinazione della meta, e mettiamoci nel frattempo d’accordo sul primo tratto di strada’. La meta è già prefigurata, in ciò che si chiama ‘strada’: fin nei suoi primi passi. L’indagine sulle ultime determinazioni essenziali deve collegarsi alla questione più immediata: allora entrambe s’illuminano e si chiariscono a vicenda” (53).

“Il nostro vivere risposa sulla forma del divenire. Ciò che dà vita e forma al mio sapere, io non lo sono a priori: lo divento nel corso del tempo. a dire il vero, in tale processo è presupposto qualcosa, che immediatamente sovrasta il puro divenire: vivendo, è in mio potere fissare, conservare in mio vivente possesso tutto ciò che qui, nel tempo, da me nasce, in me diviene, e da me viene conquistato. E, d’altra parte: ciò che io divengo, non mi è per nulla ‘estraneo’: una volta diventato in questo o quel modo, non posso proprio pensare tanto sensatamente di non esserlo diventato. Piuttosto, ciò che io divento è in qualche maniera già presente ‘in anticipo’ in me, cosicchè, quando lo realizzo, mi rendo conto: ‘sono diventato me stesso’” (54-55).

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“Divenendo, io voglio divenire me stesso. Sono consapevole che, se manco quest’obbiettivo, nessuna cosa al mondo potrà risarcirmene il danno. E tale consapevolezza può darmi la forza di gettar via tutto, per amore di quel ‘singolo’ che sono. Tuttavia, se sono interiormente desto ed abbastanza libero, devo ammettere: non posso diventar me stesso, se non mi apro con dedizione a ciò che non sono, alla realtà che mi sta di fronte. Vivere è sempre ‘vivere qualcosa’. Non c’è da nessuna parte un vivere ‘puro e semplice’. Posso realizzare me stesso, vivendo, soltanto se mi protendo al di là di me stesso verso ciò che non sono; verso l’ente che mi è davanti: le cose, le persone, le idee, le opere ed i compiti che mi attendono. Divengo me stesso, se accolgo quest’ente come oggetto, come contenuto del mio vivere e vivo per lui, in lui, di lui. In verità, solo in virtù del fatto che ne faccio il contenuto della mia vita, un qualsiasi ente può diventare per me reale ‘oggetto’, nel pieno senso della parola. Dunque, non se lo lascio consistere ‘obbiettivamente’ ma se lo ‘soggettivizzo’, lo accolgo cioè nello spazio della mia vita” (55).

“Noi abbiamo finora parlato di ‘vita’ in generale. Di fatto, già nel grado più basso della gerarchia degli esseri viventi c’è qualcosa di quella dialettica e del moto di divenire che ne deriva. Ogni essere vivente raggiunge la piena conformazione del proprio organismo solo gradualmente e in un certo arco di tempo. e proprio in questo modo: entrando in relazione con ciò che esso non è, vale a dire il suo ambiente. Tale processo vitale, definito da quella duplice polarità, è segnato da un carattere per principio diverso dai processi del mondo inorganico, dai fenomeni chimico-fisici. Il loro svolgersi segue una ferrea legge di necessità. L’effetto, una volta accertati i fattori causali in gioco, può essere infallibilmente calcolato. Anche nel caso dei processi più complessi, manca il fattore ‘creazione’; e, proprio per questo, anche il fattore di rischio. Al contrario, invece, esso è presente già nelle forme più semplici del divenire. Così il vivente è vulnerabile, passibile di distruzione. L’equilibrio di quella tensione può realizzarsi in modo errato; errato, se misurato sull’intima teleologia propria dell’essere vivente. Può ammalarsi, e morire. Questo pericolo si fa tanto più grande, quanto più si sale nella scala di valore degli esseri viventi: quanto più alto, tanto più vulnerabile” (56-57).

“Certo, ci sono anche qui degli elementi che offrono una certa garanzia: gli organi di orientamento, di selezione, di autodifesa, di adattamento e di equilibrio. I loro impulsi, capaci di regolarsi ‘da sé’, noi li chiamiamo ‘istinti’. L’elemento istintivo, sul piano degli organismi viventi, corrisponde all’univocità meccanica sul piano del mondo inorganico. Rappresenta una necessità di natura; qualcosa che avviene ‘da sé’. Tuttavia, anche in esso è presente il fattore della tensione in divenire, della produttività, e con ciò anche il momento della possibilità di distruzione. Ed inoltre: quanto più elevato è il vivente, tanto più complessa è la struttura istintuale; con ciò, tanto più limitata la sua garanzia. Distinguendosi dal mondo vegetale ed animale, il divenire umano acquista poi un carattere qualitativamente nuovo per il fatto di essere posto in mano alla libertà” (57).

“La libertà non è per niente un ‘problema’, bensì un dato di fatto. La consapevolezza di essere libero non è il risultato di una dimostrazione, ma immediato contenuto d’esperienza. A meno che una parte di ciò che la coscienza attesta come evidente venga censurato o interpretato in modo assurdo, non posso affermare di non essere libero. È soltanto nel momento, in cui mi chiedo in quale rapporto stia tale libertà con i condizionamenti, altrettanto indubbiamente presenti, che incomincia il problema vero e proprio” (57-58).

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“L’impulso all’autorealizzazione è determinato dalla libertà. Quel divenire, di cui s’è detto, è, in potenza, libero; lo deve diventare, secondo i compiti che si assumerà. Deve scaturire in maniera sempre più pura dall’iniziativa della scelta; e con trasparenza sempre maggiore esprimere l’essenza interiore. Esso è poi, anche fattualmente, caratterizzato dalla libertà. Non sempre, non in tutti i piani del suo attuarsi; ma nei momenti, e nella dimensione decisivi. E, nel complesso, in modo tale che la possibilità di realizzazione della libertà è sempre presente, e ne definisce l’autentica fisionomia” (58-59).

“Proprio così quel divenire corre un nuovo genere di rischio: scegliendo, posso anche decidere del mio essere in modo sbagliato. Addirittura, come caso limite, e sia pure perché accecato da un qualche abbaglio, posso volere la mia rovina. D’altra parte, quell’essere, nella schietta espressione del quale mi sento libero – è inequivocabilmente buono? La più acuta introspezione non mi suggerisce, forse, che esso porta in sé una frattura? Che dunque la libera autoespressione della propria essenza non equivale senz’altro alla giusta affermazione nel proprio vero essere; che essa piuttosto racchiude in sé la possibilità di errare; e perfino di determinare, a partire dall’intimità di sé più segreta, la propria autodistruzione?” (59).

“Nella libertà si desta il fenomeno opposto: l’esperienza di ciò che è invariabile ed irrevocabile. È innanzitutto ‘immutabilità’ quel contesto di significato della realtà che possiamo penetrare e capire: il regno della ‘necessità’ di natura. ‘Immutabilità’ è anche il dato di fatto, nella sua pura fattualità: del quale non è possibile rendersi conto perché debba essere, anziché no; e tuttavia, dal momento in cui si dà, esiste irrevocabilmente e produce delle conseguenze” (59-60).

“Solo la libertà fa esperienza di ciò che è immutabile. L’essere vivente privo di libertà esiste, semplicemente, e soddisfa i suoi bisogni. E solamente l’esperienza di ciò che è invariabile offre alla libertà piena coscienza del suo autentico senso. Tale consapevolezza può anche turbare la libertà; può mettere in dubbio la certezza di essere liberi. Allora, la libertà scivola nel sentimento vissuto d’una necessità, di un essere-imprigionato nella rete di un ‘destino’ necessario, in senso metafisico o naturale. Così può accadere che, appena la libertà si sciolga dal contesto degli istinti, e l’uomo abbia collocato se stesso in quel punto sospeso nel vuoto che si chiama autoappartenenza – proprio allora, quand’egli dovrebbe far appello a tutta la saldezza del suo cuore, per consistere sicuro, tale sua posizione venga scossa dall’esperienza dell’immutabilità” (60).

“Ora domandiamoci: che cosa dev’essere presupposto nella totalità dell’essere dell’uomo, perché sia possibile un simile rapporto? Una cosa, soprattutto, è evidente: la relazione caratterizzata da libertà e immutabilità non può essere una relazione ‘naturale’. Si distingue da tutto ciò che è ‘naturale’ come qualcosa d’essenzialmente diverso. È una relazione, che sorge dallo spirito” (60).

“La libertà presuppone un ‘punto di consistenza’, a partire dal quale la decisione della scelta – che ragionando nell’ordine della ‘natura’ è impossibile ed assurda – divenga possibile e sensata. Presuppone una dimensione interiore, dalla quale, sottratta al contesto naturale, una nuova legge essenziale possa operare nella sfera della natura. Ciò, che può appartenere in questo modo a se stesso, è lo spirito” (60).

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“Soltanto lo spirito può sperimentare la realtà di fatto dell’immutabilità in tutto il suo significato; non come pura e semplice negazione della libertà – il che equivarrebbe ad una sottomissione alla condizione di ‘natura’ con le sue leggi necessarie – bensì come il suo contropolo positivo; la può accettare e su di essa appoggiarsi. Così, quel divenire di cui trattiamo è un divenire che ha per suo fattore portante lo spirito. da esso, in ultimo, scaturisce l’impulso della formazione e ne è definito” (60-61).

“Quanto il fattore spirituale proietti l’impulso del divenire e della formazione ben oltre ogni ovvia ed automatica necessità naturale, diventa ben chiaro in quel punto dove, in certo qual modo, l’essere-spirito si realizza compiutamente: la persona” (61).

“La persona è spirito che possiede se stesso. Che possiede se stesso nella personale appartenenza della coscienza e della libertà; nella personale appartenenza della propria irripetibile identità. Persona è originalità unica. Proprio per questo s’avanza il problema, come possa la persona inserirsi e vivere in un certo contesto: in quello delle strutture o degli avvenimenti; nelle forme di aggregazione sociale; nei processi storici; nei rapporti di produzione” (61-62).

“In primo luogo: ‘formazione’ uguale ‘sapere’. Sapere ‘universale’, distinto da quello settoriale d’una specifica disciplina; orientato all’acquisizione di una visione d’insieme, a differenza del sapere specialistico rinchiuso entro determinati limiti; attraversato da giudizi di valore, anziché constatazione puramente teoretica; capace di dilatarsi fino a divenire giudizio e creazione estetica… Tutto ciò, sicuramente – ma purtuttavia sapere. ‘Istituzioni formative’ e ‘strumenti di formazione’ sono i luoghi, dove il sapere viene insegnato ed i mezzi, di cui s’avvale l’insegnamento. Alla base, troviamo una concezione secondo la quale il conoscere è l’attività più nobile e specificamente umana. La convinzione, inoltre, che conoscere la realtà significhi esserne partecipi; che sapere cos’è importante e degno sia contemporaneamente possedere tale valore. E infine, che conoscere ciò che è giusto implichi di conseguenza l’agire rettamente” (65).

“Una prima critica a tale concezione proviene dal fatto che il sapere non porta in primo luogo e necessariamente con sé né un possedere né un fare. Anzi: al contrario, di fatto la sfera teoretica inclina ad isolarsi nel proprio perimetro particolare e ad abbandonare a se stessa la vita reale” (66).

“Di qui, allora (già con Socrate; nell’antica Stoa; con gli antiteoretici del Medioevo, come un Bernardo o un Tommaso da Kempis; nella filosofia dell’attività propria dell’idealismo tedesco; nel pietismo; con Nietzsche ed il pragmatismo) un concetto opposto: ‘formazione’ significa modellazione dell’agire, del volere, della disposizione interiore fondamentale; approfondimento, sviluppo e nobilitazione dell’animo; creazione del carattere. Il centro di gravità sta dunque nella dimensione etica – intesa in senso ampio. Educato è chi possiede un animo saldo, ricco di qualità, sensibile e sicuro, e sa agire eticamente” (66).

“Però: il valore morale, così nettamente appoggiato sul baricentro della questione, ha un effetto stranamente debilitante. L’accentuato predominio della dimensione morale individuale finisce per provocare l’atrofia della ricchezza umana e culturale” (66).

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“In opposizione alle due prime definizioni, ecco la terza: formazione equivale alla piena salute dell’essere dell’uomo; è la vigoria e la prestanza del suo organismo. Balzano in primo piano il valore biologico e quello estetico. Educato è l’essere umano nato senza malformazioni, ben allevato, le cui capacità naturali sono state ben sviluppate, vale a dire, l’esemplare-campione della specie ‘uomo’” (66-67).

“E anche tale concezione non va esente da critiche: appena diventa dominante, l’intero ambito della formazione si contrae nella sola dimensione estetica; nella sfera biologica soltanto, nella pura e semplice conformità alla specie, in fin dei conti, si tratta d’una riduzione naturalistica ad un livello in qualche modo infraumano” (67).

“L’obiezione di principio a queste tre definizioni, tuttavia, consiste nel rilievo che tutte e tre – e ce ne sono ancora altre: caratterizzate politicamente, economicamente, socialmente e così via – hanno un elemento in comune: manca loro la percezione dello ‘specifico’ pedagogico. Esse subordinano immediatamente il processo della formazione ad un unico ambito di valore – a quello della conoscenza, o a quello dell’eticità, o dell’immagine estetica e della conformità alla specie – senza che lo specifico valore pedagogico venga davvero evidenziato nella sua purezza” (67).

“[…] Ciò che stiamo cercando è nella prospettiva della ‘forma vivente’. Né la verità del conoscere, né la bontà etica; né una qualsiasi conformità o prestanza estetica o biologica sul metro della ‘specie’ umana sono l’elemento determinante. Lo è il fatto che l’uomo sia configurato secondo una forma vivente. Il fatto che egli riveli con tutto il proprio essere una forma vivente, e in verità quella ‘giusta’, che propriamente gli appartiene. È solo per il fatto che in essi è contenuto un ‘momento formale’ che quel sapere, quella modellazione etica, quella sanità e prestanza biologica possiedono il particolare carattere di formazione in essi presente” (68-69).

“La ‘forma vivente’ è un fenomeno fondamentale non più riducibile ad altri. È il dato di fatto che le determinazioni di un ente non coesistono in forma di unità astratta, ma in unità vivente ed aperta all’atto della visione. I singoli momenti nel tutto; possedendo in esso soltanto il loro senso proprio e compiuto. Il tutto nei particolari; davvero se stesso soltanto in essi. ‘Forma vivente’ è una unità costituita da una pluralità di elementi, un’unità che non può più essere frazionata in modo sensato. Per l’individuo, ‘forma vivente’ è il volto autentico, l’immagine integrale delle sue determinazioni essenziali. Vivente forma d’essere, in quanto rappresenta la struttura della sua concreta esistenza. Vivente forma di valore, in quanto esprime come quest’ente dev’essere, per essere pienamente se stesso e perciò conforme al proprio valore” (69).

“La ‘forma vivente’ presenta caratteri diversi lungo i diversi piani dell’essere” (70).

“Nel mondo materiale ed inorganico – per esempio in un atomo, o in un cristallo – si manifesta come rigido impulso. Il processo di realizzazione della forma visibile è la risultante univoca, stabilita con gli opportuni calcoli, delle cause chimico-meccaniche in azione” (70).

“Sul piano bio-psichico, dell’essere vivente, essa si presenta invece con un’altra caratteristica. L’essere vivente esiste in una viva tensione fra l’esterno e l’interno. Già nella struttura e nelle funzioni dell’organismo distinguiamo – relativamente –

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questi due poli. In senso assoluto ritroviamo tale differenza fra l’accadere fisico da una parte e il piano ‘psichico’ – la sensazione (rappresentazione) e l’impulso attivo (istinto, volontà) – dall’altra. L’atto vivente, cioè percezione e azione, ed il divenire vivente, cioè crescita, conservazione nell’essere e decadimento, si attuano in questa polarità: da fuori a dentro, da dentro a fuori. Sono determinati da uno speciale tipo di causalità, che vogliamo chiamare ‘l’iniziativa del vivente’: un impulso a strutturarsi, a conservarsi nell’essere, ad affermarsi e a produrre effetti, che appartiene all’individuo e scaturisce dal suo ‘intimo’. È tale iniziativa, che scaturisce dal proprio centro vitale, il fattore portante della realizzazione della forma vivente” (70).

“Il momento dell’iniziativa determina il salto qualitativo tra il mondo inorganico e quello degli esseri viventi. C’è un ulteriore confine qualitativo fra il piano propriamente umano della vita e la dimensione solo biopsichica degli altri esseri. La polarità esterno/interno compie un passo in avanti, e diventa polarità fra regno di natura e dimensione spirituale. Lo spirito in quanto tale trascende l’orizzonte della natura. In quanto persona, esso possiede se stesso nella coscienza, nella libertà e nell’azione. È per sé; può esistere presso di sé, e in sé; può anche uscire da sé, e a sé ritornare. In questo modo lo spirito è, rispetto alla natura, ‘intimo’ in un modo totalmente nuovo. Di conseguenza, possiede una nuova struttura d’azione che mostra una decisiva caratteristica d’iniziativa: è libero” (71).

“La forma vivente dell’uomo – che, certo, attraversa e consiste anche nella sfera della materia e della configurazione biologica e psichica, ordinata ad esse nelle corrispondenti forme di attuazione – trova il proprio ultimo fattore portante nell’iniziativa dello spirito: conoscenza, libertà e azione. Quest’iniziativa è creatrice. È decisione creatrice, in quanto l’azione libera ha dominio su di sé ed appartiene a se stessa. È espressione creatrice, in quanto lo spirito, dall’asse originale della sua trascendenza, entra nella consistenza d’essere della natura, le dà forma, ed in essa esprime la pienezza della propria essenza – a immagine e somiglianza di Dio” (71).

“Il fatto che lo spirito in quanto persona appartenga a se stesso dà alla forma vivente dell’uomo una caratteristica definitivamente particolare: l’originalità irripetibile, espressa nel nome. L’essenza dell’uomo è unica ed originale, come un sigillo. Può essere nominata, e riconosce il proprio nome soltanto, poiché dal momento della sua fondazione e creazione, ontologicamente cioè, riceve un nome ed è chiamata. Con quanto detto, entriamo nella dimensione religiosa. Lo spirito è creato come singolo, in quanto tale, riceve il suo nome, da Dio” (72).

“La riflessione su questi temi: quale sia in genere la forma vivente dell’uomo, quale quella propria dell’uomo d’oggi, e di questo gruppo, ed infine di questo singolo individuo, che ha da realizzarla in se stesso; come tale realizzazione si svolga; quali i suoi particolari fenomeni costitutivi; che cosa la promuova, cosa l’ostacoli; quali tecniche ne sostengano il processo – l’indagine metodica su tali argomenti è la pedagogia come scienza. Il ‘materiale’ della realizzazione della forma vivente è l’essere e la vita dell’uomo, con tutte le loro energie, le cose, i fenomeni, le relazioni e così via” (74).

“Mi sembra che il concetto di ‘forma vivente’ rappresenti il tratto fondamentale della categoria di pensiero adeguata al fenomeno pedagogico. L’esperienza mostra però che subito s’avanza una contestazione” (74-75).

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“In primo luogo, si esprime una fondata preoccupazione: non appena il concetto di ‘forma vivente’ venga riconosciuto valido, cercherà di precisare il proprio contenuto. Sulla base delle civiltà del passato, o del gruppo sociale oggi preferito, esso proverà ad elaborare un canone non soltanto di ciò che la ‘forma vivente’ è in generale, ma anche di qual è quella ‘giusta’, e così vincolerà rigidamente il divenire ed il creare pedagogici. La storia dell’ideale umanistico di formazione, per esempio, mostra quanto sia giustificato questo timore” (75).

“Dietro tale preoccupazione, tuttavia, c’è una critica ancor più profonda. Prende le mosse da un certo sentimento della vita, per il quale, a dire il vero, non esiste affatto alcuna ‘forma vivente’. Nessuna ‘idea’, nessuna norma a priori dell’essere concreto. Ciò che esiste, sono le cose concrete, nella loro originalità. Forme ed immagini ed idee sono sempre solo astrazioni, cioè a posteriori. Non c’è affatto alcuna configurazione essenziale in sé compiuta dell’uomo, e di quest’uomo in particolare. E con ciò neppure un qualsiasi contenuto del divenire umano, dato per così dire ‘in partenza’. Quello che esiste, è soltanto l’uomo in divenire, e lo spazio della realtà affollato delle sue cose” (75).

“Ecco dunque spiegata la modalità universale, nella quale ciò che è diviene e consiste; in cui un fenomeno si attua: come forgiatura della pienezza per mezzo della forma; come espressione della forma nella pienezza. La conformazione concreta, il concreto accadere sono il risultato della vicendevole determinazione di questi due principi” (76).

“A tale concezione del mondo, un’altra si oppone. Per essa, non ci sono affatto principi universali, nell’incontro dei quali venga alla luce il ‘concreto’. L’unica cosa che c’è, sono le realtà concrete medesime: cose, individui, persone. Dato è il singolo essere con le sue energie. Qui: Dato è l’uomo, capace d’azione, ed il mondo delle cose. Non l’ ‘uomo’, in senso tipico o universale, bensì questo, e questo, e quest’altro. Quest’uomo è così com’è, s’è fatto da sé; è espressione di sé. Possiede un’energia originale, e potere d’iniziativa; cioè: la capacità di costruire se stesso dalla propria sorgente, vivendo; la capacità di creare ed agire in virtù della forza che da sé si sprigiona. Tale concetto si compie in quello di ‘persona’, la quale viene considerata in una prospettiva totalmente dinamica: la persona consiste nell’adempimento morale della propria esistenza “ (76-77).

“Dunque, nel fatto che io riconosca questo mio esistere, e ne porti la responsabilità. Farsi carico della propria esistenza: ecco cos’è la ‘persona’. E, a seconda dell’energia e della purezza di tale assunzione, cresce o diminuisce il valore della personalità. Questo son io; io vivo della mia iniziativa, così avanzo nella vita, mi imbatto in altri uomini, che anch’essi d’altra parte si sono costruiti da sé, e vivono della loro propria azione; mi imbatto nelle cose, che concretamente esistono, essendo così come sono. Così avviene l’incontro” (77).

“Intorno a me si raccoglie un complesso di realtà e cose che mi riguardano: la situazione. Anch’essa, nulla di dato in partenza. Consiste in se stessa. S’attesta continuamente nuova. Nessuna mai uguale all’altra. Poiché esisto ed avanzo nella vita di mia iniziativa, la situazione mi circonda ogni volta come limite; urge alla lotta, al contrasto aperto con l’iniziativa degli altri esseri viventi. Poiché sono persona, la situazione si rivolge a me esigendo ch’io la soddisfi eticamente; che io assuma in essa piena responsabilità di me stesso; ch’io decida, ed agisca di

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conseguenza. Io, per quello che sono, devo cogliere quest’unica occasione, com’essa lievita da sé; penetrarla; ricevere ciò che mi offre, adempierla e superarla” (77-78).

“In tale accadere qualcosa si realizza. Nell’imbattersi con la circostanza irripetibile, sprizza da me ciò che soltanto qui può venire a galla. Divengo io, nell’irripetibile mia decisione. In essa si compie un destino. La persona, questa persona consiste totalmente nell’atto di adempiere e superare ogni incontro, in maniera responsabile e creatrice. Poi l’attimo trascorre, e ne avanza uno nuovo. Questo è tutto” (78).

“Qui non esiste per nulla ‘forma vivente’. La ‘forma vivente’ palpita nella totalità, presente, aperta all’uomo proteso alla visione; palpita, nella compiutezza che possiede il suo proprio volto. Per il sentimento del mondo appena descritto, invece, ci sono solo esseri isolati, che stanno con la loro iniziativa vitale in situazioni uniche; in esse compiono azioni irripetibili, creazioni assolutamente singolari, e con ciò definiscono se stessi: così, qui, ora. Ecco la nota dominante di questo sentimento del mondo” (78).

“La consequenzialità, con cui ogni struttura vivente per compiersi tende ad espandersi nella realtà che la circonda – nella quale, invero, sempre essa trova anche la propria rovina – imprime su tale atteggiamento un carattere tragico: L’essere non è soltanto singolare, ma anche incompiuto. Nell’affermazione che sia incompiuto si manifesta la preoccupazione che nessuna falsa o presunta totalità, nessun vincolo di partenza emerga e condizioni; e insieme, la rinuncia a tutto ciò che è tale. L’esistenza è assolutamente frammentaria. Non ha epilogo in alcun luogo. E proprio ciò viene sperimentato come l’assolutamente splendido ed affascinante, come divino; come libertà. Come l’orizzonte sempre spalancato ad un nuovo inizio; rischio; pura iniziativa. Fatica e libertà insieme” (78-79).

“È un sentimento dell’esistenza marcatamente finito. Non conosce alcun immediato rapporto di somiglianza con l’Assoluto. È qualcosa di totalmente relativo; in un certo senso di fortuito. Al vissuto di fondo d’un tale atteggiamento appartiene l’esperienza del limite. In questo vedere-il-limite, volere-il-limite c’è una strana e singolare passione. Un ardore, che si lega con un intenso stato d’animo di schiettezza ed insieme d’orgoglio, persino di arroganza, assolutamente profondo: l’orgoglio dell’esser-creatura. Il finito è l’unico dato. L’Assoluto è incommensurabile. Nessuna via, neppur quella dell’analogia conduce da lui, al di là dell’esistenza. C’è solo il paradossale momento del limite, con la sua enigmatica duplicità, nella quale in ‘no’ contiene insieme in qualche modo un ‘sì’, senza che tuttavia il suo contenuto possa essere espresso. E però, proprio così vuol esser tutelato l’Assoluto, nel suo essere più profondo e più originale d’ogni cosa. Ai margini delle figure; lungo il profilo degli avvenimenti; sul ciglio del destino – lì sta ‘l’Altro’” (79-80).

“Il compimento, qui, non esiste. La sua nostalgia, sì. Ma non trova soddisfazione alcuna nell’esistenza sulla terra. È soltanto speranza, che però non determina in nulla, nel suo contenuto, l’agire umano. È escatologica” (80).

“Di qui, non c’è in genere formazione alcuna. Da una tale posizione ci si può attendere una cosa sola; l’educazione dell’uomo all’incondizionata accettazione della propria finitezza. L’educazione, ad assumersi l’esistenza nel suo carattere frammentario, casuale, incompiuto. L’educazione alla realtà, nel senso tragico della

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parola. L’educazione all’impresa virile di aprirsi a forza la strada nella vita; al rischio; all’appuntamento con l’istante; al suo adempimento e superamento. Fine dell’educazione è mettersi alla prova, e riuscire” (80).

“Entrambe le determinazioni della categoria pedagogica – forma vivente e formazione da una parte; incontro e verifica dall’altra – hanno per fattori di volta in volta portanti le fondamentali strutture umane dell’essere e della visione del mondo” (80).

“Inoltre, esse stanno in un preciso rapporto vicendevole: un rapporto dialettico. Ciascuna costituisce la vivente critica dell’altra, contiene le sue possibilità di rischio. Ciascuna offre base e fondamento all’altra. Ciò significa: di certo, dal punto di vista qualitativo hanno un’autonoma fisionomia, ma non sono indipendenti fra loro. Piuttosto, entrambe fanno riferimento ad una più profonda unità, la quale propriamente non può più essere colta direttamente, bensì soltanto ‘dialetticamente’, cioè attraverso la vicendevole e contemporanea opposizione delle due strutture” (80-81).

“Grazie alla seconda – la chiamiamo definizione dinamistica dell’elemento pedagogico – viene smascherato il rischio insito nel concetto di ‘forma vivente’: quello di tendere a cristallizzarsi, e a paralizzare il movimento. Esso infatti inclina ad elaborare una forma conenutisticamente ben definita, un vero e proprio canone, e con ciò debilita l’iniziativa ed ostacola il divenire del nuovo. Il pericolo sta nel fatto che tale atteggiamento è propenso ad equiparare l’universale-tipico con il valore, e così a screditare il reale, la singolarità concreta ed irripetibile: a svalutare la cosa rispetto al concetto; l’individuo a favore del tipo umano; la persona, nei confronti dell’idea; l’azione, rispetto al processo in cui si trova inserita, e via di seguito” (81).

“Così, il reale diventa facilmente un puro supporto per le più diverse immagini. Più oltre, tale concezione inclina a creare ‘immagini effimere’, ‘totalità d’apparenza’. A celare l’elemento di incompiutezza e frammentarietà, di cui pure consiste un’esistenza onesta e leale. A semplificare, a stilizzare la vita, ad eliminare i frammenti d’incompiutezza e le questioni insolubili, e così a demolire la grandezza del vivere. Essa rischia di diluire la densità del fatto storico nella dimensione ‘di serie’ dei processi universali, di risolvere le azioni umane in attività puramente funzionali ad una qualche struttura più o meno necessaria; di ridurre le decisioni a pure risultanti di forze. Tende a cancellare la finitezza, la precarietà; a fare della somiglianza con l’Assoluto una realtà assoluta; ad eguagliare a Dio idee e valori. Il rischio più alto della ‘volontà della forma’ è di diventare ‘allevamento dell’essere perfetto’; dell’ ‘uomo totalmente bello’, del ‘divo’; è l’hybris del semidio” (81).

“Al contrario, l’atteggiamento spirituale attualista o esistenzialista centrifuga l’esistenza; la disintegra. È incapace di vedere e di creare continuità alcuna: del mondo nella sua totalità; della società; della storia; dell’opera umana; della tradizione. L’aver creduto che ogni possibile nesso stia solo nella ‘speranza’, nell’ ‘Altro’, gli fa mancare il ‘momento di continuità’ proprio dell’essere e dell’agire. Questa posizione conosce solamente incontri, azioni, istanti isolati e solitari. Finisce per andar perduta perfino la dimensione di continuità, costitutiva della persona; purtuttavia essa traluce ancor sempre, ma solo improvvisamente, nell’attimo della decisione. È un atteggiamento privo di senso estetico. L’armonia svanisce. Facilmente, se ne va anche la bellezza. Balza in primo piano una strana e singolare

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disumanità; un che di inumano. È l’accanirsi ed ostinarsi nell’incompiutezza e nell’indigenza. Il pericolo del tragicismo incombe. E con esso, un’esaltazione dell’esistenza in una nuova forma di assolutezza. Un’assolutizzazione etica del mondo e della capacità umana di ‘fare il mondo’. E, infine, ecco l’ultima tentazione e superbia possibili all’uomo: il titanismo della finitezza” (82).

“Entrambi i momenti vivono d’una vicendevole relazione dialettica. L’uno permette di evidenziare chiaramente i limiti e le possibilità distruttive dell’altro. Possiedono un’energia realmente educatrice soltanto quando uno dei due è presente nella concreta personalità che educa e nella concreta relazione pedagogica; e se dell’altro è presente almeno la misura minima necessaria perché si possa dare una realtà vivente” (82).

“Lo specifico ‘elemento’ pedagogico consiste nel punto dialettico di intersezione di quelle due strutture di determinazione. Non può più essere colto con un concetto univoco, ma soltanto visto ed intuito attraverso il vicendevole accostamento e la tensione polare fra i due concetti” (83).

“L’elemento propriamente pedagogico, in primo luogo, racchiude in sé un carattere di stabilità: qualcosa di strutturale e di formale, dato in partenza. Tale, da garantire l’identità dell’essere; l’unità della sua configurazione e sviluppo; da offrire l’opportunità che l’uomo in divenire, attraverso questo stesso movimento e la pluralità delle sue fasi – nella multiformità dei fattori del proprio essere, così come nella pluralità delle sue determinazioni – che egli, attraversando una siffatta molteplicità possieda se stesso e sempre di nuovo si riconosca tale” (83).

“D’altra parte, l’elemento pedagogico in senso specifico contiene qualcosa di dinamico; una libertà piena d’iniziativa; uno spazio aperto al divenire; una dinamicità viva e sincera; la possibilità dell’imprevedibile” (83).

“Tutti e due i momenti – e in vicendevole tensione, tutte le altre determinazioni polari che ancora risultino da quanto fin qui suggerito – non possono più essere concepiti mediante un concetto univoco. La loro unità è tuttavia dialetticamente intesa, ed aperta in modo vivente all’atto della visione” (83).

“Davanti alla formulazione dello ‘specifico’ pedagogico, così come si delinea dalla dialettica fra i due momenti fondamentali appena elaborati, si para una nuova obiezione critica. […] La si può riassumere nella tesi secondo la quale quella disposizione ed atteggiamento pedagogico di cui abbiam detto sarebbe una posizione soggettivistica. Essa porrebbe l’individuo al centro della questione; meriterebbe dunque l’appellativo di ‘egocentrica’ e non dovrebbe essere affatto considerata seria. Contro la posizione da noi delineata, viene dunque chiamata in causa una dimensione che, in quanto fin qui elaborato, non è stata riconosciuta e valorizzata, per lo meno non ancora in tutta la sua rilevanza: l’oggetto, ovvero la dimensione dell’oggettività” (83-84).

“In sé il momento dell’oggettività è già presente in ciò, che chiamavamo il ‘materiale’ della realizzazione della forma vivente. In questo senso la sollecitudine pedagogica consisterebbe nel ricercare gli oggetti giusti ed adeguati, nei quali la forma può compiersi; ciò che – con le parole di Goethe – ‘ci appartiene’. Analogamente, farebbe parte della ‘tecnica’ dell’incontro con la realtà l’incontrare

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rettamente le cose: assumere la giusta posizione umana; evitare, o più precisamente scrollarsi di dosso quella menzognera” (84).

“Ciò che conta è dunque formulare il concetto di ‘oggetto’ in tutta la sua nitidezza e libertà. ‘Oggetto’ non intende qui, allora, il materiale per l’autocostruzione del vivente individuo nella sua crescita organica. L’oggetto ha, piuttosto, consistenza in se stesso. Il suo valore è oggettivo. Esso merita di esistere in virtù del proprio significato, che riposa in se stesso. E si rivolge all’uomo, affinchè questi lo riconosca; gli si apra con dedizione; e si impegni, perché l’oggetto sia, e sia così come di per sé esige d’essere. Qui, educazione significa guida al giusto rapporto con gli oggetti” (84-85).

“ ‘Oggetti’ sono le idee, le norme ed i valori, che hanno validità in se stessi, in nome della propria dignità, non perché abbiano per me una qualche importanza. ‘Oggetti’ sono le realtà concrete; cose, avvenimenti, relazioni, tutto ciò che esiste ed accade, così come in sé è e diviene. Perciò: il mondo materiale. L’essere vivente nella molteplicità delle sue forme. Gli uomini; ciascuno nella sua propria fisionomia, nella sua personale evoluzione e nella particolare teleologia del suo vivere. La storia. L’intero campo delle creazioni realizzate, tramandate, perfezionate dall’uomo: la civiltà. Inoltre, le relazioni personali; il ‘tu’; il ‘noi’, in tutte le sue forme; le totalità sopraindividuali. A questa sfera appartengono le realtà religiose; in special modo il Dio che nella Rivelazione mi è venuto incontro… Tutto ciò visto nella sua propria peculiarità; nella sua propria iniziativa; nella sua particolare teleologia, che possiede in se stessa il proprio centro e fa sì che l’oggetto non esista per amor mio, ma in sé e per sé” (85).

“Ecco il fondamento della pedagogia dell’ ‘oggetto’. Essa significa educazione, a lasciare che l’oggetto si presenti da sé al nostro sguardo; a riconoscerlo; a comprendere le sue esigenze; a obbedirgli in misura della legittimità di queste ultime. Significa dunque l’opposto della pedagogia centrata sulla ‘soggettività’ delle discussioni d’una volta” (86).

“Possiamo articolare tale adesione o corrispondenza all’oggetto secondo le due prospettive complementari dell’accettazione e del servizio. Accettazione significa l’inscrizione dell’oggetto nel proprio mondo. Ma, fatto qui decisivo, con oggettività. Dunque, in maniera che la mia disposizione personale, tutto intero l’atteggiamento interiore faccia spazio all’oggetto così com’è. Non pretenda che debba essere altrimenti o in un qualsiasi altro modo, bensì gli permetta di farsi avanti di sua propria iniziativa. E lo accolga così, riconoscendolo, apprezzandolo, possedendolo, assimilandolo. Tale rapporto diviene servizio, quando non si tratta di accettare o di accogliere, ma di darsi da fare per ciò che viene richiesto dall’oggetto. La pedagogia del servizio muove dalla convinzione: È in sé bene che le cose esistano, che i valori siano realizzati, che le opere dell’uomo vengano intraprese e permangano nel tempo. è bene, che quanto l’uomo crea sia duraturo, venga conservato e rivissuto” (86-87).

“Di qui scaturisce un atteggiamento ricco di limpidezza di sguardo, di giustizia e di obiettività nei confronti delle necessità della vita, individuale come associata. Un forte senso di ciò che esiste, l’ente ed i suoi diritti; a differenza della sfera dell’ ‘emozione’ dell’istante vissuto. Una gioia per la libera pienezza della realtà, che da sé sgorga incessantemente più copiosa. Un ethos segnato da giustizia e letizia verso le cose e la realtà; dal senso del dovere; dal gusto del lavoro. Un ethos consapevole

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del compito proprio dell’ora: la creazione di un’opera, così com’è giusto che sia: servizio all’oggettività delle cose. Un ethos di profonda sensibilità nei confronti della situazione storica; della situazione sociale; della situazione spirituale. L’ethos che sa conservare, perché si sa impegnato verso ciò che esiste. L’espressione sintetica per tutto quanto è stato detto è il concetto di ‘compito’, inteso come la quintessenza di tutte le esigenze presenti nelle datità oggettive e rivolte a me perché le adempia” (87).

“La pedagogia dell’oggettività ha dei limiti. Possono essere indicati nelle seguenti questioni: Se è vero che il suo ethos fondamentale consiste nella lealtà e schiettezza, con cui accetto l’oggetto; nel vigore e nella risolutezza con cui abbandono me stesso e ‘passo dalla sua parte’; nella rinuncia a me stesso, con cui mi dispongo a servire l’oggetto – c’è poi nell’oggettività un ordine, che mi garantisce che, facendo così, io non mi perda altrimenti nel caos? E quand’anche ci sia propriamente un ordine nella totalità del mondo degli oggetti – esso c’è poi anche nei frammenti d’essere che mi vengono incontro? Non si tratterà di un caso puramente relativo o fortuito? E anche se negli oggetti c’è un tale ordine – c’è poi una garanzia, che esso corrisponda alla conformazione ontologica del mio essere?” (89).

“In altri termini: incombe il pericolo di smarrire la propria identità nell’oggetto. Di essere fuorviati, e perfino rovinati dagli oggetti accolti in noi e dal loro proprio dinamismo. Di essere strappati via dal proprio ordine essenziale a causa del peso delle cose; di essere rapiti dal proprio centro personale. C’è il pericolo, che il nostro nucleo più intimo venga trascinato di qua e di là in un caos di contenuti impossibili da ricomporre in unità. Oggi questa minaccia è fin troppo spesso diventata realtà. Qui diventa allora manifesto, che il primo insieme di elementi sopra elaborato costituisce il contropolo dialettico della cosiddetta ‘pedagogia dell’oggettività’” (89).

“I punti di vista fin qui analizzati hanno di volta in volta una loro struttura e base portante. Esprimono tre possibili configurazioni dell’evento, del fenomeno pedagogico. Nessuna è di per sé possibile da sola. Isolatamente presa, ciascuna conduce all’impossibilità vivente del caso-limite. Ciascuna esige il vivo controgioco delle altre. Tuttavia è lasciato alla libertà il compito di decidere dove fissare il baricentro della questione. (Per il singolo individuo. Ciò nonostante, mi sembra, di regola, che esista un certo ordine di fondo. Corrisponderebbe, a nostro giudizio, a quello esposto e sviluppato in questo studio). Che io lo ponga nel concetto di forma vivente; o in quello del divenire; oppure ancora in quello di servizio – qui cade un’opzione. Conseguentemente, sarà diversa l’architettura ultima del mio essere, e del mio mondo” (91).

