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Introduzione di Giovanni Reale

L'importanza e il significato del libro di Merlan «Dal Platonismo al Neoplatonismo».

1. L'inversione di rotta impressa dal Merlan agli studi sul Pla­tonismo e sul Neoplatonismo

Il libro di Merlan che presentiamo si è imposto già alla pri­ma edizione del 1953, ma soprattutto con la seconda edizione del 1960, come un punto di riferimento irrinunciabile per tutti coloro che si interessano del pensiero antico, in quanto pone problemi e solleva ipotesi tali da mettere in crisi l'interpretazio­ne che si era data nel secolo scorso e nei primi decenni del nostro secolo del Platonismo e del Neoplatonismo, e dei loro rapporti.

In particolare, va ricordato che il Neoplatonismo è stato in­terpretato come un netto distacco dal Platonismo da Eduard Zeller, nella sua ben nota opera La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, come tutti gli studiosi ben riconoscono. La tesi di questo «distacco» sostenuta da Zeller è stata largamente rece­pita, per il motivo che la sua opera ha fatto opinione in maniera determinante nel secolo scorso e nei primi decenni del nostro.

Le ragioni di tale «separazione» del Platonismo dal Neo­platonismo sono almeno due.

Da un lato, Zeller divideva la filosofia greca in due grandi blocchi: a) quella che va dai Presocratici ad Aristotele, e b) quel­la ellenistica e di età imperiale, che egli denominava con la signi­ficativa espressione «nacharistotelische Philosophie», quasi che il «dopo Aristotele» segnasse una netta involuzione del pensiero greco. Per tutte le filosofie «post-aristoteliche» egli non ebbe simpatie e, in particolare, non ebbe alcuna adesione di interessi alle problematiche del Neoplatonismo, che, in alcuni punti, trat­tò con toni perfino quasi-scostanti.

Dall'altro, la scissione del nesso fra il Platonismo e il Neo-

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platonismo, come qualche studioso ha ben rilevato, è stata ope­rata per la prima volta dallo Schleiermacher, e in questo Zeller dipende da lui. E da Schleiermacher dipendono, in generale, tut­ti quegli studiosi dell'età moderna che hanno accettato il suo pa­radigma ermeneutico nella ricostruzione del pensiero platonico basato sui soli dialoghi, ossia sui soli scritti, respingendo in blocco (sia pure in forme differenti e con varie sfumature) la tra­dizione platonica indiretta e tutte le testimonianze a questa col­legate. È infatti una conseguenza inevitabile che, se si legge e in­terpreta Platone solo sulla base dei suoi scritti considerati come del tutto autarchici, non si possa vedere se non una effettiva scissione fra quanto si ricava dai dialoghi e quanto si legge nelle pagine dei Neoplatonici.

Le conclusioni che se ne sono tratte si comprendono per­tanto molto bene; e di primo acchito, restando in quell'ottica, parrebbero addirittura ovvie e necessarie: Plotino e i Neoplato­nici, che si sono presentati come «interpreti» di Platone, in real­tà non lo sarebbero; infatti sei secoli dopo essi non sarebbero stati più in grado di «interpretarlo» in dimensione oggettiva (og­gi diremmo in senso storico), e avrebbero trovato in lui ciò che in effetti non c'era, e che poteva nascere solo parecchi secoli do­po e in una assai differente temperie spirituale.

Oggi gli studiosi hanno invertito nettamente la rotta nelle loro ricerche, e questo libro di Merlan è uno dei primi e dei più cospicui contributi nell'attuazione di questa inversione di rotta. Si può anzi dire che esso ha stimolato in modo determinante tut­ti gli studiosi successivi, che ormai si sono orientati in maniera convergente nella nuova direzione.

La principale tesi di fondo del libro è questa: il Neoplatoni­smo inizia ben sei secoli prima di quanto in passato si sostenes­se, in quanto è proprio l'Antica Accademia che imposta proble­mi e prospetta soluzioni di tipo «neoplatonico». In questo sen­so, infatti, risultano orientati i primi due successori di Platone, Speusippo e Senocrate, e addirittura lo stesso Aristotele.

In particolare, per quanto riguarda Aristotele, Merlan pre­cisa quanto segue: « ... se è vero che la filosofia di Platone, come viene presentata da Aristotele, è simile al Neoplatonismo, do­vrebbe essere del tutto naturale supporre che il Platonismo di Aristotele sia nello stesso tempo un Neoplatonismo. Si può cre­dere che la presentazione che Aristotele fa di Platone sia corret-

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ta o erronea; si può ritenere che le sue fonti siano o esclusiva­mente le opere scritte di Platone, o esclusivamente le sue dottri­ne orali, o una considerazione di entrambe. Qualunque ipotesi accettiamo, se Aristotele è stato un platonico è inverosimile che egli non abbia mai sostenuto alcune dottrine "neoplatoniche" che egli ha attribuito a Platone. L'idea di un Aristotele platoniz­zante implica quella di un Aristotele neoplatonizzante, se lo stesso Platone, così come Aristotele lo ha compreso - o frainte­so - è stato un Platone neoplatonizzante» (p. 50). Del resto, la stessa interpretazione che gli Arabi hanno dato di Aristotele è stata, curiosamente, neoplatonizzante (e addirittura, in casi estremi, è giunta ad attribuire ad Aristotele pagine di Plotino o di Proclo, come si verifica nei due celebri libri Theologia plato­nica e Liber de causis).

Tesi, questa, che suona senza dubbio come fortemente pa­radossale e decisamente rivoluzionaria, ma che, come vedremo, ha un nucleo di precisa verità.

2. Il modo in cui Merlan ha articolato il suo libro

Questa tesi di fondo, con alcuni concetti di base su cui si impernia, viene presentata da Merlan in un'ottica del tutto par­ticolare. Egli non tratta dei movimenti del pensiero platonico e di quello neoplatonico in generale, e non fa una presentazione delle dottrine in senso globale, ma si concentra su problemi spe­ciali, che, di primo acchito, possono trarre il lettore in inganno, come se il libro trattasse di micro-questioni e non delle questioni di fondo.

Uno degli studiosi più competenti del Neoplatonismo, A.H. Armstrong, recensendo il libro del Merlan nella rivista «Mind» (1955, p. 273), scriveva quanto segue: «Uno sguardo al­le intestazioni del libro del professor Merlan potrebbe dare l'im­pressione che si tratti di un'opera di ricerca altamente specializ­zata, che riveste interesse soltanto per un piccolo numero di stu­diosi che si occupano della storia della filosofia antica dopo Pla­tone. Certamente si tratta di un'opera notevole di dottrine spe­cialistiche, contenente precise discussioni di testi tale da rendere la lettura del libro lenta e non particolarmente agevole, anche per coloro che hanno una certa conoscenza del ramo. Ma esso è

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anche uno dei libri sulla filosofia antica più vivaci e di interesse più generale che siano stati pubblicati da molto tempo. E sareb­be un peccato se non dovesse attrarre un gran numero di lettori non specialisti (sebbene essi dovranno fare una serie di giudizio­si salti nella lettura)».

Ecco uno schema del contenuto del libro, che può dare una preliminare idea di questo.

Merlan, nei primi due capitoli, parte da uno scritto di Giamblico, poco studiato e poco letto, De communi mathemati­ca scientia, e ne esamina alcuni capitoli centrali che trattano de­gli oggetti matematici, considerati come realtà «intermedie» fra le realtà teologiche e quelle fisiche, e dei nessi che ha l'anima con le realtà matematiche. In particolare, Merlan rileva quanto segue. Mentre i capitoli 3-4 di questo libro di Giamblico tendo­no a separare l'anima dagli enti matematici, perché quella ha movimento e questi sono immobili, i capitoli 9-10 sembrerebbe­ro assumere altra posizione, in quanto connettono l'anima con la sfera delle realtà matematiche (non con una sola branca delle realtà matematiche, ma con il complesso delle medesime). Que­sta discrepanza viene spiegata da Merlan con la seguente conget­tura: nello stendere questo suo scritto Giamblico ha utilizzato diverse opere, facendone come degli estratti, e non li ha adegua­tamente armonizzati. Nel primo gruppo di capitoli si sarebbe avvalso di un'opera di Speusippo, nel secondo gruppo di un'o­pera di Posidonio.

Nel terzo capitolo Merlan tratta della suddivisione, resa fa­mosa da Aristotele, delle scienze teoretiche in teologia (metafisi­ca), matematica e fisica, su cui si è molto discusso in tutti item­pi. Tale suddivisione, che Aristotele presenta come una sua dot­trina personale, in realtà si adatta male al sistema metafisico contenuto nelle opere aristoteliche pervenutici. Essa, infatti, presuppone come fondamento proprio la tripartizione dell'esse­re proposta dai Platonici, e in particolare presuppone, in qual­che modo, quello status metafisico degli enti matematici tipico dei Platonici, ossia interpretati in senso realistico come realtà di per sé sussistenti, mentre Aristotele tende a raggiungere, e di fat­to raggiunge, una interpretazione non realistica degli enti mate­matici. Ma se si elimina la corrispondenza delle tre sfere della conoscenza teoretica rispetto alle tre sfere della realtà, come fa Aristotele, non c'è più «nessuna ragione per conservare la mate-

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rnatica come una branca della conoscenza fra la teologia e la fi­sica» (p. 122). Questo dimostra, dunque, il forte legarne di Ari­stotele col Platonismo. Tutte le interpretazioni che si è cercato di dare di questa concezione dello Stagirita e i tentativi che si so­no fatti di armonizzarla con l'insieme del suo sistema si rivelano incoerenti o storicamente inconsistenti. La spiegazione si può ottenere solamente se si collocano non i principi della metafisica aristotelica bensì le dottrine accademiche come base di questa concezione.

Nel capitolo quarto Merlan tratta del celebre «quadri­vium»: aritmetica, geometria, armonica (acustica) e astrono­mia. Questo quadrivium, che nel Medioevo è stato accettato co­me «curriculum» basilare per l'acquisizione della cultura, deri­va, in ultima analisi, dalla posizione della matematica come «in­termedia» fra le realtà teologiche e le realtà fisiche propria dei Platonici. Ma la fortuna del quadrivium si collega con la dimen­ticanza della sua genesi. In effetti, esso è stato continuamente formulato e riformulato, senza che nessuno dei suoi sostenitori mostrasse di essere consapevole e sicuro del significato che esso aveva sulla base dei suoi fondamenti ontologici.

Nel capitolo quinto Merlan procede ad una ricostruzione e rivalutazione del pensiero di Speusippo. Questo filosofo è molto originale, secondo Merlan, per la ragione che è stato l'unico de­gli Accademici che abbia negato che i principi platonici siano strutturalmente qualificabili come «buoni» o «cattivi»; per lui il bene e il bello, e quindi anche il male, si manifestano nelle sfere intermedie dell'essere. Inoltre, secondo Speusippo, per ogni sfe­ra dell'essere c'è una coppia di principi particolari. Merlan insi­ste, inoltre, nell'interpretare la tesi di Speusippo secondo cui il primo principio «non è neppure un essere», come un equivalen­te della tesi che esso è «al di sopra dell'essere», e quindi come un anticipo di Plotino e degli altri Neoplatonici. Queste tesi sono, inoltre, accompagnate da molte fini interpretazioni che Merlan propone anche di altre concezioni di Speusippo.

Nel settimo capitolo Merlan mostra come il capitolo 23 del De communi mathematica scientia di Giarnblico sia desunto dal Protrettico di Aristotele. In esso lo Stagirita sosteneva, come Platone, il valore della matematica per la sua esattezza e per la sua capacità di portare alle più alte conoscenze, muovendosi sul­le precise linee teoretiche di fondo dell'Accademia.

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Nel settimo capitolo, che è il più lungo, Merlan affronta la complessa discussione dell'oggetto della metafisica aristotelica. Egli è stato uno dei primi studiosi che ha compreso l'insostenibi­lità della tesi di fondo dello Jaeger, in senso globale. Secondo Jaeger Aristotele sarebbe partito dalla concezione dell'oggetto della metafisica come scienza delle realtà prime e supreme, per giungere, nella sua evoluzione, alla concezione dell'oggetto del­la metafisica come «essere in quanto essere». In realtà, mostra Merlan, in Aristotele non è affatto presente quella distinzione che Jaeger presuppone (e che tutti gli scolastici e neoscolastici fanno propria) fra «metafisica speciale» (teologia) e «metafisica generale» ( ontologia, scienza dell '«essere in quanto essere»). Per Aristotele l' «essere in quanto essere» è la «sostanza prima», la quale è universale, appunto in quanto prima. La metafisica aristotelica nei suoi nuclei centrali è un ripensamento di dottrine platoniche appunto in senso «neoplatonico», analogamente alle dottrine di Speusippo e di Senocrate.

Già questo sguardo generale può dare una chiara idea sia dei punti particolari sia delle trattazioni analitiche che questo li­bro implica. E in chi ne affronta la lettura per la prima volta sorgeranno certamente queste domande: in che senso e in quale modo Merlan lega unitariamente questi temi, e in quale maniera riesce a rendere credibile l'idea di fondo che propone, ossia che il Neoplatonismo è nato ben sei secoli prima di quanto in passa­to si credeva, e come alcuni continuano ancora a credere per forza d'inerzia? E quali sono le conseguenze di carattere storico e filosofico che derivano da questa tesi di fondo?

3. Il punto focale attorno a cui Merlan ha incentrato la sua trat­tazione

Merlan ha dato una precisa e ben articolata unitarietà ai va­ri temi che ha trattato e ai vari autori di cui ha discusso in modo specifico (che vanno da Speusippo ad Aristotele, da Posidonio a Giamblico, da Plotino a Proclo) facendo ruotare tutte le ricer­che che conduce attorno ad un punto focale: il significato gno­seologico e ontologico che la matematica e gli oggetti cui essa si riferisce hanno per i Platonici, da Speusippo a Proclo. Lo stesso

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Aristotele, quando tratta della matematica, rimane dialettica­mente legato in maniera strutturale e inequivoca al Platonismo, e la sua distinzione delle scienze teoretiche in teologia (metafisi­ca), matematica e fisica non reggerebbe e non si intenderebbe adeguatamente se non si tenesse sullo sfondo in modo preciso la suddivisione gerarchica del reale dei Platonici, con il conseguen­te rilievo strutturale che in essa acquistano gli oggetti della mate­matica. E analogamente, anche la struttura del quadrivium, co­me abbiamo già sopra rilevato, acquista giusto senso, proprio se si pone sullo sfondo la concezione platonica delle matematiche e le sue implicanze ontologiche.

Ma questo non sarebbe ancora sufficiente per capire quan­to abbiamo affermato, se non si comprendesse adeguatamente il fatto che abbiamo già sopra richiamato ma che va ben ribadito, ossia che la matematica per i Platonici costituiva un ganglio ve­ramente vitale, sia a livello gnoseologico, come forma di cono­scenza, sia ·a livello ontologico, a motivo degli oggetti di cui trat­ta, con tutte le complesse implicanze metafisiche che questo comporta.

Per i Platonici, infatti, gli oggetti matematici non sono me­re astrazioni, ossia non sono entia mentis, ma sono realtà, aven­ti un loro preciso e caratteristico status ontologico. In altri ter­mini, la posizione dei Platonici nei confronti degli enti matema­tici era quella che i Medievali chiamavano «realismo esagerato», intendendo, con questo, che i Platonici ipostatizzavano e consi­deravano realmente esistenti realtà che sono, invece, pure astra­zioni della mente umana e che, quindi, hanno uno status noolo­gico e non ontologico.

Lasciamo da parte la questione se e fino a che punto tale in­terpretazione e il giudizio che implica siano corretti. Resta, in ogni caso, come punto fondamentale questo: l'attribuire agli en­ti matematici una effettiva realtà ontologica e un preciso status metafisico costituisce una cifra essenziale e un punto qualifican­te del Platonismo, dall'Antica Accademia a Proclo.

Come è noto, Aristotele attribuisce a Platone stesso l'intro­duzione questa concezione. In una celebre testimonianza conte­nuta nel capitolo sesto del primo libro della Metafisica, scrive: « ... egli [scii.: Platone] afferma che, accanto al sensibile e alle Forme [ = Idee], esistono enti matematici intermedi fra gli uni e le altre, i quali differiscono dai sensibili perché immobili ed eter-

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ni, e differiscono dalle Forme perché ve ne sono molti simili, mentre ciascuna Forma è solamente una e individua».

Questo implica che il reale si suddivida appunto in tre gran-di sfere:

1) sfera delle realtà intelligibili, 2) sfera delle realtà matematiche, 3) sfera delle realtà sensibili. E queste tre sfere (sia pure con differenti articolazioni al-

1 'interno di ciascuna di esse) e la struttura gerarchica del reale che implicano, nonché i nessi derivativi di una sfera dall'altra, sono cifre costanti e punti focali in tutto il corso del pensiero neoplatonico.

Aveva ragione Aristotele nell'attribuire a Platone questa dottrina, che si ritiene da molti studiosi essere assente nei dialo­ghi? Merlan lascia la risposta in sospeso e assume una posizione di epoché nei suoi confronti. Egli, di fatto, su questo punto ri­mane inconsciamente vittima dei pregiudizi di Cherniss, secon­do il quale tutto ciò che non si trova detto expressis verbis nei dialoghi platonici (secondo il paradigma ermeneutico schleier­macheriano) è da considerarsi una interpretazione dei suoi di­scepoli e una loro sovra-costruzione. Tuttavia, pur non pren­dendo posizione nei confronti di questo problema, Merlan, im­plicitamente, ha contribuito a mettere in crisi le tesi chernissiane e a «sfocarne» in maniera consistente il paradigma di base, co­me vedremo più avanti. Ma ciò che qui dobbiamo ben rilevare è soprattutto questo: Merlan sostiene che, quale che sia stata la posizione effettiva di Platone su tale questione, il modo in cui egli viene interpretato da Aristotele e dagli Accademici è tipica­mente «neoplatonico», come comprovano i passi paralleli di Giamblico e di Proclo che vengono esaminati.

Dunque, conclude Merlan, la rilettura e l'interpretazione «neoplatonica» di Platone è incominciata con i suoi diretti di­scepoli, e lo stesso Aristotele, in questa interpretazione, si trova in prima linea.

Anzi (ed ecco un concetto che abbiamo già più di una volta rilevato e che va ben compreso e recepito per capire il libro di Merlan) non solo le critiche che egli fa a Platone, ma la sua stes­sa teoria della tripartizione delle scienze teoretiche, si fonda pro­prio su questa interpretazione «neoplatonica» del maestro. La tripartizione aristotelica delle scienze teoretiche in teologia (me-

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tafisica), matematica e fisica, ha la sua effettiva matrice, appun­to, nella tripartizione della realtà in enti intellegibili e divini, enti matematici e enti sensibili, e senza questa non regge e non si giu­stifica in maniera adeguata.

Ma c'è di più. Platone nel Timeo presenta, come realtà in­termedia fra le realtà intelligibili (il mondo delle Idee) e quelle sensibili, l'Anima del mondo (e la realtà delle anime in genera­le), e presenta, inoltre, la strutturazione di essa proprio in fun­zione di una serie di nessi con le realtà matematiche (si veda, a questo riguardo, il nostro volume Per una nuova interpretazio­ne di Platone, 1987 s [numero tre di questa collana], pp. 585-589).

Quale che sia la posizione storica effettiva assunta da Pla­tone (su cui Merlan non prende posizioni, per le ragioni che so­pra abbiamo già indicato), in ogni caso, a suo giudizio, va affer­mato questo: «chiunque, all'interno dell'orbita del Platonismo, accetti o il carattere intermedio degli enti matematici, o il carat­tere intermedio dell'anima, dovrà prendere in esame il rapporto fra queste due realtà intermedie» (p. 65). Di conseguenza, alcuni Platonici, come Speusippo e Senocrate, hanno ammesso i nessi dell'anima con una determinata branca delle realtà matemati­che, altri invece, hanno identificato l'intera sfera dell'anima con la sfera delle realtà matematiche in generale, come Giamblico e Proclo. Il primo che potrebbe avere identificato la sfera dell'a­nima con la sfera degli enti matematici, nella direzione che il Ti­meo di Platone chiaramente indicava, secondo Merlan potrebbe essere Posidonio: «È probabile che egli abbia scoperto prima di ogni altro la posizione intermedia dell'anima del mondo di Pla­tone (descritta in termini matematici), da un lato, e, dall'altro lato, la posizione intermedia che gli enti matematici hanno in Platone, così come viene riferita da Aristotele, e che abbia iden­tificato questi due intermedi» (p. 96).

Nella valutazione e nella considerazione di Posidonio, Mer­lan si riferisce soprattutto all'interpretazione che Jaeger ne ave­va dato nel suo libro Nemesius von Emesa del 1915, oggi supera­to, e nega che la connessione delle sfere dell'anima e degli enti matematici sia chiaramente presente già nel Timeo di Platone, per le ragioni che abbiamo già sopra indicato e su cui torneremo ancora più avanti. Ma, ciononostante, la questione del nesso fra anima e enti matematici con i vari problemi ad essa collegati, vie-

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ne impostata in modo egregio da Merlan, il quale fa ben com­prendere in che senso un tema siffatto possa anticipare di ben sei secoli la messa a punto di alcune problematiche che egli chiama «neoplatoniche».

4. Alcune convinzioni teoretiche di Merlan che rendono questo libro assai vivo

Come ha potuto il nostro autore rendere vive e molto inte­ressanti le sue trattazioni su temi come questi, così complessi, che per molti suonano come del tutto astrusi, e che, anzi, da al­cuni vengono considerati semplicemente come problemi «ar­cheologici», ossia come forme di reperti «da museo»?

Per rispondere a questa questione dobbiamo richiamare al­la mente un preciso dato di fatto, sul quale già altre volte abbia­mo avuto occasione di richiamare l'attenzione. Per scrivere un buon libro di storia della filosofia, o comunque su filosofi con­siderati in dimensione storica, l'autore deve essere in possesso di tre elementi: in primo luogo, ovviamente, deve avere la migliore conoscenza possibile dell'oggetto di cui tratta; in secondo luo­go, deve avere un personale interesse per il tipo di problematica che il periodo storico o i filosofi di cui parla trattano; in terzo luogo, deve avere una adesione simpatetica anche al modo in cui quel tipo di problematica viene trattato negli autori studiati. So­lo da un'azione sinergica di questi tre fattori può nascere un li­bro capace di imporsi come fondamentale.

Ebbene, Merlan, in questo volume, mostra di essere in pos­sesso proprio di tutti e tre questi fattori. Il primo risulta di per sé evidente, a motivo della ricchezza della documentazione, a chiunque legga il libro anche in modo superficiale. Il secondo è dimostrato dalla precisa scelta della tematica e dalla maniera in cui viene articolata e sviluppata. Sul terzo punto è Merlan stesso che ci fa puntuali rivelazioni.

Sulle concezioni filosofiche generali del nostro autore, non possiamo qui diffonderci. È opportuno, tuttavia, ricordare che Merlan si è formato nell'ambiente filologico e filosofico vienne­se. Ebbe stretti rapporti con Heinrich Gomperz, cui egli deve non poco, come avremo occasione di rilevare anche più avanti. Qui dobbiamo, invece, chiarire alcuni punti specifici, necessari

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per capire a fondo il libro che presentiamo. In particolare dob­biamo accertare in che senso egli ebbe legami simpatetici con il «realismo» in funzione del quale i Platonici trattarono gli enti matematici e con la dottrina della connessione dell'anima con gli enti matematici, temi che sembrerebbero assai distanti dalla sensibilità dell'uomo moderno.

Sul realismo «esagerato» o «eccessivo» di Platone, la mag­gior parte degli studiosi non ha avuto giudizi positivi, ritenendo che, alla sua base, stia un errore consistente nella ipostatizzazio­ne di concetti astratti. Per Merlan, invece, si tratta di una buona dottrina filosofica. Egli scrive testualmente: «Questo libro è sta­to composto con un atteggiamento di totale simpatia, anche sen­za una totale approvazione, nei confronti del realismo esagera­to. Per spiegare questa simpatia si potrebbe avanzare la seguenti tesi. La sola relazione che può essere compresa è la relazione di implicazione e di esplicazione (nel senso in cui Nicola Cusano ha usato quest'ultimo termine). Una spiegazione di tipo causale, ossia un'azione di una cosa su un'altra nello spazio e nel tempo, non è affatto una spiegazione, ma al massimo un tentativo di spiegazione. ( ... ) Il realismo esagerato piuttosto che essere ca­ratterizzato dal fatto che ipostatizza i concetti, dovrebbe essere indicato come la dottrina che ammette che solo "il razionale" (mente, spirito) è reale». Merlan ulteriormente aggiunge: «Il realismo esagerato è proprio questo: insistere sul fatto che la fi­losofia non deve essere né un appello, né dovrebbe abdicare alle scienze positive i suoi diritti a comprendere la realtà; insistere sul fatto che è compito della filosofia comprendere e che solo ciò che può essere spiegato in termini di implicazione ed esplica-1.ione "logica" è autenticamente compreso» (p. 52).

In sostanza, dice il nostro autore, il «realismo» dei Platoni­d diventa vero per tutti coloro i quali ammettono l'intelligibilità dt'I reale, e quindi la coerenza razionale delle parti che lo costi­I uiscono. Chi ammette coerenza e intelligibilità del reale, inulti­mu analisi, ha un qualche legame con il «realismo» dei Platoni­d. E appunto con tale convinzione Merlan presenta queste dot-1 rine dei Platonici in modo vivo e, in certi punti, con grande finezza.

Ma come Merlan rende teoreticamente interessante anche 111 complessa questione dei nessi fra anima e enti matematici, che 11 molti sembra assurda e comunque puramente mitica?

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Ecco la precisa risposta che dà il nostro autore: «È probabi­le che per il pensiero moderno, l'identificazione dell'anima con gli enti matematici appaia alquanto bizzarra. Ma, forse, essa può essere spiegata in termini piuttosto semplici. Quando par­liamo dell'anima (o dell'intelligenza, del nous, ecc.), noi, quasi inconsciamente, assumiamo la parola per designare qualcosa di soggettivo: la coscienza, ecc. Ma questo non è il solo punto di vista possibile. Ragionevolezza e ragione possono benissimo es­sere interpretate come due aspetti dell'unica e medesima realtà (sia che intendiamo sia che non intendiamo usare per essa il ter­mine Assoluto, Identità assoluta, ecc.), la ragionevolezza come ragione nella sua autoalienazione, e la ragione come ragione che è diventata consapevole di se stessa. In realtà si può negare che, in un certo senso, la ragione sia ciò che essa pensa, o che gli og­getti siano come essi vengono pensati? Se ammettiamo che l'uni­verso ha una struttura razionale, possiamo esprimere questa no­stra convinzione dicendo che esso ha un'anima, una intelligen­za, ecc. Ora, la prova migliore del fatto che l'universo ha una struttura razionale è il fatto che esso è suscettibile di calcolo ma­tematico» (pp. 112-113).

Con questo, risulta perfettamente chiarito quell'atteggia­mento di adesione simpatetica del nostro autore alle dottrine trattate in questo volume, che risulta un motivo essenziale per la eccellente riuscita del libro.

5. La posizione assunta da Merlan nei confronti della nuova immagine di Platone presentata dagli studiosi della Scuola platonica di Tubinga

Naturalmente, a questo punto, potremmo addentrarci nella discussione di molti aspetti particolari del libro. Ma ciò rende­rebbe troppo ampia questa nostra Introduzione, e soprattutto ci impedirebbe di trattare di altri problemi generali, a nostro giudi­zio molto più importanti per chi oggi affronta la lettura o la ri­lettura di questo libro.

Merlan ha fatto un eccellente e straodinario passo nel di­mostrare, come abbiamo già sopra rilevato, la continuità che sussiste nella storia del pensiero platonico e l'inesistenza del grande solco che in età moderna si è ritenuto sussistere fra Pia-

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tone e il Neoplatonismo (un solco di sei secoli!). E molti dei suoi contributi in questo senso oggi risultano ormai irreversibili.

Però Merlan non ha fatto l'ultimo passo, quello che oggi si impone come decisivo, anche perché i tempi in cui ha scritto questo libro non erano ancora maturi per fare quest'ultimo pas­so, e al massimo potevano suscitare qualche stimolo in tale di­rezione.

La questione di fondo che bisogna affrontare è la seguente: quello che Merlan chiama «Neoplatonismo» si può davvero dire che sia nato nella Antica Accademia (ossia nell'ambito dell'in­terpretazione che i diretti discepoli di Platone hanno dato del suo pensiero), o non si deve, invece, dire che è nato proprio con Platone medesimo?

La questione è stata in certo senso colta da Merlan, e anzi da essa egli è stato notevolmente turbato. Per questo motivo, come sopra dicevamo, egli ha assunto una posizione di prudente epoché nei suoi confronti.

Nell'Introduzione, in un passo che abbiamo già letto, egli afferma che «Io stesso Platone, così come Aristotele lo ha com­preso - o frainteso - è stato un Platone neoplatonizzante». E nel­le ultime parole del libro egli ribadisce la sua posizione di «so­spensione del giudizio», scrivendo quanto segue: «Se noi ci po­niamo un'altra domanda, ossia se il Neoplatonismo sia nato in Platone, sembra cauto rispondere: è possibile che esso sia nato in Platone, ma può essere nato solo nella prima generazione dei suoi allievi, come risultato di una interpretazione, legittima o il­legittima, di Platone da parte della prima generazione dei suoi allievi» (p. 314).

Ma la risposta al problema oggi non ammetterebbe più una epoché di questo genere: quello che Merlan chiama Neoplatoni­smo è senza dubbio nato proprio con Platone stesso.

I contributi più significativi a questo riguardo, cominciati all'inizio del secolo con Léon Robin, sono venuti dagli studiosi della Scuola platonica di Tubinga. Dall'opera maggiore di Ro­bin (1908) Merlan avrebbe voluto trarre una epigrafe per questa sua opera, come noi abbiamo fatto (cfr. sopra, p. 5). I lavori de­gli studiosi della Scuola platonica di Tubinga da Merlan sono stati accolti addirittura con entusiasmo. Scriveva nella prima nota della Prefazione alla terza edizione: «Alcune tesi del pre­sente libro si riferiscono, talvolta in modo critico, più spesso con approvazione, alla attuale reinterpretazione di Platone, i cui

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iniziatori sono H.J. Kramer (Arete bei Platon und Aristoteles, Heidelberg 1959; Der Ursprung der Geistmetaphysik, Amster­dam 1964) e K. Gaiser (Platons ungeschriebene Lehre, Stuttgart 1963)» (p. 43, nota 1).

Ma le opere di Kramer e di Gaiser sono posteriori alla stesu­ra della prima edizione del libro e gran parte di esse anche della seconda. La terza edizione del libro di Merlan, in cui si legge questa nota, apporta solo poche correzioni di inesattezze e di errori.

In verità, il nuovo paradigma ermeneutico che Kramer e Gaiser proponevano, implicava una vera e propria rivoluzione dell'impianto del libro: implicava, cioè, proprio la necessità di esaminare in una nuova ottica il pensiero di Platone; il che avrebbe evidenziato in modo incontrovertibile esattamente que­sto: ciò che Merlan chiama Neoplatonismo c'è in Platone.

Per la verità, già alcuni recensori avevano avvertito questo punto, pur senza collegarlo ai risultati degli studiosi della Scuola platonica di Tubinga. F.W. Kohnke, ad esempio, in «Gnomon» (27 [1955], p. 163) scriveva, proprio in connessione all'imposta­zione del problema di cui stiamo discutendo, quanto segue: «Questo però si collega alla questione, in quale misura il vecchio Platone nei suoi scritti conservati e perduti fu egli stesso un Neo­platonico». E uno studioso del Platonismo del calibro di H. Dorrie in «Philosophisce Rundschau» (1955, p. 24) scriveva: «( ... ) le linee tratteggiate da Merlan non terminano nel Platoni­smo della generazione dopo Platone. Esse debbono, di conse­guenza, essere prolungate ancora oltre; si incontrano nel filoso­fare del vecchio Platone. Allora, dunque, fu Platone il primo Neoplatonico».

Ma queste affermazioni, ben centrate, includono tuttavia ancora un errore: fanno riferimento, infatti, al «vecchio» Plato­ne, (ossia all'ultima fase del pensiero platonico) e le loro conclu­sioni, dando per scontata la tesi introdotta da Zeller che le pla­toniche «dottrine non scritte» e le loro varie implicanze non pos­sano se non riferirsi alla vecchiaia di Platone.

In realtà, il Platone iniziatore di quello che Merlan chiama «Neoplatonismo» non è solo il «vecchio» Platone, ma è il Plato­ne che parte dall'epoca in cui ha fondato l'Accademia, e comun­que è indiscutibilmente il Platone che va dalla Repubblica in poi (con larghe e innegabili anticipazioni in dialoghi come Gorgia,

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Menone, Pedone), come i libri che abbiamo pubblicato in que­sta collana largamente comprovano.

Ma per concentrarci sul punto basilare di questo libro, che, come abbiamo dimostrato, si incentra sugli enti matematici inte­si come «intermedi» fra le realtà sensibili e quelle soprasensibili, va detto questo: nella Repubblica, come abbiamo mostrato e documentato nel nostro volume Per una nuova interpretazione di Platone (cit., pp. 328 s.), Platone presenta gli enti matematici chiaramente come realtà per sé sussistenti e «intermedie» fra le realtà sensibili e le realtà intelligibili. E non solo questo si ricava dalle immagini che egli presenta per esprimere il suo pensiero, ma addirittura da un riferimento tecnico che egli fa, parlando delle conoscenze matematiche, che qualifica proprio in modo tecnico con il termine «intermedie» (conoscenze intermedie fra l'opinione, che verte sul sensibile, e la conoscenza pura degli in­telligibili).

Platone, come è noto, chiamava dianoia la forma di cono­scenza delle realtà matematiche, e di essa scrive testualmente: «E mi pare che la condizione propria dei geometri e quella dico­loro che son simili ai geometri tu la chiami dianoia e non intelli­genza, come se la dianoia fosse un alcunché di intermedio (me­taxzi!) fra l'opinione e l'intelligenza» (VI, 534 A 5-8). Senza contare, poi, il fatto significativo che nel mito della caverna Pla­tone rappresenta gli enti matematici come riflessi delle realtà ve­re nell'acqua, e quindi proprio come intermedi fra i riflessi delle cose sensibili nella caverna e gli oggetti fisici, da un lato, e la realtà intelligibili, dall'altro.

Dunque, è Platone stesso che introduce la scala gerarchica delle tre sfere dell'essere, non i suoi discepoli (e nemmeno il «vecchio» Platone, ma il Platone della Repubblica!).

Qualcosa di analogo dovremmo dire per l'anima del mondo che Platone nel Timeo connette espressamente con gli enti mate­matici. A questo proposito Merlan stesso riconosce che dal Ti­meo era facile per i discepoli ricavare la connessione fra anima e enti matematici intermedi; ma non ammetteva che questo si po­tesse leggere esplicitamente nel testo, per il semplice motivo che riteneva improbabile che Platone parlasse degli enti matematici come intermedi e che quindi ammettesse una sfera di realtà me­tafisicamente intermedia.

In ogni caso, per guadagnare bene questo punto, occorre

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entrare nel vivo della questione dei rapporti fra scritto e non scritto in Platone, e quindi rileggere tutti i dialoghi alla luce del­le autotestimonianze di Platone, come i libri di Kramer, di Gai­ser, di Szlezak e il mio pubblicati in questa collana dimostrano in modo puntuale.

6. Differenze fra Platonismo e Neoplatonismo

Un grosso problema ci resta ancora da chiarire per il lettore di questo libro.

E' corretto parlare di «Neoplatonismo» nel modo in cui lo intende Merlan? Oppure oggi si impone una nuova ottica, in maniera ormai incontrovertibile?

Le caratteristiche fondamentali del Neoplatonismo per Merlan sono le seguenti sette.

a) La concezione della stuttura gerarchica del reale, la qua­le implica differenti sfere della realtà, che vanno da quella più elevata a quella sensibile in dimensione spazio-temporale.

b) La derivazione di ogni sfera inferi ore da quella superio­re in virtù di una relazione che non è di tipo causale-efficiente, bensì in virtù di una relazione strutturale di implicazione-espli­cazione.

c) La sfera superiore dell'essere deriva da un Principio pri­mo, il quale, in quanto causa dell'essere, è superiore all'essere, nel senso che è al di sopra di qualsiasi forma di determinazione dell'essere.

d) Questo principio supremo è detto Uno, non solo in quanto è unico, ma in quanto è semplicità assoluta, appunto al di sopra di qualsiasi determinazione.

e) Ogni sfera inferiore dell'essere implica non solo un au­mento del numero di enti che contiene, ma anche un aumento di determinazione, fino alla determinazione spazio-temporale, che porta al grado minimo di unità.

f) La conoscenza adeguata del Principio primo e supremo non può essere una forma di conoscenza di tipo predicativo co­me quella delle altre realtà che implicano determinazioni specifi­che, e quindi è una forma di conoscenza speciale.

g) La difficoltà maggiore nel Neoplatonismo consiste nella spiegazione del perché e del come abbia luogo il passaggio dal-

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l'Uno a:l molteplice, e quindi nella spiegazione del principio ma­teriale che in questo processo svolge un ruolo essenziale.

Che nel Neoplatonismo si trovino tutti questi tratti caratte­ristici è verissimo; tuttavia, il problema oggi va posto in modo differente. Infatti, la nuova interpretazione di Platone ha ben mostrato come tutti questi tratti essenziali siano presenti, in ma­niera più o meno accentuata, proprio in Platone medesimo, co­me appunto i libri di Kramer, di Gaiser e il nostro pubblicati in questa collana, già più volte ricordati, dimostrano in vario mo­do. Dunque, quello che Merlan chiama «Neoplatonismo» inizia davvero con Platone, e sarebbe pertanto necessario, alla luce delle nuove ricerche, chiamarlo «Platonismo» e non «Neopla­tonismo».

Ma, allora, quali differenze ci sono fra «Platonismo» e «Neoplatonismo»?

Il vero e proprio «Neoplatonismo» è caratterizzato da alcu­ni elementi essenziali che lo distinguono bene dal «Platonismo» non già separandolo, come si voleva in passato, ma differen­ziando/o, in modo ben preciso.

Già H. Dorrie, che è stato uno dei maggiori conoscitori del nostro secolo del Platonismo e del Neoplatonismo, nella citata recensione del libro del Merlan rilevava che, di fatto, il Neopla­tonismo è nato dalla composizione di elementi pitagorici, aristo­telici e accademici, in una forma di unità costitutiva, che lo dif­ferenzia dalla tradizione platonica precedente. A questo, precisa Dorrie, si deve aggiungere un ulteriore nuovo elemento, ossia le tendenze religiose di quegli uomini che fondarono il Neoplatoni­smo. Ad opera di questi autori, infatti, l'Uno supremo «venne riempito con la trascendenza del numinoso» e, di conseguenza, la theoria venne intesa come estasi, e l'assimilazione a Dio venne intesa come un henousthai, ossia un farsi uno con l'Uno stesso.

Ma anche queste precisazioni di Dorrie, che pur sono molto belle ed esatte, non sono ancora sufficienti.

In particolare, infatti, vanno rilevate le novità teoretiche del Neoplatonismo, che danno forma più sistematica al pensiero platonico, imprimendogli una nuova piega. Queste novità van­no messe molto bene in rilievo, se si vogliono intendere in modo adeguato le «identità» e le «differenze» fra il Platonismo e il Neoplatonismo.

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In primo luogo, in Platone e negli antichi Accademici pre­vale nettamente la spiegazione della struttura del reale in funzio­ne di due principi, ossia l'Uno e la Diade indefinita, l'Uno e i Molti (che si esplicano via via, nelle varie sfere, in funzione di coppie di Principi opposti). Si è parlato talora, e lo stesso Mer­lan usa questi termini, di «dualismo», non nel senso di trascen­denza e immanenza, ma nel senso di due principi fra loro oppo­sti. Noi abbiamo preferito, nel nostro volume Per una nuova in­terpretazione di Platone, usare l'espressione assai meno ambi­gua e più efficace, di polarismo o meglio ancora di bipolarismo strutturale. Ebbene, il Neoplatonismo, da Plotino in poi, intro­duce una prospettiva monopolaristica, ponendo l'Uno come vertice assoluto, da cui deriva e da cui dipende la stessa stuttura bipolare. E Proclo presenta la prima coppia suprema degli op­posti, Limite e Illimite, come prime e supreme irradiazioni del­l'Uno, da esso derivanti e dipendenti, con tutte le conseguenze che ne vengono.

Merlan nota, almeno marginalmente, questa differenza, ma la impoverisce al massimo, chiamando la prima appunto «dualismo» e la seconda «monismo». Ma sorprendentemente non elenca questo punto fra i tratti essenziali del Neoplatoni­smo, che per lui sono quelli che abbiamo sopra indicato. Invece, in realtà, la monopolarità dell'Uno costituisce la qualifica deter­minante del Neoplatonismo, a tutti gli effetti. Il lettore che lo desiderasse, trÒverà nel Frocio di W. Beierwaltes, pubblicato in questa collana (1988), nonché nei nostri lavori su Plotino (Storia della filosofia antica, voi. IV, 1989 6) e su Proclo (Saggio intro­duttivo a: Proclo, / Manuali, Rusconi 1985 e Introduzione a Frocio, Laterza, Roma-Bari 1989) adeguate spiegazioni.

In secondo luogo, la posizione dell'Uno al vertice assoluto, da cui deriva e dipende la stessa struttura bipolare del reale, si accompagna ad una concezione dell'Uno produttivo (in Plotino addirittura autoproduttivo, causa sul) e in un certo senso creati­vo, che si spinge ben oltre il Platonismo precedente. L'Uno-Be­ne dei Neoplatonici è veramente diffusivum sui, è infinita forza traboccante chef a essere tutte le altre realtà. E per rendersi con­to di questo, basta leggere il Proclo di Beierwaltes sopracitato, nonché i vari lavori di J. Trouillard su Proclo, molto eloquenti a questo proposito.

In terzo luogo, un Uno così concepito diventa, per i Neo-

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platonici, indefinibile, indicibile, ineffabile, ben al di là di Platone.

Per Platone, infatti, l'Uno-Bene non è conoscibile e dicibile come lo sono le altre cose, ma, nei giusti modi e nei giusti tempi, esso è definibile e perfettamente esprimibile, come il volume di Kramer, Dialettica e definizione del Bene in Platone (1989), pubblicato in questa stessa collana, dimostra perfettamente.

La stessa dialettica platonica nel contesto del Neoplatoni­smo acquista nuove dimensioni, giungendo, al limite, a rove­sciare se medesima, superandosi nel «silenzio» e nella «preghie­ra», come dimostra molto bene il Beierwaltes nella terza parte del suo Proc/o.

Infine, nel Neoplatonismo i nessi che legano le varie sfere dell'essere l'una all'altra vengono esplicitati in modo assai più netto e chiaro, e anche nuovo: così avviene in Plotino nella di­mensione della contemplazione creatrice e in Proclo col dispie­garsi delle triadi dialettiche, che si imperniano tutte quante sulla triade principale Manenza-Processione-Ritorno. Ma su questo dovremo dire ancora qualcosa di più particolare nel paragrafo che segue a questo. '

In conclusione, quando si parla di un movimento di pensie­ro qualificandolo con «neo-» si intende sempre dire che il movi­mento in questione è la ripresa del pensiero espresso da uno o più autori precedenti con ripensamenti e innovazioni (donde ap­punto la qualifica «neo»). Le grosse novità che impongono la qualifica del tardo Platonismo appunto come Neo-platonismo sono proprio quelle che abbiamo sopra elencato, cui se ne con­nettono anche altre subordinate e da esse dipendenti, delle quali non è qui necessario dar conto, perché sono determinanti ap­punto quelle che abbiamo richiamato.

Ebbene, se così è, la tesi che Merlan sostiene in questo suo libro «che il Neoplatonismo ha avuto origine all'interno del­l'Accademia», va modificata come abbiamo già sopra rilevato: quello che egli chiama «Neoplatonismo» è, in realtà, «Platoni­smo», e il Platonismo di cui egli parla c'è già pressochè per inte­ro in Platone. Tuttavia, il modo con cui egli ha impostato e con­dotto la sua ricerca, malgrado il fatto che oggi vada modificato nel punto chiave, è stato storicamente un passaggio essenziale e decisivo, che ha aiutato (e non poco) a pervenire alle conclusioni che abbiamo indicato.

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7. La questione del sistema di derivazione delle sfere della realtà le une dalle altre nel Platonismo e nel Neoplatonismo

Strettamente connesso a quanto abbiamo detto è la questio­ne del modo specifico di intendere il nesso che lega una sfera a quella successiva e il modo in cui ne è causa.

In passato si è molto parlato (e molti continuano ancora a parlare) di «emanazionismo». Concetto, questo, che di per sé ri­sulta essere decisamente estraneo al Platonismo, come abbiamo dimostrato nella nostra Storia della filosofia antica. Molto più pregnante, dal punto di vista teoretico, è l'interpretazione della processione di una sfera dell'essere dalla precedente nel quadro di un sistema di derivazione, che i tedeschi esprimono con il ter­mine A bleitungssystem.

Ma anche questa interpretazione non quadra bene con i concetti base della metafisica del Platonismo. Essa si collega, in­fatti, a quella che alcuni chiamano «metafisica tedesca», ossia a forme di pensiero che presuppongono l'Idealismo, ossia lo Spi­nozismo passato attraverso il Kantismo. Merlan accetta, invece, proprio questo concetto. Del resto le sue simpatie per certe pro­spettive idealistiche sono ben evidenti, come risulta anche dalle pagine in cui egli esprime alcune sue convinzioni teoretiche, che abbiamo sopra riportato.

In particolare, su questo punto, Merlan dipende da Hein­rich Gomperz, che lo aveva molto ispirato. E Gomperz, in una famosa relazione, tenuta nel 1931 a Londra al «Settimo Con­gresso Internazionale di Filosofia», sul Sistema filosofico di Platone, aveva espressamente sostenuto che il sistema filosofico di Platone «è un sistema derivativo» ( «Platons philosophisches System ist ein Ableitungssystem» ).

E' chiaro che un Ableitungssystem implica una certa forma di monismo articolato, e comunque esclude, in buona misura, il concetto di trascendenza.

Ma anche questa è una interpretazione che, per quanto resti diffusa, come abbiamo già sopra rilevato, non è adeguata dal punto di vista storico, al sistema platonico e a quello neopla­tonico.

Per quanto riguarda gli iniziatori della ricostruzione della nuova immagine di Platone, è da precisare che non si trovano su questa linea (se non per fraintendimenti di alcuni interpreti). In

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particolare, Kramer, nel suo Platone (p. 164) precisa che i rap­porti fra i vari gradi del reale vanno intesi in questo modo: «In generale, si tratta di un rapporto ontologico di derivazione nel quale il gradino più alto possiede sempre un prius ontico rispet­to a quello più basso (1tp6npov-uattpov cpuatL) e in cui, per dirla con formula platonica, il primo può essere o essere pensato sen­za il secondo, ma non viceversa, il secondo senza il primo (auvcx­vor.Lpttv xcxt µ~ auvcxvor.Lptta9or.L). Si ha, dunque, un rapporto di di­pendenza unilaterale non rovesciabile, in cui, tuttavia, il piano più alto offre solamente condizioni necessarie ma non anche sufficienti per il piano successivo. Infatti, la Diade di grande-e­piccolo gioca un ruolo di fondamento in tutti i piani come prin­cipio materiale, però senza che la sua differenziazione venga ul­teriormente fondata; il novum categoriale rimane quindi non spiegato» (il novum viene dato di volta in volta come originale, e quindi indedotto).

E' appena il caso di rilevare come una siffatta interpreta­zione si differenzi nettamente da una forma di monismo pantei­stico, appunto nella misura in cui sostiene (e con adeguati fon­damenti) che il piano superiore dell'essere è condizione, sì, ne­cessaria del piano inferiore, ma non sufficiente. E il novum che si presenta di piano in piano come indedotto esclude in modo categorico che si possa parlare di «monismo immanentistico».

Nel nostro libro Per una nuova interpretazione di Platone, nel corso di tutta la quarta parte, abbiamo approfondito questa questione in tutti i particolari, e ad esso rimandiamo. Ma, anche per quanto concerne il Neoplatonismo di Plotino, abbiamo di­mostrato che, in base al concetto di «contemplazione creativa», esso si pone su un tutt'altro piano rispetto al monismo panteisti­co. Si veda la nostra Storia della filosofia antica (voi. IV, pp. 459-616), e quanto diciamo in sintesi nel saggio: / fondamenti della metafisica di Plotino e la struttura della processione (in: AA. VV., Graceful Reason. Essays in Ancient and Medieval Philosophy presented to Joseph Owens CSSR, Toronto 1983, pp. 153-175). Si veda anche quanto su questa nostra interpreta­zione rileva C.J. de Vogel, Rethinking Plato and Platonism, Leiden, Brill, 1986 (rist. 1988), pp. 119-127 (questo volume ver­rà pubblicato come numero 10 in questa stessa collana).

In ogni caso, pur non essendo a nostro avviso condivisibile, l'interpretazione di Merlan su questo punto, ai tempi in cui è

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stata presentata, costituiva un netto avanzamento rispetto alla comune esegesi che parlava di «emanazionismo», addirittura con implicazioni orientaleggianti. D'altra parte, è questo, forse, il punto più delicato da intendere del Platonismo pagano e cri­stiano. D'accordo con noi, la de Vogel ha sostenuto che anche l'interpretazione del Platonismo di Scoto Eriugena (e non solo di quello di Plotino) va riveduta a fondo, e che, riletto in ottica analoga a quella in cui abbiamo presentato Plotino, il sistema di Scoto è ben lungi dall'essere un «panteismo».

8. Conclusioni

Il lettore si sarà ormai ben reso conto che questo libro che presentiamo è una miniera veramente preziosa di tematiche e di problemi di grande importanza storico-filosofica, soprattutto in un momento come il nostro in cui sta verificandosi un riguada­gno ermeneutico veramente cospicuo del Neoplatonismo e un nuovo modo di leggere Platone.

All'inizio del libro, Merlan ha voluto in modo emblematico mettere l'immagine di un volto di filosofo, pervenutoci dimez­zato, congetturalmente attribuibile a Giamblico. In effetti, Giamblico è il punto di partenza e un filo conduttore nella trat­tazione e un continuo punto di riferimento.

Un altro pensatore, come abbiamo già sopra rilevato, cui viene dedicata grande attenzione è Speusippo, che in passato è stato molto trascurato e che Merlan intende rivalutare a fondo. Le pagine che egli scrive su questo filosofo, in effetti, sono mol­to profonde e belle, anche se non del tutto convincenti. Si ha l'impressione, a nostro avviso, che, più di una volta, si abbia a che fare, più che con l'ingegno filosofico dell'autore interpreta­to, con l'ingegno e con l'abilità dell'interprete. Ma in ogni caso, queste pagine di Merlan restano pagine di riferimento.

Le pagine su Aristotele, poi, sono per più di un verso basi­lari. Non solo si impongono quelle dedicate alla tripartizione aristotelica della filosofia, di cui abbiamo già sopra detto, ma anche quelle sul significato dell' «essere in quanto essere». Mer­lan è stato uno dei primi autori che, con efficacia e con profon­dità di analisi, ha mostrato l'insostenibilità della interpretazione della metafisica di Aristotele data da Jaeger, come abbiamo già sopra ricordato.

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Convincente, a nostro avviso, è la dimostrazione che Ari­stotele non ha una metafisica generale, ossia una concezione dell'«essere in quanto essere» quale universale astratto (guada­gnato dalla Scolastica). Inadeguata, invece, è la sua restrizione in senso globale dell' «essere in quanto essere» aristotelico alla sola «sostanza prima» (ossia alla sola realtà teologica). Ma di questo vorremmo parlare in altra occasione, in modo ana­litico 1•

Tutto quello che abbiamo detto dimostra, in ogni caso, in che misura questo sia un libro non comune: acribia filologica, dimensione storica di vasto respiro e adeguato spessore filosofi­co e teoretico sono i suoi caratteri essenziali.

In conclusione, la tesi di fondo del Merlan, ossia che il «Neoplatonismo» è nato in casa di Platone, pur con le modifi­che strutturali cui deve essere sottoposta, come sopra abbiamo indicato, comporta l'acquisizione di una verità ormai incontro­vertibile: il «gap» fra Platonismo e Neoplatonismo, che nel se­colo scorso e nei primi decenni del nostro si è creduto sussistere (e che in certa manualistica o in opere non specializzate ancora si afferma), non è mai esistito. Nella storia del Platonismo si ri­leva una compattezza di tematiche e di problematiche veramente straordinaria, e le «differenze», pur significative e consistenti, si articolano e si sviluppano su un grandioso e significativo sfondo di «identità».

Giovanni Reale

1 Si veda quanto diciamo in: Aristotele, Metafisica. Saggio introduttivo, te­sto greco con traduzione a fronte e commentario a cura di G. Reale, 3 voli., Vita e Pensiero, Milano 1993, in particolare nel volume I, pp. 259 ss., 291 ss. Si veda an­che: G. Reale, // concetto di filosofia prima e l'unità della Metafisica di Aristotele, Milano, Vita e Pensiero, sesta edizione 1994, pp. XXXV-XXXVIII.

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Produzione scientifica di Philip Merlan

Philip Merlan nacque nel 1897 e si formò all'Università di Vienna, presso la quale studiò giurisprudenza e filosofia. Consegui il dottorato in filosofia nel 1924, con perfezionamento e acquisizione del titolo accademico nel 1927.

Nel 1940 si trasferi negli Stati Uniti, e a partire dal 1942 svolse la sua atti­vità di professore allo Scripps College (Claremont, California), nonché alla Claremont Graduate School.

Mori il 23 dicembre 1968. I suoi interessi si sono concentrati non solo sul pensiero antico, ma hanno

spaziato, con notevole ampiezza, anche nel campo della filosofia moderno­contemporanea. I suoi interessi storici sono sorretti da un robusto metodo fi­lologico e sono vivificati da un forte gusto teoretico in generale, cosi come, in particolare, abbiamo mostrato per il libro che presentiamo.

Dal suo maestro Heinrich Gomperz, con cui ebbe rapporti prima come studente all'Università di Vienna e poi in America per molti anni, Merlan dice di aver imparato molto e che questo molto era solo una frazione di quello che Gomperz conosceva. In effetti, H. Gomperz è stato uno dei più grandi eruditi; ma Merlan gli si avvicina, e non di poco, con una cultura di portata internazio­nale assai consistente.

Rispetto al padre Theodor, che fu autore di una famosa ricostruzione del­la storia del pensiero antico della fine dello scorso secolo, dal titolo Pensatori Greci, Heinrich Gomperz seppe essere più oggettivo e più scientifico nei suoi studi (Theodor, che fu un positivista, presentò il pensiero antico fortemente chiuso in quest'ottica, sia pure con acume e intelligenza). E anche Merlan, pur avendo precise convinzioni filosofiche, seppe seguire le linee storicamente più adeguate e più oggettive tracciate da Heinrich.

La produzione non è ricchissima in quantità, ma si impone, in molti sensi, per la qualità. Soprattutto si ammira, in questa produzione, la capacità di Merlan di chiarire punti particolari che in passato rimanevano nell'oscuro e di portare in primo piano tematiche prima considerate secondarie, e che egli mo­stra, invece, essere di primaria importanza per la comprensione della storia del pensiero in generale e in particolare.

L'opera Dal Platonismo al Neoplatonismo che presentiamo è il suo capo­lavoro.

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34 PRODUZIONE SCIENTIFICA DI PHILIP MERLAN

I. Opere pubblicate in volume

1. Platons Form der philosophischen Mitteilung, Lvov 1939 (que­sto opuscolo pubblicato in Polonia prima della· guerra è intro­vabile; opportunamente Merlan lo ha ripubblicato in lingua in­glese con il titolo Form and Content in Plato 's Philosophy nel 1947 nella rivista «Journal of the History of Ideas»; cfr. sotto, II 4).

2. From Platonism to Neoplatonism, The Hague 1953; 1960 2;

1968 3, rist. 1975.

3. Studies in Epicurus and Aristot/e, Wiesbaden 1960.

4. Monopsychism, Mysticism, Metaconsciousness, The Hague 1963; 1969 2•

5. Greek Philosophy /rom Plato to Plotinus in: The Cambridge History of Later Greek and Early Medieval Philosophy, edited by A.H. Armstrong, Cambridge 1967; 1970 2 (pp. 14-132; que­ste pagine di Merlan sono, per molti aspetti, la parte più bella di quest'opera).

Il. Contributi particolari e articoli concernenti il pensiero antico

Nella redazione di questo e dei paragrafi successivi seguiamo l'ordine cronologico degli autori trattati (e non l'ordine cronologico di pubblicazio­ne) come ha fatto Franciszka Merlan (seguendo il criterio con cui il marito aveva impostato la raccolta dei propri scritti) nel volume:

Philip Merlan, Kleine philosophische Schriften, herausgegeben von Franciszka Merlan mit einem Begleitwort von Hans Wagner, Hildesheim -New York 1976.

Daremo la precisa indicazione del luogo originario in cui i vari scritti sono stati pubblicati, seguita in parentesi dall'indicazione del numero di or­dine secondo cui sono stati raccolti delle pagine in cui sono stati riportati in Kleine philosophische Schriften, che abbrevieremo con K.S ..

1. Ambiguity in Heraclitus, in: Actes du Xlème Congrès International de Philosophie, Briisse/ 20 - 26 August 1953, Voi. XII, pp. 56-62 ( = K.S., I, pp. 1-7).

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2. Neues Licht auf Parmenides, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie», 48 (1966), pp. 267-276 ( =K.S., II, pp. 8-17).

3. Voce Minor Socratics, in: Encyclopedia of Morals, ed. by Vergilius Ferm, Philosophical Library, New York, 1956, pp. 333-339 (= K.S., III, pp. 18-24).

4. Form and Content in Plato's Philosophy, «Journal of the History of Ideas», 8 (1947), pp. 406-430 ( = K.S., IV, pp. 26-50).

5. Beitriige zur Geschichte des antiken Platonismus, «Philologus», 89 (1934), pp. 35-53; 197-214 ( = K.S., V, pp. 51-69; 70-87).

6. War Platons Vorlesung "Das Gute" einmalig?, «Hermes», 96 (1969), pp. 705-709 ( = K.S., VI, pp. 88-92).

7. Bemerkungen zum neuen Platonbild, «Archiv fiir Geschichte der Philoso­phie», 51 (1969), pp. 111-126 ( = K.S., VII, pp. 93-108).

8. Das Problem der Erasten, in AA. VV., Horizons of a Philosopher. Fest­schrift fur David Baumgardt, Leiden 1963, pp. 293-314 (= K.S., VIII, pp. 109-126).

9. Zur Biographie des Speusippos, «Philologus», 103 (1959), pp. 198-214 ( = K.S., IX, pp. 127-143).

10. The Successo, of Speusippus, «Transactions of the American Philological Association», 72 (1946), pp. 103-111 ( = K.S., X, pp. 144-152).

11. Alexander the Great or Antiphon the Sophist?, «Classica! Philology», 45 (1950), pp. 161-168 ( = K.S., Xl, pp. 153-160).

12. Unearthing Aristoile, «Claremont Quarterly», 1 (1952), pp. 3-8 ( = K.S., XII, pp. 161-166).

13. /socrates, Aristotle and Alexander the Great, «Historia», 3 (1954), pp. 60-81 (= K.S., XIII, pp. 167-188).

14. Metaphysik: Name und Gegenstand, «The Journal of Hellenic Studies», 77 (1957), pp. 87-92 (= K.S., XIV, pp. 189-194); ristampato anche in AA. VV., Metaphysik und Theologie des Aristoteles, Darmstadt 1969 («Wege der Forschung», 206), pp. 251-266.

15. Aristotle's Unmoved Movers, «Traditio», 4 (1946), pp. 1- 30 ( = K.S., xv, pp. 195-224).

16. ~ov V O'V und 1l(!WTT) ovo{a: Postskript zu einer Besprechung, «Philosophische Rundschau», 7 (1959), pp. 198-214 ( = K.S., XVI, pp. 225-230).

17. Aristotle, Met. A 6, 987 b 20-25 and Plotinus, Enn. V 4, 2, 8-9, «Phronesis», 9 (1964), pp. 45-47 ( = K.S., XVII, pp. 231-233).

18. -rò -r{ 'l}v elvat, «Classica! Philology», 61 (1966), p. 188 ( = K.S., XVIII, p. 234).

19. TO 'AIIOPH.EAI 'APXAIKD.E (Arist. Met. N 2, 1089 a 1), «Philologus», 111 (1967), pp. 119-121 ( = K.S., XIX, pp. 235-237).

20. On the terms "Metaphysics" and "Being-Qua-Being"., «The Monist», 52 (1968), pp. 174-194 ( = K.S., XX, pp. 238-258).

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21. Zwei Bemerkungen zum Aristotelischen Plato, «Rheinisches Museum fiir Philologie», Neue Folge, 111 (1968), pp. 1-15 ( = K.S., XXI, pp. 259-273).

22. Nochmals: War Aristate/es }e Anhiinger der Ideenlehre? Jaegers letztes Wort, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie», 52 (1970), pp. 35-39 ( = K.S., XXII, pp. 274-278).

23. Zum Problem der drei Lebensarten, «Philosophisches Jahrbuch», 74 (1966), pp. 217-219 ( = K.S., XIII, pp. 279-281).

24. Zwei Untersuchungen zu Alexander von Aphrodisias, «Philologus», 113 (1969), pp. 85-91 ( = K.S., XXIV, pp. 282-288).

25. Aristoteles' und Epikurs mu.Pige Gotter, «Zeitschrift fiir philosophische Forschung», 21 (1967), pp. 485-498 ( = K.S., XXV, pp. 289-302).

26. Oberflussige Textiinderungen, «Philologische Wochenschrift», 32 (1936), pp. 909-912 ( = K.S., XXVI, pp. 303-304).

27. Zwei Fragen der Epikureischen Theologie, «Hermes», 68 (1933), pp. 196-217 ( = K.S., XXVII, pp. 305-326).

28. L 'univers discontinu d'Epicure, in: Actes du V/Ile Congrès Guil/aume Budé, Paris 1968, pp. 258-263 ( = K.S., XXVIII, pp. 327-332).

29. Zum Schlu.P von Vergils Vierter Ekloge, «Museum Helveticum», 20 (1963), 21 ( = K.S., XXIX, p. 333).

30. Epicureanism and Horace, «Journal of History of Ideas», 10 (1949), pp. 45-51 ( = K.S., XXX, pp. 334-340).

31. Luèretius - Primitivist or Progressivist?, «Journal of the History of Ideas», 11 (1950), pp. 364-368 ( = K.S., XXXI, pp. 341-345).

32. Die Hermetische Pyramide und Sextus, «Museum Helveticum», 8 (1951), pp. 100-105 (= K.S., XXXII, pp. 346-351).

33. Voce Celsus, in: Reallexikon fur Antike und Christentum, Il, 1955, coli. 954-965 ( = K.S., XXXIII, pp. 352-357).

34. Religion and Philosophy /rom Platos Phaedo to the Chaldaean Orac/es, «Journal of the History of Philosophy», 1 (1963), pp. 163-176; 2 (1964), pp. 15-21 ( = K.S., XXXIV, pp. 358-378).

35. Drei Anmerkungen zu Numenius, «Philologus», 106 (1962), pp. 137-145 ( = K.S., XXXV, pp. 379-387).

36. Plotinus and Magie, «Isis», 44 (1953), pp. 341-348 ( = K.S., XXXVI, pp. 388-395).

37. Plotinus Enneads 2.2., «Transactions of the American Philological Association», 74 (1943), pp. 179-191 ( = K.S., XXXVII, pp. 396-408).

38. Voce Neoplatonism, in: The Concise Encyc/opedia o/ Western Philosophy and Philosophers, New York 1960, coli. 276-279 (= K.S., XXXVIII, pp. 409-411).

39. Ein Simplikios-Zitat bei Pseudo-Alexandros und ein Plotinos-Zitat bei Simplikios, «Rheinisches Museum», 84 (1935), pp. 154-160 (= K.S., XXXIX, pp. 412-418).

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40. Monismus und Dualismus bei einigen Platonikern, in: AA. VV., Parusia. Festgabe fur Johannes Hirschberger, Frankfurt/M. 1965, pp. 143-154 ( = K.S., XL, pp. 419-430).

41. Ammonius Hermiae, Zacharias Scholasticus und Boethius, «Greek, Ro­man and Byzantine Studies», 9 (1968), pp. 193-203 (= K.S., XLI, pp. 431-441).

42. Zur Zahlenlehre im Platonismus (Neup/atonismus) und im Sefer Yezira, «Journal of the History of Philosophy», 3 (1965), pp. 167-181 ( = K.S., XLII, pp. 442-456).

III. Contributi particolari e articoli concernenti il pensiero medievale

I. Aristate/es, Averoes und die beiden Eckharts, in: AA. VV., Autour d'Aristo/e. Recueil d'études de philosophie ancienne et médiévale offert à Monseigneur A. Mansion, Publications Universitaires de Louvain, Louvain 1955, pp. 543-566 ( = K.S., XLIII, pp. 457-480).

2. A veroi!s uber die Unsterblichkeit des Menschengeschlechts, in: AA. VV., L 'Homme et son destin. Actes du Premier Congrès lnternational de Phi/osophieMédiévale, Louvain 1960, pp. 305-311 (= K.S., XLIV, pp. 481-487).

3. Abstraction and Methaphysics in St. Thomas' Summa, «Journal of the History of ldeas», 14 (1953), pp. 284-291 ( = K.S., XLV, pp. 488-495).

4. Hintikka and a Strange Aristotelian Doctrine, «Phronesis», 15 (1970), pp. 93-100 ( = K.S., XLVI, pp. 496-503).

I V. Contributi particolari e articoli concernenti il pensiero moderno e contemporaneo.

I. From Hume to Hamann, «The Personalist», 33 (1951), pp. 11-18 ( = K.S., XXLVII, pp. 506-513).

2. Hamann et /es Dialogues de Hume, «Revue de Méthaphysique et de Morale», 59 (1954), pp. 285-289 ( = K.S., XL VIII, pp. 514-518).

3. Kant, Hamann-Jacobi and Schelling on Hume, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 22 (1967), pp. 481-494 ( = K.S., XLIX, pp. 519-533).

4. Johann Georg Hamann (1730-1788), «Claremont Quarterly», 3 (1955), pp. 153-160 ( = K.S., L, pp. 534-543).

~- Parva Hamanniana (/). J.G. Hamann as a Spokesman of Middle Class,

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«Journal of the History of Ideas», 9 (1948), pp. 330-334 (= K.S., LI, pp. 544-548).

6. Parva Hamanniana (Il). Hamann and Schmohl, «Journal of the History of Ideas», IO (1949), pp. 567-574 ( = K.S., LII, pp. 549-556).

1. Parva Hamanniana (Ili). Hamann and Galiani, «Journal of the History of Ideas», 11 (1950), pp. 486-489 ( = K.S., LIII, pp. 557-560).

8. Natural Law, relevant or irrelevant?, in: Memorias del XIII Congresso ln­ternacional de Filosofia, Voi VII, Mexico 1964, pp. 103-117 (= K.S., LIV, pp. 561-575).

9. Recensione a: F.M. Bernard, Herder's Socia/ and Politica/ Thought, «History and Theory», 8 (1969), pp. 395-404 ( = K.S., LV, pp. 576-585).

IO. Hegel: «Cur deus homo?», in: Sitzungsberichte des 12. Internationalen Philosophiekongresses, voi. 12 (1960), pp. 319-326 (= K.S., LVI, pp. 586-593).

l l. 1st die "These -Antithese - Synthese" - Forme/ unhegelisch?, «Archiv filr Geschichte der Philosophie», 53 (1971), pp. 35-40 (= K.S., LVII, pp. 594-599).

12. Voce Schopenhauer, Arthur, in: Encyclopedia of Morals, New York 1956, pp. 630-636 ( = K.S., LVIII, pp. 600-607).

13. Nietzsche Today, «Claremont Quarterly», 5 (1958), pp. 39-50 (= K.S., LIX, pp. 608-619).

14. Toward the Understanding of Kierkegaard, «The Journal of Religion», 23 (1943), pp. 77-90 ( = K.S., LX, pp. 620-633).

15. A Certain Aspect of Bergson's Philosophy, «Philosophy and Phenomenological Research», 2 (1942), pp. 529-545 (= K.S., LXI, pp. 634-650).

16. Le problème de l'irrationalisme dans /es «Deux Sources» de Bergson, «Revue Philosophique de la France et de l'Etranger», 149 (1959), pp. 305-319 ( = K.S., LXII, pp. 651-665).

17. A Precursor of Tocqueville, «Pacific Historical Review», 24 (1966), pp. 467-468 ( = K.S., LXIII, pp. 666-667).

18. An Idea of Freud's in Plato, «The Personalist», 25 (1944), pp. 54-63 ( = K.S., LXIV, pp. 668-677).

19. Brentano and Freud, «Journal of the History of ldeas», 6 (1945), pp. 375-377 ( = K.S., LXV, pp. 678-680).

20. Brentano and Freud. - A Sequel, «Journal of the History of Ideas», 10 (1949), p. 451 (= K.S., LXVI, p. 681).

21. Time Consciousness in Husserl and Heidegger, «Philosophy and Phenomenological Research», 8 (1947), pp. 23-53 (= K.S., LXVII, pp. 682-712).

22. ldéalisme, Réalisme, Phénoménologie, in: AA. VV., Husserl, «Cahiers de Royaumont. Philosophie», No. III, Paris 1959, pp. 382-410 (= K.S., LXVIII, pp. 713-741).

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23. Metaphysics and Science - Some Remarks, «The Journal of Philosophy», 56 (1959), pp. 612-618 ( = K.S., LXIX, pp. 742-748).

24. Le «grand inquisiteur» réinterprété, «Revue de Métaphysique et de Morale», 60 (1955), pp. 153-160 ( = K.S., LXX, pp. 749-756).

25. Modern Philosophy on Man, «Scripps College Bulletin, Alumnae News Letter», 23 (1948), pp. 1-9 ( = K.S., LXXI, pp. 757-760).

26. The Courage to be perplexed, «Scripps College Boulletin», voi. 29, numero 4, 1955 ( = K.S., LXXII, pp. 762-770).

27. Existentialism - A Third Way, «Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association», 33 (1960), pp. 43-68 ( = K.S., LXXIII, pp. 771-796).

28. Alienation in Marx's Politica/ Economy and Philosophy, in: AA. VV., Phenomenology and Socia/ Reality. Essays in Memory of A/fred Schutz, The Hague 1970, pp. 195-212 ( = K.S., LXXIV, pp. 797-814).

29. Sterben, Sterblichkeit, Unsterblichkeit. Einige Reflexionen, in: AA. VV., Epimeleia. Die Sorge der Philosophie um den Menschen. Helmut Kuhn zum 65. Geburtstag, Miichen 1964, pp. 223-236 (= K.S., LXXV, pp. 815-828).

30. Eschatology, Sacred and Profane, «Journal of the History of Philosophy», 9 (1971), pp. 193-203 ( = K.S., LXXVI, pp. 829-839).

31. Foreword scritto per il volume Philosophical Studies di Heinrich Gomperz, Boston 1953, pp. 7-11 (= K.S., LXXVII, pp. 840-844).

V. Altri lavori

Oltre a questi lavori raccolti nel volume Kleine philosophische Schriften, sono da segnalare alcune «voci» curate da Merlan per Enciclopedie e Lessici.

Per la Encyclopaedia Britannica ha curato le voci: Accademia, Albino, Arcesilao, Carneade, Clitomaco, Diogene Laerzio, Eraclide, Filone, Lacide, parte di Platone, Speusippo, Senocrate.

Per il Lexikon der alten Welt ha curato le voci: Abammone, Albino, Alessandro di Licopoli, Amelio, Ammonio di Ermia, Ammonio Sacca, Asclepio, Attico, Boezio, Calcidio, Calvisio Tauro, Celso, Crantore, Cratete, Damascio, Dercillide, Edesio, Eraclide Pontico, Ermia, Ermodoro, Eudoro, Filippo di Opunte, Gaio, Ierocle, lpazia, Mario Vittorino, Massimo di Tiro, Neoplatonici, Origene Pagano, Plotino, Plutarco di Atene, parte di Plutarco di Cheronea, Polemone, Porfirio, Proclo, Sallustio, Simplicio, Sopatro, Speusippo, Siriano, Teodoro, Vettio Agorio Pretestato, Senocrate.

In Kleine philosophische Schriften non sono stati inclusi, ovviamente, gli articoli di giurisprudenza pubblicati da Merlan fra il 1929 e il 1933, peraltro brevissimi, nonché un paio di sintetici scritti di una o due pagine. Il saggio Death, Dying, J,nmortality, pubblicato in «Pacific Philosophy Forum», 3

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(1964), pp. 3-43, ha il corrispettivo in lingua tedesca Sterben, Sterblichkeit, Unsterblichkeit, pubblicato nel volume in onore di Helmut Kuhn, e riportato in Kleine philosophische Schriften, pp. 829-839. Di fatto, manca solo Two Theological Problems in Aristotle's Met. Lambda 6-9 and De Caelo 9, «Apeiron», 1 (1966), pp. 3-13.

Merlan ha, infine, scritto una novantina di recensioni. In suo onore è stato pubblicato il volume: AA. VV., Philomathes. Studies and Essays in the Humanities in

Memory of Philip Merlan. Edited by R.B. Palmer and R. Hamerton-Kelly, The Hague, 1971.

Per una breve ma succosa presentazione globale del suo pensiero si veda: G. Cambiano, Merlan: filologia e filosofia, «Rivista di Filosofia», 69 (1978), pp. 89-98.

Per la sua esegesi di Aristotele si veda: W. Leszl, Philip Merlan e la metafisica aristotelica, «Rivista critica di storia della filosofia», 25 (1970), pp. 3-24; 227-249.

Per l'indicazione dettagliata delle recensioni fatte da Merlan e, se si vuole, anche dei brevissimi articoli giuridici e delle pochissime e brevissime cose, peraltro di assai scarso significato, non incluse in Kleine Schriften, si veda:

- Bibliography of the Publications of Philip Merlan, 1929-1970, in: AA. VV ., Philomathes, sopra citato, pp. XI-XXII.

(Riproduce, con correzioni e aggiunzioni, una precedente bibliografia pubblicata in «Zeitschrift fiir philosophische Forschung», 22 (1968), pp. 139-145).

G.R.

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Dal Platonismo al Neoplatonismo

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Prefazione alla terza edizione

La prima edizione di questo libro è apparsa nel 1953; la se­conda, rivista ed ampliata, nel 1960. La presente terza edizione è essenzialmente una ristampa della seconda, tranne che per la correzione di alcuni errori di stampa e per l'aggiunta di alcune note che si riferiscono ad alcune recenti pubblicazioni 1, e per aver sostituito la breve prefazione alla seconda edizione.

Né Eudemo, né Teofrasto, così dicevo (pp. 208 ss.), sono stati a conoscenza di una branca della filosofia teoretica, il cui oggetto fosse qualcosa definito «essere in quanto essere», òv TI ov, e che fosse distinta dalla teologia. E non c'è nessun indizio che provi che essi abbiano trovato una tale branca (corrispon­dente a ciò che successivamente è stata definita metaphysica ge­neralis) in Aristotele.

Ai nomi di Eudemo e di Teofrasto possiamo ora aggiungere quello di Nicola di Damasco. Nel 1965, H. J. Drossaart Lulofs ha pubblicato, insieme ad una traduzione inglese, i frammenti del 1ttpl 'tTjç 'ApLcrtO'ttÀouç cpLÀoaocp((Xç di Nicola di Damasco con­servatici in Siriano (Nicolaus Damascenus On the Philosophy o/ Aristotle, Leiden, Brill). In questi frammenti, troviamo una competente esposizione, in forma sistematica, della filosofia teoretica di Aristotele. Nicola suddivide la filosofia teoretica di Aristotele in teologia, fisica e matematica e sembra del tutto ignaro di una ulteriore branca della filosofia, l'oggetto della quale sia !'«essere in quanto essere», l'òv ti ov, distinta dalla teo-

1 Alcune tesi del presente libro si riferiscono, talvolta in modo critico, più spesso con approvazione, alla attuale reinterpretazione di Platone, i cui iniziatori sono H. J. Kriimer (Arete bei Platon und Aristoteles, Heidelberg 1959; Der Ur­sprung der Geistmetaphysik, Amsterdam 1964) e K. Gaiser (Platons ungeschriebe­ne Lehre, Stuttgart 1963). Qui sia sufficiente questa breve nota.

Parte della mia risposta alla recensione di Strycker alla prima edizione del mio libro (si veda sotto, pp. 150-152), è ora superata, dal momento che, nella sua recen­sione alla seconda edizione del mio libro («L' Antiquité Classique», 33 [1964), pp. 166 s.), Strycker ha modificato una delle sue critiche.

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44 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

logia e dal suo oggetto (il divino). Drossaart Lulofs è disorienta­to di fronte a questo fatto, come, difatti, dovrebbe esserlo chiunque attribuisca ad Aristotele una distinzione fra la teologia (o quella che successivamente è stata definita metaphysica spe­cialis) ed una scienza dell'«essere in quanto essere» (òv ti ov). Per risolvere il problema, Drossaart Lulof s si avvale di una teoria di Aubenque 2• Secondo Aubenque, quando Aristotele ha intro­dotto la scienza dell'«essere in quanto essere» (òv ti ov), ha ap­portato un contributo del tutto originale alla filosofia, una scienza sans ancetres et sans tradition. Ma, proprio per questo motivo, egli è stato frainteso dai suoi successori. Essi (in parti­colar modo l'autore del libro K della Metafisica di Aristotele che Aubenque considera spurio) hanno dato alla scienza dell'essere in quanto essere il nome di metafisica; un nome che designava allo stesso tempo la teologia. Essi non hanno compreso la radi­cale differenza fra le due.

Mi sembra che le possibilità di comprendere Aristotele me­glio di quanto lo abbiano compreso i suoi diretti allievi e, come ora vediamo, anche Nicola di Damasco, che deve aver avuto ac­cesso alle opere di Aristotele che noi non possediamo più, siano piuttosto scarse.

La tradizionale interpretazione di Aristotele con la dicoto­mia di teologia e scienza dell'essere in quanto essere è stata re­centemente sostenuta da Diiring 3• Egli si oppone in special mo­do alla mia interpretazione del libro E 1, 1026 a 27-32 della Me­tafisica di Aristotele, dove io erroneamente, dice Diiring, ho ri­tenuto che Aristotele sostenga che l'oggetto della «filosofia pri­ma» sia la «sostanza prima» (1tpW'tTJ oùa(cx).

Ma ritengo che un semplice confronto sinottico dei due pas­si chiave giustifichi la mia interpretazione.

2 P. Aubenque, Le problèmede l'etre chezAristote, Paris 1962. 3 I. Diiring, Aristate/es, Heidelberg 1966, passim, spec. pp. 598 ss. During è

dell'opinione che le due definizioni della Filosofia prima presenti in Aristotele (os­sia, come teologia e come scienza dell'essere-in quanto-essere) siano incompatibili. Questa è la posizione «classica» di Jaeger.

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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

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Ed ecco la traduzione: «D'altra parte poiché c'è qualcuno che è ancora al di sopra del fisico (infatti la na­tura è solamente un genere dell'essere), ebbene, a costui che studia l'universale e la so­stanza prima, competerà an­che lo studio degli assiomi. La fisica è, si, una sapienza, ma non è la prima sapienza».

El, 1026a27-32 tl fL&\I OU\I fLT) tatL -.Li; htpOt oùo-(0t 1t0tpÒt -.Òti; cpuo-u au11t­atTJXU(0ti;, ~ Cj)UO'LXT) &11 tLTJ 71:pW"CTj é1tLO""CTjµTj; tL 8'tatL -.Li; OUO'LOt CXXL\ITj"COt;, OtU"CTJ ( scii. cpLÀoo-ocp(0t 1ttpl oùo-(0t11 &;x(117J-.011, 1tpodpa11 'ti'ji; cpu­O"Lxiji; oùo-(0ti;) 1tpo-.lpa x0tl fL· Àoao19l0t 1tpW"CT}, x0tl x0t96-Ào1j o{hwi; o-.L npW"CTj. XOtL 1ttpl -.ou 011-.oi; ti 011 't0tu"CT}i; &11 tLTJ 9ewpija0tL xat 't( tatL x0tl 'tÒt U1t~p):Oll't0t 'O 011. Ed ecco la traduzione: «Orbene, se non esistesse un'altra sostanza oltre quelle che costituiscono la natura, la fisica sarebbe la scienza pri­ma; se, invece, esiste una so­stanza immobile, la scienza di questa sarà anteriore < alle altre scienze> e sarà filosofia prima, e, in questo modo, cioè in quanto è prima, essa sarà universale,· e ad essa spetterà il compito di studiare l'essere in quanto essere, cioè che cosa l'essere sia e quali gli attributi che, in quanto esse­re, gli appartengono».

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Nonostante le differenze letterali, i due passi esprimono un'unica e medesima idea: non si può attribuire alla fisica il ruo­lo di filosofia prima, in quanto esiste una sostanza (oùafot) che è al di sopra della sostanza (oùafot) della fisica, e questa superiore sostanza (oùa(ot) può essere anche designata come sostanza pri­ma, 1tpwni oùa(ot. La branca della conoscenza che ha come og­getto la 1tpw-r71 oùa(ot, la sostanza prima, può essere definita, per questa ragione, filosofia prima. Colui che studia la sostanza pri­ma avrà com~ oggetto !'«universale», e la filosofia prima può essere designata, proprio in quanto prima, come «universale». A questa filosofia prima spetta il compito di studiare l'essere in

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quanto essere, ov ti ov. Questi due passi, una volta confrontati sinotticamente, non lasciano nessuno spazio per due filosofie prime o per una filosofia prima con due diversi oggetti 4•

4 Nel suo Aristotle's Protrepticus (1961), spec. pp. 123; 158; 209, Diiring muove delle obiezioni anche alla mia affermazione (si veda sotto, p. 223) che il ca­pitolo XXIII del De communi mathematica scientia di Giamblico è costituito essen­zialmente di citazioni tratte dal Protreptico di Aristotele. Sfortunatamente, Diiring si esprime in modo molto succinto ed alquanto dogmatico (il linguaggio del capito­lo, dice Diiring, è ciarliero ed ampolloso, e molte delle idee in esso espresse sono non-Aristoteliche), così che per me risulta molto difficile rispondere. Ma mi sem­bra che molte di queste obiezioni siano state già precedentemente avanzate da A. J. Festugière, Un fragment nouveau du Protreptique d'Aristote, «Revue philosophi­que», 81 (1956), pp. 117-127, un articolo che non viene mai citato da Diiring. D'al­tra parte, Diiring è disposto ad ammettere che la p. 72, 1-6 Festa possa essere stata scritta da Aristotele; che in essa «si riflettano» alcune idee aristoteliche, e che Giamblico abbia ampliato queste idee. ·

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Introduzione

1. La tendenza a colmare lo iato che separa il Platonismo dal Neoplatonismo

In che misura sono vicini Platonismo e Neoplatonismo? In certe epoche questi due tipi di filosofia sono stati considerati

1 Caratteristiche di ciò che viene definito Neoplatonismo sembrano essere le seguenti tesi.

a) Una pluralità di sfere dell'essere strettamente subordinate le une alle altre, così che abbiamo una serie di termini particolari che descrivono i gradi superiori ed inferiori dell'essere; l'ultima e meno reale sfera dell'essere comprende ciò che co­munemente viene definito l'essere percettibile, ossia l'essere che esiste nello spazio e nel tempo.

b) La derivazione di ogni sfera inferiore dell'essere da quella immediatamente superiore; questa derivazione non è un processo che avviene nello spazio e nel tem­po, e dunque è paragonabile ad una implicazione mentale (logica) piuttosto che ad una relazione causale (spazio-temporale); pertanto, la «causalità» di tutte le sfere dell'essere in rapporto l'una all'altra non è del tipo della causalità efficiente.

c) La derivazione della suprema sfera dell'essere da un principio che, in quan­to è la causa di ogni essere, non può essere descritto esso stesso come essere; un tale principio è al di sopra dell'essere ed è, pertanto, totalmente indeterminato; questo essere indeterminato non è la indeterminatezza di un concetto universalissimo, ma è una indeterminatezza ontica, ossia un tale principio è «essere» nel senso più pie­no, proprio in quanto non è limitato ad essere questo o quello.

d) La descrizione di questa indeterminatezza ontica viene anche compiuta di­cendo che questo principio supremo è Uno; questa unità esprime non solo la sua unicità, ma anche la sua totale semplicità, ossia l'assenza di qualsiasi determinazio­ne; il termine «Uno» designa non solo una qualche specie di descrizione aggettiva­le, ma è, piuttosto, l'espressione relativamente positiva del fatto che il supremo principio dell'essere non è né questo, né quello.

e) La crescente molteplicità in ogni successiva sfera dell'essere; la maggiore molteplicità designa non solo il maggior numero di enti presenti in ogni successiva sfera dell'essere, ma anche la crescente determinazione (limitazione) di ogni entità, finché giungiamo alla determinazione spazio-temporale e pertanto al minimum di unità.

t) La conoscenza appropriata al principio supremo come radicalmente diffe­rente dalla conoscenza di qualsiasi altro oggetto; la prima, infatti, a motivo del ca­rattere strettamente indeterminato del principio supremo, non può essere una co­noscenza di tipo predicativo, che è il tipo di conoscenza appropriato agli esseri che mostrano una qualche determinazione.

E la difficoltà più fondamentale e caratteristica di ciò che viene definito Neo­platonismo è la spiegazione e la giustificazione del perché e del come avvenga il pas-

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virtualmente identici. Il secolo diciannovesimo ha visto; invece, prevalere un punto di vista del tutto opposto. La pretesa di Plo­tino di non essere altro che un interprete di Platone fu respinta, e fu accentuata la completa differenza tra i due sistemi. Ma gli ultimi decenni hanno già visto un nuovo cambiamento di pro­spettiva, caratterizzato da quattro fattori principali.

In primo luogo, noi tendiamo a concentrare l'attenzione su quello che Aristotele ha presentato e criticato come sistema filo­sofico di Platone. Questo porta a tre problemi principali: 1) ac­certare con precisione il significato di tale esposizione di Plato­ne; 2) determinare le fonti da cui Aristotele ha derivato la sua conoscenza del sistema platonico; 3) valutare la correttezza e l'e­quità dell'esposizione e della critica aristotelica. Solo il primo di questi tre problemi è rilevante per la presente indagine, in quan­to, quali che siano le fonti e quale che sia la correttezza o impar­zialità di Aristotele, il sistema di Platone, come viene da lui esposto, mostra inequivocabilmente delle somiglianze con un si­stema neoplatonico.

In secondo luogo, noi preferiamo confrontare il Neoplato­nismo con i sistemi della prima generazione di allievi di Platone, come Senocrate, Speusippo, Eraclide, Ermodoro, piuttosto che con Platone stesso. Di nuovo, il pensiero di questi membri del-1' Antica Accademia presenta molte somiglianze con le dottrine neoplatoniche. Molti studiosi, per descrivere queste somiglian­ze, parlano di un «Pitagorismo» dell'Antica Accademia (o per­fino dell'ultimo Platone), ammettendo, allo stesso tempo, che quello che viene chiamato Neopitagorismo sia senz'altro un pre­corrimento del Neoplatonismo. E anche l'intonazione specifica­mente magico-religiosa del Neoplatonismo sembra esser nata nell'Antica Accademia, compresa la demonologia e l'interesse per i fenomeni occulti.

In terzo luogo, lo studio di alcuni scrittori minori, come Agatarchide, Moderato, Eudoro, rivela la presenza nelle loro dottrine di alcuni elementi che anticipano il Neoplatonismo. Ma nessuno di questi scrittori sembra originale; al contrario, essi sembrano trasmettere idee che potrebbero derivare dall'Antica

saggio dall'Uno al molteplice, con il principio materiale che svolge un ruolo impor­tante in questo processo.

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Accademia. Anche per questi si usa il termine Neopitagorismo: e di nuovo dobbiamo ricordare che il Neopitagorismo poteva es­sere il Pitagorismo assimilato dall'Antica Accademia. In ag­giunta a questi scrittori minori, si può considerarne uno molto maggiore, Posidonio, come legame tra l'Antica Accademia e il Neoplatonimo. Alcuni negherebbero che egli, in un certo senso, abbia preparato la via al Neoplatonismo; tuttavia, il fatto che Posidonio abbia commentato il Timeo di Platone dimostra che egli stesso era ispirato dall'Antica Accademia.

In quarto luogo, Plotino, una volta considerato il fondato­re del Neoplatonismo, è ora visto come il suo maggiore esponen­te, importante, ma non l'unico importante nella storia del Neo­platonismo. Il terreno in cui è cresciuto, da alcuni chiamato pre­Neoplatonismo, da altri Medioplatonismo, presenta caratteristi­che che sono, precisamente, intermedie tra l'Accademia e il Neoplatonismo. Molti Neoplatonici, o contemporanei di Ploti­no, o appartenenti a un periodo successivo, non sono propria­mente plotiniani. Questo vale in particolare per Giamblico, o al­meno per certi suoi scritti. E non sorprenderebbe se si scoprisse che il legame di questi Neoplatonici non plotiniani con l'Antica Accademia risulti più evidente che non quello tra Plotino e Pla­tone. A questi quattro fattori, che principalmente caratterizza­no gli studi più recenti, ne dovremmo aggiungere un altro. Di tutti i dialoghi platonici nessuno più del Parmenide ha sempre costituito un ostacolo insormontabile a tutti i tentativi di negare l'essenziale somiglianza tra Platonismo e Neoplatonismo. L'in­terpretazione «neoplatonica» di quel dialogo ha sempre da capo trovato i suoi sostenitori, anche se questi tentativi sono stati guardati con sospetto.

In breve, la tendenza attuale è rivolta a colmare piuttosto che ad ampliare lo iato che separa il Platonismo dal Neopla­tonismo.

2. Scopo e metodo del presente libro

Questo libro intende offrire un contributo a questa tenden­za rafforzando alcuni dei fattori sopra indicati. Si presterà po­chissima attenzione al problema della equità o della correttezza di Aristotele nel presentare il sistema di Platone, o al problema

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delle fonti da cui Aristotele ha attinto; e la conoscenza di questa presentazione, nei suoi caratteri principali e più fortemente con­troversi, verrà data per scontata 2• Si dedicherà molto più spazio a Speusippo ed a Giamblico che a Platone ed a Plotino, e si spie­gherà l'interpretazione di Platone data da Posidonio come una mediazione fra l'Accademia ed il Neoplatonismo. Ma si aggiun­gerà anche un altro fattore a quelli sopra menzionati. Lo si farà stabilendo il carattere neoplatonico di alcune dottrine fonda­mentali di Aristotele.

In ciò non dovrebbe esserci niente di particolarmente sor­prendente. La presenza di elementi strettamente platonici in al­cuni scritti di Aristotele è stata dimostrata al di là di ogni ragio­nevole dubbio da studi recenti, qualunque sia la spiegazione che viene data di questa presenza. Ora, se è vero che la filosofia di Platone, come viene presentata da Aristotele, è simile al Neopla­tonismo, dovrebbe essere del tutto naturale supporre che il Pla­tonismo di Aristotele sia nello stesso tempo un Neoplatonismo. Si può credere che la presentazione che Aristotele fa di Platone sia corretta o erronea; si può ritenere che le sue fonti siano o esclusivamente le opere scritte di Platone, o esclusivamente le sue dottrine orali, o una combinazione di entrambe. Qualunque ipotesi accettiamo, se Aristotele è stato un Platonico, è inverosi­mile che egli non abbia mai sostenuto alcune delle dottrine «neoplatoniche» che egli ha attribuito a Platone. L'idea di un Aristotele platonizzante implica quella di un Aristotele neopla­tonizzante, se lo stesso Platone, così come Aristotele lo ha com­preso - o frainteso - è stato un Platone neoplatonizzante.

Non c'è niente di nuovo neppure per quanto concerne l'i­dea di un Aristotele neoplatonizzante. I commentatori arabi lo hanno interpretato in questo senso. Nella misura in cui la loro

2 I caratteri principali del sistema di Platone, così come viene presentato da Aristotele, sono i seguenti: la derivazione della suprema sfera dell'essere, ossia del­le Idee, da due principi, per lo più definiti da Aristotele l'Uno e la diade indetermi­nata; l'esistenza di un'altra sfera dell'essere, ossia gli enti matematici, che occupa una posizione intermedia fra le Idee e la terza ed ultima sfera dell'essere, ossia i cor­pi sensibili; questi due principi corrispondono, in qualche modo, ai concetti di for­ma e di materia ed anche ai principi del bene e del male; inoltre, essendo, in qualche modo, principi (cause) delle Idee sono, nello stesso tempo, principi (cause) di tutto ciò che esiste. La vessata questione concernente il rapporto fra i numeri ideali e le Idee, e lo stesso problema del concetto di numeri ideali (o, forse, piuttosto di enti matematici ideali) non rientrerà nello scopo del presente libro.

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interpretazione era fondata su scritti neoplatonici erroneamente attribuiti ad Aristotele, quali la Theologia Aristotelica o il Liber de causis, essi sono caduti in errore. Ma non è irragionevole rite­nere che la loro interpretazione non si sia fondata unicamente su questo errore. Senza esaminare esplicitamente il rapporto fra la presente interpretazione di Aristotele e quella dei commentatori Arabi, il presente libro riapre la questione di un Aristoteles Arabus.

3. L'importanza di Giamblico

Gran parte del materiale di questo libro è ben nota, ma non tutto. Ciò è dovuto principalmente al fatto che si è utilizzata un'opera alla quale non è stata sempre prestata una completa at­tenzione da parte degli studiosi di filosofia greca. Si tratta della piccola opera di Giamblico, De communi mathematica scientia. Essa'costituisce una parte della sua più vasta opera sul Pitagori­smo, della quale sono state conservate alcune parti (De vita Py­thagorica, Protrepticus, In Nichomachi arithmeticam introduc­tionem, Theologoumena arithmeticae), mentre altre sono anda­te perdute. La più ovvia giustificazione dell'interesse che nel presente libro viene prestato a questa opera di Giamblico consi­ste proprio nel fatto che essa è stata trascurata, in forte contra­sto, per esempio, con il suo De vita Pythagorica, sul quale esiste un'ampia letteratura. Ma i risultati sembrano giustificare anco­ra di più l'interesse prestato a questa opera. Fra le sue fonti tro­veremo Aristotele, rappresentato da un nuovo frammento, Po­sidonio, e, la cosa più gratificante, Speusippo. Quest'ultima scoperta renderà possibile una rivalutazione del suo sistema.

Nello stesso tempo, questa opera di Giamblico ci offrirà una nuova prospettiva nella quale comprendere due antichi pro­blemi, quello della classificazione della scienza e quello dell'idea del quadrivium.

Infine, il trattato di Giamblico ci ricorderà dell'importanza di un modo di pensare che è stato spesso designato come realismo esagerato o realismo concettuale 3, e ci permetterà di scopri-

3 [Nota sul realismo esagerato] li realismo esagerato, o per usare un termine di N. Hartmann, l'Universalienrealismus, non è un termine molto di moda fra gli storici contemporanei della filosofia. I realisti moderati ed anche i nominalisti, gli

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re alcuni dei suoi orientamenti maggiormente dimenticati, che collegano l'antichità classica al Medioevo e ai tempi moderni 4•

empiristi di tutte le denominazioni, vedono nel realismo esagerato nient'altro che una errata ipostatizzazione di concetti. E la maggior parte degli storici della filosofia sono concordi su questo fatto. Ricordiamo ancora le controversie riguardanti Platone. I fi­lologi avevano delle difficoltà a difendere la loro interpretazione di Platone come rea­lista esagerato (nella sua teoria delle Idee) contro gli attacchi dei filosofi che sentivano di dover «salvare» Platone dalla «accusa» di realismo concettuale. Il fatto era sempli­cemente che un grande filosofo non poteva aver professato una teoria così evidente­mente errata. I filologi, in genere, si sono limitati a dimostrare ancora una volta che il principio dajJ nicht sein kann was nicht sein dar/ è un 'indicazione povera, anche quan­do si interpreta Platone. Ma, d'altra parte, non c'era nessun particolare interesse a di­mostrare che il realismo esagerato è una buona dottrina filosofica.

Questo libro è stato composto con un atteggiamento di totale simpatia, anche senza una totale approvazione, nei confronti del realismo esagerato. Per spiegare questa simpatia, si potrebbe avanzare la seguente tesi. La sola relazione che può es­sere compresa è la relazione di implicazione e di esplicazione (nel senso in cui Nico­la di Cusa ha usato quest'ultimo termine). Una spiegazione di tipo causale, ossia un'azione di una cosa su un'altra nello spazio e nel tempo, non è àffatto una spie­gazione, ma al massimo un tentativo di spiegazione. Sostituire poi, alla maniera neopositivistica, la spiegazione causale con la descrizione significa semplicemente abbandonare anche un tale tentativo. Se ci sono delle cose «nella realtà» che non possono essere spiegate mediante implicazione ed esplicazione (mediante deduzio­ne o derivazione «logica», Ableitung), o se la realtà nella sua totalità non può esse­re spiegata mediante implicazione ed esplicazione, allora esse non possono essere affatto comprese. Il realismo esagerato piuttosto che essere caratterizzato dal fatto che ipostatizza i concetti, dovrebbe essere indicato come la dottrina che ammette che solo «il razionale» (mente, spirito) è reale. Il comprendere (la conoscenza) non è la sola forma di attività mentale dell'uomo fornita di significato. Noi possiamo anche godere di qualcosa da un punto di vista estetico; possiamo entrare in empatia con un animale o con un nostro simile; ogni stato d'animo è una qualche specie di attività mentale. Ma nessuna di queste attività appartiene allo stesso ordine del comprendere; sono atteggiamenti, reazioni, modi di essere. Tutte le filosofie che insistono sul carattere non-intelligibile dell'essere si risolvono nel non essere delle spiegazioni della realtà, ma appelli ad un certo modo di essere. Ma forse potrebbe non essere vero che il compito esclusivo della filosofia sia quello di lanciare appelli. Il realismo esagerato è proprio questo: insistere sul fatto che la filosofia non do­vrebbe essere né un appello, né dovrebbe abdicare alle scienze positive i suoi diritti a comprendere la realtà; insistere sul fatto che è compito della filosofia comprende­re e che solo ciò che può essere spiegato in termini di implicazione ed esplicazione «logica» è autenticamente compreso.

Naturalmente, quando parliamo di implicazione e di esplicazione, o derivazio­ne, logica, non intendiamo necessariamente ed esclusivamente la logica sillogistica tradizionale (ed ancor meno la logica formale moderna). La logica di Hegel è l'e­sempio più evidente di una logica non-tradizionale, non-formale. Un altro esempio sembra essere quello del metodo della diairesis della Accademia. In generale, ogni filosofia che ammetta che la realtà può essere compresa, ammetterà anche che la struttura della realtà è intelligibile, e che le sue parti possiedono una qualche specie di coerenza razionale; e qualsiasi logica si usi, la sua validità è ultimamente giustifi­cata dal fatto che essa mostra questa coerenza.

4 Dobbiamo dedicare una parola al fatto che nel presente libro ci si riferisce talvolta alla moderna filosofia ed alla moderna filosofia della scienza. Molti storici

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della filosofia ritengono che ciò non sia corretto, in quanto possono venire intro­dotte idee che, da un punto di vista storico, sono estranee al tema trattato. Si deve pertanto sottolineare che tali riferimenti servono, in questo libro, solo per uno scopo, ossia impedire che il senso comune si opponga ad una interpretazione a motivo del fatto che essa farebbe sostenere ad un autore un'opinione che contrad­dice il senso comune stesso. Il tentativo di impedire ciò si fonda sulla convinzione che molto di quanto viene ammesso dal senso comune è semplicemente il residuum di alcune teorie filosofiche o scientifiche che attualmente sono obsolete, o se non obsolete non più incontestabili. Pertanto, il riferimento a teorie filosofiche o scien­tifiche moderne è il ricorso ad una teoria consapevole della propria natura come al­ternativa ad un'altra teoria, che, travestendosi da senso comune, è divenuta incon­sapevole della propria natura. In un certo senso, ogni nostra comprensione è limi­tata da alcuni presupposti inconsapevoli per quanto riguarda la possibilità che un autore - qualsiasi autore - abbia detto o pensato una certa tesi; ossia, da alcuni presupposti inconsapevoli secondo i quali nessuno avrebbe potuto pensare questa o quella tesi. Sono tali ipotesi che hanno reso più di una volta impossibile compren­dere ciò che un autore ha realmente detto. Alcuni di questi presupposti possono es­sere portati alla luce e pertanto privati della loro efficacia confrontandoli con alcu­ne teorie attuali che sono incompatibili con essi (sebbene queste teorie, a loro vòlta, possono condurre ad un'altra serie di presupposti impossibili). In altri termini, questi riferimenti non servono per interpretare la filosofia greca in un modo positi­vo. Essi, piuttosto, in una forma puramente negativa, cercano di prevenire l'esclu­sione di certe interpretazioni a motivo della loro supposta impossibilità o improba­bilità. Nessuna conseguenza è valida ab posse ad esse; ma l'implicita o esplicita ne­gazione di un certo posse spesso ostruisce la via per una percezione di un esse. La riaffermazione di un tale posse spesso libera la via. Il procedimento corretto sem­bra essere il seguente: ab posse ad posse videre a/iquid esse.

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Prima Appendice all'Introduzione

1. È stato merito di Jaeger di aver stabilito il carattere platonico di al­cuni scritti perduti di Aristotele; questo Platonismo include anche la dot­trina delle Idee. Tuttavia, l'affermazione che Aristotele, per un certo pe­riodo, ha sostenuto proprio quella dottrina di cui ha fatto uno dei bersagli principali della sua critica sembra che stia per diventare un punto alquanto controverso.

In particolar modo, è Dilring 5 che nega che Aristotele abbia talora sostenuto la teoria delle Idee. Ora, in Proclo c'è un particolare passo (fr. 41 Rose) che Jaeger ha considerato come una chiara prova della sua tesi, mentre Dilring ne nega la conclusività. Il passo è il seguente:

Atyu oÈ x0tt o 00t1µ.6v1oc; 'Apta-tO'tÉÀT}c; 0tM0tv 01' ~v lxtTiltv µ.Èv loua0t ~ ~UXTl otupo lmÀ0tv8&vt't0tL

'tWV lxtT 8t0tµ.ix'twv lvuu8tv oÈ l~10ua0t µ.tµ.vT}'tlXL ÈxtT

'tWV &V'totU80t 1tot87Jµ.1X'tWV.

Ed ecco la traduzione: «Parla altresì il divino Aristotele della causa, per la quale l'ani­ma dall'aldilà venendo in questo mondo, dimentica le visioni che ha contemplato nell'aldilà mentre poi, andando via da que­sto mondo, ricorda nell'aldilà le esperienze e le passioni provate in questo mondo».

La ragione addotta da Aristotele viene spiegata con una analogia: chi cade ammalato spesso dimentica anche le conoscenze più elementari che ha acquisito.

Prima facie, i 8t1Xµ.0t'tot sembra che non possano essere nient'altro che le Idee, che l'anima ha visto prima di cadere ammalata, ossia prima di en­trare in un corpo. Ciò dimostrerebbe chiaramente che Aristotele in un cer-

5 I. Diiring, Aristot/e and Plato in the mid-Fourth Century, «Eranos», 54 (1956), pp. 109-120. Diiring, pertanto, ritiene molto probabile che Aristotele, il personaggio presente nel Parmenide di Platone, si identifichi con l'Aristotele stori­co. Per quanto concerne le ulteriori allusioni ad Aristotele contenute negli scritti di Platone, si veda soprattutto E. Salin, Platon Dion Aristate/es, in: AA. VV., Robert Boehringer. Eine Freundesgabe (1957), pp. 525-542.

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PRIMA APPENDICE ALL'INTRODUZIONE 55

to periodo di tempo ha accettato la dottrina della anamnesi con il suo co­rollario, la dottrina delle Idee.

Le cose non stanno in questo modo, controbatte Diiring. Il concetto di 8t&µ.o:'to: appartiene a Proclo, non ad Aristotele.

Questa sembra un'affermazione piuttosto dogmatica. È poco proba­bile che Proclo abbia detto: noi dimentichiamo le Idee che abbiamo visto prima della nostra nascita, e la spiegazione viene data dal fatto menziona­to da Aristotele [sci/.: in un differente contesto], ossia che le persone che cadono ammalate dimenticano ciò che hanno imparato. Questo ci permet­terebbe solamente di supporre quale sia stato il contesto nel quale Aristo­tele ha avanzato la sua osservazione. Ma noi sappiamo, al di là di ogni ra­gionevole dubbio, che nell' Eudemo Aristotele parlava di visioni, simili a quelle dell'Er di Platone e che descriveva esplicitamente la morte come il ritorno dell'anima alla sua dimora. Ciò parla fortemente a favore dell'in­terpretazione di Jaeger.

Ed ora possiamo disporre di un'ulteriore prova: un passo di al-Kindi, riscoperto da Walzer 6, ed ora facilmente accessibile nella traduzione in­glese di Ross 7• Secondo al-Kindi, Aristotele una volta narrò la storia di un re greco la cui anima era stata rapita in estasi, così che egli rimase per mol­ti giorni in uno stato quasi di trance. Quando ritornò in se stesso, raccontò ciò che aveva visto nell'aldilà, ossia anime.forme, ed angeli.

