zamperini menegatto - trauma psicopoliticoproof

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1 LA VIOLENZA COLLETTIVA E IL G8 DI GENOVA. TRAUMA PSICOPOLITICO E TERAPIA SOCIALE DELLA TESTIMONIANZA Adriano Zamperini , Marialuisa Menegatto This is a pre-pubblication version of a paper aceepted by Psicoterapia e Scienze Umane, 2013, XLVII, 3: 423-442 http://www.psicoterapiaescienzeumane.it Introduzione Il G8 di Genova, svoltosi nel 2001, è entrato nell’immaginario collettivo sul volano di termini bellici: la “battaglia di Genova”, la “guerra urbana di Genova”, e simili. Per quell’evento, il capoluogo ligure fu trasformato in una fortezza: la sede del summit, la cosiddetta “zona rossa”, venne isolata dal resto della città da un imponente sistema di barriere e grate di ferro. Tutti gli accessi – aeroporto, stazioni ferroviarie, porti – ebbero sospeso il diritto di libera circolazione. Dal cielo gli elicotteri sorvegliavano il sottostante spazio urbano. Massiccio fu lo spiegamento di forze dell’ordine. L’esito finale di questi preparativi si tradusse in un vero e proprio stato di assedio. Mentre politici e funzionari svolgevano i lavori in agenda, diversi cortei percorrevano le vie della città, devastate da indisturbati black bloc. Lungo l’elenco degli scontri tra forze dell’ordine e partecipanti alle manifestazioni. In piazza Alimonda, dall’interno di un defender, preso d’assalto da un gruppo di manifestanti, un carabiniere sparò due colpi di pistola, uccidendo il ventitreenne Carlo Giuliani. Poco prima della mezzanotte dello stesso giorno, circa 300 agenti fecero irruzione nella scuola Diaz, adibita a sala stampa del Genoa Social Forum e a dormitorio. La polizia infierì su manifestanti inermi. Drammatico il risultato dell’operazione: circa 69 feriti, tre in condizioni molto gravi, uno in coma; 93 i fermati, di cui 75 condotti alla caserma di Bolzaneto. Questa l’approssimativa fotografia statistica di quei giorni: n. 253 persone arrestate, n. 606 feriti, n. 6200 candelotti di lacrimogeni sparati dalle forze dell’ordine, n. 20 colpi di pistola, n. 50 miliardi di lire di danni e un morto (Parlamento Italiano, 2001). Secondo Amnesty International (2001), a Genova, durante il G8, si è verificata la più grave sospensione dei diritti umani in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale. I principali processi celebrati hanno riguardato la scuola Diaz e la caserma Bolzaneto. Il loro svolgimento è stato sistematicamente intralciato dalle autorità italiane e le pubbliche istituzioni hanno di fatto isolato i pubblici ministeri incaricati delle indagini. Per di più, l’assenza in Italia di una legge sulla tortura ha costretto la pratica giudiziaria a spezzettare la condotta delle forze dell’ordine. Anziché ricondurre tutti i comportamenti a una specifica fattispecie, appunto il reato di tortura, gli stessi sono stati considerati uno a uno: un calcio, un taglio di capelli, eccetera. Così questa frammentazione ha originato il mancato raggiungimento di una visione d’insieme, lasciando aperto un interrogativo: come comprendere e che nome dare a ciò che è accaduto a Genova nel 2001? Fin dall’anno del summit gli scriventi hanno coordinato un gruppo di ricerca per cercare di rispondere a un simile interrogativo (una rassegna delle varie indagini realizzate è presente in Zamperini, Menegatto, 2011). Dopo oltre un decennio, grazie anche ad alcune sentenze (nonostante le polemiche ancora aperte sul dispositivo della pena, le azioni lesive sono acclarate), è ora possibile delineare un’adeguata rappresentazione della violenza agita. Resta però ancora da tracciare un puntuale profilo della sofferenza patita sul piano psicologico (quella fisica è stata refertata dai medici). Muovendo dal concetto di “trauma”, questo articolo ha quindi lo scopo di analizzare la sofferenza umana dei manifestanti al G8 di Genova, articolata con altre forme di violenza collettiva di natura * Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata, Università degli Studi di Padova, Via Venezia 8, 35131 Padova, E-Mail: [email protected]; [email protected].

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Il G8 di Genova, svoltosi nel 2001, è entrato nell’immaginario collettivo sul volano di termini bellici: la “battaglia di Genova”, la “guerra urbana di Genova”, e simili. Per quell’evento, il capoluogo ligure fu trasformato in una fortezza: la sede del summit, la cosiddetta “zona rossa”, venne isolata dal resto della città da un imponente sistema di barriere e grate di ferro. Tutti gli accessi - aeroporto, stazioni ferroviarie, porti – ebbero sospeso il diritto di libera circolazione. Dal cielo gli elicotteri sorvegliavano il sottostante spazio urbano. Massiccio fu lo spiegamento di forze dell’ordine. L’esito finale di questi preparativi si tradusse in un vero e proprio stato di assedio.

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    LA VIOLENZA COLLETTIVA E IL G8 DI GENOVA. TRAUMA PSICOPOLITICO E

    TERAPIA SOCIALE DELLA TESTIMONIANZA

    Adriano Zamperini, Marialuisa Menegatto This is a pre-pubblication version of a paper aceepted by Psicoterapia e Scienze Umane, 2013, XLVII, 3: 423-442 http://www.psicoterapiaescienzeumane.it Introduzione Il G8 di Genova, svoltosi nel 2001, entrato nellimmaginario collettivo sul volano di termini bellici: la battaglia di Genova, la guerra urbana di Genova, e simili. Per quellevento, il capoluogo ligure fu trasformato in una fortezza: la sede del summit, la cosiddetta zona rossa, venne isolata dal resto della citt da un imponente sistema di barriere e grate di ferro. Tutti gli accessi aeroporto, stazioni ferroviarie, porti ebbero sospeso il diritto di libera circolazione. Dal cielo gli elicotteri sorvegliavano il sottostante spazio urbano. Massiccio fu lo spiegamento di forze dellordine. Lesito finale di questi preparativi si tradusse in un vero e proprio stato di assedio. Mentre politici e funzionari svolgevano i lavori in agenda, diversi cortei percorrevano le vie della citt, devastate da indisturbati black bloc. Lungo lelenco degli scontri tra forze dellordine e partecipanti alle manifestazioni. In piazza Alimonda, dallinterno di un defender, preso dassalto da un gruppo di manifestanti, un carabiniere spar due colpi di pistola, uccidendo il ventitreenne Carlo Giuliani. Poco prima della mezzanotte dello stesso giorno, circa 300 agenti fecero irruzione nella scuola Diaz, adibita a sala stampa del Genoa Social Forum e a dormitorio. La polizia infier su manifestanti inermi. Drammatico il risultato delloperazione: circa 69 feriti, tre in condizioni molto gravi, uno in coma; 93 i fermati, di cui 75 condotti alla caserma di Bolzaneto. Questa lapprossimativa fotografia statistica di quei giorni: n. 253 persone arrestate, n. 606 feriti, n. 6200 candelotti di lacrimogeni sparati dalle forze dellordine, n. 20 colpi di pistola, n. 50 miliardi di lire di danni e un morto (Parlamento Italiano, 2001). Secondo Amnesty International (2001), a Genova, durante il G8, si verificata la pi grave sospensione dei diritti umani in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale. I principali processi celebrati hanno riguardato la scuola Diaz e la caserma Bolzaneto. Il loro svolgimento stato sistematicamente intralciato dalle autorit italiane e le pubbliche istituzioni hanno di fatto isolato i pubblici ministeri incaricati delle indagini. Per di pi, lassenza in Italia di una legge sulla tortura ha costretto la pratica giudiziaria a spezzettare la condotta delle forze dellordine. Anzich ricondurre tutti i comportamenti a una specifica fattispecie, appunto il reato di tortura, gli stessi sono stati considerati uno a uno: un calcio, un taglio di capelli, eccetera. Cos questa frammentazione ha originato il mancato raggiungimento di una visione dinsieme, lasciando aperto un interrogativo: come comprendere e che nome dare a ci che accaduto a Genova nel 2001? Fin dallanno del summit gli scriventi hanno coordinato un gruppo di ricerca per cercare di rispondere a un simile interrogativo (una rassegna delle varie indagini realizzate presente in Zamperini, Menegatto, 2011). Dopo oltre un decennio, grazie anche ad alcune sentenze (nonostante le polemiche ancora aperte sul dispositivo della pena, le azioni lesive sono acclarate), ora possibile delineare unadeguata rappresentazione della violenza agita. Resta per ancora da tracciare un puntuale profilo della sofferenza patita sul piano psicologico (quella fisica stata refertata dai medici). Muovendo dal concetto di trauma, questo articolo ha quindi lo scopo di analizzare la sofferenza umana dei manifestanti al G8 di Genova, articolata con altre forme di violenza collettiva di natura * Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata, Universit degli Studi di Padova, Via Venezia 8, 35131 Padova, E-Mail: [email protected]; [email protected].