“È mio preciso dovere, sapere cosa faccio di me stesso. Tuttavia, devo sempre coinvolgere nell’opzione particolare i restanti due momenti con la loro dialettica, poiché solo così viene conservata e garantita la totalità della vita reale. Qui siamo in presenza di decisioni che determinano la vita intera. E anche di decisioni che la riguardano per periodi brevi, e forse addirittura solo in determinate circostanze” (91-92).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo di Guardini:

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17. Da: S. Isaacs, Lo sviluppo sociale del bambino, Firenze, La Nuova Italia – Lo sviluppo intellettuale del bambino, Firenze, La Nuova Italia

“Secondo la mia opinione, la scuola costituisce soltanto un aiuto agli sforzi infantili per comprendere il mondo reale e adattarvisi. Dovrebbe essere un rifugio per il bambino; ma non nel senso di precludergli l'esperienza di un mondo più vasto; il suo compito è di offrirgli il mondo nella misura e nei modi determinati dalle sue necessità e dai suoi interessi: la scuola, l'insegnante e l'insegnamento sono soltanto un mezzo chiarificatore, attraverso il quale i fatti della vita umana e il mondo fisico vengono portati all'altezza della mente infantile negli stadi successivi dello sviluppo e della comprensione” (Isaacs, 1961, p. 29).

“Secondo me, la scuola ha due tipi di funzioni: a) provvedere allo sviluppo delle capacità fisiche e sociali e dei mezzi di espressione del bambino; b) aprirgli i fatti del mondo esterno (il vero mondo esterno, cioè non le 'materie' scolastiche) in modo tale che egli possa afferrarli e comprenderli. Riguardo al primo scopo sono tutti d'accordo; il secondo è un po' più nuovo.

“Non è la prima volta, naturalmente, che ciò viene proposto. Questa idea è da molto tempo associata al nome ed all'opera di John Dewey (...). Da molto tempo conosciamo il desiderio infantile di toccare e prendere in mano, di fare a pezzi le cose per 'vedere come sono fatte dentro', di fare domande; ma non ci siamo mai fatti un'idea chiara di tutto ciò, in riferimento all'indirizzo da seguire nel nostro lavoro, ed a ciò che la scuola nel suo complesso dovrebbe essere e fare. Ci siamo accontentati di applicare la nostra nuova conoscenza psicologica di come il bambino impara, alle varie maniere di fargli apprendere le vecchie cose. Non l'abbiamo usata per conoscere meglio che cosa egli abbia bisogno di apprendere, nè quali esperienze la scuola dovrebbe offrirgli. Nel complesso la scuola è rimasta un luogo chiuso, uno schermo fra il bambino e il suo vivo interesse” (Isaacs, 1961, pp. 27-28).

[La Montessori] “ha scorto, almeno per certi aspetti, che il bambino piccolo è un essere umano, ed è pronto ad assimilare l'esperienza umana reale ove questa venga dosata secondo le sue esigenze e capacità. Disgraziatamente, però, ella ha dedicato la sua genialità a creare una tecnica per i ristretti fini dell'insegnamento delle materie scolastiche. Per gli esercizi della vita pratica la sua umanità è passata oltre le convenzioni della scuola; ma anche qui, più ai fini delle necessità pratiche che a quelli della conoscenza. Questi suoi esercizi pratici sembrano appartenere piuttosto al campo della morale che a quello dell'intelligenza” (Isaacs, 1961, p. 28).

“In primo luogo non si trattava di una 'scuola psicoanalitica' come talvolta è stato detto. Non so bene che cosa possa essere una 'scuola psicoanalitica', né suppongo lo sapessero coloro i quali così l'hanno definita.

“Il fondamento di questo concetto che certuni avevano risiedeva principalmente nel fatto che era noto come io accettassi le teorie psicoanalitiche sulla nevrosi e facessi parte della Società Psicoanalitica Britannica. Questo tuttavia non influisce necessariamente sui miei sistemi educativi personali. Ero insegnante diplomata per bambini e studiosa delle teorie educative di Dewey assai prima di venire a conoscere nulla su Freud e non mi dedicai mai al lavoro didattico unicamente o principalmente come psicoanalista” (Isaacs, 1967, pp. 23-24).

“A questo proposito devo precisare che il riferimento fatto da Bertrand Russell, in 'The Scientific Outlook' alla mia scuola ed al mio libro The Intellectual

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Growth in Young Children è alquanto ingannevole. Dal punto di vista intellettuale, a mala pena la scuola poteva venir descritta come un’ ‘applicazione della teoria psicoanalitica all'educazione'. Si trattava piuttosto di un'applicazione della filosofia educativa di John Dewey all'educazione dei bambini piccoli. Fu questa la mia attiva ispirazione” (Isaacs, 1967, p. 24n).

“Durante il primo, critico anno, il comportamento dei bambini attraversò fasi ben definite. Il primo fu un periodo di calma e sottomissione, dovuto, in parte, alla novità dell'ambiente e delle persone, e, in parte, per lo meno per quanto riguardava i bambini difficili, alla previsione dello stesso genere di castigo al quale erano usi in casa. Questi bambini cominciarono poi a rendersi conto che gli abituali freni e gli abituali castighi erano stati tolti per una vasta zona dei loro desideri e dei loro impulsi. Scoprirono non solo di essere liberi di correre qua e là e di dedicarsi a qualsiasi occupazione piacesse loro, sia con oggetti materiali sia con la fantasia, ma anche che, al primo accenno di litigiosità, non venivano separati dagli altri, sgridati o sculacciati. Seguì uno scoppio di disordine e di turbolenza nel quale trovò sfogo lo spirito aggressivo di undici o dodici ragazzi robusti. Durante tutto questo periodo si ebbe una considerevole quantità di gioco costruttivo e vi furono molti felici momenti di cooperazione e contentezza, di spirito amichevole e affettuoso verso gli adulti. In certe ore tuttavia la maggioranza dei bambini si preoccupava soltanto di affermare il proprio dominio sugli altri, talvolta con l'aggressione diretta, provocata o meno, talvolta distruggendo le attività degli altri ed in aperta ostilità verso gli adulti presenti. Poi pian piano, con occasionali riprese di semplice disordine selvaggio, il gruppo cominciò a prendere una forma sociale ben definita e il comportamento di certi bambini mutò in maniera notevole finchè, alla fine dell'anno, qualsiasi tipica giornata era occupata da un'attività costante e libera, in un pieno e reciproco adattamento amichevole. I bambini manifestavano evidenti vivacità e gioia in tutte le loro attività e un grado d'inventività fuori del comune, abbinato ad un concreto apprezzamento delle realtà sociali” (Isaacs, 1967, pp. 27-28).

“Si dice a volte che lo studioso di psicologia infantile dovrebbe concepire la sua opera come quella di un antropologo in mezzo ad un popolo primitivo – dell’osservatore che non partecipa alla vita di coloro che studia. Il parallelo, però, tra le due situazioni non regge. L’antropologo in mezzo ai selvaggi, sempre che egli sia abile, può con qualche fortuna riuscire ad osservare senza esercitare alcun influsso sul corso degli eventi, poiché per coloro che agiscono dinnanzi a lui, egli costituisce uno stimolo minimo, che non turba il loro comportamento, e di fronte alla vita sociale adulta e fortemente organizzata, con tutto un mondo culturale suo proprio, la sua presenza non conta. Ma coi bambini, in circostanze ordinarie, l’adulto non costituisce uno stimolo minimo: i bambini sono psicologicamente orientati verso di lui in quanto adulto, il loro mondo dipende da lui, il suo minimo segno è denso di significato” (Isaacs, 1961, p. 13).

“L’ideale sarebbe ovviamente, che l’osservatore rimanesse affatto invisibile ai bambini e Gesell ha trovato degli ingegnosi accorgimenti per tale scopo. Si ricordi, tuttavia, che anche in tal caso i bambini osservati non sono completamente liberi dall’influenza degli adulti. Se gli adulti sono presenti, l’oggetto dell’osservazione sarà il bambino-in-rapporto-all’adulto; se questi è assente, il bambino sarà ancora profondamente influenzato nel suo comportamento dalle immagini dei genitori cristallizzatesi nella fantasia infantile, e dalla sua precedente esperienza con gli adulti” (Isaacs, 1961, p. 14).

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“(…) non ci si può mai eliminare completamente come fattore, per quanto si cerchi di mettersi nella posizione del puro osservatore e si interferisca il meno possibile con i bambini che osserviamo. Ma là dove le due funzioni di educatore ed osservatore si assommano, e soprattutto se, oltre che psicologi, si è genitori dei bambini in questione, le documentazioni dovranno essere accettate con molta cautela, per la diretta, anche se involontaria, influenza sul comportamento dei bambini” (S. Isaacs, 1961, p. 14).

“L’esame di alcune opere di studiosi di psicologia genetica rivela che molte supposte osservazioni psicologiche sono imbevute di influenze pedagogiche e di giudizi morali, e che, essendone inconsapevoli, i loro autori non possono tenerne conto nelle loro conclusioni. L’esempio più notevole è quello di Stern, uomo di larga fama e citato in tutto il mondo, il quale basa la sua psicologia genetica principalmente su osservazioni fatte sui suoi stessi figli, e in conseguenza di tali osservazioni si sente autorizzato a sostenere ben definite operazioni su problemi teorici di primaria importanza, come lo sviluppo emotivo dei bambini e la sessualità infantile. Un esame accurato delle osservazioni riportate mostra chiaramente che a questi bambini è stato imposto un modello affatto particolare di comportamento e di morale e che per regolare nel modo più efficace il loro comportamento si è costantemente fatto uso dell’approvazione e disapprovazione dei genitori” (Isaacs, 1961, p. 15).

“L’elaborazione di buone graduatorie valutative è cosa utile per molti versi; non soltanto fornirà norme per lo sviluppo individuale, con effetti di grande portata sui modelli e la tecnica pedagogica, ma suggerirà anche importanti interrelazioni di processi psicologici, mostrando quali aspetti dello sviluppo tendano a raggrupparsi e delineando il quadro mutevole delle relazioni reciproche in età successive (…). Ma non si potrà mai ammettere che queste graduatorie sostituiscano un esame diretto di tutto il comportamento concreto dei bambini. La scelta effettiva degli argomenti nella scala di valutazione è anch’essa un atto di giudizio qualitativo e l’analisi sistematica degli eventi reali dal punto di vista psicologico (non etico o pedagogico) è una premessa essenziale. Sarebbe affatto sterile sostituire un prematuro trattamento quantitativo allo studio particolareggiato e concreto degli eventi psicologici individuali e delle loro concrete interrelazioni” (Isaacs, 1961, pp. 8-9).

“1) Una diminuzione complessiva del grado di inibizione degli impulsi dei bambini. Ciò ha portato: a) ad una diminuzione qualitativa di repressioni in un vasto campo del comportamento, cioè in quello dell’espressione verbale. Considerazioni pratiche ponevano un limite definito a ciò che ai bambini era consentito di fare, ma era loro concessa maggiore libertà di quanto comunemente avvenga, di esprimere i loro sentimenti e le loro idee verbalmente; b) un certo grado di liberazione degli impulsi specifici che di solito vengono repressi e trasformati all’origine – come certi impulsi intellettuali, e certi aspetti della sessualità infantile; c) una maggiore vivacità drammatica (…) della loro vita sociale, immaginativa e intellettuale.

“2) Le cose fornite per loro uso e l’accuratezza (…) con cui rispondevamo ai loro vari impulsi, portarono i bambini ad essere molto più attivi generalmente di quanto possano esserlo in condizioni ordinarie. Questa maggiore attività in tutti i sensi, originata, sviluppata e sostenuta dai bambini stessi, costituiva una parte ben precisa del nostro scopo educativo. E non soltanto portava i bambini a mostrarci quanto di più riposto v’era nelle loro menti con molta minor riserva e timore di

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quanto avvenga normalmente, ma mediante l’esperienza più ricca, più varia e più immediata del mondo fisico e sociale che veniva loro presentato, essa ne stimolava e differenziava le effettive reazioni. In altre parole, avevamo più da osservare e potevamo farlo più agevolmente” (Isaacs, 1961, pp. 16-17).

“La prima e più ovvia (anche se spesso dimenticata) di queste regole è che gli oggetti che regaliamo ai bambini debbono essere scelti per soddisfare delle loro esigenze, e non per dare loro un momentaneo divertimento. Devono essere adatti all’interesse ed al piacere che il bambino può provare in quella particolare fase del suo sviluppo” (Isaacs, 1995, p. 105).

“(…) un gruppetto di bambini giocherà per lunghi periodi: arrampicandosi su è giù, allungando le braccia e tenendosi anche per le gambe (il che è sempre un’ottima cosa). Così potranno fare degli esercizi ginnici e nello stesso tempo divertirsi (…), fare giochi di fantasia” (Isaacs, 1995, p. 105). Se fatte in comune da più bambini, queste attività permettono loro “(…) di stare insieme ai loro coetanei e di godere della reciproca compagnia” (Isaacs, 1995, p. 105).

“(…) un mucchio di sabbia, in un angolo al sole, rappresenta per loro [i bambini] una vera esigenza”; ed aggiunge, con espressioni spontanee molto più aderenti alla realtà di quanto non siano certe “dotte” descrizioni di usi didattici, che “(…) se i bambini avranno a disposizione secchielli e palette di plastica (…) e abiti che non si rovinano, o se ne staranno addirittura nudi, si sentiranno in paradiso per diverse ore durante una giornata di sole. Vecchie bottiglie e turaccioli, e un lungo tubo di gomma, potranno dare luogo ad esperimenti molto interessanti” (Isaacs, 1995, p. 107). Per non parlare poi della carta, “una delle migliori amiche del bambino” (Isaacs, 1995, p. 107), per costruire pupazzi e casette, vestiti, impiegando all’occorrenza anche cartone e giornali, per incollare, disegnare, ritagliare.

canovacci, stoffe leggere ecc. “(…) da poter essere trasformati in borse, camiciotti, grambiuli, tendine, soprabiti (…). Se ai bambini viene permesso di usare, per vestirsi, le cose che si sono fabbricate da soli, molto presto (a quattro o cinque anni), riusciranno a fare grembiuli, casacche, soprabiti, sacchi, tendine, sciarpe, fazzoletti e completi per la notte, che terranno sempre addosso e che piaceranno a loro, anche se le cuciture sono fatte approssimativamente” (Isaacs, 1995, p. 108).

materiali formativi necessari “per imparare a conoscere le forme e le misure geometriche e per imparare a contare” (Isaacs, 1995, p. 110). Tra questi, i primi ad essere citati erano, significativamente, “cubi di diverse grandezze, ad esempio la torre di dieci cubi oppure la serie di cilindri, anch’essi graduati per altezza e diametro in maniera proporzionalmente sempre più piccola, opera della dottoressa Montessori” (Isaacs, 1995, p. 110), della quale la studiosa britannica menzionava anche altri materiali “di sviluppo”.

“Questo tipo di giocattoli ha un valore grandissimo per il bambino (…). E ci può anche esser utile per verificare, con evidenza e precisione, se ha raggiunto lo stadio mentale che supponiamo. Il lettore può consultare il Manuale della dottoressa Montessori, per avere dei chiarimenti sull’attrezzatura formativa da lei usata” (Isaacs, 1995, p. 110).

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“Infine, è una saggia regola generale quella di lasciare che i bambini utilizzino i loro giocattoli come meglio credono, anche se il loro modo di servirsene non ci sembra il migliore. Infatti il gioco ha un valore veramente immenso per il piccolo solo quando è realmente libero, spontaneo, ed esclusivamente suo” (Isaacs, 1995, p. 111).

“I. Educazione fisica e applicazione delle attitudini fisiche.II. Movimenti ritmici, musica e canto.III. Espressione drammatica, racconti e versi.IV. Giuoco immaginativo spontaneo.V. Lavoro manuale.VI. Disegno e pittura.VII. Lettura e scrittura.VIII. Numeri, materiale geometrico e altro materiale formativo.IX. Responsabilità pratiche.X. Giardinaggio e cura degli animali.XI. Interesse per gli avvenimenti quotidiani ed esperimenti scientifici.XII. Escursioni” (Isaacs, 1961, p. 347).

“(…) Queste diverse attività non erano distinte nella mente dei bambini, (…) di fatto esse collimano e si confondono in molti punti. Per esempio, le prime quattro attività sono difficilmente distinguibili l’una dall’altra e il lavoro manuale potrebbe in alcuni casi collocarsi meglio nella categoria dell’interesse per gli avvenimenti quotidiani, e in altri potrebbe essere considerato insieme ai giuochi immaginativi” (Isaacs, 1961, p. 347).

“Per ognuna di queste creazioni, si sviluppavano lunghi giuochi complicati e i bimbi rappresentavano i personaggi appropriati con vera passione drammatica. Talvolta accadeva che l’aula intera si trasformasse in una nave da guerra ed allora ogni bimbo si armava di un bastoncino per fucile, e vi era un ‘fuoco intenso’ e diversi suoni drammatici di ‘bang-bang’ ecc. Oppure accadeva che ogni bambino disponesse di una casa tutta sua, ove continuava a dipingere, a modellare, a scrivere e a disegnare, faceva collegamenti telefonici da una casa all’altra, prendendo accordi per visite ad una data ora (con l’orologio vero), o modellava vasellame, dolci, ecc., per le riunioni, o faceva lunghi viaggi per far visita agli amici nelle rispettive case, andandoci in macchina, in treno, o in autobus guidati da altri bambini. O fingevano che una delle case prendesse fuoco, e bisognava quindi telefonare ai pompieri che arrivavano con le autopompe e tutti aiutavano a spegnere il fuoco con scale e idranti” (Isaacs, 1961, pp. 354-355).

il disegno, al quale “(…) veniva dedicato più tempo che ad ogni altra occupazione, salvo che al modellare. I bambini erano sempre pronti a disegnare con grande gioia e libertà di espressione.

“Disegnavano coi gessetti, sulle lavagne, sul pavimento di legno, su grandi fogli di carta scura e sul muro bianco del chiosco. Disegnavano liberamente con i carboncini su grandi fogli di carta da cucina e con grosse matite da falegname e pastelli sulla carta bianca.

“Qualche volta adoperavano gli incastri Montessori per fare i contorni e riempirli, sino a ricavarne disegni geometrici. Ma per la maggior parte, i loro disegni erano spontanee e libere espressioni della loro fantasia o di esperienze reali” (Isaacs, 1961, pp. 364-365).

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“(…) avevano tutti un attivo interesse per i numeri quando questi entravano nelle loro attività pratiche” (Isaacs, 1961, pp. 370-371).

1) “Non dire semplicemente ‘Non fare questo’, se non puoi aggiungere ‘Ma fai quest’altro’”.

2) “Non chiamare ‘capricci’ qualcosa, quando vuoi soltanto dire che ‘ti disturba’”.

3) “Non parlare della vita dei figli in loro presenza; e non credere, più in generale, che non ascoltino, non osservino e non capiscano”.

4) “Non interrompere mai quello che i bambini stanno facendo, senza aver loro dato qualche preavviso con un certo anticipo”.

5) “Non dimostrare il tuo affetto verso tuo figlio con un numero eccessivo di carezze, ma provvedendo ai suoi bisogni”.

6) “Non ‘portare a passeggio’ tuo figlio, ma vai a passeggio con lui”.7) “Non esitare a fare delle eccezioni alla regola”.8) “Non darti pensiero se il bimbo cade, o non vuol mangiare, ecc. Fa’ ciò che

serve, invece di preoccuparti e di lamentarti”.9) “Non prendere in giro il bambino e non essere sarcastico: ridi con tuo figlio,

non di tuo figlio”.10) “Non mostrare tuo figlio agli altri come un oggetto, e non farne un

giocattolo”.11) “Non fare prediche morali al tuo bambino, e se ti dovesse capitare, non

sorprenderti e non arrabbiarti se egli si mostra annoiato”.12) “Non credere che il bambino capisca ciò che gli stai dicendo, solo perché

glielo dici”.13) “Non pretendere, se dici o fai qualcosa trasportato dalla collera, di averlo

fatto ‘per il bene del bambino’; l’inganno è più dannoso di un carattere irascibile, ma sincero”.

14) “Non rompere le promesse, e non farne se sai di non poterle mantenere”.15) “Non mentire, e non eludere le domande del bambino”.

“I. Rapporti sociali: amore e odio in attoA. Atteggiamenti egocentrici primari nel gioco socialeB. Ostilità e aggressività1. Ostilità individualea. Movente del possessob. Movente del poterec. Movente della rivalitàd. Sentimenti d’inferiorità o di superiorità o di ansietà generale2. Ostilità di gruppoa. Verso gli estranei e i nuovi arrivatib. Verso gli adultic. Verso i bambini più piccoli o più deboli o un qualsiasi capro espiatorio temporaneoC. Amicizia e collaborazione

II. Le fonti più profonde dell’amore e dell’odioA. Sessualità1. Erotismo e sadismo orali (morsi e sputi)

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2. Interessi e aggressività anale e uretrale3. Esibizionismoa. Direttob. Verbale4. Curiosità sessuale5. Gioco ed aggressività sessuali6. Masturbazione7. Gioco della famiglia e idee sull’origine dei bambini e sul matrimonio8. Paura della castrazione, minacce e simbolismo connessi9. Angolini riservatiB. Sentimenti di colpa e di vergogna” (Isaacs, 1967, pp. 32-33).

“Una delle maggiori difficoltà nel selezionare i vari episodi era rappresentata dal fatto che molti di essi inevitabilmente si sovrappongono e appartengono a più di una voce del raggruppamento. Per esempio, le questioni riguardanti la rivalità personale ed il possesso si mescolano facilmente le une con le altre ed è tutt’altro che facile distinguere fra il comportamento aggressivo nato da motivi di rivalità e quello nato da un più semplice amore del potere. Tuttavia vi erano pure casi chiari a sufficienza per giustificare la divisione di questi gruppi. Né è sempre chiaro il margine fra l’ostilità individuale e quella di gruppo, poiché quest’ultima è sempre evanescente e sorge in generale nell’atteggiamento individuale di uno dei bambini che ha maggior ascendente sugli altri” (Isaacs, 1967, p. 33).

“Vi erano inoltre degli episodi che iniziavano come ostilità o aggressione e finivano come amicizia e buon umore, sia come risultato del modo di trattare degli adulti, sia per uno spontaneo mutamento nei sentimenti dei bambini.

“Le medesime difficoltà sorsero nel vasto capitolo della sessualità e si troverà con una certa frequenza che taluni particolari episodi avrebbero potuto benissimo essere inclusi in uno o nell’altro dei suoi sottogruppi. Questo salterà agli occhi in modo particolare riguardo all’aggressività di origine anale e uretrale, all’esibizionismo, al gioco ed all’aggressività sessuali. Ciò è dovuto in parte al fatto che anche su una vasta area della sessualità genitale dei bambini piccoli agisce fortemente l’influenza anale e uretrale” (Isaacs, 1967, pp. 33-34).

“Gran parte del primo interesse del bambino per gli oggetti fisici è certamente derivato, e riceve una spinta dai primi desideri infantili e dai primi timori in relazione ai suoi genitori. (…) Il primo valore che il mondo fisico ha per il bambino è quello di uno schermo su cui proiettare i suoi desideri personali e le sue ansietà, e la prima forma di interesse per esso è quella della rappresentazione drammatica” (Isaacs, 1961, pp. 129-130).

“La loro capacità di interessarsi agli oggetti e agli avvenimenti reali è una questione relativa. Essa esiste, effettivamente, e può essere usata, come ho dimostrato, per lo sviluppo intellettuale. Ma le sue fonti più profonde giacciono nella prima ‘formazione del simbolo’ della vita mentale infantile; e continuerà a trarre nuova vitalità dai desideri repressi, dai timori e dalle fantasie di quel periodo” (Isaacs, 1961, p. 130).

“(…) le esperienze di cui i bambini di questo gruppo avevano goduto presso di noi li avevano resi capaci di mobilitare pienamente le risorse della loro intelligenza innata nelle situazioni reali; ciò perché i loro interessi intellettuali non

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solo non erano stati inibiti dal timore, né fatti languire per l’indifferenza degli adulti, ma avevano spontaneamente incontrato la comprensione attiva ed erano stati incoraggiati con tutti i mezzi” (Isaacs, 1961, p. 141).

“Lo sviluppo intellettuale manifesta indubbiamente una coerenza psicologica; ma questa coerenza ha l’elasticità e l’impulso vitale di un processo vivente, non la rigida formalità di un sistema logico. Essa viene pienamente espressa nella continuità di sviluppo della sintesi noetica e nel modo in cui le forme più tarde e maggiormente integrate traggono la loro vita da quelle più semplici e primitive” (Isaacs, 1961, p. 124).

“(…) un manichino adatto ad appuntarvi le nostre generalizzazioni didattiche” (Isaacs, 1952, p. 17 ).

“La caratteristica principale dell’ambiente nel quale questi bambini passavano i loro giorni era che esso incoraggiava la loro azione e la loro mente; tanto l’ordinamento esteriore quanto la tecnica didattica miravano a stimolare l’attività del fanciullo piuttosto che quella dell’insegnante; la funzione di questa era di assistere, pronta, a dare suggerimenti quando le sembrasse il caso, ma soprattutto di seguire gli interessi spontanei dei fanciulli e di incoraggiare le loro ricerche, esperimenti e scoperte in qualsiasi direzione queste si avviassero (…)” (Isaacs, 1952, p. 137).

“Un altro elemento molto importante nella vita di questi fanciulli era la loro libertà di parlare; erano sempre liberi di esprimere ciò che avevano in testa, di fare domande, di discutere. Questa opportunità a esprimere pensieri e sentimenti incoraggiava indubbiamente sia il loro ragionamento verbale che il loro interesse obiettivo per il mondo” (Isaacs, 1952, pp. 138-139).

“(…) attraverso gli anni della scuola primaria, non meno che in quelli sotto i sette, l’attività dei bambini è la chiave del loro pieno sviluppo” (Isaacs, 1952, p. 146-147).

“La nostra funzione di insegnanti consiste nello stimolare l’attività dei fanciulli, nell’incoraggiarla quand’essa sorge spontaneamente. Noi possiamo dar loro i mezzi per risolvere dei problemi nei quali essi siano praticamente interessati, ma non possiamo utilmente imporre loro problemi che non sorgano dallo sviluppo dei loro interessi” (Isaacs, 1952, p. 147).

“I loro interessi innati per le cose e le persone intorno a loro, la strada, il mercato, il giardino, la ferrovia, il mondo delle piante e degli animali, ci offrono tutte le occasioni di cui abbisognamo per la loro educazione” (Isaacs, 1952, p. 147).

“(…) L’attività dei fanciulli in questi anni sia in storia che in geografia, in matematica che in scienze naturali sarà tanto più proficua quanto più sarà concreta e pratica e quanto più avrà che fare con oggetti reali che possono essere veduti, maneggiati, fabbricati e misurati”.

“(…) specialmente nei primi anni nella scuola primaria, ma anche a dieci e undici anni resta uno dei fatti più significativi dell’attività infantile” (Isaacs, 1952, p. 147).

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“il ragionamento teorico è lettera morta per il fanciullo se non sia ancorato a manifestazioni pratiche” (Isaacs, 1952, pp. 147-148).

“La nostra terza conclusione di carattere generale è perciò che un altro grande bisogno del fanciullo della scuola primaria è quello di avere l’opportunità di trasporre l’esperienza in parole, di descrivere, discutere e argomentare. Se noi sostituiamo il nostro insegnamento verbale alla sua propria azione ne mortifichiamo la mente e, d’altra parte, se lo priviamo della libertà di parlare coi suoi compagni gli togliamo uno dei più preziosi mezzi per il suo sviluppo intellettuale e sociale” (Isaacs, 1952, p. 148).

“(…) esigiamo una lingua muta e speriamo di ottenere una penna eloquente!” (Isaacs, 1952, p. 148).

“(…) il bisogno nei fanciulli di attività reale offre la giustificazione principale di classi più piccole, di metodi moderni rivolti al singolo, di organizzazioni e aggruppamenti basati sullo studio psicologico delle differenze individuali” (Isaacs, 1952, pp. 148-149).

“C’è poco da fare con una classe numerosa di bambini, le cui capacità vanno da quelle dei quasi deficienti a quelle degli assolutamente superiori, se non appunto tenerli quieti e impartir loro delle lezioni solenni” (Isaacs, 1952, p. 149).

“Non si tratta in verità di scegliere tra questi due tipi di metodo una volta per tutte, ma di vedere quale sia il più appropriato a fini particolari. In certi casi, solo il metodo individuale renderebbe possibile a tutti i bambini di agire e pensare attivamente” (Isaacs, 1952, p. 149).

“(…) di per se stesse prevalentemente collettive, poiché acquistano gran parte del loro significato e della loro bellezza dal fatto che si fanno delle cose insieme ad altri” (Isaacs, 1952, p. 150).

BibliografiaIsaacs S. 1952 I ragazzi dai sette agli undici anni, Firenze, La Nuova Italia (ed. or. Con il

titolo The Children We Teach, London, G. Routledge & Sons , 1932). Isaacs S.1961 Lo sviluppo intellettuale nei bambini, Firenze, La Nuova Italia (ed. or. London, G. Routledge & Sons, 1930).

Isaacs S.1967 Lo sviluppo sociale dei bambini, Firenze, La Nuova Italia (ed. or. London,

Routledge & Kegan Paul, 1933).

Isaacs S.,1995 La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni, Roma, Newton Compton

(ed. or. London, Routledge & Kegan Paul, 1929).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto i testi di S. Isaacs:

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18. Da: W. James, Discorsi ai maestri, Torino, Bocca

“E’ naturale che gli insegnanti adorino le divisioni e le suddivisioni minute, le definizioni, i paragrafi numerati e i capoversi distinti con tante lettere greche e latine, la diversità dei caratteri e tutti gli altri artifici meccanici a cui sono andati progressivamente abituando le menti loro. Il mio desiderio principale, però, è stato quello di condurli a concepire e, se fosse possibile, a riprodurre simpateticamente nella loro immaginazione, la vita mentale dell’allievo loro come quella specie di unità attiva che questi sente di essere” (James, 1903, p. VI).

“Sarebbe stato mio desiderio vivissimo di rendere il secondo discorso, quello che ha per titolo: Di una curiosa cecità nella natura umana, ancora più incisivo. Esso è infatti qualcosa di più di un semplice squarcio di sentimentalismo, come potrebbe sembrare a qualche lettore; e si riconnette ad una veduta ben definita del mondo e delle relazioni morali che con questo mondo noi abbiamo. Coloro che mi hanno fatto l’onore di leggere il mio volume di Saggi di filosofia popolare, riconosceranno che io intendo la filosofia pluralistica o individualista. Secondo tale filosofia, la verità è cosa troppo grande per qualunque mente reale ed effettiva, sia pure una tal mente nobilitata come l’’assoluto’, per poterla conoscere tutta. Numerosi intelletti occorrono per comprendere i fatti e i valori della vita. Non esiste alcun punto di vista assolutamente noto ed universale. Le percezioni particolari e incomunicabili rimangono sempre alla superficie, e il peggio si è che coloro che le cercano dall’esterno non sanno mai dove esse siano.

“La conseguenza pratica di una simile filosofia si trova nel ben noto principio democratico del rispetto per la sacra individualità di ciascuno, - è, ad ogni modo, la tolleranza completa di tutto ciò che non è per se stesso intollerante” (James, 1903, p. VIII-IX).

“Affermo ancora che voi commettete un grande, un grandissimo errore, pensando che la psicologia, perché è la scienza delle leggi della mente, sia qualcosa da cui voi possiate dedurre programmi definiti, e schemi e metodi di insegnamento di utilità immediata per gli usi della scuola. La psicologia è una scienza e l’insegnare è un’arte; e le scienze non esprimono mai dai loro fianchi direttamente le arti. Ci vuole, quale intermediario, una mente inventiva, la quale, servendosi della propria originalità, faccia le necessarie applicazioni” (James, 1903, p. 109).

“è così sempre; l’arte d’insegnare deve accordarsi con la psicologia, ma un dato modo d’insegnare non deve necessariamente essere il solo possibile, in grazia di tale accordo, perché molti metodi diversi di insegnare possono egualmente bene accordarsi con le leggi psicologiche.

“Il fatto che conosciamo la psicologia, quindi, non garantisce in alcun modo che saremo buoni insegnanti. Per ottenere quest’ultimo risultato dobbiamo possedere completamente un’altra dote, un tatto felice e l’ingenuità, onde sapere quali cose definite, quali parole dobbiamo fare o dire quando il bambino sta davanti a noi. Questa ingenuità verso il bambino, questo tatto per trovare la situazione concreta, per quanto sia l’alfa e l’omega dell’arte d’insegnare, sono tuttavia cose per le quali, conveniamone, la psicologia può servire ben poco” (James, 1903, p. 111).

a) “porre il vostro allievo in un tale stato d’interesse, rispetto a ciò che state per insegnargli, da bandire dalla sua mente ogni altro oggetto di attenzione”; b) “rivelargli quelle cose in modo così impressionante, che egli se ne ricordi fino

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all’ultimo giorno della sua vita”; c) “inspirargli una curiosità ardente di sapere che cosa verrà dopo, in connessione col soggetto in parola” (cfr. James, 1903, pp. 111-112).

“La peggiore cosa che può capitare ad un buon maestro è di formarsi una cattiva coscienza circa la sua professione perchè si sente incapace come psicologo. I nostri maestri sono già anche troppo occupati. Chiunque aggiunga al loro fardello anche un minimo peso non necessario, è un nemico dell’educazione. Una cattiva coscienza aumenta il peso di ogni altro fardello; ed io so che lo studio dei bambini, come altri campi della psicologia, del resto, hanno ingenerato una cattiva coscienza in molti petti di pedagogisti, in realtà molto innocenti. Ed io sarei veramente lieto se queste mie parole riuscissero a dissipare una tale cattiva coscienza, perché essa è certamente uno di quei frutti della mistificazione più o meno sistematica che lamentavo in principio” (James, 1903, pp. 115-116).

“esiste una corrente, una successione di stati, di onde, di campi (chiamateli come volete) di conoscenza, di sentimento, di desiderio, di deliberazione, ecc., che costantemente passa e ripassa, costituendo la nostra vita interiore. L’esistenza di questa corrente è il fatto primitivo, fondamentale della nostra scienza, e la sua natura e le sue origini ne costituiscono il problema essenziale” (James, 1903, p. 117).

“Finchè noi classifichiamo gli stati o i campi della coscienza, ne fissiamo le diverse nature, ne analizziamo il contenuto, suddividendolo in elementi, e ne descriviamo le abitudini di successione, noi ci fermiamo al campo descrittivo e analitico. Non appena ci chiediamo, però, donde essi provengano e perché siano appunto ciò che sono, noi ci troviamo nel campo esplicativo.

In queste conferenze lascerò completamente da parte i problemi che si affollano in questo secondo campo. Si deve francamente confessare che fondamentalmente non conosciamo da dove provengano i nostri successivi stati di coscienza, o perché essi abbiano quella precisa costituzione interiore che mostrano di avere. Essi certamente seguono od accompagnano i nostri stati cerebrali, e, naturalmente, le loro forme speciali sono determinate dalle nostre esperienze precedenti e dalla nostra educazione. Ma se ci chiediamo appunto come il cervello li determini, noi non sentiamo la più remota inclinazione a rispondere in un dato modo; così, se chiediamo in qual maniera l’educazione modelli il cervello, non possiamo esprimerci che nei termini più astratti, più generali e più ipotetici” (James, 1903, pp. 117-118).

“Nel maggior numero dei nostri campi di coscienza esiste un nucleo, un’essenza di sensazione pronunciatissimi. Voi, per esempio, sebbene ora stiate pensando e sentendo, andate tuttavia assumendo per la via dei vostri occhi numerose sensazioni della mia faccia, della mia persona, e, per la via dei vostri orecchi, sensazioni della mia voce. Tali sensazioni sono il centro o il fuoco, - i pensieri ed i sentimenti sono il margine, l’alone del vostro campo cosciente attualmente presente” (James, 1903, p. 120).

“Talvolta il campo non si muta quasi per niente, mentre i contorni si modificano rapidamente. Tal’altra il fuoco si cambia e i contorni restano stabili. Tal’altra, ancora, fuoco e margini mutano di posto. Tal’altra, infine, avvengono improvvise, subitanee mutazioni di tutto il campo. E’ raro di poterne fare una descrizione esatta: tutto ciò che noi sappiamo è che, per la massima parte, ogni campo presenta una specie di unità pratica per colui che lo possiede, e da questo

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punto di vista pratico noi possiamo classificare un campo con altri campi che gli assomiglino, chiamandolo uno stato di emozione, di perplessità, sensitivo, di pensiero astratto, di volizione e simili” (James, 1903, p. 121).

“E’ impossibile misconoscere il fatto che nella psicologia dei nostri giorni l’attenzione è stata spostata dalla funzione puramente razionale della mente, dove Platone, Aristotele e ciò che si può chiamare l’intera tradizione filosofico-classica l’avevano posta, al lato pratico, per tanto tempo trascurato” (James, 1903, p. 126).

“ La coscienza non sarebbe stata, così, altro, primitivamente, che una specie di perfezione biologica aggiunta in più, - inutile se non avesse servito ad un contegno utile, inesplicabile al di fuori di questa considerazione.

“Nel profondo della nostra propria natura persistono, non mascherati né diminuiti, i fondamenti biologici della nostra coscienza. Le nostre sensazioni vi esistono per richiamarci o per trattenerci, le nostre memorie per ammonirci o per incoraggiarci, i nostri sentimenti per animarci; e i nostri pensieri per contenere la nostra condotta; così che, per l’azione combinata di tutti questi elementi, noi possiamo prosperare e passare a lungo i nostri giorni sulla terra. Per questo, tutto ciò che di vista transmondana metafisica, o di percezione estetica praticamente inapplicabile, o di sentimento etico, noi possiamo portare nel nostro interno, può venir considerato come una semplice parte di quell’eccesso incidentale di funzione che accompagna necessariamente l’azione di ogni macchina complicata” (James, 1903, p. 127).

Ecco allora la chiara affermazione dei limiti epistemologici delle ipotesi di tipo evoluzionistico, da accettare “senza intendere di aver chiusa con ciò la questione teoretica, ma semplicemente perché mi sembra che questo punto di vista sia quello di maggior valore pratico per voi, come insegnanti”, e nello stesso tempo la concezione dell’uomo come “essere pratico”, e della mente umana come strumento “per aiutarlo ad adattarsi alla vita di questo mondo” (James, 1903, p. 128).

James proponeva allora agli insegnanti di “considerare i giovani fenomeni psicologici che dovrete sorvegliare, dal punto di vista delle loro relazioni con la condotta futura di coloro che li presentano. (…) Voi dovreste considerare il vostro ufficio professionale come se consistesse principalmente ed essenzialmente nell’abituare il vostro allievo a comportarsi correttamente, prendendo la parola comportamento, non nel senso stretto riguardo ai modi, ma nel più largo senso possibile, in quanto coinvolge ogni specie possibile e immaginabile di reazione adatta alle circostanze fra le quali lo porteranno le vicende della vita.

“In verità la reazione può spesso essere negativa. Non parlare, non muoversi, è, in certe emergenze pratiche dell’esistenza, uno dei più importanti dei nostri doveri. ‘Devi frenarti, rinunciare, astenerti!’. Questo richiede spesso un grande sforzo di potere volontario, e, considerato fisiologicamente, è una funzione nervosa altrettanto positiva quanto lo è la scarica motrice” (James, 1903, pp. 130-131).