Se la fonte di al-Kindi è stato in definitiva uno scritto autentico di Aristotele, il problema se Aristotele abbia mai sostenuto la teoria delle Idee sarebbe risolto. Ora, è proprio questo che è stato negato da Bidez. In­fatti, continuando con la sua storia, al-Kindi ci dice che il re raccontò a tutti di aver appreso quanto a lungo ciascuno sarebbe vissuto, e la sua pre­dizione si rivelò vera. Questo, afferma Bidez, è chiaramente un esempio dell'arte di trarre gli oroscopi. E con ciò Aristotele certamente non ha niente a che fare. Pertanto, l'intero frammento è poco attendibile 8•

Ma, quando scriveva queste parole, Bidez deve aver certamente di­menticato che nell'Eudemo Aristotele fa predire al suo eroe la morte (vio­lenta) del tiranno della Tessaglia, Alessandro (una predizione che si rivelò vera, stabilendo pertanto la veracità di Eudemo anche per quanto concer­ne il resto della sua visione). Difatti, è difficile immaginare che da un rac­conto sulle visioni avute in uno stato di trance fosse assente questa o un ti­po simile di verifica.

Diiring non menziona neanche il frammento di al-Kindi. Sarebbe in­teressante conoscere la sua opinione su questo frammento.

6 R. Walzer, Un frammento nuovo di Aristotele, «Studi italiani di Filologia classica», 14 (1937), pp. 125-137; G. Furlani, «Rivista trimestrale di studi filologici e religiosi», 3 (1922), pp. 50-63.

7 Aristotle, Se/ect Fragments, tr. by W. D. Ross, Oxford 1952 (The Works o/ Aristotle translated into English under the editorship of Sir David Ross, voi. XII), p. 23, n. 11.

8 J. Bidez, Les mages hellénisés (1938), voi. I, p. 247.

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56 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

2. Il problema della demonologia in Aristotele e, pertanto, nell' Ac­cademia, appare in una nuova luce nell'articolo di W. Lameere, Au temps où F. Cumont s'interrogait sur Aristote, «L'Antiquité Classique», 18 (1949), pp. 279-324. C'è realmente qualche motivo per non tradurre le pa­role cpuaLç OOUfJ.OV(ot cxÀÀ' oùx 9ti:'ot (De div. per somnum, 2, 463 b 12-15) semplicemente in questo modo: «sebbene la natura non sia piena di dèi [sci/.: come ha sostenuto Talete e come a suo modo sostiene anche Platone quando afferma che tutto è pieno di anime, ossia di dèi: Leggi, X 899 B], è tuttavia piena di spiriti» [pace P. Boyancé]?. E non dovremmo considera­re in modo un po' più letterale il Simposio quando afferma l'esistenza di demoni intermedi fra gli dèi e gli uomini, dai quali dipende l'efficacia della «mantica, e l'arte sacerdotale concernente i sacrifici, le iniziazioni e gli in­cantesimi e ogni specie di divinazione e di magia» (fJ.otV'tLXTj, -cwv ltplwv dx1111, -clx1111 1ttpi -cttç 9uaCotç nÀt-c&ç Émi>o&ç, fJ.otv-ctCot, "'(116Tj-ctLot, 202 D) e giunge fino a dire: «E chi è sapiente in queste cose è un uomo demonico, mentre chi lo è in qualche altro campo ... , è un banauso» (ò iJ.ÈV 1ttpi -cotii-cot aocpòç ÒotLfJ.6vtoç &VTjp, ò ÒÈ ÒtÀÀo 'tL aocpòç wv ... ~ixvotuaoç, 203 A)? Un Neoplatonico potrebbe forse usare un linguaggio più forte? O dobbiamo forse dire che Diotima, che viene allontanata due volte da Platone, non può esser considerata come portavoce delle sue opinioni?

3. Per quanto concerne l'anticipazione in Plutarco della dottrina del­l'Uno come al di sopra dell'essere, si veda H. Dorrie, Zum Ursprung der neup/atonischen Hypostasenlehre, «Hermes», 82 (1954), pp. 331-342, spec.pp.332;339;342.

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Seconda Appendice all'Introduzione

La tesi che sostiene l'esistenza di una differenza fondamentale fra Platonismo e Neoplatonismo è stata esposta con particolare concisione da E. Zeller, Die Philosophie der Griechen, voi. IIl/2, 1923 ', pp. 475-480; 496 s. Più di recente, E. Hoffmann ne è sato l'eloquente difensore. Il ten­tativo più recente per sostenere la differenza fra Platonismo e Neoplatoni­smo è quello di E. v. Ivanka, Die neuplatonische Synthese, «Scholastik», 20-24 (1949), pp. 30-38. Per quanto concerne il punto di vista opposto, si veda, ad esempio, J. Stenzel, Zah/ und Gestalt, Leipzig 1933 2, p. 128; P. Wilpert, Platons Altersvorlesung iiber das Gute, «Philosophisches Jahr­buch», 59 (1949), pp. 1-13. Si veda anche E. Bréhier, Platonisme et néo­p/atonisme, «Revue des Etudes grecques», 51 (1938), pp. 489-498, ristam­pato in: E. Bréhier, Études de Philosophie antique, 1955, pp. 56-64, che critica l'interpretazione «neoplatonica» di Platone compiuta da A. J. Fe­stugière, nell'opera, Contemplation et vie contemplative se/on Platon, Pa­ris 1950 2; C. J. de Vogel, On the Neoplatonic Character of Platonism and the Platonic Character of Neop/atonism, «Mind», 62 (1953), pp. 43-64.

E' noto che lo studio più esaustivo sul sistema filosofico di Platone così come viene presentato da Aristotele è quello di L. Robin, La Théorie p/atonicienne des Idées et des Nombres d'après Aristate (1908). Robin ha sintetizzato (pp. 509-602) un aspetto dei risultati del suo studio dicendo: «Aristate nous a mis sur la voi d'une inerprétation néop/atonicienne de la philosophie de son maitre» (p. 600); parole, queste, che potrebbero benis­simo servire come motto di questo libro.

La tesi, che la sola fonte della conoscenza di Platone da parte di Ari­stotele (e di tutti gli altri Accademici) sono stati i tardi dialoghi di Platone, insieme con l'altra tesi, che tutti gli Accademici ed Aristotele hanno frain­teso le dottrine di Platone, è stata recentemente avanzata da H. Cherniss, Aristotle's Criticism of Plato and the Academy, voi. I (1944); cfr. idem, The Riddle of the Ear/y Academy (1945), spec. pp. 33, 43, 59.

Sul carattere neoplatonico della filosofia di Senocrate, si veda R. Heinze, Xenokrates (1892), spec. pp. 118-123; su Speusippo, si veda E. Frank, Plato und die sogenannten Pythagoreer (1923), spec. pp. 128-134, 239-261; su Ermodoro si veda Ph. Merlan, Beitriige zur Geschichte des an­tiken P/atonismus. I, «Philologus», 89 (1934), pp. 35-53, spec. 42 ss.; P. Wilpert, Neue Fragment aus Ikpt -.&1cx8ou, «Hermes», 76 (1941), pp.

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58 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

225-250; idem, Zwei aristotelische Schriften uber die Ideenlehre (1949), spec. pp. 183-194; J .C. de Voge!, Problems Concerning Later Platonism, «Mnemosyne», 1949, pp. 197-216; 229-318; A. J. Festugière, La Révéla­tion d'Hermès Trismégiste, voi. IV (1954 2), pp. 307-314. Sull'intonazione religiosa dell'Accademia, si veda, oltre a Heinze, anche P. Boyancé, Sur l'Abaris d'Heraclide le Pontique, «Revue des Etudes anciennes», 36 (1934), pp. 321-352; idem, Xenocrate et /es Orphiques, «Revue des Etudes anciennes», 50 (1948), pp. 218-231. Per quanto concerne l'interesse acca­demico per i fenomeni occulti, si veda, ad esempio, R. Walzer, Un nuovo frammento di Aristotele, «Studi italiani di filologia classica», 14 (1938), pp. 125-137.

Su Agatarchide (I' Anonimo di Fozio), si veda O. Immisch, Agathar­chidea (1919); Cfr., Ueberweg-Praechter, Grundriss der Geschichte der Philosophie, I, Base! 1953 12 , p. 65, n. 1; pp. 480, 518, 157; K. Reinhardt, Poseidonios, in RE, XXII/I (1953), pp. 763-768; su Moderato, si veda E. R. Dodds, The Parmenides of Plato and the Origin of the Neoplatonic One, «Classica! Quarterly», 22 (1928), pp. 129-142; Ph. Merlan, Oberflus­sige Textiinderungen, «Philologische Wochenschrift», 1936, pp. 909-912; A. J. Festugière, La Révé/ation, cit., pp. 38-40. Su Eudoro, si veda Ueber­weg-Praechter, Grundiss, cit., p. 531; H. Dorrie, Der Platoniker Eudoros von Alexandreia, «Hermes», 79 (1944), pp. 25-39.

Su Posidonio, oltre alla letteratura citata nel secondo capitolo di que­sto libro, si veda anche W. Theiler, Die Vorbereitung des Neup/atonismus, Berlin 1930.

Per quanto concerne il rapporto fra l'Accademia, il Pitagorismo ed il Neopitagorismo, oltre all'opera di Frank citata sopra, si veda A. Schme­kel, Die Philosophie der mittleren Stoa (1892) e C. Baeumker, Das Pro­b/em der Materie in der griechischen Philosophie (1890); ed anche Ph. Merlan, Beitriige zur Geschichte des antiken Platonismus. II, «Philolo­gus», 89 (1934), pp. 197-214; idem, Die Hermetische Pyramide und Sex­tus, «Museum Helveticum», 8 (1951), pp. 100-105.

Sul pre-Platonismo, oltre al libro di Theiler sopra citato, si veda, in particolar modo, Ueberweg-Praechter, Grundriss, cit., pp. 524-556 e R. E. Witt, A/binus and the History of Midd/e Platonism (1937); per quanto concerne le diverse scuole presenti nel Neoplatonismo (e sulla posizione di Giamblico all'interno del Neoplatonismo), si veda K. Praechter, Richtun­gen und Schulen im Neup/atonismus, in: AA.VV., Genethliakon fur C. Robert (1910), pp. 100-156 (cfr. anche J. Bidez, Le Philosophe Jamblique et son école, «Revue des Etudes grecques», 32 [1919-1921], pp. 29-40).

Per quanto concerne il problema dell'interpretazione «neoplatonica» del Parmenide, si veda il quadro generale presentato da F.M. Cornford, Plato and Parmenides (1939), pp. V-IX, 131-134.

Per quanto concerne il sistema di Platone, così come viene esposto da Aristotele, si veda, ad esempio, W. D. Ross, Aristotle's Metaphysics, 2 voli. (1924), voi. I, pp. XLV-LXXI.

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SECONDA APPENDICE ALL'INTRODUZIONE 59

Rilevante, nella sua brevità, è E. Lask, Gesammelte Schriften, 3 voli. (1923-1924), voi. III, pp. 36-38.

Sul Platonismo di Aristotele, si veda W. Jaeger, Aristote/es (1955 2).

Sul De communi mathematica scientia di Giamblico troviamo alcune righe o alcune parole in Zeller, Philosophie der Griechen, III/2, pp. 758-760; T. Whittaker, The Neoplatonists (1928 2), pp. 225-228; G. Mau e W. Kroll, Jamblicus, in: RE; Ueberweg-Praechter, Grundriss, cit., pp. 612-617; K. Praechter, Richtungen und Schulen im Neup/atonismus, cit., p. 128.

Esempi di opere scritte con una certa simpatia verso il realismo esage­rato sono: H. Bett, Jahannes Scotus Eriugena (1925), spec. pp. 109-115; G. R. G. Mure, Aristotle,(1932); G. R. G. Mure, An Introduction to He­gel (1940); N. Hartmann: Aristoteles und Hege/, in: Kleinere Schriften, voi. II (1957), pp. 214-252, spec. 229-244.

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Aggiunta alla Seconda Appendice

1. Per quanto concerne il piano generale dell'opera di Giamblico sul Pitagorismo, si veda P. Tannery, Pour l'Histoire de la Science Hellène (1887), pp. 372-374, e Sur l'arithmétique pythagoricienne, in: Mémoires scientifiques, voi. II (1912), pp. 179-201.

2. Un'analisi particolarmente penetrante della differenza esistente fra il misticismo di Platone e quello di Plotino la si può trovare in P. Friedlander, Plato, voi. I (1958), p. 82-84. Secondo Friedlander, in Plato­ne l'esperienza dell'ascesa graduale non implica che l'anima diventi un'u­nica cosa con l'oggetto della contemplazione, mentre una tale identifica­zione avviene in Plotino. Ma, nell'Epinomide, chiunque ne sia l'autore, si può facilmente osservare quanto una tale identificazione sia vicina a Pla­tone (o ad un Platonico). E' necessario, si dice nell' Epinomide, scorgere l'Uno che tiene uniti insieme tutti i µot8~µot'tot ('tT}V òµoÀoy(otv oùaocv µ(otv &1t«v'twv). E questo legame (8taµ6ç t!ç 1t«v'twv scii.: dei numeri matemati­ci, delle grandezze geometriche, delle realtà armoniche ed astronomiche -si veda sotto, p. 154) si rivelerà al discepolo che «apprende, tenendo lo sguardo rivolto verso l'unità», Elç iv ~ÀÉ1twv µotv8«vo (991 A; 992 A). Un tale discepolo avrà superato la pluralità delle sensazioni e «non avendo or­mai che una sola sorte, da molteplice che era, divenuto uno, sarà felice» (µLciç n µo(potç µtnLÀTJcp6'tot µ6vov xotl lx 1toÀÀwv tvot 1t1ov6'tot, tù8ot(µovot 't' lata8otL, 992 B).Quanto siamo qui distanti dalla formula µ6voç 1tpòç µ6-vov, o dalla sua alternativa tl'ç 1tpòç lv (o tvot)?

Si deve ammettere che l' Epinomide non parla di una tale «unificazio­ne» in questa vita, mentre Plotino ne parla. Ma chiaramente la contempla­zione dell'Uno si conclude nell'anima che diviene essa stessa ciò che con­templa, ossia Uno. Pertanto, contrariamente a quanto afferma Friedlan­der, c'è spazio, all'interno dell'orbita del Platonismo, per l'identificazione del contemplante con l'oggetto della sua contemplazione. Cfr. anche W. Jaeger, The Greek /deas of Immortality, «Harvard Theological Review», 52 (1959), pp. 135-147, spec. pp. 144 ss. (nella sua ascesa attraverso la co­noscenza, l'anima diviene gradualmente ciò che essa conosce).

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I. Anima ed enti matematici

1. Interpretazione degli enti matematici in Giamb/ieo e in Proclo

Quando Festa pubblicò il De eommuni mathematiea scien­tia I di Giamblico (in seguito verrà indicato con /se.), osservava nella sua prefazione (p. IX) la somiglianza di questa opera con il Primo Prologo del commentario di Proclo ad Euclide 2, e nel­l'apparato critico evidenziava le coincidenze letterali ed i paral­leli. Noi intendiamo trattare un aspetto di questa somiglianza.

Sia Giamblico che Proclo sono, riguardo agli enti matema­tici, «realisti» (anti-astrazionisti, realisti concettuali, ontologi­sti, realisti esagerati). Essi sono convinti della esistenza total­mente separata degli enti matematici (cfr. anche Proclo, In Eucl., Def. XIV, p. 139, 22-26; p. 142, 8 Friedlein). La contro­versia fra realisti e nominalisti concerne di solito gli universali non-matematici; non dovremmo tuttavia trascurare il fatto che qui noi abbiamo un esempio di realismo «multiplo», ossia di un realismo che afferma l'esistenza separata di più di un tipo di universali e di realtà non sensibili. Pertanto, oltre agli enti mate­matici ed al di sopra di essi, troviamo in Giamblico ed in Proclo gli intelligibili, che sono anch'essi totalmente separati. Al di sot­to degli enti matematici troviamo i sensibili, o l'oggetto proprio della fisica. Pertanto, di regola, Giamblico e Proclo descrivono gli enti matematici come intermedi, ammettendo una tripartizio­ne dell'essere (/se., cap. XIV, p. 52, 6 F; p. 54, 2, 10-13 F).Essi sono «trialisti» realisti. Il carattere intermedio degli enti mate­matici è posto ripetutamente in rilievo da Giamblico. (/se., cap.

1 lamblichi De communi mathematicascientia liber ... , ed. N. Festa (1891). (Nel testo i riferimenti a questa edizione di Festa saranno contrassegnati con l'ab­breviazione F.).

2 I riferimenti sono a: Prodi Diadochi In primum Euclidis Elementorum li­brum commentarii, ree. G. Friedlein (1873); nel testo abbreviato con In Eucl.

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I, p. 10, 8-24 F; cap. III, p. 14, 1-6 F; cap. XII, p. 46, 1-3 F; cap. XIII, p. 48, 26-27 F; p. 50, 14-25 F; cap. XIV, p. 51, 11 F; 54, 2-13 F; cap. XV, p. 55, 5-56, 4 F; cfr. Proclo, In Eucl., Prol., I, p. 3, 1-14, 12; 11, 26-12, 2; 19, 12; 35, 7 Friedlein). Al carattere intermedio degli enti matematici corrisponde il carattere inter­medio della conoscenza matematica (/se., cap. I, p. 11, 10, F; cap. XXXIII, p. 95, 5-22 F) 3• In evidente connessione con la sua concezione trialistica dell'essere, Giamblico accetta anche la tripartizione della filosofia teoretica in teologia, matematica e fisica (/se., cap. XV, p. 55, 8; 23 F; cap. XXVIII, p. 88, 19 F; cap. XXX, p. 91, 13; 24 F; cap. XXXI, p. 92, 19 F; 93, 2 F).

Con il loro realismo va di pari passo ciò che potremmo chia­mare intuizionismo. Gli enti matematici non diventano oggetto della nostra conoscenza con l'essere da noi astratti dal sensibile incuiessisonoinclusi(/se.,cap. V,p.19, 19-20,20F;cap. VIII, p. 34, 9 F; cap. XXVIII, p. 89, 5 F; cfr. Proclo, In Eucl., Prol., I, p. 11, 26-24, 23 Friedlein). Essi, piuttosto, vengono conosciuti direttamente 4 • Prescindendo dal problema se la loro conoscen­za inizi o no con la sensazione, questa conoscenza certamente non deriva dalla sensazione (per usare il linguaggio di Kant). Possiamo anche chiederci, se potremmo «conoscere» gli oggetti sensibili senza una nostra conoscenza degli enti matematici. Ma, abbiano o no gli enti matematici una priorità rispetto a noi, essi sono primi per natura (/se., cap. XXXIV, p. 97, 9 F).Significa-

3 Sul carattere intermedio degli enti matematici, cfr. K. Praechter, Richtun­gen und Schulen im Neuplatonismus, AA.VV., Genethliakon ... C. Robert (1910), pp. 100-156, spec. 132. Su ciò si dirà di più in seguito.

4 Il realismo matematico di Proclo e - implicitamente - di Giamblico vie­ne esposto da N. Hartmann, Des Proklus Diadochus philosophische Anfangsgrun­de der Mathematik nach dem ersten zwei Buchern des Euklidkommentars darge­stellt (1909); da A. Schmekel, Die positive Philosophie in ihrer geschichtlichen Ent­wicklung, 2 voli. (1938, 1914), spec. voi. I, pp. 100-106; si veda sotto, p. 96; da A. Speiser, Die mathematische Denkweise (1945 2), pp. 57-61; da M. Steck, Proklus Diadochus ... Kommentar (1945), pp. 1-152, passim. Sul Primo Prologo si veda anche P. Tannery, La Géometrie grecque (1887), p. 21. I neokantiani (come il pri­mo Hartmann) nutrono simpatia per l'anti-astrazionismo, ma non per l'intuizioni­smo ed il realismo; essi sono portati ad interpretare l'intuizionismo come apriori­smo (si veda sotto, p. 140). È solo in Husserl che l'anti-astrazionismo e l'intuizioni­smo si incontrano di nuovo; se questa combinazione implichi o no un realismo esa­gerato è una questione controversa. Lo stesso Husserl ha risposto a questa doman­da in senso negativo. C'è un senso in cui l'intuizionismo e l'astrazionismo non sono contrapposti: si veda A. Hufnagel, Die intuitive Erkenntnis nach dem hl. Thomas von Aquin (1932), p. 49, n. 4.

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ANIMA ED ENTI MATEMATICI 63

tivamente, gli enti matematici vengono definiti l'oggetto del ri­cordo (/se., cap. XI, p. 44, 7 F) 5•

La stessa cosa resta vera per quanto concerne la relazione fra gli intelligibili e gli enti matematici. Questi ultimi «derivano» dai primi e non viceversa. Ed anche gli intelligibili sono oggetto di una «intuizione» diretta. Uno dei grandi compiti della mate­matica consiste nell'educare l'occhio della nostra anima alla percezione degli intelligibili. La matematica può adempiere que­sto compito, in quanto anche i suoi oggetti possono essere «vi­sti» solo se uno educa se stesso, mentre la persona non educata ha un occhio che vede solo il sensibile.

Ora, in che modo Giamblico e Proclo descrivono i tre am­biti dell'essere, dei quali gli enti matematici costituiscono l'am­bito intermedio?

Le due parole più caratteristiche per indicare i due termini estremi sono: indivisibile e divisibile (/se., cap. I, p. 10, 9 F; cap. III, p. 14, 4-6; Proclo, In Eucl., Prol., I, p. 3, 14-4, 8 Friedlein). Di conseguenza, gli enti matematici sono una specie di mesco­lanza dell'indivisibile e del divisibile, del limite e dell'illimite, dell'uno e dei molti (/se., cap. III, p. 12, 26-13, 9 F; cap. XII, p. 46, 1-6 F).

A questi due termini fondamentali si associano una serie di predicati; particolarmente importanti sono i termini di «limite» ed «illimite» (/se., cap. III, p. 12, 22-24 F), e di «intelligibile» e «sensibile» (/se., cap. XXXIII, p.95, 5-6 F).

2. Il rapporto fra gli enti matematici e l'anima

È impossibile per chiunque (e tanto meno per un neo-Pita­gorico o per un Platonico) leggere la descrizione degli enti mate­matici e degli altri due ambiti dell'essere, fra i quali essi fanno

5 Archita, fr. 3 Diels: ÒtÌ -yò:p ~ µot86,rtot 1totp' ixÀÀC(.) ~ otu'tÒv l~&up611'tot ... lma"ta.fLOVot -y&vfo8otL ..• lç&up&tv Òt fLTl Cot'tOUV'tot &1topov xott crna.11Lov, Cot'tOUll'tot Òt !G1topo11 xott pa.LÒL011, fLT} èma"ta.µevov Òt (rJ't&Lv &8u11ot'to11.

Le ultime parole vengono comunemente tradotte in questo modo: «per colui che non sa [come] cercare è impossibile trovare». È caratteristico che Giarnblico in­terpreti queste parole in questo modo: «per colui che non sa è impossibile cercare; pertanto, ci deve essere stato un tempo in cui noi sapevamo, evidentemente prima della nostra nascita» (/se., Xl, p. 45, 7 F).In altri termini, secondo Giarnblico, Ar­chita ha insegnato la dottrina dell'anamnesi.

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da intermediari, senza che ciò faccia ricordare il Timeo di Plato­ne. Nel Timeo (35 A), esattamente con le stesse parole, l'anima del mondo viene descritta come un essere intermedio fra le due altre «specie» 6• In che modo, allora, Giamblico e Proclo (cfr. Elementi di teologia, prop. 190, p. 166 Dodds ed il suo commen­to ad /oc.) hanno potuto descrivere gli enti matematici nei termi­ni usati da Platone per descrivere l'anima del mondo?

Ma il problema è reso ancora più complesso dal fatto che, nella sua psicogonia, Platone descrive (in un modo decisamente sconcertante) la costituzione dell'anima del mondo usando co­piosamente termini matematici (numeri, rapporti, cerchi). In al­tri termini, la stessa anima sembra un'entità matematica. Di cer­to, questo fatto non è sfuggito a Giamblico e a Proclo. Che cosa pensavano, quando descrivevano gli enti matematici nel modo in cui Platone aveva descritto l'anima? In che modo spiegavano il fatto che l'anima di Platone assomiglia tanto da vicino ad una entità matematica?

O, per rendere il problema più semplice: dal momento che è l'anima che viene descritta da Platone nel Timeo come un essere intermedio fra l'indivisibile ed il divisibile nella sfera del corpo, e dal momento che Giamblico e Proclo usano gli stessi termini per descrivere gli enti matematici, qual è la relazione fra gli enti matematici (intermedi), di cui essi parlano, e l'anima (interme­dia) di cui parla Platone?

6 La corretta interpretazione del passo del Timeo la si può trovare, ad esem­pio, in F.M. Cornford, Plato's Cosmology (1937), pp. 60-66. L'anima è un compo­sto costituito dall'essenza intermedia (essere, sostanza), dall'identità intermedia, e dalla diversità intermedia. «Intermedio» significa, in tutti e tre i casi, intermedio fra il divisibile e l'indivisibile. (Ciò che Platone intende dire è che nell'ambito di ciò che muta costantemente nessuna cosa è vera, nessuna cosa è veramente identica con se stessa, nessuna cosa è veramente diversa da ogni altra. Nell'ambito di ciò che è eternamente immutabile ogni cosa è vera, ogni cosa è veramente identica con se stessa, ogni cosa si differenzia veramente da ogni altra. Questo nostro cosmo creato non è né totalmente in movimento, né totalmente immobile. Esso mostra elementi sia del movimento, sia dell'immutabilità, ossia il disordine vinto, sebbene non sottomesso completamente, dall'ordine. Ciò lo si deve alla presenza dell'anima del mondo, che fa da mediatrice fra l'essere ed il divenire).

L'interpretazione di Cornford è sostanzialmente quella di Proclo, come Corn­ford stesso fa rilevare. È anche quella di Ermia, che con grande concisione e preci­sione dice: l'essenza intermedia, l'identità intermedia, e la diversità intermedia so­no i tre elementi di cui è stata costituita l'anima (Hermiae Alexandrini In Platonis Phaedrum scholia, ed. Couvreur [1901), p. 123, 7-11). L'accordo fra Proclo ed Er­mia potrebbe dimostrare che entrambi hanno desunto la loro interpretazione da Siriano.

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ANIMA ED ENTI MATEMATICI 65

Dopo tutto, anche un filosofo che non prenda le mosse da una descrizione degli enti matematici nei termini usati da Plato­ne per descrivere l'anima, alla semplice lettura del Timeo può chiedersi: di che cosa sta realmente parlando Platone? dell'ani­ma? o degli enti matematici?

Difatti, troviamo questo problema ampiamente discusso in /se., e ad esso si fa riferimento nei commentari di Proclo ad Eu­clide ed al Timeo 7• È sorprendente che Giamblico abbia discus­so questo problema in un'opera dedicata alla filosofia della ma­tematica e non ad un'interpretazione del Timeo o allo studio dell'anima. È sorprendente che esattamente lo stesso problema venga trattato da Proclo nel suo commentario al Timeo. Questo dimostra chiaramente che si tratta di qualcosa di più di un pro­blema particolare. Possiamo affermare con sicurezza che chiun­que, all'interno dell'orbita del Platonismo, accetti o il carattere intermedio degli enti matematici, o il carattere intermedio del­l'anima, dovrà prendere in esame il rapporto fra queste due realtà intermedie 8• Trattiamo prima di Giamblico.

Dopo aver descritto gli enti matematici come intermedi (/se., cap. 1-11, p. 10, 10-24 F; 11, 3-15 F; 11, 25-12, 2 F), Giam­blico afferma (cap. III, p. 12, 22-13, 9 F) che i principi degli enti matematici sono il limite e l'illimite nella forma appropriata agli enti matematici, in quanto questi principi, in qualche modo, so­no presenti in tutta la realtà.

Osserviamo incidentalmente che l'uso di questi termini è un po' ingannevole (si veda Platone, Filebo, 24 A; R. G. Bury, The Philebus of Plato, 1897 e R. Hackforth, Plato's Examination of Pleasure, 1945; Bonitz, lndex Aristotelieus, s.v. Ilu8cxy6puo~). Dovremmo ritenere che i termini «limite» ed «illimite» sarebbe­ro più appropriati (Platone, Filebo, 23 C). Il limite significa evi­dentemente: figura considerata a partire dalla sua circonf eren­za, non dalla sua area o dal suo volume. Vedremo più avanti (p. 94) perché ciò rivesta una qualche importanza. Per il momento, ritorniamo a Giamblico.

7 Procli Diadochi In Platonis Timaeum commentarii, ed E. Diehl, 3 voli. ( 1903-1906); nel testo abbreviato con In Tim.

8 Su questi problemi, e sui problemi a questi connessi, cfr. L. Robin, La Théorie platonicienne des ldées et des Nombres d'après Aristote (1908), pp. 592-595; cfr. pp. 203-211 e 265 s.

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3. Il problema se gli enti matematici siano dotati di movimento

«Questi principi sono anche causa del movimento [ = mu­tamento]?» domanda ancora Giamblico (p. 13, 9 F) 9•

Una strana domanda. In che modo il problema del movi­mento (mutamento) rientra realmente in una filosofia della ma­tematica? E perché, dopo tutto, il limite e l'illimite dovrebbero essere considerati principi del movimento (del mutamento)? Qualunque sia la ragione intrinseca, troviamo che secondo Giamblico alcuni hanno considerato questi due principi come principi del movimento (mutamento); coloro, cioè, che ammet­tono l'esistenza di due principi È.v 'tTI ~ux.'fi xcxt 'trji; ~ux,rji; ~wcxri; xcxt òuv<iµta~ (p. 13, 11 F).

Qui viene stabilita per la prima volta una qualche connes­sione fra l'ambito degli enti matematici e l'anima. Il passo è dif­ficile, ma per lo meno l'obiezione di Giamblico è chiara. È me­glio, egli afferma, collocare l'anima in una differente sfera del­l'essere e supporre che i principi matematici e la sfera matemati­ca dell'essere siano immobili ed immutabili (ibi., righe 12-16; ri­ga 25; cfr. /se., cap. IV, p. 18, 17 F).

È chiaro che Giamblico interpreta le affermazioni dei suoi avversari. Queste sono (1) che il limite e l'illimite sono principi dell'anima; (2) che essi [dunque] sono principi del movimento (mutamento); (3) che, pertanto, gli enti matematici sono o con­tengono principi del movimento (mutamento). Secondo Giam­blico, ciò implica una identificazione dell'anima con gli enti ma­tematici, nella misura in cui entrambi apparterrebbero alla stes­sa sfera dell'essere. Egli critica questa identificazione, e preferi­sce mantenere le due sfere dell'essere separate ed escludere il movimento (mutamento) dagli enti matematici.

Prima di procedere oltre, si deve aggiungere una parola di avvertimento. Non possiamo aspettarci una terminologia coe­rente. Ciò che uno scrittore chiama divisibile ed indivisibile (partecipabile ed impartecipabile), un altro può chiamarlo illi­mite e limitato (o limite); un terzo, l'identico ed il diverso; un quarto, uno e molteplice; un quinto, ingenerato e ciò che è nel processo della generazione (o generato); un sesto, intelligibile (o

9 Le parentesi quadre con all'interno una traduzione o una parafrasi indica­no le mie aggiunte.

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intellettuale) e sensibile, e così via. È evidente che dobbiamo comprendere l'idea, dopo di che possiamo facilmente osservare che tutte queste coppie di termini esprimono un unico e medesi­mo dualismo, sebbene da punti di vista piuttosto differenti. Una volta che abbiamo osservato questo, ci accorgiamo chiaramente che l'intero problema discusso da Giamblico, se gli enti mate­matici siano dotati di movimento (si veda sotto), è connesso con i problemi dell'interpretazione del Timeo.

Ancora una parola di avvertimento. Noi distinguiamo chia­ramente fra un principio del movimento (mutamento) e ciò che è mosso (che muta). Questa distinzione non viene sempre fatta in greco. Un aristotelico ortodosso sarebbe attento a compiere questa distinzione, ma non così Giamblico. «Gli enti matematici sono immobili (immutabili)», spesso significa per Giamblico che essi non sono principi di movimento. Pertanto, ogni volta che usiamo l'espressione «dotato di movimento», la usiamo co­me un equivalente di: XLVTJ't6v, XLVTJ'tLx6v, xLvouv, xtvouµtvov, os­sia che muove, che può essere mosso, che si muove, lasciando al contesto di decidere che cosa di volta in volta si intenda con que­sti termini.

4. I nessi dell'anima con tutte le branche degli enti matematici

Possiamo ora riassumere la nostra analisi. Afferma Giam­blico: faremmo bene a supporre che l'anima abbia una specie se­parata di esistenza. Questo significa che, in aggiunta alle tre sfe­re dell'essere che abbiamo fin qui incontrato (e che incontriamo ripetutamente in /se.), dobbiamo ammetterne una quarta. Di­fatti, questo è quanto viene posto in rilievo nei capitoli III e IV (p. 13, 13-15 F; p. 18, 13-20 F). Questi capitoli ci lasciano con l'impressione che, invece di una tripartizione, dovremmo am­mettere per lo meno una quadripartizione dell'essere.

Qualunque sia l'origine del problema, la soluzione certa­mente non rientra più all'interno della struttura del Timeo. Nel Timeo non c'è posto per una quarta sfera dell'essere. Sia che la realtà intermedia venga interpretata come anima o come una realtà di tipo matematico, o come entrambe, di un tale interme­dio non può essercene più di uno. Questo può essere affermato con sicurezza.

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Pertanto, è legittimo domandare: in che modo dobbiamo conciliare i presupposti del problema con la sua soluzione? Que­sti presupposti sono: l'anima come realtà intermedia; le tre sfere dell'essere; il problema della identificazione dell'anima con gli enti matematici. Questi presupposti rientrano ancora bene al­l'interno dei problemi del Timeo. Ma la soluzione è: gli enti ma­tematici non sono dotati di movimento; l'anima si colloca in una sfera dell'essere che è differente da quella degli enti mate­matici; esistono quattro o p~ù sfere dell'essere.

Per rispondere a questa domanda dobbiamo riassumere l'a­nalisi che abbiamo compiuto di /se.

Il cap. IV terminava con l'affermazione che i principi mate­matici si differenziano da quelli corporei in quanto sono imma­teriali; dagli intelligibili per il loro carattere composito; e dai principi dell'anima, in quanto sono immobili. «I principi della vita» (o secondo la descrizione più circostanziata di Giamblico: «i principi che vengono indagati riguardo alla vita») è solo un'altra espressione per indicare l'anima; ed in questo modo il capitolo ripete la dottrina delle quattro differenti specie di prin­cipi, in quanto gli enti matematici si differenziano dall'anima.

Sembra che ciò concluda il tema concernente la relazione fra gli enti matematici e l'anima. Il cap. V presenta un esame dei teoremi comuni a tutte le branche della matematica, e chiarisce che «comune» non significa «astratto», ed in questo senso non significa posteriore ai teoremi specifici, ma, al contrario, desi­gna ciò che precede tutti i casi particolari. Il cap. VI presenta una serie di brani tratti dalla Repubblica e dall' Epinomide. Il cap. VII (identico ad In Nicomachi arithmeticam introductio­nem, p. 7, 3-9, 23 Pistelli, e derivato da Nicomaco) contiene una discussione del continuo e del discontinuo e ci introduce in una quadripartizione della scienza matematica (aritmetica, geome­tria, musica, astronomia; v. sotto, p. 154). Il cap. VIII contiene una esposizione della linea quadripartita di Platone, e, in con­nessione con ciò, un'affermazione anti-astrazionistica per quan­to riguarda il modo in cui giungiamo a conoscere gli enti mate­matici, ed una citazione tratta da «Brotino» sulla differenza fra vou; e 8uxvOLoc con un commento ad essa relativo, ed infine una citazione tratta da «Archita» sulla linea quadripartita con relati­vo commento. Nessuno di questi temi ha niente a che fare con la relazione fra gli enti matematici e l'anima.

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Ma nel cap. IX il problema emerge di nuovo. Tuttavia, il punto di vista questa volta è completamente

differente. Il problema non è se gli enti matematici siano dotati di movimento; il problema è con quale branca degli enti mate­matici dovremmo identificare l'anima. Afferma Giamblico:

«Discutiamo in primo luogo la dottrina sostenuta da coloro che attribuiscono un carattere matematico all'anima ... 10•

Non sarebbe ragionevole considerare l'anima come se ap­partenesse ad una sola branca [specie] degli enti matematici ... Pertanto, l'anima non dovrebbe essere definita né come (1) Idea del generalmente - esteso (estensione tridimensionale), né (2) come numero che muove se stesso, né (3) come armonia matematica separata, né come qualsiasi altra cosa di questo ti­po, ma, piuttosto, tutto ciò dovrebbe essere connesso insieme, perché l'anima è, vero, Idea [forma] del numero [è determina­bile mediante il numero], ma essa consta di numeri che com­prendono in sé l'armonia; e tutte le simmetrie che ricorrono nella matematica dovrebbero essere elencate come appartenen­ti in comune all'anima; come risultato, quindi, l'anima coesi­ste simultaneamente con la proporzione geometrica, aritmetica ed armonica, di modo che l'anima s'identifica con [tutte] le formule di proporzione matematica [À6yoL xcx-r' òcvcxÀoy(cxv] ... » (p. 40, 9-41, 1 F).

«E, riassumendo l'intera dottrina, noi riteniamo che l'ani­ma esista nei rapporti comuni a tutti gli enti matematici ... Il concetto [definizione] di anima contiene la totale ampiezza della matematica» (p. 41, 24-42, 6 F).

Giamblico, quindi, respinge l'identificazione dell'anima con qualche particolare branca degli enti matematici. Pertanto, non dovremmo descrivere l'anima come Idea (forma) del gene­ralmente-esteso (estensione tridimensionale). È chiaro, ed in questo modo lo diventerà ancora di più, che chiunque abbia de­scritto l'anima in questo modo, l'ha identificata con gli enti ma­tematici relativi alla geometria. La parola «estensione» indica ciò abbastanza bene. Non dovremmo descrivere l'anima come un numero che muove se stesso. È chiaro che chi l'ha descritta in questo modo l'ha identificata con gli enti matematici relativi al­l'aritmetica. E non dovremmo descrivere l'anima come una ar­monia che sussiste matematicamente. Chiunque la descrivesse in

10 O, come potremmo anche dire, utilizzando il sommario di questo capito­lo (p. 4, 15-19 F): coloro che riducono la sfera matematica dell'essere all'anima.

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questo modo, la identificherebbe con gli enti matematici relati­vi all'armonia (come la proporzione aritmetica, geometrica ed armonica). E non è possibile ammettere nessun tipo di descri­zione simile a queste, che identificherebbe l'anima con una par­te speciale degli enti matematici, invece di fame un composto costituito dall'insieme di tutti essi, in quanto l'anima è un'idea (forma) del numerico (si veda sotto), ossia ha una natura geo­metrica; la sua esistenza è simile ad un numero, ossia ha una natura aritmetica; e questi numeri contengono proporzioni, os­sia l'anima ha anche una natura armonica. In breve, l'anima esiste secondo le relazioni comuni a tutte le branche della mate­matica; chi dice «anima» esprime la matematica nella sua pie­nezza. Ed il presupposto è che di tali branche ce ne siano tre: aritmetica, geometria, armonica (cfr. anche /se., cap. IX, p. 40, 24-25 F, dove vengono enumerate tre «proporzioni mate­matiche», la geometrica, l'aritmetica, l'armonica, e p. 41, 5-15 F, che descrive il «debito» che l'anima ha nei confronti degli enti matematici relativi all'aritmetica, alla geometria ed al­l'armonia).

C'è un solo termine nel nostro passo che necessita di una qualche spiegazione: numerico (&pC0µ.LOç). È una parola diffici­le. Sofonia (In libros Aristotelis de anima paraphrasis, p. 131, 17 Hayduck), che ha copiato il passo, l'ha cambiata con la pa­rola numero (&pL8µ6ç: l8€aç ouOT)ç &pL8µou). Ma è evidente che Giamblico intendeva offrire una descrizione dell'anima che riassumesse le tre descrizioni da lui menzionate. Secondo Giamblico, l'errore di queste descrizioni consiste solo nella loro unilateralità; e la sola proposta avanzata da Giamblico è una descrizione sufficientemente comprensiva. Pertanto, la sua per­sonale descrizione deve contenere tutte e tre le descrizioni par­ziali. Le parole «in conformità con i numeri che comprendono in sé l'armonia» corrispondono alle due descrizioni del numero che muove se stesso [che muta se stesso], e della proporzione (armonia) matematica. Pertanto, «Idea (forma) del numerico» deve corrispondere a «forma del generalmente-esteso», e «nu­merico» deve corrispondere a «generalmente-esteso».

Come è possibile ciò? 'ApC0µwç significa «numerico»; in che modo potrebbe significare «esteso»? Ma &pC0µLoç non signi­fica nient'altro che &pL81,LTJ't6ç, che è semplicemente un «corpo» in senso numerico (cfr. ad esempio, Moderato, presso Stobeo,

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Eclog., I, Pr. 8, p. 21, 19-21 Wachsmuth), o in altri termini una quantità geometrica o la «sostanza» geometrica 11 •

Anche in latino, i «numerabilia» possono designare ciò che è geometricamente esteso in quanto sottoposto a numerazione (cfr. ad esempio Cassiodoro, Institutiones, p. 151, 21 s.; 152, 1 Mynors).

5. Il «De anima» di Giamblico

Tuttavia, anche noi possediamo un eccellente commento del passo di cui stiamo trattando in uno dei brani del De ani­ma di Giamblico, che ci è stato conservato da Giovanni Sto­beo 12•

«Dopo ciò, intendo fare la rassegna di coloro che conside­rano l'essenza dell'anima come una essenza matematica.

Ora, una specie degli enti matematici è [formata da] la fi­gura (che è il limite della estensione) e da questa stessa esten­sione. Il Platonico Severo ha definito l'anima proprio in questi termini, mentre Speusippo [l'ha definita] come Idea [forma] del generalmente esteso ... (fr. 40 Lang).

Il numero è ancora un'altra specie [degli enti matematici]. Difatti, alcuni Pitagorici ritengono che il «numero», senza nessun altro attributo, sia una idonea descrizione dell'anima. Senocrate, tuttavia, [ha definito l'anima] come un numero che muove se stesso [che muta se stesso]. Moderato [l'ha definita] come un numero che comprende proporzioni ...

Consideriamo, inoltre, l'armonia [ ... ] scii.: matematica. Moderato ha definito l'anima in base ad essa ... » (Giamblico, presso Stobeo, Eclogae, I 49, 32, p. 363, 26-364, 20 Wachsmuth).

La somiglianza fra i due passi di Giamblico è evidente. In entrambi, il problema fondamentale è il seguente: con quale specie degli enti matematici dovremmo identificare l'anima? Con l'aiuto del secondo passo, possiamo trovare chi ha identifi­cato l'anima solo con gli enti matematici relativi all'aritmetica,

11 Ma, anche prescindendo dai particolari di questo passo, il più lungo pas­so contenuto nel cap. IX, p. 41, 6-15 F, rende evidente che secondo Giamblico l'a­nima riunisce in se stessa i tre aspetti degli enti matematici.

12 Su questo passo, cfr. Ph. Merlan, Oberflussige Textiinderungen, «Philo­logische Wochenschrift», 1936, pp. 909-912, spec. 912; A. J. Festugière, La Révé­/ation d'Hermès Trismégiste, voi. III (1953), pp. 179-182.

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solo con gli enti matematici relativi alla geometria, solo con gli enti matematici relativi alla armonia.

Consideriamo, dice Giamblico, coloro che ritengono che l'essenza (sostanza) dell'anima sia di tipo matematico. Ci sono tre branche (specie) della matematica: aritmetica, geometria ed armonia, e di conseguenza troviamo definizioni dell'anima in termini di aritmetica, di geometria o di armonia.

Esempi del primo tipo di definizione sono Senocrate e Mo­derato. Il primo parla dell'anima come di un numero che muove se stesso [che muta se stesso]; il secondo, come di un numero che contiene rapporti (proporzioni). Esempi del secondo tipo di de­finizione sono Speusippo e Severo. Il primo descrive l'anima co­me forma del generalmente-esteso tridimensionale; il secondo, come limite dell'estensione (dimensionale). Un esempio del ter­zo tipo di definizione è di nuovo Moderato 13 •

Nel De anima, Giamblico si limita a presentare queste tre principali interpretazioni matematiche dell'anima. Non così, tuttavia, in /se. Abbiamo visto che qui Giamblico riteneva che queste interpretazioni fossero unilaterali ed intendeva sostituirle con una definizione che esprimesse l'identità dell'anima con tut­te le branche della matematica. «Né Speusippo, né Senocrate, né Moderato», dice Giamblico in /se.: «Solo combinando i tre otteniamo un'adeguata descrizione dell'anima». In breve, men­tre l'identità dell'anima con gli enti matematici veniva negata nel cap. III ed in parte nel cap. IV di /se., questa identità viene praticamente dimostrata nel cap. IX. È errato identificare l'ani­ma con una sola realtà matematica; essa dovrebbe essere identi­ficata con la realtà matematica.

6. La soluzione di Proclo

L'intero problema è ben noto anche a Proclo 14• La sua so­luzione è piuttosto simile a quella di Giamblico. Dei due passi in cui egli ne tratta, uno assomiglia al passo contenuto nel De ani-

13 È ovvio che in una definizione come «l'anima è un numero che compren­de l'armonia» (o «l'anima sussiste secondo un numero che comprende l'armonia», ecc.), possiamo porre l'accento sull'elemento numero o sull'elemento armonia. Di qui, Giamblico può citare Moderato per due volte.

14 Si veda, in questo contesto, A. Speiser, Die mathematische Denkweise (1945 2), pp. 58 ss.

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ma di Giamblico. Nel suo commento ad Euclide, Proclo difende (p. 12, 9-18, 4 Friedlein) in vari modi il punto di vista realistico. Egli si oppone in particolar modo alla teoria dell'astrazione. Da dove l'anima riceve la sua conoscenza degli enti matematici? Non da se stessa, né solo dal voui;. E precedentemente si era di­mostrato che non può riceverla dal sensibile (è sorprendente co­me qui siano presupposte le tre sfere dell'essere). La sola possi­bilità che rimane è che l'anima la riceva congiuntamente dal voui; e da se stessa. Dopo tutto, l'anima è «iconicamente» tutto ciò che l'intelligenza, il voui;, è «paradigmaticamente». Pertanto, Platone ha ragione quando costruisce l'anima secondo tutte le branche [specie] matematiche e la divide numericamente e la le­ga mediante proporzioni e rapporti armonici, e vi colloca i prin­cipi delle figure ... , e vi fa muovere i cerchi di un moto intellet­tuale. Pertanto, tutti gli enti matematici esistono originariamen­te nell'anima ... e l'anima è la pienezza di tutti gli enti matemati­ci ...

L'anima ha la sua essenza 15 in queste branche degli enti matematici .. (p. 16, 16-17, 6 Friedlein).

Dopo aver accertato che l'anima dovrebbe essere identifica­ta con tutte le branche della matematica - cioè, aritmetica, ar­monia, geometria, astronomia (per quanto concerne questa suc­cessione, e per quanto concerne la comparsa di una quarta bran­ca della matematica, si veda sotto p. 154) -, Proclo aggiunge ora alcune parole di cautela. Le citiamo, in quanto riappaiono In esse alcuni dei termini più caratteristici che stabiliscono una più stretta connessione fra Proclo e Giamblico.

«Non dovremmo considerare il numero, in quanto [riferi­to] all'anima, come se fosse una molteplicità di monadi, né do­vremmo interpretare [la frase] «Idea dell'esteso» come [se si­gnificasse un] un corpo ... » (p. 17, 7-9 Friedlein).

«Nell'anima sono presenti i paradigmi vivi ed intelligenti dei (1) numeri, (2) delle figure, (3) delle proporzioni, e (4) dei movimenti fenomenici ... » (p. 17, 9-11; 15-21 Friedlein).

«Pertanto, i rapporti matematici che costituiscono le ani­me nella loro pienezza sono essenziali e dotati di automovi­mento ... » (p. 17, 22-24 Friedlein).

Inoltre, ed in un differente contesto, «il movimento pro-

11 Propongo il verbo «to essence» (l'anima «essences»).

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prio della matematica non è né locale, né un moto come muta­mento ... ; esso è un moto vitale» (p. 18, 22-24 Friedlein).

In altri termini, Proclo insiste sul fatto che, sebbene si sia detto che l'anima è un numero [ossia una realtà di tipo aritmeti­co], essa non è un numero che contiene una molteplicità di uni­tà. Sebbene si sia detto che l'anima è l8lcx 'tWV ÒLot<Ttot'twv [ossia, una realtà di tipo geometrico; 'tWV ÒLotO''tot'twv lòlcx corrisponde infatti a axiiµcx] , non è un corpo [con ciò Proclo intende sia un corpo di tipo geometrico, dotato di un'estensione geometrica, sia un corpo sensibile, dotato di un'estensione nel senso comune del termine] 16• Sebbene l'anima sia stata descritta in termini di proporzioni (ossia, come una realtà di tipo armonico), queste proporzioni non sono solo dei rapporti; esse esistono separata­mente e sono dotate di un auto-movimento (per quanto concer­ne il movimento a proposito degli enti matematici relativi all'ar­monia, si veda sotto, pp. 82-83). Sebbene l'anima sia stata de­scritta in termini di movimento (ossia, come una realtà di tipo astronomico che contiene una pluralità di cerchi), questo movi­mento, essendo di tipo matematico, non è né un moto spaziale, né un mutamento. Ed ovviamente Proclo non è affatto troppo sicuro che considerare l'anima come dotata di movimento (at­traverso gli enti matematici in quanto dotati di movimento) sia rigorosamente platonico 17 • In un differente contesto, egli osser­va che talvolta Platone sembra considerare l'anima in se stessa come dotata di movimento, talvolta le fa ricevere il suo carattere di movimento dall'ambito degli intelligibili (p. 32, 7-10 Frie­dlein). Difatti, è ben noto che dei cinque generi del Sofista (esse­re, identità, alterità, moto, quiete) solo i primi tre compaiono nel Timeo.

Pertanto, l'identificazione dell'anima con tutte le branche della matematica - il carattere pleromatico dell'anima - è po­sto in rilievo sia da Giamblico che da Proclo. Entrambi agiscono in questo senso nel contesto generale di una filosofia della mate-

16 Sulla differenza fra queste due specie di estensione così come vi insiste Aristotele, si veda sotto, p. 164.

17 Sul problema del carattere di movimento dell'anima, cfr., per il momen­to, K. Mras, Macrobius Kommentar zu Cicero's Somnium, «SB der Berl. AK., Philos.-hist. KI.», 1933, pp. 232-286, spec. 274 s.

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matica; entrambi si muovono bene all'interno dell'orbita del Timeo.

Il secondo passo di Proclo (cfr. sopra, p. 73) è simile al pas­so contenuto in /se. Nel suo commento al Timeo, Proclo dice: non dovremmo interpretare il carattere intermedio dell'anima (fra il divisibile e l'indivisibile; cfr. In Tim., 35 A, 187 E, vol. II, p. 155, 25 Diehl) come se l'anima fosse in parte somatica ed in parte asomatica, come ha fatto Eratostene, né dovremmo defi­nirla in termini di estensione geometrica, come ha fatto Severo (186 E, vol. Il, p. 152, 25-28 Diehl). Le obiezioni mosse ad Era­tostene ed a Severo vengono discusse insieme, evidentemente per la ragione esposta sopra a p. 74, ossia per il fatto che l'ani­ma non è né un corpo sensibile, né un corpo geometrico. Conti­nuando, Proclo ritorna al problema della natura matematica dell'anima e dice:

«Dei nostri predecessori che hanno evidenziato che l'es­senza dell'anima è di tipo matematico, in quanto l'anima è in­termedia fra la realtà fisica e quella soprafisica, alcuni affer­mano che l'anima è un numero, e ritengono che sia costituita dalla monade, in quanto essere indivisibile, e dalla diade illimi­tata, in quanto essere divisibile; altri ritengono che l'anima sia una entità di tipo geometrico, costituita di punto ed estensione.

Della prima opinione sono uomini come Aristandro e Nu­menio e moltissimi altri interpreti; della seconda opinione è Se­vero» (In Tim., 35 A, 187 A, voi. Il, p. 153, 17-25 Diehl).

E, dopo aver distinto fra il discontinuo (l'elemento della aritmetica) ed il continuo (l'elemento della geometria), egli con­clude dicendo:

«Per quanto concerne l'anima, entrambe coincidono (<ru11'tptx.tt), l'unificazione e la differenziazione ... Pertanto, l'essenza dell'anima non è meramente aritmetica, altrimenti l'anima non sarebbe un continuo; né è [meramente] geometri­ca, altrimenti l'anima non sarebbe differenziata. Ma l'anima è l'una e l'altra cosa insieme ...

[Inoltre], avendo una natura di tipo aritmetico, l'anima possiede sostanzialmente [ossia, nella forma dell'essere, non nella forma del conoscere] l'armonia ... , avendo una natura di tipo geometrico, l'anima possiede l'astronomia, perché i cerchi

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presenti nell'anima sono sia in movimento che immobili ... [Pertanto, l'anima è] un legame sostanziale di [tutte le branche della] matematica; [l'anima non solo conosce la matematica, l'anima è la matematica]» (In Tim., 36 B, 213 D-E, voi. II, p. 238, 16-239, 6 Diehl).

La connessione con il passo del De anima è evidente; Pro­do enumera le opinioni di coloro che identificano l'anima con le singole branche degli enti matematici. Noi conosciamo anche le sue obiezioni: il «numero», quando viene riferito all'anima, non deve significare un numero composto di monadi; l'estensione non deve significare estensione «geometrica». Il risultato finale di tutta questa discussione concernente la natura matematica dell'anima lo troviamo un po' più avanti: l'anima è di natura aritmetica, geometrica, armonica ed astronomica e conosce le corrispondenti branche della matematica; l'anima contiene tutte le branche della matematica, dove l'accento viene posto sul «tutte». Per descrivere queste branche, nei due passi troviamo tutte le frasi che ci sono note da Giamblico: tutte le branche del­la matematica; numero; proporzione armonica; figura; pienezza di tutte le branche della matematica; l'Idea (forma) delle cose estese; punto (che corrisponde al limite) ed estensione (cfr. In Tim., 36 B, 213 E, voi. II, p. 239, 6-16 Diehl).

7. li capitolo X del «De communi mathematica scientia» di Giamblico e la sua incompatibilità con i risultati dei capitoli Il/e/V

Ritorniamo ora a Giamblico. /se. continua ancora, nel cap. X, la discussione del problema concernente il rapporto fra gli enti matematici e l'anima. Il contenuto di questo capitolo viene enunciato nel sommario 18 (p. 4, 20-24 F) con le seguenti parole: In che modo l'anima (o, più precisamente: la sfera dell'essere «anima») è costituita da tutte le branche della matematica? Con

18 Sui sommari (xtcpixÀotLot) presenti in Giamblico, si veda H. Oppermann, in «Gnomon», 5 (1929), pp. 545-558, spec. 552 ss.; L. Deubner, Bemerkungen zum Text der Vita Pythagorae des lamblichos, «SB der Berl. AK., Philos.-hist. KI.», 1935, pp. 612-690; 824-827, spec. 689, con n.; 690; 690, n. 2.

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quale specie di distinzione si potrebbe distinguere la mescolanza [degli enti matematici] all'interno dell'anima? L'anima racchiu­de l'intera realtà della [degli oggetti della] matematica o c'è qualche loro ulteriore principio che deve essere preso in conside­razione?

In altri termini, viene dato per scontato che l'anima impli­chi tutte le branche degli enti matematici. Il problema che anco­ra rimane è quello di scoprire quale contributo apporta ognuna di queste branche all'anima, in modo tale da renderla un'unica anima, e come, d'altro lato, a dispetto dell'unità dell'anima (o dell'unità della mescolanza), venga ancora preservata la diversi­tà delle differenti branche. Ed un altro problema che ancora ri­mane è se ci siano alcune realtà matematiche al di fuori dell'ani­ma, o se l'anima contenga in se stessa tutta la realtà matematica.

Ora, quando ci rivolgiamo dal sommario a ciò che, nell'edi­zione di Festa, ne viene distinto come cap. X, che corrisponde al sommario § 10, potremmo avere dei dubbi riguardo alla concor­danza fra il sommario e l'attuale contenuto. L'ultima domanda del sommario (se ci siano delle realtà matematiche al di fuori dell'anima) viene difatti esaminata nel cap. X; ma tutte le do­mande precedenti sembra che siano state discusse nella seconda parte del cap. IX (p. 41, 5-42, 6 F). In questa sezione, Giamblico pone in relazione le diverse branche della matematica con i di­versi aspetti dell'anima. L'anima riceve il suo carattere di «de­terminatezza» e di «definitezza» dai numeri (il suo Myoç «uni­tario» dal numero uno); l'anima deve alle grandezze geometri­che la sua capacità di realizzarsi nell'ambito della estensione; la sua capacità di stabilire armonia, ordine nel movimento, e misu­ra comune in ciò che è incommensurabile, e di elevare l'accordo ad armonia (la sinfonia ad eumetria) le deriva dagli enti mate­matici relativi all'armonia (e questa è la ragione per cui l'anima può percepire l'armonia, in quanto è essa stessa armonia e la sua essenza consiste di numeri e di altre simili misure matematiche).

È possibile, pertanto, che la divisione fra i capitoli IX e X non sia in completo accordo con il sommario; e ciò può essere dovuto o alla svista di qualche compilatore, che ha separato il capitolo X nel punto sbagliato, o a qualche lieve incoerenza fra lo schema e la sua esecuzione ( o fra il contenuto e il successivo sommario), il che può accadere in qualsiasi scrittore.

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Ma, nel presente contesto, la questione della composizione dei due capitoli è del tutto secondaria. Ciò che è importante è osservare che l'intera ispirazione dei capitoli IX e X è completa­mente differente da quella dei capitoli III e IV. In questi ultimi, si afferma che l'anima e gli enti matematici appartengono a dif­ferenti sfere dell'essere; nei primi, invece, l'anima risulta prati­camente indistinguibile da un'entità matematica.

Si tratta di un'entità matematica di una specie particolare, d'accordo, in quanto è, allo stesso tempo, una entità aritmetica, geometrica ed armonica, ma è pur sempre un'entità matemati­ca. Tutte queste identificazioni dell'anima con gli enti matema­tici possono in definitiva essere un'interpretazione corretta od errata del Timeo; in ogni caso, la chiara conseguenza è una divi­sione dell'essere in tre sfere, in quanto la sfera intermedia viene descritta in modo tale da cancellare praticamente ogni differen­za fra l'anima e gli enti matematici. È questa tripartizione del­l'essere che ricorre molto frequentemente in Giamblico; ma ab­biamo visto che i capitoli III e IV conducono ad una quadripar­tizione dell'essere, in cui l'anima viene distinta dagli enti mate­matici (mentre il cap. VIII conduce ancora ad un'altra quadri­partizione, cioè ad una quadripartizione che corrisponde alla li­nea quadripartita di Platone, ossia alla divisione in intelligibili, enti matematici, oggetti sensibili ed immagini). L'unità del libro di Giamblico è molto precaria, come possiamo già osservare e come vedremo ripetutamente.

8. Ricapito/azione dell'analisi del cap. X del «De communi ma­thematica scientia»

Riassumiamo ora l'analisi che abbiamo svolto del cap. X. A dispetto della già affermata costituzione matematica dell'ani­ma, la domanda che può essere ancora sollevata è la seguente: l'anima è il prodotto della combinazione delle tre branche degli enti matematici? O, al contrario, sono le tre branche il prodotto di un'unica anima? In altri termini, è la diversità delle branche anteriore all'unità dell'anima, o è l'unità dell'anima anteriore alla diversità delle tre branche?

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Giamblico respinge entrambe le alternative. La prima pri­verebbe l'anima del suo status, che è di essere il principio degli enti matematici, farebbe delle branche della matematica una pluralità dispersa, e dell'anima un prodotto alquanto accidenta­le del loro incontro, ed avrebbe altre strane conseguenze. La se­conda alternativa farebbe dell'anima la causa degli enti mate­matici ed introdurrebbe una differenza fra le due, conforme­mente al principio secondo il quale la causa è superiore ai suoi effetti ed è differente da essi. Resta la terza alternativa: nessuna delle due è anteriore all'altra. L'anima coincide (si accorda) con gli enti matematici (auv'tplxe.~ 1tpò~ 0tÙ'ta, frase che si è quasi ten­tati di tradurre in questo modo: l'anima e gli enti matematici formano un'unica squadra di corridori; solo che non dobbiamo immaginare che questi corridori esistano indipendentemente dalla loro squadra) e coesiste con essi (auwcpfo-tT}Xe.v), con il ri­sultato paradossale di una semplice ed indivisa mescolanza. Si realizza una perfetta compenetrazione dell'anima e degli enti matematici, di guisa che l'anima offre una completa unità alle differenti branche degli enti matematici ed alternativamente si abbandona a tutte ed a ciascuna di esse. Non ci sono enti mate­matici al di fuori dell'anima. Ma l'unità dell'anima non impedi­sce la sua differenziazione 19• L'ultimo problema del sommario (se gli enti matematici abbiano qualche principio oltre all'ani­ma) è stato risolto in modo negativo.

Riassumendo: i capitoli III e IV pongono in evidenza la dif­ferenza fra la realtà di tipo matematico e l'anima. Essi non rien­trano nella tripartizione dell'essere in enti intelligibili, enti mate­matici ed oggetti sensibili. I capitoli IX e X eliminano pratica­mente qualsiasi differenza fra l'anima e gli enti matematici, e sottolineano in particolar modo il fatto che l'anima dovrebbe essere identificata con tutte le branche degli enti matematici, piuttosto che con una sola di esse. Essi, pertanto, sono compati­bili con la tripartizione dell'essere. Sotto entrambi gli aspetti,

19 Un buon parallelo che potrebbe illuminare il punto della discussione di Giamblico sarebbe accompagnato dalla seguente domanda: «L'organismo è ante­riore alle sue parti, o sono le parti anteriori all'organismo?», con la successiva ripo­sta che le cose non stanno né in un modo né nell'altro; che l'organismo è indivisibi­le nelle sue parti e che, a sua volta, esiste solo in virtù della pluralità di esse. L'orga­nismo non è il risultato delle sue parti; né è la causa di esse.

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ossia nell'identificare l'anima con tutte le branche degli enti ma­tematici piuttosto che con una sola, e nel mantenere la triparti­zione dell'essere, i due capitoli concordano con una serie di passi di Proclo.

Per il presente scopo, non è affatto importante accertare fi­no a che punto Giamblico e Proclo fossero essi stessi disposti ad accettare una completa ed incondizionata identificazione dell'a­nima con gli enti matematici. Ciò che importa è che entrambi di­scutano questa identificazione come una seria interpretazione della relazione fra l'una e gli altri. Per il nostro scopo, è suffi­ciente ammettere che entrambi in sostanza affermano che, se l'a­nima deve essere identificata con gli enti matematici, non deve essere identificata con una sola branca di essi, ma, piuttosto, do­vrebbe essere identificata con tutte - tre o quattro - le branche.

In altri termini, la domanda posta a p. 68, di come riconci­liare il presupposto del problema (la tripartizione dell'essere) con la sua soluzione (presentata nel capitolo III nella forma di una quadripartizione dell'essere, che opera una distinzione fra l'ani­ma e gli enti matematici), dovrebbe essere risolta dicendo che so­lo i capitoli IX e X, con la loro virtuale identificazione dell'anima con gli enti matematici, sono coerenti con l'originario presuppo­sto di una tripartizione dell'essere, laddove i capitoli III e IV so­no con esso incoerenti. E questi capitoli IX e X concordano me­glio con Proclo di quanto vi concordino i capitoli III e IV, in quanto Proclo non afferma che la differenza fra l'anima e gli enti matematici consista nel fatto che la prima è dotata di movimen­to, mentre i secondi non lo sono.

Ma non è ingiusto nei confronti di Giamblico accusarlo di una tale incoerenza? È possibile supporre che egli non abbia no­tato la contraddizione fra i capitoli III e IV, da un lato, e i capito­li IX e X, dall'altro?

9. Il carattere letterario del «De communi mathematica scientia»

La risposta alla prima domanda è che /se. è, in modo del tut­to evidente, una serie di brani tratti da diversi autori, piuttosto che un'opera personale di Giamblico. Sembra che ciò che egli ha

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fatto sia stato di affidare ad un copista il compito di copiare i passi da lui indicatigli su fogli sciolti e di aggiustarli in un tutto mediante introduzioni, sommari, mutando di quando in quando qualche parola, ecc. È ovvio che non ci si può aspettare che ne risulti una particolare coerenza. Né ce lo si dovrebbe aspettare: il libro di Giamblico è paragonabile ad una selezione di docu­menti, piuttosto che ad un'esposizione delle opinioni dell'auto­re. Non è proprio un florilegio; ma non vuol neppure essere un'opera originale. Fino ad un certo punto, Giamblico si assu­me la responsabilità per le sue fonti, ma non si assume il compi­to di farle apparire del tutto coerenti.

Un esempio, che ci è già ben noto, rivela immediatamente il tipo di attività editoriale di Giamblico. Uno stesso passo (tratto, come sappiamo oggi, dal Protreptico di Aristotele) compare nel suo Protreptico ed in /se. Nel primo, costituisce una parte del cap. VI, p. 38, 3-41, 2 Pistelli. Nel secondo, costituisce una par­te del capitolo XXVI, p. 81, 7-83, 2 F. Senza esitare, tagliando e sostituendo alcune parole di Aristotele con parole sue proprie, Giamblico adatta il testo originale per il suo scopo, ma non ha cura di usare nei due diversi libri due volte lo stesso passo nella sua interezza. Ancora una volta, abbiamo l'impressione che Giamblico intenda produrre qualcosa che non è né un'opera ori­ginale, né un florilegio.

D'altronde, sembra che Giamblico non sia affatto insensi­bile alla contraddizione fra i capitoli III e IV, da un lato, ed i ca­pitoli IX e X, dall'altro. Infatti, egli evita nei capitoli IX e X tut­to ciò che potrebbe far sembrare che o l'anima, o gli enti mate­matici, siano dotati di movimento. Vedremo meglio ciò quando esamineremo ancora una volta la relazione fra le identificazioni dell'anima con gli enti matematici, così come sono presenti in Proclo ed in Giamblico.

IO. Differenza fra una tripartizione ed una quadripartizione della matematica e sua importanza per l'identificazione del­l'anima con gli enti matematici

La differenza più rilevante fra i due è quella indicata. La scienza matematica, di cui parla Giamblico, nei capitoli IX e X,

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è divisa in tre discipline: l'aritmetica, la geometria e l'armonia (acustica), mentre manca l'astronomia. La scienza matematica di cui parla Proclo è divisa in quattro discipline, inclusa l'astro­nomia 20 • Ora, è stato Nicomaco (vedi sotto, p. 155) che ha giu­stificato la quadripartizione della matematica, fondandola sul principio che la matematica è una scienza della quantità, e che la quantità o è discreta o è continua: la quantità discreta o è per sé (aritmetica) o è in relazione ad altro (acustica o armonia); la quantità continua o è immobile (geometria), o è in movimento (astronomia). Sulla scorta di Nicomaco, Giamblico riporta que­sta quadripartizione in /se., cap. VII, p. 30, 19-31, 4 F (cfr. an­che /se., cap. V, p. 18, 27-19, 1 F), ed è la stessa quadripartizio­ne che Proclo è disposto ad accettare sia nel suo commento al Timeo (per esempio, In Tim., 213 C, vol. II, p. 238, 14 Diehl), sia nel suo commentario ad Euclide (si veda sopra, pp. 73, 75). Ma, naturalmente, nessuno dovrebbe nello stesso tempo affer­mare che la matematica contiene le quattro branche sopra enu­merate ed anche che gli enti matematici sono immobili. D'altro lato, chi accetta una tripartizione della matematica, con la esclu­sione dell'astronomia, può, ed in realtà dovrebbe, aderire alla interpretazione che considera gli enti matematici come im­mobili.

Poiché nei capitoli IX e X Giamblico accetta una triparti­zione della scienza matematica, egli considera gli enti matemati­ci come immobili. Di conseguenza, il problema del carattere di movimento dell'anima è del tutto soppresso. Osserviamo questo fatto con particolare chiarezza in due passi. Nel cap. IX di /se., Giamblico cita (p. 40, 16-17 F) la definizione dell'anima di Se­nocrate come numero che muove se stesso (che muta se stesso), per respingerla in quanto unilaterale. Ma, sebbene egli pretenda

20 Per quanto concerne la suddivisione della matematica, si veda P. Tan­nery, La Géométrie grecque (1887), pp. 38-52; W.D.Ross, Aristotle's Metaphysics (1924) a proposito dir 2, 1004 a 8 (voi. I, p. 259). È ben noto che, oltre alla quadri­partizione, in Proclo troviamo anche una divisione della matematica del tutto dif­ferente, che egli ci riferisce come quella propria di Gemino di Rodi (cfr. J. G. van Pesch, De Proc/ifontibus (1900], pp. 87-113, spec. 97). La matematica viene divisa in due parti, che attualmente verrebbero chiamate matematica pura e matematica applicata. La matematica pura contiene l'aritmetica e la geometria, lasciando l'a­stronomia e l'acustica alla matematica applicata (In Eucl., Prol. I, p. 38, 1-12 Friedlein; sulla designazione dell'acustica come canonica, si veda p. 40, 22 Friedlein).

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di proporre una definizione fondata sul principio del xowfl auµ-1tÀix&w 1ta\l'tcx (p. 40, 19 F, ossia 1ta\l'tcx -.à 1&VTJ degli enti mate­matici [p. 40, 12-13 F]; cfr. Stobeo, Eclogae, I 49, 32, p. 363, 26-65, 4 Wachsmuth, che presenta anche tre 1 &VTJ matematici, ossia l'aritmetica, la geometria e l'armonia), in questa definizio­ne «sintetica» notiamo la mancanza del termine ocù-.ox(vT)'tOç, os­sia la definizione sintetica contiene una parte della definizione di Senocrate (il numero) e ne trascura un'altra (il rapporto con il movimento). Inoltre, descrivendo l'aspetto dell'anima per il quale l'anima è debitrice alle realtà di tipo armonico, Giamblico afferma che l'anima ha la capacità del movimento armonico (p. 41, 12-13 F), ma l'accento è posto del tutto su «armonico»; egli avrebbe quantomeno potuto dire che l'anima non è la causa del movimento, ma piuttosto di tutto ciò che nei moti dell'universo è ordinato. In altri termini, nel cap. IX non c'è nessun accenno al fatto che l'anima sia dotata di movimento, né potrebbe esser­ci, perché in questo capitolo l'anima viene identificata con la matematica tripartita, che esclude le realtà di tipo astronomico. Fin qui è possibile che Giamblico abbia cercato di evitare una contraddizione troppo evidente fra i capitoli III e IV, da un lato, e i capitoli IX e X, dall'altro. Egli fa ciò a costo di sopprimere il problema del carattere di movimento dell'anima, sebbene non vi riesca completamente. Al termine del capitolo X, leggiamo che l'anima verrà differenziata in conformità con le sue diverse ou­vaµ&Lç, ~woc(, ed lvip1 &LCXL (p. 43, 8-10 F). Questo ci ricorda im­mediatamente l'argomento di coloro che, secondo il cap. III di /se., hanno cercato di considerare gli enti matematici come do­tati di movimento. Alcuni, dice qui Giamblico, forse ammette­ranno il movimento per quanto concerne i principi degli enti matematici (ossia, il limite e l'illimite), cioè coloro che collocano questi principi nell'anima e nelle ~wcx( e nelle ouvaµ&Lç dell'ani­ma (p. 13, 9-12 F). Leggendo il passo del cap. X sopra citato, ci si sente portati a chiedere: la menzione delle ~wcx( e delle ouva­µuç come peculiari dell'anima costituisce una indicazione del fatto che gli enti matematici, di cui essa consiste, sono realmente in movimento? Nessuna chiara risposta può essere trovata nel cap. X; restiamo con la sensazione che i rapporti fra il movi­mento e l'anima, fra gli enti matematici e l'anima, così come

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vengono presentati nei capitoli III e IV, e di nuovo nei capitoli IX e X, siano, sotto molti aspetti, incoerenti.

Riassumiamo ora i risultati della discussione precedente. Sia Giamblico che Proclo descrivono gli enti matematici (che es­si considerano come separati) come intermedi. Gli ambiti fra i quali essi fanno da mediatori vengono spesso descritti come il divisibile e l'indivisibile. Entrambi sono consapevoli del caratte­re «intermedio» dell'anima, sebbene Proclo lo ponga in rilievo più di Giamblico. Entrambi trattano del problema se gH enti matematici e l'anima siano identici o no: Giamblico talvolta ar­gomenta a favore, talvolta contro, mentre Proclo ammette l'i­dentità. In connessione con questo problema, entrambi sosten­gono l'identità dell'anima con tutte le branche degli enti mate­matici, tre in Giamblico, quattro in Proclo. Queste affermazioni sono strettamente connesse con il carattere di movimento e di non movimento degli enti matematici. Proclo sostiene il primo, Giamblico talvolta il primo, talvolta il secondo. La soluzione è strettamente connessa con il problema di una tripartizione della scienza matematica, senza l'astronomia, o di una quadriparti­zione, che include l'astronomia.

11. Diversità e contraddittorietà delle fonti del «De communi mathematica scientia» di Giamblico

Risulta immediatamente chiaro che /se. si fonda su fonti di­verse, nelle quali alcuni dei problemi sopra trattati sono stati ri­solti in modi differenti 21 • Giamblico non si è preoccupato di ri­conciliare le opinioni contraddittorie. Pertanto, gli enti mate­matici di cui parla talvolta includono, talvolta escludono il mo­vimento; la scienza matematica, di cui parla, talvolta è triparti­ta, talvolta quadripartita.

Abbiamo ora un numero considerevole di termini chiave. Essi costituiscono una guida sicura attraverso questi numerosi e complessi problemi. È quanto risulterà evidente in ciò che se­gue; ma anche ora possiamo vedere quanto sia facile scoprire le

21 Cfr. Zeller, Die Philosophie der Griechen, IIl/2 (1923 5), p. 759.

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diverse fonti dalle quali ha attinto Giamblico, una volta che ab­biamo una chiara comprensione della differenza che sussiste (e di ciò che essa implica) fra una matematica tripartita ed una ma­tematica quadripartita.

E concludiamo questo capitolo con una sinossi dei passi che contengono le contraddizioni fondamentali per quanto concer­ne il carattere di movimento o di non movimento degli enti ma­tematici.

/se., cap. III, p. 13, 12-15 F È meglio supporre che i principi matematici e la sfera matematica dell'essere (oùa(ix) siano immobili.

lse., cap. IV, p. 18, 14-18 F I principi matematici sono im­mobili.

/se., cap. XIII, p. 50,18-19 F Gli enti matematici si distinguono dalla sfera del divenire per il fatto che sono immobili.

/se., cap. XV, p. 55,14-15F La scienza matematica è prepara­toria nei confronti della teologia, in quanto è una contemplazione di cose stabili ed immobili.

/se., cap. XXIV, p. 75,18-19 La matematica concerne un genere di natura stabile e priva di mo­vimento. /se., cap. XXVI, p. 81,11-12 F Le cose che appartengono al gene­re degli enti matematici immobili sono determinate ed ordinate.

/se., cap. XXVIII, p. 89,2-8 F Le proporzioni matematiche sono immobili, e corrispondono al ca­rattere degli enti matematici, che sono esenti dal movimento.

/se., cap. VII, p. 30,25-31, 2 F La geometria ... ha ricevuto come collaboratrice l'astronomia, che è lo strumento per conoscere la quantità continua del movimento.

/se., cap. XII, p. 47, 6-16 F La maggior parte degli uomini cre­de che le branche della matematica siano immobili e che gli oggetti della loro conoscenza siano immo­bili; questa, tuttavia, è un'opinio­ne errata. Infatti, ci sono branche della matematica che indagano il numero del movimento ... e i mo­vimenti circolari incorporei dell'a­nima con cui coesistono le rivolu­zioni celesti ... In tali indagini so­no incluse l'astronomia e l'armonia.

/se., cap. XIX, p. 63,23-64, 13 F Il matematico tratta degli oggetti della teologia, degli enti matemati­ci noetici, della sfera dell'essere che muove se stessa, e delle pro­porzioni eterne (laddove esse defi­niscono il numero che muove se stesso), dei movimenti e dei corpi celesti, ecc. /se., cap. XXVII, p. 86,14-15 F Nella scienza matematica alcune cose sono completamente immobi­li, altre (nell'acustica e nell'astro­nomia) sono dotate di movimento.

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La fonte del primo passo contenuto nel lato di destra è Ni­comano, Introductio arithmeticae, I 3, 1, pp. 6 ss. Hoche (cfr. l'annotazione di Festa ad. /oc.); non possono esserci dubbi sul fatto che il passo contenuto nel lato di sinistra derivi da qualche altra fonte. I due passi si contraddicono reciprocamente, e la stessa cosa vale per il resto delle due colonne.

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Appendice al Capitolo I

La contraddizione fra il capitolo III ed il capitolo IX di /se., secondo Loenen 22 , è solo apparente. Egli dimostra questo, affermando che la me­desima (apparente) contraddizione deve essere stata presente (almeno im­plicitamente) anche in Posidonio. Infatti, Posidonio, da un lato, ha identi­ficato l'anima con gli enti matematici, ma, dall'altro, deve aver saputo che l'anima, secondo Platone, era dotata di movimento. In che modo, allora, Loenen risolve questa apparente contraddizione? Egli lo fa supponendo che Giamblico, quando parla dell'anima come dotata di movimento, in­tende l'anima nel senso comune del termine, mentre quando parla degli enti matematici non dotati di movimento, può ancora identificare questi ultimi con l'anima, in quanto intende l'anima come idea (l'idea di anima). Questa distinzione, afferma Loenen, dovrebbe esere di grande interesse per gli studiosi di Platone.

La spiegazione di Loenen è un classico esempio di un'ipotesi ad hoc. In /se. non c'è il più piccolo accenno alla dottrina di una duplice anima. Per quanto riguarda ciò che Posidonio deve aver saputo a proposito delle relazioni fra gli enti matematici e l'anima in rapporto al problema del mo­vimento, noi non sappiamo nulla.

2. La relazione fra i due capitoli di /se. è stata interpretata in un modo molto interessante da Kohnke 23 • Questi due capitoli, dice Kohnke, non solo si contraddicono reciprocamente, ma si accordano strettamente l'un l'altro come tesi ed antitesi. Si deve pertanto supporre che entrambi com­parissero nella stessa opera, nella quale l'autore dapprima esponeva le dottrine e poi procedeva a confutarle. E, questo autore, secondo Kohnke, non era altri che Posidonio.

Io non sono affatto sicuro che l'ipotesi di Kohnke spieghi nel modo migliore il fatto che i due capitoli si accordano l'un l'altro (su questo pun­to Kohnke ha ragione). Dopo tutto, Giamblico potrebbe aver tratto il ca­pitolo III del suo /se. dall'opera in cui esso compariva originariamente, ed il capitolo IX dall'opera in cui esso veniva confutato. Kohnke potrebbe obiettare che io faccio troppo affidamento sulla diligenza di Giamblico. Non vedo nessun mo40 per pervenire ad una qualche certezza. Ma, se Giamblico ha fatto ciò che Kohnke sospetta che egli abbia fatto, ciò spie­gherebbe il tipo elo scopo della sua attività di scrittore.

22 J. H. Loenen, «Mnemosyne», S. IV, voi. X/1 (1957), pp. 80-82. 23 F. W. Kohnke, «Gnomon», 27 (1959), pp. 157-164.

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Se, detto incidentalmente, l'ipotesi avanzata da Kohnke fosse corret­ta, e se entrambi i capitoli derivassero da Posidonio, ciò spiegherebbe la presenza della frase qiu:x;iic; ~wcd xcxt Òuvix1,Lttc; che compare nel capitolo III, p. 13, 11 F e nel capitolo IX, p. 43, 9 F. Questa espressione potrebbe tro­vare il suo fondamento nel concetto di ~w"tLXTJ MvotfLLc; (vis vitalis) che noi attribuiamo a Posidonio (si veda K. Reinhardt, Poseidonios, in: RE, XXIl/1 (1953), pp. 648 s.). 3. Per quanto concerne l'importanza del termine auv-.plxuv per designare l'unità di nature distinte o la distinzione nonostante l'unità, si veda il Sym­bolum Chalcedonense (ad esempio, in P. Schaff, The Creeds of Christen­dom (1877, ristampato più volte], p. 62).

4. Sul significato della «attività di scrittore» di Giamblico, si veda sot­to, pp. 228-230.

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II. Posidonio ed il Neoplatonismo 1

1. // problema delle connessioni dell'anima con gli enti mate­matici risale a Speusippo, a Senocrate e a Posidonio

Sia Giamblico che Proclo sono ben consapevoli del fatto che, quando discutono della relazione fra l'anima e gli enti ma­tematici, stanno trattando di un problema tradizionale. Entram­bi sanno che la loro soluzione circa l'identificazione dell'anima con tutte le specie di enti matematici (tre in Giamblico, quattro in Proclo), non è l'unica soluzione proposta dai filosofi. In en­trambi i passi di Giamblico troviamo i rappresentanti dei tre punti di vista: coloro che identificano l'anima con la realtà di ti­po aritmetico, coloro che la identificano con la realtà di tipo geometrico, coloro che la identificano con la realtà di tipo ar­monico. Proclo enumera solamente i rappresentanti dei primi due punti di vista (coloro che identificano l'anima con gli ogget­ti dell'aritmetica e con gli oggetti della geometria), e comuni alle due liste ci sono solo due nomi (Severo e Moderato). Ma en­trambi sono consapevoli, ovviamente, di star contribuendo alla soluzione di un problema tradizionale. È legittimo pertanto chiederci: fin dove possiamo far risalire il problema?

La risposta è contenuta nel De animae procreatione in Ti­maeo di Plutarco (Plutarchi Moralia, ed. C. Hubert, voi. VI [1954)) dove leggiamo:

«Alcuni [scii.: Senocrate] ritengono che con la mistione dell'essenza indivisibile e di quella divisibile non si alluda ad altro che alla generazione del numero ... Ma ancora un siffatto numero [sci/.: il prodotto di questi due fattori] non si identifica

1 Questo capitolo prosegue alcune idee esposte precedentemente in: Ph. Merlan, Beitriige zur Geschichte des antiken Platonismus «Philologus», 89 (1934), pp. 35-53; 197-214, e idem, Die Hermetische Pyramide und Sextus, «Museum Hel­veticum», 8 (1951), pp. 100-105.

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con l'anima, poiché manca ad esso la capacità di muovere e di essere mosso. Tuttavia, una volta mischiati fra loro anche "il medesimo" e "l'altro", dei quali uno è fonte del movimento e del cambiamento, l'altro della stabilità, nasce l'anima» (cap. II, 1012 D).

In questo modo, abbiamo la definizione di Senocrate del­l'anima come un numero che muove se stesso. E Plutarco ritiene che questa definizione significhi: l'essenza (sostanza) dell'anima è un numero (cap. III, 1013 D).

Commentiamo questo punto. Prima di tutto, ci viene qui riferito che Senocrate ha inter­

pretato la psicogonia come un'aritmogonia. Nei termini posti dal nostro problema, egli ha identificato l'anima del mondo del Timeo di Platone con una sola branca della scienza matematica: con i numeri.

In connessione con ciò, Senocrate ha definito l'anima come un numero.

Sembra che egli abbia subito aggiunto: l'anima in Platone è indubbiamente principio di movimento. Pertanto, il numero con cui deve essere identificata l'anima del mondo di Platone deve essere definito come dotato di movimento.

Di qui la definizione: l'anima è un numero che muove se stesso.

Ma resta a questo proposito ancora una domanda. Quale degli elementi della mescolanza che costituisce l'anima (essendo stata l'anima definita come un numero) è responsabile della sua capacità di movimento?

Senocrate ha scelto i due termini di «identità» e di «alteri­tà» 2• L'«identità» e l'«alterità», dice Senocrate, fanno sì che l'anima sia un numero dotato di movimento.

Nel passo di Platone in questione non c'è senza dubbio la più piccola traccia dell'affermazione secondo la quale l'anima è dotata di movimento in quanto è composta di identità e di al­terità.

Ma è proprio questo che rende l'interpretazione di Senocra­te tanto più caratteristica. Egli è stato il primo (o fra i primi) ad

2 Cfr. Aristotele, Metafisica, K 9, 1066 a 11: ci sono alcuni filosofi che defi­niscono il movimento come alterità (o diseguaglianza o non-essere); si veda anche Fisica, III 2,201 b 19-21, con il commento di Ross.

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interpretare l'anima del mondo di Platone come un numero do­tato di movimento (o, come potremmo anche dire, come un nu­mero che contiene in se stesso il principio del proprio mutamen­to). È questa identificazione che serve come sfondo al quesito di Giamblico: come è possibile identificare l'anima con gli enti ma­tematici senza riconoscere il principio del movimento agli enti matematici? Senocrate ha agito senza esitazioni in questo senso, almeno fino al punto di considerare come dotati di movimento alcuni degli enti matematici, essendo questi enti matematici in movimento da lui identificati con l'anima; altri, fra cui l'autore usato da Giamblico nel III ed in parte del IV capitolo di /se., si sono opposti a questa soluzione.

È interessante osservare che anche Aristotele affronta que­sto problema. In genere, egli considera gli enti matematici come non dotati di movimento: i passi di De caelo, III 6, 305 a 25-26, e di De motu animalium, I 1, 698 a 25-26, sono particolarmente caratteristici. Ma in un passo come Metafisica, A 8, 989 b 32-33, egli aggiunge cautamente un «eccetto gli enti matematici relativi all'astronomia»; oppure, introduce delle scienze intermedie fra la matematica e la fisica (cfr. p. 122, n.), che riguardano oggetti che sono semi-matematici e soggetti al movimento.

Riassumiamo ora la discussione svolta da Plutarco. [ 1] Uomini come Posidonio «non hanno distinto molto

chiaramente [l'anima] dalla materia. [2] Essi hanno assunto la frase "divisibile per i corpi" nel significato di "sostanza (oùcrfot) dei limiti"; hanno mescolato questi ultimi con l'intelligibile, ed [3] hanno detto dell'anima, che essa è l'Idea [forma] del general­mente esteso (cfr. Speusippo, fr. 40 Lang), che esiste secondo numeri che comprendono in sé l'armonia.

[4a] Infatti, da un lato, gli enti matematici sono collocati fra i primi intelligibili ed i sensibili, [4b] mentre, dall'altro lato, l'anima partecipa dell'eternità insieme con gli intelligibili, della passibilità (mutabilità) insieme con i sensibili, di guisa che è cor­retto affermare che la [sua] essenza è intermedia» (cap. XXII, 1023 B).

Che cosa significa ciò? Posidonio ha identificato l'anima del mondo con gli enti matematici. Egli ha agito in questo mo­do, perché, da un lato, l'anima viene descritta da Platone come una realtà che partecipa dell'eternità dei primi intelligibili e della mutevolezza dei sensibili. Questo dimostra che l'essenza dell'a-

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nima è intermedia. Dall'altro lato, sempre secondo Posidonio, gli enti matematici hanno il loro posto fra i primi intelligibili ed i sensibili.

In altri termini, Posidonio afferma: nel Timeo di Platone l'anima è intermedia fra gli intelligibili ed i sensibili. Gli enti ma­tematici [e qui dobbiamo aggiungere: in Platone, secondo Posi­donio] sono intermedi fra gli intelligibili ed i sensibili. Pertanto, dice Posidonio, l'anima si identifica con gli enti matematici.

Tutto questo si risolve nella definizione: l'anima, essendo costituita secondo numeri che comprendono in sé l'armonia, è l'Idea (forma) del generalmente esteso. La somiglianza di questa definizione con le definizioni di Giamblico e Proclo è evidente.

Ciò che è molto interessante in questa definizione è il fatto che essa presenta il primo tentativo di identificare l'anima non con una sola branca degli enti matematici, ma con tre. Ancora una volta: «l'Idea (forma) del generalmente esteso» significa gli enti matematici relativi alla geometria; «il numero» rappresenta gli enti matematici relativi all'aritmetica; il «numero che com­prende in sé l'armonia» rappresenta i rapporti (proporzioni) o gli enti matematici relativi alla musica.

L'intera definizione spiega i due passi di Giamblico ([se. e De anima) ed i passi di Proclo sopra citati (pp. 72-76), ed è a sua volta spiegata da essi. Ciò che manca nella definizione di Posi­donio è qualsiasi esplicito riferimento al problema del movimen­to, e non sappiamo se egli non ne abbia affatto trattato. Tutti gli altri elementi presenti nella discussione svolta da Giamblico pos­sono essere facilmente ritrovati nella definizione di Posidonio. La differenza principale fra Posidonio-Giamblico e Proclo con­siste nel fatto che i primi suppongono una tripartizione della matematica, il secondo ne suppone una quadri partizione 3•

In che modo Posidonio è giunto ad affermare che l'anima del mondo è intermedia fra gli intelligibili ed i sensibili? Vi è giunto interpretando le frasi di Platone, «l'indiviso» e «ciò che è

3 Per quanto concerne l'esclusione dell'astronomia dalla matematica in Po­sidonio, si veda E. Bréhier, Posidonius d'Apamée, théoricien de la géométrie, «Re­vue des Études grecques», 27 (1914), pp. 44-58, (ristampato in Études de Philoso­phie antique (1955), pp. 117-130). Sul carattere di non movimento delle grandezze geometriche in Posidonio, si veda A. Schmekel, Die positive Philosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklung, 2 voli. (1938, 1914), voi. I, pp. 105 ss.

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divisibile per i corpi», nel significato, rispettivamente, di «intel­ligibili» e di «essenza [sostanza] dei limiti».

Sembra chiaro, pertanto, che l'essenza (sostanza) dei limiti, di cui parla Posidonio, significa il sensibile (l'essenza divisibile) proprio come «ciò che è divisibile per i corpi», di cui parla Pla­tone. La frase di Platone non è niente più che una circonlocuzio­ne per indicare il mondo del mutamento, dell'estensione corpo­rea, ecc. Di certo, è una frase ambigua; in Enneadi, IV 2, Ploti­no l'ha interpretata nel senso che i limiti sono divenuti divisibili solo per via dei corpi 4• Ma l'interpretazione di Plotino è erro­nea, ed è semplicemente il risultato della sua tendenza a mante­nere l'anima il più possibile libera dalla corruzione del corpo (cfr. H. R. Schwyzer, Zu Plotins lnterpretation von Platons Ti­maeus 35 A, «Rheinisches Museum», 84 [1935], pp. 360-368, spec. 365-368). Il risultato della sua interpretazione è una qua­dripartizione (IV 2,2, 52-54 Bréhier): la realtà eterna (l'indiviso, l'uno), il diviso indivisibile (l'anima, uno - e - molti), l'indiviso divisibile (le forme presenti nei corpi, molti - e - uno), il diviso divisibile (il corpo, i molti). Questo è ancora il Timeo di Plato­ne? La cosmogonia di Platone implica solo tre specie di essere: quella dell'eterno, quella dell'anima e quella del temporale, del mutevole, dell'estensione, ossia del corporeo divisibile. E Posi­donio è rimasto fedele a questa tripartizione. Se non ammettia­mo questo, l'intera idea di una realtà intermedia, che costituisce in modo così chiaro il fulcro della interpretazione di Posidonio, perderebbe il suo fondamento.

Ma, 1'11 'tWV 1ttpci'twv oùafot può significare qualcosa di di­verso da dpomx? Interpretando questa espressione come se si­gnificasse ciò che è all'interno dei 1tÉp1X'tcx, dell'esteso, del diviso, non ne snaturiamo il carattere?

Le cose stanno diversamente se consideriamo questa espres­sione nel senso di un genitivo soggettivo. Twv 1ttpci'twv oùa(cx è la specie di essere che «ha» o «accetta» limiti, proprio come «ciò

4 Cfr. F.M. Cornford, Plato's Cosmology (1937), p. 63. Si veda, tuttavia, anche P. Shorey, The Timaeus of Plato, «American Journal of Philology», 10 (1889), pp. 45-78, spec. 51 ss., e idem, Recent lnterpretations of the Timaeus, «Classica! Philology», 23 (1928), pp. 343-362, spec. 352. Ma qui, come in molti al­tri casi, la questione della corretta interpretazione di Platone è meno importante della questione di come egli è stato realmente interpretato.

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che è divisibile per i corpi» o «il limite» di cui parla Platone ( cfr. sopra, p. 65).

La nostra affermazione viene confermata dal passo di Pro­clo, dove, come un evidente equivalente dell' «Idea del general­mente esteso» di Posidonio (pp. 91-92), leggiamo: Idea delle co­se estese. «Le cose estese» sono le oùafotL di cui parla Posidonio; «Idea» corrisponde a «limite». Potremmo tradurre l'espressio­ne 'tWV m:pci'twv oùafot con «proprietà dei limiti».

Inoltre, Plutarco accusa Posidonio (o piuttosto i suoi se­guaci) di essere, nella loro descrizione dell'anima, troppo mate­rialistici, o, più letteralmente, di aver condotto l'anima in una prossimità troppo stretta con la materia. In che modo Posidonio ha fatto questo? Mescolando l'intelligibile con «essi», ossia con i limiti; ed «essi» è evidentemente una allusione, compiuta con poca accuratezza, alla «sostanza dei limiti» di cui parla Plutar­co. Uno di questi due elementi deve essere l'espressione del ma­terialismo di Posidonio. Questo elemento non può essere «l'in­telligibile»; così, non rimane che la «sostanza dei limiti», eque­sta deve significare i corpi. In caso contrario, la critica di Plutar­co sarebbe completamente infondata. L'oùa((X è il 1te.1te.p(Xaµlvov senza i suoi limiti; «la sostanza dei limiti» è tutto ciò che ha rice­vuto, o può ricevere un limite. Il limite da solo, senza un geniti­vo, è il limite senza il limitato. Questo è il modo in cui Posido­nio, secondo Proclo (In Eucl., p. 143, 8-21 Friedlein), ha usato il termine «forma», «figura». La sostanza dei limiti non può si­gnificare semplicemente il limite. Nessuna di queste traduzioni spiegherebbe la critica che Plutarco muove al materialismo.

Non è necessario ricordare al lettore che per uno stoico l'e­quazione oùa((X = uÀri è a portata di mano (cfr. SVF, Index, sot­to la voce oùa((X), e che anche Timeo di Locri contrappone l'&µl­pLa'tOç µopq,~ alla µe.pLa't~ oùa((X, ossia la forma che è indivisibile all'oùa((X = materia che è divisibile (cap. IV; voi. IV, 409 Her­mann) 5•

Riassumiamo ora ciò che ha compiuto Posidonio. 1. Egli ha proseguito lungo una linea di interpretazione del

Timeo che aveva avuto inizio nell'Accademia: una linea di inter-

5 Cfr. l'analisi di questo tema in E.R. Goodenough, A Neo-Pythagorean Source in Philo Judaeus, «Yale Classica] Studies», 3 (1932), pp. 115-164, spec. 125 ss.

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pretazione volta all'identificazione dell'anima del mondo di Platone con gli enti matematici. Senocrate è stato uno dei primi a compiere questa identificazione: egli, infatti, ha identificato l'anima con un numero 6• Speusippo ha fatto qualcosa di simile: ha identificato l'anima con una grandezza geometrica. La fonte della nostra conoscenza di questo fatto è Giamblico (vedi sopra p. 72). Le ~randezze geometriche, dice Giamblico, costituiscono una delle branche degli enti matematici; essi sono composti di forma ed estensione, e Speusippo, uno degli autori che definisce l'anima mediante gli enti matematici, ha definito l'anima come l'Idea (forma) del generalmente esteso. Idea significa chiara­mente forma. La relazione di Giamblico sembra assolutamente precisa, perfettamente coerente, e sembra del tutto attendibile (si veda sotto, p. 100). Come ci viene riferito da Giamblico, Speusippo ha identificato l'anima con una grandezza geometri­ca (cfr. fr. 40 Lang).

Sembra, quindi, che anche Posidonio abbia trovato in Speusippo l'identificazione dell'anima con un'altra branca degli enti matematici. Infine, in Moderato (se egli ha preceduto Posi­donio ), o in qualche altro membro dell'Accademia, egli ha tro­vato che l'anima veniva identificata con l'armonia matematica.

2. Nell'interpretare il Timeo, Posidonio ha fatto uso della tripartizone platonica in oggetti sensibili, enti matematici ed enti intelligibili. Posidonio ha trovato questa tripartizione dove Ari­stotele l'aveva trovata o nello stesso Aristotele (Metafisica, A 6, 987 b 14, e molti altri passi; cfr. Ross, Aristotle's Metaphysics, ad. /oc., [vol. I, pp. 166-168)). Egli l'ha combinata con la tripar­tizione del Timeo: e poiché trovava già una tendenza ad identifi­care l'anima del mondo con gli enti matematici (una tendenza che sembra abbia avuto origine in modo del tutto indipendente dall'altra tripartizione), ha combinato le due tripartizioni, giun­gendo pertanto all'equazione: anima = realtà intermedia = en­ti matematici.

Pertanto, fintanto che troviamo in Giamblico o in Proclo l'identificazione: anima = realtà intemedia = enti matematici, essi seguono Posidonio. Giamblico, con la sua identificazione dell'anima con le tre branche degli enti matematici, segue Posi-

6 Cfr. K. Praechter, Severus, in Pauly-Wissowa, Realencyclapiidie der clas­sischen Altertumswissenschaft, li A 2 (1923), spec. col. 2008 con n. 3.

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donio più da vicino rispetto a quanto faccia Proclo. Una linea diretta conduce da Posidonio a Giamblico ed a Proclo.

Posidonio ha interpretato gli enti matematici in senso reali­stico? Possiamo rispondere a questa domanda solo con un mo­dicum di certezza. Noi sappiamo che Posidonio ha insistito sulla definizione della «figura» in termini di circonferenza piuttosto che in termini di area o di volume in essa inclusi (cfr. Proclo, In Eucl., p. 143, 6-17 Friedlein; Erone, Definitiones 23, p. 30, 8-11 Heiberg). Ma, contrariamente a quanto sostiene Schmekel (op. cit., sopra p. 92, n. 3, voi. I, pp. 100-106), questo fatto non par­la né a favore né contro il realismo di Posidonio. Più decisivo è il passo di Diogene Laerzio, VII 135, dove a Posidonio viene at­tribuita l'affermazione secondo la quale la superficie geometrica esiste contemporaneamente nei nostri pensieri e nella realtà. Ov­viamente, egli era in disaccordo con un altro stoico citato da Proclo, In Eucl., Def. I, p. 89 Friedlein (SVF, II 488), che affer­mava che i limiti dei corpi esistono solo nei nostri pensieri.. In al­tri termini, in Posidonio c'era quantomeno una tendenza al rea­lismo matematico 7 •

A quale delle diverse immagini di Posidonio che sono state presentate negli anni più recenti si addice meglio la descrizione che noi ne abbiamo dato? Indubbiamente, a quella offerta da W. Jaeger (Nemesius von Emesa [1915]). Jaeger ha presentato Posidonio come il protagonista dell'idea di una realtà interme­diaria - e - mediatrice. Un tale uomo dovette essere sensibile al­l'idea di una realtà fotermedia. È probabile che egli abbia sco­perto prima di ogni altro la posizione intermedia dell'anima del mondo di Platone (descritta in termini matematici), da un lato, e, dall'altro lato, la posizione intermedia che gli enti matematici hanno in Platone, così come viene riferita da Aristotele, e che abbia identificato questi due intermedi.

Sembra, dunque, che si sia stabilito al di là di ogni dubbio questo fatto: Posidonio ha influenzato il Neoplatonismo. Il set­tore in cui egli ha operato la sua influenza (interpretazione del Timeo; identificazione dell'anima del mondo di Platone con gli

7 Cfr. L. Edelstein, The philosophica/ System of Posidonius, «American Journal of Philology», 2 (1936), pp. 286-325, spec. 303; anche P. Tannery, La Géométrie grecque (1887), p. 33, n. 2; H. Dorrie, 'Y1t6a-totatç, «Nachrichten der AK. d. Wiss. Gottingen, I, Philol.-hist. Kl.», 1955, pp. 35-92, spec. p. 57.

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enti matematici) può sembrare ristretto; vedremo in seguito quanto sia stato importante 8•

2. La connessione dell'anima con gli enti matematici in Speusippo

Ed ora alcune parole a proposito dell'identificazione, com­piuta da Speusippo e da Senocrate, dell'anima con una partico­lare branca della matematica. La relazione di Giamblico, secon­do la quale Speusippo ha definito l'anima come l'Idea del gene­ralmente esteso, di recente è stata minuziosamente esaminata da H. Cherniss (Aristotle's Criticism of Plato and the Academy, voi. I [1944], pp. 509-512). Egli è incline a considerare la relazio­ne di Giamblico poco attendibile, o almeno non intelligibile. Se­condo Cherniss, essa implica che Speusippo riteneva che l'ani­ma fosse un'entità matematica, mentre Aristotele afferma (Me­tafisica, Z 2, 1028 b 21-24) esplicitamente che Speusippo distin­gueva nettamente fra la grandezza e l'anima.

Per quale motivo Cherniss riponga una fiducia incondizio­nata nella relazione di Aristotele non è del tutto chiaro. Questa relazione è, in modo evidente, molto critica nei confronti di Speusippo, ed è interessata a presentare Speusippo come un pensatore che ha «diviso» l'essere. Anche se le cose stessero co­sì, poiché la differenza fra l'anima e le grandezze geometriche non è, secondo lo stesso Aristotele, molto più grande di quanto sia la differenza fra i numeri e le grandezze geometriche (l'ani­ma, infatti, segue immediatamente le grandezze geometriche), dobbiamo ammettere la possibilità che Aristotele abbia sottoli­neato la differenza e non abbia menzionato la somiglianza. È vero che «l'Idea del generalmente esteso» sembra pressoché si­mile alla definizione di un solido geometrico; e noi, in questo ca­so, possiamo solo avanzare delle supposizioni riguardo al modo in cui l'anima si differenzia da ogni altro solido geometrico. L'«Idea del generalmente esteso» implica movimento? È questa la ragione per la quale l'anima è una branca della matematica piuttosto che un ente matematico tout court~ Non lo sappiamo;

8 Su Posidonio nel Medioevo, cfr. anche R. Klibansky, The Continuity of the Platonic Tradition During the Middle Ages (1950 2), p. 27.

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ma poi la contraddizione fra la relazione di Aristotele e l'inter­pretazione matematica della definizione di Speusippo non sem­bra essere particolarmente grave. Essa può equivalere alla diff e­renza fra una «entità matematica» e «ciò che è più simile ad un'entità matematica». Quanto simile?

Ma supponiamo che la definizione, come viene riferita ed interpretata da Giamblico, sia incompatibile con la relazione di Aristotele. Che ne deriverebbe? Dobbiamo respingerla o liqui­darla con un «ignoramus» per quanto concerne il suo vero signi­ficato? Questo non è necessario. Forse Speusippo si è espresso in modo ambiguo; forse ha cambiato la sua opinione, forse si stava nettamente contraddicendo. Dopo tutto, egli è sopravvis­suto a Platone solo dagli otto ai nove anni circa (Diogene Laer­zio, IV 1; cfr. F. Jacoby, Apollodors Chronik [1902], p. 313) 9;

è difficile supporre che egli «abbia abbandonato» la teoria delle Idee sin dall'inizio della sua carriera filosofica, la maggior parte della quale egli ha trascorso nell'Accademia. Anche da questo punto di vista, Speusippo deve aver mutato la sua opinione o de­ve essersi contraddetto.

Avendo respinto l'interpretazione matematica, Cherniss suggerisce che la definizione di Speusippo intendeva forse essere una difesa del Timeo contro Aristotele: l'anima non è una gran­dezza, come ha affermato Aristotele, ma l'Idea del corpo, pro­prio come l' dooc; di Aristotele 10 • E Cherniss cita alcuni passi che dimostrano che Aristotele identificava il 1tÉpcxc; e l'dooc; del cor­po esteso.

Ora, l'intera discussione di Cherniss culmina nell'afferma­zione secondo la quale Aristotele non ha mai insinuato che i Pla­tonici definissero l'anima una forma; ed egli evidentemente con­sidera questo silenzio come un'altra prova del fatto che essi non hanno realmente agito in questo senso. Ma se, secondo Cher­niss, Speusippo ha affermato: l'anima nel Timeo è un dooc; (proprio come tu, Aristotele, la consideri un &!ooc;), questo non

9 Sembra che venga prestata un'insufficiente attenzione a questo fatto. La maggior parte dcli' opera filosofica di Speusippo deve essere stata scritta durante la vita di Platone, ed è molto difficile non vedere nella sua nomina a successore di Platone l'approvazione di quest'ultimo. Anche se alcune considerazioni non filoso­fiche avessero determinato la decisione di Platone, egli, tuttavia, non potrebbe aver ritenuto che Speusippo professasse una dottrina che egli, Platone, disapprovava. Cfr. E. Frank, Platon und die sogenannten Pythagoreer (1923), p. 239.

to Cfr. H. Cherniss, The Riddle ofthe Early Academy (1945), p. 74.

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significa che egli ha definito l'anima una forma? O Chemiss vorrebbe forse negare che E!ooç, come viene usato da Aristotele per designare l'anima, debba essere tradotto con «forma»? Nel­l'articolo di Ph. Merlan, Beitriige zur Geschichte des antiken Platonismus, «Philologus», 89 (1934), pp. 35-53, 197- 214, al quale Chemiss si riferisce, si affermava (p. 206) che, a questo proposito, l'interpretazione di Speusippo (e di Senocrate) 11

sembra oscurare la differenza fra le definizioni dell'anima pro­prie del Peripato e quelle proprie dell'Accademia, ed il tentativo che veniva fatto nell'articolo era quello di mostrare che la diffe­renza fra l'anima aristotelica come ELOoç e l'anima accademica come LOÉ(X = forma accademica non era forse così grande come comunemente si è ritenuto. Chemiss non conferma pienamente questo punto con la sua interpretazione della definizione di Speusippo? E se è così, non contraddice se stesso? Dopo aver letto la sua penetrante discussione, si è quasi tentati di riassu­merla dicendo: forse, una delle principali differenze fra le defi­nizioni dell'anima proprie dell'Accademia e quelle proprie del Peripato consisteva nel fatto che le prime tendevano verso l'i­dentificazione delle forme di tutti i corpi con l'anima (e le forme matematiche sono gli elementi rappresentativi più rilevanti della forma), mentre Aristotele ha circoscritto l'equazione anima = forma, descrivendo l'anima come la forma dei soli corpi viven­ti 12• In ogni caso, se, secondo Chemiss, Speusippo ha afferma­to che Platone, nel Timeo, intendeva dire che l'anima è una lòfa = t1ooç, come può Cherniss sostenere che i Platonici non hanno mai definito l'anima un'Idea o una forma?