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    politica. Nella prima parte, viene passata in rassegna la categoria diagnostica del disturbo post-traumatico da stress, operandone unanalisi critica alla luce dei contributi offerti dalla psicologia della liberazione (Martn-Bar, 1989, 1994) e dallapproccio narrativo (Sluzki, 1992, 1993, 1995). Nella seconda parte, dal versante delle vittime, si offre una visione dinsieme della violenza collettiva manifestatasi durante il G8 di Genova, argomentando la preferenza accordata al concetto di trauma psicopolitico, in luogo della diagnosi di disturbo post-traumatico da stress. Infine, nella terza parte, si estendono i principi alla base della terapia della testimonianza (Agger, Jensen, 1990, 1996; Cienfuegos, Monelli, 1983) alle pubbliche udienze dei due principali processi celebrati (Diaz e Bolzaneto). Trauma e violenza politica Come evidenzia Clara Mucci (2008), da Sigmund Freud in poi la questione che ruota attorno al trauma riguarda il valore da attribuire alla sua realt. In modo particolare, gli ultimi anni sono stati attraversati da querelle, spesso molto aspre, che hanno investito i concetti di memoria e ricordo (McNally, 2003); soprattutto il lavoro clinico con le vittime stato spesso accusato di essere il momento genetico del trauma, considerato alla stregua di una mera costruzione dialogica tra i parlanti, piuttosto che rievocazione dellaccaduto. Basti pensare al dibattito sul ricordo represso. Comunque, qui non si intende ripercorrere lintera e controversa storia della messa a tema del trauma, per questo si rimanda al summenzionato saggio di Mucci. Piuttosto, si vuole partire dallaffermazione, clinica e sociale, della diagnosi di disturbo post-traumatico da stress. Innumerevoli sono i fattori considerati fonte di stress traumatico: dallabuso sessuale alla rapina, dai disastri naturali agli incidenti automobilistici. Nel caso specifico, si limiter lanalisi alluso di questa diagnosi in relazione a fenomeni di violenza collettiva di natura politica. La prospettiva del disturbo post-traumatico da stress Sottostante lapparato delle diagnosi psichiatriche vi lidea della presenza oggettiva di una malattia. A prescindere da come la si osservi, si assume che essa permanga sostanzialmente indifferente ai vari sguardi dei diversi percipienti. Eppure, la storia del disturbo post-traumatico da stress un ottimo esempio del ruolo giocato da fattori sociali nella costruzione di unafflizione umana (Bracken, 1998; Summerfield, 1999). Infatti, la diagnosi un retaggio della guerra del Vietnam, e in modo particolare del suo dopoguerra. Ritornati a casa, i reduci si resero conto di essere stati preceduti via televisione e a mezzo stampa da una fama infausta: agli occhi di molti dei loro concittadini apparivano spietati assassini di persone inermi, tra cui donne, bambini e anziani. Una simile accoglienza stato un elemento primario nella loro difficolt di reinserimento, ben testimoniata da numerosi comportamenti antisociali e da una variegata espressione emozionale deviante (Zamperini, 2007). Coloro che passarono in un ambulatorio psichiatrico ne uscirono con varie etichette diagnostiche: stati ansiosi, depressione, tossicodipendenze, disturbi della personalit, schizofrenia, e altri ancora. Diagnosi successivamente rimpiazzate dal disturbo post-traumatico da stress. Tra i primi e pi accesi sostenitori della nuova patologia vi erano gli oppositori alla guerra, i quali accusavano gli psichiatri militari di essere asserviti alle logiche oppressive dellesercito a danno dei soldati. I suoi fautori esercitarono forti pressioni verso i veterani affinch si orientassero a essere curati sotto questo nuovo ombrello diagnostico. Che rapidamente scalz i suoi predecessori, come la fatica da battaglia e le nevrosi da guerra. Poich la nuova diagnosi indirizzava l'attenzione sulla natura traumatica della guerra, ci comport una forte trasformazione a livello socio-politico. I veterani del Vietnam non erano pi percepiti alla stregua di perpetratori di efferate violenze, bens come persone traumatizzate da ruoli che furono costretti a indossare in quel particolare scenario bellico. Il disturbo post-traumatico da stress legittimava cos la condizione di "vittime", disimpegnava moralmente il s attraverso un processo di discolpa, e garantiva agli interessati una pensione di invalidit perch la diagnosi era certificabile da