“E’ una persona ‘in-educata’ quella che è messa in uno stato di confusione da tutte le situazioni che non sono le più abituali. Al contrario, quegli che è educato sa districarsi praticamente nelle circostanze che incontra per la prima volta, servendosi all’uopo degli esempi che trova immagazzinati nella sua memoria, e delle concezioni astratte che ha acquistato. L’educazione non può, in breve, essere meglio definita che chiamandola l’organizzazione delle abitudini di condotta acquisite e delle tendenze ad un comportamento adeguato” (James, 1903, p. 133).

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“Non si deve ricever nulla senza reagire; nessuna impressione senza espressione - questa è la grande massima che l’insegnante non deve mai dimenticare" (James, 1903, p. 138)..

“Quando osserviamo la pedagogia moderna, noi vediamo quanto enormemente si sia esteso il campo della nostra condotta reattiva, grazie all’introduzione di tutti quei metodi d’insegnamento concreto obbiettivo, che formano la gloria delle nostre scuole d’oggi. Le reazioni verbali, per quanto utili, sono insufficienti. Le parole dell’allievo possono essere esatte, ma le concezioni che a quelle parole corrispondono sono spesso spaventosamente errate. In una scuola moderna, quindi, esse formano soltanto una piccola parte di ciò che dall’allievo si richiede” (James, 1903, pp. 138-139).

“Egli deve fare, a suo modo, ciò di cui spesso gli altri ridono quando lo vedono notato nei prospetti sotto il titolo di ‘lavoro originale’, ma che è realmente il solo esercizio possibile onde poter fare, più tardi, del lavoro originale” (James, 1903, p. 139).

“Il miglioramento più colossale che si sia veduto durante gli ultimi anni nell’educazione secondaria è quello dovuto all’istituzione delle scuole per il lavoro manuale: non perché esse ci daranno della gente più destra, più pratica per la vita domestica, più accorta nei commerci, ma perché ci daranno dei cittadini di una fibra intellettuale tutta diversa. Il lavoro dei laboratori e quello delle officine ingenerano una tale abitudine di osservazione, una tale conoscenza della differenza che passa fra la precisione e l’indeterminatezza, ed una tale idea della complessità della Natura e dell’insufficienza di tutte le definizioni verbali astratte dei fenomeni reali, che, se la mente l’acquista una volta, l’acquisto dura per tutta la vita dell’individuo. Il lavoro manuale conferisce della precisione, perché, se fate una cosa, voi dovete farla o decisamente bene o decisamente male. Esso dà dell’onestà, perché, quando vi esprimete facendo delle cose, e non per mezzo di parole, voi non potete più dissimulare la vostra confusione o la vostra ignoranza per mezzo di ambiguità. Esso ingenera un’abitudine di confidenza in sé, mantiene continuamente svegli e legati l’interesse e l’attenzione, e riduce ad un minimum le funzioni disciplinari dell’insegnante” (James, 1903, pp. 139-140).

“Dei vari sistemi di esercizio manuale mi sembra, se mi è permesso di avere un’opinione in tale materia, che per quel che riguarda i lavori in legno, il sistema svedese sloyd, sia di gran lunga il migliore di tutti dal punto di vista psicologico. Fortunatamente, i metodi del lavoro manuale vanno lentamente ma sicuramente penetrando in tutte le nostre città maggiori. Ma vi è ancora un’immensa distanza da percorrere, prima che essi abbiano guadagnato l’estensione che sono destinati a conquistare, prima o poi” (James, 1903, pp. 138-140).

“Siamo ora completamente lanciati nel mare della concezione biologica. L’uomo è un organismo che deve reagire alle impressioni: la sua mente serve a determinare le sue reazioni, ed il fine della sua educazione è di rendere quelle reazioni numerose e perfette. La nostra educazione significa, in breve, poco più di un cumulo di possibilità di reazione, acquisite a casa, nella scuola o nel trattare gli affari. Ufficio dell’insegnante è quello di sorvegliare il processo di acquisizione.

“Stando così le cose, stabilirò immediatamente un principio che sta alla base di tutto il processo di acquisizione, e governa interamente l’attività dell’insegnante.

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(…) Ogni reazione acquisita è, per regola, sia una complicazione innestata su di una reazione congenita, sia un sostituto per una reazione congenita, che l’oggetto stesso originariamente tendeva a provocare.

“L’arte dell’insegnante consiste nel determinare la sostituzione o la complicazione, e un buon successo in quest’arte presuppone una conoscenza simpatica delle tendenze reattive quivi congenite” (James, 1903, pp. 143-144).

“La curiosità sensoriale dell’infanzia è più particolarmente messa in atto da certe specie determinate di oggetti. Le cose materiali, quelle che si muovono, quelle vive, le azioni umane e le descrizioni di azioni umane, ne conquisteranno l’attenzione meglio di ogni altra cosa più astratta. E qui vien di nuovo l’occasione di lodare l’insegnamento obbiettivo e i metodi dell’esercizio manuale. L’attenzione del fanciullo è trattenuta spontaneamente da qualunque problema che coinvolga la presentazione di un nuovo oggetto materiale e di una attività per parte di qualcuno. I primissimi richiami, quindi, del maestro all’attenzione del bambino debbono essere fatti mediante oggetti mostrati, oppure mediante atti eseguiti o descritti. La curiosità teoretica, la curiosità circa le relazioni razionali fra le cose, difficilmente si ridesta avanti lo spuntare dell’adolescenza” (James, 1903, pp. 152-153).

“L’invenzione, adoperando questo termine nel senso più lato, e la imitazione sono le due gambe, per così dire, su cui la razza umana ha camminato nella sua evoluzione storica. L’imitazione si fonde impercettibilmente nell’emulazione. (…) L’emulazione è la vera chorda dorsalis dell’umana società” (James, 1903, pp. 154-155).

“Nella scuola l’imitazione e l’emulazione hanno un ufficio assolutamente vitale. Ogni maestro sa quale ottima cosa sia che certe cose vengano compite da tutta una banda di fanciulli. L’insegnante che fa maggior incontro è quegli i cui modi particolari sono più facilmente imitabili. Un maestro non deve mai provare a far eseguire ai fanciulli qualche cosa che esso non sappia fare. ‘Venite che vi mostro come si fa’, è uno stimolo infinitamente migliore di questo: ‘Andate e fate come insegna il libro’” (James, 1903, pp. 155-156).

“Esiste una forma di rivalità nobile e generosa, come ne esiste una meschina e brutale; nell’infanzia è specialmente la prima la più comune. Tutti i giuochi trovano la loro principale attrattiva nel fatto che hanno le loro radici nella passione dell’emulazione, eppure sono i mezzi più notevoli per abituare alla cortesia ed alla magnanimità. Potrà dunque un insegnante permettersi il lusso di far senza di un simile alleato? Dobbiamo seriamente sperare che i punti, le distinzioni, i premi e le altre ricompense dello sforzo, che si basano sulla ricerca della superiorità riconosciuta, siano banditi per sempre dalle nostre scuole? Come psicologo, obbligato a conoscere il carattere profondo e insinuante della passione dell’emulazione, debbo confessare il mio dubbio al riguardo.

“L’insegnante saggio si servirà di questo istinto come si serve degli altri, approfittando dei vantaggi che offre, in modo da ottenere un maximum di utile con un minimum di fatica; perché, dopo tutto, dobbiamo confessare con un critico francese della dottrina del Rousseau, che la più profonda spinta all’azione noi la troviamo nella vista dell’azione degli altri” (James, 1903, pp. 158-159).

“L’ambizione e la pugnacità sono state spesso considerate come passioni che non avrebbero dovuto essere attive nei giovani. Ma esse, nelle loro forme più

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raffinate e più nobili, hanno una grande parte nella scuola e nell’educazione in generale, essendo per molti caratteri fra i più potenti stimoli allo sforzo. Non si deve pensare la pugnacità semplicemente nella sua forma di combattività fisica. Essa può venir presa nel senso di una resistenza generica al lasciarsi abbattere da ogni sorta di difficoltà. Essa ci fa tenaci e ci eccita di fronte alle prove difficili, ed è essenziale per un carattere vivace ed intraprendente. Di recente abbiamo udito parlare molto della filosofia della tenerezza nell’educazione; si deve risvegliare l’’interesse’ per ogni cosa; si debbono attenuare, rendere piane tutte le difficoltà. Pedagogie all’acqua di rose hanno preso il posto del vecchio aspro cammino dell’imparare. Ma in esse non alita l’ossigeno vivificatore dello sforzo. E’ un controsenso supporre che ogni passo nell’educazione possa essere interessante” (James, 1903, pp. 159-160).

“L’insegnante che possa incanalare questo impulso verso ciò che nella scuola si richiede è fortunato. Quasi tutti i ragazzi fanno qualche collezione. Un insegnante attento può spingerli a prender piacere a fare collezione di libri; a fare una collezione ordinata e pulita di note; ad approntare, quando sono abbastanza maturi, uno schedario; a conservare ogni disegno che possono fare. La pulizia, l’ordine ed il metodo saranno per tal modo acquistati istintivamente tutti insieme, con gli altri benefici che porta con sé il possesso di una collezione. Anche una cosa così idiota qual è una collezione di francobolli può venire utilizzata dall’insegnante per eccitare l’interesse alle notizie storiche e geografiche che egli intende insegnare. Il far collezioni è, naturalmente, la base di tutti gli studi di storia naturale; e probabilmente nessuno divenne mai un buon naturalista, che non fosse stato, da bambino, un collezionatore di straordinaria attività” (James, 1903, p. 163).

“La costruttività è un’altra tendenza istintiva con la quale l’insegnante deve stringere alleanza. Fino agli 8-9 anni il bambino deve fare poco più che toccare degli oggetti, esplorare le cose con le mani, fare e disfare, mettere insieme e buttar giù, riunire e disperdere; perché, dal punto di vista psicologico, costruzione e disrtuzione sono due nomi di un’attività manuale identica” (James, 1903, p. 163).

“La maggior parte delle nostre tendenze impulsive matura ad un certo momento; provvedendo a tempo e luogo gli oggetti appropriati, vengono acquistate certe abitudini di condotta, relativamente ad esse, che diventano stabili. Se invece non vengono trovati questi oggetti, l’impulso può spegnersi prima che l’abitudine si formi, e più tardi può riuscir difficile insegnare alle creature a reagire in quelle tali direzioni” (James, 1903, pp. 165-166).

“Nei bambini noi osserviamo che gli impulsi e gli interessi maturano secondo un ordine determinato. Lo strisciare, il camminare, l’arrampicarsi, l’imitazione dei suoni, il costruire, il disegnare, il calcolare, occupano successivamente il bambino; in qualche bambino una tale possessione, mentre è in atto, può essere esclusiva e quasi pazzesca. Più tardi l’interesse per ciascuna di queste cose può dileguarsi completamente. Naturalmente, il momento pedagogico propizio per insegnare bene e per rendere salda l’abitudine utile è quello in cui è più intensamente in fiore l’impulso congenito. Approfittate delle vostre disposizioni all’atletismo, all’aritmetica fatta a mente, a imparare a mente i versi, a disegnare, alla botanica, in quel momento in cui credete che sia giunta l’ora opportuna. Forse quest’ora non durerà molto, e, mentre essa dura, potete impunemente permettere che tutte le altre cose prendano il secondo posto. Così facendo voi economizzate il tempo e rendete

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migliore l’attitudine, poiché molti enfants prodiges per le arti o per la matematica, hanno una fioritura di pochi mesi soltanto” (James, 1903, p. 166).

“Tale è il minuscolo, interessato ed impulsivo organismo psicofisico, la cui spinta all’azione l’insegnante deve indovinare, ed ai cui modi egli si deve abituare. Egli deve partire dalle tendenze congenite, ed ampliare tutta l’esperienza attiva e passiva del suo allievo. Egli deve occuparlo con nuovi oggetti e con nuovi stimoli, facendogli assaggiare i frutti della sua condotta, per modo che poi tutto quel contesto di esperienze rammentate sia ciò che determina la sua condotta quando ritrovi quello stimolo, il quale non gli darà più la semplice impressione immediata di una volta. Man mano che a questo modo si amplifica la vita del bambino, essa diviene sempre più piena di ogni sorta di memorie, di associazioni, di sostituzioni (…)” (James, 1903, p. 167).

“Rispettate sempre, ve ne prego, le reazioni originarie, anche quando cercherete di vincerne la connessione con certi oggetti, sostituendo questi con altri, ai quali desiderate dare una regola. Una cattiva condotta, dal punto di vista dell’arte di insegnare, è un punto di partenza altrettanto opportuno di quello che sia una condotta buona. Anzi, per quanto quest’affermazione possa sembrare paradossale, pure sostengo che spesso una condotta cattiva è un punto di partenza assai migliore di una condotta buona” (James, 1903, p. 168).

“(…) Le nostre virtù sono abitudini, tanto quanto lo sono i nostri vizi. Tutta la nostra vita, in quanto ha una forma definita, è soltanto un cumulo di abitudini pratiche, emozionali ed intellettuali, - organizzate sistematicamente per il nostro vantaggio o il nostro danno, - le quali ci trascinano irresistibilmente verso il nostro destino, qualunque esso sia” (James, 1903, p. 169-170).

“La prima è che nell’acquistare una nuova abitudine o nell’abbandonarne una cattiva dobbiamo procurare di lanciarci con tutta l’iniziativa di cui siamo capaci. Accumulate tutte le possibili circostanze che possano rafforzare i motivi giusti; ponetevi assiduamente nelle condizioni che incoraggino il nuovo indirizzo; prendete impegni nuovi incompatibili con quelli antichi; se occorre, impegnatevi pubblicamente; in breve, appoggiate la vostra risoluzione con tutti gli aiuti di cui siete capace. Questo darà al vostro rinnovamento un tale peso, che la tentazione di tornare addietro non si presenterà così presto, come altrimenti avrebbe fatto; per ogni giorno che questo ritorno indietro sarà ritardato, si aumenteranno le probabilità che esso mai più si ripresenti. (…) La seconda massima è: Non tollerate mai un’eccezione, prima che la nuova abitudine sia sicuramente radicata nella vostra vita. Ogni concessione è infatti simile al lasciar fuori un giro di corda che si avvolgesse attorno ad una trottola; quel giro lasciato fuori fa molto più danno che non facciano molti altri giri avvolti più tardi. La continuità dell’esercizio è ciò che fa sì che il sistema nervoso agisca sempre rettamente” (James, 1903, pp. 172-174).

“Una terza massima si deve aggiungere: Cogliete la primissima opportunità che incontrerete di agire secondo la risoluzione presa, e seguite qualunque stimolo emozionale voi possiate avvertire nel senso delle abitudini che desiderate acquistare. Non è infatti nel momento in cui si formano, ma nell’istante in cui producono effetti motori, che le risoluzioni e le aspirazioni danno il nuovo assetto al cervello” (James, 1903, p. 174).

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“Questo ci porta ad una quarta massima: Non predicate troppo ai vostri allievi, né abbondate in buoni racconti astratti. Attendete piuttosto le opportunità pratiche, afferratele mentre passano, e così, in un atto solo, fate che il vostro bambino pensi, senta, faccia. I colpi della condotta sono ciò che da il nuovo assetto al carattere e fa, delle buone abitudini, un tessuto organico. Predicare e raccontare troppo presto si riduce spesso ad una fatica inutile” (James, 1903, pp. 175-176).

“Per ritornare ora alle nostre massime generali, credo di poter infine prescrivervi, come quinta ed ultima massima pratica circa le abitudini, qualcosa di questo genere: Tenete viva in voi la facoltà dello sforzo mediante un piccolo esercizio innocuo di ogni giorno. Vale a dire: siate sistematicamente eroici ogni giorno nelle piccole cose non necessarie, fate ogni uno o due giorni qualche cosa per la sola e semplice ragione che è difficile e preferireste non farla, cosicchè quando scocchi l’ora truce del pericolo e del bisogno, questa non vi trovi snervati e mal pronti” (James, 1903, p. 180).

“Mi hanno accusato, quando ho parlato del soggetto dell’abitudine, di far vedere tanto forti le antiche abitudini, da far sembrare difficilissimo, con la mia dottrina, l’acquistarne delle nuove, e particolarmente impossibile una riforma o una conversione improvvisa. Naturalmente, questo sarebbe sufficiente per condannare la mia dottrina, perché di conversioni improvvise, se anche sono rare, tuttavia ne avvengono. Ma non esiste incompatibilità fra le leggi generali che ho delineato e le modificazioni più impressionanti del carattere. Si possono lanciare abitudini nuove, l’ho detto espressamente, purchè vi siano stimoli ed eccitamenti nuovi. Ora la vita è ricca di questi ultimi, e talvolta si hanno di quelle esperienze critiche rivoluzionarie, che rovesciano tutta la scala dei valori di un individuo e tutti i sistemi delle sue idee. In tal caso il vecchio ordine delle sue abitudini sarà sconvolto; e, se i motivi nuovi hanno valore, si formeranno le nuove abitudini ricostruendo nell’individuo una ‘natura’ nuova o rigenerata” (James, 1903, pp. 180-181).

“Voi ricorderete che descrivemmo la coscienza come una corrente continua di oggetti, di sentimenti e di tendenze impulsive. Vedemmo già come le fasi e le pulsazioni di essa siano simili a tanti campi o a tante onde, ogni campo e ogni onda avendo abitualmente un suo punto centrale di attenzione più vivace, in corrispondenza dell’oggetto che è più prominente nel nostro pensiero, mentre tutt’attorno si trova un alone di altri oggetti meno nettamente realizzati, e che quasi si fonde e confonde con quello delle tendenze emozionali ed attive, il quale tutto racchiude. Descrivendo la mente a questo modo, in termini fluidi, noi ci atteniamo il più possibile alla natura delle cose. A prima vista può sembrare che nella fluidità di queste onde successive, ogni cosa sia indeterminata. Ma, bene osservando, si vede che ogni onda possiede una costituzione, la quale può in qualche grado essere spiegata studiando la costituzione delle onde che sono passate appena da un momento. Questa relazione che intercorre fra ciascuna onda e quelle che l’hanno preceduta viene espressa con le due così dette ‘leggi dell’associazione’ fondamentali, di cui la prima porta il nome di legge di contiguità, la seconda quello di legge di similarità” (James, 1903, pp. 185-186).

“La legge di contiguità ci insegna che gli oggetti a cui si pensa con l’onda che sorge, sono quelli che in qualche precedente esperienza si ritrovavano presso gli oggetti rappresentati dall’onda che sta passando. Gli oggetti che stanno vanendo verso il passato, ne erano prima i vicini nella mente di colui che li pensa. (…) La

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legge di similarità afferma che, quando la contiguità non riesce a descrivere i fatti quali sono, gli oggetti che sorgono proveranno ad appaiarsi agli oggetti che tramontano, anche se gli uni e gli altri non siano mai stati sperimentati insieme per l’addietro. Nei nostri voli della fantasia questo avviene assai di frequente” (James, 1903, pp. 186-187).

“Nelle menti aride e prosaiche quasi tutte le serie mentali fluiscono lungo queste due linee della routine abituale, la ripetizione e la suggestione.

“Nelle menti sveglie e piene d’immaginativa, invece, la routine viene ad ogni istante interrotta assai facilmente, ed un campo di oggetti mentali ne suggerirà un altro con cui forse esso non sarà mai stato accoppiato lungo tutta la storia dell’umano pensiero. In questi casi l’anello di congiunzione è, per solito, qualche analogia fra gli oggetti successivamente pensati, - un’analogia spesso così sottile, così tenue, che, sebbene la sentiamo presente e viva, ne possiamo a fatica analizzare le cause; come quando, per esempio, noi troviamo qualche cosa di maschile nel colore rosso, e qualcosa di femmineo nell’azzurro pallido, - o quando di tre caratteri umani diciamo che uno ci suggerisce l’idea di un gatto, un altro quella di un cane, un terzo, forse, quella di una vacca” (James, 1903, pp. 187-188).

“I vostri allievi, qualunque cosa siano d’altro, sono ad ogni modo dei piccoli meccanismi di associazione. L’educazione che ad essi vien data consiste nell’organizzare entro di loro certe tendenze determinate ad associare una data cosa con un’altra, - impressioni con conseguenze, queste con reazioni, quelle con risultati, e così via senza fine. Quanto più sono abbondanti i sistemi associativi, e tanto più completi sono gli adattamenti dell’individuo al mondo in cui vive” (James, 1903, pp. 188-189).

“(…) Partendo dal campo presente, preso come ‘strascico’, non possiamo mai predire né definire che cosa la persona stessa ne penserà cinque minuti più tardi. Gli elementi che possono acquistare una grande preponderanza nel processo, le parti di ogni campo successivo attorno alle quali principalmente si aggireranno le associazioni, le possibili biforcazioni determinate dalla suggestione, sono così numerose ed ambigue, da essere indeterminabili prima del fatto. Ma, se non possiamo sviluppare in avanti le leggi dell’associazione, possiamo sempre seguirne il corso in senso inverso. Noi non possiamo dire ora che cosa ci sorprenderemo a pensare fra cinque minuti; ma qualunque possa essere questa cosa, noi potremo seguirne la derivazione, attraverso gli anelli intermediari di contiguità e di similarità, fino a ciò che stiamo ora pensando. Ciò che frustra le nostre previsioni è la parte deviatrice fatta dal margine e dal foco, - nel fatto, da ogni elemento per sé del margine e del fuoco, - nel richiamare le idee più prossime” (James, 1903, pp. 192-193).

“Voi avete veduto appunto con quanta prepotenza una semplice parola eccitante sappia ridestare i suoi propri associati, facendo deviare tutto l’ordine del nostro pensare dalla via che andava seguendo. Sta il fatto che ogni porzione del campo tende a ridestare i suoi propri associati; ma se tali associati sono troppo ampiamente diversi, sorge una specie di rivalità, e non appena uno od alcuni di essi cominciano a lavorare per conto proprio, sembra che gli altri siano come aspirati, e vengono lasciati indietro. (…) Si ha qualcosa come una costellazione, in cui sembra che specialmente certe porzioni di campi mentali già trascorsi entrino in gioco e vi abbiano un posto determinato” (James, 1903, p. 194).

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“La ragione pratica, per me, per rammentarvi una simile legge è questa, che sviluppando le associazioni nelle menti dei vostri scolari, voi non dovete ricollegarle tutte a pochi ‘strascichi’, ma moltiplicare quanto sia possibile gli ‘strascichi’ stessi. Accoppiate la reazione che desiderate ottenere con molteplici costellazioni di antecedenti, - non fate sempre una domanda con le stesse parole e nello stesso modo, per esempio; non servitevi sempre delle stesse combinazioni di numeri nei problemi di aritmetica; variate gli esempi, ecc., quanto più potete” (James, 1903, p. 195).

“(…) Pensando ai vostri allievi (comunque possiate pensarli ancora) come altrettanti piccoli sistemi di un meccanismo associativo, voi sarete meravigliati della penetrazione delle vostre vedute nelle loro operazioni, e della praticità dei risultati che ne trarrete. Noi pensiamo le nostre conoscenze, per esempio, come caratterizzate da certe ‘tendenze’. Ora, ogniqualvolta le esaminiamo, tali tendenze dimostreranno di essere tendenze di associazione. In esse certe idee sono continuamente seguite da altre idee; queste da certi sentimenti ed impulsi ad approvare o a disapprovare, ad accettare o a rifiutare. Se il soggetto ridesta una di queste prime idee, l’esito pratico può agevolmente essere preveduto. In breve, i ‘tipi di carattere’ sono, in senso largo, tipi di associazione” (James, 1903, p. 196).

“Nessun soggetto ha ottenuto un’attenzione maggiore, per parte dei pedagogisti, quanto l’argomento dell’interesse. Esso è il conseguente naturale degli istinti di cui ultimamente parlammo, ed è quindi assai adatto ad essere svolto a questo punto” (James, 1903, p. 197).

“L’attenzione volontaria, è così, un affare essenzialmente istantaneo. Voi potete reclamarla, per vostra utilità nella scuola, facendo la voce grossa e imperiosa; e facilmente potete ottenerla. Ma, a meno che il soggetto sul quale voi reclamate in questo modo l’attenzione abbia in sé il potere di interessare gli allievi, voi non la terrete ferma che per pochissimi istanti, e subito dopo le menti loro prenderanno la via degli spazi senza confini: Per trattenerla dove l’avete richiamata dovete rendere il soggetto tanto interessante per gli alunni, che la mente non possa sfuggire di nuovo. Per ottenere questo c’è un precetto; ma questo, come tutti i precetti, è astratto, e per ottenerne dei risultati pratici dovete accoppiarlo con qualche conoscenza madre.

“Il precetto è che si deve far sì che il soggetto mostri sempre aspetti nuovi di sé; che presenti nuove questioni; che, in una parola, si muti. Da un soggetto che non si muta l’attenzione sfugge inevitabilmente” (James, 1903, p. 210).

“Non vogliate quindi, semplicemente per amor di disciplina, richiamare l’attenzione dei vostri allievi col tuonare della voce. Non chiedetela loro troppo spesso come un favore, né reclamatela come un diritto, e neppure vogliate prendere l’abitudine di eccitarla decantando l’importanza del soggetto. Talvolta, è vero, dovrete fare anche questo, ma quante più volte lo farete, e tanto meno provetto vi dimostrerete come insegnante. Richiamate, derivate l’interesse dall’interno, per il calore con cui vi appassionate voi stesso al soggetto, e seguendo le leggi che io vi ho proposto.

“Se qualche soggetto è altamente astratto, illustratene la natura mediante esempi concreti. E’ poco familiare? Delineate qualche punto di analogia che esso possa avere con cose conosciute. (…) Sopra ogni cosa siate certi che esso subirà

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diversi mutamenti interni, poiché nessun oggetto che non vari mai può occupare lungo tempo il campo mentale. Che il vostro allievo passi completamente da quel soggetto a qualche cosa di assolutamente diverso, la varietà nell’unità essendo il segreto di ogni racconto o pensiero interessante” (James, 1903, p. 218).

“Non si può avere un miglioramento della facoltà generale, o elementare, della memoria: vi può essere soltanto un miglioramento della nostra memoria rispetto a speciali sistemi di cose associate; e quest’ultimo miglioramento è dovuto al modo in cui le cose in questione sono intessute nella mente in una scambievole associazione. Intessute intrinsecamente o profondamente, esse sono conservate; sconnesse, esse tendono a dileguarsi tanto più rapidamente quanto è più scarsa la ritentiva congenita del cervello. E per quanti siano gli esercizi, per quante siano le ripetizioni adoperate per un sistema di oggetti, per apprendere la storia, per esempio, essi non serviranno a migliorare né la durata, né la facilità di ritenere oggetti appartenenti ad un sistema completamente disparato, - come sarebbe il sistema dei fatti chimici. Ogni sistema deve essere macinato, per così dire, separatamente e per se stesso nella mia mente” (James, 1903, pp. 230-231).

“L’imparare i fatti di un altro sistema non lo aiuterà in alcun modo ad essere trattenuto dalla mente, per la semplice ragione che esso non ha ‘strascichi’ entro quel secondo sistema” (James, 1903, p. 231).

“Il miglior sistema possibile di intessere qualche cosa nella mente, è un sistema razionale, o ciò che si chiama una “scienza”. Ponete la cosa nella sua casella in una serie classificatoria; spiegatela logicamente mostrandone le cause e mostrate quali ne siano le deduzioni necessarie; trovate di quale legge naturale essa sia un esempio, - e la conoscerete nel modo migliore possibile. Una ‘scienza’ è infatti la migliore invenzione risparmia-fatiche. Essa risparmia alla memoria un numero infinito di particolari, sostituendo, come deve, le semplici associazioni di contiguità con quelle logiche di identità, di similarità o di analogia. Se voi conoscete una ‘legge’, potete scaricare la vostra memoria di un’infinità di esempi particolari, perché la legge ve li ripresenterà ogni qualvolta ne abbiate bisogno” (James, 1903, p. 233).

“Gli eccessi del vecchio imparare a memoria letteralmente e gli immensi vantaggi dell’insegnamento obbiettivo nei primi stadi della cultura hanno indotto forse ad una reazione immoderata ed ingiusta coloro che fanno della filosofia dell’insegnamento: e l’imparare letteralmente è forse un metodo troppo disprezzato al dì d’oggi. Perché, quando bene si sia detto e fatto tutto, permane il fatto che il materiale verbale è, insomma, il materiale più pratico e più utile per il maneggio del pensiero. Le concezioni astratte sono fissate ed incarnate per noi nelle parole” (James, 1903, p. 237).

“L’arte di ricordare è l’arte di pensare” (James, 1903, p. 248)

“Alla luce di tutti questi fatti si può ben credere che l’impressione globale che un insegnante acuto riceverà dalle condizioni del suo allievo quali gliele indicano il suo temperamento generale e la sua condotta, la sua attenzione, la sua prontezza, la facilità o lo stento con cui esso compierà il suo lavoro di scuola, avranno un valore ben maggiore di quei saggi sperimentali irreali, quelle pedantissime misure elementari dell’esaurimento della memoria, dell’associazione,

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dell’attenzione, ecc., che vengono predicate come l’unica base di una pedagogia genuinamente scientifica. Queste misure possono bensì darci informazioni utili, ma soltanto quando le combiniamo con osservazioni fatte senza lucidi strumenti, sulla condotta generale dell’individuo preso in esame, da insegnanti con buoni occhi sul loro capo, molto senso comune, e con un po’ di sentimento per i fatti concreti della natura umana nel loro cuore” (James, 1903, p. 242).

“(…) La sola lezione realmente pratica ed utile che vien fuori da questa psicologia analitica riguardo alla condotta di scuole numerose è la lezione a cui si era già arrivati per una via puramente empirica, che cioè l’insegnante deve sempre cercare di fare impressione sulla sua scolaresca per quante più vie sensitive egli può. Parlate e scrivete e disegnate alla lavagna, lasciate che gli scolari parlino, e fateli scrivere e disegnare, mostrate dei disegni, dei piani, delle curve, presentate dei diagrammi diversamente colorati nelle loro diverse parti; e dalla complessa varietà delle impressioni l’individuo bambino sceglierà per sé quella che per lui è la più valida” (James, 1903, pp. 244-245).

“Siate pazienti, quindi, e conservate simpatia per quel tipo mentale che agli esami fa una figura meschina. Può darsi che, nel lungo esame che la vita ci prepara, egli finisca per uscirne con un posto di classificazione migliore di quello ottenuto dal fluente e rapido ripetitore di lezioni, perché le passioni del primo sono più profonde, i suoi propositi migliori, il suo potere di combinare le idee più elevato, tutto il suo valore mentale essendo per conseguenza più importante” (James, 1903, p. 248).

“Il processo dell’educazione, considerato ampiamente, può venire descritto semplicemente come il processo per cui si acquistano idee o concezioni, la mente educata essendo quella che ha la maggiore provvista d’idee, pronte per essere utilizzate nella maggiore possibile varietà di emergenze della vita.

“In tutto questo processo per cui si acquistano delle concezioni, viene seguito un certo ordine istintivo. Esiste una tendenza congenita ad assimilarsi ad una data età un certo ordine di concezioni, ed un altro ordine in un’età più avanzata. Nei primi sette od otto anni dell’infanzia la mente è maggiormente interessata alle proprietà sensibili delle cose materiali. La costruttività è l’istinto più attivo; e nell’incessante martellare e segare, nel vestire e svestire le bambole, nel riunire e sparpagliare gli oggetti, il bambino non soltanto abitua i propri muscoli all’azione coordinata, ma acquista un’infinità di concezioni fisiche le quali formano la base, per tutta la vita, della sua conoscenza del mondo materiale. Saggiamente l’insegnamento oggettivo e l’esercizio manuale servono ad ampliare la sfera di questo ordine di acquisizioni. La creta, il legno, i metalli e le varie specie di strumenti contribuiscono largamente a questo immagazzinare. Una giovinezza stabilitasi su di una base sufficientemente larga di questo genere porta sempre con sé qualche utile nella vita” (James, 1903, pp. 253-254).

“L’appercezione è una parola estremamente utile in pedagogia, perché serve a dare un nome adatto ad un processo a cui ogni insegnante si deve frequentemente riferire; però, essa altro non significa che l’atto di assumere una cosa nella mente. Essa non corrisponde a nulla di peculiare o di fondamentale in psicologia, essendo soltanto uno degli innumerevoli risultati del processo psicologico dell’associazione delle idee; - e la psicologia per se stessa può facilmente dare a meno della parola, per quanto utile essa possa essere in pedagogia” (James, 1903, p. 263).

“L’essenza della questione è la seguente: ogni impressione che entra dall’esterno, sia essa una proposizione che udiamo, un oggetto che vediamo, o un

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effluvio che arrivi al nostro naso, non appena è entrato nella nostra coscienza, viene trascinata nell’una o nell’altra direzione, formando delle connessioni con gli altri elementi che già vi si trovavano, e finisce per produrre ciò che chiamiamo la nostra reazione. Le connessioni particolari che si formano sono determinate dalle esperienze passate, e dalle associazioni dell’impressione del genere presente con quelle. (…) L’impressione risveglia i suoi antichi associati; questi escono ad incontrarla ed essa è ricevuta da loro. (…) E’ il destino di ogni impressione quello di venire a cadere a questo modo in una mente occupata da ricordi, idee, interessi, e di essere accolta da essi. Con l’educazione che abbiamo già, non possiamo incontrare un’esperienza che resti per noi completamente nuova: ma sempre essa ci rammenta qualche cosa di simile per qualità, o per qualche contesto che possa averla circondata per l’addietro e che essa ora suggerisca in qualche modo. Questa scorta, questo corteo ideale che la mente fornisce è tratto naturalmente da quel magazzino di ricordi che la mente possiede. Noi concepiamo l’impressione in qualche modo definito; e ne disponiamo secondo le nostre possibilità acquisite, molte o poche, quanto alle idee. Questo modo di assumere l’oggetto costituisce il processo dell’appercezione” (James, 1903, pp. 263-264).

“In tutte le questioni appercettive della mente si fa risentire una certa legge generale – la legge dell’economia. In presenza di un nuovo corpo di esperienze, istintivamente noi prendiamo ogni cura di disturbare il meno possibile il fondo persistente delle nostre idee. Sempre noi tentiamo di dare ad un’esperienza nuova un nome che l’assimili a ciò che già conosciamo. Noi abbiamo in odio qualsiasi cosa completamente nuova, qualunque cosa che non abbia un nome e per la quale un tal nome si debba ancora foggiare” (James, 1903, p. 265).

“Vi sono tanti tipi di appercezione quanti sono i modi possibili in cui una mente individuale può reagire ad un’esperienza che gli arrivi” (James, 1903, p. 267).

“(…) nel maggior numero di esseri umani il capitale dei nomi e dei concetti viene acquistato durante il tempo dell’adolescenza ed i primi anni della vita adulta. (…) Un adulto abbastanza intelligente acquista anche ad una certa età molte nozioni di dettagli e di casi individuali che si connettono con la sua vita professionale o col nucleo dei suoi affari. Sotto questo rapporto le sue concezioni si accrescono durante un periodo assai lungo, la sua conoscenza divenendo più estesa e più minuta. Ma le categorie più ampie delle concezioni, le sorta delle cose e le più larghe classi di relazioni fra le cose, che formano il patrimonio della nostra conoscenza, entrano tutte nella mente in un’età comparativamente precoce. (…) Le concezioni acquisite prima dei trent’anni sono d’ordinario quelle soltanto di cui viviamo. (…) Ed un maestro sentirà qualche cosa di religioso, sentirà conformarsi in se stesso un senso sano dell’importanza della sua missione, conoscendo come da lui esclusivamente, dal suo presente ufficio di impartire delle concezioni, dipenda probabilmente la vita intellettuale e forse anche morale del suo futuro allievo” (James, 1903, pp. 271-273).

“La condotta dell’uomo appare come la semplice resultante di tutti i suoi svariati impulsi e delle sue inibizioni. Un oggetto grazie alla sua presenza ci fa agire, un altro deprime la nostra azione. I sentimenti ridestati e le idee suggerite dagli oggetti ci influenzano in tutti i sensi; le emozioni complicano il quadro coi loro effetti inibitori reciproci, le superiori abolendo le inferiore, o forse venendo abolite esse stesse. Per tutto questo la vita diviene prudente o morale: ma gli agenti psicologici di questo dramma non possono venir descritti altrimenti; voi vedete

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come null’altro che le ‘idee stesse’ – intendendo con questo nome di idee l’intero sistema di ciò che noi siamo soliti chiamare l’’anima’, il ‘carattere’ o la ‘volontà’ della persona, altro non è che un nome collettivo” (James, 1903, pp. 282-283).

La volontà era in questa visione la “risultante della composizione delle nostre impulsioni con le nostre inibizioni. (…) La forma più elevata del carattere, considerata astrattamente, deve certo essere piena di scrupoli e di inibizioni. Ma in un simile carattere l’azione, lungi dall’essere paralizzata, deve svolgersi con una determinazione energica, che talvolta vince tutte le opposizioni, talvolta si adagia lungo le linee in cui la resistenza è più tenue.

“Allo stesso modo in cui i nostri muscoli flessori agiscono più esattamente quando una contrazione simultanea degli estensori li guidi e li raffermi, così la mente di quegli i cui campi di coscienza sono complessi, e che, assieme alle ragioni che lo spingono all’azione, vede le ragioni contrarie, e tuttavia, invece di esserne paralizzato, agisce in modo da contemplare tutto il campo, è la mente ideale – quella, cioè, che dobbiamo cercare di riprodurre nei nostri bambini” (James, 1903, p. 284-285).

“Certi bambini, se non arrivano a far bene una cosa alla prima, rimangono completamente inibiti rispetto ad essa; per loro diviene letteralmente impossibile di intenderlo, se si tratta di un problema intellettuale; di compierla, se si tratta di un’operazione esterna, fin che duri questa condizione particolare di inibizione. Questi bambini d’ordinario sono ritenuti caparbi e vengono puniti, oppure l’insegnante oppone nel modo più rigido il proprio volere a quello dell’allievo, pensando che quest’ultimo debba venire ‘spezzato’. (…) Ma questa operazione porta con sé sempre un grande sciupìo di forza nervosa dai due lati, e la vittoria non rimane ogni volta all’aspirante ‘spezzatore di volontà’.

“Quando si veda chiaramente sviluppata una situazione di questo genere, e il bambino sia in uno stato di tensione interiore e di agitazione, diciannove volte su venti è molto meglio che l’insegnante lo consideri come un caso di patologia mentale, anziché di colpevolezza morale. Finchè nella mente dell’allievo permane quel senso inibitorio di impossibilità, egli non saprà oltrepassare l’ostacolo. Il maestro in tal caso non deve tendere ad altro, che a far sì che l’allievo dimentichi la cosa. Cancellate quel soggetto per un istante, volgete la mente a qualche cosa d’altro; poi, riportando indietro il bambino per mezzo di qualche via associativa coperta, riprendete il famoso soggetto prima che il bambino abbia modo di riconoscerlo, ed è probabilissimo che ora egli sorpasserà l’ostacolo senza avvedersene. E’ in questa maniera soltanto che avvezziamo il cavallo a non aver ombra di qualche cosa; ne distraiamo l’attenzione, facciamo qualche cosa davanti al suo naso od al suo orecchio, gli facciamo fare un giro intorno, e lo facciamo passar sopra ad una data macchia; mentre, se avessimo voluto adoperare la frusta, non avremmo fatto che rendere invincibile il suo capriccio. Un maestro che possegga del tatto non spingerà mai le situazioni difficili agli estremi” (James, 1903, pp. 287-288).