Ma, forse, sarebbe opportuno spiegare come l'lòfo = dooç potesse significare sia forma che essenza. La forma (figura, for­ma, contorno, profilo) di una cosa è (1) ciò che la distingue da

11 In riferimento a Senocrate, Cherniss (p. 511) afferma che il tentativo di Merlan di identificare l'anima con gli enti matematici intermedi si risolve nell'im­possibile identificazione del 3oçixa-t6v con il µix971µix·nx611; ed ha gentilmente spiega­to (oralmente) che una tale identificazione è impossibile, in quanto, dal momento che gli enti matematici costituiscono in Senocrate la sfera suprema dell'essere, l'as­sociazione della Mçix con gli enti matematici lascerebbe la lma'tTjµT} senza un ogget­to. Ma perché la Èma'tTjµT} non dovrebbe riguardare i principi degli enti matemati­ci? Cfr. anche sotto, p. 101.

12 Cfr., ad esempio, N. Hartmann, Zur Lehre vom Eidos bei Platon und Aristate/es, «Abh. der Ber!. Ak., Phil.-hist. Kl.», 1941, p. 19, ristampato in Klei­nere Schriften, voi. II (1957), pp. 129-164, 145, sul ruolo della matematica e della biologia rispettivamente in Platone ed in Aristotele.

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tutte le altre cose - il limite che separa la cosa da ciò che la cir­conda; (2) la struttura che rimane stabile, nonostante la materia muti costantemente - e questa struttura è o rigida o «elastica», come nel caso degli organismi viventi. In altri termini, la forma è ciò in virtù di cui ogni cosa rimane identica a se stessa, e si di­stingue da ogni altra cosa. Pertanto, la forma rappresenta l'ele­mento dell'essere (della stabilità) come contrapposto all'elemen­to del divenire. La forma, dunque, è l'equivalente della presenza dell'Idea nella cosa. Fintanto che una cosa ha forma, essa parte­cipa dell'Idea. È facile osservare che questa interpretazione può essere applicata ugualmente bene a qualsiasi qualità, ad esempio al giusto, al bello, ecc., sebbene in questi casi la forma perda la sua visibilità e divenga un limite astratto.

Si deve aggiungere un'ulteriore parola di avvertimento. Un lettore di Cherniss può essere erroneamente indotto a credere che sono solo alcuni interpreti moderni ad aver affermato che la definizione di Speusippo intendeva fare dell'anima un'entità matematica (in effetti, non è del tutto chiaro se Cherniss dubiti proprio di questo o solamente del fatto che Speusippo abbia po­tuto considerare l'anima come un'entità matematica interme­dia). Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che è solamente in Giamblico che noi troviamo la definizione di Speusippo; e Giamblico afferma esplicitamente che questa definizione aveva il significato di conferire uno status geometrico all'anima. Sem­bra arrischiato accettare da Giamblico le parole di Speusippo e respingere la sua interpretazione sulla base del fatto che essa sembra contraddire Aristotele. Dopo tutto, la supposizione è che Giamblico abbia letto le parole di Speusippo nel loro conte­sto; ed è abbastanza evidente che egli non aveva nessun interesse a fraintenderle (come l'aveva Aristotele). L'intera citazione di Giamblico contenuta in Stobeo (Eclogae, I 49, 32, p. 362, 24-367, 9 Wachsmuth) dà l'impressione di un'opera seria 13 ; di­verse volte Giamblico mostra di conoscere molto bene la diffe­renza fra un resoconto ed un'interpretazione (v. ad esempio, Eclogae I 49, 32, p. 366, 9 Wachsmuth).

13 E per di più ambiziosa. Evidentemente, Giamblico cerca di sostituire ciò che egli considera uno schema inadeguato che sorregge l'esposizione che Aristotele fa nel De anima delle opinioni dei suoi predecessori.

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3. La connessione dell'anima con gli enti matematici in Se­nocrate

Forse qui si può aggiungere un'altra critica. Secondo Cher­niss, Senocrate non avrebbe potuto fare dell'anima un'entità matematica a causa della sua posizione «intermedia», dal mo­mento che egli identifica i numeri con le Idee. In realtà, questo è precisamente quanto afferma Teofrasto, se il riferimento è a Se­nocrate; ma lo stesso Teofrasto afferma, poco più avanti (Meta­fisica, III 12, p. 12 Ross e Fobes), che Senocrate «fa derivare» tutte le cose - le cose sensibili, intelligibili, matematiche, ed an­che le cose divine - dai primi principi (fr. 26 Heinze). Gli intel­ligibili e gli enti matematici sono mantenuti separati (il modo in cui Ross-Fobes rendono questo passo: «Oggetti del senso, og­getti della ragione o oggetti matematici, e cose divine» è un'in­terpretazione e non una traduzione; cfr. il loro esame di questo passo alle pp. 56 ss.; per la semplice traduzione si veda Ross, Aristotle's Metaphysics, pp. LXVI e LXXVVV) 14• Se «le cose divine» sono gli oggetti dell'astronomia, qui abbiamo semplice­mente il modello di Aristotele (sensibile-corruttibile; sensibile­incorruttibile; eterno, con quest'ultimo, tuttavia, suddiviso in enti matematici ed intelligibili) 15 • Sembra pertanto ingiustifica­to negare completamente la possibilità di enti matematici inter­medi in Senocrate. È caratteristico il fatto che Teofrasto men­zioni il nome di Senocrate solamente nel secondo dei due passi sopra citati; nel primo egli forse fa assegnamento solo su Aristo­tele. Ma anche Aristotele non ha mai citato Senocrate per nome come il solo che abbia identificato le Idee con i numeri. È ben possibile che Aristotele non fosse del tutto sicuro della sua inter­pretazione di Senocrate. Non dovremmo trascurare neppure il fatto che Senocrate, per quanto abbia potuto identificare le Idee

14 L'interpretazione di Ross e Fobes mira alla riconciliazione del fr. 5 e del fr. 26 Heinze. Nel primo, Sesto Empirico, Adv. math., VII 147, riferisce che Seno­crate ha ammesso tre sfere dell'essere (le cose al di fuori dei cieli, accessibili al voiiç e all'tmcrtT}µT]; i cieli, accessibili sia alla 0tia87]aLç che al voiiç, la cui mescolanza equivale alla 86ç0t; e le cose all'interno dei cieli, accessibili alla 0tia87]aLç; queste tre sfere corrispondono alle tre µ0Tp0tL). Nel fr. 26 Heinze, Teofrasto, menziona quat­tro entità (0t!a87]'tCX, VOTJ'tCX, µ0t8T]!,1.0t'tLXcx, 8tT0t). Ma questa riconciliazione è necessa­ria? Non è più probabile che Senocrate abbia proposto diverse divisioni dell'essere in diversi contesti?

15 Cfr. Ph. Merlan, Aristotle's Unmoved Movers, «Traditio», 4 (1946), pp. 1-30, spec. 4 ss.

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con i numeri, ha tuttavia mantenuto separate le grandezze geo­metriche. Questo, in realtà, sembra essere il nocciolo di Metafisi­ca, Z 2, 1028 b 24 di Aristotele (fr. 34 Heinze con Asclepio ad /oc.). Dei cinque rimanenti passi raccolti da Heinze, solo uno af­ferma che l'autore, che noi supponiamo sia stato Senocrate, ha identificato le Idee con gli enti matematici tout court; gli altri passi parlano dei numeri. L'unico passo che sembra affermare che Senocrate ha negato la differenza fra le Idee e le grandezze (Metafisica, M 6, 1080 b 28; fr. 37 Heinze) consente una diversa interpretazione. Quando Aristotele afferma che Senocrate crede­va nelle grandezze matematiche ma le considerava in modo non matematico, dovremmo forse accettare come pienamente valida la prima parte dell'affermazione e non dar credito alla seconda in quanto implica una critica. Tutto questo dovrebbe renderci cauti. È arrischiato sostenere con sicurezza che Senocrate sia sta­to sempre o non sia stato mai un dualista (o un trialista, solo nel senso in cui Aristotele è stato un trialista, suddividendo la sfera del sensibile nelle realtà corruttibili e in quelle incorruttibili).

Non è facile comprendere il motivo per il quale Cherniss trova così strano che alcuni studiosi abbiano cercato di «riconci­liare» (le virgolette sono le sue) Platone e Senocrate, attribuen­do al primo la dottrina secondo la quale l'anima è un numero (p. 572). Tutto ciò che egli dice contro questa riconciliazione è che Aristotele non ha mai attribuito questa dottrina a Platone e che la considera, invece, come propria di Senocrate. Fino a che punto è convincente questo argomento? Non è chiaro, al contra­rio, che Senocrate ha interpretato Platone come se avesse soste­nuto proprio questa dottrina? E la sua interpretazione era pro­prio del tutto errata?

Cherniss interpreta il sistema di Platone come se esso soste­nesse la posizione intermedia dell'anima fra le Idee ed i fenome­ni (p. 606; cfr. pp. 407-411) 16• Secondo Cherniss nel sistema di

16 Cfr. pp. 422,453. Chemiss affronta il seguente dilemma. Aristotele affer­ma (Metafisica, Z 2, 1028b 18-24) che Platone ha ammesso solo tre sfere dell'esse­re, le Idee, gli enti matematici ed i corpi sensibili, mentre Speusippo ne ha ammesse più di tre, ossia corpi sensibili, anima, grandezze geometriche, numeri. O Chemiss accetta la parte che si riferisce a Platone come attendibile (a dispetto di Timeo, 30 B), e in questo caso non c'era spazio nel sistema di Platone per un'anima come in­termedia fra le Idee ed i corpi sensibili, e l'interpretazione di Platone da parte di Chemiss sarebbe erronea. Oppure, egli considera l'esposizione del sistema di Pla­tone da parte di Aristotele come erronea, o forse come una illegittima traduzione

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Platone non rimane nessuna funzione per Dio; per quanto con­cerne l'intelligenza (voui;) essa è una parte dell'anima (e le Idee sono al di fuori di essa). Pertanto, restano solo tre sfere dell'es­sere (o in qualsiasi modo Cherniss intenda chiamarle). Egli non negherebbe che Aristotele abbia ripetuto continuamente che Platone ammetteva tre sfere dell'essere: le Idee, gli enti matema­tici, gli oggetti sensibili. Qual è allora la distanza che separa Cherniss da Aristotele?

Cherniss accetta l'interpretazione del Timeo data da Corn­ford (cfr. sopra, p. 64, nota). Egli non negherebbe che Aristote­le abbia descritto gli enti matematici come aventi un carattere «misto»: essi partecipano dell'eternità insieme con le Idee, della molteplicità insieme con gli oggetti sensibili. L'eternità e la mol­teplicità cos'altro sono se non aspetti, rispettivamente, della in­divisibilità e della divisibilità? Qual è la distanza che separa Cherniss da Aristotele?

Non è possibile sostenere che non ci sia affatto nessuna dif­ferenza fra la sua interpretazione e quella di Aristotele. Tutta­via, questa differenza può essere ridotta ad una sola aff ermazio­ne: l'anima, secondo Cherniss, è dotata di movimento, gli enti matematici non lo sono (pp. 597 ss.):

In altre parole, Cherniss può opporsi alla identificazione dell'anima con gli enti matematici solamente per la stessa ragio­ne per la quale vi si è opposto l'autore utilizzato come fonte nel cap. III di Isc. Ma nemmeno per Cherniss c'è alcun motivo di negare che l'anima sia una qualche specie di entità matematica e che, insieme con altre entità matematiche, sia intermedia.

Pertanto, come abbiamo detto, l'espressione del Timeo co­stituiva un invito ad identificare l'anima con gli enti matemati-

della posizione intermedia degli enti matematici in termini epistemologici, così co­me viene proposta da Platone in Repubblica, VII, in una posizione intermedia espressa in termini ontici (si veda, tuttavia, W. D. Ross, Plato's Theory of Ideas (1951), pp. 25 ss.; 59-66; 177) -, e in questo caso non dovrebbe fare affidamento sull'esposizione aristotelica di Speusippo. La via d'uscita sembra che consista nel­l'ammettere che: I) l'esposizione di Platone fatta da Aristotele è corretta in quanto nel sistema di Platone l'anima può essere identificata con gli enti matematici; 2) nel presentare Speusippo, Aristotele interpreta le differenze presenti all'interno del­l'ambito degli enti matematici (numeri, grandezze geometriche, anima) come se es­se fossero differenze assolute, in quanto Aristotele ha interesse a presentare le opi­nioni di Platone e di Speusippo come totalmente diverse, il che, tuttavia, non sono.

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ci 17 • Speusippo e Senocrate si sono avvalsi di questo invito, al­meno in parte.

Posidonio ha accettato come platoniche la tripartizione di Aristotele e la definizione dell'anima di Speusippo. Conosciamo i risultati.

4. Il carattere platonico della tesi secondo la quale gli enti mate­matici sono dotati di movimento

Resta da compiere un solo passo: considerare gli enti mate­matici come dotati di movimento. È precisamente questo il pas­so che Cherniss si rifiuta di compiere. Ma quanto è errato que­sto passo? Chi potrebbe affermare che esso non è conforme allo spirito di Platone (cfr. Zeller, 11/1 S, p. 781, n. 1)? Si può affer­marlo solo se si accetta in modo incondizionato l'affermazione di Aristotele (cfr. p. 91), secondo la quale gli enti matematici non sono dotati di movimento (un'affermazione in nome della quale ci si è opposti all'applicazione della matematica alla fisica compiuta da Galilei). Ma non dovremmo aspettarci che Aristo­tele ponga in rilievo ed insista eccessivamente sul carattere di im­mobilità degli enti matematici, proprio Aristotele che ha così en­faticamente negato la presenza nel sistema di Platone di qualsia­si entità dotata di movimento? Cherniss lo critica severamente per aver trascurato di osservare che nel _sistema di Platone l'ani­ma è dotata di movimento; è così impossibile supporre che, an­che per quanto concerne gli enti matematici, Aristotele abbia dato per scontato ciò che neppure Platone, né un Platonico or­todosso, avrebbero concesso come ovvio? Certamente, l'identi­ficazione dell'anima con gli enti matematici non è una pura e semplice dottrina platonica; ma potrebbe essere una buona dot­trina accademica. Soprattutto, questa equazione non può essere definita non-platonica a causa del carattere di movimento della prima, e del carattere di immobilità dei secondi.

Questo ci conduce ancora ad un'altra domanda. Qual è la differenza fra la definizione dell'anima di Senocrate (numero che muove o che muta se stesso) e la definizione di Speusippo

17 Cfr. E. Zeller, Die Philosophie der Griechen, 11/1 (1922 5), pp. 780-784, spec. 784, n. I.

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(Idea del generalmente esteso)? Entrambe le definizioni pongo­no in rilievo il carattere matematico dell'anima, sebbene una ne sottolinei maggiormente il carattere aritmetico, l'altra maggior­mente l'aspetto geometrico (cfr. Zeller, op. cit., p. 784). Consi­derando il fatto che Platone descrive l'anima del mondo in ter­mini di numeri prima e in termini di cerchi poi, non c'è niente di sorprendente né nella differenza, né nella somiglianza fra le due definizioni. Giamblico le confronta da questo punto di vista; e leggendo l'intero passo (Stobeo, Eclogae, I 49, 32, p. 364, 2-10 Wachsmuth), invece di sezionarlo nelle singole o6çrtL, si può dif­ficilmente dubitare della correttezza della sua interpretazione. Proprio come Senocrate sosteneva che la psicogonia di Platone era in realtà un'aritmogonia, Speusippo avrebbe potuto sostene­re che essa era una schemagonia. Ora, per dimostrare che il nu­mero che muove se stesso non ha niente a che fare con la figura, Cherniss (p. 399, n. 325) cita Cicerone, Disputationes Tuscula­nae (110, 20, fr. 67 Heinze): Xenocrates animifiguram et quasi corpus negavit esse, verum numerum dixit esse. Cherniss non traduce la parola «verum»; ma sembra evidente che essa signifi­chi «nondimeno», e non «al contrario», così che Cicerone fa di­re a Senocrate che, sebbene l'anima non dovrebbe essere descrit­ta come una figura geometrica o un solido (quasi corpus = cor­po geometrico o volume, in quanto differente da corpus = cor­po tangibile), nondimeno essa è un numero; in altri termini, ab­biamo qui la differenza fra due branche della matematica, con Senocrate che dà la preferenza all'aritmetica, mentre qualcuno ha preferito la geometria.

E può essere benissimo che, per quanto riguarda il proble­ma del considerare gli enti matematici (gli oggetti dell'aritmetica o della geometria) come dotati di movimento, la differenza fra Senocrate e Speusippo possa essere ridotta a questo: secondo il primo, l'anima, ossia il numero che muove se stesso, è una parte della sfera degli enti matematici, per il secondo non dovremmo considerare nessuno degli enti matematici come dotato di movi­mento, ma piuttosto dovremmo considerare gli enti matematici in movimento = anima come una sfera separata dell'essere che segue gli enti matematici immobili, piuttosto che esserne una parte.

In breve, la relazione di Giamblico, secondo la quale sia Speusippo che Senocrate hanno identificato l'anima con una

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realtà di tipo matematico (se essi hanno fatto ciò interpretando il Timeo, oppure professando una loro personale dottrina, nel presente contesto è senza importanza) è ineccepibile. E non c'è niente nel Timeo che escluda questa identificazione come com­pletamente non platonica 18 •

5. Tracce dei rapporti dell'anima con gli enti matematici in Ari­stotele

Possiamo ora ritornare al problema di come il carattere matematico dell'anima (in altre parole, il fatto che l'anima sia un'Idea come forma matematica) si rapporti alla concezione ari­stotelica dell'anima come dòoc; di un corpo vivente. Forse può essere avanzata la seguente interpretazione. Aristotele giunge a considerare l'anima come una forma del corpo (ossia come un'entità che non esiste più separatamente) all'interno dello stesso svolgimento di pensiero che lo ha condotto ad abbando­nare un eccessivo realismo in matematica 19• Gli enti matematici

18 Non c'è nessuna ragione per aspettarsi che le dottrine del Timeo concer­nenti l'anima debbano essere compatibili con quelle del Fedro, più di quanto non ci si debba aspettare che siano compatibili le dottrine riguardanti la struttura dell'uni­verso e la sua storia così come vengono esposte nel Timeo, da un lato, e nel Politi­co, dall'altro.

19 Per quanto concerne i resti presenti in Aristotele del modo in cui Platone considera la matematica («existenzableitende Mathematik»), cfr. F. Solmsen, Pla­tos Einfluss auf die Bildung der mathematischen Methode, «Quellen und Studien zur Geschichte der griechischen Mathematik ... », Abt. B: Studien 1 (1937), pp. 93-107; si veda, su questo problema, anche F. Solmsen, Die Entwicklung der ari­stotelischen Logik und Rhetorik (1929), spec. pp. 79-84; 101-103; 109-130; 144 ss.; 223; 235-237; 250 ss. L'interpretazione di Solmsen, in particolare la sua analisi de­gli Analytica priora e posteriora, è stata recentemente criticata da W .D.Ross (Ari­stotle's Prior and Posterior Analytics (1949), pp. 14-16). Nella misura in cui la criti­ca di Ross si riferisce al problema dell'ordine cronologico all'interno degli Analitici di Aristotele, essa non ci interessa qui. Ma ciò che è interessante nel presente conte­sto è l'affermazione di Ross, che «la dottrina degli Analitici Posteriori non è la stu­pida dottrina che considera numeri, punti, superfici, solidi come una serie di gene­ra e species ... » (p. 16). Ora, se la relazione del punto con la linea, ecc., possa essere determinata precisamente in termini di genus e species, nel nostro senso comune del termine, è certamente dubbio. Ma ciò che importa è proprio questo: il numero è anteriore al punto, il punto alla linea, ecc., ed in questo senso, e solo in questo sen­so, ciò che è anteriore è, nello stesso tempo, più generale (o universale). La linea implica il punto, ecc., e non viceversa. È forse una dottrina strana, ma certamente non stupida, affermare che tu «derivi» la linea dal punto «aggiungendo» qualcosa - questo processo di addizione assomiglia un po', pur essendone completamente differente, alla determinazione di un genus mediante una differenza specifica. Ed è

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per Aristotele non esistono più separati; e pertanto, neppure l'a­nima può esistere separata, perché l'anima e gli enti matematici coincidono. Se egli fosse o no disposto a negare completamente l'esistenza separata dell'anima (ossia a negare completamente la sua immortalità e la sua pre-esistenza) è una ben nota questione controversa. Se viene accettata l'ipotesi sopra avanzata, se l'ab­bandono del realismo matematico è un altro aspetto della stessa evoluzione che ha condotto Aristotele ad abbandonare ciò che potrebbe essere detto il realismo fisico, dovremmo attenderci una forte tendenza ad ammettere per l'anima solamente quello stesso tipo di esistenza separata, di pre-esistenza, e di post-esi­stenza che Aristotele era disposto ad ammettere per gli enti ma-

proprio questa dottrina della «derivazione» mediante «aggiunzione» che si può trovare negli Analitici. Negli Analitici Posteriori, I 27, 87a 31-37, Aristotele dice: fra i motivi per cui una scienza è più esatta di un'altra vi è anche questo, che una è lç &Àcn-.6vwv, l'altra, quella meno esatta, lx 1tpoa8fotwç. Ed aggiunge: ÀÉjw 8' lx 1tpoa8Éatwç, otov µovaç oua(a &8t'toç G't\jfl1j 8& oua(a 8t-.6ç 'tOtU'tTjV Èx 1tpoa8fotwç. Sull'intero problema, cfr. anche A. Trendelenburg, Logische Untersuchungen, I (1870), voi. I, cap. VII, spec. pp. 271-298.

In altri termini: la monade aggiunta alla posizione si risolve in una linea. Que­sta è esattamente la Existenzableitung accademica presente nella matematica. Essa condurrà ultimamente alla derivazione dei corpi fisici dai solidi. Poiché il punto è meno determinato della linea, esso è più reale e precede la linea. È solo dal nostro punto di vista che l'universale è ciò che è meno determinato rispetto alla realtà indi­viduale concreta che esiste nello spazio e nel tempo. Per comprendere il metodo della Existenzableitung, tuttavia, dobbiamo considerare l'universale da un punto di vista completamente diverso. Quanto più una cosa è determinata, tanto meno è reale; quanto meno è determinata, tanto più è reale. E se il punto è meno determi­nato della linea ed è, in questo senso, più universale, è evidente che l'universale, quando viene usato in questo contesto, non può significare ciò che noi definiamo l'universalità di genera e species. Si confrontino, Plotino, Enneadi, VI 2, 3, 17-18; 10, 15-23; 35-43; Il, 41-45 Bréhier.

Da un punto di vista astrazionistico, tutto questo non ha senso. Il punto geo­metrico non viene «astratto» dalla linea geometrica, ma da un «punto fisico». La linea non deriva dal punto, ma viene astratta da una «linea» fisica. E, naturalmen­te, solo i punti e le linee fisiche sono reali, ossia oua(aL; i punti e le linee matemati­che sono semplicemente il risultato di un'astrazione. Questo punto di vista astra­zionistico è indubbiamente quello di un altro Aristotele; ma, nel passo citato sopra, Aristotele parla come parlerebbe un Accademico e fa derivare la linea dal punto ecc., mediante un processo diverso dal processo mediante il quale un genus «divie­ne» una species e così via. Difatti, anche Aristotele definisce la monade ed il punto come oua(aL. Leggendo il commentario di Ross, ad. /oc., si ha quasi l'impressione che Ross sia un po' imbarazzato da questo fatto. La sua spiegazione del perché Ari­stotele usi qui il termine oua(a è certamente abbastanza debole.

L'intero problema della derivazione diventerà più chiaro nel capitolo VII. Per il momento, ci limitiamo all'affermazione che gli Analitici di Aristotele contengo­no resti di un realismo matematico, così come aveva affermato Solmsen.

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tematici, qualunque significato possa aver avuto per lui la loro esistenza separata. Jaeger ha sintetizzato il mutamento avvenu­to nella psicologia di Aristotele nella formula: dall'anima come e.!òoc; 't'L all'anima come dooc; -rLv6c; (Aristoteles [1955 2

), p. 44). La stessa formula può essere usata per descrivere il mutamento avvenuto nello status degli enti matematici, ossia il passaggio dal realismo al realismo moderato. Opponendosi a Jaeger, Cherniss (op. cit., p. 508) ha rivolto l'attenzione al fatto che an­che in Metafisica, M 2, 1077 a 32-33, l'anima viene ancora con­siderata come un E!ooc; ed una µopcpTJ -rLc;. Tuttavia, Cherniss tra­scura prima di tutto il fatto che questa affermazione potrebbe avere un carattere ipotetico (ofov d &pa ~ ~ux~ -roLoù-rov) 20; ma ammettiamo che Cherniss abbia ragione. Questo dimostrerebbe solo che Aristotele era ancora un po' incerto per quanto concer­ne il rapporto fra la sua precedente e la sua più recente concezio­ne dell'anima; così come in Metafisica, El, 1026 a 15, è ancora un po' incerto per quanto riguarda l'intero status degli enti ma­tematici. Tutto ciò, incluso lo stesso passo citato da Cherniss, dimostra ancora una volta quanto l'equazione anima = enti matematici sia accademicamente ortodossa. In Metafisica, M 2, Aristotele afferma: le linee non possono esistere separatamente (o: essere oùa(aL) nel senso delle forme, come l'anima (o, secon­do la precedente interpretazione: come si suppone che lo sia l'a­nima). Proprio il fatto che le linee vengano paragonate con le forme e con le anime mostra quanto facilmente Aristotele passi nei suoi pensieri dagli enti matematici all'anima. Ciò che vedia­mo accadere nella Metafisica, lo vediamo ancora meglio nel De anima: in II 3, 414 b 28, troviamo un confronto dettagliato (ed enigmatico) fra i problemi che comporta la definizione dell'ani­Illa e quelli che comporta la definizione di una figura geometri­ca. Potremmo forse dire che, senza il riferimento a questa equa­zione di anima = enti matematici, sarebbe difficilmente com­prensibile il motivo per il quale Aristotele sviluppa il confronto fra l'anima e la figura geometrica in modo così dettagliato.

Istruttivo è anche un confronto fra due passi di Simplicio.

20 In F. Nuyens, L 'Evolution de la Psychologie d'Aristo/e (1948), troviamo un'interpretazione curiosamente autocontraddittoria di questa frase. A p. 173, n. 76, egli approva (in modo del tutto corretto) le traduzioni del Tricot (camme l'àme, si bien l'àme est bien telle en effet) e del Ross (as the soul perhaps is). Ma la sua tra­duzione è (p. 173): camme c'est sans doute bien le cas pour l'ame.

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POSIDONIO ED IL NEOPLATONISMO

Egli dice di Senocrate (In Aristote­lis De anima, 404 b 27, p. 30, 4 Hayduck e 408 b 32, p. 62, 2 Hay­duck, fr. 64 Heinze): con la sua definizione dell'anima come numero che muove se stesso, Senocrate ha inteso evidenziare il suo carattere intermedio fra le Idee e la sfera formata secondo le Idee (ed al tempo stesso ha inteso evidenziare il suo t'owv).

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Ed egli dice a proposito dell' Eude­mo di Aristotele (In Aristotelis De anima, 429 a 10, p. 221, 25 Hay­duck, fr. 46 Rose, fr. 8 Walzer): [Ponendo in evidenza] il carattere intermedio dell'anima fra l'indivi­so ed il diviso ed il fatto che l'ani­ma mostra caratteri sia del limite che del limitato [dell'opoç e dell'ò­pt(6!J.e.vov] ... Aristotele ha definito l'anima come una forma (e.'IB6ç ·n).

In altri termini, secondo Simplicio, Aristotele nel suo Eu­demo era molto vicino all'interpretazione matematica del­l'anima.

6. Altri esempi dei rapporti dell'anima con realtà di tipo mate­matico

Una volta compiuta l'identificazione dell'anima con gli en­ti matematici, o con un ente matematico, non ci sono limiti alle combinazioni, alcune delle quali potevano risultare estrema­mente fantasiose. Naturalmente, non era facile superare la fan­tasia del Timeo di Platone e la sua strana mescolanza di meta­fore poetiche e di formule matematiche che culmina in un con­cetto che non può essere colto né dall'immaginazione, né dal­l'intelletto: un'anima che è una figura circolare costituita da una mescolanza di essre (essenza), identità e diversità, la quale mescolanza è «contrassegnata» (qualunque cosa ciò possa si­gnificare) secondo alcune proporzioni o intervalli. Ma era sem­pre possibile semplificare gli elementi fantastici presenti in Pla­tone, conservando tuttavia l'idea principale, ossia l'identifica­zione dell'anima con alcuni specifici oggetti della geometria 21 ,

o con il numero, o con le proporzioni. Una di queste combina­zioni ci è stata conservata in Sesto Empirico ed in Anatolio­Giamblico.

21 Cfr. Lido, De mensibus, II 9: l'anima è un rettangolo, un cerchio, una sfera.

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Anatolius, 1ttpl Òtxa.Òoç, p. 32 Heiberg - lamblichus, Theolo­goumena arithmeticae, 23-24 ed. V. de Falco (1922), p. 30, 2-15 Où µ6vov ÒÈ 'tÒV 'tOU awµcx,oç l1ti­x.u Àoyov n,pa.ç, ixÀÀÒt xcxt ,Òv 'tfjç ~Uj(.~ç• wç ')'Òtp 'tÒV 0ÀOV xoaµov ~cxat xcx,Òt &pµovlcxv 0LOLxtTa9cxL, OU'tW xcxt 'tÒ Cwov ~ux.oiia9cxL. ooxtT ÒÈ xcxt nÀtlcx &pµov(cx lv ,pLal auµ~wv(cxLç u~ta,a.vcxL ... [ossia, la quarta, la quinta, l'ottava.] ... 0V'tWV ÒÈ àpL9µwv 'ttaaa.pwv 'tWV 1tpw,wv . . . lv 'tOU'tOLç xcxt ~ 'tfjç ~ux.~ç tÒÉcx 1ttpLÉ)(.t'tCXL XCX'tÒt 'tÒV lvcxpµ6vLOv Àoyov ... d ÒÈ lv ,~ o' àpL9µ~ ,Ò miv xtT'tetL lx ~ux.~ç xcxt awµcx,oç, 1XÀTj9Èç &pcx xcxt, 0'tL CXL auµ~wv(cxL 1t~acxL xcx,' cxù,òv n­Àoiiv,cxL

Ecco la traduzione dei due testi: li quattro non soltanto tiene in considerazione la realtà corporea, ma anche quella spirituale; come infatti si dice che il mondo è rego­lato secondo un criterio di armo­nia, così [cioè, secondo un criterio di armonia] l'essere vivente si ani­ma. Ora, pare che una perfetta ar­monia consista in tre consonanze. Essendo quattro numeri i primi ... in questi anche l'idea dell'anima è compresa secondo una considera­zione di accordi armonici... e se nel numero il tutto risulta di una realtà spirituale e di una realtà cor­porea, è vero anche che tutte le consonanze si effettuano perfetta­mente secondo quel numero.

DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Sextus Empiricus, Adversus ma­thematicos, IV 5-8 - VII 95-100 wa,t lv 't~ 'n,a.p,ep' ixpL9µ~ ,Òv 'tOU awµcx,oç 1ttpLÉX,ta8cxL Àoyov· XCXl µ~v XCXl 'tÒV njç ~U)(.~ç" Wç ')'Òtp 'tÒV 0À.OV xoaµov XCX'tÒt apµov(cxv ÀÉ· j0UGL 0LOLXtfo9cxL OU'tW xat 'tÒ Cwov cjiux.oiia9cxL. ooxtT 0É ~ 'tÉÀtLOç &p­µov(cx lv ,pLai auµ~wvlcxLç Àcxµ~a.­VtLV ~V U1t0CJ'tCXCJLV . . . àÀÀÒt yètp 'tOU'tWV ou,wç lx.6v,wv, xcxt XCX'tÒt ~V 1Xp)(.~9tv U1t08taLV 'ttaaa.pwv ov,wv àpL9µwv ... lv otç lÀlyoµtv xcxi ~v 'tfjç ~ux.~ç lolcxv 1ttpLÉX.t· a9cxL xcx,Òt ,Òv lvcxpµ6vLOv Àoyov ...

Sicché nel numero «quattro» viene compresa la considerazione della realtà corporea, e in effetti anche quella dello spirito. Come infatti dicono che l'universo è regolato secondo un criterio di armonia, così [cioè, secondo un criterio di armonia] si anima ogni essere vi­vente. Ora, pare che la perfetta ar­monia prenda consistenza in tre consonanze... ma se stanno così queste cose e se, secondo l'ipotesi da principio, sono quattro i nume­ri. .. nei quali dicevamo che è com­preso anche l'aspetto dell'anima secondo una considerazione di scala d'accordi (musicali).

Entrambi i passi cercano di spiegare perché il numero quattro «corrisponda a» o «contenga la formula» sia del corpo che del-1' anima. Per quanto concerne il corpo, la ragione è ovvia: la pi­ramide è il primo corpo e la piramide corrisponde al numero quattro, perché, per formare questa specie di solido, sono neces­sari e sufficienti quattro punti (cfr. Giamblico, ibi., 18, p. 22,

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POSIDONIO ED IL NEOPLATONISMO 111

10 De Falco; 62, p. 84, 11, De Falco; Sesto, ibid.). Un po' più complessa è la prova che il quattro corrisponde anche all'anima. In primo luogo, Sesto e Giamblico pongono sullo stesso piano l'armonia che governa l'universo e l'anima dell'essere vivente -in altri termini, affermano che l'anima è essenzialmente armo­nia. In secondo luogo, spiegano che la perfetta armonia contiene tre intervalli, la quarta, la quinta e l'ottava. Ma questi tre inter­valli sono fondati sulle proporzioni 3/4, 2/3 e 1/2, cioè su pro­porzioni formate da numeri che sono tutti contenuti nel numero quattro. Pertanto, il quattro contiene gli intervalli fondamentali ed in questo senso è perfetta armonia; ma la stessa cosa, ossia il fatto di essere una perfetta armonia, vale anche per l'anima. Per­tanto, il quattro «corrisponde» sia al corpo che all'anima.

Tutto questo può essere espresso con questa formula sinte­tica: il quattro «è» piramide nella sfera dell'esteso, «è» anima nella sfera del non-esteso. Ancora più semplicemente: 4 = pira­mide = anima. Se leggiamo questa equazione in senso inverso, vediamo immediatamente che essa equivale all'identificazione dell'anima con una realtà aritmetica (il quattro), con una realtà geometrica (la piramide), e nello stesso tempo è fondata sulla supposizione che l'anima sia composta di tre specifiche armonie (intervalli).

Qual è la fonte di Sesto e di Anatolio-Giamblico? Nelle sue indagini, concernenti principalmente Giamblico, V. De Falco (Sui Theologoumena Arithmeticae, e Sui trattati aritmologici di Nicomaco ed Anatolio, «Rivista Indo-Greca-Italica», 6 [1922], pp. 51-60 e 49-61) ha avanzato l'ipotesi che questa fonte avrebbe potuto essere, fra gli altri, Posidonio, che, nel suo commentario al Timeo di Platone, ha commentato il numero quattro. Ora, sia che ciò sia avvenuto all'interno di uno specifico commentario o semplicemente in alcuni commenti al Timeo di Platone, sembra che de Falco abbia ben dimostrato la sua tesi, secondo la quale Posidonio avrebbe commentato il numero quattro, in modo tale da farlo corrispondere contemporaneamente ad una piramide e all'anima; questo concorderebbe perfettamente con la sua defi­nizione dell'anima come viene citata da Plutarco (sopra, p. 91). Ma forse è possibile risalire ancora più indietro 22 • Nella ben no-

22 O due passi, se accettiamo la teoria di F.E.Robbins, Posidonius and the Sources of Pythagorean Arithmology, «Classica) Philology», 15 (1920), pp. 309-322, e idem, The Tradition of Greek Arithmology, «Classica) Philology», 16 (1921), pp. 97-123, spec. 123 (cfr. K. Staehle, Die Zahlenmystik bei Philon von

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tacitazione tratta da Speusippo (Theologoumena arithmeticae, 61-63, p. 82, 10-85, 23 De Falco), Giamblico riferisce che, nella sua breve opera sui numeri pitagorici, Speusippo, nella prima metà di questa, dedicava un po' di spazio ad un esame dei cin­que solidi regolari. È pressoché impossibile immaginare che, in questo esame, non ricorresse l'equazione quattro = piramide, proprio come ricorre nella seconda metà del suo libro (p. 44, 11 De Falco). Forse, non è troppo arrischiato supporre che esso contenesse anche l'equazione piramide = anima, o almeno al­cune parole che avrebbero reso facile ad un imitatore pervenire a questa equazione. Forse esso conteneva la definizione (fr. 40 Lang) anima = «Idea» del generalmente esteso citata da Giam­blico. L'opera di Speusippo potrebbe benissimo essere stata fra le fonti di Posidonio, o almeno aver ispirato lui ed altri ad iden­tificare l'anima con qualche ente matematico. L'equazione ani­ma = piramide sembra moltò sommaria, ma questa è l'impres­sione che produce l'intera discussione concernente il numero dieci, conservataci da Giamblico nella forma di una citazione letterale tratta da Speusippo (fr. 4 Lang).

In ogni caso, qualunque fosse la fonte ultima, l'equazione anima = le tre armonie fondamentali = piramide = numero quattro, come la si trova in Sesto Empirico ed in Anatolio­Giamblico, è un altro esempio caratteristico del tentativo di identificare l'anima con le tre branche della matematica.

È probabile che, per il pensiero moderno, l'identificazione dell'anima con gli enti matematici appaia alquanto bizzarra 23 •

Ma, forse, essa può essere spiegata in termini piuttosto semplici. Quando parliamo dell'anima (o dell'intelligenza, del vouç, ecc.), noi, quasi inconsciamente, assumiamo la parola per designare qualcosa di soggettivo, ossia la coscienza eco., come contrappo­sto agli oggetti della coscienza stessa. Ma questo non è il solo punto di vista possibile 24 • Ragionevolezza e ragione possono

Alexandreia (1931), p. 15); secondo Robbins, dietro Posidonio c'è qualche trattato aritmologogico composto nel secondo secolo. Cfr. anche A. Delatte, Etudes sur la littérature pythagoricienne (1915), spec. pp. 206-208, e idem, Les doctrines pytha­goriciennes des livres de Numa, «Bull. del' Académie R. de Belgique (Lettres)», 22 (1936), pp. 19-40; Delatte fa risalire la rinascita del Pitagorismo agli inizi del secon-do secolo A.C. _

23 Si veda, ad esempio, W.D.Ross, Plato's Theory of Jdeas (1951), p. 213. 24 Cfr. H. Heimsoeth, Die sechs groften Themen der abendliindischen Meta­

physik, 1954 3, pp. 90-130, spec. 92 ss.; 118; E. Bickel, Inlocalitas, p. 9, in:

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benissimo essere interpretate come due aspetti dell'unica e me­desima realtà (sia che intendiamo sia che non intendiamo usare per essa il termine Assoluto, Identità Assoluta, ecc.): la ragione­volezza come ragione nella sua auto-alienazione, e la ragione co­me ragione che è divenuta consapevole di se stessa. In realtà, si può negare che, in un certo senso, la ragione sia ciò che essa pensa, o che gli oggetti siano così come essi vengono pensati? Se ammettiamo che l'universo ha una struttura razionale, possia­mo esprimere questa nostra convinzione dicendo che esso ha un'anima, una intelligenza, ecc. Ora, la prova migliore del fatto che l'universo ha una struttura razionale è il fatto che ad esso è applicabile il calcolo matematico 25 •

In altri termini, sembra che sia utile accostarsi alla filosofia greca passando attraverso Schelling, o anche, entro un certo li­mite, attraverso Kant. Quest'ultimo ha rivolto la nostra atten­zione al problema della applicabilità della matematica alla real­tà 26 • Certamente, egli ha spiegato questo fatto nei termini della sua teoria dell' a priori e dell'elemento formale della nostra co­noscenza e nei termini della sua rivoluzione copernicana, che co­stituiscono di certo una spiegazione molto distante dalla filoso­fia greca. Ma questo è proprio il punto in cui é intervenuto Schelling (e, nella sua fase schellinghiana, Hegel): la ragione è applicabile all'universo, perché l'universo è (oggettivamente) ra­zionale. Quando Platone dice che l'anima del mondo causa, me­diante il suo pensiero, i movimenti razionali dell'universo, ciò equivale all'affermazione che ci sono movimenti razionali nel­l'universo, che possono essere conosciuti 27 •

AA. VV., lmmanue/ Kant. Festschrift zur zweiten Jahrhundertfeier seines Geburt­stages. Hg. von der Albertus-Universitiit in Konigsberg i. Pr. (1924).

25 Cfr. C.F. von Weizsiicker, The History of Nature (1949), p. 20. 26 In che misura questo problema sia ancora attuale lo si può vedere, ad

esempio, in V. Kraft, Mathematik, Logik und Erfahrung (1947). Cfr. anche O. Becker, Mathematische Existenz, «Jahrbuch fiir Philosophie und phanomenologi­sche Forschung», 8 (1927), pp. 439-809, spec. 764-768; M. Steck, Grundgebiete der Mathematik(l946), pp. 78-95.

27 Cfr., ad esempio, E. Hoffmann, Platonismus und Mittelalter, «Vortrage der Bibliothek Warburg 1923-1924» (1926), pp. 17-82, spec. 54 ss. (ma si veda an­che pp. 72-74). Si veda anche J. Moreau, L 'Àme du monde de Platon aux Stoiciens (1939). Moreau, tuttavia, insiste sull'interpretazione non realistica sia dell'anima che degli enti matematici (pp. 50-53) e, nel suo libro, La Construction de l'Idéali­sme p/atonicien (1939), sul fatto che gli enti matematici non sono separati dalle Idee come una sfera separata dell'essere (pp. 343-355). J. Stenzel, Metaphysik des Altertums (in: «Handbuch der Philosophie», I [1931], pp. 145 e 147) usa, per de-

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114 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Pertanto, può essere appropriato concludere questo capito­lo con una citazione tratta dall' Vber das Verhiiltnis der bilden­den Kunste zur Nature (1807) di Schelling:

Infatti, l'intelletto ( Verstand) non potrebbe avere come suo oggetto ciò che è privo di intelletto. Ciò che è privo di conoscen­za non può neppure essere conosciuto. Certamente, il sistema della conoscenza ( Wissenschaft), in forza del quale opera la na­tura, è dissimile da quello dell'uomo, che è conscio di se stesso (mit der Reflexion ihrer selbst-verknupft). Nel primo, il concet­to (Begrif.f) non si distingue dall'azione, né l'intento dall'esecu­zione (Siimtliche Werke, 1. Abt., voi. VII [1860), p. 299).

scrivere il sistema di Platone, la formula «equivalenza metafisica». Questo non è nient'altro che il principio d'identità di Schelling - l'Assoluto precede sia l'essere che la coscienza. Cfr. anche N. Hartmann, Das Problem des Apriorismus in der platonischen Phi/osophie, «SB der Berl. Ak.», 1935, pp. 223-260, spec. 250-258, ri­stampato in Kleinere Schriften, voi. Il, 1957, pp. 48-85, spec. 74-83. In R. G. Bury, The Philebus of Plato (1897), troviamo un Platonismo interpretato come un pan­teismo schellinghiano (pp. LXXVI ss.); ed un'interpretazione simile è quella di R. D. Archer-Hind, The Timaeus of Plato (1888), p. 28; tuttavia, la sua interpretazio­ne del particolare come «la rappresentazione simbolica dell'idea all'intelligenza li­mitata dalle condizioni dello spazio e del tempo» (ibi., p. 35), è indebitamente sog­gettivistica.

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Prima Appendice al Capitolo II

1. L'esposizione più recente di Posidonio è quella di K. Reinhardt, in RE, XXII/I (1953). A proposito del passo in questione (Posidonio in Plu­tarco), si veda la p. 791 del saggio di Reinhardt (Cfr. M. Pohlenz, Die Stoa, voi. II [seconda edizione, 1955), p. 215). Per conciliare questo passo con la loro interpretazione di Posidonio, sia Pohlenz che Reinhardt devo­no supporre che il passo sia rigorosamente interpretativo, e che non impli• chi che Posidonio condividesse le opinioni che attribuiva a Platone.

2. Sono stato criticato più di una volta per aver accettato la testimo­nianza di Giamblico preferendola a (o, come preferirei dire, in aggiunta a) quella di Aristotele, e per aver pertanto supposto che Speusippo (almeno talvolta) ha identificato l'anima con una realtà di tipo matematico (con una grandezza geometrica) 28 • Sfortunatamente, i miei critici si sono limi­tati all'affermazione che Aristotele è più attendibile di Giamblico. Vorrei sapere in che modo sono pervenuti a questa conclusione. In particolare, vorrei sapere se essi hanno mai letto l'intero passo in cui compare questa definizione, o se si sono limitati a riflettere su quest'unico frammento. Dal momento che l'intero passo ora è stato tradotto e corredato di un ampio commentario 29 , ritengo che sia facile vedere che Giamblico, come uno storico della filosofia, non è solito attribuire le proprie idee agli autori dei quali, invece, si limita semplicemente ad esporre le dottrine. Al contrario, Giamblico dà qui l'impressione di un cronista del tutto neutrale in rappor­to agli autori che egli cita. Perché, allora, dovremmo diffidare di Giambli­co quando egli contraddice (o sembra contraddire) Aristotele?

Inoltre, non ho eluso il problema di conciliare il resoconto di Aristo­tele (che non è di certo un cronista neutrale) con quello di Giamblico. I miei critici, invece di respingere recisamente la testimonianza di Giambli­co, non dovrebbero forse cercare di spiegare perché egli avrebbe dovuto commettere l'errore che essi gli attribuiscono?

3. Forse saranno ritenute pertinenti alcune considerazioni semi-siste­matiche.

Alla maggior parte dei lettori moderni l'affermazione che l'anima è (o assomiglia a) una grandezza geometrica sembrerà inintelligibile. Ma, se un

28 Specialmente da G. de Santillana, «Isis», 40 (1957), pp. 360-362, e da G. B. Kerferd, «The Classica) Review», 69 (1955), pp. 58-60.

29 A. J. Festugière, La Révélation d'Hermès Trismégiste. III. Les Doctrines del'iime(l953), pp. 117-164, spec. 179-182.

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116 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

filosofo moderno dicesse che la struttura geometrica del cristallo è la sua anima, noi potremmo dissentire, potremmo trovare la sua affermazione fantastica, ma potremmo dire che non «comprendiamo» ciò che egli inten­de dire? Ritengo di no.

Ed il nostro atteggiamento difficilmente muterebbe se il filosofo ora continuasse e dicesse che l'universo dovrebbe essere interpretato come un cristallo gigante.

Se ora, invece del cristallo come un prodotto, consideriamo il proces­so di cristallizzazione, è facile comprendere che la struttura geometrica del cristallo potrebbe essere considerata coma una realtà dotata di movimen­to, piuttosto che come un risultato causato dal processo.

Ora, è ben noto che nel XX secolo sono stati fatti tentativi per spiega­re i processi biologici nei termini di ciò che potrebbe essere definita una forma dotata di movimento, e che l'autore di una tale spiegazione, Drie­sch, ha definito una entelechia.

Considerando tutto ciò, la definizione dell'anima come forma del ge­neralmente esteso (l'estensione tri-dimensionale, lo spazio) perderebbe molto della sua stranezza. Inoltre, risulterebbe evidente il suo stretto rap­porto con la definizione classica di Aristotele dell'anima come entelechia di un corpo vivente.

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Seconda Appendice al Capitolo II

I due passi contenuti in Plutarco (su Senocrate e su Posidonio) e la de­finizione dell'anima di Speusippo sono stati analizzati frequentemente. Ecco alcuni riferimenti:

A. Boeckh, Ober die Bildung der Weltseele im Timaeos des Platon (1807), ristampato in: Gesammelte kleine Schriften, voi. III (1886), pp. 109-180, spec. 131 ss.; Th. H. Martin, Études sur le Timée de Platon, 2 voll. (1841), voi. I, pp. 375-378; A. Schmekel, Die Philosophie der mittle­ren Stoa (1892), pp. 426 ss.; 430-432; R.M. Jones, The Platonism of Plutarch (1916), pp. 68-80, spec. 73, n. 12; 90-94 (secondo l'interpretazio­ne di Jones la ~ -cwv 1te.p1hw11 oùa(a indica «la base del mondo materiale»; per questo egli confuta (pp. 93 ss.) G. Altmann, De Posidonio Platonis commentatore (1906), che ha interpretato la ~ -cwv 1te.pchw11 oùa(a come geometricae formae); L. Robin, Études sur la Signification et la Piace de la physique dans la philosophie de Platon (1919), ristampato in: La Pensée hellénique (1942), pp. 231-366, 52-54; R.M. Jones, The Ideas as the Thou­ghts of God, «Classica) Philology», 21 (1926), pp. 317-326, spec. 319; A.E. Taylor, A Commentary on P/ato's Timaeus (1928), pp. 106-136, che identifica la ~ -cwv 1te.pa.-cw11 oùa(a con l'estensione; Ph. Merlan, Beitriige zur Geschichte des antiken Platonismus. II: Poseidonios uber die Weltsee­le in P/atons Timaios, «Philologus», 89 (1934), pp. 197-214; H.R. Schwy­zer, Zu Plotins Interpretation von Platons Tim. 35 A, «Rheinisches Mu­seum», 84 (1935), pp. 360-368, che identifica con Posidonio la~ -cwv 1te.­p1hw11 oùa(a con la fJ.E.pta-ciJ oùa(a (p. 363); J. Helmer, Zu Plutarchs «De animae procreatione in Timaeo» (1937), pp. 15-18; L. Edelstein, The Phi/osophica/ System of Posidonius, «American Journal of Philology», 57 (1936), pp. 268-325, spec. 302-304; P. Thévenaz, L'Àme du monde, le Devenir et la Matière chez Plutarque (1938), pp. 63-67, con una polemica (p. 65) contro la mia identificazione uÀTj = fJ.E.ptO"t611 = 1ttp0t't0t = -cò 1ta.\l't'Tj 8taa-ca-c611; K. Praechter, Severus, in: RE, II A 2 (1923).

Per quanto concerne la più recente letteratura su Posidonio, nel pre­sente contesto è necessario menzionare solo W. Jaeger, Nemesios von Emesa (1915). Per ogni altra indicazione, si veda K. Reinhardt, Poseido­nios, in: RE, XXII/I (1953).

Per quanto concerne le discussioni concernenti lo status degli enti ma­tematici in Platone, si veda in particolar modo L. Robin, La Théorie p/a­tonicienne des Idées et des Nombres d'après Aristote (1908), pp. 479-498;

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118 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

J. Moreau, La Construction de l'Idéalisme Platonicien (1939), spec. pp. 343-366; idem, L 'Ame du Monde de Platon aux Stoiciens (1939), spec. pp. 43-53; F. Solmsen, Die Entwicklung der aristotelischen Logik und Rheto­rik (1929), pp. 79-84; 101-103; 237; 250; E. Frank, The Fundamental Op­position of Plato and Aristotle, «American Journal of Philology», 61 (1940), pp. 34-53; 166-185, spec. 48-51.

Sotto molti aspetti la mia identificazione dell'Anima del mondo di Platone con gli enti matematici è un ritorno a F. Ueberweg, Uber die pla­tonische Weltseele, «Rheinisches Museum», 9 (1854), pp. 37-84, spec. 56; 74; 77 ss. Cfr. anche J. Moreau, Réalisme et idéalisme chez Platon (1951), con le critiche mosse da H.D. Saffrey, «Revue des Sciences Théologiques et Philosophiques», 35 (1951), pp. 666 ss.

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III. La suddivisione della filosofia teoretica

1. La tripartizione aristotelica delle conoscenze teoretiche af­fonda le sue radici nella suddivisione platonica dell'essere

C'è ancora un altro aspetto interessante connesso con il modo realistico in cui Giamblico e Proclo considerano gli enti matematici. Abbiamo diverse volte accennato al fatto che en­trambi accettano una tripartizione dell'essere. Abbiamo osser­vato che Giamblico ha connesso con questa tripartizione dell'es­sere una tripartizione della filosofia in teologia, matematica e fi­sica (cfr. sopra, p. 62). Sappiamo che queste due tripartizioni sono «aristoteliche», ossia che esse possono essere rinvenute nella Metafisica e nella Fisica di Aristotele. La tripartizione del­l'essere viene generalmente riferita da Aristotele come platonica (Metafisica, A 6, 987 b 14-16; 28-29; Z 2, 1028 b 19-21; K 1, 1059 b 6-8; ma si veda anche Metafisica, K 1, 1059 a 38-1059 b 2; Fisica, III 5, 204 a 35-204 b 2 con la nota di Ross, ad /oc.); la tripartizione della filosofia teoretica Aristotele la presenta come una sua dottrina personale.

Ora, è evidente che questa tripartizione della filosofia si adatta molto male agli scritti di Aristotele che ci sono stati con­servati, come è stato sottolineato, ad esempio, da Zeller (11/2 [1921 4

), pp. 179-181). E' strano che si sia così spesso trascurato il fatto che questa tripartizione ha le sue radici in ciò che Aristo­tele riferisce come la tripartizione platonica dell'essere (si veda Ph.Merlan, Aristotle's Unmoved Movers, «Traditio», 4 [1946] pp. 1-30, spec. 3-6), e A. Mansion (lntroduction à la Physique aristoté/icienne [1945 2

), pp. 122-195) ha ricapitolato la situazio­ne dicendo che la tripartizione della filosofia teoretica in fisica, matematica e teologia ha senso solo all'interno della struttura del Platonismo, mentre conserva difficilmente qualche senso

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nella fase non-platonica della filosofia di Aristotele 1• In ciò che segue, aggiungeremo alla sua interpretazione alcuni particolari.

Prima di tutto, stabiliamo il rapporto fra la tripartizione aristotelica e quella platonica.

I due passi classici a proposito della tripartizione della co­noscenza speculativa in teologia, matematica e fisica sono con­tenuti in Metafisica, E 1, 1026 a 6-19, e in K 7, 1064 b 1-3 (insie­me con Fisica, II 2, 193 b 22-36; 194 b 14; cfr. Etica Nicoma­chea, VI 9, 1142 a 17-18). E' facile supporre che questa triparti­zione sia il risultato di ciò che Aristotele riferisce così spesso co­me la tripartizione platonica dell'essere (oùa(ix) in Idee (intelligi­bili), enti matematici, ed oggetti sensibili. Ma non è neppure ne­cessario fare delle supposizioni; Metafisica, r 2, 1004 a 2, ci for­nisce l'anello di congiunzione. Ci sono tante parti della filosofia speculativa quante sono le sfere dell'essere (oùalixL), dice Aristo­tele. In questa unica affermazione abbiamo congiunti insieme Platone ed Aristotele.

Pertanto, la tripartizione della filosofia speculativa corri­sponde alle tre sfere dell'essere, una delle quali è costituita dagli enti matematici interpretati in senso realistico. Ma Aristotele al­la fine ha abbandonato questa interpretazione. Lo ha fatto con qualche esitazione; i termini «oscuro» e «forse» contenuti in Metafisica, E 1, 1026 a 9, e 15, esprimono questa esitazione. Metafisica, K 7, 1064 a 33, nega senza esitazione che gli enti ma­tematici abbiano un'esistenza separata (forse solo perché il pas­so è più breve ed Aristotele ha meno tempo per le sottigliezze). Ed altre parti della Metafisica sono molto esplicite nel presenta­re un'interpretazione non realistica degli enti matematici. Dal momento che sembra che questa esitazione sia iniziata molto presto, non è sorprendente trovare in Aristotele dei passi che di­mostrano che egli era diffidente nei confronti della tripartizione che attribuiva alla matematica un posto intermedio fra la fisica e la teologia. Pertanto, in Metafisica, Z 11, 1037 a 14, sembra che la matematica sia dimenticata, o rimossa dalla sua posizione fra la fisica e la teologia; e in E 1, 1026 a 19, invece della successione fisica-matematica-teologia, troviamo la successione matemati­ca-fisica-teologia (v. sotto, p. 139).

1 Cfr. anche E. W. Strong, Procedures and Metaphysics (1936), p. 288, n. 38. Tutto il libro è molto importante per il tema della presente indagine, in quanto mostra la sopravvivenza di questa tripartizione fino al XVIII secolo.

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Ancora più interessante è un altro passo. In Fisica, II 7, 198 a 29-31, le tre sfere dell'essere sono descritte come quella teolo­gica, quella astronomica e quella fisica. Gli oggetti della teolo­gia sono eterni ed immobili, gli oggetti della astronomia sono eterni e mobili, gli oggetti della fisica sono corruttibili e mobili. Questa tripartizione evidentemente è molto più in accordo con l'interpretazione non realistica che Aristotele dà degli enti mate­matici, ed è in particolar modo raccomandata dalla sua triparti­zione, espressa in Metafisica, A 1, 1069 a 30; 6, 1071 b 3. Qui, le tre sfere dell'essere sono descritte come quella della sostanza eterna ed immobile; quella della sostanza eterna in movimento; e quella della sostanza corruttibile in movimento, il che implica una divisione della filosofia in teologia, astronomia e fisica.

È di grande interesse il modo in cui Alessandro di Afrodisia affronta il testo contenuto in Metafisica, r 2, 1004 a 2 (In Ari­stotelis Metaphysica, pp. 250 ss. Hayduck), che dimostra in mo­do così chiaro il legame fra Platone ed Aristotele e che possiede un carattere così chiaramente platonico.

Leggendo Alessandro, si ha quasi la sensazione che il testo gli risulti estremamente sgradevole. Egli elude la questione di quali siano le diverse oùa(cxL e, quindi, le parti della filosofia. Al­la fine, ipotizza che una di queste oùa(cxL potrebbe essere eterna ma in movimento; questo è quanto egli deduce dall'unico passo della Fisica che sopra abbiamo citato e che implica che l'astro­nomia, piuttosto che la matematica, sia la branca intermedia della filosofia teoretica. In realtà, non possiamo biasimare Ales­sandro, ma dovremmo lodarlo per la sua sincerità. Dove può eliminare dal sistema di Aristotele la matematica come un'effet­tiva branca della filosofia teoretica, egli lo fa 2•

D'altro lato, è sufficiente leggere l'analisi che S. Tommaso, nel suo commentario al De Trinitate, 2, di Boezio (q. 5, art. 3, ad octavum), compie del carattere di non movimento degli enti matematici, per vedere quanto egli fosse messo in imbarazzo proprio dal passo contenuto nella Fisica, utilizzato da Alessan­dro per interpretare il passo della Metafisica. Per districarsi da questa difficoltà, S. Tommaso segue la lezione di Avicenna. Egli

2 Si veda anche la tripartizione in Rabbi Gershon Ben Shlomoh d 'Arles, The Gate of Heaven (tradotta e curata da F. S. Bodenheimer), Jerusalem 1953, pp. 86 s.; ma cfr. H. A. Wolfson, The Classijication of Science in Medieval Jewish Philo­sophy, «Hebrew Union College Jubilee Volume» (1925), pp. 263-315, spec. 283.

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separa l'astronomia dall'aritmetica e dalla geometria e ne fa una delle scienze intermedie fra la matematica e la fisica ( q. 5, art. 3, ad quintum); inoltre, afferma, sulla scorta di Averroè, che la tripartizione contenuta nella Fisica si riferisce esclusiva­mente alle cose e non affatto alla conoscenza (ibi., ad octavum; cfr. In secundum Physicorum, lectio Il). Questo espediente gli rende possibile designare gli oggetti della matematica o come immobili o come dotati di movimento e far apparire come coe­renti le due tripartizioni. Fra poco diremo di più su questo pun­to. Per il momento, è sufficiente osservare che Alessandro di A frodi sia ha cercato di preservare il carattere aristotelico ( os­sia, moderatamente realistico) della tripartizione della filosofia compiuta da Aristotele, dando la preferenza al passo della Fisi­ca, evidentemente perché era consapevole del fatto che la tri­partizione contenuta nella Metafisica era platonica (eccessiva­mente realistica riguardo agli enti matematici). S. Tommaso, come vedremo tra poco, ha reinterpretato la tripartizione della Metafisica in modo da spogliarla completamente del suo carat­tere platonico; egli, pertanto, non ha dovuto interpretarla alla luce del passo della Fisica 3•

Lo stesso Aristotele alla fine ha negato l'esistenza separata degli enti matematici, ma, evidentemente, per una qualche spe­cie di inerzia, ha conservato le tre branche della conoscenza (cfr. W. Jaeger, Aristoteles [1955 2

], p. 225), sia che abbia sia che non abbia cercato di sostituire questa tripartizione con un'altra più coerente con il suo personale sistema filosofico. Si potrebbe dubitare della saggezza di questo conservatorismo. Una volta eliminata la corrispondenza delle tre sfere della filo­sofia con le tre sfere dell'essere, non c'era nessuna ragione per conservare la matematica come una branca della conoscenza fra la teologia e la fisica. Come conseguenza, anche nello stesso Aristotele la tripartizione è incoerente con se stessa. Cerchere­mo di esaminare i due passi che rivelano questa incoerenza.

3 Cfr. H. A. Wolfson, The C/assijication ... , cit., in particolare su Avicen­na, pp. 299 ss.; H. A. Wolfson, Additional notes, «Hebrew Union College An­nua!•>, 3 (1926), pp. 371-375, spec. 374. Per quanto concerne le scienze intermedie in Aristotele, si veda, ad esempio, W. D. Ross, Aristotle's Prior and Posterior Analytics (1949), p. 63; A. Mansion, lntroduction à la Physique Aristotélicienne (1945 2), pp. 186-195.

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2. L'incoerenza della tripartizione aristotelica: analisi di «Me­tafisica» E

Il primo passo è quello di Metafisica, E 1, 1026 a 11-16. La fisica, dice Aristotele, tratta degli oggetti che sono «inseparati», &,cwpLa'tix (per questo termine, si veda sotto), ed in movimento; la matematica degli oggetti che sono immobili ma non separati (,cwpLa'tix), sebbene la matematica li consideri come separati; la teologia (filosofia prima) degli oggetti che sono separati (,cwpLa'tlX) ed immobili. E' abbastanza evidente che questa tri­partizione è apparente, in quanto essa si fonda su due principi: la ratio essendi e la ratio cognoscendi. Gli oggetti della fisica e gli oggetti della teologia si differenziano gli uni dagli altri per il loro modo di esistenza, in quanto i primi sono in movimento, i secondi sono immobili (per quanto concerne il significato della differenza fra &,cwpLa'tix e ,cwpLcr'tix, si veda sotto). Ma gli oggetti della matematica non si differenziano dagli oggetti della fisica per un particolare modo di esistenza; infatti, essi non hanno una esistenza loro propria. Essi si differenziano dagli oggetti della fi­sica solo forma/iter, per usare un termine scolastico, ossia per il modo in cui sono considerati. Questo modo viene spesso descrit­to da Aristotele come lç &cpixLpfoe.wç, che comunemente viene tradotto con «astrazione». In altri termini, ciò che abbiamo di fronte a noi non è una vera tripartizione. Si tratta, piuttosto, di una dicotomia, con uno dei due membri che viene ulteriormente suddiviso. La dicotomia è «in movimento-immobile»; il mem­bro «in movimento» viene ulteriormente suddiviso. Gli oggetti della fisica sono in movimento e vengono considerati come in movimento; gli oggetti della matematica sono in movimento, ma vengono considerati come immobili.

Tutti i commentatori o i seguaci di Aristostele che hanno accettato da un lato la sua tripartizione, dall'altro il suo reali­smo moderato, si sono trovati coinvolti nella stessa difficoltà.

Ma, oltre ad essere un ibrido di realismo moderato e di rea­lismo esagerato, il passo contiene un difetto ancora maggiore. Gli oggetti della fisica in esso vengono descritti come «insepara­ti», &,cwpLcr'tix (1026 a 14). Si tratta, in modo piuttosto evidente, di un errore. Essi dovrebbero essere descritti come «separati», ,cwpLcr'tlX. Piuttosto stranamente, nessuno ha notato questo erro­re prima di A. Schwegler (Die Methaphysik des Aristate/es, voi.

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IV [1848), pp. 14-16). In verità, una volta notato l'errore, l'e­mendazione di Schwegler è stata accettata quasi unanimamente da tutti gli studiosi (si veda, ad esempio, Ross, Arist. Met., ad /oc.; H. Cherniss, Aristotle's Criticism of Plato and the Aca­demy, voi. I [1944), pp. 368 ss.; e W.Jaeger, Aristoteles [1955 2

),

p. 225, con la n. 1). Ciò che Aristotele intendeva realmente dire è che gli oggetti della fisica sono separati, ma sono in movimen­to; gli oggetti della matematica vengono considerati come im­mobili, ma essi non esistono separatamente; solo gli oggetti del­la metafisica esistono separatamente e sono immobili. Questa sarebbe ancora una tripartizione imperfetta, come abbiamo os­servato sopra, ma almeno sarebbe una tripartizione chiara. Ma quasi come se un errore ne avesse generato un altro, il termine «separato», :x,wpur'tov, è stato sostituito con «inseparato», &:x,wpLo-'tov, da un lettore, come ha spiegato Jaeger, che ha as­sunto il termine :x,wpLO"tov nel significato di «immateriale» (il che gli oggetti della fisica, natualmente, non sono), e l'ha cambiato in &:x,wpLO"'t(X nella sua trascrizione del testo di Aristotele, a parti­re dalla quale questo termine è comparso in tutti i nostri mano­scritti. Forse sarebbe più semplice supporre, con D.R. Cousin, A Note on the Text of Metaphysics 1026 a 14, «Mind», 49 (1940), pp. 495- 496, che si sia trattato di un errore dello stesso Aristotele, ma questo è senza importanza nel nostro contesto. Qualunque sia il motivo, ciò che chiaramente ne deriva è un pas­so totalmente confuso.

Tuttavia, l'affermazione che la tripartizione di Aristotele sia fondamentalmente platonica deve ancora essere difesa con­tro una possibile obiezione. La fisica, in Aristotele, è la scienza del sensibile; ma può esserci una scienza del sensibile per un Pla­tonico? Infatti, P. Duhem (Le Système du monde, voi. I [1913), pp. 134-150) ha affermato che l'introduzione della fisica come una branca della conoscenza analoga alla matematica o alla teo­logia rappresenta un totale rovesciamento da parte di Aristotele delle opinioni di Platone. Ma per concordare con l'affermazio­ne di Duhem dovremmo supporre che né la discussione contenu­ta in Pedone, 96 A ss., né l'intero Timeo (inclusa la sua psicolo­gia), facciano parte, secondo Platone, del sapere, o che Platone avrebbe negato che il tema da lui trattato in queste opere fosse l'ambito del sensibile 4• Platone respinge le teorie correnti, con

4 Sulla presenza nel mito del Fedone della comune teoria scientifica, si veda

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le quali viene spiegato l'ambito del sensibile; ne introduce una nuova fondata sulla teoria delle Idee, sulla filosofia dei numeri e su considerazioni teologiche; egli, certamente, ha voluto porre in evidenza che la fisica non è la suprema branca del sapere. Non è tuttavia possibile negare che la fisica occupi un posto nel­la filosofia teoretica di Platone, sebbene, forse, non l'abbia oc­cupato sin dall'inizio della sua attività filosofica. Fino a che punto Platone fosse pronto a riconsiderare la sua prima valuta­zione del mondo dèl divenire, lo si può vedere meglio dal passo di Timeo, 46 E - 47 E, con il suo elogio della sensazione che ren­de possibile la teoria astronomica e musicale. La tendenza verso la fisica, come una scienza intrinseca alla filosofia di Platone, e la corrispondente tendenza a superare la separazione (il xwp~­aµ6i;) fra le Idee e la sfera del sensibile, sono forti anche nei dia­loghi di Platone ed erano probabilmente ancora più forti nel-1 'Accademia e nelle sue discussioni orali 5•

3. Tentativi di difendere la coerenza della tripartizione aristo­telica

Abbiamo sottoposto la tripartizione di Aristotele ad una se­vera critica. Non c'è nessun modo per difenderla, almeno fino

P. Friedlander, Plato, voi. I (1958), pp. 262-277; ed anche C. Mugler, Platon et la recherche mathématique de son époque (1948), pp. 273-288. Particolarmente inte­ressante è la «riabilitazione» della fisica di Platone da parte di Lautman. Si veda specialmente A. Lautman, Symétrie et dissymétrie e Le problème du temps (1946), spec., pp. 11 e 22-24, «Bulletin de la Société française de Philosophie», 1946, pp. 1-39 (La Pensée mathématique). Cfr. sotto, p. 283. Non dobbiamo dimenticare l'introduzione del termine lma-tT)fLOVtXT) 0tt'a87Jo-tç da parte di Speusippo (su questo concetto si veda anche A. J. Neubecker, Die Bewertung der Musik bei Stoikern und Epikureern (1956), pp. 13-15), né i passi presenti in Platone che vi conducono; cfr. J. Stenzel, Studien zur Entwicklung der platonischen Dialektik von Sokrates zu Aristoteles (1931), l'Indice alla voce doxa, a dispetto di H. Cherniss, Aristotle's Criticism of Plato and the Academy, voi. I (1944), p. 475; cfr. anche E. Hoffmann, Platon (1950), pp. 144 ss. Per quanto concerne l'atteggiamento di Platone nei con­fronti della scienza naturale, si veda anch P. Shorey, Platonism and the History of Science, «American Philosophical Society, Proceedings», 66 (1927), pp. 159-182.

5 Oltre a J. Stenzel, Studien zur Entwicklung ... , cit., pp. 54-122; idem, Zahl und Gestalt (1933 2), spec. p. 119; pp. 123-125, anche A. Rey, La Maturité de la Pensée scientijique en Grèce (1939), pp. 272-296 e F. Solmsen, Plato's Theology (1942), pp. 75-97, sono esempi di un interesse da parte di autori contemporanei per

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ad un certo punto? In realtà, c'è. Supponiamo che quanto Ari­stotele ha inteso realmente dire fosse questo. La filosofia prima è una scienza teoretica; ammetto che sia la fisica che la matema­tica siano scienze teoretiche, così che esse potrebbero rivendica­re il titolo di filosofia prima; tuttavia, devo negare la validità della loro rivendicazione. In altri termini, Aristotele non ha in­teso proporre una tripartizione della scienza teoretica; piuttosto egli l'ha trovata e l'ha utilizzata come un punto di partenza per la sua discussione sull'essenza della metafisica, ma non ha mai pensato seriamente di farne una parte delle sue dottrine perso­nali: «Ci sono tre scienze teoretiche» per Aristotele significa, dunque: «tre sono le scienze teoretiche esistenti» e non significa «tre sono le scienze teoretiche in rerum natura».

Ma questa difesa non è tanto una interpretazione di ciò che Aristotele ha realmente detto, quanto una dichiarazione, secon­do la quale egli avrebbe dovuto dirlo. Aristotele introduce latri­partizione a suo nome. Pertanto, dobbiamo ancora esaminare le altre interpretazioni che intendono essere una difesa di ciò che Aristotele ha realmente detto.

La migliore interpretazione sembra essere la seguente. La tripartizione, così come Aristotele l'ha trovata, era fondata sul­la distinzione materiale (uso un termine scolastico) fra gli ogget­ti della fisica, della matematica e della metafisica. Ma Aristotele l'ha trasformata (o almeno è stato sul punto di trasformarla) in una tripartizione fondata sulla distinzione formale: la metafisi­ca, la fisica, la matematica hanno lo stesso oggetto materiale (la realtà nella sua totalità), ma vi si accostano da un differente punto di vista. Più specificamente, la tripartizione è fondata sui diversi gradi di astrazione. La fisica astrae da ciò che S. Tom­maso ha chiamato materia signata (individualis) sensibilis, in quanto il suo oggetto non è questa pietra che esiste qui ed ora, ma la pietra. La matematica astrae dalla materia communis (sensibilis), lasciando come suo oggetto solo la materia intelligi­bilis. La metafisica astrae da tutta la materia, anche dalla mate­ria intelligibils.

Questa tripartizione della filosofia aristotelica viene fre-

questo problema. Cfr. anche C. J. de Voge), Examen critique de l'interprétation traditionelle du Platonisme, «Revue de Métaphysique et de Morale», 56 (1951), pp. 249-268, spec. p. 255.

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quentemente definita tomistica. In ciò che segue cercheremo di dimostrare tre cose. In primo luogo, l'interpretazione non è sto­ricamente corretta. In secondo luogo, è un'interpretazione della metafisica completamente insoddisfacente. In terzo luogo, non è l'interpretazione di S. Tommaso.

Il primo punto. E' vero che Aristotele ha affermato che la scienza (lmG't~!J.TJ) ha come oggetto sempre ciò che è universale (x1X86Àou), mentre la sensazione ha come oggetto il particolare (per esempio, Analitici Posteriori, I 31, 87 b 28-39; ma cfr. an­che ibi., II 19, 100 a 17 e Metafisica, M 10, 1087 a 18-25) 6• Ma nei suoi scritti non c'è niente che indichi che questa differenza fra la sensazione e la conoscenza venisse utilizzata da Aristotele per spiegare la differenza fra la conoscenza fisica e la sensazio­ne. Non c'è nessun accenno in Aristotele al fatto che la transi­zione dalla seconda alla prima avvenga sulla base del processo di astrazione. Se supponiamo che il nostro termine astrazione cor­risponda al termine «astrazione», &cpor.(p&crLt;, di Aristotele (trat­teremo di questo problema più avanti), dobbiamo dire che Ari­stotele non ha mai detto che noi raggiungiamo gli oggetti della fisica per «astrazione», per &cpor.(p&O'Lt;, dagli oggetti della sensa­zione. Non c'è nessun altro accenno in Aristotele che indichi che egli considerasse gli oggetti della fisica come se fossero «per astrazione», lç &cpiXLpÉO'&wc;, mentre ha ripetuto di continuo que­sto degli oggetti della matematica (si veda, ad esempio, De ani­ma, Il, 403 a 10-15). Si può dire con certezza che Aristotele non si è mai posto il problema di come combinare la sua tripartizio­ne della filosofia teoretica con la sua interpretazione della diffe­renza fra sensazione e scienza. Aristotele difende la sua aff er­mazione, che gli oggetti della matematica esistono solo come og­getti dell'astrazione, contro i Platonici (e/o i Pitagorici), che hanno affermato, invece, la loro esistenza separata. Dovrebbe essere perfettamente evidente che, se Aristotele intendeva nega­re la totale separatezza degli oggetti della fisica, avrebbe soste­nuto questa tesi almeno con tanti argomenti quanti ne ha addot­ti per dimostrare la non separatezza degli enti matematici. Ma l'idea che solo gli oggetti della sensazione sono totalmente sepa-

6 Cfr., ad esempio, E. Zeller, Die Philosophie der Griechen, 11/2 (1921 4),

pp. 198 ss., spec. n. 6; 309 ss.; H. Cherniss, Aristotle's Criticism ... , cit., voi. I (1944), pp. 236-239; 338-351; in modo molto più succinto, G. R. G. Mure, Aristotle (1932), pp. 186-189.

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rati, mentre gli oggetti della fisica esistono solo «per astrazio­ne», è.ç ixcpaLpfotwç, non è presente in Aristotele.

Che cosa intende dire Aristotele quando afferma che la scienza non è mai del particolare? Ciò che è implicito nei due passi citati sopra, nei quali Aristotele tratta della questione ex professo, è che la sensazione ci informa solo dell'o·n (del che), mentre è solo attraverso la scienza che veniamo a conoscenza del 8L6'tL ( del perché). Questo significa che la scienza ci dice che que­sto fenomeno particolare è un caso che rientra all'interno di una regola generale (di una legge): in questo senso, la scienza tratta di un «universale», xa86Àou. Ma Aristotele non afferma che l' «universale», il xa86Àou, di qualsiasi scienza sia l'oggetto di qualcosa come un'intuizione astrattiva. Ciò che il matematico vede sono oggetti colti solo «per astrazione», è.ç ixcpaLpfotwç. Ma egli li «vede» ed essi diventano i termini di proposizioni mate­matiche. Tuttavia, l'universalità della scienza fisica non si fonda sull'intuizione di un oggetto «generale», «universale»; essa si fonda sulla insclusione di una cosa particolare all'interno di una regola «generale», «universale». Questa pietra ora cade secondo una regola valida per tutte le pietre particolari in ogni tempo, e non per una pietra astratta che il fisico «vede» astraendola dalla pietra particolare. In termini moderni: Aristotele ha ammesso una intuizione astrattiva come il presupposto della matematica, ma non ha mai pensato alla intuizione astrattiva in fisica. Un passo come De caelo, III 7, 306 a 17, sembra indicare che l'og­getto di cui tratta la fisica coincide semplicemente con gli oggetti della sensazione. Un passo come Etica Nicomachea, VI 9, 1142 a 17-21, dimostra chiaramente che, almeno talvolta, Aristotele ha considerato !'«astrazione», ixcpa(ptaLç, come il metodo della sola conoscenza matematica, contrapponendolo alla conoscen­za sia della fisica che della teologia, in quanto queste sono fon­date sull'esperienza 7• E in De partibus animalium, I 1, 64lbl0, troviamo la decisa affermazione che la fisica non tratta di niente «per astrazione», è.ç ixcpaLpfotwç. Tutto ciò si riassume dicendo che sarebbe del tutto non-aristotelico supporre che per lo Stagi­rita gli oggetti della fisica esistono «solamente» (questo «sola-

7 Cfr. altri passi citati in L. M. Régis, La phi/osophie de la nature, «Etudes et Recherches ... I. Philosophie. Cahier», I (1936), pp. 127-158, spec. 130, n. I. Ma si deve ammettere che in Aristotele è presente anche una tendenza opposta. Si veda l'analisi svolta da R. G. Mure, Aristotle (1932), p. 207; cfr. anche sotto p. 137.

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mente» è il punto cruciale di discussione fra Aristotele e l'Acca­demia per quanto riguarda gli enti matematici) come oggetti di astrazione. Il solo passo che potrebbe essere interpretato come contenente l'affermazione secondo la quale la fisica fa uso del metodo dell'astrazione è Fisica, II 2, 193 b 35. I Platonici sepa­rano (xwp(,ouaL), dice Aristotele, gli oggetti della fisica, sebbene essi siano meno separabili degli oggetti della matematica. Qui sembra che Aristotele affermi implicitamente che anche gli og­getti della fisica sono oggetti di astrazione (se supponiamo che xwp(,tL\I qui sia l'equivalente di «astrarre»). Ma il contesto di­mostra che ciò che Aristotele sostiene è che, nel parlare delle Idee delle cose sensibili, i Platonici trascurano il fatto che essi ne parlano come se esse, ossia le Idee delle cose sensibili (non gli oggetti della fisica), potessero esistere separatamente, sebbene esse non possano esistere separatamente, ancor meno di quanto gli enti matematici possono esistere separati dai sensibili.

Il secondo punto. Anche se supponiamo che sia ammissibi­le designare gli oggetti della fisica come esistenti (solo) «per astrazione», lç cxq>otLpfotwç, questo non sarebbe sufficiente per considerare coerente la tripartizione. La fisica e la matematica, difatti, si differenzierebbero dalla sensazione in quanto, per uti­lizzare i loro oggetti, fanno uso del metodo dell'astrazione; que­sti oggetti, pertanto, non esistono separatamente.

Ma che ne sarebbe della metafisica? A meno di non negare che gli oggetti della metafisica siano i motori immobili (o qual­che altra oùa(ix o oùa(ixL separate), dovremo ammettere che gli oggetti della metafisica non esistono solo «per astrazione», lç cxq>ixLpfotwç. Al contrario, essi e solo essi sono totalmente sepa­rati, essendo atti puri (mentre gli oggetti della sensazione sono permeati di potenzialità). Ma, se non esistono in questo modo, il metodo dell'astrazione non può essere applicato ad essi. In altri termini, anche se ammettiamo che gli oggetti della fisica possa­no essere descritti come oggetti dell'astrazione, la dottrina dei gradi dell'astrazione sarebbe incapace di giustificare la triparti­zione della filosofia teoretica, con la metafisica come una delle tre branche. Nella misura in cui la metafisica tratta dei motori immobili (dell'oùa(ix separata), ad essa non può essere applicato il metodo dell'astrazione.

La metafisica di Aristotele tratta di altri oggetti oltre ai mo­tori immobili? Nel caso in cui rispondiamo in senso affermati-

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vo, il metodo dell'astrazione può essere applicato almeno a que­sti? Discuteremo di questo problema pià avanti, nel capitolo VII.

Il terzo punto. La dottrina dei gradi di astrazione come cor­rispondenti alle tre filosofie teoretiche non è affatto tomistica, nonostante che essa venga frequentemente presentata come tale dagli interpreti francesi ed inglesi. Dimostreremo questo fatto soffermandoci in particolar modo sulla Summa theologiae 8•

Facciamo questo per due ragioni. La prima è che, per quanto ri­guarda il Commentario di S. Tommaso al De Trinitate di Boezio (di cui parleremo fra poco), il carattere non tomistico della dot­trina dei tre gradi è stato dimostrato da L. B. Geiger (Abstrac­tion et séparation d'après Saint Thomas in De Trinitate q. 5 a. 3, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 3 [1947], pp. 3-40). La seconda ragione è il modo in cui l'interpre­tazione di Geiger è stata criticata da M. V. Leroy (Le savoir spé­culatif, «Revue Thomiste», 48 [1948], pp. 236-339; Annesso: Abstractio et separatio d'après un texte controversé de saint Thomas), che ha definito il suo argomento con la seguente do­manda: se S. Tommaso non insegna, nel suo Commentario al De Trinitate di Boezio, la dottrina dei gradi di astrazione, in che modo possiamo spiegare il fatto che in tutti gli scritti successivi a questo Commentario egli la insegna senza riserve? In ciò che se­gue mostreremo che neppure nella Summa theologiae di S. Tommaso c'è una dottrina dei gradi di astrazione, almeno nel senso ammesso da Leroy. In questo modo, verrà confermata la correttezza dell'analisi compiuta da Geiger del Commentario al De Trinitate di Boezio.

Ciò che la Summa insegna è questo: con il terzo grado di astrazione (ossia, con l'astrazione dalla materia signata sensibi­lis, dalla materia communis e sensibilis, da tutta la materia in­clusa la materia intelligibilis) noi cogliamo oggetti del tipo ens, unum, potentia, actus, ecc. Tutti questi oggetti possono esistere anche senza una materia (mentre gli oggetti della fisica e della matematica non possono). Con ciò si intende dire che essi si rife­riscono (sono presenti in, sono predicabili di) anche alle sostan­ze immateriali. Solo in questo senso essi sono immateriali, ma la

8 Per quanto segue, cfr. Ph. Merlan, Abstraction and Metaphysics in St. Thomas' Summa, «Journal of the History of ldeas», 14 (1953), pp. 284-291.

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loro immaterialità, naturalmente, è del tutto differente dall'im­materialità di Dio, degli angeli, ecc. Inoltre, la Summa pone in rilievo che noi non possiamo raggiungere con il metodo dell'a­strazione le forme incorporee (le sostanze immateriali) che sono al di sopra dell'anima, quali Dio e gli angeli. La Summa ritiene che la posizione contraria sia una dottrina erronea di Avempace (lbn Bagga). La dottrina è erronea perché queste sostanze im­materiali non sono né forme né universali; pertanto, esse non possono essere raggiunte né mediante una abstractio formae, né mediante una abstractio universalis (I q. 88, art. 2, Resp. Dic.).

È vero che la Summa sottolinea che il solo metodo che con­duce ad una qualche (inadeguata) conoscenza di queste sostanze immateriali parte dagli oggetti della sensazione. Questo punto di partenza è comune a diversi metodi: uno conduce agli oggetti della fisica e della matematica, un altro ad oggetti come ens, unum, ecc., un terzo alle sostanze immateriali. Ma questo terzo metodo è diverso dagli altri metodi, in quanto non è il metodo dell'astrazione. Esso viene piuttosto descritto da S. Tommaso con termini come: per comparationem ad corpora sensibilia, per excessum o per remotionem (I q. 84, art. 7, ad tertium; q. 88, art. 2, ad sec.); come una specie di similitudines e habitudines ad res materia/es (I q. 88, art. 2, ad primum).

In altri termini, il metodo dell'astrazione è applicabile alla metafisica solo nella misura in cui la metafisica tratta delle f or­me comuni alle sostanze materiali ed immateriali (quelli che più tardi verranno chiamati trascendentali). In quanto la metafisica si occupa delle sostanze immateriali, essa richiede un metodo di­verso dal metodo dell'astrazione.

Poiché talvolta la sentenza impossibile est intellectum ... aliquid intelligere ... nisi convertendo se ad phantasmata (I q. 84, art. 7, Resp. Dic.) viene citata per dimostrare che l'astrazio­ne è il solo metodo mediante il quale possiamo giungere a cono­scere qualcosa al di sopra del sensibile, si dovrebbe porre in rilie­vo che questa sentenza ricorre all'interno della trattazione del tema indicato dal titolo della q. 84: Quomodo anima ... intelli­gat corporalia. La conoscenza delle sostanze immateriali viene trattata ex professo solo nella q. 88 (dal titolo: Quomodo anima humana cognoscat ea quae supra se sunt), e lungo tutta tale que­stio l'applicabilità dell'astrazione alle sostanze immateriali viene negata.

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Se riteniamo legittimo designare la metafisica che riguarda le sostanze immateriali, quali Dio e gli angeli, come methaphysi­ca specialis, e designare, invece, la metafisica che tratta degli og­getti quali ens, unum, potentia, actus, come metaphysica gene­ralis, dovremmo dire in sintesi: nella sua Summa, S. Tommaso insegna che il metodo della astrazione non è applicabile alla me­taphysica specialis 9 (cfr. sotto).

Sarà solo Goffredo di Fontaines che dirà: secundum statum vitae praesentis non est nisi unus modus

intelligendi omnia, sive materia/io ... sive immaterialia ... scili­cet per abstractionem speciei intelligibilis virtute intellectus agentis, mediante phantasmate. (Quod/. VI, q. 15 in: M. Wulf, L 'intellectualisme de Godefroi de Fontaines d'après le Quodli­bet VI, q. 15, in: Festgabe ... Clemens Baeumker [1913], pp. 287-296, spec. 294).

Ma questo non è ciò che S. Tommaso ha detto e non do­vrebbe essere presentato come una sua dottrina 10•

Pertanto, in ogni caso, sia tomistico o no, il tentativo di di-

9 E' quanto viene mostrato molto chiaramente in alcune esposizioni di S. Tommaso in lingua francese o inglese. Un altro esempio è K. Werner, Der heilige Thomas von Aquino (1858-1859): l'astrazione è insufficiente in metafisica, in quanto la metafisica non concerne solamente il più universale, ma anche il più rea­le, che deve essere raggiunto per una via diversa da quella della universalizzazione logica. Werner definisce correttamente (sebbene non la descriva) quest'altra via se­paratio (voi. Il, p. 157, n. I). Un esempio più recente è M. L. Habermehl, Die Ab­straktionslehre des hl. Thomas von Aquin ( 1933), pp. 58-60.

10 I risultati cui siamo sopra pervenuti trovano una piena conferma nella Expositio super Boetium De Trinitate di S. Tommaso. Commentando la triparti­zione di Boezio (sulla quale si veda sotto), S. Tommaso dichiara che solamente la fisica e la matematica fanno uso dell'astrazione, la prima principalmente della ab­stractio universalis, la seconda della abstractio formae. Il metodo usato in teologia, dice S. Tommaso, dovrebbe essere definito separatio piuttosto che abstractio; la se­paratio, infatti, è chiaramente il metodo intellettuale che soggiace ad ogni pensiero discorsivo (q. 5, art. 3, Resp.). Viene nuovamente citato Avempace (q. 6, art. 4, Resp.) come colui che ha commesso l'errore di ritenere che le essenze delle sostanze immateriali siano adeguatamente espresse nelle essenze delle cose sensibili, così che si potrebbe astrarle. E, di nuovo, solo ad una branca della metafisica viene attribui­to il compito di trattare dell'ens, della substantia, della potentia, dell'actus (q. 5, art. 4, Resp.), che, ovviamente, possono essere raggiunti mediante astrazione; mentre, un'altra branca della metafisica tratta degli esseri che non esistono mai in materia et motu (sebbene li consideri tamquam principia subiech), cosi che essi non possono assolutamente essere astratti dalla materia. S. Tommaso descrive il meto­do appropriato alla metaphysica specialis in termini di excessus, remotio, via causalitatis (causa excellens), e si riferisce allo ps. Dionigi (q. 6, art. 2, Resp.; cfr. S. Tommaso, Opusculum VII, Expositio super Dionysium De div. nom., cap. VII, lectio 4).

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fendere la tripartizione trasformando i gradi dell'essere in gradi di astrazione riuscirebbe solo a costo di una radicale trasforma­zione del significato che essa ha in Aristotele.

4. Confutazione del tentativo di difendere la definizione degli oggetti della fisica come «inseparati» (cixweuna)

Dobbiamo accertarci ancora di una cosa. Lungo tutta la nostra discussione, abbiamo supposto che Schwegler avesse ra­gione nel cambiare il termine «inseparati», &,cwpLa-r0t, di Metafi­sica, E 1, 1026 a 14, in «separati», ,cwpLa-ra. Ma, anche se deci­dessimo di conservare il termine «inseparati», &,cwpLO''tOt, l'inte­ro passo in questione non ne beneficierebbe. Se manteniamo il termine &,cwpLa't0t, il suo significato può evidentemente essere solo quello di «materiale», mentre il termine ,cwpLO''t<X indiche­rebbe le cose immateriali. Ma ciò equivarrebbe ancora ad una dicotomia: materiale-immateriale, o con il primo termine suddi­viso nelle realtà materiali che vengono considerate come tali (gli oggetti della fisica), e nelle realtà materiali che non vengono considerate come tali (gli oggetti della matematica), o con il se­condo termine suddiviso nelle cose che vengono considerate im­materiali e che sono immateriali (gli oggetti della teologia), e nelle cose che vengono considerate immateriali ma che non sono immateriali (gli oggetti della matematica). Di nuovo, verrebbero confuse la ratio essendi e la ratio cognoscendi.

Ma c'è qualche possibilità di negare la correttezza della cri­tica di Schwegler? E' davvero possibile difendere il termine «im­materiali», &,cwpLO"t0t? Accertiamoci ancora una volta che, da un punto di vista logico, Schwegler aveva ragione.

Dal momento che l'oggetto della metafisica viene descritto da Aristotele come &x('IITJ'tOt e ,cwpLa-ra, il diritto degli oggetti del­la fisica ad essere l'oggetto della metafisica può essere confutato sulla base di tre motivi - del tutto indipendentemente da quale sia il significato di «separato», ,cwpLO"tO'II, o di «immobile», &,cwpLa-rov. Gli oggetti della fisica possono essere inadatti a fun­gere da oggetto della metafisica (1) perché non sono né «separa­ti», ,cwpLa-ra, né «immobili», &xl'IITJ'tOt (o, positivamente, perché sono sia «inseparati», &,cwpLO"tOt, sia «immobili», XL'IITJ't<X); (2) perché sono «immobili», &x(vT}'tOt, ma non «separati», ,cwpLa'ta;

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(3) perché sono «separati», ,cwptO"t<X, ma non «immobili, &x(vT)­'tCX. Possiamo escludere immediatamente la seconda ipotesi, in quanto gli oggetti della fisica non vengono mai descritti da Ari­stotele come «immobili», &x(vT)'tCX. Pertanto, la riga 14 deve es­sere equivalente alla prima ipotesi o alla terza. Ma dobbiamo escludere la prima ipotesi, perché nella riga 14 del nostro passo Aristotele dice che la fisica riguarda le realtà che sono «insepa­rate», &,cwptcr'tcx, ma non «immobili», cxxLVT)'tCX. Ciò contraddice la prima ipotesi. Se Aristotele intendeva dire degli oggetti della fisica che essi sono «inseparati», &,cwptcr'tcx, avrebbe dovuto di­re: la fisica riguarda realtà che sono sia «inseparate», &,cwptO"tcx, che «in movimento», XLVT)'t<X. Ciò che egli dice, tuttavia, è qual­cosa di diverso. A meno di non tradurre le parole~ µi.v yÒtp q,u­crtx~ 1tEpl &,cwpLO''tCX µi.v &n' oùx &x(VT)'tCX con «la fisica riguarda cose che non sono né materiali né immobili», il termine &,cwpt­O''tCX è impossibile. Ma chi sarebbe abbastanza audace da soste­nere che questa è una traduzione possibile? 11

Rimane, pertanto, la terza ipotesi - e questo è quanto Ari­stotele dovrebbe aver scritto.

5. Ancora sulla incoerenza della tripartizione aristotelica: anali­si di «Metafisica» K

Nel secondo passo, Metafisica, K 7, 1064 a 30 b 3, ricompa­re la stessa difficoltà. A prima vista, il passo è più scorrevole. Gli oggetti della fisica vengono descritti come dotati di movi-

11 Ammetto che si tratta di una domanda retorica, in quanto c'è effettiva­mente qualcuno abbastanza audace da sostenere proprio questo. In E. Trépanier, La phi/osophie de la nature porte-t-elle sur des séparés ou des non séparés?, «Lavai Théologique et Philosophique», 2 (1946), pp. 206-209, troviamo che gli &xwpta-tcx vengono difesi come logicamente possibili. La risposta alla sua domanda è: se «sé­paré» significa «immateriale», la fisica concerne ciò che è «non-séparé». Ma nel nostro passo «séparé» non può significare immateriale, in quanto µlv, &),.À' oùx non può mai significare «et non», come ipotizza Trépanier, senza tuttavia mettere realmente per iscritto il testo insieme con la sua traduzione. Se lo avesse fatto, sono sicuro che si sarebbe reso conto del suo errore. Egli è stato ingannato da frasi come lxtT &U' oùx lv"tcxii8cx, dove &U' oùx può in effetti essere tradotto con «et not» («e non»), ma solo perché questa frase nella lingua francese o inglese ha, in questo contesto, una forza totalmente avversativa («et non» = «mais non», «e non» = «ma non»). In una frase come «I am not rested and not (=nor), feeling well», «and not» deve essere tradotto con µ718é, non con &ÀÀ' oùx.

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mento e per essi non viene usato né il termine «separato», xwpL<nov, né il termine «inseparato», cxxwpL<:r-tOV. Gli oggetti della teologia vengono descritti come «separati», xwpLcr'ta, ed «immobili», cxx(vT)'ta. Gli oggetti della matematica vengono descritti come «non soggetti al divenire, ma non separati», µivona cxÀÀ' où xwpLcr't<X. La totale inappropriatezza di questa divisione si rivela quando domandiamo: in che senso gli og­getti della matematica sono immobili? Delle due l'una, o essi sono immobili, oppure vengono considerati come immobili. Ora, se µivov'ta significa «le realtà che sono immobili», où xwpLcr't<X deve significare «le realtà che non sono xwpLcr'ta». Questo non ha senso, perché se gli enti matematici sono où xwpLcr't<X, essi devono essere dotati di movimento. Se, tuttavia, µivov'ta significa «essere considerato come µivona», anche «où xwpLcr't<X» deve significare «essere considerato come où xwpLO"t<X», e gli enti matematici perdono chiaramente qualsiasi status ontico. Descrivendoli come µivona, Aristotele ha crea­to la falsa impressione che la tripartizione sia fondata coeren­temente su qualità ontiche. In E I, dicendo che la matematica considera i suoi oggetti come se fossero separati ed immobili, Aristotele chiarisce che gli enti matematici non possono avere uno status ontico.

Dobbiamo aggiungere ancora una cosa. In ogni caso, è molto fuorviante descrivere sia gli oggetti della fisica, sia gli oggetti della metafisica come «separati», xwpLcr'ta. Gli oggetti della metafisica sono xwpLO"t<X, perché esistono separati dagli oggetti della fisica (come le Idee di Platone), e gli oggetti del­la fisica sono xwpLcr'ta, perché, secondo Aristotele, solo le realtà individue sono separate. In altri termini, dire degli og­getti della metafisica che essi sono xwpLO"t<X presuppone la possibilità dell'esistenza separata delle forme incorporee - e questo è precisamente ciò che Aristotele ha negato quando ha criticato Platone -, mentre dire che gli oggetti della fisica so­no xwpLO"t<X presuppone la teoria personale di Aristotele, se­condo la quale solo le realtà individue, ossia le forme corpo­ree, esistono 12•

12 Cfr. H. Cherniss, Aristotle's Criticism of Plato, voi. I (1944), pp. 368 e 371 ss.

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6. L'incoerenza della tripartizione aristotelica delle conoscenze teoretiche dipende dal fatto che non viene mantenuta la tri­partizione platonica dell'essere.

L'intera discussione ha preso le mosse da un riferimento a Mansion. Si può riassumerla nella forma di una critica ad alcu­ne parti della sua interpretazione.

1. Mansion presume che Aristotele abbia detto dell'oggetto della metafisica (concepito o come essere in quanto essere o co­me essere immateriale) che esso viene colto mediante astrazione. Ma non c'è nessun passo in Aristotele che supporti la tesi di Mansion. È evidente che egli legge Aristotele alla luce delle in­terpretazioni successive, in particolar modo alla luce della inter­pretazione contenuta nel Commentario di S. Tommaso al De Trinitate di Boezio, per la quale si veda sotto.

2. Mansion presume che gli oggetti della fisica vengano col­ti con un atto di astrazione. Di nuovo, non ci sono testi che sup­portino la sua interpretazione. E sembra anche che Mansion sia sul punto di rendersi conto di questo fatto; ma, invece, egli criti­ca Aristotele per non aver adeguatamente elaborato la sua dot­trina della differenza fra la fisica e la matematica, definendo questa dottrina un tentativo mancato di Aristotele (p. 169). Pro­prio la terminologia che Mansion usa dimostra il carattere non aristotelico del suo tentativo di stabilire la differenza fra gli og­getti della fisica e quelli della matematica in termini di gradi di astrazione. Mansion definisce gli oggetti della fisica «choses sensibles pensées», oppure parla di «un sensible élevé à l'ordre intelligible» (pp. 138 ss.; p. 176 dell'opera sopra citata a p. 119).

Non c'è niente che indichi meglio la distanza fra Aristotele ed una dottrina che sostenga che gli oggetti della fisica sono og­getti dell'astrazione del modo in cui Aristotele considera le co­siddette scienze intermedie, ossia l'astronomia, l'ottica, la mec­canica (cfr. Mansion, op. cit., pp. 186-195). Aristotele è consa­pevole del fatto che tutte queste scienze esercitano l'astrazione in un modo simile a come l'astrazione viene usata in matemati­ca. Ma, invece di procedere da qui ad un'affermazione generale concernente la fisica, egli usa questa somiglianza solo per chiari­re il carattere matematico di queste scienze intermedie. E pro­prio nella misura in cui esse fanno uso dell'astrazione, non sono scienze fisiche (cfr. anche De anima, I 1, 403 a 12-14, a proposi-

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to dei costruttori e dei fisici). Lo stesso Mansion ne stabilisce la ragione. La natura, secondo Aristotele, non è, nella sua gran parte, suscettibile di una considerazione matematica (quantitati­va) e pertanto il concetto di una fisica matematica è assente dal suo pensiero.

In altri termini, Mansion vede molto bene che la dottrina della differenza fra gli oggetti della matematica e gli oggetti del­la fisica espressa in termini di gradi di astrazione non è aristote­lica; ma, invece di biasimare gli interpreti per aver cercato di trovare questa dottrina in Aristotele, egli biasima Aristotele per non aver fatto ciò che egli, secondo questi interpreti, si era av­viato a fare 13 •

3. Mansion presume che l'oggetto della metafisica di S. Tommaso possa essere colto mediante astrazione. Come la pre­cedente discussione dovrebbe aver dimostrato, questo è in­fondato.

Pertanto, l'intera tripartizione della conoscenza speculativa presente in Aristotele è incoerente ed è il risultato di un esitante tentativo di mantenere la divisione platonica dell'essere. Inoltre, il passo classico in cui essa viene esposta è deformato da un erro­re del testo.

7. Sopravvivenza storica della contraddizione inerente alla tri­partizione aristotelica

Ma in questo modo è accaduto che proprio questa triparti­zione, per lo più incorporata all'interno di una più generale divi­sione della filosofia, sia stata ripetuta e commentata innumere­voli volte 14• Alcuni esempi tipici saranno sufficienti a caratte­rizzarne i risultati.

13 Cfr. anche G. R. Mure, Aristotle, p. 202, n. 3, specialmente la sua analisi di Metafisica, M 3, 1078 a 5-9. Questo passo dimostra immediatamente che se Ari­stotele avesse sviluppato i germi di una teoria generale dell'astrazione presenti nei suoi scritti, sarebbe pervenuto ad una pluralità di scienze astrattive coordinate alla matematica.

14 Cfr. J. Mariétan, Problème de la c/assification des sciences d'Aristote à St. Thomas (1901); L. Baur (curatore), Dominicus Gundissalinus De divisione phi­losophiae (1903), pp. 316-397. Alcuni altri riferimenti: M. Grabmann, Die Geschi­chte der scholastischen Methode, 2 voll. (1909, 1911), spec. voi. II, pp. 28-54; S. van den Bergh, Umriss der muhammedanischen Wissenschaften nach lbn Ha/dun (1912), pp. 12-16; J. M. Ramfrez, De ipsa phi/osophia in universum, secundum

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Abbiamo visto (sopra, pp. 120 ss.) che Alessandro (In Me­taph., p. 251, 34-38 Hayduck) è riluttante ad accettare la tripar­tizione dell'essere in oggetti della teologia, oggetti della mate­matica ed oggetti della fisica, e sostiene, invece, la tripartizione in oggetti della teologia, oggetti dell'astronomia, oggetti della fisica. Nessun dubbio del genere assale lo ps. Alessandro 15 • Nel suo commentario a Metafisica, E 1, 1025 b 18 - 1026 a 6, e di nuovo a Metafisica, K 7, 1064 a 10, viene accettata la prima di­visione. Nel primo di questi passi, lo ps. Alessandro descrive gli oggetti della fisica come «in movimento», XL\IT}'ta:, ed «insepara­ti», &xwpLa-.Ot, gli oggetti della matematica come «immobili», &x(v7J't0t, e «separati», xwpLa'ta:, gli oggetti della teologia come «immobili», &xtVT}'tOt, e «separati», xwpLa-.a: (p. 445, 19-446, 3 Hayduck) - sebbene proprio all'interno di questo passo gli og­getti della matematica vengano descritti come non «separati», non xwpLa'ta:. Nel secondo passo, lo ps. Alessandro descrive gli oggetti della matematica come immobili e come «separati», xwpLa'ta:, dal nostro pensiero (p. 661, 2-9 Hayduck).

Tutto questo equivale o ad una dicotomia &xwpLa't0t-xwpL­O''t1X nel significato di materiale-immateriale, con il primo termi­ne suddiviso in «dotato di movimento» e immobile; oppure ad un'altra dicotomia in movimento-immobile, con il primo termi­ne suddiviso in «e considerato come in movimento» e «e consi­derato come immobile», o con il secondo termine suddiviso in «immateriale-materiale»; e xwpLa-.6v talvolta significa immate­riale, talvolta astratto, ecc. Il caos è evidente.

Ammonio 16 ha posto in risalto il fatto che gli oggetti della

doctrinam aristotelico-thomisticam, «La Ciencia Tomista», 26 (1922), pp. 33-62; 325-364; 28 (1923), pp. 5-35; 29 (1924), pp. 24-58; 209-222; J. Stephenson, The Classijication of the Sciences According to Nasiruddin Tusi, «Isis», 5 (1923), pp. 329-338; H. Meyer, Die Wissenschaftslehre des Thomas von Aquin, «Philosophi­sches Jahrbuch», 47 (1934), pp.171-206; 308-345; 441-486; 48 (1935), pp. 12-40; 289-312; M. Clagget, Some Generai Aspects of Physics in the Middle Ages, «Isis», 39 (1948), pp. 29-44, spec. 30-36; L. Gardet e M. M. Anawati,lnstroduction à la Théologie musulmane (1948), pp. 97-134; I. Husik, Philosophical Essays (1952), pp. 164 ss.

1s Sarebbe utile un'analisi di tutte le differenze dottrinali fra lo ps. Alessan­dro ed Alessandro. Su una di queste si veda Ph. Merlan, Ein Plotinos-Zitat bei Simplikios und ein Simplikios-Zitat bei ps. Alexandros, «Rheinisches Museum», 84 (1935), pp. 154-160. Si veda anche P. Moraux, Alexandre d'Aphrodise (1942).

16 Non faremo nessun tentativo di citare i commentatori di Aristotele nel lo­ro corretto ordine cronologico.

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matematica possono essere descritti o come separati (mental­mente) o come non separati (di fatto; In Porphyrii /sagogen, p. 11, 30-12, 8 Busse). Allo stesso tempo, egli riferisce (ibi., p. 10, 15-11, 5 Busse) che alcuni filosofi hanno fatto precedere la ma­tematica alla fisica. E' facile vedere perché questo sia stato fatto e come. Una volta che non ci sia più una sfera intermedia del­l'essere, la matematica non può conservare la sua posizione fra la fisica e la teologia. Essa deve essere eliminata, ed otterrà uno status propedeutico, piuttosto che essere una parte della filoso­fia 17• Lo stesso Aristotele ha dato l'avvio a questa tendenza. In Metafisica, E 1, 1026 a 6-11, egli esamina le tre branche nel se­guente ordine: fisica, matematica, teologia. Ma, dopo aver criti­cato il diritto delle prime due ad essere la scienza più alta, le elenca ora in E 1, 1026 a 19, nel seguente ordine: matematica, fi­sica, teologia (cfr. sopra, p. 120). Ammonio, sensibile al fatto che gli oggetti della matematica non hanno uno status ontico ad essi peculiare, ha mantenuto anche le ovvie conseguenze di que­sta consapevolezza.