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    un medico. Mentre fino alla guerra in Vietnam gli imputati di omicidi e stupri, commessi nellambito di conflitti collettivi, si difendevano facendo ricorso quasi esclusivamente a una categoria psicologica lobbedienza agli ordini , successivamente si riscontrer anche lutilizzo di una categoria psichiatrica appunto, il disturbo post-traumatico da stress. Nelle societ occidentali, larticolazione tra stress e trauma ha assunto sempre pi un aspetto naturalistico, diventando parte integrante della descrizione e spiegazione delle vicissitudini di tutti i giorni. Mentre solitamente le diagnosi psichiatriche sono evitate da chiunque, luso sociale del disturbo post-traumatico da stress aumentato in modo spettacolare. Diventando il mezzo con cui le persone cercano di conquistare lo status di vittima con il suo associato ed elevato valore morale per ottenere riconoscimento e compensazione. Inoltre, il disturbo post-traumatico da stress si esteso ben oltre i confini della psichiatria occidentale, grazie soprattutto ai progetti di intervento umanitario nei vari scenari di guerre e catastrofi naturali. Senza qui voler operare una disamina della psichiatria del quotidiano, n della psichiatria dellemergenza, e tantomeno della psichiatria dellumanitario, si intende invece circoscrivere lanalisi sulluso del disturbo post-traumatico da stress nei frangenti di violenza collettiva e di violazione dei diritti umani per evidenziarne i limiti. Al riguardo, particolarmente efficace la critica avanzata da Becker (1995), riassumibile mettendo a tema i termini che vanno a comporre la locuzione disturbo post-traumatico da stress. Partiamo dalla parola post, la quale suggerisce lidea di un discreto evento traumatico accaduto nel passato. In realt, i membri di associazioni che lottano per la tutela dei diritti umani sono sottoposti a un rischio di trauma ripetuto e costante nel tempo (Hernndez, 2002). Soprattutto nel caso di conflitti e violenze intrastatali, il perdurare di situazioni di oppressione e minaccia rende perlomeno problematico il ricorso al marcatore post quale criterio di punteggiatura del dischiudersi della sofferenza. Sollevando pure linterrogativo in merito a chi abbia titolo per individuare la circostanza che separa il prima dal dopo. Le persone possono presentare i sintomi nel corso di diversi anni e articolarli differentemente in funzione delle varie situazioni della vita sociale. Il secondo problema critico incentrato sul termine disturbo. Qui Becker (1995) appoggia le sue considerazioni sul lavoro di Kurt Robert Eissler (1963), inerente al problema del risarcimento ai sopravvissuti della Shoah nella Germania del dopoguerra, dove gli psichiatri sovente erano inclini a negare qualsiasi relazione tra specifiche patologie e lesperienza dei campi di sterminio e concentramento. Innanzitutto, va premesso che storicamente i gruppi umani che sono stati colpiti da discriminazione politica e repressione hanno subito vari processo di esclusione sociale e stigmatizzazione (Zamperini, 2010). Da nord a sud, da est a ovest, i perpetratori di violenza collettiva hanno sempre usato un presunto disturbo (difettivit) delle proprie vittime per legittimare azioni crudeli e oppressive. Grazie a maschere pseudoscientifiche, le stesse sono state assimilate, di volta in volta, al regno animale (maiali, zecche), alla sfera della malattia (cancro della societ), alla compagine dei pericolosi (delinquenti), e in ogni caso inscritte nelleterogenea categoria dei reietti di una comunit che voglia dirsi sana. Volontariamente o involontariamente, il ricorso allappellativo disturbati per indicare coloro che soffrono a causa di una violenza politica espone al rischio di convertirsi al ruolo dei vittimizzatori. Chiamare la loro esperienza un disturbo pu voler dire allearsi con il medesimo progetto di spogliazione di umanit e di annichilimento che stato allorigine di ci che hanno patito e stanno patendo. Allassassinio di quanti dei suoi bambini un essere umano deve assistere senza esibire sintomi, affinch possa mostrare di godere di una sana costituzione psichica?; questo il provocatorio titolo a domanda dellarticolo di Eissler (1963). Rilanciando la questione: si pu parlare di disturbo se una persona sviluppa dei sintomi dopo essere stato testimone delluccisione di un membro della sua famiglia? Non sarebbe pi corretto considerare disturbato chi non si ammala dopo una simile esperienza? E ancora, se proprio si vuol parlare di persone disturbate, tale appellativo non dovrebbe piuttosto essere riferito ai perpetratori? Qui il malessere individuale che ovviamente non va misconosciuto discende dalla violazione collettiva di diritti umani, e quindi non pu trovare una risposta strettamente sanitaria. Infine, il termine disturbo suggerisce lidea di un set di sintomi ben

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    identificabili, un processo da cui si sviluppa la patologia e le circostanze del suo insorgere. Nonostante tali sintomi possano essere, in parte o in tutto, riscontrabili in coloro che hanno subito una violenza politica, le problematiche presentate vanno ben oltre la psicopatologia strettamente intesa. Per esempio, si possono riscontrare difficolt nelle interazioni quotidiane a livello comportamentale, problemi in ambito lavorativo, nella sfera affettiva di coppia. Ancora pi importante, gli identificati sintomi manifestano unevoluzione che non legata a dinamiche intra-personali, quanto piuttosto gli stessi appaiono e scompaiono sulla base di processi sociali. Oltretutto, in simili frangenti non si ammalano solo i singoli, ma anche e soprattutto i legami: quelli costitutivi della famiglia, della rete amicale e dellappartenenza comunitaria. Per completare questa rapida disamina, restano i termini traumatico e stress. Ancora una volta daccordo con Becker (1995), pare indispensabile sciogliere questo legame, poich il trauma qualitativamente diverso dallo stress. Un essere umano sottoposto a stress reagisce mantenendo sostanzialmente intatta la propria struttura di personalit, mentre lo stesso non pu dirsi nel caso di unesperienza traumatica, con tutto il suo carico di catastrofe esistenziale e di risposte caotiche. Infatti, la stessa radice lessicale del termine trauma indica che qualcuno stato bucato, perforato, costretto a sperimentare una discontinuit psicologica e quindi una crisi della sua presenza mondana (Armando, 2010; Semi, 2007). Nellinsieme, legemonia del disturbo post-traumatico da stress in contesti di violenza collettiva di natura politica, naturalizzando e privatizzando la sofferenza come problema sanitario, finisce con loccultare tutte le implicazioni morali e politiche che le appartengono. La prospettiva della psicologia della liberazione Ignacio Martn-Bar (1994), principale esponente della psicologia della liberazione, ha utilizzato il termine trauma sociale per riferirsi a dinamiche socio-storiche distruttive che si riproducono e governano linterazione tra i singoli e la societ. Sebbene il trauma si manifesti individualmente, allinterno di questa prospettiva pi appropriato concepirlo come un prodotto di rapporti disumani. Sulla base della pedagogia degli oppressi di Freire (1972), Martn-Bar (1994) individua la via maestra della psicologia nellopera di coscientizzazione, ossia il processo di risveglio delle coscienze. L'uso di questo concetto nellambito della salute mentale implica un cambiamento del focus terapeutico: dallalienazione individuale alla de-alienazione del gruppo attraverso una comprensione critica della realt sociale che plasma la vita degli esseri umani. Le persone possono comprendere e articolare le loro esperienze attraverso l'insegnamento dialogico, la riflessione e l'azione. Riuscendo cos ad appropriarsi di una ristrutturazione soggettiva per quanto riguarda lesistenza personale e la vita della comunit. Netto il rifiuto da parte di Martn-Bar (1994) di qualsiasi dicotomia tra il personale e il collettivo, attestandosi su una prospettiva relazionale sviluppata da George Mead (1934) e dalla scuola storico-culturale russa di Lv Vygotskij (1934), e ben sintetizzata da Max Horkheimer e Teodor Adorno: Se nel fondamento stesso del suo esistere luomo attraverso altri, che sono i suoi simili, e solo per essi ci che , allora la sua definizione ultima non quella di una originaria indivisibilit e singolarit, ma piuttosto quella di una necessaria partecipazione e comunicazione agli altri. Prima di essere anche individuo luomo uno dei simili, si rapporta ad altri prima di riferirsi esplicitamente a se stesso, un momento delle relazioni in cui vive prima di poter giungere eventualmente ad autodeterminarsi (1956, p. 53). Sicch, il singolo essere umano risulterebbe incomprensibile se reso orfano del suo referente costitutivo: non c' persona senza famiglia, nessun apprendimento senza cultura, nessuna follia senza un ordine sociale. E quindi non ci pu essere alcun disturbo che non abbia dei riferimenti a norme morali e sociali. Il trauma allora un processo situato, caratterizzato da una propria intensit, da una durata nel tempo e dall'interdipendenza tra dinamiche societarie e psicologiche. E, stando allinterno della