“Ed ora, o amici, voi vedete chiaramente quale sia il vostro ufficio come insegnanti. Se anche voi dovete ingenerare nei vostri allievi un ampio patrimonio di idee, alcune delle quali saranno d’ordine inibitorio, dovete pure provvedere a che non ne consegua una esitazione e una paralisi della volontà, e che il vostro allievo conservi tutta la sua potenzialità per un’azione vigorosa. La psicologia può determinare il vostro problema in questi termini, ma voi vedete come essa sia

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impotente a fornire gli elementi per una situazione pratica. Quando tutto è detto e tutto è fatto, e avete compiuto i vostri sforzi migliori, è molto probabile che il risultato dipenderà, più che da ogni altra cosa, da un certo tono nativo della costituzione psicologica del bambino” (James, 1903, pp. 288-289).

“Così sono da salvare i vostri allievi: primo, mediante il patrimonio di idee che voi fornite loro; secondo, mediante la somma di attenzione volontaria di cui essi possono disporre per trattenere saldamente le idee giuste, per quanto poco simpatiche; e terzo, mediante l’abitudine a cui debbono essere stati felicemente avvezzati, di agire decisamente secondo queste ultime” (James, 1903, p. 293).

“Sono stato accusato di dare un’interpretazione meccanicista od anche materialistica della mente. L’ho chiamata, infatti, un organismo ed una macchina. Ho parlato della sua reazione all’ambiente come la cosa più essenziale; ed ho riferito questo apertamente o implicitamente alla costituzione del sistema nervoso. E qualcuno fra voi mi va chiedendo se io sono o no un materialista assoluto” (James, 1903, p. 294).

“Il sostenitore del libero arbitrio crede che quell’apparenza sia cosa reale; il determinista pensa che sia un’illusione. Ed io mi schiero col primo, non perché non possa concepire chiaramente la teoria fatalista, o perché non ne sappia comprendere la plausibilità, ma semplicemente perché, se il libero arbitrio fosse vero, sarebbe assurdo che fossimo fatalmente forzati ad accettarlo ed a credere in esso. Considerando l’intimità delle cose, si dovrebbe piuttosto pensare che il primissimo atto di una volontà libera dovrebbe essere quello di sostenere la credenza nella libertà stessa. Conseguentemente, io credo francamente alla mia libertà; e questo faccio con la migliore delle coscienze scientifiche, sapendo che la predeterminazione della somma del mio sforzo di attenzione non potrà mai ricevere una prova obbiettiva, e sperando che, tanto se seguiterete il mio esempio a questo riguardo, quanto se non lo seguiterete, esso almeno vi permetterà di vedere che le teorie psicologiche e psicofisiche che io sostengo non debbono necessariamente forzare un uomo a divenire fatalista o materialista” (James, 1903, p. 296).

“Guardate dunque di fare dei vostri allievi tanti uomini liberi. Avvezzateli a dir sempre la verità, non tanto mostrando loro la meschinità del mentire, quanto destando il loro entusiasmo per l’onore e la verità. Dissuadeteli da quella loro istintiva crudeltà, impartendo loro un po’ della vostra congenita positiva simpatia per le interne sorgenti di gioia degli animali. E nelle lezioni che forse dovrete impartire per legge sui cattivi effetti dell’alcool, parlate meno di quel che non facciano di solito i libri, dello stomaco, dei reni e dei nervi degli ubriaconi, delle miserie sociali, e molto più invece della fortuna di possedere un organismo che sia mantenuto sempre, fin che vive, nelle sue condizioni giovanili di elasticità da un sangue sano, al quale eccitanti e narcotici siano ignoti, e per il quale il sole mattutino, l’aria aperta e la rugiada sono elementi di eccitazione abbastanza potenti” (James, 1903, pp. 298-299).

“Io non so esimermi dallo sperare che l’appercepire il vostro allievo come un piccolo organismo sensitivo, associativo e reattivo, in parte predestinato, in parte libero, vi condurrà ad una migliore intelligenza di tutti i suoi mezzi. Comprendetelo, dunque, come un simile piccolo meccanismo. E se, per di più, saprete anche vederlo

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sub specie boni, ed amarlo, sarete nelle migliori condizioni possibili per divenire insegnanti perfetti” (James, 1903, p. 300).

“E’ possibile che il lettore abbia udito far parola di una speciale teoria delle emozioni, che porta il nome di ‘teoria di James e Lange’. Secondo tale teoria le nostre emozioni sono dovute principalmente a quei commovimenti organici che vengono destati in noi in via riflessa dall’oggetto o dalle situazioni che ci eccitano. Un’emozione di paura, per esempio, o di sorpresa, non è un effetto immediato dell’oggetto che si presenta alla mente, ma è un effetto di quell’altro effetto precedente, che era la commozione organica, suscitata immediatamente dall’oggetto; cosicchè, se si sopprimesse quella commozione somatica, organica, noi né sentiremmo la paura, né potremmo dichiarare quella situazione paurosa; non troveremmo sorpresa alcuna, ma potremmo riconoscere freddamente che, per verità, l’oggetto faceva restare attoniti” (James, 1903, p. 4).

“Sembra che l’azione tenga dietro al sentimento, ma in realtà sentimento ed azione procedono di conserva; e regolando l’azione, la quale si trova sotto il controllo più diretto della volontà, noi possiamo indirettamente tenere in riga i sentimenti, che al dominio diretto della volontà si sottraggono.

Per questo la via maestra volontaria della gaiezza, quando il nostro spontaneo buon umore si sia perduto, è quella di alzarsi gaiamente, di guardare attorno con occhio sereno, e di agire e parlare come se fossimo sempre stati lieti e contenti. Se questo non vi fa sentire immediatamente più gaio, nessuna altra cosa potrà giovarvi, quella volta almeno” (James, 1903, p. 5).

“Soltanto i vostri mistici, i vostri sognatori, oppure i vostri pagliacci e i vostri vagabondi, possono permettersi un’occupazione così simpatica, un’occupazione che sconvolge in un batter d’occhio tutta la consueta scala dei valori umani, dando alla spensieratezza un valore maggiore che alla potenza, e buttando all’aria in un minuto tutte le distinzioni che un uomo comune, fedele alle convenzioni, impiega tutta una vita a mettere insieme. A questo conto voi potete essere profeti; ma non potete avere dei successi nel mondo” (James, 1903, pp. 48-49).

“L’occasione e l’esperienza dunque non sono nulla. Tutto dipende dalla capacità che ha l’anima di essere afferrata, di sentire le proprie correnti vitali afferrate da ciò che essa incontra. (…) La vita merita sempre di essere vissuta, solo che si abbiano di tali sensibilità corrispondenti (James, 1903, p. 61).

E, riferendosi alle immersioni nella natura di cui hanno parlato alcuni scrittori, James affermava che potevano sembrare “(…) forse semplicemente il racconto di una vacuità, in cui nulla avviene, nulla si raggiunge e nulla vi è da descrivere. Sono tratti di tempo senza significato e vuoti. Per colui invece che ne sente il segreto interiore, esse trillano con un’importanza che di per sé si afferma. Mi duole per quel ragazzo o per quella fanciulla, per quell’uomo o per quella donna, che non sono mai stati toccati dalla voce di questa misteriosa vita sensoriale, con la sua irragionevolezza, se così volete chiamarla, ma con la sua vigilanza e con la sua felicità suprema. Le feste della vita sono le porzioni di essa più vitalmente significative, perché sono, o almeno dovrebbero essere, ricoperte appunto con quella sorta di magico incanto che non può essere descritto” (James, 1903, p. 61).

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“Fra le radici di tutti gli errori stupidi e sanguinari che i guidatori di popoli hanno fatto subire ai loro soggetti, si trova sempre la dimenticanza di quel fatto. La prima cosa da imparare nel commercio con le altre persone è quella di non tagliare la via ai modi peculiari che ciascuno ha di essere felice, purchè questi modi non pretendano di tagliare violentemente la via ai nostri. Nessuno può intuire tutti gli ideali. Nessuno dovrebbe presumere a cuor leggero di saperli giudicare. La pretesa di dettare dogmi al loro riguardo per gli altri è la causa del maggior numero delle ingiustizie e delle crudeltà umane, ed è il tratto del carattere umano che più facilmente fa piangere gli angeli” (James, 1903, pp. 68-69).

“Abbiamo veduto come sia nostro naturale appannaggio la cecità e l’indifferenza degli uni verso gli altri; e, ciò malgrado, siamo stati condotti a riconoscere che può esistere un significato interiore nella vita altrui, anche là dove meno lo vediamo. Ora infine siamo indotti ad affermare che tale senso interiore può essere completo e valere anche per noi, quando la gioia interiore e il coraggio e la costanza si congiungano ad un ideale (James, 1903, pp. 92-93).

“(…) non esiste nulla di assolutamente ideale, e che gli ideali sono relativi alla vita di coloro che li coltivano” (James, 1903, p. 93).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto i testi di James:

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19. Storia ed esistenza nella genesi della personalità secondo K. Jaspers

La costante trasformazione dell’organismo nell’insieme appare come la conseguenza dell’età e si manifesta in tipiche serie di decorsi, di attacchi, di fasi, di processi. Nell’uomo l’evento biologico, in quanto si manifesta psichicamente, è sempre già elaborato in questo modo, costituisce una condizione che modifica l’evento psichico, appare nel non-biologico, nello spirito e da questo è compreso e perciò favorito o ostacolato nei suoi effetti. L’elemento puramente biologico, quando esploriamo l’anima dell’uomo, è solo al confine, può essere colto solo attraverso l’altro. Se discutiamo perciò l’accadere biologico, prima dovremo sempre gettare uno sguardo anche sul non-biologico, come quando nella discussione della storia della vita, abbiamo bisogno di un colpo d’occhio retrospettivo sul biologico, senza il quale la realtà dell’anima non può esistere nemmeno un istante. Il biologico, lo psichico e lo spirituale indissolubili nella realtà sono radicalmente distinti nel loro significato per cui devono essere separati secondo i metodi d’indagine e quindi messi in relazione.

La profonda differenza fra l’accadere vivente e quello soltanto meccanico appare nella modificazione endogena dell’organismo, nella direzione ascendente della crescita, nella maturazione, nella fase ancora lentamente crescente della maturità e infine nella direzione discendente dell’involuzione. Le età che si susseguono sono distinte per le qualità morfologiche e funzionali del corpo, come per i tipi della vita psichica. Tutte le malattie acquistano, secondo l’età in cui insorgono, la loro colorazione speciale; molte malattie sono limitate a certe età della vita.

Ogni specie vivente ha una durata della vita sua propria e tipica. Le tartarughe giganti possono vivere fino a 300 anni, gli elefanti fino a 200. l’uomo può raggiungere molto raramente 100 anni. La maggior parte degli animali ha una durata della vita più breve, così i cavalli fino ai 40 anni. La vita è immortale solo mediante la riproduzione. Tutti gli esseri viventi devono terminare, gli unicellulari con la divisione, i pluricellulari con la morte. La morte è la conseguenza della differenziazione unilaterale delle cellule al fine della divisione del lavoro; perché con la differenziazione le cellule perdono la loro capacità di dividersi, e specialmente le cellule nervose la perdono del tutto. Ma tutte le cellule capaci di dividersi periscono dopo un periodo determinato. Esiste nell’organismo una specie di orologio interno del processo biologico naturale, che probabilmente provoca la formazione degli ormoni, nella pubertà porta le ghiandole sessuali al loro sviluppo o lega ad una durata temporale il consumo delle cellule indivisibili. Nella costituzione il processo delle trasformazioni che si succedono come età della vita, è irreversibile. Nelle crisi, specialmente della pubertà, avviene in certo modo una trasposizione delle qualità dell’individuo. Ciò che rimane uguale nel cambiamento delle forme non è facilmente determinabile, perché anche ciò che resta uguale si adegua alle sue modificazioni.

La totalità della vita umana è stata suddivisa in periodi, di cui ognuno comprende 7 anni (Ippocrate); o 10, o 18 (Erdmann) oppure altri raggruppamenti. Tutte le suddivisioni distinguono in fondo 3 periodi principali, che possono essere più o meno aumentati da zone di transizione con le rispettive suddivisioni interne. Quali oscillazioni siano possibili nelle cifre degli anni lo mostrano i dati sull’inizio delle mestruazioni fra i 10 e i 21 anni (nella media a 14 anni), la menopausa fra 36 e 56 anni (in media 46 anni).

In conformità a questi periodi sono state descritte le caratteristiche psichiche delle diverse età.

Infanzia. La vita psichica del bambino è caratterizzata dalla rapida crescita, dall’insorgere di capacità e sentimenti vitali sempre nuovi, dalla grande esauribilità accompagnata dalla possibilità di un rapido compenso di tutti i disturbi, dalla grande capacità di apprendere, dalla notevole influenzabilità, dalla straordinaria fantasia e dallo scarso sviluppo di tutte le inibizioni psichiche, per cui tutto l’accadere psichico è eccessivo, le emozioni sono

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violente, gli istinti indomabili. La maggior parte dei bambini e delle persone giovani hanno capacità eidetiche, che con l’età vanno generalmente perdute.

Essenziale nell’infanzia è il rapido cambiamento con lo sviluppo. Questo sviluppo non è un processo uniforme, monotono, ma un insieme che si organizza, che nell’articolarsi si accorda e avana in estensione e in concentrazione. Fisicamente sono distinti i periodi di consolidamento e di allungamento, una tipica modificazione della statura dal 6° al 7° anno e poi dal 12° al 15° anno. Il tutto già nel bambino non è solo un evento organico di crescita biologica, ma anche un evento psico-spirituale di elaborazione e di modificazione del patrimonio acquisito, della relazione con se stesso, che crea una disciplina. Nonostante la differenza tra il conquistare con l’esercizio e il ricevere in modo subitaneo, come in dono, una nuova capacità, tra l’attività spirituale e la possibilità biologica, nella realtà non è possibile separare questi fatti l’uno dall’altro.

Pubertà. Nella fase della maturazione sessuale, con lo sviluppo della sessualità che è un fattore fra gli altri, l’equilibrio raggiunto alla fine dell’infanzia è turbato. Lo sviluppo ineguale delle funzioni e delle direttive della esperienza interiore, la disarmonia del nuovo, le oscillazioni fra gli estremi nel tendere verso tutto ciò che è smisurato, portano al fatto che l’individuo non comprende se stesso e il mondo gli appare problematico però egli diventa cosciente di questi fatti. Schematicamente si distinguono diverse fasi, così Ch. Buehler riconosce la fase negativa (irrequietezza, malumore, irritabilità, i movimenti che diventano sgraziati, ripulsa del mondo circostante), e la fase dell’adolescenza (affermazione della vita, gioia di vivere e speranza nell’avvenire, nuovi legami che si stabiliscono con l’ambiente, apice del sentimento di felicità – passaggio all’età adulta). Tumlirz distingue tre fasi: l’età dell’ostinazione (negativi contro tutti), l’età della maturazione (affermazione di se stessi); gli anni dell’adolescenza e della verginità (affermazione del mondo circostante). Sono descritte (come transitorie) molte manifestazioni della pubertà come il bearsi di certi stati d’animo, la menzogna come difesa della personalità ed altre.

Senilità. Somaticamente si osserva: disidratazione, aumento di cataboliti, ipertensione arteriosa, diminuzione della forza muscolare, della capacità vitale respiratoria, della rapidità di cicatrizzazione, del tempo fisiologico interno: in uno stesso spazio di tempo nel bambino accade molto più che nel vecchio. Le tracce della vita vissuta diventano sempre più numerose. Il ricambio della materia si rallenta. Difatti: “Quanto più rapido è il divenire e il trapassare delle parti, tanto più giovine è il tutto”.

La vita psichica dell’età senile, contrariamente a quella del bambino, è tranquilla, le capacità diminuiscono e sono sostituite dal grande patrimonio acquisito. Le inibizioni, l’ordinamento della vita, la padronanza di sé danno all’esistenza psichica qualche cosa di moderato, di imperturbabile. Accanto a ciò è spesso evidente un restringimento dell’orizzonte, una perdita del patrimonio psichico, una limitazione degli interessi, un isolamento egocentrico, una diminuzione dei bisogni istintivi della vita quotidiana, un’accentuazione delle disposizioni originarie per es. alla diffidenza, all’avarizia, all’egoismo, prima nascosti dallo slancio della vita giovanile.

Età e capacità di rendimento. Secondo i punti di vista della psicologia delle prestazioni, sono state confrontate le capacità delle diverse età della vita, e si è giunti all’affermazione generale che vi sono diminuzioni di rendimento, che in parte sono state considerate però come variazioni di questo. È stato constatato che la capacità al più rapido spostamento da un compito all’altro diminuisce già al 28° anno, la memoria regredisce dal 30° anno, l’acutezza dei sensi e l’abilità del corpo cominciano a soffrire dai 38-40 anni. Nelle prove di prestazione che si basano su esperienze nella professione e nella vita (lettura degli orari, reazioni, esecuzione di incarichi) dal 50° anno si manifesta un peggioramento molto lento. Risulta una differenza tra il periodo del culmine biologico e quello della massima altezza delle capacità prestazionali, che è correlata con la maggiore o minore cooperazione intellettuale. Entrambe concordano solo nello sport; nel

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lavoro manuale il culmine del rendimento è 10 anni dopo il culmine biologico, nel lavoro intellettuale 20 anni dopo.

(da K. Jaspers, Psicopatologia generale, Roma, Il Pensiero Scientifico, 19944 (ed. or. Heidelberg, 1913, 19597, pp. 729-732)

L’uomo ha sempre un passato dietro di sé. Ogni evento somatico, ogni malattia lasciano tracce dietro di sé. Tutto quello che è accaduto all’anima, ossia che è diventato cosciente, che è stato fatto e pensato in quanto ricordo è fondamento per tutto ciò che segue. Noi siamo sempre il risultato della nostra storia vissuta fino allora. L’uomo non è mai senza una preistoria, non è mai un principio nel tutto, né obiettivamente dal punto di vista biologico, che risale nella sua preistoria fino nelle relazioni ereditarie, né soggettivamente per la sua coscienza; dal primo atto della coscienza di se stesso, c’è per lui un “prima” così come quando ci svegliamo dal sonno sappiamo di un “prima”. Ciò che è stato agisce in lui, materialmente e mediante i ricordi, egli è sostenuto e vincolato dal proprio passato, anche da quello dimenticato. Ciò che egli diventa è determinato dal suo passato, ma anche dal modo con cui lo elabora. Perché l’uomo, in quanto risultato, è sempre anche principio ed origine della propria storia. Sostenuto dal proprio passato, egli afferra le possibilità del proprio avvenire. Il Bios, come esistenza obiettiva, è sempre passato, che si è trasformato in immagine. Il Bios come realtà è anche avvenire, che illuminerà nuovamente tutto il passato, se ne approprierà e lo interpreterà.

La comprensione della storia della vita vede nello sviluppo dell’uomo momenti di significato diverso (lo sviluppo nell’insieme è, fuori dal processo biologico, la storia della vita psichica, è movimento auto-riflessivo, è fondato esistenzialmente), inoltre questa comprensione si serve di una serie di categorie speciali (quali la “prima esperienza”, l’adattamento, la crisi, ecc.).

I momenti dello sviluppo come un tutto. Distinguiamo: primo il processo vitale biologico; secondo la storia psichica della vita non ancora trasparente in sé, ma effettiva; terzo la coscienza autoriflessiva mediante la quale la storia della vita illumina se stessa, si muove e produce creativamente; quarto la causa esistenziale della decisione e dell’accettazione del dato per una appropriazione interiore. […] i quattro momenti nella realtà sono un unico momento indissolubile in una reciproca solidarietà, nella quale si stimolano modi di essere di diverso significato, ma tali, che solo nei due momenti intermedi sono interamente comprensibili, mentre di fronte al biologico e di fronte all’esistenza confinano con l’incomprensibile – pur rivelandosi l’esistenza anche nel biologico, e pur restando il biologico la base dell’esistenza. Noi abbiamo sempre la tendenza a comprendere e a spiegare obiettivando semplicemente, ciò che l’uomo è, ciò che fa e sa. Contro questa tendenza erronea noi dobbiamo continuare a sentire l’esigenza degli enigmi fondamentali, specialmente per quanto riguarda la trasformazione del vitale nell’esistenziale, cioè come l’elemento originario trasformi la vitalità in una cosa del tutto diversa, oppure la trasposizione della crisi in metamorfosi interne, oppure lo sviluppo della produttività intellettuale dell’autoriflessione, oppure la coscienza storica dell’esistenza, per la quale il ricordo diventa futuro.

Le strutture del corso della vita, considerate una per una, fanno trasparire il loro significato in tutti i quattro momenti. Con tali strutture ritornano alcune relazioni comprensibili e causali delle quali abbiamo parlato. Ora citiamo brevemente alcune categorie, che possono essere considerate come specificamente biografiche.

La coscienza come mezzo per acquisire nuovi automatismi. La coscienza è troppo ristretta, può afferrare solo poco in uno stesso raggio di attenzione. Ma ciò che avviene coscientemente può passare nell’inconscio attraverso la ripetizione e l’esercizio, e poi ripetersi automaticamente con stimoli adeguati senza un nuovo interessamento della coscienza. Negli eventi psichici avviene qualcosa di analogo a ciò che sperimentiamo col corpo quando impariamo a camminare, ad andare in bicicletta, a scrivere a macchina. La sicurezza del

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fondamento inconscio, come risultato della direzione, della ammissione, della esecuzione quotidiana interiore, sostiene la nostra vita presente. Per ciò che io sono adesso, io sono responsabile, attraverso innumerevoli atti della mia coscienza avvenuti nel corso della mia vita, nel senso che atti una volta liberi sono stati la causa del mio essere come sono.

La coscienza è sempre, per così dire, la facciata della nostra vita, entro la quale ci allarghiamo, ed è essa stessa solo un confine ristretto del regno dell’inconscio. Ciò che avviene di volta in volta a questo confine è semplice ed è elaborato solo in ciò che ha di intelligibile. Invece ciò che diventa inconscio, con l’andare del tempo, diventa straordinariamente complicato nel suo strutturarsi; esso è il regno del nostro essere e del nostro potere, che conserva ciò che è stato acquistato sul fronte della coscienza, e che di conseguenza aumenta ciò che in essa diventa possibile. La coscienza perciò può essere una funzione di quel principiare, costante in virtù del quale è conquistato il nuovo, o anche lo specchio di ciò che è stato raggiunto, che è un gradino o una motivazione per proseguire oltre. Il corso della vita è un cammino dall’inconscio verso un nuovo inconscio. Al confine luminoso del cosciente si situa una trasformazione delle sue possibilità. Cresce la possibilità di illuminare il momento presente, la vastità dell’esperienza, la profondità di ciò che si può vivere interiormente.

Formazione del mondo e creazione di opere. Appena l’uomo si sveglia, non vuole solo vegetare, ma esistere per qualche cosa. Egli vuole sperimentare un senso della sua vita. Perciò la vita non è per lui solo un mondo circostante che subisce, ma il compito di dar forma a qualcosa di nuovo; egli produce il proprio mondo in quello già dato e tutto ciò che senza di lui esisterà per gli altri. La sua vita va al di là della sua esistenza biologica. Egli crea opere che continueranno anche dopo di lui. Compiere il lavoro giornaliero – il compito di quel giorno – in rapporto alla professione, cioè alla sua continuità di rendimento, realizzato per l’effetto e sotto la guida di idee spirituali, solo questo porta ad una realizzazione dell’essenza dell’uomo. Nel compito e nella determinazione egli si sente contemporaneamente attivo nella sua creatività e sottomesso a questo dovere. Egli stesso determina la via nella quale sa di essere determinato. Il comportamento fondamentale dell’uomo, lo stile della sua vita, la coscienza di sé dipendono dal modo con cui egli inserisce la propria attività nella coerenza delle cose. Egli raggiunge la propria completezza quando diventa cosciente in un mondo che egli concorre a produrre. L’unità e la totalità del suo Bios sono legate all’unità e alla totalità di tale mondo.

Il corso della vita ha la sua articolazione attraverso la struttura delle prestazioni, del mondo e dell’opera dell’uomo. Il Bios dell’uomo è determinato fino nella sua profondità dalle possibilità delle sue azioni costruttive nel mondo nel quale egli cresce. L’ampiezza dei suoi orizzonti, la solidità del terreno, gli scuotimenti del tutto provengono dal mondo umano nel quale egli è nato, essi determinano la misura del suo divenire cosciente ed il contenuto delle sue esperienze dell’essere. Le età della vita hanno in questo corso il loro caratteristico significato. L’infanzia pone la base; ciò che in essa è stato trascurato ed è mancato, non può mai essere recuperato; ciò che è stato devastato nel tutto, difficilmente potrà essere ricostruito; quei contenuti che saranno acquisiti, non potranno andare perduti. La vecchiaia è sostenuta dalla verità della lunga esperienza della vita; se questa è stata realizzata con serietà, la vecchiaia può acquistare, nelle trasformazioni del mondo, attraverso la propria consapevolezza, una imperturbabilità e insieme una profondità della sofferenza, che sono entrambe estranee al bambino.

Rotture e adattamento. Adattamento significa l’appropriazione di forme della vita per un determinato ambiente stabile. Un tale adattamento può coincidere con perdite vitali, come nelle forme ipoevolute per es. di insetti privi di ali, che sulle isole tempestose sopravvivono più facilmente di quelli alati. Questo adattamento è basato sulla selezione, e i suoi processi si producono biologicamente attraverso molte generazioni. La capacità di adattamento dell’uomo all’ambiente fisico circostante è limitata biologicamente come quella di ogni vita; nelle razze che vivono in climi diversi si ha un adattamento diverso. Ma la capacità dell’uomo di adattarsi

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spiritualmente e psichicamente è quasi illimitata. Egli supera la ristrettezza biologica mediante la progettazione e l’organizzazione.

Il mondo dell’uomo non è stabile. Le situazioni e le occasioni cambiano, la situazione sociologica è multiforme e può trasformarsi catastroficamente in ogni vita per eventi che irrompono improvvisamente. Gli avvenimenti ed i compiti possono modificare la situazione. Per mantenere e compiere la propria esistenza il singolo deve adattarsi. La capacità di adattamento è individualmente molto diversa: va dall’inserirsi nelle circostanze, conservando una stabilità interiore, fino alla trasformazione del carattere stesso. Alcune nature danno l’impressione di superare tutte le tempeste, come una roccia che resta sempre uguale a se stessa, altre viceversa sembrano essere senza alcuna fermezza, come l’eco dell’ambiente e delle situazioni. La vita, in rare condizioni, può realizzarsi restando in determinate sfere, in determinate professioni o compiti, ma più frequentemente deve trasformarsi. Il Bios è conformato attraverso il modo di adattamento in un mondo circostante generalmente labile, oppure con il passaggio attraverso una serie di ambienti che si alternano. Da una stessa disposizione ereditaria possono svilupparsi personalità del tutto diverse, a seconda dell’ambiente, delle tradizioni, dell’educazione, delle esperienze, degli eventi e dei compiti. Sono state osservate trasformazioni del carattere a seguito di radicali modificazioni della condizione di vita; perfino lo stesso diventare indipendenti nella professione modifica la calligrafia, come espressione del carattere.

Prima esperienza. La storicità della vita significa la irrevocabilità di ciò che una volta è stato vissuto, fatto e sperimentato. Ciò che è avvenuto non può essere annullato. La vita diventa reale attraverso le vie che essa ha percorso, attraverso la ripetizione, tanto se è semplice abitudine quanto se è intensificazione di significati uguali, attraverso l’appropriazione, l’approfondimento e la fedeltà della ripetizione. Storicamente per ogni cosa ogni volta è la prima volta. La prima esperienza, in quanto prima, è irripetibile, ha una sua propria forza luminosa e rivelatrice – ha una serietà specifica: con ogni prima esperienza va perduta una possibilità, perché esiste ormai una determinata realtà che esclude altre possibilità. Si dice infatti: “un volta è nessuna volta”, e si fa notare con ciò giustamente l’importanza specifica della seconda volta quale conferma definitiva. Ma in senso letterale quella frase (una volta è nessuna volta) è sbagliata. Tutte le prime esperienze hanno un’importanza decisiva. “Una esperienza che fa sentire per la prima volta una determinata emozione, crea in certo modo per tutta la vita la capacità di provare una determinata emozione” (Bleuler). Da questa affermazione consegue automaticamente il principio di significato esistenziale, secondo il quale la scelta di ciò che è stato vissuto determina ciò che viene intrapreso.

La prima esperienza come tale non si può comprendere isolatamente, ma solo nella storia della vita. Il suo effetto successivo dipende più dal suo significato che dall’intensità delle emozioni del momento. Le sue conseguenze sono determinate inoltre dal genere di esperienze che trova nell’uomo, dalla fase di sviluppo, e dal periodo di maturazione in cui avviene, infine dal fatto di cadere in fasi endogene anormali oppure in alterazioni della coscienza. Solo le prime esperienze esistenzialmente decisive modificano con l’uomo il suo mondo. Tutto il modo dell’esperienza diventa differente, il passato acquista una nuova luce, l’avvenire entra in una nuova atmosfera. Esperienze vissute che provengono da cause esterne e che nella loro azione appaiono come corpi estranei all’anima, si chiamano traumi psichici.

Crisi. Nel corso dello sviluppo si chiama crisi il momento nel quale il tutto subisce un cambiamento subitaneo, dal quale l’individuo esce trasformato, si dando origine ad una nuova risoluzione, si andando verso la decadenza. La storia della vita non segue il corso uniforme del tempo, struttura il proprio tempo qualitativamente, spinge lo sviluppo delle esperienze a quell’estremo che rende inevitabile la decisione. Solo opponendosi allo sviluppo l’uomo può fare il vano tentativo di mantenersi nella posizione di dominare la decisione senza decidere. Poi la decisione avviene suo malgrado mediante la continuazione effettiva della vita. La crisi ha il suo momento; non può essere anticipata né saltata. Deve, come tutte le cose della vita, maturare. Non deve apparire necessariamente in modo acuto come una catastrofe, ma può con un

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adattamento silenzioso, apparentemente senza dar nell’occhio, compiersi per sempre in modo decisivo.

Lo sviluppo spirituale. La formazione attraverso lo sviluppo è un evento spirituale, nel quale l’uomo elabora ciò che ha sperimentato e ciò che ha fatto. Ogni suo presente ha come fondamento un passato, la cui azione inconscia o guidata da un ricordo, plasma la vita successiva. Ogni presente è il risultato di infinite sedimentazioni, siano queste una zavorra paralizzante, siano le vie direttrici per un’ulteriore ascesa, la molla che spinge al movimento. Formazione interiore significa ordinare costantemente tutte le precedenti realtà inizialmente sfrenate e conquistare la disposizione interiore configurando gerarchicamente impulsi vitali, ricordi, sapere e simboli.

Una forma fondamentale dello sviluppo spirituale è il movimento nei contrasti e mediante i contrasti verso la sintesi o verso la scelta. In breve lo sviluppo dialettico. Lo sviluppo dialettico eleva l’essenza dell’uomo; se egli giunge a qualcosa di finito e vi si attiene, ne è limitato. Di fronte a questo vicolo cieco di punti fissi irreversibili, passa la via che porta alla libertà delle realizzazioni onnicomprensive, e che, rimanendo in mezzo ai contrasti, li deve subire, ma, nella tensione, può legarli in sé gli uni agli altri.

Mentre spiritualmente l’uomo è sopraffatto da tutti i contrasti, esistenzialmente è decisivo per lui il momento nel quale diviene cosciente di quei contrasti che egli non abbraccia ma fra i quali sceglie, quando la perdita di possibilità diventa la condizione dell’ascesa alla verità vera.

Tra gli infiniti problemi della storia vitale ne scegliamo alcuni pochi.Importanza del periodo dell’allattamento e della prima infanzia. Gli psicoanalisti hanno

studiato la “preistoria” dell’uomo, ossia la sua vita prima del ricordo cosciente, come un tempo che determina e decide tutta la sua vita ulteriore.

Prive di fondamento e perciò fantastiche sono le considerazioni sul periodo della vita embrionale. Non conosciamo né segni obiettivi di una vita psichica dell’embrione, né un ricordo di essa. La nascita, come una catastrofe somatica, nella quale il neonato acquista improvvisamente la vita con il respiro, nella quale trasforma la propria circolazione e deve subire gli effetti dolorosi del nuovo ambiente, deve essere un’esperienza psichica altrettanto profonda, di cui il gridare, come risposta all’entrata nel mondo, ne sarebbe l’espressione. Somaticamente molte cose accadono in questa catastrofe: dai traumi da parto possono conseguire danni permanenti. Ma nessun uomo sa né ricorda alcunché di un’esperienza che valga a determinare lo stato d’animo e l’atteggiamento verso il mondo.

Diverso è il periodo dell’allattamento, del quale pure non resta alcun ricordo; ma in esso si possono fare osservazioni, per es. sulla espressione del viso, il comportamento, l’umore dei lattanti. L’importanza dell’affetto umano non può essere sottovalutata. I bambini, anche negli istituti diretti nel modo migliore sotto la cura delle suore, già dal quarto mese presentano uno sviluppo mentale inferiore a quello di bambini allevati con le cure molto più irrazionali della madre. Il bambini che, come ad es. i trovatelli, sono allevati in modo adeguato, ma senza affetto, in istituti sanitari, hanno un’espressione del viso infinitamente sofferente, che dimostra una privazione. L’effetto di questi primi mesi di vita sull’intero futuro è ipotetico, ma possibile.

Probabilmente dai primi anni di vita deriva un’influenza determinante inevitabile, a seconda delle condizioni sociali, dell’ambiente nel quale avviene lo sviluppo. I bambini che, per es., dalla prima infanzia sono usati a scopi utilitari e piuttosto addestrati che educati, che crescono in orizzonti ristretti, privati della vastità di una tradizione ricca di contenuti, non possono aver mai più quel ricordo storico stimolante e impegnativo che in genere sostiene una vita. L’intero piano inconscio di una vita che si anticipa nell’infanzia e nella gioventù può aver luogo solo in condizioni libere relativamente sicure, nella serietà di una grande tradizione precedentemente vissuta in un determinato ambiente.

Dobbiamo anche ricordare l’importanza che sembrano avere alcune singolari primissime esperienze. Freud ha considerato di notevole valore l’effetto di impressioni riportate nella prima

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infanzia (dal periodo preistorico fino al quarto anno d’età). Deviazioni precoci porterebbero ad abbandonare il corso normale della vita, a trascurarlo, a renderlo impossibile. Ma non è chiaro fin dove ciò sia giusto, fin dove la disposizione psichica debba essere attribuita alle acquisizioni nel primo periodo della vita, e non a una disposizione immutabile e all’eredità. Questo problema, sollevato da Freud, intorno alle reminiscenze infantili, apre certo alcune prospettive nuove, ma nei singoli casi è risolto in modo acritico e poco persuasivo. La personalità può sopravvalutare retrospettivamente l’importanza delle esperienze passate, specialmente di quelle infantili, che sono in qualche modo suscettibili di ricordo. In occasione di conflitti e di difficoltà del presente, esperienze dimenticate da molto tempo, e prive di importanza, tornano ad essere efficaci, gravate di forti valori sentimentali, e vissute come simboli ovvi per le difficoltà attuali; e allora la coscienza che tale difficoltà odierna sia determinata inevitabilmente dal passato, procura forse perfino un sollievo. Questo “riprendere possesso” di esperienze passate da molto tempo unitamente alle emozioni, e l’errata sopravvalutazione di esse quali fattori causali, sono chiamati dalla scuola di Freud “regressione” (per la rappresentazione figurata che l’energia psichica rifluisce su contenuti precedenti della vita psichica). Jung ha reso comprensibile la genesi nei medici e nei pazienti della sopravvalutazione teorica dei traumi psichici passati.

Rapporti storico-vitali dell’anima con le epoche della vita. L’animale attraversa le fasi biologiche dell’età senza coscienza, l’uomo sa la propria età e si comporta verso di essa in modo molto diversi. Un modo corrente di valutazione preferisce la gioventù come la vera vita e rigetta la vecchiaia come una decadenza, ma non è stato sempre così. Per i romani la completa maturazione, il vero valore e la vera dignità cominciano a 40 anni. Nell’industria moderna chi ha più di 40 anni spesso è considerato già meno efficiente. Concezioni sulla vita e le sue età in voga in vari tempi, quali la “rivoluzione della gioventù”, il “secolo del bambino", influenzano necessariamente il giudizio. Il concetto normativo è stato espresso nella frase: ognuno vorrebbe diventare vecchio, ma nessuno vorrebbe esserlo. E di contro è stato detto: ogni età della vita ha un proprio valore che appartiene solo ad essa. L’uomo è consapevole della propria età e di ciò che è adatto ad essa (egli diventa infelice o malato se erra contro di essa). Chi non realizza il significato particolare della propria età ne sente solo le sofferenze. Vi è una radicale differenza tra colui che solo subisce, desidera, sperimenta ciò che gli è dato, e colui che lo accetta, lo realizza e lo plasma. L’origine di questa decisione ultima dell’esistenza è psicologicamente inaccessibile. Ma noi comprendiamo le manifestazioni che ne conseguono.

Con l’invecchiare l’uomo cade in uno stato d’animo fondamentale, che gli fa sentire che per questa vita non è più possibile nulla di essenzialmente nuovo. Egli, ricco della realtà acquisita, che per lui rappresenta l’intero essere umano, deve essere soddisfatto con essa. Se non è chiara la via verso la realizzazione, insorge per es. l’irrequietezza, che cerca ancora qualche cosa di diverso, cioè l’autentico, o il non voler invecchiare oppure la delusione, che privata dell’attesa nel futuro, è semplicemente scontenta di tutto, che vede ovunque il fallimento, la mancanza, la colpa, disgustata del mondo e degli uomini, amareggiata e rammaricata. Con l’invecchiare aumenta la paura della morte, la paura che diminuiscano le proprie capacità di rendimento e quindi la stima degli altri, aumenta la gelosia verso coloro che lo superano, o l’invidia sessuale, l’ipocondria, e così via.

Ma la misura della realtà raggiunta è data dalla quantità dei momenti presenti che ricordano l’intera vita. L’apice del livello umano è raggiunto dalla profondità del ricordo. Viceversa la vita si dissolve nella brevità del ricordo, nel restringimento dell’orizzonte vitale a poche settimane e mesi, senza passato e senza avvenire. Ma quando la realizzazione riesce, le crisi dell’età sono l’origine dell’elevazione dell’uomo. Contrariamente al decorso biologico l’anima si eleva. La donna “diventa più bella cogli anni” grazie all’espressione della sua anima, mentre passa il fascino della giovinezza, che in tutto il suo splendore è solo un fatto biologico. L’uomo diventa “saggio”, acquista il nuovo e l’ultimo compimento nell’età più avanzata.

La storia della vita passando attraverso le sue fasi è sempre unica e irripetibile, non deve essere guidata da un piano né da un programma, ma deve essere acquisita dall’esistenza

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possibile. Nessuna psicologia, nessun sapere, nessuna visione generale può afferrare questo fondamento. Ma l’insuccesso appare in numerosi fenomeni psicologici, che, quando si manifestano come disturbi, si chiamano neurosi.