La chiara comprensione della dualità di principi che sotto­stà alla tripartizione la troviamo in Davide, Prolegomena philo­sophiae, p. 57, 9-58, 25 Busse e nello ps. Galeno, De partibus philosophiae, p. 6, 11-16 Wellmann 18 • Gli intelligibili esistono separati e sono considerati separati, senza materia; gli oggetti della geometria esistono solo nella materia, ma da noi sono con­siderati come immateriali; i sensibili esistono nella materia e da noi sono considerati insieme con la loro materia. Ciò che è parti­colarmente interessante osservare è il fatto che Davide e lo ps. Galeno danno piena fiducia per questa tripartizione ad Aristote­le, contrapponendolo a Platone che, secondo lo ps. Galeno, ha ammesso solo due sezioni della conoscenza. Qui, veramente, l'origine platonica della tripartizione non è solo dimenticata; è negata.

In quanto negano che gli enti matematici esistano separata­mente, Alessandro, Ammonio e la ps. Galeno sono aristotelici.

17 E' proprio per questa ragione che, ad esempio, i predecessori (ad esem­pio, Davide, Pro/. phil., p. 5, 9 Busse) di Averroè hanno escluso la matematica (in­sieme con la logica) dalla filosofia vera e propria. Cfr. L. Gauthier, lbn Rochd (1948), pp. 49-51; H. A. Wolfson, The Classijication of Science in Medieval Jewish Philosophy, «Hebrew Union College Jubilee Volume» (1925), p. 305.

18 Cfr. L. Baur, Gundissalinus De divisione philosophiae (1903), p. 337, n. 2.

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In che modo un Platonico considera la stessa tripartizione? Un tipico esempio di un Platonico confuso è Albino. Nel suo Dida­scalicus, cap. III 4, p. 11 Louis, le tre parti della filosofia teore­tica sono la teologia, la fisica, che include l'astronomia, e la ma­tematica. Ma, nel cap. VII, pp. 41-47 Louis, sembra che la fisica abbia lasciato l'astronomia alla matematica, che tratta del mo­vimento ed include la musica. Nello stesso tempo, la matematica viene interpretata come una branca della conoscenza esclusiva­mente propedeutica. E' evidente che Albino non è in grado di decidere se gli enti matematici siano o no dotati di movimento e, qualora siano separati, se meritino o no di essere considerati co­me una branca della filosofia, oppure se siano o no realmente separati.

Come abbiamo visto, sia Giamblico che Proclo non esitano mai ad attribuire agli enti matematici una esistenza pienamente separata, così che in essi, a motivo del loro realismo 19, la tripar­tizione è del tutto legittima.

Il punto di partenza più naturale per un esame delle inter­pretazioni medioevali della tripartizione è Boezio. Nel De Trini­tate, cap. II, leggiamo:

Nam cum tres sunt speculativae partes, naturalis, in motu inabstracta cxvu1tt~ci(pt'to,; (considerat enim corporum formas cum materia, ... guae corpora in motu sunt ... ), mathematica, sine motu inabstracta (haec enim formas corporum speculatur sine materia ac per hoc sine motu, guae formae cum in materia sint, ab his separari non possunt), theologica, sine motu ab­stracta atgue separabilis 20 •••

Nella forma di uno schema sinottico:

19 Un famoso esempio di sopravvivenza di questo realismo lo troviamo in Keplero, Harmonice mundi (1619), libro IV, cap. I, con una lunga citazione tratta da Proclo, In Euc/., Primo Prologo (i passi paralleli presenti in Keplero ed in Pro­clo si possono facilmente trovare in M. Steck, Proclus Diadochus .. Kommentar zum Ersten Buch von Euklids «Elementen» [1945]). Va al di là dello scopo del pre­sente libro esaminare l'opera di E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem, voi. I (1922 l), pp. 337 ss., che interpreta il realismo concettuale di Keplero e di Proclo come un apriorismo kantiano.

20 Il testo citato è quello dell'edizione Rand-Stewart nella Loeb Library.

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LA SUDDIVISIONE DELLA FILOSOFIA TEORETICA 141

Oggetti della fisica Oggetti della matematica Oggetti della metafisica in motu sine motu = speculata sinemotu

sinemotu

inabstracta = considerata inabstracta = speculata abstracta cum materia sine materia

&11u1ttçodpt'ta, ossia non separabilia = separabilia, non separati necessariamente uniti ossia non uniti

alla materia alla materia

Un solo sguardo a questo schema sinottico rivela un com­pleto caos. Il termine inabstracta in quanto riferito agli oggetti della fisica, significa considerata cum materia; ma, in quanto ri­ferito agli oggetti della matematica, significa speculata sine ma­teria. Separabilis significa realmente separatum = immateriale. Il punto di vista epistemiologico ed il punto di vista ontico ven­gono confusi in modo irrimediabile. L'introduzione di un nuo­vo termine, &vum:çodpe:toi;, con l'intenzione evidentemente di so­stituire il fastidioso termine &xwp~a-r~, accresce solo la confusio­ne. Esso significa «ciò che esiste nella materia», ma in questo caso dovrebbe essere riferito anche agli enti matematici invece del termine non separa bilia.

Lo scritto di Boezio è divenuto oggetto di molti commenta­ri. In tutti, troviamo dei tentativi per rendere più coerente la tri­partizione. Ci limitiamo ad alcuni esempi.

Iniziamo con Giovanni Scoto (Eriugena) 21 • Secondo Sco­to, gli enti matematici (come i numeri) sono immateriali, ma la matematica li considera solo nella materia (Commentum Boe­thii De Trinitate , in E.K. Rand, Johannes Scottus, in: Quellen und Untersuchungen zur lateinisichen Philologie des Mittelal­ters, herausgegeben von L. Traube, Miinchen 1906, zweites Heft, pp. 34, 25) 22 • Questo o è un semplice errore, o è un ritor­no pressoché completo al realismo platonico. Sembra che gli en­ti matematici esistano separati. Ma, se Giovanni Scoto si propo­neva realmente un tale ritorno, è stato certamente sconsiderato ad affermare che la matematica considera gli enti matematici come uniti alla materia. Ciò equivale ad una strana distorsione

21 Su Scoto Eriugena, si veda, in questo contesto, J. Handschin, Die Musi­kanschauung des Joh. Scotus, «Deutsche Vierteljahrschrift fiir Literaturwiss. und Geistesgeschichte», 5 (1927), pp. 316-341.

22 Il problema di chi ne sia il vero autore (Scoto o Remigio di Auxerre?) è ir­rilevante nel presente contesto.

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sia del punto di vista astrazionistico sia di quello non-astrazioni­stico. Sembra che Giovanni Scoto sia la vittima del duplice ter­mine usato da Boezio per gli enti matematici, inabstracta e inse­parabilia. E' istruttivo confrontare i commentari di Teodorico e di Clarembaldo 23 • Per essi, in realtà, è del tutto ovvio che gli enti matematici non possano essere detti «inseparati», cxxwpL­a-.a, nello stesso senso in cui lo sono gli oggeti della fisica. Essi presuppongono che il metodo con cui i primi diventano oggetto di conoscenza sia l'astrazione, mentre non c'è astrazione in fisi­ca. Come ha potuto allora Boezio chiamare gli enti matematici inabstracta? Teodorico (?), nel Librum hunc, non cerca real­mente di risolvere la difficoltà. Dopo aver ripetuto diverse volte che la matematica opera in base all'astrazione (p. 8 24 , 11, 19, 30 Jansen), mentre la fisica non astrae, egli descrive gli oggetti del­la teologia come «astratti», intendendo con ciò «esistenti senza materia» (p. 9 25 , 7 Jansen) e lascia al lettore il compito di com­porre i due significati del termine «astratto».

È di qualche interesse osservare come la stessa confusione che in Aristotele ha cambiato il termine «separati», xwpLcr-.<X, con «inseparati», &xwpLcr-.a, si ripeta in Teodorico. Alla pag. 9 26, 20, 21 Jansen, vengono confusi i termini abstracta ed inab­stracta. Abstracta viene usato per designare gli oggetti della fisi­ca, inabstracta per designare gli oggetti della teologia. Jansen emenda il passo intercambiando i due termini; ma sembra che egli corregga l'autore piuttosto che il copista. In ogni caso, l'idea che gli oggetti della teologia siano inabstracta, nel senso di avere un'esistenza separata e di essere più che oggetti di astrazione, e l'idea che gli oggetti della fisica possano essere designati come

2l In: W. Jansen, Der Kommentar des Mag. Clarenbaldus von Arras zu Boethius De Trinitate ( 1926).

24 Cfr. nota 21. 25 Secondo H. A. Wolfson potrebbe esserci una somiglianza fra questa in­

terpretazione e quella di David al-Mukammas (su Al-Mukammas si veda D. Neu­mark, Geschichte der jiidischen Philosophie des Mittelalters, 4 voli., voi. I [1907], pp. 469 ss.; 612 ss.; voi. II [1928], pp. 215-219; J. Guttmann, Die Philosophie des Judentums [1933], pp. 85-87) cosi come viene citato in Judah ben Barzilai: H. A. Wolfson, The Classification of Science in Mediaeval Jewish Philosophy «Hebrew Union College Jubilee Volume» (1925), pp. 263-315: «La filosofia è la conoscenza di tutte le cose conformemente alla misura delle loro forme [matematica], al segre­to della loro natura [fisica], e alla veracità della loro comunicazione [teologia?]», p. 271; cfr. p. 296.

26 Cfr. nota 25.

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oggetti di astrazione (un'idea che sarà più tardi sviluppata da S. Tommaso) «sono passate attraverso» la penna di Teodorico e l'hanno sviata.

Più critico è Clarembaldo. Nel suo commentario a Boezio, egli pone la questione del perché Boezio abbia definito gli enti matematici inabstracta. Egli ha fatto questo, dice Clarembaldo, per indicare che essi sono inerenti alla materia e per distinguere la matematica dalla teologia (p. 56 27 , 15 Jansen).

Diversa è l'interpretazione di Gilberto Porretano (Com­mentaria in librum De Trinitate). In Gilberto, la matematica di­viene conoscenza di tutte le forme (ad esempio, corporalitas, co­lor, latitudo); il suo oggetto, pertanto, è co-estensivo a quello della fisica. Solo che quest'ultima considera i suoi oggetti come essi sono (uniti alla materia), la prima non li considera come essi sono (li astrae dalla materia). Gli oggetti della teologia non mo­do disciplina, verum etiam re ipsa abstracta sunt (PL, 64, 1267 C; 1268 B-C). Ma una matematica l'oggetto della quale siano tutte le forme non è chiaramente la matematica di cui parla Ari­stotele, la quale riguarda solo gli enti matematici nel senso co­mune.

In Rodolfo di Longo Campo (circa 1216) troviamo un altro tentativo di reinterpretare l' intera tripartizione. Secondo Ro­dolfo, le tre branche hanno una sola cosa in comune: i loro og­getti sono invisibili. La teologia considera le sostanze invisibili, la fisica le cause invisibili, la matematica le forme invisibili (M. Grabmann, Geschichte der scholastischen Methode, 2 voli. [1909,1911], voi. Il, p. 49) 28 • La debolezza del suo tentativo è evidente: non c'è nessun principio che sottostia a questa divisio­ne, così come la serie: sostanze, cause, forme, non è fondata su nessun principio. Ciò nonostante, una cosa è importante a pro­posito dell'interpretazione di Rodolfo. Secondo Rodolfo, l'og­getto di nessuna delle tre branche della conoscenza è accessibile ai sensi. In altri termini, un abisso separa la fisica dalla sensazio­ne. La tripartizione della filosofia diviene connessa in modo ine­stricabile con un problema epistemologico fondamentale. Que­sto problema fondamentale è il seguente: quanti tipi di cono­scenza ci sono oltre a ed al di sopra della sensazione? Se l'astra-

27 Cfr. nota 25. 28 Cfr.nota25.

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zione è il metodo presente anche nella fisica e se l'astrazione è il metodo della matematica, non ne deriva forse che l'astrazione è il solo metodo che conduce ad una qualche conoscenza al di so­pra del livello della sensazione? Anche la teologia (metafisica) si fonda solo su un'altra applicazione del metodo dell'astrazione? Siamo ovviamente pronti ad esaminare S. Tommaso, nel quale tutte queste domande trovano le loro risposte. Ma, prima di fare questo, dedichiamo alcune parole ad un autore che precede S. Tommaso: Domenico Gundisalvi. Egli afferma di citare il passo di Boezio che abbiamo esaminato, ma certamente lo cita in un modo molto particolare.

Et ob hoc dicit Boecius, quod phisica est inabstracta et cum motu, mathematica abstracta et cum motu, theo/ogia vero ab­stracta et sine motu (De divisione philosophiae, p. 15 Baur).

Come si vede, Gundisalvi, invece di citare Boezio, lo cor­regge tranquillamente in due sensi. Qualunque ne sia la ragione, egli descrive gli enti matematici come caratterizzati dal movi­mento; accorgendosi che è difficile designare sia gli oggetti della fisica, sia gli oggetti della matematica mediante un unico e me­desimo termine (ad esempio, entrambi come abstracta o come inabstracta) corregge Boezio per una seconda volta. Ma viene eliminato un tipo di confusione solo per far posto ad un altro: sia gli oggetti della matematica che gli oggetti della fisica vengo­no descritti come abstracta. Gundisalvi omette semplicemente i termini &vu1t1:.~ci(p1:.'toç e separabilis-inseparabilis.

Possiamo ora rivolgerci a S. Tommaso. La sua Expositio super Boetium De Trinitate rappresenta, indubbiamente, uno dei vertici della filosofia medioevale 29 •

S. Tommaso accetta apparentemente la tripartizione della filosofia speculativa compiuta da Boezio, ma ne cambia in mo­do considerevole il significato. Sarà sufficiente una breve consi­derazione, in quanto la questione è stata analizzata sopra in mo­do dettagliato. S. Tommaso rende coerente la tripartizione fon­dandola interamente su differenze conoscitive (sui gradi di astrazione, ossia la fisica astrae dalla materia individuale, la ma­tematica da tutta la materia sensibile, la metafisica formale da tutta la materia; q. 5, art. 2, Resp., ad primum; art.3, Resp., ad

29 Cfr. M. Grabmann, Die Werke des hl. Thomas von Aquin (1949 l), pp. 358-360.

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quartum; art. 4, Resp.). Il prezzo che S. Tommaso paga a que­sta coerenza è duplice. In primo luogo, lo status degli oggetti della fisica è diverso dallo status che essi hanno in Aristotele. In secondo luogo, all'interno di questa nuova tripartizione non c'è posto per una metaphysica specialis. Da ora in poi l'alternativa sarà: o conservare la tripartizione ed interpretare il signifiato della metaphysica specialis in modo tale che essa fosse ultima­mente riducibile alla metaphysica generalis, o conservare la me­taphysica specialis come una branca distinta dalla metaphysica generalis ed abbandonare la tripartizione. Poiché tutte le divi­sioni chiare sono estremamente convenienti per fini scolastici e didattici, la prima alternativa è stata largamente accettata 30 •

Dobbiamo ancora domandare: la dicotomia di metaphysica generalis e metaphysica specialis è giustificata dal punto di vista di Aristotele? Questo problema verrà risolto nel cap. VII.

E' interessante osservare come la comprensione della scor­rettezza della tripartizione aristotelica si esprima ultimamente anche in Maritain. Maritain ha cercato di interpretare la tripar­tizione della conoscenza in termini di gradi di astrazione; ma ba­sta una semplice occhiata al suo schema sinottico dei gradi della conoscenza, per vedere immediatamente che la matematica non è più coordinata con la teologia e con la fisica. (J. Maritain, Di­stinguer pour unir [1946), pp. 69-93, spec. p.79 = Distinguish to Unite [1959), pp. 35-46, spec. p. 39, lato sinistro). Un seguace di Maritain come Whittaker riduce la tricotomia di S. Tommaso ad una dicotomia: materiale-immateriale (J .F. Whittaker, The Position of Mathematics in the Hierarchy of Speculative Scien­ce, «The Tomist», 3 [1941), pp. 467-506, spec. p. 471). Questo è semplicemente il ritorno a ciò che Aristotele avrebbe dovuto di­re. Secoli di interpretazione di ciò che egli ha realmente detto non sono riusciti a dimostrare che ciò avesse senso.

Jo Nel testo di Boezio a lui noto, S. Tommaso trovava gli oggetti della teolo­gia descritti come abstracta ed inseparabilia (q. 4, art. 4, lectio 2). E' evidente che questo errore è il risultato di un'altra confusione dovuta all'ambiguità del termine xwpiat6v. E' molto difficile per S. Tommaso spiegare il termine inseparabilia. Dice S. Tommaso: non possiamo definire gli oggetti della teologia come separabilia, in quanto non sono mai congiunti, scii.: con la materia. Pertanto, li definiamo inse­parabilia. Si tratta di una spiegazione (inseparabile perché separatum) quasi lucus­a-non-lucendo; ma, chiaramente, non era in alcun modo possibile uscire da questa giungla di errori e di sviste.

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8. Una diversa interpretazione della conoscenza teoretica fon­data sull'identificazione dell'anima con gli enti matematici

Prima di concludere questo capitolo, dobbiamo esaminare un altro passo contenuto nella Introduzione di Boezio alla Isa­goge di Porfirio. Ancora una volta, viene affermata la triparti­zione della filosofia. Alcuni termini non sono chiari.

Erunt autem tot specu/ativae phi/osophiae species, quot sunt res in quibus iustae speculatio considerationis habetur, quot­que actuum diversitates, tot species varietatesque virtutum (In Porph. Isag., CSEL voi. 48, p. 8, 3-5 Brandt).

Ciò che Boezio sembra dire è che le tre branche della filoso­fia operano con differenti specie di facoltà conoscitive. In ogni caso, è solo il successivo passo che è interessante per noi. La se­conda (intermedia) branca della conoscenza speculativa

est omnium cae/estium supernae divinitatis operum et quic­quid sub lunari globo beatiore animo atque puriore substantia va/et et postremo humanarum animarum quae omnia cum prioris i/lius intellectibilis substantiae fuissent, corporum tactu ab intel/ectibilibus ad intelligibilia degenerarunt ... Secunda [sci/. branca dell'essere] vero, merito medio collocata est, quod habeat et corporum animationem et quodammodo vivifi­cationem et intel/ectibilium considerationem cognitionemque (ibi., p. 8, 21-9, 12 Brandt).

Si tratta di un passo interessante. La seconda branca risulta essere la psicologia. Essa concerne le anime «decadute», che, da un lato, danno vita ai corpi e , dall'altro lato, contemplano la sfera degli intelligibili, ai quali esse appartengono originaria­mente. E, naturalmente, questa è una posizione rigorosamente realistica; le anime sono separate.

Il passo può in realtà apparire enigmatico. Baur (op. cit., p. 351, n. 3; cfr. K. Bruder, Die philosophischen Elemente in den Opuscula sacra des Boethius [1927), pp. 6-8) non spiega per quale motivo la matematica dovrebbe d'un tratto essere sostitui­ta dalla psicologia. Piuttosto di recente, L. Schrade (Die Stel­lung der Musik in der Philosophie des Boethius, «Archiv filr Geschichte der Philosophie», 41 [1932), pp. 368-400) ha trovato questo fatto così strano che ha cercato di dimostrare che Boezio, deve aver inteso, dopo tutto, la matematica, anche se il passo parla della psicologia. Ma nel passo non c'è niente di strano per

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chi vi si accosti via Giamblico, Proclo, e attraverso il problema della identificazione dell'anima con gli enti matematici. Era pressoché inevitabile che qualcuno descrivesse la seconda bran­ca della filosofia teoretica come psicologia, invece che come ma­tematica, dal momento che anima = enti matematici. Giambli­co ne aveva già mostrato il modo: egli aveva sottolineato che l' «iniziazione» matematica e quella psicologica procedono pari passu (/se., cap. IX, p. 41, 5-6 F) 31 • In breve, siamo ricondotti all'identificazione dell'anima con gli enti matematici.

Il problema di una classificazione delle scienze è importan­te. Una intera Weltanschauung può essere condensata in una ta­le classificazione 32 , come è stato fatto in tempi moderni da Comte. Ma è uno spettacolo piuttosto patetico vedere gli Aristo-

31 A questo proposito, è di nuovo sorprendente che, secondo Wolfson (The Classification, pp. 278-294), i filosofi ebraici medievali definiscano, nella loro clas­sificazione delle scienze (a proposito delle quali si veda anche M. Steinschneider, Die hebriiischen Vbersetzungen des Mittelalters und die Juden als Dolmetscher [1893], pp. 1-33), la psicologia come una sotto-branca della metafisica (teologia). Wolfson è imbarazzato da questo fatto e cerca di spiegarlo mediante considerazio­ni sistematiche. E' tuttavia possibile che questa inclusione (che anticipa l'inclusione da parte di Wolff della psychologia rationalis nella metaphysica specialis) sia un'e­co del passo di Boezio sopra citato, ossia un tentativo di riconciliare la consueta tri­partizione, metafisica-matematica-fisica, con l'altra, metafisica-psicologia-fisica. lhwan-al-Safa distingueva la matematica sensibile da quella razionale (seguendo pensatori come Gemino di Rodi; si veda, Proclo, In Eucl., Prof. I, p. 38, 4 Frie­dlein; cfr. J. Klein, Die griechische Logistik und die Entstehung der Algebra, «Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik ... » Abt. B: Studien 3 [1936], pp. 18-105, spec. 23-29), ed affermava della matematica razionale che essa conduceva «alla conoscenza dell'essenza dell'anima» (Wolfson, The classification, cit., p. 271; cfr. F. Dieterici, Die Philosophie der Araber im X. Jahrhundert n. Chr. 2 parti, che corrisponde ai libri l e 2 del Die Philosophie der Araber im IX. und X. Jahrhundert n. Chr., voi. Il. pp. 132 ss.; p. 145). Qui, di nuovo, sembra che abbiamo un'eco di Giamblico. Un'altra interessante tripartizione delle realtà incorporee (Dio e gli angeli; l'anima; gli enti matematici) è stata compiuta dall' A­nonimo di Hauréau; si veda H. Willner, Des Abelard von Bath Traktat De eodem et diverso (1903), pp. 105-108, spec. 105. In lbn Khaldoun, Les Prolégomènes, 3 voli. (1863, 1865, 1868), ristampato in The Muqaddimah, 3 voli. (1958), troviamo, come tre sfere dell'essere, le realtà fisiche, le anime umane, gli spiriti e gli angeli (voi. Il, pp. 433-435 = 419-421). Ne dovrebbe derivare che, nel sistema delle scien­ze, la psicologia dovrebbe prendere il posto della matematica; ma, più avanti, lbn Khaldoun afferma che la psicologia è una parte della fisica (voi. Ili, p. 161 = p. 111). Tutto questo rinvia verso l'equazione anima = enti matematici, ma dal mo­mento che nessuno oserebbe affermare esplicitamente che, pertanto, la psicologia s'identifica con la matematica, dobbiamo essere preparati ad incontrare alcuni ten­tativi semi-surrettizi di riconciliare le pretese di queste due scienze.

32 Cfr. G. Sarton, Introduction to the History of Science, voi. III (1947), pp. 76-78.

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tetici cercare di trovare un senso in una classificazione che aveva senso solo all'interno del Platonismo, e vedere secoli disorienta­ti da un errore contenuto nel testo di Aristotele 33 • L'incapacità di notare la presenza nello stesso Aristotele del conflitto fra l'in­terpretazione realistica e quella non realistica della matematica, e l'incapacità di vedere che la tripartizione della conoscenza esi­geva una tripartizione dell'essere, sono state a lungo andare irre­parabili.

33 Un altro errore contenuto nel testo di Aristotele (Metafisica, A 1, 1069a 30-b2) che ha avuto egualmente conseguenze disastrose. Fortunatamente, si è nota• to presto che i mss. discordavano. Si veda A. J. Festugière, Sur /es sources du com­mentaire de St. Thomas au livre XI des Métaphysiques, «Revue des Sciences Philo­sophiques et Théologiques», 28 (1929), pp. 657-663.

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Appendice al Capitolo III

Vorrei aggiungere due ulteriori esempi che illustrino la continuità fra le interpretazioni antiche di Aristotele e quelle medievali (arabe).

Nel suo commentario alla Fisica (p. l, 21-2,6 Diels), Simplico affer­ma, riguardo alla terza parte della filosofia speculativa, che essa concerne gli ttò71, che in parte sono e in parte non sono xwpia'ta, che in parte 1,1a871-fLOt'tLx~v xat 1ttpt ~uxijç xaÀouat. L'identificazione (o almeno la stretta so­miglianza) fra gli enti matematici e l'anima conduce qui ad una caratteriz­zazione dell'anima nei termini usualmente riservati per gli enti matematici. Dovrebbe essere evidente che «separato», xwpia-e6v, non può significare la stessa cosa quando viene applicato all'anima e quando viene applicato agli enti matematici, a meno che l'anima non venga considerata come una real­tà di tipo matematico.

L'altro esempio è tratto da al-Kindi (si veda M. Guidi e R. Walzer, Studi su al-Kindi. I. Uno studio introduttivo allo studio di Aristotele, «Memorie della R. Accademia nazionale dei Lincei. Classe di scienze mo­rali, storiche e filologiche», Sez. VI, voi. VI, (1937-40), fase. V, Roma 1940). Dopo aver relegato la matematica ad uno status puramente prope­deutico (pp. 317 ss.), egli suddivide la filosofia speculativa in logica, fisi­ca, psicologia e metafisica (p. 378). La logica, naturalmente, viene aggiun­ta semplicemente nella sua qualità di organon. Pertanto, alla tripartizione aristotelica corrisponde la serie fisica-psicologia-metafisica. In altri termi­ni, la matematica, come scienza intermedia, è stata sostituita dalla psicolo­gia, che ci ricorda, in un modo stranamente indiretto, che le due scienze talvolta devono essere state identificate.

Tuttavia, al-Kindi evita il termine «intermedio», in quanto, per l'in­clusione della logica, la sua filosofia teoretica, consiste di quattro parti in­vece che di tre. D'altra parte, al-Kindi afferma che Aristotele, nel De ani­ma, tratta degli oggetti che possono esistere senza un corpo, un chiaro adattamento dell'idea espressa da Simplicio (pp. 405-6).

2. Dal momento che Aristotele in un passo della Metafisica ha sosti­tuito la matematica con l'astronomia (si veda sopra, p. 121), e, d'altra parte, dal momento che la psicologia, o identificata con la matematica o sostituita alla matematica, è stata posta essa stessa come una scienza inter­media, possiamo anche aspettarci di trovare la branca intermedia della fi­losofia speculativa designata come astronomia plus psicologia. Ed infatti, sembra che questo è quanto è avvenuto spesso nella filosofia araba, come si può vedere da: G. Vajda, Juda ben Missim ibn Malka (Paris 1945), pp. 94-101.

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3. Il testo di Gilberto Porretano (sopra, p. 143) può ora essere letto in: J. R. O'Donnel, Nine Medieval Thinkers (Toronto 1955), pp. 23-98, spec. pp. 48, n. IO e 49, n. 14. Ciò che è stato detto nella parte centrale del libro può forse esere ampliato un po'. Secondo Gilberto Porretano, la fisi­ca non potrebbe mai far presa adeguatamente (perfecte) sui suoi oggetti quali corpus, coloratum esse, latum esse, a meno che la matematica non abbia dapprima condotto alla conoscenza dell'essenza di questi oggetti, ossia della corporeitas, del color, della latitudo. Siamo infinitamente lon­tani dal modo in cui Aristotele concepiva la relazione fra fisica e matema­tica, ma il suo schema viene considerato ancora valido.

4. Sono stato criticato da de Strycker 34 per aver frainteso i termini &q>cx(p&aLç e xwpLa't611. Egli non offre nessuna spiegazione. Spero che una esposizione più completa delle mie opinioni lo indurrà a fare altrettanto.

a. Il miglior punto di partenza per un esame del concetto di &q>cx(p&aLç è: H. Scholz e H. Schweitzer, Die sogenannten Definitionen durch Ab­straktion «Forschungen zur Logistik und zur Grundlegung der exakten Wissenschaften», 3 (1935), pp. 3-10. Dopo aver nettamente distinto i con­cetti dagli oggetti, Scholz cita uno dei passi classici della Summa di S. Tommaso (abstractio universalis ed abstractio formae; l q. 85, ad pri­mum) e riconduce la dottrina dell'astrazione, nel senso della cogitatio col­lecta ex individuorum similitudine, a Boezio, per poi porre la seguente do­manda: è possibile far risalire questa dottrina dell'astrazione (che egli defi­nisce la dottrina classica, ossia la dottrina prelogistica dell'astrazione) ad Aristotele? Indubbiamente, afferma Scholz, Aristotele ammette un'intera classe di cose che vengono raggiunte per &q>cx(p&aLç, ossia gli enti matemati­ci. E almeno una volta, continua Scholz, Aristotele afferma che gli oggetti della filosofia prima (ontologia) vengono raggiunti per &q>cx(p&aLç. Ma que­sto non significa che Aristotele consideri gli enti matematici o «gli oggetti dell'ontologia» come concetti, ossia, come universali. Egli, piuttosto, ri­tiene che essi siano realtà individuali (sebbene non realtà individuali con­crete: Scholz distingue chiaramente fra l'individuale e l'universale, da un lato, e l'astratto, dall'altro). Questo lo si può vedere nel modo migliore del passo di De caelo, III l, 299 a 15 (si veda sopra, p. 128). Altrimenti, sareb­be del tutto inspiegabile perché Aristotele, come esempio dei risultati della &q>cx(p&aLç, citi sempre enti matematici e mai universali ovii, quali «uomo», «animale», ecc. Non conosco, afferma Scholz, un solo passo di Aristotele, dove si possa trovare un tale esempio, a meno di non forzare il significato del testo. Pertanto, non si dovrebbe considerare Aristotele come il precur­sore della teoria classica dell'astrazione. Egli intende l'&q>cx(p&aLç come un mezzo per pervenire a degli oggetti e non a dei concetti.

Ora, mi sembra che il modo in cui Scholz espone il problema si presti meglio ad una valutazione, piuttosto che ad un'interpretazione di ciò che Aristotele ha realmente detto. Esso presuppone un livello di riflessione che è del tutto assente dagli scritti di Aristotele. Se consideriamo un passo co-

34 E. de Strycker, «L' Antiquité classique», 25 (1956), pp. 528 ss.

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APPENDICE AL CAPITOLO III 151

me quello di De anima, III 8, 432 a 2, leggiamo che anche gli intelligibili «che si dicono per astrazione», 'tÒt li; òupotLpfotwç ÀE-y6µtvot, non hanno nessuna esistenza separata al di fuori delle forme sensibili, otla0TJ't<X, pro­prio come non hanno nessuna esistenza separata gli altri intelligibili, VOTJ· 't<X. Ed in questo contesto leggiamo: «nessuna cosa esiste separata dalle grandezze sensibili» (1tpciyµot où0iv lG'tL 1totpÒt 'tÒt µtyÉ0TJ ... 'tÒt ÒtL0"0TJ'tÒt xtxwpLaµÉvov). Non è facile interpretare i VOTJ'tÒt (e i 'tÒt li; Òt<potLpfotwç) co­me se essi designassero realtà individuali, piuttosto che concetti universali.

Nonostante queste riserve, sembra, tuttavia, che Scholz, nel punto es­senziale, abbia ragione 35 • Sembra che sarebbe inutile cercare in Aristotele la teoria «classica» dell'astrazione (ossia, astrarre dalle differenze esistenti fra un certo numero di cose, e concentrarsi, invece, sulle somiglianze: il ri­sultato di una tale attività sarebbe un concetto universale 36). Questo è par­ticolarmente vero per quanto concerne i passi che trattano o del concetto di Òt<potCptaLç o di quello di xwpLa't6v. Al contrario, nella maggior parte dei passi Aristotele usa il concetto di Òt<pottptaLç in un modo tale che in realtà esso implica ciò che Scholz caratterizza correttamente come ascesa, non da una realtà individuale ad un concetto universale, ma, piuttosto, da una realtà individuale (un oggetto, non un concetto) di un certo tipo di essere ad un'altra realtà individuale (non un concetto universale) che rappresenta un tipo più elevato di essere.

Tuttavia, lo si deve ripetere, dobbiamo essere in disaccordo con Scholz, per quanto concerne il fatto che noi sosteniamo che in Aristotele sono presenti almeno i germi della teoria classica dell'astrazione. Dobbia­mo riconoscere che in Aristotele l'Òt<pottptaLç talvolta potrebbe essere inter­pretata come se essa designasse l'operazione dell'astrazione «classica». Ogni volta che Aristotele afferma che qualcosa esiste solo li; Òt<potLpfotwç, è molto vicino alla teoria classica dell'astrazione, per il fatto che, di un tale «essere», egli probabilmente affermerebbe che esso non è una realtà indi­viduale e che, pertanto, non ha nessuna esistenza separata. E l'espressione «non avere nessuna esistenza separata» è pressoché identica all'espressio­ne «prodotto del nostro pensiero»; un tale essere, pertanto, si identifica con un concetto piuttosto che con un oggetto. Naturalmente, si può ritene­re che i 'tÒt li; Òt<potLpfotwç siano realtà individuali, diverse dalle altre realtà individuali, per il fatto che, pur non avendo nessuna esistenza separata (esistono solo in altre realtà individuali), sono ancora realtà individuali. In altri termini, nessuna delle due interpretazioni sembra applicabile al pro­cesso della Òt<pottptaLç.

b. La nostra analisi del concetto di xwpLa't6v sarà molto più breve. Il miglior punto di partenza è l' Index di Bonitz. Quando non viene usato

35 Pace I. J. M. Van den Berg, L'abstraction et ses degrés chez Aristote, «Proceedings of the Xlth International Congress of Philosophy» (1953), voi. Xl, pp. 109-113. Berg accetta senza esitazione l'interpretazione di Mansion.

36 La teoria intuitiva dell'astrazione sarebbe solo una variante; secondo questa teoria è possibile separare l'universale dal particolare, che ci è presente solo in forma individuale.

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sensu locali, ecc., il concetto di xwpun611 designa quod suapte natura et per se in re et veritate est. In altri termini, xwpun611 sembra significare so­lamente: ciò che esiste in modo separato. I Il&&ri sarebbero esempi di &xwpLa-tO( 37.

Ma, dal momento che il termine xwpLa-t611 viene continuamente appli­cato da Aristotele alle Idee di Platone, il quale ne ha fatto dei xwpLa-t«, es­so sembra acquisire la connotazione della immaterialità. E' quanto si può osservare con particolare chiarezza in Metafisica, K 2, 1060 a 7-13 (Cfr. W. Jaeger, Aristoteles [1955 2

], p. 219; H.Cherniss, Aristotle's Criticism of Plato and the Academy, I [1944], pp. 318-376, spec. p. 368 con la nota 281 ): oùa(°' xwpLCJ"tT) 1tO(pÒt -.àt,; °'la8TJ-.&,; significa, evidentemente, sia esi­stente in modo separato sia non-sensibile; la frase, xwpLa-tÒv x°'8' °''hò XO(L (J.TJ8t11t -.w11°'la8TJ-.w111'.11ta:pxo11, implica la stessa cosa.

5. Sulla dottrina tomistica dei gradi di astrazione, si veda ora, ad esempio, E. D. Simmons, The Thomistic Doctrine of the Three Degrees of Formai Abstraction, «The Thomist», 22 (1959), pp. 37-67, specialmente le sue affermazioni a p. 57 s., nota 23. Simmons non affronta mai il proble­ma, fino a che punto il concetto di astrazione sia applicabile a quella parte della metafisica che tratta degli angeli e delle anime incorporee (ometto in­tenzionalmente il concetto di Dio). Si può dire la stessa cosa di W. Kane, Abstraction and the Distinction of Sciences, «The Thomist», 17 (1954), pp. 43-68.

37 E. de Strycker, La notion aristotélicienne de séparation dans son applica­tion aux ldées de Platon, in: AA. VV., Autour d'Aristo/e (1955), pp. 119-140, per­viene alla stessa conclusione.

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IV. L'origine del «quadrivium»

Abbiamo visto che l'interpretazione del Timeo è stata associata al problema della divisione della scienza matematica. Il signifi­cato e l'importanza di quest'ultima divisione sono ben noti: la scienza matematica quadripartita è il quadrivium. È sorpren­dente vedere quanto il quadrivium sia strettamente connesso con l'interpretazione del Timeo. In particolar modo, è sorpren­dente vedere che l'inclusione dell'astronomia nel quadrivium ha reso possibile l'equazione anima = enti matematici, in modo ta­le da includere il principio del movimento negli enti matematici. Come si è pervenuti, possiamo chiedere, a questa combinazio­ne? Possiamo anche domandare: qual è l'origine dell'idea del quadrivium?

Le quattro branche del sapere, più tardi note come quadri­vium, venivano insegnate almeno fin dai tempi di Platone. Non c'è nessun motivo per credere al passo di Giamblico, Theolo­goumena arithmeticae, 17, p. 21, 8-10 De Falco, nel quale viene attribuita già a Pitagora la conoscenza di queste discipline come un insieme unitario e nella successione: aritmetica-musica; geo­metria-astronomia. Ma esse vengono elencate in Protagora, 318 E 1 (dove è implicito che, chi era solito insegnarle, fu soprattut­to lppia 2); un passo di Isocrate, Panathenaica, 26, dimostra chiaramente che la geometria e l'astronomia erano state aggiun­te al normale curriculum solo di recente. Tuttavia, queste disci­pline non sono né poste in uno stretto rapporto le une con le al­tre, né rappresentano un tipo di sapere molto elevato. Si tratta evidentemente di disipline elementari, senza nessuna pretesa di avere un carattere filosofico; esse sono normali materie scolasti­che. Nella Repubblica (ad esempio VII 530 D) e nelle Leggi, le

1 Cfr. F. Marx (curatore), A. Carne/ii Ce/si quae supersunt (191S), pp. VIII-XIII.

2 Cfr. W. Jaeger, Paideia, voi. I (194S 2), pp. 316-318.

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diverse branche del quadrivium vengono menzionate piuttosto spesso, ma sovente viene aggiunta una nuova branca, la stereo­metria, e talvolta (ad esempio, Leggi, VII 817 E) viene omessa la musica. Dall'altro lato, nella Repubblica queste discipline ven­gono trattate come se fossero molto più che semplici materie scolastiche. Esse, certamente, sono preparatorie, ma preparano alla crocp(cx, al supremo tipo di conoscenza. Nelle Leggi (VII 809 B-D), esse vengono insegnate ad un livello elementare (819 B) e principalmente per fini pratici; solo lo studio della astronomia ha implicazioni più importanti (821 A-822 C). Ma il passo deci­sivo viene compiuto nell'Epinomide, 991 D-E. Qui, vengono di­stinte le quattro branche del sapere, con la geometria che evi­dentemente include l'astronomia (cfr. 990 D). Viene posta in ri­lievo la loro unità; e lungi dall'essere considerate come discipli­ne elementari, esse vengono quasi (o forse anche del tutto) iden­tificate con la filosofia. Sembra che non ci sia nessun oggetto di studio superiore a questi quattro µcx8~µ0t't0t. In altri termini, il quadrivium è sorto, se così possiamo esprimerci, come una branca molto elevata del sapere, forse come la branca suprema del sapere, pari alla crocp(cx. Di qui, dopo Platone e l' Epinomide, i µcx8~µcx'tcx potevano significare una di queste due cose: le mate­rie scolastiche tradizionali (per cui non c'era nessun particolare motivo per sottolineare la loro differenza dalle altre branche dell'insegnamento scolastico e senza un principio di unità fra es­se), oppure uno studio unitario ed altamente filosofico. Tutta­via, tanto più esse vengono considerate come filosofia, tanto meno possono essere paragonate con i µcx8~µcx'tcx nel senso co­mune della parola. I termini teologia o filosofia dei numeri, del­le figure, dei suoni, e dei movimenti dei corpi celesti descrivono l'oggetto di questi µcx9~µcx'tcx nel senso più alto del termine, mol­to meglio di quanto facciano i termini aritmetica, geometria, musica ed astronomia 3•

Si dovrebbe notare che l'unità dei quattro µcx9~µcx'tcx nell' E­pinomide viene postulata, piuttosto che dimostrata. Ma le cose non si sono fermate a questo punto. Lo attestano Tolomeo e, soprattuto, Nicomaco.

L'aritmetica e la geometria sono sorelle; l'astronomia e la

3 Cfr. W. Jaeger, Paideia, voi. Ili (1944), pp. 257 ss., a proposito dello stu­dio della matematica in Platone.

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musica sono i loro figli adottivi. Questo è quanto leggiamo in Tolomeo (Harmonica, III 3, p. 94, 15-20 Dilring), e questa dot­trina potrebbe benissimo risalire ad Archita (cfr. fr. B 1 Diels). Ma in Nicomaco troviamo qualcosa di più; troviamo un princi­pio della quadripartizione della scienza matematica. La mate­matica concerne la quantità; la quantità o è discontinua, 1tT}ÀL· xov, o è continua, 1toa6v. Il 1tT}À(xov o è per sè o è in relazione ad un altro . L'aritmetica riguarda il primo, l'armonia il secondo. Il 1toa6v o è immobile o è in movimento. La geometria riguarda il primo; l'astronomia il secondo (lntroductio arithmeticae, cap. 1-111, p. 1-9 Hoche). In questa forma, la quadripartizione della matematica non è più un fatto empirico, ma è fondata su un principio. Ed in questa forma la quadripartizione è accettata da Giamblico (talvolta) e da Proclo. È chiaro che cosa questo signi­fichi per l'idea del quadrivium; le quattro branche della cono­scenza formano ora un blocco omogeneo, distinto dalle altre branche.

L' Epinomide ha distinto i quattro µcx0~µcx-.cx. Allo stesso tempo, li ha posti al vertice (o quasi al vertice) delle scienze. Possiamo sempre aspettarci di trovare il quadrivium, raggrup­pato in un unico blocco, in questa posizione di vertice.

Ma abbiamo visto che c'era ancora un'altra possibilità di trovare un posto per i µcx0~µcx-.cx. Il raggruppamento poteva es­sere accettato, ma era possibile comprendere con i µcx0~µcx-.cx le discipline comuni. In un tal caso, verrebbe conservato il numero di quattro discipline, ma il posto ad esse assegnato sarebbe la parte inferiore (o vicino alla parte inferiore), piuttosto che la parte superiore della scala della conoscenza.

C'era ancora un'altra possibilità. Essa è emersa all'interno del contesto dell'interpretazione del Timeo. Abbiamo visto che Posidonio ha associato i due caratteri del Platonismo. Egli ha accettato la tripartizione dell'essere in intelligibili, enti matema­tici, oggetti sensibili; ed ha identificato gli enti matematici con l'anima. Ma la scienza matematica di cui parla Posidonio è co­stituita solo di tre branche: aritmetica, geometria, armonia. È questa tripartizione degli enti matematici che veniva identificata da Posidonio con l'anima, e Giamblico (talvolta) lo ha seguito.

Le cose stanno diversamente per quanto concerne Proclo (cfr. sopra, p. 84). È la matematica quadripartita che egli ha identificato con l'anima. Questo significa che il quadrivium ora veniva connesso con la tripartizione dell'essere ed era propria-

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mente considerato come la branca intermedia della filosofia. Il quadrivium non costituisce più semplicemente la filosofia, come accadeva nell'Epinomide, ma è una parte della filosofia, al di sotto della teologia (metafisica), ed al di sopra della fisica. Ab­biamo visto come il rifiuto dell'interpretazione realistica degli enti matematici interessi direttamente il posto che i µoc8~µ0t't0t hanno all'interno della filosofia.

Abbiamo citato Proclo come colui che ha identificato i µoc9~µoc'toc quadripartiti con l'anima. È interessante confronta­re, sotto questo aspetto, Proclo con Siriano 4• Menzionando gli enti matematici come intermedi, Siriano afferma incidentalmen­te che questi enti matematici intermedi sono quelli «che si sup­pone che siano racchiusi nell'anima. I loro principi, di tipo geo­metrico, aritmetico ed armonico, sono stati impressi nell'anima dal voui; demiurgico, come sappiamo dalla psicogonia del Ti­meo» (In Metaphysiea eommentaria, 995 b 6-18, p. 4,3 Kroll). Qui, ancora una volta, abbiamo l'interpretazione «posidonia­na». E c'è un altro passo che dimostra chiaramente quanto latri­partizione della scienza matematica fosse fermamente radicata nella mente di Siriano. È un passo che, come ha osservato Festa, consiste in una citazione tratta da /se., con solo poche parole ag­giunte da Siriano. Domanda Giamblico: Quali sono i principi specifici delle singole branche della matematica? E, per spiegare il termine «branche», Siriano aggiunge: ad esempio, numeri, fi­gure, armonie (In Met., 1078 b 7, p. 101, 33 Kroll; cfr. /se., Ta­vola dei contenuti, p. 3, 15 Festa). Pertanto, nonostante che in Giamblico siano presenti sia la tripartizione che la quadriparti­zione, per Siriano è più naturale ammettere una tripartizione.

Ora, possediamo quelli che potrebbero essere definiti gli elementi fondamentali del problema del quadrivium. Questo problema ha tre aspetti principali.

1) Qual è il principio che distingue e unisce i quattro µoc8~­µ0t't0t? Nel momento in cui questo principio venga dimenticato, diviene facile sostituire uno degli originari µoc8~µ0t't0t con un'al­tra disciplina, oppure, il che avviene più di frequente, conserva­re il nome di un µ(i871µoc, ma riempirlo di un contenuto diverso. Un esempio tipico: in Marziano Capella la geometria include la

4 Sul suo realismo matematico (antiastrazionismo), cfr. K. Praechter, Syria­nos, in: Pauly-Wissowa, Realencyclopiidie, IV A 2 (1932), pp. 1751; 1770; 1774.

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L'ORIGINE DEL «QUADRIVIUM» 157

geografia. Questo è possibile solo quando la definizione della geometria come una disciplina che concerne la quantità conti­nua viene dimenticata. È chiaro che, in questo caso, rimanere radicati al numero quattro significa fraintendere la tradizione.

2) Qual è il preciso significato di µa9~µ.a:ta? Le due possibi­lità sono a) considerare i µa9~µ.ot'tot come discipline elementari (o almeno non rigorosamente speculative); b) considerarli come discipline «filosofiche», o come equivalenti alla filosofia, o co­me una parte della filosofia.

3) A ciò è strettamente connessa la seguente domanda: do­v'è, all'interno del curriculum, il posto appropriato per i µa9~­µot'tot? È chiaro che se i µa9~µ.ot'tot vengono considerati come di­scipline elementari, dovrebbero essere collocati nella parte infe­riore della scala del sapere. Se, invece, vengono trovati in una posizione più elevata, questo loro essere collocati così in alto ri­sulterà difficilmente comprensibile da parte di chi non sa che es­si possono significare qualcosa di più che una forma elementare di conoscenza. Se essi vengono considerati come discipline filo­sofiche, restano solo due possibilità. Si può accettare il punto di vista «pitagorico» ed ammettere solo due branche della cono­scenza teoretica: i µa9~µ.ot'tot = filosofia, e la fisica. Si può ac­cettare il realismo trialistico di Platone e collocare i µa9~µ.ot'tot fra la teologia (metafisica) e la fisica. Se non si accetta neppure questo, si è costretti a cercare di trovare i µa9~µ.cx'tot al vertice della conoscenza teoretica, o fra la teologia e la fisica. Si è tenta­ti di collocarli al di sotto della fisica, piuttosto che al di sopra.

Abbiamo qui un principio che ci permette di interpretare le differenze essenziali fra le varie teorie che concernono il quadri­vium, il suo contenuto, ed il suo posto all'interno del curricu­lum. Pertanto, la storia del quadrivium può essere presentata come qualcosa di più che una enumerazione empirica di opinio­ni. Ma, cambiando gli elementi, possiamo dedurre quasi a priori tutti i possibili punti di vista.

Seguiamo alcuni esempi. Come abbiamo visto, Ammonio ha accettato la tripartizio­

ne della filosofia, ma, per quanto concerne gli enti matematici, è stato un anti-astrazionista (In Porphyrii Isagogen, p. 11, 30-31; cfr. 12,6 Busse). D'altro lato, egli ha accettato la quadripartizio­ne della matematica insieme con il principio posto da Nicomaco (ibi., p. 14, 1-26 Busse). Egli non era affatto consapevole del

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fatto che la matematica quadripartita di Nicomaco rivendicas­se per sé il posto proprio della filosofia.

Particolarmente istruttivo ed importante è ancora un vol­ta Boezio. Partiamo dal passo in cui viene introdotto per la prima volta nella storia il termine quadrivium. Ci sono quattro branche di µa8~µa'ta che formano il quadrivium; il principio di questa quadripartizione è presentato in conformità con Giamblico ed Ammonio (De institutione arithmetica, p. 5, 6; 7, 25; 9, 28; 8, 15-9, 6 Friedlein). Dal momento che egli defini­sce quadrivium i µa8~µa'ta, dovremmo attenderci che essi con­ducano ad un qualche fine al di là di se stessi; ma scopriamo che Boezio descrive la filosofia in termini che la farebbero quasi coincidere con i µa8~µa'ta. Secondo questa descrizione la filosofia concerne:

quae vere proprieque (8, 13) o vere (9, 9) sunt ... [viz.] qualitates, quantitates, f ormae, magnitudines, parvitates, ae­qualitates, habitudines, actus, dispositiones, tempora (8, 5-7), e più brevemente e precisamente:

formae, magnitudines, qua/itates, habitudines ... quae per se speculata immobilia sunt (p. 227, 25-228, 1 Friedlein).

La somiglianza con la Introductio di Nicomaco, cap. I, p. 2, 21-3, 2 Hoche, è evidente; ma Boezio non è consapevole del fatto che Nicomaco in questo passo sta pensando in termini di un dualismo ontico (enti matematici - enti non matematici, si veda il cap. II, p. 4, 10 Hoche); e nessuno di essi è consapevo­le che è impossibile descrivere l'oggetto della filosofia come immobile, ed ammettere, contemporaneamente, l'astronomia come una branca della scienza matematica. È istruttivo con­frontare il passo di Boezio-Nicomaco con il cap. XXVII di /se., p. 87, 17-88, 2 F. In questo passo Giamblico critica i Neopitagorici per aver identificato la realtà immobile con la realtà matematica, facendo in questo modo della matematica la scienza suprema, ed escludendo la filosofia. È interessante osservare che Giamblico (o la sua fonte) si credeva un pitago­rico ortodosso, éii vecchio stampo, per il quale la matematica e la filosofia sono due diverse branche del sapere.

Cassiodoro ha ripreso la quadripartizione della scienza matematica; la successione in cui le discipline matematiche vengono trattate (aritmetica, musica; geometria, astronomia) è il tipo «corretto» di successione, ossia è la successione fondata

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L'ORIGINE DEL «QUADRIVIUM» 159

sul principio sopra menzionato (lnstitutiones, p.93, 7-10; 92, 3-5, 9; 130, 19-131, 8 Mynors).

Non era nostra intenzione esaminare tutti i passi che con­cernono il programma di educazione o il carattere ed il posto del quadrivium 5• Ma, con l'aiuto del profilo sopra stabilito, è mol­to facile valutare i diversi curricu/a. Vediamo ciò che è stato scelto empiricamente e ciò che è fondato su un principio. Vedia­mo che, dal momento che il quadrivium è stato fondato su un principio, esso doveva emergere come un'unità autonoma, che rivendicava un posto definito all'interno della gerarchia della conoscenza. Vediamo come questo posto sia stato accordato o negato al quadrivium e come si sia oscuramente avvertito che erano possibili differenti interpretazioni del significato del qua­drivium.

Vediamo anche quanto siano ambigui i termini aritmetica, geometria, ecc., a seconda se essi designano la «filosofia» dei numeri aritmetici, ecc., o quella che viene definita aritmetica, ecc., nel senso comune del termine.

Dobbiamo ammettere, tuttavia, che, per quanto la diff e­renza fra aritmetica, geometria, e astronomia come branche ele­mentari del sapere e le stesse tre scienze come scienze «filosofi­che» (speculative) possa in realtà essere grande, il passaggio del­le une alle altre è ancora piuttosto facile. Tuttavia, le cose non stanno così per quanto concerne la quarta branca del quadri­vium, la musica. La musica come esecuzione, la musica come un

' La letteratura sul quadrivium è molto ampia. Il suo principale lato debole consiste nel trattare questo tema come un argomento dossografico. Oltre a quelli già menzionati, mi limito ad alcuni contributi, con l'ausilio dei quali si possono fa­cilmente trovare altri riferimenti. Che la letteratura musicologica sia relativamente ampia è del tutto naturale: si veda sotto, pp. 160 ss. M. Guggenheim, Die Ste/lung der liberalen Kunste oder encyck/ischen Wissenschaften im Altertum (1893); C. G. [K. W .] Schmidt, Quaestiones de musicae scriptoribus Romanis imprimis de Cas­siodoro et Isidoro (1899), spec. pp. 2 ss.; 122-125 (fondamentale); P. Abelson, The Seven Liberal Arts (1906); K. Praechter, Beziehungen zur Antike in Theodoros Prodromos' Rede auf Isaak Komnenos, «Byzantinische Zeitscrift», 19 (1910), pp. 314-329, spec. 322-325; E. Norden, Antike Kunstprosa, voi. II (1898), pp. 670 ss. e Nachtriige, pp. 8 ss. (ed. 1923); H. v. Schubert, Bildung und Erziehung infruhchri­stlicher Zeit ... , AA. VV., Festgabe ... E. Gothein (1925), pp. 72-105, spec. 82-84; O. Schissel von Fleschenberg, Marinos von Neapolis und die neuplatonischen Tu­gendgrade (1928), spec. n. 169; H. I. Marrou, Saint Augustin et la/in de la culture antique (1958 2), spec. pp. 197-210 e 211-235 (cfr. H. I. Marrou, A History of edu­cation in Antiquity [1956), p. 406, n. 2); L. Schrade, Music in the Philosophy of Boethius, «Musical Quarterly», 33 (1947), pp. 188-200.

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prodotto della composizione, la musica come godimento esteti­co, la musica come fattore che forma il carattere dell'uomo, non ha niente a che fare con la musica come filosofia dei suoni acu­stici. È pertanto del tutto naturale che i musicologi siano dive­nuti profondamente consapevoli della discrepanza fra la musica come una branca del quadrivium e la musica nel senso comune del termine. Il caso della musica è reso ancora più complesso dal fatto che c'è stata una grande quantità di teorie e di discussioni connesse con la musica nel senso comune del termine. Nè le teo­rie che affermano o negano gli effetti etici (o medici) della musi­ca 6, né la composizione o la esecuzione della musica hanno niente a che fare con la musica come parte del quadrivium.

È stato soprattutto H. Abert che si è accorto delle difficoltà che sorgono quando si considera la musica come una parte del quadrivium (Die Musikanschauung des Mittelalters [1905), spec. pp. 14-16; 29-43). Egli ha combinato la sua critica con la sua avversione per il Medioevo. In seguito, pertanto, musicologi di mentalità più storica, come G. Pietzsch (Die Musik im Erzie­hungs- und Bildungsideal des ausgehenden Altertums und fru­hen Mittelalters [1932)), o L. Schrade (Die Stellung der Musik in der Philosophie des Boethius, «Archiv fiir Geschichte der Philo­sophie», 41 [1932), pp. 368-400) hanno sentito il dovere di di­fendere il Medioevo. Ma essi hanno limitato in modo eccessivo la base di tutta la loro discussione, non prestando nessun tipo di attenzione al problema del quadrivium, e soffermandosi sola­mente sulla musica.

Il fatto è che l'intera idea del quadrivium, ed in particolare il tentativo di trovare per il quadrivium un posto fra la fisica e la teologia (metafisica), ha senso solo all'interno del contesto del realismo di Platone e della sua tripartizione dell'essere 7•

6 Cfr. J. Croissant, Aristate et /es Mystères (1932); P. Boyancé, Le Cu/te des Muses chez /es philosophes Grecs ( 193 7).

7 Cfr. anche H. Klinkenberg, Der Verfa/1 des Quadriviums im friihen Mittel­alter; K. G. Fellerer, Die Musica in den artes libera/es, in: J. Koch (curatore), Artes libera/es(l959), pp. 1-32; 33-49; spec. 27; 40; 47.

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V. Speusippo in Giamblico

l. La presenza di Speusippo nel «De communi mathematica scientia» di Giamblico

Nel capitolo terzo e nell'ultima sezione del capitolo IV di /se., Giamblico si era rifiutato di identificare gli enti matematici con l'anima. Nel capitolo IX, egli insisteva sul fatto che l'anima dovesse essere identificata con tutte e tre le branche della scienza matematica. Mentre il capitolo IX è molto più compatibile con gran parte di /se. ed anche con il Timeo , il capitolo III non è del tutto incoerente con alcune tendenze presenti nel platonismo, così come vengono riferite da Aristotele. Mentre Platone, come Aristotele ripete di continuo, supponeva solo tre oùafocL (gli oggetti sensibili, gli enti matematici e le Idee), alcuni Platonici ne avevano ammesse in numero maggiore. Uno di questi è Speu­sippo, che, secondo Aristotele (Metafisica, Z 2, 1028 b 21-24; N 3, 1090 b 13-19; fr. 33 a; 50 Lang), non solo distingueva i nume­ri dalle grandezze, ma riteneva anche che l'anima fosse una oùafoc separata. Sembra che quest'ultima posizione sia precisa­mente quella assunta dalla fonte del capitolo III di /se. («è meglio porre l'anima in un altro genere di oùafoc ed ammettere, invece, che i principi matematici e l'oùa(oc matematica non siano dotati di movimento»; p. 13, 12-15 F). È possibile che questo capitolo sia influenzato in ultima istanza dalla controversia fra Aristotele e Speusippo? È possibile, inoltre, che ci siano altre tracce di Speusippo in /se., in aggiunta a quella che era in prati­ca una citazione di Speusippo contenuta nel capitolo IX ( « ... Idea del generalmente-esteso»)? Per risolvere questo problema, analizziamo il sistema di Speusippo, così come viene criticato da Aristotele.

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2. La critica di Aristotele al sistema di Speusippo

In Metafisica, N 4 e 5, 1091 a 29-1092 a 21, Aristotele esa­mina le diverse difficoltà che derivano dalla dottrina dei due principi opposti, in particolar modo quando a) questi due prin­cipi opposti sono nello stesso tempo principi del bene e del male, e quando b) sono questi due principi a «generare» i numeri.

I. Alcune di queste difficoltà sono: 1. Tutti gli esseri (eccetto l'Uno) parteciperebbero del male,

in quanto ogni essere è un prodotto dei due principi (uno e mol­teplice, o inuguale, o grande-e-piccolo) - e i numeri ne parteci­perebbero in misura maggiore delle grandezze.

2. Il male (il principio materiale) sarebbe la x,wp(X del bene e quindi parteciperebbe del bene; in questo modo, esso desidere­rebbe [ovviamente] la propria distruzione, o potrebbe essere chiamato il bene in potenza (si veda sotto, p. 183).

3. Se l'Uno è bene e genera i numeri, il risultato sarebbe una grande abbondanza di beni [evidentemente perché ogni numero sarebbe un bene].

II. Alcuni hanno cercato di evitare queste difficoltà. Essi hanno negato che l'Uno sia bene: pertanto, per essi non c'era nessun motivo di designare il molteplice come male. Di consen­guenza, ciò che viene definito come bene e bello (e l'ottimo) non sarebbe presente nel principio [o proprio sin dall'inizio, o origi­nariamente]. Il bene sarebbe nato in un momento successivo; esso sarebbe apparso solo quando la natura delle cose era in sta­to di avanzato sviluppo. Ed Aristotele aggiunge che questi uomini ricordano gli antichi narratori di favole sugli dei. Questi, allo stesso modo, erano soliti iniziare le loro cosmologie con il caos ed introdurre l'ordine solo in seguito.

Ora, sembra che i rappresentanti di questa dottrina, secon­do la quale i principi - l'Uno ed il molteplice - non sono né buoni, né belli, né cattivi (di guisa che il bene ed il bello nascono in seguito), hanno ritenuto di dover difendere la loro opinione. Essi lo hanno fatto mediante una similitudine (dx(i~u\l, un popolare gioco di società, cfr. L. Radermacher, Weinen und Lachen [1947), p. 42 con la nota 4; cfr. Platone, Menone, 80 C, e Senofonte, Simposio, VI 8 - VII 1; un gioco che viene svolto anche ai nostri giorni). Le piante e gli animali derivano dai semi,

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ciò che è più perfetto deriva da ciò che è più indeterminato ed imperfetto. Questo è ciò che sempre avviene; pertanto, le cose stanno così anche per quanto concerne i «principi primi». Quin­di, - e non è del tutto chiaro se Aristotele sta ancora facendo un resoconto, o se si tratta di una sua personale interpretazione - l'Uno «non sarà neppure un determinato essere», (.LTJÒ& ov 'tL

(fr. 35, a, b, d, e; fr. 34 a, e, f Lang). Si è generalmente d'accordo sul fatto che l'«evoluzioni~,,

le cui opinioni sono state esposte al punto Il, sia Speusippo 1•

Solo le ultimissime parole potrebbero essere di Aristotele piutto­sto che di Speusippo.

La critica di Aristotele (fondata sul presupposto che, in qualche modo, la gallina preceda l'uovo) è ben nota.

Altre due critiche sono importanti nel presente contesto. Una, che viene generalmente riconosciuta come diretta a Speu­sippo, è che quest'ultimo ha diviso l'essere; le singole sfere del­l'essere (numeri, grandezze, anima) diventano indipendenti le une dalle altre (fr. 50 Lang). Secondo alcuni, dice Aristotele, le grandezze derivano dall'unione dei numeri con la uÀT}; ad esem­pio, potremmo immaginare che le linee derivino da una combi­nazione del numero due con la materia, e così via (Metafisica, N 3, 1090 b 21-24). Ma, secondo altri, le grandezze sono del tutto indipendenti dai numeri. Ciò che Aristotele sembra voler dire, dunque, è che colui che ha «diviso» l'essere ha posto per ogni nuova sfera dell'essere una coppia particolare di principi (uno formale, che corrisponde all'Uno originario, ed uno materiale, che corrisponde alla molteplicità originaria); mentre altri, secondo Aristotele, hanno usato come principio formale le sin­gole entità appartenenti alla sfera superiore dell'essere (ad esem­pio, i singoli numeri) per costituire le entità appartenenti alla sfera dell'essere immediatamente inferiore (ad esempio, le gran­dezze). Pertanto, essi hanno stabilito, mentre i primi non l'han­no fatto, una connessione fra le diverse sfere dell'essere. È pos­sibile che altri ancora abbiano usato l'intera sfera superiore

1 Non c'è nessuna ragione particolare per dubitare che il principio che Speu­sippo opponeva all'Uno non fosse secondo lui il male. Ciò viene affermato da Ari­stotele implicitamente in Metafisica, N 4, 1091 b 34-35 ed esplicitamente in Metafi­sica, A 10, 1075 a 37.

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come principio formale per quella inferiore (Metafisica, A 6, 988 a 7-14). Il punto di vista «disgiuntivo» viene criticato da Aristotele come una poliarchia (1t0Àux0Lpcxv(1J; fr. 33 e Lang).

L'altra critica sostiene che è assurdo (a'to1tov) «far nascere» (1toLE.!v) il luogo ('t61toi;) contemporaneamente ai solidi matema­tici (o, per imitare il gioco di parole di Aristotele, è fuori luogo far nascere il luogo). Infatti, il luogo è peculiare di ciascuna sin­gola cosa [ossia, delle cose sensibili, in quanto il presupposto è evidentemente che gli enti matematici sono universali], mentre gli enti matematici non hanno un «luogo» [ossia non sono nello spazio]; fr. 52 Lang. Tuttavia, non è del tutto certo che questa critica si riferisca a Speusippo (cfr. sotto, p. 179). Se supponia­mo per il momento che questa critica si riferisca a Speusippo, allora ciò che egli avrebbe detto sarebbe che le grandezze geome­triche hanno un luogo ('t61toç); evidentemente come loro princi­pio materiale.

3. Confronto dell'esposizione di Aristotele con il capitolo IV del «De communi mathematica scientia» di Giamblico

Confrontiamo il contenuto del cap. IV di /se. con questa presentazione di Speusippo da parte di Aristotele, omettendo ciò che è chiaramente una specie di introduzione (p. 14, 18-15, 5 F) ed un sommario (p. 18, 13-23 F).

1. I numeri matematici hanno due principi: l'Uno, che non dovrebbe neppure essere definito qualcosa che è (01tE.p ... où8È ov 1tw 8&! xcxÀ&!v; p. 15, 7-8 F), ed il principio della molteplicità [ ossia la molteplicità come principio], causa della divisione (8LcxLpE.crLç) e simile ad una materia umida e ben plasmabile. Da questi due principi nasce il primo genere [la prima sfera dell'es­sere], ossia i numeri. Il principio materiale è causa di divisione [del loro essere divisi], di grandezza [del loro essere una gran­dezza] e di moltiplicazione [della loro moltiplicazione, ossia del fatto che i numeri si sviluppano in infinitum; cfr. p. 16, 17 F]; l'altro principio che è indifferenziato ed indivisibile (cx8La:rpopov xotl ii'tµT}'tov) è causa del fatto che ciascuno di essi abbia una cer­ta qualità, e sia definito e uno.

2. Non dovremmo supporre che il principio materiale (pri-

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mo ricettacolo, prima grandezza) sia male o brutto, anche se esso è causa di grandezza, di divisione e di moltiplicazione. Non dovremmo supporlo per i motivi che seguono:

a. Talvolta il grande (magnum), quando si trovi congiunto con una certa qualità, è causa di ciò che è grandioso e liberale (che sono ovviamente dei beni, così che è dimostrato che una cosa che sia neutrale o buona può diventare buona o migliore per l'aggiunta di una grandezza; per una spiegazione, si veda sotto).

b. Coloro che ammettono che l'Uno è la causa delle cose belle nella sfera dei numeri, e pertanto di qualcosa di lodevole, non dovrebbero affermare che il principio materiale sia male o brutto, in quanto questo principio materiale è [ovviamente] «suscettibile di accogliere» l'Uno [e ciò che è suscettibile di accogliere qualcosa di lodevole non dovrebbe essere definito cattivo o brutto].

3. L'Uno non è né bello né bene; è al di sopra (ùm.p&vw) del bello e del bene; è solo quando la natura ha compiuto un certo processo di allontanamento dai principi che si manifesta il bello, ed in seguito anche il bene.

4. Deve esistere più di una sola materia e di un solo ricetta­colo, altrimenti tutto sarebbe numero. Proprio come c'è una monade (che corrisponde all'Uno) per i numeri, così c'è un pun­to per le linee. Questo punto è ovviamente uno dei due principi delle grandezze geometriche. L'altro è la posizione, la distanza e il luogo che sono il principio materiale delle grandezze geome­triche.

È questo principio materiale che rende le grandezze geome­triche più continue, più solide e più compatte di quanto lo siano i numeri.

Il testo di questa sezione è difficile. Significa che siamo posti di fronte ad un mutamento di termini: il principio dei numeri non è l'Uno, ma è una monade? Dobbiamo supporre che il principio delle grandezze geometriche sia il punto, che vie­ne definito come una monade avente posizione? Dobbiamo sup­porre che dall'unione del punto con la posizione si generi la linea; dalla unione di una linea con la distanza si generi la super­ficie; dall'unione di una superficie con un focus si generi la gran­dezza stereometrica? Questa sembrerebbe la spiegazione più semplice, sebbene si debba ammettere che il testo non è del tutto

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chiaro. Non c'è dubbio, tuttavia, che il risultato effettivo è una dottrina secondo la quale le grandezze geometriche hanno il loro proprio ricettacolo, differente dal ricettacolo dei numeri; ed uno dei termini che viene riferito a questo «nuovo» ricettacolo è -r61toç.

5. Gli elementi dai quali derivano i numeri non sono né belli né buoni. Dalla sintesi dell'Uno con la uÀT] come causa di molte­plicità derivano i numeri. Ed è solo in questi che si rivelano l'es­sere ed il bello. In seguito, a partire dagli elementi delle linee [ossia, dagli elementi, il primo prodotto dei quali sono le linee], appare la sfera geometrica, nella quale si trovano ugualmente essere e bello, mentre in essi non vi è nulla di turpe o di cattivo.

Il male si verifica solo nella quarta e quinta sfera dell'essere che nascono a partire dagli elementi estremi, ossia da X4 + Y 4 e da X5 + Y5, mentre i numeri sono composti da Xl + Yl, le grandezze geometriche da X2 + Y2, e un'entità senza nome da X3 + Y3, dove X e Y sono i «corrispettivi analogici», rispetti­vamente, dell'Uno e della molteplicità. Il male compare non come un risultato di un'azione diretta o di una intenzione (où 1tpo7]youµlvwç), ma come il risultato di una sorta di fallimento e di incapacità a «padroneggiare» alcuni elementi propri della realtà naturale.

4. Il capitolo IV del «De communi mathematica scientia» espo­ne idee proprie di Speusippo

Questo è il contenuto della sezione cruciale del III capitolo di /se. Non possono esserci più dubbi sul fatto che queste idee siano di Speusippo. Egli è stato il solo filosofo che ha negato che i principi supremi siano buoni o cattivi; egli è stato il solo filoso­fo che ha affermato che il bene ed il bello si manifestano solo in seguito; egli è stato il solo filosofo che ha posto per ogni sfera dell'essere una coppia particolare di principi. La domanda che sorge è la seguente: qual è la fonte di Giamblico?

Alcuni sosterranno che Giamblico (o la sua fonte) ha sem­plicemente selezionato dalla Metafisica di Aristotele alcune informazioni riguardanti Speusippo e le ha ordinate in un tutto coerente. Altri sosterranno che alcune dottrine sono chiaramen­te di carattere plotiniano. La seguente analisi del contenuto di /se. intende confutare entrambi questi argomenti.

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Prima di tutto, rispetto alla elusiva ed ambigua esposizione di Aristotele, /se. afferma chiaramente ed univocamente che l'Uno è non-essere, e che esso è tale nel senso che è al di sopra dell'essere. In secondo luogo, in contrasto con quanto Aristote­le sembra voler dire, /se. rende impossibile considerare la rela­zione fra l'Uno ed il bene nel senso di una evoluzione dal peggio al meglio, o dal meno al più. Sebbene, in un certo senso, possa trattarsi di una evoluzione, è una evoluzione sui generis, ossia non è un miglioramento a senso unico (né è un deterioramento a senso unico, come spiegheremo più avanti). La somiglianza fra Aristotele e /se. è sufficientemente grande per affermare che /se. sta presentando le opinioni di Speusippo; e la differenza fra /se. ed Aristotele è sufficientemente grande per affermare che /se. non deriva da Aristotele.

Ora, alcuni diranno che la differenza fra Aristotele ed /se. deve essere spiegata alla luce del Plotinismo (usiamo questo ter­mine piuttosto che quello troppo comprensivo di Neoplatoni­smo) di Giamblico. Essi insisteranno sul fatto che la comparsa in /se. della dottrina dell'Uno come al di sopra dell'essere dimo­stra che Giamblico stava distorcendo le dottrine di Speusippo, che gli erano note da Aristotele, per farle apparire vicine a Plotino.

La risposta è che l'Uno, così come è presente in /se., è difatti simile sotto certi aspetti all'Uno di Plotino, ma, sotto altri, se ne distingue in modo radicale. La differenza più eviden­te è che l'Uno di Plotino è identico con il bene, mentre l'Uno di /se. non lo è. Inoltre, è rigorosamente non-Plotiniano supporre che prima si manifesti il bello e poi il bene. In Plotino non c'è nessun dubbio per quanto concerne la priorità del bene sul bel­lo. Pertanto, la differenza fra /se. ed Aristotele non può essere spiegata mediante l'influenza di Plotino.

Se la differenza fra Aristotele e /se. non può essere spiegata alla luce del Neoplatonismo di Plotino, essa può ancor meno essere spiegata in base al sistema proprio di Giamblico. Secondo Damascio, Giamblico ammetteva come principio supremo «il totalmente ineffabile», che era seguito da «l'Uno assoluto», che a sua volta era seguito dai due principi, che potremmo chiamare il limite e l'illimite o anche Uno e molti, essendo chiaramente sottinteso che l'Uno assoluto non ha nessun opposto, mentre quest'ultimo Uno è uno dei due opposti (Dubitationes et solu-

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tiones de primis principiis, ed. C.E. Ruelle, 2 voll. [1889], pp. 50-51; vol. I, p. 101, 14-15; 103, 6-10). E non esiste neppure nes­suna somiglianza fra il cap. IV di /se. e la dottrina di Giamblico contenuta nel De mysteriis, cap. VIII 2, p. 262 Parthey (cfr. K. Praechter, art. Syrianos (1) in RE, IV A 2 [1932], p. 1739). Dove Giamblico parla a proprio nome, egli è un rigoroso monista, molto più di quanto lo sia Plotino. Quando moltiplica i principi è proprio per fare iniziare il dualismo il più tardi possibile e per mantenere il monismo il più a lungo possibile. Tutto questo con­traddice il dualismo di /se. (si veda ad esempio il cap. III, p. 12, 25-13, 9 F).

Siamo così abituati a considerare Plotino come il solo crea­tore della teoria secondo la quale il principio supremo è al di là dell'essere, e a considerare il Parmenide ed un unico passo della Repubblica, VI 509 B (cfr. F. M. Cornford, Plato and Parmeni­des [1939], pp. 131-134), come le sole possibili anticipazioni di questa teoria da parte di Platone, che vale la pena far notare che il passo dal Sofista a questa dottrina è, in realtà, molto breve.

5. Il concetto di essere indeterminato nel «Sofista» di Platone

Nel Sofista, Platone ha sostituito la nozione di non-essere con quella di alterità. Questo significa che tutto ciò che non è, è un non-essere determinato; nella sua determinatezza, ossia nel suo non essere né questo né quello, ecc., consiste il suo non-esse­re. Ora, alla alterità (non-essere determinato) Platone oppone l'identità, alla quale, tuttavia, egli non presta molta attenzione - così come non presta troppa attenzione alle difficoltà inerenti al concetto di essere. Ma la simmetria esige che, se alterità signi­fica non-essere determinato, la identità deve significare essere determinato. Questo termine «essere determinato» in realtà esprimerebbe molto bene l'idea di Platone, secondo la quale tut­to ciò che è, è permeato di non-essere, così come il termine «non essere determinato» esprime il fatto che tutto ciò che non è, è realmente solo alterità, ossia che tutto ciò che non è, è permeato di essere.

Ora, se identità significa essere determinato, l'essere, che viene introdotto da Platone come uno dei generi supremi, non può essere nient'altro che un essere indeterminato. Ma proprio

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con l'essere indeterminato esso raggiunge il suo status di essere al di sopra di ogni essere determinato: è l'essere che è ancora non-permeato di non-essere. Questo sarebbe esattamente l'Uno di Plotino. Che lo chiamiamo essere indeterminato o che lo chiamiamo al di sopra dell'essere, non fa nessuna differenza.

Nello stesso tempo, possiamo anche osservare che ciò che abbiamo ricostruito come una dottrina di Speusippo potrebbe facilmente derivare da uno sviluppo del Sofista. Proprio come c'è un essere indeterminato al di sopra dell'essere determinato (identità), così c'è un non-essere indeterminato al di sopra del non-essere determinato (alterità). È dalla interazione tra l'essere determinato e il non-essere determinato che derivano l'essere determinato e il non-essere determinato. L'essere indeterminato e il non-essere indeterminato sono, sotto ogni aspetto, indiffe­renziati. Su questo punto diremo di più in seguito (sotto, p. 197).

Non intendiamo affermare che Speusippo abbia sviluppato il suo sistema partendo da una tale interpretazione del Sofista. Intendiamo solo dire che, da un punto di vista sistematico, pre­scindendo da ogni problema storico, la dottrina di un principio al di sopra dell'essere è vicina a Platone.

La conclusione, pertanto, è la seguente: le tracce di Speu­sippo che possono essere trovate nei capitoli III e IX di /se. non sono ingannevoli. Il capitolo IV di /se. è una fonte per conosce­re Speusippo indipendente da Aristotele e non influenzata dalle dottrine di Plotino o di Giamblico.

6. Il capitolo IV del «De communi mathematica scientia» è una fonte per conoscere Speusippo indipendente da Aristotele e non influenzata da dottrine di Platone o di Giamblico

Non dovremmo stupirci di scoprire la presenza di Speusip­po in /se. Nell'opera Theologoumena arithmeticae (sulla auten­ticità del suo contenuto non abbiamo motivo di dubitare; si veda Zeller, 111/2 [1925], p. 739, n. 1, e H. Oppermann a propo­sito dell'edizione dei Theologoumena di De Falco, «Gnomon», 5 [1929], pp. 545-558, spec. 558), pp. 61-63 (p. 82, 10-85, 23 De Falco; fr. 4 Lang) troviamo una lunga citazione tratta dal libro di Speusippo sui Numeri pitagorici. Giamblico è il solo autore

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che ci ha conservato la definizione dell'anima di Speusippo. Giamblico ha letto il Protrettico di Aristotele. A Giamblico era noto un passo nel quale Aristotele usava per l'anima il termine lvoe.ÀÉXtLOt, (Stobeo, Eclogae, I 49, 32, p. 367, 1 Wachsmuth; cfr. Ph. Merlan a proposito de L'Aristotele perduto e la forma­zione filosofia di Epicuro del Bignone, «Gnomon» 17 [1941), pp. 32-41). Secondo Simplico (In Aristotelis categorias, cap. X, p. 407, 20 Kalbfleisch; Aristotelis fragmento, ed V. Rose, p. 109, 20-22) Giamblico conosceva il 7ttpt lv0tv't(wv ( &v'tLXtLµÉvwv) di Aristotele. Egli aveva anche letto un sofista del quinto secolo (il cosiddetto Anonimo di Giamblico). Giamblico deve aver avu­to a disposizone una ricca biblioteca (ad Apamea?, si veda, ad esempio, F. Cumont, Lux perpetua [1949), p. 372), una biblio­teca che conteneva almeno un'opera di Speusippo. Pertanto, non c'è niente di particolarmente audace nel supporre che /se. contenga delle idee che risalgono a Speusippo. Potrebbe anche darsi che lo stesso titolo ed il tema di /se. (7ttpt ti'jç xmvfjç µ0t6TJ­µ0t'tLxfjç lma'tT)µT}ç), ossia l'indagine sui principi comuni a tutte le branche della matematica, sia di ispirazione speusippiana; cfr. F. Solmsen, Die Entwicklung der aristotelischen Logik und Rhetorik (1929), pp. 251 ss.; p. 252, n. 3. Diogene Laerzio, IV 2, cita Diodoro (su Diodoro si veda [E.] Schwartz, art. Apo­mnemoneumata, in RE, 11/1 [1895]), come colui che ha descrit­to nella sua opera 'A1toµv7Jµove.uµ0t't0t il metodo di Speusippo come rivolto all'indagine del 'tÒ xowòv lv 'totç µ0t6T)µ0tcn 2• Eque­sto è quanto /se. dichiara di fare: si veda in particolar modo l'in­dice (xe.cpa.À0tL0t), p. 3, 7, 13; p. 4, 1, 9, 12; p. 6, 7; p. 8, 7, 15 F; cfr. cap. XXXV, p. 98, 28-99, 1 F.

7. Confronto dell'esposizione di Speusippo fatta da Aristotele con il capitolo IV del «De communi mathematica scientia»

Partendo, dunque, dal presupposto che il cap. IV di /se. presenti dottrine di Speusippo, intendiamo confrontare detta­gliatamente /se. con Aristotele. Iniziamo con un esame del prin­cipio formale.

2 Non c'è nessuna ragione per supporre che il termine significasse qualcosa di diverso da «branche della matematica» (cfr. F. Solmsen, Die Entwicklung der

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Leggiamo in Aristotele che la teoria di Speusippo si risolve nell'affermazione µ7J8È. ov 'tt e.Ivcxt 'tÒ iv cxÙ'to. È possibile qualche dubbio: si tratta di una deduzione di Aristotele o ancora di un resoconto? I dubbi scompaiono quando leggiamo in /se.: l'iv è où8è ov.

Tuttavia, che cosa significa questo? Où8l può significare «non ancora» nel senso di «inferiore a». Se significa questo, Speusippo ha descritto l'Uno come al di sotto dell'essere. Difat­ti, questa interpretazione è suggerita con forza da Aristotele. Il seme è inferiore alla pianta: l'Uno non è ancora un essere (qual­cosa di esistente). E la stessa cosa resta vera per quanto concerne la relazione fra l'Uno ed il bene o il bello; l'Uno sarebbe inferio­re sia al bene che al bello. Ma, se verifichiamo questa interpreta­zione confrontandola con /se., notiamo immediatamente un disaccordo. Secondo /se., l'Uno è degno di lode per il fatto di essere causa del bello; e viene descritto come al di sopra del bello o del bene. Ciò che sembra chiaramente implicito è che l'Uno è al di sopra (o prima) dell'essere, del bene, del bello (si veda sopra, p. 164).

Dobbiamo pertanto porre due domande. In primo luogo, interpretiamo correttamente Aristotele ritenendo che egli abbia riferito che l'Uno di Speusippo era al di sotto dell'essere ed infe­riore (in un certo senso) rispetto a ciò che si sviluppa a partire da esso, proprio come il seme è inferiore all'organismo maturo? In secondo luogo, se la nostra interpretazione di Aristotele è cor­retta, Aristotele ha presentato correttamente le opinioni di Speusippo? Speusippo ha inteso dire che l'Uno è al di sotto del­l'essere ed inferiore (nel senso che non è possibile chiamarlo bene) rispetto a ciò che si sviluppa a partire da esso?

Alla prima domanda si dovrebbe rispondere in modo nega­tivo. La sola ragione per la quale questo finora non è stato mai osservato è che abbiamo concentrato eccessivamente la nostra attenzione su un solo aspetto della dottrina dell'Uno di Speusip-

aristotelischen Logik und Rhetorik (1929), p. 80, n. 4; p. 252, n.3). Speusippo ha scritto un Mot9T)f.1,0mx6c; (Diogene Laerzio, IV 5), che difficilmente può significare qualcosa di diverso da// Matematico, forse come un equivalente del Politico, del Sofista, e del Filosofo di Platone (il Filosofo è stato solamente progettato da Plato­ne, mentre è stato realmente scritto dallo stesso Speusippo; si veda Diogene Laer­zio, IV 5, e cfr. P. Lang, De Speusippi Academici scriptis. Accedunt fragmento, Bonn 1911 [rist. anast. Olms, Hildesheim 1965], pp. 42 e 48).

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po, così come essa è presente in Aristotele, trascurando quasi del tutto l'altro aspetto di questa dottrina, anch'esso presentato da Aristotele, ossia che il principio materiale non è male. Se non dimentichiamo che Speusippo era un dualista, sarà molto diffi­cile interpretarlo come un evoluzionista nel senso comune del termine. Se, secondo Speusippo, ci sono due semi nell'universo, uno per il bene ed uno per il male, il termine «seme» deve essere considerato in senso metaforico. Le parole di Aristotele µT}8È ov 'tL &fvon 'tÒ lv cxù't6 dovrebbero essere tradotte o: «di guisa che l'Uno in sé non è neppure un determinato essere», oppure: «di guisa che non si dovrebbe neppure dire dell'Uno in sé che esso sia un determinato essere». In entrambi i casi, Aristotele intende dire, in un modo un po' ambiguo, che secondo Speusippo l'Uno non dovrebbe essere designato come essere. E. R. Dodds (The Parmenides of Plato and the Origin of the Neo-Platonic One, «Classica} Quarterly», 22 [1928), pp. 129-142, spec. 140) ha interpretato Aristotele in modo corretto, quando ha affermato che quest'ultimo ha attribuito a Speusippo l'opinione che l'Uno sia u1t&poucrLOv, o in ogni caso òcvoucrLOv 3•

Ma, anche se l'interpretazione tradizionale di Aristotele è corretta, anche se Aristotele ha inteso dire che l'Uno di Speusip­po è al di sotto dell'essere, alla nostra seconda domanda si dovrebbe rispondere in modo negativo. Ovviamente, era nell'in­teresse di Aristotele presentare la dottrina di Speusippo nei ter­mini dei propri concetti di MvcxµLç - lvlpy&L<X, e in questo modo ridurre l'affermazione di Speusippo, secondo la quale l'Uno non deve essere annoverato fra le cose che sono, alla afferma­zione: l'Uno è un essere solo in potenza. Ed era ovviamente nel­l'interesse di Aristotele presentare la similitudine del seme di Speusippo come se essa implicasse l'inferiorità dell'Uno. Sem­bra che Speusippo non abbia ammesso che il seme sia inferiore

3 Cfr. anche C. Sandulescu-Godeni, Das Verhiiltnis von Rationalitiit und /r­rationalitiit in der Phi/osophie Platons (1938), p. 25; G. Nebel, Plotins Kategorien der intelligiblen Welt (1929), pp. 32 ss. Per il punto di vista opposto, si veda, ad esempio, A. H. Armstrong, The Architecture of the Intelligibile Universe in the Philosophy of Plotinus (1940), pp. 18; 22. Ciò che è stato detto sopra dovrebbe es­sere sufficiente per confutare l'interpretazione di Armstrong. D'altra parte, lo stes­so Armstrong dice di Speusippo che egli ha anticipato la teologia negativa (The Ar­chitecture, cit., pp. 18; 21 ss.; 63; cfr. ora la sua Introduction to Ancient Phi/oso­phy [1957 3], p. 67. Cfr. anche H. R. Schwyzer, Plotinos, in: Pauly-Wissowa, Rea/­encyclopiidie, XXI/I (1951), pp. 559 ss.).

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alla pianta; sembra che egli abbia paragonato il loro rapporto con il rapporto che sussiste fra il quattro ed il dieci. La piena perfezione si manifesta solo nel dieci; ma il quattro è inferi ore al dieci? Altrimenti, Speusippo avrebbe protestato contro l'ecces­sivo rilievo dato alla sua similitudine; l'Uno può essere simile al seme, ma deve esserlo sotto ogni aspetto (cfr. W. Jaeger, Aristo­teles (1955 2

], p. 233)? Un'ulteriore testimonianza dimostrerà quanto dovremmo

essere cauti prima di identificare il seme con ciò che è inferi ore. Dopo aver enunciato il principio, secondo il quale la natura non opera mai inutilmente, Teofrasto aggiunge: questo è particolar­mente vero per ciò che concerne ciò che è primo e più importan­te, ed il seme è ciò che è primo e più importante (De causis plan­tarum, I l, voi. II 1 Wimmer). Con l'espressione «primo e più importante», Teofrasto designa i principi ultimi, qui ed anche nella sua Metafisica, I 3, p. 4 Rosse Fobes, dove afferma che alcuni ritengono che il numero sia ciò che è primo e più impor­tante. Chiaramente, Teofrasto fa una distinzione fra ciò che non è sviluppato e ciò che è inferiore (o imperfetto nel senso comune del termine). Mentre il seme rientra, a suo avviso, nel primo caso, non rientra nel secondo. Difatti, l'idea, secondo la quale ciò che non è differenziato e non è disperso è superiore rispetto a ciò che è differenziato e disperso, di guisa che il seme è superiore all'organismo, sembra un'idea piuttosto naturale.

Ripetiamo, pertanto: sia secondo /se., sia secondo quanto Aristotele o ha riferito o avrebbe dovuto riferire, Speusippo affermava dell'Uno che esso non è ancora essere, precisamente nello stesso senso in cui Plotino affermava del suo Uno che esso è oÙÒÈ ov (Enneadi, VI 9, 3, 38 Bréhier 4).

8. Il «bello» nella sfera degli enti matematici e presenza di que­sta dottrina, oltre che in Speusippo, anche in Aristotele e in Proclo

Procediamo ora nel presentare un altro aspetto del princi­pio formale.

/se. esamina la questione se sia necessario ammettere una

4 In seguito: Br.

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pluralità di principi materiali e risponde a questo problema in modo affermativo. Ritorneremo sul problema della pluralità dei principi materiali più tardi; per il momento, si dovrebbe porre in rilievo un altro particolare. Parlando della pluralità dei principi materiali, /se. osserva, in modo piuttosto casuale, che esiste, allo stesso modo, una pluralità di principi formali. Proprio come è necessario porre la monade (che corrisponde all'Uno) per i numeri, mentre è necessario porre il punto (che corrispon­de di nuovo all'Uno) per le linee, così è necessario porre uno specifico ricettacolo per le grandezze geometriche, che corri­sponderebbe al molteplice, o al principio materiale. Questo con­corda con Aristotele: Speusippo ammetteva un certo Uno ante­riore all'Uno presente nei numeri (Metafisica, M 8, 1083 a 24-25; fr. 42 d Lang). E da /se. apprendiamo che, per distin­guerli, Speusippo applicava il termine monade al principio for­male dei numeri, conservando il termine Uno per il supremo principio formale.

Si dovrebbe tuttavia notare che c'è una certa imprecisione, ovviamente intenzionale, nella terminologia di /se. Il principio materiale viene indicato come molteplice o come il principio del­la molteplicità, potendo quest'ultimo termine essere interpreta­to o come un genitivo soggettivo o come un genitivo oggettivo; poi, come primo ricettacolo, o prima grandezza, e di nuovo come materia, che è la ragione della molteplicità. Pertanto, non dovremmo attribuire troppa importanza alla differenza fra i ter­mini «monade» ed «Uno».

Abbiamo notato che, secondo /se., il bello appare prima del bene. Questa inusuale dottrina viene affermata con molta enfasi. Prima si manifesta il bello; poi, quando la distanza dagli elementi primi (cnoLxtt~) si è fatta ancora maggiore, si manife­sta il bene. Sembra che ciò significhi che non c'è nessun bene nella sfera degli enti matematici; in essi c'è solo il bello. E difatti /se. ripete per due volte che negli enti matematici è presente il bello (p. 16, 3; p. 18, 5.8 F), mentre non lo si dice mai del bene, e ci si limita piuttosto a dire che non c'è nulla di cattivo in essi (p. 18, 9 F). Ora, tutta questa dottrina ci rinvia immediatamente ad un passo della Metafisica di Aristotele. Si tratta di Metafisi­ca, M 3, 1078 a 31-b 6, un passo che è stranamente sconnesso da tutto ciò che lo precede o che lo segue (sebbene sia in rapporto con un problema sollevato in B 2, 996 a 29-b 1). Le scienze

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matematiche, ammette Aristotele, non hanno niente a che fare con il bene, ma esse hanno a che fare con il bello. Potrebbe darsi che questa apologia stranamente incoerente della matematica sia il risultato della influenza di Speusippo su Aristotele. Si deve notare che H. Karpp, Untersuchungen zur Philosophie des Eudoxos von Knidos (1933), pp. 55-57, ha fatto risalire l'inclu­sione del bello e l'esclusione del bene dalle scienze matematiche ad Eudosso, ma si tratta semplicemente di una congettura.

Ma, forse, c'è un'altra possibilità di mettere in relazione il passo della Metafisica relativo alla presenza del bello nelle scien­ze matematiche con qualche altro scritto di Aristotele.

Il Primo Prologo del Commentario di Proclo ad Euclide contiene un'apologia della matematica. Questa apologia inizia a p. 25, 15 Friedlein e termina a p. 29, 13 Friedlein. Essa inizia con una sintesi delle obiezioni mosse alle scienze matematiche. Queste obiezioni sono di due generi: le prime criticano la mate­matica in quanto essa non ha nulla a che fare con il bene e con il bello; le seconde a motivo del suo carattere totalmente teoretico e non pratico (p. 25, 15-26, 9 Friedlein). La seconda parte della risposta di Proclo (p. 27, 17-29, 13 Friedlein) è rivolta principal­mente a difendere le scienze matematiche dal secondo genere di obiezioni. Essa contiene a p. 28, 13-22 Friedlein una citazione tratta da Aristotele, che è stata riconosciuta come derivante dal suo Protreptico (si veda fr. 52 Rose = Protreptico, fr. 5 a Wal­zer). Anche la prima parte della risposta di Proclo (p. 26, 10-27, 16 Friedlein), rivolta a dimostrare che le scienze matematiche non sono prive del bello, cita Aristotele (p. 26, 12 Friedlein). Sembra che si sia generalmente d'accordo sul fatto che questa citazione si riferisca alla Metafisica di Aristotele, M 3, 1078 a 31 - 1078 b 1. Ma è certo? Nel passo della Metafisica, Aristotele dimostra la presenza del bello nelle scienze matematiche dicendo che le supreme forme del bello sono l'ordine, la simmetria ed il definito, le quali sono tutte presenti nelle discipline matemati­che. Proclo, tuttavia, offre un differente genere di prova. Lo svolgimento del suo pensiero è il seguente: 1) Il bello nel corpo e nell'anima è prodotto dall'ordine, dalla simmetria, e dal defini­to. 2) Questo può essere dimostrato: a) dal fatto che la deformi­tà del corpo è causata dall'assenza di ordine, di forma, di sim­metria e di determinatezza, mentre la deformità dell'anima risa­le alla irragionevolezza, che è totale disordine e rifiuto di accet-

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tare il limite imposto dalla ragione; b) dal fatto che, poiché gli opposti hanno cause opposte, l'opposto della deformità, ossia la bellezza, deve essere causato da ciò che è opposto al disordi­ne, ecc., e precisamente dall'ordine, dalla simmetria e dal defi­nito. 3) Ma la presenza di queste tre supreme forme del bello può essere facilmente osservata nelle scienze matematiche: l'or­dine, nella misura in cui ciò che è più complesso deriva da ciò che è più semplice; la simmetria, nella misura in cui tutte le pro­ve matematiche concordano le une con le altre, e nella misura in cui tutto è posto in rapporto con il voui; (in quanto il voui; è la misura delle scienze matematiche, da cui esse ricevono i loro principi, e verso cui indirizzano i loro cultori); il definito nel fat­to che i suoi teoremi (Àoym) sono immutabili. Pertanto, se l'or­dine, la simmetria ed il definito sono i fattori del bello, la mate­matica contiene il bello.

Si può vedere immediatamente che il passo contiene molto di più di quanto non sia contenuto nelle poche righe del passo della Metafisica, che si suppone che Proclo citi. Qualcosa di questo surplus può risalire proprio a Proclo (ad esempio l'espressione votpix dori a p. 27, 10 Friedlein), ma deve essere tutto dovuto a Proclo? Se fosse così, Proclo sarebbe stato in realtà molto generoso ad attribuire questo passo ad Aristotele. Sebbene non lo si possa escludere, non è molto probabile. Inol­tre, due cose sono evidenti.

La prima è che l'argomento, secondo il quale «gli opposti hanno cause opposte», appartiene interamente allo stile dei Topici di Aristotele (spec. III 6, 119 a 32-: 119 b 16; cfr. anche Retorica, II 23, 1397 a 7-19). Più specificatamente, il ragiona­mento, secondo il quale «la deformità è causata dalla mancanza di ordine, ecc.; pertanto, la bellezza è causata dall'ordine, ecc.», ci ricorda il passo dell' Eudemo di Aristotele, fr. 45 Rose = Eudemus, fr. 7 Walzer, dove si afferma che la malattia, la debo­lezza e la deformità del corpo sono il risultato della &v(Xpµocn((X, e pertanto la salute, la forza e la bellezza devono essere equiva­lenti alla &pµov((X. Se Proclo ha tratto il suo passo dalla Metafisi­ca, quantomeno lo ha combinato con un'idea tratta dall'Eude­mo. Ma anche questo non rende ragione di tutto il surplus pre­sente nel passo di Proclo. Dove ha trovato Proclo l'idea che la deformità dell'anima è la sua irragionevolezza ed è dovuta all'assenza di ordine? Forse è stato lo stesso Aristotele che ha

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dimostrato la presenza del bello nelle scienze matematiche in questo modo più circostanziato, usando delle prove simili a quelle contenute nell' Eudemo .

La seconda cosa è l'insistenza di Proclo-Aristotele sul fatto che nelle scienze matematiche la misura è costituita dal voui;. Siamo immediatamente rinviati alla situazione filosofica creata dalla teoria di Protagora e a tutti i tentativi sia di Platone che di Aristotele per sostituire la sua massima dello homo mensura con un'altra formula oggettiva e non antropocentrica (si veda W. Jaeger, Aristate/es (1955 2), pp. 89 ss.; cfr. anche p. 249). Non sembra probabile che Proclo abbia aggiunto questo argomento da se stesso; la formula µ€'tpov 'trjç lmcr't~(.LT}i; ò voui; sembra ari­stotelica, ma non ricorre nel passo della Metafisica.

Tutto questo si riassume dicendo che non solo il passo di p. 28, 14-22 Friedlein, ma anche quello di p. 26, 10-27, 16 Friedlein potrebbe essere derivato da uno scritto di Aristotele simile o identico al suo Protreptico. E sarebbe del tutto naturale scoprire una qualche connessione fra questo scritto e Speusippo per quanto concerne la presenza del bello nelle scienze matematiche. Il pieno significato della precedente discussione diventerà chiaro solo alla luce del prossimo capitolo; per il momento ritorniamo ad/se.

9. La dottrina di Speusippo che l'Uno non è né Bene né Bello criticata da Aristotele e forse da Teofrasto

/se. chiama il principio supremo non solo causa del bello nei numeri, ma anche auto-sufficiente (p. 16, 3 F) e sottolinea che in se stesso non è né bene né bello (p. 18, 2-3 F). In altri ter­mini, sebbene non sia né bene né bello, l'Uno, o il supremo prin­cipio formale, è auto-sufficiente. Ci sentiamo immediatamente rinviati all'argomento di Aristotele: il principio supremo può essere chiamato auto-sufficiente solo se è il bene. Per quale altra ragione il principio supremo potrebbe essere autosufficiente (Metafisica, N 4, 1091 b 16-19)? Sembra che Aristotele critichi qui proprio la dottrina di Speusippo, che, da un lato, affermava che il principio supremo fosse autosufficiente e, dall'altro lato, negava che fosse il bene.

La dottrina contenuta in /se., secondo la quale il bene com-

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pare solo nella sfera successiva a quella dei numeri matematici, e la dottrina complementare, secondo la quale il male compare solo nelle ultime sfere (su questa ultima dottrina diremo di più fra poco) ci permettono forse di interpretare un difficile passo della Metafisica di Teofrasto, IX 32, p. 36 Rosse Fobes, fr. 41 Lang (per quanto concerne le diverse interpretazioni, si veda H. Cher­niss, Aristotle's Criticism of Presocratic Philosophy [1935), p. 394). «Speusippo considera il valore come una cosa rara e lo pone attorno alla xwpa intermedia, mentre tutto il resto è costituito dai principi (&xpa) e [da ciò che circonda la xwpa intermedia] da una parte e dall'altra». È possibile che la xwpa intermedia non signifi­chi il centro del cosmo spaziale, ma il centro della sfera dell'esse­re? Gli &xpa sono i principi neutri; essi, insieme con l'ultima sfera dell'essere, circondano il centro, formando, in questo modo, lo schema: realtà neutra-bene-male. E forse possiamo anticipare qui ciò che spiegheremo in seguito: nel sistema accademico non c'è nessuna differenza fra la cosmologia e l'ontologia, e non dovrem­mo stupirci di vedere che questi due punti di vista sono difficil­mente distinguibili nella Metafisica di Teofrasto. Le sfere esterne dell'universo sono l'Uno (che non contiene nessun bene) e l'ulti­ma sfera (o sfere) dell'essere che contiene il male; pertanto, il bene è confinato nella sfera centrale dell'essere, o al centro dell'univer­so, e questo è il motivo per cui è raro.

Se ammettiamo che l'Uno di Speusippo, nonostante che non fosse il bene, non era inferi ore al bene, possiamo comprendere per quale motivo Aristotele abbia potuto dire nella Etica Nicoma­chea, I 4, 1096 b 5-7 (fr. 37 a Lang), che Speusippo poneva l'Uno nella serie dei beni. Non possono esserci molte obiezioni al fatto che la colonna di sinistra della serie di contrari ammessa dai Pita­gorici (ad esempio, Metafisica, A 5, 986 a 22-26) venga designata come la serie dei beni, nonostante che il bene (insieme con l'Uno) sia uno dei suoi termini. Se, tuttavia, ammettessimo che l'Uno di Speusippo era inferi ore al bene, sarebbe alquanto sorprendente trovarlo tra i beni.

10. Il supremo principio materiale in Speusippo

Dal principio formale passiamo ora al principio materiale. Aristotele riferisce che Speusippo era solito chiamare il prin­

cipio materiale 1tÀij8oç, molteplicità. Questo, difatti, è il nome

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usato per il principio materiale in /se. (p. 15, 11, 15 F). Aristote­le, inoltre, riferisce che secondo Speusippo ogni sfera dell'essere aveva il suo proprio principio materiale. /se. spiega questo pun­to. Nel passo più lungo di /se. (p. 16, 18-17, 19 F), troviamo una spiegazione del perché sia necessaria una molteplicità di principi materiali (che corrisponde al problema posto in Metafisica, B 4, 1001 b 19-25). Senza una tale molteplicità, si dice in /se., non potrebbero esserci altro che numeri. E non si può supporre che lo stesso principio materiale presenti in sé differenze capaci di dar luogo a diverse sfere (o generi) dell'essere, nonostante che sia il solo e medesimo Uno che pervade ugualmente tutta la real­tà. Né si può supporre che l'Uno, per la crudezza della materia, non riesca sempre ugualmente bene a rivelare la sua esatta realtà (cosi come avviene quando cerchiamo di imprimere qualche figura su legni volgari). Perché nessuna di queste spiegazioni sarebbe idonea, sebbene tutte sembrino piuttosto logiche? Que­ste spiegazioni, ammettendo un principio che presenta in sé dif­ferenze (che è differenziato), e che è quindi diviso, contraddico­no alle idee e alle esperienze che noi abbiano dei primi principi in ogni campo. Dappertutto, infatti, è principio (elemento pri­mo) quella realtà che è assolutamente semplice.

Con questo ragionamento, /se. stabilisce la pluralità dei principi materiali.

Tale principio materiale nell'ambito delle grandezze geo­metriche è la posizione, la distanza (8La:a-rcxaLç .6milv), ed il luo­go ( 't61toç).

Siamo rinviati alla critica di Aristotele (cfr. sopra, p. 164). È assurdo, dice Aristotele, far nascere (1t0Le.tv) il luogo ('t61toç) insieme ai solidi matematici, in quanto il luogo è proprio di cia­scuna singola cosa, ad esempio delle cose sensibili (e nell'affer­mare che le singole cose sono xwpLa-rÒt .61t~ Aristotele giunge vicino alla dottrina secondo la quale lo spazio è il principio della individuazione), mentre gli enti matematici non hanno «luogo» (Metafisica, N 5, 1029 a 17-20; fr. 52 Lang). L'intero passo è senza connessione con ciò che lo precede o con ciò che lo segue; e quantunque sembra riferirsi a Speusippo (si veda Ross), potremmo non esserne sicuri. /se. elimina ogni dubbio; Speusip­po ha fatto nascere il luogo insieme con le grandezze geometri­che, riferendosi ai suoi tre aspetti, quali la posizione, la distanza spaziale, il luogo. Diventa chiaro perché Aristotele, invece di

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parlare delle grandezze geometriche tout eourt, abbia parlato delle grandezze stereometriche. Come rileviamo da /se., era solo alle grandezze stereometriche che Speusippo associava il luogo, mentre i punti e le linee non avevano come loro elemento mate­riale un luogo in generale, ma solo una posizione e una distanza spaziale.

/se. sottolinea che tutt'e tre le specie di grandezze geometri­che formano solamente un'unica sfera, o specie, dell'essere. Dal momento che Aristotele ha cercato di dimostrare che Speusippo è stato un divisore dell'essere, in quanto, a causa della pluralità di principi, le sue sfere superiori non contribuiscono all'esisten­za di quelle inferiori, ed ha chiarito questo punto adducendo come esempio l'indipendenza delle grandezze geometriche dai numeri matematici, potremmo domandare se Aristotele sia sta­to imparziale nel presentare Speusippo come un divisore dell'es­sere. Esamineremo questo problema più avanti.

Giungiamo ora ad uno dei caratteri più rilevanti della dot­trina di Speusippo: la sua affermazione, secondo la quale il principio materiale non è né turpe né cattivo. /se. conferma pie­namente ciò che Aristotele menziona appena (una volta esplici­tamente ed una volta implicitamente; si veda sopra, p. 163, nota). Ma esso apporta anche una gradita aggiunta, in quanto pone in rilievo l'assenza dal principio materiale sia della bellezza sia del male, mentre Aristotele si sofferma esclusivamente sul carattere di male. Ed /se. contiene anche una spiegazione del perché il supremo principio materiale non sia né turpe né catti­vo. È vero, si dice in /se., che il principio materiale è la causa di grandezza, di divisione e di moltiplicazione, ma ci sono molti casi in cui questa specie di principio non viene considerato come qualcosa di male. Ci sono casi in cui il grande, congiunto con una qualche altra qualità, può essere considerato la causa di ciò che è grandioso e liberale, ed entrambe queste cose stanno evi­dentemente dalla parte del bene, piuttosto che da quella del male.

L'argomento è un po' enigmatico. Ciò che /se. intende dire è evidentemente che il grande (la grandezza), ossia il principio materiale, o un aspetto specifico del principio materiale, quan­do si trovi congiunto con qualche altra qualità, talvolta perf e­ziona questa qualità, piuttosto che menomarla. E, come esem­pio, /se. cita la magnificenza (µq0tÀ01tpi1m0t) o munificenza insieme con la liberalità o beneficenza, generosità (lÀtu0tpL6-

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'tTJc;). Ora, una spiegazione sembra che sia contenuta in un passo dell'Etica Nicomachea. La munificenza supera la liberalità pro­prio per grandezza (Etica Nicomachea, IV 4, 1122 a 22), ed è migliore della semplice beneficenza. Ed è munifico, dice l'Etica Eudemia, chi sceglie la propria grandezza dove c'è una grande occasione (Etica Eudemia, III 6, 1233 a 35-38). In altri termini, /se. sembra dire: nel caso della grandezza e della liberalità vedia­mo che l'elemento della grandezza, quando è unito con una cer­ta qualità (la liberalità), trasforma questa qualità in qualcosa di migliore, ossia nella munificenza.