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    psicologia della liberazione, la guarigione vista come lo sviluppo di nuove identit sociali, le quali contribuiscono alla costruzione di movimenti collettivi che mettono in discussione l'ordine esistente. La prospettiva narrativa Ancorando le proprie argomentazioni su un terreno narrativo, Sluzki (1992, 1993) sostiene che la coerenza sia costruita dagli individui nello sviluppo della propria identit, e che la stessa si basi sul presupposto di un mondo ordinato al cui interno le persone si vedono condurre una vita ordinata. Gli esseri umani avrebbero cos bisogno di un senso di continuit nello spazio e nel tempo, al fine di riuscire a mantenere un'immagine continua del s a fronte dei vari cambiamenti che si succedono. E un certo grado di sicurezza e ordine indispensabile per attribuire significato al proprio mondo. La violenza distrugge sia il senso di ordine sia la storia personale costruita in un particolare mondo ordinato. Genera confusione, disgregazione e perdita di identit. Nel tentativo di capire la violenza e i suoi effetti, le persone elaborano descrizioni e spiegazioni per dare un senso alla crudelt. Inevitabilmente, simili spiegazioni sono orientate e governate dalle storie socioculturali dominanti (Cohen, 2001). Nellambito di un simile processo esplicativo, i ruoli di spettatore e perpetratore possono contribuire a oscurare gli eventi violenti (Zamperini, 2001). Inoltre, quando le voci dei carnefici prevalgono, le opportunit di ricostruire un senso di comunit e i tentativi di attuare una riparazione morale risultano compromessi. E dato che le vittime non possono affrontare i perpetratori, i processi di apprendimento e i percorsi di guarigione risulteranno ostruiti. La comprensione sistemica del trauma coinvolge livelli politico-sociali e individuali propri del narrare. Le storie parlano di personaggi, contesti e trame: nella logica delle storie si intrecciano domande relative al chi, al quando, al dove e al cosa. Le storie presentano pure una dimensione etica, costruita attorno a giudizi morali che hanno effetti sullazione e sul modo di pensare delle persone. Per spiegare il rapporto tra violenza e trauma, Sluzki (1993) sottolinea in modo particolare il venir meno di un senso di protezione, la presenza di un contesto che mistifica e nega alla vittima eventuali indizi interpersonali cui aggrapparsi per conferire significati e attribuire intenzioni, trovandosi cos spogliata di qualsiasi possibilit di esprimere assenso o dissenso. Quindi, il trauma personale argomento di impotenza e disperazione. Un simile modo di guardare alla violenza e al trauma rende conto di un contesto in cui un determinato gruppo ha il potere di decidere e mettere in atto ci che deve essere convalidato come "reale" per lintera societ. Da un punto di vista strettamente terapeutico, lapproccio narrativo si oppone sia alla tentazione di dimenticare le sofferenze sia, alleandosi con la storia iniziale del paziente, di sfidare la storia ufficiale, sollecitando nuovi punti di vista e inediti ancoraggi. Cos, i professionisti che lavorano con le vittime della violenza organizzata dallo Stato sono chiamati a destabilizzare la negazione e le narrazioni socialmente imposte. Violenza collettiva intrastatale in sistemi democratici Secondo il World Report on Violence and Health la violenza Luso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, unaltra persona, o contro un gruppo o una comunit, che determini o che abbia unelevata probabilit di determinare lesioni, morte, danni psicologici, compromissione dello sviluppo o deprivazioni (Krug et al., 2002, p. 5). Accanto alla forza fisica, il riferimento al potere allarga lo spettro di ci che pu essere rubricato come violenza; per esempio, pensando ad assetti relazionali gerarchici o asimmetrici, vengono cos ricompresi atti linguistici come le intimidazioni. Il rapporto costruisce una tassonomia della violenza articolandone la natura (fisica, sessuale, psicologica, privazione o incuria) e il bersaglio (violenza autoinflitta, interpersonale e collettiva). Attestandoci su questultima, La violenza collettiva pu essere definita come: luso strumentale della violenza da parte di persone che si identificano come membri di un gruppo sia che questo gruppo sia transitorio o abbia unidentit pi stabile nei confronti di un altro gruppo o di un insieme di individui, al fine di raggiungere obiettivi politici, economici o

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    sociali. () Sono state individuate varie forme di violenza collettiva, tra cui: a) Guerre, terrorismo e altri conflitti politici violenti che si verificano allinterno di uno Stato o tra Stati diversi; b) Violenza perpetrata dallo Stato come genocidi, repressione, sparizioni, torture e altre violazioni dei diritti umani; c) Criminalit violenta organizzata quale banditismo e guerre tra bande (Krug et al., 2002, p. 215). Ne consegue che quanto accaduto a Genova durante il G8 del 2001 pu essere classificato come violenza di Stato, risultando accertata la sospensione temporanea dei diritti umani da parte delle forze dellordine. Uno Stato che per, diversamente dai vari esempi menzionati nel rapporto dellOrganizzazione Mondiale della Sanit, non presenta le caratteristiche di uno Stato dittatoriale, bens di uno Stato democratico. Sempre, quando avvengono analoghi episodi di violenza collettiva, dal punto di vista della vittima che si parla di sofferenza intollerabile e inaccettabile (Zamperini, 2001). Il suo patire si staglia sopra gli eventi, reclamando riconoscimento e giustizia. Invece, chi ha agito violenza si disinteressa della vittima come persona. E punta a inscrivere la propria condotta dentro un mansionario; detto altrimenti, racconta del suo agire come lesecuzione di un compito o di un lavoro. Nel nostro caso, la sicurezza un ottimo paravento. Sostenuto dalla colpevolizzazione della vittima, pericolosa e aggressiva. Lazione violenta delle forze dellordine risulterebbe cos giustificata in quanto rivolta al nemico black bloc, ovvero terroristi urbani che meritano di essere puniti per i disordini e le devastazioni prodotte. Queste considerazioni conducono inevitabilmente al problema del conflitto narrativo tra rappresentazioni che vogliono farsi egemoni rispetto allaccaduto. Un fermento di posizioni che trova alleanza e megafono nei media di diverso orientamento politico. Le versioni degli avvenimenti diventano competitori nellarena della comunicazione sociale. Nei sistemi democratici un tale contendersi la storia della violenza ovviamente ancora pi cruciale. Basti pensare al ruolo dellopinione pubblica e allassetto giuridico posto a tutela dei diritti individuali. Dato un simile scenario, non stupisce che la presa di parola, per esempio con la richiesta di una commissione dinchiesta o di altri organi preposti a far chiarezza sugli avvenimenti ( stata persino invocata listituzione di una commissione per la verit e la riconciliazione analoga allesperienza sudafricana), abbia caratterizzato esclusivamente i manifestanti vittime del G8. Sono loro che si sgolano nel voler raccontare una storia che laltra parte, i perpetratori, non solo non vogliono ascoltare ma a cui nemmeno interessa replicare. Perch sempre il replicare implica una qualche forma di riconoscimento dellantagonista. E quindi meglio assestarsi allinterno di una cultura del diniego (Cohen, 2001), dove, se non possibile occultare il danno, per praticabile quel lavorio che rende la vittima sempre meno vittima. E anche quando non possibile sottrarsi allidea che la vittima vittima, ecco pronta la via di fuga del Hanno iniziato loro. Generando una competizione in merito a chi sia veramente la vittima originaria e chi abbia patito di pi. Dando il l alla fabbricazione di storie sofferenti antagoniste. Bucare lidentit di cittadino Per esercitare impunemente abusi di potere allinterno di uno Stato sovente richiesto uno scarico civico delle vittime, ossia un processo sociale capace di trasformare le figure dellalterit in nemici (Zamperini, Andrighetto, Menegatto, 2012), quindi passibili di esclusione morale (Opotow, 1990). Una delle pi note teorie psicosociali elaborate per comprendere le basi da cui si sprigiona la violenza collettiva la teoria della delegittimazione sociale (Bar-Tal, 1989). Per delegittimazione si intende un processo di categorizzazione cognitiva che permette di associare a un gruppo caratteristiche tanto negative da rendere socialmente plausibile e moralmente accettabile la sua espulsione fisica e psicologica. Una meta raggiunta quando singoli e gruppi vengono percepiti al di l dei confini entro i quali si applicano norme e valori guidati da criteri di equit e giustizia. quindi la posizione occupata rispetto al perimetro della morale che determina un diverso trattamento ai fini dellopinione e dellazione sociale. Chiunque, interno o esterno alla comunit, pu essere bersaglio di violenza e prevaricazione. Con la differenza che quando il danno viene inflitto agli interni pi facile che sia considerato un fatto ingiusto, a cui possono seguire richieste di