L’esperienza dello spirito. Il momento fondamentale nell’esperienza della storia della vita è quello nel quale l’uomo, col proprio rischio, l’accetta o la combatte. Ogni vivente, anche l’uomo, deve andar sempre avanti, anche per la necessità biologica delle fasi della vita. Ma in questo processo l’elemento umano è dato dallo sviluppo spirituale dell’anima. Questo si può formulare in generale secondo diversi modi:

a) L’uomo deve entrare nei contrasti, deve mangiare dall’albero della conoscenza, deve distinguere il bene dal male, il vero dal falso, deve perdere la propria innocenza. La stessa forza che lo spinge a divenire biologicamente un essere sessualmente adulto e maturo lo porta anche a queste conquiste spirituali.

b) Nello sviluppo la via della possibilità infinita della giovinezza conduce alle possibilità finali più ristrette della realizzazione. La vita deve essere decisa, se non vuole praticamente restare incompiuta, tenendosi in bilico nel nulla di infinite possibilità.

c) Nello sviluppo avviene un distacco solo dall’inconscio, da questo fondamento che abbraccia e domina il proprio essere, e precisamente tramite la chiarificazione, l’elaborazione ed il superamento, l’eliminazione e la violazione.

Di fronte a questo sviluppo, che sul terreno biologico, per mezzo dello spirito, consegue alle decisioni dell’esistenza, l’uomo assume posizioni molto diverse. La grande conclusione della realizzazione può apparire come una quieta evoluzione ed espansione di una vita, oppure come una crisi improvvisa essa comporta ogni insoddisfazione, nel pungolo del progresso esiste qualche cosa come una tranquillità e una soddisfazione nel profondo, ma anche il dolore delle possibilità trascurate. L’esperienza interiore della pura vitalità porta lo slancio della progressiva riuscita sul piano del rendimento, sul piano erotico, sociale, oratorio e nella produzione di opere; ma la vitalità porta anche l’esperienza della regressione vitale, della perdita subita, della mancanza, a meno che non si inizi una metamorfosi dell’essenza, e da motivi esistenziali diventi possibile una attività nuova e non solamente per una ragione vitale.

Contro tutto questo sviluppo si oppone nell’uomo qualche cosa che se diventa dominante, ha effetti fatali sulla vita. L’uomo si oppone a diventare adulto, diventare vecchio, perché tende fortemente a persistere, a restare, a soffermarsi, tende verso l’eternità come durata del nunc stans. Non vuole perdere le infinite possibilità, e si oppone ad ogni realizzazione costrittiva. Non vuole rischiare i contrasti, ma conservare la tranquilla e sicura unità. Non vuole perdere l’inconscio nel quale trova ricetto e perciò non vuole chiarire. Ma poiché lo sviluppo non può non realizzarsi, si manifesta come un tendere all’indietro, come un tornare indietro nell’infanzia, nei suoi sentimenti, negli atteggiamenti, nei contenuti […] un tornare indietro nell’inconscio perduto. Ci si vuole allontanare dall’individualizzazione, dai compiti e dalle prestazioni, dalle decisioni e dalle risoluzioni, si vuol essere come le piante o come gli animali, oppure addirittura come l’esistenza inorganica, ci si vuole abbandonare, scomparire in qualcosa di ordinato al quale ci si possa affidare.

Il problema psicopatologico fondamentale: sviluppo di una personalità o processo? L’indagine dell’accadere biologico fondamentale e dello sviluppo comprensibile storico-vitale culmina in una distinzione dei tipi del Bios: lo sviluppo unitario di una personalità (fondata su un decorso biologico normale delle età e delle eventuali fasi), si distingue dal carattere non unitario di una vita che, per una frattura, si è divisa in due periodi perché ad un determinato momento è intervenuto nell’accadere biologico un processo che, con l’interruzione del corso biologico della vita, ha modificato la vita psichica in modo irreversibile e inguaribile.

I criteri biografici del processo sono: l’insorgere del nuovo in un breve lasso di tempo localizzabile, il convergere di vari sintomi noti in questo periodo, il fatto che manchi una causa scatenante o un’esperienza sufficientemente valida. Viceversa parliamo di sviluppo di una personalità fin dove nell’insieme delle categorie storico-vitali possiamo comprendere ciò che è

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avvenuto, sotto il presupposto dell’attività biologica fondamentale. Decisive sono le esperienze, i motivi, gli avvenimenti accessibili alla comprensione e la mancanza della sindrome nota di un processo, localizzabile nel tempo.

L’insieme che chiamiamo sviluppo di una personalità, in contrasto al processo, ha la sua causa solo in quella singola disposizione intrinseca, che realizza il suo corso vitale senza fasi endogene evidenti e senza fratture incomprensibili che portano elementi nuovi nella successione delle varie epoche della vita. Teniamo presente ancora una volta le circostanze seguenti: 1. la disposizione intrinseca cresce, si sviluppa, riceve le motivazioni delle varie età in una successione continua. Le vie nelle quali scorre l’esistenza umana, sono necessità impresse nell’organismo generale, che non si possono riunire in alcune forme determinate, delimitabili come i processi morbosi, ma cambiano in un’infinità di variazioni. 2. questa disposizione ha continuamente un’azione reciproca con l’ambiente ed acquista la sua speciale forma mediante il suo destino in un modo per noi comprensibile, poiché ne conosciamo esattamente i dettagli. 3. in particolare, la disposizione intrinseca reagisce alle esperienze vissute secondo la sua unica e costante natura, e le elabora in modo adeguato. Noi possiamo comprendere le concezioni, le opinioni, i modi di sentire che insorgono su questa via, come per es. l’amarezza, l’orgoglio, la querimonia, la gelosia.

Il prodotto di questi momenti si chiama “sviluppo di una personalità”. Così conosciamo gli sviluppi paranoidei del querelante e del geloso, che in altri tempi furono scambiati come processi spesso simili, ma completamente diversi nella loro natura. Reiss osservò una personalità ipomaniacale. Egli conobbe nella stessa personalità dapprima l’esistenza di un uomo d’affari, ricca di successi, e poi quella di un predicatore ambulante psicotico, privo di esigenze, e mostrò che i due aspetti si potevano comprendere come semplici alterazioni della facciata, conseguenti alle mutate condizioni ambientali e alla diminuzione precoce della potenza sessuale, in un carattere rimasto immutato.

Vi è una grande varietà di Bios: gli sviluppi precoci e tardivi; - gli infantilismi negativi come arresto ad un grado precedente di sviluppo, come mancanza di maturità, come resistenza di fronte ad ogni realizzazione, come perdita; gli infantilismi positivi come resistenza di potenzialità e di possibilità, di produttività, come una plasticità dell’anima che resta indeterminata; - i bambini prodigio, che poi cadono in modo sorprendente; - coloro che vengono meno nella lotta della vita, che si livellano adattandosi, che deviano dalle loro origini (ci si domanda che cosa sia perdita vitale e che cosa provenga dal fallimento della decisione esistenziale o, in altre parole: che cosa sia curva vitale endogena e che cosa sia messo in moto da una decisione storicamente libera); - le conversioni che fondano una vita completamente nuova; - le trasformazioni del carattere nella trasformazione della situazione sociologica e delle condizioni generali. Si sono osservate le alterazioni catastrofiche dell’uomo a causa di destini che si sono frapposti e gli sviluppi che in modo quasi impercettibile si evolvono da inizi di poco conto fino ad effetti totali. La personalità del cui sviluppo – a differenza del processo – si parla deve essere intesa in modo estensivo, come l’insieme delle relazioni comprensibili unite alle incomprensibilità sane, biologiche generali.

Infine osserviamo che tutti questi concetti sono piuttosto presupposti schematici e validi sul momento, che risultati di una ricerca. Nel caso particolare abbiamo grosse difficoltà, per es. ci appaiono alcuni individui che presentano nel corso di tutta la loro vita il quadro dello sviluppo di una personalità, ma che in alcuni singoli tratti indicano un lieve processo, che dà a questo sviluppo una nota anormale. In tali casi, che non sono tanto rari, la discussione se esista in essi solo lo sviluppo di una disposizione o anche un processo, non giunge mai ad alcun risultato.

Nella discussione di questi problemi sono state assunte posizioni tipiche che non colgono il punto centrale che fissi la differenza tra il processo e lo sviluppo della personalità. Esse hanno in comune di estendere il significato dello “sviluppo di una personalità” al di là dei suoi confini, e di includervi, quanto più possibile, ciò che fa parte dei processi.

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La tendenza a “comprendere” il processo. È impossibile comprendere un vero delirio nella sua genesi. Dalla disposizione, dall’ambiente e dall’esperienza vissuta si può comprendere il contenuto del delirio, ma il carattere delirante dell’esperienza vissuta resta l’elemento nuovo specifico, che deve inserirsi in un preciso momento della vita. Il meccanismo paranoico è incomprensibile. Ma non è sempre facile osservare il momento iniziale della paranoia; si suppone forse l’esistenza di una disposizione paranoica, che è congenita nel carattere originario, che ha presentato sempre un habitus paranoico e che ora, in base a determinate esperienze, prolifera e acquista la direzione della vita. A prescindere dalle difficoltà del singolo caso, si deve respingere ogni comprensione che si estenda oltre il campo del veramente comprensibile. Appare qui quella che è una delle concezioni fondamentali della psichiatria, e perciò anche lo spirito della polemica. In rapporto con tutti i tentativi di comprendere la schizofrenia, sta qui la tendenza a cancellare il fatto del processo nella sua specificità.

Tendenza a considerare il processo come una neurosi. Se si pensa alle neurosi coatte – lo stesso avviene nelle neurosi sessuali – non di rado si può osservare biograficamente una progressione, nella quale una sintomatologia dapprima particolare, gradatamente domina tutta la vita e incatena l’intera personalità. Un fenomeno di per sé estraneo alla personalità sopraffà la personalità stessa. Qui si tratta effettivamente di un evento progressivo, di cui non scorgiamo la natura, forse di una malattia a sfondo biologico. Ma qui non si tratta del contrasto tra processo e sviluppo di una personalità. Per essere quest’ultimo non dovrebbe proliferare da una particolare sintomatologia, ma compiersi nel nucleo stesso dell’esistenza. I processi non sono neurosi. Ma se si pensa alle neurosi che J. H. Schultz chiama neurosi nucleari (a differenza delle neurosi marginali) queste sono malattie della personalità stessa che maturano nei conflitti della personalità con se stessa, che progrediscono, e che, pur essendo in gran parte comprensibili, tuttavia “in toto” sono un evento incomprensibile dato nella disposizione. Il processo si deve interpretare in analogia a tali neurosi nucleari. Ma anche qui esiste una differenza radicale, che pur essendo direttamente evidente nell’intuizione dell’insieme, è difficile precisare in concetti ed in criteri singoli: la neurosi si deve comprendere in un senso fondamentalmente diverso dal processo.

La tendenza ad interpretare il processo come una trasformazione dell’esistenza. L’incomprensibilità del processo è il limite della comprensione, e deve essere considerato infine come un fatto fondamentale biologico e non come un’esistenza che realizza la vita e la sostiene. Il concetto fisiologico di esistenza non è utilizzabile nell’indagine psicopatologica oggettiva. In tale uso perde subito il suo significato vero e profondo. La trasformazione dell’esistere non è una trasformazione dell’esistenza. Sono di natura essenzialmente diversa la trasformazione dell’intero individuo e del suo mondo a causa dell’evento biologico, che determina la frattura del corso di una vita, e la trasformazione per la decisione incondizionata dell’esistenza. Queste due trasformazioni non stanno sullo stesso piano. L’ultima non rientra affatto nel campo di una conoscenza psicopatologica. L’irruzione nella personalità di un processo porta alla pazzia, ma non alla incondizionatezza esistenziale.

Queste tre tendenze sono giustificate dal fatto che in una serie di casi l’evento fondamentale biologico è negato come problema, e d’altra parte non si riconosce l’impronta caratteristica dell’alienazione. Il problema del processo scivola nel campo del comprensibile, oppure dell’incomprensibile neurotico, oppure del filosoficamente esistenziale. Ogni volta si passa sopra al fatto specifico, per poter cogliere l’uomo come comprensibilità, come neurosi, come esistenza, ma così si fa scomparire ogni volta la specificità del processo. Per la chiarezza della conoscenza empirica non è necessario allargare il concetto di sviluppo di una personalità oltre il comprensibile, ma si deve accettare l’incomprensibile nella sua multiforme eterogeneità e considerarlo metodicamente secondo la sua natura particolare. Una di queste incomprensibilità è appunto il processo.

Di grande interesse è la visione biologica di quei casi che non permettono, almeno finora, di intendere chiaramente la questione in senso alternativo: sviluppo di una personalità oppure

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processo. Questi sono i rari casi dei cosiddetti paranoici “puri”, le affezioni coatte progressive, le alienazioni senza i sintomi elementari (allucinazioni, disturbi dell’ideazione, esperienze deliranti primarie, fenomeni imposti, sottrazione del pensiero e così via) ma forse con blocchi, negativismi (che non si possono sempre distinguere chiaramente dalle manifestazioni neurotiche per effetto di complessi). Se in questi casi non si scopre lo iato nella storia della vita, non l’inizio con una sindrome nota, le diagnosi anche di specialisti esperti possono essere contrastanti. Ciò che l’uno considera come una neurosi o come lo sviluppo di un anancastico, oppure come una psicastenia, l’altro lo prende per schizofrenia. Psicopatia o processo, personalità strane ed anormali o trasformazione schizofrenica di una natura prima diversa, da un punto di vista diagnostico sono contrastanti, ma in modo tale che non solo sono casi difficili, ma in essi gli stessi concetti fondamentali diventano problematici e ad ogni modo fanno sentire i loro limiti.

( da K. Jaspers, Psicopatologia generale, cit. pp. 743-756)

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo di Jaspers:

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20. Da: K. Jaspers, Psicopatologia generale, Napoli, Il Pensiero Scientifico

“Percorrendo con lo sguardo la psicopatologia si è giunti al problema dell’essenza dell’uomo. A questo problema hanno dato risposta la biologia, l’antropologia, la teologia e la filosofia. È un tema immenso [per la chiarificazione del quale] sono soprattutto importanti: Platone, Agostino, Pascal, Kant, Kierkegaard, Nietzsche”.

“L’uomo esiste in ogni momento come un tutto. In carne ed ossa egli va attraversando il mondo, come singolarità e come corpo, è una cosa nello spazio. Ma questo è un modo di intendere completamente esteriore. Se io tratto l’uomo come questo insieme corporeo, distruggo l’uomo stesso: egli diventa, come corpo, un pezzo di materia, che occupa spazio, come possibilità di impiego forse un pezzo di macchinario, ecc. Ma se vedo l’uomo come questo corpo, già nella forma di conoscenza biologica dell’insieme corporeo, pervengo ad una quantità di fatti concreti, che non sono mai il tutto. Nell’uomo le cose non stanno in modo diverso da ogni essere vivente, anche se una pianta, e dal mondo nel suo insieme. Una volta appresi, tutti questi argomenti risultano ben presto frazionati. Il tutto è solo idea, ed esistono molte idee” (Psicopatologia generale, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, pp. 804-805).

“Avremmo un tutto se potessimo realizzare il significato dell’unità. Ma il significato dell’unità è molteplice, p. es.: il singolo oggetto è l’oggetto che, pensando, ho sempre innanzi agli occhi (l’unità formale di tutto il pensabile). Il singolo individuo è una unità, che è infinita; se voglio conoscerlo, lo scompongo nelle molte maniere dell’essere individuale; nell’essere conosciuto perde proprio la sua unità a favore di queste molte unità che lo costituiscono. La singola esistenza è un’idea filosofica, che impiega l’Uno nel pensiero trascendentale per illuminare l’aspetto incondizionato dell’esistenza assoluta. Noi cogliamo le unità nel processo della conoscenza, ma mai le unità ultime né quella dell’individuo né quella dell’esistenza assoluta” (p. 805).

“Nell’atto del conoscere possediamo ogni essere solo nella scissione soggetto-oggetto; cioè lo possediamo come oggetto per la nostra coscienza, non come è in sé, ma come appare nella scissione a questa ‘coscienza in generale?. Perciò nella realtà empirica abbiamo l’essere solo come lo incontriamo nelle categorie della nostra coscienza, come manifestazione nelle molteplici forme generali dell’esperienza, della esplicabilità, della comprensibilità” (p. 805).

“Per il fatto che conosciamo solo le manifestazioni, e non l’essere in sé, nell’atto del conoscere urtiamo contro dei confini, che rendiamo tangibili mediante i concetti limite. I concetti limite (come ‘essere in sé’) non sono vuoti, ma colmabili con attualità; non riguardano un oggetto, ma ciò che mi sostiene con tutto l’oggettivo omnicomprensivo” (p. 805).

“I modi dell’omnicomprensivo non si possono conoscere, ma solo illuminare. L’onnicomprensivo è l’essere in sé (mondo e trascendenza) oppure l’omnicomprensivo che siamo noi. Rendere l’omnicomprensivo oggetto e trattarlo come qualche cosa di conoscibile, è un errore radicale del nostro pensiero. Con il nostro pensiero possiamo toccarlo e renderlo presente piuttosto che farlo oggetto della nostra conoscenza. Questa capacità di renderlo presente non accresce la nostra conoscenza oggettiva, ma ci insegna a vedere il significato e le possibilità di questa conoscenza nei suoi giusti limiti. Dall’omnicomprensivo ci si presenta e ci viene incontro tutto l’oggettivo, che mostrando l’essere in prospettiva e gli aspetti di tipo più necessario e universalmente

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valido, è più conoscibile. Ma l’omnicomprensivo, che nella manifestazione della progressiva conoscenza appare sempre più ricco e multiforme, in se stesso si ritrae, restando sempre non oggettivo” (pp. 805-806).

“L’omnicomprensivo che deve essere illuminato, è multiforme (l’essere in sé e l’essere che siamo noi). Attualizzare l’omnicomprensivo che noi siamo (esserci, coscienza in generale, spirito-ragione ed esistenza) è un fondamento della filosofia dell’essere umano” (p. 806).

“La coscienza dell’omnicomprensivo spinge nel profondo la conoscenza dei fenomeni. Il conoscibile è sempre attivo nel fenomeno, in primo piano o nello sfondo. Per la coscienza filosofica tutto il conoscibile possiede una specie di linguaggio cifrato metafisico, che una volta udito sospinge nel desiderio di sapere. ‘È così’, ‘è andato così’, ‘c’è questo’ sono espressioni di sorpresa nell’udire tale linguaggio” (p. 806).

“Come in tutte le scienze, così anche nella psicopatologia dobbiamo precisare i limiti, vedere gli enigmi concreti, osservare lo spazio libero per l’indagine scientifica in ogni suo metodo possibile, e nello stesso tempo non oltrepassare i confini della scienza nella valutazione e nella utilizzazione dei suoi risultati. Solo mediante la scienza che urta contro i suoi confini, riusciamo a sentire l’omnicomprensivo in un singolo modo insostituibile, ed evitiamo di schematizzare di nuovo erratamente in modo razionale anche questo omnicomprensivo” (p. 806).

“Per il sapere e per la pratica che riguardano l’uomo è decisiva l’impostazione filosofica fondamentale, e non un sapere filosofico dogmatico” (p. 806).

“Nei metodi di indagine dell’essere umano non risulta un’immagine unitaria dell’uomo, ma molte immagini, ed ognuna con una sua forza specifica. L’indagine empirica, l’apprensione comprensiva del possibile, la illuminazione filosofica, hanno un significato diverso. È un errore procedere nella conoscenza dell’uomo, come se tutte le conoscenze su lui stessero, per così dire, su uno stesso piano, come se avessimo l’uomo innanzi a noi come un oggetto unico, il cui essere noi potremmo conoscere nelle sue origini e nei suoi effetti come un tutto” (p. 806).

“Alla domanda se la molteplicità della conoscenza dell’uomo sia provvisoria, e se in teoria tale molteplicità si possa abolire a favore di una grande unità comprensiva, si deve rispondere: la ricerca empirica insegna che la molteplicità dei metodi viene separata in modo più netto solo con l’acquisizione dei loro risultati nella loro diversità di significato, e che in tutta la scienza se si ricercano le relazioni degli elementi separati, si trovano, mentre non appare evidente il principio dell’unità ed emergono solo le idee di unità relative”. Tutto ciò è concepibile filosoficamente” (p. 806).

Dunque finchè l’uomo è esplorabile come oggetto di conoscenza empirica, per lui non esiste libertà. In quanto però viviamo, agiamo, indaghiamo, noi siamo liberi nella certezza di noi stessi e perciò più di quanto si possa conoscere di noi. Anche il malato che diventa oggetto di ricerca, come tale non è libero, ma come se stesso è in grado di vivere secondo un certo senso di libertà” (p. 806-807).

“[…] Se esistesse una valutazione empirica dell’essere umano, una completa suddivisione del suo essere come essere indagabile, non esisterebbe libertà. Se di fronte alle nostre continue suddivisioni dell’uomo in parti, in componenti, in membri e fattori,

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domandiamo perché esistono questi, solo questi e non di più, la risposta è la seguente: ne esistono forse ancora diversi altri, esistono soprattutto altre suddivisioni. La molteplicità dei metodi e degli aspetti, questa frammentazione dell’essere umano come oggetto di indagine, l’elemento di incompiutezza sono la verità fondamentale della conoscenza dell’uomo in generale. Il tentativo di afferrare l’uomo nell’insieme in maniera conclusiva e generale è destinato a fallire. Ogni fatto che possiamo cogliere è sempre limitato, distaccato, non è l’uomo stesso” (p. 806-807).

“L’essere umano si presenta con immagini multiformi. La coscienza è come un palcoscenico sul quale le manifestazioni vanno e vengono, e che, come palcoscenico, può sostenere diversi stati. – L’anima che avverte una esperienza si articola nel percepire, nel rappresentare, nel pensare, nel sentire, nell’impulso, e nella volontà (oppure in articolazioni più o meno numerose). – La vita è come un arco riflesso, che alle influenze esterne risponde, in una complicata struttura interna, mediante scelte e trasformazioni e infine con reazioni rivolte verso l’esterno. – Il tutto è come un apparato prestazionale. – la vita si svolge in un mondo, e ambedue si plasmano in un tutto. – La natura fondamentale dell’uomo è auto-oggettivazione nella sua espressione, nell’agire, nel suo mondo, nelle sue opere. – La struttura umana è come un’unità di relazioni comprensibili o casuali. – La sua esistenza avviene come esistenza biologica (antropologia), come forme spirituali, come concrezioni storiche del singolo (illuminazione dell’esistenza assoluta). – l’uomo è immaginato come un tutto di corpo ed anima (dualismo), di corpo, anima, spirito (trialismo), come unità corpo-anima (monismo). . Le variazioni delle possibilità fondamentali dell’uomo sono in una multiformità di costituzioni e di caratteri” (p. 807).

“Ogni totalità che incontriamo nel processo di ricerca è una manifestazione misurata secondo l’omnicomprensivo dell’essere umano, così pure la personalità, della quale parliamo come di un aspetto tipico e comprensibile. Tutti gli schemi dell’essere umano, che ci si presentano oggettivamente innanzi agli occhi e con i quali possiamo operare scientificamente, non sono l’omnicomprensivo, ma sono inclusi in esso” (p. 807).

“Indipendentemente da noi, hanno realtà l’omnicomprensivo del mondo (che secondo la concezione di Kant non è un oggetto, ma una idea, in quanto ciò che noi conosciamo sta nel mondo, ma non è il mondo) e quello della trascendenza. L’uomo incontra in questo onnicomprensivo l’essere, che, indipendentemente da lui, è reale, anche se egli non sa niente di questo essere in sé, ma solo di come gli appare e gli parla nella scissione della coscienza in generale in soggetto-oggetto. Un altro significato ha poi l’onnicomprensivo come onnicomprensivo che noi stessi siamo” (p. 808).

“Noi siamo esistenza concreta, cioè siamo vita in un mondo, come ogni vivente. L’onnicomprensivo del vivente diviene oggetto nei prodotti della vita, i quali però – sia come forma corporea, funzione fisiologica, connessione di formazioni ereditarie generali, sia come strumento, azione, immagine specifica dell’uomo – non esauriscono mai la vita stessa, ma resta l’onnicomprensivo dal quale tutto emerge. L’esistenza dell’uomo ha la pienezza della sua manifestazione per il fatto che i seguenti modi dell’onnicomprensivo si verificano in essa, che li sostiene o li forza al proprio servizio”.

“Noi siamo coscienza generale, ossia partecipiamo a ciò che è universalmente valido, che nella scissione dell’essere in soggetto ed oggetto, rende conoscibile al soggetto ogni oggettività nelle sue forme. Solo ciò che entra in questa coscienza per noi è essere. Noi

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siamo l’onnicomprensivo, nel quale tutto ciò che è può essere inteso, saputo, toccato, udito nelle forme della oggettività” (p. 808).

“Noi siamo spirito, ossia la totalità guidata da idee, la totalità ogni volta distinta di relazioni comprensibili in noi stessi ed in ciò che è prodotto, fatto e pensato da noi” (p. 808).

“Questi tre modi dell’onnicomprensivo che noi siamo, sono concatenati tra loro, ma non coincidono, anzi entrano in attrito. Rappresentano i nostri modi di essere come pura immanenza; nella oggettivazione e nella soggettivazione di questo onnicomprensivo appariamo empiricamente adeguati come oggetto della ricerca biologica e psicologica. Ma con ciò non siamo esauriti. Perché viviamo di una origine che sta al di là dell’esistenza concreta nel suo divenire empirico-oggettivo, al di là della coscienza generale e dello spirito, e precisamente come esistenza assoluta che possiamo essere e come ragione propriamente detta” (pp. 808-809).

“Questa origine del nostro essere che si sottrae a indagini empiriche di qualsiasi genere e che diviene chiara solo nell’autoilluminazione filosofica, si manifesta: 1. nell’insufficienza che l’uomo esperimenta in sé, perché in lui c’è una costante inadeguatezza del proprio esistere, del proprio sapere, del proprio mondo spirituale; 2. nell’incondizionato al quale si sottomette come al proprio vero essere se stesso, o come a ciò che gli viene detto di comprensibile e valido per questo essere se stesso; 3. nell’incessante impulso verso l’unità, perché l’uomo non è soddisfatto di una sola maniera dell’onnicomprensivo, né di tutte insieme, ma procede verso l’unità fondamentale, l’unità che sola è l’essere e l’eternità; 4. nella coscienza di un ricordo inafferrabile, come se fosse esistito dall’inizio della creazione, come se avesse una ‘consapevolezza della creazione’ (Schelling), oppure come se potesse ricordare cose viste prima di qualsiasi essere del mondo (Platone); 5. nella coscienza di un’immortalità, che non è un continuare a vivere in altra forma, ma un essere al sicuro fuori del tempo, nell’eternità, che gli appare come un continuo operare nel tempo” (p. 809).

“Anche nella chiarificazione filosofica non si ottiene alcuno schema univoco dell’essere umano. Piuttosto nella interiorizzazione trascendentale dell’onnicomprensivo, l’uomo si rivela sempre in origini molteplici, perciò permane in lui l’impulso verso quell’uno, che egli non è né possiede. Questa è l’incompiutezza o la frattura dell’uomo. Questa frattura esige una integrazione di altra origine, che di fronte a tutte le origini onnicomprensive dell’essere umano, sarebbe quella che dovrebbe dargli fondamento e completezza. Ciò riesce nel tempo solo mediante illusioni anticipatrici, perché nel tempo l’adempimento dell’esigenza è solo possibile mediante una fede, che nulla ha e nulla vede, ma confida nella tradizione e nella fede delle persone che l’uomo ama ed onora” (p. 809).

“Con i modi dell’onnicomprensivo – ognuno dei quali con infinita possibilità – e con la loro molteplicità, noi comprendiamo le infinite aperture dell’essere umano, che rappresentano nello stesso tempo l’impossibilità della sua compiutezza. L’essenza dell’uomo non ci appare nello schema oggettivo della sua natura, ma in questa sua infinita potenzialità, nei suoi inevitabili conflitti, nelle sue impossibili risoluzioni” (p. 809).

“L’affermazione che l’uomo è ‘l’animale non determinato’ (Nietzsche) deve significare che gli animali compiono la loro vita in vie prestabilite, una generazione come l’altra,

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ben riusciti nella specializzazione della loro particolare forma di vita; l’uomo, invece, non è costretto in una via definitiva del ‘dover-vivere-così’, ma è plastico e capace di trasformazioni incalcolabili. Mentre gli animali vivono sicuri nella loro esistenza particolare, guidati dai loro istinti infallibili, l’uomo porta in sé l’incertezza. Per il fatto che non è predestinato ad alcun modo di vita definitivo, egli ha possibilità e pericoli, può errare, ha pochi istinti, in certo senso è malato, ridotto a fare una scelta che deve seguire liberamente” (pp. 809-810).

“È come se da tempi immemorabili, mentre tutti gli animali per le capacità specializzate sono finiti in vicoli ciechi e in certo senso si sono arrestati, l’uomo avesse conservato le sue possibilità totali. Perciò si può dire di lui che, in fondo, egli è tutto (l’anima è per così dire tutto, disse Aristotele). In lui può essere sempre attivo quell’elemento più profondo, dal quale egli venne. Se per questa sua plasticità persistente è incompiuto, proprio questa incompiutezza contiene tutte le possibilità per l’avvenire. Dal proprio fondamento egli è capace di tutto, anche se non lo sa, può anticipare con la massima facilità e può illuminare il proprio cammino con scopi veri, utopistici e fantastici” (p. 810).

“Per il fatto che l’uomo è onnicomprensivo nelle sue possibilità non è determinabile nella sua natura. Non può essere posto sopra un denominatore comune, perché non soggiace a nessuna specializzazione. Egli non si può porre sotto una specie, dato che non ha alcun’altra specie accanto a sé” (p. 810).

“Ogni volta che l’uomo diventa qualche cosa di determinato, in quanto tale, non è più l’uomo intero. In ogni determinazione, l’uomo è come se facesse un tentativo, dal quale può ritrarsi in quanto nel fondo della sua essenza rimane sempre la possibilità, anche se non nel singolo individuo, che quando ha un valore intrinseco, si identifica con la sua realizzazione, ma nell’uomo come essenza nel susseguirsi delle generazioni” (p. 810).

“Che l’uomo non sia una creatura ben definita che realizza in modo univoco la propria evoluzione predeterminata è dimostrato dal modo con cui è in lotta con se stesso. Egli non è solo la sintesi forzata di opposti, come si realizza in ogni vivente, non è solo il necessario e come tale il comprensibile movimento dialettico-sintetico dello spirito, ma è una lotta radicale in ragione della sua stessa origine. Le forme di questa lotta si possono vedere in una graduazione che va da ciò che è caratteristico di ogni vivente, fino al propriamente umano” (p. 810).

“L’uomo, come vita, sta nelle tensioni tra disposizione intrinseca e ambiente, tra sostanza e forma, tra interno ed esterno” (p. 810).

“L’uomo, nella società, sta nelle tensioni tra la volontà propria e quella collettiva, e quest’ultima nella tensione tra la volontà umana e quella sociale” (pp. 810-811).

“L’uomo, come pensiero, sta nella tensione tra soggetto ed oggetto, tra se stesso e cosa, e quindi nelle inevitabili antinomie nelle quali fallisce l’intelletto” (p. 811).

“L’uomo, come spirito, sta nel movimento costruttivo attraverso i contrasti. La contraddizione è il pungolo che determina il suo movimento creativo; contraddizioni ci sono in ogni modo di esperienza vissuta, di esperienza concreta e di pensiero. La negatività domina il suo manifestarsi come spirito, ma non è distruzione; è solo una forma del suo estrinsecarsi nel superamento e nella sintesi del divenire” (p. 811).

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“Come vita, pensiero e spirito, l’uomo fa progetti, ordina con coscienza, si disciplina. La sua volontà gli permette di fare ciò che vuole del suo ambiente e di se stesso. Questa volontà, costantemente in lotta con la sua contraddizione, distrugge quando, come pura volontà formale, si meccanizza ed estingue la vita peculiare delle origini. Essa, rimanendo al servizio dei contenuti onnicomprensivi, diventa, come grande volontà, la manifestazione degli uomini che si estrinsecano nella lotta” (p. 811).

“Né nel mondo, né per l’uomo, esiste la sintesi di tutte le possibilità. Invece ogni vera realizzazione è legata in qualche modo ad una decisione. Conforme alla serietà di tale decisione, che, per il fatto stesso che sceglie, esclude anche, e che rende l’uomo incondizionato nella sua decisione, ogni altra lotta è come un semplice primo piano, come un gioco del vivente nella sua ricca pienezza di movimenti. Solo quando l’uomo dalla decisione passa ad una risoluzione che riempie il suo essere, egli è autenticamente – esistenzialmente – uomo”.

“L’autochiarificazione della decisione si può esprimere solo tramite il medium della coscienza in generale e dello spirito, nelle antitesi del pensiero. Ma la via della decisione non è scelta fra due possibilità uguali, ma è scelta come avere-già-scelto; le antitesi sono solo il mezzo dell’interpretazione. Ma il cammino della decisione non è affatto una sintesi livellatrice di possibilità, non è riconciliazione nell’insieme, ma è un conquistare terreno nella lotta contro qualcosa d’altro. Il cammino della decisione è la storicità concreta, l’origine e la meta, prima e dopo ognuno di quei contrasti, nei quali essa, interpretandosi, divide per un momento l’essere” (p,. 811).

“Tali antitesi di significato esistenziale sono quelle tra fede ed incredulità, tra dedizione e resistenza, tra legge di giorno e passione di notte, tra volontà di vivere ed impulso a morire” (p. 811).

“Nella decisione vale sempre in assoluto il contrasto tra bene e male, tra vero e falso. Nella temporalità questi contrasti non entrano in questione (perché sono espressioni dell’incondizionato), ma vengono afferrati non come qualcosa di assolutamente ultimo nell’essere stesso, ma solo come l’ultimo per l’uomo nella esistenza temporale; questi, pure al suo limite, può sentire e giungere interiormente lì dove nella manifestazione temporale termina ciò che lo porta alla decisione incondizionata, a questo simbolo e a questa garanzia dell’esistenza eterna nel tempo” (pp. 811-812).

“In nessun momento l’uomo è autosufficiente. Egli è ridotto a dipendere da qualcosa d’altro. Come esistenza egli è costretto a dipendere dal proprio ambiente e dalla propria origine. Per conoscere ha bisogno della visione concreta che deve essergli data (il puro pensare resta improduttivo). Nella realizzazione della sua umanità, è legato ad un tempo e ad una forza limitati, a resistenze; egli deve afferrare il finito per diventare reale, deve perciò specializzarsi e non può mai diventare tutto. Egli deve lasciare la vita proprio quando si è creato i presupposti per poter ben cominciare. Nel suo essere se stesso non crea tuttavia se stesso, ma deve essere donato a se stesso, senza sapere da dove. La sua più profonda libertà non la realizza da se stesso, ma proprio in essa egli conosce la trascendenza, tramite la quale è libero nel mondo. L’uomo può realizzarsi solo in quanto intende l’altro, può conoscersi solo in quanto pensa e conosce l’altro, può fidarsi solo in quanto confida in qualcosa d’altro, nella trascendenza; perciò la natura dell’uomo è determinata da ciò che egli sa e da ciò che crede” (p. 812).

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“L’uomo non è solo finito, ma conosce la propria finitezza. Come essere finito non basta a se stesso. Egli esperimenta, e quanto più chiaramente sa, tanto più profondamente vive e sente il finito e con ciò la deficienza radicale in ogni modo del suo essere e del suo agire. Anche tutte le altre cose finite – la cui somma si chiama il mondo – come tali non gli sono sufficienti. Ogni essere del mondo, anche nella sua più profonda commozione e nella sua più intensa compartecipazione, lo lascia insoddisfatto” (p. 812).

“Il fatto che l’uomo senta ovunque questo finito e che nessun finito gli basti, è un accenno alle nascoste possibilità della sua natura. Il suo essere deve avere un’altra radice oltre quella della sua finitezza. Senza un qualche sapere preventivo di ciò che non è possibile sapere, non esisterebbe in lui alcuna ricerca. Egli cerca l’essere stesso, l’infinito, l’altro. Solo il fatto che ciò esista può dargli soddisfazione” (p. 812).

“Già l’essere del mondo può darla, fin dove nella manifestazione finita si rivela una cosa infinita. Conosce la profonda soddisfazione dell’esperienza oggettiva del mondo, della dimestichezza con la natura, del leggere la sua scrittura cifrata e del penetrare conoscitivamente nel cosmo, del trovarne l’essere così come è. L’essere del mondo è senza l’io, anche se, come io lo so, per la coscienza sempre è un manifestarsi a condizione di essere” (p. 812).

“In questo tendere della certezza dell’essere verso la trascendenza rimane valida in una forma qualsiasi la frase: Dio esiste. La storia della religione può essere la storia della idea attraverso la quale l’uomo ha sempre cercato di incontrare Dio, e ci sembra che nulla insegni come questa idea. L’uomo sa che con le proprie rappresentazioni non crea Dio, e che nonostante ciò la prima affermazione rimane sempre: Dio esiste. Questo fu sufficiente all’uomo in qualsiasi frangente (come già in Geremia). La finitudine dell’uomo trova la sua pace in questa fede nell’esistenza di Dio” (p. 813).

“Andrebbe perduta invece la coscienza di se stessi nella falsa dialettica che dice: l’uomo sarebbe creatore di Dio e creato da Dio. Ciò resta nel cerchio dell’immanenza, per il quale valgono queste false parole: l’uomo è tutto” (p. 813).

“La coscienza della propria finitezza spinge l’uomo a distaccarsi da ogni finito. Ma ad ogni passo è condizionato dalla sua finitezza: egli diventa reale solo fin dove riesce a coglierla” (p. 813).

“Poiché tutta la finitezza è al tempo stesso falsa, egli non può restare in essa, ma deve oltrepassarla. In verità egli può ritrarsi da ogni singolo finito – e questo è il segno formale della sua infinità. Ma la sua decisione lo obbliga sempre a restare in qualcosa di finito (nel finito che è acceso dalla sua decisione e quindi diventa più che finito) – questo è il segno della sua finitezza, attraverso la quale egli può realizzare la sua esistenza temporale” (p. 813).

“Così per l’uomo vi è una duplice posizione: la possibilità infinita gli parla dal suo fondo e gli impedisce di perdersi nella sua finitezza, ma esige anche che egli conservi la sua incarnazione nel finito, che realizza la sua decisione, in una incondizionata identificazione nel tempo” (p. 813).

“Non esiste alcuna identificazione dell’uomo con il suo mondo, con la sua attività, con il suo pensiero, con la sua finitezza senza oltrepassare allo stesso tempo questa finitezza.

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Ma il fatto che egli sia legato ad essa, ha come conseguenza che ogni finitezza come tale deve fallire in lui” (p. 813).

“L’uomo può comprendere il proprio legame con l’essere solo mediante rappresentazioni e pensieri, ma qualsiasi cosa egli abbia come contenuto delle proprie immagini e dei propri pensieri, questo non è l’essere. Ciò che l’uomo crede, deve rivelarglisi attraverso questi pensieri e queste rappresentazioni, senza i quali affonderebbe nel nulla. Ma tutti i pensieri e tutte le rappresentazioni devono infrangersi di nuovo, perché come tali, lo ingannano” (p. 813).

“Così non eiste una fede religiosa senza sostegni materiali e senza affermazioni dogmatiche. Chi non li accetta come veri e reali, non è credente; non basta prendere tutto come simbolo ed interpretazione; se questi non sono una realtà operante, non sono la vera realtà di fronte alla semplice realtà empirica dell’essere nel mondo. Ma appena i contenuti sensibili e dogmatici si irrigidiscono in realtà fissate, come se fossero realtà empiriche, la fede viva è abolita, perché è sostituita da un sapere ingannevole. Fare dei contenuti religiosi qualcosa di finito è tanto inevitabile quanto è necessario che queste finitezze siano annullate in qualche cosa che le trascenda in modo che vengano infrante” (pp. 813-814).