È vero che, dati i termini, una traduzione letterale sarebbe: «Probabilmente saremmo nel giusto se dicessimo che il grande è causa di munificenza e di liberalità, quando si trovi congiunto con una certa qualità». Se questo è proprio ciò che /se. intende dire, allora non solo la munificenza, ma anche la liberalità ver­rebbero spiegate alla luce del grande (grandezza) congiunto ad una qualche qualità anonima (in tal caso l'obsoleto termine «generosità» sarebbe una traduzione ideale di lÀw0c.pL6'tTjc;), forse «l'atteggiamento nei confronti del denaro». Ma, dal momento che né l'Etica Nicomachea, né il passo della Retorica trattano della liberalità (Retorica, I 9, 1366 b 2-16) congiunta con una qualche specie di grandezza, è anche possibile che /se. si sia espresso in modo ellittico: come se qualcuno volesse scrivere, «il grande, congiunto con una certa qualità, diventa la ragione della differenza fra la munificenza e la liberalità», ma omettesse le parole «la differenza fra».

Se l'allusione è effettivamente rivolta all'Etica Nicomachea (il passo parallelo della Etica Eudemia e dei Magna Moralia non contiene l'equazione «munificenza = liberalità + grandezza»), e se l'intera Etica Nicomachea è stata composta durante il secondo soggiorno di Aristotele ad Atene, allora il cap. IV di /se. potrebbe non essere una citazione tratta da Speusippo. Ma nessuna delle due cose è certa 5• Potrebbe anche darsi che l'esempio contenuto in /se. sia dovuto alla saggezza della lingua, piuttosto che ad un libro.

/se. aggiunge ancora un'altra prova del fatto che il princi-

5 Un problema simile a quello posto dal fatto che Metafisica, A 1, 981 b 25, sembra citare Etica Nicomachea, VI, 3-9, 1139 b 14-1142 a 30. Si veda Ross, Ari­stot/e's Metaphysics, ad. /oc ..

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pio materiale non può essere il male. Nonostante il supremo principio formale non sia né buono né bello, esso potrebbe esse­re detto a buon diritto lodevole, considerando la sua autosuffi­cienza (si veda sopra, p. 177) ed il fatto che è la causa del bello nella sfera dei numeri. Ora, il principio materiale è suscettibile di accogliere in sé il principio formale, ma ciò che è suscettibile di acogliere in sé qualcosa di lodevole non può essere cattivo o turpe.

L'argomento, secondo il quale ciò che è suscettibile di rice­vere qualcosa di buono (in qualsiasi senso della parola) non può essere cattivo, risale al Simposio (203 E) ed al Liside (217 B) di Platone. In forma un po' mutata riappare in Aristotele, quando lo Stagirita insiste sul fatto che, se i due principi supremi sono opposti l'uno all'altro come bene e male, questo significherebbe che il male, dal momento che entra in una qualche combinazio­ne con il bene, deve essere desideroso della propria distruzione, o anche che il male è il bene in potenza (Metafisica, N 4, 1092 a 1-5). /se., ovviamente, mette in luce che l'ipotesi di un principio materiale neutro non è esposta a questo genere di obiezione.

Ma /se. insiste non solo sulla circostanza che il principio materiale non è il male o il brutto; insiste anche sul fatto che in nessun senso è causa del male. Prima di tutto, non c'è niente di male o di brutto nella prima sfera dell'essere (i numeri), né nella seconda (le grandezze geometriche). Solo alla fine, nella quarta e quinta sfera dell'essere, compare il male. Ed anche qui il male compare non modo recto (1tpo7JyouµÉvw~). ma piuttosto come il risultato di una sorta di fallimento nel padroneggiare alcuni ele­menti propri della realtà naturale.

Questa tendenza di /se. a vedere nel male qualcosa di nega­tivo (o relativo) ed una specie di fallimento ci ricorda Aristotele. Spiegando i mostri, Aristotele pone in rilievo che anche ciò che è innaturale è ancora, in un certo senso, naturale; ossia, ciò avvie­ne ogni volta che la natura eidetica non riesce a padroneggiare la natura materiale; anche nel passo corrispondente di Fisica, II 8, 199 a 30- b 7, Aristotele usa il concetto di fallimento. Ed Aristo­tele estende il concetto di mostri fino al punto di caratterizzare come mostro l'intero sesso femminile (a causa della sua dissomi­glianza con il sesso del genitore maschio), dichiarando, allo stes­so tempo, che ci devono essere tali mostri nelle specie dotate di sessi differenziati (De generatione animalium, IV 4, 770 b 9-17;

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3, 767 b 5-23). In altri termini, c'è una forte tendenza in Aristo­tele ad escludere completamente il male dall'ambito della natu­ra. Questa sembra essere la tendenza anche di /se.

Ora, tutto questo ci rinvia ancora una volta al passo di Teo­frasto. In Metafisica, IX 32, p. 36 Rosse Fobes (fr. 41 Lang), Teofrasto indica che è errato a) limitare l'esistenza del bene ad alcune cose, b) affermare che c'è una grande quantità di male, c) negare che il male è solo qualcosa di indeterminato e di materia­le 6• Ed ora Teofrasto continua: d· x0tt ycxp (un ms. ha x0tt ycxp, un altro d ycxp x0tO alcuni come Speusippo hanno considerato il valore come una cosa rara, ecc. Ora, se leggiamo con Ross e Fobes (cfr. l'apparato, ad.loc.) dxn ycxp (eliminando il x0tO, l'intero passo, da 'tÒ 8' oÀov a ÉX0t'tÉpw8tv sarebbe dedicato a Speusippo. Pertanto, Teofrasto collocherebbe Speusippo fra coloro che hanno visto nel male qualcosa di più che il semplice indeterminato. Questo, dunque, sembrerebbe contraddire /se.

Ma sembra arrischiato attribuire a Speusippo una dottrina semplicemente sulla base di una congettura, che potrebbe essere inadeguata dal punto di vista della paleografia, ma che è fonda­mentale dal punto di vista del contenuto. Sembrerebbe più pru­dente supporre che Teofrasto abbia presentato due punti di vista (che egli critica entrambi), uno secondo il quale il male è qualco­sa di positivo, e che non è il punto di vista di Speusippo (da 'tÒ 8' oÀov a &µ.0t8tcncx'tou), ed un altro, che è il punto di vista di Speu­sippo (da d· x0tt ycxp a ÉX0t'tÉpw8tv), che ha limitato l'esistenza del bene al centro dell'essere (si veda sopra, p. 166). Il primo punto di vista potrebbe benissimo essere diretto contro Filippo, se è stato lui l'autore dell'Epinomide, o contro qualche altro Platonico zoroastrizzante (sulla presenza di Zoroastro nell' Ac­cademia, cfr. ad esempio, A. J. Festugière, Platon et l'Orient, «Revue de Philologie», 73 = 21 (1947], pp. 5-45, spec. pp.

6 Secondo O. Regenbogen (Theophrastos, in: Pauly-Wissowa, Realencyclo­piidie, Suppi. VII (1940), p. 1392), Teofrasto professa (piuttosto che respingere) questa dottrina. Sicuramente, il testo non è del tutto chiaro, e l'interpretazione di Regenbogen non può essere esclusa. Tuttavia, il passo di De caus. p/ant, IV 11, 7, voi. Il, p. 152 Wimmer, citato dallo stesso Regenbogen, Theophrastos, p. 1470, sembra indicare che Teofrasto fosse incline a considerare l'innaturale come qualco­sa che diviene naturale nel corso del tempo; Teofrasto non lo avrebbe considerato in questo modo, se avesse creduto nell'esistenza separata del male. Pertanto, l'in­terpretazione del passo della Metafisica data da Ross e Fobes è preferibile a quella di Regenbogen ed è stata per questo seguita nel testo.

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12-29). Pertanto, anche Teofrasto sosterrebbe un'opinione simi­le a quella di Speusippo per quanto concerne il carattere limitato del male, ma egli avrebbe obiettato a Speusippo di aver limitato il bene alla sfera «intermedia» dell'essere.

11. L'interazione dei due principi supremi, il principio forma le e il principio materiale

Questo porta a conclusione l'esame dei due principi di Speusippo considerati separatamente. Ora, diciamo alcune parole sulla loro interazione.

Il primo prodotto di questa interazione sono i numeri ed è solo in essi che compaiono il bello e l'essere (p. 18, 5 F). Questa affermazione, che fa dei numeri la suprema sfera dell'essere, sarebbe sufficiente ad identificare la dottrina come propria di Speusippo; Aristotele ha ripetuto continuamente che in Speusip­po, che ha abbandonato le Idee ed i Numeri ideali, gli enti mate­matici costituiscono il supremo genere dell'essere.

L'interazione che genera i numeri viene definita m9otv~ &viiyxT] (p. 15, 17 F).Si tratta, naturalmente, di una reminiscen­za del Timeo (48 A), ma il termine (persuasibile necessità) è ori­ginale. Sfortunatamente, non viene offerto nessun particolare per spiegare la generazione dei numeri o delle grandezze geome­triche. Più allettante è il giudizio che afferma che il male compa­re solo alla fine, ossia nella quarta e nella quinta sfera dell'esse­re. Qual è la terza sfera e perché viene omessa? Quali sono la quarta e la quinta sfera? Se vogliamo fare delle congetture, potremmo ipotizzare che, essendo i numeri aritmetici e le gran­dezze geometriche (e qualsiasi altra specie di enti matematici: p. 17, 27-29 F) la prima e la seconda sfera dell'essere, l'anima sarebbe la terza (e sarebbe qui che compare il bene), ed il corpo sensibile sarebbe pertanto la quarta sfera (ed è solo qui che farebbe la sua prima comparsa il male), proprio come ha riferito Aristotele. Ma quale sarebbe la quinta sfera? I corpi sensibili ma privi di vita, nei quali, difatti, il bene ed il bello sarebbero ridotti al minimo?

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12. Speusippo non è un evoluzionista

In ogni caso il frammento è abbastanza chiaro per consi­gliare di esaminare ancora una volta il problema dell'evoluzioni­smo di Speusippo. Finché il resoconto di Aristotele, secondo il quale l'Uno di Speusippo non era il bene, ha oscurato, come abbiamo detto, l'altro aspetto, ossia che il principio materiale non era il male, è stato possibile interpretare il resoconto di Ari­stotele come se esso sostenesse un evoluzionismo di Speusippo, ed accettare questo resoconto come corretto; ma con la dottrina secondo la quale uno dei due principi supremi non è il male sarebbe molto difficile interpretare Speusippo come un evolu­zionista nel senso comune del termine. Abbiamo ora un'ulterio­re prova di questo fatto. Se la prima sfera dell'essere sono i numeri e la seconda le grandezze geometriche, questo significa forse che le grandezze geometriche sono migliori dei numeri? Questo non ha nessun senso; e non avrebbe neppure nessun sen­so dire che ciò che è al di sotto degli enti matematici (l'anima o qualunque cosa fosse) sia migliore di essi. Il bene non compare negli enti matematici, ma questo fatto non li rende peggiori rispetto alla successiva sfera dell'essere. Lo schema, «inferiore al bene-bene-meglio» non si applica all'universo di Speusippo.

Aristotele aveva naturalmente interesse a presentare le opi­nioni di Speusippo a proposito del carattere neutro dell'Uno in termini di potenza-atto, di ouvaµLc;-lvipyua. Ma questo è il solo modo per interpretare il rapporto fra l'Uno ed il bene? Al con­trario, non è probabile che Speusippo avrebbe negato con forza che il suo Uno sia solamente il bene in potenza? Aristotele potrebbe benissimo porre Speusippo di fronte al dilemma: «o l'Uno è identico al bene (o almeno è un bene), oppure è inferiore al bene»; ma si deve sempre accettare la massima che «ciò che non è identico al bene deve essere inferiore al bene?»

Inoltre, il punto di vista evoluzionistico (o la coppia ouva­(J.Lc;-lvipyua) può ancor meno essere applicato al principio mate­riale. Se il principio materiale non è il male, è possibile dire che il male si sviluppa a partire da esso? È interessante esprimere questa impossibilità nei termini propri di Aristotele. Aristotele ha escluso il male dai principi ragionando in questo modo. Se il male è un principio, allora ciò che deriva da esso può essere solamente un male minore, conformemente alla massima secon-

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do cui ciò che è meno perfetto può derivare solo da ciò che è più perfetto. Ma un male minore è migliore ed in questo senso più perfetto del più grande male, ossia del male come principio o come pienamente in atto. E questo contraddirebbe di nuovo l'assunto fondamentale, secondo il quale il più perfetto precede il meno perfetto. In altri termini, c'è qualcosa di paradossale nella natura del male, se cerchiamo di interpretarlo come causa e come qualcosa di separato (Aristotele, Metafisica, 0 9, 1051 a 15-21). Ens et bonum convertuntur, ma non così ens et malum; questa è la ragione per la quale è quasi impossibile interpretare il male come qualcosa di assoluto piuttosto che come qualcosa di relativo ed è anche la ragione per la quale il rapporto fra il prin­cipio materiale di Speusippo ed il male non può essere interpre­tato in termini di una evoluzione.

Pertanto, lo ripetiamo, l'universo di Speusippo non è un universo a senso unico, con il bene in diminuizione (o in aumen­to) e con il male in aumento (o in diminuizione). È molto più irregolare, in quanto il bene non è presente nei principi, né nella prima sfera dell'essere, ed è pienamente presente solo nella sfera intermedia, e diminuisce nell'ultima sfera (o sfere) dell'essere.

Sembra che Aristotele abbia affrontato un problema piut­tosto simile e lo abbia risolto in un modo piuttosto simile. In De caelo, II 12, 291 b 29 - 292 a 3; 292 a 22 - 292 b 25, Aristotele esamina ciò che potrebbe essere detto l'aspetto asimmetrico del­l'universo: procedendo dalla sfera più eccelsa (la sfera delle stel­le fisse) alla terra, non c'è un aumento graduale del numero dei movimenti dei corpi celesti. Le sfere esterne eseguono un solo movimento, le sfere dei pianeti ne eseguono molti, la terra è immobile. Aristotele spiega questa asimmetria supponendo che non essere in movimento (o muoversi solo un poco) può signifi­care una di queste due cose opposte. Una cosa non si muove, (o si muove solo un poco) o perché è così perfetta che ha già rag­giunto (o può raggiungere con il minimo sforzo) il fine della sua azione, o perché è così imperfetta che ha abbandonato (o è sod­disfatta di una approssimazione molto grossolana) la ricerca 7•

Pertanto, non ci si dovrebbe sorprendere di vedere che il nume-

7 Il carattere ambiguo della immobilità è posto in rilievo anche da Teofra­sto, Metaf,sica, V 16, p. 18 Rosse Fobes. Cfr. la divina lvtpytLOt «XLIITJO'(atç come contrapposta alla lvtpyuat XLIITjO'twç in Aristotele, Metafisica, A 7, 1072 b 16-24, e Etica Nicomachea, H 15, 1154 b 26-28.

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ro dei movimenti non aumenta in modo direttamente proporzio­nale alla distanza da ciò che è perfetto. Prima si verifica un aumento, poi una diminuizione.

13. Speusippo come «divisore» dell'essere?

Resta da esaminare un altro aspetto del sistema di Speusip­po. È l'aspetto al quale Aristotele è solito far riferimento per biasimare Speusippo come un divisore dell'essere. Se ogni sfera dell'essere, dice Aristotele, ha la sua propria coppia di principi, allora l'essere o il non essere di una sfera non contribuiscono all'essere di un'altra sfera; tutte le sfere sono reciprocamente indipendenti. Ora, Stenzel ha notato che il riferimento di Ari­stotele a Speusippo come un divisore dell'essere sembra con­traddire tutto ciò che noi sappiamo riguardo alla tendenza pre­sente in Speusippo a trovare le somiglianze fra i diversi ambiti (J. Stenzel, art. Speusippos, in RE, III A 2 [1929], p. 1664). In che modo /se. porta un chiarimento su questo problema?

Una risposta ragionevole sembra essere la seguente. Mentre /se. intende presentare l'universo come un tutto coerente, la rea­le esposizione non riesce nell'intento e pertanto giustifica, entro un certo limite, la critica di Aristotele. Questa intenzione si esprime principalmente in due modi. In primo luogo, in /se. tro­viamo un termine caratteristico: le sfere dell'essere compaiono nel procedere ulteriore della realtà (1tp0Loucr7jç 'tTjç rpuatwç, p. 16, 12 F). Pertanto, c'è una qualche specie di concatenazione fra le sfere; tutte le sfere sono il prodotto di un'unica processione. E vediamo che questo, dopotutto, è confermato dallo stesso Ari­stotele. Secondo Speusippo, dice Aristotele (Metafisica, N 4, 1091 a 35; fr. 34 Lang), il bene «si manifesta solo quando la natura delle cose è in grado di avanzato sviluppo» (1tpotÀ8oucrT}ç 'trjç rpuatwç). Ed in secondo luogo, l'unità dell'universo risulta dalla struttura esattamente analogica di tutte le sfere. Ma sem­bra che Speusippo abbia tralasciato di esaminare il modo in cui si compie la processione. Possiamo essere sicuri che la proces­sione (si è tentati di usare il termine neoplatonico e di dire 1tp608oç) non veniva intesa da Speusippo come un processo tem­porale. Egli negava, come sappiamo, l'interpretazione tempora­le del Timeo (fr. 54 a, b Lang); riteneva che la nozione di teore­ma fosse più appropriata alle scienze matematiche che non quel-

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la di problema, per il fatto che esse conducono tutti i loro discorsi intorno ad oggetti di natura eterna (fr. 46 Lang); tutto questo, detto incidentalmente, è un'altra prova del fatto che è inappropriato interpretare Speusippo come un evoluzionista nel senso moderno del termine. Ma, ovviamente, egli non ha fatto «derivare» in modo esplicito la monade dall'Uno o il principio materiale dei numeri dalla molteplicità, né ha fatto «derivare» le sfere inferiori da quelle superiori. Entro un certo limite, dun­que, la critica di Aristotele non era ingiusta.

14. // principio de/l'analogia in Speusippo e in Aristotele

Tuttavia, l'accento posto da Speusippo sul carattere analo­gico dei principi supremi in ogni sfera dell'essere sembra presen­te anche in Aristotele. Quando Aristotele ha sostituito la dottri­na dei due principi opposti con la sua nuova dottrina, secondo la quale i principi supremi sono la materia neutra e la coppia forma-assenza di forma, egli ha chiarito, almeno in un passo, che i principi sono astratti. Non c'è una forma in quanto tale (almeno non nell'ambito del sensibile) né una materia in quanto tale (Metafisica, A 4, 1070 a 31-33; 1070 b 10-21). C'è, piutto­sto, almeno nell'ambito del sensibile, una pluralità indefinita di principi, salvo che essi per analogia sono gli stessi principi per tutte le cose: la materia e la forma o l'assenza di forma. È solo in Aristotele che compare il termine «analogia»; ma l'idea che ad esso soggiace sembra appartenere a Speusippo 8•

Né dovremmo stupirci di scoprire certe somiglianze fra Speusippo ed Aristotele nel campo della metafisica. Fra i due ci sono indubbiamente punti di contatto nel campo della logica e della dottrina delle categorie (cfr. E. Hambruch, Logische Regeln der platonischen Schule in der aristotelischen Topik [1904], pp. 14, 17 ss.; Ph. Merlan, Beitriige zur Geschichte des antiken Platonismus, «Philologus», 89 [1934], pp. 35-53, 197-214, spec. 47-51); e molto tempo fa si è affermato che i

8 Sul problema della analogia, cfr., ad esempio, E. Zeller, Die Phifosophie der Griechen, ll/2 (1921 4), pp. 257; 282, n. 5; 321, n. 2; 325, n. 6; G. L. Muskens, De vocis ANMOI'IAE significatione ac usu apud Aristotelem (1943), spec. pp. 87 ss.; 91 ss.; H.G. Gadamer, Zur Vorgeschichte der Metaphysik, in: «Anteile» (1950), pp. 1-29, spec. 13 ss. Si veda anche Teofrasto, Metafisica, VI 17, p. 20 Ross e Fobes; VIII 20-21, p. 24 Rosse Fobes; cfr. Regenbogen, Theophrastos, cit., p. 1555; J. Stenzel, Zah/ und Gesta/t, cit., pp. 147-162.

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sistemi di Platone e di Speusippo possono essere descritti come «Identitatssystem» (tratteremo di questo problema più avanti), e che loro tracce sono ancora presenti in Aristotele (T. Gom­perz, Griechische Denker, voi. III [1931 3 • 4], pp. 10 ss.; p. 70). Che Speusippo abbia influenzato Aristotele nel campo della zoologia è stato notato da Cherniss (H. Cherniss, The Riddle of the Early Academy [1945], p. 43). Tutto questo viene conferma­to dalla presente analisi di /se.

Il fatto che Aristotele ed /se. possano essere confrontati e spiegati reciprocamente con profitto è un'altra forte prova in favore dell'affermazione che il cap. IV di /se. è una fonte per la nostra conoscenza di Speusippo indipendente da Aristotele. È possibile che alcune parti del cap. IV di /se., e forse la maggior parte di esso, siano una citazione letterale tratta da Speusippo 9 •

15. Alcune osservazioni linguistiche sul capitolo IV del «De communi mathematica scientia» di Giamblico

Dal punto di vista stilistico, il capitolo mostra delle peculia­rità che lo distinguono dal resto di /se.

In primo luogo, notiamo la sua preferenza per attenuare le affermazioni, espressa mediante l'ottativo di cortesia. Nelle 93 righe Teubner, che noi attribuiamo a Speusippo, ricorrono cin­que ottativi di cortesia, quattro dei quali sono ancora più accen­tuati da un «forse» (p. 15, 14, 29 F; p. 17, 8, 10, 21 F).C'è solo un capitolo in /se. nel quale troviamo un simile cumulo di ottati­vi di cortesia. Si tratta del cap. XXIII, sul quale si veda il prossi­mo capitolo; nelle 117 righe Teubner sono contenuti 8 di tali ottativi. Nel resto di /se. troviamo che l'ottativo di cortesia vie­ne usato in modo limitato (circa venti volte); il capitolo XXV, che rivela l'uso di una nuova fonte da parte di Giamblico, rivela anche l'effettiva scomparsa dell'ottativo di cortesia. Alcuni ter­mini singolari sono tÙ1tÀao~i; (p. 15, 13 F) e auµµtµoÀuaµÉvov (p. 17, 20 F), usati per descrivere la uÀ7J. Quest'ultimo termine è particolarmente interessante. Secondo i dizionari, µwÀuaµÉvov significa «crasso» o «crudo» mentre µoÀuaµÉvov significa «con­taminato» (anche il greco moderno, mi sono informato, utilizza questa grafia per «contaminato»). Ma anche il più breve con­trollo dimostra che la grafia di queste due parole varia, di guisa

9 Sulla attività di scrittore di Giamblico si dirà di più nel prossimo capitolo.

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che dobbiamo affidarci al contesto piuttosto che alla grafia per decidere quale dei due significati abbiamo di fronte. Il termine µwÀuaµÉvov, nel significato di «crudo», è stato usato piuttosto di frequente da Aristotele nei Meteorologica, IV 1-3, 378 b 10 -381 b 22. Sembra che tutti gli editori moderni stampino la paro­la con una omega. Ma, nello stesso tempo, indicano che una serie di manoscritti scrivono la parola con un omicron. Ancora più caratteristico è il fatto che tutti i manoscritti del commenta­rio di Alessandro ai Meteorologica, e praticamente tutti i mano­scritti di Olimpiodoro, scrivano costantemente la parola con un omicron (mentre in tutti i manoscritti delle Quaestiones natura­/es di Alessandro sembra che venga scritta con una omega). Qual è, dunque, il significato di O"Uµµ .. µoÀuaµÉvov nel passo di /se. di cui stiamo trattando? È «ovunque contaminata» o «com­pletamente cruda»? Quest'ultimo significato sembra essere quello più appropriato all'interno del nostro contesto. Tutto il passo si fonda sul presupposto che la materia (il principio mate­riale) non debba essere considerata come qualcosa di turpe o di cattivo. Ma «contaminata» sarebbe ovviamente un termine mol­to più forte di «cruda». Quest'ultimo significherebbe semplice­mente «non sufficientemente dominata dal principio formale», proprio come Aristotele descrive la condizione dell' «essere cru­da», come uno stato imperfetto nel quale l'umido, ossia la materia naturale, non è dominato dal caldo (si veda spec. Meteorologica, IV 2, 379 b 33 - 38 o 380 a 10; sul caldo come principio formale, si veda ad esempio Metafisica, A 4, 1070 b 11-12). Insieme con i termini O"Uvtx~ç e 1t(Xxuç, i quali descrivono tutti il principio materiale delle grandezze geometriche, sembra che esso esprima la corrispettiva impenetrabilità dei solidi. Rispetto ai numeri, le grandezze geometriche sono «dense», ed in questo senso «underdone».

È interessante osservare che un termine che ha la stessa ori­gine di µtµoÀuaµÉvov ricorre in un testo, che solo di recente è stato riconosciuto, al di là di ogni dubbio, come risalente a Speusippo. Nella sua lettera a Filippo (Epistola socratica, 30, 14, p. 12, 7 Bickermann e Sykutris), viene usato il termine µwÀunpov per indicare una certa qualità della recitazione, come risultato della quale l'argomento recitato sembrerà mediocre. Si può difficilmente dubitare che il termine significhi «monoto­no», «fiacco», «privo di espressione», tutti termini che indiche­rebbero una qualità della recitazione simile alla crudezza (o alla

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condizione dell'essere crasso) nei cibi. Si tratta di un termine raro come lo è il termine ad esso relativo contenuto nel nostro passo di /se. Questo è un altro (e forte) argomento in favore del­la derivazione di quest'ultimo da Speusippo 10•

Il frequente uso della parola uÀYJ è sorprendente. Anche se ammettiamo che sia stato Aristotele ad iniziare ad usare il termi­ne nel suo significato tecnico (il che non è affatto certo), non c'è niente di improbabile nella ipotesi che esso sia stato usato anche da Speusippo, che ha conosciuto Aristotele per circa venticinque anni. Potrebbe darsi che il fr. 49 Lang (Metafisica, M 9 1085 a 32) e 35 d Lang (Metafisica, A 10, 1075 a 32) abbiano conserva­to questo termine così come veniva usato da Speusippo, come Lang è ovviamente propenso a ritenere. Anche il fr. 38 Heinze relativo a Senocrate dà l'impressione che il termine UÀTJ sia pro­prio di Senocrate. Il modo in cui /se. introduce il termine per la prima volta (p. 15, 10-14 F) sembra suggerire che esso venga considerato come un termine nuovo. «Poiché il principio oppo­sto all'Uno è quello della molteplicità, o della divisione che si può ottenere per via di essa, per questo potremmo dimostrare, procedendo convenientemente secondo le nostre possibilità, che è simile in tutto e per tutto ad una UÀTJ umida e ben plasmabile». Questo potrebbe benissimo essere il linguaggio di uno scrittore ansioso di giustificare una metafora non ancora nota a tutti.

Si dovrebbe notare anche l'uso del termine 1tpo1J1ouµ.ivwi; (p. 18, 11 F), che significa «non incidentalmente».

Le peculiarità del capitolo IV si riflettono, entro un certo limite, nel fatto che gli scoli come vengono presentati da Festa (pp. 100-103), dedicano una parte considerevole (circa 23 righe su 115, ossia quasi 1/5) ad un capitolo che costituisce circa 1/25 dell'intero testo.

1° Cfr. con quanto detto sopra l'analisi del termine 1,1,wÀunpo11 in E. Bicker­mann e J. Sykutris, Brief an Konig Philipp, «Berichte ii ber die Verhandlungen der Siichsischen AK. der Wiss., Philos.-hist. Kl.», Voi. 80 (1928), pp. 55 ss., e del ter­mine 1,1,wÀu11u11 in I. Diiring, Aristotle's Chemical Treatise Meteorologica Book IV, «Goteborgs Hogskola Arsskrift», 50 (1944), pp. 35 e 69. Si veda anche V. C. B. Coutant, Alexander of Aphrodisias. Commentar of Book IV of Aristotle's Meteo­rologica (1936), p. 88, n. 20.

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16. Speusippo e Plotino

Questo ci conduce al termine del confronto che abbiamo istituito fra /se. ed Aristotele. Ora, quando abbiamo detto che le differenze fra /se. ed Aristotele non potevano essere spiegate in base ad una qualche influenza di Plotino su Giamblico, abbia­mo limitato la nostra prova ad un solo punto: l'Uno di Plotino non è al di sopra del bene. Ma anche qui le somiglianze fra Plo­tino e Speusippo sono sufficientemente grandi per istituire un confronto proficuo, la parte più ampia del quale è costituita, naturalmente, dalla dottrina comune ad entrambi, secondo la quale l'Uno è al di sopra dell'essere, ed in questo senso non è neppure qualcosa che è - où8& ov, come anche Plotino definisce l'Uno (Enneadi, VI 9, 3, 38 Br.). Ma, lo ripetiamo, nelle loro dottrine concernenti l'Uno come al di sopra dell'essere, Speusip­po e Plotino si differenziano nel fatto che per il primo l'Uno non è identico con il bene, mentre lo è per il secondo. E con que­sta differenza è connessa l'altra: Speusippo è inequivocabilmen­te un dualista; Plotino, secondo le ipotesi prevalenti (per un'opi­nione contraria, si veda ad esempio F. Heinemann, Plotin [1921], pp. 160 e 250 ss.), è un monista 11 • Il suo monismo (o, per essere più cauti, l'elemento monistico presente in Plotino) rende quasi impossibile rispondere alla domanda «da dove deri-

11 Forse, non è possibile attribuire a Plotino in modo categorico né un mo­nismo, né un dualismo. In primo luogo, anche se Plotino fosse un monista da un punto di vista metafisico, ha tuttavia dovuto trovare un posto nel suo sistema per un dualismo etico. Un buon esempio di ciò è il passo di Enneadi, III 3, 4 (il passo più dualistico presente in Plotino secondo W. R. Inge, The Philosophy of Plotinus, 2 volt. [1929 3], voi. I, p. 136, n. 2), che afferma il duplice carattere dell'uomo. In secondo luogo, anche il suo monismo metafisico viene minacciato dall'interno dal­la difficoltà di rendere ragione della diversità (cfr. F. Billicsich, Das Problem der Theodizee im philosophischen Denken des Abendlandes [1936], voi. I, pp. 99-103). Da entrambi i punti di vista Plotino può essere proficuamente confrontato con Spi­noza. Il totale imbarazzo che quest'ultimo prova di fronte al fatto di essersi im­provvisamente reso conto che il suo determinismo ed il suo monismo fanno sì che sia impossibile biasimare qualcuno perché rimane radicato ad una errata teoria fi­losofica, appare chiaramente nella Introduzione al quarto libro della sua Etica (cfr., ad esempio, l'analisi compiuta da H. H. Joachim nel libro, A Study of Ethics of Spinoza [1901], pp. 238-254); e le difficoltà del suo monismo metafisico giungo­no alla luce nel problema che costantemente deve affrontare ogni interprete di Spi­noza, ossia decidere quali sino i reali attributi di Dio. La difficoltà di riconciliare il monismo metafisico con il dualismo etico trae origine nella Stoa; e sia Plotino che Spinoza l'hanno ereditata da questa fonte comune (sui debiti del Neoplatonismo nei confronti della Stoa, si veda E. v. Ivanka, Die neup/atonische Synthese, «Scho­lastik», 20-24 [1949], pp. 30-38).

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va la diversità?». Che questo problema sia centrale sia in Speu­sippo che in Plotino risulta evidente da un confronto fra alcuni passi di Aristotele e alcuni passi di Plotino.

Nel bel mezzo della sua critica dei tentativi Accademici di derivare tutti gli esseri da due principi opposti, Aristotele spiega l'origine di questa dottrina dei due principi opposti. Senza l'ipo­tesi di due principi opposti, la spiegazione di qualsiasi diversità, di qualsiasi pluralità sembrava impossibile; tutto l'essere si sarebbe ridotto all'unico essere di Parmenide. Per rendere ragione della diversità, gli Accademici hanno posto due princi­pi, l'essere e un qualcos'altro diverso dall'essere, la interazione dei quali genererebbe la pluralità. Ed Aristotele fa capire chiara­mente che egli interpreta la dottrina dei due principi come deri­vata da Parmenide ed il Sofista di Platone come un altro tentati­vo di spiegare la pluralità ammettendo l'esistenza del non essere insieme con l'essere. Pertanto, Aristotele stabilisce un'unica linea di pensiero che va da Parmenide attraverso il Sofista di Platone fino alla dottrina dei due principi opposti (Metafisica, N 2, 1089 a 2-6; cfr. B 4, 1001 a 29-33). In questo modo, vedia­mo la dottrina di Speusippo come un altro tentativo di risponde­re al problema della pluralità.

In che misura lo stesso problema sia presente in Plotino lo si può vedere da una serie di passi: Enneadi, III 8, 10, 15; III 9, 4, 1; V 1, 6, 3; V 9, 14, 4 Br. Questi passi pongono tutti la stessa domanda: come spiegare l'origine della pluralità? La risposta offerta da Speusippo (l'interazione di due principi) è inaccetta­bile per Plotino. Egli ha due alternative: l'«allontanamento» dall'Uno, ed il «traboccamento» dell'Uno. La presenza di due soluzioni che si escludono reciprocamente rivela la difficoltà (cfr. E. Schroder, Plotins Abhandlung IIO0EN TA KAKA [1916], pp. 146-149; 161; 178 ss.; 187).1 passi che spiegano l'ori­gine della diversità mediante il traboccamento, ossia come un processo involontario e necessario (ad esempio, Enneadi, I 8, 7, 21 Br.; altri passi in Zeller, 111/2 [1923 5], p. 550, n. 30), sono numerosi e ben noti. Ma i passi che implicano che l'origine della diversità è una qualche specie di «allontanamento» forse non vengono sempre sufficientemente sottolineati. I termini maEtv, 1t'tWl,L0t (Enneadi, I 8, 14, 21-25) 't6Àµ0t 12 , 'tÒ ~ouÀri0ijv0tL É0tu'twv

12 Cfr., su questo termine, F. M. Cornford, Mysticism and Science in the Pythagorean Tradition, «Classica! Quarterly», 16 (1922), pp. 137-150; 17 (1923), pp. 1-12, spec. p. 6, n. 3.

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t!votL (Enneadi, V 1,1, 4-5) ed &1t6cnotaLç (Enneadi, I 8, 7, 19 Br.) implicano un volontarismo. E questo volontarismo non è limita­to alle anime individuali. Anche il vouç giunge all'essere come risultato della sua 't6Àµot (Enneadi VI 9, 5, 29 Br.) e rivela se stesso a motivo della sua volontà di possedersi completamente, mentre sarebbe stato meglio per lui non volere questo (Enneadi, III 8, 8, 34-36 Br.; cfr. Schroder, op. cit., pp. 144, n. 5; 147, n. 1; 178, n. 5). Forse potremmo dire che in Plotino osserviamo due aspetti del problema della pluralità: in che modo ha origine la pluralità e perché essa ha origine. In Speusippo il perché è assente. Difatti, dal momento che l'Uno di Speusippo non è identico con il bene, il problema del perché dovrebbe esserci qualcos'altro oltre all'Uno non può interessarlo.

Per quanto concerne la dottrina del male, i pensieri di Speusippo e di Plotino si muovono sovente lungo linee parallele: il male non è qualcosa di positivo. In Plotino, il male è l'assenza del bene (cfr. H.F. Milller, Das Probleme der Theodicee bei Leibniz und Plotinos, «Neue Jahrbilcher filr das klassische Altertum», 43 (1919), pp. 199-229, spec. pp. 228 ss.), o anche semplicemente un bene inferiore (Enneadi, III 2, 5, 25-27; II 9, 13, 28-29 Br.). Talvolta Plotino parla del male come se fosse il risultato del «fallimento» della forma (Enneadi, V 9, 10, 5 Br.), in un modo che ci ricorda sia Speusippo che Senocrate. Ma la somiglianza più grande fra Plotino e Speusippo può essere rin­tracciata nel trattato nel quale, più che in ogni altro, Plotino è vicino a professare una dottrina dualistica, ossia in Enneadi, II 4. L'indeterminato e l'informe, dice Plotino, non dovrebbero essere sempre vilipesi perché ci sono casi in cui ciò che è indeter­minato ed informe si presta ad essere informato da ciò che è superiore (Enneadi, II 4, 3, 1 Br.). Certamente, l'intero trattato in cui compare questo passo, con la sua divisione della materia in due specie (l'intelleggibile e la sensibile) e con la chiara accusa rivolta a quest'ultima di essere turpe e cattiva proprio perché priva del bello e del bene, rivela una concezione completamente differente da quella di Speusippo, almeno per quanto concerne la materia sensibile. D'altro lato, l'introduzione (e la difesa) del concetto di materia intelligibile, ossia di una materia che è pre­sente in ciò che in Plotino è la prima sfera dell'essere (vouç), è un allontanamento dalle dottrine standard di Plotino. In genere, il processo di emanazione (o, per usare un termine preferito da A. Stohr nelle sue lezioni, di irraggiamento) è un processo a binario

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unico e la materia compare solo al termine di tale processo. Ma, in Enneadi, II 4, il processo si biforca proprio sin dall'inizio e la materia emerge immediatamente dall'Uno (Il 4, 5, 28-32 Br.), insieme con l'alterità ed il movimento. Il monismo viene ancora conservato, ma nella sua forma più precaria. Non è questo il luogo per tracciare la storia della dottrina della materia intelligi­bile da Aristotele, dove troviamo adottati il termine ed il concet­to di materia intelligibile (il primo in Metafisica, Z, IO, 1036 a 9; 11, 1037 a 4; e H 6, 1045 a 34, 36; il secondo in Metafisica, Z IO, 1035 a 17; 11, 1036 b 35; e forse K 1, 1059 b 16), ed anche conte­stati con molta forza (Metafisica, A 6, 1071 b 19-21; N 2, 1088 b 14-17; Fisica, III 6, 207 a 30-32), o trasformati nel concetto di genus (si veda l'Index di Bonitz, 787 a 19-22), fino a Plotino. Per il momento, citiamo solo due passi che servono da introdu­zione a Plotino.

Il primo lo troviamo in Apuleio, De dogm. Plat., I 5, 190, p. 86, 9-11 Thomas:

initia rerum tria esse arbitratur Plato; deum et materiam, rerumque f ormas, quas l8irt~ idem vocat, inabsolutas, inf ormes, nulla specie nec qualitatis significatione distinctas.

Il passo sembra confuso. Designando le Idee comeformae informes sembra che le consideri come materia 13 • Ma l'altro passo, Plutarco, Platonicae quaestiones, III (voi. Vl/1, Hubert­Drexler) 14, sembra addurre una delucidazione:

... &cpettpouvni; cpwv~v !J.&V -rwv XLVOU!J.Évwv, x(v11aw Òt -rwv an­pe.wv, ~ix8oç Ot 'tWV lm1tlowv, !J.Éye.8oç Ot 'tWV 1toawv, lv etÙ-rori; ye.ve.a6!,l,e.8et 'tetri; VOTJ'tetri; LOÉetti;, OÙOE.!J.(etv OLetcpopÒtv l,couaetti; 7tpÒç &ÀÀTjÀeti; Xet'tÒt 'tÒ tV XetL !J.6VOV VOOU!J.ÉV <etti;> . OÙ "(Òtp 7tOLE.t !J.OVÒti; !Xpt8!,1,6V, a.V !J.~ njç à:m(pou OUIXOOç (X~Tj'tetL (1001 F-1002A).

Ecco la traduzione:

« ... astraendo il suono dalle cose in movimento ed il movimen­to dai solidi e la profondità dalle figure e l'estensione dalle quantità noi arriveremo alle idee intelligibili stesse, che non si

13 Cfr. le emendazioni proposte da Sinko nell'apparato critico dell'edizione di P. Thomas (Apulei Platonici Madaurensisdephilosophia libri (19081).

14 Un passo nel quale è già presupposto il quadrivium; tuttavia, si tratta di un passo che caratterizza le realtà armoniche in virtù del suono invece che in virtù di una proporzione (quantità = numero; numero + grandezza = grandezza geo­metrica; grandezza geometrica + movimento = realtà astronomica; realtà astro­nomica + voce = realtà armonica).

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distinguono affatto le une dalle altre quando vengono pensate in riferimento alla loro singolarità ed unità. Infatti, l'unità non produce il numero a meno di non giungere un contatto con la diade illimitata».

In altri termini, sotto l'evidente influenza di Aristotele, alcuni Platonici si stanno ponendo la seguente domanda: qual è ilprincipium individuationis all'interno della sfera delle Idee? E la risposta è: una certa specie di materia. Pertanto, Plotino dice: se le Idee sono molte, ci deve essere qualcosa che esse hanno in comune e qualcosa d'altro peculiare a ciascuna di esse, in virtù del quale un'Idea si distingue dall'altra. Questo qualcosa di peculiare, che è la differenza che separa una Idea dall'altra, è la forma propria di ciascuna Idea. Ma dove c'è una forma c'è anche ciò che è formato e riceve la differenza. Pertanto, c'è una materia nella sfera delle Idee (Enneadi, II 4, 4, 2-7 Br.).

Naturalmente, la dottrina di una materia che deriva diretta­mente dall'Uno e che è presente nella sfera dell'intelligibile, è difficilmente compatibile con il resto del sistema di Plotino. Plotino è consapevole di questo fatto, e in Enneadi, II 5, 3 (che nella lista di Porfirio costituisce il venticinquesimo trattato, mentre Enneadi, II, 4, è il dodicesimo) praticamente ripudia questa dottrina 15 • Plotino difende coloro che hanno posto una materia intelligibile (Il 5, 3, 8-13 Br.), ma dal modo in cui egli lo fa si potrebbe difficilmente supporre che egli stesso sia stato mai di questa opinione ( «se si domandasse a coloro che pongono la materia nella sfera dell'intelligibile»). E sembra che questa sia l'ultima volta che Plotino prende seriamente in considerazione il concetto di materia intelligibile 16.

Se la presenza di una materia, che non è il male, nella sfera del 'llouç rivela una certa somiglianza fra Plotino e Speusippo, la dottrina di Speusippo della neutralità morale dei principi supre­mi, ed in particolare la sua descrizione secondo la quale l'Uno non è il bene, è inaccettabile da Plotino. È vero che talvolta Plo­tino è sul punto di negare che l'Uno sia il bene, come risultato

15 Si veda F. Heinernann, Plotin (1921), pp. 164; 174-176; 188 ss.; la sua in­terpretazione non è stata rifiutata da A. Faust, Der Moglichkeitsgedanke (1931), voi. I, pp. 436-455. .

16 Sebbene il termine ricorra in Enneadi, III 5, 6, 45 Br., esso qui viene usa­to in un senso diverso.

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della sua tendenza a negare che esso sia un bene particolare (Enneadi, VI 9, 6, 40 Br.). Ma, nel complesso, Plotino rimane radicato alla identificazione dell'Uno con il bene (Enneadi, II 9, 1, 1-8 Br.), di guisa che egli può affermare che le cose non deri­vano da principi neutri (Enneadi, V 5, 13, 36-37 Br.), ricordan­doci, in questo modo, che in /se. il principio supremo veniva difatti definito neutro (sebbene in /se. il termine &8~acpopov significa indifferenziato piuttosto che neutro, essendo connesso con il termine ?hµT)-cov: /se., cap. IV, p. 15, 21-22 F) e facendo quasi eco ad Aristotele che insisteva ugualmente sul fatto che il principio supremo deve essere il bene (Metafisica, N 4, 1091 b 16-18).

Secondo Speusippo, l'Uno è al di sopra dell'essere e non del bene; il principio opposto della molteplicità non è il male. Forse possiamo compiere un ulteriore passo e supporre che Speusip­po, almeno implicitamente, abbia affermato che il principio del­la molteplicità, proprio come è al di sopra del male, è anche al di sopra del non-essere, sebbene sia la causa ultima del non-essere. Se questa ipotesi è giustificata, dovremmo avere una breve for­mula per confrontare i sistemi di Speusippo e di Plotino. Secon­do quest'ultimo, ciò che conferisce l'essere a tutti gli esseri deve essere in se stesso al di sopra dell'essere. Secondo Speusippo, ciò che conferisce l'essere a tutti gli esseri deve essere in se stesso al di sopra dell'essere e ciò che conferisce il non-essere a tutti gli esseri deve essere in se stesso al di sopra del non-essere.

17. L'originalità del sistema di Speusippo

Se questa interpretazione di Speusippo è corretta, il suo sistema è un sistema altamente originale, interessante, e forse unico nella storia della filosofia occidentale. Forse potrebbe essere confrontato con quello di Schelling, per il quale, confor­memente al suo principio di identità, Dio non è né buono né cat­tivo, ossia è indifferente (Das Wesen der menschlichen Freiheit, Siimtliche Werke, I, voi. VII (1860), pp. 460 ss., 490 n. 1, 412 ss.). Se Speusippo ha realmente introdotto il concetto di ciò che è al di sopra del non-essere, ha anticipato alcune audaci rifles­sioni che hanno il loro proprio posto in quella branca del misti­cismo occidentale che si rifà al Platonismo ed al Neoplatonismo (Dionigi l'Areopagita, Maestro Eckhart, Nicola di Cusa). Il pas-

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so più noto in cui ricorre questo concetto è il distico di Angelo Silesio:

La sottile divinità è un nulla ed è al di là del nulla: Chi la vede? Colui che può vedere il nulla in ogni cosa. (Die zarte Got­theit ist ein Nichts und Obernichts: Wer nichts in allem sieht, Mensch, glaube, dieser sichts).

Poiché la tesi del presente libro è che il Neoplatonismo ha avuto origine all'interno dell'Accademia, sarebbe altamente significativo se potessimo ricondurre una dottrina tipicamente mistica direttamente a Speusippo. Ma dobbiamo ammettere che, finché non potremmo trovare letteralmente espressa da Speusippo la dottrina che il principio opposto all'Uno debba essere definito come al di sopra del non-essere, questa resta solo una supposizione 17 •

17 Si veda, per l'intero capitolo, E. Frank, Plato und die sogenannten Py­thagoreer (1923); J. Stenzel, Speusippos, in: Pauly-Wissowa, Realencyclopiidie, III A 2 (1929), e J. Stenzel, Zur Theorie des Logos bei Aristoteles, «Quellen und Stu­dien zur Geschichte der Mathematik ... », Abt. B: Studien 1 (1931), pp. 34-66, spec. 46, n. 5.

Frank, tuttavia, ha ricostruito le sfere dell'essere di Speusippo con una sicu­rezza maggiore rispetto a quella che io oserei. Differisco da Frank in particolar mo­do per il fatto che egli separa gli enti matematici dall'anima inserendo fra gli uni e l'altra i corpi percettibili (i corpi fisici), i quali, a dispetto di quanto afferma Frank (p. 248), sono difficilmente compatibili con la relazione di Aristostele in Metafisi­ca, Z 2, 1028 b 23 e N 3, 1090 b 18. È possibile che Speusippo si sia contraddetto o che abbia mutato la sua opinione, ma può anche essere che egli abbia definito l'ani­ma in un modo tale che alcuni potevano dire che egli l'aveva identificata con una qualche specie di realtà matematica tout court, mentre altri potevano affermare che egli ne aveva fatto una realtà matematica specificata da qualche differenza.

Sull'attrazione che il concetto di nulla ha esercitato sui filosofi greci si veda E. Bréhier, L 'Idée du néant et le probl~me de l'origine radicale dans le néoplatonisme grec, «Revue de Métaphysique et Morale», 27 (1919), pp. 443-476, ristampato in: Études de Philosophie antique (1955), pp. 248-283.

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Appendice al Capitolo V

l. La mia affermazione, che il capitolo IV di /se. contiene dottrine di Speusippo è stata criticata da Loenen (sopra, p. 87). Sfortunatamente, Loenen sembra ritenere che la mia affermazione si basi sulla contraddizio­ne fra il capitolo III ed il capitolo IX di /se .. Non so in che modo Loenen sia pervenuto a questa conclusione. La mia affermazione si basa sulla so­miglianza fra i contenuti del cap. IV di /se. e ciò che, secondo il resoconto di Aristotele, sono state le dottrine di Speusippo.

2. Non so se, su questo punto, ho compreso la critica mossa da Santil­lana (sopra, p. 115). Sembra che egli mi rimproveri di preferire la testimo­nianza di Giamblico per quanto concerne ciò che sono state le dottrine di Speusippo (riguardo all'anima), a quella di Aristotele, quando ciò si addì­ce al mio intento, mentre, quando non si addice al mio intento, dimostro la correttezza delle relazioni di Giamblico su Speusippo evidenziando il suo accordo con Aristotele. Ma Santillana intende realmente respingere la testimonianza di Giamblico perché essa concorda con Aristotele? Se Giamblico, nel suo Titpl qiuxiji;, è in disaccordo con Aristotele a proposito delle dottrine di Speusippo concernenti l'anima, perché non è ammissibile dire che «le dottrine esposte nel capitolo IV di /se. sui supremi principi del­la matematica assomigliano molto da vicino alle dottrine attribuite a Speu­sippo da Aristotele, e che, pertanto, è possibile che Giamblico abbia tratto il suo capitolo da Speusippo»?

3. Tuttavia, è possibile che il modo in cui mi sono espresso nel mio paragrafo introduttivo (sopra, p. 161) potesse indurre in errore. L'ho cor­retto e spero che non causerà ulteriori equivoci.

4. Dal momento che in questo capitolo di /se. viene esposta una dot­trina che assomiglia molto da vicino a quella attribuita a Speusippo da Aristotele, ho ritenuto che il capitolo fosse realmente di Speusippo. Ma, dal momento che in questa dottrina è contenuto il concetto di un Uno tra­scendente, e dal momento che una tale dottrina viene usualmente conside­rata come caratteristica del Neoplatonismo, ho dovuto esaminare la que­stione se il capitolo IV di /se., sebbene esponga dottrine di Speusippo, non le abbia forse alterate, introducendo in esse il concetto di un Uno trascen­dente. A questa domanda ho risposto in senso negativo, sostenendo, per­tanto, che la dottrina dell'Uno trascendente era stata già formulata da Speusippo. Ma non ho ritenuto che ci fosse bisogno di porre un ulteriore domanda, ossia se nel capitolo IV troviamo o no dottrine di Speusippo che siano state alterate sotto qualche altro aspetto, oltre alla possibilità che es-

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se siano state alterate per quanto concerne la dottrina dell'Uno trascen­dente. Avendo pertanto respinto quest'ultima possibilità, ho senz'altro ri­tenuto che non fosse avvenuta nessun'altra alterazione.

Per questo motivo sono stato criticato da Rabinowitz 18 • Sebbene egli parta dall'ipotesi che la fonte ultima del capitolo IV di /se. sia Speusip­po 19, nega che questo capitolo esponga le sue dottrine (diverse da quelle concernenti l'Uno trascendente, di cui Rabinowitz non parla) in una for­ma non alterata. In che cosa consiste, allora, l'alterazione? Mentre Speu­sippo riteneva che il principio formale fosse diverso in ogni sfera, Giam­blico (o la sua fonte; Rabinowitz non si compromette su questo punto) in­segna, secondo Rabinowitz, che esiste un solo principio formale (che, in ogni sfera, opera su un diverso principio materiale). Inoltre, mentre in Speusippo i numeri non sono composti (non consistono di unità), secondo Giamblico lo sono. Infine, mentre il punto in Giamblico viene fatto deri­vare dal (l'unico) principio formale e da un principio materiale (proprio delle grandezze geometriche), in Speusippo il punto è inderivato (un prin­cipio formale proprio delle grandezze geometriche).

Se queste affermazioni di Rabinowitz siano o no corrette dipende, quasi interamente, dal modo in cui interpretiamo un passo cruciale, quello di p. 17, 13-19 F. Sfortunatamente, Rabinowitz non lo cita mai in extenso. Ecco il passo:

{13) Àomòv oùv 'tLVO( {14) É'tÉpO(V µ.e:yl8ou,; O(l'tLO(V u1to8tµ.lvou,;, w,; lv Òtpt8µ.ot,; ( 15) µ.ov!XOO( XO('tà 'tÒ &V, ou'tw,; a-rtyµ.T)v lv "(pO(µ.µ.O(t,; {16) 'tt8lv0(t, 8fotv oÈ XO(L OLIXa-tO(<Jtv 't61twv 1ttp( n ypO(µ. ( 17) µ.à,; XO(L

x.wp(O(,; XO(L a-rtptà 1tpw'tov ( scii. lv't0(U80( ~O(V7ÌVO(L), XO('tà 'tà 0(1hà oÈ {18) XO(L 't61tov lv-r0(U80( ~O(V7ÌVO(L, 7t0(pà 'tÒV -.ij,; U1tooox.ij,; ( 19) OLO(~Opàv lot6v 'tl 7t0(p0(0L06VO(L

'tc°i> Òt7t' O(Ù-.Tj,; ylvu.

Ecco la mia traduzione: «Dopo che è stata posta un'altra causa [ossia quella] della grandezza,

resta da porre - proprio come per i numeri abbiamo posto la monade

18 W. G. Rabinowitz, Aristotle's Protrepticus and the Sources of lts Recon­struction (Berkeley 1957), spec. pp. 87 ss.; cfr. anche il suo articolo, Numbers and Magnitudes (si tratta della relazione tenuta al meeting della Society for Ancient Greek Philosophy il 29 Dicembre 1957).

19 Un'ipotesi che io trovo soddisfacente, dal momento che essa conferma la mia tesi, ma esposta in una forma che arreca un po' di confusione. Rabinowitz, co­me gentilmente mi ha fatto sapere, ha scoperto che il capitolo IV di /se. risale a Speusippo indipendentemente da me. Forse, sarebbe stato meglio dirlo esplicita­mente. Infatti, egli cita il mio libro solamente per criticarlo a proposito del punto menzionato nel testo, dando in questo modo al lettore l'impressione che noi due, ben lontani dall'essere i primi che hanno notato che la fonte di Giamblico è Speu­sippo, abbiamo semplicemente ripetuto ciò che costituisce una comune conoscen­za. Pertanto, Rabinowitz non rende giustizia a nessuno di noi due.

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conforme all'Uno, così per le linee - il punto. Solo qui [scii.: nell'ambito delle grandezze geometriche] compariranno la posizione e l'intervallo spa­ziale nel caso delle linee, delle superfici e dei solidi; ma anche lo spazio conforme ad essi, [così da] conferire, in accordo con la differenza del ri­cettacolo, qualcosa di peculiare al genus che deriva da esso».

Pertanto, il testo di Giamblico concepisce, in modo abbastanza chia­ro, la monade nei numeri come corrispondente all'Uno, esattamente nello stesso modo in cui nelle grandezze geometriche il punto corrisponde all'U­no. Il testo di Giamblico non fa derivare il punto dall'(unico) Uno più un principio materiale. L'interpretazione che Rabinowitz propone lo costrin­ge ad affermare che il termine «monade», contenuto nella riga 15, non si­gnifica il numero uno, ma piuttosto il numero due. Inoltre, la sua interpre­tazione lo costringe ad affermare che Giamblico faceva corrispondere il punto al numero due piuttosto che al numero uno. Se è difficile accettare quest'ultima affermazione, accettare la prima è quasi impossibile. Sono le stesse parole con cui Rabinowitz traduce il passo 17, 14-15 F, che rivelano le difficoltà che si oppongono alla sua interpretazione. Ciò che deriva dall'(unico) Uno nell'ambito dei numeri, afferma Rabinowitz, viene defi­nito una monade (unità), sebbene essa, in realtà, sia costituita di due uni­tà, ossia sebbene sia il numero due. Chi può definire il due una monade?

C'è ancora un passo che Rabinowitz rivendica a sostegno della sua in­terpretazione. Nell'ambito dei numeri, dice il testo, il principio materiale è responsabile della Òtix(pt(rn; e del µ.€:yt8oç. Ma, afferma Rabinowitz, né la oiix(ptatç, ossia la divisibilità in fattori, né il µ.Éyt8oç possono essere attri­buiti come predicati al numero uno. Pertanto, Giamblico esclude esplicita­mente (il numero) uno dai numeri, mentre Speusippo ve lo includeva. Tut­tavia, non è affatto chiaro che la otix(ptatç qui significhi «divisibilità in fat­tori». Essa potrebbe benissimo significare separazione di numeri, nel sen­so che i numeri non formano un continuum fra se stessi. Il termine «sepa­rato» verrebbe pertanto applicato alla serie di numeri e non ai suoi mem­bri. Ed è piuttosto improbabile che l'autore, cui era tanto familiare la for­mula «uno più due più tre più quattro uguale dieci», quanto lo è per noi la formula «due più due uguale quattro», abbia negato la grandezza come attributo del numero uno.

Con tutto ciò, non intendo negare che le parole usate nel capitolo IV di /se. non siano ovunque una copia fotografica del corrispondente testo di Speusippo. Ci sono probabilmente delle variazioni, ma queste variazio­ni non sono nella direzione indicata da Rabinowitz. Forse Rabinowitz, per trovare conferma della sua interpretazione, deciderà di analizzare i testi in questione riga per riga. Considerando l'acume con cui egli procede, ciò sa­rebbe ovviamente auspicabile ed utile per pervenire a conclusioni più certe delle sue attuali.

Ma, anche se Rabinowitz avesse ragione, ciò, dal punto di vista del presente libro, sarebbe secondario. Resta il grande problema, se la dottri­na dell'Uno trascendente, enunciata nel cap. IV di /se., debba essere attri­buita a Speusippo.

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5. Il mio libro è apparso verso il Luglio del 1953. Solo alcuni mesi più tardi Klibansky pubblicava la sua grande scoperta, ossia la parte perduta del Commentario di Proclo al Parmenide di Platone, conservatoci in una traduzione latina 20•

In questo Commentario ricorre una citazione di Speusippo. Ecco la citazione:

Quid dicit (scii.: Speusippus, narrans tamquam placentia antiquis)? Le unum enim melius ente putantes et a quo le ens, et ab ea que secundum principium habitudine ipsum liberaverunt. Existimantes autem quod, si quis le unum ipsum seorsum et so­lum meditatum, sine aliis, secundum se ipsum ponat, nullum al­terum elementum ipsi apponens, nichil utique fiet aliorum, in­terminabi/em dualitatem entium principium induxerunt.

Klibansky ha ri-tradotto il passo in greco. Non ritengo che la tradu­zione possa essere migliorata, ma, in ogni caso, mi sembra più appropria­to presentare la sua traduzione piuttosto che tentarne un'altra, dal mo­mento che Klibansky ha compiuto la sua traduzione senza essere a cono­scenza della mia interpretazione di Speusippo e pertanto non aveva nessun pregiudizio, che io, come traduttore, potrei avere.

Tò t\l yàtp ~O.:tLOV 'tOÙ OV'tOç ~'Y'OU!J.EVOL XCXL ixcp' où 'tÒ ov, XCXL Òt1tÒ tijç XCX't' IXPXTJV retwç CXÙ'tÒ tÀtu8tpwacxv. No!J.(,ovnç 8è. wç d 'tLç 'tÒ tv cxù't6, xwpiç xcxt 1J,6vov 8twpoU!J.tVov, Òtvtu 'tW\I «ÀÀwv xcx8' CXU'tÒ 'tL8dT), IJ,T)8è.v «ÀÀo CJ'tOLXtfov cxÙ't~ lm8t(ç, où8è.v &v y(yvoL­'tO 'tWV «ÀÀwv, 'tT)V ix6pLa'tOV 8u&8cx dCJT)ycxyov.

A proposito di questa citazione di Speusippo, Klibansky osserva: Fu­sius de eo (scii.: Speusippi dicto) agemus in dissertatiuncula quae inscribi­tur "Speusippo sulla filosofia pitagorica. Un nuovo frammento conserva­toci da Guglielmo di Moerbeke''. Ubi conicimus: 1. fragmentum pertinere ad SPEUSIPPI Iltpi Ilu8cxyopt(wv ixpL81J,wY 2. Proclum non ipsum Speu­sippum legisse, sed has sententias repperisse apud Nicomachum, Neopy­thagoreum qui dicitur philosophum ... Nicomachum verba Speusippi mo­re Neopythagoreorum aliqualiter variavisse veri simile est. Ad argumen­tum quod respicit Speusippus cf. Plato Sophistes, imprimis 252c sqq. Ad doctrinam quae attribuitur 'Pythagoreis' cf. Proc/us, In Tim. 176 D, p. 86 (39 s.; 96).

Ritengo che la scoperta di Klibansky confermi pienamente la mia af­fermazione, che l'Uno di cui parlava Speusippo non era, come si è general­mente creduto sulla base della esposizione che Aristotele fa di Speusippo, al di sotto dell'essere (il che farebbe di Speusippo una specie di evoluzioni-

20 R. Klibansky e L. Labowsky, Parmenides ... Proc/i commentarium in Parmenidem, London 1953.

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sta), ma, al contrario, al di sopra dell'essere (il che dimostrerebbe che Speusippo ha anticipato una dottrina che viene generalmente considerata come propria del Neoplatonismo). In ogni caso, il nuovo frammento co­stituisce una base interamente nuova per qualsiasi indagine su Speusippo. Pertanto, non intendo rispondere a nessuna delle critiche che sono state sollevate contro il fatto che ho attribuito a Speusippo la dottrina di un Uno trascendente 21 , dal momento che l'intera situazione è ora mutata.

6. Confrontando il concetto di materia presente in Speusippo con quello presente in Plotino, ho affermato che Enneadi, II 4 (cron. 14), con il suo caratteristico titolo 1ttpt 't'WV Mo ÙÀwv, introducendo il concetto di una materia presente nell'ambito del voui; costituisce un allontanamento dalla dottrina standard di Plotino, in cui, di solito, la materia compare so­lo al termine del processo emanativo. Per questo motivo sono stato critica­to da Armstrong 22 e da Kristeller 23 •

Ora, dirò da principio quale mi sembra essere il punto più debole del­la loro critica. Entrambi mi ricordano che, secondo Plotino, in tutte le sfe­re dell'essere compare l'!i1tttpo11. Pertanto, essi dicono, io ho frainteso Plotino. Accetto la loro premessa maggiore, ma non accetto la loro con­clusione, in quanto si fonda su una premessa minore che è inaccettabile. Questa premessa minore è evidentemente l'equazione !i1tttpo11 = uÀT).

In realtà, è lo stesso Armstrong che nega implicitamente la correttez­za della premessa minore. Mi riferisco al suo articolo Plotinus' Doctrine of the Infinite and Christian Thought, «Downside Review», 1954/55, pp. 47-58, spec. 49-51. Da quanto egli dice, risulta evidente che l'equazione

21 Neppure a quelle particolarmente penetranti di J. Moreau, «Revue Beige de Philologie et d'Histoire», 34 (1956), pp. 1164-1167, né a quelle di Loenen (so­pra, p. 87).

Tuttavia, dobbiamo dedicare alcune parole ad uno degli argomenti di Moreau. L'Uno, si dice nel nostro passo, où8i. 0111tw 8tt x01Àe.t11. Moreau traduce il termine 1tw con «ancora» (encore), non menzionando neppure la possibilità che esso possa significare «affatto». Ma, si veda Schwyzer-Debrunner, II (1940) p. 579. Perfino P. T. Stevens, che nel suo articolo, The Meaning of oùxw, «American Journal of Philology», 71 (1950), pp. 290-295, perviene alla conclusione che esso ha sempre l'usuale significato temporale, non solo deve emendare due passi (Omero, µ. 208 e Sofocle, O. T. 105), dove esso chiaramente non ha un tale significato, ma anche a p. 294 traduce questo termine presente in Euripide, Ione, 547, con «per niente af­fatto», lasciandoci curiosi di sapere come sia possibile riconciliare questa traduzio­ne con la categorica conclusione del suo articolo. Cfr. Plotino, Enneadi, l 4, 2,6 Br.; 15, 11 Br.

22 Cfr. A. H. Armstrong, «Mind», 64 (1955), pp. 273 ss.; cfr. A. H. Arm­strong, Spiritual or Intelligible Matter in Plotinus and St. Augustine, «Augustinus Magister» (1954), pp. 277-283, spec. p. 278, con nota. Ma si veda anche il suo li­bro, The Architecture of the lntelligible Universe in the Philosophy of Plotinus (1940), p. 68.

23 P. O. Kristeller, «Journal of the History of Ideas», 19 (1958), pp. 129-133.

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cx1mpov = uÀTJ compare solo in Enneadi, li 4 24 • In altri passi il termine cx1mpov viene usato da Plotino in modo tale che esso può essere applicato anche all'lv (cxµopq,ov, &vd8tov: VI 9, 3; IV 3, 8; VI 9, 6) 25 • Questo dimo­stra chiaramente che il termine cx1mpov non significa sempre UÀTJ. Vale la pena osservare che, mentre io affermo che l'ipotesi, contenuta in Enneadi, II 4, di una materia (non-cattiva) nel mondo intelligibile costituisce un'a­nomalia, Armstrong sostiene il punto di vista opposto. Secondo Arm­strong, la dottrina che la materia (cx1mpov) sia la causa del male nel mondo sensibile costituisce un'anomalia all'interno del sistema di Plotino. In altri termini, non ritengo che siamo in disaccordo riguardo ai fatti concernenti il modo in cui viene considerata la UÀTJ in Enneadi, li 4. Noi siamo in di­saccordo solamente per quanto concerne quale sia, a questo riguardo, la reale tendenza ultima del sistema di Plotino. Armstrong in sostanza dice: «Plotino avrebbe dovuto parlare sempre e solamente di un'unica materia, che esiste nel mondo sensibile ed in quello intelligibile. Se avesse agito in questo senso, si sarebbe reso conto che la uÀTJ non può essere la causa del male. E' quanto Plotino ha compreso, almeno vagamente in Enneadi, II 4. Vagamente; questa, infatti, è la ragione per cui egli parla di due specie di materia, una che è causa del male ed una che non lo è, risultando per­tanto non coerente con la sua concezione originaria». Io dico: «Poiché in Plotino la UÀTJ è la causa del male nel mondo sensibile, egli non avrebbe mai dovuto parlare di una UÀTJ presente nel mondo soprasensibile. Agendo in questo senso, egli è divenuto non coerente con la sua concezione origi­naria». Pertanto, entrambi riteniamo che ci sia un'anomalia nel modo in cui Plotino considera la materia. Solo che io ritengo che l'anomalia consi­sta nel fatto che Plotino ci presenta il concetto di una materia non-cattiva che compare nell'ambito dell'intelligibile, mentre Armstrong afferma che un'anomalia è parlare di una materia cattiva nell'ambito del sensibile.

Dovrebbe essere evidente che la dottrina di una duplice materia in Plotino è il riflesso della ben nota controversia fra gli interpreti di Platone, ossia se la materia (o il termine equivalente), responsabile secondo il Ti­meo dell'esistenza del mondo sensibile, si identifichi con l'cxrmpov presen­te nelle Idee (si veda, sotto, p. 276). Il grande merito di un articolo della de Vogel consiste nell'aver chiarito questo punto 26 • La de Vogel descrive il si­stema di Platone con la felice frase «debole dualismo». La de Vogel mo­stra quanto sia facile trovare in Platone la dottrina di una duplice uÀ7J. Da

24 Vale la pena di osservare che Moreau, che interpreta questa equazione con grande acume, si limita strettamente ai passi tratti da questo saggio (J. Mo­reau, Réalisme et idéalisme chez Platon [1951], pp. 119-135, spec. 131-135).

25 Cfr. L. Sweeney, lnjinity in Plotinus, «Gregorianum», 38 (1957), pp. 515-535, 713-732, spec. 527-531; Sweeney elenca i casi in cui Plotino definisce l'U­no come dbmpov e &6pta-tov. Ma c'è qualche caso in cui all'Uno viene attribuito il termine uÀTj?

26 C. J. de Voge!, La théorie de l'éf.neieov chez Platon et dans la tradition p/atonicienne, «Revue Philosophique», 84 (1959), pp. 21-39.

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un lato, abbiamo la xwp0t del Timeo, che rappresenta, se possiamo espri­merci in questo modo, la UÀTJ infra-sensibile, che, in un certo qual modo, difficile da descrivere, contribuisce alla costituzione del mondo sensibile. Dall'altro lato, abbiamo l'ix1tttpov del Filebo (e, entro un certo limite, il µT} ov del Sofista), responsabile della diversità del mondo delle Idee, e pertan­to non solo del soprasensibile, ma anche del sopra-intelligibile. In que­st'ultimo concetto, la de Vogel vede l'origine del concetto di UÀTJ VOTJ'tT} co­si come viene usato da Plotino. E ritengo che la de Vogel avrebbe potuto aggiungere al suo elenco un concetto che incontriamo nel Politico: il awµ0t-rou8èc; 'tijc; auyxpa;ae.wc; 0tt'-rtov responsabile della Òt-r0t~C0t (273B).

Su questo sfondo la formula della de Vogel («debole dualismo») po­trebbe essere estesa fino a leggervi qualcosa come questo: secondo Plato­ne, c'è un gran quantità di disordine nell'universo, ed il disordine non può essere derivato dal principio dell'ordine. Esso, piuttosto, richiede un prin­cipio suo proprio. Ancora, l'ordine prevale sul disordine. Pertanto, il principio del disordine non può essere sullo stesso livello del principio del-1' ordine. Ma non può neppure essere derivato da esso. In altri termini, il principio del disordine è subordinato al principio dell'ordine, ma è indi­pendente da esso 27 • Talvolta, Platone chiama quest'altro principio xwp0t, talvolta Òtv&yx7J, talvolta ciò che noi chiameremmo inerzia (cosi nel mito del Politico), talvolta un'anima malvagia o anime malvagie. L'esistenza di questo principio spiega le imperfezioni dell'universo. Ma il suo status on­tologico non viene ulteriormente precisato.

Quando dico che lo status ontologico del principio del disordine «non viene ulteriormente precisato», spero che ciò esprima esattamente la stessa cosa della famosa frase di Platone v68oc; Àoytaµ6c;. In realtà, per chiunque, tranne che per un radicale monista e per un radicale dualista, deve esserci qualcosa nell'universo che non è né del tutto razionale né del tutto irrazio­nale. E l'espressione «subordinato, ma indipendente» esprime molto bene questa situazione paradossale.

Dopo aver stabilito l'antecedente platonico, la de Vogel raccoglie ora i passi in cui Plotino usa il termine ix1tttpov e definisce questo ix1tttpov come un eterno prodotto dell'htp6"t7Jc;; l'É:ttp6"tT}c;, a sua volta, segue immediata­mente (o emana da) l'Uno.

Con tutto ciò sono pienamente daccordo. Ma dove non posso più se­guire la de Vogel è quando identifica senz'altro anche l'ix1tttpov, di cui par­la Plotino, con la sua UÀTJ VOTJ'tT}. L'esitazione con cui Plotino parla di que­st'ultima, quando inizia a parlarne ex professo, indica chiaramente che egli non considera affatto l'equazione UÀTJ = ix1tttpov come qualosa di ov­vio. Se è legittimo parlare di Platone come di un «debole dualista», è an­che legittimo parlare di Plotino come di un «debole monista». Dal mo­mento che è un monista, la materia dovrebbe comparire nel suo sistema

27 Cfr. H. A. Armstrong, The Architecture, cit., p. 66 (indipendente, sebbe­ne non co-eguale).

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solo al termine del processo di emanazione dall'Uno. Ma, dal momento che Plotino è un debole monista, la sua materia, al contrario, sembra deri­vare direttamente dall'Uno. Questo ci lascia con il concetto di una qualche specie di materia che non è né completamente identica con, né completa­mente differente da la materia che compare al termine del processo di emanazione dall'Uno. In ogni caso, a lungo andare il monismo prevale in Plotino, e pertanto egli molto raramente parla di uÀT) VOT)"tT), riservando il termine uÀT) per l'ix1mpov infra-sensibile. Proprio il passo che la de Voge) cita (Plotino, Enneadi, III 9 [cron. 13), 3, 7-16) esprime così chiaramente l'idea che ciò che viene comunemente chiamato materia in Plotino è il pro­dotto di qualche errata inclinazione da parte dell'anima (1tpòç OtU'tT)V ~ou­Àoµ.ÉvT) < e.Iv«L > 'tÒ µ.e.'t' «U'tT)V 1t0Ltt e.l'8wÀov 0tù-rijç, 'tÒ µ.~ ov), che è mol­to difficile vedere in questa uÀT) la stessa uÀT) che deve essere esistita «pri­ma» che l'anima giungesse ali' esistenza.

Pertanto, è pienamente comprensibile che Himmerich affermi che il termine UAT) non dovrebbe essere stato attribuito da Plotino alla uÀT) VOT)"tT), che giunge all'esistenza insieme con il vouç 28 •

Se ora domandiamo perché Plotino avrebbe dovuto davvero intro­durre il concetto di uÀT) VOT)"tT), temo che la sola risposta sia che in questo caso Plotino, come platonico, abbia superato Plotino come pensatore ori­ginale. Dal momento che Aristotele ha attribuito a Platone la dottrina se­condo cui è lo stesso &1ttLpov che è presente nelle Idee e nelle cose sensibili, Plotino ha avvertito che doveva in qualche modo incorporare questa dot­trina nel suo sistema. Il termine usato da Aristotele, UÀT) VOT)"tT), gliene of­friva la chiave.

Per evitare che il lettore consideri il problema dell'unità e della molte­plicità, che svolge un ruolo così importante nel Platonismo da Platone a Plotino, come un problema meramente storico, vorrei ricordare che si tratta di un problema che può ancora essere legittimamente proposto ai giorni nostri, e che è molto lontano dall'essere facilmente risolto.

Ammettendo che il concetto di un'unica realtà che abbraccia tutto ciò che esiste sia un concetto dotato di significato, si è immediatamente porta­ti a chiedere: che cosa intendiamo dire quando parliamo di un 'unica real­tà? Se c'è solamente un'unica realtà, deve esserci una qualche specie di le­game fra tutte le parti della realtà; ogni parte della realtà deve avere «qual­cosa a che fare» con tutte le altre parti della realtà. Chiamiamo ogni parte indipendente o ogni elemento della realtà una realtà individuale. Dobbia­mo allora porre come postulato che tutte le realtà individuali devono esse­re in qualche modo reciprocamente connesse. In altri termini, l'annulla­mento di una sola qualsiasi realtà individuale deve in qualche modo con­cernere tutte le altre realtà individuali, o la realtà individuale annullata non faceva affatto parte di un'unica realtà. Il modo più semplice per mo­strare la concatenazione di tutte le realtà individuali sarebbe quello, ad

211 W. Himmerich, Eudaimonia (Wiirzburg 19S9), pp. 199 ss.

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esempio, di supporre che esse si influenzino tutte reciprocamente mediante un rapporto di causalità.

Da ciò, tuttavia, deriva una conclusione inaspettata. Se ogni cosa è, in qualche modo, influenzata da ogni altra, allora, in realtà, essa non è che un aspetto di tutto ciò che esiste. Essa è, se possiamo esprimerci in questo modo, completamente aperta, consiste solamente di porte e di finestre; non può affatto conservare una sua intimità. L'area della intimità non fa­rebbe più parte di un'unica realtà, il che è contrario all'ipotesi originaria. Anche il termine «aspetto» è equivoco, in quanto ogni realtà individuale è semplicemente pervasa dalla totalità della realtà. Ma, se le cose stanno in questo modo, che cosa intendiamo quando diciamo che ci sono realtà indi­viduali nella realtà? Quali sono i confini che separano l'una realtà indivi­duale dall'altra? O esse sono parti, e allora devono essere in qualche modo indipendenti le une dalle altre. Ma è proprio pervenendo all'indipendenza che esse si staccherebbero da un'unica realtà. Infatti, diverrebbe del tutto incomprensibile ciò che noi realmente intendiamo dire quando parliamo di un'unica realtà. Oppure, tutte le parti della realtà sono connesse fra di lo­ro, ma in questo caso esse perderebbero completamente la loro individua­lità e resterebbe solamente un'unica realtà. In altri termini, la scelta sem­bra essere fra l'unità assoluta e l'assoluta pluralità.

Nessuna di queste alternative è accettabile. Ed i concetti di un'unità che sia appena un po' differenziata ed il concetto di una pluralità che rie­sca ancora a formare una qualche specie di unità sono egualmente auto­contraddittori.

Tali riflessioni ci permettono di renderci subito conto di che cosa fos­se in gioco quando Leibniz cercava di stabilire il suo sistema di monadi. Nessuna monade ha porte o finestre: Leibniz ha compreso, in modo asso­lutamente chiaro, che se si lascia entrare un solo raggio di luce dall'ester­no, la monade, nella sua totalità, è immediatamente assorbita nella totali­tà della realtà. Ma, allora, che cosa significa che ci sono diverse monadi? Che cosa significa che esse formano tutte un'unica realtà? Che una mona­de esista o non esista, ciò non fa nessuna differenza per l'altra. Se tutte le monadi scomparissero, eccetto una, nessuna, neppure la monade delle monadi (Dio), si accorgerebbe di nulla. La pluralità delle monadi diviene un concetto vuoto.

Si potrebbe dubitare che Platone si sia mai reso conto che è impossibi­le negare la dottrina di Parmenide (che esiste solamente un'unica realtà che non ha parti, neppure un qui o un lì, un'ora e un poi), senza abbando­nare l'unità. Platone, per poter rendere ragione della pluralità, è divenuto un parricida. Ma, facendo questo, egli ha indotto i suoi figli a diventare a loro volta dei parricidi, perché potessero rendere ragione dell'unità.

8. Vale sempre la pena osservare un problema che ci è usuale in una luce inusuale. E' quanto possiamo sperimentare in questo caso leggendo l'analisi del concetto di materia intelligibile in Plotino svolta da G. Vallin in La perspective métaphysique (1959), pp. 103-111; 147 s.; 155; 163 s.,

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ecc. Vallin è un esponente della philosophia perennis di stile orientale, e ri­vendica Plotino come uno dei suoi rappresentanti. Vallin interpreta l'in­troduzione del concetto di materia intelligibile come espressione della pro­fonda comprensione che Plotino ha (uno dei concetti perenni, espresso in modo più perfetto da Shankara) della identità ultima di Brahman e Maya, dove quest'ultima è l'aspetto creativo della prima ed è pertanto responsa­bile della molteplicità, che Brahman trascende completamente, ma in cui, ad un tempo, è totalmente immanente; Brahman, infatti, è la molteplicità nella sua trascendenza. Ora, secondo Vallin, Plotino tende verso l'affer­mazione dell'immanenza integrale dell'Uno, ma la tendenza non raggiun­ge affatto il suo scopo. Pertanto (sto qui semplificando un po' le categorie di Vallin), Plotino parla di due materie, la materia intelligibile e quella sensibile, mentre si sarebbe dovuto rendere conto che la materia sensibile non è differente dalla materia intelligibile, ma ne è semplicemente la conti­nuazione. In altri termini, il modo in cui Plotino parla della materia intel­ligibile tradisce la sua esitazione ad accettare il punto i vista di un'imma­nenza integrale. Sarebbe interessante sapere se Armstrong, Kristeller e la de Vogel 29 riconoscerebbero nel Plotino di Vallin il loro Plotino. Ritengo che Vallin abbia avvertito, in modo assolutamente corretto, la presenza in Plotino di una qualche incoerenza e che il termine (X1tttpov (&6pLinov) na­sconde questa incoerenza. Fino a questo punto io sono dalla parte di Val­lin piuttosto che da quella di Armstrong, di Kristeller e della de Vogel.

Forse, mi sarà permesso di porre ai rappresentanti della «filosofia pe­renne» (dei quali, attualmente, A. Huxley è forse il più famoso) una sem­plice domanda. Se è possibile dire che Brahman e Maya sono ultimamente identici (sebbene, naturalmente, si può egualmente dire che essi sono dif­ferenti, in quanto la filosofia perenne trascende il principio di contraddi­zione), in che modo possiamo spiegare che Brahman è ciò che è sempre na­scosto,mentre Maja è ciò che è sempre manifesto? Perché è la molteplicità ciò che noi abbiamo sempre trovato e l'unità (l'Uno) ciò che abbiamo sem­pre perduto? Perché degli opposti, che riteniamo che ultimamente coinci­dano, uno è onnipresente, l'altro del tutto nascosto? Perché è necessario uno sforzo (o una illuminazione) per vedere l'Uno nei molti, e non è neces­sario nessuno sforzo (o nessuna illuminazione) per vedere l'Uno nella sua dispersione? Perché abbiamo bisogno di maestri che ci insegnino l'Unità e non abbiamo bisogno di nessuno che ci insegni la molteplicità?

9. Loenen ha negato che ci sia mai stata una dottrina dell'Accademia, secondo la quale l'essere ed il non-essere sono i contrari ultimi da cui sono derivate tutte le cose esistenti. Sembra, pertanto, che i testi sui quali si fon­dava la mia affermazione non sono ben conosciuti come dovrebbero. Non mi sembra inappropriato citarli.

Metafisica, N 2, 1089 a 1-6 (cfr. sopra, p. 193):

29 Non mi è stato possibile utilizzare il suo Het monisme van Plotinus, «Al­gemeen Nederlands Tijdschrift voor Wijsbegeerte», 49 (1956/7), pp. 99-112.

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APPENDICE AL CAPITOLO V

t8oet yÒtp IXIJ'tOLç 1t<XV't' tata81XL tV 'tÒt OV'tlX, otÙ'tÒ 'tÒ ov, t[ l,LTI 'tLç ÀuatL XIXL òµ.6at ~IXOLtL'tlXL 't<t) Ilixpµ.tv(oou À6yep' aù yÒtp 1,LTj1tO'tt 'tOU'tO OIXl,LTI, ttvotL l,LT) t6v'tot', ixÀÀ' Òtv«"(XTJ ttvotL 'tÒ l,LT) òv ÒtiçotL O'tL t<J'tLV" OU'tW y<ip, tX 'tOU OV'tOç XIXL aÀÀou 'tLV6ç, 'tÒt OV'tlX tat­a8otL, t11toÀÀ& t<J'tLV (cfr. la critica di Aristotele, ibi. 9-19: 1tofov

T ' ,, .1. ., ' ' \ J.. ,, ,, ,, l , OUV 'tot OV'tlX 1t!;lV'tlX tV, tL 1,LT} 'tO fL'I OV t<J'totL; ...... t1ttL'tlX i:.X 1tOLOU J.. ,, \ " \ " 1 ( T ti \ J.. W l,L•1 OV'tOç XIXL OV'tOç 'tlX OV'tot; .... i:.X 1t0 OU OUV OV'tOç XIXL fL•I OV'tOç

1toÀÀÒt 'tÒt ov'tot;) e Metafisica, r 2, 1004b 7-8: 1t«v'tot &v&yt'totL t!ç \ M \ \ Ji ti 'tO OV XIXL 'tO fL'I OV.

Ecco la traduzione:

209

«Infatti essi ritennero che tutte le cose si sarebbero dovute ridurre ad un'unità, cioè all'essere in sé, se non si fosse risolta e confutata l'afferma­zione di Parmenide: ''infatti non riuscirai mai a far sì che il non essere sia'' e ritennero che fosse necessario mostrare che il non-essere è: in tal caso, in­fatti, gli esseri deriveranno dall'essere e da un qualcos'altro diverso dall'es­sere, se, appunto, sono molti» (cfr. la critica di Aristotele, ibi., 9-19: «In quale di questi significati tutti gli esseri si ridurranno ad unità, posto che il non-essere non esista?» ... «Da quale non-essere e da quale essere derive­ranno le molteplici cose che sono?» ... «Da quali generi di essere e di non­essere deriverà la molteplicità delle cose che sono?») e Metafisica, r 2, 1004 b 27-28: «Tutti i contrari si possono ricondurre all'essere o al non­essere».

10. Esiste una traduzione araba della Metafisica di Teofrasto. Parte di essa è stata tradotta e curata da D. S. Margoliouth, in: Remarks on the Arabic version of the Metaphysics of Theophratus (come parte del suo ar­ticolo The Book of the Appie, ascribed to Aristotle), «The Journal of the Royal Asiatic Society of Great Britain and lreland», 1892, pp. 192-201. Qui troviamo il passo che riveste un particolare interesse nel presente con­testo, ossia IX 32, p. 34, 16-36, 18 Rosse Fobes. Sembra che il traduttore arabo abbia lavorato su un testo diverso da quello ancora esistente in alcu­ni dei manoscritti elencati nell'edizione Rosse Fobes; anche questo testo, tuttavia, non era privo di corruzioni.

Ciononostante, due cose sembrano degne di nota: A. Il passo che secondo l'apparato di Rosse Fobes legge: ÒÀ(yov yàtp 'tL 'tÒ tµ.~uxov, ix1ttLpov oÈ 'tÒ ix~uxov xoti otÙ'twv 'twv

lµ.~uxwv ÒtxotpLotfov xoti ~ÉÀ'tLov 'tÒ ttvott, sembra che nella copia del tradut­tore leggesse: ... «1tttpov oÈ 'tÒ ix~uxov xoti otÙ'twv 't<a>v lµ.~uxwv xoti < wv > ~ÉÀ'ttov 'tÒ ttvott Òtxotptott < 't6np > ttç 'tÒ ttvott (ossia, ciò che è privo di ani­ma è pertanto inferiore rispetto a ciò che è dotato di anima; e l'esistenza di quest'ultimo è più preziosa, è in numero maggiore e giunge più velocemen­te all'esistenza).

B. Il passo che secondo l'edizione di Rosse Fobes legge nei nostri ma­noscritti: tt · xoti yÒtp o xotl yÒtp o tt yÒtp xotl o t1 xotl yÒtp, sembra che legges­se Òtµ.ix8ta't«'tou < av > tLT}" xotl ya.p. In questo senso, l'emendazione di Ross e Fobes, che ha sostituito l't[· xotl con t!xn, non trova supporto in questa versione.

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L'articolo di Margoliouth è giunto alla mia attenzione solo in connes­sione con il mio studio dei problemi posti dalla traduzione latina dello scritto dello ps. Aristotele De pomo. Questo studio è stato suscitato da M. Plezia, Aristotelis qui ferebaturliber De pomo, «Eos», 47 (1954, pubbli­cato nel 1956), pp. 191-217; rev. book ed. Warsaw 1960. Ancora più tardi trovai che R. Walzer lo aveva indicato nel suo articolo, New Light on the Arabic Translations of Aristotle, «Oriens», 6 (1953), pp. 91-142.

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VI. Un nuovo frammento di Aristotele

1. Quattro ragioni per sostenere la derivazione del cap. XXIII del «De communi mathematica scientia» dal «Protreptico» di Aristotele

Dobbiamo a Bywater (I. Bywater, On a Lost Dialogue of Aristotle, «Journal of Philology», 2 [1869), pp. 55-69; idem, Aristotle's Dialogue on Philosophy, ibi., 1 [1877), pp. 64-27) ed a Jaeger (W. Jaeger, Aristoteles [1955 2), pp. 60-80) il fatto che ampi passi contenuti nel Protreptico di Giamblico siano stati ri­conosciuti come citazioni tratte dal Protreptico di Aristotele. Nel complesso, queste citazioni 1 presentano l'uomo come un essere il cui vero destino è la contemplazione disinteressata della vera realtà per puro amore della contemplazione, e la filosofia come il modo in base al quale l'uomo può realizzare questo de­stino. Nello stesso tempo, due passi del cap. XXVI dell' /se. di Giamblico sono stati riconosciuti da Jaeger come due ulteriori citazioni tratte dalla stessa opera di Aristotele, piuttosto che dal­lo scritto Sulla filosofia, come aveva indicato Bywater; si tratta del cap. XXVI, p. 79, 1-81, 7 e p. 83, 6-22 F (frr. 52 e 53 Rose; Protrepticus, frr. 5 be 8, pp. 31-33 e 38 ss. Walzer). Questi due passi contengono molti riferimenti alle scienze matematiche. Il primo discute della geometria, della teoria musicale e dell'astro­nomia come esempi di scienze (puramente) teoretiche; il secon­do cita la geometria e 'tÒtç ixÀÀaç 1t!XtÒtlaç come scienze che han­no compiuto progressi prodigiosi in un tempo molto breve. Ri-

1 Esse sono facilmente accessibili in R. Walzer, Aristotelis dialogorumfrag­menta (1934). Vengono numerate nel modo seguente: Protrepticus, fr. 4; Sa(= fr.52 in V. Rose, Aristotelis ... fragmento (18861); fr. 6; fr. 7; fr. 9 ( = fr. 55 Rose); fr. IO a ( = fr. 59 Rose); fr. 106 ( = fr. 60 Rose); fr. IO c ( = fr. 61 Rose); fr. 11; fr. 12 ( = fr. 58 Rose); fr. 13-15. Si veda ora anche il voi. XII della traduzione di Ari­stotele da parte dell'Università di Oxford.

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suita pertanto immediatamente evidente che alcuni dei temi di­scussi da Aristotele nel suo Protreptico erano in realtà in un rap­porto molto stretto con il tema di /se. 2 È naturale, pertanto, supporre sin dall'inizio che, oltre a quanto abbiamo sopra cita­to, /se. contenga alcune altre citazioni tratte dal Pro/replico di Aristotele.

Se esaminiamo /se. in questa prospettiva, è il cap. XXIII (p. 70, 1-74, 6 F) che richiama immediatamente la nostra atten­zione. Questo capitolo contiene quattro idee principali. La pri­ma è che il filosofo è soprattutto un contemplatore; la seconda è che ogni forma di conoscenza teoretica (contemplativa) è desi­derabile per se stessa ed è superiore alla conoscenza pratica; la terza è che la matematica è una conoscenza teoretica par excel­lence, che appartiene alle scienze liberali ed eminentemente filo­sofiche; la quarta è che, detto incidentalmente, la matematica è di grande aiuto alle altre branche della conoscenza, sia pratica che teoretica. È facile rilevare che queste idee, in particolar mo-

. do le prime tre, sono strettamente connesse con il contenuto dei passi del Protreptico sopra citati. Quanto strettamente lo si può vedere meglio da un confronto con il cap. XXVI (p. 79, 1-84, 20 F). In questo capitolo, che contiene due passi che appartengono al Protreptico di Aristotele, Aristotele cita ripetutamente gli av­versari della filosofia considerata come scienza puramente teo­retica, e delle altre branche del sapere teoretico come la geome­tria, la teoria musicale, e l'astronomia.

Questi avversari affermano che le suddette discipline (inclu­sa la «fisica», ossia la filosofia della natura) sono inutili e non arrecano nessun contributo alla vita, o, per essere più precisi, al­le attività della vita, o al suo fine ultimo che consiste nella frui­zione attiva del bene e delle cose utili. Anzi, la conoscenza pro­fonda di queste scienze teoretiche danneggia l'allievo. Se egli per caso fosse un musicista esperto empiricamente, la conoscenza della teoria musicale (il passaggio della sua lµ1tupfot in yvwaL;) lo renderebbe immediatamente peggiore 3• L'uomo fornito di

2 Cfr. A. J. Festugière, La Révélation d'Hermès Trismégiste, 4 voli., voi. Il (1949), pp. 226 ss.

3 Per apprezzare questa polemica dovremmo considerare ciò che molti arti­sti creativi direbbero contro l'opportunità di studiare da parte di un futuro artista l'estetica, la filosofia dell'arte, talvolta anche la storia dell'arte.

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un'educazione pratica e dotato di senso comune (questo è il mo­do in cui si potrebbe parafrasare l'espressione o 8oçixtwv òp9wi;) è di gran lunga superiore all'uomo di teoria.

Per descrivere la scienza teoretica, gli avversari usano ter­mini come &1t68&LçLi; 9twpTJ'tLXT}, &1t68&LçLi;, cruÀÀoyLaµ6i;, À6yoi;. Questi termini mostrano chiaramente che il tipo di filosofia che è il bersaglio delle loro critiche è una filosofia costruita sul mo­dello della geometria.

Ora, dovremmo certamente supporre che Aristotele abbia risposto a queste critiche nei confronti di una filosofia «mate­matizzante» e di una matematica teoretica. Ed è proprio il cap. XXIII di /se. che viene incontro a questa supposizione. Lo si ve­drà ancora meglio dall'analisi del cap. XXIII che presenteremo fra poco; ma, anche senza una tale analisi dettagliata, non è dif­ficile rendersi conto che le cose stanno in questo modo. Difatti, è piuttosto difficile comprendere come il cap. XXIII potrebbe non derivare dal Protreptieo di Aristotele, se vi deriva il cap. XXVI. Ed è difficile trascurare la somiglianza fra il cap. XXIII di /se. ed i capitoli VI e X del Protreptieo di Giamblico - due capitoli che contengono citazioni tratte dal Protreptieo di Ari­stotele (fr. 5 e 13 Walzer). La differenza principale sembra con­sistere nel fatto che, nei capitoli del suo Protreptieo, Giamblico ha citato i passi di Aristotele rivolti principalmente ad una dife­sa della filosofia teoretica (contemplativa, matematizzante), mentre in /se. egli ha utilizzato la difesa aristotelica delle bran­che della conoscenza contemplativa diverse dalla filosofia, ossia la scienza matematica, essendo una tale difesa resa necessaria dalle critiche citate da Aristotele.

Ma c'è un altro motivo per assegnare il cap. XXIII di /se. ad Aristotele. Nel passo che dimostra l'alto valore della mate.:. matica, Aristotele spiega perché la matematica sia una scienza pregevole. La stessa ragione per cui una scienza è preferibile (è migliore di) ad un'altra, rende qualsiasi scienza pregevole. Ecco il testo:

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/se., cap. XXIII, p. 72, 8 F otlpou1-1-t81X 8& l-ttplXV 1tpò td­

p1Xt;; ~ 8LÒt 'tT}V OtÙnjç Òtxp(~tLIXV ~ 8LÒt 'tÒ ~tÀ 'tL6vwv XIXL 'tLIJ.LCù'ttpwv t!vlXL 8twpTJ'tLXTjV. wv 'tÒ IJ.&V [esattezza] a1t1XV'ttt;; CJU)"XCùpTjatLIXV < èxv > T)IJ.LV 8L1Xq>6pw,;; ud.pxuv 'tlXLt;; 1J,1X8T}­IJ.Ot'tLXIXLt;; 'tWV tma'tT}IJ.WV 'tÒ 8' [ha come suo oggetto ciò che è miglio­re e più eccellente] oaoL 'tlXLt;; IJ.&V ÒtpXIXLt;; 'tOLt;; 1tpW'tOLt;; 'tT}V tlpTj!J.tVT}V 1tpot8p(1Xv Òt1tovl1-1-ouaw, ÒtpL81J,o'i',;; 8& XIXL )"plXIJ.IJ.IXLt;; XIXL 'tOtLt;; 'tOU'tCùV 1t&8taLv olxt(IXv u1toÀ1X!J.~1Xvouaw tTVIXL 'tT}V ti'j,;; ÒtpXijt;; cpuaLV •.• [ossia, la matematica riguarda cer­tamente ciò che è più eccellente, in quanto i primi principi sono consi­derati come la realtà più eccellen­te, ed i numeri, le linee, e le loro proprietà sono in rapporto con, o sono della stessa natura del princi­pio] 4•

DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Aristotele, De anima, l, 1, 402 al Twv XIXÀWV XIXL 'tLIJ.(Cùv 'tT}V

tLÒT}aLv u1toÀ0t!J.~&vovn,;;, !J.&ÀÀov 8' t'ttp!Xv É'ttp1Xt;; ~ XIX't' &xp(~tLIXV ~ 't~ ~tÀ 'tL6vwv 'tt XIXL 81XU1J.1XaLw­'ttpwv tTVIXL, 81' Òt!J.q>6'ttp1X 'tlXU'tlX 'tT}V 7ttpi ti'j,;; ~uxij,;; La'tOp(IXv tÙ· À6-yw,;; &v lv 1tpW'tOLt;; 'tL8t(T}!J.tV. Ed ecco la traduzione:

«Poiché riteniamo il sapere tra le cose belle e pregevoli e una specie più di un'altra o in rapporto all'esattezza o per esserne l'ogget­to più importante ed eccellente, per questi due motivi dovremo mettere ragionevolmente in primo piano l'indagine intorno al­l'anima».

2. Il contenuto generale del cap. XXIII del «De communi ma­thematica scientia»

Pertanto, scopriamo in /se. quasi una citazione letterale tratta dal De anima di Aristotele. Questo dovrebbe dissipare tut­ti i dubbi. Sembra che il cap. XXIII di /se. sia o una serie di cita­zioni o un'unica citazione di Aristotele. L'Aristotele che viene citato è uno che crede nella superiorità della vita teoretica (su questo ideale si veda A.J. Festugière, La Révélation d'Hermès Trismégiste, voi. II [1949], pp. 168-175) e delle scienze teoreti­che; è anche uno che crede nel valore dell'esattezza (&xp(~uoc) e

4 Traduzione: «Noi preferiamo una scienza ad un'altra o per la sua esattez­za o perché gli oggetti della sua speculazione sono migliori e più eccellenti. Ora, chiunque ammetterà che di queste due [qualità], la prima appartiene, fra le scienze, alla scienza matematica. Per quanto concerne la seconda, ammetteranno ciò coloro che accorderanno il detto posto d'onore ai primi principi ed ammetteranno che la natura del principio è affine a numeri, linee, e alle loro proprietà».

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pertanto è un ammiratore della matematica 5; è uno che crede nello straordinario valore dell'oggetto della contemplazione ma­tematica, ed è per queste ragioni convinto che la matematica e la filosofia siano strettamente connesse. Egli è convinto che la ma­tematica abbia anche un valore pratico, ma non è in questo che consiste il suo vero valore; la matematica è pregevole per il suo valore intrinseco. Inoltre, la matematica costituisce un enorme ausilio anche per le altre scienze più o meno teoretiche. Un rile­vante esempio è l'astronomia, il cui oggetto è il più elevato di tutti gli oggetti della conoscenza sensibile. Ed i Pitagorici vengo­no lodati per aver interpretato la matematica proprio in questo modo, ossia come una disciplina liberale, teoretica, che trascen­de la sua utilizzazione pratica. La qualità più rilevante di un in­telletto liberale è il suo interesse per la teoria scelta per sé: que­sto interesse è eminentemente soddisfatto dallo studio della ma­tematica.

Chi è questo Aristotele? Dopo l'indagine di Jaeger la rispo­sta è molto facile. È l'autore del Protreptieo. Difatti, l'esposi­zione del contenuto del Protreptieo compiuta da Jaeger (spec. W. Jaeger, Aristoteles [1955 2], pp. 71 ss., 80-83, 86-102; Aristo­tle [1948 2], pp. 431-440) sembra un commentario al cap. XXIII di /se., sebbene Jaeger non citi mai questo capitolo. Infatti, la sua affermazione, secondo la quale nel Teeteto troviamo una al­leanza fra la filosofia e la matematica, sembra quasi una tradu­zione del 'tTl"' ÒÈ m.pt 'tCX µ0t8~µ0t't0t 0Ewp(ocv olxE(ocv xoct au11Ev~ qaÀoaocp(~ [scii.: ELV0tL] (p. 73, 16 F). C'è solo una osservazione da aggiungere: mentre Jaeger pone in rilievo tutti i passi che sembrano dimostrare che al tempo del suo Protreptieo Aristote­le accettava ancora la teoria delle Idee, si dovrebbe porre in rilie­vo anche la frase nella quale lo Stagirita afferma che ogni bran­ca della scienza matematica ha come suo oggetto una specifica cpuaL~, che costituisce una chiara prova del fatto che Aristotele scrive come un realista matematico (/se., cap. XXIII, p. 73, 5-9 F).

5 Il termine à;xp(~&tcx in Aristotele si riferisce, nella maggior parte dei casi, al metodo. Ma, sarebbe strano se questo termine, quando viene usato per caratteriz­zare la teologia o la matematica filosofica, non avesse la connotazione di «concer­nente gli &xpcx», ossia se non si riferisse sia al metodo che all'oggetto. Si è quasi ten­tati di tradurre il termine étxp0t con ciò che è esatto e principio «al massimo grado».

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Ma c'è ancora un altro problema connesso con il capitolo in questione.

3. Possibilità che Aristotele, anche nel «De anima», consideri ancora l'anima come un 'entità matematica

È strano che lo stesso pensiero con il quale nel Protreptico veniva dimostrata la superiorità della matematica venga usato nel De anima per dimostrare la superiorità della psicologia. È tuttavia ancora più strano che il De anima lodi la psicologia a motivo della sua esattezza 6• Difatti, secondo l'Index Hicks (R.D. Hicks, Aristotle De anima [1907)), il termine iixp(~u~ ri­corre nel De anima una sola volta. Nelle 117 righe Teubner, che costituiscono il cap. XXIII di /se., i termini «esattezza» ed «esatto» ricorrono sei volte; il termine ix1t68uçLç, strettamente collegato con essi, altre sette volte. Nei frammenti del Protrepti­co di Aristotele conservati nei capitoli VI, VII, VIII, X, XI, il termine «esattezza» ed i suoi derivati ricorrono sette volte (pp. 29 ss., 35, 43, 54, 57 Walzer); il che, detto incidentalmente, co­stituisce un'ulteriore prova del fatto che anche il cap. XXIII di /se. deriva dal Protreptico di Aristotele. E non è possibile alcun dubbio sul fatto che, mentre il termine iixp(~u~ è perfettamente coerente all'interno di una apologia della matematica, esso non ha alcun senso all'interno di una apologia (o eulogia) della psi­cologia, prescindendo dal fatto se esso designi la maggiore esat­tezza della prova o la semplicità e l'astrattezza dell'oggetto, pa­ce Hicks, ad. /oc. (pp. 174 ss.). Sembra, pertanto, che i termini decisivi vengano citati da Giamblico traendoli dal loro contesto originario. Lo stesso Aristotele usa questi termini nel De anima in un modo puramente retorico, come un'eco delle sue prime

6 La inappropriatezza di questa lode rende il passo un ostacolo praticamen­te in tutti i commentari di Aristotele. È sorprendente che anche Pomponazzi discu­ta ancora il problema del perché la psicologia dovrebbe essere descritta come una scienza «esatta» (si veda L. Ferri, Intorno alle dottrine psicologiche di Pietro Pom­ponazzi, «Atti della R. Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di Scienze Mo­rali, Storiche e Filologiche», Serie Il, voi. Ili (1875-76), pp. 338-548, spec. 424 ss.), anche F. A. Trendelenburg (Aristotelis De anima (1877 2), pp. 155 ss.) discute an­cora di questo problema. Per tagliare questo nodo gordiano, P. Siwek, Aristotelis De anima libri tres, 3 voli. (1943, 1945, 1946 3), traduce &.x(~u0t con inquisitio sub­tilior (cfr. la sua nota ad. /oc.).

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opere; oppure, quando egli ha iniziato a scrivere il De anima considerava ancora l'anima come un'entità matematica e, per­tanto, la psicologia come una disciplina matematica e quindi «esatta» (proprio come il passo di De anima, II 3,414 b 28, cita­to a p. 108, potrebbe essere un altro residuo di questo matemati­cismo psicologico), di guisa che ha ripetuto della psicologia quanto di essa aveva affermato in un altro scritto, nel quale il carattere matematico dell'anima veniva pienamente accettato. Ma, in un caso o nell'altro, è improbabile che Giamblico abbia tratto la citazione dal De anima. Supporre questo sarebbe come affermare che egli ha ripreso questi termini proprio per ricom­porli in un contesto più appropriato. Sebbene questo non sia im­possibile, non è neppure molto probabile.

Ma, una volta divenuti consapevoli di quanto questi termi­ni siano inappropriati nel contesto del De anima, dovremmo es­sere portati a chiedere: questi termini sono stati realmente usati da Aristotele? Una semplice occhiata all'apparato di Biehl-A­pelt (Aristoteles De anima, ed. G. Biehl, O. Apelt [1926 31) rivela che le parole che vanno da µ&ÀÀov ad eivoCL (p. 121), secondo Fi­lopono (In Aristotelis De anima, p. 24, 7-13 Hayduck), veniva­no considerate spurie da Alessandro. Non sappiamo in che mo­do Alessandro dimostrasse la sua affermazione, secondo la qua­le queste parole provenivano tçw8tv e xix-rÒt 1tpoa8~x71v; le ragio­ni addotte da Filopono ( «se Alessandro avesse riconosciuto il passo come autentico, sarebbe stato costretto ad ammettere l'immaterialità e l'immortalità dell'anima») non sono evidente­mente proprie di Alessandro. Ma è forse troppo supporre che Alessandro non abbia letto queste parole nel manoscritto di Ari­stotele, o che vi abbia trovato qualche annotazione che indicava che, sebbene scritte da Aristotele, esse successivamente erano state da lui cancellate, o che erano state inserite a margine da qualcuno che le aveva citate dal Protreptico? In ogni caso, e qualunque alternativa accettiamo, la testimonianza di Alessan­dro non fa che rivelare ciò che dovrebbe essere evidente: le paro­le in questione sono fuori luogo nel De anima.

C'è ancora un altro passo in Aristotele che è parallelo ai passi del De anima e del Protreptico. Si tratta di Topici, VIII 1, 157 a 9, dove leggiamo: «una scienza è migliore di un'altra scienza o per il fatto di essere più rigorosa, o per il fatto di rivol-

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gersi ad oggetti migliori» (Èma-tT)IJ.TJ lma-tTj!J.TJt; ~tÀ·tlwv ~ -.~ ÒtxpL~ta-.Épa t!vaL ~ -.~ ~tÀ'tLovwv). Inoltre, «le scienze si divido­no in speculative, pratiche e produttive» (-.wv Èma'tT}µwv a{ µtv 0twpTJ'tLxat a{ 8t 1tpax'tLXaL a{ 8t 1tOLTJ'tLxa() - dove queste parole sono un esempio di una 8La(pto-Lç -.wv O"UT(tvwv.