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    riparazione, mentre quando il bersaglio esterno, molto pi probabile che non venga percepita alcuna violazione dei diritti. Bar-Tal (1990) ha individuato cinque strategie principali attraverso cui opera la delegittimazione. Con la deumanizzazione un gruppo viene etichettato come inumano, inscrivendo i suoi membri nel registro di una diversit dal regno dellumanit; le etichette linguistiche maggiormente usate fanno riferimento a una razza inferiore, al mondo animale e persino soprannaturale (ad esempio demoni). La caratterizzazione in base a tratti di personalit negativi punta a descrivere un gruppo secondo elementi personali estremamente negativi e perci non tollerabili; dipingere i componenti di un gruppo come trasgressori di norme fondamentali vuol dire bandirli dalla societ e dalle sue istituzioni, in quanto fastidiosamente devianti. Luso di etichette politiche assimila un gruppo a una specifica entit politica che minaccia i valori costitutivi di una collettivit, creando un serio pericolo per il suo funzionamento e la sua sopravvivenza. Lesclusione morale porta a considerare i membri del gruppo delegittimato come violatori di norme sociali condivise: si riferisce ad attori sociali non organizzati e riguarda la persona nel suo insieme, diversamente dal ricorso a tratti di personalit negativi che concerne attributi specifici del soggetto. Infine, attraverso il confronto di gruppo si giunge a identificare e percepire negativamente un determinato insieme di persone, attribuendogli unetichetta fortemente negativa; le etichette attribuite sono simboliche e rappresentano i gruppi pi indesiderabili di una certa cultura. Mentre tradizionalmente il processo della delegittimazione sociale sembra dispiegarsi prevalentemente sul piano descrittivo ossia la costruzione dellimmagine collettiva dellaltro , nel caso del G8 tale modalit invece diventata unarma di offesa della vittima (Zamperini, Menegatto, 2011). Nel corso degli scontri di piazza, durante lirruzione alla scuola Diaz e, in misura ancora maggiore, nella prigione di Bolzaneto, lidentit dei manifestanti quali cittadini di un Paese democratico stata sistematicamente aggredita e violentata. Lungi dal trascurare limpatto individuale della violenza fisica, in molti casi massiccia e gratuita, ci che qui preme evidenziare non tanto il cranio incrinato dalle manganellate, quanto il senso di s, come persona e cittadino, incrinato da strategie delegittimanti. Ne discende un profilo di sofferenza che pu essere definito shock di cittadinanza o trauma psicopolitico. Una sofferenza che presenta due versanti: a) le conseguenze sul piano della sfera individuale e delle relazioni sociali; b) le conseguenze a livello politico-istituzionale. Unanalisi bipartita per segnalare che i traumi intenzionalmente prodotti a livello collettivo hanno sempre una duplice e intrecciata natura: psicologica e politica. Senza togliere importanza alle soggettive esperienze del trauma innegabile che, per esempio, le reazioni alla violenza da parte di un sindacalista avvezzo a scontri di piazza possono essere ben diverse da quelle di una giovane maestra alla sua prima esperienza in cortei di protesta , nellinsieme le vittime del G8 sono accomunate da ferite psicologiche originate dalla delegittimazione sociale subita. E coloro che sono stati rinchiusi nella prigione di Bolzaneto in molti casi dopo aver subito il pestaggio brutale nella scuola Diaz sono quelli che maggiormente ne testimoniano le gravose conseguenze. La breve vicenda di K. offre, a livello esemplificativo, una narrazione di ci che accaduto. Avendo la testa sanguinante e vari ematomi sul corpo per via delle manganellate subite durante lirruzione alla scuola Diaz, viene portata in ospedale; qui, insieme ad altri manifestanti, per evitare di turbare gli altri degenti evidentemente le ferite sono considerate impressionanti viene messa in un angolo. Praticati i medicamenti del caso, pronta per essere trasferita a Bolzaneto. Giunta alla caserma, chiede inutilmente spiegazioni sui motivi di un simile trattamento. K. insiste nel voler comunicare con i genitori o di poter parlare con un avvocato, senza alcun risultato. Entrata in infermeria, costretta a spogliarsi, a restare completamente nuda davanti a quattro agenti di genere maschile, le viene ordinato di fare delle flessioni. In cella, K. costretta a stare diverse ore con braccia alzate e gambe divaricate senza poter cambiare posizione. Le celle avevano una grande grata e da questa le forze dell'ordine guardavano all'interno e insultavano i reclusi. La sensazione di K., comune a tanti altri, era quella di essere in una specie di zoo; per, al posto degli animali, cerano loro, i manifestanti. E, dallaltra parte della grata, gli agenti continuavano a investirli di

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    appellativi delegittimanti, di natura politica (per esempio, black bloc), sessuale (per esempio, luride troie) e religiosa (per esempio, ebrei di merda). K. racconta come gli agenti non si limitavano a queste azioni verbali, costringevano pure i manifestanti a impersonare gli appellativi con cui venivano dileggiati: chi veniva chiamato verme, era costretto a strisciare; chi veniva chiamato cane, costretto a stare a quattro zampe e ad abbaiare, per poi essere preso a pedate; e cos via. La stessa comunicazione non verbale serviva a creare un ambiente delegittimante: avvicinatisi alle grate, gli agenti si turavano il naso per indicare che i reclusi puzzavano come delle merde; facevano versi animali, come grugnire o cinguettare. Non mancavano di intonare canzoni e filastrocche, anche a mezzo cellulare, di stampo fascista, come "un, due, tre via Pinochet". E non mancavano neppure cori del tipo benvenuti ad Auschwitz e minacce di morte. Anche la condizione materiale dei reclusi era particolarmente opprimente: i feriti, bench doloranti, non ricevevano particolari attenzioni, se non un goccio dacqua di tanto in tanto; le coperte per ripararsi dal freddo erano poche, sicch bisognava stringersi gli uni agli altri, un abbraccio che veniva sciolto a forza quando gli agenti entravano nelle celle. K. sente il bisogno di recarsi in bagno e chiede di uscire dalla cella; percorrendo il corridoio che la porta ai servizi presa a calci, sputi, e sommersa di appellativi del tipo puttana, zoccola e simili. Giunta al bagno, cerca comprensione nella poliziotta che la sorveglia, ribadendo la sua estraneit a qualsiasi addebito; per tutta risposta, questultima le risponde che se non si sbriga le avrebbe spaccato la faccia. K. piange disperatamente. E durante il ritorno in cella, la poliziotta la deride, tacciandola di essere una nullit, perch non era riuscita nemmeno a urinare. Da Bolzaneto, K. verr trasferita, in manette, al carcere di Vercelli. Conseguenze psicologiche individuali e relazionali Le pratiche messe in atto a Bolzaneto hanno avuto lo scopo di aggredire la psiche dei singoli, quasi da causare una destrutturazione della persona. E la prima forma con cui si manifesta la violazione psicologica un senso di profondo disorientamento e di perdita del controllo soggettivo. La regolazione emozionale viene profondamente alterata, lasciando il via libera a emozioni avvertite come dirompenti e incontrollabili. Le idee si ammalano perch si fanno strada diffidenza, sfiducia e ipervigilanza. Il sonno disturbato da incubi persecutori, la cui struttura narrativa prevalente quella di un prigioniero che cerca disperatamente di fuggire dalla sua prigione; linsonnia la fa da padrona. Persino anni dopo, la mente dei manifestanti ancora percorsa dallidea che i poliziotti sarebbero tornati, per riportarli a Bolzaneto. Una paura di ritorsione che poggia inoltre sullidentificazione (il manifestante stato schedato) e sulla denuncia (la vittima ha fatto causa per portare in giudizio i perpetratori). Per qualcuno, e per lunghi periodi, risultato problematico mettersi nudo e avere rapporti sessuali, facendosi prendere da attacchi di ansia quando vedeva piastrelle (le piastrelle di Bolzaneto diventate un doloroso calco psichico). Per parecchi stato necessario ricorrere a una psicoterapia. Una condizione esistenziale gravosa che si riverbera nella cerchia di familiari, amici e colleghi. interessante notare come vi sia traccia della sofferenza che generalmente accompagna reduci da conflitti armati o addirittura da campi di sterminio: ossia la convinzione che le persone che li circondano non li capiscano e non diano credibilit al racconto. Per cui si giunge persino a cambiare la configurazione della propria vita, perch risulta difficile vivere fianco a fianco di persone che non sanno; mutano le frequentazioni interpersonali, per poter essere capiti e per trovare qualcuno con cui dialogare senza remore. Un mutamento forzato che ha pure portato a separazioni e divorzi. Quando i legami familiari tengono si caricano per di angoscia e apprensione, ingolfando continuamente lesistenza quotidiana. Il fatto che i manifestanti siano stati, per un periodo di tempo, dei desaparecidos, ha creato sicuramente sgomento nellimmediato. Per simili emozioni negative si sono protratte anche dopo, allungando la loro ombra sui rapporti fiduciari intergenerazionali. Nel caso di manifestanti giovani, che ancora vivono con i genitori, questi ultimi sono diventati apprensivi, quasi paranoici nel chiedere continuamente ai figli segnali rassicuranti della loro