“Così la dichiarazione della fede filosofica si realizza in assiomi. Tutta la filosofia realizzata riduce la infinita possibilità dell’uomo su posizioni (punti di vista) finite. Perciò la filosofia viva, da Platone in poi, si esprime con posizioni finite, attraverso le quali, nello stesso tempo, penetra e passa in un movimento che è al di là di tutte le posizioni” (p. 814).

“Come essere vivente finito l’uomo è sottoposto alle fasi dello sviluppo, della maturazione, dell’invecchiamento e della morte. Eppure questa successione delle età della vita può contenere allo stesso tempo il processo della sua libertà, che si rivela nel tempo. non si tratta di un percorso circolare, che viene a richiudersi su se stesso, per il quale l’uomo morrebbe sazio di vivere, ma al tempo stesso di un accadere attivo, che, anche se legato al processo biologico, non termina in sé, ma può progredire anche nella più avanzata vecchiaia” (p. 814).

“Il vecchio, biologicamente decaduto, può essere ‘giovanile’ nella sua natura, iniziando, dischiudendo, sperando, ascoltando. La vita dell’uomo finito è poi dal fondo della sua infinità, come un processo di purificazione dell’anima. Alla laboriosa scoperta di sé ed al facile dimenticare della gioventù seguono i ricordi propri della maturità e la potenziale purezza della vecchiaia. Tutte le età della vita sono solo un mezzo di questa scoperta di sé, si costruiscono le une sulle altre, non si staccano, ma sono tenute insieme da un uno, che tutte le trascende. Accorgersi dell’essere attraverso la realizzazione storica di un’anima, che, nel pericolo sin dai primi passi nella realtà, erra e si riconquista, divenendo più chiara, più profonda, più decisiva, questo è la vita, che nel susseguirsi delle sue età non è conclusa, ma di fatto si apre un varco proprio per la consapevolezza di ciò che la commuove"”(p. 814).

“L’uomo sta con la propria finitezza nell’infinito. La loro coincidenza non può avere durata temporale; solo l’istante è il punto in cui si incontrano, per poi infrangere di nuovo la manifestazione finita. E perciò l’agire e il pensare dell’uomo sono contemporaneamente al servizio di qualcosa che egli non comprende, nella quale egli

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opera, e dalla quale viene accolto e soggiogato, che lo si chiami destino o provvidenza” (p. 814).

“È una pretesa della filosofia voler vedere attraverso questo altro, voler cercare una via, percorrendo la quale l’uomo possa giungere a possederlo, prima sapendo, poi progettando ed agendo” (p. 814).

“Filosofando, l’uomo può vedere l’impronta dell’essere del mondo e del suo stesso essere, la incompiutezza e la impossibilità di conchiudere, ma egli non può trasformare in finitezza ciò che resta per lui un infinito, perché sta in esso, prende su di sé la finitezza e in quanto vive in tale situazione, fallisce” (pp. 814-815).

“L’uomo non è solo una specie di animale e nemmeno una specie di essere puramente spirituale, che non conosciamo e che, in passato, abbiamo considerato come un angelo. L’uomo invece è unico, egli ha la sua parte nella serie dei viventi ed in quella degli angeli, appartiene ad entrambi e differisce da entrambi. Egli ha una posizione speciale, che è stata sempre riconosciuta dalla teologia e dalla filosofia, che solo nell’epoca positivista è stata misconosciuta. Nelle manifestazioni della sua esistenza giunge fino agli animali, nel fondamento del suo essere giunge fino alla divinità come trascendenza, tramite la quale sa di essere posto nella sua libertà” (p. 815).

“L’uomo è l’onnicomprensivo che noi siamo: esistenza concreta, coscienza in generale, spirito-ragione ed esistenza assoluta. Ed egli è la via per l’unificazione di questi modi dell’onnicomprensivo” (p. 815).

“L’uomo è la possibilità aperta, incompleta e mai completabile. Perciò egli è sempre anche più ed altro di quanto ha realizzato di sé” (p. 815).

“L’uomo si realizza in determinate manifestazioni, azioni, pensieri, simboli, ed egli si volge sempre di nuovo contro ognuno di questi fenomeni ormai determinati, contro i propri fondamenti. Quando non infrange più le forme fissate, cade nel livellamento di un tipo medio ed abbandona il cammino dell’essere umano” (p. 815).

“All’elevazione dell’uomo si oppongono nel suo intimo tre ostacoli: 1. La materia del suo intimo, sentimenti, stati, impulsi, ossia qualcosa di dato che lo vuole sopraffare. 2. Un costante processo a celare e a sovvertire tutto ciò che è, sente, pensa, vuole. 3. Un vuoto della propria insufficienza. Contro questi ostacoli egli lotta: come materia si sottopone ad un lavoro interiore di formazione, di disciplina, di esercizi, di abitudine. Al processo di occultamento e di sovvertimento contrappone il rischiaramento, la luce e la chiarezza interiore. Al vuoto cerca di sottrarsi mediante l’azione interiore, ossia cercando di fondare se stesso nella risoluzione, che con la ripetizione può essere mantenuta anche in epoche di minore efficienza”.

“Ciò che è l’uomo appare a tre livelli: a) nelle direzioni della sua possibile ricerca obiettiva in quanto essere che si manifesta nel mondo, egli appare come realtà empirica. b) nei modi dell’onnicomprensivo egli si illumina dalle sue origini. c) nella unità – cercando e fallendo nel mondo – acquisterà la consapevolezza della sua provenienza e delle sue finalità. Solo nel primo grado è accessibile alla ricerca scientifica” (pp. 815-816).

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“Solo per la ricerca empirica l’uomo è costruito teoricamente in fattori, parti, elementi, componenti, funzioni, forze. Se al di là di ciò è possibile un chiarimento filosofico dell’essere umano, questo può essere sempre lo sfondo di quella conoscenza dell’uomo empirico che rimane sempre particolare e non può essere la conoscenza stessa. Considerare il pensiero illuminante come una conoscenza oggettiva significa trasformare il pensiero filosofico in una pseudoscienza” (p. 816).

“Mentre in nessuna parte del mondo esiste per la nostra conoscenza un essere in sé, l’uomo è certo di se stesso. A differenza del cosmo non vivente, la cui conoscenza per principio resta altrettanto fluttuante quanto la psicologia dell’uomo (anche se nel metodo è più unitaria e più sistematica di questa), l’uomo è cosciente di sé al di là di qualsiasi conoscenza che egli acquista di se stesso. Mentre la conoscenza urta ovunque contro i confini oltre i quali null’altro possiamo afferrare, nel conoscere noi stessi essa urta contro confini, oltre i quali, per altra origine, ci è accessibile qualche cosa che è realtà priva di sapere” (p. 816).

“Nell’indagine dell’uomo non siamo solo spettatori di una cosa estranea, ma dello stesso uomo. Noi siamo quello stesso che ricerchiamo quando esploriamo gli altri. Non ci interessa solo sapere una data cosa, ma acquistiamo un sapere solo mediante il nostro proprio essere umano. L’essere in sé dell’uomo è presente in modo sensibile al limite del conoscibile, sia in colui che conosce sia in colui che è conosciuto” (p. 816).

“Il confine fra sapere scientifico e chiarificazione filosofica sta dove l’oggetto non è più inteso come realtà psicologica, ma è diventato mezzo di un trascendere in ciò che non è oggettivo. Esiste un limite per esempio fra psicologia comprensiva e chiarificazione esistenziale” (p. 816).

“L’uomo come tutto non diventa mai oggetto della conoscenza. Non esiste alcun sistema dell’essere umano. In qualsiasi totalità noi crediamo di afferrarlo, egli ci sfugge” (p. 816).

“Tutta la conoscenza dell’uomo avviene in aspetti particolari, mostra sempre una realtà, ma non la realtà dell’uomo, è vaga, non mai definitiva” (p. 816).

“L’uomo è sempre più di quanto egli sa e può sapere di sé e di quanto qualcun altro sappia di lui” (p. 816).

“Di nessun uomo si può avere una visione completa, su nessuno è possibile un giudizio generale e definitivo. Quei giudizi che praticamente sono inevitabili nel frequentare gli uomini e per gli scopi della società, perché è necessario prendere delle decisioni, valgono in questa particolare situazione, in queste condizioni di potere, acquistano responsabilità, senza essere dimostrati sufficientemente con il solo sapere. Io non posso mai, per così dire, tirare la riga sotto ad un uomo e fare la somma di ciò che si sa di lui. È un pregiudizio credere di poter avere una visione generale di un uomo come di un oggetto, e che la conoscenza ricercatrice possa possederlo completamente. Perciò: ‘Non vorremmo perdere, anche di fronte ai casi apparentemente più comuni, la coscienza della inesauribilità e della enigmaticità di ogni singolo uomo […]” (pp. 816-817).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo:

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21. Da: L. Laberthonniere, Teoria dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia

“L’idea che ci si fa dell’educazione e dell’ufficio di educatore dipende evidentemente dall’idea che ci si fa dell’uomo e della sua destinazione. A seconda che si ammetta infatti che l’uomo è questo o quello, che deve essere questo o quest’altro, non si può non seguire – chi voglia rimanere coerente a se stesso – una diversa forma, quando si tratta di lavorare alla formazione degli uomini. D’altra parte anche i procedimenti che si adoperano nell’educare i fanciulli, l’intenzione da cui si è animati e l’orientamento che si dà loro, implicano sempre – anche se non se ne avesse coscienza – almeno implicitamente, un concetto dell’uomo e della sua destinazione” (p. 21).

“Quando si considera il fanciullo come una persona e ci si chiede con qual diritto un estraneo possa intervenire nella sua vita per fargli pensare e volere quel ch’ei non penserebbe né vorrebbe spontaneamente, si è indotti a riconoscere che tale diritto non esiste: e da questo punto di vista, unicamente preoccupati di salvaguardare la personalità del ragazzo, quasi che esistesse già e si trattasse solo di proteggerla, si respinge puramente e semplicemente l’autorità.” (p. 33).

“Per contro, quando si considera il fanciullo come un germe che ha bisogno di essere guidato nella sua crescita o come una forza che ha bisogno di essere diretta nella sua azione, si bada solo ai mezzi da adoperare: e da questo punto di vista, preoccupati esclusivamente di conservare o di acquistare l’autorità che si deve esercitare sul fanciullo, non ci si cura della sua personalità” (p. 33).

“Pare in tal modo che non ci sia via di mezzo, fra abbandonare il ragazzo a se stesso ed opprimerlo. Ora bisogna notare che in ambedue i casi da ciò che si dice o dagli atteggiamenti che si prendono consegue che l’autorità si concepisce esclusivamente come un potere che s’impone o colla violenza o coll’abilità e che nella sua stessa essenza è irrimediabilmente esterna ed estranea a colui su cui si esercita” (p. 33).

Che l’autorità possa prendere realmente questo aspetto non si può di certo contestare. Tale è l’autorità dell’antico padrone sul suo schiavo e del monarca orientale sui suoi sudditi, tale è insomma l’autorità di chi, chiunque egli sia, abusi degli altri con la forza e con la scaltrezza. E di costoro ce ne sono sempre e dovunque nell’umanità, purtroppo! Ma l’autorità ha necessariamente questo aspetto? Non può prenderne un altro, anzi uno assolutamente opposto? L’autorità che agisce non è un’astrazione. E’ incarnata in una persona vivente; è una persona. Nel suo esercizio si dirige secondo intenzioni. La sua è un’attività morale. E ne risulta che cambia completamente natura secondo l’intenzione che l’anima” (p. 34).

“C’è l’autorità che usa del potere e dell’abilità di cui dispone, per subordinare gli altri ai suoi scopi particolari, e cerca unicamente di impadronirsi di essi per sfruttarli; ecco l’autorità che asservisce.

“C’è l’autorità che si serve del suo potere e dell’abilità di cui dispone per subordinare in certo senso se stessa a quelli che le sono sottoposti e, legando la sua sorte alla loro, persegue con essi un fine comune: ecco l’autorità liberatrice” (p. 34).

“Aggiungiamo ora che, come esistono due forme di autorità, esistono altresì due forme d’obbedienza: poiché neppure l’obbedienza è un’astrazione che si possa definire e fissare in un concetto: è l’atto di un essere vivente, mobile e complesso e anch’essa assume aspetto diverso a seconda dell’intenzione cui s’ispira. Bisogna dunque

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distinguere l’obbedienza servile che corrisponde all’autorità autoritaria, se è lecito dir così, e l’obbedienza libera che corrisponde all’autorità liberale. Se nell’un caso obbedire è subire, non è affatto così nell’altro, dove obbedire è invece accettare” (p. 35).

“Difatti anche a supporre che l’egoismo del ragazzo potesse essere domato, utilizzato da un egoismo più forte e più abile, lo scopo non sarebbe raggiunto: poiché non si tratta di domare questo egoismo, si tratta di far in modo ch’esso si arrenda, si dissolva e si trasformi. S’egli si imbattesse puramente in un altro egoismo simile al suo, avrebbe una ragione di più per rimanere quello che è, armandosi per difendersi. Se invece l’educatore, con tutta la sua condotta, mostra di non adoperare la sua autorità né per suo piacere, né per suo interesse, né per capriccio, né per orgoglio: se comanda in modo da dare l’impressione ch’egli stesso obbedisce mentre comanda, diventa allora per il ragazzo quasi la rivelazione d’una vita superiore dove, nel regno della giustizia e della bontà, sparisce il contrasto degli egoismi. Cessando di essere un semplice individuo, egli insegna al fanciullo ad uscire dalla propria individualità; gliene porge l’occasione e lo riscalda con la propria generosità, perché si apra e sbocci” (p. 37).

“Ma, e ci affrettiamo a farlo osservare, perché l’educatore prenda l’attitudine che si conviene, perché alla fin fine nell’uso della sua autorità si consacri e si sacrifichi, perché non prenda se medesimo come fine nella sua individualità; deve trarre ispirazione da una dottrina di vita che dia un senso e un valore al suo modo d’agire. La sua azione non può essere che una fede messa in opera, se non una concezione che si elabora e si afferma. Bisogna che abbia o acquisti questa convinzione che, per la sua origine come per la sua destinazione, è solidale con coloro che gli sono affidati, che non può disgiungere, senza prevaricazione, la sua sorte dalla loro sorte, sia con l’abbandonarli a se stessi sia col servirsi di essi per uno scopo ad essi estraneo. In fondo sono essi che deve volere e li deve volere per loro stessi, senza nulla chiedere per sé per mezzo loro” (pp. 39-40).

“E per volerli così bisogna che li voglia per mezzo di Dio e per Dio, vale a dire nell’Unità vivente che è il loro principio comune e il loro comune fine. Ora sarebbe facile mostrare che questa dottrina è quella stessa che contiene il Vangelo. E nulla sarebbe di certo più istruttivo che ritrovare il Cristianesimo impegnato e implicato in certo modo nella realtà stessa, di guisa che tutto il bene che vi si compie non si farebbe, malgrado le apparenze, se non per suo mezzo e per lui. Ma noi ci siamo prefissi di limitarci qui a qualche cenno” (p. 40).

“In quanto influenza subita, l’educazione si impone con l’ineluttabilità di una legge naturale. Non possiamo sottrarci all’azione della società in cui nasciamo e in cui viviamo. Nessuno, per suo bene o per suo male, può fare a meno di ricevere un’educazione. Lo stesso tentativo di sottrarle qualcuno, non è che un altro modo di assoggettarlo ad essa, poiché si tratta sempre, indipendentemente dalla sua volontà, di metterlo in condizioni che contribuiranno a determinare quel ch’ei diventerà. La cosa è degna di attenzione. I più decisi seguaci dell’individualismo protestante o razionalistico non possono negare questa verità di fatto. E quando vi riflettono debbono trovare ch’essa li pone in un singolare imbarazzo” (p. 45).

“Il problema non sta già nel sapere se si debba ricorrere sì o no all’autorità. L’autorità, in virtù della costituzione stessa delle cose, si esercita necessariamente in un modo o nell’altro, lo si voglia o no. E s’inganna se stessi, ingannando gli altri, quando si

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pretende di non volerlo. Il problema si riduce dunque a sapere che deve essere l’autorità, qual fine si deve proporre, di quale spirito deve essere animata nel suo esercizio (pp. 45-46).

“Ma la teoria dell’educazione che siamo stati condotti in tal modo ad abbozzare e per la quale si trova risolto il problema che s’impone spietatamente nella realtà, crediamo di poterlo affermare, è la teoria cristiana o, meglio, per evitare ogni ambiguità, la teoria cattolica dell’educazione. Difatti, una delle idee fondamentali del Cattolicesimo è questa: da una parte siamo strettamente solidali gli uni cogli altri e, dall’altra, tuttavia, ognuno di noi dipende soltanto da se stesso, è responsabile di quel che fa ed è destinato a riprodurre la perfetta libertà di Dio” (p. 47).

“Secondo il Cattolicesimo, tutto si compie nell’umanità per cooperazione. La vita morale e cristiana dell’uomo è una cooperazione della grazia divina e della volontà umana. E d’altra parte anche la vita morale e cristiana d’ognuno di noi è una cooperazione della sua attività e dell’attività degli altri, di cui subisce l’influenza e da cui riceve la direzione. Ciò che siamo moralmente e soprannaturalmente, lo siamo per il concorso di Dio e per il concorso della società nella quale nasciamo. Da noi stessi non abbiamo nulla, non siamo nulla. Nello stesso tempo, però, non siamo sempre nel fondo di noi stessi se non ciò che vogliamo essere. Una volontà che non voglia arrendersi è cittadella inespugnabile. Nessuno è cristiano da sé; ma nessuno neppure è cristiano suo malgrado” (pp. 47-48).

“Il Cattolicesimo ha sempre tenuto fermo a questa doppia verità attraverso i secoli. Ha sempre affermato, non soltanto la dipendenza dell’uomo da Dio, ma la solidarietà degli uomini tra loro: solidarietà che, per forza o per amore, li rende dipendenti gli uni dagli altri. E ha sempre affermato altresì il libero arbitrio e quindi l’autonomia della persona umana.

E questa doppia verità appunto anche noi, sotto altra forma, abbiamo enunciato e messo in rilievo in ciò che precede, constatando da un lato la necessità dell’educazione e riconoscendo dall’altro che l’educazione deve proporsi come fine lo svolgimento dell’iniziativa personale e l’attuazione della libertà” (p. 48).

“E’ dunque manifesto che la maniera stessa in cui si pone il problema o piuttosto la maniera in cui è posto dalla necessità della vita – questa specie di antinomia o di conflitto che esiste all’inizio tra educatore e alunno – suppone la concezione cattolica dell’umanità, vale a dire: gli uomini solidali, corresponsabili cioè gli uni verso gli altri, e nello stesso tempo autonomi, responsabile ognuno di se stesso. Ed è inoltre manifesto che, a risolvere questo problema e far sparire l’opposizione, a conciliare l’autorità del maestro e la libertà dell’allievo, è necessario ricorrere alla virtù che il Cattolicesimo esalta come essenziale e fondamentale: la carità” (p. 48).

“Ad ogni uomo che giunge in questo mondo incombe il dovere di conquistare se stesso sull’anarchia degli appetiti, dei bisogni inferiori e di giungere a liberarsi mediante la verità e la bontà. E a questo fine siamo di fatto congiunti gli uni agli altri. Non ci liberiamo se non aiutando gli altri a liberarsi: non ci salviamo se non aiutando gli altri a salvarsi. Le nostre azioni si ripercuotono da noi sugli altri come dagli altri su noi. Non possiamo compiere i nostri doveri verso gli altri senza prima compiere i nostri doveri verso di noi, né i nostri doveri verso noi stessi senza adempiere quelli verso Dio e reciprocamente. Tutto si concatena, tutto si mescola, non confondendosi, ma unificandosi” (pp. 48-49).

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“Ricorrere all’educazione significa schierarsi con il fatto stesso contro l’individualismo; significa ammettere difatti che l’individuo non basta a sé e ha bisogno di un soccorso esterno per vivere, sia moralmente che fisicamente. Volentieri o no si affida in tal modo un compito positivo all’autorità, compito che non consiste soltanto nel far rispettare diritti e nel proteggere persone, ma consiste ancora e in primo luogo, come abbiamo detto, nell’aiutare le persone a nascere ed a formarsi” (p. 49).

“Consegue d’altra parte da quanto abbiamo fin qui detto che il Cattolicesimo, considerato come organizzazione sociale, è in perfetto rapporto sia con lo stato reale in cui si trova di fatto l’umanità, sia con l’ideale ch’essa deve attuare. Con ciò che noi siamo realmente prende a fare di noi ciò che dobbiamo essere e ciò che possiamo diventare. Ci mette parimenti in guardia e contro le disperazioni di un pessimismo pusillanime e ribelle e contro le pretensioni di un ottimismo superbo e scipito. Ma ciò ch’esso ci propone, diciamolo a voce alta, perché si comprenda e non lo si dimentichi, è la liberazione, è la salute. E la salute che si propone, per essere l’opera di Dio, non cessa di essere anche opera nostra. E’ in noi. Non può risultare che da una trasformazione del nostro essere che si compie dal di dentro. Noi dobbiamo liberarci liberamente” (p. 50).

“Il Cattolicesimo quindi, anziché essere, a cagione del compito che attribuisce all’autorità, una negazione dell’autonomia personale e della libertà, come si prende tanto gusto a rimproverargli, ne fa invece il suo ideale. L’uomo veramente uomo, il cristiano perfettamente cristiano, per il Cattolicesimo è colui che, vivificato dalla grazia, padrone di ogni sua energia, dominando tutte le sue passioni, si fissa liberamente nell’amore di Dio e nell’amore degli altri uomini” (p. 50).

“L’errore dei protestanti e dei razionalisti non consiste già nel credere nella libertà e nel volerla; chè la libertà vera e completa non è altro che la salvezza. E i cattolici vi aspirano quanto essi. Ma il loro errore sta nel non riconoscere che per essere libero bisogna anzitutto liberarsi e che la libertà è un ideale da conquistare e non solo da proclamare. Prima d’essere salvi bisogna, come si dice, fare la propria salvezza” (p. 51).

“E’ forse necessario far notare che parlando in tal modo distinguiamo nettamente il libero arbitrio dalla libertà? L’uno è un potere, il potere stesso di liberarsi; l’altro è uno stato, è la liberazione conquistata, la liberazione di cui si gode”.

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22. Da: G. Lombardo Radice, L’ideale educativo e l’educazione nazionale. Lezioni di pedagogia generale fondata sul concetto di autoeducazione, Firenze, Sandron, 1961 [Ia ed. 1916]

«Empiricamente (cioè se si considera l’educando singolo, astraendolo dal vivo nesso della realtà spirituale) l’educazione comincia da un dato momento e quindi, se l’educare nell’universalità sua non ha presupposti, nella concreta particolare situazione del singolo sul singolo ha sempre a presupposti certi caratteri ereditari, una data indole, determinate abitudini, un certo ambiente. Bisogna risolverli nell’attività dell’alunno educatore di sé» (p. 38).«Occorre che l’educatore conosca il singolo alunno, e che penetri a così dire nella sua anima. Altrimenti il suo lavoro di maestro potrebbe essere remoto dal punto di coscienza in cui si trova l’alunno, e non esserci passaggio e svolgimento fra questa e l’opera o la parola del maestro. Più che educato, l’alunno verrebbe così lasciato in un oscuro tormento a cagione della estraneità dell’educatore al suo mondo» (38).«Dalla diversità (dualità) di maestro ed alunno comincia ogni particolare atto educativo; ma non c’è atto educativo sia pur minimo, dentro il quale quella diversità si mantenga» (38).«Educare o essere educato non è restar diversi, ma unificarsi o immedesimarsi per quel tanto che l’atto educativo significa. Se insegno come maestro o imparo come scolaro una qualsiasi verità, nel momento che faccio capire o, rispettivamente, comincio a capire, e nell’ambito di quella verità il mio spirito si identifica coll’altro, che era diverso e magari opposto al mio: pensiamo lo stesso, ci facciamo uno» (38-39).«Per questa unificazione è necessario che io, maestro, senta con chiarezza la difficoltà in cui si trova lo spirito dello scolaro (e mi metta a dir così – nei suoi panni e la elimini, come se fosse mia); come è necessario che io, alunno, senta la lotta del maestro contro il mio errore, e la vada trasformando in mia: quel che faccio col manifestare le mie esitazioni, chiedere schiarimenti, muovere obiezioni, domandare che mi spieghi la stessa cosa “in altro modo”» (39).«Né scolaro né maestro, nel momento in cui sono tali, sono estranei, altri» (39).«Gli altri, se sono qualcosa per noi, non possono che coincidere: o con noi stessi, di un momento già superato, e allora (intendendoli come questo nostro momento) ne possiamo essere maestri: o con noi stessi in quanto iniziamo il superamento del nostro passato e ci sforziamo di chiarirci ulteriormente, e allora (intendendo gli altri, come la nostra più intima voce) siamo discepoli» (39 (cit. da Il concetto di educazione, Catania, Battiato).«Gli “altri” diversi da noi (dalla nostra coscienza) ci sono ignoti, anzi non esistono affatto innanzi al nostro pensiero: non maestri, né alunni. Gli altri in quanto entrano in rapporto con noi sono uno dei lati della nostra stessa consapevolezza nella quale noi siamo “altri” a noi stessi» (39 – cit. da v. sopra).«Va però considerato che ogni atto educativo in quanto introduce nello spirito dell’alunno una nuova verità, se per quella verità lo fa identico collo spirito del maestro, per quella stessa verità inizia una nuova diversificazione. Giacchè la nuova verità non resta inoperosa: fa della esperienza interna dell’alunno un altro tutto, cioè riopera sull’insieme delle verità già conseguite da lui, determinando un nuovo assestamento di esse, in cui trovi il posto che prima non aveva. Poco o molto, qualunque, anche una piccola verità (piccolo è “un modo di dire” chè la verità ha un’universalità indefettibile) determina una nuova anima, cioè un alunno nuovo, diverso da quello prima conosciuto dal maestro, e che il maestro deve ancora conoscere e far intimo a sé. Giacchè un maestro non è un dio, e non sa perciò gli intimi nuovi movimenti dell’anima dello

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alunno, e i mille delicatissimi allacciamenti della verità che gli ha comunicato con la totalità della esperienza di lui» (39-40).«Anzi via via che l’alunno guadagna in maturità e profondità di vita interiore, il maestro sente più grave il problema, perché più delicata e più complessa si fa la trama (a dir così) della personalità dell’alunno e più arduo diventa l’atto educativo» (40).«L’identità spirituale di maestro e di alunno è stata spesso negata da moderni scrittori, avversarii dell’idealismo, pel desiderio – dicono – di non confondere. C’è il maestro e c’è l’alunno: ogni educazione postula due persone: che strano paradosso è quello pel quale si sostiene che il maestro è l’identico dello scolaro? Ma potremmo considerare come una ingenuità questo inalberarsi della coscienza volgare di fronte alla verità filosofica, se non nascondesse una giusta esigenza anche esso. La coscienza volgare non è nulla di spregevole, è semplicemente un momento della coscienza, in sé rispettabile, ma inadeguato rispetto a un altro superiore ad esso, che non lo nega se non comprendendolo e integrandolo» (40).«Nessuno può dimenticare la dualità di maestro e di alunno: ma questa dualità va intesa come un dualizzarsi incessante, che è motivo di una nuova interiorizzazione reciproca ed unificazione. Dualità come dualizzarsi: unità come unificarsi» (40).«Ed è questa un’altra prova della infinità dell’educazione: essa risolve un problema, solo ponendone un altro, il che non fa diminuire punto la fede nell’educazione, anzi significa che l’educazione ha eternamente un’intrinseca ragione d’essere, che ogni azione educativa è, per se stessa, un impegno a un’azione educativa più elevata, e che noi non educhiamo oggi se non per educare di più domani» (40).«Il pessimismo pedagogico dovrebbe poter dimostrare come perduto uno sforzo educativo; per noi invece – è chiaro da tutta la nostra teoria – nessuna azione educativa è perduta, perché ognuna è, nel suo ambito, una perfetta unificazione e quindi una elevazione sulla mera individualità scissa e aspirituale» (40).«La falsità del pessimismo è radicalmente insanabile. Ma non meno volgare pel pessimismo sarebbe quell’ottimismo pedagogico che considerasse come possibile la definitiva attuazione dell’ideale e carezzasse in fantasia una umanità di angioli, un mondo che non può essere posto se non da un sentimentalismo dolciastro e stucchevole: un mondo senza lotta, un paradiso terrestre in cui non ci fosse più null’altro da fare che contemplare la propria perfezione ed andare in sollucchero per quella degli altri. A un tal mondo sarebbe da preferire la più selvaggia barbarie, che è pure vita, una “prima” vita ricca d’un suo dinamismo e però più vicina a Dio che non l’immobilità d’un bene che appunto perché inalterabilmente fermo non sarebbe nemmeno più bene: una potenza tutta risoluta nell’atto: un atto senza più potenza di farsi. Una coscienza stagnante, e per nulla “milizia”» (40-41)..«Il nostro ottimismo ci dice: abbi fede che ogni creazione della tua coscienza e di ogni altra coscienza da te suscitata servirà necessariamente di base all’ulteriore vita della coscienza umana, in universale; abbi fede che l’educazione, sia pure d’un piccolo bambino ancor balbettante, sia pure l’educazione di un giorno e di un’ora, è in sé qualcosa di eternamente durevole. Educare è vivere nell’eterno, svolgere l’eterna opera dello spirito, prostrando l’anima con umiltà, ma con ardente gioia» (41).«A guisa di riepilogo e insieme di conferma, diciamo qui che cosa sia diseducazione, raccogliendo nella definizione di atto antieducativo tutte le note opposte a quelle additate come costitutive dell’atto educativo» (65).«Come si diseduca? Poniamo col sussidio del più comune buon senso (al quale la filosofia non è opposta, essendo anzi la sua giustificazione razionale) uno scelto elenco di casi tipici fra i mille possibili» (65).«Diseduca chi nel rapporto educativo con altri è dominato dalla sua passione. L’ira che proporziona il rimprovero e il castigo alla irritazione e allo sdegno del cosidetto

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educatore, ma non alla coscienza del colpevole, dentro la quale pur dovrebbe trovare la sua giustificazione; l’amore che si astiene dalla repressione del male perché teme di sentirsi divenire avverso l’amato a cagione della repressione stessa, o perché non può sopportare l’idea di essere verso l’amato altrimenti che carezzevole; sono atteggiamenti dell’educatore parimenti diseducativi, in quanto non realizzano una unità spirituale, e rendono il presunto educatore, rispettivamente tiranno o schiavo, tormentatore o vezzeggiatore» (65).«Peggio si diseduca quando si è dominati nei nostri rapporti cogli altri da passioni e da interessi altrui. Educare per “commissione” di altri e secondo la volontà altrui – quasi educare “su misura”, contro o senza una propria fede – sarebbe opera servile. Il fattore ultimo di una presunta simile educazione sarebbe l’egoismo dell’educatore, pauroso di sgarrare e di incorrere nel rimprovero dei suoi padroni o nel licenziamento. Così questo caso somiglia al precedente, implicando la stessa passività verso se stesso» (65-66).«Parimenti si è passivi quando non si sente la propria verità intellettuale o morale come un problema, ma solo come una soluzione e non si è capaci di fare ridiscendere le soluzioni a problemi, per sentire le difficoltà dell’alunno e accompagnarlo nel suo sforzo» (66).«In tal caso l’educatore fa ripetere non trovare, appunto perché ripete egli stesso, schiavo del suo sapere “bell’e fatto” e delle sue abitudini mentali» (66).«Altra passività possibile: la boria magistrale di chi diseduca perché si sente “solo autorità” e negli atti degli altri non vede che il riconoscimento o l’offesa alla sua “autorità”. Non si educa restando lontani da quelli alla cui formazione siamo preposti, per umili che essi sieno; e non riconoscendo una personalità se non a se stessi!» (66).«Ancora (chè l’elenco è lungi dall’essere esaurito): diseduca il feticismo della regola, che astrae gli atti dell’alunno dalla coscienza che li ha prodotti e li considera per sé, commisurandoli alla regola adottata, parte di una specie di “codice dell’educazione”» (66).«Per questo codice un ritardo scolastico è un ritardo passibile di tale o tale altra pena; non “il ritardo del tale o tale altro alunno” che ha motivi individuali, degni d’esser ricercati e valutati» (66).«È questo il caso dell’educazione-regolamento o della scuola-caserma, senza offesa per la vera caserma che deve essere ed è anche essa scuola senza feticismo di regole (come l’intendono gli uomini d’arme moderni che vogliono nell’esercito consapevoli soldati, non marionette), ma riferendoci all’idea tradizionale e per così dire convenzionale di caserma» (66).«Il popolare “predicar bene e razzolar male” ci suggerisce l’idea di un altro modo di diseducazione che è l’educare senza dare l’esempio di ciò che si pretende dagli altri» (67).«Imposizioni di verità “verbali” o educazione retorica: passività anche questa dell’educatore» (67).«Educare screditando l’attività educativa di un altro e frapponendosi tra lui e i suoi educandi. Si immagini, ad esempio, un direttore di scuola che dinanzi agli alunni rimproveri il maestro o mostri di non apprezzare le parole di lui. Negli alunni che saranno dalla sua, si saranno svegliati tutti i rancori contro il maestro, e la loro irriducibilità sarà così accresciuta; negli alunni che resteranno dalla parte del maestro avrà perduto valore l’autorità del direttore. In tutte e due i casi sarà rotta un’unità spirituale e reso più difficile il processo di unificazione fra educatore ed educandi. Ecco gli effetti di quella che si potrebbe chiamare “boria direttoriale”» (67).«Educare considerando l’alunno isolato dalla comunità umana di cui fa parte, e nella quale vive già in rapporti educativi. Questa si potrebbe designare come l’educazione dell’alunno x non dell’alunno di una data età e formazione, di una data famiglia, di un

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dato paese, in un dato momento storico, e quindi una educazione astratta, che non coopera colle reali comunioni educative cui appartiene l’alunno, e implicitamente la scredita e le impoverisce» (67).«È diseducativa qualsiasi azione modificatrice di altri, che sia determinata dalla passività rispetto a se stesso di chi la esercita, e determini un adattamento passivo di colui sul quale è esercitata; e perciò ogni azione, per la quale chi dovrebbe essere educatore non susciti un processo di unificazione spirituale di sé e del suo alunno o disturbi l’unità spirituale di educatori ed educandi raggiunta da altri, senza sostituirgliene una migliore, che la conservi elevandola» (67).«Una influenza completamente diseducatrice non si può per fortuna concepire, perché bisognerebbe poter pensare una coscienza che non fosse in alcun modo attività» (67-68).«Ma tuttavia la diseducazione ha la sua realtà innegabile e terribile. Essa è reale come pericolo inerente all’educare, del quale l’educatore deve acquistare continuamente coscienza per liberarsene e continuare con vigore e freschezza la sua opera» (68).«Non educa chi non sente di correr rischio di diseducare e chi non avverte il suo sostare come pericolo che la sua qualità di educatore si dissolva» (68).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo di Lombardo Radice:

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23. Da: K.Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti

“I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica”.

“Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura”.

“Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorchè cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale.

“Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato”.

“Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione”.

“Questa produzione non appare che con l’aumento della popolazione. E presuppone a sua volta relazioni fra gli individui. La forma di queste relazioni a sua volta è condizionata dalla produzione”.

“[L’organizzazione interna di una nazione] dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del lavoro. Ogni nuova forza produttiva, che non sia un’estensione puramente quantitativa delle forze produttive già note […] porta come conseguenza un nuovo sviluppo nella divisione del lavoro”.

“La divisione del lavoro all’interno di una nazione porta con sé innanzi tutto la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale. In pari tempo, attraverso la divisione del lavoro all’interno di questi diversi rami, si sviluppano a loro volta suddivisioni diverse fra individui che cooperano a lavori determinati. La posizione reciproca di queste singole suddivisioni è condizionata dai metodi impiegati nel lavoro agricolo, industriale e commerciale (patriarcalismo, schiavitù, ordini, classi)”.

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“I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro”.

“La prima forma di proprietà è la proprietà tribale. Essa corrisponde a quel grado non ancora sviluppato della produzione in cui un popolo vive di caccia e di pesca, dell’allevamento del bestiame o al massimo dell’agricoltura. In quest’ultimo caso è presupposta una grande massa di terreni incolti. In questa fase la divisione del lavoro è ancora pochissimo sviluppata e non è che un prolungamento della divisione naturale del lavoro nella famiglia. L’organizzazione sociale quindi si limita ad essere un’estensione della famiglia: capi patriarcali della tribù, al disotto di essi i membri della tribù, e infine gli schiavi. La schiavitù, latente nella famiglia, comincia a svilupparsi a poco a poco con l’aumento della popolazione e dei bisogni, e con l’allargarsi delle relazioni esterne, così della guerra come del baratto”.

“La seconda forma è la proprietà della comunità antica e dello Stato, che ha origine dall’unione di più tribù in una città, mediante patto o conquista, e in cui continua ad esistere la schiavitù. Accanto alla proprietà della comunità già si sviluppa la proprietà privata mobiliare e in seguito anche la immobiliare, che però è una forma anormale, subordinata alla proprietà della comunità. I membri dello Stato possiedono soltanto nella loro comunità il potere sui loro schiavi che lavorano, e già per questo sono legati alla forma della proprietà della comunità. È la proprietà privata posseduta in comune dai membri attivi dello Stato, i quali di fronte agli schiavi sono costretti a restare in questa forma naturale di associazione”.

“[…] L’intera organizzazione sociale fondata su questa base, e con essa il potere del popolo, decadono nella misura in cui si sviluppa la proprietà privata immobiliare. La divisione del lavoro è già più sviluppata. Troviamo già l’antagonismo fra città e campagna, più tardi l’antagonismo fra Stati che rappresentano l’interesse della città e Stati che rappresentano quello della campagna, e all’interno delle stesse città l’antagonismo fra industria e commercio marittimo. Il rapporto di classe fra cittadini e schiavi è completamente sviluppato”.

“Con lo sviluppo della proprietà privata appaiono qui per la prima volta quelle stesse condizioni che ritroveremo, soltanto in misura più estesa, nella proprietà privata moderna. Da una parte la concentrazione della proprietà privata, che a Roma cominciò molto presto […] e procedette rapidamente a cominciare dalle guerre civili e soprattutto sotto gli imperatori; d’altra parte, in relazione a ciò, la trasformazione dei piccoli contadini plebei in un proletariato che però, per la sua posizione intermedia fra cittadini possidenti e schiavi, non arrivò a uno sviluppo autonomo”.

“La terza forma è la proprietà feudale o degli ordini. Mentre l’antichità muoveva dalla città e dalla sua piccola cerchia, il medioevo muoveva dalla campagna. La popolazione allora esistente, scarsa e dispersa su una vasta superficie, debolmente incrementata dai conquistatori, determinò questo spostamento del punto di partenza. Al contrario della Grecia e di Roma, lo sviluppo feudale comincia quindi su un terreno molto più esteso, preparato dalle conquiste romane e dalla diffusione dell’agricoltura che originariamente vi è connessa. Gli ultimi secoli del cadente Impero romano e la stessa conquista dei barbari distrussero una grande quantità di forze produttive; l’agricoltura era caduta in abbandono, l’industria rovinata per mancanza di sbocco, il commercio intorpidito o

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violentemente troncato, la popolazione della campagna e delle città era diminuita. Queste condizioni preesistenti e il modo come fu organizzata la conquista, da quelle condizionato, provocarono, sotto l’influenza della costituzione militare germanica, lo sviluppo della proprietà feudale”.