Non è piuttosto evidente che Aristotele ha desunto questo esempio dal suo Protreptico? In quest'opera, la superiorità della conoscenza teoretica su quella pratica veniva dimostrata ponen­do in rilievo il fatto che la prima ha le qualità sia del ~tÀ 'tLovwv t!vaL, sia della maggiore Òtxp(~tLa. È interessante confrontare ciò con Metafisica, E 1, 1026 a 27, e con K 7, 1064 b 4. Qui, né lo status degli enti matematici, né quello della scienza matematica sono quelli soliti. Di conseguenza, la superiorità della teologia non viene più dimostrata mediante la sua Òtxp(~&La; ora è sola­mente il -.wv ~tÀ'tLovwv t!voh che viene attribuito alla teologia. In Metafisica, A 2 (che è più vicino al Protreptico), d'altro lato, l'esattezza viene attribuita alla teologia (982 a 13, 25; cfr. Etica Nicomachea, VI 7, 1141 a 16).

Sino a che punto questo nuovo frammento accresce la no­stra conoscenza di Aristotele? Ciò che vi è di realmente nuovo è la grande ed esplicita considerazione di Aristotele per la scienza matematica. Questo, naturalmente, non dovrebbe essere sor­prendente. Quando era un membro a pieno titolo dell'Accade­mia, Aristotele ne deve aver condiviso le opinioni anche per quanto riguarda la matematica. Ed i suoi scritti sono pieni di esempi tratti dalla matematica, per illustrare i metodi scientifici (cfr. R. Eucken, Die Methode der aristotelischen Forschung [1872], pp. 56-66; F. Solmsen, Die Entwicklung der aristoteli­schen Logik und Rethorik [1929], pp. 80 ss.). Il nuovo fram­mento non fa che confermare quanto si sarebbe potuto suppor­re. Nondimeno, è notevole il fatto che la conoscenza matemati­ca venga esplicitamente descritta come un modello di conoscen­za scientifica; nuova è l'affermazione che la matematica ha aiu­tato l'uomo a superare le moltre credenze errate che traggono la loro origine dalla [osservazione delle] apparenze (cfr. Platone, Repubblica, X 602 D); nuova è l'affermazione, secondo la quale la matematica è la via più facile per giungere alla contemplazio­ne, in quanto la conoscenza matematica può essere acquisita

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senza la base della conoscenza empirica dei particolari, e, per­tanto, può essere acquisita nei primi anni di vita 7 • Quest'ultima affermazione costituisce un importante complemento alla dot­trina secondo la quale la scienza politica non può essere studiata con profitto dai giovani (Etica Nicomachea, I 1, 1095 a 2). No­tevole, inoltre, è anche il modo in cui l'astronomia viene posta in rapporto con la matematica.

Anche il passo di Etica Nicomachea, VI 9, 1142 a 17-30 -un libro che riflette stranamente l'esitante fedeltà di Aristotele agli ideali di saggezza, di esattezza, ecc. 8 - è significativo: la matematica (fondata sulla <X(9otCptati;) viene ancora descritta co­me accessibile al giovane non esperto, mentre la fisica e la teolo­gia si fondano sull'esperienza (e pertanto possono essere studia­te solo successivamente). Ma, evidentemente, questo non ha più il significato di un complimento rivolto alla matematica.

Più notevole è l'affermazione secondo la quale «il princi­pio» è simile agli enti matematici. Si tratta, forse, del passo più accademico dell'intero frammento. Difatti, deve esserci stato un periodo in cui lo stesso Aristotele è stato sul punto di convertire la filosofia in matematica (Metafisica, A 9, 992 a 32).

4. Analisi dettagliata del cap. XXIII del «De communi mathe­matica scientia».

Dobbiamo supporre che l'intero cap. XXIII derivi verba­tim dal Protreptico? Potrebbe essere, con la sola possibile

7 Nella sua polemica contro Jaeger, H. G. Gadamer (Der aristotelische Pro­treptikos und die entwicklungsgeschichtliche Betrachtung der aristotelischen Ethik, «Hermes», 63 (1928), pp. 138-164, spec. 159) ha cercato di dimostrare che il conte­nuto del Protreptico era su un livello pre-sistematico e, pertanto, non era né speci­ficatamente aristotelico, né specificatamente platonico. Il nuovo frammento dimo­stra che Gadamer aveva probabilmente torto. Aristotele ha intrecciato nel suo Pro­treptico alcune dottrine altamente tecniche e specificatamente accademiche, sebbe­ne ciò non fosse necessariamente evidente. Un eccellente esempio di come ciò può essere fatto ce lo offre un discorso pronunciato da Bergson nel 1895 (H. Bergson, Le Bon sens et /es études c/assiques (1947)). Questo discorso contiene in nuce l'inte­ro sistema di Bergson, ma un profano neppure lo sospetterebbe. È molto divertente vedere che Bergson, nel descrivere la sua caratteristica dottrina dell'intuizione, de­finisce l'intuizione come «senso comune». Può darsi che Aristotele abbia usato, con un effetto simile, il termine (pp6v710-t~ per nascondere una dottrina difficile e controversa dietro un termine semplice e non tecnico.

8 Su questa esitazione, si veda L. G. Greenwood, Aristotle. Nicomachean

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eccezione di uno o due righe all'inizio ed alla fine del capitolo. Questa è la tecnica usata nel cap. VI di /se., che consiste in una serie di citazioni tratte da Platone. Non dobbiamo dimenticare che l'intero Protreptico di Giamblico consiste semplicemente in una serie di tacite citazioni tratte da Platone, da Aristotele, ecc. Ma questo non significa che il cap. XXIII presenti le parole di Aristotele nel loro ordine originario. Nel cap. VI di /se. trovia­mo le citazioni di Platone ordinate nel modo seguente:

Epinomide, 991 D-992 B; 991 B-C; 986 C-D; Repubblica, 537 C (5-9); 537 D (separate) 9-13; 536 B; 527 D-E; 521 C-D; 523 A-532 D. Come si vede, Giamblico non si preoccupa di saltare avanti ed indietro.

Troviamo un sorprendente esempio di questo metodo a p. 21, 20 F.

Nell' Epinomide leggiamo:

Ilpòç 'tOU'tOLç Òt -.ò xa8' iv -.4"> xa-.' tlOTJ 1tpoa0tx-.fo11 lv lxixa't0tLç 't0t'rç O'U\IOUO"LOtLç tpCù'tWll'tlX 'te. XOtL D..l-yxo\l't(X 'tÒt µ.~ XOtÀwç pTj8t11-'tOt (991 C).

Giamblico non fa altro che separare questa frase in due parti. Dopo lv É.xacrtotLç, egli sostituisce l'espressione 'tottç auvou­a(ocLç con 'tottç 'tWV µoc87Jµa'twv dò~aemv, aggiungendo le parole lwç av lçe.upwµe.v 'tÒv oÀov x6aµov, e prosegue separando in due parti una frase di Epinomide, 986 C, e copiandone l'ultima par­te; e questo in realtà è il trionfo del metodo che consiste nella mera compilazione che utilizza i ritagli di altri scritti.

Ciò che troviamo nel cap. VI possiamo supporre che sia presente anche nel cap. XXIII. Gli originali tasselli che compon­gono il cap. XXIII sembrano essere questi:

1. P. 70, 1-7 F. In questa sezione (che forse appartiene a Giamblico) troviamo la promessa di dimostrare che Pitagora 9

ha considerato la matematica come parte dell'educazione libera­le, che l'ha fatta progredire quantitativamente e qualitativamen-

Ethics Book six (1909), p. 84; E. Kapp, Das Verhiiltnis der eudemischen zur niko­machischen Ethik (1912), pp. 48-53.

9 Non ci si dovrebbe sorprendere di trovare citato Protagora. In Giamblico, Protrepticus, cap. IX, p. 49, 3-52, 16 Pistelli (= Protrepticus, fr. 11, pp. 49 ss. Walzer) troviamo che Pitagora viene lodato come il creatore dell'ideale di una vita teoretica.

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te, e che l'ha perseguita al di là del suo aspetto pratico. Ma ciò che viene dopo non adduce la prova promessa. Invece, troviamo quanto segue:

2. P. 70, 7-16 F. In questa sezione viene lodata la matemati­ca per tre ragioni. È l'archetipo della conoscenza scientifica; ri­vela la sua capacità nel modo in cui conduce la dimostrazione 10;

corregge molte credenze errate. 3. P. 70, 16-21 F. La matematica è la prima iniziazione a

quella visione liberale che si addice ad un filosofo. L'uomo di mentalità liberale esiste per se stesso; egli, pertanto, gioisce delle cose che sono per se stesse. In altri termini, la teoria è il modo di vita più appropriato per un tale uomo. Qui il testo è corrotto e il passaggio non è chiaro. Quanto segue sembra riprendere la pri­ma idea della presente sezione (la matematica come prima ini­ziazione).

4. p. 70, 21- 26 F. [La matematica insieme con le altre] di­scipline teoretiche può essere insegnata nei primi anni [in quanto non necessita di una induzione fondata sulla acquisizione di fat­ti particolari].

5. P. 70, 26-71, 15 F. Sembra che questa sezione ritorni al punto 3; il filosofo è di mentalità liberale, in quanto desidera co­noscere ciò che è prezioso per se stesso ( ossia, una realtà tanto autosufficiente quanto lo è egli stesso). In ogni caso, viene re­spinta l'interpretazione utilitaristica (non-liberale) della mate­matica. Le discipline in vista delle quali viene raccomandata la matematica dagli utilitaristi sono inferi ori alla matematica, me­no vicine alla verità, e molto meno esatte.

6. P. 71, 16-24 F. Qui viene introdotta un'idea del tutto nuova: l'utilità della matematica, anche nelle discipline prati­che, e la matematica come una forza che forma il carattere.

7. P. 71, 24-26 F. Il contributo della matematica alla per­fezione.

10 .6tix -.ii>11 o!xe.lw11 À6yw11; il termine o!xtioç, in questo contesto, è forse un termine accademico. Nel suo lyxwµto11 (fr. 673 Rose), Aristotele lodava Platone per aver dimostrato la coincidenza di virtù e felicità o!xtC<i> ~(ci>, Sul termine o!­xtio11, cfr. F. Dirlmeier, Die Oikeiosis-Lehre Theophrasts (1937), con gli articoli di Ph. Merlan, «Philologische Wochenschrift», 58 (1938), pp. 177-182, e di O. Re­genbogen, Theophrastos, in: Pauly-Wissowa, Realencyclopiidie, Suppi. VII (1940).

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8. P. 71, 26-72, 2 F. In accordo con il punto 5, il passo ci ri­corda che si dovrebbe provar piacere nella matematica conside­rata per se stessa.

9. P. 72, 2-16 F. Questa citazione contiene una sola idea: la prova che la matematica è superiore alle altre discipline a moti­vo del suo metodo (l'esattezza) e del suo oggetto (che è in stretto rapporto con i primi principi).

10. P. 72, 16-72, 20 F. Astronomia e matematica. 11. P. 72, 20-73, 3 F. Questa sezione sembra che sia in rela­

zione con il punto 3. Il filosofo si interessa del vero; egli, pertan­to, si interesserà della matematica considerata per se stessa, in quanto la matematica partecipa della verità più sublime e pos­siede il metodo più esatto.

12. P. 73, 3-17 F. La matematica ha tutte le qualità che esi­giamo da una conoscenza che sia desiderabile per se stessa, per quanto riguarda l'oggetto ed il metodo. Possiamo pertanto af­fermare con sicurezza che la vita filosofica ha il suo fine in se stessa, e che la teoria matematica è compagna di casa della filo­sofia ed è ad essa affine.

13. P. 73, 17-74, 5 F. Questa sezione descrive il modo in cui i Pitagorici hanno praticato la matematica, culminante nella lo­ro astronomia teologico-matematica. Potrebbe darsi che questo sia uno dei soliti sommari stilati dallo stesso Giamblico.

5. Alcune osservazioni linguistiche sul cap. XXIII del «De com­muni mathematica scientia».

Il capitolo rivela molte peculiarità linguistiche. Abbiamo già citato l'uso frequente dell'optativus urbanitatis, così come l'uso particolare dei termini olxtrov (13 volte), &xpC~ua e &1t6-Òttçtç (pp. 120; 145). Il termine 1tapa.µtÀÀoç (p. 71, 11 F) non ri­corre in Aristotele secondo l' Index Bonitz; ma il termine cxµtÀÀcx compare in Retorica, I 11, 1371 a 6, proprio nello stesso signifi­cato. <l>tÀo9ta.µwv (p. 72, 25 F) non ricorre in Aristotele, secon­do l 'Index Bonitz; ma, in alcuni manoscritti della Etica Nicoma­chea, I 9, 1099 a 9-10, cptÀo9ta.µwv compare al posto di cptÀo9l­wpoç. Il termine 1tÀota't6ç (p. 73, 1 F) non ricorre in Aristotele se­condo l' Index Bonitz; ma esso compare (ed è elencato in Lid-

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dell-Scott) nei Meteorologica, IV 9, 386 a 27. Nell'ultima sezio­ne del cap. XXIII compaiono due altri termini, che non sono elencati nell'Index Bonitz, ossia 9toÀoyL)cwç (p. 74, 4 F) ed (XG'tpovoµ&tv (ibid.). In Aristotele troviamo delle parole che han­no la stessa origine del primo di questi termini (per quanto con­cerne il problema che il termine 9toÀo1Lxwç comporta, si veda W. Jaeger, The Theology of the Early Greek Philosophers [1947], pp. 4-7; 194, n. 17; A.J. Festugière, La Révélation d'Hermès Trismégiste, 4 voll., vol. II [1949], pp. 598-605; V. Goldschmidt, Théologia, «Revue des Études grecques», 63 [1950], pp. 20-42). Il secondo termine compare in Platone, ma in Aristotele troviamo, secondo l' Index Bonitz, un solo termine che ha la sua stessa origine, ossia nei Problemata. Ma si dovreb­be anche notare che questi due termini compaiono in quella se­zione del capitolo che può essere attribuita ad Aristotele con mi­nor certezza rispetto a tutto il resto del capitolo.

Se volessimo fare un paragone, dovremmo anche notare che nei passi di Giamblico, che Jaeger ha riconosciuto come de­rivanti dal Protreptico di Aristotele, i termini (XVUO'LfLoç, (XXwÀu­'toç, O"'tOtO'LW'tT)ç, (X<pUo-Lxoç (questi ultimi due sono presenti in Se­sto Empirico, Adversus mathematicos, X 46), sono delle ag­giunte al vocabolario di Aristotele quale ci era precedentemente noto.

Se ricordiamo il metodo usato da Giamblico per mettere in­sieme il cap. VI di /se., non dovremmo attribuire nessuna cer­tezza all'analisi del cap. XXIII che sopra abbiamo tentato. Ma, a dispetto di tutti i tagli ed i riaggiustamenti che Giamblico può essersi permesso, una cosa emerge con chiarezza: l'intero capi­tolo è dedicato all'interpretazione ed alla difesa della filosofia come conoscenza puramente teoretica e ad un'interpretazione della matematica come una disciplina altamente filosofica, che esige anch'essa di essere studiata per se stessa come una scienza teoretica. E lo si deve ripetere: a proposito di questo capitolo non può esserci un miglior commento di quanto J aeger ha detto riguardo al Protreptico e all'ideale di una vita teoretica.

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6. Il diverso atteggiamento di Isocrate e di Aristotele nei con­fronti della matematica

Per completare l'interpretazione dell'atteggiamento di Ari­stotele verso la matematica vale la pena esaminare alcuni passi di Isocrate 11 • Mentre Aristotele raccomanda la matematica co­me una prima iniziazione ad una vita teoretica, Isocrate ritiene che la matematica sia un buon studio per i giovani in quanto li tiene lontani dai fastidi (Panathenaica, 27). Mentre nel Pro­treptico la matematica viene considerata come una parte della filosofia, Isocrate nega esplicitamente che essa sia uno studio fi­losofico (intendendo per filosofia proprio ciò che gli avversari di Aristotele, che egli cita nel Protreptico, intendevano; si veda so­pra p. 212); essa ha un valore meramente propedeutico ed è sul­lo stesso livello delle materie di insegnamento più elementari (Antidosi, pp. 266-269). Ed infine, apprezzeremo meglio la lode che Aristotele fa della &xp(~t~a, se non dimentichiamo l'opinio­ne di Isocrate: è più importante avere una inesatta conoscenza delle cose utili, che un'esatta conoscenza delle cose inutili (Ele­na, 5) 12• Difatti, il nuovo frammento di Aristotele è un eccellen­te esempio della ben nota rivalità 13 fra i due sistemi educativi 14•

11 Cfr. la Introduzione di G. Norlin alla edizione Loeb di Isocrate, voi. I (1928), pp. XXIII-XXVIII.

12 Cfr. W. Jaeger, Paideia, voi. III (1944), p. 68. Ho trattato di alcuni aspetti dei rapporti fra Isocrate ed Aristotele nel mio articolo: Jsocrates, Aristotle, and Alexander the Great, «Historia», 3 (1954), pp. 60-81.

13 Cfr. P. Moraux, Les listes anciennes des ouvrages d'Aristote (1951), pp. 34 ss.

14 Pertanto, ritengo che l'esposizione fatta da A. Burk, Die Piidagogik des Jsokrates (1923), pp. 137-140, in cui l'atteggiamento di Isocrate verso la matemati­ca viene confrontato solamente con quello di Platone, trascurando completamente Aristotele, necessiti di alcune aggiunte. È caratteristico che, come gli elementi pla­tonici presenti nell'etica di Aristotele rivelano un apprezzamento delle virtù «eti­che» (come contrapposte alle virtù dianoetiche), la differenza fra gli ideali di Ari­stotele e di Isocrate diviene considerevolmente più piccola (cfr. P. Shorey, /socra­tes, nella Encyclopaedia Hastings, VII (1924]; la stessa cosa sembra essere vera per quanto concerne il ruolo della matematica nella educazione: E. Drerup, Der Hu­manismus (1934), pp. 152 ss.; cfr. 134 ss.; particolarmente interessante è un con­fronto fra Panathenaicus, 30-32, in cui Isocrate espone il suo ideale, e gli ideali del­la Etica Nicomachea; cfr. H. Gomperz, /sokrates und die Sokratik, «Wiener Stu­dien», 28 (1906], pp. 1-42, spec. p. 20). Per quanto concerne l'influenza di Isocrate sugli ideali politici di Aristotele, si veda G. Mathieu, Les ldées politiques d'Isocrate (1925), pp. 186 ss. Cfr. anche H. I. Marrou, Histoire de l'éducation dans l'antiqui-

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7. Conclusioni

Le ragioni addotte da Aristotele a favore dello studio della matematica sono di grande rilievo, in particolare quando esse pongono in evidenza il carattere liberale di questo studio ed il fatto che, trattando dei numeri, delle linee, e dei loro rapporti, la matematica è il più vicino possibile al principio supremo del-1' essere e pertanto alla filosofia. Ancora una volta siamo rinviati alla origine del quadrivium. Ancora una volta risulta evidente che la matematica (quadripartita), che è l'oggetto del quadri­vium, originariamente non è uno studio elementare, ma una scienza altamente filosofica. Essa ha il meraviglioso vantaggio che, essendo non-induttiva, può essere insegnata nei primi anni, ed è sin dall'inizio una disciplina in stretto rapporto con la filo­sofia e con il suo oggetto, i principi ultimi dell'essere. Solo con l'ausilio del frammento del Protreptico recentemente scoperto possiamo apprezzare pienamente la tripartizione aristotelica della conoscenza speculativa, che accorda alla matematica una posizione così elevata nella gerarchia del sapere. I corrispettivi passi della Metafisica non risultano più isolati all'interno del corpus aristotelico. Ma, nello stesso tempo, risulta chiaro che ciò che Aristotele intende per matematica, quando egli ne parla come di una delle tre branche della conoscenza teoretica, è la matematica platonica. Ed anche il passo di Proclo, esaminato nel precedente capitolo, ed attribuito ad Aristotele, può essere più esattamente considerato come espressione dell'interesse di Aristotele per la matematica e come una dimostrazione del fatto che Aristotele ne è l'apologista contro gli attacchi provenienti da diverse direzioni.

té (1958 4), p. 136. Si dovrebbe sottolineare anche che l'&xp(~uix, come una qualità di stile, è approvata e praticata da Isocrate (cfr. H. Wersdorfer, Die <J>/AOI:O<J>/A des lsokrates im Spiegel ihrer Terminologie (1940], spec. p. 96, n. 138); questa è una prova del fatto che non è solo il termine «filosofia» che significa cose diverse per Isocrate e per Aristotele. Non potrebbe darsi che l'elogio della matematica, co­me disciplina che possiede la vera &xp(~uix, piuttosto che un elogio fittizio lx À6ywv (lsc., cap. XXlll, p. 73, 1 F), sia diretto contro la &xp(~uix rivendicata da Isocrate?

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Prima Appendice al Capitolo VI

1. E' sorprendente in che misura le idee di Montaigne sull'educazione (sulle quali si veda, ad esempio, E. Durkheim, L 'Évolution pédagogique en France, 2 voli., voi. Il (1938), pp. 61-67) concordino con quelle di Iso­crate. Se noi educhiamo degli studiosi e dei pedanti, non educhiamo per la vita. La pedanteria, che viene qui e così spesso attaccata da Montaigne, è semplicemente la &xp(~uot e la conoscenza ricercata per se stessa espresse in una forma moderna; e ciò che Montaigne attacca come sapere futile è effettivamente la vita contemplativa. Le discipline per le quali Montaigne prova una forte avversione (matematica, astronomia) sono esattamente quelle disapprovate da Isocrate. Montaigne è in accordo con Isocrate nel sottolineare che l'educazione non può cambiare natura, di guisa che non dovremmo attenderci troppo dall'educazione. La somiglianza tra gli ideali di Montaigne e quelli di Isocrate è un po' oscurata dal fatto che Montaigne è un nemico della retorica; ma può difficilmente esserci qualche dubbio sul fatto che Montaigne si opponeva alla retorica del suo tempo perché essa era divenuta un affare interamente accademico o qualcosa da usare solo allo scopo di mettere in mostra la propria abilità, invece di essere uno stru­mento per promuovere la reciproca comprensione e pertanto adatto agli scopi del vivere. Montaigne accetta senza esitazione il valore dell'tù ÀÉ­-ytw. Rabelais, che è cosi spesso un precursore delle idee di Montaigne, mostra ciò in modo molto chiaro: una delle ragioni per le quali una perso­na che, secondo i suoi criteri anti-pedanteschi, anti-monastici ed anti-sco­lastici, è ben-educata è superiore alla persona educata male è il fatto che solo il primo parla bene (Gargantua, cap. 15). In altri termini, l'ideale del­l'educazione di Montaigne è esattamente quello di Isocrate; e ciò che en­trambi combattono è l'Accademia ed i suoi remoti discendenti insieme con i suoi ideali: una vita contemplativa dedicata in particolar modo alle scien­ze più esatte 15 •

2. Sul termine (ixpot, si veda I. Diiring, Aristotle in the Protrepticus nel mezzo del cammin, in: AA.VV., Autour d'Aristote (1955), pp. 81-97, spec. 91.

15 Cfr. W: Jaeger, Paideia, voi. I, pp. 311-321; E. Hoffmann, Aristate/es' Philosophie der Freundschaft, in: AA. VV., Festgabe ... Rickert, Buhl-Baden, n.d. [1933), pp. 8-36, spec. 16 ss.

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Seconda Appendice al Capitolo VI

La mia affermazione, che il capitolo XXIII di /se. deriva dal Protrep­tico di Aristotele è stata pienamente confermata da Festugière 16• Egli ha aggiunto delle prove sue personali, ha tradotto ed ha analizzato il testo del nuovo frammento, e spero che il mio libro verrà sempre letto insieme con il suo articolo.

Dal momento che nel testo in questione noi troviamo il termine udp usato nel significato di mp(, Festugière esamina il ben noto problema, fino a che punto un tale uso parli contro l'autenticità del frammento; un pro­blema che svolge un ruolo molto cospicuo nella discussione concernente la autenticità dei Magna Moralia 17 • Vorrei contribuire a questa discussione, ripetendo, sulla scorta di Dirlmeier, che nella Repubblica di Platone, IV 428 C-D, all'interno di uno spazio di nove righe Teubner, Platone usa il termine u1tÉp invece di 1ttp( cinque volte, sebbene il principio della variatio sarebbe contro un tale uso. Evidentemente, non dovrebbe essere attribuita troppa importanza a questo criterio stilistico.

2. La mia dimostrazione, che il capitolo XXIII deriva da Aristotele, non consiste, come Kerferd 18 sembra supporre, nell'evidenziare che il ca­pitolo contiene un'espressione che è una citazione quasi letterale del De anima. Questo è solo uno degli argomenti da me sostenuto, e non lo consi­dero affatto come il più forte. Devo confessare che le obiezioni di Kerferd su questo punto mi hanno dato l'impressione che egli abbia letto solo le prime quattro pagine del mio capitolo, e per di più frettolosamente.

3. Quando ho assegnato il capitolo XXIII di /se. ad Aristotele, e spe­cificatamente al suo Protreptico, ho fatto questo considerando: a) che esi­ste un corpus abbastanza ampio di testi identificati correttamente come appartenenti al Protreptico di Aristotele, e b) che, in particolar modo, il capitolo XXVI contiene due di tali testi, noti come il fr. 52 e 53 Rose (Pro­treptico, fr. 5 e 8 Walzer; Ross). Anche prima di un dettagliato esame del capitolo XXIII di /se., è difficile, dicevo, concepire come questo capitolo potrebbe non derivare dal Protreptico, se vi deriva il capitolo XXVI.

Ora, Rabinowitz 19 si è recentemente avviato a dimostrare che prati-

16 A. J. Festugière, Un fragment nouveau du «Protreptique» d'Aristote, «Revue Philosophique», 81 (1956), pp. 117-127.

17 Cfr. F. Dirlmeier (tr., comm.), Aristote/es, Magna Moralia, Berlin 1958, pp. 149-154.

18 Loc. cit. (sopra, p. 115). 19 Si veda sopra, p. 200.

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camente nessuno dei testi che, negli ultimi ottant'anni circa, sono stati identificati da Rose, Bywater, Diels, Hirzel, Jaeger, Bignone ed altri come aristotelici (il che per Rose, come è ben noto, significa pseudo-aristotelici) e, specificatamente, come tratti dal suo Protreptico, appartengono ad Ari­stotele. Secondo Rabinowitz, l'intera ricostruzione del Protreptico è co­struita sulla sabbia. Non c'è nessuna prova che qualcuno di questi testi ap­partenga ad Aristotele. Finora, è stata pubblicata solo la prima parte delle sue indagini, ed in questa parte il testo che ci riguarda più da vicino, ossia il capitolo XXIII di /se., non è stato ancora esaminato. Ma, dal momento che i risultati di questa indagine possono essere facilmente anticipati, non è forse inappropriato considerare la tesi di Rabinowitz, almeno per quanto concerne il capitolo XXVI di /se. ed anche in generale.

Naturalmente, è comunemente noto che nessuno dei testi attribuiti al Protreptico di Aristotele sono assegnati nelle nostre fonti ad Aristotele. Ma sembra che Rabinowitz, in certo qual modo, non si sia mai posto il problema del perché gli studiosi si sarebbero dovuta assumere la responsa­bilità di attribuire dei testi, che prima facie si presentano come scritti da X, ad Y. Perché, in particolar modo, parti del Protreptico di Giamblico sono state attribuite ad Aristotele?

L'ovvia risposta è sfuggita a Rabinowitz, forse perché egli non ha mai considerato quest'opera di Giamblico nel suo complesso, ma si è soffer­mato su quelle sue parti che lo interessavano direttamente. Il Protreptico di Giamblico contiene circa 126 pagine Teubner. Di queste, le pagine 24, 22-27, 2 Pistelli, possono essere immediatamente identificate come un cen­tone costituito dall' Eutidemo di Platone, 278 A-289 B. E' verissimo che alle circa 420 righe del testo di Platone corrispondano solo 70 righe del te­sto di Giamblico. Ma, vedere in ciò, come fa Rabinowitz, una prova del­) 'originalità di Giamblico è difficilmente accettabile. Un centone non è una fotocopia. Delle 70 righe circa 1'800Jo sono citazioni letterali di Plato­ne e i cambiamenti (aggiunte, omissioni, ecc.) sono strettamente stilistiche e concernano solamente il modo di esposizione o l'applicazione all'argo­mento dello scritto di Giamblico. Se uno studente si presentasse a Rabino­witz con un articolo in cui utilizza un certo autore alla maniera di Giambli­co, sicuramente Rabinowitz lo accuserebbe di plagio, piuttosto che attri­buirgli merito per la sua originalità. Ma, soprattutto, la difesa di Rabino­witz della originalità di Giamblico esula del tutto dalla questione. Essa presuppone che Giamblico attribuisse originalità al suo Protreptico. Ve­dremo fra poco che questo presupposto è del tutto infondato.

Il passo sopra citato del Protreptico è solo un esempio (il solo consi­derato da Rabinowitz). Ma ce ne sono altri.

Il cap. V del Protreptico contiene a p. 30, 13-31, 19 Pistelli, citazioni tratte da Timeo, 89 E-90 D, di cui 23 righe Teubner che sono una trascri­zione letterale di un passo continuo (Timeo, 90 B-D).

Lo stesso capitolo, a p. 31, 19-33, 27 Pistelli, contiene una serie di ci­tazioni (una, nuovamente, di 23 righe Teubner) tratte dalla Repubblica di Platone, IX 588 E-591 E, con alcuni lievi cambiamenti strettamente sti­listici.

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SECONDA APPENDICE AL CAPITOLO VI 229

Il capitolo XXIII, p. 61, 7-62, 29 Pistelli, è una trascrizione letterale di Pedone, 64 A-65 D (con l'omissione di alcune frasi dovuta al carattere dialogico dell'originale); p. 63, 2-65, 6 Pistelli, è un'altra trascrizione lette­rale di Pedone, 65 D-67 D; ed in altre 8 pagine (63, 2-65, 6; 65, 7-65, 18; 65, 22-67, 16; 67, 18-70, 9; 70, 16-71, l Pistelli) non abbiamo altro che ci­tazioni letterali del Pedone.

Ora, tutto questo non solo ci dà il diritto, ma ci pone il dovere di do­mandare: da chi ha copiato Giamblico il resto del suo Protreptico, ed in particolare la sezione fra il cap. V, p. 33, 27 Pistelli, ed il cap. XIII, p. 61, 7 Pistelli? Non abbiamo il diritto di porre la domanda, se egli abbia o no copiato questa sezione, in quanto si tratta di un problema risolto già anti­cipatamente in partenza. Un tale problema sarebbe giustificato solo se ci accostassimo al Protreptico di Giamblico come se esso volesse essere con­siderato come una sua opera originale, nel significato che noi attribuiamo alla parola «originale». Ma è vero il contrario. Giamblico intende mostra­re la sua originalità nel selezionare in modo appropriato e nell'ordinare i testi che esemplificano il modo in cui i Pitagorici esortavano alla filosofia. Da ciò che noi definiremmo un'antologia (con alcuni testi e note di colle­gamento) esso si distingue solamente per il fatto che Giamblico non si sen­te affatto obbligato a specificare le sue fonti. Ma, naturalmente, è ridicolo supporre che si tratti di un'opera di plagio. Date queste circostanze, la di­fesa che Rabinowitz fa di Giamblico è ostinata.

Tutto ciò risulta perfettamente evidente a chiunque si limiti a numera­re le pagine dell'intero Protreptico guardando l'apparatus di Pistelli. Con l'ausilio di questo apparato è facile vedere che delle 126 pagine Teubner circa 46 sono citazioni tratte da Platone, il cui nome, tuttavia, non compa­re mai nel testo.

C'è un ulteriore fatto che ci aiuta a valutare correttamente le pretese di Giamblico. Del suo capitolo XX, le pagine 95, 12-24; 96, 1-97, 8; 97, 16-98, 12; 98, 17-99, 15; 99, 18-99, 28; 100, 5-101, 6; 101, 11-104, 14 Pi­stelli, sono generalmente riconosciute come citazioni tratte da un anonimo scrittore del V secolo (il cosiddetto Anonimo di Giamblico) 20, che scrive in dialetto ionico. Ciò aggiunge altre 9 pagine alle 46 sopra menzionate. Al di là di ogni dubbio, 55 delle 126 pagine non sono opera di Giamblico. Ma, ciò che rende queste ulteriori 9 pagine particolarmente sorprendenti è il loro carattere linguistico. Se Giamblico avesse pensato di tener nascosta la sua fonte le avrebbe certamente atticizzate. Ma, anche dove si sarebbe trattato solamente di cambiare le lettere, per due volte (p. 95, 14; 97, 17 Pistelli) Giamblico scrive i;Ù1Àwaa(ix. Ciononostante, non si sente in dove­re di citare il suo autore.

Ciò che è vero per il Protreptico è prima facie vero per /se. Esso con­tiene 99 pagine Teubner. Di queste, il capitolo VI, p. 20, 22-28, 14 F, ossia circa 8 pagine Teubner, non è nient'altro che una serie di citazioni tratte

20 F. Blass, De Antiphonte sophista /amblichi auctore, Progr. Kiel 1889; per ulteriore bibliografia, si veda, ad esempio, Diels-Kranz, Die Fragmente der Vor­sokratiker (1959 9), p. 89, n. 1.

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dall'Epinomide e dalla Repubblica, con una parola ogni tanto aggiunta o cambiata.

Di più. Lo stesso passo dell'Epinomide, che a p. 21, 4-15 F, viene ci­tato letteralmente, alcune pagine più avanti, viene riportato nuovamente. Questa volta, tuttavia, nella forma di un resoconto non letterale e nomi­nando esplicitamente Platone (p. 31, 7-14 F).

Questi fatti dovrebbero essere da soli sufficienti a dimostrare che per /se. Giamblico ha usato varie fonti e che egli non ha inteso produrre ciò che noi considereremmo un insieme coerente e logico.

Dal momento che nel testo ricorre il nome di Platone, sebbene una so­la volta, si potrebbe forse dire che, in questo modo, Giamblico ci offre quantomeno un indizio per dove ricercare le sue fonti, e che pertanto, pos­siamo aspettarci che il resto del testo sia proprio di Giamblico quando esso non derivi da Platone. Ma non è possibile difendere un tale punto di vista. Infatti, alcune pagine più avanti giungiamo, nel capitolo XXVI, ad un passo, ossia p. 84, 21-85, 23, che è costituito da una serie di citazioni del De partibus animalium di Aristotele, A 1, 639 a 4 - b 5, e dove Giamblico sostituisce semplicemente gli esempi di Aristotele con altri esempi più ap­propriati allo scopo di /se. In /se., tuttavia, il nome di Aristotele non ri­corre mai neppure una sola volta.

Di nuovo, questi fatti sono da soli una prova sufficiente del fatto che è necessario ammettere che l'intero /se. consista di citazioni, e che non è stato composto perché venisse considerato un'opera propria di Giamblico nel nostro senso comune del termine. Di nuovo, ciò risulta perfettamente ovvio dall' Apparatus e dall' Index di Festa.

Ora, i due passi che sono stati attribuiti da Ross allo pseudo-Aristote­le e da altri allo stesso Aristotele, ossia i frammenti 52 e 53 (cap. XXVI, p. 79, 1-83, 6-22 F) precedono immediatamente il passo sopra citato, che è tratto dal De pari. anim. Ciò suggerisce che l'autore da cui derivano (che essi possano essere un'opera dello stesso Giamblico è tanto improbabile quanto è improbabile che possa essere un'opera di Giamblico il passo del De pari. anim.) potrebbe anche essere Aristotele. Ciò viene confermato da un passo parallelo di Proclo, In. Eucl. Dal momento che Rabinowitz ha dedicato una cura considerevole per mostrare che il passo di Proclo non dimostra niente di questo genere, dobbiamo presentare i testi in questione in extenso.

/se., cap. XXVI, p. 83, 13-20 F xa(-roL -rètç µ.Èv òO,Àaç (scii.: -rixvaç} 'ltlXV'tEç auvtçopµ.waL 'tLµ.wvnç XOLVTI xat 'tOÙç µ.La8oùç 'tOLç t)(O\JO'L 8Lò6v­'ttç -roùç 8È -rau-ra (scii. : µ.a81iµ.a-ra) 1tpayµ.anuoµ.€.vouç où µ.6vov où 1tpo-rpÉ'ltoµtv (ÌÀÀÒt xat 8LaxwÀuo­µ.tv 1toÀÀixxLç ...

Proclus, In Eucl., 28,13-17 Friedlein 871Ào1' 8È -rò 8L' lauffjv t!vaL -rorç µ.t­'tLouow atptfflv (scii.: fflV µa871µ.a­'tLXTJV t1tLO''t'Tjµ71v) ò xat 'ApLO"tO· -r€.À71ç 1tou <pTJO'LV -rò µ.718tvòç µ.La8ou 1tpOXtLµ.Évou 'tOLç {TJ'tOUO'LV oµ.wç &V ÒÀ(y~ xp6v~ -roLau'tT)v l1t(8oaw fflV -rwv µa871µix-rwv 8twp(av Àa~t1'v ...

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SECONDA APPENDICE AL CAPITOLO VI 231

Prima facie Rabinowitz sembra identificare l'intero passo di /se. co­me appartenente ad Aristotele. 'O xett 'ApLITtO't'ÉÀT}ç 1tou cpTJaLv si riferisce chiaramente alla prova («la prova che coloro che studiano la matematica la scelgono per se stessa è fornita anche da ciò che Aristotele dice in un qualche passo [o: in alcune parole simili a queste], ossia che questa disci­plina ha compiuto progressi così rapidi in un tempo cosi breve nonostante il fatto che coloro che la studiano non possano aspettarsi nessuna ri­compensa»).

Questa interpretazione viene criticata da Rabinowitz. Potrebbe darsi, egli dice, che il riferimento ad Aristotele non includa la prova. La sua tra­duzione: «Ciò che mostra chiaramente il fatto che la matematica è deside­rabile in e per se stessa per coloro che ne perseguono lo studio (che è una affermazione anche di Aristotele, che in un qualche passo ... )» offre una diversa interpretazione. Ma, sebbene non sia impossibile, questa interpre­tazione è molto improbabile. La costruzione è ÒTJÀot ÒÈ 't'6 (scii.: che la ma­tematica viene perseguita per se stessa) o xett 'ApLITto'tÉÀT}ç 1tou cptow. La costruzione non è OTJÀot ÒÈ 't'Ò (scii.: che la matematica è desiderabile per se stessa come Aristotele dice in un qualche passo) 't'Ò !J.T}Otvòi; µ.La8ou 1tpoxtL· µ.lvou ecc. In altri termini, la costruzione è 't'Ò-o-'t'6, non 't'6-'t'6. E' impro­babile che Proclo abbia citato Aristotele solo per sostenere la sua afferma­zione, che la matematica viene perseguita per se stessa, piuttosto che per sostenere la prova che egli offre di questo fatto.

Cerchiamo di tracciare una specie di bilancio. Il minimum che Rabi­nowitz deve concedere è:

A. E' estremamente improbabile che il capitolo XXVI di /se. appar­tenga a Giamblico.

B. E' possibile che il passo presente in Proclo stabilisca come fonte di Giamblico Aristotele.

Il maximum che si deve concedere a Rabinowitz è: A. E' possibile che il capitolo XXVI appartenga a Giamblico. B. Non si può escludere che il riferimento di Proclo ad Aristotele in­

cluda solo una parte del passo presente in Giamblico. Lascio al lettore di stabilire se questo bilancio invalidi o no le conclu­

sioni di Rose riguardo alla fonte dell'intero passo presente in Giamblico. A me sembra di no.

Non che la dimostrazione di Rose equivalga a certezza, ma è proprio questa incertezza che ci costringe ad intraprendere una Quellenf orschung. Rabinowitz conosce così bene il famoso detto di Aristotele, che ogni sog­getto ha differenti livelli di certezza, che avrebbe potuto facilmente chie­dersi: «Che cos'è che costituisce una prova per quanto concerne una Quel­lenforschung?». E se qualcuno si sentisse portato a dire: «Il fatto che una Quellenforschung non può mai fornire una completa certezza dovrebbe scoraggiarci dall'intraprendere la ricerca sulla base di fonti sconosciute», a chi dicesse ciò, ricorderei che nel caso di /se. (come in quello del Protrep­tico) i fatti sono tali da costringerci ad accertarci quali siano le fonti di

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queste opere. Se Rabinowitz si fosse limitato a ricordarci che nessuno dei testi che gli studiosi moderni attribuiscono al Protreptico di Aristotele vie­ne nei nostri testi esplicitamente attribuito ad Aristotele, avrebbe compiu­to un richiamo meritevole per coloro che, non partecipando attivamente allo studio della filosofia greca, potrebbero farsi un'opinione del tutto er­rata sul motivo per cui Rose, Walzer, Ross, hanno pubblicato certi testi come appartenenti a quell'opera. Sfortunatamente, Rabinowitz va di gran lunga al di là di questo semplice richiamo.

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VII. «Metaphysica generalis» in Aristotele? 1

l . Il problema

Abbiamo visto che la tripartizione della conoscenza teoreti­ca corrisponde ad una tripartizione dell'essere in realtà di tipo fisico, in realtà di tipo matematico (anima, anima del mondo), e in realtà di tipo teologico. In questo contesto, la matematica è lo studio di realtà separate e viene considerata tale anche dal primo Aristotele. Ciò che è vero per la matematica dovrebbe a fortiori essere vero per la filosofia prima. Dovremmo aspettarci che i suoi oggetti siano separati in modo ancora maggiore rispetto a quanto lo sono gli enti matematici. E difatti, la filosofia prima viene frequentemente designata da Aristotele come teologia. Chi potrebbe dubitare che gli oggetti della teologia siano separa­ti?

Ma Aristotele ha mutato la sua opinione riguardo allo sta­tus degli enti matematici (e pertanto, implicitamente piuttosto che esplicitamente, riguardo alla scienza matematica). Si verifi­ca in Aristotele un simile mutamento per quanto riguarda gli og­getti della teologia e la teologia (la filosofia prima)? 2

1 Secondo R. Eisler, Worterbuch der philosophischen Begriffe (1928 4), per i termini metaphysica generalis e specialis, insieme con le loro precise definizioni, siamo debitori a Micraelius, un autore per il resto poco noto nella storia della filo­sofia (su Micraelius si veda Allg. Deutsche Biographie). Questi termini, difatti, so­no appropriati e verranno usati per indicare la differenza fra la metafisica come co­noscenza della realtà trascendente (Dio, le anime incorporee, gli angeli) e la metafi­sica come scienza dell'essere nel senso di ciò che è comune a tutto ciò che è (dice con particolare chiarezza Pietro Fonseca: l'oggetto della metafisica è ens quatenus est commune Deo et creaturis, Commentarii in libros Metaphysicorum, 2 voli. [Lyon 1591), voi. I, pp. 490-504).

2 A questa domanda W. Jaeger ha risposto in senso affermativo (Aristote­les, 1955 2, pp. 200-236). Secondo Jaeger, il concetto di metafisica ha subito la se­guente evoluzione: nella sua prima fase (Platonica), per Aristotele la metafisica si identificava con la teologia. Nella sua seconda fase (semi-Platonica), essa ha assun­to per Aristotele un significato simile alla logica metafisica (o dialettica); la defini­zione della metafisica come scienza dell'essere in quanto essere appartiene a questo

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Il presente capitolo verrà dedicato ad un esame di questo problema. E questo esame ci ricondurrà, nello stesso tempo, al problema che era emerso nel capitolo III del presente libro, ma che era rimasto irrisolto. In quel capitolo abbiamo visto come S. Tommaso, quando interpretava la tripartizione dell'essere e del­la conoscenza in Boezio, veniva condotto a compiere ciò che equivaleva ad una chiara distinzione fra metaphysica generalis e metaphysica specialis. S. Tommaso, insieme con l'ultimo Ari­stotele, ha respinto la teoria della esistenza separata degli enti matematici: essi sono solamente oggetti di astrazione. Ma, se la filosofia prima veniva collocata al di sopra della matematica, l'ipotesi a portata di mano era che anche i suoi oggetti fossero solo oggetti di astrazione. Una tale interpretazione della filoso­fia prima doveva risolversi in una concezione della metafisica come metaphysica generalis. In altri termini, una volta elimina­to lo status degli enti matematici come separati, la filosofia pri­ma, quando ci si riferisce ad essa nel contesto di una tripartizio­ne della conoscenza, sembra designare la metaphysica generalis. Fino a che punto è giustificata una tale interpretazione?

Questo stesso problema può essere enunciato anche in mo­do più conciso. Talvolta Aristotele si riferisce alla filosofia pri­ma considerandola come teologia; talvolta si riferisce ad essa considerandola come scienza dell'essere in quanto essere. Il pri­mo riferimento sembra condurre ad una metaphysica specialis; il secondo ad una metaphysica generalis. Qual è il rapporto fra le due?

2. Analisi di «Metafisica» I': l'espressione «essere in quanto es­sere» risulta equivalente all'espressione «suprema sfera del­l'essere».

I libri r ed E della Metafisica sembrano avere in comune una grande difficoltà. Entrambi parlano di parti dell'essere ed affermano che alcune branche della conoscenza considerano tali parti. La sapienza (teologia) considera la parte soprasensibile

secondo periodo. Nella sua terza fase, Aristotele ha inteso interpretare la metafisi­ca come se fosse fondata su, o come se comprendesse, la fisica. Questa linea evolu­tiva si è conclusa con un totale naturalismo, che ha in Stratone il suo rappre­sentante.

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«METAPHYSICA GENERALIS» IN ARISTOTELE? 235

dell'essere (o: la sfera suprema del soprasensibile, se di tali sfere ne esiste più di una). D'altro lato, a differenza di queste branche parziali della conoscenza, così leggiamo in questi due libri, c'è un'altra branca che considera l'essere in quanto essere, senza ri­guardo alle diverse sfere dell'essere. Anche questo tipo di cono­scenza sembra che venga designato da Aristotele come sapienza.

Sembra che stiamo assistendo alla nascita della metaphysi­ca generalis come distinta dalla metaphysica specialis.

Questa nascita sembra essere accompagnata da fortissimi dolori.

Pertanto, in r 1 Aristotele annuncia dapprima che è sua in­tenzione parlare dell'essere in quanto essere (1003 a 21-26) e spiega che il termine «essere» non è equivoco (2, 1003 a 33 -1003 b 16). Questa spiegazione consiste nel dire che, in ultima istanza, tutto ciò che è, è in riferimento alle oùafott. L'«essere in quanto essere» viene contrapposto a «una qualche parte delimi­tata dell'essere». Tutte le altre branche della conoscenza consi­derano quest'ultima; solo la sapienza (metafisica) considera l'essere in quanto essere in universale. Lo svolgimento di pensie­ro, che era iniziato in questo modo, termina con la seguente fra­se: se ciò che è, è originariamente una oùafot, il filosofo deve co­noscere i principi e le cause delle oùa((XL (2, 1003 b 17-19).

Questo si riallaccia a r 1, 1003 a 26-32. La concatenazione delle idee può essere presentata nella seguente maniera. La me­tafisica è la scienza dell'essere in quanto essere o, come potrem­mo anche dire, degli elementi, dei principi e delle cause dell'esse­re in quanto essere. L'«essere» si riferisce ultimamente alle oùa((Xt; pertanto, la metafisica è la ricerca degli elementi, dei principi e delle cause delle oùa((XL. Questo corrisponde alla sezio­ne di apertura di Metafisica, A 1, 1069 a 18-19: l'oggetto della nostra indagine è l'oùa((X, in quanto le cause ed i principi che cer­chiamo di accertare sono quelli delle oùa((XL. E questo, a sua vol­ta, si riallaccia a Metafisica, A 1, 981 a 28, dove la metafisica viene distinta dalle specie subordinate di conoscenza in quanto è conoscenza delle cause; a Metafisica, A 1, 981 b 28-29, dove la metafisica viene distinta dalle altre branche della conoscenza che considerano le cause in quanto è conoscenza delle cause e dei principi originari (primi), (cfr. 982 a 2; A 2, 982 a 5; 982 b 9-10); e a Metafisica, A 2, 983 a 8-10, che spiega il carattere «di-

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vino» della metafisica come conoscenza delle cause prime ricor­dando che la divinità è stata sempre considerata come una causa ed un principio originario (primo) (e, il che esula dal presente contesto, si è sempre ritenuto che essa conosca le cause prime).

Ed è ben noto il modo in cui Aristotele esamina la storia della filosofia alla luce del presupposto che tutti i filosofi hanno cercato di scoprire i principi supremi di tutte le cose (Metafisica, A 3, 983 b 3-4; il termine «tutto» compare, ad esempio, in 983 b 8; A 5, 985 b 26).

Pertanto, Aristotele afferma che la ricerca dell'essere in quanto essere è essenzialmente identica con la ricerca degli ele­menti, dei principi e delle cause di tutto ciò che è, e tutto ciò che è, è ultimamente oùcr(a (o oùcr(0tL).

Il singolare (oùcr(a) ed il plurale (oùcr(0tL) si alternano. Ora, che cosa significa il plurale oùcr(OtL? Ovviamente, può significare una di queste due cose: o una pluralità di oùcr(0tL, ossia di realtà individuali che si trovano sullo stesso piano esistenziale, o diff e­renti specie di essere. Ed è evidente che nel nostro contesto Ari­stotele non indica con oùcr(OtL diverse realtà individuali (Socrate, una pianta, una pietra), ma piuttosto divese specie di oùcr(a. Si è quasi tentati di spiegare questo fatto dicendo che, sebbene tutte le oùcr(0tL come realtà individuali abbiano in comune il fatto che solo ad esse può essere pienamente e propriamente applicato il verbo «essere», ciò nondimeno «essere» non significa precisa­mente la stessa cosa nelle diverse specie (ordini) di oùcr(0tL. «Esse­re» nel caso di una oùcr(a corruttibile (individuale) non è la stessa cosa che «essere» nel caso di una oùcr(a incorruttibile; «essere» nel caso di una oùcr(a incorruttibile, quale può essere un ente ma­tematico, non è affatto la stessa cosa che «essere» nel caso di una oùcr(a che sia incorruttibile al modo in cui si supponeva che fossero incorruttibili le Idee di Platone.

Questo tipo di differenza fra i diversi significati del termine «essere» è naturalmente diverso dalla differenza fra i diversi si­gnificati dell' «essere» quando viene applicato alle oùcr(OtL (indivi­duali) da un lato, e alle loro proprietà e relazioni (nessuna delle quali esiste in senso pieno ed autentico), dall'altro lato.

Si può pertanto dire: in Metafisica, r, l'oggetto della meta­fisica viene presentato sin dall'inizio o con la definizione di esse­re in quanto essere, o con quella di oùcr(a, o con quella di princi­pi, di cause, e di elementi dell'oùcr(a, e l'uso del termine oùcr(a

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«METAPHYSICA GENERALIS» IN ARISTOTELE? 237

suppone sin dall'inizio che ci siano diverse specie di oùafot, una sola delle quali sarà l'oggetto della metafisica. Non viene mai in mente ad Aristotele che il termine essere in quanto essere si rif e­risca a tutti gli esseri, a differenza dell'oùa(cx, che, essendo sem­pre una oùa(cx particolare, designerebbe solo una parte di tutti gli esseri. «Essere in quanto essere» e «una specie di oùa(cx» non so­no termini che si escludono reciprocamente.

3. La metafisica come indagine dei contrari di cui è costituita, in senso primario, la suprema sfera dell'essere e, in senso de­rivato, ogni altra realtà.

Aristotele procede dimostrando che «essere» ed «uno» so­no essenzialmente un'unica e medesima cosa. Pertanto è compi­to di un'unica e medesima branca della conoscenza studiare cose come l'identità, la somiglianza, ecc., le quali sono tutte specie dell'uno o dell'essere. E, dice Aristotele, tutti i contrari (Èvcxv­·tlcx) possono essere ridotti a questo principio (Metafisica, 1003 b 34-1004 a 1).

L'introduzione del termine «contrari» giunge a sorpresa. Ma, evidentemente, Aristotele presume che la branca della co­noscenza che studia le differenti specie di essere in quanto essere (o dell'uno) debba studiare anche i loro contrari. Inoltre, sem­bra che sia sottinteso (sebbene non venga espresso chiaramente in questo punto) che questi contrari sono, ad esempio, essere e non-essere, uno e non-uno (molti), identità e diversità, somi­glianza e dissomiglianza, ecc.

In breve, dice Aristotele: tutto ciò che è, è ultimamente ri­ducibile a contrari; tutti i contrari sono ultimamente riducibili alla opposizione: essere - non essere (o Uno e molti).

Questo è sorprendente. Questa non è proprio la dottrina ac­cademica e/ o pitagorica?

Aristotele introduce immediatamente la distinzione fra tre branche della filosofia, come se avesse dimenticato che il suo proposito era quello di trattare della metaphysica generalis, che prescinde dalle differenze fra gli esseri e si sofferma su ciò che è comune a tutti gli esseri (1004 a 2-9).

Ma Aristotele lascia cadere questa distinzione per riprende­re la discussione dell'argomento in questione; di quale? Si do-

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vrebbe supporre dello studio dell'essere in quanto essere. Ma che cosa leggiamo? Una dimostrazione, secondo la quale spet­ta ad un'unica e medesima branca della conoscenza ( = la filo­sofia) lo studio dei contrari (Òtv'tLxdµ1::va): l'uno ed il moltepli­ce, l'identico ed il diverso, il simile ed il dissimile, l'uguale e l'inuguale. Aristotele chiarisce che la negazione (il non-uno) può essere logica o reale (ÒtmSqiaaLc; o a't&pTJaLc;). Allo stesso mo­do, chiarisce che tutte queste coppie di contrari si riconducono ultimamente all'antitesi Uno-molteplice (1004 a 9-21).

Questo passo, entro un certo limite, non fa che sviluppare il passo di Metafisica, 1033 b 34 - 1004 a 1, chiarendo in que­sto modo che entrambi i passi descrivono la sapienza come co­noscenza dei contrari ultimi (ai quali possono essere ricondotti tutti gli altri contrari), i quali vengono esplicitamente designati come l'Uno e i molti, e pertanto implicitamente come l'essere ed il non-essere. Si dovrebbe essere propensi a riesporre il te­ma della metafisica di Aristotele, dicendo che essa considera l'Uno in quanto tale e pertanto anche i molti in quanto tali, o dicendo che essa considera l'essere in quanto essere e pertanto anche il non essere in quanto non essere. Ma, ci si ritenga o meno autorizzati a compiere una tale riesposizione, rimane egualmente una sensazione di sopresa. I due passi sopra men­zionati (1004 a 9-21, e 1003 b 34 - 1004 a 1) assomigliano mol­to da vicino al passo di Metafisica, A 5, 986 a 15 - 986 b 8, in cui si dice in sintesi: secondo i Pitagorici (ed anche secondo Alcmeone) i contrari, fra i quali l'Uno ed i molti (986 a 24), sono i principi di tutti gli esseri ('twv ov'twv, 986 a 17) o del­l'oùa(a (986 b 8). E questi passi assomigliano anche a Metafisi­ca, A 10, 1075 a 28-33, in cui Aristotele presenta come una teoria accettata da tutti i filosofi quella secondo la quale tutto si genera dai contrari (Èvav't(a); esempi di tali contrari sono l'i­neguale e l'uguale, l'Uno e i molti.

Dopo aver affermato che neppure il termine Uno è equi­voco (1004 a 22-25), Aristotele prosegue dicendo che ogni si­gnificato si rapporta ultimamente ad un significato originario (primo) nell'ambito della sua categoria. Ad esempio, tutti i si­gnificati di «uno» sono ultimamente riconducibili all'Uno ori­ginario, tutti i significati di identità e di diversità sono ricon­ducibili alla identità ed alla diversità originarie, e la stessa cosa vale per tutti i contrari. Ed Aristotele continua: pertanto, è ov-

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vio che è compito di un'unica e medesima branca della cono­scenza occuparsi di questi contrari e dell'oùafot (1004 a 31-33).

«Questi contrari e l'oùafot»: questa affermazione implica che i contrari sono le cause, i principi e gli elementi della oùa(ix. Le espressioni «essere in quanto essere» ed oùa(ix vengono usate in modo intercambiabile. Non c'è niente che indichi che Aristo­tele avverta una qualche incompatibilità fra la descrizione del-1' oggetto della metafisica come oùa(ix e le descrizione dell'ogget­to della metafisica come essere in quanto essere, nonostante che il termine essere in quanto essere sembra indicare ciò che è co­mune a tutto ciò che è, mentre la oùa(ix che è l'oggetto della me­tafisica si distingue dall'oùa(ix delle altre branche di conoscenza.

Solo ora si rivela tutta l'importanza del passo di Metafisica, r 2, 1004 a 2-4. Qui troviamo improvvisamente (e come un in­termezzo fra due passi che dimostrano che ogni cosa può essere ricondotta ad un'originaria coppia di contrari) l'affermazione, secondo la quale ci sono tante parti della filosofia quante sono le oùa(ixL. Chiaramente, questo passo anticipa quello di Metafisi­ca, E 1, dal quale risulta che ci sono due o tre oùa(ixL (1026 a 23-31), una delle quali è immobile ed è l'oggetto della metafisica ed è nello stesso tempo universale (cfr. fl, 1003 a 24). Il fatto che la metafisica consideri solamente una oùa(ix non impedisce ad Aristotele di dire che essa considera l'essere in quanto essere, come ha affermato in 1003 a 21.

Aristotele ripete: tutti i contrari risalgono ultimamente ad un'unica coppia di contrari, ossia all'essere ed al non-essere, al­l'Uno ed al molteplice (queste due coppie sono evidentemente considerate come equivalenti). Tutti i filosofi sono d'accordo nel ritenere che tutti gli esseri sono costituiti da contrari. È per­tanto chiaro che la filosofia tratta dei contrari e dell'oùa(ix (1004 b 27-1005 a 18). In questa sezione, la dottrina secondo la quale tutti gli esseri sono costituiti da contrari viene ripetuta non me­no di tre volte (1004 b 27-28; 1004 b 29-30; 1005 a 3-4).

Proprio questa è la dottrina che Aristotele attacca con for­za in Metafisica, A, A, M, N. È una dottrina che contrasta for­temente con la sua teoria della materia come privazione di forma.

Aristotele prosegue domandando se la filosofia, come è sta­ta ora descritta, includa anche una ricerca dei metodi matemati­ci del ragionamento. Egli indica la filosofia semplicemente come una scienza che concerne l'oùa(ix. Ma ormai sappiamo che que-

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sto significa anche i contrari (ultimamente l'antitesi Uno-molte­plice) che costituiscono l'oùa(a. Aristotele risponde in senso af­fermativo, in quanto il compito proprio del filosofo consiste nello studio dell'essere in quanto essere, che nessuna delle altre branche della conoscenza studia. Qui, per la prima volta, emer­ge la divisione della sapienza in tre branche, la fisica, la mate­matica e la filosofia propriamente detta (altrimenti conosciuta come filosofia prima o teologia). Ed è del tutto evidente che Ari­stotele non avverte che egli sta cambiando l'oggetto proprio del­la sapienza: la teologia, sebbene abbia come suo oggetto un ge­nere particolare dell'essere, è, allo stesso tempo, una ricerca del­l'essere in quanto essere. Noi sappiamo già che cosa questo si­gnifichi: l'essere in quanto essere e il non essere in quanto non essere, l'uno in quanto tale e il molteplice in quanto tale, e così via (1005 a 19-1005 b).

Inoltre, il metafisico viene descritto come colui che conside­ra il xa06Àou e la prima (suprema) oùa(a, ossia l'essere in quanto essere e appunto un genere particolare dell'essere. Pertanto, ovunque in Metafisica, r, l'oùa(a, come oggetto della metafisi­ca, significa un genere particolare dell'essere. Tutte le volte che Aristotele afferma che la metafisica tratta dell'oùa(a, egli inten­de dire che essa tratta di un'unica specie di oùa(a. Ma questo non gli impedisce di affermare che la metafisica tratta dell'esse­re in quanto essere. La metafisica tratta di ciò che ultimativa­mente è, ossia dell'oùa(a (o, se ci sono diverse specie di oùa(a, delle oùa(aL); essa tratta dell'oùa(a ricercandone i principi ultimi (gli elementi, le cause); i principi ultimi dell'oùa(a sono l'essere in quanto essere ed i suoi contrari (o l'Uno ed i molti).

4. Il principio di non-contraddizione come principio metafisico che si riferisce in senso pieno solamente alla suprema sfera dell'essere

È a questo punto che viene introdotto il principio di non contraddizione: è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo e secondo lo stesso rispetto, sia e non sia. Questo, dunque, è l'e­sempio più rilevante di una ricerca rivolta all'essere in quanto essere.

Omettiamo tutte le prove. Con H. Maier (Die Syllogistik

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des Aristoteles, vol. I [1896], pp. 43-46) sottolineiamo solamen­te una cosa: Aristotele formula il principio di non-contraddizio­ne in termini ontici piuttosto che gnoseologici 3 • «È impossibile che la stessa cosa sia e non sia», piuttosto che «è impossibile predicare, ad un tempo e secondo lo stesso rispetto, attributi contraddittori della stessa cosa».

Con ciò, tuttavia, sembra che sia stato definitivamente ab­bandonato il terreno di una qualsiasi ricerca degli elementi, dei contrari, ecc., e/ o di qualsiasi oùa(oc specifica; sembra che ci si trovi nel mezzo di una metaphysica generalis. In effetti, alcuni affermerebbero che ci troviamo nell'ambito che precede ogni fi­losofia, ossia nell'ambito della logica; i più sosterrebbero che, certamente, ci troviamo fuori della teologia.

Ma ci sono alcuni passi che sono degni di nota. Spiegando perché alcuni hanno accettato la teoria protagorea, Aristotele afferma che essi lo hanno fatto in quanto hanno prestato atten­zione esclusivamente al divenire proprio dell'ambito del sensibi­le. Il loro ragionamento era il seguente: «se una cosa che era cal­da diventa fredda, e se nulla può generarsi dal nulla, la cosa de­ve essere stata sia calda che fredda». Dopo aver confutato que­sta teoria facendo ricorso alla coppia MvocµLç-èvnÀÉx_uoc, Ari­stotele prosegue dicendo: «Inoltre faremo in modo che costoro si convincano che, nell'ambito degli esseri, esiste anche un'altra sostanza, la quale non è soggetta in alcun modo né a movimen­to, né a generazione, né a corruzione» (5, 1009 a 36-38).

Si tratta di un passo importante. Sembra che esso implichi che il principio di non-contraddizione, ossia l'affermazione che niente può nello stesso tempo essere e non essere, è più evidente quando ci rivolgiamo alla sfera soprasensibile dell'essere. Si è quasi tentati di dire: l'essere in quanto essere nella sfera sopra­sensibile è in una condizione più pura. In altri termini, sembra che Aristotele dica che una realtà fisica non è mai veramente identica a se stessa. Questo non ha senso se l'identità è una qua­lità universale applicabile a tutte le cose. Ma, evidentemente, Aristotele non sta pensando in termini di formalismo logico.

Questo non è il solo passo di tal genere. Oltre ai Protagorei, ci sono altri che hanno respinto il principio di non-contraddizio-

3 Per quanto segue, si veda G. Calogero, 1 fondamenti della logica aristote­lica (1927), spec. pp. 64-83.

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ne. Essi hanno fondato il loro rifiuto sul presupposto che la sen­sazione è il solo criterio di ( ossia il solo mezzo per conoscere pie­namente la) verità, e sull'osservazione che le stesse cose possono causare sensazioni diverse. Per respingere questa tesi, Aristotele ricorda nuovamente ai suoi sostenitori che oltre ed al di sopra dell'ambito del sensibile c'è ancora un altro ambito, che non è soggetto a movimento (5, 1010 a 1-3; 25-35).

Ancora una volta abbiamo l'impressione che questo ambito dell'immutabile sia la vera dimora del principio di non-contrad­dizione.

Pertanto, come se volesse assicurarsi che nessuno dimenti­chi la presenza di questa sfera non soggetta a movimento, il li­bro termina con un'affermazione solenne. Non dovremmo sup­porre che non esista nulla di «eterno» nell'universo; c'è qualco­sa che sempre muove ciò che è in movimento, ed il motore pri­mo è di per sé [eternamente] immobile (8, 1012 b 29-31).

Si tratta, in realtà, di una strana conclusione per una meta­physica generalis. Siamo ricondotti alla teologia. Pertanto, la struttura del libro si rivela essere la seguente: ciò che dovremmo essere propensi a considerare come un aspetto della metaphysica generalis viene inserito fra (a) la dottrina secondo la quale tutti gli esseri sono costituiti ultimamente di due principi, e (b) la dot­trina che afferma chiaramente l'esistenza e la differenza di due sfere dell'essere (la sfera sensibile e la sfera soprasensibile); fra queste due dottrine troviamo due solenni rinvii (Òtçtwaoµtv u1to­À0tµ~livuv - - &çwv t1tL'tL1J.fja0tL [1009 a 36; 1010 a 25]) a que­st'ultima sfera dell'essere 4•

5. Analisi di «Metafisica» E I, dove viene di nuovo supposta l'equivalenza delle espressioni «essere in quanto essere» e «suprema sfera dell'essere».

Che cosa dire di Metafisica, E 1? Le cause ed i principi, nella conoscenza dei quali consiste­

rebbe la sapienza (Metafisica, A 2, 982 b 8-10), devono essere le

4 Cfr. W. Jaeger, Aristate/es 2, pp. 220 ss. Non c'è nessuna differenza fra il modo in cui viene considerato il principio di non-contraddizione nel libro r della Metafisica ed il modo in cui viene considerato nel libro K, tranne che per le parole che vengono usate. Jaeger sembra ammettere implicitamente ciò.

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cause ed i principi dell'essere in quanto essere, ossia non devono essere i principi di un genere particolare dell'essere. Questa è la ragione per la quale né la fisica né la matematica sono sapienza, sebbene siano entrambe parti della conoscenza speculativa. La fisica considera solamente ciò che è mutevole e non è separabile dalla materia. Lo status della matematica non è del tutto chiaro. Solo la teologia, che considera ciò che è immobile è separato dalla materia, può pretendere di essere la vera sapienza (1025 b 3 - 1026 a 23).

Uno svolgimento di pensiero sconcertante. Esso inizia con il concetto di essere in quanto essere e termina con il concetto di teologia. Qual è l'oggetto della sapienza?

Come per accrescere la confusione, Aristotele prosegue po­nendo il seguente problema: la teologia riguarda solamente un genere particolare dell'essere o riguarda qualcosa di universale? Dopo tutto, c'è un problema simile per quanto concerne la ma­tematica: le singole branche della matematica (geometria, astro­nomia) riguardano generi particolari degli enti matematici, ma c'è anche una disciplina generale che è comune a tutti gli enti matematici. Che dire, dunque, della teologia?

C'è, risponde Aristotele, una sfera dell'essere immutabile oltre ed al di sopra dell'essere mutevole; la teologia considera questa sfera dell'essere immutabile e, pertanto [o: in questo sen­so del termine, o: per questa stessa ragione], la teologia è [o con­sidera ciò che è] universale. E la stessa teologia tratta anche del­l'essere in quanto essere (1026 a 23 - 32).

Qui la confusione sembra che abbia raggiunto il suo grado più alto. La sapienza, così saremmo portati a pensare, non do­vrebbe avere come suo oggetto un genere particolare dell'essere; essa dovrebbe riguardare ciò che semplicemente è considerando­lo nel suo essere. Questa è chiaramente la metaphysica generalis. In che modo, dunque, Aristotele può affermare che la teologia è la sapienza, mentre definisce la teologia tramite il suo oggetto, il quale oggetto è solamente un genere particolare dell'essere? Co­me possiamo affermare che la teologia è universale in quanto concerne la sfera suprema dell'essere? Se assumiamo il termine «universale» in questo senso, com'è possibile dire che la teolo­gia riguarda l'essere in quanto essere? E qual è la differenza fra la «universalità» della teologia nel primo e nel secondo senso della parola? La metafisica o è generalis o è specialis; se la meta-

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fisica è generalis, o lo è perché, per qualche inscrutabile ragione, il genere particolare dell'essere assegnato alla teologia viene de­scritto come universale, o perché essa considera l'essere in quan­to essere, ma vedere tutti questi «o-o» sostituiti da degli «e-e» è molto sconcertante.

6. Soluzione dell'apparente contraddizione nella definizione di metafisica: il carattere accademico e neoplatonico del concet­to di essere in quanto essere

Omettiamo il resto del libro E; esso non ha nessun rapporto con la questione dell'oggetto della metafisica.

In che modo, dunque, possiamo uscire da tutta questa con­fusione?

È molto semplice. L'Aristotele che ha scritto i libri r ed E I della Metafisica, e nel periodo in cui li ha scritti, non era consa­pevole del fatto che l'essere in quanto essere di cui parlava po­tesse essere interpretato come astratto o come formale; egli non era consapevole del fatto che stava dando l'avvio ad una meta­physica generalis come distinta dalla metaphysica specia/is 5•

Non si può negare che può essere legittimo interpretare Aristote­le in questo modo, se con legittimo intendiamo ciò che è logica­mente implicito o ciò che è implicito in altri passi che trattano del concetto di essere; ma si può affermare che Aristotele non ne era consapevole. Al contrario, egli considera l'essere in quanto essere come un elemento, come un qualcosa di continuamente presente in tutto ciò che è. Il che equivale a dire che i libri r ed E I della Metafisica sono stati scritti nella tradizione accademica.

Secondo questa tradizione ci sono diverse sfere dell'essere; c'è almeno una sfera oltre ed al di sopra della sfera del sensibile. C'è una qualche concatenazione fra queste sfere, di guisa che la superiore può essere definita «causa» (in un certo senso) della inferiore; inoltre, la sfera suprema è «composta di» (o «derivata

5 E probabilmente non ne è divenuto mai consapevole: cfr. E. v. Ivanka, Die Behandlung der Metaphysik in Jaegers Aristate/es, «Scholastik», 7 (1932), pp. 1-29; lvanka cita Metafisica, Z l, 1028 b 13-15; li, 1037 a 10-16; 17, 1041 a 6-9; tutti questi passi vengono considerati da Jaeger come molto più tardi dei libri r, E, K, e ciononostante essi descrivono tutti la metafisica come conoscenza del sopra­sensibile, ossia proprio di un'unica sfera dell'essere.

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da») due elementi contrari che possono essere convenientemente chiamati Uno e molteplice, con l'esplicito accordo che essi non sono «abstracta» o meri predicati (diversamente da come vengo­no considerati in Metafisica, I 2, 1053 b 11 [cfr. N 1, 1087 b 33 -1088 a 14); 1054 a 9- 19 6). Dal momento che la sfera superiore è la «causa» di quella inferiore, gli elementi della sfera superiore devono essere in qualche modo presenti anche nella inferi ore (nelle sfere inferiori, se ce ne sono molte). In questo senso, gli elementi di tutti gli esseri sono una coppia di contrari, l'essere e il non-essere, o l'Uno e il molteplice.

Ora, è evidente che questi elementi sono presenti in modo molto più chiaro nella sfera superiore che in quella inferi ore. Se, pertanto, la sapienza è lo studio dei principi supremi e degli ele­menti, si è filosofi studiando la sfera suprema dell'essere insie­me con i suoi elementi, l'Uno ed il molteplice. In altri termini, studiando l'essere ed il non-essere, o l'Uno ed il molteplice come elementi non li studiamo come «abstracta». AI contrario, tutte le volte che parliamo dell'essere e del non-essere, o dell'Uno e dei molti, restiamo all'interno dell'ambito della suprema sfera dell'essere, sebbene indirettamente ci riferiamo a tutte le sfere dell'essere. La «teologia», la «metafisica», la «sapienza», sono pertanto lo studio sia della suprema sfera dell'essere, sia degli elementi. Fin qui, non può esserci nessuna differenza fra una metaphysica generalis ed una metaphysica specialis, in quanto né l'essere né il non-essere, né l'Uno né il molteplice sono consi­derati come «abstracta».

Il carattere dell'essere o dell'Uno come un elemento può es­sere descritto sottolineando che ciò che noi intendiamo è l'essere in quanto essere e l'Uno in quanto Uno, ossia non intendiamo l'essere o l'Uno come un aggettivo o come una qualità che ineri­sca a qualcos'altro o come un predicato. È evidente che, all'in­terno del sistema accademico, l'Uno viene inteso come una real­tà piuttosto che come una qualità (sebbene si potrebbe forse di­scutere se esso possa mai esistere al di fuori delle realtà cui con­ferisce unità). Pertanto, studiare l'essere in quanto essere è un compito legittimo della teologia.

È proprio questo il motivo per il quale i libri r ed E 1 della

6 Questo passo parla esplicitamente solo dell'essere e dell'Uno, ma implici­tamente anche dei loro contrari.

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Metafisica si adattano al modello delle riflessioni accademiche. Se ogni essere è uno, è «uno» ed «essere» (quodcumque ens est unum), la differenza fra una ricerca rivolta all'essere in quanto essere ed una ricerca rivolta all'uno in quanto uno è in realtà molto esile. Le due ricerche costituiscono ultimamente le bran­che di un unico e medesimo problema. Che cos'è che conferisce l'essere ad una cosa, ossia che cos'è che rende questa cosa «co­sa» o una cosa? Quando domandiamo: «Che cos'è che conferi­sce l'essere ad una cosa?», non intendiamo dire: che cos'è che rende una cosa rossa o grigia, pesante o leggera. Intendiamo propriamente: che cos'è che le conferisce l'esistenza? Similmen­te, quando domandiamo: «che cos'è che conferisce unità ad una cosa?» intendiamo dire: che cos'è che la rende un essere, non un cavallo, o un tavolo. Nei libri r ed E 1 della Metafisica, Aristo­tele parla proprio di questo genere di essere, dell'essere come un elemento equivalente all'Uno.

Con questa spiegazione scompaiono quasi tutte le difficoltà dei libri r ed E 1. Inoltre, ora possiamo comprendere perfetta­mente perché nell'esame dell'essere in quanto essere troviamo dei riferimenti alle diverse sfere dell'essere. Aristotele afferma che ciò che si può soprattutto dire dell'essere in quanto essere è che ogni essere (qua talis) è identico con se stesso, ed è solo un altro aspetto di questa auto-identità che viene espresso nel prin­cipio di non-contraddizione. Ora, Aristotele cerca di scoprire perché alcuni filosofi hanno negato implicitamente o esplicita­mente questo principio. Uno dei motivi addotto da Aristotele è che essi hanno osservato che ogni cosa intorno a loro muta, di modo che risultava ad essi difficile pervenire al concetto di auto­identità o di stabilità. Ma questi filosofi avrebbero dovuto rico­noscere l'esistenza di un'altra sfera dell'essere nella quale regna la stabilità. Il principio di non-contraddizione in Aristotele è un corollario della dottrina accademica secondo la quale le cose sensibili sono permanentemente in divenire, di modo che esse non esistono nel pieno senso del termine «esistere».

Ora, ad alcuni l'affermazione, che il principio di non-con­traddizione è applicabile (o rintracciabile) in una sfera dell'esse­re piuttosto che in un'altra, sembra una mera assurdità. Difatti lo è, qualora l'essere venga considerato come un abstractum ed il principio di non-contraddizione come una regola di logica for­male. Non è un'assurdità, tuttavia, se l'essere viene considerato come un elemento ed il principio di non-contraddizione come un

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principio ontico. Al contrario, risulta immediatamente evidente che l'essere, come qualsiasi altro elemento, può risultare offu­scato in una sfera e rivelarsi chiaramente in un'altra. È in parti­colar modo evidente per un Platonico che le Idee ed i numeri so­no più essere delle cose sensibili. Che cosa intendiamo quando diciamo «più essere»? Precisamente questo: nelle Idee e nei nu­meri l'essere è più potente, più chiaro, più puro. Si può esprime­re la stessa cosa dicendo che esso è meno determinato, meno permeato di negazione, e, in questo senso, più universale. Inol­tre, proprio questa affermazione, che una cosa potrebbe essere ad un grado superiore rispetto ad un'altra, non ha nessun senso per un lettore che interpreti l'essere come una categoria formale, come un abstractum, che può essere applicato ugualmente a, o astratto ugualmente da ogni altro essere. Ma per un Platonico ci sono diversi gradi dell'essere; alcune cose partecipano dell'esse­re in modo maggiore rispetto ad altre. Pertanto, l'essere può es­sere studiato meglio in alcune cose, meno bene in altre. Questo è precisamente il punto di vista di Aristotele nei libri r ed E 1 del­la Metafisica.

Ora, è ben noto che in molti passi al di fuori dei libri r ed E 1 della Metafisica Aristotele ha criticato il concetto di essere co­me un elemento, riducendolo ad un concetto universale che può essere applicato ugualmente a tutto ciò che esiste. Se leggiamo i libri r ed E 1 della Metafisica alla.luce di questi passi, potrem­mo interpretarli nel senso che essi propongono una metaphysica generalis. Studiati in se stessi, tuttavia, essi non indicano che Aristotele li abbia intesi in questo senso. Al contrario. L'intro­duzione del problema, la sbalorditiva frase contenuta in E 1, se­condo la quale la teologia riguarda l'oùa(cx immobile e l'essere in quanto essere, i riferimenti ad una sfera soprasensibile dell'esse­re come giustificazione del principio di non-contraddizione, tut­to questo risulta perfettamente chiaro e coerente solo se com­prendiamo che nei libri r ed El della Metafisica l'essere non è un abstractum, ma un elemento, simile a o forse identico con l'Uno accademico (o forse platonico). Pertanto, è un'unica e medesima branca della conoscenza che studia la suprema sfera dell'essere e l'essere in quanto essere.

7. Carattere accademico e neoplatonico della dottrina secondo cui tutti gli esseri sono riconducibili a due principi opposti.

Un'altra cosa ancora risulta immediatamente chiara. Rileg­gendo i libri r ed E 1 della Metafisica, scopriamo che, dal prin-

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cipio alla fine, viene considerata come valida e riesposta la teo­ria secondo la quale tutto deriva da due principi opposti. Questo è quanto leggiamo in Metafisica, r 2, 1003 b 36-1005 a 5, dove viene ripetuto che tutti gli esseri possono essere ricondotti (&vli­')'E'taL) all'essere ed al non-essere (1004 b 27-28) o all'uno e ai molti (33-34); tutti gli esseri sono costituiti da contrari (29-30; 1005 a 3-5), ossia ultimamente dall'uno e dai molti. È qui che Aristotele fa riferimento alla sua tavola dei contrari, senza nien­te che indichi che in questa tavola veniva criticata la dottrina dei due principi opposti. Tutto il passo insegna che la sapienza è la scienza dei contrari, e che tutti i contrari possono essere ultima­mente ricondotti (mediante &vaywy~) all'antitesi Uno-molti, o (considerando il fatto che, essendo l'Uno e l'essere equivalenti, lo devono essere anche i loro contrari) all'antitesi essere-non es­sere. (1004 b 27-31). È realmente possibile trascurare il fatto che Aristotele sostiene qui la dottrina dei due principi opposti, così severamente criticata altrove? Tutte le cose o sono contrari o consistono di contrari, e l'Uno ed i molti sono i principi dei [di tutti i] contrari (1005 a 3-5); questo è quanto Aristotele dice qui, non riferendo le dottrine di altri, ma come una sua personale convinzione. È proprio questa stessa convinzione che, in Meta­fisica, A 10, 1075 a 28-29, egli respinge con freddezza: «tutti i fi­losofi affermano che le cose si generano da contrari. Ma né l'af­fermazione "tutte le cose", né l'altra "da contrari" sono esat­te». Com'è possibile trascurare questa enorme differenza pre­sente nell'atteggiamento di Aristotele?

Ma ancora un'altra cosa non deve essere trascurata. Nel li­bro r, il fatto che «essere» ed «Uno» hanno molti e diversi si­gnificati non impedisce ad Aristotele di affermare che devono esserci elementi comuni a tutti gli esseri, mentre altrove 7 pro­prio questo fatto diviene un'argomento per dimostrare che è as­surdo cercare di trovare gli elementi comuni a tutti gli esse­ri; infatti, come può un elemento qualsiasi essere comune a qual­cosa che è una qualità e a qualcos'altro che è una quantità?

7 Ad esempio, Metafisica, A 9, 992 b 19; N 2, 1089 a 7; De anima, I 5, 410 a 13. Si dovrebbe forse accennare al fatto che, secondo Metafisica, r 2, la differenza fra 1tpòç é'v e X(J(9' é'v è irrilevante per il problema in questione, che è quello della riducibilità di tutti i contrari ad un'unica coppia principale.

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8. Ulteriore chiarificazione della formula che descrive la meta­fisica come «xix06Àou éh~ 1tpwnp>

Ed ora possiamo anche esaminare il significato di xix06Àou, come viene usato nei libri r ed E 1 della Metafisica. Il xix06Àou non è l'astratto (il generale, l'universale); esso è ciò che, in quanto concreto, è comune a tutti i casi particolari. Se tutti gli uomini hanno i capelli, questa qualità è un xix06Àou. Dal mo­mento che l'essere, considerato come un elemento, è presente ovunque, esso è un xix06Àou. Il xix06Àou è uno dei due costituenti fondamentali della sfera suprema dell'essere (con il non-essere come l'altro elemento). Questa sfera suprema dell'essere «cau­sa» in qualche modo tutte le altre sfere, ed i suoi elementi sono gli elementi di tutti gli esseri. Pertanto, il vero filosofo, ossia l'u­nico che si occupa della filosofia prima - che è la sola che con­cerne la prima (suprema) sfera dell'essere - tratta degli elemen­ti di questa sfera suprema e pertanto dell'essere. Implicitamen­te, pertanto, egli tratta dell'essere in quanto esso è presente do­vunque. In questo senso, la seguente tesi è perfettamente coe­rente: «la filosofia prima riguarda la sfera suprema dell'essere ed è una conoscenza universale, in quanto gli elementi di questa sfera suprema, essere (e non-essere), sono comuni a tutte [que­sto è il significato di xix06Àou] le sfere dell'essere e pertanto a tutti gli esseri». Supponiamo che ogni cosa sia ultimamente co­stituita di idrogeno e di ossigeno e che la «prima» combinazione di idrogeno e di ossigeno sia l'acqua; in questo caso, lo studio dell'acqua implicherebbe lo studio dell'idrogeno e dell'ossigeno e pertanto sarebbe uno studio dell'idrogeno e dell'ossigeno in generale o di questi due elementi in quanto comuni a tutte le co­se. La scienza dell'acqua sarebbe la scienza prima, e pertanto sa­rebbe una scienza universale. Se, tuttavia, il «primo» prodotto dell'ossigeno e dell'idrogeno fosse il gas ossidrico, la scienza che concerne il gas ossidrico sarebbe la scienza prima e pertanto più universale e concernerebbe i due elementi sopra menzionati co­me tali. Questo paragone non fa che «tradurre» l'affermazione di Aristotele: se la sfera del sensibile fosse l'unica sfera dell'esse­re, la fisica sarebbe la «prima sapienza» e riguarderebbe l'essere in quanto essere, dal momento che «essere» significherebbe «es­sere una realtà fisica». Ma, dal momento che c'è una sfera del­l'essere al di sopra della sfera del sensibile, è la filosofia «pri-

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ma» che studia l'«universale» e [pertanto] la prima sfera dell'es­sere. Già qui (f 3, 1005 a 33) il xcx96Àou e l'oùofa prima si pre­sentano tranquillamente sullo stesso piano, preparandoci all'af­fermazione: in quanto prima sarà universale (E 1, 1026 a 30-31). Nella sfera suprema, l'essere si presenta come un xcx96Àou. In tutte le altre sfere si presenta come un essere determinato. Il pas­saggio dall'essere determinato all'essere in quanto essere non avviene mediante ciò che noi definiamo un processo di astrazio­ne, ossia di formalizzazione e/o di generalizzazione, che pre­scinde da ciò che esiste in modo pieno e reale, dall'individuale, dal concreto, dal particolare, e si dirige verso il generale (univer­sale), che esiste solo (o quasi solo) nei nostri pensieri. Piuttosto, questo passaggio avviene omettendo alcuni caratteri concreti, ossia determinati, e mantenendo l'essere nella sua forma pura, incommista, ma nondimeno concreta e non astratta.

Dopo tutto, i passi sopra considerati non sono i soli nei quali il xcx96Àou non può essere considerato nel significato di «universale», di «generale», ecc. Forse il passo più noto, al qua­le non si addirebbe una tale traduzione, è quello di Fisica, I 1 (cfr. H. Cassirer, Aristoteles• Schrift « Von der Seele» [1932], pp. 14-24; W.D. Ross, Aristotle's Physics [1936], commentario, ad. /oc.). È ovvio che il termine xcx96Àou possiede in Aristotele più di un significato, ed è molto importante osservare che non sempre esso significa «universale» o «generale», se questi termi­ni vengono considerati nel senso di «più astratto», di «più vuoto per quanto concerne il contenuto, e pertanto di più comprensi­vo» ecc. 8•

8 Per un'analisi del concetto di x0t86Àou, si veda soprattutto: D. Badareu, L'lndividue/ chez Aristate, n.d. (1936], pp. 67 ss.; K. v. Fritz, Phi/osophie und sprachlicher Ausdruck bei Demokrit, Plato und Aristate/es, n.d. [1938], pp. 39; 64 ss.; cfr. J. M. Le Blond, Logique et Méthode chez Aristate (1939), spec. pp. 51 ss.; 75-83, 214, n. 4; N. Hartmann, Aristate/es und das Problem des Begriffs (1940), p. IO, ristampato in: Kleinere Schriften, voi. Il (1957), pp. 100-129, spec. 107 ss. In An. Post., Il 19, Aristotele sembra essere vicinissimo ad un'interpretazione del x0t86Àou come designante l'universalità astratta di un concetto cui si perviene me­diante una qualche specie di induzione; e tutti i passi in cui Aristotele attacca Plato­ne per aver considerato le Idee sia come universali sia come entità che esistono se­paratamente, egli usa il termine x«96Àou per designare l'universale astratto. D'altra parte, nel passo in cui il significato di xat96Àou viene esaminato ex professo, ossia An. Post., I 4, 73 b 25-74 a 3, il suo significato è «onnipresente» piuttosto che «astrattamente universale». In altri termini, è impossibile affermare che proprio il fatto che qualcosa venga designato da Aristotele come x0t86Àou sia sufficiente per dimostrare che questo qualcosa non poteva essere inteso da lui come qualcosa di

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9. Analisi di «Metafisica» K 3-7: i concetti di &q:,cx(ptaLç e di 1tp6a8taLç

Una volta che abbiamo letto i libri r ed E 1 come libri che insegnano la dottrina dei due principi opposti, non abbiamo nessuna difficoltà a leggere il libro K della Metafisica. Tutto ciò che dobbiamo fare è prendere le mosse dal capitolo 3 e leggerlo attraverso il cap. 7 (1060 b 31 - 1064 b 14). Osserviamo imme­diatamente che qui Aristotele accetta nuovamente la dottrina dei due principi opposti, e che suppone che il lettore la accetti come se essa fosse stata dimostrata altrove (1061 a 10-15, cfr. 1061 b 12-14). Viene inoltre rimosso un piccolo dubbio per quanto riguarda il problema se sia possibile dire di ogni cosa che essa è o A o non-A (1061 a 18-28). Senza la rimozione di questo dubbio, poteva essere contraddetta la dottrina secondo la quale ogni cosa può essere in definitiva ricondotta ad uno dei due con­trari. Perveniamo ora ad un confronto fra il procedimento della matematica e quella branca della filosofia prima che studia l'es­sere in quanto essere. 11 matematico svolge la sua indagine 1ttpt -rà ie &q:,cxLpfotwç. Che cosa significa questo? 'Aq:,cx(pEaLç qui si­gnifica un procedimento opposto a quello della 1tp6a8taLç e non significa ciò che noi comunemente definiamo astrazione 9• Noi passiamo dai numeri alle grandezze geometriche per 1tp6a8Emç, ossia aggiungendo all'elemento numerico quello della distanza. Oppure possiamo risalire dalle grandezze geometriche ai numeri per &q:,cx(ptaLç, ossia togliendo l'elemento della distanza (esten­sione). Agendo in questo modo, noi restiamo sempre all'interno della sfera del (relativamente) individuale, del particolare, del concreto, e non passiamo da questo all'astratto. I numeri «sono anteriori» alle grandezze geometiche, ed in questo senso sono universali (o più universali). È solo la nostra tendenza intellet­tuale nominalistica o semi-nominalistica che ci impedisce di ve­dere ciò in modo del tutto chiaro. In Aristotele - il padre del se-

esistente in modo separato. In alcuni passi, x0t86Àou e l'essere totalmente separato sono concetti che si escludono reciprocamente; in altri passi no. Cfr. F. Solmsen, Die Entwicklung, cit., pp. 84-90; W. D. Ross, Aristotle's Prior and Posterior Analytics (1949), commento a 73 b 25-32, p. 523.

9 Cfr. anche L. M. Régis, La Philosophie de la nature, «Études et Recher­ches ... » I. Philosophie. C. I (1936), pp. 127-158, spec. 128-132; M. D. Philippe, 'A'{!aleeaiç, 1t(!6a0euiç, xwetCuv dans la philosophie d'Aristote, «Revue Thomi­ste», 48 (1948), pp. 461-479.

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mi-nominalismo, l'antenato del nominalismo - ci sono passi nei quali l'&cpotlpEaLç non ha il significato che noi attribuiamo alter­mine astrazione; ma, in K 3, il termine viene usato in modo diff e­rente, e viene usato come si addice ad un vero realista concettua­le. I libri r, E 1, K 3-7 della Metafisica sono scritti da un tale rea­lista (con una sola lieve restrizione; si veda sotto). Fintanto che ci muoviamo all'interno di concetti astratti, nessuna 1tp6a8EaLç è in grado di colmare il distacco fra una infima species ed una realtà individuale, che esiste nello spazio e nel tempo. Dobbiamo fare un salto. D'altro lato, mediante l'astrazione, nel significato che noi attribuiamo al termine astrazione, saltiamo immediatamente dall'ambito spazio-temporale a quello ideale. In K 3, l'&cpo:(pEaLç non ha affatto il significato di un salto dal «reale» all' «ideale»; si tratta di un procedimento all'interno del reale. Noi presupponia­mo che, «prescindendo» dalle qualità di una realtà sensibile, quali il peso, la durezza, la temperatura, e mantenendo solamen­te la quantità ed il continuum, abbandoniamo l'ambito del reale e perveniamo a quello dell'ideale. Ma questo forse non è del tutto vero; non verrebbe certamente ammesso da un platonico, e non è affatto l'opinione che Aristotele sostiene in K 3. Le grandezze geometriche sono separate; esse sono separate ancor più di quan­to lo siano le cose sensibili. Le cose sensibili, infatti, non potreb­bero esistere senza le grandezze geometriche, mentre le grandez­ze geometriche possono esistere senza di esse. Le cose sensibili «derivano» per 1tp6a8EaLç dalle grandezze geometriche. Esse han­no bisogno per così dire, di un quantum in più di elementi origi­nari, oltre a qualche elemento derivato. L'&cpo:(pEaLç ristabilisce la originaria purezza delle grandezze geometriche. E come un geometra svolge la sua indagine intorno ai 'tà lç &cpoupfoEwç ed agendo in questo modo indaga anche le cose sensibili, allo stesso modo il «primo filosofo» svolge la sua indagine intorno ad una superiore sfera di 'tà lç &cpo:LpÉO'Ewç, ossia intorno ad oggetti che appartengono a questa sfera insieme con i loro principi originari, che sono l'essere ed il non-essere e le loro combinazioni, i loro rapporti, ecc. (1061 a 28-1061 b 11).

Si dovrebbe sottolineare che, quando Aristotele afferma che, oltre alla geometria ed alla aritmetica, c'è una matematica «prima» 10, neppure in questo caso egli sta parlando in

1° Cfr. l'analisi svolta da T. Heath nel suo libro, Mathematics in Aristotle (1949), p. 223. Heath paragona la matematica «prima» (universale, generale) di Aristotele alla nostra algebra.

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termini di astrazione, nel significato che noi attribuiamo al ter­mine astrazione. La matematica «prima» ha come suoi oggetti delle entità che sono più reali delle entità della aritmetica o della geometria. In alcuni passi, Aristotele negherà questo fatto. «Le proposizioni universali della matematica non si riferiscono ad enti separati ed esistenti a parte dalle grandezze e dai numeri» (Metafisica, M 3, 1077 b 17). Ma Aristotele sta fraintendendo la questione. Le grandezze ed i numeri stessi non sono separati: se si accetta questo punto di vista, la non-separatezza delle entità di una matematica «prima» non necessita di alcuna prova. Ma, se le entità aritmetiche e geometriche sono separate, non c'è nes­suna ragione per supporre che non lo siano anche le entità prea­ritmetiche. Su questo punto si può trovare un buon commento nelcap. Vdi/sc.,p.19, 19-20, 18F 11 •

La connessione di questa dottrina con un altro importante aspetto della filosofia Accademica è evidente. Si tratta della dot­trina che Aristotele attribuisce a Platone, secondo la quale c'è un'Idea comune alle cose che stanno le une alle altre nel rappor­to di anteriorità-posteriorità. Dal momento che questo punto è stato trattato altrove, sarà sufficiente un esempio specifico con­tenuto negli scritti di Aristotele (De anima, II 3, 414 b 21; 29-32). La figura piana maggiormente autosufficiente è il trian­golo. Per 1tp6a9emc;, dal triangolo deriviamo il quadrilatero, ecc. Il quadrilatero presuppone il triangolo; in altri termini, il trian­golo è contenuto in tutte le successive figure piane, ed in questo senso è un x0t96Àou. Da un 3 + x-angoli noi possiamo ascendere, per &q,0tlpEaLc;, al triangolo. Ora, è perfettamente chiaro che l'in­tero processo ascensivo-discensivo resta all'interno della stessa sfera della realtà; il triangolo è più astratto del quadrilatero, ma non nel senso che noi attribuiamo al termine astrazione; ed è la figura piana più universale, ma non perché sia «ideale», mentre il quadrilatero, il decaedro, ecc. sono «reali». Pertanto, la scien­za del triangolo sarebbe la scienza «prima» delle figure piane, ed in quanto prima universale. Se ci fossero alcuni elementi di cui è costituito il triangolo, ad esempio il «tre» e l' «estensione», la scienza prima delle figure piane studierebbe il «tre» e l' «esten­sione» in quanto tali. Potremmo anche dire: l'interpretazione della 1tp6a9EaLc; e della &q,0tlpEaLc; potrebbe svilupparsi in due di­rezioni principali, quella logica e quella metafisica. Seguendo la

11 Cfr. anche W. D. Ross, Aristotle's Metaphysics, il commento a E I, 1026 a25, eaM 2, 1077 a 9.

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prima direzione, si perverrebbe ad una specificazione e ad una universalizzazione (per astrazione), e l'ultimo passo di questo processo di specificazione si risolverebbe in una infima species. Seguendo la seconda direzione, si arriverebbe al concetto neo­platonico di 1tp6oòoç e di èma-rpocpT). In Aristotele, troviamo in­dicazioni di entrambe le direzioni. Ed esattamente la stessa cosa resta vera per il termine x0t86Àou: esso potrebbe svilupparsi o in un universale logico, e sarebbe trascendentale in quanto privo di un contenuto specifico, oppure potrebbe coincidere con il pieno ed illimitato essere, ed in questo caso sarebbe trascendentale in quanto al di sopra di ogni essere particolare.

Riassumendo, possiamo dire che il termine x0t86Àou do­vrebbe essere per lo più tradotto con «comune» piuttosto che con «universale»; il termine &cp0t(pEo-Lç con «sottrazione» piutto­sto che con «astrazione» 12•

10. Ulteriore chiarificazione del carattere accademico della me­tafisica di Aristotele

In questo modo, risulta chiara anche la seconda parte di K 7, 1064 a 28-36. C'è una scienza dell'essere in quanto essere, di­ce Aristotele. Dobbiamo esaminare se il suo oggetto è identico con quello della fisica. Questo non è possibile, in quanto la fisi­ca studia ciò che ha in sé il principio del movimento. Ma il suo oggetto non può essere identico neppure con quello della mate­matica. Infatti, è vero che la matematica studia ciò che non è soggetto a divenire; ma questi oggetti immobili non sono sepa­rati (essi sono &xwpLO''t'Ot). Pertanto, la metafisica studia una di­versa sfera dell'essere, che è immobile e separata (&x(VTJ't'Oç, XWflLG'tT)).

I termini «essere in quanto essere» ed «immobile e separa­to» vengono usati per designare un'unica e medesima cosa: la

12 Cfr. anche L. Robin, Aristote (1944), pp. 106-109, che interpreta la uni­versalità dell'essere in quanto essere affermando: l'essere in quanto essere è parti­colare ed universale allo stesso tempo; è universale in quanto ricorre in tutte le sfere dell'essere, con purezza decrescente. L'interpretazione di Robin è simile a quella dello ps. Alessandro, In Metaph., K 7, 1064 a 10, p. 661, 31-39 Hayduck: il xoi86Àou non deve essere considerato come un universale (predicato], ma come il primo [in una serie], e quando esso viene tolto, vengono tolti tutti i termini succes­sivi della serie. Una spiegazione diversa viene offerta dallo ps. Alessandro per quanto concerne E 1, 1026 a 16: il x1186Àou, in quanto riferito alla teologia, non in­dica l'universalità, ma piuttosto l'eccellenza del suo oggetto (p. 447, 32 Hayduck).

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sfera dell'essere che è l'oggetto proprio della metafisica. Non c'è la più piccola traccia di esitazione per quanto concerne l'equiva­lenza di questi due termini. Ma, se le cose stanno in questo mo­do, non è evidente che l'«essere in quanto essere» non può avere il significato che gli hanno attribuito gli interpreti post-aristote­lici? Non è evidente che sarebbe inutile interpretare la frase «im­mobile e separato» attribuendo ad essa il significato di «essere in quanto essere» nel senso moderno del termine, ossia nel senso di un abstractum? Non è evidente che corretta è solo l'interpre­tazione opposta, secondo la quale I' «essere in quanto essere» si­gnifica la suprema, immobile, incorporea sfera dell'essere?

L'intero capitolo termina (1064 b 11-14) con un sommario: l'oggetto della metafisica, ossia la sostanza immobile e separata (x.wp~at6v), è anteriore all'oggetto della fisica e della matemati­ca, e, in virtù di questa anteriorità (o, per questa stessa ragione), è un XC(06Àou. Sembra che non sia necessario nessun ulteriore commento.

Si potrebbe forse dire che l'interpretazione della frase esse­re in quanto essere nel senso di un universale logico non avrebbe mai avuto origine, se le ripetute affermazioni di Aristotele con­tenute nei libri r ed E 1 - secondo le quali tutti gli esseri sono costituiti da contrari, ed ultimamente dall'essere e dal non-esse­re - fossero state assunte nel loro significato immediato. Sareb­be stato anche sufficiente ricordare, rileggendo la frase essere in quanto essere quando essa compare per la prima volta, che suc­cessivamente Aristotele ha dimostrato che la conoscenza che studia l'essere studia anche i suoi contrari, e pertanto interpreta­re sin dall'inizio l'oggetto della metafisica come essere e non-es­sere, ma un essere ed un non-essere di un genere particolare, os­sia l'essere in quanto essere e il non essere in quanto non essere. L'essere ed il non essere sono presenti ovunque; l'essere in quan­to essere e il non essere in quanto non essere sono presenti solo in una particolare sfera dell'essere, in quella suprema, ed è que­sta particolarità che lo rende, che li rende universali al massimo grado.

Le implicazioni di questa interpretazione dei libri r, E 1 e K 3-7 della Metafisica sono di notevole interesse. Possiamo chiara­mente vedere come Aristotele partecipi del sistema metafisico dell'Accademia. Il presupposto fondamentale è il seguente: ol­tre ed al di sopra della sfera del sensibile (del mutevole) deve esi­stere almeno un'altra sfera, quella dell'intelligibile, dell'eterna-

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mente immutabile. Questa sfera dell'essere deve essere separata. Si è attribuita questa sfera a due generi di essere eterno ed im­mutabile: le Idee e gli enti matematici. Per vedere se entrambi i generi potessero soddisfare a questa ipotesi, dobbiamo com­prendere in che modo è stata interpretata la loro relazione con la sfera del mutevole.

In primo luogo, le Idee. Si è ritenuto che il rapporto fra le Idee e l'ambito del sensibile fosse un rapporto reale, o come noi diremmo, un rapporto causale (Metafisica, N 2, 1090 a 6). Ma, secondo Aristotele, tale rapporto si è rivelato essere al massimo un rapporto logico, ossia di implicazione, non di causazione. Per indicare questo, potremmo dire che le Idee sono risultate es­sere immobili. Non c'é nessun passaggio da esse all'ambito dello spazio e del tempo. Qualunque sia il significato di 1tp6a8EaLç, non c'è nessun modo per «far derivare» le cose sensibili dalle Idee.

Qualunque siano le specifiche obiezioni rivolte alle Idee, la situazione filosofica presupposta nei libri r, E 1, e K 3-7 è la se­guente: le Idee non possono essere l'ambito dell'eterno, di ciò che è realmente «responsabile» del sensibile. Per quanto concer­ne gli enti matematici, i libri r, El e K 3-7, hanno qualche dub­bio riguardo al fatto se essi siano o no del tutto separati.

Qualche dubbio, non di più. Questo è il solo punto in cui il realismo concettuale di Aristotele è un po' più limitato rispetto a quello accademico. La sfera soprasensibile, la cui esistenza vie­ne ammessa nei libri r, E 1 e K 3-7, viene indubbiamente conce­pita da Aristotele come separata. Fin qui, la presente analisi ha potuto seguire molto da vicino l'indagine di Jaeger.

Ma a questa dottrina delle sfere dell'essere ne è connessa un'altra. Le sfere (quali esse siano) devono derivare le une dalle altre (altrimenti nell'essere non ci sarebbe nessuna unità). Se es­se non derivano le une dalle altre, deve esserci qualche altro le­game che le connette. Pertanto, sono necessarie sia l'unità che la molteplicità delle sfere.

Ma il problema dell'unità e della molteplicità compare an­che all'interno di ciascuna sfera. In che modo si deve spiegare l'unità, e in che modo la molteplicità?

La risposta offerta dall'Accademia sembra che sia stata pressoché unanime: devono esserci ultimamente due elementi contrari, uno che è la causa dell'unità, l'altro della molteplicità.

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La loro interazione spiega l'universo. Il modo in cui definiamo questi elementi non è molto importante. La definizione di Uno e molti è appropriata così come quella di essere e non-essere, o co­me quella di identità ed alterità. Questi due elementi devono in qualche modo costituire gli elementi di tutti gli esseri in tutte le sfere dell'essere.

In questo contesto è molto importante osservare chiara­mente una cosa. Se noi applichiamo il nome di «universo» a tut­te queste sfere dell'essere (che sono costituite ultimamente da due elementi contrari) non possiamo mai essere sicuri se parlia­mo dell'universo come qualcosa di esteso nel tempo e nello spa­zio (come qualcosa di reale, nel senso comune del termine), op­pure dell'unione di questo universo con ciò che dovremmo defi­nire l'universo ideale, oppure se parliamo dell'universo degli es­seri ideali. Siamo posti ripetutamente di fronte alla seguente do­manda: ha senso «unire» ciò che dovremmo chiamare l'ideale a ciò che dovremmo chiamare il reale, ed applicare il nome di uni­verso a questo strano insieme? Tuttavia, se rifiutiamo di attri­buire un significato a questo insieme, ci precludiamo la possibi­lità di comprendere alcune delle posizioni più fondamentali del­la metafisica greca. Poiché l'ideale appartiene all'universo non meno di quanto vi appartenga il reale, la metafisica (l'ontologia) greca è spesso anche una cosmologia. Affermare che ci sono tre sfere dell'essere, delle quali quella inferiore è la sfera del sensibi­le, mentre le altre appartengono al soprasensibile, sembra essere una descrizione metafisico-logica di un ordine non-temporale e non-spaziale. È molto difficile comprendere come si possa ap­plicare l' «essere» al sensibile ed al soprasensibile senza che con ciò non si cada in una omonimia. Ma questa descrizione preten­de di essere una descrizione dell'universo reale. Da questo punto di vista, dunque, non c'è nessuna differenza fra le seguenti posi­zioni: (I) dire che il sensibile è semplicemente un'altra sfera del­l'essere, che «deriva» dal soprasensibile - in altri termini, inter­pretare il soprasensibile «in modo idealistico» -; oppure (2) di­re che il soprasensibile «abbraccia» il sensibile, interpretando, pertanto, l'ideale «in modo realistico»; o (3), in modo più carat­teristico, dire che l'ideale e il non-spaziale sono al di là dei cieli, combinando in questo modo stranamente lo spaziale e il non­spaziale. Tutto questo è un'espressione perfettamente legittima di un punto di vista filosofico, secondo il quale non c'è nessuna

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differenza fra l'ordine metafisico-logico e qualsiasi altro ordine. Non c'è nessuna differenza fra l'implicazione e la causazione, o piuttosto, la causazione è ultimamente implicazione. Poiché gli Accademici sono realisti concettuali, il sensibile deve poter deri­vare dal soprasensibile.

Da questo punto di vista possiamo apprezzare molto me­glio la frequente domanda che compare in Aristotele: se un cer­to processo descritto come derivazione, origine, ecc. sia stato in­teso dal suo autore come un processo temporale o come un pro­cesso non-temporale. L'esempio più noto è la famosa contro­versia relativa al problema se la cosmogonia del Timeo sia stata interpretata da Platone come un evento nel tempo. Un altro esempio è il modo in cui Aristotele considera i Pitagorici (ad esempio, Metafisica, A 8, 989 b 34; N 3, 1090 a 32-35; 1091 a 13-20). Essi «fanno derivare» l'universo fisico dai numeri, così come «fanno derivare» i numeri dal pari e dal dispari; i Pitago­rici sono stati chiaramente dei cosmologi. Talvolta Aristotele descrive questo processo come un tentativo di derivare le gran­dezze da ciò che non è grandezza (Metafisica, A 8,990 a 12; cfr. 10, 1075 b 28, si veda sotto).