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    presenza. A pagarne le conseguenze anche limpegno politico: divieti di frequentare centri sociali e di partecipare a manifestazioni. Tensioni che talvolta hanno necessitato di una terapia familiare. Se a Bolzaneto i fermati non potevano muoversi perch costretti fisicamente a restare in quello spazio, la presa sulla psiche una sorta di prigione mentale (Zamperini, 2004) continua la sua azione anche anni dopo. Cos, per qualcuno risulta problematico prendere i mezzi pubblici affollati e in generale stare in mezzo alla gente. Quando non la mente individuale a imprigionare lazione, ci pensano le forze dellordine nello svolgimento delle loro mansioni quotidiane. Poich sui manifestanti stato impresso uno stigma che li accompagna ovunque, il loro spazio di movimento si rileva increspato e rallentato nei punti di passaggio. Per esempio, ogni volta che c un normale posto di blocco, la semplice verifica dei documenti comporta lunghe e strane attese; e se lex prigioniero di Bolzaneto si trova in compagnia di persone ignare del suo passato, costretto a spiegare laccaduto. Un freno alla libert di movimento capace di erodere la comunanza, allontanando gli altri. Chi infatti si accompagnerebbe a cuor leggero a delegittimati pericolosi? E chi offrirebbe lavoro a simili soggetti? Quando la stampa ha pubblicato il suo nome nellelenco degli arrestati, una giovane donna, che lavorava per un giornale, stata messa alla porta. Un ostracismo sociale che spesso accompagna gli stigmatizzati (Zamperini, 2010). Conseguenze politico-istituzionali Fin qui abbiamo analizzato larticolazione psicologica e relazionale del trauma. E lultimo accenno fatto alla libert di movimento unottima sponda per introdurre anche il versante politico e istituzionale. Certo, alcuni manifestanti hanno s patito una sorta di ostracismo politico, con la messa al bando per alcuni anni dai Paesi della Comunit Europea. Ma soprattutto la ferita di cittadinanza ha eroso profondamente la soggettiva fiducia sistemica. Quella risorsa che inerisce al normale funzionamento dei vari sistemi sociali. Di fronte al diffondersi di sistemi complessi nella vita quotidiana, il singolo, anche per i limitati poteri di controllo che pu esercitare, avverte maggiori difficolt e pure una vulnerabilit psicologica pi accentuata. Infatti, con lespandersi dei sistemi astratti le istituzioni si sempre pi costretti a porre fiducia in sconosciuti. Sicch le persone che occupano e rappresentano i nodi daccesso a questi sistemi si adoperano per mostrarsi degni di fiducia. Nel tentativo di farsi ponte tra la fiducia personale e la fiducia sistemica. Laddove la fiducia personale come nel rapporto con un amico si nutre prevalentemente di elementi affettivi, quella sistemica si fonda essenzialmente sulla competenza tecnica, sulla buona reputazione e sul senso civico dei rappresentanti delle varie istituzioni. Su questo piano, il trauma psicopolitico aggredisce la fiducia sistemica, creando una rottura psicologica duratura nel tempo. Qualsiasi contatto con persone in divisa scatena paure e attiva tattiche di evitamento. Per anni, la sola vista di un poliziotto diventa motivo di ansia, il cuore accelera i suoi battiti e la pressione si alza. E la memoria catapulta la persona nella prigione di Bolzaneto. Tremore e panico assaltano coloro che dovrebbero invece potersi rivolgere a chi indossa una divisa per chiedere uninformazione o per ottenere aiuto. Persino chi non svolge funzioni di polizia, ma esercita, indossando una divisa, mansioni di controllo amministrativo investito di crisi (apparentemente) irrazionali, come nel caso di controllori ferroviari. Tornare a frequentare i luoghi di sempre non facile, perch i simboli familiari sono diventati simboli minacciosi. Per esempio, intravedere dei lampeggianti da una finestra del centro sociale dove si deciso di trascorrere la notte, attiva immediatamente modalit di fuga, perch si crede che loro stanno arrivando per (ri)prenderti. Persino i piccoli incidenti dellesistenza quotidiana si caricano di una negativit che corrode la vita civica. il caso di banali incidenti stradali: ben consapevoli di aver ragione, ci si dimostra (irrazionalmente) restii a chiamare vigili o polizia perch si teme di passare dalla parte del torto causa la propria identit. Unidentit socialmente delegittimata in quanto portatore di difettivit e pericolosit. Nellinsieme, le strategie coercitive usate dalle forze dellordine hanno indotto molti manifestanti a percepire se stessi alla stregua di non-persone e animali. Non-persone perch private dei pi