“Come la proprietà tribale e la proprietà della comunità anch’essa poggia su una collettività alla quale sono contrapposti come classe direttamente produttrice non gli schiavi, come per la proprietà antica, bensì i piccoli contadini asserviti, insieme col completo sviluppo del feudalesimo compare anche l’antagonismo con le città. L’organizzazione gerarchica del possesso fondiario e le relative compagnie armate davano alla nobiltà il potere sui servi della gleba. Questa organizzazione feudale era un’associazione opposta alle classi produttrici, precisamente come la proprietà della comunità antica; solo che la forma dell’associazione e il rapporto con i produttori diretti erano diversi, perché esistevano condizioni di produzione diverse”.

“A questa organizzazione feudale del possesso fondiario corrispondeva nelle città la proprietà corporativa, l’organizzazione feudale dell’artigianato. Qui la proprietà consisteva principalmente nel lavoro di ciascun singolo. La necessità di associarsi contro la rapace nobiltà associata, il bisogno di mercati coperti comuni in un tempo in cui l’industriale era insieme mercante, la crescente concorrenza dei servi della gleba fuggitivi che affluivano nelle città fiorenti, l’organizzazione feudale dell’intero paese, portarono alle corporazioni; i piccoli capitali risparmiati a poco a poco da singoli artigiani e il loro numero stabile in se no a una popolazione crescente fecero sviluppare il rapporto di garzone e di apprendista, che dette origine a una gerarchia simile a quella esistente nelle campagne”.

“Nell’età feudale dunque la proprietà principale consisteva da una parte nella proprietà fondiaria col lavoro servile che vi era legato, dall’altra nel lavoro personale con un piccolo capitale che si assoggettava il lavoro dei garzoni. L’organizzazione dell’una e dell’altro era condizionata dalle ristrette condizioni della produzione: la limitata e rozza cultura della terra e l’industria di tipo artigianale. Durante il fiorire del feudalesimo la divisione del lavoro era assai limitata. Ogni paese portava in sé l’antagonismo di città e campagna; l’organizzazione in ordini era fortemente marcata, ma al di fuori della separazione fra principi, nobiltà, clero e contadini nelle campagne, e fra maestri, garzoni, apprendisti e ben presto anche plebei a giornata nelle città, non esisteva alcuna divisione di rilievo. Nell’agricoltura vi si opponeva la coltivazione parcellare, accanto alla quale sorgeva l’industria domestica degli stessi contadini, nell’industria il lavoro non era affatto diviso all’interno dei singoli mestieri, pochissimo diviso fra un mestiere e l’altro. La divisione fra industria e commercio preesisteva nelle città più antiche, mentre nelle nuove si sviluppava lentamente, quando fra esse si stabilivano rapporti”.

“L’unificazione di vasti paesi in regni feudali era un bisogno tanto per la nobiltà terriera quanto per le città. L’organizzazione della classe dominante, la nobiltà, ebbe quindi dappertutto al suo vertice un monarca”.

“Il fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono un’attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l’organizzazione sociale e politica e la produzione. L’organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire

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nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dal loro arbitrio”.

“La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc., di un popolo”.

“Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico”.

“[…] Non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali”.

“[…] La morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza”.

“Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate”.

“[…] Per poter ‘fare storia’ gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini. Anche riducendo la sensibilità al minimo, magari a un bastone come nel caso di

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san Bruno, essa presuppone l’attività della produzione di questo bastone. In ogni concezione della storia dunque il primo punto è che si osservi questo dato di fatto fondamentale in tutta la sua importanza e in tutta la sua estensione e che gli si assegni il posto che gli spetta"”

“Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, l’azione del soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica”.

“Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi, è il rapporto fra uomo e donna, fra genitori e figli: la famiglia. Questa famiglia, che da principio è l’unico rapporto sociale, diventa più tardi, quando gli aumentati bisogni creano nuovi rapporti sociali e l’aumentato numero della popolazione crea nuovi bisogni, un rapporto subordinato […] e deve allora essere trattata e spiegata in base ai dati empirici esistenti, non in base al ‘concetto della famiglia’”.

“D’altronde questi tre aspetti dell’attività sociale non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre ‘momenti’ […], i quali sono esistiti fin dall’inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il loro peso nella storia”.

“La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo. Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una ‘forza produttiva’; ne deriva che la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la ‘storia dell’umanità’ deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio”.

“Solo a questo punto, dopo avere già considerato quattro momenti, quattro aspetti delle condizioni storiche originarie, troviamo che l’uomo ha anche una ‘coscienza’. Ma anche questa non esiste, fin dall’inizio, come ‘pura’ coscienza. Fin dall’inizio lo ‘spirito’ porta in sé la maledizione di essere ‘infetto’ della materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini”.

“Là dove un rapporto esiste, esiste per me, l’animale non ‘ha rapporti’ con alcunchè e non ha affatto rapporti. Per l’animale, i suoi rapporti con altri non esistono come rapporti. La coscienza è fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini”.

“Naturalmente, la coscienza è innanzi tutto semplice coscienza dell’ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne all’individuo che prende coscienza di sé; in pari tempo è coscienza della natura, che inizialmente si erge di contro agli uomini come una potenza assolutamente estranea, onnipotente e

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inattaccabile, verso la quale gli uomini si comportano in modo puramente animale e dalla quale si lasciano dominare come le bestie; è dunque una coscienza puramente animale della natura (religione naturale) e d’altra parte è coscienza della necessità di stabilire dei contatti con gli individui circostanti, la coscienza iniziale del fatto che si vive in una società”.

“Questo inizio è di natura animale come la stessa vita sociale a questo stadio, è pura coscienza da gregge, e l’uomo a questo punto si distingue dal montone soltanto perché il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone o tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione che sta alla base dell’uno e dell’altro fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine non era altro che la divisione del lavoro nell’atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o ‘naturalmente’ in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso, ecc.”

“La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi essistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunchè di reale. Da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la ‘pura’ teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. Ma anche quando questa teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. entrano in contraddizione con i rapporti esistenti, ciò può accadere soltanto per il fatto che i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze produttive esistenti”.

“È del tutto indifferente quel che la coscienza si mette a fare per conto suo: questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra loro, perché con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l’attività spirituale e l’attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi, e la possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro”.

“È di per sé evidente, del resto, che i ‘fantasmi’, i ‘vincoli’, l’ ‘essere superiore’, il ‘concetto’, la ‘irresolutezza’, altro non sono che l’espressione spirituale idealistica, la rappresentazione apparentemente dell’individuo isolato, in realtà di ceppi e barriere molto empirici entro i quali si muovono il modo di produzione della vita e la forma di relazioni che vi è connessa”.

“La divisione del lavoro, che implica tutte queste contraddizioni e che a sua volta è fondata sulla divisione naturale del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l’una all’altra, implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già il suo germe, la sua prima forma, nella famiglia, dove la donna e i figli sono gli schiavi dell’uomo”.

“La schiavitù nella famiglia, che certamente è ancora molto rudimentale e allo stato latente, è la prima proprietà, che del resto in questa fase corrisponde già perfettamente alla definizione degli economisti moderni, secondo cui essa consiste nel disporre di forza-lavoro altrui. Del resto divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni

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identiche: con la prima si esprime in riferimento all’attività esattamente ciò che con l’altra si esprime in riferimento al prodotto dell’attività”.

“Inoltre con la divisione del lavoro è data altresì la contraddizione fra l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell’immaginazione, come ‘universale’, ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso”.

“Appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione piuttosto autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto […] sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre”.

“[…] Tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi […], e inoltre ogni classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi costretta in un primo momento”.

“Appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere: laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia;senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico”.

“Questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno da dove viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire”.

“Questa estraneazione, per usare un termine comprensibile ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinchè essa diventi un potere ‘insostenibile’, cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre

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che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto ‘priva di proprietà’ e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzarebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa ‘priva di proprietà’ contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali”.

“Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in ‘una volta’ e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica”.

“Il comunismo per noi è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.

“D’altronde la massa di semplici operai – forza lavorativa privata in massa del capitale o di qualsiasi limitato soddisfacimento – e quindi anche la perdita non più temporanea di questo stesso lavoro come fonte di esistenza assicurata, presuppone, attraverso la concorrenza, il mercato mondiale. Il proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza ‘storica universale’. Esistenza storica universale degli individui, cioè esistenza degli individui che è legata direttamente alla storia universale”.

“La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata; è un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente, di assegnare per esempio alla scoperta dell’America lo scopo di favorire lo scoppio della Rivoluzione francese; per questa via poi la storia riceve i suoi scopi speciali e diventa una ‘persona accanto ad altre persone’ (che sono: ‘autocoscienza, critica, unico’, ecc.), mentre ciò che vien designato come ‘destinazione’, ‘scopo’, ‘germe’, ‘idea’ della storia anteriore altro non è che un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva”.

“A mano a mano poi che nel corso di questo sviluppo si allargano le singole sfere che agiscono l’una sull’altra, a mano a mano che l’originario isolamento delle singole nazionalità viene annullato dal modo di produzione sviluppato, dalle relazioni e dalla conseguente divisione naturale del lavoro fra le diverse nazioni, la storia diventa sempre più storia universale, cosicchè, per esempio, se in Inghilterra viene inventata una macchina che riduce alla fame innumerevoli lavoratori in India e in Cina e sovverte tutta la forma di esistenza di questi imperi, questa invenzione diventa un fatto storico

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universale; oppure, lo zucchero e il caffè dimostrarono la loro importanza storica universale nel secolo diciannovesimo, in quanto la mancanza di questi prodotti, provocata dal sistema continentale napoleonico, portò i tedeschi a insorgere contro Napoleone e divenne quindi la base reale delle gloriose guerre di liberazione del 1813”.

“Da ciò segue che questa trasformazione della storia in storia universale è non già un semplice fatto astratto della ‘autocoscienza’, dello spirito del mondo o di qualche altro fantasma metafisico, ma un fatto assolutamente materiale, dimostrabile empiricamente, un fatto di cui ciascun individuo dà prova nell’andare e venire, nel magiare, nel bere e nel vestirsi”.

“Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto spirito del mondo ecc.), a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista […] e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale”.

“Che la ricchezza spirituale reale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazione degli uomini). La dipendenza universale, questa forma spontanea della collaborazione degli individui su piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e nel dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee”.

“Infine, dalla concezione della storia che abbiamo svolto otteniamo ancora i seguenti risultati: 1) nello sviluppo delle forze produttive si presenta uno stadio nel quale vengono fatte sorgere forze produttive e mezzi di relazione che nelle situazioni esistenti fanno solo del male, che non sono più forze produttive ma forze distruttive (macchine e denaro) e, in connessione con tutto ciò, viene fatta sorgere una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi; una classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista, la quale naturalmente si può formare anche fra le altre classi, in virtù della considerazione della posizione di questa classe; 2) che le condizioni entro le quali possono essere impiegate determinate forze produttive sono le condizioni del dominio di una determinata classe della società, la cui potenza sociale, che scaturisce dal possesso di quelle forze, ha la sua espressione pratico-idealistica nella forma di Stato che si ha di volta in volta, e perciò ogni lotta rivoluzionaria si rivolge contro una classe che fino allora ha dominato; 3) che in tutte le rivoluzioni sinora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro

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e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società non conta più come classe, che non è riconosciuta come classe, che in seno alla società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi, nazionalità, ecc.; 4) che tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione; che quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perchè la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società”.

“Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro)”.

“Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall’idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza anche al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’ ‘autocoscienza’ o trasformandoli in ‘spiriti’, ‘fantasmi’, ‘spettri’, ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria”.

“Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella ‘autocoscienza’ come ‘spirito dello spirito’, ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. Questa somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come ‘sostanza’ ed ‘essenza dell’uomo’”.

Da Il marxismo e l’educazione, a cura di M. A. Manacorda, Roma, Armando, vol. I“Che cos’è una giornata lavorativa? Qual è la quantità del tempo durante il quale il capitale può consumare la forza-lavoro della quale essa paga il valore di una giornata? Fino a che punto la giornata lavorativa può essere prolungata al di là del tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro stessa? S’è visto che a queste domande il capitale risponde: la giornata lavorativa conta ventiquattro ore complete al giorno, detratte le poche ore di riposo senza le quali la forza-lavoro ricusa assolutamente di rinnovare il suo servizio. In primo luogo è evidente che l’operaio, durante tutto il tempo

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della sua vita, non è altro che forza-lavoro, e perciò, che tutto il suo tempo disponibile è, per natura e per diritto, tempo di lavoro, e dunque appartiene alla autovalorizzazione del capitale” (Marx, Il capitale, cit. in Manacorda, I, 87).

“Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale – e sia pure nella terra dei sabbatari -: fronzoli puri e semplici! Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei pasti, e lo incorpora dove è possibile nel processo produttivo stesso, cosicchè al lavoratore vien dato il cibo come a un puro e semplice mezzo di produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come si dà sego e olio alle macchine. Riduce il sonno sano che serve a raccogliere, rinnovare, rinfrescare le energie vitali, a tante ore di torpore quante ne rende indispensabili il ravvivamento di un organismo assolutamente esaurito” (Manacorda, I, 87-88).

“Qui non è la normale conservazione della forza-lavoro a determinare il limite della giornata lavorativa, ma viceversa, è il massimo possibile dispendio giornaliero di forza-lavoro, per quanto morbosamente coatto e penoso, a determinare il limite del tempo di riposo dell’operaio. Il capitale non si preoccupa della durata della vita della forza-lavoro. Quel che gli interessa è unicamente e soltanto il massimo di forza-lavoro che può essere resa liquida in una giornata lavorativa; e ottiene questo scopo abbreviando la durata della forza-lavoro, come un agricoltore avido ottiene aumentati proventi dal suolo rapinandogli la fertilità” (Manacorda, I, 88).

“Come nella cooperazione semplice, anche nella manifattura il corpo lavorativo in funzione è una forma d’esistenza del capitale. Il meccanismo sociale di produzione composto di molti operai parziali individuali appartiene al capitalista. La forza produttiva che deriva dalla combinazione dei lavori appare quindi come forza produttiva del capitale. La manifattura in senso proprio non solo assoggetta l’operaio, prima indipendente, al comando e alla disciplina del capitale, ma crea inoltre una graduazione gerarchica tra gli operai stessi. Mentre la cooperazione semplice lascia inalterato nel complesso il modo di lavorare del singolo, la manifattura rivoluziona questo modo di lavorare da cima a fondo, e prende alla radice la forza-lavoro individuale. Storpia l’operaio e ne fa una mostruosità favorendone, come in una serra, la abilità di dettaglio, mediante la soppressione d’un mondo intero d’impulsi e di disposizioni produttive […]. Non solo i particolari lavori parziali vengono suddivisi fra diversi individui, ma l’individuo stesso vien diviso, vien trasformato in motore automatico d’un lavoro parziale, realizzandosi così l’insulsa favola di Menenio Agrippa, che rappresenta un uomo come null’altro che frammento del suo stesso corpo” (89-90).

“Originariamente l’operaio vende la sua forza-lavoro al capitalista perché gli mancano i mezzi materiali per la produzione d’una merce: ma ora la sua stessa forza-lavoro individuale viene meno al suo compito quando non venga perduta al capitale; essa funziona ormai soltanto in un nesso che esiste soltanto dopo la sua vendita, nell’officina del capitalista. L’operaio manifatturiero, reso incapace per la sua stessa costituzione naturale a fare qualcosa di indipendente, sviluppa un’attività produttiva ormai soltanto come accessorio dell’officina del capitalista. Come sulla fronte del popolo eletto stava

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scritto ch’esso era proprietà di Geova, così la divisione del lavoro imprime all’operaio manifatturiero un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale” (90).

“Le cognizioni, l’intelligenza e la volontà che il contadino indipendente o il maestro artigiano sviluppano, anche se su piccola scala, allo stesso modo che il selvaggio esercita come astuzia personale tutta l’arte della guerra, ormai sono richieste soltanto per il complesso dell’officina. Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala in una parte perché scompaiono da molte parti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro. Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta l’unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai; si sviluppa nella manifattura, che mutila l’operaio facendone un operaio parziale; si completa nella grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale” (90).

“Nella manifattura l’arricchimento di forza produttiva sociale da parte dell’operaio complessivo e quindi del capitale, è la conseguenza dell’impoverimento delle forze produttive dell’operaio. “L’ignoranza è madre tanto dell’industria quanto della superstizione. La riflessione e la fantasia sono soggette ad errare; ma l’abitudine di muovere la mano o il piede in un certo modo è indipendente dall’una e dall’altra. Quindi le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente, di modo che l’officina può essere considerata come una macchina le cui parti sono uomini”. Di fatto, attorno alla metà del secolo XVIII, alcune manifatture adopravano di preferenza per certe operazioni semplici, che però costituivano segreti di fabbrica, proprio dei semiidioti” (90).

“ ‘L’intelletto della grande maggioranza degli uomini’, scrive A. Smith, ‘è formato necessariamente dalle loro operazioni quotidiane. L’uomo che spende tutta la sua vita eseguendo poche operazioni semplici … non ha nessuna occasione di esercitare il suo intelletto… Generalmente, diventa stupido e ignorante quanto è possibile a creatura umana’. E dopo aver descritto la ottusità dell’operaio parziale, lo Smith continua: ‘L’uniformità della sua vita stazionaria corrompe naturalmente anche il coraggio della sua mente… Corrompe perfino l’energia del suo corpo e lo rende incapace di applicare la sua forza con slancio e con perseveranza al di fuori della occupazione particolare per la quale è stato allevato. Così la destrezza dell’operaio nel suo particolare lavoro sembra acquistata a spese delle sue virtù intellettuali, sociali e militari; ma questo è lo stato al quale devono necessariamente ridursi i poveri che lavorano, cioè la gran massa del popolo, in ogni società industriale e incivilita’” (90-91).

“Per impedire la completa atrofia della massa del popolo, derivante dalla divisione del lavoro, A. Smith raccomanda l’istruzione popolare statale, seppure a prudenti dosi omeopatiche. Conseguentemente, il suo traduttore e commentatore francese, G. Garnier, che sotto il Primo Impero uscì dal bozzolo compiendo la sua naturale evoluzione in senatore, polemizza invece contro la istruzione popolare. Secondo lui, l’istruzione popolare viola le prime leggi della divisione del lavoro, e contravvenendo alla divisione del lavoro ‘si mette al bando tutto il nostro sistema sociale’. ‘Come tutte le altre divisioni del lavoro, egli dice, quella fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale diventa più chiara e più decisa a misura che la società (egli adopera esattamente questa

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espressione per il capitale, la proprietà fondiaria e il loro stato) diventa più ricca. Questa divisione del lavoro è, come tutte le altre, effetto di progressi passati e causa di progressi futuri… È lecito che il governo operi contro questa divisione del lavoro e ne ostacoli il cammino naturale? È lecito che il governo impieghi una porzione del reddito pubblico nel tentativo di confondere e mescolare due classi di lavoro che tendono a dividersi e a separarsi?’” (91).

“Un certo rattrappimento intellettuale e fisico è inseparabile perfino dalla divisione del lavoro nell’insieme della società in generale. Ma il periodo della manifattura, portando molto più avanti questa separazione sociale delle branche di lavoro, e d’altra parte intaccando la radice stessa della vita dell’individuo già in virtù della sua peculiare divisione del lavoro, fornisce anche per primo il materiale e l’impulso alla patologia industriale” (91).

“Si è visto che la grande industria elimina tecnicamente la divisione del lavoro di tipo manifatturiero con la sua annessione d’un uomo intero ad una operazione parziale vita natural durante, mentre, allo stesso tempo, la forma capitalistica della grande industria riproduce in maniera anche più mostruosa quella divisione del lavoro, nella fabbrica vera e propria, mediante la trasformazione dell’operaio in accessorio cosciente d’una macchina parziale; e dappertutto (per il resto), in parte mediante l’uso sporadico delle macchine e del lavoro meccanico, in parte mediante l’introduzione del lavoro femminile, infantile e non addestrato come nuova base della divisione del lavoro. La contraddizione fra la divisione del lavoro di tipo manifatturiero e la natura della grande industria si fa valere con la forza. Compare fra l’altro nel fatto terribile che una gran parte dei bambini occupati nelle fabbriche e nelle manifatture moderne, saldati sin dalla più tenera età alle manipolazioni più semplici, vengono sfruttati per anni e anni senza che apprendano un qualsiasi lavoro che li renda utili più tardi anche soltanto nella stessa manifattura o nella stessa fabbrica” (95).

“Nelle tipografie inglesi si aveva prima un passaggio degli apprendisti da lavori più facili a lavori più importanti, che corrispondeva al sistema dell’antica manifattura e dell’artigianato. Gli apprendisti percorrevano un corso di istruzione fino a diventare tipografi rifiniti. Saper leggere e scrivere era per tutti un requisito del mestiere. Tutto ciò è cambiato con la macchina tipografica. Essa adopera due specie di operai: un operaio adulto, il sorvegliante della macchina, e ragazzi da macchina, per lo più dagli undici ai diciassette anni, la cui occupazione consiste esclusivamente nello stendere il foglio di carta sotto la macchina o nel tirarne fuori il foglio stampato. Essi tribolano in questa operazione, specialmente a Londra, per quattordici, quindici, sedici ore ininterrottamente durante alcuni giorni della settimana, e spesso per trentasei ore di seguito con sole due ore di requie per i pasti e il sonno! Una gran parte di questi ragazzi non sa leggere; e sono di regola creature del tutto inselvatichite e anormali. Per renderli atti al loro lavoro non è necessaria nessuna preparazione intellettuale e di nessun genere; hanno poche occasioni per esercitare un’abilità e ancor meno per esercitare il giudizio; il loro salario, benchè relativamente alto per dei ragazzi, non cresce proporzionalmente alla loro crescita, e la grande maggioranza non ha nessuna prospettiva di arrivare al posto più lucroso e più responsabile di sorvegliante della macchina, perché per una macchina si ha solo un sorvegliante e spesso invece quattro ragazzi. Appena diventano troppo vecchi per continuare il loro puerile lavoro, cioè al più tardi a diciassette anni, vengono licenziati dalla tipografia. Diventano reclute del delitto. Alcuni tentativi di procurare loro un’occupazione altrove fallirono per la loro ignoranza, la loro rozzezza e per la loro degradazione fisica e morale” (95-96).

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“Quel che vale per la divisione del lavoro di tipo manifatturiero entro l’officina, vale per la divisione del lavoro entro la società. Finchè l’artigianato e la manifattura costituiscono il fondamento generale della produzione sociale, la subordinazione del produttore a un ramo esclusivo della produzione, cioè la distribuzione della molteplicità originaria della sua occupazione, è un momento necessario dello sviluppo. Su quella base ogni branca particolare della produzione trova empiricamente la configurazione tecnica che le si confà, la perfeziona lentamente e la cristallizza rapidamente appena è raggiunto un dato grado di maturazione. Quel che provoca qua e là dei cambiamenti è, oltre qualche nuovo materiale di lavoro, fornito dal commercio, la graduale modificazione dello strumento da lavoro. Una volta raggiunta la forma confacente secondo l’esperienza, anche lo strumento da lavoro si irrigidisce, come dimostra il suo passare, spesso per millenni, dalle mani di una generazione in quelle della seguente” (96).

“È caratteristico che i mestieri particolari si chiamassero fino nel XVIII secolo mysteries (mystères) nella cui oscurità poteva entrare soltanto chi era iniziato con l’esperienza e con la professione. La grande industria lacerò il velo che celava agli uomini il loro proprio processo di produzione sociale e rendeva le differenti branche di produzione, che si erano spontaneamente separate, misteriose le une per le altre e addirittura per chi era iniziato in ciascuna branca. Il principio della grande industria, di risolvere nei suoi elementi costitutivi ciascun processo di produzione, in sé e per sé considerato e senza tener nessuno conto della mano dell’uomo, ha creato la modernissima scienza della tecnologia” (97).

Le policrome configurazioni del processo di produzione, apparentemente prive di nesso reciproco e stereotipe, si scomposero in applicazioni delle scienze naturali, consapevolmente pianificate e sistematicamente scompartite secondo l’effetto utile che si aveva di mira. La tecnologia ha scoperto anche le poche grandi forme fondamentali del movimento nelle quali si svolge di necessità ogni azione produttiva del corpo umano, nonostante la molteplicità degli strumenti adoperati: proprio come la meccanica sa che nelle macchine si ha una costante riproduzione delle potenze meccaniche elementari, e non si lascia ingannare neppure dalla massima complicazione del macchinario” (97-98).

“L’industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva la forma esistente di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica è rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di produzione era sostanzialmente conservatrice. Con le macchine, con i processi chimici e con altri metodi essa sovverte costantemente, assieme alla base tecnica della produzione, le funzioni degli operai e le combinazioni sociali del processo lavorativo. Così essa rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e getta incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca della produzione all’altra. Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi. Dall’altra parte essa riproduce l’antica divisione del lavoro, con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica”.

“Si è visto come questa contraddizione assoluta elimini ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle condizioni di vita dell’operaio, e minacci sempre di fargli saltare di mano col mezzo di lavoro il mezzo di sussistenza e di render superfluo l’operaio stesso rendendo superflua la sua funzione parziale; e come questa contraddizione si sfoghi

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nell’olocausto ininterrotto della classe operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie lavorative e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale. Questo è l’aspetto negativo” (97).

“Però, se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con l’effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggior versatilità possibile dell’operaio come legge sociale generale della produzione e l’adattamento delle circostanze alla attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita o di morte. Per essa diventa questione di vita o di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità dell’uomo per il variare delle esigenze di lavoro; sostituire all’individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l’uno con l’altro” (97).

“Un elemento di questo processo di sovvertimento, sviluppatosi spontaneamente sulla base della grande industria, sono le scuole politecniche e agronomiche, un altro elemento sono le scuole d’insegnamento professionale nelle quali i figli degli operai ricevono qualche istruzione in tecnologia e nel maneggio pratico dei differenti strumenti di produzione. Se la legislazione sulle fabbriche, che è la prima concessione strappata a gran fatica al capitale, combina col lavoro di fabbrica soltanto l’istruzione elementare, non c’è dubbio che l’inevitabile conquista del potere politico da parte della classe operaia conquisterà anche l’istruzione tecnologica, teorica e pratica, il suo posto nelle scuole degli operai (97-98).

“Non c’è neppure dubbio che la forma capitalistica della produzione e la situazione economica degli operai che le corrisponde siano diametralmente antitetiche a questi fermenti rivoluzionari e alla loro meta, che è l’abolizione della vecchia divisione del lavoro. Lo svolgimento delle contraddizioni di una forma storica della produzione è tuttavia l’unica via storica per la sua dissoluzione e la sua trasformazione” (98).

“Abbiamo visto che il processo di produzione capitalistico è una forma storicamente determinata del processo sociale in generale. Quest’ultimo è al tempo stesso il processo di produzione delle condizioni materiali della vita umana e un processo che si sviluppa entro specifici rapporti di produzione storico-economici, producendo e riproducendo questi rapporti stessi di produzione e in conseguenza i rappresentanti di questo processo, le loro condizioni materiali di esistenza e i loro rapporti reciproci, ossia la loro determinata forma economica sociale. Difatti, il complesso di questi rapporti in cui i rappresentanti di questa produzione stanno con la natura e fra di loro, in cui producono, costituisce precisamente la società, considerata nella sua struttura economica” (103).

“Al pari di tutti quelli che lo hanno preceduto, il processo di produzione capitalistico si svolge in condizioni materiali determinate, che sono al tempo stesso depositarie di determinati rapporti sociali, in cui gli individui entrano nel processo di riproduzione della loro vita. Queste condizioni, come questi rapporti, sono da un lato i presupposti e dall’altro risultati e creazioni del processo di produzione capitalistico; esse sono prodotte e riprodotte da esso” (103).

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“Abbiamo visto inoltre: il capitale – e il capitalista è soltanto il capitale personificato, agisce nel processo di produzione soltanto come depositario del capitale – spreme nel processo di produzione sociale che gli corrisponde una certa quantità di pluslavoro dai produttori diretti, o operai. Pluslavoro che il capitale ricava senza equivalente e che rimane sempre, in sostanza, lavoro forzato, nonostante che possa apparire il risultato di un libero accordo contrattuale. Questo pluslavoro è rappresentato da un plusvalore, e questo plusvalore esiste in un plusprodotto. Pluslavoro in generale, inteso come lavoro eccedente la misura dei bisogni dati, deve sempre continuare a sussistere. Nel sistema capitalistico come in quello schiavistico ecc., assume semplicemente una forma antagonistica ed è completato dall’ozio assoluto di una parte della società. Una determinata quantità di pluslavoro è necessaria per l’assicurazione contro le disgrazie, per il necessario e progressivo ampliamento del processo di riproduzione corrispondente allo sviluppo dei bisogni e all’incremento della popolazione, che dal punto di vista capitalistico si chiama accumulazione” (103).

“Uno degli aspetti in cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è quello di estorcere questo pluslavoro in un modo e sotto condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti sociali, e alla creazione degli elementi per una nuova e più elevata formazione, di quanto non avvenga nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc. ciò porta ad uno stadio, in cui da un lato sono eliminate la costrizione e la monopolizzazione dello sviluppo sociale (compresi i suoi vantaggi materiali e intellettuali) esercitate da una parte della società a spese dell’altra; d’altro lato questo stadio crea i mezzi materiali e l’embrione di rapporti che rendono possibile combinare questo pluslavoro di una più elevata forma di società con una riduzione maggiore del tempo dedicato al lavoro materiale. Infatti, in relazione allo sviluppo della forza produttiva del lavoro, il pluslavoro può essere grande con una giornata lavorativa complessiva piccola, e relativamente piccolo con una giornata lavorativa complessiva grande” (103-104).

“Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa, il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura e più degne di essa. Ma questo rimana sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” (104).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto i testi marxiani:

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24. Da E. Mounier, Il personalismo, Roma, AVE

“La formazione della persona nell’uomo, e dell’uomo alle esigenze individuali e collettive dell’universo personale, comincia dalla nascita” (p. 159).

“Dell’educazione che in genere ci è stata impartita è stato detto che essa era una ‘strage degli innocenti’; un’educazione, cioè, che ignorava la persona del fanciullo come tale, che gli imponeva un compendio delle visuali dell’adulto e le ineguaglianze sociali create dall’adulto; una educazione che sostituiva la cernita dei caratteri e delle vocazioni con l’autoritario formalismo del sapere. Il movimento della nuova educazione, che ha reagito ad essa, è stato a sua volta parzialmente sviato dall’ottimismo liberale e dal suo ideale esclusivo dell’uomo florido, filantropo ed equilibrato: deve quindi essere riformato, e per così dire virilizzato, col riproporre la prospettiva totale dell’uomo individuale e sociale” (pp. 159-160).

“Da che prende le mosse l’educazione del fanciullo? Questa domanda dipende da un’altra: qual è il suo compito? Non quello di fare ma di suscitare le persone; per definizione una persona si suscita con un appello, e non si fabbrica con l’addestramento. L’educazione quindi non può aver per fine di adattare il fanciullo al conformismo dell’ambiente familiare, sociale o statale, né limitarsi a prepararlo per il compito o la funzione che egli esplicherà da adulto” (p. 160).

“La trascendenza della persona, esige che la persona appartenga soltanto a se stessa: il fanciullo è un soggetto, non una Res Societatis, una Res familiae od una Res Ecclesiae; ma non è nemmeno un soggetto puro od un oggetto isolato. Inserito in collettività, egli si forma per mezzo di esse e in esse. Certo, nei suoi riguardi, esse non sono onnipotenti, ma sono pur sempre gli ambienti naturali della sua formazione: la famiglia e la nazione, due vie aperte verso l’umanità, alle quali il cristiano aggiunge la Chiesa” (p. 160).

“Il problema dell’educazione non è solamente il problema della scuola; questa è soltanto uno strumento dell’educazione tra molti altri; ed è eccessivo e sbagliato farne lo strumento principale; il suo compito non è di impartire un’ ‘istruzione’ astratta, che sarebbe da considerarsi estranea ad ogni vera e propria educazione, ma un’educazione scolastica, che è un settore dell’educazione totale” (pp. 160-161).

Siccome poi quest’ultima è strettamente legata alle necessità della nazione (formazione del cittadino e del produttore), la nazione, attraverso i suoi organismi, ha il diritto di seguirla e di organizzarla nella maniera più diretta: ciò non significa che la scuola debba essere un organismo di Stato, ma che essa nei Paesi moderni è un’istituzione nazionale, e che i criteri che la informano debbono essere modellati sui bisogni e sulle situazioni concrete della nazione, nel quadro del diritto naturale educativo. Queste condizioni possono portare l’istituzione scolastica ad una dispersione o ad una concentrazione, ma mai ad una statizzazione. Il settore educativo extra-scolastico, poi, deve poter fruire della massima libertà possibile. Ed infine, come organo di tutta la nazione, nei suoi diversi gradi, non dev’essere il privilegio di una parte della nazione, poiché essa ha il compito di distribuire a tutti quel minimo di cognizioni che è necessario ad un uomo libero, e di scegliere da tutti gli ambienti, offrendo a tutti eguali possibilità, i soggetti che ad ogni generazione devono rinnovare la classe dirigente della nazione” (p. 161).

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Dal Manifesto al servizio del personalismo.

“L’attività della persona è libertà, e conversione all’unità di un fine e di una fede. Se dunque una educazione fondata sulla persona non può essere totalitaria cioè materialmente estrinseca e coercitiva, essa non potrà essere che totale. Essa interessa l’uomo intero, tutta la sua concezione e tutto il suo atteggiamento di vita. In questa prospettiva non si può concepire l’educazione in modo neutrale” (p. 106).

“Per certuni [l’idea di neutralità] implica l’astensione completa da parte della scuola in tutte quelle materie che impegnano una concezione di vita positiva, quindi in materia d’educazione nel senso pieno che abbiamo dato alla parola. Occorre sottolineare che noi lasciamo volontariamente al di fuori di queste definizioni tale neutralità dogmatica e partigiana, che si dovrebbe chiamare piuttosto, con la desinenza di un sistema, neutralismo, e che ripristina, per quanto i suoi difensori siano liberali, delle dottrine totalitarie. Tale è precisamente la concezione della neutralità che noi qui rifiutiamo, se cristiani, per ragioni evidenti, se non cristiani, in nome della grandezza e dell’efficacia umana che si attribuiscono alla scuola laica. Essa suppone che si possa separare senza inganno l’istruzione dalla educazione: la seconda sarebbe, come la religione, affare privato che appartiene alla famiglia, e la scuola, così alleggerita, potrebbe assicurare la prima nella indifferenza spirituale. Ma una tale separazione gioverebbe solo al profitto delle famiglie che dispongono di mezzi materiali e di agi per assicurare al fanciullo una educazione continua e competente” (pp. 106-107).

“Inoltre, crediamo, e non senza riserve, che essa sia tutt’al più legittima e possibile per alcune materie di insegnamento come le scienze esatte e le tecniche. Non per altre. Ora la scuola, dopo il grado primario, ha la funzione di insegnare a vivere e non solo di accumulare conoscenze esatte o belle maniere del savoir-faire. Ed è carattere proprio di un mondo costituito di persone che non si insegni affatto a vivere con una istruzione impersonale distribuita in verità codificabili. Una tale concezione dell’insegnamento deriva dal presupposto tradizionalistico di una verità totalmente giustificabile mediante l’evidenza positiva e comunicabile secondo i metodi accademici, indipendentemente dalla verifica personale che la integra, nel soggetto che la riceve, con una vita che sia tesa al raggiungimento dei valori. Ignorando per una scelta il fine ultimo dell’educazione – l’impegno vivente di una persona, e i mezzi che le sono propri, una scuola così concepita rischia di limitarsi ai fini pratici dell’organismo sociale: la preparazione tecnica del produttore e la formazione civica del cittadino. Essa indebolisce la sua difesa contro le ingressioni di questo organismo, quando non si abbandona semplicemente, per salvare un’apparenza di cultura, all’accumulazione folle delle ‘materie’ di insegnamento” (pp. 107-108).

“Infine la pratica della neutralità così concepita si trova alle strette in una serie di vicoli ciechi: o la scuola che si vuole neutra lascia filtrare, diffusa nel suo insegnamento, qualche dottrina secondo la moda del giorno – oggi la morale borghese, coi suoi valori di classe o di danaro, il suo nazionalismo, la sua concezione del lavoro, dell’ordine, ecc. – o essa vede la sua neutralità dissolversi ad opera di maestri che sono uomini convinti, poiché non accettano di vivere mutilati, e che fanno, apertamente o no, coscientemente o no, esplicitamente o implicitamente del proselitismo cattolico, marxista, relativista, ecc. Non si dovrebbe scandalizzarsi di ciò: è la rivincita dell’uomo sull’astrazione del sistema. Non riconoscendo infine alla persona altro che il senso di una libertà vuota, la pratica della neutralità la prepara all’indifferenza o al gioco, non all’impegno responsabile e alla fede vivente, che sono il respiro stesso della persona” (p. 108).

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“Vi sono all’opposto altri due sensi in cui delle idee che si indicano comunemente sotto il nome di neutralità sono per noi accettabili.

La divisione metafisica degli spiriti nella città moderna crea un diritto, per la famiglia agnostica come per le altre, di ricevere, da una scuola fatta per essa, non solamente una istruzione, ma una educazione. Questa educazione non sarà affatto neutrale nel senso che essa si asterrebbe da ogni affermazione sull’uomo e da ogni suggestione nei confronti del fanciullo. Il personalismo, fondamento immediato della libertà d’insegnamento, definisce anche una prima posizione globale nei confronti dell’uomo e dei rapporti tra gli uomini, globale, ma già rigorosa. In una città che si ispiri ad esso, nessuna scuola può giustificare o coprire lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, la prevalenza del conformismo sociale o della ragione di Stato, l’ineguaglianza morale e civica delle razze o delle classi, la superiorità, nella vita privata o pubblica, della menzogna sulla verità, dell’istinto sull’amore e sul disinteresse. In questo noi crediamo che la scuola laica, essa stessa, non possa essere né debba essere neutrale nell’educazione. Questa concezione dell’uomo (e per questo del fanciullo), dovrà essere difesa contro uno stato che confondesse la laicità con l’indifferenza educativa, o il controllo con la manipolazione. Neutrale essa è solamente, in questa prospettiva, in quanto non propone, implicitamente o no, preferenza per alcun sistema di valori oggettivi al di là di questa formazione della persona” (pp. 108-109).

“Che solo questa seconda specie di neutralità possa governare la scuola di quella che noi abbiamo chiamato la famiglia agnostica di una città personalista, ci sembra possano condividerlo credenti e non credenti, in maniera differente, certo. Il cristiano, e con lui ogni uomo che crede in una verità totale per l’uomo, pensa che la sua libertà non è indifferente ma chiamata a un certo destino, che si differenzia d’altronde in ciascuna vocazione personale: come potrebbero essi ammettere che sia meglio lasciare che si ignori questo appello piuttosto che proporlo fin dall’infanzia in tutta la sua grandezza? Come potrebbero separare la libertà dalla salvezza? Non si potrebbe dunque impedire ai credenti di considerare come superiore in sé una scuola ai loro occhi più completa, così come d’altra parte non si potrebbe proibire al non credente di considerare la sua scuola come un edificio completo. Tra i cattolici stessi, certuni non concederanno alla scuola detta neutrale che un’esistenza di ‘ipotesi’ e di fatto, mentre altri pensano che non solamente la persistenza storica della divisione degli spiriti eriga quella ipotesi in una specie di diritto prescrittivo, ma che il rispetto stesso delle vie proprie della persona crei un vero diritto per tutto ciò che è agnostico, anche in regime di maggioranza cattolica, sulla base di uno statuto di eguaglianza civile. In ogni caso, l’amore che dedicano alla scuola laica i suoi difensori deve condurli, al di là della nautralità concepita come una indifferenza educativa, al personalismo che noi abbiamo definito sopra, non dogmatico, ma che trae tutte le sue conseguenze in materia di educazione. E i cristiani da parte loro non potrebbero che gioire se la scuola che essi non controllano sviluppasse, anziché un settarismo, quello che non è una posizione tanto malvagia davanti ai richiami della verità: una vita personale maggiore e non prevenuta” (pp. 109-110).