Sarebbe inappropriato considerare questo problema come un problema filologico, che si sarebbe potuto risolvere doman­dando direttamente a Platone: come hai inteso la tua cosmogo­nia? Come un evento temporale? O la descrizione temporale è stata solamente un espediente letterario? Prima di rispondere a queste domande, Platone avrebbe potuto domandare: c'è qual­che reale differenza fra l'implicazione e la causazione? Qual è la realtà del tempo? Solo se c'è reciproca comprensione su questo punto, la mia risposta avrà senso. Sembra che il punto di vista accademico fosse propenso a negare la realtà dello spazio-tem­porale; lo spazio è quasi un nulla, il tempo è solo un'immagine dell'eterno. In questo senso, avevano ragione quegli Accademici che insistevano sul fatto che il Timeo ha presentato la cosmogo­nia come un evento temporale solo a scopo esemplificativo. Questo non significa che l'universo sia esistito dall'eternità ed esista per l'eternità, ma, piuttosto, che esso non è esistito nel tempo. Nessuna parte dell'universo è esistita nel tempo, pertan­to sarebbe perfettamente legittimo interpretare l'universo come

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costituito da sfere dell'essere, alcune delle quali eterne, altre temporali. La temporalità è solo una forma dell'eternità 13 •

Pertanto, supponendo l'esistenza di più di una sfera del so­prasensibile, l'universo della metafisica accademica si presenta nel modo seguente:

non-essere

il soprasensibile o le sfere soprasensibili

······--~ I·-.. • il sensibile

Questo schema è del tutto adeguato, in quanto presenta sia il soprasensibile che il sensibile nello spazio. In questo siste­ma, lo spazio non può essere nient'altro che una forma partico­lare di alterità, di diversità ecc.; la diversità, ecc., non può essere nient'altro che lo spazio in quanto esistente nel soprasensibile. All'interno di questo sistema, non è possibile insistere sul fatto che i numeri o sono estesi (corpi fisici) o sono ideali 14•

Tutto questo risulta ancora più chiaro quando consideria­mo il mutamento ed il movimento. Secondo un punto di vista

13 Cfr. C. Mugler, Platon (1948), pp. 276 ss. Nella sua recensione al libro di Mugler («Review of Metaphysics», 4 [1951], pp. 395-425), Cherniss afferma che qualsiasi tentativo di far derivare lo spazio dall'ambito dell'inesteso, che rappre­senterebbe un ulteriore aspetto del tentativo generale di superare il xwpLaµ6ç fra l'ambito delle Idee e l'ambito del sensibile, avrebbe costituito un capovolgimento radicale dell'autentico motivo ispiratore della filosofia platonica. Ammettiamo quanto dice Cherniss: ma si può escludere che Platone abbia cercato ultimamente di capovolgere radicalmente il motivo ispiratore della sua filosofia? Sarebbe stata un'impresa ammirabile. La tarda filosofia di Schelling non è forse un tentativo di capovolgere radicalmente il tipo di non-xwpLaµ6ç da lui ammesso e di reintrodurre il xwpLaµ6ç fra l'essenza e l'esistenza, e pertanto non è forse una vera e propria ne­gazione della sua filosofia dell'identità?.

14 Cfr. A. Lautman, Symétrie et dissymétrie (1946), pp. 23 ss.

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ingenuamente nominalistico, il movimento ed il mutamento so­no eventi «reali», mentre la diversità (alterità) è una categoria logica. Le cose non stanno in questo modo nel sistema accade­mico. Il mutamento ed il movimento non sono nient'altro che una forma particolare di alterità. Dal punto di vista del nomina­lismo ingenuo, l'universo accademico è completamente statico, in quanto il nominalismo ingenuo può concepire il mutamento solo nel tempo. Ma il mutamento nel tempo non è nient'altro che (alla lettera) la diversità nell'eterno.

In altri termini, il realismo concettuale, ossia l'affermazio­ne che il soprasensibile non è meno separato del sensibile, com­porta la conseguenza che il sensibile non è più separato del so­prasensibile. Coloro che non hanno occhi per vedere il soprasen­sibile diranno, pertanto, che in questo sistema il sensibile si ri­solve ultimamente in un'illusione. Questo non è vero: dobbiamo solo comprendere che le relazioni che esistono nello spazio e nel tempo e che sono connesse da vincoli causali non sono nient'al­tro che relazioni «logiche».

Tutto questo può sembrare molto strano per un nominali­sta o per un semi-nominalista. Egli insisterà sul fatto che solo ciò che esiste nello spazio e nel tempo è reale. Insisterà sul fatto che l'implicazione logica e la causazione sono due cose comple­tamente diverse; sul fatto che il processo deduttivo è molto di­verso da quello causale. Insisterà sul fatto che l' ordo idearum è diverso dall'ardo rerum. Insisterà sul fatto che, confondere que­sti due ordini, è stato uno degli errori fondamentali nella mag­gior parte dei sistemi metafisici. Non possiamo esaminare la correttezza di queste opinioni. Tuttavia, possiamo dire che, per comprendere la metafisica greca, dobbiamo comprendere il suo modo realistico di pensare.

È da questa metafisica realistica che ha preso le mosse Ari­stotele. Dobbiamo soffermare la nostra attenzione in particolar modo sulle reazioni di Aristotele alla teoria delle Idee. Nel pe­riodo in cui Aristotele scriveva i libri r, E 1, K 3-7 della Metafi­sica, della teoria delle Idee veniva ancora accettato solamente il suo nucleo più essenziale: che deve esserci almeno una sfera so­prasensibile dell'essere. Ma il resto del sistema accademico, in particolar modo la teoria dei due principi opposti, che include la derivazione di tutte le sfere dell'essere, era ancora mantenuto in comune dagli Accademici e da Aristotele. W. Jaeger (Aristate/es

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[1955 2], pp. 96 ss.) ha visto questo punto molto bene per quanto

concerne il Protreptico. È strano che non l'abbia visto chiara­mente quando ha letto i libri r, E 1, e K 3-7 della Metafisica. E tuttavia facciamo un confronto. Nel Protreptico troviamo solo questo paragrafo:

«La sapienza è conoscenza delle cause e degli elementi mol­to prima che non delle cose che a queste cause e a questi elementi seguono. Non sono quest'ultime gli oggetti principali [il termine ~xpoc viene usato come nella Metafisica di Teofrasto, nel passo relativo a Speusippo che abbiamo citato sopra a p. 178], né da queste derivano i primi principi, ma dai primi principi ed in vir­tù di essi tutte le altre cose manifestamente si generano e si for­mano. Che sia il fuoco o l'aria o il numero o qualche altra natu­ra la causa ed il principio di tutte le altre cose, è impossibile co­noscere tutte le altre cose ignorando le prime: come potrebbe una qualsiasi persona conoscere una parola senza conoscere le sillabe, o come potrebbe conoscere queste senza conoscere gli elementi?» (fr. 52, p. 61, 9-17 Rose; cfr. R. Walzer, Aristotelis dialogorumfragmenta [1934], p. 29 con n. 2).

Jaeger ha ragione. L'uomo che ha scritto questo passo cre­de che la sapienza sia una ricerca di quegli elementi da cui, ulti­mativamente, sono costituite tutte le cose. Jaeger ha ragione an­che quando afferma che è proprio questo punto di vista che in seguito è stato completamente respinto da Aristotele. Qui, tutta­via, accade qualcosa di strano. È stato Jaeger che ci ha liberato dall'oppressione di dover interpretare un libro chiamato Metafi­sica. Non c'è mai stato un tale libro. E ciò nonostante lo stesso Jaeger afferma che la dottrina degli elementi viene criticata da Aristotele ne «la Metafisica». Possiamo ancora sostenere una cosa del genere? Siamo forse ancora eccessivamente influenzati dal presupposto della unità del libro? La verità è che la dottrina degli elementi viene criticata in alcune parti della Metafisica, mentre nei libri r, E 1 e K 3-7, viene accettata ed interpretata in modo molto più dettagliato e con maggior rigore di quanto av­venga nel popolare Protreptico.

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11. Il carattere neoplatonico dei concetti di «essere in quanto essere» e di «essere indeterminato» e i relativi problemi gno­seologici

Lo stesso Aristotele, nella misura in cui ha condiviso l'Ableitungssystem dell'Accademia, ha dato l'avvio, insieme con gli altri Accademici, al Neoplatonismo. E l'oggetto della sua filosofia prima, l'essere in quanto essere e pertanto il divino, è molto simile all'oggetto del sistema metafisico di Speusippo. L'oggetto della metafisica di Aristotele è sia l'essere in quanto essere, ossia l'essere che per la sua esistenza non deve pagare il prezzo di essere qualcosa di determinato, e che, in questo senso, non deve ammettere il non-essere - l'essere che è semplicemen­te essere e che pertanto è, in questo senso, totalmente indetermi­nato-; sia il suo opposto, il non-essere, che anch'esso non deve pagare per la sua esistenza il prezzo di essere solamente l'altro­dall' essere qualcosa di determinato. Tutte le cose derivano da ciò che è totalmente indeterminato e, in questo senso, da ciò che è pienamente e positivamente essere e dal suo opposto. Nella mi­sura in cui si allontanano dai principi supremi, le cose diventano sempre più determinate, nel senso che contengono sempre più non essere; questo non-essere, a sua volta, diviene sempre più una mera alterità. Nell'ultimo gradino di questa scala troviamo cose che sono totalmente determinate e che, in questo senso, so­no vicinissime al non-essere. In altri termini, la determinatezza e l'indeterminatezza sono concetti polari. La loro polarità può es­sere espressa nella duplice asserzione: solo ciò che è completa­mente indeterminato è pienamente reale; ciò che è pienamente reale deve essere pienamente determinato. La metafisica è lari­velazione di questa latente polarità, e questo tipo di metafisica ha avuto inizio nell'Accademia, incluso Aristotele. La polarità dei concetti di essere e di non-essere lascia le sue indelebili tracce negli scritti di Aristotele. L'essere in quanto essere, che costitui­sce il tema della metafisica di Aristotele, è il più ricco di essere, non il più povero. È l'oùcrfot où -.t ov, &À.À' ov &1tÀwç (Metafisica, Z 1, 1028 a 30-31). Sebbene Aristotele applichi questa definizio­ne a qualsiasi oùcr(cx, si può dire che l'oùa(cx che costituisce l'og­getto della suprema sapienza è l'essere nel pieno ed illimitato senso del termine.

D'altro lato, ciò che è pienamente determinato nel senso

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comune del termine, inclusa la determinatezza nel tempo e nello spazio, è un fascio di negazioni, mentre ciò che è pienamente in­determinato (l'essere in quanto essere) è indeterminato non nel senso di essere universale, ma nel senso di essere «il-limitato» e pertanto assolutamente positivo.

Per questo tipo di pensiero, è del tutto naturale affrontare il seguente problema: in che modo questo essere «il-limitato» può diventare oggetto della nostra conoscenza? La conoscenza co­mune sembra essere propriamente una conoscenza di tipo predi­cativo, ma in che modo può essere conosciuto qualcosa, la cui es­senza è di non avere alcun predicato (l'avere dei predicati, infat­ti, è l'espressione della determinatezza)?

I tipi di risposta possono essere classificati nel modo se­guente:

1. Al di sopra della conoscenza di tipo predicativo c'è un'al­tra forma di conoscenza, puramente intuitiva, che coglie gli og­getti senza la mediazione di un predicato.

2. Il principio ultimo (l'essere in quanto essere, l'Uno, l'as­soluto) non può essere conosciuto nel senso proprio del termine; esso può essere «conosciuto» solo in modo negativo, ossia aff er­mando prima e negando poi tutti i possibili predicati. Agnoscen­do cognoscitur (su questo principio, cfr. F. Cumont, Lux perpe­tua (19491, pp. 419-421).

3. Il principio ultimo può essere conosciuto solamente aff er­mando prima e negando poi tutti i possibili predicati; tuttavia, questo processo di affermazione e di negazione non è né soggetti­vo, né arbitrario; esso è piuttosto la ripetizione del solo modo in cui l'assoluto può esistere, ossia divenendo qualcosa di determi­nato, negando in tal modo la sua propria natura, il suo essere as­soluto, ed essendo costretto da questa contraddizione a negare la sua negazione, ossia ad affermare se stesso. Aliud cognoscendo se ipsum cognoscit. La totalità sistematica di tutte le affermazio­ni negate è l'essere e la conoscenza dell'assoluto, dove il «dello» è, ad un tempo, un genitivus subiectivus ed obiectivus.

12. Analisi di «Metafisica» e 10: il concetto di davvOe-ra

Se il sistema di Platone culmini o no nella conoscenza del primo tipo è una ben nota questione controversa. Il ruolo che la conoscenza immediata con l'atto del 8ryt!v ha in Aristotele costi-

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tuisce un problema ben noto. La piena consapevolezza del fatto che il pensiero predicativo non può essere applicato a ciò che pienamente è (lvipyuoc) viene espressa da Aristotele in Metafisi­ca, e 10, 1051 b 17 - 1052 a 5 15 • L' «essere in senso pieno» viene qui designato come &cruv0E-rov, e viene anche detto che il termine essere non può essere applicato a questi &cruv0E'toc nello stesso modo in cui esso viene applicato ai cruv0E'toc (1051 b 23); questo è il modo con cui Aristotele afferma che essi sono al di sopra del-1' essere, sebbene l'espressione «al di sopra dell'essere» non sia sua. Il metodo con cui essi vengono conosciuti è il 0Lyy&vuv, che è completamente differente dal pensiero predicativo. E proprio come «essere» qui significa essere in quanto essere, così non-es­sere non significa più essere - altro - da, ma costituisce una piena alternativa all'essere in quanto essere (1052 a 1). Per quanto concerne i composti, l'essere è un essere determinato, e il non­essere è un non essere questo o quello (1051 b 34-35), ma niente di questo è vero per quanto concerne gli esseri incomposti. Se es­si possono ancora essere designati come oggetti, sono oggetti senza predicati positivi (affermati) o negativi (negati). Di conse­guenza, come essi possono solamente esistere o non esistere, ma non possono esistere in un determinato modo o in un altro, così possono solamente essere conosciuti o non conosciuti, ma non può esserci nessun errore a loro riguardo (1051 b 21-28).

È ben noto che l'intero problema compare anche in Teofra­sto. Gli axpoc xoct 1tpw'toc (che evidentemente corrispondono agli &cruv0E'toc di Aristotele) possono essere conosciuti solo dal vouç e solamente con una specie di 0LjEtv e di &1tnw; pertanto, non può esserci nessun inganno riguardo ad essi (Metafisica, VIII 25, p. 28, 13-16, Rosse Fobes; Zeller, 11/2 [1921 4

], pp. 190; 195; 824). Se il modo in cui abbiamo presentato il problema degli

&cruv0E'toc è corretto, la questione più importante che qui emerge

15 Si tratta di una sezione estremamente difficile, e l'interpretazione sopra riportata è puramente ipotetica. A questo proposito, si veda particolarmente Schel­ling, Einleitung indie Philosophie der Mytho/ogie, specialmente Funfzehnte Vor/e­sung (Siimtliche Werke, Il, voi. I, pp. 321-385, spec. 340-359). Il rapporto di Schel­ling con Aristotele è molto interessante (cfr. K. Eswein, Schellings Verhiiltnis zu Aristoteles, «Philosophisches Jahrbuch», 47 [1934], pp. 84-112). Partendo da qui, alcune fila sembrano condurre all'interpretazione di Aristotele data da Heidegger (Platons Lehre von der Wahrheit [1947), p. 44) ed anche a ciò che sembra essere una svolta volontaristica nei suoi scritti più recenti (Ho/zwege [1949), pp. 215 ss.; per il titolo, cfr. Schelling, Einleitung, cit., p. 496).

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riguarderà la loro pluralità. Come può un àcruv0e:tov distinguersi da un altro? Si vede immediatamente che questa domanda ci rinvia al problema della pluralità di motori immobili nel sistema di Aristotele. L'affermazione di una tale pluralità sembra essere incompatibile con la dottrina secondo la quale la materia è il so­lo principio di individuazione. Ora, è molto caratteristico che A. Faust, Der Moglichkeitsgedanke, 2 voli. (1931), voi. I, p. 216, cfr. anche p. 359, interpreti le dottrine di Metafisica, 0 10, co­me se esse fossero in rapporto esclusivamente con il problema della conoscenza di Dio (genitivo oggettivo e soggettivo). Il solo oggetto della cpacrLt; ( che si distingue sia dalla xoc,acpoccrLc; sia dalla à1t6cp0tcrLc;) è, secondo Faust, Dio. Chi nega la Sua esistenza non commette un errore, ma è semplicemente ignorante. Anche Dio conosce Se stesso solo mediante l'atto non predicativo del 0Ly-'(IXVELV (Metafisica, A 7, 1072 b 21). Questa interpretazione di Faust si fonda sul presupposto che, essendo la materia il solo principio di individuazione in Aristotele, nel suo sistema non c'è posto per più di una forma incorporea, ossia per più di una sola divinità (ibi., p. 70). Ora, il paragone istituito da Faust fra l'àcruv0e:,ov di Metafisica, 0 10, ed il divino (o la divinità) sem­bra essere del tutto corretto e fin qui sembra essere in totale ac­cordo con l'esposizione che sopra abbiamo fatto. Ma il tentati­vo di Faust di escludere qualsiasi pluralità di &cruv0e:,oc fallisce in virtù del fatto che nell'intero passo di Metafisica, 0 10, 1051 b 17 - 1052 a 5, Aristotele non usa una sola volta il singolare &cruv0e:,ov, mentre ricorre ripetutamente il plurale &cruv0e:,oc e la frase 1t&cr0tL µ~ auv0e:,oct oùcr(ocL viene usata senza esitazione. In altri termini, contrariamente a quanto afferma Faust, nel siste­ma di Aristotele c'è posto per una pluralità di forme incorporee, almeno secondo la convinzione propria di Aristotele. Sull'intero problema (che è strettamente connesso con il problema del mo­noteismo di Aristotele), si veda Ph. Merlan, Aristotle's Unmo­ved Movers, «Traditio», 4 (1946), pp. 1-30.

La conoscenza del secondo tipo (2) è caratteristica di Ploti­no e di altri Neoplatonici. Ma potrebbe anche darsi che l'agno­scendo cognoscitur fosse già noto al tempo di Teofrasto. In Me­tafisica, VIII, 23-24, p. 26 Rosse Fobes, Teofrasto dice: di alcu­ne cose può essere vero che esse sono conoscibili con l'essere in­conoscibili (yvwcr,Òt -~ ayvwcr,oc dvocL) - e che questa [ignoran­za] sia il modo appropriato per conoscerle-, ma [qui] è neces-

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saria un'ulteriore ricerca, e, ogni volta che è possibile, è più ap­propriato esprimere queste cose per analogia piuttosto che solo per ignoranza, come se si dicesse che le cose invisibili [vengono viste] col non essere viste.

Una linea diretta conduce da questo passo ad Albino, che, nel cap. X del suo Didascalicus, pp. 59-61 Louis, ha descritto i modi per conoscere Dio, l'ineffabile, o come &cpotlpEo-tç, o come analogia, o come ascensione. Non è necessario che esaminiamo il significato che la &cpcx(pEo-tç ha nel presente contesto. Come ab­biamo notato sopra, essa può avere il significato o di astrazione, nel senso comune del termine, o di sottrazione; la prima condu­ce al più vuoto, la seconda al più pieno concetto di essere in quanto essere, ed i due punti di vista in Albino non sono chiara­mente distinti (si veda R.E. Witt, Albinus [1937], p. 132, ma an­che K. Praechter, art. Syrianos (1) in RE, IV A 2 [1932]; H.A. Wolfson, Albinus and Plotinus on Divine Attributes, «Harward Theological Review», 45 [1952], pp. 115-130, spec. 117-121; 129 ss.); ma, in ogni caso, sembra che i due termini, analogia ed &cpcx(pEo-tç (una qualche specie di negazione), siano chiaramente preparati nel passo di Teofrasto 16•

La conoscenza del terzo tipo sembra del tutto sconosciuta prima di Hegel. Ma la famosa teoria di Speusippo, secondo la quale non si può conoscere niente se non si conoscono tutte le reità esistenti (Aristotele, Analitici posteriori, II 13, 97 a 6; fr. 31 a-e Lang), può essere benissimo un'anticipazione dell'idea hegeliana di una conoscenza assoluta nel senso di un sistema completamente sviluppato. Se la relazione di tutte le parti del-1 'universo è una qualche specie di relazione logica, ossia se la co­noscenza non ha nessun punto di riferimento al di fuori di se stessa, ogni forma di conoscenza, tranne che la totalità del sape­re, sarebbe una conoscenza incompleta 17• D'altro lato, in un si-

16 Non sembra appropriato riferire questo passo di Teofrasto ad Aristotele, Retorica, II 24, 1402 a 6-7, in quanto il contesto mostra che Teofrasto qui sta par­lando di un'intera classe di cose, che sono presumibilmente al di sopra sia dei corpi sensibili che degli enti matematici, e per niente affatto di sofismi, come invece fa Aristotele. D'altro lato, Aristotele è ben consapevole di quanto siano vicine la filo­sofia, la dialettica e la sofistica, quando si perviene all'indagine dell'essere in quan­to essere (Metafisica, r 2, 1004 b 15-26).

17 Il problema viene formulato in un modo molto semplice da A. N. White­head, Science and the Modern World (1927), cap. X. Tuttavia, qui esso viene ri­stretto alla conoscenza concettuale, nettamente distinta dalla «conoscenza» sen­sibile.

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sterna di conoscenza pienamente sviluppato, conoscere una cosa significherebbe propriamente conoscere tutte le altre cose, ossia la cosa sarebbe conosciuta solo conoscendo ogni altra cosa di­versa-da-essa. La conoscenza di questa cosa consisterebbe nel complesso totale della conoscenza concernente tutte le altre co­se. La piena conoscenza è la docta ignorantia.

Pertanto, troviamo in Aristotele ed in Teofrasto, ed in par.­te anche in Speusippo, tutti i problemi e le risposte che dobbia­mo aspettarci in una filosofia che ammette il concetto di essere in quanto essere nel senso dell'indeterminato, e pertanto del più reale, e che considera questo essere in quanto essere ed il suo contrario come l'oggetto della sapienza e che si preoccupa di far derivare tutte le cose esistenti da questi due principi supremi.

13. / passi in cui Aristotele critica la dottrina dei due principi opposti e il sistema di derivazione del particolare dall'uni­versale

Possiamo ora ritornare alle dottrine dei due principi oppo­sti così come vengono presentate da Aristotele. Aristotele ha ac­cettato queste dottrine in Metafisica, r, E 1, e in K 3-7; ma è ben noto che egli le ha criticate in altre parti dei suoi scritti. In­tendiamo esaminare alcuni dei passi classici, nei quali viene cri­ticata la dottrina dei due elementi opposti, per comprendere me­glio, sotto questo aspetto, il punto in discussione fra Aristotele e l'Accademia 18 •

1. Metafisica, A 8, 989 b 24-990 a 18. È la forma pitagorica di questa dottrina che qui viene criticata. Secondo l'esposizione che qui fa Aristotele, i Pitagorici hanno ammesso due principi opposti 19, che Aristotele qui indica come il «limite» e l'«illimi­te», ed altrove (A 5, 986 a 18-19) come il «pari» ed il «dispari», l' «illimitato» ed il «limitato». Altri Pitagorici (986 a 22-26) han­no definito questi due principi opposti come uno e molteplice,

18 Cfr. Metafisica, A 5, 986 a 1-2. Le parole sono pressoché identiche a quelle di Metafisica, A 6, 987 b 19-20.

19 I Pitagorici affermavano che gli elementi dei numeri sono gli elementi di tutti gli esseri; Platone affermava che gli elementi delle Idee sono gli elementi di tut­ti gli esseri. In che modo? Lo sono in quanto, secondo i Pitagorici, il numero è an­teriore ad ogni altra cosa, e in quanto, secondo Platone, le Idee sono le cause di ogni altra cosa.

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destro e sinistro, maschio e femmina, fermo e mosso, retto e curvo, luce e tenebra, buono e cattivo, quadrato e rettangolo [ossia evidentemente: preservando l'identità a x a, o cadendo nella diversità a x b]. A prima vista, si tratta di una sinossi estre­mamente sommaria. Le differenze logiche (o contrari) e le diffe­renze reali (o contrari) vengono enumerate le une accanto alle altre. Ma non c'è niente di sommario in ciò; un sistema metafisi­co che riconduce ogni cosa a due principi opposti nega implicita­mente qualsiasi vera differenza fra i rapporti reali e quelli logici. E proprio la stessa cosa vale per Parmenide; il rapporto fra l'es­sere ed il non-essere è analogo al rapporto fra il caldo ed il fred­do (A 5, 987 a 1).

La critica più incisiva nei confronti di questa dottrina dei due principi opposti è quella secondo la quale i due principi ap­partengono alla sfera dell'ideale (del soprasensibile). Essi, per­tanto, non sono in grado di spiegare l'esistenza del reale, e non può esserci nessun legame causale fra essi e le cose reali, né sono in grado di spiegare il temporale, lo spaziale, i rapporti causali, ossia il mutamento ed il movimento delle cose reali (A 8, 990 a 8-18).

Si tratta di una critica tagliente. Ma non sembra che essa confuti i Pitagorici. In seguito, essi verranno difesi e così lo sa­rà, su alcuni punti, anche il sistema accademico. Una tale difesa dovrebbe chiarificare considerevolmente il punto in discussione.

È vero che dagli elementi (principi) ideali (soprasensibili) non possono derivare le cose reali (spazio-temporali)? È vero che è impossibile derivare il peso dal numero?

Il problema ci ricorda la polemica fra Krug ed Hegel. Krug provocava Hegel: potrebbe Hegel «far derivare» da elementi ideali la sua penna?

Hegel non fu affatto impressionato da questa critica. Egli avrebbe potuto rispondere: se Krug può spiegarmi che cosa egli intende con l'espressione «sua penna», prometto che mostrerò come la «sua penna» derivi da elementi ideali.

Il fatto è che né Krug, né nessun altro può dire che cosa si­gnifichi l'espressione «sua penna» senza rendere questa penna un oggetto ideale (soprasensibile). Ciò che in un oggetto è cono­scibile può essere «fatto derivare» da elementi ideali, in quanto l'oggetto come oggetto di conoscenza è già un oggetto ideale, il

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punto in cui si intersecano le categorie del pensiero. La «penna» è un oggetto, una cosa, e «oggetto» o «cosa» sono categorie molto astratte; ed il termine «suo» lo è ancora di più. L'errore di Aristotele nella critica ai Pitagorici è precisamente l'errore di Krug: ritenere che «pesante» sia qualcosa di meno astratto di «numero». È l'errore di ogni empirista. In Aristotele l'errore è reso più grave dal fatto che egli sa molto bene che ogni forma di conoscenza è una conoscenza dell'universale, e pertanto dell'i­deale e del soprasensibile.

2. La dottrina dei due elementi opposti viene criticata da Aristotele incidentalmente, quando egli esamina la teoria delle Idee e dei numeri di Platone, ossia in Metafisica, A 9, 990 a 33 -993 a 10; ma il passo più interessante è quello di Metafisica, A 9, 992 b 18 - 992 b 24. Proprio la nozione di «tutto», per quanto ri­guarda la teoria degli elementi, è auto-contraddittoria. Come può esserci un elemento, diciamo, del fare? Sembra che solo le cose abbiano degli elementi, ma le cose sono solamente una par­te del «tutto». Pertanto, è inutile cercare di trovare gli elementi del «tutto», sia delle cose che dei rapporti fra le cose.

Si tratta nuovamente di una critica tagliente. Ma un realista risponderebbe: naturalmente, possono esserci elementi solo del­le cose. Ma ogni cosa è solamente una relazione di cose, e, in questo senso, gli elementi di tutte le cose sono gli elementi di tut­ta la realtà.

3. La critica successiva (A 9, 992 b 24-33) è particolarmen­te inconsistente, o fraintende la questione. La conoscenza degli elementi, dice Aristotele, è impossibile, in quanto ogni cono­scenza deriva da una qualche conoscenza precedente; la cono­scenza degli elementi sarebbe la conoscenza ultima, in quanto sarebbe la conoscenza di tutte le cose; la conoscenza ultima non potrebbe derivare da una conoscenza precedente. Se vera, que­sta critica negherebbe interamente la possibilità della conoscen­za, o equivarrebbe all'affermazione neopositivistica (Schlick), secondo la quale ogni conoscenza è una riconoscenza (natural­mente non nel senso dell'anamnesis di Platone). Ma, anche co­loro che fossero disposti ad accettare il detto di Schlick, ammet­terebbero forse che esso è discutibile.

4. Le due critiche successive (A 9, 992 b 33 - 993 a 7) non hanno nessun interesse nel presente contesto. L'ultima (A 9, 993 a 7-10), tuttavia, è molto interessante. Se è vero, dice Aristotele,

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che gli elementi di cui sono costituite tutte le cose sono gli stessi, colui che conosce gli elementi conoscerebbe ogni cosa. Ma come si potranno conoscere gli oggetti dati dalla sensazione? Il signifi­cato di questa domanda di Aristotele è il seguente: come posso­no essere conosciuti tali oggetti prima di avere la sensazione stessa?

Si tratta nuovamente di una obiezione che non impressione­rebbe nessun realista concettuale. Anche per essere percepito mediante la sensazione, l'oggetto deve essere trasformato in un oggetto ideale. Supponiamo che Krug cercasse di rispondere al­l'obiezione di Hegel dicendo: io non ho intenzione di dire (spie­gare) che cosa intenda con l'espressione «la mia penna». Inten­do mostrarla ad Hegel, intendo indicargliela. Eccola. La rispo­sta di Hegel sarebbe la seguente: che cos'è ciò che tu mi mostri? E questa domanda chiarisce che niente può essere «mostrato» se non è un oggetto ideale; finché Krug non dice che cosa egli mo­stra (la cosità), Hegel non conosce ciò che percepisce attraverso i sensi: rosso, lungo, appuntito, una cosa, un utensile, una cosa con cui scrivere, o cosa? Se Krug si rifiuta di dire qualcosa, limi­tandosi ad indicare, o, il che è la stessa cosa, se egli dirà sola­mente «questo», Hegel non vedrà una penna; vedrà un «que­sto», una categoria astrattissima, che può designare una matita non meno di una penna, o di un tavolo, ecc. Ciò che può real­mente essere percepito attraverso i sensi, ossia conosciuto me­diante la sensazione, può essere «fatto derivare» da elementi ul­timi. Se si insiste sul fatto che la sensazione non è affatto cono­scenza, il problema della derivazione delle sensazioni scompare. Esso, tuttavia, ricompare al livello di ciò che verrà eventualmen­te ammesso come la forma più primitiva di conoscenza 20•

5. I violenti attacchi rivolti alla dottrina dei due principi op­posti continuano in Metafisica, A 10, 1075 a 25. Alcuni di questi attacchi presuppongono la dottrina aristotelica dei tre principi (forma - assenza di forma, materia neutra); alcuni sono stati già

20 Le teorie che fanno derivare la conoscenza dalla sensazione mediante astrazione sono state criticate nel modo più incisivo da Hegel nella sua Fenomeno­logia (sezione: Die sinnliche Gewijlheit oder das Dieses und das Meinen, SW ed. Glockner, voi. II (1927), pp. 81-92). Da un diverso punto di vista non metafisico, il comune concetto di astrazione è stato distrutto da una sola frase di Husserl: ogni cosa, sotto qualche aspetto, è simile ad ogni altra cosa e sarebbe inutile descrivere i concetti in termini di «astrazione» delle somiglianze (E. Husserl, Logische Unter­suchungen, II/1(1922 3), pp. 106-224, spec. 115-121).

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discussi in riferimento a Speusippo; uno è stato citato sopra a p. 248. Uno è particolarmente interessante: se ci sono elementi di tutte le cose, come dobbiamo spiegare il fatto che alcune cose sono corruttibili, mentre altre non lo sono? Difatti, se neghiamo che ci siano alcune cose corruttibili, non abbiamo più alcun mo­tivo per ammettere l'esistenza di una seconda e soprasensibile sfera dell'essere. Se ammettiamo l'esistenza di cose corruttibili, introduciamo il tempo ed il mutamento come elementi reali, di­versi dalla alterità. Se il realista concettuale rispondesse che il di­venire (incluso il giungere - all'essere e lo scomparire) è solo una illusione, questo lascerebbe irrisolto il problema della nascita e della morte. L'affermazione, che la morte è solo una illusione sembra difficilmente accettabile da qualsiasi punto di vista. È forse qui che tutti i sistemi eccessivamente realistici crollano. Sembra assurdo subordinare i concetti di nascita e di morte ai concetti del giungere all'essere e dello scomparire, contraria­mente a quanto ha cercato di stabilire Parmenide (fr. B 8, 26-28 Diels) 21 •

È importante osservare che tutti gli argomenti contro la dottrina dei due principi opposti presumono ancora che debba esistere una sfera soprasensibile. Ma non è possibile attribuire questa sfera né alle Idee né agli enti matematici.

6. Forse dovremmo ancora una volta rivolgere la nostra at­tenzione al passo relativo a Speusippo contenuto in Metafisica, A 10, 1075 b 37, ed al suo parallelo contenuto in Z 2, 1028 b 21; dovremmo rivolgere la nostra attenzione anche a Z 2, 1028 b 27, che fa riferimento ad alcuni membri dell'Accademia. Sembra che tutti questi passi dimostrino la grande somiglianza fra il Pi­tagorismo e l'Accademia per quanto riguarda questo punto de­cisivo: tutti hanno cercato di derivare il sensibile dal soprasensi­bile (gli enti matematici, le Idee, ecc.). Che cos'altro potrebbe significare l'È1ttxn(vuv (1028 b 24)? O che cosa potrebbe signifi­care il rimprovero rivolto a Speusippo, secondo il quale egli sa­rebbe stato incapace di mostrare in che modo il sensibile dipen­de dalla precedente sfera dell'essere (N 3, 1090 b 19)?

Si deve ammettere, tuttavia, che, mentre per quanto con-

21 Ma è più che dubbio che nascita e morte possano essere spiegate da Ari­stotele nella fase semirealistica della sua filosofia. Cfr. C. Baeumker, Das Problem der Materie in der griechischen Philosophie (1890), pp. 247-291.

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cerne i Pitagorici Aristotele afferma ciò ripetutamente e con as­soluta chiarezza (Metafisica, N 3, 1090 a 32-35; cfr. De caelo, III 1, 300 a 15), degli Accademici lo dice solo incidentalmente e talvolta implicitamente. Dobbiamo supporre che nell'Accade­mia la questione della derivazione del sensibile dal soprasensibi­le non è stata mai al centro dell'interesse? Il passo del Timeo, 53 C-55 C (cfr. A.E.Taylor, A Commentary on Plato's Timaeus [1928), pp. 403-409), in cui Platone fa derivare in modo abba­stanza chiaro i corpi fisici dall'estensione geometrica (cfr. p. 201, n.) è abbastanza sorprendente 22 ; dobbiamo supporre che si tratti di un tentativo isolato 23? Non dobbiamo dimenticare che Senocrate ed entro un certo limite Estieo sono stati lodati da Teofrasto (Metafisica, III, 12 ss., pp. 12-14 Ross e Fobes) per aver fatto proprio questo, ossia per aver fatto derivare ogni cosa dagli esseri soprasensibili: lo spaziale da ciò che non è spaziale, il mutevole dall'immutabile. Pertanto, il problema della «deri­vazione» deve essere stato di primaria importanza nell'Accade­mia. Esso è ancora di primaria importanza nella Metafisica di Aristotele; in alcune parti della Metafisica, Aristotele pensa an­cora in termini di un sistema derivativo. Ed è all'interno del con­testo di un tale sistema che emerge la definizione della metafisi­ca come scienza dell'essere in quanto essere.

Un confronto sinottico di alcuni passi mostrerà i diversi at­teggiamenti di Aristotele nei confronti di questi due problemi fondamentali: (1) la dottrina dei due principi opposti; (2) l'esse­re in quanto essere come oggetto di una branca separata della conoscenza.

r2, 1005a3: Tutte le cose sono o contra­

rie o derivanti da contrarie, e dei contrari sono principi l'U­no e i molti.

N 1, 1087 a 29-1087 b 4: Tutti i filosofi ... pongono i

contrari come principi. [Ma realmente] nessuno ... dei contrari è, in senso assoluto, principio di tutte le cose [cfr. A 10, 1075 a 28, citato sopra a p. 248].

22 Ma molti fisici moderni non avrebbero nessuna obiezione da muovere. Si veda, ad esempio, R. Woltereck, Ontologie des Lebendigen (1940), pp. 28-31. An­cora una volta compare il nome di Schelling.

23 Ma non dobbiamo trascurare Leggi, X 894 A; cfr. J. Stenzel, Zahl und

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f 2, 1004 b 27-1005 a 3: . . . tutti i contrari si posso­

no ricondurre ali' essere ed al non-essere, e all'Uno ed ai molti; per esempio, la quiete all'Uno ed il movimento al molteplice. Ora, quasi tutti i filosofi sono d'accordo nel ri­tenere che gli esseri e l' oùafo, siano costituiti da contrari: infatti, tutti pongono come principi i contrari ... ed anche tutti gli altri contrari si ricon­ducono all'Uno-e-ai molti (presupponiamo questa ridu­zione già operata da noi altro­ve) . . . Risulta pertanto evi­dente che è compito di un'u­nica scienza lo studio dell' es­sere in quanto essere.

f 2, 1003 a 33-b 16: L'essere si dice in moltepli­

ci significati, ma sempre in ri­ferimento (1tp6i;) ad una unità e ad una cpualç determinata ... È evidente, dunque, che gli esseri saranno oggetto di un'unica scienza, appunto in quanto esseri.

N 1, 1088 a 27 - 1088 b 4: Il grande, il piccolo, il mol­

to, il poco e in generale il rela­tivo non esistono se non esiste qualcos'altro che sia, appun­to, molto o poco, o grande, o piccolo, o relativo ... È dun­que assurdo ed anzi impossi­bile fare di ciò che non è oùa(a [ossia, l'Uno e i molti] un ele­mento dell'oùa(a e addirittura farlo anteriore all'oùa(a.

N2, 1089a 7: Se l'essere si intende in

molteplici significati..., è as­surdo, ed anzi impossibile, che un unico tipo di cpualç sia la causa per cui l'essere è in un senso sostanza, in un al­tro quantità, in un altro qua­lità ...

Gestalt (1933 2), pp. 92-104, e F. M. Cornford, Plato und Parmenides (1939), pp. 14 ss. e 199.

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Metafisica, K 3, 1060 b 35 (cfr. 1061 b 14-15):

Se i diversi significati del-1' essere si intendono in virtù (xa:-r~) di qualcosa di comune, allora rientrano nell'ambito di un 'unica scienza.

DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Ethica Eudemia, I 7, 1217 b 34- 35 24:

Non vi è una sola scienza né dell'essere né del bene.

È possibile negare che i passi contenuti nelle due colonne rappresentano diversi atteggiamenti nei confronti degli stessi due problemi?

14. Platone ha professato un sistema derivativo?

Se gli Accademici, ed entro un certo limite Aristotele, han­no professato un Ableitungssystem, dovremmo supporre che il sistema proprio di Platone (se ne ha avuto uno) potrebbe essere definito senza esitazione un Ableitungssystem, come è stato re­centemente fatto da H. Gomperz, Platons philosophisches Sys­tem, «Proceedings of the Seventh lnternational Congress of Philosophy» (1931), pp. 426-431 e da Stenzel (Studien zur Ent­wicklung der platonischen Dialektik von Sokrates zu Aristoteles [19312], pp. 54-62; 83 ss.; p. 118; Zahl und Gestalt [1933 2], pp. 71; 77-79; 110; 119-125)?

Le ragioni a favore e contro una tale interpretazione vengo­no esaminate in modo molto giudizioso da Zeller (11/1 [1922 5

],

pp. 744-765). Il punto nodale del problema è il seguente: il non­essere, ossia la alterità, che, secondo il Sofista, è presente nelle Idee, è identico con il non-essere che è presente nell'ambito del sensibile? La materia, che secondo il resoconto di Aristotele è presente nelle Idee, è identica con la materia che è alla base del-1' ambito del sensibile? Zeller risponde ad entrambe le domande in modo negativo per poi concludere: devo ammettere, tuttavia, che Platone non ha distinto con sufficiente chiarezza l'elemento della molteplicità e dell'alterità presente nelle Idee dalla ragione

24 Il problema dell'autenticità della Etica Eudemia non può essere esamina­to qui. Si veda su questo problema J. Geffcken, Griechische Literaturgeschichte, voi. II (1934), Anmerkungen, pp. 220-222.

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della divisibilità e della mutevolezza del sensibile (p. 754). E poi­ché Aristotele alla fine nega il carattere platonico di queste iden­tificazioni, egli condanna non solo Aristotele per aver frainteso Platone, ma anche gli allievi di Platone per aver abbandonato l'autentico Platonismo in favore del Pitagorismo. Ora, dovreb­be essere evidente che qualsiasi interpretazione di Platone che si risolva nell'affermazione secondo la quale la filosofia platonica è stata fraintesa da Aristotele e «tradita» da Speusippo, da Se­nocrate, ecc., dovrà rimanere per sempre sulla difensiva 25 •

L'analisi di Zeller è notevole sotto più di un aspetto. Men­tre nega che quello di Platone sia un Ableitungssystem, Zeller nello stesso tempo sottolinea il fatto che il sistema di Platone è, in ultima analisi, insoddisfacente proprio perché resta non spie­gato il rapporto fra la realtà (l'ambito delle Idee) e l'ambito del divenire (11/1 , pp. 760-765). Zeller insiste sul fatto che è dovere dello storico della filosofia comprendere la contraddizione fon­damentale che corrompe la filosofia platonica (mentre, da un la­to, le Idee pretendono di essere la sola realtà, dall'altro, invece, l'ambito del sensibile, sebbene non derivi dall'ambito delle Idee, acquista una qualche specie di realtà autonoma). Ma, se si può mostrare che Aristotele e gli altri allievi diretti di Platone lo han­no interpretato nel senso di aver tentato di rimuovere questa contraddizione, non si dovrebbe negare che questo tentativo esi­sta, almeno potenzialmente, nel pensiero di Platone. E non è un compito che appartiene propriamente ad uno storico della filo­sofia quello di presentare un sistema di filosofia insieme con le possibilità ad esso intrinseche, limitandosi solo a questo? Che cosa c'è di errato nel supporre che, di un sistema filosofico, solo le due interpretazioni che si escludono reciprocamente ne sono, considerate insieme, l'interpretazione adeguata?

25 Cfr. anche A. Levi, Sulle interpretazioni immanentistiche della Filosofia di Platone (1919), pp. 140-159; E. Hoffmann, Platonismus und Mittelalter, pp. 72-74; 80; nota a p. 35 (ma cfr. anche p. 73 su Aristotele, Senocrate e Speusippo); P. Shorey, Platonism and the History of Science, «American Philosophical So­ciety, Proceedings», 66 (1927), pp. 159-182, spec. 170 ss.; E. Hoffmann, Platoni­smus und Mystik im Altertum, «SB der Heidelberger Ak. der Wiss., Philos.-hist. KI.», 25, 1934/5, spec. pp. 8-22; 44; C. Sandulescu-Godeni, Das Verhiiltnis von Rationalitdt und Irrationalitdt in der Philosophie Platons (1938), pp. 60-62; 101-135; H. Cherniss, The Riddle, cit., lezione Il. D'altro lato, cfr. in particolar modo A. Rivaud, nella Introduzione alla sua edizione del Timeo e del Crizia (Budé, 1925), che paragona ciò che egli considera i tentativi di Platone per passare dal­l'ambito ideale a quello sensibile con Leibniz (p. 68).

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Alcune delle pagine più succinte scritte a proposito del rap­porto fra i due ambiti della realtà che corrispondono alle Idee di Platone e agli oggetti sensibili, le troviamo nell'opera di Schel­ling che abbiamo già citato: Religion and Philosophy (1804), Siimtliche Werke I, voi. VI (1860), pp. 11-70. In quest'opera Schelling esamina le seguenti possibilità.

La prima possibilità è questa: la materia viene considerata come la causa dell'esistenza di un ambito del reale, diverso dal­l'ambito dell'ideale, e questa materia o viene interpretata come un secondo principio, coeterno al principio delle Idee, oppure viene interpretata come mera negatività. Schelling respinge la prima possibilità, in quanto farebbe del male un principio pri­mo. Respinge la seconda, in quanto lascia non spiegato come qualcosa che non è possa conferire ad una certa realtà una qual­che specie di essere diverso dall'essere delle Idee.

Se non è la materia, continua Schelling, allora l'ambito del reale può giungere all'esistenza apparentemente solo per emana­zione. Ma l'emanazione dall'ideale non può produrre che un al­tro essere ideale; estenuato, se possiamo esprimerci in questo modo, ma nessuna forma di estenuazione può trasformare l'i­deale in reale. Pertanto, non ci resta che una sola possibilità: il reale è il prodotto di un atto di apostasia, di una caduta, di un salto. E Schelling sostiene che questo è il vero significato della filosofia di Platone, respingendo le dottrine del Timeo come espressione di una ricaduta di Platone in modi di pensare più primitivi. Sembra, difatti, che Schelling abbia enumerato tutte le possibilità che spiegano il rapporto fra l'ideale ed il reale che sono accessibili ad un filosofo per il quale l'ideale non è sola­mente il prodotto dell'astrazione (cfr. ibi., pp. 35-39).

Tuttavia, per il presente scopo, il problema se il sistema di Platone, considerato essenzialmente come un Ableitungssystem, sia stato frainteso o interpretato correttamente, non è molto im­portante. Ciò che sembra essere incontestabile ed importante è che tale è stato il sistema di Speusippo e di Senocrate (o la loro interpretazione di Platone) e che esso è stato uno sviluppo di tendenze presenti nella filosofia di Platone 26 • Aristotele, alme-

26 Le obiezioni di Hoffmann (Zeller, Die Philosophie der Griechen, 11/1, pp. 1089-1098) non sono convincenti (a dispetto di Cherniss, Aristotle's Criticism of Plato and the Academy, voi. I, p. 475, n. 426). Hoffmann restringe eccessiva­mente la base della sua discussione limitando l'intero problema alla relazione fra le Idee e l'ambito dei sensi, senza mai prendere in considerazione la «genesis» del pro­blema all'interno dell'ambito delle Idee stesse. Hoffmann riesce solo a dimostrare che le Idee non dovrebbero essere interpretate come forze. Afferma Hoffmann co-

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no per un certo periodo, ha condiviso questo sistema insieme con l'Accademia. Nella sua successiva polemica contro Platone e l'Accademia, la teoria delle Idee è solo un aspetto della più va­sta dottrina che egli realmente critica: un sistema eccessivamente realistico, nel quale l'implicazione è il solo tipo di causazione. Ma ciò che per secoli è stata interpretata come metaphysica ge­neralis (la dottrina dell'essere in quanto essere) è sorta in Aristo­tele come un'altra esposizione di questo Ableitungssystem pla­tonico - accademico eccessivamente realistico. Per vedere questo chiaramente, dobbiamo dapprima riesaminare alcuni passi che implicano che, secondo Aristotele, Platone e/ o gli Accademici hanno ritenuto che tutte le cose, ossia le sensibili come le non sensibili, fossero costituite dagli stessi elementi.

15. Esame dei passi in cui, secondo Aristotele, i Pitagorici, Pla­tone e gli altri Accademici hanno cercato di far derivare il sensibile dal non sensibile

Metafisica, A 6, 987 b 18-20 (cfr. 988 a 11): Essendo quindi le Forme cause delle altre cose, Platone ri­

tenne che gli elementi costitutivi delle Forme fossero gli elementi di tutti gli esseri.

/bi., 9, 992 b 18-24 (cfr. 993 a 8): Non è possibile rispondere alla domanda: quali sono gli ele­

menti di cui tutti gli esseri risultano costituiti? Metafisica, B 4, 1000 a 5-1001 a 3: È un lungo passo, nel quale si sostiene che tutti i filosofi

hanno affermato che i principi di tutte le cose, le corruttibili [sensibili] e le incorruttibili, sono gli stessi.

Metafisica, r 2, 1004 b 27-1005 a 5: Il passo presuppone che tutte le cose possano essere ricon­

dotte (&vii1 ~'tetL) a due principi opposti come «caldo-freddo» e «limite-illimite». È evidentemente implicito che secondo alcuni filosofi anche le cose sensibili possono essere fatte derivare da principi come il limite e l'illimite.

me conclusione: Aristotele aveva ragione ad obiettare a Platone che l'Idea (che rap­presenta l'Uno) e la materia (che rappresenta i molti) non possono mai produrre una cosa reale; ma questa obiezione di Aristotele suppone che le Idee siano qualco­sa di dinamico, e nessuno, che voglia rimanere fedele ai motivi originari della teoria delle Idee, le considererebbe tali (p. 1096). Ma con ciò Hoffmann intende evidente­mente dire: ciò che Platone avrebbe dovuto pensare per rimanere fedele allo spirito del Platonismo, così come viene concepito da Hoffmann.

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Metafisica, Z 2, 1028 b 18-27: L'intero passo presuppone che, secondo Platone, Speu­

sippo e Senocrate, ci sia un continuo passaggio delle Idee e/o dagli enti matematici alle cose sensibili (cfr. Teofrasto, Meta­fisica, III, 12-13, p. 12 ss. Ross e Fobes; viene usato il termi­ne 1&w&v; è implicito, infatti, che le cose sensibili sono «gene­rate» dalle non-sensibili).

Metafisica, K 3, 1061 a 10-17 (cfr. 2, 1004 a 1): Questo passo presuppone che il compito della metafisica

sia quello di ricondurre (&vcxywy71) tutti gli esseri ai principi originari (l'uno e il molteplice, o l'eguaglianza e l'ineguale).

Metafisica, A 4, 1070 b 4-10: Il passo contiene una polemica di Aristotele nei confronti

della teoria secondo la quale tutte le cose sono costituite dagli stessi elementi. È difficile supporre che Aristotele qui non si riferisca all'Accademia.

/bi., 5, 1071 a 24-35 Questo passo contiene la versione personale che Aristote­

le dà della «identità» degli elementi di cui sono costituite tutte le cose. Questa identità viene interpretata da Aristotele come analogia. Sono incluse anche le cose sensibili: 1071 bi.

/bi., 10, 1075 a 25-33: Aristotele critica tutti gli altri filosofi per aver tentato di

ridurre tutte le cose ad un'unica coppia (o a coppie) di con­trari. Sono evidentemente inclusi anche gli Accademici; sono essi, infatti, che hanno introdotto la coppia «uguale-inuguale» o «uno-molti».

/bi., 1075 b 11-13: Aristotele rimprovera coloro che hanno ammesso la dot­

trina dei principi opposti, per non aver saputo servirsi di que­sti principi. Questo rimprovero sembra identico a quello fatto da Teofrasto in Metafisica, III, 11-12, p. 12 Ross e Fobes: co­loro che introducono l'Uno e la diade indefinita come principi sovente trascurano di far derivare tutti gli esseri da questi principi, come invece dovrebbero. L'espressione «tutti» inclu­de anche gli esseri sensibili (cfr. Aristotele, Metafisica, A 10, 1075 b 14).

Metafisica, M 9, 1086 a 26-29: Ci sono filosofi che affermano che gli elementi delle Idee

e dei numeri sono elementi e principi degli esseri. Il rif eri men­to ali' Accademia è evidente. L'espressione «esseri» significa chiaramente «tutti gli esseri».

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Metafisica, N 2, 1088 b 35-1089 b 14: Tutta la discussione che qui viene condotta presuppone un

sistema nel quale tutti gli esseri derivano da due principi oppo­sti, ad esempio dall'essere e dal non-essere.

/bi., 1090a 1-7: Aristotele parla di una teoria secondo la quale le Idee (e/o i

numeri) sono le cause di [tutte] le altre cose. Evidentemente, le Idee vengono considerate come le sole «cause» delle cose sensi­bili, viene cioè esclusa la causalità efficiente.

/bi., 3, 1090b 13-19: Qui Aristotele critica Speusippo. Le sfere che sono anterio­

ri, di cui parla Speusippo, non apportano nessun contributo alle [all'essere delle] sfere che sono posteriori. Infatti, anche se il nu­mero non esistesse, continuerebbero ad esistere, cionondimeno, l'anima e le cose sensibili. Questa critica implica che l'intenzione di Speusippo era di «far derivare» tutte le sfere che sono poste­riori, inclusa la sfera del sensibile, da quelle che sono anteriori. Che la critica di Aristotele fosse o no del tutto corretta, non fa nessuna differenza. Aristotele dà per scontato che chiunque ponga gli enti matematici, l'anima, le cose sensibili come sfere dell'essere, lo farebbe per mostrare come tutti gli esseri derivano dalla suprema sfera dell'essere (o dai suoi elementi).

/bi., 4, 1091 b 35-37: Se il male fosse uno degli elementi, tutti gli esseri partecipe­

rebbero del male. Metafisica, N 5, 1092 a 21-22: Aristotele parla di quei filosofi che sostengono che [tutte] le

cose sono costituite da [gli stessi] elementi. /bi., 6, 1093 b 8-9: Aristotele rimprovera quei filosofi secondo i quali i numeri

sono cause della cpuaLç. A questa lista dovremmo aggiungere alcuni passi relativi ai

Pitagorici. Metafisica, A 5, 986 a 1-2: I Pitagorici ritennero che gli elementi dei numeri fossero gli

elementi di tutti gli esseri. /bi., 8, 989 b 29-990 a 32: Un lungo passo, il nocciolo del quale è che è impossibile far

derivare o far nascere qualità sensibili da principi non-sensibili. Metafisica, M 6, 1080 b 16-19: I Pitagorici costruiscono tutto quanto l'universo con i

numeri.

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280 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Metafisica, N 3, 1091 a 18-22: I Pitagorici fanno derivare l'universo sensibile da elementi

[non-sensibili]. In questa lista sono stati omessi i passi nei quali Aristotele

parla delle grandezze, senza tuttavia chiarire molto bene se si ri­ferisce alle grandezze geometriche o ai corpi sensibili. Conside­riamo questi passi:

Metafisica, A 10, 1075 b 28-30: 1twç ... li; &µqe.8wv µiye.8oç - A 8, 990 a 12-18: t'tL OÈ e.t 'te. 00(11 'tLt; IXÙ'to'i'ç lx 'tOU'tWV (scii. 1tipix'tot; xixt &m(pou o mpL't'tOU xixt &p'tLOU) e.!vixL µiye.8oç e.Y'te. oe.rx8d11 'tOU'tO, oµwç 'tLVIX -cp61tov ta'tlXL 'tÒt µÈv XOU(j)IX 'tÒt OÈ ~cx­poç fxov-cix -cwv awµcx-cwv;

Ed ecco la traduzione:

Metafisica, A 10, 1075 b 28-30: «Come deriveranno ... la gran­dezza da ciò che non ha grandezza». Metafisica, A 8, 990 a 12-18: «Inoltre, se anche si dovesse con­cedere loro che grandezza derivi da questi principi (sci/.: il li­mitato e l'illimitato, o il dispari e il pari), e se questo si potesse dimostrare, resterebbe pur sempre inspiegato come mai alcuni corpi sono leggeri e altri sono pesanti».

Qui il termine fJ.E.1 é.911 potrebbe significare o crwfJ.Ot'tOt (corpi fisici) o grandezze geometriche. Questa ambiguità, tuttavia, sembra che venga risolta in Metafisica, M 6, 1080 b 16-21. I Pi­tagorici, dice Aristotele, sostengono che le cose sensibili sono costituite da numeri. Essi costruiscono l'intero universo con i numeri e considerano questi numeri come unità dotate di gran­dezza. Come, poi, un numero possa essere dotato (o forse piut­tosto: come si sia costituito il numero dotato) di grandezza essi non sono in grado di spiegarlo. Qui, grandezza significa eviden­temente un corpo sensibile, altrimenti Aristotele non potrebbe affermare che tutti i Pitagorici costruiscono l'universo con i nu­meri che sono dotati di grandezza. Tutti i dubbi scompaiono, quando leggiamo in Metafisica, N 3, 1090 a 30-35: i Pitagorici fanno derivare i corpi fisici dai numeri, ossia ciò che ha peso da ciò che non ha peso. Ed Aristotele aggiunge: è impossibile cre­dere che essi parlino delle comuni cose sensibili. L'ironia di Ari­stotele dimostra che questo è stato precisamente quanto hanno fatto i Pitagorici: far «derivare» ciò che noi chiamiamo reale da ciò che chiamiamo ideale.

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La stessa cosa vale per Platone, come viene interpretato da­gli Accademici e da Aristotele, e per gli stessi Accademici: le realtà universali generano quelle particolari.

16. Un aspetto particolare del problema della derivazione: la causalità delle Idee in Platone

Questo fatto contiene ancora un altro aspetto. È ben noto che Aristotele sostiene che Platone ha fatto derivare i corpi sen­sibili dalle superfici geometriche (De caelo, III 1, 299 a 6-11; De generatione et corruptione, I 2, 315 b 30; I 8, 325 b 24-33; II 1, 329 a 23). In De caelo, III 1,299 a 2-300 a 19 (cfr. III 7,306 a 7-17) troviamo una lunga discussione che colloca questo proble­ma nella giusta prospettiva. Lungo tutta questa discussione, Aristotele cerca di dimostrare la tesi che è impossibile far deriva­re proprietà fisiche da entità matematiche. E la conclusione del­la discussione (300 a 14-19) mostra chiaramente che Aristotele ritiene che i Pitagorici abbiano commesso esattamente lo stesso errore che egli imputa a Platone e agli Accademici, ossia di aver fatto derivare le realtà fisiche dagli enti matematici 27 •

La costruzione dell'universo attraverso due elementi, e la derivazione dei corpi dalle figure piane sono, entro un certo li­mite, due problemi indipendenti. Ma ciò che è comune ad essi è che, in entrambi i casi, non c'è nessuna frattura fra l'ambito del­l'ideale e quello del reale.

È solo sullo sfondo di tutti questi passi che possiamo valu-

27 Si veda F. M. Cornford, Plato and Parmenides, pp. 13 ss. Cfr. C. Mu­gler, Platon, (1948) pp. 120-122, per un'analisi di questo problema nei termini della fisica contemporanea. Si veda anche A. Gorland, Aristote/es und die Mathematik (1899), pp.22-25; 207. Si dovrebbe anche osservare che la dottrina dell'atomismo matematico costituisce un altro colpo al nostro modo di pensare, forse non molto più indulgente di quello che ci viene inferto dalla dottrina della derivazione del cor­po da figure geometriche. Si veda S. Luria, Die lnfinitesimaltheorie der antiken Atomisten, «Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik ... » Abt. B: Stu­dien 2 (1933) pp. 106-185, spec. 120-126; A. Schmekel, Die positive Philosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklung, voi. I (1938), pp. 15-17; per una difesa moderna cfr. P. Bernays, Die Erneuerung der rationa/en Aufgabe,«Proceedings of the Tenth International Congress of Philosophy» (1949), pp. 42-50, spec. 47. L'intero problema della derivazione dell'esistenza dall'essenza viene considerato in un mo­do molto stimolante da A. Lautman, Essai sur /es notions de structure et d'existen­ce en mathématique, 2 voi!. (1938), spec. p. 126 e pp. 150-156; e Nouvelles recher­ches sur la Structure dialectique des mathématiques (1939), spec. p. 31.

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tare adeguatamente la ben nota critica che Aristotele rivolge al­i' esposizione della causalità svolta da Platone nel Pedone (De generatione et corruptione, II 9, 335 b 9-16; Metafisica, A 9, 991 b 3-4; M 5, 1080 a 1-2). Aristotele afferma che Platone conside­ra le Idee come «cause» dell'essere e del divenire delle cose. Ma le Idee non sono causa di nulla, dice Aristotele. Il fatto è che Platone non comprende la necessità di una causa efficiente.

Per quanto concerne questa critica di Aristotele, dobbiamo porci due domande. In primo luogo, Platone ha realmente com­piuto nel Pedone ciò che Aristotele afferma, ossia ha attribuito la causalità solo alle Idee, escludendo qualsiasi altro genere di causalità? A questa domanda si dovrebbe rispondere senza esi­tazioni in senso affermativo. Le Idee non sono solamente la ra­gione per la quale una cosa viene detta un qualcosa (ad esempio, grande) 28 , esse sono - in qualche modo - la ragione per la quale la cosa è o diventa grande. Come l'Idea possa essere una causa non viene spiegato da Platone; egli insiste semplicemente sul fatto che l'Idea è la sola causa. In secondo luogo, dobbiamo chiederci se, una volta presi in considerazione altri dialoghi pla­tonici oltre al Pedone, la critica di Aristotele sia corretta. La maggior parte dei critici di Aristotele lo rimprovera di non equi­tà. Egli non cita mai, essi dicono, il fatto che nel sistema di Pla­tone c'è un'anima, che è la causa efficiente in virtù della quale una cosa partecipa di un'Idea e viene, in questo modo, o pro­dotta o alterata. Ma sembra che Aristotele non sia ingiusto nei confronti di Platone, in quanto (o, per essere più cauti: se) l'ani­ma di Platone si identifica con gli enti matematici. Se le cose stanno in questo modo, l'anima non può essere causa efficiente più di quanto lo siano le Idee. Con o senza anima, il sistema ac­cademico, ossia, forse il sistema proprio di Platone e certamente quello dei suoi allievi, è un sistema «derivativo» nel quale non

28 Questa è l'interpretazione di F. M. Cornford, Plato und Parmenides, (1939) pp. 1-27, e 76-80. Cfr., tuttavia, S. Marck, Die p/atonische Jdeenlehre in ihrer Motiven (1912), p. 57. Il problema della causalità efficiente del demiurgo va al di là dello scopo della presente indagine; certamente, non c'è la più piccola trac­cia del demiurgo nel Pedone. La quasi totale assenza di qualsiasi forma di causalità efficiente in Platone è stata recentemente sostenuta, ad esempio, da M. D. Philip­pe, La Partecipation dans la philosophie d'Aristote, «Revue Thomiste>•, 49 (1949), pp. 254-277, spec. 254-257. Egli ritiene perfino possibile che l'incipiente ammissio­ne da parte di Platone di una qualche specie di causalità diversa dalla causalità delle Idee sia il risultato della influenza di Aristotele su Platone.

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resta alcuno spazio per la causalità efficiente di cui parla Aristo­tele. Aristotele ha insistito sul fatto che è l'essere concreto (che esiste nello spazio e nel tempo) che può causare o corrompere un altro essere concreto, mentre è impossibile che un essere ideale (un universale, una realtà generale, sottratta allo spazio ed al tempo) causi o alteri una realtà concreta. Se accettiamo questa affermazione come valida, dovremo dire che neppure l'anima del mondo di Platone risponde ai requisiti richiesti da Aristotele per una causa, in quanto l'anima del mondo di Platone è sola­mente la totalità dei rapporti matematici che sono alla base del­l'universo. Questi rapporti hanno in se stessi la stessa causalità efficiente delle Idee. Se Aristotele ha respinto le Idee perché pri­ve di causalità efficiente, non aveva nessun motivo per accetta­re, al loro posto, l'anima del mondo di Platone.

17. Sopravvivenza dell'idea di derivazione in un testo di Sesto Empirico

In questo contesto, un solo testo filosofico merita una par­ticolare attenzione, in quanto mostra la sopravvivenza dell'idea di derivazione. Si tratta del testo di Sesto Empirico, Adversus mathematicos, X 248-284 29 • Secondo Sesto, i Pitagorici hanno ricondotto tutte le cose agli elementi ultimi. Questi elementi so­no non solo ixÒTJÀOL e &q>avEtç (VOTJ'tà crwµa'ta come gli atomi); es­si sono incorporei. E non tutti gli elementi incorporei che esisto­no anteriormente ai corpi sono senz'altro elementi e principi pri­mi. Per esempio, le Idee, che secondo Platone sono anteriori ai corpi, non sono elementi. Anteriori alle Idee sono i numeri. E se diciamo che le grandezze geometriche, ossia le forme stereome­triche incorporee, sono anteriori ai corpi, non intendiamo dire che esse sono elementi. Anche esse, infatti, presuppongono i nu­meri. Ed i numeri cadono sotto l'Uno. Per questo motivo, i Pi­tagorici affermarono che la monade è il principio degli esseri.

29 Cfr., a questo proposito, C. Baeumker, Das Problem der Materie in der griechischen Phi/osophie (1890), pp. 391-399; A. Schmekel, Die Philosophie der mittleren Stoa (1892), pp. 403-439; A. Schmekel, Die positive Philosophie, cit., voi. I (1938), pp. 79-81; F. M. Cornford, Plato and Parmenides, (1939) pp. 16-18; C. J. de Voge), Problems Concerning Later Platonism, «Mnemosyne», 1949, pp. 197-216; 299-318, spec. 209-216.

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Questa monade, quando è pensata nella sua identità con se mede­sima (xa;-.' a:Ù'tO'tT)'ta: Éa:u'tijt; voouµÉv71) è pensata, appunto, come monade; invece, aggiunta a se medesima secondo l'alterità (lm­auv9tn(aa; É.a;utjj xa:9' É.'ttp6't71'ta;), produce la diade indefinita.

Pertanto, due sono i principi, la prima monade e la diade indeterminata.

I Pitagorici dimostrano questo fatto in numerosi modi (263-268).

Una questione controversa fra i Pitagorici è il modo in cui far derivare il corpo (awµa:). Alcuni fanno derivare il punto dal­l'Uno, la linea del due, ecc.; altri fanno derivare il corpo dal movimento continuo del punto. In ogni caso, dopo aver fatto derivare (aver costruito) in questo modo le grandezze geometri­che, essi fanno derivare (costruiscono) da queste le cose sensibili (a;la971'tcx o, secondo alcuni manoscritti, anptcx, ma nonostante la differenza contenuta nel testo, il significato di questo termine è reso perfettamente chiaro dagli esempi), terra, acqua, aria, fuoco, ed in generale l'universo.

Non può esserci nessun dubbio: secondo la relazione di Se­sto i Pitagorici hanno fatto derivare le cose sensibili dalle non­sensibili 30 •

Ora, chi sono questi Pitagorici? Di recente, il testo è stato attentamente analizzato da Wilpert, che ha cercato di dimostra­re che esso deriva direttamente dal Titpt 't&ya:9oG di Platone (P. Wilpert, Zwei aristotelische Friihschriften iiber die Ideenlehre [1949], pp. 125 ss.; cfr. la recensione di W. Jaeger al libro di Wilpert, «Gnomon», 23 [1951], pp. 246-252, spec. 250 ss.). Questo è del tutto improbabile. Le principali ragioni contrarie alla ipotesi di Wilpert sono le seguenti: (1) essa implicherebbe che la lezione di Platone conteneva non solo una menzione, ma un lungo resoconto delle dottrine dei Pitagorici, in quanto se le dottrine esposte da Sesto erano una citazione tratta dalla lezione di Platone, egli avrebbe attribuito queste dottrine ai Pitagorici invece che allo stesso Platone, solo se lo stesso Platone lo avesse fatto. (2) Il brano in un solo passo cita lo stesso Platone (258), mostrando chiaramente in questo modo che il resto del brano

30 Proprio come fa la famosa relazione di Alessandro Poliistore (Diogene Laerzio, VIII 24-33), sulla quale crr. A. J. Festugière, Les ((Mémoires Pythagori­ques» cités par Alexandre Polyhistor, «Revue des Études grecques», 58 (1945), pp. 1-65.

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non risale alla dottrina di Platone. (3) Il brano in un solo passo contiene una interpretazione di Epicuro (257); un'interpretazio­ne strana, certamente, che deduce dalle parole di Epicuro l'am­missione che gli atomi sono costituiti da elementi incorporei.

Tutto questo si riassume nell'affermazione che la dottrina esposta da Sesto non è una citazione tratta dalla lezione di Pla­tone. Ma questo non significa che essa non contenga dottrine accademiche o dottrine pitagoriche così come venivano esposte dagli Accademici 31 • Infatti, essa contiene una sezione (263-277) 32, di cui si è sempre riconosciuto lo stretto rapporto con l'esposizione della lezione di Platone Sul Bene fatta da Er­modoro. Ciò che si è dimostrato per questa sezione, ossia che es­sa contiene una dottrina accademico-pitagorica, lo si può con si­curezza ammettere anche per il resto del brano; ed è possibile che l'intera esposizione sia stata composta dopo che Platone aveva tenuto la sua lezione, e che contenga alcune idee che erano state in essa espresse; ma far risalire l'intero brano a questa le­zione sembra in realtà troppo.

Ma, in ogni caso, il problema di quale sia la fonte del brano di Sesto è, all'interno del presente contesto, privo di importan­za. Ciò che è interessante è osservare che la derivazione del sen­sibile dal non-sensibile (l'Uno e la diade) viene presentata come un fatto naturale e veniva considerata come tale in un periodo anteriore al Neoplatonismo.

18. Ricapitolazione

Riassumendo: Aristotele ha sempre presentato il sistema di Platone come un sistema che ha cercato di far derivare tutti gli esseri (sensibili ed intelligibili) da due supremi principi opposti. Talvolta Aristotele ha criticato questa idea di derivazione; tal­volta l'ha condivisa. La sua definizione della metafisica come

31 A. Schmekel, Die positive Philosophie, voi. I (1938), pp. 84-86, fa risalire alcune parti del passo di Sesto ad Eratostene, che, tuttavia, secondo Schmekel, non ammetteva la (generica?) differenza fra solidi matematici e corpi fisici.

32 Sulla quale si veda K. Janai!ek, Novopythagorsky text u Sexta Empirika x 263-277, «Ceskoslovenska akademia Vfd, Sekce jazyka a literatury. Sbornik filolo­gicky, III, I, ristampato in: AA. VV., Studia antiqua Antonio Salaé ... oblata, Pra­ga 1955, pp. 96-101.

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scienza dell'essere in quanto essere è coerente con quest'ultima fase del suo pensiero. Possiamo comprendere questo fatto parti­colarmente bene se ricordiamo due cose: in primo luogo, la co­noscenza dell'essere implicherebbe anche la conoscenza del suo opposto, il non-essere. In secondo luogo, l'essere e l'Uno sono convertibili e pertanto potremmo definire l'oggetto della filoso­fia prima di Aristotele anche come l'Uno in quanto Uno (questo termine compare in Metafisica, r 2, 1004 b 5) e pertanto come i molti in quanto molti. Nessuno di questi termini (essere-non es­sere; uno-molti) ha il significato di ciò che noi definiremmo un universale. Proprio in quanto privi di ogni determinazione, essi sono ciò che è reale al massimo grado, ossia ciò che è presente in ogni altra realtà. Proprio in quanto privi di ogni determinazio­ne, essi sono anteriori ad ogni altra realtà. Ed in quanto anterio­ri sono - in questo senso - universali al massimo grado.

19. Confutazione delle obiezioni al tentativo di isolare «Metafi­sica» I', E 1 e K 3-7 dal contesto della «Metafisica»

Ma ritorniamo al nostro tentativo di isolare i libri r, E 1 e K 3-7 dal resto del contesto della Metafisica; questo tentativo si fonda sulla convinzione che l'essere in quanto essere non è un universale nel senso comune del termine, e sulla accettazione della dottrina dei due principi opposti.

Una possibile obiezione a questa interpretazione potrebbe essere la seguente: il libro r della Metafisica rimanda al libro B; al libro B si fa riferimento nel libro A; pertanto, dobbiamo con­siderare i libri A B r come un unico complesso (cfr. W. D. Ross, Aristotle's Metaphysics, vol. I, p. XVII). Ma la teoria dei due principi viene severamente criticata nel libro A; pertanto, è impossibile supporre che essa venga accettata nel libro r. Inol­tre, K 6, 1062 b 31, e, implicitamente, r 3, 1009 a 32, rimanda­no al primo libro della Fisica (cfr. W.D.Ross, Aristotle's Meta­physics, vol. Il, p. 319), nel quale la teoria dei due principi viene criticata e sostituita dal concetto di forma - materia (neutra). Pertanto, non possiamo supporre che il primo capitolo del libro E e i capitoli 3-7 del libro K della Metafisica sostengano ancora questa stessa dottrina.

È facile sbarazzarsi della prima obiezione. Il rimando al li-

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bro B della Metafisica contenuto in Metafisica, A 10, 993 a 24 (se si tratta davvero di un rimando al libro B; si veda l'esame della questione in Ross, Aristotle's Metaphysics, voi. I, pp. 211 ss.) è evidentemente un'inserzione successiva; pertanto, l'unità dei libri A, B, r della Metafisica è molto precaria. Inoltre, è del tutto evidente che il libro A della Metafisica contiene differenti livelli di pensiero (si veda, ad esempio, H. Cherniss, Aristotle's Criticism of Plato and the Academy, voi. I, p. 192); ed è impos­sibile dire con sicurezza con quale forma del libro A della Meta­fisica il libro B sia in rapporto.

Per quanto riguarda la seconda obiezione, essa dimostra solamente che quando scriveva il libro r e i capitoli 3-7 del libro K della Metafisica, Aristotele non era consapevole del fatto che la sua critica della dottrina dei due principi nell'ambito della fi­sica distruggeva ogni possibilità di fondare la metafisica su un tale presupposto.

Inoltre, è ben noto che Aristotele è molto attento nella Fisi­ca a specificare che la sua indagine concerne esclusivamente la sfera del sensibile ed esclude ogni considerazione di tipo metafi­sico. Di conseguenza, la sua critica della dottrina dei due princi­pi opposti, e la sostituzione di questa dottrina con la sua dottri­na della materia come privazione di forma, sono circoscritte alla spiegazione del divenire e del mutamento 33 •

Inoltre, risulta immediatamente evidente che quanto leggia­mo come primo libro della Fisica non può essere stato composto da Aristotele uno ductu : il passo 185 a 9-12 viene letteralmente ripetuto in 186 a 7-10. Spiegare questo fatto con un'ingiustifica­ta chiosa di un copista (Ross, ad. /oc.) sembra alquanto forzato. D'altro lato, se il primo libro della Fisica fosse stato scritto uno ductu, esso conterrebbe nel capitolo 8, 191 b 29, un riferimento alla Metafisica (se, con Ross, eliminiamo questo riferimento, considerandolo come un'aggiunta successiva, avremmo un'altra prova del fatto che il primo libro della Fisica, nella sua forma

n E forse non c'è nessun altro passo di Aristotele che dimostri in modo così chiaro l'origine della sua nozione di materia dal Sofista di Platone. Aristotele de­scrive la materia in termini simili: la materia non è non-essere; piuttosto, è un non­essere determinato, ossia è un non-essere questo o quello. Da qui un solo passo conduce a quest'ulteriore concetto: essendo sempre un non-essere determinato, la materia è in potenza - non ogni cosa, ma - questo o quello, e precisamente è la potenzialità di ciò di cui era una determinata negazione.

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attuale, non è un insieme originale). In altri termini, resta anco­ra irrisolto il problema di quale forma del primo libro della Fisi­ca abbia preceduto i libri r, E 1, e K 3-7 della Metafisica.

20. I diversi tentativi di spiegare Id definizione di metafisica co­me conoscenza dei due supremi principi opposti

A p. 248, è stato sollevato il problema di come si sia mai potuto trascurare il fatto che i libri r, E 1 ( e implicitamente K 3-7) della Metafisica erano fondati sulla dottrina dei due prin­cipi opposti, così violentemente criticata da Aristotele altrove. Il problema è stato enfatizzato retoricamente; questa contraddi­zione, infatti, non è stata trascurata. Alcuni esempi saranno suf­ficienti a mostrarlo. Afferma S. Tommaso: Sciendum tamen est quod hoc, quod dixit onnia entia contraria esse ve/ ex contrariis, non posuit secundum suam opinionem, sed accepit quasi opi­nionem phi/osophorum antiquorum (In Metaphysicam Aristo­telis commentarii, 585, p. 196 Cathala). E lo ps. Duns Scoto ri­pete dopo S. Tommaso: Notandum quod cum ait philosophus omnia entia ve/ esse contraria ve/ esse ex contrariis, loquitur mo­do antiquorum (Opera, voi. V, p. 663 Vivès). La semplice inser­zione, nel passo di S. Tommaso, del termine «recentiorem» do­po «opinionem» e, pertanto, l'omissione del termine «quasi» è quanto basta per stabilire, nei termini di S. Tommaso, la posi­zione «evoluzionistica». Noi parliamo di «mutamento» laddove S.Tommaso parla di «contraddizione» - o accettiamo aperta­mente l'esistenza di una contraddizione, anche se essa non può essere spiegata nei termini di una evoluzione di Aristotele.

D'altro lato, non si è neppure sempre trascurato il fatto che l'essere in quanto essere, come ricorre nella definizione della metafisica, non poteva avere il significato di un mero concetto. Il passo di Robin citato sopra a p. 254, insieme con i due passi tratti dallo ps. Alessandro mostrano ciò chiaramente. Possiamo anche citare F .A. Trendelenburg (Historische Beitriige zur Phi­losophie. I. Geschichte der Kategorienlehre [1846], pp. 69 ss.) che contrappone il concetto di essere inteso come una categoria al concetto di essere inteso come una entità metafisica. In tempi recenti, G.L. Muskens, in particolar modo, De ente qua ens Me­taphysicae Aristoteleae obiecto, «Mnemosyne», 111/13 (1947),

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pp. 130-140\ ha posto in evidenza che nel libro K della Metafisi­ca l'ens qua ens designa la realtà incorporea e che il x01.06Àou nel libro E della Metafisica non ha il significato di un universale lo­gico; ai risultati dell'indagine di Muskens si dovrebbe solo ag­giungere che la prima parte della sua affermazione è vera anche per quanto concerne i libri r ed E 1 della Metafisica. Se, tutta­via, l'essere in quanto essere venisse interpretato come un uni­versale logico, la difficoltà nello spiegare la contraddizione con­tenuta nella definizione della metafisica diventerebbe assoluta.

Questa difficoltà ha rivestito una grande importanza nella evoluzione del pensiero occidentale. Lo status controversiae nel Medioevo è stato descritto da Duns Scoto nelle sue Quaestiones subtilissimae super li. Met. Arist. (Opera, voi. VII, pp. 11-40 Vivès) 34 • Secondo questo passo, Avicenna ha sostenuto che l'oggetto della metafisica è l'ens, mentre Averroè ha sostenuto che è Dio e le inte/ligentiae separatae 35 • La definizione classica di S.Tommaso (la metafisica riguarda l'ens commune ed anche l'ens primum a materia separatum) tenta un'audace sintesi su­bordinando il Dio aristotelico (ed in generale Dio come l'ogget­to della metafisica) al concetto di un ens primum e di un ens commune. Ci sono altri passi nei quali l'unità delle due metafisi­che viene raggiunta in un modo alquanto differente. Ma il pro­blema se una tale unità sia realmente esistita non è stato mai considerato come risolto in modo indiscutibile. Il recente libro di M. Wundt, Die deutsche Schulmetaphysik des 17. Jahrhun­derts (1939) ne ha mostrato le conseguenze con grande chiarezza (pp. 161-227, spec. 170) 36 • Sarebbe fortemente desiderabile ave-

34 Cfr. E. Gilson, A vicenne et le point de départ de Duns Scot, «Archives d'histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age», 2 (1927), pp. 89-149, spec. 93 ss.

35 Cfr. anche Avicenna in Gundisalvi, De divisione phi/os., pp. 268 ss. Baur. Il ragionamento di Avicenna è il seguente. Nessuna scienza dimostra l'esi­stenza del suo oggetto; la metafisica dimostra l'esistenza di Dio; pertanto, Dio non è l'oggetto proprio della metafisica. Inoltre, la metafisica, essendo la scienza pri­ma, non può avere nessun'altra scienza al di sopra di sé che possa dimostrare l'esi­stenza dell'oggetto della metafisica. Pertanto, l'oggetto della metafisica deve essere qualcosa la cui esistenza (il cui essere) non necessita di alcuna prova. Questo è l'es­sere, dal momento che l'essere dell'essere non necessita di alcuna prova. Il carattere non-aristotelico e quasi anselmiano di questo ragionamento (non-aristotelico, cioè, dal punto di vista storico) rivela la difficoltà in questione.

36 Cfr. anche E. Lewalter, Spanish-jesuitische und deutsch-luterische Meta­physik des 17. Jahrhunderts (1935), spec. pp. 44-76. Qualche materiale pertinente lo si può trovare in P. Petersen, Geschichte der aristotelischen Philosophie im pro­testantischen Deutschland (1921), pp. 298-338.

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re ricerche simili per quanto concerne la filosofia italiana, fran­cese, inglese, e per altre filosofie. È sorprendente fino a che pun­to il problema del carattere dualistico della metafisica sia stato un argomento ricorrente nella disussione filosofica.

Nel XIX secolo, la più chiara espressione dei dubbi relativi all'intera questione è stata formulata da P. Natorp, Thema und Disposition der aristotelischen Metaphysik, «Philosophische Monatshefte», 24 (1888), pp. 37-65; 540-574, spec. 51, n. 23, 550, 542 37 • Potremmo essere in disaccordo con la sua soluzione, proprio come lo è stato Jaeger; dobbiamo essere in disaccordo con l'affermazione di Natorp, secondo la quale per metafisica Aristotele ha realmente inteso solo lo studio dell'essere in quan­to essere, mentre la «teologia» (la scienza di una particolare sfe­ra dell'essere) non avrebbe potuto essere ciò che Aristotele in­tendeva per metafisica. Tuttavia, proprio come Jaeger è stato in disaccordo con Natorp, noi dobbiamo essere in disaccordo con la soluzione di Jaeger, secondo la quale la definizione della me­tafisica come metaphysica specia/is e, ad un tempo, come meta­physica generalis è stata il risultato di una irriconciliata contrad­dizione nel pensiero di Aristotele, così come esso si stava evol­vendo dalla sua fase «teologica» e platonica. Tuttavia, a questo proprosito dobbiamo di nuovo concordare con Jaeger, che que­sti due punti di vista (quello della metaphysica specialis e quello della metaphysica generalis) sono irriconciliabili. In un certo senso, la soluzione che qui abbiamo esposto è il perfetto contra­rio di quella di Natorp (op. cit., p. 545). Non c'è mai stata una metaphysica generalis in Aristotele.

Non si dovrebbe neppure dimenticare che né Eudemo né Teofrasto considerano la metafisica nei termini di una metaphy­sica generalis.

Tutte le branche della conoscenza, afferma Eudemo, inda­gano i loro oggetti specifici, ma non i principi di questi oggetti (fr. 34 Wehrli). Si tratta della riesposizione di un passo aristote­lico: il matematico dà per scontato il suo oggetto (Metafisica, E 1, 1025 b 11-18; cfr. Analitici posteriori, I 1, 71 a 1-17). La sua essenza viene ammessa ipoteticamente, la sua esistenza non vie­ne dimostrata. Prosegue ora Eudemo: pertanto, ci sarà ultima-

37 Ma, cfr. E. v. lvanka, Die Behandlung der Metaphysik in Jaegers Aristo­teles, «Scholastik», 7 (1932), pp. 1-29, spec. p. 17, n. 20.

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mente una branca della conoscenza che indaga sia i suoi oggetti specifici che i loro principi. Questa è la metafisica di Aristotele; i principi della sfera suprema dell'essere apparterranno allo stes­so piano esistenziale delle entità di questa sfera.

Per quanto riguarda Teofrasto, la tendenza complessiva del suo cosiddetto frammento metafisico è indubbiamente rivolta alla teologia e alla metaphysica specialis.

Pertanto, sebbene i sistemi metafisici di Teofrasto e di Eu­demo vengano frequentemente criticati come uni-laterali o an­che come illegittime interpretazioni di Aristotele, noi li conside­riamo, al contrario, come interpretazioni perfettamente le­gittime.

Nonostante il nostro disaccordo con l'interpretazione di Jaeger della frase chiave contenuta in Metafisica, E 1, dobbia­mo sottolineare ancora una volta che se la consueta interpreta­zione dell'espressione «essere in quanto essere» è corretta, la frase di Met., E 1, contiene una inaccettabile contraddizione. Solo interpretandola nel senso sopra suggerito, la contraddizio­ne viene eliminata. Aristotele non ha mai inteso dare l'avvio ad una metaphysica generalis e pertanto la sua scienza dell'essere in quanto essere deve essere stata di stampo neoplatonico 38 •

Tuttavia, se questa interpretazione elimina alcune contrad­dizioni all'interno della definizione della metafisica, non dà ori­gine ad un'altra ed ancora più evidente contraddizione? Se i libri r, E 1 e K 3-7 della Metafisica sono totalmente fondati sulla convinzione che l'essere in quanto essere non è un universale nel

38 Questi risultati concordano in gran parte con quelli di J. Owens, The doc­trine of Being in the Aristotelian Metaphysics (1951). Il disaccordo inizia quando si perviene al problema di come si debba spiegare la causalità della suprema sfera del-1 'essere. Owens ritiene, senza esitazione, che possa esserci solo la specie di causalità attribuita da Aristotele ai motori immobili in Metafisica, A. Ma si può dire con si­curezza che, in Metafisica, E 1 e K 3-7, la causalità della suprema sfera dell'essere è di un carattere totalmente differente. Questa sfera dell'essere è una causa in quanto contiene gli elementi di cui è costituita ogni altra cosa, in particolare l'essere ed il non-essere. Owens non presta nessuna attenzione alla presenza della dottrina dei due principi opposti nelle parti della Metafisica sopra citate. Il presente libro era stato già portato a termine prima che il libro di Owens fosse pubblicato, così che la concordanza dei risultati raggiunti è tanto più significativa. C'è solamente una di­scordanza evidente: Owens insiste sul fatto che il concetto di essere di Aristotele non è platonico, in quanto per lui «platonico» significa «come viene esposto nei dialoghi di Platone», mentre nel presente libro esso significa «come viene esposto ed interpretato da Aristotele».

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senso comune del termine, non sono in contraddizione con la maggior parte degli altri scritti metafisici di Aristotele?

A queste due domande si dovrebbe rispondere in modo af­fermativo. Esiste una spaccatura negli scritti metafisici di Ari­stotele, analoga alla spaccatura presente nei suoi scritti di logi­ca, posta in evidenza da Calogero. La descrizione dell'oggetto della metafisica come essere in quanto essere è incompatibile con l'asserzione secondo la quale l'essere in quanto essere è una categoria puramente logica. Ma non sembra che abbiamo il di­ritto di interpretare la definizione della metafisica che Aristotele dà ex professo nei libri r, E 1 e K 3-7 della Metafisica alla luce di quanto egli dice riguardo al concetto di essere (specialmente in Metafisica, I), né di supporre che non può aver aderito, nei li­bri r, E 1 e K 3-7 della Metafisica, alla dottrina dei due principi opposti, dal momento che l'ha criticata in altre parti dei suoi scritti metafisici (specialmente in Metafisica, A e N).

Come dobbiamo spiegare queta spaccatura? Ci sono ovviamente quattro possibilità. La prima consiste­

rebbe nel ritorno all'interpretazione tradizionale di Aristotele. Secondo questa interpretazione, Aristotele ha sostenuto un uni­co sistema di filosofia del tutto coerente; la compattezza, la coe­renza e la non contraddittorietà di un tale sistema, sono quelle proprie di un normale sistema di tipo matematico. Le apparenti contraddizioni devono essere solo apparenti; si può rimuoverle mediante appropriate distinzioni, e mostrare che si tratta sola­mente di contraddizioni verbali. Attualmente, questo tipo di in­terpretazione sta decisamente sulla difensiva.

La seconda possibilità è associata al nome di Jaeger. Il suo metodo evoluzionistico ha ottenuto contemporaneamente due effetti. Il primo è di averci resi desiderosi piuttosto che timorosi di scoprire delle contraddizioni in Aristotele; il secondo è di aver offerto una spiegazione di queste contraddizioni. Aristotele ha iniziato come platonico, ma poi ha mutato lentamente la sua po­sizione verso un tipo di filosofia più naturalistico ed empirico. Quelle che dapprima sembravano delle contraddizioni si rivela­no come diverse fasi del pensiero di Aristotele.

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21. Osservazioni conclusive

Questa seconda possibilità, quando venne dettagliatamente esposta da Jager, incontrò la resistenza da parte di coloro che ri­tenevano che fosse impossibile stabilire qualcosa come un coe­rente sistema aristotelico. Questo genere di resistenza era natu­rale. Si deve dire, tuttavia, che i sostenitori di questa tesi non riuscirono ad eliminare molto bene le contraddizioni dagli scritti di Aristotele, e pertanto non possedevano una reale alternativa alla soluzione di Jaeger. Un particolare ostacolo posto sul loro cammino fu la scoperta di nuovi frammenti di Aristotele, ed una corretta valutazione di quelli già noti, che dimostrava incontro­vertibilmente che molti degli scritti di Aristotele erano di stampo platonico; inclusa perfino l'accettazione della teoria delle Idee.

Ma ancora un altro genere di obiezione è stato sollevato contro i risultati dell'indagine di Jaeger, un'obiezione che ha stabilito una terza possibilità. Veniva ammessa l'esistenza di tut­te le contraddizioni individuate da Jaeger, ma si negava che esse potessero essere spiegate con l'ausilio del metodo evoluzionisti­co di Jaeger. I sostenitori di questa tesi hanno posto acutamente in evidenza che in quei passi che, secondo Jaeger, apparteneva­no ad un periodo tardo, erano ancora presenti il trascendentali­smo ed il platonismo, e che nei passi che, secondo Jaeger, ap­partenevano ad un primo periodo, era già pienamente presente l'interesse di Aristotele per l'empiria. Essi, inoltre, hanno posto in evidenza il fatto che le contraddizioni fra la posizione trascen­dentalistica e quella empiristica esistevano all'interno degli stessi passi e venivano indiscriminatamente ripetute negli scritti che, secondo il calcolo di Jaeger, appartenevano al primo periodo, al periodo intermedio e all'ultimo periodo della filosofia di Aristo­tele. Shorey è stato fra i sostenitori di questa opinione, sebbene egli l'abbia espressa solo in brevi articoli (si veda, ad esempio, Note on the «Evolution of Aristotle» and Calogero 's I fonda­menti della Logica Aristotelica, «Classica} Philology», 22 [1927], pp. 420-423) e non abbia avuto tempo di elaborare com­piutamente le sue opinioni su questo argomento. In che modo, allora, Shorey ha spiegato l'esistenza di queste contraddizioni? Lo ha fatto supponendo una radicale mancanza di chiarezza nella mente di Aristotele, che Aristotele non è mai stato in grado

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di superare (cfr. anche A. Brémond, Le Di/emme aristotélicien, «Archives Philosophiques», 10 [1933], c. 2). Il trascendentali­smo ed il naturalismo, il razionalismo e l'empirismo presenti in Aristotele, affermava Shorey, non corrispondono a diverse fasi nell'evoluzione del suo pensiero. Essi sono esistiti in Aristotele per tutta la sua vita 39.

Ora, si deve notare che Shorey non è stato senza predeces­sori. Basta considerare la valutazione che Zeller dà della logica di Aristotele per rendersene conto. In Aristotele, dice Zeller, noi troviamo gli uni accanto agli altri elementi di una logica platoni­ca ed elementi di una logica fondata sull'esperienza. Questa contraddizione si è rivelata nel modo migliore nella tendenza di Aristotele a fondare ogni forma di conoscenza sul sillogismo, ossia a relegare la piena conoscenza della verità nel pensiero di­scorsivo e, nello stesso tempo, ad insistere sulla necessità di una conoscenza intuitiva, immediata come fondamento di ogni pen­siero discorsivo. Ciò che è particolarmente interessante nella prospettiva sostenuta da Shorey è proprio il fatto eh essa rap­presenta già una reazione alla concezione evoluzionistica di J ae­ger. Si deve a questa concezione, se è stato possibile vedere in Aristotele un numero di contraddizioni molto maggiore, laddo­ve le prime generazioni di studiosi erano riluttanti ad ammettere qualsiasi tipo di contraddizione, se non come ultima risorsa.

La quarta possibilità ha più il carattere di una prospettiva. Forse è possibile interpretare i due aspetti della filosofia di Ari­stotele come fondati in un unico e medesimo tentativo di non as­sumere una posizione dogmatica, ossia di non rimanere né un Platonico né di fossilizzarsi in un sistema anti-platonico. Forse Aristotele non rientra fra quei filosofi il cui interesse principale è stato quello di erigere un coerente sistema filosofico. Forse, dietro l'Aristotele platonico e l'Aristotele anti-platonico c'è l' A­ristotele che non è né l'uno né l'altro, un Aristotele il cui interes­se era rivolto al filosofare più che alla filosofia.

Con l'enumerazione di queste quattro possiblità di spiega-

39 Ma Shorey ha cercato di stabilire una sua propria teoria evoluzionistica, secondo la quale Aristotele avrebbe attraversato tre periodi: il periodo platonico, quello anti-Platonico, e quello di un ritorno al Platonismo. Si veda P. Shorey, Les ldées de Platon et l'évolution d'Aristote, in: AA. VV., Mélanges P. Thomas (1930), pp. 633-649. Cfr. J. Burnet, Aristotle, «Proceedings of the British Academy», 11 (1924/5), pp. 109-124, spec. 121 ss.

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zione della spaccatura contenuta negli scritti metafisici di Ari­stotele, la presente indagine giunge al termine. Quale di queste quattro possibilità verrà accettata è senza importanza all'inter­no del presente contesto. Infatti, lo scopo di questo capitolo era esclusivamente quello di stabilire la nozione di un Aristate/es neoplatonicus. Certamente, non è l'intero Aristotele, ma neppu­re l'Aristotele tradizionale è l'intero Aristotele.

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Appendice al Capitolo VII

1. La mia affermazione, che 1'011 TI 011 significa l'essere più reale, il più reale non in quanto qualcosa di particolare e, in questo senso, il più reale in quanto totalmente indeterminato, è stata criticata da Mansion. Dal mo­mento che ho risposto altrove alle critiche di Mansion, devo qui limitarmi ad elencare due miei articoli, nei quali si troverà ulteriore bibliografia: Metaphysik - Name und Gegenstand, «Journal of Hellenic Studies», 77 (1957), pp. 87-92; ov ù ov und 1C(!W•1J ovala: Postskript zu einer Bespre­chung, «Philosophische Rundschau», 9 (1957), pp. 148-153.

2. La mia affermazione è stata criticata anche da Theiler 40 • Ricono­scendo che le parole contenute in Metafisica, K 7, 1064 a 29, che l'oggetto della metafisica è 'tÒ 011 n 011 XotL )(<.ùpta'tOII, costituiscono un forte (egli dice perfino: incontrovertibile) argomento a favore della mia posizione, affer­ma che queste parole non sono nient'altro che il risultato di un errore del copista, e che pertanto non sono mai state realmente scritte da un autore filosoficamente responsabile. Questa soluzione è in parte più radicale di quella di Mansion, in parte meno. E' meno radicale, in quanto permette a Theiler di mantenere il resto del libro K della Metafisica come opera di Aristotele, mentre Mansion è costretto ad affermare che l'intero libro è spurio, ossia è stato scritto da un allievo di Aristotele che ha frainteso il suo maestro sugli argomenti più fondamentali. E' più radicale, in quanto presuppone che il testo sia deformato da ciò che noi chiameremmo un er­rore di stampa. Ritengo che a Theiler abbia risposto in maniera adeguata Wagner 41 , che ha richiamato l'attenzione sul contesto, specialmente su 1064 a 33-35.

3. Vorrei far notare che, per quanto le obiezioni di Mansione di Thei­ler siano importanti, esse non sono conclusive per quanto riguarda un'im­portante parte della mia tesi. Anche se il libro K della Metafisica, o alcune sue parti sono spurie, non può esserci nessun dubbio sul fatto che, nell'an­tichità, non sono state considerate tali. E' pertanto molto probabile che l'Aristotele che ha influenzato il successivo pensiero filosofico fosse più si­mile al mio Aristotele che a quello di Mansion o di Theiler. 4. Vale sempre la pena prendere in considerazione le opinioni di Zeller.

40 W. Theiler, Die Entstehung der Metaphysik des Aristo/e/es ... , «Museum Helveticum», 15 (1958), pp. 85-105, spec. p. 146.

41 Wagner, Zum Problem des aristotelischen Metaphysikbegriffes, «Philo­sophische Rundschau», 9 (1957), pp. 129-148, spec. p. 146.

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APPENDICE AL CAPITOLO VII 297

Ora, l'articolo di Natorp (si veda sopra, p. 290) è stato immediatamente criticato da Zeller 42 • L'oggetto della metafisica di Aristotele, dice Zeller, sono gli ov-.a TI ov-.a, ossia le oùa(aL. Ma sono (esistono), nel pieno senso del termine, solo quelle oùa(aL = ov-.a TI ov-.a che sono soprasensibili. Per­tanto, l'ov TI ov (o gli ov-.a TI ov-.a), come oggetto della metafisica, designa il divino. Zeller non ha nessuna simpatia per questa concezione, né è del­l'opinione che essa sia coerente con altre dottrine fondamentali di Aristo­tele. La sua interpretazione è, proprio per questo, tanto più notevole. 5. Ho notato ripetutamente la somiglianza della mia interpretazione del-1 'oggetto della metafisica con quella di Owens, il cui libro ho letto solo do­po che il mio manoscritto era stato già completato. Vorrei pertanto rivol­gere l'attenzione dei miei lettori alla recensione di Gewirth al libro di Owens 43 , in quanto alcune delle obiezioni mosse da Gewirth possono ap­plicarsi egualmente bene al mio libro. Spero, tuttavia, che la difesa della mia posizione compiuta negli articoli sopra citati serva, ad un tempo, co­me risposta a queste obiezioni. Ma, naturalmente, non posso presumere di parlare a nome di Owens. 6. La mia interpretazione del concetto di ov TI ov è stata criticata, da un punto di vista completamente differente, da Loenen (op. cit., sopra, p. 87). Richiamando l'attenzione sulla frase conclusiva di Metafisica, r 8 (ta'tL y&p 'tL o &d XLVtL -.ix XLvouµ.tva, xat -.ò 1tpw-.ov xLvoiiv &xLVTJ'tOV aù-.6), Loenen afferma che qui Aristotele identifica ovviamente il -.ò ov TI ov con il -.ò 1tpw-.ov xwoiiv &xLVTJ'tOV, ossia con l'oggetto della metafisica così come viene definito in Metafisica, A. Pertanto, afferma Loenen, è impossibile interpretare l'ov TI ov nel modo in cui faccio io, ossia come un essere inde­terminato.

E' interessante osservare che questa obiezione di Loenen presuppone già ciò che io ho cercato di dimostrare (e per cui sono stato criticato da Mansione da Theiler), ossia che in Aristotele non c'è nessuna metaphysica generalis, in quanto l'ov TI ov designa nient'altro che l'essere supremo, in altri termini il divino. Loenen, a mio avviso, suppone senza esitazione che Aristotele, anche in Metafisica, r, quando parla dell'ov TI ov intende real­mente il -.ò 1tpw-.ov xLvoiiv &xLVTJ'tOV. Il disaccordo di Loenen con me inizia solamente quando egli perviene al problema: perché Aristotele usa la frase ov TI ov per caratterizzare il divino? Ora, Loenen non osserva che questa obiezione colpisce entrambe le vie. Se dobbiamo interpretare l'ov TI ov semplicemente come un altro modo per designare il principio immutabile del movimento, che cosa ci impedisce di vedere nella frase -.ò 1tpw-.ov XL· voiiv &xLVTJ'tOV un altro modo per designare l'ov TI ov? In altri termini, in che modo decideremo quali delle due frasi dell'equazione (ammessa da Loe­nen come un qualcosa di ovvio) ov TI ov = -.ò 1tpw-.ov xLvoiiv cxxLVTJ'tOV sia,

42 E. Zeller, Bericht uber die deutsche Litteratur der sokratischen, p/atoni­schen und aristotelischen Philosophie 1886, 1887, «Archiv fiir Geschichte der Phi­losophie», 2 (1889), pp. 259-299, spec. 264-271.

43 A. Gewirth, Aristot/e's Doctrine of Being, «The Philosophical Review», 62 (1953), pp. 577-589.

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se possiamo esprimerci in questo modo, la frase principale, che determina ultimamente il senso dell'altra?

Pertanto, la mia risposta a Loenen è la seguente: chiunque abbia scritto il passo conclusivo di Metafisica, r, ha in realtà indicato che il -cò 1tpW'tOV XLVOUV &x(VTj'tOV è strettamente correlato con l'ov n ov. Io ho consi­derato le due definizioni solamente come due aspetti di un unico e medesi­mo soggetto, il divino. Che egli abbia usato due definizioni così manifesta­mente diverse sembrerà strano solo se dimentichiamo che il concetto del 'tÒ 1tpw'tov XLvouv &x(VTJ'tOV non è meno paradossale del concetto di un essere indeterminato, in quanto, nella struttura della filosofia di Aristotele, esso designa una forma che non è forma di nulla.

Nel mio libro ho fatto solo brevemente riferimento alla frase conclu­siva di Metafisica, r, come ad un'altra prova del fatto che anche in questo libro Aristotele non ha considerato la sua metafisica come qualcosa di si­mile ad una metaphysica generalis (si veda sopra, p. 242). La recente edi­zione della Metafisica ad opera di Jaeger mette a fuoco il problema. Infat­ti, Jaeger mette fra una duplice parentesi l'intera sezione conclusiva di Me­tafisica, r, indicando in questo modo che egli la considera come un'ag­giunta successiva, compiuta o da Aristotele, o da un commentatore che ha utilizzato una nota in margine dello stesso Aristotele 44 • Questa tesi di Jae­ger è supportata dal fatto che l'intera sezione r 8, 1012 b 22-31, era assen­te da alcuni manoscritti ed è pertanto indipendente dalle sue teorie evolu­zionistiche. Tuttavia, ha una relazione con esse. Infatti, chiunque abbia aggiunto le ultime parole ha indicato chiaramente che egli non era dell'o­pinione che ci fosse qualche differenza fra l'oggetto della metafisica, così come viene determinato nel libro A, dall'oggetto della metafisica cosi co­me viene determinato nel libro r.

7. Kohnke 45 (seguito da Dorrie 46) sostiene che il «Neoplatonismo» di Aristotele nei libri r ed E è diretto contro il «Neoplatonismo» di Speusip­po, mentre io ho supposto che in entrambi i casi abbiamo esempi dello stesso «Neoplatonismo». Infatti, afferma Kohnke, secondo Speusippo non può esserci una scienza suprema, in quanto Speusippo non ha osser­vato che tutti gli opposti (una coppia dei quali costituisce le diverse sfere dell'essere) si riconducono ultimamente ad un unico sostrato, identificato da Kohnke con il 'tÒ 1tpw'tov, che non ha opposti. Dal momento che Ari­stotele insegna che esiste solamente un'unica scienza suprema, egli critica la dottrina dei due principi opposti di Speusippo, in quanto non è in grado di rendere ragione dell'unità della metafisica. In altri termini, Kohnke so­stiene che i libri r ed E della Metafisica sono più tardi del libro A, di cui è ben nota la critica della dottrina dei due principi opposti insieme con la

44 W. Jaeger (ed.), Aristotelis Metaphysica, Oxford 1957; cfr. Aristate/es, p. 221 (con una spiegazione un po' diversa: la sezione conclusiva del libro r è stata scritta da Aristotele così come ora appare; è stata da lui cancellata quando ha rivi­sto il libro K della Metafisica; restituita al suo posto originario dal curatore).

4s Kohnke, «Gnomon•>, 27 (1955), pp. 157-164. 46 H. Dorrie, «Philosophische Rundschau», 3 (1955), pp. 14-25.

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conseguente dottrina di un sostrato neutro in cui gli opposti sembrano es­sere presupposti. Die reine Gegensatzlehre (l'accento è su reine) wird als Lehre anderer Philosophen eingefuhrt. Non ritengo che l'interpretazione di Kohnke sia sostenibile. In Metafisica, r 2, 1004 b 27-28, leggiamo: miv­'tOt &vixyt'tOtL tlc; 'tÒ ov x0tl 'tÒ µ.~ ov x0tt tlc; tv x0tl 1tÀrj8oc;. Ciò viene confer­mato in 1004 b 33-34: 1t1XV't0t òè x0tl 't&ÀÀ0t &v0ty6µ.tv0t cp0ttVt't0tL dc; 'tÒ tv x0tl 1tÀrj8oc;. Ed ora la conclusione giunge in 1005 a 2-3: cp0tvtpòv oùv x0tt lx 'tOU'tWV O'tL µ.L~c; è.ma'tT}µ.T}c; 'tÒ ov TI ov 8twprja0tL, 1t1XV't0t yètp 71 lv0tv't(0t 71 lx lv0tv't(wv, ixpx0tt òè 'twv è.v0tv't(wv 'tÒ tv x0tt 1tÀrj8oc;. In questo testo non c'è il più piccolo accenno al fatto che Aristotele critichi la dottrina dei due principi opposti. La conclusione, che esiste una sola scienza suprema, non è fondata, come ha fatto Kohnke, sulla dottrina che tutti gli opposti han­no un sostrato comune. Al contrario, si fonda sull'ipotesi che tutti i con­trari sono ultimamente riducibili ad un'unica coppia di contrari e non vie­ne detto nulla nel senso che questa coppia di contrari deve avere come suo terzo elemento un sostrato differente da essi.

8. Usando criteri suoi personali, I. N. Bochenski (Ancient Formai Lo­gie, 1951) giunge alla conclusione che il libro r della Metafisica appartiene allo stesso periodo dei Topici (incluse le Confutazioni Sofistiche). Facen­do uso di un criterio diverso, si potrebbe rispondere immediatamente che ciò è impossibile. Infatti, i Topici operano evidentemente con il concetto di essere inteso come un abstractum (nel senso che noi attribuiamo al ter­mine abstractum: IV 1, 121 a 16-18; 6, 127 a 26-31). Sfortunatamente, è infinitamente più facile respingere qualsiasi delle teorie evoluzionistiche fin qui proposte che sostituirle con qualcosa di migliore. Forse è appro­priato avere un elenco di tutti i passi presenti nell'opera di Zeller, che evi­denziano alcuni dilemmi irrisolti in Aristotele. Questi passi sono: Philoso­phie der Griechen, II/2, pp. 192-196; 236; 309-313; 345-348; 801-805.