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    elementari diritti a tutela della soggettiva integrit psicofisica. E animali perch prede di una caccia selvaggia (lungo le strade e nelle piazze) e di un trattamento disumano. Nel momento in cui simili sofferenze fuoriescono dalle tradizionali nicchie classificatorie medico-psichiatriche, entrano a contatto con la cultura del diniego, promossa soprattutto dalle istituzioni, per opacizzare gli eventi del G8. Interessando non solo il riconoscimento di quanto accaduto, ma anche il trauma subito. Una sorta di negazionismo delle implicazioni politiche della sofferenza. Terapia sociale della testimonianza Se il trauma del G8 non solo argomento di salute e malattia, ma pure questione socio-politica, un approccio basato sui diritti umani e civili pu facilitare la gestione della sofferenza attraverso i suoi metodi di inchiesta e testimonianza, integrato da apposite iniziative del governo. Per esempio, Lykes e Mersky (2006) hanno avanzato severe critiche verso quei professionisti che adottano una modalit strettamente biomedica nel trattamento di vittime di violenza organizzata, sostenendo la necessit di affrontare anche e soprattutto i temi della giustizia e della verit. Un nodo cruciale ben sintetizzato da Werner Bohleber: Le cosiddette catastrofi prodotte dalluomo, come la Shoah, le guerre, le persecuzioni etniche, la tortura, mirano ad annientare lesistenza storica dellessere umano. per questo che non si pu integrare lesperienza traumatica in una narrazione sovraordinata con un atto individuale: oltre a un ascoltatore empatico, ci vuole anche un discorso sociale sulla verit storica degli eventi traumatici e sul fatto che si tenda invece a negarli ed eluderli. Le vittime sono anche testimoni di una speciale realt storica. Il riconoscimento delle cause e delle colpe la prima condizione per restaurare la cornice interpersonale, e quindi la possibilit di capire adeguatamente il trauma. Solo in questo modo si pu rigenerare la comprensione di s e del mondo, minata dagli eventi. Le vittime sono spesso alla merc dei loro stessi dubbi e incertezze sulla realt traumatica che hanno vissuto. Se la societ nel fare i conti con la catastrofe dominata da tendenze difensive, le vittime rischiano di sentirsi emarginate, respinte e lasciate sole con la loro esperienza, cosa che mette di nuovo a repentaglio il senso di sicurezza e le rende vulnerabili a nuovi traumi, o le condanna al silenzio, non potendosi aspettare di essere comprese (2010, p. 112). Infatti, le vittime di violenza politica avvertono spesso un senso di isolamento allinterno dalla loro comunit, persino tra amici e familiari. Essi sentono che la loro dignit stata infranta dalle forze di polizia che li hanno delegittimati e etichettati come devianti e "criminali". E presentano un duplice disperato bisogno: a) riguadagnare dignit e onore attraverso una riparazione collettiva in cui la loro verit privata venga apertamente validata in modo da diventare verit pubblica; b) ottenere il riconoscimento della sofferenza patita, e fare in modo che venga assunta come parte della memoria sociale. Allora, per vincere il silenzio che spesso circonda la violenza politica servono storie. Simili esigenze costituiscono il momento genetico della terapia della testimonianza, descritta per la prima volta agli inizi degli anni Ottanta, quando, due terapeute cilene, nascoste dietro uno pseudonimo per motivi di sicurezza, presentarono i risultati del loro lavoro in un Paese oppresso dalla dittatura (Cienfuegos, Monelli, 1983). La testimonianza del paziente veniva registrata su nastro da parte del terapeuta, per poi essere revisionata congiuntamente dalla coppia terapeutica sotto forma di documento scritto. Lo scopo della testimonianza era quello di facilitare l'integrazione dell'esperienza traumatica e la ricostruzione dellautostima. Inoltre, la comunicazione di eventi traumatici attraverso la testimonianza risult utile anche perch riusc a incanalare la rabbia dei pazienti in un'azione socialmente costruttiva - la produzione di un documento che poteva essere utilizzato come un'accusa contro i perpetratori. E la possibilit di rendere socialmente utilizzabili le esperienze delle vittime ha comportato la riduzione del loro senso di colpa. Il metodo stato ulteriormente elaborato sia come rituale di guarigione che di condanna a fronte di uningiustizia

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    (Agger, Jensen, 1990). Un esempio ormai classico della sua applicazione la Commissione per la Verit e la Riconciliazione in Sud Africa. Lanalisi condotta da De la Rey e Owens (1998), nel complesso, attesta il valore terapeutico del metodo della testimonianza, segnalando la connessione tra guarigione individuale e riconciliazione nazionale. Ora, nel caso del G8 di Genova, si assistito quasi esclusivamente a posizioni espresse in modo unilaterale, da una parte e dallaltra. Non c mai stato un vero confronto tra narrazioni antagoniste. Nessuna occasione in cui un terzo ha potuto chiedere conto agli uni e agli altri in merito a ci che andavano dicendo. Nessuno spazio pubblico dove le narrazioni dei perpetratori e delle vittime potessero dare vita a un incontro dialogico. Fino al momento dei processi. Eventi che, a nostro avviso, trascendono pur essendo ovviamente presente la funzione meramente giuridica, per porsi come spazi per lesercizio della memoria come azione sociale. Costringendo la sfera pubblica a fare i conti con ci che si vorrebbe relegare in quella privata. Magari continuando a mettere in scena rituali menzogneri non perch si creda che le persone ci credano, quanto per preservare una facciata di pubblica rispettabilit. Sicuramente, nello scenario di unaula di tribunale, i perpetratori si dimostrano riluttanti, se non in casi particolari, alla costruzione di una memoria collettiva. E cos stato pure nei processi sul G8: numerosi i non ricordo che hanno contraddistinto la voce afona degli agenti chiamati a testimoniare. A ribadire la cultura del silenzio quale norma tacita del gruppo di appartenenza. Invece, dal versante dei manifestanti abbiamo assistito a unattiva partecipazione. In simili frangenti, la giustizia giuridica assume infatti un ruolo nel processo di guarigione dai danni provocati dalla violenza: non solo finalizzata allaccertamento delloffesa patita e delle responsabilit in causa, parallelamente opera pure per il riconoscimento delle vittime. Un atto simbolico capace di soddisfare il bisogno di vedere riaffermata pubblicamente linviolabilit del posto di ciascuno, lintangibilit del diritto ad avere dei diritti, la permanenza di un legame giuridico essenziale che sfugga al potere politico (Garapon, 2002, p. 153). La vittima pu trovare nella sfera giuridica un luogo, istituzionalmente riconosciuto, dove mostrarsi e raccontare, rivendicando il diritto di parola e ascolto. dunque attraverso la testimonianza che la vittima si riappropria della consapevolezza e del dovere di impersonare un ruolo attivo nella costruzione della verit storica dellevento vissuto. Recuperando la percezione dellefficacia e dellimportanza del raccontare. Lesperienza narrata cessa di essere semplicemente vissuta e diviene oggetto di comunicazione. Questa trasformazione mette lindividuo nella condizione di alleggerire il peso del proprio dolore, sopportato inizialmente in solitudine. Tanto pi se chi ascolta una platea ufficiale come quella presente in un processo giuridico. Disporre di un tale pubblico crea i presupposti affinch la violenta esperienza del singolo venga reinserita in una narrazione politica capace di dare significato agli eventi e rendere udibile questa violenza muta. Il processo tende allora ad acquisire valore di testimonianza, trasformandosi in spazio per celebrare la memoria. Chi, in sede processuale, ha partecipato nel ruolo di testimone alla definizione di quanto accaduto allinterno della caserma ha collaborato alla creazione di una memoria sociale, pronta a essere condivisa e fatta propria, grazie a un processo di trasmissione comunicativa, anche dagli estranei ai fatti. Attraverso la peculiare espressione fatta di scene rievocate, parole scelte, emozioni svelate del personale punto di vista sulla vicenda vissuta, ogni vittima ha lavorato affinch si generasse un patrimonio comune, collettivo, nella speranza che divenisse punto di partenza di un pi ampio percorso comunitario, non necessariamente vincolato allesperienza individuale, di affermazione del rispetto dei diritti civili e umani. Per questi motivi, i processi celebrati sul G8 di Genova, al di l degli scopi precipui del dispositivo giuridico (associare reati specifici a persone individuabili; fissare le pene secondo lesistente assetto legislativo), hanno prodotto un testo narrativo che svolge funzioni proprie di una terapia sociale della testimonianza. Gli atti dei processi sono cos, a tutti gli effetti, libri della memoria.