“Una terza intenzione è spesso sottesa dalla mistica della neutralità. Questa esprime una volontà di disimpegnare l’insegnamento, dovunque esso si dia, dalle affermazioni partigiane, di proteggere la verità contro le sue deviazioni polemiche, di eliminare la disonestà, cosciente o ingenua nei confronti dell’avversario, e l’odioso semplicismo del rifiuto scolare, di preparare progressivamente il fanciullo a comprendere prima di giudicare. Essa è, insomma, uno sforzo per liberare l’insegnamento dal settarismo ovunque abbia luogo, qui per renderlo più autenticamente

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cristiano, là più autenticamente liberale. Questa volontà e questo sforzo rappresentano un partito preso di purificazione capitale per l’avvenire della scuola. E non ci sembra debba essere motivo di contestazione per alcun personalista” (pp. 110-111).

“Il fanciullo deve essere educato come una persona con il procedimento della prova personale e l’apprendistato del libero impegno. Ma se l’educazione è un apprendistato della libertà, ciò significa precisamente che essa non la trova già formata fin dagli inizi. Nel fanciullo l’educazione, così come nell’adulto ogni influenza, procede mediante la tutela di un’autorità in cui l’insegnamento è progressivamente interiorizzato dal soggetto che lo riceve” (p. 111).

“Qual è questa autorità in materia di educazione?“Non è certo in modo primario lo Stato, perché lo Stato non rivolge alcuna

attenzione alla vita personale come tale. Finchè la persona non è maggiorenne, dipende dalle comunità naturali in cui si trova per nascita, cioè dalla famiglia, e da ogni autorità spirituale che viene riconosciuta dalla famiglia, oppure dagli enti educativi che l’aiutano, e che, mancando la famiglia, la sostituiscono. Noi rifiutiamo dunque il monopolio da parte dello Stato dell’educazione e anche della scuola, così come ogni misura che tenda ad assicurare questo monopolio di fatto, anche se esso non è ufficialmente proclamato” (p. 111).

“Non si dovrebbe interpretare falsamente la prerogativa della famiglia. Prerogativa della famiglia sullo Stato non vuol dire diritto arbitrario e incondizionato di una manipolazione della famiglia sulla persona del fanciullo. Essa è subordinata in primo luogo al bene del fanciullo, in secondo luogo al bene comune della società. Non deve farci dimenticare l’incompetenza, l’indifferenza e l’egoismo biasimevoli di molte famiglie, per la maggior parte forse, in materia d’educazione. Qui lo Stato può e deve intervenire, con l’assistenza degli enti educativi, nel duplice ruolo di protezione della persona e di organizzatore del bene comune. Spetta ad esso d’altronde assicurare l’unità civile della società nella diversità spirituale dei suoi membri e garantire al benessere comune le qualità tecniche di ciascun membro della società nello svolgimento del suo compito sociale. Ad esso spetta a quei diversi titoli un servizio pubblico di controllo sulla valutazione e sul rilascio dei diplomi, sulle condizioni relative all’insegnamento, sulla qualità d’insegnamento, sulla neutralità politica all’interno della scuola e sul rispetto della persona. Questo controllo deve essere a sua volta effettuato e garantito da ogni abuso mediante uno statuto agile. Per evitare il carattere inquisitorio o cesariano, deve attuarsi nella collaborazione del corpo insegnante e delle famiglie” (pp. 111-112).

“Nella diversità delle famiglie spirituali solo una struttura pluralista della scuola ci può risparmiare sia i pericoli della scuola ‘neutrale’ sia la minaccia della scuola ‘totalitaria’.

“Lo Stato non ha il diritto di imporre mediante il monopolio una dottrina e una educazione. Ha diritto ai mezzi efficaci per assicurare agli educandi l’educazione di sua propria scelta ogni famiglia spirituale che giustificherà in sede locale il numero minimo di scolari cui insegnare e il minimo accordo con i fondamenti della città personalista” (p. 112).

“Diviene con ciò normale che lo Stato organizzi di sua iniziativa e sovvenzioni con danaro pubblico una scuola non dogmatica per coloro che non volessero legarsi ad alcuna di queste famiglie spirituali. In conseguenza del prolungamento dell’età scolare obbligatoria, occorre prendere in considerazione che i genitori delle classi non colte

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affidano sempre più in maggior numero la cura di educare moralmente e intellettualmente i loro figli a queste scuole neutrali. Ciò comporterà dunque che in questi istituti, dove si trovano riuniti maestri di diverso orientamento ideologico, questi ultimi non siano dei distributori di ‘materie’ giustapposte le une alle altre, ma prendano coscienza in modo sempre più completo della loro persona dietro la loro funzione e si rendano conto della necessità di formare tra di loro una comunità educativa, al fine di ordinarvi il loro insegnamento” (p. 113).

“Non meno normale è che lo Stato eserciti sulle altre scuole, che non sono scuole di Stato, il servizio pubblico di controllo sopra definito, e prenda le misure necessarie affinchè tale controllo sia effettivo. Lo eserciterà in collaborazione con il Comune, le comunità dei docenti, i gruppi dei genitori e i gruppi spirituali e organizzati di queste scuole. Com’è proprio nella natura di un controllo, di non essere a sua volta subordinato, la legislazione della scuola definirà con precisione i propri limiti, e nello stesso tempo i punti sui quali sarà possibile il ricorso in extremis” (p. 113).

“Tutti gli istituti privati, anche se si sostengono mediante loro proprie risorse, devono sottostare a questo minimo controllo. Lo Stato potrebbe inoltre dotare di una ‘Scuola riconosciuta’ ogni famiglia spirituale, alle condizioni che si sono sopra definite. Esso eserciterebbe su questa Scuola, libera nella sua ispirazione metafisica, un controllo tecnico più stretto, esigerebbe l’uguaglianza dei diplomi per i docenti e delle condizioni di assunzione per gli scolari così come nella Scuola di Stato e, senza finanziarla in senso proprio, la rimborserebbe delle spese di cui essa scarica la Scuola di Stato” (pp. 113-114).

“Mentre disegniamo lo schema di una scuola pluralista non ci nascondiamo la difficoltà centrale in cui ci impegnano i dati stessi del problema. Non si rischia sottraendo il fanciullo al dogmatismo dello Stato di lasciarlo in balia dei dogmatismi particolari che non si prenderanno più una cura scrupolosa delle esigenze della persona? E con ciò, di frantumare il paese in parecchi tipi di gioventù la cui separazione si prolungherà fino all’età adulta? In una parola, non si rischia di istituire molte scuole totalitarie, anzi di legalizzare, sotto il pretesto della libertà, la manipolazione del fanciullo?

“Il pericolo in effetti sarebbe reale se non si riconoscesse la necessità, nel sistema personalista, di organismi la cui competenza è quella di assicurare efficacemente le garanzie della persona. Spetta ad essi, mediante le condizioni imposte nella preparazione dei maestri, mediante l’istituto dei concorsi, mediante l’ispezione, di garantire, qualunque sia la dottrina insegnata, che essa sia insegnata secondo metodi che rispettino ed educhino la persona” (p. 114).

“Ma ciò non è ancora tutto. Il pluralismo giuridico richiama come contropartita indispensabile che tutto sia messo in opera per assicurare il contatto tra le diverse famiglie spirituali della società, per affermare non una unità dogmatica, impossibile se non con la coercizione spirituale, ma l’unità fraterna e organica della città. E’ ancora là il ruolo dello Stato personalista e si potrà studiare con le diverse collettività naturali i mezzi materiali per realizzare questo contatto, nella scuola così come nella professione” (p. 115).

“La soluzione che si presenta immediatamente alla mente è l’unità degli strumenti educativi ovunque questo è possibile: elaborazione di alcuni manuali comuni, redatti in collaborazione, con uno sforzo di imparzialità, da membri di diverse scuole e

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adottati da tutte; l’unità di locale, possibilmente, almeno per certi corsi e per le corrispondenti ricreazioni; essendo autonomi altri corsi, più legati alla educazione generale (come la storia, la morale e la filosofia) con un personale e, almeno per l’internato, con edifici distinti. Questa ultima soluzione non è senza dubbio matura. Ma il pluralismo della scuola verrebbe meno se non si accompagnasse con uno sforzo istituzionale (e non solamente privato) per facilitare l’amicizia fraterna delle diverse famiglie della città” (p. 115).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo:

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25. Da: E. Stein, La struttura della persona umana, Roma, Città Nuova

“Ogni azione educativa, tesa a formare l’essere umano, è accompagnata da una determinata concezione dell’uomo, della sua posizione nel mondo, dei suoi compiti nella vita, delle possibilità di una sua cura e formazione pratica. La teoria della formazione umana, che indichiamo con il termine pedagogia, è legata organicamente ad un’immagine generale del mondo, cioè ad una metafisica, e l’idea di essere umano è quella parte dell’immagine generale alla quale essa è immediatamente connessa. E’ possibile, tuttavia, che qualcuno svolga un’opera educativa senza avere elaborato una metafisica e senza una compiuta concezione dell’essere umano; tuttavia vi è sempre una concezione cosmologica e antropologica a fondamento del suo agire. Movendo dal suo agire è possibile giungere a quell’idea che oggettivamente corrisponde ad esso. E’ parimenti possibile che teorie pedagogiche siano inerenti ad una metafisica e che chi le sostiene o le ha elaborate non ne sia consapevole” (La struttura della persona umana, cit., p. 38).

Può verificarsi, inoltre, che qualcuno ‘abbia’ una metafisica e tuttavia elabori una teoria pedagogica che corrisponde ad una metafisica completamente diversa. Qualcuno potrebbe, nella prassi educativa, agire in maniera totalmente diversa da ciò che indicano le sue teorie pedagogiche e la sua metafisica. Questa mancanza di logica e di consequenzialità ha anche un lato positivo: difatti, è una difesa sicura contro gli effetti radicali prodotti da teorie sbagliate. Tuttavia idee e teorie non saranno mai del tutto inefficaci. Chi le sostiene cercherà di agire secondo le sue idee, ma persino involontariamente sarà influenzato da esse anche quando concezioni profondamente radicate e non comprese consapevolmente come opposte condizioneranno la sua prassi” (La struttura della persona umana, cit., p. 38).

“L’essere umano, secondo la visione concorde di Lessing, Herder, Schiller e Goethe (malgrado tutte le differenze che in loro si possono presentare), è libero, è chiamato alla perfezione (che essi chiamano “umanità”), è un membro nella catena dell’intero genere umano che si avvicina progressivamente all’ideale della perfezione; ogni singolo ed ogni popolo hanno ricevuto, in forza della loro natura, un particolare compito da svolgere nel processo di sviluppo dell’umanità” (p. 39).

“Tale concezione contiene forti spinte verso un gioioso ottimismo ed attivismo pedagogici, come si vede effettivamente nei vivaci movimenti di riforma pedagogica nati intorno alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX secolo. L’ideale di umanità rappresenta per l’educatore un alto scopo al quale egli deve educare l’allievo. La libertà rende possibile e doveroso richiamare l’allievo ad impegnarsi per raggiungere questo fine. La sua autonomia e le sue forze individuali vanno risvegliate e sviluppate, al fine di renderlo capace di occupare il posto che gli appartiene nel suo popolo e nell’umanità e di portare il suo contributo alla grande creazione dello spirito umano, alla cultura” (pp. 39-40).

“Si sa bene che il lavoro educativo rappresenta una lotta contro la ‘natura inferiore’. Tuttavia la fiducia nel bene della natura umana e nella forza della ragione (eredità di Rousseau e del razionalismo) è così forte che non si dubita della sua vittoria. E’ proprio dell’intellettualismo di questa filosofia il prendere in considerazione solo ciò che è afferrabile dall’intelletto. Anche riguardo a ciò che si deve riconoscere come irrazionale (sensazioni, istinti, ecc.), viene preso in considerazione unicamente quello che cade sotto la luce della coscienza. (Solo così si può spiegare l’origine di quella

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psicologia di superficie, che ha come suo oggetto una mera catena di dati della coscienza)” (p. 40).

“Quando la superficie chiara della coscienza o anche della vita esteriore ben ordinata (sia essa privata o pubblica) viene offuscata da strane agitazioni che non si lasciano afferrare dalle oscillazioni della vita superficiale di cui abbiamo già parlato, ci si accorge che si ha a che fare esclusivamente con una mera superficie, che al di sotto vi è nascosto qualche cosa di profondo e che in questa profondità sono all’opera forze oscure” (p. 40).

“A molti di noi queste ultime sono venute incontro in maniera convincente nei grandi romanzi russi. Tolstoj e Dostoevskij sono stati conoscitori e annunciatori dell’anima, coloro che prima di noi hanno scoperto gli abissi dell’essere umano. Altri vi si sono imbattuti attraverso i fatti della vita; quelle misteriose deiezioni della “normale” vita dell’anima, di fronte a cui si trovano lo psichiatra e forse, non meno spesso, il padre spirituale, hanno indirizzato lo sguardo verso le profondità nascoste. La psicoanalisi fu un primo grande squarcio su queste realtà” (pp. 40-41).

“La letteratura russa e la psicoanalisi hanno conquistato circoli di intellettuali sempre più ampi, ma quasi esclusivamente questi. Per gli altri le forze del profondo sono affiorate visiblmente nella guerra e nella confusione del dopoguerra. Ragione, umanità, cultura rivelarono continuamente e nuovamente un’impressionante impotenza” (p. 41).

“Così, sempre più, un’altra immagine di essere umano si è fatta largo al posto di quella umanistica o meglio, altre proposte antropologiche, poiché non si può parlare di unitarietà in questo ambito. Unitario, per tutti coloro che hanno guardato alle profondità dell’anima, è solo il fatto che essi hanno ritenuto queste profondità, che rimangono nascoste ai semplici, come qualche cosa di essenziale ed efficace, mentre hanno considerato la vita superficiale – pensieri, sentimenti, atti di volontà, ecc., chiaramente coscienti – come conseguenza di ciò che avviene nel profondo e quindi anche come segni che ne dischiudono l’accesso a colui che studia e che ne analizza l’anima. Tuttavia, nel modo di concepire il profondo gli animi si dividono. Per il fondatore della psicoanalisi ed anche per ampi gruppi che, originariamente da lui promossi, oggi gli si oppongono su molti punti importanti, le potenze del profondo, che determinano la vita come forze invincibili, sono le pulsioni dell’uomo. Si originano da qui diverse direzioni di ricerca che dipendono da quale pulsione viene considerata come predominante; esemplificando, dall’ammettere un’unità dell’anima alla quale le pulsioni si ordinano (come evidenzia già nella sua denominazione la psicologia individuale) o dall’ammettere che la vita dell’anima, quella superficiale come quella profonda, si presenta come un caos, che non si può ricondurre al denominatore comune dell’unità personale” (p. 41).

“Rispetto alla concezione idealista, diventa chiara, in questa nuova visione dell’uomo, la detronizzazione dell’intelletto e della libera volontà sovrana, il venire meno dell’accettazione di una realtà oggettiva, del riconoscimento di uno scopo accessibile e raggiungibile con la volontà. Si frantuma anche l’unità spirituale dell’umanità e il senso oggettivo della sua creazione culturale. Ha ancora senso, in una tale visione, un impegno pedagogico?” (pp. 41-42).

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“Come scopo resta, in fondo, solo l’essere umano in cui le pulsioni funzionano “normalmente”, come compito la cura o la prevenzione di disturbi dell’anima, come mezzo l’analisi della vita superficiale, la scoperta della pulsione attiva, l’avvio del suo soddisfacimento o di una sua sana abreazione” (p. 42).

“Possiamo osservare le conseguenze di questa concezione in un’ampia sfera di genitori e insegnanti, nella gioventù stessa e anche in chi non si trova consapevolmente sul terreno di una pedagogia o di una antropologia psicoanalitica o ad essa affine. Noto una prima conseguenza in una stima dell’istinto enormemente cresciuta rispetto al passato. Tenerne conto è diventato, per il giovane stesso e, spesso, anche per i suoi educatori, una cosa ovvia. E ‘tenerne conto’ significa, in gran parte, soddisfarlo e rifiutare la lotta contro di esso perché ritenuta insensata, dannosa ribellione contro la natura. Come seconda conseguenza della psicoanalisi osservo che nei genitori e negli educatori il compito di guidare e di educare è passato in secondo piano rispetto all’impegno a comprendere. Quando come mezzo per la comprensione si usa la psicoanalisi - – questo accade oggi frequentemente, e non solo da parte dell’educatore, ma anche da parte del giovane nei confronti dell’educatore – si corre il grosso rischio di recidere il legame vivo che intercorre tra un’anima e l’altra, che è premessa per ogni azione pedagogica ed anche per ogni vera comprensione. (Perciò la psicoanalisi esercitata in modo incompetente costituisce un pericolo non solo per la pedagogia, ma anche per l’intera vita sociale e, in modo del tutto particolare, per la cura delle anime)” (p. 42).

“Accanto alla concezione psicoanalitica dell’essere umano, vorrei collocarne un’altra, oggi molto attiva nei massimi circoli intellettuali. Anch’essa fa i conti con il contrasto esistente fra la superficie e il profondo, ma la sua visione del profondo e della via per giungere ad esso sono essenzialmente diverse da quelle della psicoanalisi. Mi riferisco alla metafisica dei giorni nostri ed alla forma suggestiva che assume negli scritti di Martin Heidegger” (p. 43).

“La grande domanda della metafisica è quella sull’Essere. Essa emerge per noi dal nostro personale esserci e – secondo la visione di Heidegger – solo in esso può trovare risposta. L’essere umano, nel suo Esserci quotidiano, è interamente assorbito da ogni sorta di sforzo e occupazione pratica. Egli vive nel mondo e cerca di assicurarsi un posto in esso, si muove nelle forme tradizionali della vita sociale, si rapporta agli altri, parla, pensa, sente, ecc. Tuttavia, questo mondo, ben strutturato in ogni sua parte, nel quale egli si trova e al quale egli “partecipa”, tutto il suo fare operoso, sono solo un grande apparato che ha lo scopo di allontanare da lui le domande essenziali: quelle indissolubilmente legate al suo essere, le domande: ‘Cosa sono io?’ e ‘cos’è l’Essere?’. A queste domande, però, egli non riesce a sottrarsi a lungo. Ad ogni suo dire è sottesa la preoccupazione nei riguardi del proprio essere e di qualcosa che incessantemente lo rimanda ad esse e lo spinge ogni volta a fuggire nel mondo: è l’angoscia che è inesorabilmente legata al suo stesso Esserci. In essa a lui viene annunciato cosa sia il proprio Esserci e, nel porre la domanda, trova la risposta, dal momento che l’Essere si svela a coloro che decidono di volerlo vedere. La realtà dalla quale l’uomo vuole fuggire è il suo essere ‘gettato’ nell’Esserci per vivere la sua vita. Vi sono nella sua esistenza possibilità che egli afferra liberamente, tra le quali deve scegliere. Ma la possibilità estrema alla quale egli va incontro e che appartiene all’esistenza umana è la morte: la sua vita è segnata dalla morte; dal nulla viene e, inevitabilmente, incontro al nulla va. Chi vuol vivere nella verità deve accettare di guardare in faccia il nulla, senza rifugiarsi nella dimenticanza di sé e in forme illusorie di sicurezza. La vita profonda di

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cui parla Heidegger è una vita spirituale. L’uomo è libero in quanto può e deve decidersi per il vero essere. Per lui non c’è alcun altro fine se non quello di essere se stesso e perseverare nel niente di cui il suo essere è costituito” (pp. 43-44).

“Heidegger non ha costruito una teoria pedagogica e non può essere nostro compito verificare quanto la sua metafisica sia attiva nella sua prassi pedagogica o quanto in essa prevalga una salutare incoerenza. Dobbiamo solo valutare quali conseguenze pedagogiche si trovino sul solco di questa idea di essere umano. Se quest’ultimo è chiamato al vero essere (ci si deve comunque domandare che senso possa avere una tale chiamata ad una esistenza che viene dal nulla e va verso il nulla) – l’educatore avrà il compito di farsi difensore di questa chiamata presso i giovani e di distruggere le forme di vita illusorie e gli idoli. Ma chi si darà a questa triste opera e chi potrebbe esserne responsabile? Si potrebbe essere certi che un altro Esserci saprebbe crescere avendo davanti agli occhi il nulla e che non fosse costretto a rifugiarsi nel mondo o addirittura fuggire dall’Esserci verso il nulla?” (p. 44).

“Sottrarsi al nichilismo pedagogico, conseguenza di quello metafisico, è possibile solo se quest’ultimo viene superato attraverso una metafisica positiva che riempia di sé il nulla e gli abissi dell’Esserci umano. Vorrei delineare l’idea di uomo che corrisponde ad una metafisica cristiana e svolgerne le conseguenze pedagogiche” (p. 44).

“L’antropologia cristiana condivide con l’umanesimo idealista la convinzione circa la bontà della natura umana, la libertà dell’uomo, la sua vocazione alla perfezione, la sua posizione di responsabilità all’interno della totalità unitaria del genere umano. Tuttavia essa poggia su un diverso fondamento. L’uomo è buono perché è stato creato da Dio, creato a Sua immagine e questo in un senso che lo distingue da tutte le creature terrene. Nel suo spirito è impressa l’immagine della Trinità. Agostino, con grandissima acutezza, ha messo in evidenza diverse possibilità di cogliere l’immagine di Dio nello spirito umano (De Trinitate, IX, 10)” (p. 45).

“Vorrei solo accennare alla più importante per la nostra questione. Lo spirito umano ama se stesso. Esso deve conoscersi per potersi amare. Conoscenza e amore sono nello spirito, anzi sono uno con esso, sono la sua vita. Eppure sono da esso e tra loro differenti. La conoscenza nasce dallo spirito e dallo spirito che conosce procede l’amore. Così si possono considerare spirito, conoscenza e amore come immagini del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Non è una pura metafora, ciò ha un significato estremamente reale. L’uomo è solo grazie a Dio ed è ciò che è per merito di Dio. Dal momento che lo Spirito è ed è, come Spirito, dotato della luce della ragione, cioè dell’immagine del Logos divino, esso può conoscere. Essendo lo spirito volontà, esso viene attratto mediante il bene – il bene puro e quello delle sue immagini terrene -, ama e può unirsi alla volontà divina e, solo grazie a questo, trovare la vera libertà. Conformare la propria volontà a quella divina – questa è la strada che conduce al compimento dell’essere umano nella gloria. Una radicale differenza fra la visione antropologica cristiana e quella umanistica diviene qui nuovamente evidente. L’ideale di perfezione è per quest’ultima un fine terreno, il fine a cui tende con forza lo sviluppo dell’umanità. Nella visione cristiana è un fine ultraterreno, a cui l’essere umano certo può e deve collaborare, ma che non può raggiungere con le sue sole forze naturali” (pp. 45-46).

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“Giungiamo così a ciò che l’antropologia cristiana ha in comune con quelle concezioni moderne che hanno riconosciuto il carattere superficiale della coscienza. Anch’essa conosce le profondità dell’anima e i lati oscuri dell’esistenza umana, che non rappresentano per essa una novità, ma realtà con le quali ha sempre fatto i conti, perché le ha comprese alla radice. L’uomo era in origine buono, signore dei suoi istinti in forza della sua ragione, orientato liberamente al bene. Ma, per l’allontanamento del primo uomo da Dio, la natura umana è decaduta: l’istinto si è rivoltato contro lo Spirito, l’intelletto si è obnubilato, la volontà indebolita. Dal primo uomo la natura corrotta si è trasmessa a tutto il genere umano” (p. 46).

“Abbandonato a se stesso, l’essere umano non è, però, del tutto consegnato a potenze oscure, infatti non si è completamente spenta in lui la luce della ragione e gli è rimasta la libertà; così ognuno ha la possibilità di intraprendere una battaglia contro la sua natura inferiore, sebbene corra sempre il pericolo di essere sconfitto e non gli riuscirà di vincere su tutto il fronte con le sue sole forze, soprattutto perché ha a che fare continuamente con nemici invisibili (quand’anche egli avesse imparato a diffidare della superficie non è ancora certo che gli riuscirà di scoprire davvero il fondo) e poi perché ha il traditore dalla sua parte, cioè la volontà che facilmente può capitolare. Così abbiamo da un lato gli uomini che si logorano nella lotta, dall’altro quelli che vi rinunciano o non la intraprendono affatto, cioè coloro che sono abbandonati a tal punto al caos, che nessuna unità della personalità è più visibile (l’unità è presente nonostante questi aspetti, perché l’anima è una, in ognuno è creata in maniera unica da Dio, chiamata all’eternità e, per questo, responsabile quando perde se stessa perché in ogni istante può penetrare nel profondo e ritrovarsi). Certo vi sono uomini buoni e nobili per natura, nei quali l’inclinazione al bene, impressa nella natura umana e non completamente perduta a causa del peccato, emerge in modo particolarmente forte e che raggiungono, sul terreno puramente naturale, un alto grado di armonia. Tuttavia la lacerazione attraversa anche la loro natura. Non sappiamo quanto di ciò sia dato loro di sentire nel segreto e quando tale lacerazione si manifesti così che gli abissi vengano alla luce” (pp. 46-47).

“L’essere umano non ha alcun potere sulle forze del profondo e non riesce a trovare da solo la strada per il cielo. Una strada, tuttavia, è per lui preparata. Per salvare la sua natura e restituirgli la supremazia su essa, supremazia che gli era stata destinata dall’eternità, Dio stesso è diventato uomo. Il Figlio dell’eterno Padre è diventato il nuovo capo del genere umano; chiunque sia legato a Lui nell’unità del Corpo Mistico partecipa al Suo essere figlio di Dio, porta in sé una sorgente di vita divina che fluisce verso la vita eterna e che allo stesso tempo si presenta come una fonte di salvezza per le infermità della natura umana, la luce naturale del suo intelletto viene rinvigorita dalla luce della Grazia cosicchè quest’ultimo è meglio protetto contro gli errori, sebbene non immune da essi; soprattutto i suoi occhi spirituali sono aperti a tutto ciò che in questo mondo ci dà testimonianza di un altro mondo; la volontà è orientata al bene eterno e da esso non si distoglie facilmente, possiede maggior forza per combattere contro le forze più basse. Tuttavia rimane, durante questa vita, esposto alla lotta. Egli stesso, perciò, deve aver cura che la vita di grazia in lui sia conservata e costantemente custodita; solo come premio per la prova in battaglia sarà per lui chiaro lo status termini, la vita di gloria nella quale contemplerà la verità eterna a cui aderirà ineluttabilmente nell’amore. Tendere fermamente a questo scopo, deve essere la regola di tutta la sua vita, tutte le circostanze della vita terrena devono essere messe alla prova per il significato che assumono rispetto allo scopo eterno, poi venir giudicate e realizzate” (p. 47).

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“Così per il cristiano si rende necessario un comportamento critico nei confronti del mondo, nel quale vive come uomo spiritualmente desto, e nei confronti del proprio io. L’appello alla coscienza del vero essere, che, come abbiamo già visto, è espresso con radicale lucidità nella metafisica di Heidegger, è un appello del cristianesimo originario, un’eco di quel metanoéite con cui il Battista invitava a preparare le vie del Signore (pp. 47-48).

“Tra tutti i pensatori cristiani nessuno ha risposto a questa chiamata con più appassionata energia di sant’Agostino: ‘Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas’. Nessuno è penetrato in se stesso più profondamente di Agostino nelle sue Confessioni. Né alcuno ha esercitato una critica più netta e radicale al mondo della vita umana di Agostino nella sua Città di Dio. Ma il risultato è totalmente diverso: nell’interiorità dell’essere umano abita la “Verità”; questa verità non è la semplice realtà del proprio esserci nella finitezza. Tanto è indiscutibilmente certa per Agostino la realtà del proprio essere quanto ancor più lo è quella dell’essere eterno, che sta dietro questo suo fragile essere. Questa è la verità nella quale l’essere umano si imbatte quando penetra sin nel profondo della sua interiorità. L’anima conosce se stessa e così, in se stessa, conosce Dio (De Trinitate, X, 5). E conoscere che cosa essa sia e cosa in essa ci sia, le è possibile solo mediante la luce divina. “… Tu mi conosci, io desidero conoscermi, come sono conosciuto” (Confessioni, X, 1). “Che cosa, Signore, dinanzi ai cui occhi l’abisso delle coscienze umane è nudo, Ti sarebbe nascosto in me, se anche non volessi confessartelo? Io nasconderei Te a me e non me a Te… Perciò si compie la mia confessione dinanzi a Te, mio Dio, muta… Nulla di vero dico agli uomini che prima Tu non abbia udito da me; e Tu non odi nulla di simile da me che Tu non mi abbia detto prima” (Confessioni, X, 2). Quanto detto tradisce un profondo scetticismo nei confronti di una conoscenza puramente naturale. Tuttavia visto che, secondo Agostino, la conoscenza di sé è èpiù originaria e più certa della conoscenza di qualsiasi cosa esteriore, deve sembrare impresa totalmente immodesta voler svelare con mezzi solamente naturali le profondità nascoste di un’anima estranea” (pp. 48-49).

“Riassumendo possiamo dire che dal punto di vista dell’antropologia cristiana, l’immagine proposta dall’ideale umanistico si rivela come immagine dell’uomo integro, dell’uomo prima del peccato, ma la sua origine e il suo scopo non sono presi in considerazione, la realtà del peccato originale rimane esclusa dalla sua attenzione. L’immagine dell’essere umano della psicologia del profondo è l’immagine dell’uomo decaduto, considerato in modo statico e astorico: il suo passato e le sue possibilità future, la realtà della redenzione vengono trascurate. La filosofia esistenziale ci mostra l’essere umano nella finitezza e nella nullità della sua essenza. Essa fissa ciò che egli non è e viene perciò distolta da ciò che è comunque positivo e dall’assoluto che emerge dietro questo essere limitato” (p. 49).

“Cercherò ora di trarre alcune conseguenze per l’elaborazione di una pedagogia cristiana. Essa, senza disprezzare i mezzi della scienza e delle conoscenze naturali umane, si adopererà con zelo ad approfondire quell’immagine di essere umano indicataci dalla verità rivelata, esaminerà per questo le fonti della Rivelazione, ma chiederà anche consiglio ai pensatori cristiani, cioè a coloro che vedono nella Rivelazione una sorgente di verità e una sicurezza contro gli errori cui è esposta la ragione naturale. Inoltre, chiederà lumi alla Rivelazione riguardo al fine dell’essere umano, visto che tutti gli obiettivi pedagogici devono orientarsi al fine ultimo. La pedagogia cristiana otterrà in tal modo chiarezza riguardo al senso di tutte le attività pedagogiche e riguardo ai loro limiti” (p. 49).

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“Per ciò che concerne la chiarificazione dell’antropologia, dobbiamo aggiungere qualcosa alle osservazioni già fatte in relazione a ciò che è stato prima presentato. Per giungere all’idea di umanità perfetta, sono a disposizione diverse vie. Le vestigia della Trinità nello spirito umano sono solo un punto di partenza. Questa idea si pone, in maniera concreta, dinanzi ai nostri occhi in una doppia forma: quella del primo uomo considerato anteriormente al peccato e quella dell’umanità di Cristo. Così le dottrine sullo stato originario dell’uomo e sulla natura umana del Redentore sono particolarmente importanti per l’immagine ideale della natura umana. Va inoltre notato che la Rivelazione non indica solo un’immagine generale dell’essere umano, ma prende in considerazione le differenze fra i sessi e tiene conto anche dell’individualità. Ad essa è inerente una conoscenza delle differenze riguardo ai fini da raggiungere a seconda delle caratteristiche individuali e sessuali oltre che una conoscenza dello scopo generale e comune a tutti gli esseri umani” (pp. 49-50).

Per la comprensione dell’azione pedagogica è fondamentale la dottrina dell’unità del genere umano, la trasmissione della natura umana dai progenitori a tutte le generazioni seguenti, la collocazione dei genitori quali strumenti dell’attività creatrice di Dio nella generazione e della guida divina nella educazione; ciò comporta da un lato il dovere d’educatore (che si estende dai genitori alla generazione di volta in volta precedente), dall’altro l’esigenza di educare. La natura spirituale dell’uomo – ragione e libertà – esige la spiritualità dell’atto pedagogico, cioè un’azione comune di educatorew e allievo che tenga conto della crescita graduale della spiritualità, in cui l’attività di guida dell’educatore lasci sempre di più spazio all’attività propria dell’allievo, per condurlo, infine, alla completa autonomia e all’autoeducazione. Limiti dell’attività di educatore, dei quali ognuno deve essere consapevole, sono insieme la natura dell’allievo, per la quale non tutto si può fare, la sua libertà, che può opporsi all’educazione e deludere i suoi sforzi, e infine la propria inadeguatezza, vale a dire, la limitatezza delle conoscenze, per cui, ad esempio, pur con tutto il desiderio, non può avere completa chiarezza sulla natura dell’allievo. (Dobbiamo pensare che l’individualità è qualcosa di misterioso e inoltre, che con ogni generazione emerge qualcosa di nuovo, non pienamente comprensibile per la precedente). Tutto ciò ci ricorda che il vero educatore è Dio, che è il solo a conoscere ogni singolo uomo fin nel profondo, ad aver davanti agli occhi il fine di ognuno e a sapere di quali mezzi ha bisogno per condurlo al fine. Gli educatori umani sono solo strumenti nelle mani di Dio” (p. 50).

“E’ chiaro quale atteggiamento di fondo ne risulti per l’educatore cattolico. Innanzi tutto un profondo rispetto e un sacro timore dinanzi ai giovani che gli sono affidati. Essi sono creati da Dio e portano in sé un destino divino. Ogni intervento arbitrario sarebbe un’intrusione nel piano divino. Nella natura umana e in quella individuale di ogni singolo vi è una norma educativa a cui l’educatore deve adeguarsi. Le scienze (psicologia, antropologia, sociologia) gli offrono importanti strumenti per la conoscenza della natura umana, anche per quella del giovane. Tuttavia, egli può avvicinarsi alle peculiarità individuali solo attraverso un vivo contatto interiore; l’atto proprio del comprendere, che sa interpretare il linguaggio dell’anima nelle sue diverse forme espressive (sguardo, espressione del viso e gesto, parola e scrittura, azione pratica e creativa), può penetrare nel profondo. La via per lui è libera, però, solo se l’anima si esprime senza impedimenti e se l’originario processo di sviluppo e di formazione dall’interno verso l’esterno non è interrotto” (pp. 50-51).

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“Nella completa semplicità del bambino abbiamo questo ininterrotto flusso di vita. In lui lo sguardo e il gioco dell’espressione del viso, il parlare spensierato sono lo specchio chiaro dell’anima. Tuttavia, oggi, già i più piccoli, che accogliamo nelle scuole, non sono più così semplici. Molti sono già rinchiusi in se stessi, isolati verso l’esterno; essi non possono o non vogliono più svilupparsi ed esprimersi liberamente; lo sguardo dell’educatore rimbalza come su un muro. Egli deve innanzitutto riaprire di nuovo ciò che è chiuso. Nessun atto arbitrario otterrà questo. Solo lo sguardo dell’amore – l’amore del vero educatore, sacro, cosciente della sua responsabilità – che non perde di vista il bambino, aprirà una breccia attraverso la quale potrà infine penetrare e abbattere il muro. Ma forse accade più spesso che l’educatore si renda responsabile di questo isolamento a causa dell’uso di un metodo inadeguato. Quando l’anima, che si è aperta in una fiducia naturale, si imbatte in malintesi, equivoci, o anche fredda indifferenza, allora si chiude. Anche quando, al posto di una naturale dedizione, avverte una volontà di controllarla, una sistematica volontà di penetrarvi. Oppure quando intuisce interventi nella sua interiorità dinanzi ai quali vuole difendersi. L’educatore ha bisogno di conoscere l’anima del bambino; però possono aprirla solo l’amore e un timore rispettoso che non cerca di forzare ciò che è chiuso” (p. 51).

“Conoscere il bambino significa anche avvertire qualcosa circa l’orientamento ad un fine posto nella sua natura. Non si possono educare gli uomini ad uno scopo identico per tutti, secondo uno schema generale. Dare spazio alla specificità del bambino è un mezzo essenziale per individuare l’orientamento interiore al fine. L’attività dell’educatore non viene per questo eliminata. Se egli “lascia crescere” soltanto, non è all’altezza del suo compito. Se il germe si deve sviluppare verso una struttura perfetta, verso la sua forma compiuta, alcune disposizioni devono essere curate e sostenute, altre, però, vanno bloccate ed eliminate. Iperattività e passività sono ugualmente grandi pericoli nel lavoro educativo. Vi è una via, fra i due abissi, che deve essere percorsa dall’educatore che è responsabile dinanzi a Dio di non andare né di qua né di là. Egli può solo procedere prudentemente andando a tastoni. Ciò che lo deve rafforzare in questo compito pieno di insidie è proprio il pensiero che rende tale compito insidioso, cioè che è un’opera di Dio alla quale egli deve collaborare. Egli ha la responsabilità di fare la sua parte. Ma nel farlo, può star certo che la sua inadeguatezza non comprometterà alcunchè e che ciò che egli non può portare a compimento, avverrà in altro modo” (pp. 51-52).

“Se egli è consapevole del fatto che l’educazione è in ultima analisi opera di Dio, allora mirerà a risvegliare questa fede anche nel bambino. Solo così si assolve in modo corretto il dovere ultimo di ogni prassi educativa che è quello di condurre dall’educazione all’autoeducazione, alla consapevolezza di essere disegnato dalle mani di Dio e di avere un destino da Lui donato: questa fede deve far emergere anche nei giovani quel nesso tra responsabilità e fiducia che è il giusto atteggiamento dell’educatore. Responsabilità significa educarsi a ciò che si deve diventare. Fiducia vuol dire che non si affronta da soli questo compito, ma ci si deve aspettare che la Grazia compirà ciò che va oltre le proprie forze. Se questa fede è viva in entrambi, nell’educatore e nell’allievo, allora è presente il fondamento oggettivo perfetto per il loro giusto comportamento, cioè quella fiducia pura e gioiosa, che si erge al di sopra di ogni umano affetto, per il quale tutti e due cooperano alla realizzazione di un’opera che non appartiene a questa o quella vicenda personale, ma che è di Dio” (p. 52).

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Per la verifica:Riassumi nello spazio a disposizione qui sotto il testo di E. Stein:

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Indice 1. Adler – p. 32. Agostino – p. 123. Arendt – p. 324. Bergson – p. 385. Binswanger – p. 436. Blondel – 487. Buber – p. 528. Claparède – p. 599. Corallo – p. 7410. Decroly – p. 8011. Dewey – p. 8412. Erikson – p. 11613. Ferrière – p. 12814. Foerster – p. 14915. Freud – p. 16616. Guardini – p. 17317. Isaacs – p. 18618. James – p. 19619. Jaspers (1) – p. 21720. Jaspers (2) – p. 22921. Laberthonniere – p. 24022. Lombardo Radice – p. 24523. Marx – p. 25024. Mounier – p. 26725. Stein - 274

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