9. Temo che nella mia esposizione delle dottrine di Avicenna, fatta a p. 289, le ho semplificate fino al punto di distorcele. In realtà, la definizio­ne dell'oggetto della metafisica fatta da Avicenna è piuttosto complessa ed è complessa fino al punto di essere non chiara. Possiamo vedere ciò nel modo migliore, quando seguiamo semplicemente lo schema nel suo Libro di scienza, ora accessibile in una traduzione francese 47 •

Qui troviamo dapprima l'oggetto della metafisica designato come science de tout qui est au-de/à de la nature (p. 90). Nello stesso tempo, si dice che l'oggetto della metafisica sono choses il cui etre ne se rattache nul­lement à la matière sensible, non plus qu 'à la combinaison ou au mouve­ment, de sorte, qu'on peut /es concevoir comme détachés de la matière et du mouvement (ainsi l'intelligence, l'etre, l'unité, la causa/ité et la causéi­té, et autres ana/ogues) car il est possible de concevoir ces états en dehors des choses sensibles (ibid. ).

Dopo aver preso conoscenza di tutti i problemi connessi con la defini-

47 Avicenne. Le Livre de Science. I (tr. di M. Achena e H. Massé, Paris, 1955).

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zione dell'oggetto della metafisica in termini ontici oppure in termini epi­stemologici, si osserva immediatamente che Avicenna non è in grado di sfuggire alla confusione che deriva dalla combinazione dei due differenti punti di vista. Gli esempi addotti da Avicenna sono in parte illustrativi de­gli esseri che esistono senza materia (le intelligenze) ed in parte degli états che possiamo concepire indipendentemente dalla materia cui sono incor­porati (unità, causalità, ecc.). Ma questo non è tutto. Avicenna afferma che queste cose che possiamo concepire come esistenti senza la materia so­no di due specie. O esse ne soient jamais susceptibiles d'attachement à la matière (ainsi /es intelligences et Dieu .. . ), o esse se rattachent à la matière et au mouvement, sans toutefois que cela soit nécessaire par leur nature -comme la causa/ité ... (p. 91).

Questa divisione, naturalmente, non è nient'altro che una divisione della metafisica in due branche, una metaphysica specialis ed una meta­physica genera/is. Ma a questa determinazione della metafisica relativa­mente semplice Avicenna ne aggiunge un'altra. Questo oggetto est non pas une chose particu/ière, mais l'etre absolu en tani qu'absolu e /es états di questo etre abso/u (p. 92). Di tali états Avicenna enumera, fra gli altri, l'u­niversale ed il particolare, la potenza e l'atto, il necessario (nota bene!) ed il contingente, la sostanza e l'accidente, l'unità e la pluralità (p. 93).

Qui, penseremmo noi, abbiamo l'enunciazione dell'oggetto della me­taphysica genera/is in altra forma, e restiamo meravigliati di come esso sia in rapporto con l'oggetto della metafisica in termini dell'immaterialità del suo oggetto, in quanto questa immaterialità è, come abbiamo visto, di due specie. In altri termini, abbiamo improvvisamente oltre alle due branche della metafisica descritte a pp. 90 ss. ancora un'altra branca, descritta a p. 92, che, tuttavia, assomiglia ad una duplicazione di una delle precedenti branche. Se combiniamo le due descrizioni, abbiamo qualcosa come una metaphysica specia/is (che tratta di Dio e delle intelligenze), un'altra bran­ca che tratta di concetti (o noi diremmo stati, qualità, ecc.?) quali essere, unità, causalità ed una terza che tratta dell'essere assoluto e dei suoi états (ovviamente i TI&8TJ), fra i quali il necessario.

La confusione non termina qui. Una parte della metafisica, continua Avicenna, concerne la conoscenza di Dio, il creatore di tutte le cose (p. 93). Questa parte viene definita «scienza divina». Qui abbiamo l'origine di tutte le interminabili discussioni concernenti il rapporto della metafisica, in particolar modo della metaphysica specialis, con la teologia. Ed è del tutto ovvio che le diverse interpretazioni dell'unico e medesimo testo di Aristotele si aggiungano le une alle altre, finché, alla fine, il concetto di teologia viene sovrapposto ad una metafisica bipartita (o tripartita), una (o due) parte della quale, nel linguaggio di Aristotele, è già teologia.

Fin qui, abbiamo avuto di fronte a noi la parte introduttiva della me­tafisica di Avicenna. Se ora ne seguiamo l'attuazione, ci attende una sor­presa. Avicenna esamina i concetti di oùo-la e di awµ0t e (pp. 94-108), di ac­cidente e di altre categorie (pp. 108-116), l'universale ed il particolare (pp. 116-121), l'uno ed il molteplice, l'anteriore ed il posteriore, la causa e l'ef-

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APPENDICE AL CAPITOLO VII 301

fetto, la potenza e l'atto (pp.121-136). Al che egli analizza il concetto di necessario, ma non come un état, come dovremmo aspettarci da quanto detto in precedenza. Piuttosto qui «il necessario» significa improvvisa­mente «essere necessario», ossia l'essere da cui si devono escludere la mol­teplicità, il mutamento, ecc. (pp. 143-146). A questo essere necessario (o noi diremmo assoluto) non si applicano né il concetto di oùa(Ot, né quello di accidens. Esso è increato ed eterno. Esso non solo è connaissant et con­nu de lui-meme, mais encore le savoir meme (p. 152), ed in virtù della co­noscenza che ha di se stesso causa e conosce tutto ciò che esiste (pp. 152-160). Tuttelecoseemananodaesso(pp.173-177).

E' del tutto evidente che l'Eire nécessaire è il modo in cui Avicenna designa Dio. Ma resta non chiaro se l'ambito di questo Essere necessario sia la branca della metafisica che concerne le cose che esistono senza mate­ria, o l'altra che concerne le cose che non possono non avere la materia, che esistono nella materia, o la terza che concerne l'essere in quanto essere ed i suoi mx.811, fra cui il necessario, o, infine, quella che concerne il creato­re di tutte le cose. Avicenna, impercettibilmente, si potrebbe dire furtiva­mente, separando il concetto di necessario dagli altri 1tix811 dell'essere asso­luto (p. 93), introduce il concetto di un essere necessario, superando per­tanto, in un modo particolare, la divisione della metafisica in due branche, la specialis e la generalis, una divisione in favore della quale non si può di­re nulla, tranne che essa trae origine da un'errata interpretazione di Ari­stotele; questo stesso errore, d'altra parte, lo si deve alla peculiarità del modo di filosofare di Aristotele.

10. Sul concetto di conoscenza immediata (intuitiva), si veda ora Plu­tarco, De Js. et Osir., 77, 382 D-E, che recentemente è stato incluso da W. D. Ross fra i frammenti dell' Eudemo di Arisotele, Aristotelis fragmento selecta (1955), p. 23. Se Ross avesse ragione, avremmo di fronte a noi un autentico uovo di Colombo. Sebbene Plutarco citi esplicitamente questa dottrina come la dottrina propria di Platone e di Aristotele, il passo è stato chiaramente trascurato. La ragione è ovvia, ma difficilmente accettabile. Noi possiamo osservare immediatamente che la dottrina può difatti essere facilmente derivata da Platone, e pertanto non consideriamo seriamente il fatto che Plutarco la attribuisca anche ad Aristotele; proprio come quan­do il sole ci acceca e noi non vediamo le stelle splendere di giorno. Ma sem­bra del tutto inappropriato considerare il passo come erroneo e ritenere che Plutarco abbia attribuito arbitrariamente ad Aristotele una dottrina propria solo di Platone. Dopo tutto, Plutarco, ovviamente, aveva una grande familiarità con gli scritti di Aristotele, sia con quelli che ci sono sta­ti conservati, sia con quelli che ora sono perduti. Uno sguardo ali' lndex di Bernardakis ed un altro ali' Index degli autori di Rose sono sufficienti per dimostrarlo. E non dobbiamo dimenticare che fra gli scritti di Plutarco che non ci sono più conservati c'era uno studio sui Topici di Aristotele ed un altro sulle Categorie. E' inoltre ben noto che Plutarco ha rimproverato severamente Colote per aver considerato Aristotele semplicemente come un altro rappresentante della teoria platonica delle Idee; ed infine, che egli

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ci ha detto esplicitamente che Aristotele ha mutato le sue opinioni filosofi­che. Pertanto, ogni prova è a favore di Ross. E' abbastanza strano che nessun recensore del suo libro sembra essersi accorto del fatto che Ross, quasi in sordina, ci ha fatto dono di un nuovo ed estremamente importan­te frammento dell'Aristotele platonizzante. Nello stesso tempo, risulta una volta di più evidente fino a che punto la sua filosofia abbia considera­to realmente se stessa come nÀt'tT}: ~ Òt -roii \IOT)'tOii x«t tLÀLXpLvoii,; x«t &1tÀoii v67JaL,; wa1t&p Òt<1'tp«1tfl ÒL«Àixµ.~«­a« -rij,; ~u,cij,; ix1t«ç 1tod 8L''(&L\I x«t 1tpoaLÒ&L\I 1t«pfo,c&. ÒLÒ x«t IlÀix-rwv x«t 1 ApLG'tO'ttÀT),; l1t01t'tLXÒ\I 'tOU'tO 'tÒ µ.tpo,; -rij,; cpLÀoaocp(«,; x«ÀOU<JL\I, w,; o{ 'tQ: Òoç«<J't&: x«t µ.&LX'tQ: x«t 1t«\l't00«1t&: 't«U't« 1t«p«µ.&L~1Xµ.t\lOL 't~ À6y~ 1tpò,; 'tÒ 1tpw-rov lx&i'vo x«t &1tÀoiiv xod «uÀov lçixÀÀov-r«L x«t 8Ly6vn,; &µ.wayfow,; -rij,; 1t&pt «ù-rò x«8«p~,; ÒtÀ7)8&(«,; otov lv nÀ&tjj -rÉÀo,; t)(&L\I cpLÀoaocp(«v vo­µ.(~ouaL.

Ed ecco la traduzione: «La conoscenza del puro e semplice intellegibi­le, balenando all'anima a guisa di un'improvvisa fulgurazione, concede a essa, alle volte, una momentanea contemplazione e un momentaneo con­tatto. Per cui Platone e Aristotele dicono propria del più alto grado di ini­ziazione misterica questa parte della filosofia, ove, sorpassati con la ragio­ne discorsiva quegli oggetti del conoscere commisti e compositi, che sono soggetti all'opinione, ci innalziamo fino al principio ultimo, semplice e im­materiale, e qui, avendo veramente preso contatto con la sua pura e verace realtà, riteniamo di possedere, come in una celebrazione misterica, il cul­mine della filosofia» 48 •

48 Il testo è quello di F. C. Dabbit (Plutarch's Moralia, Loeb Library, voi. 5, 1936; rist. 1957); ma, nell'ultima riga, ho seguito il testo di Sieveking pubblicato nella «Dibliotheca Teubneriana» (lv nÀnfi invece di lv-rtÀt~ come compare nel­l'edizione di Dabbit). Su Plutarco si veda, in questo contesto, K. Ziegler, Plutarchos (2), in: Pauly-Wis­sowa, Realencyclopiidie, XXI/I (1951), spec. No. 56 e 192 del catalogo Lamprias; W. Jaeger, Aristate/es, pp. 35 ss.; 435 ss. Non è quasi necessario ricordare al lettore i termini usati da Plotino nei passi classi­ci che descrivono la unio mystica: lfii~0to80tL xett 9t"(t1'v (VI 9, 4, 27 Dr.), 9t"(t1'v (VI 9, 7, 5 Dr.), lÀÀ0tµ.~tç (16 Dr.), 9tet (21 Dr.; cfr. VI 9, 11, 30-46 Dr.), l1t0tf~ (25 Dr.), 9(etç xett otov l1t0tf~ (V 3, IO, 42 Br.), lf&~0to80tt (V 3, 17, 25 Br.), le0t(f111Jç fwç À0tµ.l3&vuv (29 Br.), Èf1X~0to80tt fW't6ç (34 Br.), ecc. (si veda Zeller, Die Philosophie der Griechen, IIl/2 (1923 5), pp, 613-615).

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Conclusioni

La divisione dell'essere in tre sfere (oùafot~). ossia in Idee (enti teologici), enti matematici, e realtà fisiche, è stata riferita da Aristotele come platonica. Se il resoconto di Aristotele fosse o no corretto, nel presente contesto è senza importanza. Aristotele stesso ha ritenuto non solo che lo fosse, ma ha perfino adattato questa divisione in funzione delle proprie categorie di pensiero. Nel caso in cui abbia frainteso Platone, non può tuttavia essere accusato di averlo fatto intenzionalmente. L'adattamento sopra menzionato è stata la divisione aristotelica della filosofia in teo­logia (metafisica), matematica e fisica. Ora diremo qualcosa di più a questo proposito.

Posidonio, nella sua interpretazione del Timeo di Platone, ha ripreso questa divisione, istituendo una caratteristica equa­zione. Da un lato, egli aveva la tripartizione in Idee, anima del mondo ed oggetti sensibili, derivata dal Timeo. Dall'altro, ave­va la tripartizione aristotelica in Idee, enti matematici e realtà fi­siche. Ora, Posidonio identifica i termini medi di queste due tri­partizioni, ossia l'anima del mondo e gli enti matematici.

In Giamblico ed in Proclo ricompaiono la tripartizione e l'identificazione dell'anima con gli enti matematici e vengono discusse, accettate o respinte. Giamblico e Proclo ritengono, in modo originale, che, in questa divisione, non solo le Idee (gli en­ti teologici o in qualunque modo vogliamo chiamare le entità contenute nella suprema sfera dell'essere), ma anche gli enti ma­tematici esistano in modo separato. Gli enti matematici non so­no il prodotto dell'astrazione nel senso comune del termine. Il fatto che Aristotele, da un lato, abbia accettato la tripartizione platonica e, dall'altro, abbia avuto dei dubbi per quanto concer­ne l'esistenza separata degli enti matematici (ossia, dei dubbi in alcuni passi, mentre in altri passi una tale esistenza separata vie­ne esplicitamente negata), ha coinvolto lui, i suoi interpreti ed i suoi seguaci in difficoltà senza fine. L'adattamento della tripar-

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tizione platonica sopra menzionato in Aristotele si è risolto in una tripartizione della filosofia teoretica in metafisica (teolo­gia), matematica e fisica. Ma è evidente che il valore di quest'ul­tima tripartizione diviene più che dubbio se, mentre gli oggetti della metafisica e della fisica vengono considerati come separati, si suppone che gli enti matematici siano solamente oggetti di astrazione nel senso comune del termine.

A questa tripartizione dell'essere (e della filosofia) sono connessi tre problemi particolarmente interessanti.

I. La relazione fra gli enti matematici e l'anima. L'identifi­cazione dell'anima con una qualche specie di enti matematici (che il Timeo di Platone è sul punto di affermare), è stata espli­citamente enunciata da Senocrate (anima = numero che muta o che muove se stesso), e probabilmente anche da Speusippo (ani­ma = forma del generalmente esteso), di guisa che, nell'identifi­care l'anima con gli enti matematici, Posidonio non ha fatto che continuare e sviluppare una tradizione Accademica. Anche in Aristotele possiamo ancora trovare delle tracce di questa identi­ficazione, che egli stesso è stato disposto ad accettare. Proprio come c'è stato un periodo nel quale Aristotele ha designato l'a­nima come un'Idea piuttosto che come una forma immanente di un corpo vivente, così deve esserci stato un periodo nel quale l'ha descritta come una forma matematica trascendente, se­parata.

A questa identificazione è connesso un altro problema: quello dell'origine del mutamento (movimento) in un universo costituito dalle tre suddette sfere. L'identificazione dell'anima con gli enti matematici era connessa con quest'altra ipotesi: che gli enti matematici fossero, in qualche modo, il principio del movimento. Questo è quanto è stato affermato molto chiara­mente da Senocrate, ma l'ipotesi ricompare in Proclo e in Giam­blico. Una tale ipotesi doveva necessariamente far nascere una lunga discussione. Il rifiuto dell'idea di fare degli enti matemati­ci il principio del movimento, ha condotto di frequente a separa­re la sfera degli enti matematici, in modo da considerare come dotata di movimento (come causa del mutamento o del movi­mento), e pertanto come identica con l'anima, solo una parte di essi. Naturalmente, l'intera discussione può essere valutata giu-

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CONCLUSIONI 305

stamente solo se decidiamo di abbandonare l'idea che l'unico ti­po possibile di causalità sia una certa azione di una cosa su un'altra cosa, cioè un processo spazio-temporale. Ma, dopo tut­to, qualunque sia il tipo di causalità che l'anima, secondo le dot­trine di Platone, sembra avere, Platone non l'ha certo concepita in termini di causalità spazio-temporale.

Una delle reinterpretazioni più caratteristiche della triparti­zione è stata quella dello stesso Aristotele. Mentre in genere egli adotta la tripartizione in enti teologici - enti matematici - realtà fisiche, talvolta ha adottato una differente tripartizione: enti teologici - realtà astronomiche - realtà fisiche. Le realtà astrono­miche hanno preso il posto degli enti matematici come un prin­cipio secondario di movimento. Il movimento delle realtà astro­nomiche è, a sua volta, causato dall'esistenza di entità che costi­tuiscono la sfera teologica dell'essere (i motori immobili).

Il carattere divino delle realtà astronomiche di cui parla Aristotele è evidente, ed è messo in risalto dallo stesso Aristote­le. Si tratta di una prova implicita del fatto che anche gli enti matematici, fintanto che sono stati considerati come separati, si è ritenuto che fossero realtà divine. La matematica, all'interno di questo contesto, era strettamente unita alla teologia. La più chiara espressione del carattere teologico degli enti matematici la troviamo in Senocrate. L'interpretazione teologica degli enti matematici troverà la sua piena espressione anche in tutti i Theologoumena arithmeticae. La teologia astrale e la teologia matematica sono due discipline affini, sebbene la prima abbia potuto associarsi alle religioni astrali, ed in tal modo sopravvi­vere fino ai nostri giorni nella forma di astrologia. La teologia matematica, invece, è rimasta sempre circoscritta a circoli di esperti. Ma l'intero complesso della teologia matematica deve essere trattato separatamente.

E' in questo contesto che il frammento di Aristotele riveste un particolare interesse. C'è stato un periodo nel quale Aristote­le ha ritenuto che la matematica fosse strettamente collegata alla filosofia, non come mezzo per distogliere i nostri occhi dal sen­sibile e per educare il nostro intelletto a percepire le realtà imma­teriali, come veniva considerata nella Repubblica di Platone, e non solo a motivo della sua esattezza e del suo metodo, ma piut­tosto come uno studio di una realtà molto simile alla realtà ulti­ma degli oggetti della teologia.

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Il problema, se le realtà astronomiche di cui parla Aristote­le siano o no esseri viventi dotati di un'anima, è un punto con­troverso. Alcuni passi indicano chiaramente che talvolta Aristo­tele le ha interpretate in questo senso. In questo modo, la con­nessione fra gli enti matematici e l'anima viene ancora mantenu­ta in Aristotele. In Aristotele, le stelle sono realtà matematiche animate e dotate di movimento. L'astronomia è una psicologia, o almeno quella branca della psicologia che studia le anime pre­senti nelle stelle.

Di nuovo, una corretta valutazione di tutte queste riflessio­ni è possibile solo quando siamo disposti ad ammettere che il si­gnificato dell'anima non è necessariamente quello di coscienza e, inoltre, se siamo disposti ad ammettere che gli enti matematici esittano in rerum natura e non solo nei nostri pensieri. Ed una volta ammesso che l'universo contiene gli enti matematici, è del tutto naturale ammettere che, in qualche modo, questi enti ma­tematici siano cause. Inoltre, l'identificazione dell'anima con gli enti matematici non è affatto bizzarra, se ammettiamo che l'i­dea di enti matematici che pensano se stessi (e, in questo senso, che muovono o mutano se stessi) non sia un'assurdità. E non è forse vero che, dopo tutto, ciò che è stato definito il vouç 1tOLTJ'tL­

x6ç di Aristotele potrebbe essere interpretato proprio come il si­stema di tutte le verità immutabili che pensano se stesse e che, pertanto, mutano invariabilmente se stesse?

Il problema se tutti gli enti matematici, o alcuni, o nessuno sia il principio del movimento; l'ulteriore questione se tutti gli enti matematici, o alcuni, o nessuno sia dotato di movimento; e la questione connessa se tutti gli enti matematici, o alcuni o nes­suno sia identico con l'anima; tutte queste domande hanno con­dotto al problema di quante branche fossero contenute nello studio della matematica. Le due principali divisioni a noi note sono una tripartizione senza l'astronomia ed una quadriparti­zione che include l'astronomia: le altre tre branche sono l'arit­metica, la geometria e l'armonica (acustica).

Le branche della scienza matematica quadripartita sono identiche con le quattro branche del quadrivium. Proprio nell'i­dea del quadrivium è sopravvissuto il problema della identifica­zione dell'anima con gli enti matematici e quello del carattere di movimento (la mutabilità e la causa del mutamento) degli enti matematici.

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CONCLUSIONI 307

La storia dell'idea del quadrivium non è molto edificante. La quadripartizione della scienza matematica in Nicomaco è il prodotto di una mente filosoficamente sterile, interessata alle divisioni per se stesse. Che in seguito il quadrivium sia stato uni­versalmente accettato come curriculum è, in realtà, uno strano evento. Dal modo in cui il significato del quadrivium è stato continuamente formulato e riformulato risulta tuttavia chiaro che nessuno si sentiva troppo sicuro di quale fosse il suo vero si­gnificato.

Un ulteriore elemento di confusione fu aggiunto dal fatto che il significato di questa matematica quadripartita, così come veniva concepita da Nicomaco ed accettata da uomini come Giamblico e Proclo, era quello di una scienza simile o identica alla filosofia prima, che, a sua volta, aveva senso solo all'inter­no di un'interpretazione eccessivamente realistica degli enti ma­tematici. Ogni volta che la nozione del quadrivium si è distacca­ta da questo contesto di realismo esasperato, lo status del qua­drivium è divenuto immediatamente incerto e le sue branche so­no state considerate quasi come artes pueriles 1•

La tripartizione dell'essere in enti teologici, enti matematici e realtà fisiche continuò ad essere accettata anche dopo Giam­blico. Un buon esempio è Proclo. Anche la tripartizione della fi­losofia teoretica in metafisica (teologia), matematica e fisica continuò ad essere adottata, ma quasi sin dall'inizio essa fu adottata da filosofi che rifiutavano di accettare la tripartizione dell'essere. Il risultato furono innumerevoli tentativi di riconci­liare ciò che equivaleva ad una tripartizione della conoscenza con ciò che equivaleva ad una tripartizione dell'essere. Lo stesso Aristotele non vi era riuscito, né vi riuscì nessuno dei suoi suc­cessori. L'impossibilità di questa riconciliazione ed il problema iniziale di questa riconciliazione sono il risultato della contrad­dizione fra l'Aristotele platonico e l'Aristotele realista mo­derato.

Il tentativo più famoso di reinterpretare la tripartizione del­la conoscenza teoretica in modo da renderla coerente è stato quello di S. Tommaso. Gli oggetti della fisica, gli oggetti della matematica e gli oggetti della metafisica sono stati interpretati da S. Tommaso in termini di gradi di astrazione. In altri termi-

1 Cfr. W. GerhailBer, Der Protreptikos des Posidonios (1912), pp. 45-47.

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ni, S. Tommaso ha sostituito l'imperfetta tripartizione della co­noscenza teoretica presente in Aristotele (imperfetta, perché fondata, nello stesso tempo, sulla ratio essendi e sulla ratio co­gnoscend1) con una tripartizione interamente fondata sulla ratio cognoscendi. Ma questa nuova tripartizione avrebbe presuppo­sto che gli oggetti della metafisica fossero «astrattibili» nello stesso senso in cui si supponeva che lo fossero gli oggetti della fi­sica o della matematica. Questa era una conseguenza che S. Tommaso non poteva accettare, e che non può essere accettata da nessuno che (implicitamente o esplicitamente) interpreti la metafisica come metaphysica specia/is, ossia come una branca della conoscenza che concerne esseri immateriali come Dio, gli angeli, le anime incorporee. Questi esseri immateriali non pos­sono essere considerati come oggetti di astrazione nello stesso senso in cui si possono considerare oggetti di astrazione gli og­getti della fisica e gli oggetti della matematica. Essendo immate­riali, essi non possono essere separati dalla materia nello stesso modo in cui ciò è possibile per le forme corporee e per gli univer­sali; essi non possono essere conosciuti tramite l'astrazione. Questo significa che la coerenza della tripartizione della cono­scenza teoretica (fondata sul principio dell'astrazione) viene raggiunta da S. Tommaso al prezzo dell'esclusione della meta­physica specialis dalla tripartizione. Viene conservato il nome di metafisica per la superiore delle tre branche della conoscenza teoretica; ma esso ora designa quella che in seguito è stata chia­mata metaphysica generalis. In altri termini, la metafisica viene chiaramente suddivisa in due branche, la metaphysica generalis o metafisica formale e la metafisica come conoscenza degli esse­ri immateriali, e solo la prima di queste viene inclusa nella tri­partizione della conoscenza teoretica. Questo esito dimostra an­cora una volta l'impossibilità della tripartizione aristotelica del­la conoscenza teoretica, una volta che si sia abbandonata la tri­partizione dell'essere.

L'identificazione degli enti matematici con l'anima si è ri­solta in una divisione dell'essere in realtà teologiche, anima, e realtà fisiche. Tale divisione è praticamente identica con quella presupposta ed elaborata da Plotino. Questa somiglianza viene un po' oscurata dal fatto che Plotino concentra la sua attenzio­ne sul vouç, ossia sulla prima sfera dell'essere, corrispondente agli enti teologici, e sull'anima, mentre trascura le realtà fisiche;

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inoltre, dal fatto che egli ritiene che queste due sfere dell'esse­re (vouç ed anima) siano in stretto rapporto con il principio supremo (che è al di sopra dell'essere). E' anche vero che in molti passi dei suoi scritti Plotino è un monista, ossia non ammette un principio opposto all'Uno e dello stesso rango. D'altra parte, non è neppure affatto certo che Platone e tutti i suoi discepoli abbiano ammesso una tale assoluta uguaglian­za di rango. In ogni caso, nonostante le differenze c'è una fondamentale somiglianza fra Plotino e l'Accademia.

Entrambe le tripartizioni dell'essere (quella in enti teolo­gici, enti matematici, realtà fisiche; o quella in enti teologici, anima, realtà fisiche) sono sopravvissute alle vicissitudini della storia della filosofia con una vitalità sorprendente. Non rien­tra nello scopo del presente libro esaminare questo argomen­to; d'altronde, il libro di Strong (cfr. sopra, p. 120) ne ha of­ferto una descrizione adeguata. Ci limitiamo ad un esempio. La tripartizione in matematica - fisica - metafisica fornisce lo schema ai Prolegomena di Kant. Le tre fondamentali doman­de che in essi Kant si pone (cfr. anche la Prefazione alla Se­conda Edizione della Critica della Ragion Pura) sono: com'è possibile la matematica? Com'è possibile la fisica? Com'è possibile la metafisica? Ma certamente Kant è riuscito a dare a questa tripartizione aristotelica un significato completamen­te nuovo.

2. Il secondo grande problema che è emerso nel contesto della tripartizione dell'essere è stato quello della concatenazio­ne delle tre sfere dell'essere. Si è ritenuto che questa concate­nazione fosse fondata mediante una qualche specie di deriva­zione. La derivazione è un processo che, nello stesso tempo, è comprensibile e pienamente reale. E' un processo logico; ma il termine «logico» deve essere considerato nel suo significato più comprensivo. Logos, spirito, intelletto, pensiero: ognuno di questi termini dà l'idea di tale significato. L'universo è una totalità organizzata, ed il principio di questa organizzazione, nonché i termini del tutto organizzato, sono tali che l'intellet­to, anche quando conversa solo con se stesso (ed è in questo modo dialettico), rivela la struttura della realtà. La realtà stessa è dialettica o, per usare un termine meno impegnativo,

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dialogica. Le parti delle realtà sono in rapporto le une con le altre proprio nello stesso modo in cui lo sono le fasi di un dialogo.

Il carattere più sorprendente di questo sistema derivativo era la derivazione delle realtà fisiche, ossia degli oggetti sensibi­li, dalle sfere anteriori, ossia non sensibili, inestese, eterne. La derivazione delle realtà fisiche da quelle non-fisiche, così come viene presentata da Aristotele e come viene confermata da quan­to sappiamo su Speusippo e Senocrate, era un principio accetta­to da Platone e dai suoi discepoli.

Questo principio rappresenta la più chiara anticipazione di alcune dottrine che siamo soliti definire neoplatoniche.

Nelle opere scritte di Platone il problema del passaggio dal­la cosiddetta sfera ideale alla cosiddetta sfera reale si presenta principalmente nella forma di due domande. La prima doman­da è la seguente: «In che modo le Idee sono cause degli oggetti sensibli?»; la seconda: «Qual è l'origine del sensibile?» La ri­sposta alla prima domanda sembra terminare nella ipotesi che le Idee sono cause solo in quanto sono i modelli che vengono ri­flessi in una qualche specie di specchio. Quale sia la natura dello specchio non viene rivelato. Nel complesso, restiamo con l'im­pressione che le Idee non siano in nessun modo responsabili del-1' esistenza dello specchio e che, viceversa, la loro esistenza non è in nessun modo dipendente dallo speccho; inoltre, che le Idee e lo specchio insieme siano le conditiones sine quibus non dell'esi­stenza delle cose sensibili, mentre se esse siano o no anche le conditiones per quas di questa esistenza è quantomeno contro­verso. Una volta giunti all'esistenza, si può anche dire che gli oggetti sensibili imitano le Idee; ma questo genere di causalità delle Idee non rientra nel presente contesto. Ora, se consideria­mo il termine «specchio», dovremo dire che, secondo Aristote­le, questo specchio è presente già nella prima sfera dell'essere (le Idee), di guisa che c'è una sorta di passaggio continuo dalle Idee agli oggetti sensibili. La stessa ipotesi è alla base dei sistemi di Speusippo e di Senocrate, sebbene, invece dell'identità dell'im­magine dello specchio nelle differenti sfere dell'essere, possa comparire il concetto di analogia o di somiglianza.

Nella risposta alla seconda domanda, infatti, è implicito il fatto che dalle grandezze puramente geometriche agli oggetti sensibili avviene un passaggio che esclude ogni radicale differen-

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CONCLUSIONI 311

za fra realtà fisiche ed enti matematici. Di una tale ipotesi ci so­no tracce in Platone, sebbene esse non siano sufficientemente chiare per giustificare l'affermazione che il sistema platonico sia stato un sistema di derivazione. Non si può escludere, infatti, la possibilità che la differenza radicale fra Idee ed oggetti sensibili sia stata un'ipotesi fondamentale in Platone, che egli non ha mai seriamente posto in dubbio.

Quest'ultima interpretazione di Platone resterà tuttavia in­soddisfacente per due ragioni. In primo luogo, ci saranno sem­pre dei lettori di Platone che intuiranno che egli non può aver la­sciato questo tipo di frattura nel suo sistema. Possiamo dire che, come storici della filosofia, non dovremmo prestare attenzione a questo tipo di intuizioni e che dovremmo, invece, concentrarci su quanto Platone ha detto e non su ciò che avrebbe dovuto di­re. Difatti, gran parte del contenuto del presente libro è intera­mente a favore di un tale atteggiamento. Ma, d'altro lato, do­vremmo ammettere che questa intuizione ha la sua funzione le­gittima nello stimolare tentativi sempre rinnovati di interpretare Platone.

La seconda ragione è che una tale interpretazione si risolve nell'affermazione che Platone è stato frainteso da tutti i suoi al­lievi della prima generazione, dei quali conosciamo le idee filo­sofiche, in quanto essi hanno tutti o professato o attribuito a Platone un sistema di derivazione. La possibilità di un tale fraintendimento non può essere certamente esclusa, in quanto ogni grande filosofo può essere frainteso dai suoi allievi. Ma, nondimeno, sarebbe sorprendente che essi lo abbiano tutti frainteso allo stesso modo. Infatti, alcuni negheranno certamen­te che i sistemi di Speusippo e di Senocrate siano stati sistemi di derivazione, altri negheranno che Aristotele abbia attribuito un tale sistema di derivazione a Platone.

3. Il terzo grande problema che emerge nel contesto della tripartizione dell'essere è la costituzione delle diverse sfere. Co­me ci viene attestato da Aristotele, la tendenza prevalente nel-1' Accademia era quella di ammettere ultimativamente una cop­pia di principi opposti. Questi principi sono, in un certo senso, i costituenti della sfera suprema dell'essere e, come conseguenza

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312 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

della concatenazione di tutte le sfere, sono allo stesso modo i co­stituenti di tutta la realtà (nel nostro linguaggio comune, della realtà ideale e di quella non-ideale).

Se questi due principi siano o no sempre ed esattamente del­lo stesso rango non è affatto sicuro.

Quando si giunge alla descrizione di questi due principi, di­venta necessario usare un linguaggio che ponga questi principi al di sopra delle altre realtà esistenti e che li descriva come una causa dell'essere delle entità esistenti, piuttosto che come essi stessi esistenti. Il linguaggio varia; l'espressione «al di sopra del­l'essere» è valida tanto quanto l'espressione «essere in quanto essere». In altri termini, ascendendo da ciò che il senso comune chiama esseri perveniamo a qualcosa che è privo di ogni deter­minazione e che, pertanto, essendo solamente essere (non essen­do qualcosa di determinato), è essere nel senso pieno del termine.

È all'interno di questo contesto che il frammento di Speu­sippo recentemente scoperto diventa importante. Da questo frammento risulta che la descrizione di uno dei due principi su­premi, che ci sono noti da Aristotele, secondo la quale esso non è neppure essere, indica proprio il suo essere posto al di sopra dell'essere, rendendo questo principio del tutto simile all'Uno di Plotino e degli altri Neoplatonici. La particolare originalità di Speusippo sembra consistere nell'aver descritto il secondo prin­cipio come al di sopra del non-essere. Certamente, Speusippo lo ha descritto come moralmente neutro (né buono né cattivo), proprio come riteneva che il principio opposto non fosse né buono né cattivo.

Si deve alla scoperta di questo nuovo frammento che Speu­sippo sia apparso come un pensatore originale. Il suo sistema è profondo ed altamente significativo.

In questo contesto diventa possibile una reinterpretazione del significato dell'oggetto della metafisica di Aristotele. Una tale nuova interpretazione sembra necessaria, dal momento che la consueta interpretazione della metafisica come conoscenza dell'essere in quanto essere e della suprema sfera dell'essere sembra contenere una contraddizione fondamentale. L'essere in quanto essere designa, secondo la consueta interpretazione, il

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CONCLUSIONI 313

concetto più generale e più vuoto. L'«essere» è ciò che è comune a tutto ciò che esiste. Ma la suprema sfera dell'essere, il divino, come viene anche definita da Aristotele, è qualcosa di particola­re piuttosto che di universale. È il primo essere, non l'essere uni­versale. L'interpretazione qui avanzata elimina la contraddizio­ne. Se studiamo i testi in cui Aristotele espone la sua definizione della metafisica in se stessi, scopriamo che l'essere in quanto es­sere viene inteso da Aristotele come l'essere più pieno e non co­me il più vuoto, ed è tale in quanto totalmente indeterminato, ossia non-limitato. Proprio in quanto indeterminato, esso può conferire l'essere a tutto ciò che esiste e pertanto meritare l'attri­buto di divino. Pertanto, Aristotele può affermare, senza essere incoerente, che la metafisica riguarda ciò che è il-limitato e on­nipresente (questo è il significato di xix86Àou) e ciò che è primo, ossia ciò che è al di sopra di tutti gli esseri particolari ed è il prin­cipio del loro essere, e che è, per entrambe queste ragioni, il più divino. La metafisica di Aristotele è paragonabile esattamente agli altri sistemi metafisici dell'Accademia; e difatti è nello stes­so contesto che troviamo la definizione della metafisica come conoscenza dell'essere in quanto essere e la tripartizione dell'es­sere e, con essa, la tripartizione della conoscenza teoretica in teologia, matematica e fisica. Quest'ultima tripartizione è acca­demica quanto la prima.

Coerentemente alla sua dottrina, secondo la quale ogni co­noscenza riguarda il proprio oggetto ed i suoi contrari (questa dottrina, infatti, è un corollario della dottrina secondo la quale ogni essere è costituito da contrari), Aristotele pone in rilievo che la sua metafisica riguarda non solo l'essere in quanto essere, ma anche il non-essere in quanto non essere. E come non do­vremmo interpretare il concetto di essere in quanto essere come una nozione astratta, così non dovremmo interpretare il concet­to di non-essere in quanto non essere come un termine puramen­te logico. Esso, infatti, ha un significato rigorosamente antico. Ma, indubbiamente, la tendenza di Aristotele è di negare che l'essere in quanto essere e il non-essere in quanto non essere sia­no dello stesso ragno.

All'interno dello stesso contesto nel quale troviamo la defi­nizione della metafisica come conoscenza dell'essere in quanto

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essere, troviamo anche sostenuta - e non criticata! - la dottri­na secondo la quale tutte le cose derivano ultimamente da due principi opposti, ossia dall'essere in quanto essere e dal non es­sere in quanto non essere. In altri termini, le parole ov ti ov do­vrebbero essere più adeguatamente tradotte con «essere indeter­minato» e di conseguenza dovremmo dire: l'oggetto della meta­fisica di Aristotele è l'essere indeterminato (e il non essere inde­terminato), che, proprio in quanto indeterminato, è il-limitato e pertanto è l'essere primo e l'essere in senso pieno.

Sembra evidente che l'introduzione di concetti come essere in quanto essere e non essere in quanto non essere crei degli spe­cifici problemi gnoseologici. Che tipo di conoscenza è adeguato per delle entità che si distinguono in modo così radicale da ogni altra realtà esistente? Come può essere conosciuto ciò che è to­talmente indeterminato? Sembra che Platone, Speusippo, Ari­stotele e Teofrasto siano stati pienamente consapevoli di questa difficoltà; in tutti troviamo delle teorie che cercano di farvi fronte. Particolarmente caratteristica è la teoria di Aristotele della conoscenza noetica come 0ry&!v, che è al di sopra della co­noscenza discorsiva e che si distingue da essa principalmente per il fatto che riguardo ad essa non si pone il problema del vero e del falso, ma quello della conoscenza o dell'ignoranza.

Tutto ciò si sintetizza nell'affermazione che alcuni degli ele­menti più caratteristici del Neoplatonismo sono nati nell'Acca­demia ed in Aristotele. È perfettamente legittimo parlare di un Aristoteles neoplatonicus.

Se ora ci poniamo un'altra domanda, ossia se il Neoplato­nismo sia nato in Platone, sembra cauto rispondere: è possibile che esso sia nato in Platone, ma può esser nato solo nella prima generazione dei suoi allievi, come risultato di una interpretazio­ne, legittima o illegittima, di Platone da parte della prima gene­razione dei suoi allievi.

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Appendice alle Conclusioni

L'interpretazione evoluzionistica della filosofia di Aristotele presen­tata da Jaeger è stata respinta con particolare concisione da F. Dirlmeier, Aristate/es, «Jahrbuch fiir das Bistum Mainz», 5 (1950), pp. 161-171. Questo approccio non evoluzionistico ad Aristotele è alla base dei com­mentari di Dirlmeier all'Etica Nicamachea (1956) e ai Magna Maralia (1958). Il modo in cui il primo di questi commentari viene criticato nell'o­pera di R. A. Gauthier e J.Y. Jolif, Aristate, l'Ethique à Nicamaque, I (1958) non sembra corretto. Dirlmeier viene accusato di mancanza d'inte­resse storico, come se il punto di vista sostenuto da Dirlmeier non fosse proprio che questo interesse distorce il vero significato della filosofia di Aristotele e conduce a delle interpretazioni errate.

Che Aristotele non abbia mai inteso costituire un sistema filosofico è stato negato da I. Diiring, in: Aristatle, The Faunder af Scientific Me­thad, «Lychnos» (1943), pp. 43-46 (in svedese con un sommario in inglese) e in: Van Aristate/es bis Leibniz, «Antike und Abendland», 4 (1954), pp. 118-154, spec. 123.

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Indici generali

I. Indice delle edizioni dei testi degli autori citati

II. Indice generale dei passi degli autori citati

III. Indice dei nomi degli autori antichi e moderni citati

IV. Indice analitico della materia trattata

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I. Indice delle edizioni dei testi degli autori citati

Albinos, Épitomé, ed. P. Louis, Paris 1945 (Coli. Budé).

Alexandri Aphrodisiensis in Aristotelis Metaphysica commentaria, ed. M. Hayduck, Berlin 1891; rist. 1956 (Commentaria in Aristotelem Grae­ca, voi. I).

Ammonius, In Porphyrii Isagogen sive V voces commentarius, ed. A. Busse, Berlin 1891; rist. 1957 (Commentaria in Aristotelem Graeca, voi. IV /3).

Anatolius, Sur /es dix premiers nombres, par J.L. Heiberg, in «Annales internationales d'histoire, Congrès de Paris 1900, 5° section, Histoire des Sciences», Colin, Paris 1901, pp. 25-57.

Apulei Opera quae supersunt, voi. III: Apulei Platonici Madaurensis De philosophia libri, ed. P. Thomas, Leipzig 1908; rist. anast., Stuttgart 1970 (Bibl. Teubn.).

Aristotelis Opera, ed. Academia Regia Borussica, 5 voli., G. Reimer, Ber­lin 1831-1870.

Aristotelis quijerebantur librorumfragmenta, ed. V. Rose, Leipzig 1886 3

(Bibl. Teubn.).

Aristotelis dialogorumfragmenta, ed. R. Walzer, Firenze 1934.

Aristotelisfragmentaselecta, ed. W.D. Ross, Oxford 1955.

The Works of Aristotle, translated into English under the Editorship of W .D. Ross, Oxford 1908 ss.; voi. XII: Select Fragments, tr. by W .D. Ross, Oxford 1952.

E. Bickermann - J. Sikutris, Brief an Konig Philipp, «Berichte iiber die Verhandlungen der Sachsischen Akademie der Wissenschaften, Phi­los.-hist. Klasse, 80», 1928.

Boethius, The Theological Tractates, with an English Translation by H.F. Stewart and E.K. Rand, London and New York 1918 (The Loeb Classica) Library).

Boetii De institutione arithmetica libri duo, ed. G. Friedlein, Leipzig 1867 (Bibl. Teubn.).

Boethii In lsagogen Porphyrii, ed. K. Brandt, Corpus Scriptorum Eccle­siasticorum Latinorum, voi. XLVIII/I, Vienna 1906.

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320 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Cassiodori Senatoris lnstitutiones, edited from the Manuscripts by B. My­nors, Oxford 1937.

Davidis Pro/egomena philosophiae, ed. A. Busse, Berlin 1903 (Commen­taria in Aristotelem Graeca, voi. XVIIl/2).

Die Harmonielehre des Klaudios Ptolemaios, herausgegeben von I. Dii­ring, Goteborg 1930 (Goteborgs Hogskolas Arsschrift, 36).

H. Diels - W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Griechisch und Deutsch, 3 voli., Berlin 1959-1960 6

Diogenes Laertius, Lives of eminent Philosophers, ed. R.D. Hicks, 3 voli., London and New York 1925, 1950 4 (The Loeb Classical Library).

Die Schule des Aristote/es, Heft VIII: Eudemos von Rhodos, ed. F. Wehr­li, Basel 1955, 1969 2

Domjnicus Gundissalinus, De divisione philosophiae, ed. L. Baur, Mun­ster 1904 («Beitriige zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters», voi. IV /2).

Ga/eni quifertur de partibus philosophiae libellus, ed. E. Wellmann, Ber­lin 1882.

Gilberti Porretae Commentario in librum De Trinitate, in: J.P. Migne, Patrologia latina, voi. LXIV, pp. 1255-1310, Paris 1891.

R. Heinze, Xenocrates, Darstellung der Lehre und Sammlung der Frag­mente, Leipzig 1892; rist. anast., Olms, Hildesheim 1965.

Hermiae A/exandrini in Platonis Phaedrum scholia, ed. P. Couvreur, Pa­ris 1901; rist. anast., arricchita di indici a cura di C. Zintzen, Olms, Hildesheim 1971.

Heronis A/exandrini Opera quae supersunt omnia, 4 voli., ed. J.P. Hei­berg, Leipzig 1912 (Bibl. Teubn.).

lamblichi Theologoumena arithmeticae, ed. V. De Falco, Leipzig 1905 (Bibl. Teubn.).

lamblichi in Nicomachi arithmeticam introductionem liber, ed. H. Pistel­li, Leipzig 1894; nuova edizione con correzioni di U. Klein, Stuttgart 1975 (Bibl. Teubn.).

lamblichi De communi mathematica scientia liber, ed. N. Festa, Leipzig 1891; riedito con aggiunte e correzioni a cura di U. Klein, Stuttgart 1975 (Bibl. Teubn.).

lamb/ichi De mysteriis liber, ed. G. Parthey, Berlin 1857; rist. anast., Hakkert, Amsterdam 1965.

lamblichi Protrepticus, ed. H. Pistelli, Leipzig 1888; rist. anast., Stuttgart 1967 (Bibl. Teubn.).

loannis Laurentii Lydi Liber de mensibus, ed. R. Wiinsch, Leipzig 1898 (Bibl. Teubn.).

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INDICE DELLE EDIZIONI DEI TESTI DEGLI AUTORI CITATI 321

Ioannis Philoponi in Aristotelis De anima libros commentario, ed. M. Hayduck, Berlin 1897; rist. 1960 (Commentaria in Aristotelem Grae­ca, voi. XV).

Isocrates with an English Translation by G. Norlin and L.V. Hook, 3 voli., London - Cambridge and New York 1929-1945 (The Loeb Clas­sical Library).

W. Jansen, Der Kommentar des Mag. Clarenba/dus von Arras zu Boe­thius De Trinitate, Breslau 1926.

Joannis Duns Scoli Opera omnia, a cura di Vivés, 26 voli., Paris 1891-1895.

P. Lang, De Speusippi Academici scriptis accedunt fragmento, Bonn 1911; rist. anast. , Olms, Hildesheim 1965.

Nycomachi Geraseni Pythagorei Introductionis arithmeticae libri II, ed R. Hoche, Leipzig 1866 (Bibl. Teubn.).

J.R. O'Donnel (ed.), Nine Medieval Thinkers, Toronto 1955.

Platonis Dialogi secundum Thrasylli tetralogias dispositi, ed. C.F. Her­mann, 6 voli., Leipzig 1851-1853; 1887-1880; 1921-1936 (Bibl. Teubn.).

Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit J. Bur­net, 5 voli., Oxonii 1900-1907.

Plotini Opera, ediderunt P. Henry et H.R. Schwyzer, Paris-Bruxelles 1951, 1959, 1973.

Plotin, Ennéades, texte établi et traduit par É. Bréhier, 6 voli., Paris 1924-1938; 1954-1963 2 (Coli. Budé).

Plutarchi Chaeronensis Moralia, ed. G.N. Bernardakis, 7 voli., Leipzig 1888-1896 (Bibl. Teubn.).

Plutarchi Moralia, a cura di vari autori, 7 voli., in vari fascicoli, Leipzig 1925-1967 (Bibl. Teubn.).

Plutarch's Moralia with an English Translation by F.C. Babbit et al., 15 voli., London-Cambridge and New York 1927 ss. (The Loeb Classi­ca! Library).

Procli Diadochi in primum Euclidis Elementorum librum commentarii, ed. G. Friedlein, Leipzig 1873; rist. anast., Olms, Hildesheim 1967 (Bibl. Teubn.).

Procli Diadochi in Platonis Timaeum commentarii, 3 voli., ed. E. Diehl, Leipzig 1903-1906 (Bibl. Teubn.).

Proclus, The Elements of Theo/ogy, ed. E.R. Dodds, Oxford 1933, 1963 2•

Sextus Empiricus with an English Translation by R.G. Bury, 4 voli., Lon­don-Cambridge and New York 1933-1949 (The Loeb Classica! Library).

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322 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Sexti Empirici Opera, ed. H. Mutschmann, J. Mau, K. Jami~ek, 3 voli., Leipzig 1958, 1914, 1954 (Bibl. Teubn.).

Simplicii in Aristotelis Categorias commentarium, ed. C. Kalbfleisch, Ber­lin 1907 (Commentaria in Aristotelem Graeca, voli. VIII).

Simplicii in libros Aristotelis De anima commentaria, ed. M. Hayduck, Berlin 1882 (Commentaria in Aristotelem Graeca, voi. Xl).

Syriani in Metaphysica commentaria, ed. G. Kroll, Berlin 1902; rist. 1960 (Commentaria in Aristotelem Graeca, voi. Vl/1).

Sophoniae in libros Aristotelis De anima paraphrasis, ed. M. Hayduck, Berlin 1883; rist. 1960 (Commentaria in Aristotelem Graeca, voi. XXIII/I).

Stoicorum Veterum Fragmenta, 4 voli.; voi. 1-111, ed. H. von Arnim, Leipzig 1903-1924, Stuttgart 1964 2; voi. IV, ed. M. Adler, Leipzig 1923, Stuttgart 1964 2•

Theophrasti Eresii Opera quae supersunt omnia, ed. F. Wimmer, 3 voli., Leipzig 1854-1862 (Bibl. Teubn.); voi. II: De causis plantarum, Leip­zig 1854.

Theophrastus, Metaphysics, with Translation, Commentary and Intro­duction by W.D. Ross - F.H. Fobes, Oxford 1929; rist. anast., Olms, Hildesheim 1967.

Thomas Aquinas, Opera omnia, ed. Parmensis, 25 voli., Ficcadori, Roma 1852-1873; rist. fotolitogr. a cura di V.J. Bourke, New York 1948-1950.

Xenophon, Anabasis, Symposium and Apo/ogy with an English Transla­tion by O.J. Todd, London and New York 1922 (The Loeb Classical Library).

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Il. Indice generale dei passi degli autori citati

Albino Apuleio

Didascalicus, ed. Louis De dogm. Plat., ed. Thomas III 4, p. 11 140 15, 109, p. 86, 9-11 195 VII, p. 41-47 140 VII, p. 59-61 266 Archita

Fragmento, ed. Diels Alessandro e ps. Alessandro di BI 155

Afrodisia B3 63

In Arist. met., ed. Hayduck p. 250 s. 121 Aristotele

p. 251, 34-38 138 Anal. Post. p.445, 12 138 Il,7lal-17 290 p. 445, 19- 446, 3 138 I 4, 73 b 25 - 74 a 3 250 p.447,32 254 127,87a31-37 107 p. 661, 2-9 138 I 31, 87 b 28 - 39 127 p. 661, 31-39 254 II 13, 97 a 6 266

II13,97a19 250

Ammonio II 19, IOOa 17 127

In Porphyrii Isag., ed. Busse Topica

p.10,15-11,5 139 III 6, 119 a 32 - 119 b 16 176 IV 1, 121 a 16-18 299

p. 11, 30-31 157 IV 6, 127 A 26-31 299

p. 11, 30- 12, 8 139 VIII 1, 157 a 9 217

p. 12, 6 157 p. 14, 1 - 26 157 Physica

I 286 ss.

Anonimo di Giamblico I 1 250 I 2, 185 a 9-12 287

In Iamblichus, Protrept. 229 I 3, 186 a 7-10 287 18,19lb29 287 II 2, 193 b 22-36 120

Anatolio II2,193b35 129 p. 32 Heiberg 110 II 2, 194 b 14 120

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324 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

II 7, 198 a 29-31 121 Demotuan. II8,199a30-b7 182 I l, 698 a 25-26 91 III 2, 201 b 19-21 90 III 5, 204a 35-204 b2 119 Degen. an. III 6, 207 a 30-32 195 IV 3, 767 b 5 - 23 182

Decae/o IV 4, 770 b 9-17 182

II 12,291 b 29-292a 3 186 Met. II 12, 292 a 22 - b 25 186 A I, 981 a 28 235 III I , 299 a 2 - 300 a 19 281 A I, 981 b 25 181 III I , 299 a 6-11 281 A l, 981 b 28-29 235 III I, 299 a 15 150 A I, 982 a2 235 III I, 300 a 14-19 281 A 2,982 a 5 235 III1,300al5 272 A 2,982 a 13 218 III 6, 305 a 2-26 91 A 2,982 a25 278 III 7,306 a 7-17 281 III 7, 306 a 17 128 A 2, 982 b 8-10 235;242

A 2, 982 b 9-10 235 De gen. et corr. A 3,983 b 3-4 236

I2,315b30 281 A 3,983 b 8 236 I 8, 325 b 24-33 281 A 5,985 b 26 236 II 1,329 a 23 281 A 5, 986a 1-2 267;279 II 9, 335 b 9-16 282 A 5, 986 a 15 - b 8 238

Meteor. A 5,986 a 17 238 A 5, 986 a 18-19 267

IV 1-13, 378 b 10- 231 b 22 190 A 5, 986 a 22-26 178;267 IV 2, 379 b 33 - 380 a IO 190 A 5,986 b 8 238 IV 9, 386a 27 223

A 5,987 a 1 268 De anima A 6,987 b 14 95

Il,402al 214 A 6, 987 b 14-16 119

I I, 403 a 10-15 127 A 6, 987 b 18-20 277 I l, 403 a 12-14 136 A 6,987 b 19-20 267 I I, 404 b 27 109 A 6, 987 b 28-29 119 I 1,408 b 32 109 A 6,988 a Il 277 I 5, 410a 13 248 A 8, 989 b 24 - 990 a 18 267 II 3,414 b 21 259;217 A 8, 989 b 29 - 990 a 32 279 II 3,414 b 28 108 A 8, 989 b 32-33 91 II 3, 414 b 29-32 259 A 8, 989b 34 258 II 3,429 a IO 109 A 8, 990 a 8-18 268 III 8,432 a 2 151 A 8, 990a 12 258

De div. per somn. A 8, 990 a 12-18 280

2,436 b 12-15 56 A 9, 990 a 33 - 993 a IO 269 A 9,991 b 3-4 282

Depart. an. A9,992a32 219 I 1, 639 a 4 - b 5 230 A 9, 992 b 18-24 269;277 Il,64lbl0 128 A 9,992 b 19 248

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INDICE GENERALE DEI PASSI DEGLI AUTORI CITATI 325

A 9, 992 b 24-33 A 9, 992 b 33 - 993 a 7 A 9, 993 a 7-10 A 9,993 a8 A 10,993 a24 B 2, 996 a 29 - b 1 B 4, 1000 a 5 - 1001 a 3 B 4, 1001 b 19-25 fl,1003a21 f 1, 1003 a 21-26 r 1, 1003 a 24 r 1, 1003 a26-32 r 2, 1003 a 33 - b 16 r 2, 1003 b 17-19 r 2, 1003 b 34- 1004 a 1 r 2, 1003 b 36- 1005 a 5 f 2, 1004a 1 f 2, 1004a2 r 2, 1004 a 2-4 f 2, 1004 a 2-9 r 2, 1004 a 9-21 f 2, 1004 a 22-25 r 2, 1004 a 31-33 f 2, 1004 b 5

269 269 269 277 287 174 277 179 239 235 239 235

235;273 235

237;238 248 278

120; 121 239 237 238 238 239 286 266 r 2, 1004 b 15-26

r 2, 1004 b 27-28

r 2, 1004 b 27-31

209; 239; 248; 299 248 273 277

r 2, 1004 b 27 - 1005 a 3 r 2, 1004 b 27 - 1005 a 5 r 2, 1004 b 29-30 r 2, 1004 b 33-34 f 2, 1005 a 2-3 f 2, 1005 a 3 f 2, 1005 a 3-4 f 2, 1005 a 3-5 r 2, 1005 a 19-3, 1005 b 2 r 3, 1005 a 33 - 1005 b 1 f 3, 1009 a 32 f 5, 1009 a 36 f 5, 1009 a 36-38 f 5, 1010 a 1-3 f 5, 1010a 25 f 5, 1010 a 25-35 r 9, 1012 b 22-31

239;248 248;299

299 272 239 248 240

45 286 242 241 242 242 242 298

r 9, 1012 b 29-31 242 E 1, 1025 b 3 - 1026 a 23 243 E 1, 1025 b 11-18 290 El,1026a6-ll 139 El,1026a6-19 120 E 1, 1026a9 120 E 1, 1026 a 11-16 123 E 1, 1026 a 14 123; 133 E 1, 1026 a 15 108; 120 E 1, 1026 a 19 120 E 1, 1026 a 23-31 239 E 1, 1026 a 23-32 243 E 1, 1026 a 30-31 250 Z 1, 1028 a 30-31 262 Z 2, 1028 b 18-24 102 Z 2, 1028 b 18-27 278 Z 2, 1028 b 19-21 119 Z 2, 1028 b 21 271 Z 2, 1028 b 21-24 97; 161 Z 2, 1028 b 23 198 Z 2, 1028 b 24 102; 271 Z 2, 1028 b 27 271 Z 10, 1035 a 17 195 Z 10, 1036 a 9 195 Z 11, 1036 b 35 195 Zll,1037a4 195 Z 11, 1037 a 10-16 244 Z 11, 1037 a 14 120 Z 17, 1041 a 6-9 244 H 6, 1045 a 34 195 H 6, 1045 a 36 195 09,105lal5-21 186 0 10, 1051 b 17 -1052 a 5 264; 265 0 10, 1051 b 21-28 264 0 10, 1051 b 23 264 0 10, 1051 b 34-35 264 0 10, 1052 a 1 264 12, 1053 b 11 245 12, 1054 a 9-19 245 K 1, 1059a38-1059b2 119 K 1, 1059 b 6-8 119 K 1, 1059 b 16 195 K 2, 1060 a 7-13 152 K 3, 1060 b 35 274 K 3, 1061 a 10-15 251

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326 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

K 3, 1061 a 10-17 278 M 9, 1085 a 32 191 K 3, 1061 a 28 - 1061 b 11 252 M 9, 1086 a 26-29 278 K 3, 1061 b 12-14 251 M 10, 1087 a 18-25 127 K 3, 1061 b 14-15 274 N I, 1087a29-b4 272 K3, 1060b31-7, 1064b 14 251; N I, 1087 b 33 - 1088 a 14 245

260 ss.; 267 ss.; N I , 1088 a 27 - b 4 273 286 ss.; 291 ss. N 2, 1088 b 14-17 195

K6, 1062b31 286 N 2, 1088 b 35 - 1089 b 14 279 K7,1064a10 138 N 2, 1089 a 2-6 193 K 7, 1064 a 28-36 254 N 2, 1089 a 7 248;273 K7, 1064a29 296 N 2, 1090 a 1-7 279 K 7, 1064 a 30 - b 3 134 N 2, 1090a6 256 K7, 1064a33 120 N 3, 1090 a 30-35 280 K 7, 1064 a 33-35 296 N 3, 1090 a 32-35 258;272 K 7, 1064 b 1-3 120 N 3, 1090 b 13-19 161; 279 K7,1064b4 218 N 3, 1090 b 18 198 K 7, 1064 b 11-14 255 N 3, 1090b 19 271 K9, 1066a Il 90 N 3, 1090 b 21-24 163 A I, 1069a 18-19 235 N 3, 1091 a 13-20 258 A 1, 1069a 30 121 N 3, 1091 a 18-22 280 A 4, 1070 a 31-33 188 N 4, 1091 a 35 187 A' 4, 1070 b 4-10 278 N 4, 1091 b 16-18 197 A6, 1071 b 3 121 N 4, 1091 b 16-19 177 A 6, 1071 b 19-21 195 N 4, 109 I b 34-35 163 A 7, 1072b21 265 N 4, 1091 b 35-37 291 A 7, 1072 b 16-24 186 N 4, 1092 a 1-5 182 A 10, 1075 a 25 270 N 4, 1091 a 29-5, 1092 a 21 162 A 10, 1075 a 25-33 278 N 5, 1092 a 17-20 179 A 10, 1075 a 28-29 248 N 5, 1092 a 21-22 291 A 10, 1075 a 28-33 238 N 6, 1093 b 8-9 291 A 10, 1075 a 32 191 A 10, 1075 a 37 163; 271 Eth. Nic. A 10, 1075 b I 1-13 278

I I, 1095 a2 219 A 10, 1075 b 14 278 A 10, 1075 b 28 258 I 4, 1096 b 5-7 178

A 10, 1075 b 28-30 280 I 9, 1099 a 9-10 222

M 2, 1077 a 32-33 108 IV 4, 1122 a 22 181

M 2, 1077 b 17 253 VI 3, 1139 b 14- 1142 a 30 181

M 3, 1078 a 5-9 137 VI 7, 1141 a 16 128

M3,1078a31-b6 174 VI7, 1142al7-21 128

M3,1078a31-bl 175 VI 7, 1142 a 17-30 219

M 5, 1080 a I-2 282 VII 15, 1154 b 26-28 186

M 6, 1080 b 16-19 279 M 6, 1080 b 16-21 280 Eth. Eud. M6, 1080b28 102 17, 1217b34-35 274 M 8, 1083 a 24-25 174 III 6, 1233 a 35-38 181

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INDICE GENERALE DEI PASSI DEGLI AUTORI CITATI 327

158 Rhet. I 9, 1366 b 2-16 I 11, 1371 a6 II 23, 1397 a 7-19 II 24, 1402 a 6-7

181 222 176 266

Fragmento, ed. Rose 41 54

176 175; 211; 227; 261

45 52 53 55 59-61 673

Eudemus fr. 7 Walzer fr. 8 Walzer p. 23, 11 Ross 1952

211; 227 211 211 221

176 227 302

Protrepticus, ed. Walzer fr. 4 211

213 fr. 5 fr. 5 a fr. 5 b fr. 6-9 fr. 8 fr. 10-15 13

Boezio

De Trinitate ch.2

175;211 211 211 211 211 213

121; 140

In Porphyrii Isag., ed. Brandt p. 8, 3-5 146 p. 8, 21-29 146

Inst. arithm., ed. Friedlein p.5,6 158 p. 7,25 158 p. 8, 5-7 158 p. 8, 13 158 p. 8, 15-9, 6 158 p.9,28 158

227, 25 - 228, 1

Cassi odoro

Institut., ed. Mynors p. 92, 3-5 p. 93, 7-10 p. 92, 9 ss. p. 130, 19- 131, 8 p. 151, 21 ss. p. 152, 1

Clarembaldo

159 159 159 159 71 71

In Boeth. De Trin., ed. Jansen p. 56, 15 153

Davide

Prolegomena, ed. Busse p.5,9 p. 57, 9-58, 25

Diogene Laerzio IV 1 IV2 IV 5 VII 135 VIII 24-33

Domenico Gundisalvi

139 139

98 170 175 96

284

De divisione philosophiae, ed. Baur

p. 15 144 p. 268 ss. 289

Duns Scoto

Quaestiones subtilissimae su­per libros Metaphysicae Ari­stotelis, ed. Vivès

Opera, voi. VII, pp. 11-40 289

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328

Duns Scoto, Pseudo-

In Met. Arist. comm., ibid., ed. Vivès

voi. V, p. 663 288

Ermia di Alessandria

In Platonis Phaedrum, ed. Couvreur

p. 123, 7-11 64

Eudemo

Fragmenta, ed. Wehrli 34 2~

Filopono

In Arist. De an., ed. Hayduck p.24,7-13 217

Galeno, ps.

De part. phil. , ed. W ellmann p. 6, 11-16 139

Giamblico

(De anima) in Stob., ed. Wa-chsmuth

I 49, 32, p. 362; 24 - 367, 9 100 l49,32,p.363,26-364,20 71 l49,32,p.363,26-365,4 83 I 49, 32, p. 364, 2-10 105 I 49, 32, p. 366, 9 100 I 49, 32, p. 367, I 170

Theo/og. arithm., ed. De Falco 17,p.21,8-10 153 18, p. 22, IO 110 23-24, p. 30, 2-15 110 61-63, p. 82, 10-85, 23 112; 169 62, p. 84, Il 111

DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

In Nicom. arithm. intr., ed. Pi-stelli

p. 7, 3-9, 23 68

De mysteriis, ed. Parthey 2 p. 262 168

De comm. math. se., ed. Festa Sommario p. 3, 7 170 Sommario p. 3, 13 170 Sommario p. 3, 15 156 Sommario p. 4, I 170 Sommario p. 4, 9 170 Sommario p. 4, 12 170 Sommario p. 4, 15-19 69 Sommario p. 4, 20-24 76 Sommario p. 6, 7 170 Sommario p. 8, 7 170 Sommario p. 8, 15 170 c. I, p. 10, 8-24 62 c. I, p. 10, 9 63 c. I, p. 10, 10-24 65 c. I, p. 11, IO 62 c. I, p. Il, 3-15 65 c. I, p. Il, 25-12, 2 65 c. III, p. 12, 22-24 63 c. III, p. 12, 22-13, 9 65 c. III, p. 12, 25-13, 9 168 c. III, p. 12, 26-13, 9 63 c. III, p. 13, 9 66 c. III, p. 13, 11 66; 88 c. III, 13, 9-12 83 c. III, 13, 12-15 85; 161 c. III, 13, 12-16 66 c. III, 13, 13-15 67 c. III, 13, 25 66 c. III, 14, 1-6 62 c. III, 14, 4-6 63 c. IV, p. 14, 18-15, 5 164 c. IV, p. 15, 7-8 164 c. IV, p. 15, 10-14 191 c. IV, p. 15, Il 179 c. IV, p. 15, 13 189 c. IV, p. 15, 14 189 c. IV, p. 15, 15 179

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INDICE GENERALE DEI PASSI DEGLI AUTORI CITATI

c. IV, p. 15, 17 c. IV, p. 15, 21-22 c. IV, p. 15, 29 c. IV, p. 16, 3 c. IV, p. 16, 12 c. IV, p. 16, 17 c. IV, p. 16, 18-17, 19 c. IV, p. 17, 8 c. IV, p. 17, 10 c. IV, p. 17, 13-19 c. IV, p. 17, 14-15 c. IV, p. 17, 20 c. IV, p. 17, 21 c. IV, p. 17, 27-29 c. IV, p. 18, 2-3 c. IV, p. 18, 5 c. IV, p. 18, 8 c. IV, p. 18, 9 c. IV, p. 18, 11 c. IV, p. 18, 13-20 c. IV, p. 18, 13-23 c. IV, p. 18, 14-18 c. IV, p. 18, 17 c. V, p. 18, 27-19, 1 c. v. p. 19, 19-20, 18 c. V, p. 19, 19-20, 20 c. VI, p. 20, 22-28, 14 c. VI, p. 21, 4-15 c. VI, p. 21, 20 c. VII, p. 30, 19-31, 4 c. VII, p. 30, 25-31, 2 c. VII, p. 31, 7-14 c. VIII, p. 34, 9 c. IX, p. 40, 9-41, 1 c. IX, p. 40, 12-13 c. IX, p. 40, 16-17 c. IX, p. 40, 19 c. IX, p. 40, 24-25 c. IX, p. 41, 5-6 c. IX, p. 41, 5-15 c. IX, p. 41, 5-42, 6 c. IX, p. 41, 6-15 c. IX, p. 41, 41, 12-13 c. IX, p. 41, 24-42, 6 c. IX, p. 43, 9

184 197 189

174; 177 187 174 179 189 189 200 201 189 189 184 177

174; 184 174 174 191 67

164 85 66 82

253 20

229 230 220

82 85

230 62 69 83 82 83 70

147 70 77 71 83 69 88

c. IX, p. 43, 8-10 c. XI, p. 44, 7 c. XI, p. 45, 7 c. XII, p. 46, 1-3 c. XII, p. 46, 1-6 c. XII, p. 47, 6-16 c. XIII, p. 48, 26-27 c. XIII, p. 50, 14-25 c. XIII, p. 50, 18-19 c. XIV, p. 51, 11 c. XIV, p. 52, 6 c. XIV, p. 54, 2 c. XIV, p. 54, 2-13 c. XIV, p. 54, 10-13 c. xv, p. 55, 5-56, 4 c. xv, p. 55, 8 c. xv, p. 55, 14-15 c. xv, p. 55, 23 c. XIX, p. 63, 23-64, 13 c. XXIII, p. 70, 1-7 c. XXIII, p. 70, 1-74, 6 c. XXIII, p. 70, 7-16 c. XXIII, p. 70, 16-21 c. XXIII, p. 70, 21-26 c. XXIII, p. 70, 26-71, 15 c. XXIII, p. 71, 11 c. XXIII, p. 71, 16-24 c. XXIII, p. 71, 24-26 c. XXIII, p. 71, 26-72, 2 c. XXIII, p. 72, 2-16 c. XXIII, p. 72, 8 c. XXIII, p. 72, 16-72, 20 c. XXIII, p. 72, 20-73, 3 c. XXIII, p. 72, 25 c. XXIII, p. 73, 1 c. XXIII, p. 73, 3-17

-c. XXIII, p. 73, 5-9 c. XXIII, p. 73, 16 c. XXIII, p. 73, 17-74, 5 c. XXIII, p. 74, 4 c. XXIII, p. 775, 18-19 c. XXVI, p. 79, 1-81, 7 c. XXVI, p. 79, 1-83, 2 c. XXVI, p. 79, 1-84, 20 c. XXVI, p. 81, 7-83, 2

329

83 63 63 62 63 85 62 62 85 62 61 61 62 61 62 62 85 62 85

220 212 221 221 221 221 222 221 221 221 221 214 221 221 222

222;225 222 215 215 222 223

85 211 211 212

81

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330 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

c. XXVI, p. 81, 11-12 85 c. xx, p. 100, 5-101, 6 229 c. XXVI, p. 83, 13-20 230 c. xx, p. 101, 11-104, 14 229 c. XXVI, p. 84, 21-85, 23 230 c. XXVII, p. 86, 14-15 85 Gilberto de la Porée c. XXVII, p. 87, 17-88, 2 158

Comm. in librum De Trin. c. XXVII, p. 89, 2-8 85 c. XXVIII, p. 88, 19 62 PL voi. 64, pp. 1267 C-1268 Cl43 c. XXVIII, p. 89, 5 62 c. xxx, p. 91, 13 62 Isocrate c. xxx, p. 91, 24 62

Antid. c. XXXI, p. 92, 19 62 c. XXXI, p. 93, 2 62 226-269 224 c. XXXIII, p. 95, 5-6 63 Helena c. XXXIII, p. 95, 5-22 62 5 224 c. XXXIV, p. 97, 9 62 c. XXXV, p. 98, 28-99, l 170 Panath.

Scholia 27 224 30-32 224

pp. 100-103 191

Protrepticus, ed. Pistelli Lido

c. V, p. 30, 31-31, 19 228 De mens., ed. Wiinsch c. V, p. 31, 19-33, 27 228 II 9 109 c. V, p. 33, 27 229 c. XIII, p. 61, 7 229

Moderato c. VI 213; 126 c. VI, p. 38, 3-41, 2 81 In Stob., ed. Wachsmuth c. VII-VIII 216 I, Pr. 8, p. 21, 19-21 71 c. IX, p. 49, 3-52, 16 220 e.X 213 Nicomaco c. X-XI 216 c. X-Xl, p. 24, 22-27, 2 228 Intr. arithm., ed. Hoche c. XIII, p. 61, 7-62, 29 229 I, p. 2, 21-3, 2 158 c. XIII, p. 63, 2-65, 6 229 13,l,p.6 86 c. XIII, p. 65, 7-65, 18 229 I-III, p. 1-9 155 c. XIII, p. 65, 22-67, 16 229 II, p. 4, 10 158 c. XIII, p. 67, 18-70, 9 228 c. XIII, p. 70, 16-71, l 228 Parmenide c. xx, p. 95, 12-24 229 c. xx, p. 95, 14 229 Fragmento, ed. Diels c. xx, p. 96, 1-97, 8 229 B 8, 26-28 Diels 271 c. xx, p. 96, 16-98, 12 229 c. xx, p. 97, 16-98, 12 · 229 Platone c. xx, p. 98, 17-99, 15 229 c. xx, p. 99, 17 229 Euthydemus c. xx, p. 99, 18-99, 28 229 278 A-289 B 228

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INDICE GENERALE DEI PASSI DEGLI AUTORI CITATI 331

Leges Timaeus 809B-D 154 30B 102 817 E 154 35A 64; 75 819B 154 46E-47 E 124 821 A-822 C 154 48A 184 894A 272 53 C- 55 C 272 899B 56 89E-90D 228

Lysis 90B-D 228

217 B 182 Platone? Meno Epinomis 80C 162 986C 220

Phaedo 986C-D 220

64A-65 D 229 990D 154 991 A-992A 60

96Ass. 124 991 B-C 220 65 D-67 D 229 991 e 220

Philebus 991 D-E 154

23C 65 991 D-992 B 220

24A 65 Plotino

Politicus 273 B 205

Enn., ed. Bréhier 18,7,19 194

Protagoras 14, 21-25 193 318E 153 II 2, 4 194

II 4 194; 196;204 Respublica II 4, 3, 1 194 IV 428 C-D 227 II 4, 4, 2-7 196 VI 509B 168 II 5, 5, 28-32 194 VII 521 C-D 220 II 5, 3 196 VII 523 A - 532 D 220 II 5, 3, 8-13 196 VII 527 D-E 220 II 9, 1, 1-8 197 VII 530A 153 II 9, 13, 28-29 194 VII 536 B 220 III 2, 5, 25-27 194 VII 537 C 220 III 3, 4 192 VII 537 D 220 III 5, 6, 45 196 IX 588 E - 591 E 228 III 8, 8, 34-36 194 X602D 218 III 8, 10, 15 193

III 9, 3, 7-16 206 Symposium III 9, 4, l 193 202D 56 IV2 93 203A 56 IV 2, 2, 52-54 93 203E 182 IV 3, 8 204

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332 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

V 1, 1, 4-5 194 I, p. 16, 16-17, 6 73 V 1, 6, 3 193 I, p. 17, 7-9 73 V 3, 10, 42 302 I, p. 17, 9-11 73 V3,17,25 302 I, p. 17, 22-24 73 V 3, 17, 29 302 I, p. 25, 15-26, 9 175 V3,17,34 302 I, p. 25, 15-29, 13 175 V 5, 13, 36-37 197 I, p. 26, 10-27, 16 175; 177 V 9, 10, 5 194 I, p. 27, IO 176 V 9, 14, 4 193 I, p. 27, 17-29, 13 175 VI, 2, 3, 17-18 107 I, p. 28, 13-17 230 VI 2, 10, 15-23 107 I, p. 28, 13-22 175 VI 2, 10, 35-43 107 I, p. 28, 14-22 177 VI2, 11,41-45 107 I, p. 32, 7-10 74 VI 9, 3 204 I, p. 35, 7 62 VI 9, 3, 38 173; 192 I, p. 38, 4 147 VI9,4,27 302 I, p. 38, 12 82 VI9,5,29 194 I, p. 40, 22 82 VI9, 6 204

In Euc/. Def., ed. Friedlein VI 9, 6; 40 197 VI 9, 7, 5 302 I, p. 89 96 VI9,7,16 302 XIV, p. 139, 22-26 61 VI, 9, 7, 21 302 XIV, p. 142, 8 61 VI, 9, 11, 30-46 302 XIV, p. 143, 6-17 96

XIV, p. 143, 8-21 94

Plutarco In Timaeum, ed. Diehl De Is. et Osir. voi. II 152, 25-28 75

77,382 D-E 301 voi. II 153, 17-25 75 voi. II 155, 25 75

Platonicae quaestiones voi. II 238, 14 82 III 1001 F - 1002 A 195 voi. II 238, 16 - 239, 6 75

De an. procr. in Tim. voi. II 239, 6-16 75

II 1012 D 90 In Parmenidem, ed. Klibansky III 1013 D 90 pp. 39 ss. 202 XXII 1023 B 91

Stoich. theol., ed. Dodds

Proclo prop. 190, p. 166 64

In pr. Euc/. e/. liber, Prologus, Senocrate ed. Friedlein I, p. 3, 1-14, 12 62 Fragmento, ed. Heinze I, p. 3, 14-4, 8 63 5 101 I, p. 11, 26-14, 23 62 26 101 I, p. 12, 9-18, 4 73 34 102 I,p.16,3 177 37 102

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INDICE GENERALE DEI PASSI DEGLI AUTORI CITATI 333

164 187 163 163

38 64 67

Senofonte

Symposium VI 8 - VII 1

Sesto Empirico

Adv. math. IV 5-8 VII 147 VII 95-100 X46 X 248-284

Simplicio

191 109 105

162

110 101 110 223 283

In Arist. Cat., ed. Kalbfleisch p.407,20 170

In Arist. Phys., ed. Diels p. 1, 21-2, 6 149

In Arist. De an., ed. Hayduck p.30,4 109 p.62,2 109 p.221,25 109

Siriano

In Arist. Met., ed. Kroll p.4,3 p. 101, 33

Sofonia

156 156

In Arist. De an., ed. Hayduck p. 131 70

Speusìppo

Fragmento, ed. Lang 4 112; 169 33 a 161

33 e 34 34 a, e, f 35 a, b 35 d 35 e 37 a 40 41 42d 46 49 50 52 54a, b

163; 191 163 178

91; 95; 112 178; 183

174 188 191

161; 163 164; 179

187

Stobeo: vedi Giamblico; vedi Moderato

Stoici

Stoicorum Veterum Fragmen­to, ed. von Arnim

II 488 96

Index

Teodorico di Chartres

Librum, ed. Jansen p. 8-9

Teofrasto

Met., ed. Ross-Fobes I 3, p. 4 III 11-12, p. 12 III 12, p. 12 III 12-13, pp. 12 ss. V 16, p. 18 VI 17, p. 20 VIII 20-21, p. 24 VIII 23-24, p. 23 VIII 25, p. 28, 13-16

94

142

173 278 101 278 186 188 188 265 264

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334

IX 32, p. 34, 16-36, 18 IX 32, p. 36

209 178; 183

De causis pi., ed. Wimmer I 1, voi. II 1 173 IV 11, 7, voi. Il, p. 152 183

Timeo di Locri

De an. mundi, ed. Hermann v. IV 409 94

Tolomeo

Harmonica, ed. Diiring III 3, p. 94, 15-20 155

Tommaso d'Aquino

Expositio super Boetium De Trin.

q. 5, art. 2, Resp., ad pr. 144 q. 5, art. 3, Resp. ad. quartum 144 q. 5, art. 3, Resp. ad. quintum 122 q. 5, art. 3, Resp. ad octavum 121

DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

q. 5, art. 4, Resp. q. 6, art. 2, Resp. q. 6, art. 4, Resp.

132; 145 132 132

Expositio super Dionysium De div. nom.

VII, lectio 4 132

In Arist. Phys. II, lectio 11 122

In Arist. Met. comm., ed. Cathala

585,p. 196

Summa theol. I q. 84 I q. 84, art. 7, Resp. I q. 84, art. 7, ad tertium I q. 85, a.I., ad primum I q. 88 I q. 88, art. 2, Resp. I q. 88, art. 2, ad pr. I q. 88, art. 2, ad sec.

288

131 131 131 150 131 131 131 131

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III. Indice dei nomi degli autori antichi e moderni citati

AbelsonP.: 159 Abert H.: 160 Achena M.: 299, n. 47 Agatarchide di Cnido (Anonimo

di Fozio): 48; 58 Albino: 140 ss.; 266 Alcmeone: 238 Alessandro di Afrodisia: 121 ss;

138 ss.; 190; 217 Alessandro, Pseudo: 138; 254, n.

12;288 Alessandro Poliistore: 284 Altmann G.: 117 Ammonio: 138 ss.; 157 Anatolio: 109-111 Anawati M.M.: 138 Angelo Silesio: 198 Anonimo di Giamblico: 229 Anonimo di Hauréau: 147, n. 31 Anselmo: 289, n. 35 Apelt O.: 217 Apuleio: 195 Archer-Hind R.D.: 114 Archita: 63, n. 5; 68; 155 Aristandro: 75 Aristotele: 47-51; 54-56; 67; 81;

90; 95-109; 115 ss.; 119-130; 133-139; 142; 145-148; 151 ss.; 153-156; 163-183; 184 ss.; 188-192; 195-200; 203-206; 211-221; 224-227; 299 ss.; 233-244; 246-258; 275-283; 285-295; 301; 303-306; 310-315

Aristotele, Pseudo: 210; 228; 230 Armstrong A.H.: 172, n. 3;

203-205; 208

Asclepio: 102; 131 ss. Avempace: 131 ss. Averroè: 122; 139, n. 17; 289 Avicenna: 122, n. 3; 289; 299-301

Babbit F.C.: 302, n. 48 Badareu D.: 250 Baeumker C.: 58; 271, n. 21; 283,

n.29 Baur L.: 137, n. 14; 139, n. 18; 146 Becker O.: 113, n. 26 van den Berg J .J .B.: 151, n. 35 van den Bergh S.: 137, n. 14 Bergson H.: 219, n. 7 Bernardakis G.N.: 301 Bernays P.: 281, n. 27 Bett H.: 59 Bickel E.: 112, n. 24 Bickermann E.: 191, n. 10 BidezJ.:58 Biehl G.: 217 Bignone E.: 170; 228 Billicsich F.: 192, n. 11 Blass F.: 229, n. 20 Bochenski I.M.: 299 Bodenheimer F.S.: 121, n. 2 Boeckh A.: 117 Boezio: 121; 130-132; 136;

140-144; 158; 234 Bonitz H: 65; 195; 223 Boyancé P .: 58; 160, n. 6 Bréhier E.: 57; 93; 198, n. 17 Brémond A.: 294 Brotino: 68 Bruder K.: 146

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336

Burk A.: 224, n. 14 Burnett J.: 294, n. 39 Bury R.G.: 65; 114 Bywater I.: 211

Calogero G.: 247, n. 3; 292; 293 Capella: vedi Marziano Capella Cassiodoro: 71; 159, n. 5 Cassirer E.: 140, n. 19 Cassirer H.: 250 Cherniss H.: 57; 97-104; 108;

124-127; 135, n. 12; 178; 189; 259, n. 13; 275, n. 25; 276, n. 26;287

Cicerone: 105 Clagett M.: 138 Clarembaldo: 142; 143 Colote di Lampsaco: 301 Comte A.: 147 Cornford F.M.: 58; 64, n. 6; 93, n.

4; 103; 168; 193, n. 12; 273; 281, n. 27; 283, n. 29

Cousin D.R.: 124 Coutant V.C.B.: 191, n. IO Couvreur P.: 64, n. 6 Croissant J.: 160, n. 6 Cumont F.: 170; 263

Damascio: 167 Davide: 139 David - al - Mukammas: 142, n. 25 DeFalcoV.: 111; 169 Debrunner A.: 203, n. 21 Delatte A.: 112 Deubner L.: 76, n. 18 Diels H.: 228; 229, n. 20 Dieterici F.: 147, n. 31 Diodoro: 170 Diogene Laerzio: 96; 98; 170; 284,

n.30 Dionigi, Pseudo - (I' Areopagita):

132, n. IO; 197 Dirlmeier F.: 221, n. IO; 227, n.

17;315 Dodds E.R.: 59; 172

DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Dorrie H.: 56 ss.; 96, n. 7; 298, n. 46

Domenico Gundisalvi: 144; 289, n.35

Drerup E.: 224, n. 14 Diiring I.: 44-46; 54; 55; 191, n.

10:226;315 Duhem P.: 124 Duns Scoto, Giovanni: 289 Duns Scoto, Pseudo-: 288 Durkheim E.: 226

Edelstein L.: 96, n. 7; 117 Eisler R.: 233, n. l Epicuro: 285 Eraclide: 48 Eratostene: 75; 285, n. 31 Eriugena, Giovanni Scoto:

141-142 Ermia di Alessandria: 64, n. 6 Ermodoro: 57; 285 Erone di Alessandria: 96 Estieo di Perinto: 272 Eswein K.: 264, n. 15 Eucken R.: 218 Euclide: 61; 65; 73; 82; 175 Eudemo: 290; 291 Eudoro: 48; 58 Eudosso: 175 Euripide: 203, n. 21

Faust A.: 196, n. 15; 265 Fellerer K.G.: 160, n. 7 Ferri L.: 216, n. 6 Festa N.: 61; 77; 86; 156; 191 Festugière J.A.: 57; 148, n. 33:

183; 212, n. 2; 214; 223; 227, n. 16;284,n.30

Filippo di Opunte: 183 Filopono, Giovanni: 217 Fobes F.H.: 101, n. 14; 183, n. 6 Frank E.: 57; 58; 98, n. 9; 118;

198, n. 17 Friedlander P.: 125 Friedlein G.: 61, n. 2

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INDICE DEI NOMI DEGLI AUTORI ANTICHI E MODERNI CITATI 337

von Fritz K.: 250, n. 8 Furlani G.: 55, n. 6

Gadamer H.G.: 188, n. 8; 219, n. 7

Galeno, Pseudo-: 139 Galilei G.: 104 Gardet L.: 138 Gauthier L.: 139, n. 17 Geffcken J.: 274, n. 24 Geiger L.B.: 130 Gemino di Rodi: 82, n. 20; 147, n.

31 Goffredo di Fontaines: 132 GeraiisserW.: 307, n. l Gershon Ben Shlomoh d' Arles:

121,n.2 Gewirth A.: 297, n. 43 Giamblico: 49-51; 59; 61-92;

95-98; 100; 105; 109-lll; ll9; 140; 147-158; 161; 167-170; 173; 174; 177-183; 2ll-217; 220-223; 303;304;307

Gilberto de la Porrée: 143; 150 Gilson E.: 289, n. 34 Gorland A.: 281, n. 27 Goldschmidt V.: 223 Gomperz H.: 224, n. 14; 274 Gomperz T.: 189 Goodenough E.R.: 94, n. 5 Grabmann M.: 137, n. 14; 143;

144,n.29 Greenwood L.H.G.: 219, n. 8 Guggenheim M.: 159, n. 5 Guidi M.: 149 Guttmann J.: 142, n. 25

Habermehl M.L.: 132, n. 9 Hackforth R.: 65 Hambruch E.: 188 Handschin J.: 141, n. 21 Hartmann N.: 51, n. 3; 59; 62, n.

4:99,n. 12; 114;250,n.8 Hastings J.: 224, n. 14 Heath T.: 252, n. IO

Hegel G.W.F.: 52; ll3; 266; 268; 270;270,n.20

Heidegger M.: 264, n. 15 Heimsoeth H.: 112, n. 24 Heinemann F.: 192 Heinze R.: 57; 102 Helmer J.: 117 Hicks R.D.: 216 Himmerich W.: 206, n. 28 Hirzel R.: 228 Hoffmann E.: 57; ll3, n. 27; 275,

n.25;276,n.26 Hufnagel A.: 62, n. 4 Husik I.: 138 Husserl E.: 62, n. 4; 270, n. 20

lppia: 153 lbn Khaldoun: 147, n. 31 Ihwan al-Safa: 147, n. 31 lmmisch O.: 58 lnge W.R.: 192, n. 11 Isocrate: 153; 224; 225; 226 von lvanka E.: 57; 192, n. li; 244,

n.5;290,n.37

Jacoby F.: 98 Jaeger W.: 59; 96; 108; ll7; 122;

124; 153, n. 2; 173; 177; 2ll; 215; 223; 224, n. 12: 226, n. 15; 233, n. 2; 242, n. 4; 244, n. 5; 256;260;261;290-295

Jana~ek K: 285, n. 32 Jansen W.: 142, n. 23 Joachim H.H.: 192, n. li Jolif J.Y.: 315 JonesR.M.: ll7 Judah ben Barzilai: 142, n. 25

Kane W.: 152 Kant E.: 62; ll3; 140; 309 Kapp E.: 219, n. 8 Karpp H.: 175 Keplero G.: 140, n. 19 Kerferd G.B.: ll5, n. 28; 227 Khaldoun, lbn: 147, n. 31

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338

Kindi, al-: 55 ss.; 149 Klein J.: 147, n. 31 Klibansky R.: 97, n. 8 Klinkenberg H.: 160, n. 7 Koch J.: 160, n. 7 Kohnke F.W.: 87, n. 23 Kraft V.: 97, n. 8 Kranz W.: 229, n. 20 Kristeller P.O.: 203, n. 23; 208 Kroll W.: 59; 156 Krug W.T.: 268; 269; 270

Labowsky L.: 202, n. 20 Lameere W.: 56 Lang P.: 169; 191 Lask E.: 59 Lautman A.: 125; 259, n. 14: 281,

n.27 Le Blond J.M.: 250, n. 8 Leibniz G.W.: 275, n. 25 Leroy M.V.: 130 Levi A.: 275, n. 25 Lewalter E.: 289, n. 36 Liddell H.G.: 222 Lido, Giovanni Laurenzio: 109, n.

21 Loenen J.H.M.: 87, n. 22; 199;

203, n. 21; 208; 297 ss. Luria S.: 281, n. 27

Maier H.: 240 Mansion A.: 119; 122, n. 3; 136;

137 Marck S.: 282, n. 28 Margoliouth S.: 209; 210 Mariétan J.: 137, n. 14 Maritain J.: 145 Marrou H.I.: 159, n. 5; 224, n. 14 Marziano Capella: 156 Martin Th. H.: 117 Marx W.: 153, n. 1 Massé H.: 299, n. 47 Maestro Eckhart: 197 Mathieu G.: 224, n. 14 Mau G.: 59

DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Merlan Ph.: 58; 71, n. 12; 89, n. l; 99, n. 11; 101, n. 15; 117; 119; 130, n. 8; 138, n. 15; 170; 188; 221, n. 10; 265

Meyer H.: 138 Micraelius J.: 233, n. I Moderato: 48; 58; 71; 72; 89; 95 Montaigne M.: 226 Moraux P.: 138; 224, n. 13 Moreau J.: 113, n. 27; 118; 203, n.

21 Mras K.: 74, n. 17 Miiller H.F.: 194 Mugler C.: 125; 259, n. 13; 281 n.

27 Mure G.R.G.: 59; 127, n. 6; 128,

n. 7; 137, n. 13 Muskens G.L.: 188, n. 8; 288

Natorp P.: 290 Nebel G.: 172, n. 3 Neubecker A.J.: 125 Neumark D.: 142, n. 25 Nicola di Cusa: 52; 197 Nicomaco: 68; 82; 86; 154; 157;

158;307 Norden E.: 159, n. 5 Norlin G.: 224, n. 11 Numenio: 75 Nuyens F.: 108, n. 20

O'Donnell R.J.: 150 Olimpiodoro: 190 Omero: 203, n. 21 Oppermann H.: 76, n. 18; 169 Owens J.: 291, n. 38

Parmenide: 193; 209; 268; 271 Parthey G.: 168 van Pesch J.G.: 82, n. 20 Petersen P.: 289, n. 36 Pietro Fonseca: 233, n. I Philippe M.D.: 251, n. 9; 282, n.

28 Pietzsch G.: 160

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INDICE DEI NOMI DEGLI AUTORI ANTICHI E MODERNI CITATI 339

Pistelli H.: 228; 229 Pitagora: 48; 51; 58; 71; 112; 127;

153; 157; 158; 178; 215; 220; 222; 237; 238; 267; 268; 271; 272; 275; 279-283

Platone: 47-57; 64-69; 72-76; 78; 87; 89-99; 102-106; 109; 111-113; 118-121; 124 s.; 135 s.; 139; 153-156; 157; 160-163; 167-170; 182; 193; 195 s.; 202; 204; 208; 218-220; 224-229; 247 s.; 251-253; 264; 267-270; 272; 275-278; 281-285; 287; 290-295; 303-305;309-311; 314

Plezia M.: 210 Plotino: 47-50; 93; 107; 167-169;

192-197;203-208;265;302;312 Plutarco: 56; 90; 94; 111; 115;

117; 195; 301 s. Pohlenz M.: 115 Pomponazzi P.: 216 Porfirio: 146; 196 Posidonio: 49; 50; 51; 58; 90-97;

104; 111; 115; 117; 155; 303; 304 Praechter K.: 58, 62, n. 3; 95, n. 6;

117; 156, n. 4; 159, n. 5; 168; 266

Proclo: 61-65; 72-76; 80-81; 89; 92; 94-97; 119; 140; 147; 155; 156; 175-177;225;303;304;307

Protagora: 177;241

Rabelais F. : 226 Rabinowitz W.G.: 200-201 Radermacher L.: 162 Rodolfo di Longo Campo: 143 Ramirez: 137, n. 14 Regenbogen O.: 183, n. 6; 188, n.

8; 221, n. 10 Régis L.M.: 128, n. 7; 251, n. 9 Reinhardt K.: 58, 88; 115; 117 Remigio di Auxerre: 141, n. 22 Rey A.: 125, n. 5 Rivaud A.: 275, n. 25 Robbins F.E.: 111, n. 22

Robin L.: 57; 65, n. 8; 117; 254, n. 12;288

RoseV.:211,n. l Ross W.D.: 58; 82, n. 20; 90, n. 2;

95; 101, n. 14; 103; 106-108; 112, n. 23; 119; 122, n. 3; 124; 179; 181, n. 5; 183, n. 6; 251; 253,n. 11;286;287

Ruelle C.E.: 168

Saffrey H.D.: 118 Salin E.: 54, n. 5 Sandulescu - Godeni C.: 172, n. 3 de Santillana G.: 115, n. 28; 199 Sarton G.: 147, n. 32 Schelling G.W.F.: 113; 114; 197;

259,n. 13;264,n. 15;276 Schissel von Fleschenberg O.: 159,

n. 5 Schlick M. : 269 Schmekel A.: 58; 62, n. 4; 92, n. 3;

96; 117; 287; 285, n. 31 Schmidt C.G.: 159, n. 5 Scholz H.: 150 ss. Schrade L.: 146; 159, n. 5; 160 Schroder E.: 193 von Schubert H.: 159, n. 5 Schwartz E.: 170 Schwegler A.: 123, 133 Schweitzer H.: 150 Schwyzer H.R.: 93, 117; 172, n. 3 Scott R.: 222 Scoto Eriugena, Giovanni: 141 Severo: 72; 75; 89 Sesto Empirico: 101, n. 14;

109-112; 281-283 Shorey P.: 93, n. 4; 125; 224, n.

14;275,n.25;294 Sieveking W.: 302 Simmons E.D.: 152 Simplicio: 108; 109; 170 Sinko T.: 195, n. 13 Siriano: 64, n. 6; 156 Siwek P.: 216, n. 6 Solmsen F.: 106, n. 19; 118; 125,

n.5; 170,n.2;218;251

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340

Sofocle: 203, n. 21 Sofonia: 70 Speusippo: 48-51; 57; 72; 95-100;

112; 125; 161-164; 173-175; 178-198; 261; 262; 266; 271; 275;276-278;304;310-312

Spinoza B.: 192, n. 11 Staehle K.: 111, n. 22 Steck M.: 62, n. 4; 113, n. 26; 140,

n. 19 Steinschneider M: 147, n. 31 Stenzel J.: 57; 113, n. 27; 125, n.

5; 186-197; 198, n. 17; 274 Stephenson J.: 138 Stevens P.T.: 203, n. 21 Stoa (Stoico, ecc.): 94; 96; 192, n.

11 Stobeo, Giovanni: 77; 83; 100; 170 Stohr A.: 194 Stratone: 234 Strong W.: 120, n. 1; 309 de Strycker E.: 150, n. 34; 152, n.

37 Sweeney L.: 204, n. 25 Sykutris J.: 191, n. IO

Tannery P.: 64, n. 4; 82, n. 20; 96, n. 7

Taylor A.E.: 117; 272 Talete: 56 Teodorico di Chartres: 142 Teofrasto: 101; 173; 178; 183; 186;

188; 261; 264-267; 272; 278; 290;291;314

Theiler W.: 58 Thénevaz P.: 117 Thomas P.: 195, n. 13 Timeo di Locri: 94 Tolomeo C.: 154 Tommaso d'Aquino: 121; 126;

130-133; 136; 137; 142-145; 234; 288;289;307;308

DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Trendelenburg F.A.: 107; 216, n. 6;288

Trépanier E.: 134, n. 11 Tricot J.: 108, n. 20

Ueberweg F.: 58; 118

Vajda G.: 149 Vallin G.: 207 ss. de Vogel C.J.: 57; 58; 126; 204 ss.;

283,n.29

Wagner H.: 296 Walzer R.: 58; 211, n. l; 261 von Weizsacker C.F.: 113, n. 25 Werner K.: 132, n. 9 Wersdorfer H.: 225 Whitehead A.N.: 266, n. 17 Whittaker J.F.: 145 WhittakerT.: 147, n. 31 Willner H.: 147, n. 31 Wilpert P.: 57; 284 Witt R.E.: 58; 266 Wolfson H.A.: 122, n. 3; 139, n.

17; 142,n.25; 147,n.32;266 Woltereck R.: 272, n. 22 WulfM.: 57; 132 Wundt M.: 289

Senocrate: 48; 71; 72; 82; 89; 90; 95; 97; 99; 101-106; 109; 117; 191; 272; 275; 276; 278; 304; 305; 310; 311

Senofonte: 162

Zeller E.: 57; 59; 84, n. 27; 104 ss.; 119; 127, n. 6; 169; 188, n. 8; 193; 264 ss.; 275; 276, n. 26; 294-297;299;302,n.48

Zoroastro: 183

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IV. Indice analitico della materia trattata

Introduzione di Giovanni Reale: l'importanza ed il significato del libro di Merlan «Dal Platonismo al Neoplatonismo» 9

1. L'inversione di rotta impressa dal Merlan agli studi sul Platonismo e sul Neoplatonismo 9

2. Il modo in cui Merlan ha articolato il suo libro 11 3. Il punto focale attorno a cui Merlan ha incentrato la sua trat-

tazione 14 4. Alcune convinzioni teoretiche che rendono questo libro assai

vivo 18 5. La posizione assunta da Merlan nei confronti della nuova immagine di

Platone presentata dagli studiosi della Scuola platonica di Tubinga 20

6. Differenze fra Platonismo e Neoplatonismo 24 7. La questione del sistema di derivazione delle sfere della realtà le une

dalle altre nel Platonismo e nel Neoplatonismo 28 8. Conclusioni 30

Produzione scientifica di Philip Merlan 33

Dal Platonismo al Neoplatonismo 41

Prefazione alla terza edizione 43

Introduzione 47

1. La tendenza a colmare lo iato che separa il Platonismo dal Neopla-tonismo 47

2. Scopo e metodo del presente libro 3. L'importanza di Giamblico 51

Prima Appendice all'Introduzione Seconda Appendice all'Introduzione Aggiunta alla Seconda Appendice

49

54 57

60

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342 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

I. Anima ed enti matematici 61

1. Interpretazione degli enti matematici in Giamblico e in Proclo 61

2. II rapporto fra gli enti matematici e l'anima 63 3. II problema se gli enti matematici sono dotati di mo-

vimento 66 4. I nessi dell'anima con tutte le branche degli enti matematici 67 5. II «De anima» di Giamblico 71 6. La soluzione di Proclo 72 7. II capitolo X del «De communi mathematica scientia» di Giambli-

co e la sua incompatibilità con i risultati dei capitoli III e IV 76 8. Ricapitolazione dell'analisi del cap. X del «De communi mathe-

matica scientia» 78 9. II carattere letterario del «De communi mathematica

scientia» 80 10. Differenza fra una tripartizione ed una quadripartizione della ma­

tematica e sua importanza per l'identificazione dell'anima con gli enti matematici 81

11. Diversità e contraddittorietà delle fonti del «De communi mathe-matica scientia» di Giamblico 84 Appendice al capitolo I 87

Il. Posidonio ed il Neoplatonismo

1. II problema delle connessioni dell'anima con gli enti matematici risale a Speusippo, a Senocrate e a Posidonio 89

2. La connessione dell'anima con gli enti matematici in Speusippo 97

3. La connessione dell'anima con gli enti matematici in Se-nocrate 101

4. II carattere platonico della tesi secondo la quale gli enti matematici sono dotati di movimento 104

5. Tracce dei rapporti dell'anima con gli enti matematici in Ari-stotele 106

6. Altri esempi dei rapporti dell'anima con realtà di tipo mate-matico 109 Prima Appendice al Capitolo II 115 Seconda Appendice al Capitolo II 117

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INDICE ANALITICO DELLA MATERIA TRA TI ATA 343

III. La suddivisione della filosofia teoretica

1. La tripartizione aristotelica delle conoscenze teoretiche affonda le sue radici nella suddivisione platonica dell'essere 119

2. L'incoerenza della tripartizione aristotelica: analisi di «Metafisi-ca» E 123

3. Tentativi di difendere la coerenza della tripartizione aristo-telica 125

4. Confutazione del tentativo di difendere la definizione degli og-getti della fisica come inseparati («xwptcn0t) 133

5. Ancora sulla incoerenza della tripartizione aristotelica: analisi di «Metafisica» K 134

6. L'incoerenza della tripartizione aristotelica delle conoscenze teoretiche dipende dal fatto che non viene mantenuta la triparti-zione platonica dell'essere 136

7. Sopravvivenza storica della contraddizione inerente alla triparti-zione aristotelica 137

8. Una diversa interpretazione della conoscenza teoretica fondata sulla identificazione dell'anima con gli enti matematici 146 Appendice al Capitolo III 149

IV. L'origine del «quadrivium» 153

V. Speusippo in Giamblico 161

1. La presenza di Speusippo nel «De communi mathematica scien-tia» di Giamblico 161

2. La critica di Aristotele al sistema di Speusippo 162 3. Confronto dell'esposizione di Aristotele con il capitolo IV del

«De communi mathematica scientia» di Giamblico 164 4. Il capitolo IV del «De communi mathematica scientia» espone

idee proprie di Speusippo 166 5. Il concetto di essere indeterminato nel «Sofista» di

Platone 168 6. Il capitolo IV del «De communi mathematica scientia» è una

fonte per conoscere Speusippo indipendente da Aristotele e non influenzata da dottrine di Platone o di Giamblico 169

7. Confronto dell'esposizione di Speusippo fatta da Aristotele con il capitolo IV del «De communi mathematica scientia» 170

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344

8.

9.

10. 11.

12. 13. 14. 15.

16. 17.

DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Il «bello» nella sfera degli enti matematici e presenza di questa dottrina, oltre che in Speusippo, anche in Aristotele e in Proclo 173 La dottrina di Speusippo che l'Uno non è né Bene né Bello criti-cata da Aristotele e forse da Teofrasto 177 Il supremo principio materiale in Speusippo 178 L'interazione dei due principi supremi, il principio formale e il principio materiale 184 Speusippo non è un evoluzionista 185 Speusippo come «divisore» dell'essere? 187 Il principio dell'analogia in Speusippo e in Aristotele 188 Alcune osservazioni linguistiche sul capitolo IV del «De commu-ni mathematica scientia» di Giamblico 189 Speusippo e Plotino 192 L'originalità del sistema di Speusippo 197 Appendice al Capitolo V 199

VI. Un nuovo frammento di Aristotele 211

1. Quattro ragioni per sostenere la derivazione del cap. XXIII del «De communi mathematica scientia» dal «Protreptico» di Ari-stotele 211

2. Il contenuto generale del capitolo XXIII del «De communi ma-thematica scientia» 214

3. Possibilità che Aristotele, anche nel «De anima», consideri an-cora l'anima come un'entità matematica 216

4. Analisi dettagliata del cap XXIII del «De communi mathematica scientia» 279

5. Alcune osservazioni linguistiche sul cap. XXIII del «De commu-ni mathematica scientia» 222

6. Il diverso atteggiamento di Isocrate e di Aristotele nei confronti della matematica 224

7. Conclusioni Prima Appendice al Capitolo VI 226 Seconda Appendice al Capitolo VI 227

VII. «Metaphysica generalis» in Aristotele? 233

1. Il problema 233 2. Analisi di «Metafisica» 8: l'espressione «essere in quanto esse­

re» risulta equivalente all'espressione «suprema sfera del-1' essere» 234

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INDICE ANALITICO DELLA MATERIA TRATTATA 345

3. La metafisica come indagine dei contrari, di cui è costituita, in senso primario, la suprema sfera dell'essere e, in senso derivato, ogni altra realtà 237

4. Il principio di non-contraddizione come principio metafisico che si riferisce in senso pieno solamente alla suprema sfera del-1' essere 240

5. Analisi di «Metafisica» El, dove viene di nuovo supposta l'equi­valenza delle espressioni «essere in quanto essere» e «suprema sfera dell'essere» 242

6. Soluzione dell'apparente contraddizione nella definizione di me­tafisica: il carattere accademico e neoplatonico del concetto di essere in quanto essere 244

7. Carattere accademico e neoplatonico della dottrina secondo cui tutti gli esseri sono riconducibili a due principi opposti 247

8. Ulteriore chiarificazione della formula che descrive la metafisica come «xix86Àou O'tL 1tpwnp> 249

9. Analisi di «Metafisica» K 3-7: i concetti di Òtcpix(ptatç e 1tp6a-8tatç 251

10. Ulteriore chiarificazione del carattere accademico della metafisi-ca di Aristotele 254

11. Il carattere neoplatonico dei concetti di «essere in quanto essere» e di «essere indeterminato» e i relativi problemi gnoseo-logici 262

12. Analisi di «Metafisica» E> 10: il concetto di Òt0"1J118t't1X 263 13. I passi in cui Aristotele critica la dottrina dei due principi oppo­

sti e il sistema di derivazione del particolare dall'univer-sale 267

14. Platone ha professato un sistema derivativo? 274 15. Esame dei passi in cui, secondo Aristotele, i Pitagorici, Platone e

gli altri Accademici hanno cercato di far derivare il sensibile dal non sensibile 277

16. Un aspetto particolare del problema della derivazione: la causa-lità delle Idee in Platone 281

17. Sopravvivenza dell'idea di derivazione in un testo di Sesto Em-pirico 283

18. Ricapitolazione 285 19. Confutazione delle obiezioni al tentativo di isolare «Metafisica»

r, E I e K 3-7 dal contesto della «Metafisica» 286 20. I diversi tentativi di spiegare la definizione di metafisica come

conoscenza dei due supremi principi opposti 288 21. Osservazioni conclusive 293

Appendice al Capitolo VII 296

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346 DAL PLATONISMO AL NEOPLATONISMO

Conclusioni 303 Appendice alle Conclusioni 315

Indici generali 317

I. Indice delle edizioni dei testi degli autori citati 319 Il. Indice generale dei passi degli autori citati 323

III. Indice dei nomi degli autori antichi e moderni citati 335 IV. Indice analitico della materia trattata 341

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