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    Conclusioni Durante scenari di violenza collettiva di natura politica laccanimento contro uomini e donne inermi tristemente noto. Pur tuttavia, tali pratiche crudeli sono solitamente confinate in quei Paesi dove la democrazia stata messa al bando. In realt, come dimostra ci che accaduto durante il G8, anche nei sistemi democratici simili fenomeni possono verificarsi. E colpire le persone attraverso azioni violente analoghe a quelle che sono state riscontrate in societ totalitarie e in regimi dittatoriali. Una versione modificata della teoria della delegittimazione sociale di Bar-Tal (1989) ha permesso di ottenere una visione dinsieme della strategia violenta adottata dalle forze dellordine contro i manifestanti di Genova. Pertanto, un primo elemento da sottolineare la necessit che venga riconosciuto e analizzato in modo sistematico il fenomeno della violenza di Stato in sistemi democratici. Un secondo elemento che discende dallo studio di caso del G8 di Genova riguarda gli effetti prodotti dalla violenza sul piano del benessere e della salute individuale. Lo stato dellarte della ricerca (Krug et al., 2002) individua le principali conseguenze in termini di mortalit, morbidit, disabilit. Nel periodo post G8 non stato riscontrato il fenomeno della mortalit, bens quelli della mordibit e della disabilit. Il livello della morbidit ha riguardato la salute fisica (per esempio, dimagrimento patologico) e la salute mentale (per esempio, depressione). La disabilit si manifestata in tutti e tre gli ambiti che la compongono: fisica (lesioni permanenti), psicologica (senso soggettivo di impotenza) e sociale (perdita di abilit sociali). Inoltre, rispetto alla summenzionata tripartizione, emerge una quarta e inedita forma di disabilit che possiamo chiamare politica. La subita ferita di cittadinanza ossia la spoliazione di diritti ha incrinato la fiducia sistemica. Togliendo fondamento a una risorsa psicologica che si nutre dellaspettativa di stabilit di un certo ordine, rinnovato nel suo atteso e regolare funzionamento. La disabilit politica ossia il disagio provato nel ritornare a indossare il ruolo di soggetto di diritti in uno Stato di diritto che ha segnato i manifestanti vittime del G8, in particolare coloro che sono stati rinchiusi a Bolzaneto, evidenzia uninedita forma di deficit prodotto dalla violenza di Stato in un sistema democratico. Un tema su cui non si ancora prestata adeguata attenzione e meritevole di ulteriori indagini, cliniche e sociali. Un terzo elemento di discussione investe la modalit di affrontare il trauma da violenza politica seconde ipotesi mediche e individualiste, di cui il disturbo post-traumatico da stress rappresenta la sua pi rilevante manifestazione. Coerentemente con la nozione introdotta di trauma psicopolitico, informata dalla psicologia della liberazione e dallapproccio narrativo, la sofferenza umana chiamata a dialogare con il contesto storico e sociale che lha generata, un contesto dove determinati gruppi umani detengono il potere di decidere per gli altri gruppi umani ci che va considerato reale. Nel caso specifico, la realt del trauma. E dove la sua affermazione pertiene alla possibilit per i singoli di dire del proprio patire non solo come richiesta daiuto ma anche e soprattutto come forma di dissenso. Una presa di parola che rende il trauma psicologicamente comprensibile a livello di narrazioni individuali e collettive. Anche se il trauma si manifesta soggettivamente, pi appropriato parlarne come del prodotto di rapporti disumani. Allinterno di contesti di violenza collettiva, il modo con cui si concepisce il trauma e si attuano interventi per guarire o neutralizzare i suoi effetti ha un impatto diretto e duraturo sulla vita delle persone. I modelli che ne sopravvalutano la componente biomedica, concettualizzando la sua dimensione sociale soltanto come un fattore esterno, limitandosi a evocarlo per poi rapidamente confinarlo sullo sfondo, contribuiscono a mantenere una visione del trauma come un mero evento privato. Invece, la sofferenza non si esaurisce nellintima rievocazione dellorrore subito, ma si espande e moltiplica intaccando le componenti socio-politiche della persona. Bench necessarie, il lavoro di riabilitazione di coloro che hanno subito traumi psicopolitici non esaurito da una sentenza giuridica riconoscente lo status di vittima, e nemmeno da una psicoterapia riconoscente il bisogno daiuto. E questo perch, come dimostrato dalla profonda crisi della fiducia sistemica, le loro difficolt psicologiche sono strettamente legate alla sfera societaria: nella fattispecie, alla violenza politica. Di cui esistono responsabili nelle forze dellordine cos come a

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    livello istituzionale. Pertanto, non pu esserci piena riabilitazione senza un riconoscimento da parte della societ e dello Stato. Per quanto riguarda il G8 di Genova, se la societ ha intrapreso questo percorso, dal teatro civile al cinema, dal giornalismo alla narrativa, per ora le istituzioni politiche dello Stato hanno solo pronunciato scuse a denti stretti. Solo un mormorio nellassordante silenzio con cui sinora hanno perpetrato una cultura del diniego. Lasciando cos aperto il conflitto tra dovere della memoria e mascheramento della storia. Riassunto. Generalmente la violenza di Stato associata a sistemi totalitari e a dittature che violano i diritti umani. Carente invece la letteratura scientifica in merito alla violenza di Stato esercitata in societ democratiche. Il presente articolo cerca di colmare questa lacuna, analizzando gli eventi del G8 di Genova, durante i quali, secondo osservatori internazionali, si verificata la pi grave sospensione dei diritti umani in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Criticando la diagnosi di disturbo post-traumatico da stress, e articolando i concetti di delegittimazione sociale, trauma psicopolitico e terapia della testimonianza, viene proposta unanalisi contestuale del trauma subito dalle vittime durante le violenze del G8. [PAROLE CHIAVE: violenza di Stato, trauma psicopolitico, delegittimazione sociale, disturbo post-traumatico da stress, disabilit] Abstract. COLLECTIVE VIOLENCE AND THE GENOA G8 SUMMIT. PSYCHOPOLITICAL TRAUMA AND SOCIAL THERAPY OF TESTIMONY State violence generally is connected to totalitarian regimes and dictatorships that violate human rights. Conversely, scientific literature is poor in state violence practiced in democratic societies. The aim of the present article is to fill this gap by analyzing the events occurs during the G8 summit in Genoa, during which, according to international observers, there has been the most serious suspension of human rights in a Western country after the Second World War. Through a criticism of the diagnosis of Post-Traumatic Stress Disorder, by articulating the concepts of social delegitimization, psychopolitical trauma, and therapy of testimony, we propose a contextual analysis of the trauma soffered by the victims during the violence of the G8. [KEY WORDS: State Violence, Psychopolitical Trauma, Social Delegitimization, Post-Traumatic Stress Disorder, Disability] Bibliografia Agger I. & Jensen S.B. (1990). Testimony as ritual and evidence in psychotherapy for political refugees. Journal of Traumatic Stress, 3: 115-30. Agger I. & Jensen S.B. (1996). Trauma and Healing Under State Terrorism. London: Zed Books. Amnesty International (2001). Operazioni di polizia durante le manifestazioni del G8, Report EUR 30/012/2001 (www.amnesty.org). Armando L.A. (2010). Dalla nuova Atene a Tebe. Il trauma in Freud e secondo Freud. Psicoterapia e Scienze Umane, XLIV, 4: 473-502. Bar-Tal D. (1989). Delegitimization: The extreme case of stereotyping and prejudice. In: Bar-Tal D., Graumann C.F., Kruglanski A.W. & Stroebe W., a cura di, Stereotyping and Prejudice: Changing Conceptions. New York: Springer, pp. 169-82. Bar-Tal D. (1990). Causes and consequences of delegitimization: models of conflict and ethnocentrism. Journal of Social Issues, 46: 6581. Becker D. (1995). The deficiency of the concept of post traumatic stress disorder when dealing with victims of human rights violations. In: Kleber R.J., Figley C.R. & Berthold B.P.R., a cura di,

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